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Alessandro Benigni

Teologia, magia e politica in


Tommaso Campanella

Sommario

Introduzione
Metaphysicarum rerum
Il libro eterno
Teocrazia e ierocrazia
Teologia e politica
Bibliografia

© Fata Libelli 2001


Introduzione

Una delle idee di questo lavoro è che il nesso Religione-Natura possa costituire la migliore chiave di
interpretazione del discorso campanelliano, e che da questo nesso profondo si possano interpretare con
coerenza tutti gli altri discorsi che da qui emergono. Per considerare i diversi livelli del pensiero
campanelliano è però necessaria una breve parentesi, dedicata al chiarimento di un equivoco di fondo, che ha
caratterizzato - e continua a caratterizzare - lo studio di Tommaso Campanella.
Umberto Galimberti pone nell'introduzione a una sua recente opera questa osservazione: «Perché sorgano
domande è necessario che le parole svelino il loro equivoco, e questo è possibile solo quando si consuma la
rovina di un sistema di pensiero dove la parola è prigioniera» 1.
Per quanto possibile, questa ricerca si pone lo scopo di svelare un equivoco che per anni ha inquinato ed
ostacolato la ricerca del senso nelle opere del Frate di Stilo.
Come Introduzione al nostro discorso è forse opportuno ricordare alcune affermazioni che da questo punto
di vista appaiono davvero emblematiche.
N. Abbagnano, nella sua vasta enciclopedia filosofica, aveva sostenuto che «L'interesse dominante di
Campanella è uno solo, ed è teologico-politico»2. Romano Amerio, da parte sua, aveva sottolineato che
quella del Campanella non è altro che una «teologia politica» 3, e si potrebbe certo pensare che tale
definizione sia ambivalente («politica teologica»).
Tali affermazioni, se pur riduttive, trovano però un certo riscontro nella lettura delle principali opere
campanelliane. Ma, quasi a presagio della profonda complessità della struttura teoretica campanelliana,
emerge già un problema: quali sono le opere principali dello Stilese? E soprattutto: quale valore e quale
significato profondo hanno i termini di teologia e politica nel pensiero campanelliano? Questo -
sostanzialmente - è il punto su cui si è sviluppato un equivoco di fondo.
Da anni, questo sembra essere il problema principale della critica, che mai è giunta ad affermare in modo
convincente una linea interpretativa capace di giustificare la sorprendente eterogeneità di contenuto,
impostazione e metodo delle numerose ed imponenti opere campanelliane 4. Tanto che sembrerebbe ormai
impossibile ricondurre i termini teologia e politica al nodo centrale Religione-Natura.
Il tentativo di questa ricerca è appunto quello di mostrare come sia possibile questa riconduzione ed anzi
come questa sia necessaria affinché emergano il senso e la coerenza del pensiero campanelliano e affinché
sia possibile superare le difficoltà della critica contemporanea.
In realtà, l’evidente aporìa degli studi attuali è il risultato - nella maggior parte dei casi - di alcuni gravi e
profondi pregiudizi ideologici. Equivoci, appunto.
Da una parte si è sostenuta la centralità di un'opera come La Città del Sole, dall'altra questa centralità è
stata radicalmente contestata, e si è ricordato che la parte più importante della produzione campanelliana è
costituita da una Theologia in 30 libri e da una vastissima Metafisica (nella quale emergerebbe, secondo
alcuni5, un certa preoccupazione cattolica), opere che metterebbero in evidenza l'ortodossia del Campanella e
non certo il suo naturalismo a sfondo deista, panteista o addirittura comunista. Semplificando, si può quindi
sostenere che le correnti interpretative si sono divise anzitutto sul problema dell'ortodossia.
Più avanti ricorderemo brevemente le tappe principali di questa storia. Per ora basti notare che proprio
grazie a questa sterile contrapposizione si è potuto consolidare quell'equivoco di fondo che ha impedito una
autentica interpretazione del pensiero campanelliano, soprattutto nelle sue implicazioni teologiche e
politiche. A mio giudizio in Campanella il rapporto tra teologia e politica trova la sua naturale espressione in
un quadro sostanzialmente unitario, il cui sfondo è costituito da rapporto Religione-Natura, e che la critica
nella maggior parte dei casi non ha saputo cogliere o interpretare con la dovuta serenità, soprattutto perché
ha trovato contraddizione in ciò che agli occhi di un Rinascimentale (come fu Campanella) era invece
perfettamente coerente. Più avanti chiariremo adeguatamente questo concetto. Per ora si deve solo anticipare
che lo sfondo di questo quadro unitario è costituito da una certa, direi caratteristica, concezione della Natura
1
U. Garimberti, Gli equivoci dell'anima, Feltrinelli, Milano, 1994, p. 11.
2
N. Abbagnano, Storia della Filosofia, Utet, Torino, 1989, vol. II, p. 146.
3
Cfr. R. Amerio, Campanella, La Scuola Editrice, Brescia, 1947, p. 197.
4
Nel 1965 Salvatore Femiano ammetteva che «Il giudizio sul filosofo di Stilo ancora oggi, dopo oltre tre secoli dalla sua morte, non è unanime, né concorde nell'ambito
dello stesso indirizzo storiografico e speculativo degli studiosi che hanno preso a interessarsi di lui, specialmente nell'ultimo ottantennio. E ciò non dipende dalla
manchevolezza delle ricerche condotte nell'ultimo quarantennio, che anzi hanno notevolmente contribuito alla chiarificazione di alcuni fondamentali problemi storiografici
e letterari campanelliani» (S. Femiano, Lo spiritualismo di Tommaso Campanella, Editoriale del Mezzogiorno, Napoli, 1965, p. 15). Queste osservazioni sono ancora oggi
sostanzialmente valide.
5
Cfr. G. Di Napoli, Introduzione a T. Campanella, Metaphysica, cit.
e della Religione, per certi aspetti - e non casualmente - molto simile a quella di un altro frate Domenicano,
Giordano Bruno. Ma non è tutto. Gli stessi termini di teologia e politica possono essere interpretati solo a
partire da questa concezione della Natura e della Religione, e risultano assolutamente incomprensibili ed
inconciliabili se considerati al di fuori dei due presupposti principali del pensare campanelliano: la fede in un
cristianesimo ermetico, soprattutto nella sua versione antropologica tutta centrata sul problema del
rinnovamento universale (o ritorno all’Età dell’Oro), e la concezione della Natura intesa come prima
Rivelazione e Libro di Dio.
Campanella, per certi aspetti, è ancora interiormente investito dal vento dell'Umanesimo. Il suo immane
sforzo teoretico è tutto mirato a portare il Mondo alla renovazion del secolo, nel serio tentativo di costituire
in terra un embrione del Regno divino. Come vedremo, è questo lo scenario di fondo entro il quale emergono
tutti i discorsi campanelliani. La con-fusione di ermetismo e cristianesimo - non individuata da nessuno dei
critici storici del pensiero campanelliano - appare funzionale proprio a questo scopo: instaurare una nuova
regola di vita, un nuovo modello di pensiero. Rinnovare la società e la sua coscienza, questo è lo scopo del
Campanella.
Il nesso fondamentale tra ermetismo e cristianesimo trova poi la sua espressione in una rinnovata
antropologia, intrisa di elementi eterogenei tutti sapientemente coordinati nello sforzo di garantire una base
teoretico-ideologica per il rinnovamento universale. È questa l’autentica e sempre viva preoccupazione del
frate di Stilo. Qui si inserisce il discorso mitico, come vedremo meglio più avanti: un discorso che sembra
controllare dall’alto tutte le ipotesi e tutte le scelte, e che emergerà a tutti i livelli del pensiero campanelliano.
Teologia e politica possono dunque costituire le prime due aree di interesse nel nostro percorso così come
lo sono state per il nostro Profeta (Campanella, non dimentichiamolo, si è sempre considerato tale, a volte
addirittura superiore allo stesso Cristo): a dover cambiare è anzitutto il modo di rapportarsi al divino e quindi
di concepire e costruire la società nel suo complesso.
Da queste premesse è ora possibile iniziare il nostro viaggio: dalla preoccupazione per il rinnovamento del
genere umano, per l’instaurazione della Città del Sole universale, qui sulla Terra. Mentre per Bruno la base
per questa rivoluzione antropologica e quindi etico-sociale era costituita dallo specchio dell'infinito, nel
quale l'uomo riscopre la sua divina dignità, per Campanella è il libro della Natura, il Mondo - parte ed
esplicazione del divino - a suggerire come fondare la nuova società, come far riemergere l'antica divina
dignità umana. Magia, teologia e politica rappresentano in questo sforzo sintetico e sincretico il tentativo di
dar vita ad una enciclopedia religiosa e filosofica insieme, il manifesto universale dell'era che deve venire.
Questo è il vero significato dell'Utopia Campanelliana che ci apprestiamo ora a rileggere, ripercorrendo tutte
le tappe del Domenicano in modo ragionato e senza perdere mai di vista il carattere di unità che informa tutto
il suo pensiero.
Metaphysicarum rerum

... iuxta propria dogmata?

Secondo il Di Napoli «Il De gentilismo non retinendo può ben costituire il proemio della campanelliana
Metaphysica, in cui si raccoglie la sostanza speculativa dell'opera dello Stilese. Il proemio dell'opera stessa
non fa che ribadire energicamente i concetti espressi nell'opuscolo; la necessità una nuova metafisica (e
quindi di una nuova Metafisica) vi è giustificata dal fatto che occorre:
1) mediare l'esperienza per coglierne il significato;
2) una trattazione che, diversamente dalla altre discipline filosofiche che si occupano dei settori dell'ente,
consideri l'ente totale;
3) una dottrina che tratti della realtà come è;
4) una compiuta elaborazione dei concetti fondamentali di ente, fine, fato, spazio, ecc.
5) offrire una concezione del reale, su cui far poggiare la morale;
6) cogliere, al di là del fisicismo aristotelico e dello storicismo machiavellico, l'eterna essenza dell'uomo, la
sua origine e il suo destino;
7) sostituire una nuova metafisica a quella di Aristotele, della cui Metafisica solo il libro XII ha un tale
carattere, ma contiene tante empietà e deliri quante sono le sue proposizioni. [...]. Se la Città del sole era
vista dal Campanella come un cathechismus Gentilium ad fìdem christianam, tanto più la Metaphysica, per il
suo superiore valore teoretico, presentava tale finalità; e il Campanella la sottolineava volentieri; e quando la
stampa dell'opera stava per essere terminata, egli in una lettera a Cassiano del Pozzo chiamava la
Metaphysica bibia de'filosofi; concetto ripreso nella dedica dell'opera a Carlo Buillon, stampata a fronte del
volume»6.
Proseguendo nella sua Introduzione alla Metafisica, il Di Napoli osserva che l'esperienza, presupposto di
ogni «lavoro di pensiero» è secondo il Campanella di duplice natura: «soprannaturale e naturale [e] se la
prima è il complesso di realtà e di fatti divini o portati al piano del divino, l'esperienza naturale o infradivina
è il complesso di realtà e di fatti appartenenti ad un piano non divino; se la prima è connessa all'infinito, la
seconda è connessa al finito; si ha allora una macrologia e una micrologia, come teoria, rispettivamente,
dell'essere massimo o totale e dell'essere parziale; si direbbe che, così, abbiamo una dottrina dell'assoluto
trascendente, che non può non fondarsi su di una rivelazione, ed è teologia; e una dottrina del relativo, la
quale procede e costruisce con materiali e mezzi immanenti alla natura (iuxta propria principia, aveva detto
Telesio); è quindi filosofia e scienza della natura: Physiologia. Posta la visione della realtà in questi termini,
fra soprannaturalismo teologico e naturalismo empiriologico, si sarebbe rischiato di creare un iato
incolmabile fra l'assoluto e il relativo; ed ecco l'esigenza, per il Campanella, di mediare teologia e micrologia
attraverso un ulteriore forma del sapere: la metafisica» 7.
Da queste premesse - ovviamente - il Di Napoli finisce col sostenere che «La metafisica campanelliana
parte [...] dall'esigenza di essere decisamente cristiana» 8.
E da questa emblematica affermazione è possibile dare inizio all'indagine della struttura metafisica del
discorso campanelliano.
Si dovrà anzitutto precisare che in realtà il rischio di uno iato incolmabile è presente solo nella
interpretazione del Di Napoli, mentre nel pensiero genuino dello Stilese è del tutto assente. Fra Macrologia e
micrologia esiste una perfetta assonanza, non una tensione ineliminabile. Se è vero che non è possibile
risolvere un problema finché si rimane fermi ai presupposti dai quali è sorto, allora è necessario sbloccare
finalmente questo annoso impasse: il rischio è quello di soffocare l'anima autentica del pensiero
campanelliano entro le nostre categorie purtroppo sempre troppo ortodosse, ideologicamente schierate.
6
T. Campanella, Metaphysica, pp. 26-27.L'edizione della Metafisica in riferimento è quella curata da G. Di Napoli (T. Campanella, Metafisica, a cura di G. Di Napoli,
Zanichelli, Bologna, 1967, voll I, II, III).
7
T. Campanella, Metaphysica, cit. pp. 28-29.
8
T. Campanella, Metaphysica, cit. p. 31.
Campanella non è un precursore del comunismo o del socialismo. Campanella non è uomo della
Controriforma. Campanella non è un mago radicalmente eretico, come Bruno. Campanella non è nemmeno
un filosofo propriamente naturalista. Il suo problema non è - come sembrerebbe a prima vista - quello di
identificare il principio dell'essere, ciò che sta alla base del Tutto.
La Metaphysica campanelliana si riallaccia soprattutto al neoplatonismo fiorentino, all'astrologia e alla
magica con-partecipazione cosmica caratteristica degli scritti ermetici. Ma si tratta spesso di una influenza
debole, percepibile solo a tratti. Non è dunque possibile vedere in quest'opera solo il tentativo di supportare
la fede ortodossa in ambito filosofico. Quella del Campanella è anzitutto una metafisica naturalistica,
pensata e strutturata in funzione ed in supporto al vero problema dello Stilese: la renovazion del secolo. Una
delle premesse fondamentali di questo ritorno alle origini è l'assonanza, l'analogia tra macrocosmo e
microcosmo, pur nella dialettica tra finito e infinito.
Nella Metaphysica emerge un costante preoccupazione: costruire una filosofia religiosa che possa fornire
un adeguato supporto teoretico al rinnovamento della società intera.
La nuova universalis philosophia non sarà pienamente identificabile - e questo costituisce il nocciolo
teoretico più interessante della speculazione campanelliana - né con il cristianesimo cattolico né con
l'ermetismo classico o radicale. Nella Metaphysica Campanella compie - come del resto in tutti i suoi scritti
- un immane sforzo sotterraneo: rendere compatibili cristianesimo ed ermetismo. Non è possibile rinnovare
il secolo, ritornare alla mitica età dell'oro, senza la fondazione di una nuova etica, di una nuova politica e di
una religione depurata dalle ingiustizie, dalle falsità e dai soprusi.
Le categorie di mito, religione e magia sono nel pensiero del Domenicano assolutamente fondamentali, e
non è possibile procedere a nessun tipo di studio a prescindere da queste.
N. Abbagnano e G. Fornero avevano opportunamente osservato che «Il pensiero di Campanella parte dalla
fisica e dalla magia per giungere ad una metafisica teologica che egli assume a base di un rinnovamento
politico e religioso dell'umanità»9.
La definizione di metafisica teologica è in un certo senso particolarmente calzante, ma nel complesso
risulta incompleta e addirittura parziale. Più avanti emergerà il senso di questa affermazione. Anche se nella
sua Metaphysica lo Stilese vuole mantenere formalmente distinti i piani di ricerca, quello teologico da quello
metafisico, in realtà espone un quadro generale che non solo non è affatto a-teologico, ma si presenta come
sostanzialmente teo-cosmo-logico. La maggior parte dei suoi principi metafisici - come vedremo - si
presentano infatti come precise conseguenze (e non solo premesse) di una particolare visione cosmologica e
teologica insieme, dove mito e magia costituiscono lo sondo teoretico di tale visione. Dio ed il mondo
risultano termini inscindibili, l'uno viene definito in base all'altro e sempre per analogia. La concezione del
tempo è mitica, così come entro le categorie del mito (che andremo specificando) si possono iscrivere la
visione cosmologica e politica del Domenicano.
Campanella non confonde le rappresentazioni simboliche della Bibbia con la realtà stessa del Mondo. È
tuttavia convinto che il Mondo sia intimamente strutturato in analogia con l'essere divino. Spesso lo Stilese
sembra intendere che il Mondo e l'uomo che vive in esso, non la Chiesa, è l'immagine di Dio più fedele.
L'analogia del Mondo a Dio: questo è il significato più profondo delle tre Primalità metafisiche. La
rivelazione? Dio - da un punto di vista logico - non ha affatto bisogno di uomini per rivelarsi agli uomini.
Dio si rivela costantemente e ovunque: tutto il Mondo costituisce la sua rivelazione costante. Omnia mundi
membra divina sunt.
Campanella - come vedremo - tende spesso al trucco, alla variazione, alla simulazione. Non che alla base
del suo procedere argomentativo sia sempre costante un timore esasperato dello scontro con l'Inquisizione,
ma piuttosto la consapevolezza di una necessità fondamentale: prudenza. Questo suo procedere, sempre
variante, mai esplicitamente univoco, spezza e ridicolizza ogni tentativo di semplificazione, di
inquadramento drastico e definitivo. Campanella non si lascia facilmente «ridurre a...», «schierare con...».
La sua è veramente una costruzione originale, fortemente sincretica. Questo è particolarmente evidente
proprio ed anzitutto nella grande Metafisica, dove i termini del discorso vengono presentati mascherati,
spesso sostanzialmente capovolti. Campanella sa di poter essere frainteso, sia in senso controriformistico sia
in senso eterodosso. La caccia alla streghe e ai maghi non è ancora terminata, e lo Stilese ne è perfettamente
cosciente. La finezza e l'astuzia dei giudici inquisitori non viene mai sottovalutata, soprattutto dopo la fine
del suo confratello Giordano Bruno. L'apparato metafisico serve in realtà a velare, a supportare
(nascondendolo) il vero centro della discussione: teologia e cosmologia, ovvero rapporto tra Mondo e Dio.
Questi sono i termini che vanno chiariti, nell'ottica Stilese, affrontando il tema dell'antropologia e del
rinnovamento interiore ed esteriore (etico-sociale) dell'umanità. Il rinnovamento politico-istituzionale, come
9
N. Abbagnano - G. Fornero, Filosofi e Filosofie nella Storia, vol. II, Paravia, Torino, 1988, p. 86.
avremo occasione di notare - sarà possibile solo a partire da una de- e ri- costruzione dell'uomo interiore ed
esteriore, e del suo rapportarsi al Mondo e al Divino. Metafisica strettamente congiunta - spesso
sovrapponibile - a cosmologia e teologia, dunque, proprio come era accaduto per il confratello Giordano
Bruno: il Mondo, l'Universo, è per Campanella un tutto animato da una serie di corrispondenze (...occulte
simpatie, proprio come aveva spiegato Bruno nel De Magia e nel De vinculis), legami che collegano tra loro
tutti gli esseri (anche quelli apparentemente inanimati) in una totalità organica, viva e animata, dotata di
senso e sentimento, coordinata secondo la legge armonica prestabilita e voluta da Dio. Il senso della totalità
fornisce sul piano politico un appoggio formidabile per la formulazione di una teocrazia basata sul culto e
sull'amore per gli uomini e per la natura. Anche la mitica concezione del tempo si basa in fondo su questo
concetto fondamentale: l'analogia del creato a Dio. L'errore cardinale, quello che ha portato all'attuale stato
di cose, è stato il rovesciare tutti i rapporti naturali, analogici. Dimenticando la Natura, negando la
somiglianza, la dignità e la relazione del mondo con Dio, l'uomo ha in ultima analisi dimenticato e negato se
stesso. In fondo, è la conoscenza della Natura ad offrire le basi più adeguate per la conoscenza di Dio. Lo
Studio della Natura è infatti esplicitamente equiparato allo Studio delle Scritture. Queste, purtroppo, hanno
però avuto molti interpreti poco affidabili. Meglio rifarsi a quel libro perfetto, di Dio, che è il Mondo. Anche
il senso interno, l'autocoscienza, che Campanella - come vedremo - porrà alla base della sua indagine
naturale (anche se qui volutamente mascherata come metafisica) trova la sua giustificazione più profonda
proprio in questa concezione del Cosmo: sono le occulte simpatie a rendere possibile la comunicazione
universale, dal mondo delle cose fino a Dio. La struttura metafisica della realtà si presenta dunque come
naturale conseguenza di queste premesse.
Al tempo stesso, è presente la preoccupazione di mantenere distinti Creatore e creato, Ente Primo da enti
secondi. Questo in virtù della disposizione naturale delle cose e della infinita superiorità divina rispetto al
creato. Tale preoccupazione è stata ingiustamente interpretata come necessità del pensatore cattolico. In
seguito mostreremo l'infondatezza di queste critiche. Vediamo ora di toccare alcuni dei momenti più
significativi del discorso metafisico campanelliano.
Occupandosi della Metaphysica è necessario rievocare anzitutto una pagina del Proemio che racchiude
molti passaggi davvero illuminanti sulle reali intenzioni del pensatore di Stilo. Campanella prende avvio
dalle seguenti considerazioni:
«Maestro di verità degno di fede inconcussa è solo Dio, il quale ci parla o manifestando le cose mediante
gli effetti o rivelandole mediante la parola; gli uomini invece sono tutti bugiardi o perché temono o perché
ignorano o perché così vogliono; e non son degni di fede, se non quando parlano come testimoni delle cose
lette nel libro di Dio che è il mondo, oppure avendo ascoltato dalla bocca di Dio, come gli scrittori sacri. Con
quali note vengano essi riconosciuti di fronte a quelli che parlano di proprio arbitrio o come opinanti in una
scuola umana. Pertanto è necessaria una metafisica, anche per altre ragioni; di che cosa essa tratti. Aristotele
in 11 libri non ci ha offerto una metafisica, bensì una logica; nell'ultimo l'empietà; per questa ed altre ragioni
è necessario costruire una metafisica»10.
Con la solita - simpaticissima - assoluta mancanza di modestia Campanella mostra al Lettore le ragioni che
richiedono una nuova Metafisica. I due codici attraverso i quali l'uomo potrebbe attingere i significati della
divina rivelazione sono Natura e Scrittura. Purtroppo, gli uomini non sono tutti degni di fede, e così la
Scrittura da loro interpretata risulta spesso manipolata, inattendibile nella sua versione tradotta nel
linguaggio umano.
Più avanti vedremo come questo non sia altro che un tentativo di sviamento dalle reali intenzioni che
animano lo Stilese. Questo dovrebbe risultare evidente già da affermazioni di questo tipo: «abbiamo deciso
di costruire una nuova metafisica dopo che, lontani da Dio, siamo stati ricondotti attraverso flagelli alla via
della salvezza e alla conoscenza delle cose divine; e non col sillogismo, che è come una saetta con cui
raggiungiamo lo scopo da lontano e senza gusto, e neppure solo attraverso l'autorità, che è come toccare con
le altrui mani, ma per contatto intrinseco [corsivo mio] in grande soavità, che Dio riserba a coloro che hanno
il timore di lui; per cui, fatti certi sulle cose metafisiche, osiamo mostrare la via agli uomini sotto la guida di
Dio, sul quale nella Teologia, come salvatore e rivelatore, considereremo con altro metodo quelle cose che
ignoravamo»11.
Su questi brevi passaggi occorre riflettere con attenzione, perché ad una approfondita lettura risulteranno
ricchi di importanti conseguenze sulla struttura teoretica generale del discorso campanelliano. Campanella,
dopo aver rievocato ancora una volta l'immagine della Natura intesa come libro, strumento di rivelazione

10
T. Campanella, Metafisica, op. cit., p. 75.
11
T. Campanella, Metafisica, op. cit., p. 97.
divina, sostiene che Dio parla agli uomini mediante due codici (Natura e Scrittura), e ricorda che non sempre
gli interpreti di questi due codici si sono dimostrati affidabili.
Nella Theologia, l'opera che secondo molti autori cattolici dovrebbe confermare la piena ortodossia del
Campanella, lo Stilese afferma che «la ragione naturale è effetto e raggio del Verbo o Ragione divina, che è
il Cristo, [... e] il primo codice della Teologia è la natura» 12. Questo indica chiaramente che Campanella
predilige la coppia dialettica ragione universale-natura divina ai sofismi degli scolastici. Poco più avanti
Campanella sostiene addirittura che «Il primo codice a cui attingiamo la teologia è la natura. Ma siccome
questa a noi, abbandonati all'ignoranza e alla stoltezza in seguito al peccato, era divenuta insufficiente, ci fu
bisogno di un altro codice più a noi confacente, sebbene non migliore in sé. Migliore è infatti la natura
universale scritta in vive lettere, che la Sacra Bibbia scritta in lettere morte, le quali son soltanto segni e non
cose, come nel primo codice»13. Il tono di queste affermazioni è quasi blasfemo e ciò deve senz'altro stupire.
In realtà il vero problema è l'affermazione della superiorità della natura rispetto a tutte le deviazioni e
arbitrarie interpretazioni umane. Ovviamente, il piano dell'indagine naturale presuppone una metafisica,
mentre quello della Scrittura una teologia.
Ora quello che importa rilevare è che l'indagine metafisica non può per lo Stilese appoggiarsi al semplice
sillogismo logico aristotelico, e neppure all'esclusiva autorità teologica. L'indagine si dovrebbe fondare
anzitutto (curiosamente, trattandosi appunto di indagine meta-fisica) su un contatto, un «contatto intrinseco».
Anche in questo caso ci troviamo di fronte a una scelta terminologica precisa, che lascia ben presagire gli
sviluppi futuri. E non sembra lecito sospettare che lo Stilese non abbia ben calibrato i termini, scegliendo con
oculatezza le espressioni più adatte e meno compromettenti sul piano inquisitorio. Ma nonostante tutti i suoi
sforzi, proprio il primo dei principi metafisici, l'autocoscienza, che Campanella vuole porre alla base di ogni
sapere possibile, risulterà ad una attenta lettura essere più che un principio metafisico una diretta
conseguenza gnoseologica di una particolare impostazione cosmologica, in ultima analisi precedente a tutto
l'argomentare metafisico. Ripercorriamo brevemente le tappe dell'argomento. Secondo Campanella tutte le
forme del sapere, che non siano la metafisica, presuppongono i loro oggetti e i propri mezzi e metodi. Il
«metafisico», «che tratta della filosofia comune a tutte le scienze, non presuppone nulla, bensì indaga
dubitando su tutto; egli non presuppone neppure di essere così come appare a sé stesso, non dirà di essere
vivo o morto, ma dubiterà»14. La metafisica sarebbe dunque «la dottrina dei primi principi e fini della realtà e
dei fondamenti delle scienze»15. Come primo passo lo Stilese si propone appunto di enunciare i fondamenti
delle scienze e i principi su cui esse si basano. Da questo punto di vista si deve anzitutto sgombrare il campo
da ogni possibile dubbio radicale. È questo lo sforzo teoretico che Campanella compie nella prima parte
della Metafisica. In realtà il suo sforzo serve ad allontanare ogni sospetto dell'inquisizione. Si ricordi che più
sul sillogismo (logica, aristotelica) o sull'autorità (teologica, della Chiesa) il Campanella faceva affidamento
su quell'ambiguo contatto intrinseco di cui accennava nel Proemio della sua Metafisica, dove dichiara di
voler trattare i principi del sapere, dell'essere e dell'agire. La struttura interna del libro rispecchia poi
coerentemente queste tre aree di interesse: la prima parte sarà infatti dedicata ai principi del sapere, la
seconda ai principi dell'essere, la terza ai principi dell'operare. Ma quali sono dunque i principi del sapere? E
in base a che cosa è possibile la conoscenza? Il Lettore si ritrova progressivamente coinvolto in una serie di
riflessioni e conclusioni dal carattere quasi ipnotico. Ma ad una attenta lettura quelle che Campanella
presenta come conclusioni appaiono essere in sostanza dei presupposti, e per di più di ordine cosmologico.
Procediamo con ordine. Ad esempio, nelle sue riflessioni sulla conoscenza Campanella riprende
formalmente una classica confutazione dello scetticismo già adottata da Agostino16. Per Campanella, come
per Agostino, anche lo scettico che suppone di non sapere nulla, conosce almeno questa verità e così
presuppone che vi sia almeno un sapere originario, di cui certamente non si può dubitare. Questo sapere
originario è la conoscenza innata che l'anima ha - immediatamente - di sé stessa (notitia sui ipsius innata).
La conoscenza innata o originaria di sé si presenta quindi come presupposto e pre-condizione di ogni altra
conoscenza possibile: «Non posso ingannarmi se non sono: il niente né sa veramente né s'inganna.
Similmente, in questo che io so di essere, non m'inganno. E così pure, in questo che io so di sapere, non
m'inganno, ché come so di essere, così so di sapere. E similmente, poiché so di amare, non m'inganno.
Queste nozioni, che sono le più certe e le più note rispetto a noi e alla natura e infallibili, costituiscono i
principi di tutto il conoscere: esse sono universalissime come l'Ente e le Primalità dell'Ente - Potenza,

12
T. Campanella, Theologicorum Liber I, cit., p. 21.
13
T. Campanella, Theologicorum Liber I, cit., p. 23.
14
T. Campanella, Syntagma, cit., p. 67. Cfr. anche Introduzione a Metafisica, a cura di Di Napoli, p. 30.
15
T. Campanella, Metafisica, a cura di Di Napoli, p. 4.
16
Cfr. Agostino, Contra Academicos (§ 160), III, 11.
Sapienza e Amore - proprie a ciascuno, e che non possono essere ignorate né possono attraverso l'inganno
diventare incerte». Riprendendo il procedimento di Agostino 17, Campanella mostra dunque di accettare la
tesi del dubbio per dimostrarne però la radicale infondatezza: ammettiamo - egli dice - che io mi inganni e
che quindi debba considerare il dubbio la conclusione più logica. Ma proprio da questo ingannarmi, da
questo dubbio scaturisce una certezza inoppugnabile: non posso dubitare del mio dubbio e di essere io che
dubito, e quindi devo necessariamente affermare che esisto perché non potrei ingannarmi, se non esistessi.
Sempre contro gli Scettici scrive ancora il nostro Filosofo: «Quelli che proclamano di non sapere se
sappiano o non sappiano qualche cosa, non dicono giusto. Difatti sanno necessariamente che non sanno, e
benché questo non sia sapere, giacché è una negazione, come la visione delle tenebre non è visione ma
privazione di visione, tuttavia l'anima umana ha questo di proprio che sa di non sapere in quanto percepisce
di non vedere nelle tenebre e di non sentire nel silenzio» 18.
E più avanti aggiunge: «L'anima conosce sé con una conoscenza di presenzialità [in quanto è presenza di sé
a se stessa], e non con una conoscenza obiettiva [ossia come rappresentazione di un oggetto che è altro da
sé], eccetto che sul piano riflesso. È certissimo principio primo che noi siamo e possiamo, sappiamo e
vogliamo; poi in secondo luogo è certo che noi siamo qualche cosa e non tutto, e che possiamo conoscere
qualche cosa, e non tutto e non totalmente. Quando poi dalla conoscenza di presenzialità si procede ai
particolari per una conoscenza obiettiva comincia l'incertezza, per il fatto che l'anima viene alienata a causa
degli oggetti, dalla conoscenza di sé. E gli oggetti non si rivelano totalmente e distintamente. Ma
parzialmente e confusamente. E invero noi possiamo, sappiamo e vogliamo l'altro, perché possiamo,
sappiamo e vogliamo noi stessi»19. Nella progressiva auto-consapevolezza che scaturisce dal dubbio radicale
si evidenziano dunque l'oggettività e la certezza di una realtà ontologica pre-esistente al dubbio dell'Io, della
coscienza che si interroga sulle effettive possibilità conoscitive. In realtà Campanella arriva al concetto di
autocoscienza dopo essersi convinto della universale diffusione delle tre primalità metafisiche (Potenza,
Sapienza e Amore). Sorprendentemente, nessuno tra gli studiosi storici del pensiero campanelliano, sembra
aver mai messo in evidenza questo tipo di procedimento. Dal principio dell'autocoscienza, così come viene
enunciato nella Metaphysica non conseguono affatto - necessariamente - le tre primalità. Occorre riflettere
un attimo per convincersene.
Dubito, radicalmente e di tutto. Ma sono davvero certo di non poter dubitare del mio dubbio? Inoltre: come
si struttura il passaggio dal dubbio alla certezza del mio essere, e da questo alle tre primalità universali
(attribuite - nell'infinita estensione - anche a Dio)? Che cosa rende possibile l'affermazione: «[...] come so di
essere, così so di sapere. E similmente, poiché so di amare non mi inganno [...]»?
In fondo è l'analogia che permette questo passaggio. Come in Dio ci sono le tre primalità - assolutamente -
così sono nel Mondo e nell'Uomo. Perché Dio e Mondo sono in fondo uniti, questo è immagine, statua di
Quello. Nella Metaphysica Campanella afferma - non certo distrattamente - che «l'uomo è stato posto fra
cielo e terra»20, ha una parte celeste ed una mondana. Tra microcosmo e Macrocosmo vi è corrispondenza,
analogia. A sua immagine e somiglianza l'uomo è stato creato: dunque se Dio si caratterizza per Sapienza,
Potenza e Amore, così un riflesso di queste primalità deve trovarsi nello specchio del Mondo e a maggior
ragione nell'Uomo. Non è affatto Agostino la vera fonte delle primalità campanelliane, come molti critici
hanno frettolosamente creduto di poter affermare. Agostino viene utilizzato dal Campanella soltanto per
giustificare e camuffare le sue tesi in ambito clericale, di fronte al Magistero della Chiesa. Così come molti
altri Santi vengono chiamati di volta in volta a testimoniare la validità di affermazioni teologicamente
sospette.
Riflettendo: anche ammettendo che del dubbio non si possa dubitare, da questa coscienza non deriva affatto
la certezza immediata che ogni essere sia essenziato dalle tre primalità. Il primo principio metafisico,
individuato dal Campanella nell'autocoscienza, poggia sulla convinzione cosmologica della comunicazione
universale, non su una intuizione meta-fisica. Omnia mundi membra divina sunt, sembra voler qui ripetere,
tra le righe. Il De sensu rerum, nella sua sostanza, non viene mai smentito: anzi la Metafisica può essere
considerata come il frutto di una ricerca parallela a quella naturale del De sensu. Ecco dunque su cosa si basa
l'idea dell'intimo contatto intrinseco: è grazie al concetto di con-partecipazione universale, all'idea della
catena dell'essere, che l'uomo può sentirsi interiormente in contatto con la divinità, (condividendone - anche
se relativamente - le primalità, secondo il procedimento analogico che abbiamo prima individuato). È
l'analogia il vero presupposto teoretico che garantisce la validità di tali affermazioni, non l'accoglimento
17
Cfr. Agostino, De vera rel., 39; De trin., X, 10.
18
T. Campanella, Metafisica, I, 30-31.
19
T. Campanella, Metafisica, I, 32.
20
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 283.
della metafisica classica (come suggeriva invece Luigi Negri). Dopo una breve analisi sulla validità
gnoseologica del senso esterno, emerge inoltre una non certo inaspettata rivalutazione del senso interno
inteso non solo come attivo, ma anche come passivo: «In altro modo parla Dio quando rivela ai suoi servi
cose occulte, o sul piano naturale o sul piano soprannaturale, che il senso non conosce, se non in parte o
debolmente, nelle cause o nei segni o negli effetti, e quando scopre i suoi arcani con una rivelazione al senso
esterno o nell'interiore spirito o nella mente, che da lui abbiamo ricevuta; e tale sapienza non è opinativa,
bensì testimoniante e assolutamente degna di fede» 21. In questo modo lo Stilese mirava chiaramente ad
elevare il senso interno (quell'intimo contatto con la Natura che in Bruno si era ambiguamente colorato di
tinte magico-panteistiche) al rango di conoscenza certa, incontrovertibile, perché ottenuta da una
comunicazione diretta con la scala dell'essere, con il dispiegarsi della divina Rivelazione. Io credo che
questo senso interno abbia in realtà ben poco di che spartire con il principio dell'autocoscienza.
Esplicitamente, Campanella non lo ammette (né vi sono ragioni assolutamente inconfutabili per giustificare
questa ipotesi), ma credo che qui il riferimento sia il senso interno di tipo magico. Nella Prefazione alla
accurata opera di Ioan P. Couliano, intitolata Eros e magia nel Rinascimento, M. Eliade ricordava che «poco
tempo dopo la morte di Giordano Bruno, la Riforma e la Controriforma hanno imposto con successo una
radicale censura dell'immaginario. Certo, il motivo era religioso, i fantasmi essendo idoli concepiti dal
"senso interno". E, beninteso, la censura riuscì a far piazza pulita delle "scienze" fondate sul controllo
dell'immaginario, in particolare l'eros fantastico, l'Arte della memoria e la magia» 22. Parlando di sapienza
non opinativa credo che Campanella intenda riferirsi appunto alla sapienza del mago, che tramite ad una
magica conoscenza della natura riesce a comprendere più a fondo la rivelazione del codice naturale. Ma una
comunicazione diretta con il messaggio rivelato attraverso la scala degli esseri, ovviamente, crea dei
problemi sul piano dell'oggettività di tale sapere: «Che tale oracolo sia necessario alla perfezione del sapere
anche nelle scienze riguardanti la natura, è stato insegnato non solo dalla scuola degli ebrei e dei cristiani e di
tutti i legislatori, bensì da Pitagora, da Socrate e da Platone nel Timeo. Ma siccome moltissimi nel mondo si
gloriano di aver ricevuto da Dio la religione e la rivelazione, come Mosè, Davide e i profeti che lo seguono,
gli Apostoli di Cristo, Minosse, Numa, Maometto, Amida, Zamolxide, Simon Mago ed altri,
conseguentemente occorre vedere a chi fra essi si debba prestar fede. Evidentemente, chi è inviato da filosofi
ha note filosofiche, mentre chi è inviato da Dio ha note divine. Giacché fra essi alcuni vengono ingannati dal
diavolo e insieme sono ingannatori, come Maometto; altri ingannano e non sono ingannati, come Pitagora e
Zamolxide e forse Numa, in quanto finsero di godere del colloquio con gli dèi, affinché le loro leggi fossero
venerabili per i popoli; altri poi non sono ne ingannati né ingannatori, bensì legati di Dio; se infatti Dio esiste
ed ha cura degli uomini, necessariamente egli dà ad essi la legge e i profeti, senza di cui la vita umana (come
attestano Socrate e Salomone) fluttuerebbe nell'incertezza; essi ricevono da Dio segni miracolosi
soprannaturali, che gli altri uomini e la natura stessa non possono compiere, sibbene solo Dio. Considera in
essi: 1) se sono da magia divina o naturale o diabolica, come esamineremo; 2) Dio dà il sigillo che è il
martirio: se l'inviato infatti ritiene ciò che predica profezia, e su di essa esamineremo se ciò che essa predice
si verifichi, e se sia divina o naturale o diabolica [...]» 23.
Si noti lo sforzo di far rientrare la magia nella storia dei profeti. Distinguendo la magia tra naturale,
diabolica e divina, Campanella intende giustificare le proprie posizioni di fronte all'Inquisizione.
Ripercorriamo brevemente il cammino introduttivo.
Nel Proemio Campanella vuole maliziosamente interrogarsi sulle ragioni di una nuova Metafisica.
Riflettendo: a quale scopo costruire una nuova Metafisica? Indirettamente: per mostrare, con abili operazioni
sincretiche e con una tecnica espositiva (per la verità molto simile alla bruniana variazione24) come sia
necessario strutturare un nuovo discorso metafisico per giustificare poi a livello teoretico e non solo
teologico la con-fusione di cristianesimo e sapienza ermetica, in vista della auspicata e del resto (secondo le
profezie astrologiche del nostro) imminente renovazion del secolo. Ora, quella metafisica è per Campanella
una dottrina che dovrà vertere «sui princìpi primi e sui fini, e sui fondamenti delle scienze» 25: «Alcuni han
negato che essa sia vera scienza, perché han creduto che non esista alcunché d'incorporeo e ciò che non
conoscono coi sensi esterni, e dicono che la nostra anima è mortale; conseguentemente, ammesso pure che
esistano cose immortali, esse non ci interesserebbero; così dicono gli epicurei, ma certo da ignoranti, giacché
gli effetti naturali non possono venir attribuiti solo ai corpi. [...]. Pertanto si esige una scienza che trascenda

21
T. Campanella, Metafisica, op. cit. pp. 85-87.
22
I.P. Couliano, Eros e Magia nel Rinascimento, Il Saggiatore, Milano, 1991, p. VIII.
23
T. Campanella, Metafisica, op. cit. p. 87.
24
Mi riferisco qui alla bella espressione di Michele Ciliberto (Cfr. M. Ciliberto, Giordano Bruno, Laterza, Bari, 1992.
25
T. Campanella, Metafisica, op. cit. p. 89.
la fisica. Inoltre, ogni scienza considera un settore della realtà; così la fisica considera la natura, la
matematica la quantità, la medicina il corpo da guarire, la politica il corpo sociale da governare, l'astronomia
i moti dei corpi celesti; trattando di queste cose, quelle scienze presuppongono che esse siano così, ignorando
i principi primi e i fini. Se infatti domandi al fisico perché l'uomo è uomo, egli risponde perché è animale
ragionevole, formato di un corpo, il quale è costituito dagli elementi con tale e tanto contemperamento da
poter avere un'anima ragionevole, la quale discorra dal noto all'ignoto; e quando ha chiarito le parti di tutto il
corpo e dell'anima, crede di aver soddisfatto; e non considera il principio e il fine. Difatti egli non considera
donde provengano la razionalità e la sapienza, e che cosa sia, e quale causa incorporea la generi, e perché sia
di più nell'uomo che nel leone, e per qual fine [...]»26. La metafisica dovrebbe allora presentarsi
completamente sfuggente da qualsiasi tipo di presupposto teoretico o ideo-logico. Ad essa spetterebbe infatti
il compito di fondare in modo autonomo il sapere delle altre scienze:«nessuna scienza tratta di tutte le cose
come sono, ma solo come appaiono e sono per noi. Occorre quindi fornire una scienza che insegni sugli enti
come sono non solo nel proprio essere, ma pure in quanto si riferiscono ad ogni essere, e all'uso e all'ordine e
alla connessione del primo ente e del mondo e delle singole cose [corsivo mio]»27. Occorre dunque una
scienza che chiarisca anzitutto la struttura dell'essere, le connessioni degli enti con Dio, che studi e per così
dire materializzi ed identifichi la catena che lega gli esseri al Primo Ente. Già questo concetto indica
chiaramente le reali intenzioni del Campanella: fornire una giustificazione teoretica ai principi che dovranno
guidare la renovazion del secolo. Giustificare indirettamente il senso e la funzione, anche sociale, della
magia e dell'astrologia. Questo rinnovamento sarà guidato da una fede e da un sapere comune, anzitutto
razionale (nella accezione campanelliana del termine). Alla base di questa nuova filosofia teologica si pone
il concetto di con-partecipazione cosmica. In base all'ordine naturale, espressione fisica di un ordine ideale e
soprannaturale, verrà strutturata tutta la concezione politica e sociale del Campanella. La struttura del sociale
dovrà infatti ripetere l'ordine naturale, voluto da Dio. L'astrologia si inserisce in questo quadro come
strumento divino e politico. Grande azione magica, aveva sostenuto allo Stilese, è dare leggi agli uomini.
Proseguiamo ora con l'analisi della Metafisica. Campanella - curiosamente (forse anche ironicamente) -
lamenta che «Neppure Aristotele ci ha sottratto questa fatica, giacché egli, volendo offrirci una metafisica, ci
ha insegnato tutt'altro che una metafisica. Egli infatti non dimostra i principi e i fini delle cose e delle
scienze, né le connessioni; sull'ente e sulle proprietà comuni dell'entità non parla filosoficamente, bensì da
grammatico che redige un dizionario e distingue i significati dei termini, come è chiaro dal libro quarto della
sua Metafisica; e neppure in maniera ordinata, secondo la serie della provenienza di una cosa dall'altra, bensì
confusamente, come chi insegna la grammatica e non le derivazioni naturali; parimenti, egli non adduce, al
di sopra dei principi, le primalità e le realtà dell'ente che noi poniamo, cioè la potenza, la sapienza e l'amore;
neppure parla del nulla, da cui e dall'ente son costituiti tutti gli enti finiti; neppure delle influenze magne,
mediante le quali vengono fatte le cose, né della derivazione delle cose dal primo ente, né del ritorno ad esso.
Anzi egli esclude le idee, secondo cui avviene la derivazione; toglie la base degli enti, cioè lo spazio, [...];
pensa che la religione non sia consona alla natura e neppure soprannaturale, bensì solo un'invenzione politica
e un freno per il popolino; di qui è sorto il machiavellismo, rovina del genere umano. Neppure ha parlato
dell'illuminazione della mente umana, che avviene mediante il ritorno alla divinità; e neppure l'ha ritenuta
vera, ma la disprezza come un delirio e una favola; [...] tutto il suo proposito consiste nel distruggere la
metafisica di Platone e di Pitagora»28.
La religione, quella vera, non può prescindere dalla considerazione naturale perché viene ad innestarsi e a
costituire proprio la natura dell'uomo. Non si tratta quindi di uno strumento politico, ma di un elemento
costitutivo, primario, inalienabile. Non manipolabile in quanto divino. Si noti come Campanella rievoca qui
le figure di Platone e di Pitagora, difendendone la concezione metafisica. Evidentemente, si tratta di una
citazione che sottende ad una interpretazione originale della filosofia platonica e pitagorica. Quando
Campanella cita la metafisica platonica intende riferirsi in realtà alla visione cosmologica. Secondo lo Stilese
per Platone il Cosmo era pensabile come una struttura omogenea ed ordinata dall'alto al basso, senza frattura
fra materia e spirito. Campanella è molto lontano dalla svalutazione della materia, se non demonizzazione,
operata dal pensiero gnostico e neoplatonico. Da questo punto di vista il Cristianesimo professato dallo
Stilese è molto distante da quello ortodosso, profondamente influenzato dal pessimismo gnostico e dalla sua
fuga dal mondo materiale e da ogni realtà corporea. Nel pensiero del Campanella non emerge mai il
desiderio di fuggire dal Mondo. Al contrario, lo Stilese auspica una sorta di palingenesi mondana, un
ripristino dell'antico paradiso terrestre. Una metafisica - insiste lo Stilese - è indispensabile per la ri-
26
T. Campanella, Metafisica, op. cit. pp. 89-91.
27
T. Campanella, Metafisica, op. cit. p. 91.
28
T. Campanella, Metafisica, op. cit. pp. 93-95.
fondazione del sapere, per lo studio della catena dell'essere, delle influenze magne e della teoria politica.
Solo in base all'accoglimento dei due Codici, quello naturale e quello biblico, altrettanto divini, sarà possibile
conseguire un autentico ritorno all'età dell'oro. Individualmente, tale ritorno si attua anzitutto nella propria
interiorità. D'altronde lo Stilese è chiarissimo quando sostiene: «abbiamo deciso di costruire una nuova
metafisica [...] non col sillogismo, che è come una saetta con cui raggiungiamo lo scopo da lontano e senza
gusto, e neppure solo attraverso l'autorità, che è come toccare con le altrui mani, ma per contatto intrinseco
[...]»29. Indirettamente: l'autorità e la logica umana servono solo per confermare e casomai strutturare un
sapere che viene da un rapporto con la divinità, con il Dio che si manifesta naturalmente nel suo creato. Il
contatto intrinseco è dunque alla base di ogni possibile conoscenza, non la ragione aristotelica, non il sapere
teologico. Da qui la fede mantenuta fino alla morte nella magia e nell'astrologia. Non a caso, nonostante
innumerevoli variazioni, Campanella non abbandonò mai il fulcro fondamentale dell'operazione sincretica: la
fede nella divinità della natura, anzitutto di quella umana.
Uno verbo: Campanella è in realtà un pensatore ermetico e cristiano ad un tempo, il suo compito è quello di
profetizzare la nuova era, la renovazion del secolo.
Nel tentativo di coordinare armonicamente questa fede e questa saggezza antica Campanella finisce
inevitabilmente con il modificarle entrambe. Alla fine il Cristianesimo professato dallo Stilese sarà
abbastanza lontano da quello fissato dal Magistero della Chiesa. Allo stesso modo, l'ermetismo sotterraneo
sarà alquanto modificato ed adattato secondo le varie esigenze di ordine sia teoretico che schiettamente
pratico. Campanella non è un pensatore ermetico radicale, come era stato - senza pentimenti - Giordano
Bruno. Campanella, rinchiuso in carcere per 27 anni, fu molto più prudente, e giunse al punto di fingersi
pazzo per evitare il rogo. Fortunatamente, il trucco si rivelò utile. La prudenza dello Stilese risulta evidente
anche nella Metafisica, dove Ermete Trismegisto viene citato più volte, ma sempre per così dire addolcito e
adattato. Campanella non scivola mai nel panteismo radicale degli ermetici più risoluti. Tuttavia l'ermetismo
campanelliano è una costante, come un fiume sotterraneo che riaffiora di tanto in tanto, ma ugualmente
scorre potente e sostanzialmente indisturbato. Le varie strategie che lo Stilese adopera nel suo tentativo
rivoluzionario appaiono più una difesa contro i tentacoli dell'Inquisizione che il frutto di una necessità
espositrice, chiarificatrice. La tecnica della variazione è molto diversa da quella del Bruno. Per il Nolano si
trattava di esprimere l'infinito nel finito, cercando di coglierne le sfumature nel linguaggio concreto e nei
diversi livelli teoretici. Per Campanella si tratta di offrire le basi della rivoluzione, del rinnovamento, senza
correre il rischio di essere scoperto - compromettendo così tutta la struttura della sua azione politico-
riformatrice - proprio là dove si situava il vero punto debole: la discordanza della sua filosofia dagli articula
fidei di Santa Madre Chiesa. Cosa che, inevitabilmente, accadde.
Riprendendo l'analisi dell'opera, sempre nel Proemio, significativamente, lo Stilese ridefinisce
ulteriormente - confermando le sue intenzioni ipnotiche - la struttura della sua Metafisica: «E così nella
prima Parte tratteremo la questione se esista il sapere, [...] dell'epilogo della conoscenza, che è la definizione,
e delle regole del conoscere, le quali non vengono conosciute principalmente dal senso. Nella seconda Parte
tratteremo dell'ente e del non-ente, principi metafisici delle cose, e delle primalità costituenti l'ente e il non-
ente, cioè la potenza, la sapienza e l'amore, e l'impotenza, l'insipienza e loro difetti: fortuna, contingenza e
disarmonia; dell'unico Dio, che è la vita di questi principi, e del numero e della provvidenza e dei fondamenti
delle esistenze. Nella terza Parte tratteremo dell'origine e del fine del mondo, degli angeli e delle idee, della
connessione degli enti divini e naturali e matematici, per la costruzione dei sistemi; dell'anima umana,
dell'immortalità, dell'esilio e dei secoli dei secoli, dei miracoli e delle note richieste per esaminare i
legislatori, e del ritorno mediante la religione al primo ente e suo principio, che è Dio. Dunque nella prima
Parte i principi del sapere; nella seconda i principi dell'essere; nella terza Parte i principi dell'agire, in quanto
sono dall'ente primo, sapientissimo e provvidente, che è Dio» 30.
Si rifletta: nella Metafisica verranno allora definiti «i principi del sapere [...], dell'essere [...], dell'agire, in
quanto sono dall'ente primo, che è Dio». Dunque: così come sono in Dio, allo stesso modo sono disseminati
nel Mondo e strutturalmente alla base di ogni essere. Questo rende appunto possibile l'indagine metafisica (e
poi teologica): è dall'impronta che Dio ha impresso nell'essere che possiamo risalire a Lui. Ancora una volta
emerge la struttura analogica del procedere Campanelliano: analogia che sarà alla base anche del pensiero
politico e teologico, come avremo occasione di accertare.
Un fatto emblematico: nella sua discussione intorno ai principi del sapere Campanella utilizza in realtà
parametri non metafisici, ma schiettamente naturalistici, quali ad esempio la dialettica tra il caldo e il freddo.
Dialettica che coinvolge addirittura lo spiritus senziente: «Del resto sente rettamente chi possiede uno spirito
29
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 97.
30
T. Campanella, Metafisica, cit., pp. 97-99.
puro, non troppo caldo e non troppo tenue tale che venga affetto facilmente, e subito esali prima di
comunicare allo spirito nuovo, che viene incessantemente generato dal sangue, le passioni percepite e quindi
il sapere. [...] Inoltre, gli spiriti tenui abbondano di fuliggini emesse dal sangue troppo riscaldato, le quali
disturbano il discorso. Il discorso è infatti un sentire e un connettere il simile dal simile. Lo spirito non deve
essere troppo denso, perché altrimenti non accoglierebbe le passioni latenti e le forze languide degli oggetti,
ma solo quelle forti, e perciò non sarebbe idoneo alle scienze occulte e neppure al discorso. Le cose dense
infatti si muovono con pigrizia dal simile al simile. Inoltre esso deve abitare in cellule ampie e ben formate,
in modo da poter raccogliere le mozioni ricevute»31.
Questa, appena ricordata, costituisce in ultima analisi una rappresentazione magica delle modalità senzienti
dello spirito. In questo senso Campanella potrebbe essere tranquillamente incluso del numero dei Naturalisti.
I presupposti metafisici della conoscenza, che Campanella aveva individuato nelle primalità, devono trovare
riscontro anche in una sorta di corrispondenza cosmo-fisiologica. Non a caso il Libro VI dell'Epilogo Magno
(Fisiologia Italiana) vede il Primo Discorso tutto centrato sulla "Communicazione della mente e dello spirito
nella conoscenza". In questo luogo Campanella riprende la discussione sui rapporti tra spirito e anima,
sostenendo che perché l'anima si prendesse cura del corpo, Dio volle che apprendesse ogni cosa dallo spirito,
il quale diviene scienziato per mezzo del sentimento, che è uno ma risiede «in più ordegni del sentire»32,
ovvero negli organi sensoriali. Questi non sono altro che «parti delicate et pertugiate di esso corpo per
potervi entrar cose utili et necessarie a sapersi»: semplici vie di accesso, quindi. La sensazione, così come
viene descritta dal Campanella, è appunto un «essere dalle cose tramutato»: cioè una vera e propria
assimilazione di ordine fisico. Infatti, «Non sente il caldo lo spirito s'egli non è scaldato, nè il freddo s'egli
non è raffreddato, nè il moto se non è mosso»33. Nella sua preoccupazione - che verrà chiarita più avanti - di
distinguere l'anima umana dallo spiritus del mondo, Campanella non riesce però a superare una precisa
difficoltà: come strutturare il passaggio dal materiale allo spirituale? Riepilogando: attraverso gli organi
sensoriali lo spiritus viene modificato dagli oggetti con i quali è venuto in contatto. Lo spiritus, divenuto
scienziato, commove a sua volta l'anima. Ma come avvenga questa sorta di commozione non è affatto
chiarito. Tutto lascia supporre che si tratti di una influenza di tipo magico.
Questa difficoltà tradisce la ambigua differenziazione operata dallo Stilese tra anima e spiritus: «[...] volle
Dio che dallo spirito la mente sapesse ogni cosa: et perché questo del corpo non tenesse poca cura, da lui
volle ch'entrassero le scienze, sì che dal sentimento - ch'è uno ma risiede in più ordegni di sentire [...], li
quali non sono altro che parti delicate et pertugiate di esso corpo, per potervi entrar cose utili et necessarie a
sapersi - avviene che lo spirito scienziato diventi et commova l'anima, in modo che la fa de la Divinità
ricordarsi, sendo che ogni cosa di quella vestigio et imagine si vede. Non sente il caldo lo spirito s'egli non è
scaldato, nè il freddo s'egli non è raffreddato, nè il moto se non è mosso. Dunque il sentire è un essere dalle
cose tramutato»34. È del tutto evidente che affermazioni di questo tipo sono in totale accordo con le tesi
magiche, secondo le quali la comunicazione a distanza è resa possibile dall'azione del mago sulla materia e
dalla struttura di questa. In fondo è la scala dell'essere a permettere, come per Giordano Bruno, il passare da
un ente all'altro dello stimolo e quindi dell'oggetto conoscitivo. Campanella chiarisce appunto che «[...] sente
rettamente chi possiede uno spirito puro, non troppo caldo e non troppo tenue tale che venga affetto
facilmente, e subito esali prima di comunicare allo spirito nuovo, che viene incessantemente generato dal
sangue, le passioni percepite e quindi il sapere»35. Dunque «Se il sentire avviene per assimilazione del
senziente col sensibile, e se l'assimilazione avviene mediante una passione reale da parte di oggetti reali e
non intenzionali, segue che l'anima senziente è costituita da elementi reali, capaci di patire; d'altra parte, può
patire solo ciò che dagli oggetti può essere mosso e mutato, venire afflitto o allietato. Non può venir mutato,
se non conviene con essi nella sostanza; quindi l'anima senziente dev'essere una cosa corporea, che patisca
da parte dei corpi e delle qualità e delle forze dei corpi, ed abbia con essi un comune simbolo e sostrato, coi
quali patisce recettivamente, come la materia, e perditivamente come il calore più forte. Dunque essa è uno
spirito mobile, tenue, lucido, caldo, secondo la natura degli oggetti, e inoltre senziente e potente e appetente,
per partecipazione delle primalità. Dunque, in quanto mobile, esso sente i suoni, da cui viene agitato
mediante le orecchie; in quanto lucido, esso sente la luce, da cui viene affetto mediante gli occhi, e tutto ciò
che vien trasmesso con la luce, come la figura, la grandezza e il numero; in quanto caldo, esso sente il
freddo, da cui patisce, e i calori superiori al suo calore. Similmente, mediante la corporeità tenue, esso sente

31
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 137.
32
T. Campanella, Epilogo magno (Fisiologia italiana), cit., p. 454.
33
T. Campanella, Epilogo magno (Fisiologia italiana), cit., p. 454.
34
T. Campanella, Epilogo magno (Fisiologia italiana), cit., pp. 454-455.
35
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 137.
la gravità e la leggerezza, la compressione e la dilatazione; e quindi la secchezza e l'umidità, la mollezza e la
viscosità. Infatti i sapori e gli odori rientrano nella corporeità, o tenue o densa, col calore nativo, e pertanto
esso ha tante vie o sensori nel corpo quanti sono gli oggetti corporei o legati alla corporeità, e quanti ne son
necessari alla vita animale. Se vi sono infatti altri oggetti ad esso non necessari, lo spirito non ha per essi
sensori e facoltà; la cosa è chiara nelle piante e nei ricci, ai quali mancano i nostri organi, perché non sono ad
essi necessari; essi credono di posseder tutto e che non vi siano cose diverse da quelle che posseggono;
neppure i pesci desiderano piedi, perché non ne hanno bisogno. Pare quindi che gli organi sensori siano stati
dati, non come strumenti del sentire, così come il calamaio è strumento dello scrivere, ma come vie e canali
attraverso cui gli oggetti sensibili vengono introdotti nell'anima senziente; se quegli oggetti non fossero
legati ai corpi, l'anima non avrebbe bisogno di simili porte e finestre, come il vento non ha bisogno di piedi
per muoversi né di occhio per venir illuminato. Gli organi - prosegue il Domenicano - debbono essere tanti
quanti sono i dati degli oggetti percepibili con l'anima senziente, che dovrà giudicarli se sono buoni o cattivi
per la vita di tutto il composto di anima e di corpo»36. E aggiunge: «Vi è poi in noi il senso delle cose divine,
o per falsa immaginazione, come dicono gli epicurei, o, come dice Bernardo, per congiunzione della mente
con gli esseri superiori, i quali non hanno bisogno di un sensorio perché penetrino nell'anima che li conosce,
giacché ad essi tutto è aperto [...]»37. In un certo senso la mente umana ripete dunque la struttura delle menti
angeliche. Queste sono superiori perché non necessitano di un organo sensoriale apposito, preposto al
transito dello stimolo. Il senso delle cose divine - l'ascesi mistica e l'illuminazione di tipo magico - sono
possibili per congiunzione della mente con gli esseri superiori. Riemerge insomma ancora una volta l'idea
della comunicazione universale e della mancanza di interruzione tra sfera dello spirituale e sfera del
materiale. Da questo concetto la natura trae la sua divina dignità. Ciò posto, lo Stilese vuole apparentemente
indagare cinque punti: «se dalle cose della natura provengano in noi altre realtà oltre quelle dette, che non
vengono percepite da noi per mancanza di organo e di via, attraverso cui vengano introdotte, [...] se le cose
sensibili vengano sentite perché ci sono contrarie; difatti patiamo dalle cose contrarie, non dalle simili, dice
Aristotele; il senso poi si realizza per passione; oppure perché ci vengano comunicate mediante una
construttura (propter symbolum), conformemente a quanto dicemmo dello spirito che, essendo mobile, sente
i movimenti del suono; e, perché lucido, percepisce la luce e le cose illuminate, [...]; di qui Empedocle dice
che l'anima è composta dei quattro elementi per poter sentire con la terra la terra, con l'aria l'aria, col fuoco il
fuoco, con l'acqua innata l'acqua. Se dunque deve capire le cose divine, essa deve pure possedere una
struttura partecipe della divinità [corsivo mio]. Terzo: si deve indagare se l'anima sensitiva sia costituita di
alcuni elementi, come il calore e il freddo, oppure di tutti, come le cose dense. E come abbiamo dagli
elementi il movimento, la stasi, la quantità, il calore, il freddo e la densità, così pure la facoltà sensitiva;
oppure per altra via, e per quale. Inoltre: se come la massa corporea è materia di tutti i corpi, così pure una
qualche sostanza sensitiva sia sostanza di tutte le anime sensitive corruttibili, come cerca di sapere Agostino
[corsivo mio]. Parimenti, se vi sia nel mondo un'altra sostanza, da cui siano costituite le anime intellettive,
incorruttibili, degli uomini; giacché, se identica è la sostanza di entrambe, non si avrà differenza tra l'uomo
e l'animale, salvo che negli organi e nel temperamento [corsivo mio]; e dove si conservi questa sostanza
delle anime: se negli elementi o nell'anima del mondo o nella sostanza di Dio, come asseriscono gli stoici e i
manichei; non può infatti Pomponazzi capire per qual motivo alcune anime siano mortali ed altre immortali,
giacché non differirebbero nella sostanza, ma nel più e nel meno. Inoltre: se noi ignoriamo molte altre cose,
perché non abbiamo un organo attraverso cui entrino o perché non abbiamo comune con esse la struttura o la
materia, da cui patiamo, come gli elementi fra loro. Non il calore infatti diventa il freddo, ma la materia calda
diventa fredda; così neppure l'anima diventa angelo, ma la materia dell'anima diventa angelica attraverso una
passione della materia comune»38.
Una volta chiarita la possibilità di una illuminazione divina, Campanella afferma che tale evento accade
solo in virtù della analogia della mente umana con quella divina. Evidentemente, lo Stilese sta qui ponendo
le basi del suo argomentare gnoseologico. La conoscenza è possibile solo se esiste una sorta di compatibilità
strutturale e materiale. Come è facile notare il discorso è come al solito dominato dal principio di analogia: è
la corrispondenza fra micro e Macro cosmo a rendere possibile la comunicazione naturale e quindi la
conoscenza umana. La struttura del microcosmo deve ripetere - per analogia - quella del Mondo e di Dio:
solo in questo caso è possibile essere partecipe della divinità. Ora per lo Stilese sorge un problema. Come
differenziare a questo punto esseri che sono strutturati analogicamente? Implicitamente: se identica è la
sostanza dell'anima intellettiva e sensitiva, allora non vi sarà alcuna differenza ontologica tra uomo e mondo
36
T. Campanella, Metafisica, cit., pp. 139-141.
37
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 143.
38
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 143.
animale, e così via. Su questa difficoltà è necessario aprire una parentesi di riflessione. Si deve infatti
ricordare - per evitare noiosi equivoci in tal senso - che alla base del pensiero Campanelliano rimane pur
sempre anche il Cristianesimo, interpretato anzitutto come divino dispiegamento di una ragione universale
che permea dall'interno tutto il Cosmo. Non a caso nella Teologia lo Stilese descriverà la ragione naturale
come effetto della presenza di Cristo nel Mondo. Questo è il significato più profondo della campanelliana
teoria del Cristo come ragione universale. Campanella usa talvolta questa speciale teoria per allontanare i
classici dubbi che una cosmologia del genere porta automaticamente con sé, soprattutto negli ambienti
ortodossi. Ma non c'è motivo di dubitare - almeno in questo caso - della sua onestà. Questa razionalità,
infatti, spiega anzitutto il Mondo attraverso il concetto di gerarchia divina, in perfetto accordo con la Genesi
biblica. L'uomo è stato creato ad immagine di Dio. Nella struttura cosmologica del Campanella questa teoria
risulta in ultima analisi funzionale al discorso della gerarchia e della unità del Mondo. Ma la domanda resta:
come giustificare una gerarchia nella scala degli esseri se tra tutti gli enti non vi sono differenze
ontologiche?
Al solito, la risposta va individuata tra le righe: «Rispondo alla prima e alla quinta questione che a noi è
ignoto se ci pervengano altre realtà delle cose, sia perché manchiamo di organi sensori per esse, come il
riccio manca dei nostri, sia perché non abbiamo una struttura comune con essi, sia perché lo spirito animale,
costituito in una posizione media, non può conoscere gli stimoli eccessivi, prima che il suo giudizio venga
mutato da essi, né quelli difettivi, che non possono agire su di esso; anzi neppure agiscono quelli similissimi,
dai quali ci proviene aumento, e non passione; di qui risulta chiara la pochezza del sapere animale, perché è
necessario che noi patiamo per sapere. L'anima poi ignora sé stessa, perché dagli oggetti che la mutano viene
alienata dalla sua natura in quella degli oggetti. Per questa ragione l'uno e l'altro sapere, quello innato e
quello avventizio, vacilla, si altera e si confonde. Delle cose divine noi non abbiamo né senso né sensorio; e
se in noi non vi è altra anima oltre quella sensitiva, ogni pensiero su di esse proviene dalla cattiva
immaginazione; come infatti immaginiamo i centauri, i briarei e i monocoli, così pure gli angeli alati e Dio
governatore a somiglianza degli uccelli e del principe governatore di una città, come avevano detto gli
epicurei. Giacché da molte passioni precedenti, che son conoscenze delle cose, immaginiamo pure altre cose.
Se invece vien concesso all'uomo dalla divinità un altro genere di anima, esso ha il senso delle cose divine, e
non mediante sensori, come risulterà chiaro nei discorsi seguenti [corsivo mio]; per ora può essere
mantenuto l'assenso. Alla seconda questione dico che la sensazione avventizia è un giudizio sull'oggetto che
produce passione; conosco infatti il caldo perché vengo riscaldato da esso; l'oggetto che agisce deve dunque
essere contrario allo spirito che patisce; altrimenti non agirebbe su di esso; infatti non sentiamo la materia né
lo spazio vuoto né l'angelo né la linea, perché da essi noi non patiamo; essi vengono conosciuti con un
ragionamento, o perché son simili a quelle cose da cui patiamo, giacché il simile in quanto simile è identico
col suo simile, e quindi, conosciuto l'uno, si conosce l'altro, che fa uno con esso; [...]. Quando dunque
l'anima senziente percepisce la luce colorata e fìgurata dagli oggetti, patisce da essa in quanto non è
completamente identica con la luce innata dello spirito, ma è come l'acqua torbida, la quale, toccando quella
limpida, la muta in torbida in modo da sentire sé intorbidata e intorbidante l'altra. D'altra parte essa non
potrebbe sentire, se non venisse affetta e non diventasse simile all'oggetto sensibile; e non diventa simile se
non comunica con esso nella materia, come l'aria non si muterebbe in acqua se non fosse identica la materia
di entrambe [corsivo mio]. Infatti, non il calore si trasforma in freddo, né la forma dell'aria in forma
dell'acqua, ma la cosa calda in fredda, e la materia dell'aria nella materia dell'acqua. Quando dunque dice
Empedocle che noi sentiamo la terra con la terra, l'acqua con l'acqua, la luce con la luce innata, la sua
affermazione non è vera se non in ragione della comune materia, che patisce ricettivamente, mentre la luce o
la forma patisce acquisitivamente; giacché, se patisse del tutto perditivamente, come dal freddo, ci sarebbe la
distruzione del giudizio sensitivo. Invece l'anima possiede tanti e tanto grandi componenti da poter sentire in
funzione delle primalità, come si vedrà sotto. Alla terza questione verrà risposto sotto quando proveremo che
la facoltà sensitiva non è costituita da una sostanza come lo sono i corpi da una materia comune, e che non
inerisce solo ad alcuni elementi, ma pure al calore e al freddo e alla materia e allo spazio universale; sul
modo come queste cose patiscano e sentano è stato detto nel libro De sensu rerum e sarà detto nella seconda
Parte; qui in quanto occorre al presente problema; le primalità infatti essenziano ogni cosa. Né vi è una
sostanza sussistente, denominata anima del mondo, da cui i sensi traggano origine (come i corpi della
materia), oppure, se vi è, non per stacco, ma per moltiplicazione e deflusso darebbe origine alle cose
senzienti, così come il sole produce la luce [corsivo mio]. Le primalità appartengono interiormente
all'essenza, non ad una sostanza, ed hanno un riferimento accidentale nei riguardi della realtà esterna. Alla
quarta questione, che tormentò Agostino e tutti i filosofi, diciamo che nell'uomo esiste un altro genere di
anima, che insieme ad Ambrogio chiamiamo mente; essa non ha origine per stacco dagli elementi né da una
sostanza come le cose corporee, ma da Dio, non incorporato, come credono i manichei, né corporeo, come
insegnano gli stoici e Tertulliano, ma mediante un'emanazione ineffabile [corsivo mio], di cui discorreremo
nei libri seguenti. L'uomo infatti non differisce dagli animali secondo il più e il meno, per quanto si può
sapere dalle operazioni dell'anima, ma come una cosa di ordine superiore, giacché ha oggetti e fìni di
ordine superiore, cioè Dio, gli angeli, le idee e una felicità che sovrasta tutti i beni corporei; [...]. La mente
umana in un momento conosce il cielo e la terra, si eleva sopra gli elementi e sopra il sole, e al di là del
mondo immagina ancora altri mondi, e ancora altri innumeri senza fine; e quando si crede che termini,
comincia di nuovo a conoscere, estendendosi all'infinito; di qui conosciamo che essa non è forza di elementi
né particella del mondo, ma prole e partecipazione di Dio; [...]» 39.
Era importante citare diffusamente questo passo. Da questo luogo, particolarmente ricco di spunti e motivi,
emerge una distinzione importante, strettamente connessa alla visione cosmologica del tutto animato. La
facoltà sensitiva, come del resto era stato chiarito nel De sensu rerum, viene qui messa in relazione anche al
caldo e al freddo, alla materia e allo spazio universale. Dunque la materia tutta sente: da questo punto di vista
sembrerebbe possibile affermare che in ogni porzione della materia possiede una sua facoltà sensitiva. Ma
qui Campanella - e si tratta di un motivo molto interessante - pone un preciso discrimen: non esiste una
sostanza sussistente, denominata anima del mondo, da cui i sensi traggano origine. Se esistesse, questa anima
non per decisionem, sed per multiplicationem et defluxum, darebbe origine alle cose senzienti40. Se l'anima
del mondo fosse una sostanza sussistente universale, non vi sarebbero differenze qualitative tra uomo e gli
altri enti del creato. Qualche riga più avanti lo Stilese osserva infatti: «se l'anima umana provenisse da
elementi, come lo spirito degli animali, non potrebbe affatto elevarsi al di là degli elementi o oltre; nessuna
forma, infatti, e nessuna forza corporea vaga fuori del proprio corpo, e nessun effetto si eleva sopra la sua
causa, né la parte sul tutto»41. Il problema del contrasto tra analogia e differenziazione viene quindi risolto
con un trucco. Anche in questo punto la tecnica espositiva del Campanella risulta molto ben architettata, e
per svelarne il significato nascosto occorre ricordare nuovamente il passo citato dalla Fisiologia italiana, nel
quale il Domenicano afferma una differenziazione strutturale tra anima e spiritus. Campanella sostiene che il
mondo interiore dell'uomo è duplice, costituito da spiritus (elemento in comune con tutto il creato) e anima:
questa è superiore perché infusa direttamente da Dio mediante una emanazione ineffabile (per emanationem
ineffabilem)42. Si ricordi che per lo Stilese: «l'uomo è stato posto tra il cielo e la terra, enti contrari, ed è
costituito da essi, la parte celeste, che è lo spirito, appetisce di amore innato il cielo, laddove quella terrestre
appetisce la terra»43. Il nesso analogia - differenziazione risulta comunque ancor più evidente alcune pagine
più avanti, dove il Nostro espone la sua singolare teoria del nutrimento: «dunque, data la grande varietà delle
cose non solo a causa della propria costituzione ma anche a causa di una gerarchia ideale, vari sono gli
alimenti, giacché di cose diverse si alimentano l'uomo e il cane e la mosca e la pianta e i vermi. Se infatti
tutti gli enti mangiassero pane, il grano non basterebbe a tutti, ed essi non si differenzierebbero dall'uomo. Di
qui proviene che gli odori, i sapori, i colori non siano identici per tutti, e quindi vari sono i sensi, gli appetiti,
gli organi dei sensi e degli appetiti; e gli sterchi, che per noi puzzano, odorano per i vermi, per i porci e per le
galline; muovono anche a distanza, mediante una simpatia moltiplicata dal senso comune a tutti, non tutte le
cose, bensì quelle, di cui abbisognano; perciò le api sentono i fiori distantissimi dai loro alveari, e le
formiche i grani, e i cani le fiere, e il cavallo le insidie, che a noi sfuggono, giacché il preconoscere i beni e i
mali, e quindi amarli e odiarli, è necessario alla conservazione dell'individuo» 44. Molto spesso questa forma
particolare di conoscenza immediata viene descritta con l’uso di metafore. Nel Libro XVI della Theologia, a
proposito degli influssi degli angeli e dei demoni sull’uomo, Campanella afferma: «Non enim discurrendo
cognoscit vir spiritualis utrum daemon si an angelus [...] sibi suadet [...] aliquid; sed quodam quasi tactu et
gustu et intuitiva notitia [...] quemadmodum lingua statim discernimus saporem vini et panis [non è infatti
discorrendo che l’uomo spirituale si rende conto se un demone o un angelo [...] lo convince [...] di una cosa;
ma con una sorta di tatto e di gusto e di avvertimento intuitivo [...] come con la lingua subito avvertiamo il
sapore del vino e del pane]». E del resto abbiamo appena ricordato la Prefazione della Metafisica, dove il
Domenicano aveva apertamente elogiato una forma di conoscenza per tactum intrinsecum. Questa forma di
conoscenza è magica, e non deve stupire se la letteratura magico-ermetica abbonda di luoghi nei quali viene
esaltata questa particolare forma di conoscenza amorosa. La natura di questa conoscenza è chiaramente

39
T. Campanella, Metafisica, cit., pp. 143-149.
40
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 146.
41
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 149.
42
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 146.
43
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 283.
44
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 285.
simbolica, meno che mai scientifica. Di nuovo - come vedremo meglio più avanti - riemerge il legame con il
mito. Questa teoria della conoscenza, in ultima analisi, presuppone infatti queste tre idee fondamentali, tra
loro strettamente connesse: analogia al Primo Ente, differenziazione e comunicazione universale all'interno
della gerarchia ideale (scala naturae): «Questa è la sapienza umana: tutte quelle cose che percepiamo con
intimo contatto [corsivo mio], in modo che esse siano in noi e noi in esse, affetti dal loro sapore, noi le
sappiamo, perché la loro azione è una comunicazione di entità» 45. Infatti «noi conosciamo le altre cose
perché conosciamo noi stessi mutati da esse in esse».
La mutazione interiore (- Campanella sembra però non disdegnare l'idea di una mutazione anche per così
dire radicalmente fisiologica, che coinvolge la struttura materiale dell'essere umano) è possibile in quanto l'Io
conoscente ritrova nell'oggetto qualcosa di analogo, di compatibile. Si attuerebbe una sorta di proiezione
profonda, tramite la quale l'Io conosce le cose che lo circondano. Chi ha familiarità con i testi bruniani
dovrebbe pensare immediatamente al De vinculis, dove si ritrovano teorie molto simili. In ultima analisi è
l'analogia tra tutti gli enti a rendere possibile la comunicazione, il contatto, e quindi la conoscenza. E quindi
il controllo. Si tratta di una concezione che presuppone evidentemente una forza magica, una specie di
universale compartecipazione cosmica. Questo significa che gli oggetti conosciuti sono in realtà soggetti che
si fanno conoscere in virtù della analogia cosmica al Primo Ente, della quale le Primalità sono diretta
espressione ontologica. La conoscenza consiste in una sorta di duplice movimento, comprendente una fase
passiva (nella quale l'Io viene per così dire aggredito dai soggetti esterni, dal generico altro da sé), ed una
attiva, nella quale l'Io conosce gli oggetti proiettandosi in essi a causa di una certa mutazione, provocata
appunto dall'incontro dell'Io con l'altro. La conoscenza dell'altro costituisce poi la base del pensiero
induttivo: «Da ciò che conosciamo passiamo all'ignoto in base alla somiglianza»46. Ed è in ultima analisi
ancora una volta confermato il principio analogico: è possibile conoscere l'ignoto grazie alla convinzione
dell'analogia del tutto a Dio. Si noti che il discorso può reggere anche se rovesciato: dalla conoscenza del
noto si può conoscere (ciò che si può conoscere di) Dio. E ad un certo punto Campanella è fin troppo
esplicito, ammettendo che «L'analogia conferisce molto al sapere, giacché essa chiarisce secondo la realtà le
denominazioni che non ci sono secondo i termini come si verifica tra le idee e gl'ideati e i segni e le cause e i
loro rapporti, tra la prima bontà e la prima unità, da una parte, e tutte le cose buone e une» 47. Dunque «ogni
ente, per quanto ha di bontà partecipata dalla bontà infinita di Dio, che è l'oggetto dell'amore, tanto ha pure di
amore del proprio essere che è bene, come pensa s. Tommaso, e quanto ha di verità, con cui partecipa ed è
somigliante alla verità ideatrice, tanto partecipa della sapienza colui che conosce Dio come sopra di sé e per
sé, e le altre cose accidentalmente; dunque pure quanto ha di esistenza, che è oggetto della potenza e
partecipazione o imitazione dell'essere divino, tanto ha della potenza, con cui può Dio sopra di sé e sé
essenzialmente e le altre cose accidentalmente, ecc.» 48. Ecco finalmente svelato il vero punto di origine del
pensiero metafisico campanelliano. L'uomo sarebbe essenziato dalle tre primalità solo in virtù dell'analogia
con Dio. I principi dell'essere, del potere e del sapere non sono dunque fondati su un attingimento puramente
metafisico, al quale si giunge dopo aver dubitato di tutto. Dell'analogia dell'uomo all'Ente Primo, in fondo,
Campanella non ha mai dubitato. Ed è questa la prima certezza dalla quale Egli prende avvio nella sua
Metaphysica. Questo risulta evidente anche nel Libro II, dove Campanella chiarisce ulteriormente il discorso
sulle Primalità. La primalità è «ciò da cui l'ente è primieramente essenziato» 49. Le primalità, «essenziando
l'essenza, precedono tutto»50. In realtà, come si è visto, ciò che precede tutto è il principio analogico, sul
quale le primalità poggiano la loro ragion d'essere.
Campanella vuole qui riprendere il procedimento classico di causa e derivazione, sostenendo che «Dalle
principiazioni procedono le cause; dalle cause, in quanto unite, provengono i semi; dal concorso delle cose
provengono le occasioni, regolate mediante la Necessità, il Fato e l'Armonia, che hanno l'influsso dalle
primalità, come la condizione acconcia le cause al causare» 51ed utilizzando tre importanti figure, quali
appunto Necessità, Fato ed Armonia. Queste tre figure - di evidente provenienza mitica - esprimono delle
modalità regolative ed armonizzatrici di tutto il creato. «L'essenziazione è in ultima analisi la costituzione
intrinseca di un ente»52. Ma perché un ente possa costituirsi sono necessarie certe attività che regolino la

45
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 191.
46
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 195.
47
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 235.
48
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 281.
49
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 219.
50
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 219.
51
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 219.
52
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 225.
porzione di negativo e positivo nella lotta dialettica dei contrari. Necessità, Fato ed Armonia, come vedremo
meglio più avanti, svolgono proprio questa funzione.
Campanella giustifica l'entrata in scena i queste tre Influenze Magne ammettendo che «D'altra parte,
l'angelo e la mente umana hanno ricevuto una esistenza più vicina al primo ente, seppure fuori di esso.
Dunque hanno ricevuto limitate le primalità e l'unità; quindi un'unità mista di essenza e di esistenza. Gli enti
che sono più lontani per dissomiglianza, e non per luogo, hanno incarnate nei corpi tali Primalità e non
egualmente partecipate. Tuttavia esse sono presenti in tutti gli enti [...]. Inoltre gli oggetti di entrambe le
primalità sono l'esistenza e la non-esistenza, ossia: delle prime il possibile e l'impossibile, delle seconde la
verità e la falsità, delle terze il bene e il male; da esse si sono effuse nel molteplice delle cose le Influenze
magne: Necessità e Contingenza dalla potenza e dall'impotenza, Fato e Fortuna dalla sapienza e
dall'insipienza, Armonia e Disarmonia dall'amore e dal disamore» 53. Le Influenze Magne si comportano
dunque come veri e propri principi regolatori. È Dio stesso dunque, attraverso le Influenze Magne, a rendere
possibile un opportuno equilibrio delle primalità positive e negative. Ma l'aspetto più interessante di questa
seconda parte è senza dubbio costituito dal completo disvelarsi del meccanismo teoretico del Campanella. Il
Domenicano afferma significativamente: «Tutte le cose, che sono partecipazione di un ente, da esso hanno di
essere simili, in quanto sono nello stesso tempo simili anche ad esso; inoltre la somiglianza ci conduce alla
conoscenza delle cose simili; esse infatti, in quanto simili, sono un'unità; e chi sa l'uno, sa pure le cose une;
inoltre esiste pure la dissomiglianza tra i simili in quanto molti; la conoscenza del simile si compie con la
conoscenza del simile solo in quanto conosciamo quanta e quale distinzione esso abbia» 54. Stupisce davvero,
dopo aver letto queste affermazioni, notare come nessun critico abbia messo adeguatamente in evidenza tale
meccanismo fondamentale, a prescindere dal quale risulta impossibile comprendere gli sviluppi teoretici del
pensiero campanelliano, soprattutto, come vedremo, in ambito teologico e politico.
In primo piano c'è sempre il rapporto tra Ente Primo e realtà creata. È questo il nocciolo di tutto
l'argomento.
Il Domenicano afferma per esempio che «da lui [Dio] fluiscono in tutte le cose l'unità, l'entità, la bontà, la
verità»55. Questa immagine conferma una sorta di tensione cosmica: tutto il creato, essendo strutturalmente
costituito ad immagine di Dio, dovrà poi tendere naturalmente a Lui. Nel suo svolgimento il discorso
metafisico ripete sostanzialmente una acquisizione fondamentale, quella della creazione: è da questa
convinzione che Campanella prende avvio nel suo argomentare. E sempre a questa convinzione è legata la
problematica molteplicità degli Enti: «Però donde è il molteplice? Non dalla forma, perché essa è una; non
dalla materia, perché una; dunque dalla composizione; ma perché la composizione è varia? Per la contrarietà
delle cause attive, come si è detto, e anche perché alcune cose hanno materia, altre non l'hanno; e queste si
avvicinano più o meno alla prima idea e costituiscono una gerarchia secondo la propria partecipazione
dell'ente e del non-ente»56. La dialettica unità/molteplicità trova dunque la sua espressione nel concetto di
composizione. Dalla diversa composizione di primalità positive e negative scaturiscono tutti gli enti nella loro
diversa posizione e gradazione nella scala degli esseri. Al solito è dunque il concetto di con-partecipazione
cosmica il vero fulcro della metafisica campanelliana. Riepilogando: all'inizio lo Stilese aveva presentato
delle carte truccate: Metaphysicarum rerum iuxta propria dogmata, aveva esordito nell'intestazione. E così
nel Proemio voleva fondare una scienza metafisica in base ai propri principi. Curiosamente questi erano già
dati per presupposti: Dio ci parla attraverso due codici, non sempre gli interpreti di questi codici si sono
mostrati attendibili, è dunque necessaria una scienza che trascenda la fisica 57. Nessuna scienza tratta di tutte
le cose come sono, ma solo come appaiono e sono per noi 58. Aristotele non ci ha lasciato una metafisica,
bensì una logica. «Pertanto ci siamo prefissi di costruire una nuova metafisica» 59, aveva solennemente
affermato, annunciando che nella prima parte avrebbe assicurato e fondato la conoscenza umana, nella
seconda avrebbe indagato sui principi metafisici delle cose ovvero sulle «primalità costituenti l'ente e il non-
ente»60, mentre nella terza avrebbe trattato «dell'origine e del fine del mondo» 61. «Dunque nella prima Parte i
principi del sapere; nella seconda i principi dell'essere; nella terza Parte i principi dell'agire, in quanto sono

53
T. Campanella, Metafisica, cit., pp. 227-229.
54
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 231.
55
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 231.
56
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 245.
57
Cfr. Proemio.
58
Cfr. Proemio, p. 91.
59
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 97.
60
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 97.
61
Ibidem.
dall'ente primo, sapientissimo e provvidente, che è Dio [corsivo mio]»62. Le primalità costituiscono dunque
la struttura del Mondo in quanto sono dell'Ente Primo, che è Dio. Ma solo nel Libro II è del tutto evidente la
natura analogica del procedimento campanelliano: «Tutte le cose nell'universo sono enti, veri, buoni, uni, in
base all'essere, alla verità, alla bontà, all'unità, che è Dio [corsivo mio]; da sé, in quanto da sé, sono nulla; e
di fatto sono da Dio. Certamente, non vi è rapporto fra la creatura, finita, e Dio infinito, bensì rapporto tra la
creatura, come ente e vera e buona ecc., e Dio come ente, buono, uno ecc.; in quanto sono, le creature gli son
simili, e ne risulta un rapporto e una somiglianza analoga nei loro riguardi, quale si trova tra le ali
dell'uccello e i remi della nave, e l'ala è il remo dell'uccello, così diciamo che le nature delle cose sono
partecipazione della deità, e la deità è le nature delle cose causalmente ed eminentemente, dice il
Trismegisto63»64 . La struttura metafisica si basa dunque non su dogmata propria, ma sulla presupposta
analogia del Cosmo all'essere di Dio. Campanella ha evidentemente giocato con carte truccate. Non era vero
che «metaphysicus [...] nihil praesupponit, sed omnia dubitando perquirit». Per di più, si noti che il
Domenicano - ammettendo la vera natura del suo procedere - è costretto a richiamarsi ad Ermete
Trismegisto. Certamente non si tratta di un caso.
L'interpretazione del Di Napoli65 e del Negri sono dunque frutto o di una grossolana svista o di una forse
eccessiva fede nei reali intenti del pensatore di Stilo. Il problema speculativo del Campanella non era quello
di rifondare il cristianesimo in vista di una rivoluzione cattolica e teocratica - come frettolosamente si è
creduto pensando alla Città del Sole. Campanella non è affatto uomo della Controriforma, come da più
interpreti è stato forse troppo frettolosamente affermato. Lo Stilese aveva piuttosto di mira la fondazione di
una nuova universalis philosophia che servisse a preparare e a guidare la renovazion del secolo. La
metafisica campanelliana intendeva certo combattere l’aristotelismo, riprendendo la tematica presocratica del
caldo e del freddo, quella platonica delle idee e della partecipazione, quella neoplatonica dell'uno, del mondo
mentale e del partecipazionismo, ma tutto in funzione del ritorno alla mitica età dell'oro. Lo sforzo
sotterraneo era quello di unire cristianesimo purificato e filosofia ermetica, dando vita ad una fede filosofica
che si presentasse come superamento di entrambi.
Smascherato questo gioco con carte truccate vediamo ora come lo Stilese risolve il secondo problema.
Come avevamo già notato, in questo quadro teo-cosmologico la difficoltà principale viene dalla
differenziazione: come distinguere ontologicamente Dio e Mondo? Per questo è necessario passare per un
istante al Libro V della Metaphysica.
Nel Capitolo I di questo libro Campanella esordisce affermando che «Ciò che totalmente è non subisce
alcuna nullità, e solo esso è infinito ed immortale; invece le cose, che sono in certo modo, soggiacciono al
nulla nella loro composizione, e quindi per sé sono finite e mortali» 66. Come si era già visto in Bruno, la
prima differenza tra Dio ed enti creati emerge dunque sul piano dell'infinità. Il concetto viene ripetuto,
arricchito, poche righe più avanti: «Ciò che totalmente è, è necessariamente sempre; infatti la sua essenza
consiste solo nell'essere, assolutamente; quindi non può venir meno né da parte di sé, perché può essere, sa di
essere e vuole essere sempre, né da parte di altro, perché ciò che totalmente è non ammette l'altro; se infatti
ci fosse l'altro, allora ciò che totalmente è ente non sarebbe tale, bensì ente in certo modo, giacché gli
mancherebbe l'entità dell'altro, per causa del quale può venir meno; così al caldo manca l'entità del freddo,
per causa del quale può avvenirgli di non essere. Invece ciò che è in certo modo, non necessariamente è
sempre, bensì in un certo tempo e in un modo particolare, giacché la sua essenza non è di assolutamente
essere, bensì anche di non essere; se infatti la sua quiddità o natura o essenza fosse da sé lo stesso essere,
essa sarebbe sempre»67. Campanella si sta muovendo in un'area pericolosa, di confine. E se ne rende conto.
La prima affermazione è che Dio si differenzia dal Mondo anzitutto sul piano dell'essere: Dio è totalmente e
assolutamente, mentre gli enti sono limitatamente e particolarmente, «in un certo tempo e in un modo
particolare». Il rischio è quello di concedere che Dio sia allora quell'Ente capace di esser tutto e
contemporaneamente, all'infinito. Molto facile - e questo è il pericolo avvertito da Campanella - è
confondere allora Dio con la Totalità del Cosmo considerato nella sua infinita produzione e variazione di
forme (come in parte aveva fatto Giordano Bruno). Campanella cerca di limitare il rischio precisando: «ciò
che e in certo modo è finito e limitato ad un certo genere di ente; [...] quindi mancano ad esso le entità degli
altri generi di essere; quindi non è il primo; quindi dipende dal primo; quindi ad esso posteriore; quindi una
62
T. Campanella, Metafisica, Libro I., cit., p. 99.
63
Cfr. Asclepius, in Corpus hermeticum, a cura di Nock e Festugière, Parigi, 1945, p. 323.
64
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 251.
65
Da questo punto di vista non riusciamo a capire in base a che cosa il Di Napoli abbia potuto tranquillamente affermare: «Sta di fatto che la metafisica campanelliana, al
di là di un giudizio di merito, ha inteso essere la nuova ed unica metafisica cristiana [...]» (Cfr. T. Campanella, Metafisica, cit., Introduzione, p. 53).
66
T. Campanella, Metafisica, Libro VI, cit., p. 5.
67
T. Campanella, Metafisica, Libro VI, cit., p. 5.
volta non fu; quindi una volta potrà non essere. Similmente è necessario che esso sia circondato da altri enti e
sia limitato da essi o dai non-enti; dunque la sua essenza non è di essere totalmente, bensì in certo modo;
laddove ciò che totalmente è contiene e abbraccia le entità di ogni genere; a sua volta esso non può venir
abbracciato dal nulla, [...]. Quindi è necessario che quell'ente sia senza misura; quindi infinito; quindi
immortale, come dicevamo, e immenso. Parimenti, esso è ingenerato. Infatti da che cosa esso avrebbe potuto
venir generato, se nulla è fuori di esso, ed esso è tutto, e la sua natura è di essere, e quindi di mai non essere
stato?»68. La differenza ontologica tra Ente Primo ed enti secondi si prefigura come diversa gradazione di
limitazione esterna e di configurazione spazio-temporale. Lo sblocco dell'aporia dovrebbe giungere a questo
punto dall'introduzione di una nuova categoria: la generazione. L'Ente Primo si dovrebbe allora differenziare
dal Mondo anzitutto perché ingenerato. Tuttavia Campanella non può non concedere uno spazio preciso alla
cosmologia ermetica, affermando subito dopo che «oltre a ciò che totalmente è, vi sono molti enti di un certo
modo, cioè oltre a Dio vi sono il cielo, la terra, il caldo e l'animale, ecc., i quali non sono lo stesso Dio, né
l'uno è l'essenza dell'altro; tuttavia lo stesso Dio è tutte queste cose, perché la sua natura è ogni natura
[corsivo mio] e il suo nome è ogni nome, come attesta il Trismegisto, cioè cielo, terra, caldo, pietra ecc. in
quanto queste cose hanno essere e perfezione; però vengono negate di Dio in quanto importano non-essere e
imperfezione, come afferma S. Dionigi»69. Si noti come anche in questo luogo, emergendo con forza
particolare il meccanismo dell'analogia, Campanella non può non citare il Trismegisto. Lo Stilese non riesce
insomma a sbloccare questa situazione di stallo. Anche il tentativo di affiancare S. Dionigi ad Ermete
Trismegisto mostra tutta l'insicurezza di questa zona, caratterizzata da una evidente aporia. L'Ente Primo si
dovrebbe presentare come Generante, il Mondo come generato. Tuttavia permane - anche se adombrata -
l'idea di Dio come somma infinita di tutti gli enti particolari («... la sua natura è ogni natura»), e questo pone
evidentemente delle difficoltà sul piano della trascendenza. Dio comprenderebbe in sé ogni natura:
Campanella non si pronuncia però - almeno in questo luogo - sulla natura di tale avvolgimento. Siamo sul
piano cosmologico o su quello delle idee - metafisico? In quale senso la natura di Dio è ogni natura? Questa
descrizione appare a mio giudizio difficilmente conciliabile con l'insegnamento ortodosso del tempo. E si
tratta di una difficoltà certamente ben avvertita anche dall'Autore. Tra Dio e Natura c'è un legame troppo
stretto, sospetto: non dimentichiamo che Giordano Bruno veniva arso al rogo proprio per aver fatto
coincidere - a livello cosmologico - l'infinità di Dio con quella dei mondi innumerabili. Campanella cerca in
tutti i modi di precisare la sua posizione, aggiungendo e specificando che Dio «non è un tutto, perché
avrebbe parti, giacché tutte le parti sono finite e quindi non possono essere componenti dell'infinito» 70. Non
riesce tuttavia ad essere convincente. Neppure riesce a convincere il suo discorso sull'infinito. Perché mai
parti finite non potrebbero comporre l'infinito? Poco dopo Campanella cerca di spiegarsi al meglio: le parti
dell'infinito non possono essere infinite perché la parte non può essere uguale all'intero 71. Questa obiezione
gli servirà a livello cosmologico nella sua distinzione tra Dio e Universo. L'Universo, proprio in quanto
costituito da parti non sarà infinito. L'infinito è dunque una categoria applicabile solo a Dio. Questo
dovrebbe essere sufficiente per tener ben distinti - sul piano ontologico - Generante da generato. Giordano
Bruno, di fronte a questa stessa problematica, aveva optato per la soluzione più semplice e coerente: esistono
differenti tipi di infinito, assoluto e relativo. L'infinità di Dio è assoluta, quella del mondo relativa.
Campanella nega invece con vigore questa ipotesi, affermando che «non può darsi un infinito più grande
dell'infinito, né più di un infinito, né un infinito divisibile»72. Evidentemente, lo Stilese non vuole
sovrapporre i due piani del discorso di Bruno: l'infinità in potenza appartiene all'Universo, mentre quella in
atto è esclusiva di Dio. Non solo. Neppure la categoria di infinito potenziale sembra applicabile all'Universo:
questo, in quanto costituito da parti, non può mai essere infinito. Si tratta di una conclusione che Campanella
ritiene ben fondata, e sufficientemente forte per fugare ogni dubbio: l'infinità differenzia nettamente
Universo e Dio.
L'avvicinamento delle tesi ermetiche sulla divinità della natura si dimostra dunque assai difficoltoso, e
Campanella sembra rendersene perfettamente conto. Il Domenicano cerca infatti una soluzione prima sul
piano della infinità, poi su quello della generazione e della autonomia. Il discorso si presenta tuttavia
incompleto e tutto sommato non sufficientemente convincente. Anche questo è un segnale molto forte delle
difficoltà incontrate in questo tentativo incredibile: coniugare cristianesimo ed ermetismo. Campanella si
rende conto che non è comunque possibile eliminare dal mondo il carattere dell'infinità (l'universo non è

68
T. Campanella, Metafisica, cit., pp. 5-7.
69
T. Campanella, Metafisica, Libro VI, p. 7.
70
Ibidem.
71
T. Campanella, Metafisica, p. 7 libro VI
72
T. Campanella, Metafisica, Libro VI, p. 7.
copia sbiadita di Dio). Anche questo problema viene apparentemente superato con l'introduzione di una
categoria negativa dell'infinito e con l'attenzione posta al tema del divenire: «gli enti finiti sono composti di
ente finito e di non ente infinito, cioè dall'affermazione e dalla negazione; perciò divengono» 73.
Paradossalmente, è il non-ente che sostituisce - negativamente, per sottrazione - il carattere dell'infinità
nell'Universo. Questo risulta evidente anche dal tema delle primalità che - nel Mondo - sono appunto anche
negative.
Il Capitolo V vede appunto porsi in primo piano il trattato delle Primalità. Campanella esordisce
affermando che «ciascuna cosa è perché lo può, e come e quando può. La potenza è principio costitutivo
dell'ente; l'atto la potenza passiva o attiva o operativa si riducono alla potenza dell'ente» 74. In realtà, come al
solito, la ragionevolezza delle primalità viene desunta da una serie di esempi fisici, del tutto naturali.
Campanella non riesce dunque a sganciarsi dal vero termine del problema: il rinnovamento cosmico, del
Mondo nella sua totalità. In questo è ancora una volta evidente quello che ho voluto definire, semplicemente,
principio analogico.
Per ora vorrei ricordare che si è insistito così a lungo sul concetto di analogia perché su di esso si basa tutta
la struttura politica e teologica dell'argomentare campanelliano che andremo esaminando. Una riflessione:
forse soprattutto nello stile espositivo Campanella si avvicina all'ermetismo. Il suo modo di esporre i risultati
conseguiti è degno della migliore tradizione ermetica: la sua tecnica consiste nel variare e nell'indicare più
che nel dire esplicitamente. Sta al Lettore avvicinarsi o allontanarsi dal contenuto teoretico del discorso più
profondo. In questo senso è possibile sostenere che la Metafisica ed alcune Poesie campanelliane richiamano
direttamente il fantastico De umbris idearum di Giordano Bruno, dove l'attenzione è posta sul mistero
dell'ombra. Paradossalmente, è questa umbratilià che possiamo conoscere, non l'Idea. Anche Campanella,
nei suoi "Quis intelliget?" lascia intravedere questa possibile soluzione: la ricerca può e deve avere di mira
l'ombra che riflette l'Idea, non l'Idea in sé stessa. La Verità in quanto tale è umanamente e razionalmente
irraggiungibile. Ma lo specchio della verità, il suo velo (che è il Mondo) indica chiaramente e ripete nella sua
varietà di immagini i contenuti dell'Assoluto. Ecco il vero significato della concezione del Mondo inteso
come statua di Dio. Ecco spiegato l'amore mai offuscato per il Cosmo - divino - ed il profondo desiderio di
una ri-adeguazione cosmica all'Assoluto trascendente. È forse superfluo notare che siamo di fronte ad una
spiegazione mitica del mondo e - parallelamente - ad un utilizzo delle categorie fondamentali del mito delle
origini per consolidare il progetto di rinnovamento cosmico e sociale.
A questo proposito è bene anticipare che Campanella - nella sua concezione mitica del tempo - si allontana
dalla concezione ermetica di tipo radicale.
Giordano Bruno, il mago ermetico più radicale del suo tempo, aveva adottato con passione la concezione
mitica dell'eterno ritorno. Bruno amava firmare le sue lettere con il Sigillo di Salomone: «Quid est quod est?
Ipsum quod fuit...». In questa concezione dovrebbero ritrovarsi molti elementi del mito greco dell'eterno
ritorno, del resto completamente assorbito dalla tradizione ermetica. M. Eliade aveva opportunamente
ricordato che «il mito dell'eterna ripetizione, come è stato reinterpretato dalla speculazione greca, ha il senso
di un supremo tentativo di "statizzazione" del divenire, d'annientamento della irreversibilità del tempo.
Poiché tutti i momenti e tutte le situazioni del cosmo si ripetono all'infinito, la loro evanescenza si rivela in
ultima analisi come apparente; nella prospettiva dell'infinito, ogni momento e ogni situazione restano fermi e
acquistano così il regime ontologico dell'archetipo. Quindi, fra tutte le forme del divenire, anche il divenire
storico è saturo di essere» (M. Eliade, Il mito dell'eterno ritorno, cit., p. 159). Per Campanella, invece,
l'approccio alla concezione del tempo si struttura secondo una diversa interpretazione mitica. La città
perfetta è situata alla fine dei tempi, ma è necessario costruire nel Mondo e nel tempo (che ormai volge alla
fine) un embrione della perfezione futura. Campanella, al contrario di Bruno, non accetta una visione
circolare del tempo. La sua concezione del tempo è infatti tutta basata sul mito dell'escatologia. Ancora una
volta, è M. Eliade a ricordare che «Nel suo De Monarchia Hispanica (1600) Tommaso Campanella
supplicava il re di Spagna di finanziare una nuova crociata contro l'Impero Turco e di fondare, dopo la
vittoria, la Monarchia Universale. Trentotto anni dopo, nell'Ecloga destinata a Luigi XIII e ad Anna
d'Austria, per celebrare la nascita del futuro Luigi XIV, Campanella profetizza ad un tempo la recuperatio
Terrae Sanctae e la rennovatio saeculi. Il giovane re conquisterà tutta la Terra in mille giorni, atterrando i
mostri, cioè sottomettendo i reami degli infedeli e liberando la Grecia. Maometto sarà cacciato dall'Europa;
l'Egitto e l'Etiopia ritorneranno cristiani, i Tartari, i Persiani, i Cinesi e tutto l’Oriente si convertiranno. Tutti i
popoli formeranno un'unica cristianità e questo Universo rigenerato avrà un solo centro: Gerusalemme. "La
Chiesa - scrive Campanella - è iniziata a Gerusalemme e a Gerusalemme ritornerà, dopo aver fatto il giro del
73
T. Campanella, Metafisica, Libro VI, p. 33.
74
T. Campanella, Metafisica, Libro VI, pp. 61-63.
mondo". Nel suo trattato La prima e la seconda resurrezione, Tommaso Campanella non considera più,
come san Bernardo, la conquista di Gerusalemme come una tappa verso la Gerusalemme celeste, ma come
l'instaurazione del regno messianico»75. Le osservazioni di Eliade restano fino ad ora insuperate. Con pochi
tratti lo studioso rumeno aveva saputo cogliere con limpida chiarezza la profonda fonte di ispirazione del
Domenicano. È questa concezione escatologica del tempo a suggerirgli l'instaurazione della Città del Sole,
embrione terreno della città celeste. La Città terrestre aveva il compito di preparare l’avvento di quella
divina. Il mito, nella sua forma temporale, costituisce il substrato della filosofia della storia campanelliana.
«La religion è natural ritorno a Dio» aveva scritto nel memoriale a Paolo V. Società civile, religione
riformata e purificata dai soprusi, cosmologia e filosofia della storia fondata su basi mitiche costituiscono
insomma la struttura ideologica della nuova era. È questo il tema del libro XVI della Metafisica. Lo stesso
ecumenismo del Campanella trova la sua giustificazione nell'ansia profonda di una renovatio universale,
come vedremo. L'escatologia campanelliana è tutta orientata al rinnovamento cosmico, al ritorno e al
ripristino della mitica età dell'oro. La Città del Sole, come vedremo meglio più avanti, non rappresenta
insomma solo un'idea di Stato ideale, come molti autori (tra i quali perfino l'attenta F. A. Yates) hanno
frettolosamente concluso. Si tratta di una anticipazione della città divina di imminente instaurazione,
annunciata da molte profezie astrologiche. Nella Metafisica lo sforzo del Domenicano è appunto quello di
offrire una convincente base teoretica per l'instaurazione del nuovo mondo, della nuova città terrestre,
anticipazione di quella divina. La nuova era deve strutturarsi in base ad un rinnovamento esteriore, delle
leggi e dei costumi, della società civile nel suo complesso, ma anche e soprattutto sul piano della ragione e
della fede, nell'intimità degli uomini. Per questo Campanella si sforzerà in modo quasi ossessivo di mostrare
la perfetta coerenza tra l'esplicazione della ragione universale contenuta nella Natura creata e quella
contenuta nella Scrittura rivelata. Tra Natura e Ragione, così come tra Natura e Religione si deve re-
instaurare un rapporto di analogia, di adequatio. Non è possibile gettare le fondamenta della Città celeste a
prescindere dalle precise indicazioni rivelate dal codice naturale, dal mago-astrologo profondamente
interpretato.
In questo senso era necessario operare un ridimensionamento delle principali tesi ermetiche, al fine di
rendere cristianesimo ed ermetico amore-studio-padroneggiamento della natura perfettamente compatibili.
Proseguendo l'analisi della Metafisica sarebbe possibile rilevare ancora in parecchi punti la centralità del
concetto di Natura, investito dalla importanza ermetica attribuita all'uomo e alle sue magiche possibilità.
Troveremo conferma di queste impostazioni nel De sensu rerum et magia ma anche nella stessa Theologia,
dove compariranno alcuni passi interamente dedicati a questo tema. Ritenendo sufficienti i passi già citati,
credo sia possibile concludere l'analisi del discorso metafisico osservando che anche a questo livello è
possibile considerare come profondamente unitario tutto lo svolgimento del pensiero campanelliano. In esso
- a ben vedere - non si presentano né pentimenti né soluzioni di continuità. Piuttosto, la complessità degli
elementi eterogenei che di volta in volta vengono utilizzati dal Domenicano dovrebbe far pensare non ad una
serie ininterrotta di ripensamenti, conversioni e pentimenti, ma, al contrario, ad uno sforzo realmente
impegnativo, mai abbandonato ed anzi sempre protetto dalle ben conosciute metodiche persuasive
dell'Inquisizione romana.
I restanti libri della Metafisica possono essere re-interpretati alla luce di queste osservazioni. Tutto
sembrerebbe confermare l'intenzione campanelliana di fondo: la fondazione metafisica e religiosa per un
ritorno alle origini, per una rinascita antropologica che riporti l'uomo all'intimo contatto con il Mondo, con la
Natura, e quindi con Dio. L'umanità deve tornare all'Età dell'oro: è questa l'idea di fondo, anche in sede
metafisica.
A questo proposito sarà poi necessaria l'analisi del discorso "naturalista", di quello "teologico" e
"ierocratico e politico", partendo dalla fondamentale idea del Mondo inteso come Libro di Dio. Per questo
concentreremo la nostra attenzione su opere fondamentali come il De sensu rerum et magia, la Fisiologia
italiana (Epilogo Magno) e la nota Città del Sole.
In seguito, in fase conclusiva, faremo emergere ancora una volta la centralità del nesso iniziale Natura-
Religione in sede teologico-politica, richiamando alcuni passi fondamentali della Teologia e delle Opere
politiche del Frate di Stilo.

75
M. Eliade, Mito e realtà, cit., pp. 213-214
Il Libro eterno

Come abbiamo intravisto, uno dei nodi centrali di tutta la discussione teologico-politica campanelliana è
costituito dal rapporto tra Dio e Natura (Mondo). Più avanti vedremo come la stessa struttura teoretica del
discorso campanelliano sia tutta mirata a coordinare la razionalità presente nella Natura alla buona
organizzazione della società umana. Per ora, teniamo presente questo dato: Campanella sostiene in molti
luoghi che Dio indirizza l'uomo attraverso la Natura, presentando in essa un codice naturale capace di
rendere accessibili tutti i princìpi necessari alla salvezza e alla giusta organizzazione sociale. Ma che cosa
rappresenta la Natura per il pensatore di Stilo?
Uno degli assunti fondamentali di questa ricerca è che Campanella esprime ancora - per molti aspetti - il
sentire e il vedere del Rinascimento. Ricorderò allora che R. Guardini ha giustamente sottolineato che nel
Rinascimento «il concetto di Natura esprime [...] qualcosa di supremo, al di là del quale non si può risalire.
[...] Essa è il "Dio-natura" ed oggetto di religiosa venerazione. Viene lodata come creatrice, saggia e benigna.
Essa è la "madre natura" a cui l'uomo si abbandona con confidenza assoluta. Ciò che è naturale è quindi
sacro e religioso ad un tempo»76.
Ma è possibile anche una seconda ipotesi. La Natura può essere concepita come una ripetizione finita, una
immagine, della divina bontà. La natura rappresenta anche l'ombra di Dio. Se Plotino aveva colto l’aspetto
deteriore di questa struttura metafisica, l'ermetismo aveva finito con il rivalutare a tal punto la natura da
considerarla parte del divino. In quanto indicatrice e portatrice dell'immagine divina, anche la natura è non
solo sacra, ma viva della vita di Dio. Più avanti approfondiremo adeguatamente questi concetti.
Per Campanella la Natura è il libro di Dio, un libro messo a disposizione dell'uomo al fine di garantirgli
una rivelazione (appunto: naturale) più accessibile, una «legge di natura» chiara ed affidabile per tutti
(indipendentemente da una successiva Rivelazione personale di Dio). In questa concezione, magia ed
astrologia giocano evidentemente un ruolo di primo piano a livello gnoseologico, religioso (non a caso un
intero libro della Theologia, il XIV, sarà significativamente intitolato Magia e grazia77) e politico. Da qui
emerge il legame - per Campanella fondamentale - tra ars magico-astrologica e ars politica. Anche per lo
Stilese, come già per Bruno, la magia rappresenta sia un metodo per accostarsi al divino sia un metodo per
avvicinare e guidare le potenze della natura (che Dio ha messo a disposizione dell'uomo) sia un metodo per
indagare il futuro, in vista di una premeditata azione politico-riformatrice. La renovatio mundi, tema
fondamentale della filosofia politico-teologica campanelliana si basa appunto sulla fede per la magia naturale
e per l'astrologia. Sempre non a caso Campanella sosterrà che «la più grande azione magica dell'uomo è dare
leggi agli uomini»78. Ma andiamo con ordine.
Abbiamo prima soltanto sfiorato una delle immagini più belle della concezione naturalistico-cosmologica
campanelliana: la Natura (Mondo) vista come libro di Dio. A tal proposito Eugenio Garin aveva sostenuto
che «Il tema del liber experientiae, del "libro del mondo", del "libro della natura", del liber scriptus intus et
foris, è costante nel Medioevo, da Giovanni Scoto Eriugena ad Alano di Lilla, da San Bonaventura a
Raimondo di Sabunda. Nel Campanella, tuttavia, colpisce la precisa caratterizzazione dell'antico motivo:

Il mondo è il libro dove il Senno Eterno


Scrisse i propri concetti, e vivo tempio
Dove, piangendo i gesti e 'l proprio esempio,
Di statue vive ornò l'imo e 'l superno;
Perch'ogni spirito qui l'arte e 'l governo
Leggere e contemplar, per non farsi empio,
Debba, e dir possa: - Io l'universo adempio
Dio contemplando a tutte cose interno79.

76
R. Guardini, La fine dell'epoca moderna, Morcelliana, Brescia, 1984, pp. 40-41.
77
Magia e grazia - Inediti - Theologicorum Liber XIV (a cura di R. Amerio), Istituto di Studi Filosofici, Roma, 1957.
78
Del senso delle cose e della magia, a cura di A. Bruers, Laterza, Bari, 1925, p. 318.
79
T. Campanella, Tutte le opere, ed. Firpo, I, Milano, 1954, p. 18 (Cfr. Le poesie, ed. Gentile, Firenze, 1939, p. 30, n. 1).
Il libro, qui, rinvia all'altra immagine del teatro del mondo, della idea che il mondo offre e squaderna agli
occhi del contemplante [...]»80. Lo stesso Garin ricorda poi un altro passo, nel quale Campanella sostiene che
«il mondo è libro e tempio di Dio, e [...] in lui si deve leggere l'arte divina e imparare a vivere in privato e in
pubblico e indirizzare ogni azione al Fattor del tutto»81.
Certo Garin ha perfettamente ragione nel mettere in evidenza questa significativa analogia. Io credo però
che il Campanella, pur conoscendo bene la tradizione medievale e la sua immagine del libro della natura, in
questo caso risenta maggiormente dell'influenza dell'ermetismo, come già era successo per il suo confratello
domenicano Giordano Bruno.
Un (a mio parere) evidente rincorrersi di temi e motivi che - opportunamente con-fusi con aspetti ortodossi
della fede cattolica - caratterizza tutto l'arco della produzione campanelliana dovrebbe ampiamente
confermare questa tesi.
Leggiamo infatti nel Del senso delle cose e della magia:
«Il mondo, dunque, tutto è senso e vita e anima e corpo, statua dell'Altissimo, fatta a sua gloria con potestà,
senno e amore. Di nulla cosa si duole. Si fanno in lui tante morti e vite che servono alla sua gran vita. Muore
in noi il pane, e si fa chilo, poi questo muore e si fa sangue, poi il sangue muore e si fa carne, nervo, ossa,
spirito, seme, e pate varie morti e vite, dolori e voluttadi; ma alla vita nostra servono, e noi di ciò non ci
dolemo, ma godemo. Così a tutto il mondo tutte cose son gaudio e servono, e ogni cosa è fatta per lo tutto e il
tutto per Dio a sua gloria. Stanno come vermi dentro all'animale tutti gli animali dentro al mondo, nè si
pensano ch'egli senta, come li vermi del nostro ventre non pensano che noi sentemo e abbiamo anima
maggiore della loro, nè sono animati dalla comune anima beata del Mondo, ma ciascuno della propria, come
li vermi in noi, che non han la mente nostra per anima, ma il proprio spirito [...]. Il Mondo è statua,
immagine, Tempio vivo di Dio, dove ha dipinto i suoi gesti e scritto li suoi concetti, l'ornò di vive statue,
semplici in cielo, e miste e fiacche in terra; ma da tutte a Lui si cammina. Beato chi legge questo libro e
impara da lui quello che le cose sono, e non dal suo proprio capriccio, e impara l'arte e il governo divino, e
per conseguenza si fa a Dio simile e unanime, e con lui vede ch'ogni cosa è buona, e che il male è respettivo
e maschera delle parti che rappresentano gioconda commedia al Creatore, e seco gode, ammira, legge, canta
l'infinito, immortale Dio, Prima Possanza, Prima Sapienza e primo Amore, onde ogni potere, sapere e amore
deriva et è e si conserva e muta, secondo li fini intesi dalla commune anima, che dal Creatore impara e l'arte
del Creatore nelle cose innestata sente, e per quella ogni cosa al gran fine guida e muove, finché ogni cosa
sarà fatta ogni cosa e mostrerà ad ogni altra cosa le bellezze dell'eterna idea» 82.
Campanella crede - non certo ingenuamente - di poter mimetizzare le proprie intenzioni rifacendosi a Santa
Brigida, Sant'Antonio, San Bernardo e San Giovanni Crisostomo:
«Dio [...] ci parla in due maniere, cioè o producendo le cose stesse o rivelando alla maniera umana, come fa
il maestro con gli allievi. Quando Dio crea le cose, crea un codice vivo lo arricchisce, in modo che noi
impariamo osservandolo; perció è stato detto da s. Brigida che il complesso delle cose, che noi chiamiamo
mondo, fu una volta chiamato sapienza di Dio; s. Antonio e s. Bernardo e s. Giovanni Crisostomo chiamano
il mondo codice di Dio; e invero è così, perché in esso Dio ha scritto tutti i suoi pensieri ed esprime la sua
parola. Pertanto nulla vi è nel mondo che none esprima qualche cosa di nascosto come idea nella mente di
Dio»83.
E di seguito:
«Il dire e lo scrivere di Dio sono il suo produrre, mentre quello nostro è un chiarire quel che è un fare a mo'
di rappresentazione, come quando creiamo favole che esprimeremmo in maniera effettuale, se noi fossimo
eguali a Dio. Noi leggiamo ed impariamo questo codice attraverso i sensi esterni; e da molte sensazioni si ha
la memoria, che è conservazione di sensazioni anticipate; dalle memorie si ha l'esperienza. Constatando coi
sensi che qualche cosa è spesso così, come che il rabarbaro purifica la bile in Pietro e in Martino, si dice di
noi che abbiamo l'esperienza; da ciò otteniamo il principio dell'arte, che è l'accumulo di molte esperienze, ai
fini di regole universali. Di queste diciamo che non sono mai vere, se non vengono convalidate dai sensi; e
quando dimentichiamo o dubitiamo, ricorriamo di nuovo al senso, consultando il codice di Dio, per vedere se
sia cosí, o no»84.
Quindi (concetto che verrà ripreso nella introduzione della Metaphysica),

80
E. Garin, La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Bompiani, Milano, 1994, p. 452.
81
T. Campanella, Tutte le opere, ed. Firpo, I, Milano, 1954, p. 14.
82
Del senso delle cose e della magia, a cura di A. Bruers, Laterza, Bari, 1925, pp. 330-331. Cfr. anche Tommaso Campanella, a cura di G. Di Napoli, in «Grande
Antologia Filosofica Marzorati», pp. 1489-1490.
83
T. Campanella, Metafisica, op. cit. p. 79.
84
T. Campanella, Metafisica, op. cit. p. 81.
«Non ogni uomo [...] è degno di fede, come non lo è il nostro occhio miope o giallo. Colui che non soffre
quindi di passioni interne, come l'invidia, l'odio, l'ambizione, l'avarizia [...] è idoneo a leggere [...] il libro di
Dio»85.
Al lettore attento non sfuggirà certo che qui il Campanella non si sta affatto collegando (come vorrebbe far
credere) a tematiche cattolico-ortodosse sulla purezza dell'anima e dei sensi, ma al De magia e al De vinculis
dell'eretico confratello Giordano Bruno (che ovviamente lo Stilese si guarda bene dal nominare
direttamente), dove si descrive la struttura della scala naturae e come il Mago debba liberarsi dei suoi
vincoli interiori per poter vincolare a sé la Natura e gli uomini 86. Esplicitamente, nel Proemio della
Metafisica Campanella aveva chiarito che
«In altro modo parla Dio quando rivela ai suoi servi cose occulte, o sul piano naturale o sul piano
soprannaturale, che il senso non conosce, se non in parte o debolmente, nelle cause o nei segni o negli effetti,
e quando scopre i suoi arcani con una rivelazione al senso esterno o nell'interiore spirito o nella mente, che
da lui abbiamo ricevuta; e tale sapienza non è opinativa, bensì testimoniante e assolutamente degna di
fede»87.
In questo modo lo Stilese mirava chiaramente ad elevare il senso interno (quell'intimo contatto con la
Natura che in Bruno si era fortemente colorato di tinte magico-panteistiche) al rango di conoscenza certa,
incontrovertibile, perché ottenuta da una comunicazione diretta con la scala dell'essere, con il dispiegarsi
della divina Rivelazione. Questo, come abbiamo visto, crea dei problemi sul piano dell'oggettività di tale
sapere:
«Che tale oracolo sia necessario alla perfezione del sapere anche nelle scienze riguardanti la natura, è stato
insegnato non solo dalla scuola degli ebrei e dei cristiani e di tutti i legislatori, bensì da Pitagora, da Socrate e
da Platone nel Timeo. Ma siccome moltissimi nel mondo si gloriano di aver ricevuto da Dio la religione e la
rivelazione, come Mosè, Davide e i profeti che lo seguono, gli Apostoli di Cristo, Minosse, Numa,
Maometto, Amida, Zamolxide, Simon Mago ed altri, conseguentemente occorre vedere a chi fra essi si debba
prestar fede. Evidentemente, chi è inviato da filosofi ha note filosofiche, mentre chi è inviato da Dio ha note
divine. Giacché fra essi alcuni vengono ingannati dal diavolo e insieme sono ingannatori, come Maometto;
altri ingannano e non sono ingannati, come Pitagora e Zamolxide e forse Numa, in quanto finsero di godere
del colloquio con gli dèi, affinché le loro leggi fossero venerabili per i popoli; altri poi non sono ne ingannati
né ingannatori, bensì legati di Dio; se infatti Dio esiste ed ha cura degli uomini, necessariamente egli dà ad
essi la legge e i profeti, senza di cui la vita umana (come attestano Socrate e Salomone) fluttuerebbe
nell'incertezza; essi ricevono da Dio segni miracolosi soprannaturali, che gli altri uomini e la natura stessa
non possono compiere, sibbene solo Dio. Considera in essi: 1) se sono da magia divina o naturale o
diabolica, come esamineremo; 2) Dio dà il sigillo che è il martirio: se l'inviato infatti ritiene ciò che predica
profezia, e su di essa esamineremo se ciò che essa predice si verifichi, e se sia divina o naturale o diabolica
[...]»88.
Campanella mescola abilmente le carte: a volte - quando crede che sia più opportuno un ragionato e
calibrato atteggiamento di prudenza - non lascia trasparire immediatamente il suo pensiero. Così ripeterà
questo atteggiamento simulando la pazzia ed evitando la fine sul rogo (quella stessa fine che Bruno non
seppe o non volle evitare). Ma al lettore esperto ed interessato a questi temi non doveva certo sfuggire il
rinvio alle tematiche bruniane sulla suddivisione delle arti magiche (del resto comunemente accettate in
alcuni circoli intellettuali fino a Settecento inoltrato) 89. Anche l'immagine del libro-Natura, così come quella
del Mondo-statua di Dio, adottata sia dal Bruno che dal Campanella, è per molti aspetti identica a quella
caratteristica dell'ermetismo90. Una delle prime conseguenze di questa concezione è il contatto diretto
85
T. Campanella, Metafisica, op. cit. p. 83.
86
Cfr. G. Bruno, De Magia e De vinculis in genere, a cura di Albano Biondi, Edizioni Biblioteca dell'Immagine, Pordenone, 1986.
87
T. Campanella, Metafisica, op. cit. pp. 85-87.
88
T. Campanella, Metafisica, op. cit. p. 87.
89
Nel De magia Bruno aveva specificato che «Prima di trattare della magia, come di qualunque altro soggetto, è necessario suddividere i significati del nome; infatti ci
sono tanti significati di "magia" quanti tipi di maghi. "Mago" va inteso in primo luogo come sapiente: tali erano i Trismegisti in Egitto, i Druidi presso i galli, i
Gimnosofisti in India, i Cabalisti presso gli ebrei, i Maghi in Persia (che provenivano da Zoroastro) , i Sofisti in Grecia, i Sapienti presso i latini. In secondo luogo "mago"
è assunto come qualcuno che compie cose ammirevoli con la sola applicazione degli attivi e dei passivi, come avviene nella medicina e nella chimica, a seconda del genere;
e questa è la magia naturale comunemente intesa. In terzo luogo è magia quando accompagnano l'operazione circostanze tali che ne risultano opere di natura o intelligenza
superiore, atte a suscitare l'ammirazione con l'apparenza; e questa è la specie che viene chiamata magia prestigiatoria. In quarto luogo è quella che viene dalla capacità di
antipatia e simpatia delle cose, ad esempio da quelle che respingono, trasformano ed attraggono [...]. In quinto luogo e quando a queste capacità si aggiungono parole,
canti, calcoli di numeri e di tempi, immagini, figure, sigilli, caratteri o lettere; anche questa è magia, intermedia fra quella naturale e quella extra- o sovrannaturale, che si
designerebbe propriamente come magia matematica e più adeguatamente ancora col nome di filosofia occulta. In sesto luogo si ha magia se al genere descritto si aggiunge
il culto o l' invocazione di intelligenze ed efficienti esterni o superiori, con preghiere, consacrazioni, incensi, sacrifici, determinati comportamenti e cerimonie indirizzati a
Dei, demoni ed eroi; accadendo ciò a volte al fine di concentrare lo spirito in se stesso, [in modo da divenirne] il contenitore e lo strumento, così da apparire sapiente [...]. E
questa magia è trasnaturale o metafisica, e si chiama, propriamente, teurgia [...]» (G. Bruno, De Magia e De vinculis in genere, a cura di Albano Biondi, Edizioni
Biblioteca dell'Immagine, Pordenone, 1986, pp. 5-7).
90
Cfr. A. Benigni, Il concetto di Infinito nei Dialoghi metafisici di Giordano Bruno, Parma, 1994.
dell'uomo con Dio che la Natura permette e facilita, ed una più o meno radicale divinizzazione dell'uomo e
del creato. Ulteriori momenti sono la credenza nell'immortalità dell'anima umana e di tutti gli esseri (tutti
viventi, essendo il mondo stesso un grande animale dotato di senso, sentimento e anima). Mentre per Bruno
la divinizzazione dell'uomo si ottiene soprattutto per una presa di coscienza, tutta interiore, per una sorta di
intima unione con l'Essere che la Natura sprigiona, per Campanella l'uomo riscopre il suo essere divino, la
sua divina dignità, solo ri-conoscendo Dio attraverso la Natura e modificando quindi il Mondo (e la società
umana che vive in esso) seguendo le indicazioni divine (che il Mondo stesso contiene, in un codice naturale
che solo il Mago-filosofo può decifrare e sottomettere con il consenso divino).
Entrambe queste concezioni, bruniana e campanelliana, non sono altro che due conseguenze, diverse e
simili al tempo stesso, dei presupposti teoretici dell'ermetismo.
Nel Corpus Hermeticum, tradotto ed introdotto nei circoli filosofici italiani da Ficino, ad un certo punto la
Mens, rivolgendosi ad Ermete, asserisce che «Tutto è pieno di anima, e tutte le cose sono in movimento». È
questo il nocciolo centrale della credenza ermetica, che permetterà al Campanella di coordinare, per quanto
possibile, cristianesimo e magia.
Nel Corpus Hermeticum, ad Ermete (si tratta ovviamente dell'Ermete Trismegisto della tradizione
Rinascimentale) che domanda «Chi ha creato queste cose?» la Mens risponde:
«Il Dio-Uno, perché Dio è Uno. Tu vedi come il mondo è sempre uno, il sole, uno; la luna, una; la divina
attività, una; anche Dio è Uno. E poiché tutto vive, e anche la vita è una, Dio certamente è Uno».
Risposta dalle forti tinte neoplatoniche, che, proseguendo, si fa via via più interessante, presentando diversi
spunti eraclitei ai quali attingerà anche e soprattutto il Bruno:
«[...] È per opera di Dio che tutte le cose vengono in essere. La morte non è la distruzione degli elementi
collegati in un corpo, ma la rottura della loro unione. Il mutamento si chiama morte perché il corpo si
dissolve, ma io ti dichiaro, mio caro Ermete, che così si dissolvono sono soltanto trasformati» 91.
Il passo viene poi ripetuto, ampliato, nel dialogo successivo del Corpus Hermeticum, il XII:
«L'intelletto, o Tat, deriva dalla sostanza stessa di Dio [...]. Anche il mondo è un dio, immagine di un dio
più grande. Unito a questo, e osservante l'ordine e la volontà del Padre, esso è la totalità della vita [corsivo
mio]. Non c'è niente in esso, per tutta la durata del ritorno ciclico [corsivo mio] voluto dal Padre, che non sia
vivo. Il Padre ha voluto che il mondo viva fin quando conservi la sua coesione: dunque, il mondo è
necessariamente dio. Come può essere, allora, che in ciò che è dio, che è l'immagine del Tutto, ci siano cose
morte? Infatti la morte è corruzione, la corruzione è distruzione, ed è impossibile che alcunché di Dio possa
essere distrutto.
Ma non muoiono nel mondo gli esseri viventi, o Padre, sebbene siano parte del mondo?
Taci, figlio mio, perché tu sei indotto in errore dalla denominazione del fenomeno. Gli esseri viventi non
muoiono, ma, essendo corpi composti, si dissolvono; e questa non è morte, ma la dissoluzione di un
miscuglio. Se si dissolvono non è per andare incontro alla distruzione ma a un rinnovamento. Che cos'è
infatti l'energia della vita? Non è movimento? E che cosa c'è nel mondo che sia immobile?
Niente.
Ma almeno la terra non sembra immobile?
No. Al contrario, sola fra tutti gli esseri essa è soggetta ad una moltitudine di movimenti, ed è insieme
stabile. Sarebbe assurdo supporre che questa nutrice di tutti gli esseri sia immobile, essa che dà nascita a tutte
le cose, perché senza movimento è impossibile generare. Tutto ciò che è nel mondo, senza eccezione, si
muove, e ciò che si muove è anche vivo. Contempla dunque il bel sistema del mondo, e vedi che è vivo, che
tutta la materia è piena di vita [corsivo mio].
Nella materia c'è dunque Dio, Padre?
E dove potrebbe essere posta la materia, se esistesse al di fuori di Dio? [...] Le energie che operano in essa
sono parti di Dio. Sia che tu parli di materia, o di corpi, o di sostanza, sappi che queste sono energie di Dio,
di Dio che è il Tutto. Nel Tutto non c'è niente che non sia Dio. Adora queste parole, figlio mio, e rendi ad
essa culto»92.
Grazie alle traduzioni di Marsilio Ficino (fondatore dell'Accademia platonica fiorentina) e ai dotti bizantini
che portarono in Italia, alla fine del XV secolo, testi neoplatonici poco noti o del tutto sconosciuti, le
tematiche esoteriche ebbero una notevole diffusione, il cui riflesso è percepibile anche nella letteratura e
nelle arti figurative. I filosofi (ma anche molti religiosi) rinascimentali ritenevano che esistesse
un'ininterrotta tradizione di pensiero (appunto religioso e filosofico), inaugurata da Ermete Trismegisto (il
91
Corpus Hermeticum, Paris, 1945 et 1954. Vol I, XI, p. 147-57, texte établi par A.D. Nock et traduit par A.J. Festugière, pp. 147-57; Marsilio Ficino, Opera omnia,
Basiela, 1576 (due volumi con numerazione progressiva), pp. 1850-2 (Tutto il brano e le indicazioni bibliografiche sono state tratte da F. YATES, Giordano Bruno e la
tradizione ermetica, Laterza, Bari, 1992, p. 45).
92
Ibidem. Cfr. anche A. Benigni, Il concetto di Infinito nei Dialoghi metafisici di Giordano Bruno, Parma, 1994, p. 51 e seguenti.
mitico Thot, divinità egiziana) in un imprecisato periodo dell'antichità egizia e fatta propria in epoche diverse
da pensatori ispirati quali Orfeo, Mosè, Pitagora, Platone, Plotino, Giamblico, etc. 93.
G. Scalici ha opportunamente ricordato che «I punti salienti di tale tradizione possono essere così
sintetizzati:
- assoluta perfezione del principio divino (alcuni trattati ermetici insistono sulla sua trascendenza; altri
offrono una visione di tipo panteistico);
- cosmo inteso quale esplicazione, in forme visibili, della divinità;
- esistenza di un'Anima del mondo capace di vivificare, organizzandola, la materia, e di determinare il
divenire degli enti, le loro trasformazioni, le loro interazioni; caduta dell'uomo da una situazione originaria
di perfezione;
- primato dell'anima individuale sulla materia del corpo;
- agire umano finalizzato al ritorno presso la sfera divina» 94.
Scalici ricorda anche che «Questi temi, secondo il Ficino, non sono antitetici al pensiero cristiano, il quale,
anzi, rappresenterebbe l'autentico compimento della tradizione ermetica. Lo stesso Campanella, anche sulla
base di questo precedente, si riteneva un pensatore ortodosso, facendo per giunta proprie tesi e metodologie
riconducibili alla Magia ed all'Astrologia»95.
Queste discipline, operanti come - per usare l'espressione di Garin 96 - «rigoglioso sottobosco» rispetto alla
più raffinata teologia neoplatonica, ne rappresentavano il momento pratico-operativo: tutto è animato; esiste
una precisa corrispondenza fra il Macrocosmo - l'universo - e il Microcosmo - l'uomo - il quale, attraverso
determinati riti e operazioni può volgere a proprio favore le leggi della Natura. L'uomo, dunque, è parte
organicamente collegata al tutto cosmico che è armonia e bellezza, come andavano sostenendo, in età
rinascimentale, filosofi, letterati, artisti ed anche uomini di scienza. Sarà proprio la centralità di questa
concezione a permettere al Campanella di sostenere la necessità di una conoscenza naturale in campo
politico, e a rendere inaccettabile il preteso ridimensionamento della Città del Sole (sostenuto da molti
critici) ad esperimento fantasioso-letterario. Campanella credeva e continuò a credere fino alla fine dei suoi
giorni nella intima corrispondenza fra Macro e microcosmo, nella magia e nell'astrologia. Non bisogna
dimenticare che l'ultimo suo scritto è appunto costituito da una predizione basata sull'astrologia 97.
Ora è importante rilevare che il concetto di corrispondenza tra Macro e microcosmo si fonda in ultima
analisi sull'armonia e sulla scala naturale: le rivoluzioni planetarie e le grandi congiunzioni fanno parte di
questa armonia e legge eterna, rendono possibile una ascesa naturale ed un avvicinamento a Dio. Per
Campanella - come per Bruno e gli ermetici - le vicende terrene sono dominate da influssi astrali e segni
celesti. Pur non negando la presenza nell'uomo del libero arbitrio, Campanella sostiene che
«Non ci è uomo sì grosso in terra che non si accorga che la generazione, la corrozione, le stagioni
dell'anno, i mutamenti dell'aria, del mare e della terra, vengono dalli due luminari e dalle stelle [...] è forza
dire che nelle stelle Dio pose le leggi e ordini di quanto avviene tra le creature corporali. Dunque, quelle cose
che si mutano, e noi l'attribuiamo alle cause di qua giù, non si devono a queste solo attribuire, ma più alle
cause celesti prima, e poi all'altre e a tutto il concorso del mondo e consenso suo universale» 98.
In realtà nelle opere del Campanella le tematiche ermetiche emergono quasi ovunque (grazie anche alla
loro affinità con le dottrina cristiana, che lo Stilese di fatto non volle mai completamente abbandonare). Così,
ad esempio, nelle Poesie Filosofiche, troviamo il Madrigale n. 5, nel quale si legge:

93
Cfr. a questo proposito il bel paragrafo di introduzione a La "Città del Sole" di Campanella e il pensiero utopistico fra Cinquecento e Seicento, a cura di G. Scalici, op.
cit.
94
Cfr. La "Città del Sole" di Campanella e il pensiero utopistico fra Cinquecento e Seicento, a cura di G. Scalici, op. cit. pp. 16-17.
95
La "Città del Sole" di Campanella e il pensiero utopistico fra Cinquecento e Seicento, a cura di G. Scalici, op. cit. 17.
96
Cfr. E. Garin, Lo zodiaco della vita, Laterza, Roma-Bari, 1982, p. 60; e Medioevo e Rinascimento, Laterza, Bari 1973, p. 160.
97
A questo proposito Gernmana Ernst ha ricordato che «Nel gennaio del 1639 [veniva] data alle stampe - ultima composizione poetica campanelliana - l'Ecloga latina
scritta in occasione della sospirata nascita del Delfino di Francia, il futuro Luigi XIV. Già il titolo, con l'allusione alla 'mirabile natività' e ai vaticini che ad essa fanno
riferimento, ci avverte che la Musa ispiratrice dell'autore attinge largamente a due fonti a lui particolarmente care: l'astrologia e la profezia. Secondo una testimonianza
contemporanea, all'indomani del felice evento Campanella sarebbe stato convocato alla corte e su richiesta della regina avrebbe compilato il tema di nascita del Delfino,
ricavandone uno stringato, ma acuto pronostico: "Il bambino sarà lussurioso come Enrico IV, e molto superbo. Regnerà a lungo, anche se con durezza, ma felicemente; la
fine sarà infelice, e ci sarà una grande confusione nella religione e nel regno". La successiva Ecloga - prosegue la Ernst - si viene così a configurare come la traduzione
poetica di un vero e proprio oroscopo, e ciò risulta particolarmente evidente nella seconda parte del carme, in cui l'autore, dopo aver tratteggiato a grandi linee le
caratteristiche fisiche e spirituali del futuro sovrano, ne prospetta le tappe fondamentali della vita, dal matrimonio alle vittorie militari alla riunificazione religiosa, alla luce
delle direzioni planetarie più significative. Al motivo astrologico si salda strettamente quello profetico. Prefigurato dalle stelle e da una lunga sequela di vaticini, questi è
l'eroe destinato a dar compimento alle più appassionate aspettative di un generale rinnovamento politico e religioso, a realizzare il secolo d'oro [corsivo mio] e a edificare
la città del sole, in cui, cacciate le frodi, l'empietà e la tirannia, potranno infine regnare la giustizia e l'amore comune [...]. Non stupisce - sottolinea giustamente Germana
Ernst - che negli ultimi versi campanelliani, accanto ai convincimenti più tenaci e ai temi più cari, siano presenti motivi astrologici, che costituiscono la nervatura stessa
dell'Ecloga. L'attenzione per l'astrologia è infatti una costante nelle opere di Campanella, che dopo giovanili posizioni di scetticisrno assai vicine a quelle dell'ultimo Pico,
si accostò con profondo interesse a tali dottrine, cercando di separarne gli aspetti conformi alla natura e all'esperienza da quelli più compromessi con la 'superstizione' degli
Arabi» (G. Ernst, Religione, Ragione e Natura. Ricerche su Tommaso Campanella e il tardo Rinascimento,., pp. 19-20).
98
T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, cit., IV, p. 19.
Come le piante al suolo; i pesci all'acque,
le fiere all'aria e li splendori al sole
han sì continovate99
le vite, che, staccate,
si svanisce il vigor, riman la mole100:
così al Senno Primo unito nacque,
come è bisogno e quanto
per conservarsi, ogn'ente
con più o manco luce;
e, da lui svélto, ignora, muore e mente:
né si anullando e variando manto101,
quel che può, si riduce102,
come ogni caldo al sole, al Senno santo103.

Commentando e spiegando questa sua poesia, lo Stilese aggiunge:


«Tutti gli enti sono uniti al Primo Ente [corsivo mio], come gli splendori al sole, però tanto quanto bisogna
a loro il senso per vivere: onde più e meno luce ricevono; e, da quella staccati, divengon bugiardi, ignoranti e
annicchilati nell'esser ch'e' hanno; e, quando muoiono, non s'annullano, ma variano forma, e sempre si
riducono all'essere, ché fuor dell'essere non possono andare [corsivo mio]. E, come il calor torna al sole,
così il sapere d'ogni ente contende tornar al Primo Senno, onde deriva. Quis intelliget?»104.
L'unione a Dio (il Primo Ente) è naturalmente possibile solo in virtù della catena dell'essere, della scala
naturae di bruniana memoria. Non è possibile non notare una fortissima analogia concettuale e formale con
il passo sopra ricordato, tratto dal Corpus Hermeticum. Ma anche nel Sonetto intitolato Del Mondo e sue
parti105 viene ripresa la stessa immagine:

Il mondo è un animal grande e perfetto,


statua di Dio, che Dio lauda e simiglia:
noi siam vermi imperfetti e vil famiglia,
ch'intra106 il suo ventre abbiam vita e ricetto.
Se ignoriamo il suo amor e 'l suo intelletto,
ne il verme107 del mio ventre s'assottiglia108
a saper me, ma a farmi mal s' appiglia:
dunque bisogna andar con gran rispetto.
Siam poi alla terra, ch'è un grande animale
dentro al massimo109, noi come pidocchi
al corpo nostro, e però110 ci fan male
Superba gente, meco alzate gli occhi
e misurate quanto ogn' ente vale:
quinci imparate che parte a voi tocchi.

«In questo sonetto - spiega il Campanella - [si] dichiara che l'uomo sia, come il verme nel nostro ventre,
dentro il ventre del mondo; e alla terra, come i pidocchi alla nostra testa; e però non conosciamo che 'l
mondo ha anima e amore, come i vermi e gli pidocchi non conoscono per la piccolezza loro il nostro animo e
senso; e però ci fan male senza rispetto. Però ammonisce gli uomini ch'e' vivano con rispetto dentro il

99
continovate: legate.
100
la mole: la materia.
101
e non annullandosi, ma mutando il manto, l'aspetto esterno.
102
si riduce: ritorna.
103
Opere Letterarie di Tommaso Campanella, a cura di Lina Bolzoni, Utet, Torino, p. 135.
104
Opere Letterarie di Tommaso Campanella, a cura di Lina Bolzoni, Utet, Torino, p. 135.
105
Opere Letterarie di Tommaso Campanella, a cura di Lina Bolzoni, Utet, Torino, p. 109. Le note sono a cura di L. Bolzoni.
106
intra: (lat.) dentro - ricetto: riparo, dimora.
107
Se ignoriamo che il mondo è dotato di senso e di amore, siamo come il verme che...
108
s'assottiglia: si sforza, si impegna.
109
al massimo: al più grande animale che è il mondo.
110
e però: per questo, perché non ci conoscono.
mondo, e riconoscano il Senno universale e la propria bassezza, e non si tengano tanto superbi, sapendo
quanto piccole bestiuole e sono»111.
L'eracliteo divenire si traduce qui in un concetto di morte profondamente estraneo a quello del
cristianesimo. Come per Bruno, per Campanella non è possibile uscire dalla catena dell'Essere, da Dio
(perché altrimenti Dio sarebbe limitato dal non-essere, e non sarebbe quindi infinito). Ovviamente questo
concetto crea dei problemi per l'affermazione della trascendenza di Dio. Trascendenza per altro affermata
saldamente dallo Stilese in molti luoghi. Anche questo è un segno della difficoltà contro cui si batte
Campanella nel suo tentativo di conciliare ermetismo e cristianesimo per offrire solide basi concettuali alla
rennovazion del secolo.
L'unica possibilità è - secondo l'insegnamento di Ermete Trismegisto - che la morte sia apparente, almeno
nel mondo corporeo. L'ironico «Quis intelliget?», lasciato come sospesa conclusione alla fine del commento
al Madrigale n. 5, potrebbe forse significare un esoterico indicibile, indicare un messaggio nascosto. Può
darsi - mi si conceda questa ipotesi - che il Campanella non abbia voluto chiaramente esprimere per scritto
l'idea del divenire (infinito): «Tutti gli enti sono uniti al Primo Ente...». Esplicitamente, Campanella sembra
non voler affrontare il problema. Ma come è possibile che tutti gli Enti siano uniti a Dio? E come si può dare
una tale catena al di fuori della infinità? Sono domande alle quali il Campanella non vuole o non riesce a
dare il peso dovuto (come invece aveva fatto Giordano Bruno, optando per una radicale infinitizzazione
dell'universo).
In ogni caso, Campanella, da buon mago ermetico (ma non radicalmente ermetico, come fu invece il
Bruno), giunge presto alla convinzione che l'universo sia un animale dotato di senso e sentimento. La natura
è viva, animata e sensibile. Questo concetto - deve aver pensato Campanella - riesce ad essere inserito nel
quadro ortodosso. Anche qui è possibile notare una perfetta corrispondenza tra Macrocosmo e Microcosmo.
Tale corrispondenza giustifica e fonda l'affidabilità dei princìpi insegnati da Madre Natura e la nuova dignità
assegnata all'uomo: una dignità appunto divina. La stessa idea di dignità umana trova la sua giustificazione
nel concetto di legame ed analogia del creato al primo Ente.
Inteso come statua viva di Dio, il Mondo è dunque il mezzo attraverso il quale Dio parla agli uomini,
utilizzando il codice della Natura, mentre sul piano del soprannaturale ci sono le Scritture: Natura e Scrittura
sono dunque i due codici fondamentali del sapere112.
Giustamente, quindi, nella sua introduzione alla Metafisica, il Di Napoli sosteneva che «come l'animale,
anche il mondo può essere considerato un organismo o complesso eterogeneo di parti e di funzioni; e quindi
anche il mondo possiede una sua anima: anima del mondo»113.
Le immagini che emergono dalle rappresentazioni campanelliane - e si tratta di un dato che deve far
riflettere - possono esser facilmente accostate alle descrizioni di Bruno. In particolare, ai passi del Del senso
delle cose e della magia, appena ricordati, andrebbero avvicinati quelli del De la Causa, dove Bruno scrive:
«non vedete voi che quello che era seme si fa erba, e da quello che era erba si fa spica, da che era spica si fa
pane, da pane chilo, da chilo sangue, da questo seme, da questo embrione, da questo uomo, da questo
cadavero, da questo terra, da questa pietra o altra cosa, e cossì oltre, per venire a tutte forme naturali? [...]
Bisogna dunque che sia una medesima cosa che da sé non è pietra, non terra, non cadavero, non uomo, non
embrione, non sangue o altro; ma che, dopo che era sangue, si fa embrione, ricevendo l'essere embrione;
dopo che si fa embrione, riceva l'essere uomo, facendosi omo: come quella formata dalla natura, che è
soggetto de la arte, da quel che era arbore, è tavola e riceve l'esser tavola; da quel che era tavola, riceve
l'esser porta ed è porta»114.
Al di sotto del concetto di Natura intesa come libro di Dio, animale vivo dotato di senso e amore, si colloca
dunque una precisa concezione cosmologica, carica di elementi eterogenei. Ho già mostrato altrove come la
credenza nell'Anima Mundi sia uno degli elementi fondamentali dell'ermetismo radicalmente professato e
divulgato in mezza Europa dal Bruno115. Ora, non deve sorprendere che una delle primissime accuse rivolte
al Campanella sia proprio quella di aver creduto nell'Anima del Mondo.
In effetti, Campanella subisce una prima condanna per aver creduto nella animazione della terra e per aver
diffuso, con il De sensitiva rerum facultate (operetta dal titolo assai significativo), concetti eretici (a livello
sia cosmologico che teologico). Ho già ricordato come in uno scritto fondamentale come il De sensu rerum
(scritto che lo Stilese si preoccuperà di citare ripetutamente, anche - paradossalmente - a prova della sua

111
Opere Letterarie di Tommaso Campanella, a cura di Lina Bolzoni, Utet, Torino, p. 109.
112
Cfr. Tommaso Campanella, "Filosofia Universale ovvero Metafisica secondo i propri principi", a cura di G. Di Napoli, Zanichelli, Bologna, p. 39.
113
Cfr. G. Di Napoli, Introduzione a Metafisica, cit., p. 39.
114
Ibidem.
115
Cfr. A. Benigni, Il concetto di Infinito nei Dialoghi metafisici di Giordano Bruno, Parma, 1994.
ortodossia, e che cercherà con ogni sforzo di far stampare, anche dopo il 1603 116) il Campanella scrive senza
timore interi capitoli con questi toni:
«Il mondo [...] tutto è senso e vita e anima e corpo, statua dell'Altissimo [...]. Si fanno in lui tante morti e
vite che servono alla sua gran vita. Muore in noi il pane, e si fa chilo, poi questo muore e si fa sangue, poi il
sangue muore e si fa carne, nervo, ossa, spirto, seme, e pate varie morti e vite, dolori e voluttadi [...]. Il
Mondo è statua, imagine, Tempio vivo di Dio, dove ha dipinto li suoi gesti e scrittoli suoi concetti» 117.
Nella stessa Teologia, l'opera più «ortodossa», lo Stilese sostiene che Dio è dappertutto, che appunto
«omnia mundi membra divina sunt»118, e molti altri passi dello stesso tenore sono reperibili in quasi tutte le
opere del Nostro.
Giustamente, G. Reale e D. Antiseri hanno dunque osservato che «Le cose, secondo Campanella, parlano e
comunicano fra loro immediatamente»119.
Da parte mia, credo che queste osservazioni vadano portate alle loro estreme conseguenze. Per Campanella
il Mondo è immagine, tempio di Dio solo in virtù di una profonda loro somiglianza, di un loro ideale
collegamento. Si tratta di un concetto molto simile alla bruniana scala naturae. Anche in Campanella l'uomo
è in grado di attingere i princìpi primi della filosofia e della religione (quindi della politica e della teologia)
direttamente dalla Natura, dalla mitica Madre Terra. Non ci dovremo dunque sorprendere se, all'interno della
sua particolare interpretazione del Cristianesimo compaiono elementi eterogenei, dal naturalismo
all'ermetismo, alla fede spregiudicata nella magia all'astrologia. Non a caso Giuseppe Scalici ha definito il
pensiero di Campanella anzitutto come «una forma di sincretismo» 120.
Al Codice della Bibbia, dicevo, il Campanella affianca il codice della Natura.
In questo credo che l'Amerio abbia visto bene, affermando che «La teorica campanelliana dei due codici,
natura e Scrittura, non leva [...] l'eterogeneità della fede e della ragione e il Campanella fa l'esatto registro di
quelle verità che si possono sapere per ragione e di quelle che solo la Rivelazione comunica, concludendo
alla perfetta congruenza delle seconde colle prime. [...]» 121.
In questo quadro andrebbe propriamente collocata ed interpretata la teorica del Cristo come razionalità
universale, che, secondo l'Amerio, costituisce la chiave del pensiero campanelliano e «stringe filosofia e
teologia entro la medesima necessità teoretica» 122.
Il Campanella, come ha osservato G. Scalici, insiste nel concepire la Natura non a partire da astrazioni
metafisiche e schematismi precostituiti, ma secondo una razionalità intrinseca, di cui il Cristianesimo
rappresenta la massima espressione. Lo sforzo di offrire un'immagine nitida ed immediata del Cosmo e della
sua armonia, delle leggi che lo regolano e del complesso di forze che domina ogni essere (sforzo che
senz'altro permane anche nell'elaborazione politica del Campanella, tutta volta alla evocazione di una totalità
organica in sintonia con la Natura), rappresenta non soltanto il punto di partenza del cammino filosofico
dello Stilese, ma si impone come un'acquisizione definitiva. Personalmente, non credo ai sostenitori della
conversione e del pentimento del Domenicano. Al contrario, sono persuaso che sia possibile rintracciare in
tutto lo svolgimento teoretico del suo pensiero una sorta di continuità, di profonda unità di temi e motivi, sui
quali il mito esercita tutta la sua forza persuasiva. Lo stesso riferimento al "senso" come fonte privilegiata
della conoscenza è funzionale a tale mitica visione del mondo. Il Cosmo, nell'ottica campanelliana, non è
affatto inteso quale orizzonte ultimo dell'essere: la totalità di cui facciamo parte è infatti l'immagine di una
dimensione divina: è il grande simulacro di Dio. Non a caso nella Metafisica il Domenicano aveva ribadito
che Dio non può essere un tutto, perché il tutto ha parti, e l'infinito è invece indivisibile. Adesso risulta
chiaro che si trattava di un sottile gioco di parole per convincere il lettore: tra Dio e Mondo c'è, in qualche
modo, differenza, separazione. Il processo imitativo non si struttura sull'identità, ma sul riconoscimento
dell'Alterità e della differenza. In questo senso viene concepito il peccato originale. Ma il nostro filosofo non
si limita a ripercorrere le orme di Telesio: lo stesso Senso delle cose e la magia è caratterizzato da frequenti

116
Il 1603 è - secondo l'Amerio e molti altri critici - l'anno della «conversione» del Campanella. Sul problema della presupposta «conversione» si è sviluppata tra i critici
una lunghissima polemica, che ha visto contrapposti tra di loro anche autori cattolici, come per esempio l'Amerio e il Di Napoli. A riguardo cfr. R. Amerio, Il problema
esegetico fondamentale nel pensiero campanelliano, cit., pp. 370-373; e anche Ritrattazione dell'ortodossia campanelliana, cit., pp. 416-417. Cfr. pure G. Di Napoli,
Tommaso Campanella filosofo della restaurazione cattolica, cit. p. 162. Da notare che anche il Di Napoli fu costretto ad ammettere che «il pansensismo, l'astrologia, la
fisica telesiana furono sempre mantenuti dal filosofo, fino alla morte, insieme alle opere ortodosse che l'Amerio fissa dal 1603», ibid., p. 144. Cfr. anche L. Negri, Fede e
ragione in Tommaso Campanella, cit., pp. 40-41.
117
T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, Ed. Bruers, Bari, 1925, p. 330.
118
T. Campanella, Theologicorum Liber I, Cap. 3, Art. 4, p. 92: «In omni enim re divinitas relucet. Deus ergo ubique est, sicuti anima nostra in toto corpore nostro. Unde
omnia mundi membra divina sunt: proptereaque adorari consueverunt a Gentilibus, quoniam in omnibus est Deus».
119
G. Reale - D. Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, La Scuola, 1983, vol. II, p. 131.
120
La "Città del Sole" di Campanella e il pensiero utopistico fra Cinquecento e Seicento, a cura di G. Scalici, Paravia, Torino, 1992, p. 15.
121
R. Amerio, Il sistema teologico di Tommaso Campanella, Ricciardi, Milano-Napoli, 1972, pp. 9-10.
122
R. Amerio, Il sistema teologico di Tommaso Campanella, Ricciardi, Milano-Napoli, 1972, p. 5. Cfr. anche R. Amerio, Il problema esegetico fondamentale della
filosofia campanelliana nel terzo centenario del filosofo, in «Rivista di filosofia neoscolastica», 1939, pp. 368-87.
allusioni a quella cultura esoterica che tanta parte ebbe nella vicenda del Rinascimento italiano. Sempre G.
Scalici opportunamente ricordava che «L'intuizione cosmica neoplatonica, volta a fare del mondo un grande
animale vivente le cui dinamiche sono regolate dall'azione di ipostasi spirituali, si lega strettamente a
speculazioni e tematiche ermetiche e magico-astrologiche» 123. Si tratta di una osservazione importante,
perché coglie nel centro il problema delle influenze neoplatoniche nella concezione campanelliana della
natura. Parallelamente alla critica della svalutazione neoplatonica del mondo, campanella sembra accettare la
struttura regolatrice del Cosmo, ordinato secondo una serie di Influenze magne. Questa concezione è
strettamente legata anche alla credenza nell'astrologia e nella magia. Come si è già ricordato, Campanella era
convinto che fossero imminenti modificazioni profonde nella storia dei regni e delle religioni, che pure
hanno un oroscopo che ne determina la nascita, lo sviluppo e la morte. Ogni cosa, dunque, ha senso soltanto
se inserita nella grande vita del Cosmo. Questa grande vita, considerata nella sua globalità come nel suo
aspetto microcosmico, subisce gli influssi astrologici e le operazioni del mago. Le Magne Influenze, in
ultima analisi, non sono altro che facoltà magiche attribuite in ultima istanza a Dio.
Per tutta la vita il Campanella praticò la magia cerimoniale che tentò anche di introdurre in ambienti
pontifici. Questo tentativo fu a volte coronato da un parziale successo. In gioventù si era addirittura accostato
alla magia «demonica» allontanandosene, però, in quanto condannata dalla Chiesa e soprattutto in quanto
pericolosa per la salute dell'officiante. Noti sono, poi, i contatti dello Stilese con ambienti «occultisti». A
Napoli, ad esempio, ebbe frequenti discussioni con un rabbino che - a quanto pare - lo iniziò all'astrologia;
ma fu soprattutto vicino al circolo di Giovan Battista Della Porta, autore di un testo assai diffuso all'epoca:
Magia naturalis, sive de miraculis rerum naturalium che intendeva fare della magia una disciplina scientifica
a tutti gli effetti. Campanella ovviamente è in realtà molto lontano dalla tentazione naturalistica e scientifica
del mago Battista. La magia campanelliana è schiettamente filosofica e scientificamente basata solo sulle
regole dell'Oroscopo astrologico. Al solito, la magia è utilizzata come strumento filosofico, comunicativo. Il
livello pratico della magia viene accettato solo per la soluzione dei problemi sociali e politici della comunità.
È evidente che siamo di fronte ad una concezione molto diversa da quella de Bruno, per il quale la magia era
anzitutto uno strumento teurgico, mistico. La magia Campanelliana è più curativa. Si tratta dunque di una
sorta di magia sociale. Questo dato emerge con forza, come vedremo, dall'analisi della struttura di molte
delle Poesie. Per ora ricordo solo che in Campanella la magia assolve anche un compito prettamente
imitativo. È grazie alla imitatio naturae (questa sì, di bruniana memoria) che l'uomo riesce a cogliere nel
mondo tutti gli elementi educativi per la ratio politica. Significativa, a questo proposito, è la poesia intitolata

CHE GLI UOMINI SEGUONO PIÙ IL CASO CHE LA RAGIONE NEL GOVERNO POLITICO, E POCO IMITAN LA
NATURA124.

Natura, da Signor guidata, fece


nel spazio la comedia universale,
dove ogni stella, ogni uomo, ogni animale,
ogni composto ottien la propria vece125.
Finita questa126, come stimar lece,
Dio giudice sarà giusto ed eguale;
l'arte umana, seguendo norma tale,
all'Autor del medesmo127 satisfece.
Fa regi, sacerdoti, schiavi, eroi,
di volgar opinione ammascherati,
con poco senno, come veggiam poi
che gli empi spesso fûr canonizzati,
gli santi uccisi, e gli peggior tra noi
prìncpi finti contra i veri armati.

123
La "Città del Sole" di Campanella e il pensiero utopistico fra Cinquecento e Seicento, a cura di G. Scalici, Paravia, Torino, 1992, p. 16.
124
Cfr. Poesie Filosofiche, in Tommaso Campanella, Opere Letterarie, a cura di L. Bolzoni, Utet, Torino, 1977, p. 123. Note a cura di Lina Bolzoni.
125
la propria vece: (lat. vices) la propria sorte nell'ambito del ciclo delle cose. (Nota di Lina Bolzoni, op. cit. p. 123).
126
finita di questa: questa commedia, ma anche la «vece» di ogni ente (Nota di L. Bolzoni).
127
del medesmo: l'Amerio propone di riferirlo a spazio, del v. 2: «all'Autor dello spazio». Si può anche pensare ad una costruzione di «soddisfare» col genitivo e il dativo :
diede soddisfazione a Dio facendo la stessa cosa. (Nota di L. Bolzoni).
La comedia dell'universo sta pur nella Metafisica128. La politica nostra è di quella imitazione. E spesso
imita falsamente, onde avvengono tanti mali. E Dante disse:

Se 'l mondo sol laggiù ponesse mente


al fondamento che natura pone,
seguendo lui, sarìa buona la gente;
ma voi torcete alla religïone
tal ch'era nato a cingersi la spada,
e fate re di tal ch'è da sermone;
onde la traccia vostra è fuor di strada129.

Dunque, Campanella spiega chiaramente che la politica deve fondare la sua razionalità su un processo
imitativo, naturale. Il governo della società e delle nazioni non può prescindere dalla assimilazione delle
infallibili leggi naturali. Da questo punto di vista riemerge l'importanza del nesso fondamentale cosmologia-
politica. In questa concezione il kòsmos si oppone al chaos, l'ordine della natura al disordine del male. La
legge umana deve fondarsi anzitutto su un processo di imitazione. Il modello è la legge naturale, specchio
delle idee divine. Il primo compito della cosmologia è dunque quello di strutturare il reale preservandolo dal
chaos, dal male. Da qui il legame cosmologia-metafisica, l'utilizzo spregiudicato del sistema analogico.
L'intento è evidentemente quello di strutturare il mondo: ecco perché in Campanella non esiste soluzione di
continuità tra mito e lògos, mito e razionalità. La funzione del mito è in ultima analisi comune a quella del
lògos: comprendere e spiegare il mondo. Il passaggio dall'uno all'altro (in Campanella è appena
percepibile...) non è un passaggio dal mondo delle favole alla Verità della ragione, ma piuttosto tra due
diverse modalità di perseguire lo stesso intento. La Grande Madre Terra, figura mitologica mediterranea,
così come il mito dell'età dell'oro, non sono altro che espressioni della nostalgia per l'infanzia. Ma tutt'altro
che irrazionali. La Terra si presta bene all'immagine dell'oggetto dell'amore/desiderio, anche di Dio, mentre
l'idea di protezione e di beatitudine delle origini (...e della fine) trova un suo riscontro razionale nella
degenerazione dei tempi e nella crisi universale. C’è veramente bisogno di rinnovare il secolo. Per
Campanella il mito non è favola, così come non sono fantasie le predizioni astrologiche e le operazioni del
mago. In un kosmos strutturato secondo criteri analogici non è fuori luogo pensare ad una Terra-madre, che
insegna all'uomo come vivere, e ad una fine dei tempi che vedrà l'instaurazione divina della Città perfetta.
Purtroppo raramente questi temi sono stati adeguatamente studiati. Troppo spesso la critica ha preferito
soffermarsi sul problema dell’ortodossia, quasi come se la soluzione di questo annoso dibattito potesse
contribuire in modo determinante alla chiarificazione dello svolgimento unitario del pensiero campanelliano.
Nicola Badaloni, già nel 1965, osservava con una certa amarezza: «Certa recente storiografia si è sforzata di
presentare il Campanella come "filosofo della restaurazione cattolica"; si tratta di un tentativo di
interpretazione storica che distorce il pensiero di questo grande filosofo italiano, allineando un seguito di
citazioni più o meno abilmente distaccate da ogni riferimento alla concreta situazione storica in cui egli
pensò ed agì»130. Purtroppo si deve ammettere che si tratta di osservazioni tutt'altro che superate. Questo
equivoco, che sopravvive in larga parte della storiografia contemporanea, ha fortemente influenzato
soprattutto lo studio della concezione campanelliana della Natura. Molto spesso la critica ha finito con il
concentrare la propria attenzione esclusivamente al problema dell'ortodossia e del sospetto machiavellismo
campanelliano, perdendo di vista uno dei nodi teoretici più affascinanti, costituito appunto dalla cosmologia
campanelliana. Ma è proprio lo studio della visione cosmologica a permettere l'identificazione della
fondamentale unità del pensiero campanelliano. Non è possibile sostenere che in Campanella esiste frattura
tra cosmologia, teologia e politica (anche dopo il 1603...). La particolare comprensione campanelliana della
natura offre inoltre le giuste chiavi interpretative anche per l'analisi del rapporto tra teologia e politica nel
pensatore di Stilo. La visione cosmologica del Campanella costituisce dunque una possibile chiave di lettura
di tutto il suo pensiero, e si presenta come uno strumento formidabile per una valutazione unitaria, nella
quale gli elementi eterogenei vengono ricollocati nella loro giusta dimensione (... e non superficialmente
ignorati solo perché non rientrano facilmente in un quadro interpretativo ideologicamente preconfezionato).

128
Metafisica: p. III, lib. XV, cap. 2, art. 7.
129
«Se'l mondo ... fuor di strada»: citazione a memoria di Par., VIII, 142-48 (nota di L. Bolzoni).
130
N. Badaloni, Tommaso Campanella, Feltrinelli, Milano, 1965, Introduzione, p. 7.
Lo stesso Badaloni, pensava giustamente che «Chi studia con attenzione la personalità del Campanella non
può non divenire consapevole della continuità di talune sue convinzioni, che egli difende accanitamente ed
eroicamente. Non può esservi dubbio che tale nocciolo di idee (pur nel suo sviluppo) debba avere una sua
organicità e continuità»131. Il nocciolo di idee di cui parla Badaloni è costituito a mio giudizio dal tema
mitico del ritorno all'età dell'oro (renovatio) e da una visione ermetica e cristocentrica ad un tempo, nella
quale convergono una serie di elementi eterogenei tutti coordinati in una magica universalis philosophia,
volta a delineare i princìpi fondatvi della nuova era.
Dall'esame delle religioni positive svolto nell'Atheismus triumphatus solamente il Cristianesimo risulterà
essere la religione positiva che meglio si innesta sulla religiosità naturale. In ogni caso il valore della
religione naturale non verrà mai rinnegato, anzi: sarà la fede cattolica a dover essere purificata dai soprùsi.
«La religion è natural ritorno a Dio»132, aveva affermato il Domenicano: dove l'accento va posto sul
"natural". Non a caso, nella Monarchia Messiae scriverà che «È più naturale per gli uomini esser governati
da uno solo»133; e «Il regno e il sacerdozio si ritrovano ottimamente in uno solo» 134, e «Nella legge naturale
la Paternità, il Principato e il Sacerdozio erano insiem nello stesso soggetto (ibidem). Nel De regno Dei
affermava che «Nè Dio nè la natura promettono o realizzano la pace se non sotto il regime di uno solo. La
pace infatti è il risultato dell'unità [...] è quindi necessario ritornare all'unità» 135. Questi esempi dovrebbero
essere più che sufficienti per introdurre l'analisi della cosmologia stilese.
Costante - in questo quadro analitico - sarà il rapporto tra divinazione e cosmologia. In Campanella è un
preciso sistema di valori a determinare la visione del mondo, ovvero la cosmologia. Da questo punto di vista
è del tutto evidente il nesso che lega astrologia e arti magiche a cosmologia: entrambi i momenti (magico-
astrologico e cosmologico) hanno come oggetto il Mondo inteso come divina Scrittura. Il Mondo è il libro di
Dio. La descrizione del mondo in termini di influssi celesti, Influenze Magne e forze magiche/sensitive
corrisponde anzitutto ad una esigenza analogica: a fondamento dell'essere viene posto Dio, e questo provoca
un indubbio senso di sicurezza. Ancora una volta siamo dunque di fronte ad una spiegazione mitica.
Ora, si deve premettere che la stessa struttura mitica e analogica viene ripetuta - per diretta conseguenza -
sul piano teologico e politico. Questo emergerà dal confronto di alcuni passi di fondamentale importanza,
come vedremo in seguito. Una rappresentazione del mondo in termini di scrittura rende possibile lo sguardo
mitico sul destino e sul compito dell'umanità. Tutta la società civile idealizzata nella Città del Sole si basa in
ultima analisi su questa rappresentazione. L'ordine della struttura sociale ripete - a livello microcosmico -
l'ordine del Mondo. L'idea dell'Universo-libro di Dio si pone alla base di questo procedimento analogico, il
cui fine sembra in ultima analisi essere quello di conferire una certa sicurezza interiore. Imitando Dio
(seguendo la Natura) non si può sbagliare: è questo ciò che pensa il Domenicano.
Proprio questa idea, alla fine, conduce a o prevede una concezione cosmologica di tipo animistico: la
Natura è viva ed animata, dotata di senso. Nel De sensu rerum questo processo è assolutamente evidente, a
partire dalla intestazione dell'opera:

DEL SENSO DELLE COSE


E DELLA MAGIA

PARTE MIRABILE D'OCULTA FILOSO-


FIA DOVE SI MOSTRA IL MONDO ESSER
STATUA DI DIO VIVA E BENE CO-
NOSCENTE, E TUTTE SUE PARTI
E PARTICELLE LORO AVERE
SENSO CHI PIÚ CHIARO
CHI PIÚ OSCURO QUAN-
TO BASTA ALLA CON-
SERVAZIONE LORO
E DEL TUTTO
IN CUI CON-

131
N. Badaloni, cit. p. 34
132
Lettere di T. Campanella, ed. curata da Spampanato, Laterza, Bari, 1927, p. 192
133
Monarchia Messiae, Jesi, 1633, p. 9. Citato in "T. Campanella", a cura di G. Di Napoli, in Grande Antologia Filosofica Marzorati, p. 1504.
134
Ibidem, p. 11
135
Disputationum in quatuor partes suae philosophiae realis libri quator, Parigi, 1637, p. 212
SENTONO
E SI SCUOPRONO LE
RAGIONI DI TUTTI
LI SECRETI DE
LA NATU-
RA.

Il Domenicano precisa ulteriormente: «Ente nullo potere ad altri dare quel ch'egli in sè non ha, da noi
altrove fu provato e a molti è noto, ma l'esperienza ce 'l dimostra troppo, poichè nunqua s'è visto luce far
tenebra, nè calore freddezza, nè la spina allisciare, nè il grave allegerire; e così per tutto si scorge» 136. Ancora
una volta è dal Mondo creato che è possibile stabilire il principio dell'analogia: il simile genera il simile: la
luce non può generare la tenebra. È questo il vero principio che regola la costruzione metafisica dello Stilese.
Alla base del discorso sulle Primalità, si ritrovano infatti degli esempi del tutto fisici, naturali. Ed il seguito
del passo citato è ancora più chiaro: «Or se gli animali, per consenso universale, hanno sentimento, e da
niente il senso non nasce, è forza dire che sentano gli elementi, lor cause e tutte, perchè quel che ha l'uno,
all'altro convenire si mostrarà»137.
L'argomentazione si basa evidentemente sulla analogia tra Ente primo e mondo creato. In questo luogo
Campanella non teme di portare il discorso alle sue conseguenze più radicali: «Sente dunque il cielo e la
terra e il mondo, e stan gli animali dentro a loro come i vermi dentro il ventre umano, che ignorano il senso
dell'uomo perchè è sproporzionato alla loro conoscenza picciola» 138. Le parti animate del grande mondo non
possono dunque considerare l'uomo solo perché la loro facoltà sensitiva è minore di quella umana. La
distinzione è dunque quantitativa e non qualitativa. Il senso è universale, ma distribuito secondo una
intensità diversamente graduata. Alla obiezione secondo la quale il Sole, pur non essendo animale, e
nemmeno vegetale, dà vita agli esseri («Ma dicono: il sole non è animale nè pianta, e fa animali e piante; et è
sottile e nobile e bianco, e pur indura e addensa il luto e immobilita [...]» 139), Campanella risponde con questa
curiosa teoria: «l'animale non è sole, ma terra in cui il sole, operando, spirito produsse fra durezze, di cui,
esalar non potendo, organizzò la mole e fece atta alla vita loro [...]. Talchè la pianta e l'animale hanno spirito,
calore, sottilezza e moto dal sole, e materia dalla terra con l'arte del senso solare figurata; ma non hanno
cosa, però, che non sia nelle cause, benchè non in quel modo ch'è nelle cause. Questo modo vario nasce dalla
mistura e castigo che l'un contrario riceve dall'altro per l'avversità delle azioni delle quali Iddio benedetto
dotò le cause agenti perchè instrumenti fossero di stampar nella materia varii modelli della prima Idea,
perchè si mostri in ogni cosa la bontà di quello. Il che non intende il sole, forse, nè la terra; ma quello sole è
fuoco e questa terra fa mole, e così si debilitano e fan le cose miste con le figure della prima Idea, di cui
instrumenti sono e modelli primi. Ma il senso non è un modello di esistenza come sono l'altre figure, ma cosa
essenziale di ogni attivo valore; il che appresso vedremo. Però il sole sentire, e la terra, è necessario.
Similmente il sole non indura il luto producendo durezza e siccità, ma scoprendo la durezza terrena che
stava, sotto la mollezza dell'acqua, nascosta e mista, poichè di terra, dura per sè, e di acqua molle, composto
è il luto; e il fuoco, agendo, prima converte in fumo e aria, e poi in cielo, l'acqua a sè più simile e manco
resistente all'azion sua, onde la terra resta sola con la siccità propria, la quale pur gran fuoco può liquefare, e
fumo produrre, come nelle fornaci si vede e nelle miniere di sali e di metalli» 140.
La metafisica platonica viene qui adattata in funzione dell'animismo radicale neppure troppo celato.
Campanella ammette che il sole e la terra non sono animali in senso proprio: gli animali sono però costituiti
da una materia terrestre che, plasmata dalla forza solare, si struttura nei vari corpi. Allo stesso modo la
pianta e l'animale hanno spirito, calore, sottiliezza e moto dal sole, ovvero ricevono da esso l'energia vitale.
È ancora una volta dalla lotta dei contrari che emerge la possibilità e lo strutturarsi dell'esistente. Gli enti
terrestri non hanno nulla che non sia già presente nelle cause (in ultima analisi nelle Idee), anche se con varie
modificazioni. Queste modificazioni sono volute da Dio, che dotò le cause agenti perchè instrumenti fossero
di stampar nella materia varii modelli della prima Idea, perchè si mostri in ogni cosa la bontà di quello. La
lotta tra i contrari si pone quindi alla base del sistema fisico del mondo. Questa è anzi voluta da Dio, in
funzione della magnificenza del tutto. In ultima analisi sembra che addirittura la lotta dei contrari riprenda il

136
T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, cit., p. 1
137
Ibidem, p. 1
138
Ibid. p. 2
139
Ibid., p. 2
140
T. Campanella, Del senso delle cose, cit., pp. 2-3.
motivo analogico: si tratta di un mezzo per mostrare come il mondo sia derivato dalle Idee divine. Il sole e la
terra sono dunque strumenti divini che fan le cose miste con le figure della prima Idea, di cui sono appunto
instrumenti e modelli primi.
Il percorso del ragionamento campanelliano è in questo caso duplice: dalla metafisica alla fisica, e dal
mondo fisico a quello delle idee divine. Ancora una volta si può notare il legame strutturale tra metafisica e
cosmologia: legame che apparirà in seguito come funzionale per una tipica idealizzazione utopica e mitica
della realtà.
Anche l'attacco alla teoria lucreziana del senso ripete nella sostanza questa posizione animistica e
spiritualistica «Insorge Lucrezio Epicureo mostrando col suo Democrito che di cose non senzienti il senso
nasca, poichè di non ridenti nè piangenti elementi si fan gli uomini che ridono: e molti consimili esempi
apporta contro Anassagora. E io sto nelle medesime risposte che pur ci sia il riso e il pianto negli elementi,
ma non a quel modo ch'è negli uomini [corsivo mio], perchè il riso è dilatazione di spiriti, e questo dilatare è
nelle cose rare; e il fuoco, quando occasione di conservarsi sente, si dilata e allegra nel suo modo. Il pianto -
prosegue il Campanella - è un costringimento di spiriti che per capire getta fuori l'acqua che sta fra le
membrane e la calvaria della testa, come quando si spreme la terra aquidosa e acqua getta. E ogni cosa
dunque è nelle cause, ma in vario modo»141. Il mondo corporeo è strutturato secondo il principio del con-
senso universale, che si differenzia nei singoli composti solo per modalità di espressione o di recezione, ma
nella sostanza è universale. Si tratta di un punto importante, perché si ricollega all'Epilogo Magno, dove
Campanella aveva sottilmente differenziato l'anima dell'uomo dallo spirito (comune alle cose e agli animali).
Questo meccanismo di differenziazione gli permette di stabilire analogia al primo Ente, compatibilità ed
analogia col Mondo e allo stesso tempo superiore dignità nel creato. È grazie alla teoria del senso universale
che l'uomo rientra a far parte del mondo naturale, e dovrà quindi seguire scrupolosamente le leggi di questo
mondo. Allo stesso tempo, dato che l'uomo è dotato non solo di un senso interno, ma anche di un'anima
superiore, viene prevista la possibilità di una illuminazione angelica, di un attingimento alle cose divine.
Questa possibilità contribuisce a strutturare una antropologia basata sul legame - naturale - dell'uomo a Dio.
Legame che si struttura anzitutto attraverso una intima comprensione dei meccanismi naturali: astrologici,
fisici e dunque - in ultima analisi, anche religiosi e sociali. Lo stesso sentimento religioso fa parte del
patrimonio naturale insito nel cuore di tutti gli uomini: «Ma la mente che Dio all'uomo infonde, non solo ha
questo sensitivo discorso e memoria animale, ma più divino e alto, come poi diremo» 142.
Nella Metafisica Campanella aveva appunto spiegato che «Religio mentis est reverti in Deum, potentia,
sapientia et amore, ex totis viribus, ex tota mente, ex toto corde. Quapropter, cum vires intenderis ad
serviendum Deo, et intellectum ad cognoscendum ipsum et opera eius, et amorem ad amandum ipsum et
omnia opera sua, non propter se, sed propter ipsum, a quo sunt: tunc vere Deo religatur» 143. La religione,
perciò, è un elemento presente nell'uomo per natura, una sorta di fatto primalitativo (come aveva spiegato
Salvatore Femiano144). Infatti: «Homo non modo secreta vi, sed manifesta quoque Deo coniungi cupit, et in
eo beatificari, et si non secundum corpus quia capax non est, saltem secundum animam. Spreto ergo corpore,
de cunctis rebus inquirit, et ad Deum propriam elevat investigationem, ergo in eo beatificandus apparet
aliquo modo excellentiori, quam qui caeteris competit rebus. Studium ergo huiusmodi religio est, vel
religionis naturale fundamentum»145. Si noti però che il Campanella non pone sullo stesso piano la religione
naturale e la religione rivelata: conisdera piuttosto la naturale ma quella come legittimo fondamento della
rivelata. Gli elementi costitutivi della religione naturale sono infatti la credenza nel Dio trascendente e
provvidenziale e, naturalmente, nell'immortalità dell'anima. Ora si deve ancora una volta rilevare il nesso
profondo che una concezione del genere instaura tra struttura umana e struttura naturale. L'uomo infatti è per
Campanella anzitutto un essere sociale che non vive solo per sé. In quanto essere naturale, è anche portatore
di una sua intima religiosità. E qui si innesta ancora una volta il meccanismo della corrispondenza,
dell'analogia: come l'uomo è portatore di una sua intima religiosità, interiore, la società - con la sua gerarchia
e le sue forme di espressione - adotta una religione esteriore, comune. Questa religione esteriore non è altro
che la logica e naturale conseguenza dell'unione civile di tanti uomini religiosi. Da questo meccanismo è
conseguente un duplice livello di regolazione e di ordine: come la religione interiore regola ed indirizza la
vita dell'uomo singolo, così la religione esteriore regola ed indirizza attraverso la gerarchia e le forme
esteriori di culto e di precetti, la vita della società intera.

141
Del senso, cit. p. 6.
142
Del senso delle cose e della magia, cit., pp. 11-12.
143
Metafisica, lib. XVI, c. 3, A. 2, P. 205.
144
Cfr. S. Femiano, I fondamenti teologico-metafisici della politica campanelliana, in Tommaso Campanella, Miscellanea di studi nel 4° centenario della sua nascita, cit.,
145
Ibid. c. 2, a. 1, p. 201.
L'unità della fede - come ricorda anche S. Femiano - è garantita da alcuni simboli particolari, i «sacramenti
naturali» che sono i «sacramentum fidei», «sacramentum poenitentiae» e «sacramentum matrimonii» 146.
Da questa concezione le istituzioni appaiono fondate non sul diritto ma in ultima analisi proprio sulla
religione naturale. Si tratta di una concezione che si ricollega alla antica sapienza egizia, dove i re erano
anche sacerdoti. Da qui l'origine della ierocrazia campanelliana. S. Femiano ha giustamente rilevato che
«Questa dottrina campanelliana della religione naturale, anche nei suoi sviluppi storici [...], mira a dimostrare
un solo assunto: che di essa, almeno come innata e universale credenza in Dio, una e identica presso tutti i
popoli, nessuna società può fare a meno; potrà avere l'una o l'altra forma di religione, ma non potrà reggersi
senza di essa: la diversità riguarda il suo oggetto per scienza illata e il culto, non la credenza, cioè l'atto
interiore di fede147. Per conseguenza è empio e stolto sostenere "posse stare rempublicam sine religione,
veluti si quis hominem esse hominem sine mente putaret"» 148.

Tale configurazione è già presente - a livello strutturale - nel De sensu rerum. In quest’opera poco studiata,
ma non certo per questo minore, dove il Domenicano si sforza in ogni modo di mostrare la sensibilità del
Cosmo e la forza della magia e degli influssi celesti, è dominante una visione cosmologica di tipo analogico,
interamente basata sulla similitudine Macrocosmo/microcosmo. Similitudine che dovrà costituire in sede
politica il metro e la misura per ogni decisione in ambito sia legislativo che propriamente esecutivo. Le
occulte corrispondenze, alle quali anche il mago-politico dovrà riferirsi per controllare adeguatamente forze
mondane e demoniache a suo vantaggio, sono in primo luogo quelle naturali: ecco perché per un corretto
operare è dunque richiesta una certa conoscenza magico-astrologica. Anche in questo aspetto, che determina
o comprende una particolare visione antropologica, Campanella risente profondamente dell'ideologia
ermetica. L’astrologia e la magia, manifestando anzitutto uno scopo teurgico, estendono ben presto il loro
campo d’azione al piano legislativo e sociale: «La più grande azione magica dell'uomo è dare leggi» 149 agli
uomini. Non a caso F.A. Yates aveva già sottolineato che «la repubblica campanelliana è ripiena per ogni
verso d’astrologia e il suo intero sistema di vita è volto al raggiungimento di un vantaggioso rapporto con le
stelle», e ancora: «La città è organizzata in modo da funzionare in accordo con le stelle e da ciò proviene
tutta la sua felicità, prosperità e virtù»150. Ma avremo occasione di approfondire meglio questo discorso.
Per ora anticipiamo soltanto che in ultima analisi la simpatia universale non è altro che un effetto della
emanazione di Dio nel Cosmo: per questo l'uomo si colloca in una posizione intermedia, tra il mondo
materiale e quello spirituale, partecipando ad entrambe le nature: «l'uomo è stato posto fra cielo e terra, enti
contrari, ed è costituito da essi, la parte celeste, che è lo spirito, appetisce di amore innato in cielo, laddove
quella terrestre appetisce la terra»151.
Come vedremo, l'antropologia campanelliana risentirà profondamente di questa concezione.
Non è fuori luogo ricordare che alla base delle teorie ermetiche rinascimentali e delle conseguenti pratiche
astrologico-magiche - che influenzano profondamente il pensiero campanelliano, in tutto il suo svolgimento
storico - si pone una complessa teoria che pone in relazione macrocosmo e microcosmo, con l'intento di
strutturare l'uno in base alla natura dell'altro. L'antropologia ermetica si basa interamente su questo assunto.
Volendo, si potrebbe semplicemente riassumere con questa idea: le cose che stanno in alto sono analoghe a
quelle che stanno in basso. Si tratta di un principio tutt'altro che estraneo alla filosofia campanelliana, che
informa in modo sottile molte delle sue concezioni apparentemente a-teologiche e peraltro verso molto
lontane dalla visione rinascimentale (... la ierocrazia e la singolare teocrazia campanelliana dovrebbero
costituire un buon esempio).
Per Campanella, come per gli ermetici, il mondo materiale è fondato in analogia a quello spirituale. È
questa l’idea fondamentale che non deve mai esser persa di vista nell’affrontare una interpretazione corretta
delle opere campanelliane. Si tratta evidentemente di una ripresa radicale della metafisica platonica riveduta
secondo le esigenze della cultura cristiana e magico-astrologica propria dell'ermetismo. Lo stesso
procedimento analitico degli scritti ermetici, acutamente spiegato da Umberto Eco 152, e molto spesso proprio
della tecnica campanelliana, può essere appropriatamente definito come ultima espressione di questa
146
Cfr. S. Femiano, I fondamenti teologico-metafisici della politica campanelliana, in Tommaso Campanella, Miscellanea di studi nel 4° centenario della sua nascita, cit.,
p. 273.
147
Metafisica, lib. XVI, c. 5, a. 2, p. 208.
148
Ibidem.
149
T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, cit., p. 320.
150
F.A.Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, cit., pp. 398-399.
151
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 283.
152
U. Eco, L'irrazionale ieri e oggi, «Alfabeta», n. 101, pp. 36-38.
metafisica e di questa cosmologia. Il linguaggio allegorico, allusivo, è nel profondo conforme ad una visione
analogica della realtà, secondo la quale il mondo ripete un archetipo spirituale/ideale. Da questo punto di
vista credo si possa affermare che nella tradizione ermetica la natura del linguaggio viene radicalmente
condotta alla sua dimensione più astratta: con il linguaggio «si allude a », non si pretende mai di esaurire la
dicibilità del vero. Si comunica per analogia, i termini del discorso non esprimono mai in modo diretto un
contenuto di verità assoluta. Molte Poesie dello Stilese, come vedremo, possono rientrare facilmente in
questa categoria, esprimendo il loro nucleo concettuale in modo quasi cifrato, riservato.
Si può sostenere che la polemica anti-aristotelica che caratterizza la maggior parte degli scrittori ermetici
(Campanella compreso) si fonda in ultima analisi sul rifiuto dei princìpi primi della logica stagirita, in
particolare del principio di identità, di non contraddizione e del terzo escluso. Esplicitamente Campanella
non lo afferma mai, ma certo deve aver creduto che il mago può operare solo in base al principio della
compartecipazione cosimca, secondo il quale tutto è in tutto, e per il quale il microcosmo ripete in miniatura
la struttura del macrocosmo. L’intera teoria politica - come vedremo - si basa su questo assunto, finemente
esposto soprattutto nella Metaphysica e nel Del senso delle cose. Da qui trae la sua origine la credenza nella
animazione universale, e dunque la teoria del sensus mundi. Vediamo ora di analizzare brevemente tale
struttura nel Del senso delle cose e della magia, dove Campanella spiega appunto che:
«Tutti accidenti che per istinto avvengono, essere effetti del senso delle parti e di tutto il mondo. Molti -
prosegue lo Stilese - s'affaticano provare che ci sia istinto senza ragione e senza senso, poichè la calamita tira
lo stupido insensato ferro, et essa sempre al polo si volge con mirabile istinto; e la donnola per naturale
istinto contra sua voglia si mette in bocca il rospo et è divorato; e il tauro, quando fugge, sotto la ficaia
s'affrena da sè, arrivando ad incontrarsi; e i delfini amano gli uomini; e molti animali predicono le pioggie e
venti senza esser profeti; e il gallo, piccolo animale, spaventa il leone; e altri esempi tali adducono. Alli quali
rispondo che tutti questi esempi additano il senso e consenso di tutte le nature, e che esso istinto sia di sen-
ziente natura impulso. Non mira la calamita al polo propriamente, ma si discosta alcuni gradi verso un'isola
del settentrione, di calamita tutta costituita; però è tale il senso della calamita che sempre alla sua università
si volge; e, come il fuoco in cielo aspira e la pietra in terra e l'acque al mare, così ella a quella parte guarda
dove è la sua più gran parte; e per il consenso che ha quell'isola alle stelle settentrionali alle quali soggiace e
che la fomentano, ogni altra calamita a quelle stelle par che miri. Però se travolgi la calamita altrove, ella
subito torna alla sua positura, come l'uomo, cascando con la faccia a terra, subito s'alza verso il cielo alla sua
positura, e li rami de gli arbori piegati tornano al sito loro. Non so se miri al polo antartico, chè non mi lice
parlare a naviganti, ma ben credo che, passato l'equinoziale, miri all'altro polo, e ivi esser consimili miniere
di calamita, poichè tutte consimili son le cose de gli opposti paralleli egualmente distanti dall'equatore; ma
nell'Austro il sole più calando e in Borea elevandosi; fa molta varietà, e le stelle anco son differenti. Nasce la
calamita tra il marmo e il ferro, et è più spiritosa del ferro, e però il ferro non al ferro corre, che è consimile
di perfezione e non può maggior virtù donarli, ma alla calamita come simile più perfetto. E come l'animale
non può arrivare in alto, ma se ci è cibo salta in su unendo le forze, così il ferreo spirito s'unisce e vince la
corpolenza per giungere la calamita. E qui è noto il senso suo, poichè fricata con l'aglio la calamita non tira,
chè l'odor suo, al ferro soave e piacevole, non si può col ferro communicare essendo vinto da quel dell'aglio;
e posta, anche, la calamita al fuoco, esala una vampa verde, et essa più non tira il ferro perchè non ha più
spirito unificativo; ma se il suo liquore a lei si getta sopra, rientra e di nuovo tira perchè il grosso otturò i pori
per cui entrò il sottile. Ma io pur vidi che mangia la calamita e si nutrica di limatura di ferro, come di suo
simile men perfetto; e così l'uomo mangia gli animali. Ma se d'una parte, che dicon polo, tira il ferro,
dall'altra lo scaccia e non è così veramente; ma il ferro fregato con la calamita da una parte, piglia di quella la
somiglianza, e riportato all'altra, si volge tornando alla prima di cui è affetto dinanzi. E pur credo che abbia
poli e positura mondiale, chè Dio, per tante sue grandezze mostrare, l'ha prodotta. La remora dicon che tenga
la nave, e non può esser altro che stupor di senso a tutto il legno communicato che è atto da quella per ogni
poro patire e infarsi»153.
Si tratta di uno degli esempi più nitidi, che riflette chiaramente questa concezione cosmologica: il tutto è
costituito da una serie di occulte simpatie, di legami fisici e magici. Le antipatie e simpatie mondane
riflettono fedelmente questa struttura metafisica della realtà. È importante precisare con attenzione i termini
di questo discorso perché una comprensione esatta della concezione cosmologica permetterà poi di
comprendere adeguatamente la teoria politica e la struttura teologica del frate di Stilo. Come si vedrà,
teologia e politica non sfuggono a questa impostazione ermetico-cristiana, fondata soprattutto sul principio
dell'analogia (che opera a tutti i livelli: da quello teologico, cosmologico e metafisico, a quello antropologico
e politico). L'analisi di un'opera come il Del senso delle cose permette appunto di individuare ed isolare
153
T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, cit., pp. 22-23.
alcuni luoghi di fondamentale importanza per una esatta ricostruzione della cosmologia stilese. Proseguiamo
dunque nella lettura di quest'opera a torto dimenticata o volutamente ignorata dalla maggior parte dei critici
(... soprattutto perché difficilmente conciliabile con certe impostazioni acriticamente precostituite!),
ricordando un passo particolarmente importante:
«Così la luna gonfia li mari e fa varie mutanze con varia luce; e le cose umide sentono più quell'affetto che
le secche. Il sole fa le mutanze ordinarie e grandi, ma la luna queste picciole col calor blando gonfiando e
non attenuando, e da queste antipatie e simpatie, nel mondo senso e consenso esserci si prova [corsivo mio].
Però le cose del mare somigliano quelle della terra, sì che pesce vescovo, catena, lorica e calamaro si vede; e
queste cose sono simili alli calori dalle stelle vegnenti, e così le cose conformanti non a quanto esse hanno,
ch'è fuoco grande, ma a quel che viene scemo in terra; e le stelle in Dio, e ogni altra cosa han l'idea e
sembianza, gran catena dell'altissimo consenso universale» 154.
Dalle antipatie e simpatie naturalmente presenti nel Mondo è possibile pensare ad un magico con-senso
universale. Ma si noti: il rischio è qui identico a quello che si ripresenta in ogni luogo nel quale Campanella
esprime apertamente la sua concezione cosmologica della realtà. Ed in effetti anche qui lo Stilese ha sentito
la necessità di una ulteriore specificazione, al fine di tener ben distinti, almeno formalmente, Dio ed il
Mondo. In questo caso il problema concerne apparentemente il rapporto tra Dio e lo spazio. Il Capitolo 12°
del Libro I si intitola infatti “Lo spazio aver senso attrattivo, e le cose piuttosto amarlo che aborrirlo”: da
questo capitolo è opportuno citare un altro passo particolarmente importante, dove si legge:
«Veramente difficil cosa è intendere se lo spazio universale aborrisce di restar vacante, sendo egli creato
per sostenere i corpi, talchè quando è vuoto tiri quelli a sè, poichè nella materia anco appetito e senso
trovaremo. E io certo son di parere che lo spazio, a locare nato, tiri a sè i corpi, non con instrumenti, ma con
appetitoso senso, perchè esso ancora ha potenza di essere e senso d'essere e amore d'essere tale quale Dio l'ha
fatto; onde alcuni Arabi stimaro che lo spazio fosse Dio, poichè ogni cosa sostiene e a nulla è contrario e
tutte riceve benignamente, e non morono mai in lui e per lui, ma solo l'un corpo rispetto a l'altro è morto. È
grandissimo non di quantità materiale ma incorporea; e infinito fuori del mondo si stima essere, amante,
benefico d'ogni cosa. Io certo ammiro la sua nobiltà, ma che sia Dio non credo, e in Metafisica reprobai
questa sentenza; ma ben conosco ch'esso sia base d'ogni essere creato e che preceda a tutti gli esseri, se non
di tempo, almeno d'origine e di natura, perchè se fu il mondo creato, dice Averroè che bisogna asserire che
prima sia stato il vacuo, perch’ei non intende dove poteva Dio stare ed essere, nè che lo spazio immateriale
nascer potesse da lui. Ma chi pone il mondo creato - aggiunge il Campanella - come stimo e credo io, poco
queste conietture apprezza, perchè Dio è infinito, e non con dimensioni incorporee ricettacolo appropriato
alle materiali, come lo spazio; ma più sovrana magnitudine ha Iddio che precede tutte queste. E da lui fu dato
l’essere e il poter locar i corpi e tirare, et esser prima base dell’universale essere. E Dio non sta in luogo, ma
il luogo è in lui; e non come locato in luogo, ma come nel suo principio, largitore dell’essere e della
conservazion sua e d’ogni altro ente. Nè ripugna che insieme con le cose lo spazio creato sia, se non a quelli
che di Dio han bassa opinione. Or se lo spazio è sì divina creatura, si può conietturare che le cose sien tirate
con voluptà a lui, e che per occupar lo spazio, ch'è base dell'essere, le cose corrono ad empirlo, quasi
acquistando volentieri nuovo regno et esistenza; e che non solo ci sia lo scambievole contatto che il mondo
unisce, poichè va l'aria a toccarsi col suo contrario per proibire il vacuo, ma che ci sia il gaudio dell'empire il
vacuo, e che non corra per proibire il vacuo ma per regnare e dilatarsi in lui, poichè l'amor di dilatarsi e
moltiplicarsi e viver vite assai in spaziosa esistenza proviamo in tutte le cose trovarsi che si moltiplicano,
generano e diffondono nel luogo del nemico, scacciando ogni altro, e sole esser bramando per sicurtà di
conservarsi et eternarsi e deificarsi se potessero; poichè tutte imitan Dio eterno, e a lui, come a sua causa,
simili farsi bramano; talchè con voluptà lo spazio tirar le cose si può pur intendere altramente come in
Metafisica provai»155.
La polemica è condotta, apparentemente, sul piano della concezione spaziale, contro Averroè. In realtà si
tratta di una polemica strumentale, che non deve essere confusa con il vero nucleo del problema: la
distinzione tra Dio e Mondo. Lo spazio, che ogni cosa sostiene e a nulla è contrario, può facilmente essere
confuso con Dio: accoglie infatti tutti gli enti benignamente, e questi non morono mai in lui e per lui, ma
ogni corpo muore soltanto in apparenza, ovvero in relazione agli altri corpi. Ancora una volta lo Stilese
espone chiaramente uno dei principali assunti dell’ermetismo: la morte mundana è soltanto un’apparenza
ingannevole. Niente esce quindi dai confini dello spazio divino. Ma qual è la differenza tra spazio divino e
spazio cosmologico? Inteso in questo modo è facile concludere che lo spazio, immenso contenitore del tutto,
sia in un certo senso identificabile con Dio. Ma Campanella, per salvare l’idea platonico-cristiana di
154
T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, cit., p. 25.
155
T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, cit., pp. 29-30.
trascendenza, si affretta a richiamare le posizioni già espresse nella Metafisica. Si noti che quando lo Stilese
riscrive il De sensu rerum (rubatogli da falsi frati a Bologna, come egli stesso rivela 156), non teme di
ricollegarsi spesso alla sua vastisima Metafisica, sforzandosi di mostrare la compatibilità delle tesi magiche
del De sensu (tradotto poi nella versione italiana: Del senso delle cose e della magia) con la struttura
metafisica della realtà precedentemente delineata.
Naturalmente, la concezione campanelliana del senso si distanzia nettamente da quella volgare. Secono
quest'ultima il senso deve essere messo in stretta relazione agli organi sensitori, senza i quali, appunto, non
si dà senso. Ma per lo Stilese
«[...] si deve stimare che il senso non sia l’aver occhi, orecchie, naso e lingua, poichè, morendo l’animale,
non vede l’occhio, nè il naso odora, nè l’orecchio ode, ma che sia la passione ch’esso spirito riceve, il quale
si formò l’orecchie con un timpanello, per sentire i moti, e per essi i mobili senza esser offeso, e lo specchio
de gli occhi per entrar la luce affetta delle cose illuminate, e quelle vedere, e il naso perchè entri il vapore
esalante da ogni cosa, onde esso possa giudicare s’è atta ad esser suo cibo e ristoro mentre l’avviva o
inettamente l’affanna, e così la lingua porosa perchè entri il cibo tritato in bocca, et egli sappia dal sapore,
(che il calore incorporato dal cibo dico essere), s’è buono a nutrir con sua sostanza lui e la sua casa viva, che
corpo in commune si dice, o no. E questi, che il volgo sentimenti appella, son parti del corpo delicate e
pertugiate, a fine di ammettere le cose sensibili con poca offesa dell’anima senziente e giudicante, ma non
sensi»157.
La concezione campanelliana del senso è in effetti alquanto complessa. In essa, come al solito, convergono
elementi eterogenei, molto spesso congeniati in una struttura apparentemente semplice, ma in realtà
composita e volutamente di difficile accesso. La teoria del senso rappresenta anzitutto un classico esempio
ermetico: ciò che viene detto nasconde più che disvelare, le espressioni sono sempre calibrate e frequenti
sono i giri di parole allusivi, le allegorie. Tommaso aveva la testa sulle spalle e certamente preferiva che ci
restasse: la formulazione di una teoria dell'anima del mondo, che sta alla base dell'idea di un con-senso
universale, dalle forti tinte panteistiche, non poteva certo non suscitare pericolosi sospetti tra gli Inquisitori.
Nello stesso Del senso delle cose lo Stilese ci dà infatti prova delle difficoltà incontrate con i padri
Inquisitori, sottolineando esplicitamente l'accusa di panteismo. Anche il tentativo di differenziare Dio e
Mondo sulla base del diverso rapporto con l’infinito si presta ad un pericoloso equivoco:
«io dico che questa anima sia la natura comune e arte universale d Dio creata, infusa nel tutto. Altri
attribuiscono a Dio questi ati secreti. E io dico che Dio è infinito e non può nulla natura creata ricevere
l'influsso suo infinitamente, ma con modificazione finita perché non è atta a sostenerlo altramente» 158.
Il discorso si spostava infatti immediatamente dal piano delle mediazioni (se Dio non può imprimere la sua
azione magica direttamente sul mondo, a causa della sua natura limitata e della sua incapacità di ricevere una
essenza infinita, allora sarà necessaria una infinita catena di mediazioni gerarchicamente strutturate...) al
piano del confronto fra l'anima umana e quella degli animali:
«l'argomento che mi fece contro l'Inquisitore - racconta Campanella (... mostrando una poco convincente
sicurezza di sé) - di che restò poi da me soddisfatto, fu in questo: che seguirebbe che pur i vermi e le bestie di
questa beata mente fussero informati e capaci di beatitudine umana. Io risposi che non seguita, poiché
veggiamo tanti pidocchi e vermi generarsi nella testa dell'uomo, e tanti altri vermi dentro il ventre e in vari
membri e viscere; né per questo tali bestiole han la mente razionale dell'uomo, ma solo il senso corto e breve
dell'altre bestie: così dentro del mondo nascono le bestie senza quell'anima beata, ma con sensi parziali. E
questa risposta, per contrario e certo esempio provata, non han potuto impugnare li contraddittori. Mille
effetti stupendi e sbitanei di lei si veggono et è conosciuta dagli Angeli e loro amica» 159.
Lo Stilese sta faticosamente cercando di respingere le pericolose implicazioni panteistiche dell'anima del
mondo, introducendo una sottile distinzione tra sensus umano ed animale. L'anima del mondo viene qui
presentata come una sorta di potenza celeste, angelica, per nulla demoniaca. Questa concezione sembra
suggerire l'immagine dell'Anima Mundi al servizio delle potenze divine, conosciuta dagli Angeli e loro
amica. E con questo l'accusa di panteismo dovrebbe essere completamente eliminata.
In realtà la principale espressione del sensus rerum è costituita dal duplice rapporto tra antipatia e simpatia
universali: è questo il concetto che sta particolarmente a cuore al Campanella. L'Anima del mondo sembra
esplicarsi anzitutto come potenza regolatrice a livello fisico, ma la sua dimensione più interessante è senza
dubbio costituita dalla posizione intermedia che le viene attribuita. Quando Campanella insegna che la
156
Cfr. ad esempio p. 31, op. cit. : «Nella prima composizione di questo libro che feci in latino e mi fu rubato da falsi frat in Bologna con altri libri, e or mi bisogna rifarli
per non averli mai ricuperati [...]».
157
T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, cit., p. 45.
158
Del senso delle cose, cit., p. 161. Cfr anche N. Badaloni, T. Campanella, cit., p. 52 e seguenti.
159
Del senso delle cose, cit., p. 161.
Natura non è adatta a ricevere l'impronta divina infinitamente vuole da una parte eliminare alla base ogni
possibile dubbio panteistico, ma dall'altra prevede maliziosamente la possibilità che sia proprio l'Anima
Mundi, conosciuta dagli Angeli e loro amica, a costituire l'anello di congiunzione tra mondo fisico e
metafisico, accorciando di fatto la distanza trascendente del Dio infinito rispetto al Cosmo finito.
La Teoria del Fato, della Necessità e dell'Armonia andrebbe naturalmente collocata all'interno di questo
quadro sostanzialmente animistico e sensista, fortemente equivoco dal punto di vista del panteismo. La stessa
dinamica caldo-freddo è necessariamente, fatalmente ed armonicamente alla base di ogni accadimento
fisico. Questa dinamica tra opposti prosegue a livello metafisico modificata e ristrutturata ora in rapporto tra
simpatia ed antipatia universali. La contrapposizione bene/male, giusto/ingiusto prosegue sostanzialmente le
linee di questa impostazione dualistica, che tende però a prevedere una molteplicità disorientante di
soluzioni: Dio è infinito e trascendente, la Natura non può ricevere infinitamente l'influsso divino, tuttavia
sono presenti ed operanti Necessità, Fato ed Armonia, che grazie all'Anima del Mondo svolgono
adeguatamente il loro compito conservativo del Tutto animato. In ultima analisi, Dio non è poi tanto
trascendente... come Campanella vorrebbe far credere. La teoria del sensus rerum appare dunque come
funzionale al sostegno di questo quadro fondamentalmente unitario: è grazie alla possibilità dei corpi (e del
Mondo) di sentire e compatire che viene assicurata la possibilità di comunicazione, anche fisica, tra mondo
spirituale e mondo materiale. Questa idea costituisce evidentemente una sottile limitazione della divina
trascendenza ad ulteriore sostegno della dignità umana e mundana.
Per motivi diversi, ma profondamente suggestivi ed analiticamente ben fondati, anche Nicola Badaloni
concludeva la sua analisi del De sensu rerum sostenendo che
«Il sensus rerum era [...] al momento della stesura della prima edizione latina dell'opera qualcosa di diverso
rispetto alla innocente esposizione che Campanella aveva tentato di darne ai giudici. Resta per altro ancora
non interamente chiarito il fondamento manicheo del sensus rerum cui Campanella si riferisce nel tardo
scritto parigino [...]. Era esso una trasposizione implicita del dualismo fisico in un dualismo metafisico,
ovvero implicava anche una vera e propria esposizione di un dubbio metafisico? I manichei, ci dice
Campanella [...], "davano un'anima a tutti gli enti in quanto riempiti di una sostanza divina che era in
conflitto con un Dio malvagio". Il sensus rerum diventa in tal modo il campo di una vicenda cosmica di
intervento divino apportatore di vita, e di consumo dell'essere apportatore di morte. Anche in questo aspetto
della questione - conclude acutamente il Badaloni - sarebbe da intravedere una trasposizione del motivo
lucreziano ed empedocleo dei mondi nascenti e morenti, che serve a confermare uno sviluppo della filosofia
campanelliana nella direzione della molteplicità dei mondi» 160.
Le intuizioni del Badaloni dovrebbero essere pienamente confermate da un Madrigale (seconda delle tre
Orazioni in salmodia metafisicale datata dal Firpo nel 1604):

Solevo io dir fra me dubitando: "Come


d'erba e di bruti uccisi per mia cena
non curo il mal, né a supplicanti vermi
dentro a me nati do favor, ma pena;
anzi il sol padre e terra madre il nome
struggon de' figli e i loro composti infermi;
così Dio non sol pare che s'affermi
che del mal nostro pietade nol punga,
ma ch'egli sembri il tutto; onde ne goda
trarci di vita in vita, con sua loda
che fuor del cerchio suo mai si giunga".
O pur che in Dio fosse divario dolce,
dissi ragion men soda
come in Vertunno è, che 'l nostro soffolce.

Al testo poetico lo Stilese aggiungeva questo commento:

«Dice ch'e' solea immaginarsi che Dio fa come noi a' vermi nati dentro il corpo nostro; chegli uccidiamo e
non sentiamo i prieghi loro; o come il sole e la terra uccidono gli secondi enti da lor generati. E che Dio sia il
tutto, e gode che dentro a lui si mutino senza annullarsi le cose, ma passano sempre in vario essere vitale,
ecc. O che Dio pure si mutasse, ma con dolcezza, come si favoleggia di Vertunno e Proteo e che dal suo
160
N. Badaloni, T. Campanella, cit., pp. 62-63.
mutamento dolce nasce il nostro mutamento, e così l'affanno per conseguenza a noi, sendo parti, e non il
tutto»161.

È ancora opportuno ricordare che N. Badaloni commentava il Madrigale con queste parole: «Campanella
riconosce dunque esplicitamente nella prima parte [...] di aver aderito ad una teoria di Dio, per la quale
questo si presentava unicamente come l'indifferente sostenitore del tutto, È la elevazione della metafisica
della necessità che si compie con questa dottrina e per essa il mondo sarà fatto di provvidenza rispetto a Dio
e di caso rispetto a noi162. In sé non esiste male, ma solo rispetto alle cose particolari, ed "utile al Mondo è la
transmutazione de gli enti particolari, la quale ad essi dispiace" 163»164.
Non è nemmeno fuori luogo ricordare che l'idea di una provvidenza divina regolatrice del tutto e per la
quale ogni ente si transmuta in altro per la conservazione del Cosmo è propriamente ermetica, come del
resto abbiamo già avuto occasione di precisare.
Importanti conferme a questa tesi dovrebbero venire dal confronto con Giordano Bruno. Nel De la Causa,
Principio et Uno, ad esempio, si ritrova una disputa tra Teofilo-Bruno ed il pedante aristotelico, nella quale
emerge la stessa immagine del Cosmo animato e senziente:

«TEOF. [...] Mi par che detraano alla divina bontà ed all'eccellenza di questo grande animale e simulacro
del primo principio, quelli che non vogliono intendere né affirmare il mondo con gli suoi membri essere
animato, come Dio avesse invidia alla sua immagine, come l'architetto non amasse l'opra sua singulare; di
cui dice Platone che si compiacque nell'opificio suo, per la sua similitudine che remirò in quello. E certo che
cosa può piú bella di questo universo presentarsi agli occhi della divinità? ed essendo che quello costa di sue
parti, a quali di esse si deve piú attribuire che al principio formale? Lascio a meglio e piú particolar discorso
mille raggioni naturali oltre questa topicale o logica.
DICS. Non mi curo che vi sforziate in ciò, atteso che non è filosofo di qualche riputazione, anco tra'
Peripatetici, che non voglia il mondo e le sue sfere essere in qualche modo animate. Vorei ora intendere, con
che modo volete che questa forma venga ad insinuarsi alla materia de l'universo.
TEOF. Se gli gionge di maniera che la natura del corpo, la quale secondo sé non è bella, per quanto è
capace viene a farsi partecipe di bellezza, atteso che non è bellezza se non consiste in qualche specie o
forma, non è forma alcuna che non sia prodotta da l'anima.
DICS. Mi par udir cosa molto nova: volete forse che non solo la forma de l'universo, ma tutte quante le for-
me di cose naturali siano anima?
TEOF. Sí.
DICS. Sono dunque tutte le cose animate?
TEOF. Sì.
DICS. Or chi vi accordarà questo?
TEOF. Or chi potrà riprovarlo con raggione?
DICS. È comune senso che non tutte le cose vivono.
TEOF. Il senso piú comune non è il piú vero.
DICS. Credo facilmente che questo si può difendere. Ma non bastarà a far una cosa vera perché la si possa
difendere, atteso che bisogna che si possa anco provare.
TEOF. Questo non è difficile. Non son de' filosofi che dicono il mondo essere animato?
DICS. Son certo molti, e quelli principalissimi.
TEOF. Or perché gli medesimi non diranno le parti tutte del mondo essere animate?
DICS. Lo dicono certo, ma de le parti principali, e quelle che son vere parti del mondo; atteso che non in
minor raggione vogliono l'anima essere tutta in tutto il mondo, e tutta in qualsivoglia parte di quello, che
l'anima de gli animali, a noi sensibili, è tutta per tutto.
TEOF. Or quali pensate voi che non siano parti del mondo vere?
DICS. Quelle che non son primi corpi, come dicono i Peripatetici: la Terra con le acqui ed altre parti le
quali, secondo il vostro dire, constituiscono l'animale intiero: la Luna, il Sole ed altri corpi. Oltre questi
principali animali, son quei che non sono primere parti de l'universo, de quali altre dicono aver l'anima
vegetativa, altre la sensitiva, altre la intellettiva.

161
Tutte le opere, cit., p. 156.
162
Cfr. Epilogo magno, cit. p. 248.
163
Epilogo magno, cit., p. 249.
164
N. Badaloni, Tommaso Campanella, cit., pp. 63-64.
TEOF. Or, se l'anima per questo che è nel tutto, è anco ne le parti, perché non volete che sia ne le parti de
le parti?
DICS. Voglio, ma ne le parti de le parti de le cose animate.
TEOF. Or quali son queste cose che non scno animate, o non son parte di cose animate?
DICS. Vi par che ne abbiamo poche avanti gli occhi? Tutte le cose che non hanno vita.
TEOF. E quali son le cose che non hanno vita, al meno principio vitale?
DICS. Per conchiuderla, volete voi che non sia cosa che non abbia anima e che non abbia principio vitale?
TEOF. Questo è quel ch'io voglio al fine.
POL. Dunque, un corpo morto ha anima? dunque, i miei calopodii, le mie pianella, le mie botte, gli miei
sproni ed il mio annulo e chiroteche serano animate? la mia toga ed il mio pallio sono animati?
GERV. Sí, messer sí, mastro Poliinnio, perché non? credo bene che la tua toga ed il tuo mantello è bene
animato, quando contiene un animal, come tu sei, dentro; le botte e gli sproni sono animati, quando
contegnono gli piedi; il cappello è animato, quando contiene il capo il quale non è senza anima; e la stalla è
anco animata, quando contiene il cavallo, la mula o ver la Signoria Vostra. Non la intendete cossí, Teofilo?
non vi par ch'io l'ho compresa meglio che il dominus magister?
POL. Cuium pecus? come che non si trovano de gli asini etiam atque etiam sottili? hai ardir tu, apirocalo,
abecedario, di volerti equiparare ad un archididascalo e moderator di ludo minervale par mio?
GERV. Pax vobis, domine magister, servus servorum et scabellum pedum tuorum.
POL. Maledicat te Deus in saecula saeculorum.
DICS. Senza colera: lasciatene determinar queste cose a noi.
POL. Prosequatur ergo sua dogmata Theophilus.
TEOF. Cossí farò. Dico dunque, che la tavola come tavola non è animata, né la veste, né il cuoio come
cuoio, né il vetro come vetro; ma, come cose naturali e composte, hanno in sé la materia e la forma. Sia pur
cosa quanto piccola e minima si voglia, ha in sé parte di sustanza spirituale; la quale, se trova il soggetto
disposto, si stende ad esser pianta, ad esser animale, e riceve membri di qualsivoglia corpo che comunmente
se dice animato: perché spirto si trova in tutte le cose, e non è minimo corpuscolo che non contegna cotal
porzione in sé che non inanimi.
POL. Ergo, quidquid est, animal est.
TEOF. Non tutte le cose che hanno anima, si chiamano animate.
DICS. Dunque, al meno tutte le cose han vita?
TEOF. Concedo che tutte le cose hanno in sé anima, hanno vita, secondo la sustanza e non secondo l'atto
ed operazione conoscibile da' Peripatetici tutti e quelli che la vita ed anima definiscono secondo certe
raggioni troppo grosse.
DICS. Voi mi scuoprite qualche modo verisimile con il quale si potrebe mantener l'opinion d'Anaxagora:
che voleva ogni cosa essere in ogni cosa, perché essendo il spirto o anima o forma universale in tutte le cose,
da tutto si può produr tutto.
TEOF. Non dico verisimile, ma vero: perché quel spirto si trova in tutte le cose, le quali, se non sono
animali, sono animate; se non sono secondo l'atto sensibili d'animalità e vita, son però secondo il principio e
certo atto primo d'animalità e vita. E non dico di vantaggio, perché voglio supersedere circa la proprietà di
molti lapilli e gemme; le quali, rotte e recise e poste in pezzi disordinati, hanno certe virtú di alterar il spirto
ed ingenerar novi affetti e passioni ne l'anima, non solo nel corpo. E sappiamo noi che tali effetti non
procedono, né possono provenire da qualità puramente materiale, ma necessariamente si riferiscono a
princpio simbolico vitale ed ammale, oltre che il medesmo veggiamo sensibnmente ne' sterpi e radci smorte;
che, purgando è congregando gli umori, alterando gli spirti, mostrano necessariamente effetti di vita. Lascio
che non senza caggione li Necromantici sperano effettuar molte cose per le ossa de' morti; e credeno che
quelle ritengano, se non quel medesmo, un tale però e quale atto di vita, che gli viene a proposito a effetti
estraordinarii. Altre occasioni mi faranno piú a lungo discorrere circa la mente, il spirito, l'anima, la vita che
penetra tutto, è in tutto e move tutta la materia; empie il gremio di quella, e la sopravanza più tosto che da
quella è sopravanzata, atteso che la sustanza spirituale dalla materiale non può essere superata, ma piú tosto
la viene a contenere.
DICS. Questo mi par conforme non solo al senso di Pitagora, la cui sentenza recita il Poeta quando dice:
Principio caelum ac terras camposque liquentes,
Lucentemque globum lunae Titaniaque astra
Spiritus intus alit, totamque infusa per artus
Mens agitat molem, totoque se corpore miscet;
ma ancora al senso del Teologo che dice: il spirito colma ed empie la terra, e quello che contiene il tutto.
Ed un altro, parlando forse del commercio de la forma con la materia e la potenza, dice che è sopravanzata
da l'atto e da la forma.
TEOF. Se dunque il spirto, la anima, la vita si ritrova in tutte le cose, e, secondo certi gradi, empie tutta la
materia, viene certamente ad essere il vero atto e la vera forma de tutte le cose. L'anima, dunque, del mondo
è il principio formale constitutivo de l'universo e di ciò che in quello si contiene. Dico che, se la vita si trova
in tutte le cose, l'anima viene ad esser forma di tutte le cose: quella per tutto è presidente alla materia e
signoreggia nelli composti, effettua la composizione e consistenzia de le parti. E però la persistenza non
meno par che si convegna a cotal forma che a la materia. Questa intendo essere una di tutte le cose; la qual
però, secondo la diversità delle disposizioni della materia e secondo la facultà de' principii materiali attivi e
passivi, viene a produr diverse figurazioni ed effettuar diverse facultadi, alle volte mostrando effetto di vita
senza senso, tal volta effetto di vita e senso senza intelletto, tal volta par ch'abbia tutte le facultadi suppresse
e reprimute o dalla imbecillità o da altra raggione de la materia. Cossí, mutando questa forma, sedie e
vicissitudine, è impossibile che se annulle, perché non è meno subsistente la sustanza spirituale che la mate-
riale. Dunque le formi esteriori sole si cangiano e si annullano ancora, perché non sono cose, ma de le cose,
non sono sustanze, ma de le sustanze sono accidenti e circostanze.
POL. Non entia at entium. (Non sono enti, ma appartenenze agli enti).
DICS. Certo, se de le sustanze s'annullasse qualche cosa, verrebe ad evacuarse il mondo.
TEOF. Dunque abbiamo un principio intrinseco formale, eterno e subsistente, incomparabilmente megliore
di quello che han finto gli sofisti che versano circa gli accidenti, ignoranti della sustanza de le cose, e che
vengono a ponere le sustanze corrottibili, perché quello chiamano massimarnente, primamente e principal-
mente sustanza, che resulta da la composizione; il che non è altro ch'uno accidente che non contiene in sé
nulla stabilità e verità, e se risolve in nulla. Dicono quello esser veramente omo che resulta dalla
composizione; quello essere veramente anima che è o perfezione ed atto di corpo vivente, o pur cosa che
resulta da certa simmetria di complessione e membri. Onde non è maraviglia se fanno tanto e prendeno tanto
spavento per la morte e dissoluzione, come quelli a' quali è imminente la iattura de l'essere. Contra la qual
pazzia crida ad alte voci la nutura, assicurandoci che non gli corpi né l'anima deve temer la morte, perché
tanto la materia quanto la forma sono principii constantissimi:

O genus attonitum gelidae formidine mortis,


Quid Styga, quid tenebras et nomina vana timetis
Materiam vatum falsique pericula mundi?
Corpora sive rogus flamma seu tabe vetustas
Abstulerit, mala posse pati non ulla putetis:
Morte carent animae domibus habitantque receptae.
Omnia mutantur, nihil interit.»165.

Anche per queste non certo casuali concordanze con un pensatore ermetico come Bruno, credo che la teoria
del con-senso universale debba essere ricondotta anzitutto a quel substratum di ideologia e psicologia
ermetica che caratterizza in profondità il pensiero campanelliano.
È dall'accettazione di alcune fondamentali idee ermetiche che germina l'idea di una animazione universale,
di un complesso sistema di antipatie e simpatie tra forze diverse, sulle quali il mago astrologo può operare,
con risultati che vanno dalla profezia divina, alla predizione degli eventi mondani, fino alla manipolazione
vera e propria delle masse.
Non a caso il Domenicano ripeterà più volte che la più grande magia consiste nel dare leggi agli uomini.
Questa concezione si ricollega direttamente alla teoria del sensus mundi: se è vero che la struttura - anche
metafisica - della realtà è fondata su una rete di occulte simpatie (fisiche e spirituali, naturalmente), che tra
mondo divino e mondo terrestre esiste una occulta corrispondenza, che insomma le cose che stanno in basso
sono analoghe a quelle che stanno in alto, allora è evidente il significato della magia campanelliana
apertamente professata nel De sensu rerum e perfino di fronte alle obiezioni dei Padri Inquisitori.
Il mago campanelliano assomiglia ad una sorta di super-uomo, che si distingue dall'uomo comune perché
ha la capacità di interagire con le Influenze divine. Si noti che è Dio stesso a permettere questa interazione, e
del resto altrimenti non potrebbe essere, visto che Egli ha collocato nella Natura tutti i segreti, come in un
libro, per attuare e rendere possibile con e per l’uomo questa magica comunicazione. Le acute analisi di
Festugière, come vedremo, dovrebbero confortare questa tesi. Di più: la magia - estrema conseguenza della
165
G. Bruno, De la Causa, Principio et Uno, cit., pp. 104-116.
teoria campanelliana del senso universale - non è mai fine a sé stessa. In questo caso si degrada in
demoniaca e deve pertanto essere radicalmente condannata. Magia ed astrologia sono - nella concezione
campanelliana - per lo più sinonimi di rispetto ed amore per i disegni divini (non razionalmente conoscibili,
ma pur sempre scrutabili appunto attraverso la mediazione - artificiale e naturale al tempo stesso - della
profezia e dell'astrologia) e di desiderio di preparare attivamente l'avvento della mitica età dell'oro, del
paradiso terrestre (anticipazione di quello finale, eterno, che verrà alla fine dei tempi). Questa concezione
della magia e dell’astrologia è assolutamente evidente nella seconda parte del Del senso delle cose, dove
Campanella le mette in relazione alla struttura anche metafisica della realtà. In qualche misura, anche la
magia campanelliana potrebbe essere considerata come una forma di teurgìa, ma sempre essa ha di mira una
corretta gestione (politica e anche ... religiosa) delle forze naturali insite nella Natura.
Anche la teoria del senso universale (sulla quale si basano magia ed astrologia) è dunque strettamente
connessa alla cosmologia ermetica e cristiana del pensatore di Stilo.
Si tratta di una osservazione particolarmente importante, perché offre un ulteriore supporto alla tesi della
fondamentale unità dello sviluppo teoretico campanelliano.
Ora si deve ricordare che nel formulare la sua teoria del senso universale Campanella ha di mira anche
Aristotele e la sua definizione empirica dei rapporti tra anima e corpo. Alla luce delle precedenti
considerazioni una posizione di questo tipo è del resto perfettamente comprensibile. Campanella non poteva
permettere una decostruzione della teoria magica del senso interno: la Fisiologia italiana rappresenta da
questo punto di vista un formidabile esempio di critica anti-aristotelica fondata sul campo della concezione
antropologica e cosmologica di tipo sensistico e spiritualistico. Rinunciando alla sua teoria del senso interno,
Campanella avrebbe ridotto all'assurdo tutta la sua impostazione metafisica della realtà, dalla quale
conseguono precise impostazioni antropologiche, politiche e perfino teologiche.
In Campanella la contraddizione tra incorporeo e corporeo viene superata appunto grazie all’adozione di
una teoria magico-sensista, per la quale non esiste frattura tra lo spirituale e il materiale: in questo modo la
dignità del mondo non viene in nessun modo sminuita. Questa dinamica trova espressione nella concezione
dell’anima umana formalmente distinta dallo spiritus senziente. Come si era già visto nella Fisiologia
Italiana (Epilogo Magno), per Campanella lo spiritus si trova in una posizione intermedia tra il corporeo e
l’incorporeo: è talmente sottile che rasenta una natura immateriale, ma del resto non è assolutamente
spirituale perché riesce a percepire le sensazioni che provengono dall’esterno e vengono immesse dagli
organi sensitori. Nell’uomo non si evidenzia in nessun modo una frattura netta (tipica della mentalità
cristiana) tra mondo corporeo e spirituale: la funzione mediatrice attribuita allo spiritus non rappresenta un
compromesso, ma piuttosto un anello di congiunzione che ha lo scopo di ribadire il principio della unità
cosmologica di tutti gli esseri. Lo spiritus senziente, in ultima analisi, è simile, analogo a quello dell’anima
del mondo e di tutti gli enti particolari. Per questo è impossibile per lo Stilese stabilire una netta distinzione a
livello ontologico tra Mondo e uomo. La possibilità mai seccamente smentita di una pluralità dei mondi
risulta ora perfettamente coerente e comprensibile. A questo proposito ricordo volentieri alcune osservazioni
di I. P. Couliano, secondo il quale «Il Rinascimento conosce non già uno, ma almeno quattro tipi di cosmo: il
cosmo geocentrico, finito, di Aristotele, Tolomeo e san Tommaso; il cosmo infinito di Nicola Cusano, il cui
centro è Dio, presente ovunque; il cosmo di Aristarco e dei pitagorici, illustrato dalla teoria eliostatica di
Copernico; infine, l’universo infinito di Giordano Bruno [...]. Di tali modelli cosmologici - prosegue
Couliano - non uno esclude l’ipotesi della magia, essendo questa basata sull’idea della continuità tra uomo e
mondo che non potrebbe venir sconvolta da un semplice cambiamento nelle teorie relative alla costituzione
del mondo stesso. I maghi come Giordano Bruno, o i pitagorici-astrologhi come Keplero, non hanno alcuna
difficoltà ad adattarsi alla nuova filosofia. Ciò che muta da un cosmo all’altro è solo l’idea della dignità della
terra e dell’uomo, e anche in questo caso vi sono apprezzabilissime variazioni dottrinali. Nell’universo
aristotelico, la terra occupa la posizione più bassa, effettivamente corrispondente alla sua inferiorità
ontologica, poiché essa è il luogo dell’impermanenza, dei rapidi cambiamenti, della generazione e della
corruzione; tutto quanto si trova al di qua della sfera sublunare è per così dire relegato in una sorta di inferno
cosmico, dal quale si esce solo oltrepassando la luna; le sfere planetarie sono invece divine, e al di là del
cielo delle fisse cominciano le residenze di Dio. Forse per gioco, ma anche in conseguenza del fatto che la
terra non era che un astro decaduto, già Nicola di Oresme si chiedeva, nel XVI secolo, se l’idea della fissità
della terra non fosse incompatibile con la sua inferiorità. Effettivamente, fissità vuol dire stabilità, e sono le
stelle dell’ottavo cielo a essere fisse, superiori come sono agli astri vaganti. Per tale motivo, Nicola di
Oresme avanza l’ipotesi del moto della terra, troppo umile per essere immobile. La ragione filosofica di
fondo per la quale Nicola Cusano sostiene l’idea dell’infinità dell’universo deriva da una concezione
diametralmente opposta a quella di Oresme. Il Cusano respinge la teoria aristotelica degli elementi; per lui, il
cosmo non conosce affatto distinzione, né ontologica né spaziale, tra “alto” e “basso”, “sopra” e “sotto”; non
esiste un mondo incorruttibile di etere e di puro fuoco al di là della sfera lunare, né un mondo corruttibile
formato dai quattro elementi grezzi al di qua della luna. La terra è sferica e ruota sul proprio asse, e non è
vera la concezione di Aristotele “che questa terra sia vilissima e infima”, quod terra ista sit vilissima et
infima [...]. Il tentativo del Cusano, come quello di Giordano Bruno, suo tardo discepolo, è diretto alla
rivalorizzazione del prestigio metafisico della terra - e quindi dell’uomo -, prestigio di cui era stata privata
dalla cosmologia aristotelica-tolemaica. Questa nuova concezione del mondo comporta una completa riforma
del cristianesimo, una riforma però il cui carattere umanistico, per non dire antropocentrico, ammette e
incoraggia la magia»166.
Campanella pensava precisamente ad una Riforma del Cristianesimo basata anzitutto su una rivalutazione
antropologica che coinvolgesse magia ed astrologia.
Couliano ricorda inoltre che «Ficino, la fonte classica della magia rinascimentale, è solo in maniera assai
vaga al corrente delle idee del Cusano. Ma, una volta ammesso che non v’era incompatibilità di sorta tra il
sistema del mondo enunciato dal Cusano e l’antica magia astrologica di cui si era fatto esegeta Ficino, poco
importa che quest’ultimo avesse adottato la cosmologia e l’astrologia tradizionali, tolemaiche. Con le idee da
lui sostenute, Nicola Cusano avrebbe potuto benissimo costruire una magia, anche se ciò probabilmente
presentava ben scarso interesse per un puro metafisico del suo stampo. Quanto a Ficino, a parte il tomismo e
il platonismo impostigli dall’opzione del sistema cosmologico, non è poi molto distante da Keplero, il quale
dal canto suo si dedica allo studio della musica astrale pitagorica. Le concezioni del mondo, le aspirazioni e
le motivazioni interiori di un Ficino e di un Keplero non presentano tra loro differenze di fondo: è questa una
certezza su cui gli odierni storici delle scienze non nutrono più alcun dubbio. [...]. Per il momento - prosegue
Couliano - torniamo alle fonti della dottrina dell’incorporazione di Ficino, dottrina che entro certi limiti
spiega l’origine della stretta affinità tra l’uomo e il mondo. Come nel caso della pneumofantasmologia,
un’antica disciplina - questa volta l’astrologia - ha generato l’ipotesi di un’informazione cosmica prenatale
che si imprime nell’anima e determina il destino dell’individuo. A partire dal II secolo d.C., quest’idea si è
combinata con la storia dell’incorporazione dell’anima, della sua discesa sulla terra e del suo ritorno ai cieli.
Ci si figura adesso che l’anima, penetrando nel mondo, assimili le concrezioni planetarie che abbandonerà
solo alla sua uscita dal cosmo, nel corso dell’ascesa che la riconduce al suo luogo natale [...] Perfezionata dai
neoplatonici, la dottrina del veicolo dell’anima farà il suo glorioso ritorno nell’astro-magia di Ficino e dei
suoi discepoli. L’astrologia popolare ellenistica, la cui paternità era attribuita al Dio egizio Ermete
Trismegisto o a personaggi mitici egizi come il faraone Nechepso e il sacerdote Petosiride, era composta di
numerosi libri, per lo più andati perduti o conservati unicamente nelle versioni latine del Rinascimento; essa
si occupava di svariati problemi, come la genika o astrologia universale, le apokatastaseis o cicli cosmici, la
brontologia o divinazione mediante il fulmine, le predizioni dell’Anno Nuovo (kosmika apotelesmata),
l’astrologia individuale e iatrologica [...]. Ora, - sottolinea Couliano - questa parentela spirituale dell’uomo
con il divino presenta due aspetti: l’uno, restrittivo, utilizzato nella dottrina ficiniana dell’eros, e l’altro, di
reciprocità, che permette le operazioni della magia» 167.
L’esaltazione ermetica della divina dignità dell'uomo viene completamente assorbita dal pensatore di Stilo,
e questo costituisce probabilmente il punto di maggior contatto con la tradizione di tipo ermetico, che il
Campanella conosceva soprattutto nelle sue espressioni tardo-rinascimentali.
Il Capitolo 25° del Libro II è infatti significativamente intitolato: «Dell’immortalità e divinità
dell’uomo»168. In questo capitolo viene ripresa con toni appassionati e squisitamente poetici l'immagine
ancora rinascimentale, genuinamente «ermetica», dell'uomo microcosmo, divina creatura posta al di sopra di
tutti gli esseri mondani. Si noti come anche qui, ovviamente, riemerge il nome di Ermete Trismegisto:
«Nessun effetto potersi sopra la sua causa elevare sia nostro principio a mostrare l'immortale e divina
natura dell'uomo. Questo si vede per tutto, chè il generato fuoco non può far più che attenuare, scaldare,
movere, imbianchire, ammollire e densare le cose dissimilari, e quel tutto che il suo generante faceva o
poteva fare; anzi mai non può arrivare a farsi come il sole onde egli è derivato. Nè l'acqua fa più operazione
che d'acqua, nè la terra più che di terra. Ma noi veggiamo che l'uomo non si ferma sotto la natura degli
elementi e del sole e della terra, ma molto più sopra loro intende, desidera e opera più che nullo effetto loro
altissimi effetti; talché non pende da loro, ma da cagione molto più alta che Dio s'appella. Ecco che quando
l'uomo va cogitando, pensa sopra i sole e poi più sopra, e poi fuor del cielo e poi più mondi infinitamente,
come escogitarono pure gli Epicurei. Dunque di qualche infinita cansa ella è effetto, e non del sole e della
166
I.P. Couliano, Eros e magia nel Rinascimento, cit., pp. 41-42.
167
I.P. Couliano, Eros e magia nel Rinascimento, cit., pp. 42-46.
168
Del senso delle cose, cit., p. 118 e seguenti.
terra sopra li quali infinitamente trapassa. Dice Aristotile ch'è vana imaginazione pensar tanto alto; e io dico
con Trismegisto ch'è bestialità pensar tanto basso; et è necessario ch'egli mi dica d'onde avviene questa
infinità. Se si risponde che da un simile mondo un altro simile si pensa, e poi un altro, poi in infinito, io
soggiongo che questo caminare di simile in simile senza fine, è atto di cosa partecipe dell'infinito; e benchè
le belve da un simile all'altro scorrano, ciò avviene perchè tutte le coloscenze vengono dalla prima sapienza,
e però son tra loro simili; ma chi più è elevata e chi meno. E non perchè l'essere è univoco all'aria, alla terra e
al sole, anzi a Dio, secondo Scoto Teologo, resta che il sole senza fine non vinca la nobiltà della terra; nè
perchè gli uomini sono sapienti e Dio sapiente, resta che Dio senza comparazione non sia più dell'uomo
sapiente. Ma come potrà il sole aver dato discorso infinito sopra sè stesso all'uomo, se tutta l'anima umana
fusse spirito solo dal sole ingenerato? Che li animali non abbino sì gran discorso, si vede, perchè da tal
discorso è nata la conoscenza dell'infinito Dio e gli fur fatti sacrifici e tempii e dottrine sacre le quali tra gli
animali non sono. E quantunque alcuno adori la luna, come gli elefanti, e altri il sole, come il gallo, e altri
altra cosa, non però hanno a Dio infinito inalzata la religion loro. Ben si deve stimare che tra l'api e animali
gregali ci sia conoscenza confusa della Divinità, perchè ogni cosa ama il bene, e in confuso tutti il primo
bene presentiscono. Ma questa chiara scienza dell'infinito invisibile nell'uomo solo è manifesta per
l'operazioni e la religione de' bruti è solo verso le creature finite visibili e superiori manifestamente per li
beni temporali che da loro ricevono, ma quella dell'uomo è verso l'infinito bene invisibile e per beni eterni
con disprezzo delli beni temporali. Di più, nullo ente opera oziosamente le sue azioni maggiori, a tutti le
drizzano al fin loro certo per natura; ma l'uomo ha per sue nobilissime operazioni la religione e scienza, la
quale più tosto sarìa travaglio alla vita corporale che utile. Dunque è forza che altra vita a lui si convenga e
che l'anima sua communichi con la divinità, del che n'hanno fatto fede tanti sapientissimi e ignorantissimi e
d'ogni condizione uomini, che con sangue sparso, con miracoli, con testimonianze, con fervenza di spirito e
certezza d'asserzione, senza esitare nè desiderar onore e beni della presente vita hanno fatto noto al mondo di
aver parlato con gli Angeli, con Dio, e aver visto inestimabile beatitudine, dopo questa vita da loro sprezzata,
a noi restare. Certo a tutti gli uomini è naturale la religione, chè patendo guai o buona ventura incorrendo,
subito si voltano al Cielo per domandar soccorso o rendere grazie; e perciò trovarono sacrifici e oratorii; ma
altri altramente, chè questo poi nasce dal commodo, dal paese e dal vario intendere delle cose sovrane, e
pesso da qualche errore nel modo, ma non nella cosa, mentr'ognuno si pensa il vero Dio adorare: e questo è
segno che l'uomo con i superi abbia communicanza.
Di più, nulla natura di cose pensa a quel che a lei non conviene naturalmente, ma tutti attendono a
conservarsi in quella vita che hanno sortita, ma l'uomo non si contenta della vita presente, ma pensa ad altra,
studia di saperla e patisce ogni affanno per arrivarci. Troppo vana curiosità la natura averìa dato all'uomo, se
questa vita non se gli convenisse dopo morte, e la natura non opera in vano nè dona desiderii tanto strani a
gli altri animali, talchè sariano di miglior condizione i peggiori enti che li migliori.
Similmente l'appetito dell'uomo è infinito, perchè non gli basta un podere, nè una città, nè un regno, nè un
mondo, poichè Alessandro si dolse di non poter andare a soggiogare i mondi di Democrito; e questo
desiderio tutti l'abbiamo. Dunque è segno che l'infinito sia oggetto del nostro appetito naturale, e quantunque
il fuoco accenda senza fine, e ogni altra cosa vivente senza fine vorrebbe, onde par che dal fuoco questo
desiderio nasca, nondimeno l'uomo non si metterà per natura a quelli appetiti che non può saziare [...]» 169.
In ultima analisi si tratta di una severa critica alla concezione antropologica (e cosmologica) aristotelica:
non a caso il confronto si ricollega immediatamente al tema dell’infinito e alla contrapposizione tra
antropologia ermetica e aristotelica («... Dice Aristotile ch'è vana imaginazione pensar tanto alto; e io dico
con Trismegisto ch'è bestialità pensar tanto basso; et è necessario ch'egli mi dica d'onde avviene questa
infinità [...]»). Del resto, conclude Campanella, «come poteva entrare in mente umana pensiero d’essere
immortale se non se ‘l conoscesse in sè, o da Dio non gli fusse permesso?» 170. È dunque la sapienza divina a
permettere e a garantire un processo comunicativo di natura magica, per il quale l’uomo ritrova in sé stesso
l’immagine del Dio Creatore. L’ultima prova di questa innata dignità, di origine divina, viene proprio dal
confronto con la Natura, alla quale l’uomo è in tutto superiore. Si noti come, superato il momento di
confronto-celebrazione della superiorità rispetto al mondo animale - alla fine sarà proprio l’ars astrologica a
mostrare come la dignità umana si concretizzi in una capacità magica di scrutare ed interpretare rettamente le
divine azioni celesti:
«[...] l’uomo nasce nudo, inerme, con poca industria, piangendo, senza saper lattare e magnare, nè aiutarsi;
e tutti gli altri animali vestiti di squame, di piume, di pelo, armati di denti, di corna, di spine, di unghie,
d’artigli, [...] e sanno subito caminare, magnare e aiutarsi e nondimeno l’uomo fra poco tempo tutti gli
169
Del senso delle cose, cit. pp. 120-122.
170
Del senso delle cose, cit., p. 122.
animali vince, e si veste de loro pelli e magna le loro carni, e li doma e cavalca, e s’arma delle loro armi, usa
la lor forza come sua. Si veste d’oro, d’argento, di ferro, e nuota in mare, vola in aria come Dedalo, corre per
terra con li piedi suoi e delli animali, e tutto il mondo camina per acqua, vincendo l’onde superbissime e i
fieri venti come signore del mare, e tutti i metalli al suo uso doma e stende e opera. Degli arbori fa navi,
stanze, sedie, casse, fuoco; si mangia i lor frutti e si serve delle foglie e fiori a spassi, a medicina. Usa le
pietre, monti, selve a suo gusto e pare essere il signore del mondo non che degli animali. Ora qual animale
forte e sagace può far quel che fa l’uomo inerme, nudo, debole e timido, nè una minima parte di queste? Mi
dirai: l’api si fanno republica come l’uomo, gli elefanti la religione, i ragni le reti così sottili che non fa
l’uomo, altri li nidi, altri la guerra usar bene sanno. E io ti dico che tutte quante cose fanno gli altri animali,
fa l’uomo, e assai più, chè esso instituisce republiche, fa leggi e città, e tempii, religione a Dio, medicina
meglio che i cani, ibice e ippopotamo. E se ognun di loro ad una cosa sola, et egli a mille è buono. Per far le
reti per gli augelli come il ragno, le celle come l’api, la milizia come grui o pesci, e da tutti piglia esempio e
migliora ogni loro arte e industria; e vince la forza dell'elefante che porta sopra una torre d'uomini, lo doma e
comanda, e così al leone; uccide e magna le balene. Che si può dir più? Nullo animale, benché abbia le mani
come la scimia e l'orso, sa adoperare il fuoco, né toccare, né pigliarlo dal sole, cavarlo dalle pietre,
accenderlo, mitigar con quello i metalli, gittare i monti, cuocere le vivande, e far tuoni e lampi come Dio fa
nell'aria, così fa l'uomo con l'artegliaria, e quel ch'è cosa stupenda fa di notte giorno con la candela e con ogli
accesi tanto mirabilmente, e così si serve del fuoco come di cosa vile rispetto a lui. Or se l'uomo non avesse
altr'anima che dal fuoco, potrìa sprezzare sì nobilissima e potentissima natura che gli animali non osano
mirare, e molte nazioni l'adorano? L'arte del fuoco è unica dell'uomo; e dar senso alla scrittura, farla parlare,
e che gli orologi notino il tempo, e l'uso della calamita che mira al polo sono invenzioni d'animo divino.
Ma l'Astronomia mostra l'uomo celeste, poichè mira in suso e misura la grandezza delle stelle, numera i
moti, e quel che non vede lo finge con epicicli et eccentrici, e fa li conti suoi tanto giusti, non solo come
conoscitore, ma quasi come fabro del cielo; e in tanta varietà d'opinioni del modello e dei principii delle cose
si mostra la divinità sua che per tante vie camina alla conoscenza del Creatore. E quel ch'è stupendo, ha
trovato quando si fanno gli ecclissi de' luminari, e li predice molti secoli innanzi, e le congiunzioni e aspetti
di tutte le stelle, le nature e nomi, le comete, i loro significati e gl'influssi, quel che fanno in terra, in aria e in
acqua, i tempi de' solstizii et equinozii, i mutamenti loro e delli apogei et eccentricitati che riescono a
cupella. E quando Dio varia qualche cosa in cielo, l'uomo s'accorge e nota l'anomalie e irregolarità sue, e
sempre fa nuove tavole e indici di cose lontanissime e argomenta la morte e la vita, non solo dell'uomo, ma
delli animali, delle republiche, de' regni, anzi del mondo istesso che ha da perire per fuoco. Tutti gli animali
stanno dentro il ventre del mondo, e l'uomo con loro, come vermi dentro il ventre dell'animale; e pur solo gli
uomini s'accorgono che cosa è questo secondo grande animale e li suoi principii, corsi, vita e morte. Dunque
l'uomo non sta solo come verme, ma come ammiratore e luogotenente della prima causa, architettrice d'ogni
cosa. Di più l'uomo communica con gli Angeli e con Demoni e con Domine Dio; e negar questo è
sfacciataggine come chi negasse ci sia Roma perchè non l'ha vista e negare che sia stato nel mondo Cesare o
Alessandro perchè non fu a tempo suo; e già con tanti miracoli e con la vita propria ne fano fede tutte le
genti, ch'è gran falsità quella d'Aristotile; che nega gli Angeli e Demoni. Io certo reputo baia l'argomento
d'Aristotile che dice Dio potere ogni cosa fare perchè a tutte è presente, e però non aver bisogno de' ministri
come il Re, perchè i ministri sono argomento di sua fiacchezza; perchè se questa ragione valesse, manco
bisognava fare il sole e le stelle e il mare perchè egli può illuminare il mondo e farsi liquido in luogo loro.
Esperienza propria io non ho se non de' Diavoli che si forzarono farmi credere che l'anima va di corpo in
corpo e che l'uomo non abbia libero arbitrio, e mi predissero cose vere e false; non dico ne' corpi umani
chiusi, ma in apparizione certa che mai non l'averei pensato che siano tanto malvagi e pregai Dio che mi
facesse vedere Angeli buoni e mai non l'ho impetrato, e il Diavolo disse che tutti son buoni chi più e chi
meno, e conobbi gran malignità e diventai più uomo da bene. Nè questa è sapienza di sciocco nè di bugiardo,
chè dall'uno e dall'altro sempre mi guardai più che dal Diavolo istesso» 171.
Campanella ammette, tra l’altro, una sorta di incontro demoniaco, probabilmente seguito di un rito non
esattamente bianco. È da questa esperienza - pur negativa - che lo Stilese prende conferma delle sue tesi: la
magia demoniaca è servita a provare una struttura metafisica della realtà priva di barriere insormontabili tra
mondo spirituale e materiale. Così come i diavoli si presentano agli uomini, altrettanto sarà possibile
comunicare con gli Angeli di Dio.
Anche in questo momento lo Stilese si ricollega evidentemente al Corpus Hermeticum, dove si legge che
l’uomo «è costituito in modo da abbracciare ad un tempo il terrestre e il divino» 172. Il nesso tra credenza nella
171
Del senso delle cose, cit. pp. 123-126.
172
Corpus Hermeticum, IX, 4. Citato in J. Evola, La Tradizione Ermetica, cit., p. 21.
magia e nell’astrologia e concezione metafisica della realtà di tipo teo-analogico è dunque strutturale, e a ben
vedere costituisce l’elemento unitario di tutto lo svolgimento campanelliano.
Ora è bene precisare un punto di fondamentale importanza. Più avanti si noterà come nel pensiero politico
campanelliano, così come in quello propriamente teologico, emerga - e non a caso - una serie complicata di
nessi con il pensiero magico-ermetico. Ricorderò ancora una volta, per esempio, che un intero libro della
Theologia, viene significativamente intitolato “Magia e Grazia”.
Fin dall’inizio ho cercato di rileggere molti degli atteggiamenti campanelliani alla luce delle maggiori
interpretazioni che sono state date dell’ermetismo rinascimentale. Ora, visto che non tutto il panorama critico
è concorde sulla definizione dell’ermetismo, credo sia necessario esplicitare con chiarezza il senso che
assume in questo studio la definizione di “ermetico” applicata al pensiero campanelliano.
Il lettore dovrebbe ricordare almeno una chiave di lettura, fin qui più volte esposta: Campanella non fu un
pensatore ermetico di tipo radicale, come ad esempio Giordano Bruno. L’uso del concetto di infinito
testimonia appunto la differenza strutturale tra le posizioni radicali del Nolano e quelle dello Stilese. Ciò
nonostante sono risultati del tutto evidenti alcuni motivi, di fondamentale importanza, perfettamente
collocabili all’interno della tradizione ermetica rinascimentale.
Ora è bene precisare che il termine “Tradizione Ermetica” deve essere qui inteso nel senso speciale che il
Medioevo e la Rinascenza gli hanno dato. Come osservava con acutezza, ormai nel lontano 1948, J. Evola,
«Non si tratta dell’antico culto egizio ed ellenico di Ermete, e non si tratta solamente delle dottrine comprese
nei testi alessandrini del cosiddetto Corpus Hermeticum. Nell’accennata accezione l’ermetismo si
compenetra con la tradizione alchèmica»173. Preghiamo il lettore di non cedere allo sgomento e di attendere
un ulteriore, opportuno, chiarimento.
J. Evola aveva ben capito che «In fatto di alchimia [...] va accusato l’errore di quegli storici della scienza, i
quali vorrebbero ridurla tutta ad una chimica allo stato infantile e mitologico. Di contro a ciò stanno le
esortazioni esplicite degli autori ermetici più quotati, a non lasciarsi ingannare, a non prendere alla lettera le
loro parole, perchè esse si rifanno tutte ad un linguaggio cifrato, ad un modo di dire per simboli ed allegorie
[corsivo mio]. Tali autori hanno inoltre ripetuto sino a sazietà che “il fine dell’Arte nostra preciosa è
nascosto”; che le operazioni, cui essi alludono, non si fanno con le mani; che i loro elementi sono invisibili,
non quelli che il volgo conosce»174.
Gli ermetici, proseguiva Evola, «hanno enunciato continuamente condizioni etiche e spirituali, e nel
riferimento al senso vivente della natura il loro mondo ideale appare inseparabile da quello, tutt’altro che
“chimico” dello gnosticismo, del neoplatonismo, della Kabbalah e della teurgia» 175.
L’idea di una natura vivente costituisce senza dubbio un momento comune anche alla cosmologia e alla
metafisica campanelliana. Per gli ermetici, come per Campanella, «Il punto fondamentale concerne
l’esperienza umana della natura [...]: nel mondo tradizionale la natura era non “pensata” ma vissuta come un
gran corpo animato e sacro, espressione visibile dell’invisibile. Le conoscenze intorno ad essa erano date da
ispirazioni, intuizioni e visioni, e venivano trasmesse “iniziaticamente” come “misteri”, vivi, [...]. Il mito,
allora, non era una escogitazione arbitraria e fantastica: scaturiva da un processo necessario, ove le stesse
potenze che formano le cose agivano sulla facoltà plastica dell’imaginazione [...]» 176.
Aggiungerei a queste datate - ma ancora valide - osservazioni di Evola una ulteriore sottolineatura: si dovrà
ricordare che le esperienze demoniache dello Stilese - che oggi farebbero sinceramente sorridere la maggior
parte dei lettori, perfino dei credenti - erano nel ‘600 un fatto comune, sul quale in pochi avevano il coraggio
di dubitare. L’incredibile fenomeno della caccia alle streghe testimonia, fra le altre cose, la diffusione e la
profondità della paura del demonio. La credenza nel Diavolo, che è sopravvissuta, pur modificata, fino ai
giorni nostri, era molto sentita anche al tempo di Campanella. L’immaginario medievale non era affatto
superato, anzi aveva trovato nella nuova cosmologia una sua naturale giustificazione: se tra il mondo
spirituale e quello naturale non esiste frattura questo significa che i dèmoni non sono affatto rinchiusi in un
Inferno sotterraneo, ma possono materialmente insidiare la vita degli uomini, sulla terra. Da questo punto di
vista la teurgìa ermetica assume quasi un significato liberatorio: molto spesso, leggendo le poetiche
preghiere ermetiche, si ha quasi l’impressione di trovarsi di fronte a vere e proprie formule esorciste. Per
esempio, all’inizio delle loro celebrazioni, i Figli di Ermete erano soliti recitare ad esempio questo inno
magico-propiziatorio:

173
J. Evola, La Tradizione Ermetica, Laterza, Bari, 1948, Prefazione, p. I.
174
J. Evola, La Tradizione Ermetica, cit. p. 2
175
J. Evola, La Tradizione Ermetica. cit., p. 2.
176
J. Evola, La Tradizione Ermetica, cit., p. 25.
«Universo, sii attento alla mia preghiera. Terra, àpriti. Che la massa delle Acque mi si apra. Alberi, non
tremate. Che il Cielo si apra e i venti tacciano! Che tutte le facoltà in me celebrino il Tutto e l’Uno!» 177.
Come vedremo, molte delle Poesie campanelliane, soprattutto quelle che esprimono la sofferenza del
carcerato mediante una sottile simbologia liberatoria, testimoniano un uso magico della parola, della poesia.
L’unione teurgica al divino passava anzitutto attraverso una riconsiderazione della grande madre Terra. Il
carcerato potrà attuare questa unione naturale soprattutto attraverso una operazione magico-fantastica, che si
serve di una complessa metodologia simbolica al fine di superare gli ostacoli fisici che impediscono la libertà
del corpo e quindi dell'anima. Per una corrente del pensiero ermetico la vera ascesi non porta mai al distacco
dal mondo: al contrario, si cerca di raggiungere l’unione di tutto il Mondo a Dio, eliminando o modificando
radicalmente l’idea platonico-cristiana di trascendenza. Di questa concezione ermetica ricorderemo
soprattutto il principio dell’unità, che come aveva già notato U. Eco, nega alla base i principi della logica
aristotelica. La formula che vi corrisponde, la ritroviamo ad esempio nella Crisopea di Cleopatra 178, dove si
dice che “Uno è Tutto”. E qui, come notava il già citato Evola, non si tratta semplicemente di una teoria
filosofica (ipotesi della riducibilità di tutte le cose ad un unico principio), ma di uno stato determinato, «dato
da una certa sospensione di quella legge di distinzione fra Io e non-Io e fra ‘dentro’ e ‘fuori’ che, salvo rari
momenti, domina la comune, più recente percezione della realtà» 179. Non si ha a dunque a che fare con il
simbolo di una assunzione della natura sub specie interioritatis, la quale porta di là dall’antitesi fra materiale
e spirituale, fra mondo e supermondo180. Ora, se la coincidenza di corporale e spirituale, di cui si è detto,
viene intesa cosi come deve essere intesa, cioè «non nel riferimento a due principi che, per quanto si chiami
l’uno ‘spirituale’ son pensati come parti di un tutto comunque esteriore alla coscienza, bensì in modo
vivente, come dato di una esperienza reale - veniamo ad un altro insegnamento ermetico fondamentale:
quello dell’immanenza, della presenza nell’uomo della ‘rosa meravigliosa’ del ‘caos vivo’ nel quale ogni
possibilità è compresa. È così che nei testi ermetici vi è un continuo passar degli stessi termini da un
significato cosmico-naturale ad un significato interiore umano [...]» 181.
Queste attente osservazioni di Evola possono facilmente adattarsi alla filosofia campanelliana, dove il
terreno di assimilazione ermetica è costituito dal substratum psicologico e dalle conseguenze di un pensiero
di natura mitica. Questo risulterà evidente anche dalla impostazione - appunto: mitica - della filosofia della
storia campanelliana.
Vorrei qui ricordare che André Jean Festugière, delineando un quadro introduttivo della mistica ellenistica,
aveva scritto:
«Che un uomo si senta solo, come sperduto nel mondo, insoddisfatto del proprio pensiero, della vita
sensibile e dell'attività umana, che quest'uomo creda all'esistenza di un Principio che lo domina, alla
possibilità di raggiungere tale principio e di fondervisi in un'unione intima e personale, ecco quelle che
sembra siano le condizioni psicologiche indispensabili a ogni mistica, greca o orientale, pagana o
cristiana»182.
Naturalmente, anche questa osservazione si adatta perfettamente alla psicologia e allo stato d'animo
campanelliani.
Lo stesso Festugière ha studiato a fondo il fenomeno ermetico classico, ed ha sapientemente ordinato una
materia così complessa in modo estremamente convincente. Credo pertanto sia utile ricordare brevemente
alcuni dei risultati di questo fine studioso, anche perché - come sarà facile notare - questi presentano notevoli
punti di contatto con la struttura teoretica del discorso filosofico e religioso del pensatore di Stilo, soprattutto
nelle sue conseguenze teologiche, cosmologiche e politiche. Vediamo dunque di riassumere brevemente un
importante capitolo dell'ormai classico "Ermetismo e mistica pagana". Festugière osserva che «Per dare
ordine a una materia che va da Plotino ai testi astrologici e a quelli alchemici e magici, passando per le opere
di teurgia, il principio di organizzazione deve essere tratto dalle condizioni genetiche, di ordine psicologico,
del fenomeno mistico, e non da tale o talaltra particolarità del contenuto di tali mistiche»183.
Come vedremo, per esempio analizzando un'opera come la Città del Sole, l'importanza di queste condizioni
genetiche, di ordine psicologico, non può essere sottovalutata in nessun modo: a prescindere da questi
elementi, lo stesso motivo unitario del pensiero campanelliano risulta di impossibile comprensione.
Tornando al tema dell'ermetismo, Festugière prosegue la sua analisi osservando:
177
Corpus hermeticum, XIII, 18, cit. in J. Evola, La Tradizione Ermetica, cit., p. 25 e 26.
178
Codice Marciano, Ms. 2325, f. 188b; anche Ms 2327, f. 196, cit. in J. Evola, La Tradizione Ermetica, cit., p. 30.
179
Cfr. J. Evola, La Tradizione Ermetica, cit., p. 30.
180
Cfr. J. Evola, La Tradizione Ermetica, cit., p. 32.
181
Cfr. J. Evola, La Tradizione Ermetica, cit., p. 33.
182
A. J. Festugière, Ermetismo e mistica pagana, Il Melangolo, Genova, 1991, p. 13.
183
A. J. Festugière, Ermetismo e mistica pagana, cit., p. 14.
«Una mente filosofica è maggiormente colpita dalle carenze dell'essere sensibile, tende quindi a unirsi a un
Principio che sia, essenzialmente ed eminentemente, l'Essere (Der Seiende). L'essere (das Sein) manifesta la
propria carenza in tutte le cose del mondo, in quanto mutevoli e materiali; ciò conduce a ricercare un Essere
che trascenda tutto l'ordine della materia, un Principio ipercosmico. L'essere (das Sein), però, è parimenti ca-
rente rispetto agli stessi intelligibili, per il fatto che ciascuno di essi esprime soltanto un'essenza limitata che
non potrebbe abbracciare tutta l'estensione dell'essere: la consapevolezza di questa nuova manchevolezza
conduce a ricercare un Essere che trascenda anche l'ordine degli intelligibili, un Principio sovraessenziale.
Dalla determinazione di tale Principio dipendono a loro volta i mezzi impiegati per il suo conseguimento
[corsivo mio]. L'ascesa verso l'Essere non comporterà soltanto una purificazione di ciò che in noi è
condizionato dalla materia e che ci lega al mondo visibile, ma implicherà anche un salto oltre l’intelligibile.
L'Essere che si vuole raggiungere sarà doppiamente àgnostos: sfuggirà ovviamente a ogni percezione
sensibile, poiché è, per definizione, immateriale; ma si sottrarrà ugualmente a ogni presa intellettuale, dal
momento che oltrepassa tutti gli intelligibili limitati per confondersi, nella sua essenza, con l'Infinito. Un tale
Principio indefinibile sarà di conseguenza innominabile, ineffabile. Per accostarvisi, una volta trasceso il
materiale, occorrerà negarne ogni determinazione intelligibile: è la via della negazione [...]. A quest'apice, in
questa nube luminosa, non resterà altro che attendere il fenomeno grazie al quale, uscendo per così dire da se
stesso e dall'ordine concettuale che ne è il regno ordinario, il Nous entrerà in contatto con l'intima realtà
dell'Essere attraverso un misterioso congiungimento»184.
Al contrario, prosegue Festugière, «Menti differenti saranno più colpite dalle manchevolezze dell'ordine,
ovverosia dal disordine delle cose del mondo - disordini nella vita individuale, sofferenze fisiche e morali di
ogni sorta, che ci rendono sensibili a ogni miseria, a ogni bruttura e a ogni ingiustizia del mondo. Il
sentimento di una tale inadeguatezza induce a ricercare un Ordine autentico, per ammirarlo e piegarvisi, o il
Principio di un Ordine in cui trasfondersi: mediante la contemplazione, o grazie a tale unione [corsivo mio],
l'uomo sfuggirà al disordine di cui soffre nella propria esistenza particolare» 185.
Dunque «Si possono qui distinguere due atteggiamenti contrastanti che verranno definiti, per semplificare,
atteggiamento ottimista e atteggiamento pessimista.
I. Da un lato, pur ammettendo il disordine del mondo, si circoscrive tale disordine alla regione sublunare,
vale a dire alle cose terrene propriamente dette. Soltanto questa sfera sarebbe affetta dal male, mentre ne
sarebbe salvo l'universo nel suo insieme. La saggezza consisterà allora nello sfuggire al disordine delle cose
terrene mediante la contemplazione dell'ordine immutabile del cielo; in particolare della bellezza e della
regolarità dei moti planetari. Si tratta della "mistica astrale" (Cumont). Questa contemplazione può
presentare due sfumature.
a) Talvolta si considereranno gli astri come la realtà stessa e la forma più alta del divino; e, giacché i
movimenti degli astri determinano tutti i cambiamenti sublunari, e in particolare gli avvenimenti della vita
umana, queste determinazioni saranno considerate una regola giusta e buona; mediante una sorta di
sublimazione, l'uomo potrà dimenticare ciò che il "legame degli astri" ha per lui di doloroso, elevarsi al loro
piano e rassegnarsi ai loro disegni. Contemplando l'ordine universale, elude il disordine particolare che lo
attanaglia; e questa contemplazione gli sarà tanto più facile se si rivolgerà in adorazione muta alla bellezza
degli astri (che sono dèi) per entrare in comunione con essi.
b) Talaltra, riflettendo sul fatto che anche gli astri obbediscono a un medesimo Logos immanente al
Kosmos, si risalirà col pensiero sino a un Supremo Ordinatore, per uniformare la propria volontà alla sua,
certi che tutti i disordini apparenti nascondono un Ordine che sebbene invisibile, e comunque incontestabile.
Questa Ragione universale non può senza dubbio essere appresa direttamente, mediante la percezione
sensibile. Possiamo però conoscerla per via analogica [corsivo mio]. La visione del mondo serve da scala
per raggiungere Colui che ha creato il mondo e che ne mantiene in vita l'armonia.
II. Dall'altro lato, si considera invece malvagio l'universo intero, cielo e terra; sia perché è materiale, sia
perché, essendo causa di sofferenza, l'ordine immutabile degli astri che presiede a tutto il mondo materiale e,
per quanto concerne l'uomo, un disordine; pertanto dal disordine particolare si inferisce un disordine
universale. L'ordine, e il Principio dell'ordine, sono dunque da ricercarsi fuori dal mondo, in una divinità che
sia superiore a questo mondo, non vincolata alla Heimarménè cosmica; la salvezza, la liberazione, consisterà
nell'unirsi, mediante qualsiasi mezzo, a questa divinità.
Da questo principio generale deriva un certo numero di tratti comuni che concernono tanto (a) la forma che
(b) il contenuto di queste "mistiche della salvezza".
a) Aspetto formale delle mistiche della salvezza.
184
A. J. Festugière, Ermetismo e mistica pagana, cit., p. 15.
185
A. J. Festugière, Ermetismo e mistica pagana, cit., p. 16.
1. Se il mondo, retto dalla Heimarménè, è malvagio, tutto quel che nell'uomo partecipa del mondo è
anch'esso malvagio, o comunque macchiato dal male. Tuttavia la parte cosmica dell'uomo non è solamente il
suo corpo, ilico per definizione, ma anche la sua anima legata al corpo e, nell'anima, la ragione raziocinante,
la quale, pur essendo in grado di conoscere ciò che si trova all'interno del mondo, non è pero capace di
elevarsi oltre il mondo sino alla comprensione del vero Dio ipercosmico. Il pessimismo che coinvolge il
mondo conduce così a un pessimismo, più o meno radicale, nei confronti della ragione umana. L'uomo non
può dunque salvarsi mediante le sole forze della ragione: gli è necessario un aiuto esterno, una grazia divina.
a. La grazia divina si manifesta anzitutto nell'ordine della conoscenza. Dal momento che la ragione umana
è incapace di raggiungere Dio, Dio non sarà conosciuto salvo non sia lui stesso a rivelarsi. La conoscenza di
Dio fuoriesce cosi dal livello logico e intellettuale, e da una mistica che, pur oltrepassando tale livello, lo
prolunga però su un medesimo piano, per entrare nel regno della gnosi [...] che è conoscenza mediante fede:
o si crede alla rivelazione o ci si rifiuta di credervi.
b. La grazia divina si manifesta in secondo luogo nell'ordine dell'azione. Coloro che hanno creduto in lui,
Dio li protegge per tutta la vita, [...] aiutandoli ad agire bene.
c. Si manifesta infine, ed è il suo beneficio più considerevole, nell'ordine degli ultimi fini. Una volta morto,
il fedele ascende al Dio Salvatore: supera lo spazio del mondo al di sotto e al di sopra della luna per
raggiungere, nella regione ipercosmica, il Dio nascosto.
2. Si viene così a formare un popolo di chiamati, di eletti. Questi hanno ricevuto la verità, vi hanno creduto,
per cui si distinguono assolutamente dalla massa. Il dono loro largito, però, impone in contraccambio dei
doveri: la rivelazione è un segreto [...] che essi non devono divulgare [...] o che possono trasmettere soltanto
ai "degni".
3. Nelle mistiche considerate più elevate [...], la mistica dell'Essere, la contemplazione degli astri, l'unione
alla Ragione immanente del cosmo, è un movimento di conoscenza che conduce all'adorazione: colit qui
nouit. Le vie della negazione, dell'estasi (plotiniana) e dell'analogia, sono tutte, ciascuna a suo modo,
metodi teorici di unione con Dio [corsivo mio]. Nelle mistiche della salvezza tale processo è rovesciato. Dal
momento che queste mistiche si basano su una concezione pessimistica delle possibilità dell'intelletto umano,
non si pensa infatti che la conoscenza possa condurre all'unione divina, la gnw%siv qeou% viene invece fatta
derivare da un'esperienza religiosa che prende quasi sempre le forme di una visione. Si è abbandonato il
piano della saggezza filosofica. Conoscere Dio è ormai una questione di iniziazione, di teurgia e di magia:
nouit qui colit»186.
È forse superfluo ricordare che teurgia e magia costituiscono nell'apparato campanelliano appunto una
metodica conoscitiva e pratica, di tipo mistico-religioso ma anche prettamente pratico-politico.
La sotterranea influenza esercitata dall'ermetismo rinascimentale sul pensiero campanelliano meriterebbe
una appropriata analisi storico-psicologica. Non potendo in questa sede approfondire ulteriormente il
discorso, rimandiamo il Lettore alla Appendice finale, nella quale vengono brevemente ripresi alcuni temi
fondamentali dell'ermetismo ed alcune ricostruzioni degli studiosi maggiori.
È tuttavia importante ribadire ulteriormente questa profonda influenza: ignorandola si correrebbe
inevitabilmente il rischio di estromettere dal nucleo teoretico del pensiero campanelliano uno degli elementi
di maggior peso, decisivi ad esempio nella delineazione utopica della Città perfetta. L’utopia campanelliana
è infatti basata anzitutto sull’idea della razionalità divina che la Natura esprime:
«Senza dubbio la prima sapienza, mente altissima d'ogni cosa, per eminenza è dentro a tutte le cose, e tutte
le cose sono in lei; e senza moversi è velocissima, camina da fine a fine del tutto, e ogni cosa opera come
principale agente, e ogni agente è suo instrumento, e gli errori degl'instrumenti sono, non suoi, ma più
risultano in laude sua»187.
Dunque
«Tutto [...] il mondo ha senso, come raggi del sole della sapienza prima, et essa guida tali raggi con
sapientissimo modo in ogni cosa che pare stolta, perché la stoltizia è della cosa e la sapienza è della mente
prima. Da questa dottrina passiamo ora sicuri alla divinità umana» 188.
È questo uno dei passi fondamentali, nel quale si può ben vedere la genesi della divinità umana: è dalla
teoria della compartecipazione universale che il Campanella trae motivo d’sipirazione per la sua
antropologia. In ultima analisi si deve però riconoscere che a sua volta la teoria del Mondo senziente è
convalidata proprio dall’idea della divinità umana (non era possibile che a una creatura tanto divina fosse

186
A. J. Festugière, Ermetismo e mistica pagana, cit., pp. 17-19.
187
Del senso delle cose, cit., pp. 131-132.
188
Del senso delle cose, cit., p. 134.
affidata la gestione di un Universo completamente degradato, ontologicamente del tutto inferiore rispetto
all’uomo).
Infatti, nel Capitolo seguente, Campanella passa subito a spiegare come

«Dell'imitazione dell'Autor della natura


l'uomo con quello convenire»189

In primo piano è ancor posta - apparentemente - la distinzione tra anima e spiritus:

«Ora affermo che l'anima da Dio infusa, sia all'uomo altra che lo spirito caldo e che per questa anima egli è
atto ad unirsi più con Dio e a far tante eccellentissime operazioni; ma non arriva mai a far quel che fa ogni
forma vile guidata dalla natura se non si serve dell'isetssa natura» 190.

L'attenzione sembra insomma concentrasi ancora una volta sulla differenza tra spiritus e anima. La
posizione intermedia dell'uomo appare dovuta alla compresenza di queste anime: mentre lo spirito sensitivo
(lo spirito caldo) avrebbe a che fare con l'esperienza mondana, l'anima vera e propria, di natura divina,
permette all'uomo di elevarsi al di sopra dell'esperienza per ricongiungersi con il piano divino dell'essere. Ma
per quanto possa sforzarsi di truccare i propri intenti con questa finzione, Campanella si tradisce poi con
evidenza nel secondo periodo, dove viene enunciata con cautela la magica teoria della comunicazione
universale: grazie alla dotazione di quest'anima divina l'uomo è in grado di compiere una magica operazione
teurgica. Le eccellentissime operazioni a cui fa riferimento sono ovviamente azioni magiche, e
presuppongono un utilizzo pregiudicato della natura istessa. Insomma: l'uniformità metafisica che collega il
mondo fino al suo livello materiale costituisce il presupposto naturale per le operazioni del mago. Il mago
può operare solo in virtù di una speciale unione con il divino, resa possibile sia dalla struttura metafisica del
reale che dalla dotazione di un'anima angelica, che rende anche possibile una collocazione intermedia, tra
mondo angelico e mondo bestiale. In parte, si tratta di una ripresa di temi bruniani, ben noti ai lettori del De
magia e del De vinculis in genere. Ora è importante notare che la divinità dell’uomo emerge anzitutto sul
piano della sua capacità di imitare la razionalità che la natura (anch’essa divina) esprime:
«Questa natura è l'arte che Dio infonde ad ogni cosa per arrivare al suo fine, et è intrinseca ad ogni cosa e
consta de' principii metafisici: possanza, senno e amore; e dell'istessa ogni ente consta chi più e chi meno; e
alli atti estrinsechi poi stendono quest'arte gli enti, imitando 1'intrinseca arte e chi sa meglio imitarla, quello
si scorge di natura più divina. Talché è divinissima la natura dell'uomo che imita l'intrinseca natura degli
animali e d'ogni cosa negli artifici esteriori; ma gli animali non sanno imitare quel che in loro stessi è, nè
intenderlo; e se bene l'uomo non l'intende a pieno, intende tanto che basta a mostrarlo divino.
Dunque ha fatto la città e la casa simile al corpo: la testa è il castello, e cosi il palazzo superiore; si fè le
sale come li ventricelli del cerebro, la camera interiore come la cella diretana, il cenacolo come la mezzana e
sottana, le vesti e le mura come il cuoio, le strade e corritori come i nervi, e l'acquedotti come le vene e
arterie, i fonti come il fegato, le fornaci e mantici come il cuore e il polmone, [...]» 191.

Addirittura, prosegue Campanella,

«volsero gli uomini farsi adorare per Dei et emularono la Deità prima; e benchè questo sia gravissimo pec-
cato, nondimeno mostra aver l'uomo in sè divinità, e che abusando tanto dono sconosce il donatore, ma
servandosi in servizio di quello, si può con verità deificare, come hanno dimostrato quei che resuscitarono
morti, sanarono infermi, volarono in aria, profetarono il futuro, domarono ogni mostro bestiale e umano con
parole semplici, confidati in Dio»192.

Il Domenicano non vuole poi direttamente entrare nel merito del problema della trasmigrazione delle
anime, perché «Qui basta vedere che le cose sentano e che l’uomo sia superiore anima alle bestie» 193. Inoltre
«La trasmigrazione è dannata dai Teologi, il peccare in coelis, benchè Origene l’affermi, è dannata dalla
Chiesa santa; nè credo potersi dar ragione perchè Dio inchiuda l’anime nei corpi dove stanno carcerate,

189
Del senso delle cose, cit., p. 134.
190
Del senso delle cose, cit., p. 134.
191
Del senso delle cose, cit., p. 134-135.
192
Del senso delle cose, cit., p. 136.
193
Del senso delle cose, cit., p. 138.
secondo san Paolo dice, e Salomone, e Trismegisto dice che stanno in un sepolcro portatile, e ogni savio
questo conobbe»194.

Ma

«[...] la figura tutta dell'uomo volta al cielo, e non prona a terra come le belve, mostra la mente celeste in
alto aspirare, come il collo lungo dell'anitra per pigliare i vermi sotto acqua e delle cicogne per le serpi e la
tromba dell'elefante per opere manuali sue; la bocca lunga al cane per imboccare par nata, e ogni animale è
disposto in figura al suo fine, onde nacque la fisionomia nostra con loro. Dunque l'uomo par fatto per mirare
il cielo e tiene più cervello di ogni gran bestia, [...] e le celle larghe di molti spiriti capaci, servienti all'anima
immortale, come dirò or ora, e il commercio che ha solo con li superi e la profezia sopra naturale, mentre gli
altri animali presentiscono solo le pioggie e venti e quel che importa alla vita corporale, mostrano l'uomo
nato a quel sapere che ad altra vita importa, e queste convenire a lui, come quella alli bruti» 195.

La capacità - solamente umana - di commerciare con li superi e di praticare una forma raffinata di
astrologia sta ad indicare seriamente la sua superiore dignità, alla quale si addice propriamente un rapporto
privilegiato con il divino. Alla obiezione secondo la quale tutte le operazioni dell’anima umana sono in
ultima analisi comuni a quelle degli animali (nel senso che l’unica differenza possibile è quella quantitativa),
Campanella obietta ribadendo una collocazione gerarchicamente insostituibile (e non modificabile)
dell’uomo rispetto a tutta la Natura: «Ma se tutte l'operazioni dell'anima nostra sono communi alli bruti, qual
ne mostrerà che si separi come immortale dal mortale corpo, e non come spirito svanisca in aria? e perchè
muore l'uomo per troppa allegrezza e per la cicuta? E tutte le ragioni dette della morte dello spirito, contra la
mente umana corrono.
Rispondo che quel ch' è in Dio, è in tutte le cose dove più chiaro, dove più oscuro, e che se bene gli animali
hanno tutte l'operazioni che ha l'uomo, nondimeno sono tanto oscure rispetto a quelle dell'uomo che ben si
può vedere esser certo quel che Dio manifestò a tanti pii e savii, che l'uomo sia immortale.
Hanno pur le pietre e le piante senso, ma rispetto alle belve paiono insensate, e l'ostraga rispetto
all’elefante, par che non sia animale. Nondimeno l'animale è atto ad esser amico e compagno dell'uomo,
come il cavallo e il cane e altri, ma non la pianta e la pietra che solo servono ad usi bassi, come l'uomo così è
atto ad esser compagno degli Angeli e di Dio; ma non le belve»196.
Concludendo, «s'è visto la signoria dell'uomo in tutte le cose pender solo dal giudizio et egli potere imitare
Dio in tutte l'opere della natura che è arte divina; e la prima sapienza servirsi dell'uomo a cose altissime
come d'instrumento a sè consimilissimo e capace di divinità e immortalità»197.
La ragione della speciale dignità umana riposa dunque interamente nel Disegno divino: l’uomo è dotato di
una natura quasi angelica per poter adeguatamente servire la Prima Sapienza. Al solito, Campanella riesce a
collocare tutti gli elementi della sua concezione all’interno di un quadro sostanzialmente unitario, dove
l’origine e la fine del ragionamento sono costituiti da un momento in ultima analisi religioso e mitico:
all’inizio dei tempi Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza perché questi portasse a compimento il
tempo storico, secondo il piano divino. L’Astrologia costituisce - all’interno di questa concezione mitica
dell’uomo e del tempo - uno strumento di formidabile importanza: permette di scrutare e di interpretare
rettamente i disegni che la Prima Sapienza ha scritto nel grande Libro della Natura. Anche per questo la
teoria del con-senso universale assume una particolare importanza, per lo più malamente interpretata dai
critici. Campanella non teme di affermare in più luoghi che «Il senso [è] conoscenza vera»198. Ma in queste
affermazioni, paradossalmente, il momento epistemologico viene alquanto trascurato. Quando lo Stilese
afferma che i sensi costituiscono a ben vedere uno strumento conoscitivo più certo di tutti gli altri, in realtà,
ha di mira solamente un ulteriore consolidamento della teoria animistica, secondo la quale Dio comunica - in
diversa misura - con tutto il Cosmo, attraverso il meccanismo della compartecipazione universale:
«Ascoltate o voi che bramate verità: la sapienza è la conoscenza certa d'ogni cosa, internamente, senza
dubitanza. [...] Ora io trovo che li sensi son certi più che ogni altra conoscenza nostra, tanto d'intelletto, come
di discorso, come di memoria, poiché ogni lor notizia dal senso nasce, e quando sono incerte queste
conoscenze, col senso s’accertano e correggendosi, et esse non sono altro che senso indebolito o lontano o

194
Del senso delle cose, cit., p. 138.
195
Del senso delle cose, cit., p. 139.
196
Del senso delle cose, cit., p. 140-141.
197
Del senso delle cose, cit., p. 142.
198
Del senso delle cose, cit., p. 143.
strano»199. Ma «Dio sapientissimo nulla cosa sa per discorso, che sarìa imperfezione grande, ma per sapienza,
perché a tutte cose è interno e tutte a lui» 200. Infatti «L’anima [...] umana si appella mente quella che Dio
infonde, quella che con le bestie abbiamo in comune, spirito» 201. «Dunque muore l’uomo per la cicuta come
le bestie e per l’allegrezza e per ogni passione che disfà lo spirito, perché ella [la mens] è incorporea e non
può stare unita alla corpolenza senza un mezzo, onde Trismegisto chiamò questo spirito veicolo della mente
[...]»202.
Questi passi richiamano immediatamente le espressioni più celebri del De la Causa, Principio et Uno, dove
Giordano Bruno afferma con precisione la stessa idea del Tutto animato e (per lui) infinito:
«[...] gli grandi animali, quali sono gli astri, denno esser stimati in gran comparazione piú divini, cioè piú
intelligenti senza errore e operatori senza difetto. [...] la prima e principal forma naturale, principio formale e
natura efficiente, è l'anima de l'universo: la quale è principio di vita, vegetazione e senso in tutte le cose, che
vivono, vegetano e sentono. E si ha per modo di conclusione, che è cosa indegna di razional suggetto posser
credere che l'universo e altri suoi corpi principali sieno inanimati; essendo che da le parti ed escrementi di
quelli derivano gli animali che noi chiamiamo perfettissimi» 203.
Alla domanda fondamentale del Capitolo 32° (Se l’anima del mondo ci sia e perché sia)204, Campanella
risponde: «Questa intelligenza, se non è la prima sapienza, sarà l’anima del mondo. Di più, se a l’uomo non
basta lo spirito corporeo a reggerlo, ma trovamo che abbia mente immortale, assai più convenirà che il
Mondo, più nobile di ogni ente e figlio del sommo bene tanto buono e bello, abbia, oltre le nature particolari
senzienti, un’anima eccellentissima, maggiore d’ogni Angelo che tiene cura del tutto. Sant’Agostino [...] e
San Basilio [...] credono e provano che ci sia questa mente; così Platone, Trismegisto e tutti gran savii. Ma
dicono alcuni che basta la natura commune, e io dico che questa anima sia la natura commune e arte
universale da Dio creata, infusa nel tutto. Altri attribuiscono a Dio questi secreti. E io dico che Dio è infinito,
e non può nulla natura creata ricever l’influsso suo infinitamente, ma con modificazione finita, perché non è
atta a sostenerlo altramente»205.
Il Libro III si apre considerando: «Il cielo e le stelle esser ignei e senzienti» 206, e mostrando ancora una
volta l’animazione che deriva dalla dialettica del caldo e del freddo: «Il moto esser operazione del calore, in
ogni ente si vede: il cielo dunque da lui moversi, altrove si è provato bene [...]» 207.
Alla base delle preoccupazioni campanelliane si pone sempre il rapporto tra Cielo (molto spesso confuso
con quello teologico) e Mondo: «Infelici noi veramente che non conoscemo altro senso che quello ottuso
degli animali e delle piante, tardo e smorto, aggravato e sepolto, e non vogliamo riconoscere che ogni azione
nostra e voglia e senso e possanza e moto viene dal cielo» 208.
Lo Stilese giunge poi coerentemente ad attribuire facoltà sensitiva alla luce, al fuoco, alla tenebra, al freddo
e all’aria209, concludendo: «dunque l’aria per la luce vede, per i moti ode, per li vapori odora, per la tenuità
gusta, e per la compressione e caldo e freddo tocca, pate doglia e piacere, e senza organi, tutta sente e
consente»210. Anzi, «L’aria esser spirito commune e portar la conoscenza tra li spiriti particolari chiusi negli
animali»211.
A conclusione di questa prima parte del libro si devono segnalare i capitoli 8°, 12°, 13° e 14°. Con l’ottavo
il discorso ritorna sul tema della divinità dell’uomo: «Dalla profezia degli animali necessaria a loro e
dall’umana all’uomo si vede la nostra divinità»212. Il Capitolo 12° si occupa delle acque: «Tutte l’acque e
liquori sentire, e la simpatia e nemicizia loro»213; il 13° «Del senso delle pietre e metalli»214; mentre il 14°
«Del senso delle piante e dell’amicizia tra loro e con l’altre cose» 215.

199
Del senso delle cose, cit., pp. 143.144.
200
Del senso delle cose, cit., p. 146.
201
Del senso delle cose, cit., p. 153.
202
Del senso delle cose, cit., pp. 154-155.
203
G. Bruno, De la Causa, Principio et Uno, cit., p. 42.
204
Del senso delle cose, cit., p. 160.
205
Del senso delle cose, cit., p. 161.
206
Del senso delle cose, cit., p. 163.
207
Del senso delle cose, cit., p. 166.
208
Del senso delle cose, cit., p. 175.
209
Del senso delle cose, cit., p. 175.
210
Del senso delle cose, cit., p. 181.
211
Del senso delle cose, cit., p. 182.
212
Del senso delle cose, cit., p. 184.
213
Del senso delle cose, cit., p. 203.
214
Del senso delle cose, cit., p. 208.
215
Del senso delle cose, cit., p. 213.
Finalmente, con il Libro IV il discorso si sposta apertamente sulla magia. Il primo capitolo si intitola infatti
«Della magia in commune, e sua divisione»216. Il sentimento della crisi universale è evidente proprio a partire
da questa considerazione oggettiva: le nobili arti magiche sono ormai degenerate. Anche in questo campo è
necessaria una riforma.
Ma torniamo a concentrare l’attenzione sul tema cosmologico. Come abbiamo già avuto occasione di
notare, lo studio del sistema cosmologico campanelliano si rivela particolarmente importante per il
conseguimento di una esatta comprensione della filosofia globale del pensatore di Stilo. E all'interno di
questo sistema l'elemento magico-mitico gioca un ruolo fondamentale. Per questo ho lungamente insistito
sulla centralità di questo tema. Molte delle inesattezze più comuni, diffuse in gran parte della critica dotta del
pensiero campanelliano, trovano origine proprio da un tipico imbarazzo, che insorge quasi sempre
allorquando si devono trattare temi spinosi come quello della magia, e che impedisce in ultima analisi una
interpretazione completa di un pensiero dai contenuti eterogenei ma non certo incoerenti tra loro. La
mancanza di una visione unitaria e globale del pensiero campanelliano ha finito poi con il determinare la
classificazione di presupposte fratture, conversioni, ripensamenti. Di fronte a questi tentativi semplificatori,
la magia campanelliana (professata e praticata assiduamente dallo Stilese fino alla fine dei suoi giorni) sta
appunto a testimoniare l’impossibilità di riduzione di un vasto percorso filosofico e di una altrettanto vasta
ed eterogenea complessità di motivi ad un unica, minima, descrizione comprendente errori giovanili e
maturità cattolica217.
L’azione magica riveste in Campanella un carattere filosofico e religioso ben preciso, che lascia facilmente
trasparire il substratum mitico che la condiziona nel profondo e che indica chiaramente a quale presupposto
ideologico-astrologico fa riferimento (... e quale dottrina dell’armonia e della connessione universale
presuppone).

216
Del senso delle cose, cit., p. 221.
217
A questo proposito ricordiamo volentieri le valide osservazioni di Cesare Vasoli, che già nel 1976 scriveva: «Sul significato e la fortuna storica delle idee magiche e
astrologiche, durante l'età del Rinascimento, è in corso, da molti anni, una discussione ricca di importanti contributi che hanno mutato profondamente l'approccio
storiografico a un tema così complesso e suscettibile di confuse generalizzazioni o di banali pregiudizi. Ma se rigorose precisazioni metodologiche e indagini raffinate
hanno abbattuto gli ostacoli ideologici che indussero tanti storici ad ignorare alcuni dei documenti piú tipici della cultura di questi secoli, non sembra che siano stati chiariti
sino in fondo certi problemi essenziali, spesso riemergenti dallo studio di un materiale particolarmente “sfuggente”. Né direi che sia stata ancora raggiunta una rico-
struzione del tutto soddisfacente della fitta rete di influenze connessioni ed intrecci che usando i “media” piú differenti ha condizionato tanti aspetti della storia religiosa,
filosofica e scientifica europea, tra il Quattrocento e il Seicento. In realtà, lo studioso che affronta tali argomenti si trova a muoversi in un terreno ancora incerto e in -
definito, ove gli equivoci e le deviazioni sono sempre facili e deve impegnarsi in indagini che richiedono particolare familiarità con la ricerca interdisciplinare e impongono
l'analisi di diversi livelli di esperienza (dalla dotta magia degli intellettuali ai suoi riflessi nella mentalità popolare, dalle dispute filosofico-teologiche ai “tipi” iconografici
delle arti, dalle forme segrete di religiosità gnostica alle tecniche dell'officina alchimistica, dai calcoli degli astrologi “matematici” alla pratica degli “amuleti” o dei
“sigilli”, ecc.) le cui relazioni dirette o mediate non sono sempre subito individuabili. A ciò si ag giunge la difficoltà di interpretare correttamente modelli di pensiero
procedimenti psicologici e linguaggi per noi desueti, con il rischio di forzarne il significato in direzioni anacronistiche e antistoriche. E se poi si considera che al tema della
magia sono connessi molti delicati problemi che investono la valutazione di personalità e ambienti determinanti per l'intelligenza storica della civiltà umanistica, sarà age-
vole comprendere la singolare divergenza dei giudizi degli studiosi e la frequente oscillazione tra l'inconscia ripresa dei “luoghi comuni” della polemica antimagica o il
cedimento all'attrazione di una materia così “fascinatrice” che ha caratterizzato non poche indagini anche recenti. Una situazione storiografica così particolare dipende, in
larga misura, dalla diffusa convinzione che il “mondo della magia”, non solo appartenga alla fase piú arcaica della storia umana, ma sia, in sostanza, il “residuo” irrazionale
di “archetipi” inconsci e, pertanto, un temibile ostacolo sul cammino del sapere scientifico, se non addirittura un'insana perversione delle vere tradizioni intellettuali del-
l'Occidente. Per di piú, questo “territorio” comprende un complesso di concezioni, fenomeni e processi difficilmente definibili, ma che vecchie reazioni polemiche e
pessime semplificazioni divulgative hanno mescolato e confuso, generando equivoci di ogni genere. Basti pensare al fatto che lo stesso vocabolo “magia” suscita subito il
richiamo a un vasto catalogo di “superstizioni “, credenze folkloriche, rituali esoterici e tecniche operative, spesso poste indiscriminatamen te sullo stesso piano, e, ciò che
piú conta, considerate in una prospettiva non storica con una sostanziale indifferenza per la concreta determinazione dei diversi tessuti culturali e delle loro dimensioni dia-
croniche. Ecco perché una letteratura ancora abbastanza diffusa, specialmente in certi settori della storiografia filosofica o scientifica, si è sempre limitata ad esorcizzare le
“assurde”, “bizzarre” “ridicole” fantasie dei maghi rinascimentali, ricacciandole in quell'inferno della ragione dove sono confinati, insieme agli “errori popolari” e ai miti
primordiali, anche i sogni e le illusioni della “potenza” magica. Altri studiosi, più cauti, ma non meno perentori, hanno invece preferito un'ipotesi piú neutra, attribuendo
alle tecniche magiche il ruolo inconsapevole di strumenti mezzi o pratiche ancora embrionali della futura prassi scientifica. E, difatti, non sono poche le opere dedicate alle
origini della scienza o della tecnica moderne nelle quali la tradizionale distinzione tra “magia demonica” e “magia naturale” serve a identificare in questo o quel metodo
delle “arti occulte” il punto di avvio per lo sviluppo delle diverse “scienze sperimentali”. Ma non è tutto: occorre anche sottolineare che a intorbidare i problemi e renderne
piú difficile la soluzione hanno pure contribuito i pesanti residui di antiche polemiche non solo filosofiche, ma anche religiose (e di diverso segno, cattolico o protestante),
talvolta trasparenti anche dietro i giudizi meno sospettabili, nonché i lontani riflessi di atteggiamenti difensivi o di “apologie” oggi elevati a criterio di distinzione
storiografica. Orbene: simili posizioni debbono essere subito criticate con decisione, così come dev'essere respinta la tentazione di sovrapporre la nostra idea di “scienza” o
di “filosofia” e i nostri comuni standards di comportamento intellettuale ai modi di pensare espressi dalla tradizione magica rinascimentale. L'approccio storico a questo
tema deve infatti passare per altre vie, attraverso indagini rigorose e pazienti che ricostruiscano le dimensioni effettive del fenomeno, l'influenza che esercitò su determinate
situazioni sociali e culturali i mezzi e le forme con cui si diffuse lungo un arco di tempo abbastanza vasto, ma definibile. È poi evidente che lo studio non può limitarsi,
come talvolta è accaduto, all'analisi di documenti troppo particolari o di testimonianze ormai “classiche” ridotte al solo livello delle espe rienze filosofiche o religiose piú
elevate, perché deve, al contrario, addentrarsi proprio in quelle zone piú oscure, ma anche piú rivelatrici ove si registra meglio la continuità e, insieme il mutamento delle
strutture mentali e dei tipi di sensibilità culturale, e dove un materiale ricchissimo aiuta a decifrare i significati le reticenze e addirittura, i “travestimenti” sempre possibili
anche nei contesti meno sospetti. Gli esempi che si potrebbero addurre sono molti e tutti assai probanti. Ma, per limitarsi solo a pochi, basterà ricordare il contributo
eccezionale recato da indagini che si sono mosse nell'ambito della storia dell'arte per passare allo studio delle “forme simboliche” e delle “immagini” legate alla continuità
di antichissimi miti e riscoprire nella fortuna di certi “archetipi” la lunga sopravvivenza di fedi rimaste immutabili nel corso di millenni. Oppure, si pensi ai risultati di studi
che, partendo, magari dall'analisi di certe forme di propaganda politica o religiosa hanno dimostrato la profonda incidenza delle idee magico-astrologiche anche su per-
sonalità e ambienti che avrebbero dovuto essere immuni; o, ancora, si rifletta alla storia della singolare fortuna di taluni oroscopi pro fezie o prognostici così rivelatrici di
tensioni e di crisi che coinvolgevano i ceti sociali piú diversi. Si deve proprio a questo ampliamento dell'area di ricerca se il problema storiografico della magia ri-
nascimentale ha cessato di costituire un argomento riservato a singoli specialisti ed alle loro indagini, spesso inevitabilmente unilaterali, per diventare un terreno d'incontro
sul quale si può agevolmente confrontare la validità dei vari metodi e stabilire convergenze molto feconde. Ciò non invalida - s'intende - la necessità di una visione
“globale” che sia capace di cogliere, in maniera non casuale e contingente diverse fasi di un delicato processo di trasformazione e di adattamento che si svolse per oltre due
secoli, coinvolgendo tante forme e tradizioni della vita intellettuale europea. Ma è certo che solo un lavoro spregiudicato di analisi ravvicinata, esteso in molte direzioni (e
che legga sempre i suoi documenti nel loro effettivo contesto storico, in connessione con le “fonti” e la loro effettiva e provata influenza) può dissolvere quel confuso
“magma” in cui è stata immersa, per troppo tempo, la storia delle “arti occulte” ri nascimentali, permettendo di valutare, con un metro storiografico più sicuro, un
complesso di fenomeni culturali così indispensabili all’intelligenza delle stesse origini della cosiddetta “civiltà moderna”» (C. Vasoli , Magia e scienza nella civiltà
umanistica, Il Mulino, Bologna, 1976, pp. 9-12).
Tale dottrina, giova ricordarlo, è direttamente derivata dall'ermetismo religioso-filosofico, e presenta solo
qualche secondario punto di divergenza rispetto alla versione divulgata dal Ficino. Solo sul piano della
struttura sociale si potrebbero identificare alcune significative precisazioni, così come accade per il tema
della libertà218. Campanella ha sempre cercato di definire il suo pensiero in modo originale, differenziandolo
il più possibile soprattutto dalle manifestazioni più sospette dell'ermetismo rinascimentale. A questo
proposito si devono ricordare alcune utili precisazioni del Badaloni, secondo il quale «Campanella [...]
esclude quel tipo di influenza astrale per cui presiederebbero alla vita dei ricchi, astri lucenti, a quella dei
poveri, astri minori, a quella dei deboli, astri oscuri. Riferendosi ancora a Plinio, egli rileva giudiziosamente
che "non tanta caeli nobiscum societas"219. Le stelle trasmettono solo calore e le influenze che esse possono
esercitare derivano solo da questa trasmissione. Per questo aspetto ed entro questi limiti, Campanella è in
polemica coll'ermetismo, in quanto questo appunto proponeva una struttura di idealità come oggettivamente
preformata alla esistenza. Tuttavia non deve credersi che la polemica anti-ermetica investa, per così dire,
tutto il fronte. Campanella utilizza l'ermetismo per giustificare la sostituzione della tradizionale problematica
della generatio e della corruptio colla dialettica opposizione di manifestatio e di occultatio, e da tale
sostituzione ricava la conseguenza che non vi è mai effettivamente morte e distruzione 220. E a conferma di
ciò richiama Trismegisto, lo Asclepio, ed il detto dell'Ecclesiaste per cui alla domanda "quid est ... quod
fuit?" risponde "ipsum quod futurum est"221. Ancora rifacendosi al Pimandro, egli sostiene che tutto è
contenuto nel verbo di Dio e che lo spiritus è "vehiculum animae a Deo immissae"222. È vero che questo
vehiculum viene riportato alla trasmissibilità del calore (ed ai misteriosi rapporti quantitativi in cui si
esprime, già rilevati da Telesio), tuttavia esso è già sufficiente per recuperare la tematica dello spiritus qui
intus alit molem223. Si tratta quindi di una evidente accettazione di temi ermetici. Ad essi potrebbe
aggiungersi la accentuazione della importanza della contingenza e della libertà umana, in cui Campanella
mostra di ereditare e di estremizzare il psichismo. Inoltre, anche come conseguenza della tematica della
occultatio, è da sottolineare il tentativo di riduzione all'unità della molteplicità delle forme che popolano
l'universo. Chi si muove sul terreno della logica non può cogliere che diversità in quanto si sono già
manifestate; ma chi invece è portato ad una filosofia della genesi che ha a suo centro il tema dello spiritus
può cogliere l'unità nelle differenze. Giustamente Alberto ha teorizzato la comune origine del cigno e della
colomba, ed, allargando il discorso, si può parlare di una profonda unità di natura tra tutte le specie viventi
ed anche tra queste e le piante»224.
Risulta dunque evidente (e le pertinenti osservazioni del Badaloni dovrebbero confortare questa tesi) che
uno dei nuclei teoretici fondamentali della tradizione ermetica (la ... profonda unità dell'essere) non viene
mai smentita e casomai verrà utilizzata (si pensi alla Città del Sole) per ricostruire la società degli uomini
sulla base della loro comune ed uguale dignità.
Come si è già avuto occasione di notare, i temi ermetici e magici si collocano in un quadro escatologico
fortemente caratterizzato dall'elemento mitico. Non sarà fuori luogo ricordare che anche l'interpretazione
mitica della natura e dell'uomo, così come del tempo e della storia, sono riconducibili alla tradizione della
teologia egizia e della mitologia medio-orientale 225. F. Albergamo ricordava che in epoche remotissime i
popoli della Mesopotamia vedevano nella Terra una donna, una madre, che ogni anno dà alla luce una nuova
vegetazione. Gli Egiziani l'adoravano sotto il nome di Iside, la dea creatrice delle biade, la grande madre che
dà vita a tutti gli uomini226. Anche per i Greci la Terra è la madre comune che genera le creature umane.
Esiodo immagina che la Terra abbia un «ampio seno». Nell'Acropoli di Atene stava un simulacro di Gea (la
Terra) nell'atto di pregare Zeus di far venire la pioggia. La Terra era adorata anche dai Germani col nome di
Herda o Herta227. L'idea della madre terra è strettamente legata ad un nucleo di credenze indoeuropee, che ha
a sua volta costituito un humus ideale per la tarda diffusione delle tesi ermetiche, come nel caso della
credenza nell'animazione cosmica, della Terra e del Cielo astrologico in particolare. Nel pensiero mitico di

218
Il concetto di libertà in Campanella è strettamente connsesso con quello di fato, inteso come ordine universale delle cause immanenti l'universo e posto da Dio. A
questo proposito sarebbe interessante uno studio accurato del rapporto tra Influenze Magne, potenze angeliche, operazioni magiche ed astrologia.
219
T. Campanella, Philosophia sensibus demonstrata, Neapoli, 1591, p. 218.
220
T. Campanella, Philosophia sensibus demonstrata, Neapoli, 1591, p. 19: «Quando autem quippiam corrumpitur, nec materia nec forma abit in nihilum, igitur occultatur
ad esse tali et manifestatur sub altero esse».
221
Ibidem.
222
Ibidem.
223
Ivi, p. 27.
224
N. Badaloni, La questione della «imaginatio» nella Metafisica del Campanella, in «Tommaso Campanella», Miscellanea di studi nel 4° centenario della sua nascita
(Deputazione di Storia patria per la Calabria), Fausto Fiorentino Editore, Napoli, 1969, pp. 3-24.
225
Cfr. a questo proposito Don Antonio Giuseppe Pernety, Le favole egizie e greche, Alkaest, Genova, 1980.
226
Cfr. Don Antonio Giuseppe Pernety, Le favole Egizie e Greche, Ed. Alkaest, Genova, 1980.
227
Cfr. F. Albergamo, Mito e magia, Guida, Napoli, 1970.
solito la terra viene indirettamente associata al cielo, che viene perciò immaginato come il marito della Terra.
Egiziani e Greci considerarono il Cielo e la Terra come la coppia primitiva 228. Alla questione come Nut, il
Cielo, possa sostenersi da solo, gli Egiziani rispondevano che esso era inarcato sopra la Terra con i piedi e le
dita poggiati sul suolo. Dall'accoppiamento dei Cielo con la Terra nacquero secondo gli Egiziani tutti gli
esseri che popolano l'universo229. Da questo pur minimo esempio è facile notare come la teologia egiziana
presenti almeno un chiarissimo elemento mitico, trasportato intatto nella tradizione ermetica, esportato in
Italia grazie alle traduzioni del Ficino e finalmente rielaborato nel tema - famosissimo nel Rinascimento -
dell’analogia tra microcosmo e macrocosmo. Già per Esiodo il Cielo non era il marito ma addirittura il figlio
della Terra, che essa generò simile a sé perché tutto ricoprisse in modo che fosse sempre sicura sede agli
dèi230. Il sistema analogico è evidentemente tutt'altro che una invenzione campanelliana: si tratta, più
realisticamente, di un elemento attivo, che si pone tra mito e filosofia, e che permette in ultima analisi di
attingere dall'uno all'altra in modo indiscriminato.
L’animazione della natura è - come si ricordava - il motivo mitico più diffuso tra le cosmogonie e le
cosmologie di tutto il mondo e di tutti i tempi. Alla Notte fu attribuita un'anima da Esiodo (VIII sec. a.C.) e
dalle Teogonie Orfiche di Museo ed Acusilao; per gli Orfici la Notte è la genitrice di ogni cosa; secondo
Esiodo la Notte generò ogni cosa cattiva. Gli Orfici videro anche nel Tempo un essere animato e Pindaro,
ispirandosi alla credenza orfica, dice del Tempo che esso è «padre di ogni cosa» e «signore di tutti i beati» 231.
Un essere animato era anche per gli antichi Indu l'Aurora. E l'elenco di queste arcaiche animazioni e
personificazioni potrebbe ancora continuare a lungo, mostrando in modo inequivocabile un diretto
collegamento con le cosmologie rinascimentali. In particolare, Campanella considerava lo spazio come una
entità psichica, e sosteneva curiosamente che la luce si espande perché in ciò prova gioia (associazione:
espansione = gioia). Come Campanella, anche Bacone riteneva che il caldo fosse nemico del freddo. Nella
Kabbalah perfino le lettere dell'alfabeto vengono considerate come esseri viventi. Secondo Aristotele, Talete
considerò l'anima come causa di movimento, se è vero che egli affermò che la calamita possiede un'anima
perché attrae il ferro. Gli esempi simili in Campanella sono numerosissimi 232. Anche Anassimandro e
Anassimene sostennero che la materia si muove perché animata. Ed Empedocle, analogamente, spiegò il
movimento attrattivo per via dell'amore e il movimento repulsivo per via dell'odio, che sono suggerite
associativamente dalla condotta umana, e che ricompaiono in G. Battista della Porta, in G. Bruno, nello
stesso Campanella e in F. Bacone sotto la forma: attrazione = simpatia; repulsione = antipatia.
L'associazione anima-moto spontaneo si trova già esplicitata in Platone: secondo lui, il moto degli astri è
spontaneo, perché è prodotto senza alcuna causa fisica apparente, e quindi gli astri si muovono perché sono
animati. Analogamente, poiché chi ama una persona vuole starle vicino, dunque i corpi, che
«spontaneamente» tendono nel cadere ad avvicinarsi alla terra sentono amore per essa: donde l'idea che il
peso è l'amore sentito dai corpi per la terra, idea che troviamo addirittura in Sant'Agostino 233. Secondo
Bacone esiste in tutti i corpi naturali una certa facoltà di percepire e anche una sorta di scelta in virtù della
quale si riuniscono con le sostanze amiche e fuggono le sostanze nemiche. Un'idea identica si ritrova in
Campanella e in Bruno234. Le varie specie di movimenti cui vanno soggetti i corpi sono dovuti alle diverse
forme di sentimenti che i corpi stessi provano. Per Bacone chi conoscesse le passioni, gli appetiti e i processi
primitivi della materia, avrebbe senz'altro una conoscenza generale e sommaria dei fatti passati presenti e
futuri. Nell'antica Mesopotamia, l'uomo che si credeva stregato da un nemico, ne gettava l'immagine nel
fuoco, al quale si rivolgeva dicendo: «Scottante Fuoco, figlio bellicoso del cielo, ferocissimo tra i tuoi

228
Cfr. Don Antonio Giuseppe Pernety, Le favole Egizie e Greche, cit. Molte favole egizie confermano questa idea fondamentale, antropologica, teologica e cosmologica
insieme, strettamente collegata col principio dell'analogia dell'uomo all'Ente: «[...] il Creatore volle coronare la propria opera: e formò l'uomo impastandolo di terra; e di
una terra che sembrava inanimata: Egli gli inspirò un soffio di vita. Questo che allora compì Dio nell'animare l'uomo, l'agente della Natura, che alcuni chiamano la propria
Archea (v. Paracelso e Vanhelmont) lo compie sulla terra o fango Filosofico. Questo agente della natura, o Archea, elabora, con la sua azione interiore, questa terra o fango
Filosofico, e l'anima di maiera che questa comincia a vivere ed a fortificarsi di giorno in giorno sempre più sino alla sua perfezione. Moriano avendo notato quest'analogia,
ha spiegato la confezione del Magistero con un paragone preso dalla creazione e dalla generazione dell'uomo. Alcuni pretendono anche che Ermete parli della resurrezione
dei corpi, nel suo Pimandro, poichè la deduce da quanto vedeva verificarsi nel progresso del Magistero.[...] Parecchi antichi Filosofi istruiti da questi meravigliosi risultati
della Natura, hanno concluso con Ermete, dal quale essi avevano attinti i principii in Egitto, che sussiste una novella vita dopo che la morte ci rapisce questa attuale. Questo
concetto hanno voluto affermare quando hanno parlato della resurrezione delle piante dalle proprie ceneri in altre piante della propria specie. Non se ne trovano altri i quali
abbiano parlato di Dio e dell'uomo con tanta nobile elevatezza come Ermete; egli spiega persino per qual modo si possa dire degli uomini ch'essi sono degli Dei. Davide
dice: "Ego dixi dii estis, et filii excelsi omnes" (Io dissi siate Dei, e tutti eccelsi figli); ed Ermete nel suo Pimandro (c. 11) "L'anima o Tat, è l'essenza propria di Dio. Poiché
Dio possiede un'essenza, la natura della quale Egli solo se la conosce. L'anima non è affatto una particella separata da questa essenza Divina, così come si separa una parte
da un tutto materiale; ma essa ne è come una effusione, presso a poco come la chiarezza del Sole non è il Sole stesso. Quest'anima è un dio che alberga negli uomini; ed è
perciò che si dice degli uomini che essi sono degli Dei, dato che quello che propriamente costituisce l'umanità, confina con la Divinità"» (pp. 24-26).
229
Cfr. Cfr. Don Antonio Giuseppe Pernety, Le favole Egizie e Greche, cit.
230
Cfr. F. Albergamo, Mito e magia, cit.
231
Cfr. F. Albergamo, Mito e magia, cit.
232
In particolare cfr. Del senso delle cose e della magia, Metaphysica, Fisiologia.
233
Cfr. F. Albergamo, Mito e magia, cit.
234
Cfr. Del senso delle cose e De vinculis in genere.
fratelli, che decidi le cause legali come Sole e Luna, giudica tu il mio caso, largiscimi il verdetto. Brucia
l'uomo e la donna che mi hanno stregato; brucia, o Fuoco, l'uomo e la donna che mi hanno stregato; bruciali
o Fuoco, scottali o Fuoco, ghermiscili o Fuoco, consumali o Fuoco, annientali o Fuoco»235. A distanza di
molti secoli, Tommaso Campanella continua a vedere nel fuoco un essere vivente, che consuma le cose per il
solo motivo che nel far questo prova «diletto grande». La forza del mito ha evidentemente permesso di
tramandare questa concezione, sostanzialmente inalterata, per molto tempo. In Campanella è addirittura
presente l’idea che anche l’ombra sia dotata di un’anima: l'ombra fatta dal nostro corpo è anzi ben in grado
di sentire, perché «arrivando ad avvicinarsi con l'altra ombra, da se stessa si stende in piramide per unirsi
presto con quell'altra amica». L'associazione della vita con l'anima si trova anche nelle credenze popolari di
tipo mitico, le quali, come fanno i primitivi, estendono l'idea della vita non solo agli animali e alle piante, ma
anche alle pietre, alle perle, ai cristalli, ai metalli ecc. Così, ad esempio, per Platone, le pietre sono animate e
viventi e costituiscono per la terra ciò che le ossa sono per l'uomo. Nell'antica Mesopotamia il sale era un
fratello, del quale si invoca l'aiuto per annullare una magia o un sortilegio. Nelle credenze popolari, come in
quelle dei primitivi, le piante sono esseri coscienti, simili agli uomini. Gli indigeni delle Filippine sono
convinti che le anime dei loro antenati risiedono negli alberi, che essi perciò non tagliano; se sono costretti a
farlo, si scusano con gli alberi dicendo che è stato il prete che glielo ha fatto fare 236. Giovanni Mocenigo, il
nobile veneziano che consegnò Bruno all’Inquisizione, ebbe a dichiarare di essere stato sgridato dal Maestro
per aver pestato un ragnetto: il Bruno lo riprese perché in quell’insetto poteva annidarsi l’anima di un amico
deceduto. In Giappone, quando un albero non produce frutti, un uomo si arrampica su di esso, mentre un
altro sta ai piedi di esso con un'accetta; l'uomo con l'accetta domanda all'albero se l'anno venturo darà buon
raccolto, e minaccia l'albero di tagliarlo se non lo darà. A questo, l'altro uomo risponde dietro i rami, in nome
dell'albero, che darà un raccolto abbondante: dopo le minacce, l'albero, spaventato, manterrà la promessa.
Una parabola del Vangelo riporta la stessa immagine, anche se qui l’animazione della pianta non è
direttamente enunciata. Alla vigilia di Natale, i contadini bulgari e jugoslavi ricorrono a un espediente
eguale: un uomo minaccia l'albero, con l'accetta, dicendogli che se non darà frutti lo taglierà; un altro uomo,
vicino all'albero, lo supplica di non tagliarlo: «Non lo tagliare, presto porterà frutti». A Grbali, in Dalmazia,
si crede che vi siano alberi dotati di anima, alberi che non devono essere tagliati, perché altrimenti il
colpevole muore all'istante, o per lo meno si ammala per tutto il resto della vita. In Austria i vecchi contadini
credevano che gli alberi della foresta fossero animati, e per questa ragione non ne incidevano la corteccia se
non in circostanze eccezionali. I vecchi contadini dell'Alto Palatinato, nel tagliare un albero, gli chiedevano
perdono. Infine, i contadini tedeschi solevano alla vigilia di Natale legare insieme gli alberi da frutto con
delle corde di paglia: in tal modo, secondo essi, gli alberi si sposavano tra di loro, e venivano messi cosi nella
condizione di generare dei frutti.
Nel Rinascimento, che fu tutto preso dal mito animistico della natura, Campanella scriveva: «E sentono le
piante gran piacere nel rampollare, crescere, fiorire, fruttare, moltiplicarsi [...]. Del sentimento delle piante
nessuno dovrebbe dubitare, poiché nascono, si nutricano, crescono e fan figliuoli e semi come gli animali,
onde Platone riversi animali immobili saviamente chiamolli e Pitagora di senso esser dotati predicò» 237; le
piante, inoltre, discernono «il buono dal non buono» e dunque hanno «senso» di quel che serva o non serva
loro; provano tra di esse «simpatia e antipatia», «amicizia e nemicizia»; l'albero della palma, se gli si pone
sopra qualche peso, «piglia dolore e s'alza in su inarcandosi contra il peso noioso», infine ogni pianta e
albero, messo al fuoco, «strilla e piagne». Nel De la Causa, Principio et Uno, come già ricordato, si possono
trovare passi identici per significato e stile espositivo.
L'idea ermetica della unità metafisica tra Natura e Cielo promuove insomma la concezione della
immortalità universale, ed il mito della nascita e della reincarnazione è a sua volta evidentemente collegato
al tema dell’animazione della Natura. Per gli antichi Egiziani, la nascita era una reincarnazione. «Anche
questo discorso - si legge in Erodoto - sono gli Egiziani primieramente a dirlo, che l'anima dell'uomo è
immortale e, dissolvendosi il corpo, sempre penetra in altro vivente generato; poiché poi abbia percorso tutta
la serie degli animali terrestri, marini e volatili, di nuovo penetra nel corpo generato di un uomo; e tale ciclo
si compie in tremila anni»238. La credenza nella reincarnazione era diffusa, nell'antichità, fra i popoli
mesopotamici, nell'India, nella Persia e nella Cina, fra gli Orfico-Pitagorici; tuttora essa è professata da molti
milioni di credenti induisti, buddisti e lamaisti. Nel buddismo è detta produzione condizionata la nascita di
un individuo da uno già morto e il futuro individuo che sorgerà da quello attuale dopo che egli sarà morto. Il
235
Cit. in Cfr. F. Albergamo, Mito e magia, cit.
236
Cfr. F. Albergamo, Mito e magia, Guida, Napoli, 1970.
237
Cfr. T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, cit
238
Cfr. F. Albergamo, Mito e magia, Guida, Napoli, 1970.
Dalai-Lama («oceano di sapienza» è eletto secondo il principio della «successione chubilganica»: tra i
bambini nati poco dopo la morte del sommo sacerdote viene proclamato suo successore quegli che da certi
segni si rivela una sua reincarnazione.
La magia, come si è potuto vedere, si basa in ultima analisi sull'accettazione della struttura analogica della
realtà239. Tale struttura non deriva da un ragionamento di tipo scientifico, ma piuttosto dall'accettazione e
dalla rielaborazione del mito. Per questo motivo Campanella non ha mai potuto distaccarsi nettamente dalla
magia e dall'astrologia: queste rappresentano infatti la necessaria conseguenza di una filosofia tutta basata
sulla interpretazione mitica del mondo, eseguita su scala analogica.
Non a caso Campanella si sforzerà in ogni modo di separare nettamente la magia dotta (utile all'uomo nel
più vasto quadro della riforma morale e religiosa che preannuncia l'avvento della Città del Sole) dalla magia
demoniaca, di tipo malefico-superstizioso240.
La magia dotta, invece, «sapienza è speculativa e pratica insieme, perchè applica quel che intende all'opere
utili al genere umano»241.
A proposito della magia Campanelliana, D.P. Walker osserva che «Non v'è alcun dubbio che la magia
praticata da Campanella a Roma deriva direttamente dal Ficino. Alla fine del capitolo sulle eclissi, nel De
Fato siderali vitando, quando si occupa del modo di attirare gli influssi favorevoli provenienti da eclissi
propizie, Campanella rinvia il lettore a quanto si dice nei suoi Metaphysica intorno al modo di "regolare la
vita secondo gli influssi celesti", cioè "de vita coelitus comparanda". Se consideriamo attentamente questa
parte della sua opera, non troviamo una discussione del trattato di Ficino, ma un suo sommario completo,
fatto con competenza, presentato come tale. Campanella qui non accetta esplicitamente tutti i punti di vista di
Ficino; ma è evidente che approva la sua magia, poiché spesso completa le teorie di Ficino e le sue
indicazioni con riferimenti alle proprie opere, particolarmente al De Fato siderali vitando ed ai suoi
Medicinalia. In una sezione, per esempio, dopo aver brevemente descritto uno dei talismani di Ficino, scrive:
"Ma come debbono essere usate queste cose che generano molto spirito, lo conservano, lo perfezionano, cioè
cose che lo rendono lucente, fine puro, stabile, noi lo abbiamo scritto nel V libro dei Medicinalia e nel IV
libro del De Sensu Rerum. E troverai negli stessi libri quali odori, sapori, colori, temperatura, aria, acqua,
vino, abiti, conversazioni, musica, cielo e stelle debbono essere usati per aspirare lo spirito del mondo che è
radicato e infuso nelle sue singole parti ed è diffuso nel tutto, e sotto quali costellazioni. Non è necessario
perciò indugiare oltre sulla spiegazione meno ampia di Ficino. Pensa solo alla stella di cui desideri il favore e
per mezzo di quali cose". Il sommario di Campanella che comprende la teoria di Ficino della musica-spirito e
il suo ruolo per l'armonia planetaria, è immediatamente preceduto da un'ampia esposizione di quegli scritti
astrologici e magici del neoplatonismo che erano [...] le fonti principali di Ficino: Giamblico, Proclo,
Porfirio, gli Hermetica e, tra questi, il passo tratto dall'Asclepius sul modo di attirare demoni celesti
all'interno delle immagini per mezzo di riti e della musica. Quando introduce la sezione su Ficino egli rinvia
a questo passo, sottolineando che "tutta questa dottrina" sembra derivare dall'Ermete Trismegisto; ciò vuol
dire che la magia astrologica di Ficino consiste nello stesso tipo di operazioni di quelle descritte
nell'Asclepius, dove l'idolo diventa o un talismano o un essere umano (l'operatore). Campanella dunque non
solo adottò la magia di Ficino ma anche ne conobbe ampiamente le fonti, comprese le più pericolose. Egli
deve essersi reso conto che, dietro la magia spirituale del De vita coelitus comparanda, stavano preghiere e
riti diretti agli angeli planetari. Tuttavia, dobbiamo constatarlo, Campanella non deve aver avuto né un gran
239
È Campanella stesso a precisare: «Io parlo qui della magia che l'uomo può acquistare, non delle cose stravaganti che Dio può operare, e dico che si ricerca fede e purità
di cuore e non fede istorica, ma interna che ti faccia unanime con Dio e volere e disvolere a suo modo, più che gli amanti volgari usano con le cose amate; e questa fede
trasforma l'uomo in Dio e lo fa divino» (T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, op. cit., p. 228).
240
Nel Capitolo 1° del Libro IV del Del senso delle cose lo Stilese afferma infatti: «Magi s'appellaro gli antichi savii dell'Oriente; in particolare i Persiani, che
investigavano le cose occulte di Dio e della natura, sua arte, e poi operavano cose maravigliose ap plicandole all'uso umano, come scrive sant'Agostino. Ma oggi è si
avvilito questo nome che solo a' superstiziosi amici dÈ demonii si dona, perchè la gente, fastidita di investigare le cose; ha cercato per breve strada, dalli demonii, quel che
non ponno dare e fingono di potere. Così l'Astrologia, maneggiata da imperiti, è venuta in abbominio; anzi li Profeti oggi si chiamano barbanti e sciagurati dallo sciocco
volgo. Si è forzato nondimeno il Porta studiosissimo di revocar questa scienza, ma solo istoricamente, senza render causa; e lo studio d'Imperato può esser base in parte di
ritrovarla. Constava di tre scienze, come Plinio narra, quest'arte, cioè della Religione, Medicina e Astrologia. La prima serve per purgar l'animo per farsi atto alle
conoscenze e amico della prima causa e per imporre fiducia, onore e riverenza negli animi di quelli ai quali s'applica. La seconda per conoscere le virtù dell'erbe, pietre e
metalli e la simpatia e antipatia tra loro e con noi, e la complessione e attitudine a patire e operar dell'uomo che ha bisogno di quelli. La terza per conoscere il tempo di
operare e il simbolo che con ogni cosa han le stelle fisse, erranti e li luminari che manifestamente sono cause delle virtù e mutazioni di tutte cose. Onde nell'Evangelio di
san Matteo sono lodati quei Magi che conobbero dalla cometa la natività del Monarca del Mondo perchè Dio all'investigatori delle opere sue e ammi ratori mostra non solo
quel che cercano, ma più grazia dona loro di arrivare a cose soprannaturali, essendosi purgati e disposti con le virtudi: tanto è benigno e amoroso l'Autor nostro» (T.
Campanella, Del senso delle cose e della magia, cit., pp. 221-222).
241
Del senso delle cose e della magia, op. cit., p. 223. Prosegue il Frate di Stilo: « Stimò Plinio che quest'arte sia a tutti naturale e che il fare miracoli penda da lei. Però
mette Moisè esser stato gran Mago come gli Egizii Jamnes e Mambre che pugnaro con lui, e dice ultimamente in Cipro essersi trovata magia, imperochè san Paolo fece
accecare Elimas Mago e poi lo sano in presenza del Proconsole Sergio Paolo, in quel l'isola; nè crede che ci siano demonii, perchè Nerone investigò quelli e cercò alcuno
che gli mostrasse, e non ne vide mai uno; talchè pensa la natura essere Dio infuso in ogni cosa e operare secondo la sapienza nostra, che servirsi sa delle opere sue. Ma
Trismegisto sapientissimo dice che l'uomo è un miracolo del mondo e più nobile delli Dei o eguale, e che però abbia potestà tanta nel suo senno che può far Dei di marmo e
di bronzo e dargli anima sotto a certe costellazioni e ricever risposta da loro. E questo crede Por firio e Plotino, aggiungcndo che vi siano Angeli buoni e perversi, come
ogni dì si vede esperienza e io n' ho visto manifesta prova non quando la cercai, ma quando pensavo ad altro; però non è meraviglia se al curioso Nerone non sono
comparsi. E quanto dicono di Simon Mago stimo esser giuoco naturale, poichè Svetonio Tranquillo narra che Nerone fè rinnovare il caso d'Icaro» (T. Campanella, Del
senso delle cose e della magia, op. cit., p. 223).
timore né degli scrupoli a questo riguardo. Egli tendeva ad una magia che potesse essere difesa come
naturale, e proprio questo offriva il De vita coelitus comparanda; non pensava ad una magia veramente non-
demonica»242.
La differenziazione tra magia naturale (dotta) e magia demoniaca emerge nettamente sul piano della fede:
«Or io affermo esserci magia divina che l'uomo senza grazia di Dio non intende nè opera, e questa fu quella
di Moisè e d'altri santi gloriosi amici di Dio che con poca scienza fecero tanti miracoli obedendo a loro la
natura come a messaggieri di Dio. Ci è magia naturale come questa delle stelle e della medicina e fisica,
aggiungendo religione per dar fiducia a chi spera il favore di questa scienza; e ci è la magia diabolica di
coloro che per arte del demonio fan cose mirabili a chi non l'intende, e questa senza demonio spesso si fa da
cantambanchi in presenza di sciocchi; ma sono cose d'astuzia e non di sapienza. La naturale, dunque, sta in
mezzo e chi ben la esercita con pietà e riverenza del Creatore, merita spesso esser levato alla sopranaturale e
partecipare con li superi. Ma chi l'abusa in ammaliare le genti, avvelenare, arrabbiare e burlare, merita che il
demonio s' ingerisca, l'inganni e conduchi a perdizione»243.
Quasi a specificare ulteriormente questo concetto di derivazione della magia dotta direttamente da Dio 244
(secondo l'insegnamento di Ermete Trismegisto), Campanella spiega che «La magia sopranaturale consistere
nell'amicizia del Creatore, nè potersi commandare alle Creature, nè far miracoli se non dalla parte di Dio»245.
Dunque si capisce come mai per lo Stilese «Gran mago bisogna che sia il legislatore, che introduca cosa a
tutti piacevole e giovevole, e alli pochi repugnanti manifestarla e persuaderla per buona». Inoltre «Gli oratori
e poeti sono secondi magi che per loro laude introducono passioni piacevoli ma spesso inutili. Buono è
quello che l'uno e l'altro fa insieme»246.
Ma rigurardo l'aspetto magico dell'ars oratoria e poetica è bene fare alcune precisazioni. Su questo aspetto
del pensiero campanelliano Lina Bolzoni aveva osservato che è dall'intreccio «fra problemi letterari, interessi
magici aperti ad una dimensione di rinnovamento sociale, e naturalismo telesiano» che «nasce il carattere
specifico della poetica del Campanella»247. Sulla poesia e sulla funzione del poeta si potrebbe dedicare un
intero capitolo senza peraltro esaurire il discorso, soprattutto sul «livello di conoscenza che gli è proprio [del
poeta] e che la sua poesia esprime, il carattere del suo linguaggio e la funzione sociale che egli svolge» 248.
Riassumendo, con le stesse parole della Bolzoni, la poesia campanelliana rappresenta uno «strumento ed
espressione di conoscenza ed è per il popolo un'arma contro il tiranno, perché "ogni vero è del tiranno
nemico"»249. Per la Bolzoni, ed è importante sottolineare questo punto, «l'intransigente difesa della verità che
Campanella riafferma contro la decadenza dei tempi sia a livello di attività poetica che di teoria, deve però
fare i conti con l'atra esigenza di fondo della Poetica, e cioè l'operatività sociale, la capacità di influenzare i
lettori»250. Per Campanella «Il Poeta deve essere istromento del legislatore» 251. Nel Cap. 16° del Del senso
delle cose aveva infatti specificato che «I suoni e le parole, in quanto moti e in quanto segni, avere forza
magica, stupenda e certa»252. Anche l'aspetto per così dire linguistico della esposizione campanelliana è
dunque coerente con le intuizioni portanti del suo pensiero filosofico: il mondo è una statua divina strutturata
secondo due codici, quello naturale e quello rivelato. Magia ed astrologia rappresentano due metodiche per
attuare la mitica congiunzione del mondo fisico con quello metafisico, per attuare una completa
divinizzazione dell'uomo. La Città del Sole rappresenterà da questo punto di vista la realizzazione terrestre
della città celeste, la re-instaurazione della mitica era dell'oro, nella quale l'uomo-dio vive ad immagine e
242
D.P. Walker, Campanella e la magia, in Magia e scienza nella civiltà umanistica, a cura di Cesare Vasoli, Il Mulino, Bologna, 1976, pp. 244-246.
243
Del senso delle cose, cit., pp. 223-224.
244
Si tratta evidentemente di un motivo utile alla protezione delle proprie tesi dall'attacco degli inquisitori meno smaliziati: in effetti i giudici compresero ben presto la
natura ed il significato di tale meccanismo, contestando al frate di Stilo proprio questo punto: la derivazione della magia direttamente da Dio (grazie all'introduzione della
categoria del miraculum divino, da distinguersi dalla azione magica umana o deminiaca).
245
E prosegue: «I primi uomini conoscevano Dio manifestamente per l'opera della creazione ancora fresca e per li continui benefizii e apparizioni di quello, talchè chi era
più amico della prima causa era più sapiente, poichè la sapienza è lo stesso culto divino, cioè la Religione, come dice Job. Dunque, chi meglio lo serviva, aveva più
obedienza dalle creature e faceva opere miracolose. Ma perchè si sdegnarono gli uomini di servire al più sapiente uomo, fecero divisione, e perchè la Religione non li
sforzasse a star soggetti al gran Sacerdote amico di Dio, introdussero nuovi Dei per ragion di stato dicendo che quel Dio che in forma umana o d'altra spesso appariva, era
alcun di loro. S'appellava comunemente Dio, Jove, onde la lingua ebraica, figlia della Caldea che fu la prima, ancora lo chiama Jeova. Il primo che s'usurpò nome di Jove
fu Belo descendente di Nembrot, capo della Monarchia Assiria e padre di Nino, dalla qual nazione, cinquant'anni da poi, si partì Abraham e se minò il culto del vero Jeova
per il mondo, e gli fu per questo da Dio promessa l'eredità di tutto il mondo, poichè egli era dell'Autor del mondo conoscitore; e così veramente è avvenuto, chè non si
trova nazione che non si vanti venire da Abraham: li Maomettani per Ismaele, gli Ebrei per Isaac i cristiani per via di Davide, del cui tronco venne Cristo e insertò noi a
quel ceppo santo come olivastri nell'oliva. E verrà tempo, come si vede disposto, che tutto il mondo tornerà al culto di Dio vero e sarà figlio d'Abraham, non spurio come
Macone, nè carnale come gli Ebrei per via d'Isac, ma spirituale, poichè ad Abraham l'eredità dell'universo è promessa, secondo dice san Paolo» (T. Campanella, Del senso
delle cose e della magia, cit., p. 226).
246
T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, cit., p. 278.
247
L. Bolzoni, Opere letterarie di Tommaso Campanella, Introduzione, UTET, 1977, p. 13.
248
L. Bolzoni, cit., p. 14.
249
L. Bolzoni, op. cit., p. 14.
250
L. Bolzoni, op. cit., p. 15.
251
Poetica, p. 345, citato in L. Bolzoni, op. cit., p. 16.
252
T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, cit., p. 292.
somiglianza del Creatore, avendo assoggettato la Natura a suo servizio e costituito una società giusta, nella
quale l'unica preoccupazione consiste nell'attuazione di un progresso apparentemente senza ostacoli. Ecco
perché nel Monarchia Messiae, (opera del 1605), lo Stilese annuncia che nel saeculum aureum sarà possibile
vedere la saggezza umana svilupparsi mirabilmente, grazie alla diffusione della pace, e la scienza
perfezionarsi grazie alla sicurezza della navigazione, dei viaggi, del commercio e dell'informazione.
In realtà si deve però ammettere che l'idea campanelliana di progresso è molto distante dalla nostra (pur
basata su un mito: quello tecnologico, della infallibilità delle scienze matematiche). Tra la concezione
moderna del progresso e quella rinascimentale si pone una differenza profonda, che trae la sua origine ai
diversi miti cui queste concezioni fanno riferimento. Per Campanella il vero progresso è dato dal
perfezionamento della magia, delle arti astrologiche (... in ultima analisi: della religiosità umana).
L'escatologia Campanelliana vieta di credere in un progresso frutto della sapienza matematica disgiunta dalla
operatività del mago (che ricordiamolo, opera solo in virtù di uno speciale legame con il mondo dello
spirito). Nella concezione mitica, infatti, ciò che viene messo in discussione è proprio l'idea di progresso:
all'inizio dei tempi, nella mitica età dell'oro, era tutto veramente paradisiaco. Poi ci fu la caduta. Si tratta
evidentemente di una caduta spirituale, che non può essere recuperata se non da un progresso nel campo
dello spirito. Probabilmente, di fronte ai nostri affanni nei confronti del progresso tecnologico, che ci obbliga
a stare al passo coi tempi, a tenerci all'avanguardia, il Frate di Stilo avrebbe sorriso con tenerezza. Non è
possibile nessun autentico progresso se non nel campo del rapporto uomo-Dio. Ma lo sfondo di questo
rapporto è costituito dalla natura, che permette una elevazione dell'uomo fino al mondo angelico. La magia è
dunque teurgica, ha lo scopo di facilitare il progresso dello spirito: ed il progresso della tecnica non è che
una conseguenza di questo innalzamento tutto spirituale. Ecco perché nel Del senso delle cose e della magia
Campanella spiega appunto le «Regole d'applicar animali, piante e minerali ad uso magico» 253, perché
ricorda con precisione il nucleo fondamentale della tradizione religiosa ermetica: la generazione magica
(«Magia della Generazione»)254, considera poi «Li affetti naturali che muove il Mago per venire al suo
effetto», riprendendo evidentemente tematiche già espresse dal Bruno (si pensi al De vinculis in genere)255. Il
punto fondamentale di queste argomentazioni è evidentemente costituito dal tema della comunicazione
universale, senza la quale non sarebbe possibile pensare ad una effettiva congiunzione del mondo terrestre
con quello celeste. D'altronde, come ricorda lo Stilese, «Dalla legge della lepra Moisè addita che il senso e
l’affetto si comunichi e moltiplichi, pur tra cose dissimilissime e lontane, e il senso si comproba» 256. Risulta
allora perfettamente chiaro il senso ultimo della magia: «La più grande azione magica dell'uomo è dare leggi
agli uomini»257.
253
T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, cit., p. 279: «Or dirò con universali proposizioni che gli animali et erbe, inducendo in noi le passioni ch'elle hanno,
tutte entrano in uso di magia».
254
T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, op. cit., p. 303. «Gran magia si può osservare per nobilitare la generazione, poichè abbiamo visto tanto valere
l'affetto dÈ generatori, che l'esprimono nella cosa generata. Questa magia osservò il patriarca Giacob, che volendo che le pecore facessero figli bianchi, poneva nelli canali,
dove s'abbeveravano, verghe bianche e cose bianche, e in quel tempo rinfrescate si movevano a lussuria e osservavarno il coito, e così facevano bianchi li figli; e se li
voleva neri, poneva verghe nere, se varii, varie. Or nota gran senno, chè allora le pecore beveano l'acqua con grande avidità, chè in Mesopotamia ci è gran caldo e poca
acqua, e con questa avidità, mirando alle verghe ch'erano nell'acqua, lor s'imprimeva l'imagine di quelle verghe, amate da loro per il gaudio dell'acqua che da quelle o in
quelle scorreva. Così noi quando riceviamo una cosa desiata da qualche persona, ne resta più l'imagine di quella persona che altre fiate. Talchè, contente dell'acqua, poscia
ricevevano il seme, nello stesso tempo con quella imagine in ambedue i genitori maschio e femina, e lo spirito e il seme con quello istesso affetto e idea operava nel lavoro
poi del corpo e l'esprimeva similmente, perchè ognuno adopera cosi com'è affetto: la cosa calda scalda, la fredda affredda, l'irato fa con ira, il timoroso con paura,
l'amoroso con amore il suo effetto, e in quello diffonde sè stesso così com'egli è allora, perchè agere è diffondere la propria natura e sembianza, così come lo scaldare è fare
altrui caldo similmente come egli è, o scrivere è significare quel che ha in mente lo scrittore, e far banchi è metter l'idea e sembianza del banco che ha in mente nel legno.
[...] Una Regina, scrive Avicenna, mirando l'imagine di uno schiavo nero, dipinto nell'atto di Venere, generò poi uno schiavo; e già è usanza dÈ gran signori dipingere belli
cavaIli e belli cani e farii vedere alli cavalli e alli cani quandosi fottono perchè simili li generassero. Ma mi stupisco poiché siamo tanto bestiali che trascuriamo la
generazione umana e tenemo tanto conto della razza delle bestie. Dunque, si dovria provedere in Republica, come avverte Ocello Pitagorico, che non secondo la dote si
facciano i matrimonii, ma secondo il valore, o accoppiar valente donna convalente nomo e farli mirare in statue e pitture d'uomini illustrissimi in arme e lettere e
innamorarli di quelli, e aspettare il tempo quando benigne stelle siano nell'ascendente o nel mezzo cielo, e li pianeti si guardino con buoni aspetti fra loro e con le fisse
stelle, e siano in dignità perchè molto dispongono e aiutano alla nobiltà della prole. E far che tutti usino la generazione nella mancanza dÈ menstrui, che sia netto l'utero e
non ammorbi il seme col menstruo, e dopo la mezzanotte, fatta la digestione, perchè è cresciuto il seme, e non fa danno al generante disturbando lo spirito dalla nutrizione e
scemandolo. Ben si provvede che li sacerdoti non generino, perchè chi attende alla contemplazione è debole di spiriti, e nel coito non escono dalla testa, perchè sono pochi
e stanno cogitando, ma dalli testicoli; e fanno uomini grossi di materia e d'ingengo, come fè Socrate, Cicerone, Samuele, et Eli. Ma gli uomini grossi non pensano ad altro,
e mandano tutto lo spirito e seme al cunno, e quello è più vigoroso, uscendo dalla testa, che quello dÈ savii dai testicoli». (pp. 303-306).
255
T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, op cit., p. 242. «Lo spirito animale perchè è di natura mobile e passivo, è atto a patir di ogni cosa e imprendersi di
quella molto o poco a tutte le maniere; e l'anima, che in lui sta involta, seco patisce e s'infà. Le passioni principali sono dolore e voluttà; questi sono esquisiti sensi del male
o del bene presente. L'amore e l'odio sono tendenza verso il bene o contra il male che non è al senso unito, chè, quando è unito, o de letta o addolora. La speranza e il timore
son fuga del male o sequela del bene assente per qualche presente utile conosciuto. La fiducia è senso di qualche cosa onde s'argomenta un bene certo, e il contrario è la
diffldenza. La fede è madre della fiducia perchè è senso di quella cosa buona, non dico presente ma lontana, e quel che di questa buona sensazione si spera per argomento,
è la fiducia. L'imaginazione vera è quando lo spirito s'infà di una cosa e se la pensa com'è, non pigliando altra per quella; la prava è quando talmente viene affetto lo spirito
d'una cosa, che non può muoversi d'altro moto, ma ogni moto li sveglia quel medesimo e quello copre e gli altri. Or chi sa tutti questi effetti nell'uomo ingenerare, con erbe,
azioni e altre cose opportune, mago si può appellare».
256
T. Campanella, Del senso delle cose, op. cit., p. 274.
257
T. Campanella, Del senso delle cose, cit., p. 318 e sg.: «Sotto il triangolo di Ariete sono le Monarchie e leggi giuste e profeti veraci, e gli Europei; sotto quello di Tauro
le Republiche, leggi variabili e mutamenti assai per la Luna; sotto i Gemini leggi sacerdotali, ceremoniose, assai parte macolate di superstizione, mercatura e arti
mecaniche; sotto Cancro l'eresie, leggi variabili difese con armi, destruzione delle prime, principati violenti, dominio di femine, invenzioni di cose di fuoco. Le
congiunzioni magne in questi Trigoni durano duecento anni e ogni tanto tempo mutano; si finiscono tutte in ottocento e significano gran novità. Saturno, Giove e Marte
fanno le cose di tempo longo per la tardità; Mercurio e la Luna di brevissimo; l'altri di mediocre. È distinto in dodici segni il Zodiaco perchè dodici volte s'accoppia il sole
con la luna ogni anno; e ha ogni segno trenta gradi, perchè ogni trenta dì si raggiungono. Le loro congiunzioni e opposizioni variano tutte le cose ordinarie, ma quelle che si
E l'Epilogo Del Senso Dell'universo che conclude il Del senso delle cose spiega appunto che «Il Mondo,
dunque, tutto è senso e vita e anima e corpo, statua dell'Altissimo, fatta a sua gloria con potestà, senno
eamore. Di nulla cosa si duole. Si fanno in lui tante mortie vite che servono alla sua gran vita. Muore in noi il
pane, e si fa chilo, poi questo muore e si fa sangue, poi il sangue muore e si fa carne, nervo, ossa, spirito,
seme, e pate varie morti e vite, dolori e voluttadi; ma alla vita nostra servono, e noi di ciò non ci dolemo, ma
ci godemo. Così a tutto il mondo tutte cose son gaudio e servono e ogni cosa è fatta per lo tutto e il tutto per
Dio a sua gloria. Stanno come vermi dentro all’animale tutti gli animali dentro al Mondo, nè si pensano
ch'egli senta, come li vermi del nostro ventre non pensano che noi sentemo e abbiamo anima maggiore della
loro, nè sono animati dalla commune anima beata del Mondo, ma ciascuno della propria, come li vermi in
noi, che non han la mente nostra per anima, ma il proprio spirito. L'uomo è epilogo di tutto il Mondo,
ammiratore di questo, se vuol conoscere Dio, chè però è fatto. Il Mondo è statua, imagine, Tempio vivo di
Dio, dove ha dipinto li suoi gesti e scritto li suoi concetti, l'ornò di vive statue, semplici in cielo, e miste e
fiacche in terra; ma da tutte a Lui si camina. Beato chi legge in questo libro e impara da lui quello che le cose
sono, e non dal suo proprio capriccio, e impara l'arte e il governo divino, e per conseguenza si fa a Dio simile
e unanime, e con lui vede ch'ogni cosa è buona e che il male è respettivo e maschera delle parti che
rappresentano gioconda comedia al Creatore, e seco gode, ammira, legge, canta l'infinito, immortale Dio,
Prima Possanza, Prima Sapienza e Primo Amore, onde ogni potere, sapere e amore deriva et è e si conserva e
muta, secondo li fini intesi dalla commune anima, che dal Creatore impara e l'arte del Creatore, nelle cose
innestata, sente, e per quella ogni cosa al gran fine guida e muove, finchè ogni cosa sarà fatta ogni cosa e
mostrarà ad ogni altra cosa le bellezze dell'eterna idea» 258. La coerenza e l'intima unità del pensiero
campanelliano, nel quale il discorso magico e astrologico costituiscono una parte non trascurabile, è dunque
finalmente chiarita, ed impedisce in sostanza l'accettazione di quelle interpretazioni volte a sistematizzare
l'evoluzione di tale pensiero in momenti ben distinti tra loro, dei quali la presunta conversione del 1603
costituisce l'inveramento e la maturazione delle tesi naturalistiche giovanili.

fanno nelli quattro cardini, Ariete, Cancro, Libra, Capricorno, hanno più forza per tre mesi, e l'altre seguono la norma loro. I pianeti hanno casa, trigono, esaltazione e
termino, secondo s'è sperimentato, perchè in un segno hanno più virtù che in un altro. E in certa parte di quel segno ancora la mutazione degli Apogei di segno in segno è di
molta importanza, e la varietà degli equinozii, solstizii et eccentricitati et obliquitati; e pur questa varietà è or veloce, or tara. Le cose fatte nella tardanza più durano. Ogni
cosa si misura col tempo loro. Le mutanze di segno in segno che le stelle dell'uno entrano in quelle dell'altro, cosa dagli antichi ignorata, mutano le principali potestadi del
Mondo. La positura del Pianeta negli angoli è valorosa ad influire; nelli succedenti meno; vile nelle cadenti case. In dodici case si distingue il giro celeste. Quando si fa
congionzione o altro aspetto, nel perpendicolo di chi si fa, più viene affetto; più poi nel levante che nel ponente. Ciascuno, nascendo, ha il datore della vita: il sole e la luna
per lo più. La parte della fortuna è l'ascendente o altro Pianeta e quando quella parte è da benefiche stelle aiutata, bene accadeno i negozii all'uomo; quando da malefiche,
male. Ciascun pianeta ha le proprietà sue, e quel male o bene induce che può; e misto con altri, è misto. Dunque, far lecose quando il tuo Pianeta prevale, riescono bene, e
secondo l'applicazione e separazione e positura che ha con il sole o col mondo puoi conoscere la sua virtù».
258
T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, op. cit., p. 322.
Teocrazia e ierocrazia.

Stavamo tutti al buio.

Stavamo tutti al buio. Altri sopiti


d'ignoranza nel sonno; e i sonatori
pagati raddolciro il sonno infame.
Altri vegghianti rapivan gli onori,
la robba, il sangue, o si facean mariti 5
d'ogni sesso, e schernian le genti grame.
Io accesi un lume: ecco, qual d'api esciame,
scoverti, la fautrice tolta notte
sopra me a vendicar ladri e gelosi;
e que' le paghe, e i brutti sonnacchiosi 10
del bestial sonno le gioie interrotte:
le pecore co' lupi fûr d'accordo
contra i can valorosi;
poi restar preda di lor ventre ingordo259.

La storia della Città del Sole e delle sue edizioni260 è certamente meno complessa dei contenuti simbolici e
rivoluzionari che essa esprime e dei motivi religiosi e metafisici che la ricollegano direttamente alle altre
opere dello Stilese, quali la Metaphysica, il De sensu rerum et magia, le opere "politiche" (Quod
reminiscentur, La monarchia di Spagna, Atheismus triumphatus, etc.). Più semplice sarà invece il confronto
con altre opere "utopistiche", poiché, anche se nella Città del Sole sono ben presenti alcuni motivi classici
dell'utopia rinascimentale, l'originalità del pensiero campanelliano impedisce una completa, riduttiva,
assimilazione a questa corrente di pensiero261. Inoltre, semmai, le influenze del Campanella vanno ricercate
nella letteratura ermetica, che, come ha ottimamente messo in rilevo la Yates, contiene parecchi spunti
comuni con la corrente utopistica rinascimentale 262.
Come sappiamo, entrato in contrasto col suo Ordine religioso, Campanella ebbe a subire un primo processo
a Napoli (1591), a causa di alcune tesi sospette contenute nella Philosophia sensibus demonstrata. Liberato
259
Cfr. Tommaso Campanella, Tutte le opere, a cura di L. Firpo, Mondadori, Milano, 1955.
260
G. Scalici ricorda che «L'opera fu scritta dal Campanella in italiano nel 1602, durante il processo per eresia e sedizione. Tale stesura, di cui son conservati 11
manoscritti, fu la base della versione latina del 1623, pubblicata dal discepolo tedesco Tobias Adami. Lo stesso testo fu nuovamente pubblicato a Parigi nel 1637, quando
Campanella si trovava ospite presso Luigi XIII. Dobbiamo ad Alessandro D'Ancona la prima edizione (1854) della Città del Sole in italiano. Nel 1881 Luigi Amabile ne
pubblicò alcuni passi. Ma la prima edizione critica dell'opera venne curata soltanto nel 1920 da Giuseppe Paladino, per i tipi delle Edizioni Giannini di Napoli. Più nota è
l'edizione critica del 1941 di Norberto Bobbio che comprende anche il testo latino. Ricordiamo, inoltre, la Citta del Sole a cura di R. Amerio (in A. Guzzo, R. Amerio
Opere di Giordano Bruno e Tommaso Campanella, Milano-Napoli 1956); quella curata da L. Firpo (in Scritti scelti di Giordano Bruno e Tommaso Campanella, Torino
1949); e quella di A. Seroni (Tommaso Campanella, La Città del Sole e scelta d'alcune poesie filosofiche, Milano 1962). Accanto a queste edizioni ne esistono altre, non
sempre attendibili filologicamente, risalenti al secolo scorso e all'inizio del nostro. Per quanto riguarda il titolo «Citta del Sole», riportiamo l'opinione di R. Amerio: «Le
fonti di questa denominazione si sono ricercate nel Botero (Delle cause della grandezza e magnificenza delle città, Venezia 1589, p. 311), nel profeta Isaia, 19, 18, in Iosué
19, 41 e altrove. Ma come il Sole, secondo un antico simbolismo precristiano e cristiano, penetrato ampiamente anche nella liturgia cattolica, è segno di divina ragione, che
effonde il suo lume su tutte le creature, così Città del Sole vale quanto comunità di uomini in cui impera la divina ragione. Non soltanto per il rispetto climatico e situale,
ma anche per un rispetto intellettuale e morale la vita in questa città è vita solare». Ci sembra, poi, che nella scelta fatta dal Campanella non sia estranea l'eco
dell'ermetismo religioso, per cui il Sole rappresenta l'aspetto visibile di Dio, fonte di calore e di vita, dispensatore di luce a tutte le creature» (G. Scalici, op. cit., p. 38).
261
Anton Truyol y Serra aveva scritto: «La filosofia sociale e politica di Campanella è stata in generale considerata esclusivamente nella sua relazione con quelle di
Tommaso Moro e di Francis Bacon, ossia, come uno dei grandi momenti dell'utopia nel periodo del Rinascimento (dando a questo termine un'accezione ampia). Questa
maniera di vedere, anche se legittima dal punto di vista di una storia delle utopie, non è sufficiente, tuttavia, nella prospettiva più ampia della storia del pensiero sociale e
politico. Non importa render conto della complessità dell'opera Campanelliana, nè del suo autentico significato storico-culturale. La Civitas Solis, così associata
tradizionalmente all'Utopia e alla Nova Atlantis, non racchiude tutta la dottrina di Campanella. Occorre tener presente le molte altre opere che, come De Monarchia
Messiae, Atheismus triumphatus, Le monarchie delle nazioni, ecc., gli assicurano un posto rilevante nella precettistica politica, l'antimachiavellismo e la teoria
dell'organizzione internazionale non meno che tra i costruttori di città ideali. Per non lasciar poi da parte in Campanella il poeta che seppe tradurre con personalissimo
accento, nella forma della canzone e del sonetto, le sofferenze dei suoi anni di carcere. La veemenza passionale di Campanella e la sua propensione alla profezia spiegano
gli avvenimenti di una vita che trascorse sotto il segno del fallimento costante nell'ambito secolare. Però danno allo stesso tempo ragione della forma intermittente, sempre
incompiuta e insieme reiterativa della sua filosofia, che contrasta notevolmente con l'evidente unità e coerenza delle sue idee basilari. La filosofia di Campanella offre una
particolare coesistenza di elementi antichi e nuovi, l'associazione di tradizioni scolastiche con il sensismo di Telesio che tanto influì su di lui da giovane, allontanandolo da
Aristotele, e un neoplatonismo che nell'età del Barocco incipiente rieccheggia quello delle accademie italiane del Rinascimento. Il suo ingrediente fondamentale è un'ansia
di spiegazione unitaria del mondo in cui domina con sommo vigore il principium unitatis della speculazione cristiano-medioevale. Operando in tutte le espressioni parziali,
e più o meno circostanziali, di un pensiero in perpetua febbre di illuminazione, questa aspirazione all'unità mantiene nella discontinuità delle sue formulazioni una
connessione profonda» (Anton Truyol y Serra, Hierocracia mundial y estados particulares en Campanella, in "Tommaso Campanella", Deputazione di Storia patria per la
Calabria, Atti del convegno, cit., pp. 537-563),
262
Come vedremo più avanti sarà proprio il motivo del "Sole" e della divinazione astrologica del cielo e delle stelle a legare La Città del sole più alla letteratura ermetica,
ed in particolare alla Città di Adocentyn del Picatrix, che alle altre opere politico-sociali degli utopisti europei.
l'anno successivo si rifiutò di tornare al suo convento in Calabria e - con coraggio - si recò prima a Roma, poi
a Firenze, con la speranza di ottenere dal Granduca Ferdinando I una cattedra universitaria. Passò poi a
Padova dove conobbe Galileo Galilei. Nella città veneta venne nuovamente arrestato (1593) e
successivamente ricondotto a Roma, dove fu nuovamente processato. Costretto a pubblica abiura, gli fu
imposto rientro a Stilo: una sorta di arresti domiciliari. E a questo punto, come aveva scritto con un pizzico
di ironia G. Scalici, «Siamo all'episodio più controverso della vita del Campanella: la sfortunata [corsivo
mio] congiura del 1599»263. Stando alle deposizioni processuali264, lo Stilese avrebbe organizzato un moto
contro il governo ispanico di Calabria finalizzato alla creazione di una vera e propria repubblica teocratica e
ierocratica. Questa avrebbe dovuto costituire la prima fase di una più vasta rivoluzione, di un vero e proprio
generale rinnovamento istituzionale, sociale, religioso e morale. «Tale "renovatio", annunciata, secondo
Campanella da profezie, prodigi e segni celesti, si sarebbe manifestata esteriormente col nuovo secolo ed
avrebbe riunificato il mondo intero sotto un'unica legge e un'unica guida» 265. Dopo il fallimento della rivolta
calabrese che avrebbe dovuto instaurare la sua utopica, e contraria all'ortodossia, Città del Sole, Campanella
fu imprigionato a Napoli. Correva l'anno 1599266. Nel 1603, dopo durissime torture, venne condannato al
carcere a vita, come eretico: era sfuggito alla condanna a morte simulando abilmente la follia. Trascorse
effettivamente in carcere ventisette anni, durante i quali compose un'imponente mole di opere (tra le quali
una Metaphysica in diciotto libri, una Theologia in trenta libri, oltre a molteplici scritti d'argomento politico,
astrologico e magico...), inviò numerosissime lettere a sovrani, pontefici, scienziati e uomini di cultura, tenne
contatti con estimatori e discepoli, insomma: si diede parecchio da fare267. Nel 1626 venne rilasciato dagli
Spagnoli, dopo pochi mesi, venne di nuovo arrestato e trasferito in carcere a Roma. Le speranze
escatologiche di Campanella erano ora incentrate sul Papa, così come erano state, una volta, incentrate sul re
di Spagna e lo sarebbero state in seguito sul re di Francia. Come ricordava anche Daniel Pickering Walker,
se avesse potuto convincere il Papa del lento avvicinarsi del Sole e degli eventi che questo evento
straordinario preannunciava, dei missionari preparati personalmente dal Campanella sarebbero stati inviati da
Roma per convertire il mondo intero ad un cattolicesimo riformato, «naturale», che avrebbe introdotto il
«millennium», cioè la Città del Sole universale268. Naturalmente il favore del Papa rappresentava la sua
principale speranza di libertà personale, ma non è da escludere una particolare insistenza per preparare
l'avvento della nuova era anche tra le estreme difficoltà del carcere. Ora, sappiamo che Papa Urbano VIII
credeva fermamente nell'astrologia, benché la Bolla di Sisto V del 1586 (Coeli et Terrae) l'avesse duramente
condannata e benché egli stesso fosse sul punto di pubblicare, nel 1631, una Bolla (... la futura Inscrutabilis)
proprio contro l'astrologia e gli astrologi. Ciò nonostante il Pontefice Urbano VIII si faceva fare gli oroscopi
263
G. Scalici, La Città del Sole di Campanella ed il pensiero utopistico fra Cinquecento e Seicento, cit., p. 36.
264
Cfr. G. Scalici, La Città del Sole di Campanella ed il pensiero utopistico fra Cinquecento e Seicento, cit.
265
G. Scalici, La Città del Sole di Campanella ed il pensiero utopistico fra Cinquecento e Seicento, cit., p. 36. G. Di Napoli aveva osservato che "il Campanella non
negava - e non ha mai negato - di aver concorso all'eccitazione degli animi in Calabria; però ha sempre tenuto a dire che furono gli altri a dare un colore di congiura a
quello che per lui era il proclama d'una «renovazion del secolo»; e ciò fin dalla giovinezza: «Le cogitazioni mie, Sacra Maestà, da Fanciullo furono sopra questa rinovazion
di secolo; e mi mosse dalle parole di S. Vincenzo, di Santa Brigida, di Santa Caterina, di San Gregorio dell'abbate Gioachino e d'altri astrologi e filosofi d'ogni nazione; e
perché parlai di questo al tempo che furo in Calabria le inondazioni, terremoti e comete, e tanti officiali scomunicati, fui preso per sospetto» (Lettera a Filippo III, re di
Spagna, del 1607 (Lettere, cit., p. 76)" (G. Di Napoli, in "T. Campanella, Metafisica, op. cit., p. 18).
266
F.A. Yates aveva rilevato che: «la temeraria fiducia dell'azione campanelliana in Calabria, nata dalla credenza in poteri miracolosi e nei segni dei tempi, è simile alla
temerarietà del ritorno di Bruno in Italia, avvenuto in uno stato analogo di eccessivo ottimismo. Ovviamente, sarebbe errato considerare il movimento campanelliano
esclusivamente come una risultante dell'infiuenza prodotta dal ritorno di Bruno in Italia. Altri fattori vanno presi in esame; l'apparente somiglianza può essere dovuta [...]
all'impulso ricavato sia da Bruno che da Campanella da questo singolare atteggiamento di insoddisfazione dei domenicani del Sud d'Italia, di cui la rivolta calabrese è un
episodio illuminante. Inoltre, in questa fin de siècle, tali concetti di cambiamenti imminenti e di prossima riforma erano verosimilmente nell'aria e le prigioni
dell'Inquisizione romana erano popolate di infelici visionari dalle speranze deluse. Uno di questi fu Francesco Pucci, che era stato in Inghilterra, che fu autore di un
progetto di repubblica cristiana universale, che fece ritorno in Italia nel 1592, press'a poco come Bruno, con un commosso appello a Clemente VIII, e che, sempre al pari di
Bruno, sperò per una soluzione in Enrico IV di Francia. Anche la sorte del Pucci fu simile a quella di Bruno: venne imprigionato a Roma nel 1594 e nel 1597 fu eseguita su
di lui la condanna a morte. Come è stato messo in evidenza da Luigi Firpo , sembra quasi certo che il Pucci influenzasse Campanella, che ebbe con lui scambi di parole nel
carcere romano. Ma, una volta tenute nel debito conto altre possibili influenze, ed esserci cautelati contro ogni forzatura, resta assai verosimile l'impressione che ci sia stato
un cambio di consegne da Bruno a Campanella. In lettere scritte da Campanella in anni successivi si trovano molti concetti, e persino frasi, che ricordano stranamente certi
passi dei dialoghi italiani di Bruno, in particolare della Cena de le ceneri, e stanno così a indicare come Campanella avesse almeno letto qualche opera bruniana». Sempre
secondo la Yates la data della morte di Bruno acquista dunque un nuovo significato «quando venga vista nel contesto della rivolta calabrese e dei suoi sviluppi. Perché - si
chiede la studiosa inglese - dopo otto anni di carcere, Bruno venne alla fine condotto ad una morte terribile, pubblicamente, nel febbraio 1600? Nel novembre dell'anno
precedente Campanella fu imprigionato a Napoli; nel febbraio 1600 venne sottoposto a torture. L'esecuzione di un domenicano ribelle come Bruno, al tempo in cui la
rivolta calabrese, guidata da un altro domenicano ribelle, era stata appena domata, può aver avuto l'aria di un avvertimento. Campanella scampò appena da una morte come
quella di Bruno, grazie evidentemente alla sua presenza di spirito che gli fece simulare la pazzia. Così si inaugurava quel fausto anno 1600, composto dal nove e dal sette:
con la morte di Bruno e con Campanella avviato ad una detenzione di ventisette anni. Nel destino di questi due discendenti di Ficino, in cui agiva ancora il lievito del
Rinascimento, è simboleggiato il soffocamento in Italia di quelle forze rinascimentali che in altri paesi avrebbero trovato nuove vie di espansione nel corso del XVII
secolo» (F.A.Yates, op. cit., pp. 395-396).
267
G. Scalici ricorda poi che scarcerato per ordine di Filippo IV di Spagna nel 1626, Campanella venne ancora una volta arrestato e trasferito a Roma. Ma, grazie alla
stima di papa Urbano VIII, fu definitivamente liberato nel 1629, dopo aver avuto a disposizione addirittura il palazzo del Sant'Uffizio. Cinque anni più tardi Campanella fu
costretto ad abbandonare Roma in quanto nuovamente sospettato d'attività cospirative contro la Spagna. La fuga fu agevolata dall'ambasciatore francese che intendeva,
così, proteggere un filosofo che proprio in quegli anni si era fatto sostenitore della emergente monarchia borbonica, dopo essere stato - durante la carcerazione -
propugnatore del papato e della monarchia di Spagna. Fu proprio in Francia che il domenicano di Stilo trascorse gli ultimi anni di vita sotto la protezione benevola di Luigi
XIII e del cardinale Richelieu. Morì a Parigi il 21 maggio 1639. A nulla valsero i suoi tentativi di scongiurare, attraverso pratiche magiche, gli effetti negativi dell'eclissi
prevista per il 1° giugno di quello stesso anno. (Cfr. G. Scalici, op. cit., p. 36.).
268
Cfr. D. P. Walker, Campanella e la magia, in Magia e scienza nella civiltà umanistica, a cura di Cesare Vasoli, Il Mulino, Bologna, 1976, pp. 240-267, in particolare p.
240-241.
dei cardinali residenti in Roma ed aveva l'abitudine di predire apertamente le date delle loro morti.
Ironicamente, Walker ricorda come il Pontefice venisse però «ripagato della stessa moneta». Infatti, dal 1626
in poi, alcuni astrologi cominciarono a predire la sua fine imminente e, nel 1628, queste voci divennero
pubbliche e si diffusero. «Sembra che vi siano pochi dubbi - osserva Walker - sul fatto che queste voci e
predizioni venivano incoraggiate dagli Spagnoli, che anzi facevano vistosi preparativi per il prossimo
conclave. Infastiditi dalla sua politica persistentemente filofrancese, essi speravano di spaventare a morte il
Papa; e se non ci fosse stata la magia di Campanella essi avrebbero anche potuto avere successo» 269.
Guardacaso, proprio nel 1628 ci fu un'eclisse lunare (in gennaio) ed una solare (a dicembre), e nel 1630 si
dovette assistere ad una nuova eclisse solare durante il mese di giugno270: questi eventi straordinari finirono
col facilitare le cose e Campanella riuscì - mostrando una certa abilità - ad avvicinarsi al Pontefice,
praticando insieme a lui certe cerimonie magiche al fine di evitargli il triste destino predetto dai segni celesti.
Alla fine il Papa rimase così tanto impressionato da perdonare al bravo mago la pubblicazione di un trattato
(che doveva rimanere segreto) sulla magia, e gli accordò addirittura un permesso straordinario, una sorta di
libertà condizionata, anche se con limitazione al solo palazzo del Sant'Uffizio. In questo modo Campanella
non solo riuscì ad evitare il carcere duro, ma fu ad un passo dalla realizzazione del suo sogno: la conquista ed
il rinnovamento del mondo con l'appoggio della Chiesa riformata (in senso ermetico): l'instaurazione della
magica Città del Sole universale.
Prima di analizzare i contenuti fondamentali della Città del Sole è però necessario premettere una doverosa
riflessione. Molti elementi apertamente eterodossi contenuti in quest'opera hanno provocato tra gli studiosi
una lunghissima quaestio disputata, in parte forse ancora disputanda. Per cercare di fare un po' di chiarezza
sulla questione dell'ortodossia campanelliana e sulla Città del Sole è opportuno ricordare un significativo e
davvero documentato intervento di Rodolfo De Mattei, importante per la chiarificazione di un punto
fondamentale: non è possibile considerare La Città del Sole come un momento particolare rispetto alla
speculazione campanelliana nel suo complesso271. De Mattei ricordava che è necessario rendersi conto del
fatto che la Città del Sole viene continuamente evocata e rivendicata dal Campanella in numerose occasioni;
e - ciò che ha ovviamente la sua importanza - proprio nelle sedi in cui egli dovrebbe maggiormente la sua
ortodossia (... del tutto personale!). Si prescinda magari dalle Poesie in cui alla Città del Sole si fa comunque
cenno272. Ma è significativo che il Campanella parli de propria republica scrivendo al Cardinale Odoardo
Farnese273, e de propria republica in dialogo detto La Città del Sole parli nel suo Memoriale a Palo V, a
Rodolfo II, e a Filippo III274, e il libro De propria republica includa in un elenco di sue opere presentato a

269
D. P. Walker, Campanella e la magia, cit., p. 240. Con la solita simpatica ironia il Walker osserva: «Fino a qual punto Urbano VIII fosse seriamente turbato da queste
predizioni si può vedere dalla sua Bolla contro l'astrologia. Sebbene questa confermi nei termini generali le condanne della Bolla di Sisto V, le sole pratiche che condanna
in modo specifico sono le predizioni sulla morte dei principi e specialmente dei Papi, compresi i membri delle loro famiglie fino al terzo grado di parentela incluso; queste
predizioni devono essere considerate come crimini di lesa maestà, punibili con la morte e con la confisca dei beni.»
270
Cfr. D.P. Walker, cit., p. 241. Walker ricorda che «Nei rapporti diplomatici del 1628 provenienti da Roma, si trovano molte menzioni del fatto che il Papa e Campanella
frequentemente si appartavano insieme. Si dice che essi erano impegnati in certe pratiche astrologiche connesse con la predizione della morte del Papa, che praticavano la
"necromanzia" e, in un documento, si afferma che celebravano riti notturni con candele accese. Come hanno congetturato, a mio giudizio correttamente, Amabile e, dopo di
lui, Blanchet, ciò che stavano facendo era un tentativo di prendere misure appropriate contro le eclissi apportatrici di malattie e contro i cattivi influssi di Marte e di
Saturno. Anzitutto sigillavano la stanza in modo che non entrasse l'aria esterna, la cospargevano di aceto di rose e di altre sostanze aroma tiche e bruciavano lauro, mirto,
rosmarino e cipresso. Appendevano alla parete panni di seta bianca e la decoravano con rami. Poi veni vano accese due candele e cinque torce, che rappresentavano i sette
pianeti; poiché i cieli a causa dell'eclisse si erano deteriorati, le candele e le torce dovevano fornirne una sostituzione non difettosa sì come si accende una lampada quando
il sole tramonta. Anche i segni dello zodiaco erano forse rappresentati allo stesso modo; perché questo è un procedimento filosofico, non un procedimento superstizioso,
come pensa il volgo. Le altre persone presenti possedevano degli oroscopi immuni dalla malefica eclisse. C'era la musica di Gio ve e di Venere che doveva disperdere le
proprietà perniciose dell'aria infettata dall'eclisse e, simbolizzando i pianeti buoni, eliminare l'influsso di quelli cattivi. Per lo stesso scopo usavano pietre, piante, colori e
odori che appartenevano ai pianeti buoni, cioè Giove e Venere. Bevevano inoltre liquori distillati astrologicamente. Questo procedimento è descritto in un capitolo sulle
eclissi nel De Fato siderali vitando di Campanella, che apparve come settimo libro dei suoi Astrologica, pubblicato a Lione nel 1629; ha una numerazione delle pagine
separata ed è preceduto da una nota dell'editore, in cui dice che esso gli era capitato fra le mani dopo che i pri mi sei libri erano già stati stampati. Stando a quanto afferma -
e non c'è ragione di dubitare - Campanella non pensava di pubblicare questo trattato; ma esso venne spedito all'editore da due domenicani "in alto loco", i quali
desideravano impedire che Campanella ottenesse la carica di "Consultor" nel Sant'Uffizio; una simile carica gli avrebbe permesso di esercitare un controllo considerevole
sulla censura delle pubblicazioni teologiche. Questo atto malizioso ebbe successo; infatti Urbano VIII fu estremamente adirato per la pubblicazione e Campanella non
ottenne mai la sua carica, anche se riuscì quasi subito a riguadagnarsi il favore del Papa e ad ottenere un esame ufficiale del trattato che lo dichiarasse libero da eresia e
superstizione. Così nell'aprile del 1629 fu liberato dalla prigione. A partire dall'anno seguente, aveva ottenuto dal Papa il permesso di fondare un collegio a Roma
("Collegio Barberino") per la preparazione dei missionari secondo i principi esposti nel suo libro Quod reminiscentur, cioè missionari che convertissero il mondo intero a
quel genere di cattolicesimo che egli propugnava». (p. 243).
271
Per questa ricostruzione sono interamente debitore a Rodolfo De Mattei (R. De Mattei, Sulla Città del Sole di Tommaso Campanella, in "Tommaso Campanella",
Miscellanea di studi in occasione del 4° centenario della sua nascita, Fausto Fiorentino Editore, Napoli, 1969, pp. 143-158).
272
Cfr. Poesie (in T. Campanella, Tutte le opere, a c. di L. FIRPO, Milano, Mondadori, 1954): Commento a Fede naturale del vero sapiente: «La patria, che ha più senno,
è obbligata ad ambedue i mali che non provvede alla generazione ed educazione secondo l'autore nel libro detto La Città del Sole [...]» (p. 12); «[...] Ama il vivere in
comunità e questa esser la vera libertà, secondo la Città del Sole» (pp. 14-15); Comm. alla Canzone Terza. Madrigale 5: «Assai difficile è dire [...] come si può far
generazione perfetta sotto certi luoghi e stelle e tempi, secondo che l'autore scrive nella Città del Sole (pp. 50-51); Comm. al Sonetto Terzo: «[...] Come si viverà in
comune si pruova ne' Profetali; e v'è l'idea nella Città del Sole fatta dall'autore» (p. 121); Comm. all'Ecloga in Principis Galliarum Delphini admirandam nativitatem, ecc.:
«Rex Suetiae Civitatem Solis descriptam ab autore miro libello, putavit sibi aedificandam esse [...]» (p. 300); «Arcanum navigandi sine vento et remigio aperitur in Citate
Solis ab autore» (p. 308).
273
Al Card. Odoardo Farnese, Napoli, 30 agosto 1606, nell'elenco delle proprie opere: «Di politica, Aforismi politici 150; De propria republica lib. I [...]». (T.
Campanella, Lettere, a cura di V. Spampanato, Bari, Laterza, 1927, p. 29).
274
A Paolo V, a Rodolfo II, e a Filippo III, Napoli, 1609: «18. De propria republica in dialogo detto La Città del Sole» (Lett., cit., p. 162).
Paolo V275, oltre che allo Scioppio276 e a Ferdinando II de' Medici277; e, anzi, del programma della Città del
Sole proponga l'attuazione al Cardinale Richelieu, offrendogli in lettura - significativamente 278 - il suo De
sensu rerum279. Espliciti riferimenti alla Città del Sole si trovano pure nella sezione Economica delle
Disputationes280 e nell'Atheismus triumphatus: nella quale opera, la Città del Sole, oltre che essere citata a
parte281, viene menzionata assieme al De Monarchia Christianorum e al De Monarchia Messiae282. Ma è
particolarmente da rilevare come la Città del Sole venga più volte rammentata nella Teologia, l'opera che
secondo gli intenti del Campanella doveva non solo meritare l'approvazione e la lode papale, ma che doveva
soprattutto costituire un punto di riferimento fondamentale per la renovatio universale. Si tratta di un
elemento che è importante sottolineare maggiormente. Nel L. IV, allorché il discorso cade sulla generazione
nello stato d'innocenza, il Campanella tiene a ricordare, difendendole, le norme che regolano i matrimoni
nella Città del Sole283. Ancora nella Teologia, lo Stilese, dopo avere celebrato la beatitudine d'una vita
secondo natura e secondo ragione, aggiunge: «ut in Rep. Solari docuimus» 284. Sempre nella Teologia
parlando della possibilità di ottenere una generazione perfetta, rivendica a sé il merito di avere provveduto a
ciò «in Civitate Solis»285. Sempre nella stessa opera, rilevando che gli antichi progenitori erano assai longevi,
afferma che ciò può bene conseguirsi ulteriormente con l'osservanza di determinate prescrizioni, «ut
scripsimus in lib. De Civitate Solis»286. Difendendo la comunione dei beni, in quanto rispondente alla pratica
della Chiesa primitiva, e asserendo che un simile ordine nuovo verrebbe garantito da una oculata
distribuzione di mansioni, il Campanella sottolinea: «ut patet ex Civitate Solis» 287. E nel primo dei Discorsi
della libertà e della felice suggezione allo stato ecclesiastico, è alla Città del Sole, oltre che alle analoghe
concezioni di Platone e del More, che lo Stilese si appella 288. Vari, sottili, - secondo il De Mattei - a volte
scoperti a volte sottintesi, i legami fra la Città del Sole e le altre opere dello Stilese. Eccolo altresì, nelle
Questioni sull'ottima repubblica, chiarificatrici della concezione eliaca, rimandarci ora ai suoi Profetali, ora
alla Monarchia del Messia ora alla Metafisica. Nella quale ultima opera, infatti, ci è ben possibile rinvenire
concetti che offrono un loro riscontro nella Città del Sole. Così (per fare solo qualche esempio), se nella sua
Metafisica leggiamo che è peccato adorare il sole e le stelle, ma ci sarà tuttavia permesso onorare il sole e le
stelle «ut statuae divinae»289, non ci sarà difficile rammentare quel passo della Città del Sole ove è detto che i
Solari «onorano il sole e le stelle come cose viventi e come statue di Dio e templi celesti, ma non
l'adorano»290. L'astrologia e la divinazione non vengono rifiutate se non nella loro forma esteriore e diretta, a
vantaggio di una sublimazione interiore e spirituale, a prima vista molto simile alla bruniana tecnica
dell'ascensus spiegata nel De umbris idearum, nel De magia e nel De vinculis. Ugualmente nella Metafisica
troviamo, come nella Città del Sole, che il sacerdote, ottimo fra i cittadini, celebrerà pubblicamente il suo

275
A Paolo V, Napoli, 1611: «9. Centocinquanta Aforismi politici e De propra republica libro [...]». (Lett., cit., p. 175.)
276
Ad Gasparem Scioppium, Napoli giugno 1607: «Idem trado tibi [...] de republica librum unum, attitulatum Civitas Solis». (Lett., cit., p. 110).
277
A Ferdinando II de' Medici, Parigi, 27 luglio 1637: «Ci aggionsi la Città del Sole, idea de ottima republica e di ottima città inespugnabile e tanto riguardevole che
mirandola solamente s'imparano tutte le scienze istoricamente». (Lett., cit., p. 389).
278
Il Del senso delle cose e della magia, come abbiamo visto, contiene numerosi appunti su come agire magicamente per ottenere gli effetti desiderati, anche a livello
sociale. Per questo si può sostenere un legame di parentela molto stretto tra quest'opera ed il De vincluis in genere di Giordano Bruno. A tal proposito cfr. anche I.P.
Couliano, Eros e magia nel Rinascimento, cit.).
279
Cfr. Thomas Campanella, De sensu rerum et Magia libros quator, etc, Parisiis, ap. Ioannem du Bray, 1637, Lett. dedicat. al Card. Richelieu: «Et Civitas Solis, per me
delineata, ac. per Te aedificanda, perpetuo fulgore nunquam eclipsato, abs Tua Eminentia splendescat semper».
280
Cfr. T. Campanella, Disputationum in quatuor partes suae Philosophiae Realis libri 4, Parisiis, ex Typ. Dionys. Houssaye, 1637, Oeconomica. P. IV, in Aphor. digesta,
Cap. I, Art. I, p. 189: «Patet etiam sic instituti Civitas in Communitate ut si tota quasi Familia una, quaemadmodum Socrates docet, et S. Clemens et nostra Civitas Solis:
quam in Quaest. 3 et 4 super 3 libro defendimus». Inoltre: Oecon., Cap. II, Art. III, De Uxoris et coniugii institutione. «[...] Quamobrem modo, qui ad praefatos fines idonei
sunt, copulandi essent matrimonio, ex physicorum, prudentumque senunm consultatione; [...] vide Civitatem Solis».
281
Thomae Campanellae Styl., Atheismus triumphatus seu reductio ad religionem per scientiarum veritates contra antichristianismum architophellisticum , Romae, ap.
haer. Barthol. Zanetti, 1631, Cap. X, p. 88: «[...] ut dicitur in Civitate Solis».
282
Atheismus triumph., cit., Cap. X, p. 79.
283
Theologic., L. IV, cit., Cap. 13, Art. I, p. 178: «Propterea nos in Repubblica nostra certis sub constellationibus et cum multa reverentia et nonnisi corpora pata, non per
dotem, sed per naturalem convenientia copulamus coniugio».
284
Theologic., L. XVI, Roma, 1960, Cap. I, Art. I, p. 24: «Et quoniam omnibus et singulis hoc bonum est, omnes servarent institutiones has singuline, ut in Rep. Solari
docuimus».
285
Theologic., L. XXVII, cit., Cap. 2, Art. 4, p. 70: «[...] Et sic nos in Civitate Solis descripsimus generationem sub felicibus astris et dispositionibus parentum bonis,
scelere purgatorum [...]».
286
Theologic. L. XXVII, cit., Cap. 2 Art. 4, p. 90 «Et Ioseph propter scientiarum rectum usum, quae nunc sunt solae verbositates, priscos Patres aetates produxisse ait
usque ad millesimus fere annum: quod caeli clementia et terrae salubritas adiuvant, ut scripsimus in lib. de Civitate Solis».
287
Theologic., L. XXVII, Cap. 2, Art. 4, p. 94: «... Quod autem dicit funoicnes non recte obiri communiter verum est, si fieret sine regula distributio officiorum, sed nos ita
regulamus eas, ut labor sit cunctis modicus et fructus multus, ut patet ex Civitate Solis».
288
T. Campanella, Discorsi della libertà e felice suggettione allo stato ecclesiastico, Iesi, appr. Gregorio Arnazzini, 1633, «... andare in Cielo, o fingerla come Platone e
Tomaso Moro o come la Città del Sole».
289
T. Campanella, Metaphisica, a c. di GIOVANNI DI NAPOLI, Bologna, Zanichelli, 1967 P. III L. XVI, Cap. IX, p. 294: «Quarto [peccant] qui [adoraverunt] solem et
sidera et coelum [...]. Non subito ut primae causae honorifacansa sunt sed ut statuae divinae[...]».
290
E nel testo latino: «Solem et stellas tanquam res viventes ac statuas Dei et templa altariaque coelestia viva honorant, non autem adorant».
sacrificio a Dio in nome di tutto il popolo291. Nel De sensu rerum292 e nella Monarchia di Spagna293 troviamo,
circa la generazione, gli stessi concetti espressi nella Città del Sole.
Ora, dopo aver opportunamente ricordato questa nutrita serie di rimandi alla Città del Sole, sparsi per tutta
la produzione letteraria campanelliana, il De Mattei si sofferma su un punto che consideriamo
particolarmente importante. Si tratta di un ulteriore chiarimento circa la molteplice relazione tra la Città del
Sole, l'idea di renovatio da perseguire con mezzi magico-religiosi (in riferimento al duplice codice
Rivelazione-Scrittura e Natura-Magia) che essa esprimeva, ed il pensiero politico dello Stilese. Stabilito, egli
osserva, che la Città del Sole è sempre presente nelle rivendicazioni dello Stilese, si può passare a cercare la
risposta a un conseguente quesito. Cioè: a quale titolo la concezione della Città del Sole ha diritto di
mantenere, secondo il Campanella, una sua scoperta, pubblica, validità? Giova rammentare, osserva ancora il
De Mattei, che il Campanella non dubita potersi l'umanità appellare, per vivere ordinatamente, a due codici:
la Natura e la Scrittura294. Questi due codici possono operare congiuntamente, ma anche separatamente. Ove
alla Scrittura non si possa ricorrere, basterà leggere nel gran libro della Natura, scritto, peraltro, da Dio
stesso. Non si dimentichi - ricorda giustamente il De Mattei - una convinzione del Campanella, ricavata da
ineccepibili testi sacri: che si può meritare la salvezza, anche vivendo «sub lege naturali». Ci illumina a tal
proposito la sua Teologia: là dove è detto che «multi sub lege naturali superaverunt probitatem
Christianorum, quoniam et consilia Evangeli, nedum praecepta servarent» 295. Nella stessa opera, il
Campanella rammenta che Giustino «in Quaest. salvat philosophos et Gentiles multos, precipue Socratem,
Platonem, Heraclitum». E aggiunge: «Gratia sufficiens pueros et amentes et ignorantes Gentilium traducit
extra Gehennam, quoniam conveniunt cum Christo in naturalibus: adultos vero sobrios etiam ad gloriam, si
bene utantur, quoniam et moralia addunt»296. Quasi automaticamente, il pensiero del Campanella si volge ai
primitivi abitanti del Nuovo Mondo, viventi esclusivamente sotto la legge naturale, e pur meritevoli della
salvezza: «De his autem, qui in Novo Orbe videntur derelicti item dico, quod lege naturali et gratia
sufficienti poterant salvari, et multi de facto salvati sunt, qui et condemnabunt nes in die iudicii» 297; e gli vien
fatto subito di ricordare che Dante «hanc questionem resolvit», collocando nel Paradiso quel Rifeo che
Virgilio (Aen., II), aveva ritenuto «giustissimo fra i Troiani». («Chi crederebbe giù nel mondo errante / che
Rifeo Troiano in questo tondo / Fosse la quinta delle luci sante?» 298). Ora, conclude il De Mattei, non è
difficile riallacciare questo suo concetto sugli «incolae Novi Orbis ab Hispanis afflicti» 299 all'inizio della
Città del Sole, cioè all'ipotesi che un «genovese nocchiero del Colombo» racconti ciò che ha visto in un'isola
lontana, dove non si è ancora avuta una pienezza di Rivelazione, e si ha soltanto un'idea vaga di Cristo, come
di un gran legislatore. Certo è che la scoperta del Nuovo Mondo e la scoperta di nuovi orizzonti scientifici
hanno costituito per il Campanella una forte sollecitazione a nuove formule razionali. Ce lo attesta egli
stesso, nella Teologia e altrove300. Ci significherà, lo Stilese, che c'è ancora molte pagine da leggere
nell'immenso libro della Natura: da leggere con quella «intelligenza mistica» che ebbero Pitagora, Platone e

291
Metaphys. cit., L. XVI, Cap. V, Art. I, ed. cit., p. 228.
292
De sensu rerum, cit., L. IV, Cap. XIX, Magia generationem: «Propterea quidem in Republica cosulendum esset, ne secundum dotem matrimonia copulentur, sed
secundum virtutem, veluti Ocellus Pythagoricus animadvertit, utque strenui viri strenuis mulieribus coninugantur, et statuas imaginesque virorum clarissimorum literis et
armis et probitate inspectent, eorumque amore afficiantur, et tempus observent quando stellae benignae sun in horoscopo in summo coelo» (Cfr. testo ital. a c. di A.
BRUERS, Del senso delle cose della magia, Bari, Laterza, 1925, L. IV, Cap. XVIII, p. 205: «Dunque, si dovria provedere in Republica, come avverte Ocello Pitagorico,
che non secondo la dote si facciano i matrimonii, ma secondo il valore, o accoppiar valente donna con valente uomo, e farli mirare in statue e pitture d'uomini illustrissimi
in arme lettere e innamorarli di quelli, e aspettare il tempo quando benigne stelle siano nell'ascendente e nel mezzo cielo [...]».
293
T. Campanella, Della Monarchia di Spagna (in T. Campanella, Op. cit., vol. II) Cap. IX, Del Re, p. 108: «Deve il Re usare con la moglie al tempo di stelle propizie
dopo la digestione precedendo l'astinenza del coito per fecondare il seme. [...] E questo sarebbe utile a tutti osservarlo, ma i popoli si curano più della razza dei cavalli che
della propria». Città del Sole (testo ital. a c di N. Bobbio, Torino, Einaudi, 1941, p. 61): «L'Amore ha cura della generazione con unir li maschi e le femine in modo che
faccian buona razza; e si riden di noi che attendemo alla razza de cani e cavalli, e trascuramo la nostra». Pag. 71: «Né si pongono al coito, se non quando hanno digerito».
Pag. 73: «Ed han per peccato li generatori non trovarsi mondi tre giorni avanti di coito [...]».
294
Th. Campanellae, De Gentilismo non retinendo, Parisiis, ap. Tussanum Du Bray, 1636, p. 5: «Praeterea duo sunt Codices Dei, ex quibus veritate haurimus, videlicet
rerum Natura et sacra Scriptura, ut dixit Sanctus Antonius et Bernardus et Chrysostomus [...] Ergo reficiendae sunt scientiae ex thesauro Patrum et Codicum Dei, Naturae
et Scripturae». Op. cit., p. 49: «Quapropter novator non est, qui scientias iterum format aut reformat, non contrarias doctrinis Sanctorum, sed ex Codicibus Dei duobus,
scilicet ex natura et Scriptura erigit scientias sub Gentilismo collapsas [...]». E cfr. Theologic., L. I, Cap. I, Art. 4, Firenze, Vallecchi, 1949, p. 34: «Postquam duos codices,
ex quibus sua dogmata probat theologus, invenimus, nunc de sensu et intellizentia eorum dicere oportet. Ex rerum natura praecognoscimus quod Deus sit [...]; ex Sacra
Scriptura habemus haec eadem et insuper modum, quo Deus creavit omnia [...]». De sensu rerum, cit., Epist. dedicat. «[...] Id quod fecimus ex duplici Dei codice, videlicet
rerum Natura et S. Scriptura, eorumque interpretibus, hoc est Eheologis, et Philosophis omnibus, exceptiis iis qui Deum esse negant». A Francesco II de' Medici, Parici, 27
luglio 1638: «Ho riformato tutte le scienze secondo la Natura e la Scrittura, due codici di Dio». (Lett., cit.. p. 239).
295
Theologic., L. I, Cap. 17, Art. 5, vol. II, p. 268.
296
Theologic., L. I, cit., p. 270.
297
Theologic., cit., p. 272.
298
Paradiso, XX, 68.
299
Theologic., cit., p. 284: «Incolae Novi Urbis ab Hispanis afflicti [...]».
300
Theologic., Praefatium.
altri sapienti301. Del resto, Dio è dappertutto: «omnia mundi membra divina sunt» 302. A proposito del Nuovo
Mondo, noteremo che, in un capitolo della Monarchia di Spagna, il Campanella, nel deplorare le inique arti
degli Spagnoli, gettatisi al di là dell'Atlantico a predare e a uccidere, ammonisce che «non sono bestie quei
che non hanno battesimo»: sicché il Re di Spagna, se vuol essere saggio, «cominci dalla legge naturale e
dalla cura di Dio sopra gli uomini». È solo "col tempo", che di quegli indigeni «se ne può far soldati e
religiosi». Consiglia inoltre che «il Re debba tutti i paesi occupati dividere alla gente imbelle con la legge
agraria», e nulla possiedano i conquistatori, ed «abbino il vitto dal pubblico, e così i figli loro» 303. In tale
occasione, lo Stilese avverte incidentalmente che il Re di Spagna «ha bisogno d'un gran savio, come Licurgo
e Solone, delli quali più ne sono oggidì che a quel tempo, ma più anche non conosciuti» 304. Idee del genere -
prosegue giustamente il De Mattei - il Campanella ha fissato, peraltro, nei suoi Aforismi politici. Quando
scrive sulle nuove colonie, egli prevede il caso di contrade nelle quali convenga regolarsi in guisa affatto
speciale: si adottano «novi nomi, leggi, religioni, e si dividono i campi a tutte le case ugualmente, secondo la
virtù loro, per la legge Agraria»305. L'Aforisma sopra accennato trova riscontro in un altro, ove è detto che
gran legislatore è colui che fonderà uno stato «sotto novi auspici di religioni e di leggi, armi e riti, come
Moisé buono e Macomet malo». L'importante sarà che questo legislatore si dimostri sapientissimo.
(«Sapientissimo» è, appunto, previsto il «Gran Metafisico» della Città del Sole). Questo singolare
organizzatore di Stato («legum conditor») potrà prendere norma «ab ideata republica optimorum
legislatorum facto edita, ut de Lycurgi republica, vel scripto, ut e republica Platonica; vel scripto et facto,
sicut de republica Moysis»306. E saranno da tener presenti altri eloquenti Aforismi. Quello, per esempio, in
cui il Campanella considera taluni, come Socrate e Catone, quali sovrani «secondum naturam rationalem 307.
O quello in cui vengono ritenuti grandi legislatori anche i più noti fondatori di ordini religiosi, cioè di
comunità esemplari, «ut Benedictus, Augustinus, Dominicus, Franciscus, etc.» 308.
Ecco, così, - conclude il De Mattei - la Città del Sole assumere evidenza quale «scriptum», provvisto di una
sua validità razionale, accanto alle forme di società «facto edita». E comunque, «scriptum» suscettibile di
tradursi in «facto», solo che vi sia un animoso «conditor»: quel «conditor» che il Campanella non ha avuto
difficoltà di ravvisare addirittura in un grande realizzatore di eventi pratici quale il cardinale Richelieu. [...]
Non sarà dunque da trascurare una convinzione del Campanella: quella che «non omnis novitas in Republica
et in Ecclesia suspecta est»309. Nelle Questioni sull'ottima republica, chiarificatrici della Città del Sole, lo
Stilese ha poi espressamente avvertito che «si propone un esemplare da imitarsi per quanto si può» 310. Del
resto, l'imitazione integrale del prototipo non è neppur prevista per le città sorelle della capitale: la quale, a
sua volta, sarà pur passibile di corruzione. Si tratta - occorre rammentarlo - di un ritrovato filosofico,
nient'affatto impeccabile. («Così i filosofi imaginano un poema senza pecca, e tuttavia alcun poeta non
sfugge ogni pecca»)311. L'intervento del De Mattei mostra insomma a sufficienza lo stretto legame che
Campanella rivendica tra La Città del Sole e l'intera sua produzione filosofica, quasi a voler sottolineare - se
ce ne fosse bisogno - l'omogeneità dei suoi motivi portanti e delle sue convinzioni di fondo. Anche per
questo credo che sia doveroso considerare lo svolgimento del pensiero campanelliano nella sua unità,
lasciando da parte le presunte conversioni, pre e post 1603.
Per queste ragioni non è possibile sostenere per esempio con il Cunsolo che «[...] nella psicologia e
nell'intelletto del Campanella avviene dal 1603 in poi una vera rivoluzione: i processi, il carcere, le atroci
sofferenze patite, l'ardore intenso e insoddisfatto della libertà a poco a poco mutano ed orientano verso
l'ortodossia più sincera la mente ed il cuore del Campanella» 312. A sostegno delle sue tesi Luigi Cunsolo
ricorda che «G. Soldanieri e fra Domenico di Stignano affermarono di aver sentito dire dal Campanella che

301
Theologic., L. I, Cap. I, Art. 4, p. 36: «Hanc intelligentiam mysticam habuit Pythagoras, Plato, Stoici et omnes bene legentes librum naturae ex visibilibus invisibilia
Dei considerando, teste Apostolo».
302
Theologic., cit., L. I, Cap. 3, Art. 4, p. 92: «In omni enim re divinitas relucet. Deus ergo ubique est, sicuti anima nostra in toto corpore nostro. Unde omnia membra
divina sunt: proptereaque adorari consueverunt a Gentilibus, quiniam in omnibus est Deus».
303
Monarchia di Spagna, cit., Cap. XXXI, Dell'altro Emisfero e del Mondo Nuovo, p. 219 sgg.
304
Monarchia di Spagna, Cap. XXXII, Della navigazione, p. 224.
305
T. Campanella, Aforismi politici, a cura di L. Firpo, Torino, Giappichelli, 1941, Afor. n. 45, p. 106.
306
T. Campanella, Aforismi politici, Cap. VI, De legislatoribus, 6, p. 169.
307
Aforismi politici, 95: «Altri son re per natura, come Socrate e Catone [...]. Aforismi politici, Cap. XI, 2: «Alii sunt reges secundum naturam rationalem, ut Socrates et
Cato [...]».
308
Aforismi politici, Cap. VI, 4.
309
De gentilismo, De novatore, p. 48: «Non omnis novitas in Republ. et in Ecclesia suspecta est».
310
Cfr. Questioni sull'ottima republica, in Opere, Torino, etc., cit., II, Art. I, p. 290: «Se non si può raggiungere esattamente l'idea di una tal republica, non per questo si è
scritto inutilmente, mentre si propone un esemplare da imitarsi per quanto si può».
311
Quest., cit., Art. I, p. 288.
312
L. Cunsolo, Tommaso Campanella: l'uomo e il pensatore prima e dopo la congiura contro il governo spagnolo, in «Tommaso Campanella», Miscellanea di studi nel 4°
centenario della sua nascita (Deputazione di Storia patria per la Calabria), Fausto Fiorentino Editore, Napoli, 1969, p. 69.
Dio non esisteva. Si tratta di deposizioni di persone ignoranti; e, appunto per ciò, al di fuori del sospetto che
non abbiano attribuito al Campanella se non quello che veramente avevano udito e che per la loro levatura di
mente e sincerità di fede deve averli impressionati così profondamente da ricordarne ogni espressione: "... et
il Campanella nel ragionamento diceva che non c'era Dio; ma solo la natura et noi a questa li havemo messo
nome Dio, et allegava Plinio, che teneva in mano". Questa testimonianza fu confermata anche davanti al
Vescovo di Termoli: "Campanella dixisse che non c'era Dio, ma che la natura era Dio et haveva Plinio in
mano et leggeva un capitolo quale parlava della natura, et che questa natura era Dio" (Amabile). Concetti,
che tornano anche nella sua Metafisica»313. Ma è fin troppo facile osservare che proprio per la loro levatura
di mente (per usare l'espressione del Cunsolo) è molto difficile che questi due delatori siano stati in grado di
comprendere la complessità delle tesi campanelliane (... sempre che lo stesso Campanella non avesse
preferito esporre loro una versione semplificata della sua proposta politica-religiosa, esponendosi in questo
modo alle accuse di panteismo). E in ogni caso alla fine lo stesso Cunsolo deve ammettere che «... abbiamo,
anche dopo il 1603, sprazzi e luci che ci restituiscono la sua mentalità naturalistica giovanile» 314, dove per
mentalità naturalistica giovanile si deve naturalmente intendere una vastissima rete di collegamenti tra
motivi ermetici, magici, astrologici, etc.
Purtroppo non è possibile dilungarsi ulteriormente - almeno in questa sede - sull'annosa questione
dell'ortodossia. Rimangono invece da chiarire i motivi fondamentali contenuti nella Città del Sole ai quali lo
Stilese non poteva rinunciare e per i quali - sostanzialmente - ebbe a lottare per una vita intera. Ma andiamo
con ordine.
La cospirazione in cui si vide coinvolto l'inquieto monaco al ritorno alla sua terra di Calabria, voleva non
solo porre fine alla dominazione spagnola, ma anche instaurare un nuovo ordine del mondo sul piano sociale,
313
L. Cunsolo, Tommaso Campanella: L'uomo ed il pensatore prima e dopo la congiura contro il governo spagnolo, cit., p. 68.
314
L. Cunsolo, Tommaso Campanella: l'uomo e il pensatore, cit., p. 93. Da questo punto di vista, l'intervento di Luigi Cunsolo può assumere un valore paradigmatico.
Considerando Campanella sostanzialmente ortodosso, il Cunsolo aveva sostenuto, a proposito del problema della simulazione che «Non si tratta quindi di simulazione sul
piano dottrinale, di panteismo, di naturalismo e di deismo, se non nel senso che il Campanella - anche sul fondo cattolico - restò fedele, e parallelamente, alla sua
speculazione degli anni primi, così come accanto alla pratica religiosa seguì l'indagine naturalistica: ciò che aveva fatto fin da quando, conosciuta la dottrina di Telesio , ne
seguì le tracce e le approfondì. Anche sul piano politico l'appoggiarsi ora alla Spagna - quando di essa ha bisogno per la sua liberazione - ed ora alla Francia [...] si presta
ad una duplice interpretazione: di chi vuole, è vero, non solo strumentalizzare i mezzi concreti per il raggiungimento di una supremazia teocratica ; ma anche l'opportunità
della sua libertà, prima, e della accogliente ospitalità, poi». Lo stesso Cunsolo - qui perfettamente in linea con le interpretazioni «cattoliche» della critica dotta, crede poi di
poter affermare tranquillamente che «nella psicologia e nell'intelletto del Campanella avviene dal 1603 in poi una rivoluzione : i processi, il carcere, le atroci sofferenze
patite, l'ardore intenso e insoddisfatto della libertà a poco a poco mutano ed orientano verso l'ortodossia più sincera la mente ed il cuore del Campanella». Ma si tratta di
un'affermazione che a mio avviso non trova nessun tipo di riscontro. Seguendo questa corrente interpretativa a mio parere non si riesce a spiegare come mai il Campanella
nel 1604 ricompone il De sensu rerum (opera dai contenuti evidentemente eretici), riprende ripetutamente la stesura della Città del Sole (e ne cerca in tutti i modi la
pubblicazione), scrive la Theologia e la Metafisica (che non verranno mai stampate a causa dei loro contenuti almeno fortemente sospetti). E non è d'altronde neppure
pensabile che il Campanella non fosse in grado, dal carcere, di scrivere un'opera perfettamente ortodossa, in modo da far cadere tutti i dubbi degli inquisitori e propiziarsi
magari in modo definitivo l'attenzione del papato. Qualche riga più avanti, lo stesso Cunsolo deve infatti ammettere: «Il fatto è che abbiamo anche dopo il 1603, sprazzi e
luci che ci restituiscono la sua mentalità naturalistica giovanile, concezioni che ci permettono di scorgere in lui il ricercatore e lo scrutatore della natura» ?. Un modo
elegante e dai toni sommessi per ammettere che Campanella non abbandonò mai le convinzioni giovanili (e che mai si collocò pienamente in ambito ortodosso). Notevole è
poi una osservazione dello stesso Cunsolo su un altro interprete, Giovanni Di Napoli. Con brillante senso critico, il Cunsolo mette in evidenza alcune aporie e
contraddizioni nella interpretazione del Di Napoli, rilevando alla fine che «il Di Napoli non sa sottrarsi a pieno - da sacerdote cattolico quale naturalmente egli è - a certe
ammissioni che la situazione, logicamente naturalistica del Campanella, richiede, onde scrive: "Noi siamo convinti che l'unità campanelliana fu essenzialmente unità
cattolica nel pensiero e nell'opera, anche se talune dottrine siano estranee o difficili alla sintesi con l'ortodossia e il carattere del filosofo presenti dei lati manchevoli in fatto
di calma e di equilibrio [...]. Non si tratta, certo, di unità statica, immutabile nei minimi particolari, ma di unità che andava sempre più guadagnando in chiarezza ed in
profondità, fermo restando il nucleo essenziale dell'ortodossia. Questa unità in sintesi con dottrine non sempre accettabili e le deficienze del carattere spiegano le
persecuzioni, la così detta congiura, il carcere napoletano e l'esilio". Ma quali deficienze di carattere - si chiede il Cunsolo - se lo stesso Di Napoli ammette che il filosofo
fu sempre unitario e se è noto con quanta tenacia questi seppe affermare certe sue idee, specialmente le naturalistiche e le astrologiche? Basterebbe ricordare le difese del
Galilei e le pratiche impostate su l'Astrologia e a beneficio di Urbano VIII e al fine di stornare da sé i maligni influssi di una congiunzione di astri da lui giudicata malefica
ai suoi giorni» ?. Lo stesso Cunsolo sostiene poi che «È inconcepibile che i critici tormentino la figura del Campanella, attribuendogli chi credenze panteistiche, chi
presentandocelo ortodosso - eterodosso - convertito, oppure perfettamente integro nella sua fede, pur concedendo che le incertezze e i dubbi, le manchevolezze e le cadute -
secondo la dommatica cattolica - sono prodotti della natura umana. La cosa certa - prosegue il Cunsolo - è che nel periodo che decorre dal 1598 al 1603 il Campanella non
è affatto l'ortodosso, l'integro cattolico, quale ce lo presenta il Di Napoli. Il suo cattolicesimo non ha nulla a che fare con quello ufficiale: sta il fatto che tutti gli indiziati e i
testimoni interrogati a Napoli - pur nei modi consentiti dall'ignoranza di alcuni di essi e perciò, anzi, più spontanei e sinceri - hanno parlato di un uomo senza rispetto dei
Sacramenti, che scherniva i credenti nella Trinità e nei diavoli, che squalificava la Vergine, non credeva ai miracoli, affermava che la Croce gli faceva mala ombra; e, nei
riguardi del sesso, attestava - come poi egli confermò nella Città del Sole - che tutti gli organi devono compiere liberamente la loro funzione. Nel carcere napoletano -
prosegue il Cunsolo - il deismo naturalistico non è forse manifesto fino al 1611, a traverso il vagheggiamento della Città del Sole? E qui Gesù Cristo e gli Apostoli non
sono posti come semplici uomini di singolare virtù, anche se in posto eminentissimo, accanto a Mosè, Osiride, Mercurio, Licurgo, Pompilio, Pitagora, Zamolhim, Solone,
Caronda, Foroneo?»?. E conclude: «un vero accordo sul Campanella non può esistere, se non si ammette che fino al suo imprigionamento egli si sentì estraneo alla
ortodossia cattolica e che soltanto nel carcere egli ripiegò su se stesso, rimeditando sui dogmi ed accettandoli devotamente, pur conservando il gusto del razionalismo
materialistico [corsivo mio] che già, fin da Cosenza, era stato il pascolo della sua mente e che delle opere scritte e dalla sua azione a favore del Galilei si manifestarono
chiaramente». Dunque, il Cunsolo chiarisce definitivamente la sua tesi affermando che «sbaglia chi afferma con una certa acre testardaggine che il Campanella fu sempre
cattolico e si rifiuta di credere ad una crisi che avrebbe avuto inizio dal 1601 in poi; e sbaglia chi questa crisi nega, e del Campanella fa un eretico , un simulatore fino agli
ultimi anni della sua vita. Gli uni e gli altri - osserva il Cunsolo - sarebbero in contrasto coi numerosi eventi e con le testimonianze della sua giovinezza, nonché delle opere
che in essa videro la luce; e sarebbero anche contraddetti dagli scritti che, dal 1603 in poi, dettero al pensiero del Campanella una decisiva impronta cattolica. È vero [...] -
precisa il Cunsolo, che nelle sue opere scritte nel carcere ci sono richiami e riferimenti alla sua speculazione naturalistica; ma abbiamo cercato di spiegare che questo
duplice aspetto della sua filosofia non è contro la religione; ma si tratta di un bisogno della mente di lui che nella misteriosità della natura brama approfondire l'indagine per
scoprirvi verità utili alla famiglia umana: indagine sulla natura delle cose, da Dio preordinate per il progresso degli uomini. Onde possono benissimo coesistere ricerca
naturale ed indagine metafisica, fisica e metafisica, la natura e Dio. Il Campanella insomma - conclude il Cunsolo - non sarebbe né teista, né panteista; ma un ricercatore di
verità ab eterno scritte nel gran libro in quo toto contenitur». Riassumendo: la tesi portante della interpretazione del Cunsolo è dunque costituita dalla convinzione di un
mutamento radicale, avvenuto nell'intimo dello Stilese, intorno al 1603. Prima il Campanella sarebbe stato eterodosso, e poi ortodosso. Si noti che anche qui riemerge la
difficoltà costante della critica campanelliana, che nasce probabilmente dal voler periodizzare presunti mutamenti psicologici, al fine di semplificare e spiegare meglio la
difficoltà e l'eterogeneità di tutta l'opera campanelliana. Anche seguendo l'ipotesi del Cunsolo - in ultima analisi - per nulla si esce dall'aporia iniziale: come spiegare infatti
i contenuti eretici (e non solo naturalistici, come il Cunsolo credeva di poter semplificare e minimizzare) delle opere dal 1603 in poi? Evidentemente, non è credibile una
riduzione dei motivi magici, ermetici, ed altri fortemente eretici, a semplici elementi «naturalistici», credendo di poter ridimensionare come marginale uno degli assi
portanti del pensiero campanelliano. Provocatoriamente, si potrebbe rispondere al Cunsolo che Campanella fu teista e panteista al tempo stesso, e che proprio per questo le
sue opere sono difficilmente riducibili a frutto di presunti mutamenti psicologici e via dicendo.
politico ed ecclesiastico, sotto il segno della sua unità intellettuale, religiosa e morale. La Città del Sole può
anche essere considerata come una specie di giustificazione di tale impresa. Perciò opportunamente ha
osservato Anton Truyol y Serra che La Città del Sole «non ci interessa tanto per la sua famosa descrizione di
uno "Stato sociale" perfetto, con comunanza di donne e di beni secondo il modello platonico, quanto per due
idee che costituiscono un vero Leit motiv del pensiero politico e internazionale di Campanella, cioè: la
necessaria subordinazione della parte al tutto - nella società e nell'universo - e l'inevitabile unione del potere
spirituale e del potere temporale sotto forma di ierocrazia» 315. Secondo Truyol y Serra «La Città del Sole
viene ad essere un'immagine dell'universo per il semplice fatto dei molteplici riferimenti e simboli
astronomici che presiedono alla sua costruzione e al modo di vivere dei suoi abitanti; ma lo è anche nel
significato, più profondo, del suo essere una comunità fondata su un sapere universale, il quale risulta già
esternamente dal fatto che le muraglie dei suoi sette cerchi o recinti sono piene di disegni e figure relative a
tutte le scienze»316.
Grazie a questa struttura la comunità umana si trova intimamente inserita nel contesto dell'universo,
mantenendo la necessaria corrispondenza tra le parti del macrocosmo e quelle del microcosmo.
Anche la Città del Sole, come vedremo con maggior precisione più avanti, si basa in realtà sul modello
dell'analogia del mondo reale a quello astrologico e metafisico. Il microcosmo dello Stato, della città e della
comunità deve corrispondere simmetricamente e proporzionalmente alla struttura del Tutto, che per
Campanella, come sappiamo, ha la sua base nel principio dell'unità del reale e del metafisico. Anche la
struttura istituzionale e politica della Città del Sole sarà allora riferita e strutturata in base al Tutto cosmico e
divino: la città è infatti governata da un principe-sacerdote chiamato Hoh, cioè, il Metafisico, che gestisce il
potere spirituale e quello temporale317. Colui che per dignità ed elevazione spirituale più si accosta al mondo
divino e metafisico deve governare le istituzioni mondane e costituire in questo modo il tramite tra i due
regni, quello spirituale e quello temporale. Accanto a lui ci sono tre principi-sacerdoti chiamati nella lingua
degli eliaci Pon, Sin e Mor, voci che equivalgono a Potenza (Potestas), Sapienza (Sapientia) e Amore
(Amor), i quali sono incaricati di provvedere rispettivamente a quanto concerne la guerra o l'impiego della
forza, le scienze, le arti e l'insegnamento, la perpetuazione, conservazione e benessere materiale della
popolazione. Anche in questa tripartizione di incarichi e denominazioni è possibile riscontrare l'impostazione
della Metaphysica, dove prevaleva il riferimento analogico alla Trinità divina mediante la specificazione
dell'essere mondano in tre primalità: possenza, senno e amore. Solo in Dio però potenza, sapienza e amore
sono perfetti; nelle creature invece, come abbiamo visto, alle tre primalità dell'essere si aggiungono tre
opposte primalità del non-essere (impotenza, ignoranza e odio). Da qui la necessità di un ordine religioso,
morale e politico che governi il mondo nell'attesa del ritorno alla mitica età dell'oro. Nella Città del Sole,
infatti, dopo il Metafisico e dopo i suoi stretti collaboratori, Pon, Sin, Mor, compare una serie di funzionari
politico-ecclesiastici, di grado inferiore, che assumono tutti gli incarichi sociali necessari alla buona gestione
della società. In questo modo la vita dei cittadini si svolge secondo il principio del primato incondizionato
del bene della comunità rispetto a quello del singolo. È questa una delle espressioni più medievali di
Campanella, che per molti aspetti non accetta l'idea individualistica propria del Rinascimento, anche se in
ultima analisi si deve dire che il principio del bene comune garantisce anche quello del singolo individuo, e
che la renovatio non sarà possibile se non coinvolge l'anima e la vita di tutta la comunità. La soppressione
della istituzione famigliare e della proprietà privata si giustifica precisamente per il fatto di generare
entrambe un pericoloso amor proprio ed un egoismo spontaneo, risultando perciò socialmente corruttrici. E
il principio del bene comune, come si è ricordato, considera un male sociale, di tutti, il male del singolo
individuo: si capisce dunque come la vita del singolo debba strutturarsi, regolarsi e caratterizzarsi in
conformità alle esigenze del Tutto, dell'insieme, il quale a sua volta rispecchia, analogicamente, la Trinità
divina. Naturalmente è possibile definire questo principio come una sorta di legge dell'equilibrio o
dell'armonia. E visto che tra microcosmo (l'estremo microcosmo è il singolo uomo) e macrocosmo deve
esserci similitudine, proporzione, analogia, allora si capisce immediatamente il motivo di queste apparenti
limitazioni, che servono in realtà a far emergere tutto il positivo, il bene insito naturalmente nell'animo
umano. La stessa ragione motiva una configurazione autoritaria della vita civile per quanto concerne il
lavoro, le relazioni sessuali, la procreazione e l'educazione, attività, tutte quante, regolate per legge
comunitaria.
315
Anton Truyol y Serra, Hierocracia mundial y estados particulares en Campanella, in "Tommaso Campanella", Deputazione di Storia patria per la Calabria, Atti del
convegno, cit., pp. 537-563).
316
Anton Truyol y Serra, Hierocracia mundial y estados particulares en Campanella, cit.
317
Si noti che nei manoscritti viene indicato con il segno astrologico del sole (un circolo con un punto in corrispondenza del centro: ). Solo nella seconda edizione latina
al posto del «sole» si trova «Hoh». Ricordiamo che nei testi ermetici «sole» indica il Dio visibile. Da notare che il Sole (o Metafisico) riunisce in sé due poteri: quello
sacerdotale e quello politico. Ciò - come osserva anche G. Scalici - lo riconduce idealmente ad Ermete Trismegisto (Cfr. G. Scalici, cit.).
Il primato del comune sull'individuale emerge con chiarezza anche dal valore politico che viene
esplicitamente attribuito alla religione, il cui centro di gravità si sposta dall'intimità del soggetto alla
esteriorità della comunità nel suo insieme. Campanella inserisce l'individuo nella vita dello Stato, inteso
anzitutto come comunità, e proietta il suo pensiero religioso nell'ambito politico, saldandolo profondamente
con esso. Anche questo meccanismo, come vedremo meglio più avanti, risponde in ultima analisi al principio
dell'analogia e dell'unità cosmologica e metafisica del reale. Una parziale conferma a questa tesi proviene da
un passaggio famoso, dove il Frate di Stilo assegna alla confessione una sorta di valore sociale, anche
politico (la confessione come instrumentum regni): la città intera confessa le proprie colpe ai magistrati,
questi a loro volta confessano quelle proprie e quelle altrui ai tre principi-sacerdoti supremi, i quali infine le
confessano con quelle che sono loro proprie, al Metafisico; il Metafisico, dopo aver offerto a Dio sacrifici e
preghiere, confessa pubblicamente tutti i peccati della città, senza dire il nome dei colpevoli; e così conosce i
mali della collettività, potendo ora cercare ed adottare per essi rimedi umani e divini, magici e astrologici,
penali e civili.
Quello che insomma deve essere messo in rilievo è l'attenzione costante che viene posta ad una necessaria
visione globale, della società intera nel suo complesso, considerata sempre come un tutto organico, una sorta
di grande animale vivente, come è il Mondo. Anton Truyol y Serra scriveva giustamente: «La peculiare
struttura della Città del Sole non è arbitraria, ma si spiega con la metafisica del Campanella. Si basa questa
sul dualismo primario dell'essere e del non-essere, in cui il non-essere, alla maniera neoplatonica, non è
concepito come principio autonomo e consiste solamente in una negazione parziale dell'essere. L'essere puro,
Dio, ha come attributi o proprietà primarie (primalitates) la potenza, la sapienza e l'amore. Da Dio derivano,
per creazione, le cose finite. Poiché partecipano dell'essere, le cose finite partecipano delle sue proprietà e
posseggono potenza, sapienza e amore. Tutte le cose partecipano in diverso grado di Dio, ed è per questo che
tendono a tornare a ciò che è il loro principio, la Divinità. Questa ansia di tornare a Dio, latente in tutti gli
esseri creati, è per Campanella religione (religio); perciò una linea interrotta conduce, elevandosi, dall'oscuro
istinto religioso del mondo vegetale e animale all'idea naturale di Dio propria dell'uomo e culmina nella
conoscenza soprannaturale di Dio rivelato al cristiano. La dottrina filosofica delle primalità non risulta in
verità essere altra cosa che la replica razionale della dottrina teologica della trinità divina. In un piano ancora
più generale, si riprende qui l'idea cattolico-scolastica di un'armonia (corsivo mio) tra la natura e la grazia, la
ragione e la rivelazione, la filosofia e la teologia, in una formula di accento naturalistico, ma
conseguentemente sviluppata. Così si comprende come a fronte della Città del Sole ci sia, secondo quanto
scrive Etienne Gilson, "l'immagine terrestre di un solo Dio in tre persone, che sono il Padre onnipotente, il
Verbo o Sapienza divina e lo Spirito Santo o Amore divino"318. Il Metafisico dispone effettivamente del
massimo di potere, sapienza e amore, cioè, di realtà, compatibile con le condizioni della finitezza. L'intera
vita della città è irradiazione della sua pienezza d'essere, che implica pienezza di verità, plenitudo veritatis,
nell'ambito sociale e politico»319.
In realtà la condizione sociale descritta nella Città del Sole è interamente derivata dal naturalismo, che
fornisce, indirettamente, le direttrici per il modo di governare la comunità intera. Non è allora sufficiente,
come del resto molti critici hanno giustamente osservato, spiegare la posizione campanelliana con presunti
motivi di opportunismo. A mio parere l'intenzione di forgiare una società ierocratica e teocratica ha molto
poco a che vedere con la preoccupazione per il protrarsi della prigionia romana 320. Al contrario, l'idea
campanelliana di società può (... e deve!) essere spiegata sulla base delle sue premesse metafisiche, e
specialmente della stretta continuità che egli ammette nel passaggio dalla natura al soprannaturale nella
religione e nella società, fino al punto che la sua convinzione ultima riguardo all'armamentario dogmatico del
cattolicesimo ha suscitato perlomeno dei fortissimi dubbi negli studiosi antichi e moderni delle sue dottrine.
A ragione dunque G. Di Napoli aveva osservato che «la soprannaturalmente (cristianamente) ierocratica
civitas Dei ha la sua rispondenza nella naturalmente ierocratica Civitas Solis»321. Posso allora ripetere che
Campanella si muove ancora sul terreno dell'analogia: così come la Città celeste sarà fondata sulla giustizia e
sulla uguaglianza comune, senza più divisioni, allo stesso modo la città terrestre avrà il suo simbolo proprio
nel sole, che risplende su tutti, manifestando chiaramente il principio unitario del reale. La teoria della
monarchia mondiale del Papa, espressa con particolare insistenza nella Monarchia Messiae e nei Discorsi
universali del governo ecclesiastico, risponde appunto a questo criterio unitario ed analogico. L'ideale
318
Nel testo: «l'image terrestre d'un seul Dieu en trois personnes, qui sont le Père tout-puissant, le Verbe ou Sagesse divine et le Saint-Esprit ou Amour divin» (Cfr. E.
Gilson, Les métamorphoses de la Cité de Dieu, Louvain-Paris, 1952, p. 185). Traduzione di Chiara.
319
Anton Truyol y Serra, Hierocracia mundial y estados particulares en Campanella, cit., pp. 540-541.
320
Anche dopo la liberazione dalla prigionia, Campanella continuò infatti a dedicarsi, con grande passione, alla realizzazione del suo ideale universale (appoggiandosi ora
alla Francia).
321
G. Di Napoli, Tommaso Campanella, filosofo della restaurazione cattolica, Cedam, Padova, 1947, p. 156.
politico-religioso di Campanella è saldamente fondato su questo principio, come del resto la sua metafisica.
Esteriormente: il governo dell'umanità sarà alla fine esercitato direttamente da parte di Gesù Cristo,
attraverso il Sommo Pontefice, suo Vicario sulla terra e capo della Chiesa, alla quale deve essere
direttamente subordinato ogni potere temporale. In altre parole, cielo e terra saranno riunificati. Questa
dottrina implica certamente (ma solo in parte) un ritorno al cosiddetto «agostinismo politico» dell'alto
Medioevo, soprattutto alla teoria dei «curialisti» - in primo luogo di Egidio Romano 322- riguardo alla
plenitudo potestatis pontificia. L'idea di un governo universale rappresenta del resto il nucleo sotterraneo
della maggior parte degli scritti campanelliani: ma ciò non deve trarre in inganno. La teocrazia
campanelliana è assolutamente originale, e ripete solamente la struttura esterna della teocrazia classica
risalente all'agostinismo, mentre dal punto di vista puramente teoretico essa manifesta parecchie e notevoli
differenze. L'ideale teocratico domina molte opere: è presente nella Monarchia del Messia e ricompare con
non meno forza nei Discorsi universali del governo ecclesiastico per far una gregge et un pastore, scritti nel
1631. E informa quasi tutti i trattati politici di Campanella, tra gli altri gli Aforismi politici, gli scritti
filoispanici e anche alcuni di carattere più circostanziale, come gli Antiveneti. Da un punto di vista esteriore
la somiglianza con il classico agostinismo politico è evidente: il punto di partenza della teoria del governo
mondiale ierocratico è una teoria della somma potestà, ossia, del dominium, secondo la quale nessun uomo
può governare gli altri se non in quanto luogotenente di Dio. Ciò implica che il Papa, rappresentante di Dio
sulla terra, sia allo stesso tempo Re Supremo, al di sopra dei principi e signori particolari. Ma si faccia
attenzione: tale riforma teocratica non avrebbe dovuto portare al governo della Chiesa istituzionale sul
mondo, ma al contrario, la Chiesa stessa sarebbe stata - nel disegno campanelliano - il terreno della riforma.
La Città del Sole rappresenta l'esito finale di questa rivoluzione teocratica e ierocratica, ed in essa non si può
dire che il cattolicesimo svolga un ruolo importante, anzi, alla fine il posto del papa è occupato dal
Metafisico, principe sacerdote che assomma in sé il potere spirituale e temporale. In questo modo
l'equiparazione della legge naturale al cristianesimo perde il suo carattere di ambiguità, e si comprende l'idea
campanelliana di un Messia sceso nel mondo per ristabilire l'Età dell'Oro e per istituire un'autorità unica da
cui dipendono i principi in virtù del diritto divino e umano, sia nell'ambito temporale che in quello spirituale.
Nell'intestazione della Città del Sole il lettore viene infatti chiaramente avvertito: si tratta di un «Dialogo
poetico (cioè dialogo di republica, nel quale si disegna l'idea di riforma della republica cristiana [corsivo
mio], conforme alla promessa fatta alle Sante Caterina e Brigida)». La Città del Sole, stando a quanto
dichiara Campanella, rappresenta dunque la delineazione del futuro assetto sociale, quello che verrà
instaurato dopo la riforma della repubblica cristiana.
A mio parere, Campanella aveva pensato ad una riforma di tipo magico, alla base della quale si poneva una
forte caratterizzazione ermetica. Sono quindi d'accordo con Frances Amelia Yates, quando scrive: «Le idee
politiche di Campanella erano interamente medievali e mistiche. Per lui l'ideale era il ritorno dell'Impero ad
una nuova età dell'oro, l'ideale a cui Dante dette classica espressione nella Monarchia, con la sua visione di
pace e di giustizia universale sotto un solo reggitore. Campanella cerca una istituzione contemporanea che
possa essere rappresentativa dell'ideale impero universale, e la trova o nella monarchia spagnola o nel papato
inteso come monarchia universale. Quando si reca in Francia e si rivolge alla monarchia francese,
profetizzando per il re di Francia un impero universale in una nuova età dell'oro, non è nel senso del
nazionalismo francese che egli pensa alla sua missione ma nel senso della monarchia francese in quanto
rappresentativa di un impero mistico, del dantesco governo di uno solo. Nella visione di Campanella, deve
esserci uno stato mondiale organizzato sotto un solo reggitore che riunirà in sé entrambe le prerogative di
capo temporale e di capo spirituale, come nella teocrazia papale, oppure sarà la monarchia spagnola, o quella
francese, che opererà all'unisono col papa in quanto capo spirituale dello stato mondiale. Campanella ha
bisogno di uno stato mondiale di questo tipo per la piena espansione della sua Città del Sole e per
l'universale instaurazione della riforma magica nell'ambito della quale una casta sacerdotale di Magi cattolici
mantenga la Città in felicità, prosperità e virtù perenni, e la religione della Città sia in perfetto accordo con la
concezione scientifica del mondo in essa professata, vale a dire con la magia naturale. Quando si esamina la

322
Egidio Romano, (ca. 1243-1316) discepolo, critico e continuatore di S. Tommaso, nel suo De regimine principum (ca. 1280), ma soprattutto nel successivo De
ecclesiastica sive de Summi Pontificis potestate (ca. 1301) presenta un complesso corpo dottrinario a favore della tesi della Curia di Roma per la quale la sovranità
universale (plenitudo potestatis) è solo dal papa e ogni altro potere gli deve essere sottomesso. Ettore A. Albertoni aveva osservato che «Questo testo, che viene indicato
come la cosciente ed elaborata premessa alle dottrine teocratiche proprie di papa Bonifacio VIII (pontefice con il quale Egidio ebbe assai amichevoli e fiudciosi rapporti)
rappresenta, all'unisono con la Bolla Unam Sanctam (che prepara e anticipa), la formulazione più compiuta della dottrina teocratica. Secondo la teoria egidiana, il pontefice
di Roma, proprio perché dispone di un potere originario rivolto a realizzare i fini spirituali dell'organizzazione ecclesiastica (che costituisce di per sé la verità ed il fine di
ogni società umana), non può che essere superiore a ogni organizzazione civile della società. Se unicamente nella Chiesa di Cristo c'è il perfezionamento morale e la
salvezza degli uomini, ogni società non può che tendere a raccogliersi sotto il manto dell'autorità della Chiesa di Roma e, quindi, non può che subordinarsi al papa. Pur
modificando profondamente l'elaborazione di S. Tommaso - conclude l'Albertoni - , Egidio viene a evidenziare un importante momento di nuova sintesi teorica fra
l'elaborazione di San Tommaso e quell'agostinismo politico che costituisce la più antica tradizione del pensiero politico cristiano» (E.A. Albertoni, Storia delle dottrine
politiche in Italia, Mondadori, Milano, 1985, p. 46).
propaganda elaborata per la rivolta calabrese, ci si accorge che essa è piena di imperialismo mistico e di
profezie circa il ritorno di una imperiale età dell'oro, simile a quella di cui parlano Lattanzio e le Sibille,
combinati con profezie apocalittiche, gioachimismo e altri motivi del genere. Campanella credeva, in base ai
portenti, che fosse scoccata l'ora per un simile rinnovamento dei tempi; i calabresi e i domenicani dovevano
prepararsi ad esso fondando la città ideale in Calabria, da dove si sarebbe irradiato nel resto del mondo.
Quando la rivolta fallì, non gli passò neppure per la mente che i portenti lo avessero ingannato (egli infatti
seguitò a parlarne per tutto il resto della vita, in particolare della discesa del sole), ma pensò che toccasse a
lui modificare le proprie idee e trovare qualche monarca disposto a costruire la Città nel suo regno, si
trattasse del sovrano spagnolo, del papa visto come monarca (cioè come capo spirituale e temporale del
mondo), oppure del re di Francia»323. Secondo la Yates l'ideale dello Stilese era insomma quello di una
teocrazia onnipotente, «simile a quella dell'Egitto, così potente da regolare mediante magia scientifica le
influenze celesti e, tramite loro, l'intera vita del popolo. L'unico suo aspetto apparentemente liberale è che
essa incoraggiava le ricerche e le invenzioni scientifiche: i Solari sono infatti interessati alla teoria
copernicana, in quanto è importante conoscere la "fabrica del mondo", e sono anche esperti nella costruzione
di congegni meccanici che vengono usati per il benessere generale. Ma questa avanzata scienza dei Solari era
nelle mani della suprema casta sacerdotale e veniva da essa controllata, come nell'antico Egitto» 324.
Francamente, mi riesce difficile negare a queste osservazioni un solido fondamento di verità.
Naturalmente la Yates pone l'accento esclusivamente sul carattere magico della tentata riforma, non
evidenziando a sufficienza un secondo aspetto: l'ansia di un profondo rinnovamento morale e religioso, che il
Frate di Stilo indubbiamente sentiva nel profondo, e per il quale l'assetto magico costitutiva una delle
maggiori componenti. Per quanto riguarda l'ambito spirituale, Dio avrebbe potuto mandare a ogni regione un
Apostolo e farlo Capo assoluto e Padre della stessa; «ma perché tra loro non nascesse disparere d'opinione
nella religione e controversia nella politica ha fatto un capo di tutti, alla cui obbedienza e determinazione
tutti consentendo vivessero uniformi, sicuri della verità dell'altra vita, e senza guerra e discordie in questa
mortale»325. L'idea della ierocrazia mondiale converge di conseguenza in quella della pace universale,
sorretta da un cristianesimo riformato in senso naturalistico e magico, che ha ben poco a che fare con gli
ideali della Riforma Tedesca e della Controriforma Romana. Per Campanella la figura del monarca
universale poggia in ultima analisi sulla religione cristiana in quanto manifestazione della capacità naturale
di conoscenza speculativa e pratica: «...e che tutti gl'huomini sendo rationali dalla ration prima Christo, son
Christiani implicitamente, e però deveno riconoscerlo nella Christiana religione esplicitamente in cui sola
torna a Dio...»326. Il Cristianesimo viene dunque accettato anche per la sua proprietà unificatrice, ma alla base
c'è il discorso del Codice naturale ed in ultima analisi del rapporto con Dio (nel quale la magia teurgica
occupa chiaramente una posizione di assoluto rilievo). Da questo punto di vista si chiarisce il motivo di tanta
avversione da parte dello Stilese per tutti coloro che pretendono ridurre la giurisdizione diretta del Papa (del
Metafisico) esclusivamente all'ambito spirituale. La società dovrà essere orientata nel rapporto con Dio in
tutte le sue forme e a tutti i suoi livelli. Non esiste una separazione netta tra il campo delle istituzioni e quello
della religione: non a caso i peccati vengono confessati pubblicamente. Perché ci sia pace autentica e solida
prosperità è necessario considerare la società nel suo livello macrocosmico, ovvero nella sua universalità. E
l'azione unificatrice porta di per sé una certa pacificazione, solo per il fatto di considerare la società degli
uomini come un tutto organico, nel quale le singole parti si muovono in convivenza armonica. Da questo
risulta chiaro come le tre Influenze Magne (Necessità, Fato ed Armonia) siano tutt'altro che forze operanti
solo a livello naturale.
I segni astrologici ed astronomici che si verificarono prima della congiura annunciavano senza alcun
dubbio che grandi cambiamenti erano imminenti. Del resto, sul piano storico e sociale, il declino dello spirito
di carità e il crescere della discordia e delle eresie testimoniavano inequivocabilmente la necessità di un
nuovo ordine, sociale e religioso . L'anno 1600 - come ricordava la Yates327 - aveva per Campanella una
323
F.A. Yates, cit., pp. 416-418. « Tale - ammette la Yates - è l'interpretazione data dal Blanchet dell'evoluzione politica di Campanella dopo la rivolta, ed io credo che sia
corretta. Vi aggiungerei - continua la Yates - le seguenti precisazioni. Primo, che l'idea di fondare uno stato ideale di tipo imperialistico nell'Italia meridionale, da dove si
sarebbe esteso al resto del mondo, non era nuova. Nel XIII secolo, l'imperatore Federico II aveva fondato nel Regno di Sicilia (comprendente Napoli) uno stato autocratico
modello che egli sperava di estendere in futuro al resto del suo impero. Fu probabilmente questo stato a costituire uno dei motivi ispiratori della Monarchia dantesca. Forse
non è impossibile che ricordi di questo esperimento imperialistico nell'Italia meridionale sopravvivessero al tempo della rivolta calabrese, nella cui propaganda Campanella
fece continue allusioni a Dante, visto come profeta della rivolta stessa. Secondo, è ormai chiaro che all'ideale romano di un impero universale destinato a ricostituirsi in una
nuova età dell'oro, e all'ideale platonico di uno stato governato da filosofi, Campanella aggiunse un terzo ideale, quello dello stato egiziano mantenuto intatto ed eterno
dalla magia sacerdotale. Il sovrano-Sole della Città campanelliana è insieme sacerdote e re, detiene il potere supremo nel campo spirituale e temporale, in breve è Ermete
Trismegisto: sacerdote, filosofo e re. Campanella - afferma la Yates - non fu perciò in nessun senso un rivoluzionario liberale». (Cfr. F.A. Yates, cit., pp. 416-418).
324
F.A. Yates, cit., p. 418.
325
T. Canmpanella, Antiveneti (citato in R. De Mattei, Studi campanelliani, Firenze, 1934, p. 129).
326
T. Campanella, Discorsi Universali (cit. in Amabile, Castelli, II, cit.), cap. V, 5. Cfr anche Anton Truyol y Serra, Hierocracia mundial y estados particulares en
Campanella, cit., p. 544.
327
Cfr. F.A. Yates, cit., pp. 392-394.
particolare importanza a causa del significato numerologico del nove e del sette, la cui somma è sedici.
L'idea di una semplice coincidenza, per noi assolutamente naturale, avrebbe fatto sorridere, forse arrabbiare,
il Campanella: il Mondo è il Libro di Dio. L'avvicinarsi del Sole alla Terra poteva e doveva essere letto come
l'avvicinamento del Regno celeste a quello Terreno, in vista della sospirata renovatio saeculi. Questi
misteriosi eventi dovevano preannunciare un mutamento radicale dei tempi, il ritorno alla mitica età dell'oro.
Le dottrine e le tecniche magico-astrologiche, inseparabili dal sistema dell'astrologia matematica 328,
miravano appunto a questo fine: l'unificazione del cielo con la terra in un sistema unico di vita universale.
L'azione di Dio sul mondo si esercita solamente attraverso la mediazione dei corpi celesti: le stelle sono
dunque i segni tangibili della volontà divina. A questo proposito, se l'idea non mi portasse troppo fuori tema,
sarebbe lecito un confronto con la concezione astrologico-religiosa di un Biagio Pelacani da Parma 329.
Per tornare al nostro tema, ricordiamo ancora che le dottrine teologiche ermetiche, come ha mostrato con
chiarezza F.A.Yates, erano tutte collegate col tema della renovatio. Anche le analisi del Festugière non sono
distanti da questa linea interpretativa330. La rivelazione ermetica viene accettata in quanto portatrice di una
visione antropologica assolutamente necessaria per la situazione sociale del tempo: la revelatio ermetica
prometteva infatti una nuova religiosità, una nuova etica, nella quale l'uomo-dio assumeva un aspetto
angelico, e per questo non avrebbe più lasciato spazio al male terreno. Il progresso, anche scientifico, della
società universale, avrebbe dovuto generarsi da questa nuova situazione. Questa idea ha probabilmente
costituito l'elemento catalizzatore del programma di rinnovamento religioso e sociale del Campanella: la
congiura avrebbe dovuto instaurare un nuovo ordine, prima di tutto antropologico, e per certi aspetti anche
antropocentrico. In questo nuovo ordine saranno istituiti un miglior culto religioso e migliori leggi morali,
l'uno e le altre basati anzitutto sulla natura e sulla religione naturale. Il Cristianesimo viene inteso come un
ulteriore momento di perfezionamento posto sul cammino del progresso globale. Nelle aspettative del
Campanella la Calabria avrebbe dovuto prepararsi all'età nuova abbattendo anzitutto la tirannide spagnola e
dando vita a una repubblica in cui si sarebbero dovute realizzare la nuova religione e la nuova etica.
Campanella è il messia dell'età nuova, designato sia dalle predizioni astrologiche che dalle profezie religiose
a guidare il mondo entro un'altra era331. In questa nuova città universale è quindi possibile, come notava la
Yates «un rapprochement fra i misteri cattolici e la religione della magia naturale» 332. Alla base di questa
possibilità si pone naturalmente il principium unitatis, comune (anche se con accezioni diverse e forse
complementari) alla visione magico-ermetica e cattolica del mondo. È sintomatico che Campanella non
abbandoni mai questo principio, anche nei momenti più difficili. Per esempio, dopo il fallimento della rivolta
destinata ad abbattere il dominio spagnolo in Calabria e a fondarvi la prima Città del Sole, Campanella si
rivolge ad altri mezzi politici per fare accettare le sue idee, compreso uno spudorato appello a quella stessa
monarchia contro la quale si era indirizzata la rivolta calabrese. Nella Monarchia di Spagna, per esempio,
Campanella profetizza che la monarchia spagnola diventerà una monarchia mondiale universale, in cui Uno
solo regnerà sul mondo intero, assicurando in tal modo pace e la giustizia universali. Questa monarchia -
precisa Campanella - sarà cattolica ed avrà nel papa il suo capo spirituale. Non si deve dimenticare che il
Frate di Stilo scriveva dal carcere queste opere e che evidentemente non poteva esporre chiaramente -
almeno non più di quanto non abbia fatto - i motivi sostanzialmente eterodossi di questa monarchia
universale. Nella Città del Sole l'adorazione di Cristo cede il posto alla preoccupazione di tutti per il
raggiungimento del bene più grande, che è quello comune, della società nel suo complesso. Per questo (per il
bene del grande organismo sociale), Campanella non esita a sottoporre la volontà dei singoli al Mago
legislatore e all'astrologo che, contemplando le stelle, potranno stabilire per esempio chi si dovrà unire in
matrimonio e quando tale unione potrà (... dovrà) essere consumata per la generazione dei figli. In altre
328
A questo proposito cfr. E. Garin, Medioevo e Rinascimento. Studi e ricerche, Laterza, Bari, 1954, in particolare pp. 170-191.
329
Cfr. G.F. Vescovini, Astrologia e scienza. La crisi dell'aristotelismo sul cadere del trecento e Biagio Pelacani da Parma. Vallecchi, Firenze, 1972
330
Cfr. p. 34-52
331
Cfr. F.A.Yates, cit., pp. 392-393. Come sappiamo, Campanella considerava il suo oroscopo superiore a quello dello stesso Cristo.
332
F.A.Yates, cit. p. 394. Acutamente, la Yates mette in rilievo che «In questa strana rivoluzione, domenicani eretici, o ex-domenicani, ebbero un ruolo di primo piano.
Frate domenicano non era soltanto il braccio destro di Campanella, Dionisio Ponzio , ma lo erano anche molti altri suoi sostenitori. Può darsi che si debba porre
l'insurrezione calabrese del 1599 in rapporto con l'insofferente comportamento dei domenicani napoletani che quattro anni prima, nel 1595, armi in pugno, resistettero nel
convento di san Domenico contro un gruppo di riformatori inviati da Roma per imporre loro una condotta di vita più regolare. C'era evidentemente molta irrequietezza fra i
domenicani dell'Italia Meridionale e non si può escludere, come spiegazione di ciò, che le idee rivoluzionarie di Bruno e Campanella non fossero peculiari di questi filosofi
ma avessero la loro radice in una certa mentalità generalmente diffusa, nel Meridione, tra le file dell'ordine. La rivolta calabrese può essere stata l'ebollizione finale di
quelle forze che spinsero sia Bruno che Campanella ad intraprendere la loro pericolosa carriera». Per la studiosa inglese «Si ha l'impressione che Campanella abbia fatto
affidamento soprattutto sulla forza della sua personalità ispirata per il successo dello straordinario movimento da lui promosso, e sulla fede nei portenti e nelle profezie. Le
uniche iniziative pratiche di Campanella sembrano in sostanza essersi ridotte ad accordi con i nobili scontenti dell'Italia meridionale e con i Turchi che avrebbero dovuto
inviare, e di fatto inviarono, ma troppo tardi, un distaccamento di galere in aiuto agli insorti. Il tutto venne facilmente soffocato e alla fine del 1599 le prigioni di Napoli si
riempirono di domenicani ribelli mentre i loro amici venivano sottoposti a interrogatori e spesso torturati per ricavare quelle prove circa il movimento che l'Amabile
rinvenne e pubblicò nel 1882. Nessuno - osserva la Yates - né allora né [...] in seguito, ha visto alcun rapporto fra questo movimento e Giordano Bruno. Ma ora salta
sicuramente agli occhi il fatto che questa rivoluzione calabrese assomiglia moltissimo ad una attuazione del programma bruniano di una riforma che anch'egli riteneva
imminente a causa dell'approssimarsi di una nuova era della storia del mondo». (Cfr. F.A. Yates, cit., pp. 394-395).
opere, come i Discorsi universali del governo ecclesiastico e la Monarchia Messiae, Campanella profetizza
per il papato una monarchia mondiale universale attraverso la quale il papa sarebbe diventato il capo sia
spirituale che temporale del mondo intero, e tutte le religioni si sarebbero convertite in una e si sarebbe
costituita una unità religiosa e politica mondiale. Campanella pensava alla conversione della Chiesa e del
Papa esattamente come Lutero, per altra via, prima della bolla Exurge Domine. Per il Frate di Stilo, a parte le
ovvie differenze con il frate agostiniano di Wittenberg, il principio fondamentale era però quello dell'unità:
dalla riforma cattolica in senso ermetico non poteva (e non doveva) scaturire un cattolicesimo istituzionale,
bensì un cristianesimo rinnovato sotto il segno di Ermete Trismegisto. Più avanti avremo occasione di notare
come la Monarchia Messiae ponga in rilievo, come momento decisivo del governo mondiale pontificio, la
forza unificatrice, che avrebbe dovuto condurre in pratica a un superamento delle diversità statali. È
opportuno notare che Campanella non ha mai considerato la diversità e l'alterità come un disvalore, a patto
che le distinzioni si possano alla fine risolvere sul piano dell'omogeneità organica del Tutto, proprio come
accade nel mondo fisico e animale. Non appena tutti i popoli saranno condotti sotto lo stesso potere spirituale
e temporale supremo, condizionato direttamente dalla volontà di Dio attraverso le mediazioni celesti ed
angeliche (che il Metafisico, da buon mago-astrologo sa rettamente interpretare) le situazioni di dominio
politico particolari saranno prive di un significato profondo. Così la fusione dei popoli dovrà corrispondere
alla nascita della nuova era dell'oro, e darà all'uomo non solo la felicità dell'anima, ma anche il benessere
materiale. Gli egoismi particolari saranno risolti nella dinamica più vasta del bene comune, sia a livello
microcosmico (del singolo individuo) che macrocosmico (della comunità nel suo complesso). L'alleanza
delle nazioni, storicamente opposte tra di loro, porterà con sè la fine delle guerre; ma anche (e soprattutto)
della fame e delle carestie, grazie ai trasporti rapidi e al traffico di mercanzie da un estremo all'altro del
territorio; il progresso delle scienze si vedrà accelerato perché non incontrerà più ostacoli come la diversità
delle lingue e delle opinioni o la scarsità di osservatori e mezzi di osservazione in determinate regioni. In
ultima analisi, la congiunzione del mondo terrestre con quello celeste dovrà portare alla scomparsa del male
contingente dal Mondo. Ma tale stato di cose potrà imperare solamente con la nuova Età dell'Oro. Nel
mondo reale attuale, il pluralismo statale non è superato e la monarchia universale dovrà fare i conti con esso
per molto tempo. Campanella è perfettamente conscio di questa situazione. Nel mondo storico in cui è
chiamato a operare il governo mondiale ierocratico, l'unità del principato papale (nel senso che Campanella
gli attribuiva) non distrugge i regni e le repubbliche particolari, ma le rafforza e perfeziona, poiché li unisce
sotto il segno di una religione e di una religiosità rinnovata. È sottinteso che anche e soprattutto il
cattolicesimo romano dovrà subire una radicale riforma.
Dopo il fallimento della cospirazione calabrese, come abbiamo già ricordato, Campanella, sia durante la
prigionia che dopo la sua liberazione, non perde mai di vista la necessità di preparare la realizzazione della
Città del Sole con un piano più efficace e costruttivo, sulla base del potere politico, militare ed economico
della nazione cristiana dominante (in un primo tempo la Spagna, poi la Francia). L'attenzione ossessiva con
la quale ripete il ruolo fondamentale del papato in questa operazione di conversione mondiale può e deve
essere interpretata come una evidente prova di intelligenza politica. L'avvicinamento a papa Urbano VIII non
può non essere letto in questo modo. La fine dei tempi di crisi, che doveva naturalmente precedere
l'instaurazione della Città del Sole, è preannunciata dal radicale mutamento e dall'evoluzione inusuale della
storia: le pagine finali dell'opera dicono infatti «di questo secolo nostro, c'ha più istoria in cento anni che non
ebbe il mondo in quatro mila; e più libri si fecero in questi cento che in cinque mila,...», quasi a significare
ulteriormente il futuro avvento della monarchia del Messia: «sarà grande monarchia nova, e di leggi riforma
e d'arti e profeti e rinnovazione».
Campanella aveva perfettamente inteso il significato profondo di avvenimenti come la scoperta di nuovi
mondi, la possibilità di circumnavigare la terra, l'invenzione della stampa e dell'archibugio, con le
inimmaginabili possibilità che tutto ciò racchiudeva. Purtroppo, a tale meraviglioso progresso scientifico-
tecnico non faceva riscontro un miglioramento globale delle condizioni del popolo e neppure (se ciò poteva
costituire un motivo di consolazione) una crescita spirituale e morale delle masse. Da qui il carattere
escatologico dei suoi trattati politici, e l'ansia di una universale rinnovazione prossima ventura. Nondimeno,
gli scritti politici non tradiscono mai un profondo realismo, anche se tutti gli elementi che in essi compaiono
sembrano strutturati in base al principio dell'unità e dell'analogia (principio che - come abbiamo visto -
informa tutta quanta la filosofia campanelliana). Gli scritti politici del Campanella mettono a fuoco la realtà
sub specie unitatis, da una prospettiva che inserisce i fatti e i comportamenti singoli in connessioni più ampie
per indagare dalle stesse, il loro significato ultimo. A questo proposito Anton Truyol y Serra, in accordo
implicito con la tesi ricordata della Yates, aveva osservato che «Allo stesso modo che in Dante e nei teorici
tedeschi dell'Impero nel Medioevo, la teoria della monarchia universale cristiana sfocia in Campanella in una
filosofia della storia di grande respiro che ruota intorno all'idea della Provvidenza» 333. Truyol y Serra ha
naturalmente ragione, ma occorre precisare che l'idea di Provvidenza Campanelliana è connotata da caratteri
molto particolari. La Provvidenza, in effetti equiparabile alle metafisiche Influenze magne (Necessità, Fato
ed Armonia) mantiene anzitutto l'armonia del cosmo, l'universale concordia mundi. Questa armonia (che
evidentemente coinvolge il piano fisico e metafisico della realtà) non sarebbe possibile se le varie forze non
fossero regolate da un ordine gerarchico ben preciso. E forse sarebbe ancora lecito un confronto con Ficino.
Marsilio Ficino, infatti, non solo ha presentato un quadro organico dell'universo, ma, ereditando questo
concetto dalle sue fonti neoplatoniche e soprattutto ermetiche, ha costruito una concezione dell'universo
come di una immensa struttura gerarchica, in cui ogni essere ha un suo posto preciso ed un suo grado di
perfezione, cominciando da Dio, che occupa il vertice, e scendendo via via attraverso gli ordini degli angeli,
delle anime, delle sfere celesti, delle varie specie di animali, piante e minerali fino alla informe materia
prima. Per Ficino Dio è creatore del mondo e nell'universo manifesta direttamente la sua presenza: è perciò
immanente e trascendente al tempo stesso. È trascendente perché distinto e separato dal mondo; immanente
perché nell'universo sono presenti i principi (in senso platonico: le idee prime) di tutte le cose, principi che
costituiscono l'energia intima di tutta la realtà. La struttura di questo ordine, in Ficino come in Campanella,
ma anche come è stato per Bruno (altro religioso-ermetico, il più radicale dei tre), conduce dall'alto verso il
basso, dal regno dei cieli a quello mundano, instaurando un meccanismo di dipendenza (che al tempo stesso
esclude una trascendenza assoluta). Tale dipendenza del mondano dal celeste giustifica in ultima analisi sia
il principium unitatis che quello dell'analogia.
Campanella rimane sostanzialmente fedele a questa visione cosmologica e metafisica, nonostante per molti
sia già superata, soprattutto dopo Cusano. Come ha osservato E. Cassirer, «nella nuova cosmologia, che
s'inizia col Cusano, non vi è più nessun assoluto "sopra" e "sotto" e neppure una direzione rigidamente
univoca dell'agire. L'idea del mondo come organismo viene ora intesa in modo più largo, poiché ogni
elemento del mondo può venire, con uguale diritto, considerato come un centro del tutto» 334. Ma lo spirito
rinascimentale (nel senso che ho precisato) che ancora opera nel frate di Stilo, produce una visione
cosmologica ancora molto vicina a quella del Ficino, che a sua volta si basa in gran parte sul Picatrix
ermetico. La visione campanelliana, pur ammettendo l'organicità del reale (... che doveva evidentemente
essere perseguita anche sul piano politico, secondo il criterio dell'analogia in precedenza individuato) non
elimina mai un certo carattere gerarchico, che a ben vedere risulta funzionale anche sul piano mitico, in
particolare nel momento dell'avvicinamento del Cielo alla Terra (... precedente la fine dei tempi). Il tentativo
ficiniano di introdurre l'astrologia nel sistema teologico cattolico 335 doveva trovare perfettamente concorde il
frate di Stilo. Per Ficino, come ricorda anche Cassirer, «esiste un triplice ordine delle cose, che egli
denomina con i tre nomi: providentia, fatum, natura»336. Ora è facile notare che - pur modificata - tale
tripartizione ricompare nella associazione campanelliana di Necessità, Fato ed Armonia, che regola in ultima
analisi le dinamiche tra cielo teologico e astrologico, andando a costituire il nesso tra animale e spirituale.
L'adozione della Provvidenza serve al Campanella ad elevare più che a limitare al libertà umana. Non si
dimentichi che (soprattutto nella Città del Sole, ma anche nel Del senso delle cose e della magia)
Campanella sostiene che grazie alla magia e all'astrologia l'uomo viene posto nelle condizioni di seguire
333
Anton Truyol y Serra, Hierocracia mundial y estados particulares en Campanella, cit. Truyol y Serra aggiunge: « Così, l'incorporazione del crescente potere spagnolo
alla file degli imperi mondiali acquista significato in quanto ultima tappa (il corso ulteriore della storia dirà se definitivamente l'ultima) della progressiva restaurazione
dell'unità spirituale e materiale dell'umanità: la Spagna assume, su un piano che ora è letteralmente universale, l'eredità politica degli Assiri, dei Medi e Persiani, dei Greci e
Romani, e ciò spiega la sua espansione, voluta da Dio, imprevedibile su scala umana. Non cessa Campanella di sottolineare più e più volte, a questo proposito, il principio
di ordine superiore che pone le azioni individuali, indipendentemente dal loro significato soggettivo, al servizio di una finalità oggettiva che le supera. La Provvidenza di
Campanella, come Ragione di Hegel, opera con arguzia, convertendo per esempio motivazioni egoiste in vie inconscie di intenzioni sovrumane. Nonostante gli Spagnoli
cercassero nel Nuovo Mondo oro e ricchezze, preparavano senza saperlo la strada che deve condurre all'unità del mondo. I matrimoni combinati da re e principi spagnoli,
dettati da convenienze politiche, risultarono essere in realtà le pietre fondanti di una futura concentrazione di potere che, assieme ad altri fattori, sfociò d'un tratto, "quasi
non avvedendosi il mondo nè pensandosi li Spagnuoli", in un tale impero, che il mondo non ne aveva conosciuto un altro simile. Questa missione storico-universale della
Spagna, a sua volta, riceve il suo significato ultimo alla luce di una legge di evoluzione degli imperi che allo stesso tempo spiega e giustifica il suo auge e la sua decadenza.
Il cambiamento delle cose è necessario, perché tutte abbiano un inizio, una fase intermedia e una fine. Se per esempio non fosse crollata la dominanza romana, nè la
Francia, nè la Germania, nè la Spagna avrebbero potuto conseguire un'esistenza gloriosa, per non parlare degli Arabi e dei Turchi, che avrebbero continuato ad essere
sconosciuti: dunque risponde all'ordine della giustizia divina colui che conferisca un potere a tutti i popoli -ad alcuni ora, ad altri dopo- e si serva di essi per castigarli a
vicenda per l'abuso dei suoi doni. Gli Italiani devono comprendere che passò per essi irreversibilmente l'epoca dell'egemonia. "Nulla nazione dopo perduto l'imperio ha
potuto ricuperarlo più". Da ciò si deduce che il primo imperativo etico-politico dei contemporanei e patrioti di Campanella non potesse essere altro, secondo lui, che quello
di cooperare con la potenza cristiana dominante - e allora era la Spagna per l'appunto - nel compimento della sua benefica missione. Parlare di un imperativo etico-politico
vuol dire che la Provvidenza non si limita a mobilitare gli uomini per i suoi disegni: comporta anche un richiamo al loro libero arbitrio. Accanto a Dio come prima causa,
intervengono l'opportunità e la prudenza come fattori concomitanti secondari dell'accadere storico. Il loro congiungimento è il destino (fato). Quando ignoriamo la
relazione tra causa ed effetto, parliamo di caso (caso, fortuna); quando la conosciamo, invece, di prudenza. Nonostante questi tre fattori agiscano in ogni circostanza in
diverso grado e la prima causa decida in ultima istanza, rimane alla ragione umana un margine sufficiente per contribuire positivamente alla configurazione del mondo
storico. Da tale attività emana la politica come scienza, e come conseguenza logica della stessa, la politica applicata come arte di governare. Questa conferisce alle opere di
cui qui ci occupiamo, e in primo luogo alla Monarchia di Spagna, una loro impronta peculiare».
334
E. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, Firenze, La Nuova Italia, 1935, pp. 158-195. (Il brano è rioportato in "Magia e scienza nella civiltà
umanistica", a cura di C. Vasoli, Il Mulino, Bologna, 1976, p. 135).
335
Cfr. E. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, cit., pp. 158-195. (Il brano è rioportato in "Magia e scienza nella civiltà umanistica", a cura di C.
Vasoli, cit., p. 138).
336
Ibidem.
opportunamente il codice naturale, mettendosi al servizio della volontà di Dio. Come si è visto in
precedenza, l'influenza degli astri non coinvolge radicalmente il piano della libertà umana, ma si limita a
condizionare l'indole degli individui. Da un punto di vista attivo, è invece possibile per l'uomo moltiplicare le
influenze celesti per modificare anche sostanzialmente il corso degli eventi. Campanella credeva che per
realizzare il progetto della Città del Sole era necessario un utilizzo spregiudicato del potere della Chiesa,
magari associato a quello di una grande potenza cristiana, ma «vi sono pochi dubbi sul fatto che la religione
a cui [il Campanella] si accingeva a convertire il mondo era ben lungi dall'essere ortodossa» 337. In tal senso
l'elemento profetico e magico-astrologico andava a costituire uno strumento perfetto per facilitare
l'attuazione dei piani riformatori. Non a caso, nella maggior parte dei suoi scritti, Campanella si era
preoccupato di mostrarsi un buon cattolico (evitando accuratamente di propagandare il suo nuovo tipo di
religione)338. Addirittura, come del resto aveva già suggerito D.P. Walker, è possibile chiedersi se il famoso
pentimento ed il conseguente rifiuto degli errori precedenti espressi nel celebre passo del Quod
reminiscentur339 siano soltanto una finzione opportunistica o si riferiscano ad un reale rifiuto sia della magia
diabolica sia dei suoi esperimenti spiritualistici» 340. A questo passo va certamente collegata la strenua difesa
che lo Stilese oppose alle accuse inquisitorie circa la natura della sua arte magica. Come molti studiosi hanno
accertato, in questa disperata difesa341 Campanella si servì più ancora che del Ficino, dell'autorità di
S.Tommaso d'Aquino342.
337
D.P.Walker, Spiritual and Deminic Magic from Ficino to Campanella, London, Studies of the Warburg Institute, 1958, vol. 22, pp. 203-236. Traduzione di Gabriella
Valera. Cfr. C. Vasoli, Magia e scienza nella civiltà umanistica, cit., in partic. p. 247.
338
Cfr. C.Vasoli, Magia e scienza nella civiltà umanistica, cit., p. 247.
339
Cfr. T.Campanella, Quod reminiscentur, a cura di R. Amerio, Cedam, Padova, 1939, p. 23 e seguenti.
340
Cfr. D.P. Walker, cit., p. 247. Mi sembra opportuno ricordare che a certi misteriori esperimenti spiritualistici il Campanella si riferisce esplicitamente anche nel Del
senso delle cose e della magia: «[...] Ma l'Astronomia mostra l'uomo celeste, poichè mira in suso e misura la grandezza delle stelle, numera i moti, e quel che non vede lo
finge con epicicli et eccentrici, e fa li conti suoi tanto giusti, non solo come conoscitore, ma quasi come fabro del cielo; e in tanta varietà d'opinioni del modello e dei
principii delle cose si mostra la divinità sua che per tante vie camina alla conoscenza del Creatore. E quel ch'è stupendo, ha trovato quando si fanno gli ecclissi de' Iuminari,
e li predice molti secoli innanzi, e le congiunzioni e aspetti di tutte le stelle, Ie nature e nomi, le comete, i loro significati e gl'influssi, quel che fanno in terra, in aria e in
acqua, i tempi de' solstizii et equinozii, i mutamenti loro e delli apogei et eccentricitati che riescono a cupella. E quando Dio varia qualche cosa in cielo, l'uomo s'accorge e
nota l'anomalie e irregolarità sue, e sempre fa nuove tavole e indici di cose lontanissime e argomenta la morte e la vita, non solo dell'uomo, ma delli animali, delle
republiche, de' regni, anzi del mondo istesso che ha da perire per fuoco. Tutti gli animali stanno dentro il ventre del mondo, e l'uomo con loro, come vermi dentro il ventre
dell'aimale; e pur solo gli uomini s'accorgono che cosa è questo secondo grande animale e li suoi principii, corsi, vita e morte. Dunque l'uomo non sta solo come verme, ma
come ammiratore e luogotenente della prima causa, architettrice d'ogni cosa. Di più l'uomo communica con gli Angeli e con Demoni e con Domine Dio; e negar questo è
sfacciataggine come chi negasse ci sia Roma perché non l'ha vista e negare che sia stato nel mondo Cesare o Alessandro perché non fu a tempo suo; e già con tanti miracoli
e con la vita propria ne fano fede tutte le genti, ch'è gran falsità quella d'Aristotile; che nega gli Angeli e Demoni. Io certo reputo baia l'argomento d'Aristotile che dice Dio
potere ogni cosa fare perché a tutte è presente, e però non aver bisogno de' ministri come il Re, perché i minitri sono argomento di sua fiacchezza; perché se qusta ragione
valesse, manco bisognava fare il sole e le stelle e il mare perché egli può illuminare il mondo e farsi liquido in luogo loro. Esperienza propria io non ho se non de' Diavoli
che si forzarono farmi credere che l'anima va di corpo in corpo e che l'uomo non abbia libero arbitrio, e mi predissero cose vere e false; non dico ne' corpi umani chiusi, ma
in apparizione certa che mai non l'averei pensato che siano tanto malvagi e pregai Dio che mi facesse vedere Angeli buoni e mai non l'ho impetrato, e il Diavolo disse che
tutti son buoni chi più e chi meno, e conobbi gran malignità e diventai più uomo da bene. Nè questa è sapienza di sciocco nè di bugiardo, chè dall'uno e dall'altro sempre mi
guardai più che dal Diavolo istesso». Del senso delle cose, cit. pp. 123-126.
341
Non è escluso - a mio avviso - che Campanella abbia sperato di poter convincere gli alti gradi della gerarchia vaticana - specialmente nel periodo dell'avvicinamento a
papa Urbano VIII - circa la bontà delle sue intenzioni e dei metodi magici utilizzati.
342
Walker ricorda per esempio che Campanella aveva addirittura trovato un sostegno «nel commento della Summa Theologica di Tommaso scritto dal cardinale Caietano,
ove audacemente si difendeva la legittimità delle predizioni astrologiche e dei talismani contro la condanna di entrambi fatta da Tommaso (il luogo fondamentale è in
Summa Theologica, 2a, 2ae, q.96, art. ii; per il commentario di Caetano su questo passo si veda Tommaso d'Aquino, Opera Omnia, Romae, 1570, t. XI, pars altera, foll.
421r-242r.)» (Cit. in D.P.Walker, Spiritual and Deminic Magic from Ficino to Campanella, cit., vol. 22, pp. 203-236. Traduzione di Gabriella Valera. Cfr. C. Vasoli,
Magia e scienza nella civiltà umanistica, cit., p. 247). Walker aggiunge: «Quest'uso di Tommaso per difendere pratiche che condanna esplicitamente non è forse così strano
come sembra a prima vista. Tommaso nel Contra Gentiles e in due Opuscula che trattano dell'astrologia offre un forte sostegno ad un moderato determinismo astrologico,
da cui soltanto il libero arbitrio dell'uomo è esente; Dio governa per mezzo delle stelle ogni altra cosa. Anche il libero arbitro umano non ne è completamente esente; infatti
l'anima può essere disposta, anche se non determinata, in un certo modo, mediante la sua connessione col corpo, che è soggetto all'influsso degli astri. In uno degli
Opuscula egli conclude che i corpi celesti sono mossi dagli angeli e che questi angeli non devono essere adorati con latria come autori dei benefici da essi ricevuti, ma
venerati con dulia, come servi di Dio che trasmettono i Suoi doni: ossia, il culto degli angeli planetari è posto nella stessa classe del culto dei santi. Esi ste inoltre un trattato
De Fato, ove, oltre al determinismo astrologico, che coinvolge anche la mente umana, troviamo l'approvazione dei talismani. Ora, questo trattato generalmente non viene
considerato autentico ed è in netta contraddizione con le altre prese di posizione di Tommaso sull'astrologia. Non lo troviamo nella lista delle sue opere composta per la
canonizzazione da Bartolomeo di Capua e spesso appare sotto il titolo di De Fato secundum Albertum; in realtà è quasi sicuramente di Alberto Magno il cui Speculum
astronomiae fu una carta che Campanella, come Ficino, spesso giocò. Nondimeno è comprensibile che Campanella potesse ancora usare ampiamentc il De Fato nella sua
difesa dell'astrologia; infatti esso compare, senza il "secundum Albertum" nel titolo, e senza alcuna parola sui dubbi circa la sua autenticità, nell'edizione ufficiale delle
opere di Tommaso, la grande edizione romana del 1570, dedicata a Pio V ed edita con espresso riferimento ai decreti del Concilio di Tren to. Anche questa edizione
comprende i commenti sulla Summa favorevoli all'astrologia del cardinale Caietano e non altri. Non meraviglia se, verso la fine della sua permanenza a Roma, a
Campanella, che aveva quest'arma a sua disposizione, fosse vietato di insegnare il tomismo. Quanto Campanella considerasse valida come difesa l'autorità dei due grandi
teologi domenicani, Tommaso ed Alberto, si può chiaramente dedurre dalla presentazione dei suoi Astrologica il cui ti tolo completo suona: "Sei libri di argomento
astrologico in cui l'astrologia, purificata di tutte le superstizioni degli Arabi e degli Ebrei, è trattata dal punto di vista fisiologico, in accordo con la Sacra Scrittura e la
dottrina di S. Tommaso di Alberto, e dei piu grandi teologi; così che essi possono, senza sospetto di danno, essere letti con profitto nella Chiesa di Dio". La prefazione, ove
Campanella abbozza le sue concezioni sull'astrologia, è zeppa di riferimenti a Tommaso, che è anche usato per combattere Agostino, la cui competenza in questa materia è
ad ogni modo, dubbia, dal momento che era ignorante di matematica, come è dimostrato dalla sua negazione dell'esistenza degli Antipodi. La posizione propria di
Campanella è riassunta nella seguente affermazione: "Noi perciò diciamo, con il sostegno della dottrina di Tommaso, Alberto Magno e dei più sottili teologi, che il libero
arbitrio non è direttamente soggetto alle stelle, ma accidentalmente (per accidens) nella misura in cui il corpo è influenzato dai cieli e dalle stelle, allo stesso modo che lo
spirito animale, che è rarefatto e corporeo, e allo stesso modo che gli umori". Quest'affermazione sembra salvaguardare il libero arbitrio, am mettendo che gli influssi
astrologici non vanno più in alto dello "spirito". Ma dobbiamo ricordare che lo "spirito" di Campanella, come quello di Telesio, rappresenta le funzioni del percepire, del
conoscere e del desiderare, ed è realmente un doppione lievemente inferiore dell'anima e della mente da cui differisce quasi soltanto per il fatto che è corporeo. Così gli
influssi planetari sullo "spirito" possono in alto grado determinare il carattere della mente: "Quando Dio desidera fare un uonmo perfettamente santo può usare le stelle e gli
elementi per preparare il suo corpo rettamente a ricevere l'anima, e quindi rende gli spiriti animali sottili e puri". In realtà la condizione astrologicamente determinata degli
spiriti e di tale importanza che è ragionevole decidere in modo irrevocabile il corso della propria intera vita sul fondamento dell'oroscopo. Se, per esempio, questo indica
che i tuoi spiriti sono grossolani, ottusi e annebbiati, sarai irrimediabilmente stupido e ignorante e sarà preferibile che ti assoggetti interamente al volere di altri. Un buon
modo per raggiungere questo scopo è entrare in un monastero; se «la famiglia della saggezza», cioè i Francescani e i Domenicani, non ti accetterà, tenta coi Gesuiti. Se sei
solo moderatamente stupido, tenta di diventare un tomista o un platonico. Se il tuo oroscopo indica l'eventualità di un imprigionamento, diventa un Certosino, e così via. La
verità dei nomi e delle caratteristiche tradizionali delle stelle, da cui dipende la credibilità degli oroscopi, è garantita nel modo più assoluto da una tradizione che è una sorta
Ora è importante rilevare che La città del sole è strutturata in base ad un modello evidentemente
astrologico e magico. La Città si trova sopra un colle in mezzo ad una vasta pianura ed è suddivisa in sette
giri "nominati dalli sette pianeti". Le case, i palazzi e i chiostri della città sorgono lungo questi giri, che sono
separati fra loro da mura poderose. La città è poi attraversata da quattro gradi strade, che portano alle quattro
porte principali, quelle d'accesso, "alli quattro angoli del mondo spettanti", e convergono al centro di essa.
Sulla sommità dei questa collina sorge un gran tempio, di meravigliosa fattura. Esso è perfettamente rotondo
e la grande cupola poggia su enormi colonne. "Sopra l'altare non vi è altro ch'un mappamondo assai grande,
dove tutto il cielo è dipinto, ed un altro dove è la terra; poi nel cielo della terza cupola vi stanno tutte le stelle
maggiori del cielo, notate con li nomi loro e virtù, che hanno sopra le cose terrene con tre versi per una"; le
rappresentazioni sulla cupola sono "in corrispondenza nelli globbi dell'altare. Vi sono sempre accese sette
lampade nominate dalli sette pianeti [...] Nelle mura del tempio esteriori; e nelle cortine, che si calano
quando si predica per non perdersi la voce, vi sta una stella ordinatamente con tre versi per una".
Giustamente dunque la Yates afferma: «È chiaro che il tempio è un modello del mondo, minuziosamente
descritto, e che il culto in esso celebrato dev'essere un culto del mondo»343. Ma l'intera Città, a mio parere, è
strutturata su base analogica, e rispecchia dunque, come avevo già detto, il procedere della maggior parte
delle opere campanelliane. Volendo imitare V. Propp e la sua ricerca sulla fiaba, sarebbe a questo punto
molto interessante cercare di far emergere gli elementi costanti (le invarianti) dei simboli, dei miti e degli
archetipi contenuti nella Città del Sole. A questo proposito sembra lecito formulare l'ipotesi di una certa
autonomia dell'immaginario campanelliano, poiché esso si organizza in modo originale attorno ad alcune
strutture di formazione di immagini, difficilmente qualificabili in senso stretto come «ermetiche» (eppure al
tempo stesso profondamente influenzate dalla genuina corrente dell’ermetismo dell’Italia meridionale).
Questa considerazione si fonda su una rilettura attenta e ripetuta di alcuni passi, dopo la quale credo sia
difficile non provare una profonda impressione. A volte Campanella sembra quasi non aver nessuna reale
intenzione di essere immediatamente compreso, capito, dal suo lettore: certo, il filosofo di Stilo scrive per
convincere, ma dà l’impressione di voler utilizzare argomenti «minori» rispetto alle sue autentiche tesi (che
riesce ad esprimere solo mediante una sorta di linguaggio figurato, denso appunto di elementi mitici, nel
complesso di difficile interpretazione). Forse per questo l'ermeneutica campanelliana non si è mostrata fino
ad ora convincente, essendo di fatto prevalsa una sola tendenza interpretativa, quella tutta concentrata sul
problema della sincerità e dell’ortodossia. Al contrario, sarebbe forse più opportuno utilizzare una strategia
che cerchi di analizzare il linguaggio campanelliano nei suoi molteplici e differenti livelli e codici
comunicativi, attraverso i quali il Frate di Stilo esprime tutta la vena mitica del suo pensiero. Ma anche qui si
impone una precisazione doverosa. È meglio chiarire subito che nel pensiero di Campanella il mito non
esprime mai un netto rifiuto del progresso e nemmeno il rifiuto della storia «lineare». E a questo proposito
credo sia importante ribadire e sottolineare ancora una volta la pertinenza delle osservazioni di Mircea Eliade
circa l'interpretazione del mito, osservazioni che possono essere applicate senza particolari indugi alla Città
del Sole come all'intero percorso filosofico del pensatore di Stilo. Soprattutto nel caso della Città del Sole,
sembra evidente che gli elementi mitici presenti nell'opera possano e debbano essere interpretati seguendo le
note categorie dello Studioso rumeno, ma con qualche ulteriore precisazione che in seguito analizzeremo in

di prisca astrologia: "Devono essere divini o ammaestrati da Dio quegli uomini che ci hanno tramandato queste simpatie o antipatie e i nomi delle stelle". In effetti gli
Egiziani li hanno imparati da Abramo, Abramo da Noè, Noè dai suoi antenati, e così, risalendo indietro nel tempo, fino ad Adamo e a Dio Il Sole, naturalmente, esercita un
influsso immensamente maggiore di quello degli altri pianeti, che da esso ricevono tutti i loro poteri. Poiché la nuova religione di Campanella era preannunziata e
provocata dai movimenti del Sole, è naturale che approvasse la teoria secondo cui l'ascesa e il declino di tutte le religioni, incluso il cristianesimo, sono determinati
astrologicamente. Il fattore principale in questi cambiamenti religiosi è l'avvicinarsi del Sole alla Terra. Quando esso era nel punto più distante, la sede della religione era
presso i popoli che vivono vicino all'equatore, perché il Sole era abbastanza lontano da rarefare e purificare i loro spiriti senza bruciarli. A mano a mano che si avvicinava
sempre più, rese i loro spiriti "fumosi", e la religione passò all'Egitto, dove ac cadde la stessa cosa, perché il periodo "fumoso" produsse il culto degli animali. In seguito,
poiché la regione temperata avanzava lentamente verso Nord e Ovest, la religione si spostò successivamente presso i Babilonesi, gli Ebrei, i Persiani, i Greci, i Romani, i
Francesi, gli Spagnoli, ed ora nel Nuovo Mondo. Se le religioni stesse sono determinate astrologicamente, è forse ragionevole organizzare i particolari dei culti religiosi in
accordo coi pianeti. Campanella discute ampiamente se si debbano recitare le preghiere in periodi astrologicamente propizi. In favore della risposta affermativa abbiamo
questi punti: primo, la raccomandazione di Salomone nel Libro della Sapienza (Libro della Sapienza, VXI, 28) di pregare al sorgere del sole, suffragata dal fatto che il Sole,
sorgendo sempre con Mercurio e Venere dispone l'anima alla contemplazione come Ficino notava nel De triplici vita e che gli altari sono all'estremità orientale delle
chiese. In secondo luogo, David disse: "Sette volte al giorno io ti lodo" (Salmo 119, ,164) e abbiamo appunto sette ore canoniche, esse - pensano gli astrologi - sono
assegnate ai sette pianeti, come i giorni della settimana, le sette età del mondo, ecc. Campanella accetta il primo di questi argo menti con la specificazione che l'azione dei
pianeti si esercita sul corpo e sullo spirito, piuttosto che sull'anima e che un uomo buono può pregare con successo in ogni ora del giorno. Respinge il secondo, ba sandosi
sul fatto che le ore della preghiera sono sette non per i sette pianeti, ma per le sette stazioni della Croce, le Ultime Sette Parole e i Sette Doni dello Spirito Santo, o per il
fatto che Dio ha armoniosamente ordinato ogni cosa secondo il numero sette. Questo rifiuto è certamente in malafede; infatti, come dobbiamo constatare, Campanella non
credeva in un universo costruito armonicamente secondo un ordine numerico, alla maniera di Francesco Giorgi, e credeva invece che i giorni della settimana, le età del
mondo, corrispondessero ai pianeti e fossero dominati da essi. Poiché gli Astrologica di Campanella contenevano queste teorie non troppo ortodosse, si comprcnde che
dovesse preoccuparsi di difendersi con l'autorità di Tommaso, Alberto e Caietano, specialmente perché, a differenza degli altri astrologi che abbiamo incontrato, scriveva
dopo la Bolla di Sisto V contro l'astrologia e poco prima di quella di Urbano VIII. In seguito Campanella trattò in modo ingegnoso di queste due Bolle: alla fine
dell'edizione del 1636 del suo Atheismus triumphatus ne pubblicò una difesa con la quale faceva tante concessioni agli immaginari astrologi che fingeva le avessero
attaccate, sicché alla fine, queste Bolle sembravano raccomandare una "buona" astrologia e condannare soltanto un piccolo numero di "cattivi astrologi" che pretendevano
di predire eventi particolari con assoluta certezza. Egli si serve quanto può dell'approvazione concessa dal Concilio di trento e confermata dalla Bolla di Sisto V
all'astrologia impiegata nelle arti utili dell'agricoltura, della navigazione e della medicina» (D.P. Walker, cit. pp. 248-252).
343
F.A. Yates, cit., pp. 396-397.
modo dettagliato. Ad esempio, il simbolismo del centro, della montagna sacra, del tempio - che è a sua volta
una specie di montagna sacra ed un centro, dei sette piani, o gironi, che rappresentano i sette cieli
planetari344; lo stesso tema della renovatio345, della riattualizzazione del tempo mitico, appaiono ben evidenti
nel contesto della Città del Sole. E a ben vedere, questi stessi criteri interpretativi sono utilizzabili anche
nell'analisi di altre opere campanelliane. Secondo lo stesso Eliade, infatti, Tommaso Campanella è da
considerarsi certamente come uno degli esponenti più notevoli del mito escatologico, e ciò risulta evidente
anche dalla lettura del De Monarchia Hispanica346, dove il frate di Stilo utilizza largamente una serie
numerosa di elementi mitici per rafforzare le sue spregiudicate tesi politiche.
L’utilizzo delle tematiche mitiche, anche nella produzione politica di Campanella, conserva a mio giudizio
una affascinante ambiguità (del tutto voluta e finemente ricercata, come risulta da più autorevoli studi 347, ed
ottenuta anche mediante l'utilizzo di sorprendenti tecniche linguistiche). Come nel caso di Bruno, se pur con
minor stile, Campanella sembra infatti utilizzare a più riprese il metodo della variazione. Grazie a questa
particolare tecnica espositiva, Campanella non perde mai la possibilità di un passaggio spregiudicato dal
piano della logica-politica a quello dell'analogia-mitologica, dove evidentemente il pensiero segue criteri a-
logici, non-razionali. Nel pensiero di Campanella, però, - e si tratta di un punto di fondamentale importanza -
il mito non si oppone mai in modo netto al logos. Grazie a questo uso ambiguo delle tematiche mitiche,
Campanella riesce ad evitare uno dei consueti risultati di un approccio mitico della realtà (l'antinomia tra
mito e storia, tra razionalità scientifica e animo religioso). Per esempio, nelle diverse opere di Campanella
non si verifica mai una netta scissione tra tempo mitico e tempo storico: mito e storia non sono affatto in
contraddizione. I Solari che vivono in un’isola sperduta, in una città fantastica dove regnano leggi magiche,
sono tutt’altro che degli sprovveduti: applicano i migliori principi della matematica applicata alla tecnologia,
si danno delle istituzioni funzionali e produttive, utilizzano addirittura l’eugenetica per migliorare la razza.
Danno un grande impulso agli studi, soprattutto dei più giovani: l’importanza della acquisizione di nuove
idee non sembra affatto sminuita. I riti hanno una fondamentale importanza, ma non vengono mai celebrati
in funzione direttamente magica, anzi, perlopiù sembrano rivestire una importanza anzitutto sociale
(rafforzano la coesione tra gli abitanti).
Ho già accennato al pensiero di Eliade e alla sua importanza nell’ambito dell’ermeneutica campanelliana.
Come è noto, secondo lo Studioso rumeno il mito racconta un avvenimento che ha luogo al tempo dei
primordi, il tempo favoloso degli inizi. Il mito è dunque in qualche modo la narrazione di ogni creazione. Ed
è per questo che, secondo M. Eliade, possiede un fondamento di verità assoluta: «Rivelando come una realtà
è venuta ad esistere, il mito costituisce il modello esemplare non solo dei riti, ma anche di ogni attività
umana significativa: alimentazione, sessualità, lavoro, educazione...». Facendo nostre queste affermazioni si
può osservare come in Campanella il mito sia dotato di una valenza escatologica, per cui in realtà ricorda e
riattualizza il passato solo per poter costruire il futuro (sulla base di opportune indicazioni politiche).
L'attenzione degli interventi campanelliani sul piano politico mostra appunto una capacità di analisi non
comune della contingente situazione personale e politica in senso lato (un esempio sorprendente di tale
capacità è riscontrabile nel rapporto con papa Urbano VIII, in particolare nella vicenda che coinvolse anche
Galileo348).
Per tornare alla trattazione più diretta degli elementi mitici presenti nella Città del sole, come del resto è già
stato osservato da più studiosi, si deve ricordare che il mito ha per sfondo il Cosmo nella sua universalità
trans-storica. Questa osservazione deve indurre il Lettore a concentrarsi con particolare attenzione al
rapporto tra teocrazia e ierocrazia nell’opera in questione. Il fatto stesso che Campanella parli di una «Città»
e non di uno «Stato» mostra chiaramente, a mio giudizio, l'ambivalenza del tema dell'analogia, rispetto al
macrocosmo e al microcosmo. La collocazione di questa fantastica Città in un ambito naturale terreno deve
rievocare l'immagine del mondo nei suoi caratteri cosmici, creando così una partecipazione dinamica
all'Universo. La Città che Campanella immagina è molto vicina alla Polis greca, ovvero evoca l'idea di una
realtà non dispersa, unita in sé, immersa in un rapporto interiore ed esteriore con la Natura (Kosmos). La
Città è la comunità degli uomini, non lo Stato massificato. Si tratta di una sorta di famiglia allargata. Con il
procedere della descrizione della Città la simbologia utilizzata dal Campanella si fa sempre più astratta,
facendo leva per esempio su immagini celesti, aeree, che esprimono al tempo stesso la trascendenza e la
libertà di questa utopia terrestre. In ogni caso non viene mai sminuito l'aspetto razionale di tale disposizione

344
Cfr. M. ELIADE, Il mito dell'eterno ritorno, Borla, 1989, pp. 27-33.
345
Cfr. M. ELIADE, Il mito dell'eterno ritorno, Borla, 1989, p. 103.
346
Cfr. M. ELIADE, Mito e realtà, Borla, 1993, pp. 213-214.
347
Cfr. G. SPINI, Galileo, Campanella e il «Divinus Poeta», Universale paperbacks, il Mulino, Bologna, 1996.
348
Cfr. G. SPINI, Galileo, Campanella e il «Divinus Poeta», Universale paperbacks, il Mulino, Bologna, 1996.
simbolica: le mura dei giri, ad esempio, recano rappresentazioni simboliche ma anche (e soprattutto)
scientifiche su entrambi i lati. Sul lato interno del primo girone (quello più vicino al tempio) sono riprodotte
tutte le figure matematiche, più di quelle descritte da Euclide e Archimede; sul lato esterno «vi è la carta
della terra tutta, e poi le tavole di ogni provincia con li siti e costumi e leggi loro [dei Solari], e con alfabeti
ordinari sopra il loro alfabeto». Sul muro interno del secondo girone sono rappresentate tutte le pietre
preziose e i minerali; sul lato esterno «vi son tutte sorti di laghi, mari e fiumi, vini ed ogli ed altri liquori, e
loro virtù ed origini e qualità». Il muro del terzo girone è dedicato, da un lato, al mondo vegetale, con
raffigurazioni di ogni specie di alberi ed erbe, con le rispettive virtù e corrispondenze celesti, dall'altro a tutte
le sorte di pesci con le loro somiglianze alle cose celesti. Sul quarto muro si osservano uccelli e rettili; sul
quinto animali. Infine, nel girone più periferico sono presentate, sul lato interno del muro, «tutte le arti
meccaniche, le l'invenzioni loro, e li diversi modi, come s'usano in diverse regioni del mondo»; sul lato
esterno, «tutti gl'inventori delle leggi e delle scienze», fra i quali Mosè, Osiride, Giove, Mercurio, Maometto.
In una zona più alta ed "onorata" del muro sono le figure di Cristo e dei dodici apostoli, molto venerati dai
Solari. La Città del Sole è perciò una immagine completa del mondo in quanto governato dalle leggi della
magia naturale in dipendenza dalle stelle. I grandi uomini sono coloro che meglio hanno compreso e usato
tali leggi: inventori, maestri di morale, operatori di miracoli, capi religiosi, in breve i Magi, con in testa
Cristo e i suoi apostoli. Le immagini rappresentate sui muri sono sinonimo di «metafora» ed il livello mitico
ad esse sottostante si incarna nelle figure di un immaginario al tempo stesso archetipico ed innovatore. Il
compito di questa sovrapposizione imaginale è tanto quello di umanizzare le forze del Cosmo, quanto quello,
parallelo, di divinizzare l'umano, il materiale. E la rappresentazione degli elementi fondamentali quali il
Celeste, l'Acqua, la Terra ed il Fuoco sono altrettante segnature simboliche della durevolezza o piuttosto
dell'Eternità. Per questi motivi in precedenza avevo sostenuto che l'ambiguità della metodica campanelliana
permette di ricongiungere il tempo escatologico con quello degli inizi, in un presente cosmico di difficile
precisazione sul piano logico. Il mito espresso tramite questo repertorio figurativo tenta evidentemente di far
operare un ritorno alle origini, ma anche di proiettare l'intera comunità in un futuro di pace e benessere.
Come al solito, mito e logica politico-utopica si intrecciano. L'utilizzo delle tematiche mitiche ed
escatologiche, miste a precise finalità politiche e importanti progetti utopici, prevede da una parte
un'iconografia che ricorda il prestigio degli inizi, indicando un ritorno al Primordiale, ma dall'altra non
dimentica la funzionalità delle applicazioni tecniche e delle scienze. Il reggitore della Città è infatti (e deve
essere) anzitutto il primo sacerdote «che s'appella Sole» (nei manoscritti il nome è rappresentato dal simbolo
del sole, un cerchio con un punto al centro), che viene chiamato «Metafisico». Egli è il capo assoluto, sia sul
piano spirituale che su quello temporale, ed è assistito da tre collaboratori, Potestà, Sapienza e Amore349.
Frances A. Yates aveva osservato che sotto questo governo, gli abitanti della Città vivono in amore fraterno,
avendo ogni cosa in comune. Sono intelligenti e ben educati: i fanciulli cominciano prestissimo ad
apprendere tutto sul mondo e su ogni specie di arti e scienze dalle raffigurazioni sulle mura. I Solari
incoraggiano le invenzioni scientifiche e queste vengono utilizzate al servizio della comunità per accrescere
il benessere generale. Godono buona salute e sono espertissimi di medicina. Inoltre sono virtuosi: in questa
città le virtù hanno prevalso sui vizi poiché i nomi dei suoi magistrati sono Liberalità, Magnanimità, Castità,
Fortezza, Giustizia, Solerzia, Verità, Beneficenza, Gratitudine, Misericordia, e via dicendo. Perciò non ci
sono tra i Solari "latrocini, né assassinii, né stupri né incesti, adultèri", né malignità o malevolenza di sorta.
Come ogni Utopia, la Città del Sole rivela chiaramente l'influenza della Repubblica platonica, in particolare
nei motivi comunistici. Ma la repubblica campanelliana è ripiena per ogni verso di astrologia e il suo intero
sistema di vita è volto al raggiungimento di un vantaggioso rapporto con le stelle. Certamente, il proposito di
formare una buona razza umana mediante la procreazione selettiva (una delle audaci innovazioni per cui
l'opera di Campanella è famosissima) non ha nulla a che fare con la genetica come noi l'intendiamo. E su
questo punto è difficile non essere d’accordo con le lucidissime annotazioni della Yates. Nel disegno di
Campanella si tratta infatti di scegliere il giusto momento astrologico per il concepimento e di accoppiare
maschi e femmine reciprocamente compatibili quanto a temperamento astrologico. Anche questo tema,
direttamente, può essere ricollegato alla trama mitica che regge tutta la rappresentazione utopia della Città
campanelliana. La generazione di esseri «puri» e sempre più perfetti mira infatti al ricongiungimento con
l'Essere primordiale e al raggiungimento del tempo mitico delle origini, nel quale l'uomo viveva in uno stato
di perfezione assoluta (precedente alla «caduta», elemento presente in quasi tutte le espressioni religiose
dell'umanità). Sotto questo aspetto risulta evidente il molteplice nesso magia-astrologia-mito e politica.

349
Potestà si occupa delle questioni militari, Sapienza delle scienze, Amore "ha cura delle generazioni, di far unire li maschi alle femmine in modo che faccino bona
razza" e si interessa anche dell'educazione e della medicina.
Ritornando alla famosa opera del Campanella, è chiaro che il grande sacerdote e i suoi assistenti, che
governano la Città del Sole, sono dei Magi, di bruniana memoria. Esattamente come aveva già avvertito la
Yates: «essi capiscono il mondo, sanno come "attirare la vita del cielo", per usare l'espressione di Ficino, a
beneficio dell'umanità. Campanella non descrive il modo in cui le stelle sono rappresentate nel tempio. Egli
accenna alle immagini delle stelle sulla cupola, in corrispondenza con i globi dell'altare sormontato da sette
lampade planetarie: perché non supporre che in esse figurassero immagini magiche dei trentasei decani dello
zodiaco? E la Città non era governata da una buona magia, in modo tale che i buoni influssi del cielo
prevalessero su quelli infausti?»350.
La comprensione delle rappresentazioni campanelliane, delle loro complesse significazioni e del loro senso
profondo, delle formazioni culturali e dell'immaginario religioso che le ispira, non può avvenire senza una
preliminare adozione di un punto di vista a mio giudizio originale (che d'altra parte avevo già adottato nel
caso di Bruno): un punto di vista che privilegia il soggettivo fantastico, l'analogico e l'imaginale.
Mentre per il caso di Giordano Bruno l'accento posto sull'elemento analogico doveva portare alla
delineazione dei principi fondamentali di una filosofia ben caratterizzabile come «binaria» (nel senso che ho
cercato di precisare nel precedente lavoro), nel caso di Campanella il tema dell'analogia finisce con il portare
l'attenzione del lettore sui meccanismi del profondo che ispirano la costellazione mitica e magica che guida il
pensiero campanelliano.
Anche nella Metaphysica, come abbiamo già visto, Campanella espone più per immagini analogiche che
per ragionamenti logici di tipo strettamente argomentativo. Nella Città del Sole questo procedimento risulta
evidente. Questo mi ha portato a pensare che per lo Stilese le immagini emergono da una sorta di forza
psichica primaria, e che per questo motivo, una volta emerse, sono più forti delle idee, più forti addirittura
delle esperienze reali. L'impressione globale che suscita una lettura empatica della Città del Sole corrisponde
infatti ad una sorta di vissuto reale. Chi legge la Città ha l'impressione di aver vissuto, di vivere realmente in
essa. Tramite l'espressione del pensiero di Campanella, il lettore si ritrova improvvisamente coinvolto in un
mondo di immagini fantastiche. L'immagine, così come viene utilizzata dal Campanella (ma anche così come
era utilizzata dal Bruno) restituisce al linguaggio la dimensione dell'inesprimibile. Ed è questo il senso
profondo dell'ermetismo dei due pensatori, confratelli d'ordine.
Probabilmente proprio per questo motivo, nella Metaphysica, Campanella aveva adottato un particolare
tipo di tecnica espositiva: l'immagine351, ed il suo profondo contenuto simbolico, ricreando una situazione a
metà strada tra il reale e l'immaginario, che esclude lo spettatore (il lettore) da qualsiasi possibilità di
intervenire attivamente come critico. È difficile rispondere per argomentazioni alle esposizioni
Campanelliane, perché l'ambiguità dell'analogia esclude un discorso esclusivamente logico-razionale. Poiché
il simbolismo analogico non è un processo concettuale che segue le rigorose leggi della logica, non si
possono applicare ad esso, sic et simpliciter, i nostri criteri di razionalità. Sappiamo che un simbolo non
comporta una significazione univoca: l'analogia rispecchia un significato che è, profondamente, polivalente.
Nel procedimento campanelliano un'immagine ne genera altre per somiglianza o contrasto (analogico), il che
la esclude nettamente dalla catena dei ragionamenti logici. Il simbolo suscita nel lettore un'emozione, lo
chiama verso un altro mondo, l'invisibile, lo sconosciuto. Ma la sua polisemia è al tempo stesso la sua
ricchezza, proprio perché contiene sempre diverse significazioni, e si presta a molteplici letture e riletture.
Certamente, in conseguenza della polivalenza del linguaggio mitico-simbolico campanelliano, si pone la
difficile questione della validità di una ermeneutica qualsiasi. Immagini e simboli non possono essere
affrontati come elementi isolati, ma all'interno di una rete globale di significazioni.
Da parte mia, credo che un buon metodo sia costituito proprio dall'empatia. Personalmente, mi sforzo di
adottare un procedimento di tipo intuitivo che tende a rendere coerente quello che pure, il più delle volte, è
solo allusivo ed equivoco. Tutta la difficoltà di questo procedimento, ed al tempo stesso la sua fecondità, si
trovano a mio giudizio nello studio delle corrispondenze, delle costanti, al di là delle differenze che, pur non
350
F.A. Yates, cit., pp. 397-399.
351
La questione della imaginatio nella metafisica del Campanella è stata brevemente ma esaustivamente affrontata da Nicola Badaloni in un non recente articolo
comparso nella Miscellanea di studi in occasione del 4° centenario della nascita di Tommaso Campanella, Deputazione si storia patria per la Calabria, "Tommaso
Campanella", Fausto Fiorentino Editore, Napoli, 1969, pp. 3-24. Anche il Badaloni, che avevamo già considerato quale attento studioso della metafisica bruniana, si è reso
naturalmente conto dell'importanza della magia, dell'ermetismo e quindi della parziale eterodossia nel pensiero di Campanella. A proposito della questione dell'imaginatio
(che per molti versi a mio parere richiama teorie bruniane esposte nel De magia, nel De vinculis e nel De umbris idearum) il Badaloni ha opportunamente sostenuto che in
Campanella «le influenze platoniche ed ermetiche sono [...] rilevantissime». La questione dell'imaginatio, oltre che in altre opere (come ad esempio nel De sensu rerum) -
acquisterà nello studio e nell'analisi della Città del Sole una notevole importanza. Per esempio, a proposito del tema del concepimento, già presente nel De sensu - e ripreso
poi nella Città del Sole - ha giustamente affermato il Badaloni: «la imaginatio ha una eccezionale importanza nel concepimento. L'intera questione del senso delle cose si
raccorda a questa problematica della immaginazione, in quanto appunto rimanda al livello metafisico della nostra struttura chiaramente riconoscibile in questa fase
genetica. Dalla particolare facilità della donna di trasferire nel feto le cose immaginate, o dalla magica attenzione cui l'atto del concepimento deve essere accompagnato per
generare buona prole, il Campanella ricaverà la sua convinzione che in una società razionalmente ordinata la eugenetica deve essere socialmente utilizzata e che l'averla
trascurata costituisce la base reale del peccato d'origine. Del resto Campanella ci dà anche una spiegazione fisiologica del passaggio della imaginatio nella corporeità che
ricalca ed accentua tutta la visione del problema». NICOLA BADALONI, La questione della «imaginatio» nella metafisica del Campanella, in "Tommaso Campanella",
Miscellanea di studi in occasione del 4° centenario della sua nascita, Fausto Fiorentino Editore, Napoli, 1969, p. 10.
essendo trascurabili, non impediscono l'accostamento non solo di determinati momenti dello sviluppo di un
pensiero, ma anche di autori diversi (come nel caso di Bruno e Campanella). Per questo bisogna intendere
l'analogia nella sua accezione più ampia, cioè non in quanto semplice rapporto funzionale (a sta a b come c
sta a d) ma in quanto rapporto di similitudini morfologiche. Il razionalismo deduttivo si basa
sull'oggettivazione (l'abbandono dei presupposti metafisici), condizione iniziale e necessaria per soddisfare i
criteri della logica razionale e della scienza così come noi la intendiamo. L'analogia ermetica sfugge a questi
criteri e promuove la produzione di immagini proiettate al tempo mitico delle origini, fornendo al tempo
stesso uno stimolo concreto (religioso e sociale) per il rinnovamento o progresso della società. E se
Campanella non può accettare una impostazione di razionalista, d'altra parte non può neppure rinunciare ad
un contenuto logico, propositivo, soprattutto in sede politica, fino a suscitare se non qualche perplessità
addirittura l'accusa di machiavellismo. Cassirer aveva d'altronde spiegato che l'arte, la religione, i miti o i
linguaggio sono anch'essi altrettante obiettivazioni costitutive di un reale tanto permanente, tanto vitale
quanto quello elaborato dalla scienza. Questo pensiero a-logico (che è maniera intuitiva di raffigurare,
propria del mito), secondo Cassirer si ritrova anche nelle forme più rigorose del nostro pensiero moderno, e
ci dischiude la comprensione dei concetti originali. Ai caratteri sui quali si fonda il razionalismo deduttivo
(l'oggettivazione, la concatenazione logica dei fatti, la generalizzazione), si oppongono altri caratteri propri
dell'analogia:
- il potere della sensazione soggettiva;
- l'induzione: la similitudine che unisce un simbolizzante visibile ad un senso invisibile;
- il fenomeno singolare che viene divinizzato senza che intervenga alcun concetto generico.
L'analogia non può certamente produrre delle prove. Del resto non lo pretende. Ma l'identità, invece, se
pure soddisfa le dimostrazioni, «non prova nient'altro che la verità di queste e non la verità in sè».
Credo, se ho ben inteso la posizione di E. Cassirer, che al di là delle diversità contraddittorie delle
produzioni mitologiche la funzione di formazione mitica presenta una reale omogeneità. Miti e simboli
hanno una coerenza che è loro propria, e che si basa più su una unità affettiva che su delle regole logiche, o
piuttosto la cui logica è situata su un'altra dimensione. Per questo i simboli ed i miti, il principio in sé di una
modalità simbolica, pongono necessariamente il problema così difficile dei tipi e delle forme, degli schemi e
delle strutture. Il mito, al di là delle sue immagini molteplici e movimentate, permette di intravedere dei tipi
di relazione costanti, altrimenti detti strutture. Nel pensiero di Campanella queste strutture riportano in
particolare al tema del rapporto del macrocosmo con il microcosmo, insomma della coincidentia
oppositorum: il Grande Insieme nel quale si fondono il diurno ed il notturno, l'alto e il basso, l'invisibile ed il
visibile, è in maniera simbolica l'Androgino primordiale, espressione al tempo stesso dell'Unità del Cosmo e
della dualità dell’Io. Il principio d'unità, di risoluzione dei contrari è mediato dalla funzione simbolica. Non a
caso la Città del Sole sembra corrispondere in tutto al paradiso terrestre. Queste immagini di un'unità
primaria hanno assunto spesso un'espressione sessuale sinonimo di innocenza o di virtù primaria: l'Età d'Oro
da riconquistare. Una sorta di dramma comune a tutte le religioni e a tutte le culture dell’umanità. I miti si
presentano infatti come trasposizioni drammaturgiche delle immagini e dei simboli, e i racconti e le favole
che ne risultano traducono la problematica di una condizione umana alla ricerca della sua identità e della sua
unità. Campanella risponde a questa esigenza con il tema dell’analogia, forse viziato da una certa vena a-
logica che ne permette la sopravvivenza in esposizioni anche propriamente metafisiche (Cfr., appunto, la
Metaphysica) e politiche.
Ora, per tornare al tema iniziale, vorrei elencare qualcuno degli elementi di cui parlavo prima, ovvero le
invarianti dei simboli, dei miti e degli archetipi contenuti nella Città del Sole. Un esempio evidente è
costituito dal simbolo del fuoco. Riferendosi ai riti di sepoltura dei Solari, il Frate di Stilo scrive: «Non si
atterrano li corpi morti, ma si bruggiano per levar la peste e per convertirsi in fuoco, cosa tanto nobile e viva,
che vien dal sole e a lui torna, e per non restar sospetto d'idolatria». Inoltre i Solari «Tengono due principi
fisici: il sole padre e la terra madre; e l'aere essere cielo impuro, e il fuoco venir dal sole, e 'l mar essere
sudore della terra liquefatta dal sole e unir l'aere con la terra, come il sangue lo spirito col corpo umano; e 'l
mondo essere animal grande e noi star intra lui, come i vermi nel nostro corpo* [*Aggiunta di Campanella:
Più diffussamente in mia Magia.]; e però noi appartenemo alla providenza di Dio, e non del mondo e delle
stelle, perché rispetto a loro siamo casuali; ma rispetto a Dio, di cui essi sono stromenti, siamo antevisti e
provisti; però a Dio solo avemo l'obligo di signore, di padre e di tutto». Inoltre, nel Tempio della Città «vi
sono sempre accese sette lampade nominate dalli sette pianeti». Già da questi elementi è facile ipotizzare che
il fuoco sia considerato nella sua fortissima valenza simbolica come uno dei centri vitali sui quali viene
costruita tutta la visione ierocratica campanelliana. Poiché la forza del fuoco è percepita come una potenza
magica, spetta in primo luogo agli stregoni ed ai maghi il compito di ammansirlo. Il fuoco rimanda poi
immediatamente al padre di ogni fuoco, che è il Sole. Come abbiamo già osservato, la Città del Sole è
eliocentrica in senso religioso e magico, essendo governata addirittura da un sacerdote-Sole. A questo punto
sarebbe anche lecito chiedersi di quale valenza sia l’eliocentrismo della Città: Campanella intende forse
ammettere un eliocentrismo di tipo astronomico (copernicano)? I giri di cui si parla prendono certamente il
nome dai pianeti, ma Campanella non si specifica se anche la Terra sia uno di essi, con il Sole al centro, o se
invece sia il Sole ad appartenere all'ordine planetario, con la Terra al suo centro. I Solari erano
probabilmente interessati a entrambe le teorie. Infatti «[I Solari] laudano Tolomeo, ed ammirano Copernico,
benché Aristarco, e Filolao prima di lui [come teorico dell'eliocentrismo] [...] Essi cercano assai sottilmente
questo negozio, perché importa a sapere la fabbrica del mondo, e se perirà e quando. Et credono esser vero
quel che disse Christo delli segni delle stelle et sole et luna, li quali alli stolti non paiono veri, ma gli venirà,
come ladro di notte, il fine delle cose. Onde aspettano le rinnovazione del secolo, e porsi il fine [...] Son
nemici d'Aristotile et l'appellano pedante». A parte l’immancabile stoccata anti-aristotelica, che cosa vuol
dire lo Stilese? Sebbene non completamente decisi circa il copernicanesimo, sembra che i Solari associassero
mentalmente senza soluzione di continuità la teoria astronomica ai “portenti”. Con la Yates possiamo
osservare che «siamo qui molto vicini all'atmosfera della Cena, in cui Bruno difende il copernicanesimo
contro la pedanteria aristotelica come un portento del sole nascente del ritorno all'egizianismo» 352. Ma
certamente «Il millenarismo dei Solari è diverso da quello di Bruno e ci sono alcune differenze»353. La Yates
si dice convinta che «la Città del Sole rappresenti qualcosa di simile alla riforma magica e ficiniana della
religione e della morale di cui Bruno previde l'imminente ritorno attraverso il copernicanesimo, visto come
un portento, come un segno nel sole»354.
Come ho cercato di mettere in rilievo, la descrizione della Città intera ha come riferimento una
ricostruzione mitica del mondo: «È la città distinta in sette gironi grandissimi, nominati dalli sette pianeti, e
s'entra dall'uno all'altro per quattro strade e per quattro porte, alli quattro angoli del mondo spettanti; ma sta
in modo che, se fosse espugnato il primo girone, bisogna più travaglio al secondo e poi più; talché sette fiate
bisogna espugnarla per vincerla. Ma io son di parere, che neanche il primo si può, tanto è grosso e terrapieno,
ed ha valguardi, torrioni, artelleria e fossati di fuora. Entrati dunque per la porta Tramontana, di ferro
coperta, fatta che s'alza e cala con bello ingegno, si vede un piano di cinquanta passi tra la muraglia prima e
l'altra. Appresso stanno palazzi tutti uniti per giro col muro, che puoi dir che tutti siano uno; e di sopra han li
rivellini sopra a colonne, come chiostri di frati, e di sotto non vi è introito, se non dalla parte concava dei
palazzi. Poi son le stanze belle con le fenestre al convesso ed al concavo, e son distinte con piccole mura tra
loro. Solo il muro convesso è grosso otto palmi, il concavo tre, li mezzani uno o poco più. Appresso poi
s'arriva al secondo piano, ch'è dui passi o tre manco, e si vedono le seconda mura con li rivellini in fuora e
passeggiatori; e dalla parte dentro, l'altro muro, che serra i palazzi in mezzo, ha il chiostro con le colonne di
sotto, e di sopra belle pitture. E così s'arriva fin al supremo e sempre per piani. Solo quando s'entran le porte,
che son doppie per le mura interiori ed esteriori, si ascende per gradi tali, che non si conosce, perché vanno
obliquamente, e son d'altura quasi invisibile distinte le scale. Nella sommità del monte vi è un gran piano ed
un gran tempio in mezzo, di stupendo artifizio.
Ospitalario. Dì, dì mo, per vita tua.
Genovese. Il tempio è tondo perfettamente, e non ha muraglia che lo circonda; ma sta situato sopra colonne
grosse e belle assai. La cupola grande ha in mezzo una cupoletta con uno spiraglio, che pende sopra l'altare,
ch'è un solo e sta nel mezzo del tempio. Girano le colonne trecento passi e più, e fuor delle colonne della
cupola vi sono per otto passi li chiostri con mura poco elevate sopra le sedie, che stan d'intorno al concavo
dell'esterior muro, benché in tutte le colonne interiori, che senza muro frapposto tengono il tempio insieme,
non manchino sedili portatili assai.
Sopra l'altare non vi è altro ch'un mappamondo assai grande, dove tutto il cielo è dipinto, ed un altro dove è
la terra. Poi sul cielo della cupola vi stanno tutte le stelle maggiori del cielo, notate coi nomi loro e virtù,
c'hanno sopra le cose terrene, con tre versi per una; ci son i poli e i circoli signati non del tutto, perché manca
il muro a basso, ma si vedono finiti in corrispondenza alli globbi dell'altare. Vi sono sempre accese sette
lampade nominate dalli sette pianeti.
Sopra il tempio vi stanno alcune celle nella cupoletta attorno, e molte altre grandi sopra li chiostri, e qui
abitano i religiosi, che son da quaranta, ecc.
Vi è sopra la cupola una banderola per mostrare i venti, e ne signano trentasei; e sanno quando spira ogni
vento che stagione porta. E qui sta anco un libro in lettere d'oro di cose importantissime».
352
F.A. Yates, cit., pp. 399-402
353
F.A. Yates, cit., pp. 399-402
354
F.A. Yates, cit., p. 402.
È facile ritrovare in queste righe i noti temi mitici della sacralità del monte, dell’altare, del numero sette.
Tutti convergono nell’attribuire alla Città una dimensione magico-ascensionale che si fonde a quella reale,
concreta. Si tratta di un luogo in cui si è realizzato l’incontro dell’umano col divino, e l’idea di ascensione e
trascendenza che la sua stessa costituzione spazio-temporale esprime si ricollega da una parte alla
dimensione della religione, ma dall’altra a quella del progresso e della tecnologia.
Descrivendo i gironi esterni Campanella racconta infatti : «Nel sesto, dentro vi sono tutte l'arti meccaniche,
e l'inventori loro, e li diversi modi, come s'usano in diverse regioni del mondo. Nel di fuori vi son tutti
l'inventori delle leggi e delle scienze e dell'armi. Trovai Moisè, Osiri, Giove, Mercurio, Macometto e altri
assai; e in luoco assai onorato era Giesù Cristo e li dodici Apostoli, che ne tengono gran conto, Cesare,
Alessandro, Pirro e tutti li Romani; onde io ammirato come sapeano quelle istorie, mi mostrâro che essi
teneano di tutte nazioni lingua, e che mandavano apposta per il mondo ambasciatori, e s'informavano del
bene e del male di tutti; e godeno assai in questo. Viddi che nella China le bombarde e le stampe fûro prima
che a noi. Ci son poi li màstri di queste cose; e li figliuoli, senza fastidio, giocando, si trovano saper tutte le
scienze istoricamente prima che abbian dieci anni».
Non può passare inosservato il riferimento all’antica sapienza egizia, della quale Osiride rappresenta la
divinità della scienza, mentre Trismegisto incarna la figura del profeta. I protagonisti del mito e della
religione vengono confusi con gli inventori e con gli scienziati, mentre i fanciulli imparano da queste tavole
della memoria senza fastidio. L’uso delle tavole della memoria ricorda direttamente il De umbris idearum di
Bruno, anche se il confronto diretto coinvolge forse più direttamente lo Spaccio. A questo proposito la Yates
aveva giustamente sostenuto che: «Si può fare un illuminante confronto fra l'esposizione bruniana della
riforma ermetica nello Spaccio e la Città del Sole. Anche nello Spaccio Cristo resta in cielo, venerato come
un mago. La riforma dei cieli è anch'essa centrata sul sole; le buone influenze planetarie, Venere, Giove e
Mercurio, si uniscono sotto Apollo per suscitare universalmente buona volontà. Nelle divinità che riformano
le costellazioni sussiste un benefico rapporto fra pianeti e zodiaco e le altre costellazioni del cielo, rapporto
simboleggiato nella Città del Sole da quello fra le immagini di stelle sulla cupola del tempio e l'altare con le
sue lampade planetarie. Nello Spaccio la virtù trionfa sul vizio allorché gli aspetti buoni delle influenze
astrali si impongono come virtù e gli aspetti cattivi, in quanto vizi, vengono scacciati. Così avviene nella
Città del Sole, dove gli abitanti vengono mantenuti virtuosi ed i vizi sono espulsi. Anche la natura della
riforma si configura, in entrambi i casi, come un orientamento dell'etica nel senso dell'utilità sociale.
Malgrado la forma letteraria estremamente diversa delle due opere c'è, fra di esse, una concordanza di fondo.
Si può ricordare anche che Bruno, in una delle sue conversazioni con il bibliotecario dell'abbazia di Saint-
Victor risulta aver usato l'espressione "Città del Sole" in riferimento a una città fantastica»355. Dunque,
prosegue la Yates, «La rivolta campanelliana per fondare la Città del Sole può essere [...] considerata non
completamente dissimile negli intenti dalla missione ermetica di Bruno. La produzione letteraria di
Campanella durante la sua lunga prigionia fu enorme e quest'opera immensa è ancora lungi dall'essere stata
coordinata o pubblicata interamente. Alcuni suoi manoscritti vennero portati in Germania, mentre
Campanella era ancora in prigione, dal suo discepolo tedesco Tobia Adami, e lì dati alle stampe. Fra questi
figura la prima versione latina della Civitas Solis, pubblicata a Francoforte nel 1623. Molte opere furono
pubblicate a Parigi durante l'ultimo periodo di Campanella [...]; la loro tarda pubblicazione - suggerisce la
Yates - non sta ad indicare una fase finale dello sviluppo del pensiero campanelliano poiché egli scrisse poco
di nuovo in Francia; semplicemente egli dava alle stampe le opere composte in prigionia. Altri suoi lavori
hanno cominciato a vedere la luce in anni recenti: per esempio l'enorme Theologia, in molti volumi, scritta in
prigione e per la cui pubblicazione non venne mai concessa l'autorizzazione al tempo di Campanella, appare
solo in questi anni. [...] Queste singolari circostanze implicano l'impossibilità di seguire le variazioni del
pensiero campanelliano nel modo più comune, cioè in base all'ordine cronologico delle sue pubblicazioni 356.
Un'altra, e ancor più seria, difficoltà è che Campanella rivide e ristrutturò le sue opere nello sforzo di
ottenere riconoscimenti di ortodossia da una parte o dall'altra, modificando le sue primitive e più
estremistiche opinioni. Per esempio, la terza versione della Civitas Solis, pubblicata in Francia nel 1637, fu
un adattamento della Città del Sole in vista delle ambizioni di Richelieu nei riguardi della monarchia
francese. Tutto ciò fa di Campanella un autore difficile da studiare, benché il suo vero pensiero sia in effetti
meno difficile e meno sottile di quello bruniano. Solo un autore, dei molti che hanno scritto su Campanella,

355
F.A. Yates, cit., p. 403. Ricorda la Yates: «Che Bruno fosse affascinato da queste magiche città del sole è indicato da un'annotazione contenuta nel prezioso diario del
bibliotecario dell'abbazia di Saint-Victor, il quale riferisce che "Jordanus m'a dit qu'il ne sçavoit rien de la ville bastie par le duc de Florence, où on parleroit latin, mais que
il a ouy dire que ledict duc vouloit bastir une Civitas Solis, a sçavoir où le soleil luiroit tous le jours de l'an, comme sont plusieurs citez ainsy renommées, entre autres,
Rome et Rhodes"», F.A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, cit., p. 256.
356
Si tratta di un'affermazione della massima importanza, che dovrà essere tenuta in ferma considerazione soprattutto nella analisi di tutte quelle impostazioni critiche che
hanno sottolineato una presunta frattura o conversione nel pensiero dello Stilese dopo il 1603.
ha messo in evidenza l'importanza dell'utilizzazione campanelliana della magia di Ficino: si tratta di D. P.
Walker»357. Infatti, commenta la Yates, «Nella Metaphysica, pubblicata per la prima volta a Parigi nel 1638
ma alla quale egli aveva probabilmente lavorato per quasi tutta la vita, Campanella dà un sommario completo
della magia di Ficino in una minuziosa analisi del De vita coelitus comparanda che può essere usata con
vantaggio dagli studiosi moderni di quella difficile opera; egli fa riferimento anche a molte altre sue opere in
cui ha esposto la magia ficiniana, "quali odori, sapori, colori, temperatura, aria, acqua, vino, abiti,
conversazioni, musica, cielo e stelle debbano venire usati per infondere lo Spirito del mondo". Questa
esposizione della teoria e della pratica magica di Ficino è preceduta da succinte esposizioni delle teorie di
Giambico, Porfirio e Proclo sulla magia, e soprattutto da una trattazione completa della magia degli
Hermetica. Campanella cita qui il passo dell'Asclepius sulla religione egiziana e sui processi magici
mediante i quali i demoni celesti venivano introdotti negli idoli. Egli dice anche che Ermete Trismegisto
"insegnò come vedere nei cieli le forme delle cose, come in sigilli"; egli si riferisce ovviamente alle
immagini astrologiche e menziona nello stesso passo le immagini dei trentasei decani 358. Quando introduce la
sua esposizione della magia di Ficino, Campanella afferma che "tutta questa dottrina" è derivata da Ermete
Trismegisto»359.
Dopo questa lunga, ma davvero illuminante citazione, credo sia difficile non considerare l’importanza
dell’ermetismo ficiniano nel pensiero di Tommaso Campanella 360.
Il fatto poi che Campanella auspicasse una riforma magica, ma cristiana, che rimanesse cioè in seno alla
Chiesa, costituisce a mio parere un elemento di notevolissimo interesse. Se è vero che il frate di Stilo non
voleva affatto superare il cristianesimo nel recupero dell'antica religione magica egizia (come invece aveva
preteso il più radicale Giordano Bruno), e se sono in maggior parte autentiche e sincere, e non il frutto di una
ragionata e fredda simulazione, tutte le confessioni di ortodossia che il Nostro espose a sua difesa dopo il
1603, allora l'ermetismo campanelliano potrebbe evidenziare una sua originalità, soprattutto nei confronti
dell'ermetismo radicale di un Giordano Bruno o dell'ermetismo «d'importazione», non completamente
sposato nelle sue conseguenze più radicali, di un Marsilio Ficino.
Non si tratterebbe più di una fase deistica o panteistica del pensiero dello Stilese, seguita da una sincera e
matura conversione, come molti critici hanno voluto sostenere (non tenendo in nessun conto l’ovvia
osservazione della Yates: le singolari circostanze che si manifestarono durante tutto il corso della produzione
filosofica campanelliana implicano l'impossibilità di seguire le variazioni del suo pensiero nel modo più
comune, cioè in base all'ordine cronologico delle sue pubblicazioni. «Un'altra, e ancor più seria, difficoltà -
sosteneva come abbiamo visto la Yates - è che Campanella rivide e ristrutturò le sue opere nello sforzo di
ottenere riconoscimenti di ortodossia da una parte o dall'altra, modificando le sue primitive e più
estremistiche opinioni»). Di fatto il Campanella, come è stato da molti notato, mantenne la convinzione nei
poteri della magia e dell'astrologia fino alla fine dei suoi giorni. L'ultima opera del Nostro è appunto il
357
F.A. Yates, cit., pp. 403-404.
358
A questo proposito, mi sembra evidente il legame con il De umbris idearum di Giordano Bruno.
359
«Walker - ricorda la Yates - interpreta ciò nel senso che "la magia astrologica di Ficino consiste nello stesso tipo di operazioni di quelle descritte nell'Asclepius, dove
l'idolo diventa o un talismano o un essere umano (l'operatore)". È quindi indubbio che Campanella conosceva assai a fondo la magia ficiniana ed era altresì perfettamente
consapevole della sua derivazione da Ermete Trismegisto. Sappiamo [... anche noi abbiamo avuto l’occasione di consultare importanti conferme a questo proposito (Cfr. G.
SPINI, Galileo, Campanella e il «Divinus Poeta», Universale paperbacks, il Mulino, Bologna, 1996.) ] che Campanella praticò di fatto questa magia a Roma nel 1628 e per
papa Urbano VIII, spaventato da alcune eclissi che i suoi avversari (in particolare quelli spagnoli, poiché questo papa era antispagnolo) avevano profetizzato come causa
della sua morte. Campanella compì insieme a lui operazioni magiche per scacciare il maligno. Essi sigillarono una stanza in modo che non vi entrasse aria esterna, la
tappezzarono di bianchi parati e vi bruciarono certe erbe. Vennero accese due lampade (luminaria) e cinque torce, rappresentanti i pianeti, e fu fatta un'imitazione
approssimativa dei segni dello zodiaco, "poiché si tratta di un procedimento filosofico, non superstizioso come pensa il volgo". Vennero eseguite musiche attinenti a Giove
e Venere, furono usate pietre, piante e colori connessi ai pianeti buoni e i due bevvero liquori distillati astrologicamente. Tale procedimento è descritto da Campanella in
un'appendice agli Astrologica. Egli praticò lo stesso tipo di magia anche immediatamente prima di morire. Temendo che una eclissi del 1639 gli sarebbe stata fatale, egli
mise in atto, a suo proprio beneficio, nella cella del convento domenicano di rue Saint-Honoré dove abitava, i procedimenti descritti negli Astrologica. Questa magia, come
é stato messo in evidenza da Walker, mirava a creare artificialmente cieli favorevoli come sostituti dei cieli reali che andavano deteriorandosi nell'eclissi. Essa veniva
esercitata privatamente e per singoli individui. Ma se fosse esistito uno stato organizzato in cui la casta sacerdotale, a conoscenza di questo tipo di magia , l'avesse
continuamente praticata, quello stato sarebbe andato perennemente esente da tutti i maligni influssi celesti, sia sul piano fisico che su quello morale. Questo era ciò che
sapevano mettere in pratica gli Egiziani pseudoermetici nella loro religione naturale, secondo la descrizione dell'Asclepius. Uno stato ideale di questo tipo fu la città di
Adocentyn costruita da Ermete Trismegisto, e come viene descritta nel Picatrix, con il suo faro che irradia perpetuamente i colori planetari e le immagini celesti attorno al
suo perimetro. E di questo tipo [ - conclude giustamente Frances A. Yates -] era la ideale Città del Sole di Campanella, con il suo altare solare e le sette lampade planetarie
in corrispondenza con le immagini della cupola, un altare servito in perpetuo da una casta di sacerdoti che erano al tempo stesso Magi sperimentati. Campanella deve aver
sperato che Urbano VIII, con il suo interesse per l'astrologia, potesse indursi ad adottare la riforma magica nell'ambito del papato, che ai suoi occhi costituiva sempre il
centro migliore e più appropriato. Egli sperò altresì certamente, durante il suo ultimo trionfale periodo parigino, che Richelieu si interessasse alla riforma in relazione alla
monarchia francese. Nella dedica a Richelieu del De sensu rerum et magia (edizione parigina del 1637), Campanella rivolge al grande cardinale l'ardente richiesta di
costruire la Città del Sole. L'edizione parigina della Civitas Solis (1637) - ricorda la Yates - presenta una versione riveduta in senso leggermente più ortodosso: Maometto è
lasciato da parte; Cristo e gli apostoli sono collocati più in alto e Aristotele viene chiamato logico, invece che pedante. Ma un'altra variante è che i Solari vengono descritti
come di fatto dediti a pratiche magiche. Come era possibile a Campanella credere che la riforma magica potesse avvenire entro un contesto cattolico? Una via era quella
offerta dalla continuità delle stelle con la gerarchia angelica pseudo-dionisiana e in ciò Campanella si mostrava ancora una volta diretto discendente di Ficino ». F.A. Yates,
cit., pp. 404-406.
360
A questo proposito sembra necessario aprire una ulteriore parentesi. La Yates, nel capitolo su " Lo Pseudo-Dionigi e la teologia di un mago cristiano" aveva mostrato
come, nel pensiero di Ficino, le gerarchie angeliche trasmettano verso il basso le influenze divine «quasi in guisa astrologica, e come queste passino nelle influenze celesti,
dimodoché sussiste una continuità dall'alto verso il basso e viceversa, e il culto delle stelle conduce nel mondo angelico» (F.A. Yates, cit., p. 406). E, prosegue la Studiosa
inglese, «poiché le gerarchie angeliche rappresentano la Trinità, fu san Dionigi, il platonico cristiano, a contribuire massimamente alla cristianizzazione ficiniana del suo
cosiddetto "neoplatonismo", con il relativo nucleo di magia ermetica».
resoconto di un attento esame astrologico e di un conseguente oroscopo 361. La fede nell'influenza degli astri e
nella magia non ha dunque mai abbandonato il pensatore di Stilo. Ciò nonostante Campanella non rigettò
mai apertamente e definitivamente il Cristianesimo, come aveva fatto, con sprezzante ironia (si pensi a Lo
spaccio de la bestia trionfante...) un mago filosofo come Giordano Bruno. Al contrario, la maggior parte
delle opere campanelliane ha come oggetto proprio il ragionamento sulla fede, contro i Protestanti, i
Musulmani, gli Ebrei, in una parola, i non credenti. Campanella non risparmia però critiche alla Chiesa
stessa, quando essa non vuole o non riesce a far sentire la propria voce contro quelli che lui stesso definisce i
«soprùsi». Insomma, quello che a me sembra chiaro è che lo Stilese sentiva profondamente la crisi del suo
tempo, cresciuta e solidificatasi all'ombra della Riforma (... e della Controriforma!). L'unico elemento che -
fino in fondo - accomuna Campanella a Bruno sembra dunque ridursi alla fede nella magia per ottenere la
renovatio mundi.
D.P. Walker aveva posto in evidenza che la magia campanelliana si connette con gli angeli; e non v'è
dubbio che questi angeli fossero in realtà le gerarchie pseudo-dionisiane poiché nella Metaphysica,
immediatamente prima della sua esposizione di Ermete Trismegisto e della magia di Ficino, Campanella
dedica una lunga parte alle gerarchie angeliche, illustrando minuziosamente le loro diverse funzioni in una
maniera che ricorda fortemente Ficino. Persino nella prima versione della Città del Sole, - come osserva
anche la Yates - la continuità del mondo celeste con quella angelico viene affermata con chiarezza, poiché
sulle colonne della porta del tempio figura una descrizione della scala degli esseri362. Ivi è scritto, o forse
espresso con immagini, "che cosa è Dio, che cosa è angelo, che cosa è mondo, stella, uomo". Ciò rende
perfettamente chiaro ai fedeli che essi si avviano in definitiva ad accostarsi agli angeli e a Dio attraverso le
stelle363. Anche in questo caso è del tutto evidente il parallelismo con la scala naturae del Nolano. Ma
l’ermetica scala naturae compare anche in altre opere, ed è facile ipotizzare che l'ermetismo religioso abbia
un ruolo molto importante nella teologia di Campanella. Nel De sancta monotriade lo Stilese afferma che
Trismegisto; il quale fu re in Egitto, parlò di quasi tutti i misteri cristiani. Egli sapeva che Dio è una Trinità;
che egli ha creato il mondo attraverso il Verbo esclamando: Germinate et pullulate omnia opera mea, così
come Dio nella Genesi dice: Crescite et multiplicamini. «Campanella - rileva la Yates - cita dal Pimander
nella traduzione di Ficino, facendo il parallelo con Mosè così come Ficino aveva fatto nel suo argumentum.
Questo solo esempio sarà sufficiente a mostrare la profondità dell'ermetismo religioso di Campanella e come
per lui, alla pari di Ficino, la pietà di Trismegisto e la sua prescienza di alcuni misteri cristiani facciano di
costui quasi un cristiano e diano autorità alla sua magia. In una pagina precedente della medesima opera,
Campanella fa alcune osservazioni molto significative. Tommaso d'Aquino, egli dice, insegna che non
possiamo conoscere in alcun modo naturale la Trinità, che non è riflessa nelle creature. Ma san Tommaso
"non aveva letto né i platonici né Trismegisto, le cui opere ai suoi tempi non erano state tradotte in latino" 364.
Se ne deduce - prosegue la Yates - che la teologia tomistica necessita di una revisione alla luce dei platonici
e di Trismegisto. Ed è [...] proprio questo il compito che Campanella intraprende in prigione, servendosi
della sua preparazione teologica domenicana per produrre una Summa theologica riveduta e utilizzando la
nuova luce proveniente dagli scritti dei platonici e di Trismegisto per elaborare una teologia più "naturale"
della Trinità, una più "naturale" cristologia e una più "naturale" concezione dei sacramenti in cui la grazia sia
una specie di magia divina, derivante per via naturale dalla magia naturalis. La filosofia connessa a questa
nuova teologia non sarà più, ovviamente, l'aristotelismo scolastico, ma la filosofia animistica del
Rinascimento con la sua interpretazione magica della natura»365.
Il molteplice nesso di tutti i nuclei fondamentali del pensiero campanelliano, e la loro profonda armonia,
dovrebbe a questo punto risultare evidente. Campanella insegna nelle sue opere che il mondo è vivo e capace
di sensazioni, ed a questo animismo o panpsichismo egli collegò la sua magia, la sua religione e addirittura la
sua visione politica.
I manuali di storia della filosofia insegnano che le due principali influenze subite da Campanella furono la
filosofia animistica di Telesio, con la sua insistenza sul conflitto tra caldo e freddo come principio
fondamentale, e l'organizzazione della magia in scienza ad opera di Giovanni Battista Porta. È certamente
vero che Campanella fu profondamente influenzato da questi due pensatori dell'Italia Meridionale, suoi
contemporanei. Ma occorre ricordare a questo proposito due citazioni che indicano come lo stesso
361
Nel gennaio del 1639 veniva stampata l'ultima opera campanelliana: l'Ecloga latina, scritta in occasione della nscita del futuro Luigi XIV. In questa composizione
poetica, come ha giustamente notata Germana Ernst, «al motivo astrologico si salda strettamente quello profetico». L'Ecloga stessa «si viene così a configurare come la
traduzione poetica di un vero e proprio oroscopo». (Germana Ernst, Religione, Ragione e Natura, cit., p. 19).
362
Ricordo a questo proposito la già discussa scala naturae (L'infinito in Bruno....)
363
F.A. Yates, cit., pp. 406-407.
364
T. Campanella, De sancta monotriade (Theologia, Liber II), p. 12.
365
F.A. Yates, cit., p. 409.
Campanella considerasse queste influenze secondarie e, in ultima analisi, derivate, rispetto alla fondamentale
influenza dell'ermetismo. Nel primo libro della Theologia, per esempio, Campanella parla in questi termini
del mondo vivente:
«[...] docet Virgilius, Lucanus et poetae omnes, et Platonici mundum esse animal, quod Trismegistus
apprime docet [...]. Propterea contendit Trismegistus non esse mortem, sed transmutationem, quam vocat
manifestationem et occultationem. Nos quoque asserimus non esse mortem, nisi detur annihilatio caloris et
frigoris et sensu illorum».
Addirittura, a volte si ha quasi l'impressione di poter cogliere qualche eco delle espressioni di Bruno, come,
per esempio, nel seguente passo del Del senso delle cose:
«Ecco che quando l'uomo va cogitando, pensa sopra il sole e poi più di sopra, e poi fuor del cielo, e poi più
mondi infinitamente. Dunque di qualche infinita causa ella [la razza umana] è effetto. Dice Aristotile ch'è
vana imaginazione pensar tanto alto; e io dico con Trismegisto ch'é bestialità pensar tanto basso; et è
necessario ch'egli mi dica d'onde avviene questa infinita. Se si risponde che da un simile mondo un altro
simile si pensa, e poi un altro, poi in infinito, io soggiongo che questo caminare di simile in simile senza fine,
è atto di cosa partecipe dell'infinito»»»»».
In queste parole - come aveva osservato anche la Yates - c'è qualcosa di molto simile - al proiettarsi
bruniano al di là dei confini del mondo in un'infinità cosparsa di altri innumerevoli mondi. Il potere di far
ciò, proprio della mente dell'uomo, mostra che essa è affine all'infinito. A Campanella questi pensieri di
bruniana memoria richiamano "Trismegisto", che egli contrappone all'ottuso Aristotele, proprio come aveva
fatto in più riprese il Nolano366. Sembra quasi di poter confrontare direttamente l’ironia bruniana con
l’aggressività campanelliana nei confronti della pedanteria aristotelica.
In ogni caso, anche se Campanella si muove sul piano della filosofia naturale, in una direzione molto simile
a quella di Bruno, è doveroso fare attenzione alle reciproche differenze. In primo luogo Campanella non
approva, in ultima analisi, la dottrina ermetica della metempsicosi, accettata invece da Bruno. Anche se la
Yates suppone che il Del senso delle cose, come noi lo leggiamo, possa essere una versione modificata delle
sue primitive opinioni367, io credo invece che su questo punto Campanella sia sempre stato coerente. Molti
passi delle sue opere dovrebbero confermare in ultima analisi questa credenza. A che scopo, infatti, spiegare
in modo così dettagliato i riti funebri dei Solari (che, come abbiamo visto, adottavano la cremazione)?
Evidentemente Campanella non credeva completamente nella metempsicosi, altrimenti non avrebbe ritenuto
necessario insistere sulla purificazione dei corpi mediante il fuoco. La matempsicosi sembra rappresentare
un’eccezione. Un passo della Città del Sole dovrebbe confermare questa ipotesi : gli abitanti della Città,
infatti, «Non temono la morte, perché tutti credono l'immortalità dell'anima, e che, morendo,
s'accompagnano con li spiriti buoni o rei, secondo li meriti. Benché essi siano stati Bragmani pittagorici, non
credono trasmigrazione d'anima, se non per qualche giudizio di Dio».
La Yates arriva addirittura a supporre che «se potessimo conoscere le sue prime posizioni in forma non
espurgata, è probabile che la rassomiglianza di Campanella con Bruno diventerebbe ancora più stretta e che
il vero scopo di Campanella agli inizi e nel periodo della rivolta risulterebbe essere stato la riforma
"egiziana" integrale di tipo bruniano, basata sull'impiego delle forme più estreme di magia demonica. Come
è stato posto in rilievo da Walker, nei primi tempi di prigionia Campanella usava forme di magia molto
rischiose. Nel Quod reminiscentur egli sembra esprimere pentimento per i suoi antichi tentativi nel campo
della magia demonica»368. Personalmente non credo che Campanella sia mai stato un mago radicale come
Bruno, se non durante qualche sporadico episodio. Questo non è sufficiente a ipotizzare una successiva
conversione, più o meno profonda, come molti autori credono di poter indicare dopo l’anno 1603. Inoltre, sta
di fatto che l'unica opera in cui Campanella menziona espressamente Bruno per nome concerne il tema di cui
Bruno aveva fatto notoriamente uso, vale a dire l'eliocentrismo copernicano. Come sappiamo, nel 1622
Campanella pubblicò un'apologia di Galileo e in essa, mentre parla di altri che hanno difeso l'eliocentrismo
copernicano e il movimento della terra, egli ricorda Bruno come uno di questi difensori, aggiungendo che era
eretico. "Nolanus, & alii, quos heresis nominare non permittit". Per di più, oltre a non fare mai riferimento in
modo esplicito alla magia del Nolano, Campanella fa ben attenzione a dissociarsi anche dalle ultime
implicazioni del copernicanesimo bruniano. Inoltre, di fronte al pericolo del rogo si mostra meno radicale di
Bruno (dunque assai meno convinto della immortalità della vita, nel senso della metempsicosi...).
Campanella non esita infatti a simulare la pazzia, a ritoccare costantemente le sue opere, pur di evitare la fine
di Bruno. Sia nell'apologia che in lettere a Galileo, Campanella parla dell'eliocentrismo solo nel senso di un
366
F.A. Yates, cit., pp. 412-413.
367
F.A. Yates, cit., p. 413.
368
F.A. Yates, cit., p. 413.
ritorno all'antica verità e come di un preannuncio di un'età nuova, usando un linguaggio che ricorda
fortemente quello di Bruno ne La cena de le ceneri, ma attribuendo all’eliocentrismo un significato
simbolico e non reale. «Queste novità di verità antiche di novi mondi, nove stelle, novi sistemi [...] son
principio di secol novo»»», scrive Campanella in una lettera a Galileo del 1632. In altre lettere, poi, egli
assicura a Galileo di stare elaborando una nuova teologia che gli renderà giustizia. Era perciò necessario
chiarire che l'eliocentrismo inteso come un preannuncio dell'età nuova e integrato in una nuova teologia non
significava per Campanella, in questo stadio della sua vita, accettazione di tutte le eresie di Bruno369. Ma
probabilmente nemmeno in segreto Campanella raggiunse mai la profondità dell’ermetismo bruniano,
avendo come scopo la fondazione di una nuova religione, che in qualche modo conservasse qualcosa del
cristianesimo e dell’ermetismo e che portasse alla renovatio.
Dunque, proseguendo questo breve confronto, siamo d’accordo con la Yates e con la sua ricostruzione,
soprattutto quando sostiene che è necessario vedere Bruno e Campanella nell'ambito della tradizione
ermetica, anche se in sostanza siamo convinti che Campanella sia stato sempre meno radicale di Bruno e che
non sia stato soggetto a particolari conversioni. Secondo la Yates «Ficino risuscita la magia ermetica, la
difende come compatibile col Cristianesimo, cerca di coinvolgere Tommaso d'Aquino nel suo uso di
talismani. Pico della Mirandola pensa che magia e cabala confermino la divinità di Cristo. Papa Alessandro
VI fa dipingere in Vaticano un affresco pieno di motivi egiziani per testimoniare la sua protezione della
magia. Il fatto è che Ermete Trismegisto era stato accolto nella Chiesa da Lattanzio e questa operazione di
grande portata storica, mai accettata universalmente, sempre soggetta a severe critiche da parte degli
ortodossi, condusse alla fine a Giordano Bruno e a Tommaso Campanella. La pubblicazione del libro di Del
Rio contro la magia nel l600 (ecco di nuovo quell'importante anno l600) rivela l'allarme della Controriforma
e la sua consapevolezza del pericolo. Tuttavia - sostiene la Yates - Ermete Trismegisto si era troppo
profondamente infiltrato nella religione del Rinascimento per esserne facilmente scacciato, come mostra il
caso di Campanella»370. Si può, credo, concordare con queste affermazioni ed inserire nella giusta misura
anche il Frate di Stilo in quel più vasto movimento culturale-religioso che è l'ermetismo rinascimentale. Se è
vero che la letteratura ermetica è stata in gran parte "importata" dal Ficino, è altrettanto vero che Bruno e
Campanella sono stati, in modo diverso, i due esponenti più significativi del movimento di rinnovamento che
ne derivò. Ficino è ancora convinto che la vera religione, cioè il cristianesimo, e la vera filosofia, il
platonismo, sono fondamentalmente in accordo e le tratta sostanzialmente alla pari, come sorelle, anziché
come l'una subordinata all'altra. P.O. Kristeller aveva osservato che «Egli ritiene compito della ragione
platonica confermare e sostenere la fede e l'autorità cristiana e arriva a considerare come sua missione [...]
far rinascere la vera filosofia a vantaggio della vera religione. Infatti quanti non vogliono essere condotti
dalla sola fede possono essere guidati alla verità solo dalla ragione e dalla più perfetta filosofia. Alla luce di
questo rapporto la continuità della tradizione platonica assume per il Ficino un nuovo significato. Poiché si
pensa che questa tradizione risalga a Ermete e Zoroastro, essa è altrettanto antica della tradizione religiosa
degli ebrei, cosicché la tradizione religiosa degli ebrei e dei cristiani e la tradizione filosofica degli ermetici e
dei platonici corrono parallele nella storia umana» 371. È facile notare che non è possibile attribuire a Ficino
un ruolo attivo nello svolgimento dei temi ermetici alla stregua di Bruno o Campanella. Ficino non aspirava
a nessuna rivoluzione universale, specie se armata (come nel caso di Campanella): al massimo tendeva alla
rinascita della filosofia platonica, in collegamento con la nuova visione antropologica dell'umanesimo
italiano. A lui si deve certo un primo fecondo assorbimento ed una certa rielaborazione di alcune tematiche,
come quella dell'ascensus (più in senso plotiniano) e dell'amor, ma non certo l'espressione più alta dell'ansia
di rinnovamento e di ritorno alle origini che invece avevano colpito, in modo diverso, Bruno e Campanella. I
due domenicani, poeti entrambi, vanno invece confrontati per il loro naturalismo e per il loro culto religioso
del mondo come grande animale vivente o libro vivo di Dio. Entrambi sono poeti, ed entrambi utilizzano la
369
A questo proposito cfr. F.A. Yates, cit., pp. 413-414. Accettabile è invece la tesi della Yates secondo la quale «Tutto concorda nel mostrare che Campanella modificò
le sue primitive opinioni estremistiche, o perché egli si pentì realmente di essersi spinto tanto oltre, oppure perché, dopo il fallimento della rivolta, egli si rese conto
dell'impossibilità di tradurle in pratica. La Theologia venne da lui scritta come copertura di un ermetismo modificato che accettava l'interpretazione cristiana degli
Hermetica - secondo lo schema delle più ortodosse tradizioni di ermetismo religioso - ed usava forme di magia meno inquietanti sulla via della "magia divina". In Magia e
grazia Campanella mette in guardia contro l'errore di Agrippa consistente nel conservare la magia di tipo diabolico, mentre dei tre modi indicati da Ficino per ottenere la
vita divina egli dice che, sebbene difficile da tradurre in pratica, non sono eretici come alcuni dicono. La summa campanelliana - prosegue la Yates - venne pertanto
elaborata per coprire forme di "egizianismo" meno estreme di quella di Bruno, che non si fece scrupolo di ricorrere alla più demonica magia di Agrippa, e persino a quella
di Cecco d'Ascoli di pericolosa memoria. Sarebbe stato di gran lunga più arduo produrre una summa per coprire la magia di Bruno e il suo ermetismo, che respingeva
l'interpretazione cristiana degli Hermetica. Eppure Bruno pensò persino a questa possibilità, altrimenti, per quale ragione si sarebbe rivolto a papa Clemente VIII e avrebbe
cercato di andare a Roma? Forse egli sperava di fare magia per il papa, così come Campanella avrebbe fatto in seguito per Urbano VIII. La fiducia di Bruno nella
possibilità di adattare le sue opinioni al tomismo è indicata dalle sue continue espressioni di rispetto per Tommaso , da lui riverito come un mago. Benché Bruno gettasse
l'abito domenicano e vagasse in eretiche terre straniere, cose che Campanella mai fece, il teologo domenicano affiora sempre in lui, nella sua venerazione per Tommaso ed
Alberto. Gli sforzi di Campanella per rendere la riforma magica teologicamente accettabile ci mostrano che la missione di Bruno, per quei tempi, non era del tutto così
follemente azzardata come sembra a noi» (F.A. Yates, cit., pp. 414-415).
370
F.A. Yates, cit., p. 415.
371
P.O. Kristeller, Otto pensatori del Rinascimento italiano, Ricciardi, Milano, 1975, pp. 55-56.
poesia per esprimere il loro culto religioso del mondo. Si deve ricordare che in molte delle poesie
campanelliane riemergono motivi presenti nelle opere di Bruno. Campanella pubblicò una serie di sonetti ed
altre poesie inframmezzati da commenti in prosa, sull'esempio degli Eroici furori. Parte della "Cantica"
campanelliana, come egli la chiamò (... e lo stesso, si badi, aveva fatto Bruno con gli Eroici furori), venne
pubblicata in Germania nel 1622 sotto lo pseudonimo di "Settimontano Squilla", con probabile allusione alle
sette protuberanze della testa di Campanella, rappresentanti i sette pianeti; il resto è purtroppo andato
perduto. Queste poesie con i relativi commenti sono strettamente collegate in alcuni dei loro temi agli Eroici
furori, senza tuttavia la ricchezza immaginativa così caratteristica di Bruno 372. Anche a questo proposito le
acute osservazioni della Yates appaiono sostanzialmente fondate 373 ed in generale credo sia ingiusto non
tenerle in giusta considerazione. Naturalmente, Bruno e Campanella sono accomunati anche dall’uso del
principale strumento del mago rinascimentale, l'ars memoriae. La forma principale della magia bruniana si
sviluppa dall'adattamento del tema ermetico della riflessione del mondo nella mente alle tecniche della
mnemonica classica fino a Marsilio Ficino. Nel De umbris idearum Bruno presentava un sistema mnemonico
del mondo basato su immagini magiche. Anche Campanella doveva conoscere bene questa tradizione: nella
Monarchia di Spagna lo Stilese raccomanda infatti la preparazione di una carta delle costellazioni, con i
principi della Casa d'Austria collocati nei cieli, che dovrà servire anche per imparare la "memoria locale".
Egli consiglia al monarca di «chiamar tutte le gran savie teste di Germania con premij, per mandarle al
Mondo Nuovo, dove abbino da descrivere tutte le figure di stelle nuove che sono sotto al polo antartico, sino
al tropico di Capricorno, e figurar nel Polo la santa croce, e nel punto metter le figure di Carlo V, altre d'altri
signori austriaci, come han fatto i Greci e gli Egizi delli loro principi ed eroi; collocandovi le loro effigie;
perché così s'impara l'astrologia insieme con la memoria locale». Scritte nel periodo della simpatia di
Campanella per la monarchia spagnola, queste parole suonano come istruzioni per costruire un mappamondo
che fosse strumento di magia per la Casa d'Austria mediante la collocazione dei suoi principi nei cieli;
contemporaneamente esso si presenta evidentemente come un sistema mnemonico. È dunque ancora una
volta facile notare come tutti gli elementi siano sempre e costantemente interconnessi tra loro : la
mnemotecnica si collega alla magia, la magia ai temi del mito e dell’ermetismo rinascimentale, questi
all’ansia per la renovatio, questa, in modo profondo, alla politica (sia teorica che pratica). La teoria della
monarchia universale prima applicata alla Spagna, poi alla Francia, costituisce un esempio notevole di questa
profonda preoccupazione e dei tentativi del filosofo di Stilo di conquistarsi la fiducia dei sovrani per
raggiungere i suoi scopi.
Naturalmente, come ha del resto ricordato anche Anton Truyol y Serra, «la teoria della monarchia
universale pontificia non poteva non implicare importanti conseguenze nell'ambito giuridico-
internazionale»374. Campanella fu un acuto interprete della realtà politica del suo tempo, come del resto
372
Campanella - sostiene la Yates - non faceva deliberatamente ricorso all'immaginazione. Eppure nell'Epilogo Magno, dove Campanella parla del mondo come statua di
Dio e dice che la vera filosofia consiste nel cercare le vestigia del divino nella natura allo stesso modo in cui un innamorato contempla l'immagine dell'amata, egli introduce
quel tema che, sviluppato da Bruno in termini petrarcheschi e con la sua mirabile simbologia atteoniana, diventa gli Eroici furori: il culto ermetico del mondo espresso in
un'opera di grande forza poetica. Dedicata a sir Philip Sidney, capo dei poeti elisabettiani, e con le sue allusioni al culto cavalleresco della regina, quest'opera diviene parte
integrante della letteratura elisabettiana. A Wittenberg, Bruno si identificò simpaticamente coi luterani e le sue lodi rivolte a principi eretici pesarono fortemente contro di
lui durante il processo. Queste tendenze radicali - ammette la Yates - differenziano nettamente Bruno da Campanella» F.A. Yates, cit., pp. 418-425.
373
Secondo la Yates «Bruno e Campanella sembrano [...], per quasi ogni verso, parenti stretti, di temperamento e carattere diversi e le cui vicende si ripetono fra loro,
nelle rispettive vite, con variazioni e differenti fortune. Essi fecero la loro irruzione nel mondo, a distanza di venti anni l'uno dall'altro, spinti da un impeto tremendo, da una
forma estrema di ermetismo religioso. Questa differenza di venti anni è importante poiché significa che, mentre la vita di Bruno si svolse nel periodo in cui l'ermetismo
raggiunse un crescendo, allorché esso era alla base della filosofia dominante e si era profondamente infiltrato nei problemi religiosi dell'epoca, Campanella visse in una
fase posteriore, in cui l'ermetismo stava declinando. Nel periodo della prigionia di Campanella, gli scritti ermetici erano stati alla fine accuratamente datati; la supposta
estrema antichità di Ermete Trismegisto era stata il fondamento su cui aveva poggiato l'intero vasto edificio dell'ermetismo rinascimentale, con tutte le sue ramificazioni
magiche e religiose; quando tale fondamento venne eliminato dalla critica testuale, l'edificio andò incontro alla distruzione. Per la nuova scuola filosofica cartesiana , le
filosofie animistiche rinascimentali, con la loro base ermetica, offrivano metodi completamente superati per la conoscenza del mondo. Nel grande progresso del XVII
secolo la scienza soppiantò la magia. Quando Campanella giunse a Parigi, la favorevole accoglienza nei suoi riguardi da parte dei "grands" e della corte fu probabilmente
dovuta al fatto che il suo culto della monarchia francese ben si adattava alle ambizioni di Richelieu ed alla sua politica antiasburgica. Permaneva, comunque, una forte
sopravvivenza degli antichi modi di pensare e molti intellettuali francesi erano interessati a lui poiché si era acquistato una grande reputazione. Non c'è dubbio che i suoi
libri sollevarono molto interesse e forse fecero rivivere l'atmosfera rinascimentale. Ma per coloro che erano rivolti al futuro, che aprivano le vie di una nuova èra, per
Mersenne, Cartesio e il loro circolo, Campanella non significava nulla. Scrivendo a Peiresc, che gli aveva fortemente raccomandato Campanella, Mersenne dice: "Ho visto
il reverendo padre Campanella per circa tre ore e per la seconda volta. Mi son reso conto che egli non può insegnarci nulla in fatto di scienze. Mi era stato detto che egli è
molto preparato in musica ma quando l'ho interpellato mi sono accorto che non sa neppure che cosa sia un'ottava; tuttavia possiede una buona memoria e una fertile
immaginazione". L'ultima osservazione, buttata giù per educazione, suona forse ancor più condanna del resto. Mersenne scrisse a Cartesio per informarsi se gli avrebbe
fatto piacere che Campanella andasse a trovarlo in Olanda, ma il grande uomo rispose che conosceva abbastanza di Campanella per non volerne più sapere. Come nota
Lenoble "les temps sont révolus"; siamo ormai nel mondo moderno e, benché Campanella fosse ricevuto con un'accoglienza trionfale a corte e traesse gli oroscopi di grandi
personaggi, gli intellettuali avevano abbandonato tali sogni. E, aggiunge la Yates, nel mondo moderno che si profilava ora all'orizzonte, il sogno di una religione universale
in cui la scienza interpretata come "magia naturale" si legasse indissolubilmente con la religione intesa come "magia divina", era ovviamente condannato a svanire. Sempre
molto dubbia dal punto di vista dell'ortodossia, era stata la sua consonanza con le filosofie rinascimentali dominanti a dare tutta la sua forza a questo sogno. Il fatto che
Campanella fosse stato capace di farlo rivivere in così tarda età, e con una buona dose di successo, è un segno della profonda penetrazione di Ermete Trismegisto
nell'ambito della religione. Ma ora, scienza e filosofia si uniranno all'ortodossia per scacciarlo dalla Chiesa; la grande campagna di Mersenne contro la magia fu anche una
campagna contro la teologia naturale. Nato vent'anni troppo tardi - osserva ancora la studiosa inglese - Campanella a Parigi fa l'impressione di un mammut superstite di una
razza pressoché estinta, la razza dei Magi rinascimentali. La forza indomabile di questo uomo, persino nelle circostanze più scoraggianti, testimonia il vigore che il mago
rinascimentale ricavava dalla sua religione naturale». Cfr. F.A. Yates, cit., p. 426-428.
374
Cfr. Anton Truyol y Serra, Hierocracia mundial y estados particulares en Campanella, cit. Truyol y Serra proseguiva: «Vi fa riferimento la questione dell'occupazione
del Nuovo Mondo da parte degli Spagnoli, che come si sa diede occasione a Vitoria e ai suoi seguaci scolastici di elaborare le basi di un diritto delle genti universale,
fondato sui principi dell'uguaglianza degli Stati e la reciprocità. La posizione di Campanella doveva essere opposta. Egli dedicò anche uno scritto alla conquista
testimoniano i suoi scritti politici (in particolare La monarchia di Spagna, e i Discorsi ai Principi d'Italia) e
non è da escludersi una sua certa influenza attiva nelle vicende internazionali. L’interesse per la politica
rappresenta un elemento di fondamentale importanza nel pensiero campanelliano, ma non si ferma mai al
livello della pura teoresi. Le vicende politiche, a livello internazionale, vedono molto spesso Campanella
interessato all’intervento diretto in più situazioni, ma sempre con l’intento della renovatio universale: per
questo in un primo tempo Campanella si dedica all'apologia e alla lode dell'impero spagnolo, credendo di
poter scorgere in esso un ottimo strumento per la realizzazione della monarchia universale, soprattutto se in
coordinamento con il papato. In un secondo momento, dopo la liberazione dalla prigionia, lo Stilese pone le
sue attenzioni alla Francia, dimostrando ancora una conoscenza profonda degli equilibri politici
internazionali. L'unica costante dei due differenti momenti della produzione politica campanelliana sembra
essere costituita dal solito principio unificatore, per il quale Campanella è disposto ad appoggiare ora una
potenza, ora un'altra, prestando il fianco alle accuse di machiavellismo che qualche critico gli voluto
rivolgere.
Gli interessi del nostro, come abbiamo precisato, si rivolgono in primo luogo alla Spagna, e come si sa, la
principale delle opere «ispanofile» è la Monarchia Hispanica, opera strettamente collegata ai Discorsi ai
principi d'Italia. A proposito di quest’opera, Anton Truyol y Serra, aveva osservato che «se la celebre
Epistola quinta di Dante era stata un incitamento ai principi d'Italia perché appoggiassero gli sforzi di Enrico
VII a favore della restaurazione del potere imperiale nella Penisola, i Discorsi di Campanella costituiscono
un salmo in onore della pax Hispanica come supposto temporale della monarchia spirituale, che i poteri
italiani devono appoggiare»375. La monarchia spirituale a cui pensava il Campanella era, come abbiamo
spiegato, una ierocrazia teocratica di tipo magico-astrologico, solo parzialmente di ispirazione cristiana. Tra
gli scritti che trasferiscono alla Francia questa missione teleologica, Le monarchie delle nazioni (1635)
costituisce il capitolo più notevole. Anton Truyol y Serra ricorda ironicamente che questo trattato deve il suo
titolo alle parole con cui inizia; ma ben avrebbe potuto chiamarsi propriamente Monarchia di Francia, e così
la designa di fatto il Di Napoli. A questo bisogna aggiungere l'Ecloga latina che Campanella compose in
occasione della nascita del Delfino di Francia, il futuro Luigi XIV, e in cui confidava nella pax Gallica per
vedere realizzati gli ideali della Città del Sole. Anche questo dovrebbe concorrere a chiarire ulteriormente la
complessità del disegno teocratico campanelliano. È poi sintomatico che La città del Sole venga richiamata
proprio nell'ultimo scritto, quasi a completare una sorta di testamento spirituale. Anton Truyol y Serra, che
ha mostrato una lucidità veramente rara nell'analisi del pensiero campanelliano, a questo proposito aveva
opportunamente notato che il cambiamento di atteggiamento di Campanella rispetto alle due prime potenze
del suo tempo non significa in nessun modo una virata radicale nell'ordine dei principi: l'unica cosa che
esprime è una nuova valutazione dei mezzi del potere, attenta alle vicissitudini del processo storico 376.
F. Meineeke, da parte sua, aveva definito la Monarchia Hispanica di Campanella come «una specie di
ragion di Stato e di teoria degli interessi della monarchia universale». Meineeke ha naturalmente ragione
quando sostiene che forse l'idea più profonda e significativa dell'opera sia quella che un impero universale
guidato da uno Stato egemonico non può, a lungo andare, reggersi esclusivamente sulle forze nazionali di
questo, ma deve servirsi razionalmente dei diversi popoli, dando loro alcune soddisfazioni e interessandoli al
mantenimento del tutto di cui fanno parte. Si dovrebbe forse aggiungere che Campanella pensava che
sarebbe stato possibile guidare i popoli mediante lo studio astrologico del temperamento, delle decisioni da
prendere, etc. Una monarchia universale ben organizzata deve moderare il primitivo nucleo del potere e
fonderlo con gli elementi ad esso associati, modificando allo stesso tempo questi e adattandoli gli uni agli
altri, per creare un equilibrio che assicuri la stabilità dell'insieme. La nuova specie di religione, con elementi
dell'America: il Discorso delle ragioni che ha il Re Cattolico sopra il Mondo Nuovo. E in questo, che potremmo considerare come la replica della Relectio de Indis di
Vitoria, vedeva Campanella nelle bolle di Alessandro VI, in contrasto con Vitoria e Soto, un titolo giuridico sufficiente alla conquista; infatti il Papa non aveva agito
solamente come arbitro tra la Spagna e il Portogallo, ma come giudice e signore del mondo, con capacità di disporre dei territori recentemente scoperti a favore dell'una o
dell'altra potenza. Un'altra conseguenza giuridico-internazionale della pienezza della potestà pontificia, secondo Campanella, consiste nel diritto del Papa di deporre
principi e monarchi recalcitranti-la qual cosa implica alla base il riconoscimento di un diritto generale di intervento del Papa in nome del bene comune dell'umanità
cristiana. Come in Ruggero Bacone Raimondo Lullo e molti canonisti medioevali, il concetto di guerra giusta si equipara qui a quello della guerra contro gli infedeli e gli
eretici, che esige di essere dichiarata dal Papa. Già al puro stato di natura, i Solariani consideravano lecito guerreggiare contro qualsiasi nemico dello Stato e della religiòn,
cioè, contro quanti infrangessro il diritto naturale e la religione; per cui la guerra si convertiva non solo in una sanzione, ma anche in un mezzo di correzione e
perfezionamento dei vinti. Ma, con questo richiamo al diritto generale di intervento del monarca universale, siamo giunti a un cerchio di questioni del massimo interesse
nella concezione campanelliana dell'ordine mondiale: ciò riguarda le relazioni della monarchia universale ierocratica e gli Stati particolari storicamente dati».
375
Cfr. Anton Truyol y Serra, Hierocracia mundial y estados particulares en Campanella, cit.
376
Anton Truyol y Serra precisa che « Campanella mantenne il suo punto di vista per cui la spada temporale appartiene al Papa per mezzo della potenza che in ogni
momento risulta la più idonea, cioè, la più forte. Questa doveva attenersi alle direttrici papali, che tuttavia devono essere date in un modo paterno e non tirannico. Poichè il
Papa non disponeva di una forza militare adeguata, doveva fare assegnamento sui principi cristiani come braccia della Cristianità. Da lì sorgeva spontaneamente la
domanda se alcuni principi o Stati non erano chiamati a svolgere un ruolo speciale; ma anche, se l'insieme dei membri della Cristianità non si doveva considerare come
un'unità in cui erano coinvolti, in base alle loro rispettive possibilità, nella comune impresa. Al principio, Campanella parve propendere per un'alleanza delle potenze
cristiane sotto la direzione del Papa. Poi, aspettò dall'Impero spagnolo, e infine dalla Francia, l'impulso decisivo, senza per questo abbandonare del tutto l'idea di una
confederazione cristiana: questa non solo era, in ultima istanza, perfettamente conciliabile con l'egemonia di una nazione - che fosse la spagnola, o la francese -, ma anche
consigliabile per imperativi di prudenza politica». (Anton Truyol y Serra, cit.).
cristiani, ermetici e naturali, sarebbe dovuta servire allo scopo. Campanella vedeva il punto più debole
dell'Impero spagnolo nell'indebolimento demografico e la decadenza economica. L'astrologia e la magia
celeste, insieme ad una accorta impostazione ed azione politica, avrebbero potuto porre rimedio alla
situazione. Da qui l'importanza che in ordine ai rimedi attribuiva in primo luogo all'eugenìa, materia per la
quale la preoccupazione era così manifesta già nella Città del Sole (tecnica che, come abbiamo visto, si
basava interamente sul culto del Sole e sull'astrologia). Uno dei metodi pratici che proponeva per consolidare
il potere spagnolo era quello di promuovere i matrimoni tra persone appartenenti ai diversi regni sottomessi
al re di Spagna, con l'obiettivo di predisporre con esso la fusione dei suoi popoli e il miglioramento delle sue
razze: il tutto sotto l'osservazione dei maghi e degli astrologi. Un altro avrebbe dovuto consistere in
trasferimenti di elementi di diverse popolazioni da una regione all'altra, per fini economici o politici.
Meineeke osserva giustamente che per Campanella il potere politico presuppone quello economico e a sua
volta lo fomenta. Anche questo elemento dovrebbe facilitare una considerazione più attenta delle sottigliezze
del frate di Stilo in campo di teoria politica. Naturalmente Campanella insisteva sull'importanza
dell'approfondimento delle scienze e delle arti meccaniche e proponeva la fondazione di scuole di nautica, di
astronomia, di matematica e di meccanica, per osservare e conoscere le regioni del Nuovo Mondo e i mari
che ad esse conducevano, di interesse vitale per le comunicazioni. Si tratta di preoccupazioni già presenti
nella Città del Sole, che ripetono le tendenze naturalistiche del De sensu rerum et de magia. Molto
interessanti, e degne di una approfondita analisi (che qui non è il caso di affrontare) sono le osservazioni di
psicologia dei popoli che Campanella va formulando, con particolare riferimento al percorso storico e
geografico a cui le sue disquisizioni lo conducono. Il frate di Stilo sottolinea in primo luogo il contrasto tra i
settentrionali e i meridionali: mentre quelli sono inclini a una libertà che tende a degenerare in licenza,
questi, più sottili, si mostrano più aperti al principio di autorità, la quale cosa spiega come le eresie del Sud
siano soprattutto di ordine speculativo, mentre quelle del Nord sono volte alla pratica. Conseguenza pratica
di tali contrasti, nel campo del diritto politico e del diritto delle genti, è la necessità di legislazioni diverse,
compresi metodi di governo diversi, in base alle inclinazioni dei rispettivi popoli. Anche in questo campo,
per così dire "federalista", nel senso più genuino del termine, Campanella non manca di far rientrare
l'orizzonte della religione. La Provvidenza nel corso della storia permette all'osservatore attento di trarre
ricette per l'agire: infatti i popoli del Nord, per natura più forti e prolifici, hanno dominato spesso quelli del
Sud, però questi, grazie alla loro superiorità nella religione e all'acume mentale, riuscirono sempre a imporre
alla fine delle leggi ai loro conquistatori, per cui la tensione iniziale finì con l'essere proficua per entrambe le
parti. Riguardo alla vita concreta dello Stato, Campanella, arriva a sostenere che la decadenza di Genova
deve essere attribuita a uno squilibrio tra il tutto e le parti, poiché aveva «debole il capo e le membra
possenti» la qual cosa era la negazione del principio del primato del bene pubblico sul privato, rigidamente
applicato nella Città del Sole. Non è necessario insistere ancora sull'idea campanelliana di prevalenza del
Tutto sulle parti e allo stesso tempo di equilibrio e proporzione dinamica tra queste due realtà
analogicamente determinate da una struttura metafisica voluta da Dio.
Si può ancora ricordare - con Meineeke - che gli ultimi scritti politici di Campanella esprimono il passaggio
da un mondo internazionale ispanocentrico a un mondo internazionale centrato sulla Francia. Questi scritti
contengono una severa critica del sistema spagnolo di dominazione imperiale, - critica che in fondo non
doveva che rilevare e approfondire alcune riserve anteriori. Già nelle sue opere favorevoli al dominio
spagnolo, Campanella aveva segnalato che l'impero Spagnolo, a differenza dell'Impero Romano, sorse grazie
più alla fortuna e a circostanze favorevoli, a matrimoni e a successioni, che per l'assennatezza degli Spagnoli,
e che doveva la sua ascesa più a forze estranee che alle proprie. Il favore degli astri deve essere acutamente
interpretato ed adoperato, altrimenti si rivela ben presto una forza indipendente rispetto ai soggetti politici. In
qualche modo, Campanella aveva predetto che la rapidissima ascesa del dominio spagnolo avrebbe dovuto
cedere il passo a una non meno rapida decadenza, prefigurata effettivamente dal crescente peggioramento
della sua base demografica ed economica. Campanella rimproverava allo stesso modo alla Spagna un
cesaropapismo che voleva invertire il rapporto di subordinazione del temporale allo spirituale, attenendosi
alle esigenze religiose solo a misura della propria convenienza. La nazione più idonea ad assumere il
comando al posto della Spagna era ora, a suo giudizio, la Francia. Nella Ecloga, completa i trattati politici
con un maestoso elogio di questa favolosa translatio imperii. La Francia sottometterà al Papato riformato - in
senso ermetico - un mondo riformato, instaurando così la urbs Heliaca. In ogni caso le astuzie di Campanella
rimangono di difficile interpretazione, così come difficile è stabilire il grado della sua sincerità e molte delle
sue contraddittorie prese di posizione. Come mai, per esempio, non ha mai denunciato nella politica di
Richelieu lo stesso utilitarismo religioso che attribuiva prima alla Corona spagnola? Che significato potevano
avere gli attacchi al protestantesimo e al machiavellismo? Probabilmente, Campanella preferiva mantenersi
coerente ad una sua prospettiva globale, nella quale poteva far rientrare qualsiasi presa di posizione, in vista
della renovatio mundi. Forse solo da questo punto di vista è possibile cogliere il senso della polemica
campanelliana nei confronti del machiavellismo e del protestantesimo. Questa polemica si concretizza in
particolare nell'Atheismus triumphatus ma trovò anche una suggestiva espressione in alcune delle sue poesie.
L'antimachiavellismo è un capitolo importante del pensiero politico di Campanella. Dell'Atheismus
triumphatus, molto ammirato da Leibniz, come ha ricordato Meeineke, Campanella stesso affermò che
potrebbe aver recato il titolo di «Antimachiavellismo», e sono frequenti nelle altre sue opere le allusioni
critiche ai seguaci del Fiorentino, designati anche indistintamente come «politici», «libertini», miscredenti e
aristotelici. La sostanza della critica che fa Campanella del machiavellismo (che considera per lo più come
un frutto dell'aristotelismo) è la denuncia del suo carattere dissociativo dell'universo morale. Il
machiavellismo aveva abbassato la religione al rango di un semplice instrumentum regni. Per Campanella al
contrario la religione è l'anima della comunità politica, il principio vivificante dell'unità sociale, come
abbiamo avuto modo di constatare nella Città del Sole, nel De sensu rerum et magia e nella Metaphysica. E
già sappiamo che la religione, a suo giudizio, consiste essenzialmente nell'ansia delle creature di tornare a
Dio, tramite una renovatio individuale e universale. Tutte le cose sono insomma come animate da un doppio
movimento: egocentrico, uno; teocentrico, l'altro. La doppiezza rientra in gioco con tutta la sua forza mitica:
l'analogia del microcosmo con il macrocosmo, l'equilibrio tra forze diverse e a volte contrastanti. Machiavelli
aveva solo tenuto in conto il movimento egocentrico. Perciò Campanella poté condensare la propria critica
del machiavellismo, dicendo che in esso si valorizza più la parte che il tutto, e l'uomo, lui stesso più che la
specie umana, più che l'universo, e più che Dio. Riemerge così il senso della prospettiva globale che il frate
di Stilo aveva sempre ben presente, anche se spesso si trovò a sfiorare posizioni molto vicine a quelle del
Machiavelli o di Lutero. Per Campanella in tutti gli ambiti, e di conseguenza anche in quello politico, il
pensiero deve considerare sempre l'insieme dei fatti, e la loro fonte ultima, che è Dio. Il criterio dell'analogia
serve da misura e da bussola per l'organizzazione sociale e per la scelta di comportamento del singolo. Per il
fatto di mancare di questa visione totale della realtà, Machiavelli si rende meritevole dell'invettiva che,
riprendendo il leit motiv della sua argomentazione, gli indirizza Campanella negli aspri versi di un notevole
sonetto: «O tu, ch'ami la parte più che 'l tutto, / e più te stesso che la spezie umana...». Allo stesso
atteggiamento di fondo obbedisce la viva opposizione di Campanella al protestantesimo, di cui percepì con
lucidità la tendenza alla frammentazione religiosa e l'incompatibilità con l'idea della sua monarchia
universale, nella quale il tutto doveva sì essere frammentato in singole micro-realtà cittadine, sul modello
della Città del Sole, ma certamente in una universale coordinazione con un centro direttivo (religioso,
militare, astrologico e politico) che regolasse l'armonia del Tutto mondano. Come ha infatti osservato
Meineeke, Campanella «si rese conto come pochi delle cause, e più ancora delle implicazioni sociali e
politiche della Riforma, soprattutto per quello che riguardava la sua negazione del libero arbitrio. Il nuovo
credo è per Campanella un elemento di dissoluzione dei vincoli della comunità alla sua stessa base, poiché
sopprime il senso di responsabilità personale, conducendo al libertinaggio e, come reazione, alla tirannia».
Tutti i mali derivano dal frazionamento. Perciò la riforma del cristianesimo, la cui necessità era ovvia, non
poteva essere, per Campanella, nient'altro che «una riforma che operasse dal di dentro, in un modo più o
meno pacifico, però sempre come rinnovamento e purificazione della Chiesa, mai come sovvertimento
dell'edificio cattolico». Si tratta di osservazioni certamente condivisibili. Si deve però ricordare anche la
peculiarità, la pars construens dell'attività politica campanelliana, che poggia interamente sulla concezione
metafisica del De sensu rerum e della Città del Sole, oltre che, naturalmente, sui libri della Metaphysica.
All'inizio dei suoi Discorsi ai principi d'Italia Campanella esprime con piacere la sua intuizione profonda
della tendenza del potere a un'espansione illimitata, là dove attribuisce alla brama di dominio una radice
metafisica: «da Dio infinito derivando, non può se non nell'infinito quietarsi». Perciò, per l'appunto,
Campanella fece speciale affidamento sull'attività apologetica e missionaria, chiamata a promuovere
l'espansione universale del cattolicesimo, rinnovato a suo modo in senso ermetico e naturalista. Meineeke ha
scritto giustamente, senza peraltro insistere dovutamente sulla questione, che il Quod reminiscentur lo situa
sulla linea dell'attivismo dottrinale di un Ruggero Bacone e un Raimondo Lullo, con un senso pratico
dell'evangelizzazione che senza dubbio ha esercitato un'influenza sull'organizzazione successiva dell'attività
missionaria della Chiesa Cattolica, anche se è stata per lo più fraintesa. Aggiungerei che il fraintendimento si
è protratto ben al di là del periodo controriformista, ed ha coinvolto molteplici livelli del pensiero
campanelliano377, soprattutto là dove Campanella inserisce i concetti fondamentali della sua metafisica
ermetica nel panorama visionario della ierocrazia mondiale.
Il termine "visionario" che ho qui utilizzato non intende certo riferirsi ad una presunta ingenuità politica del
frate di Stilo, ma vuole descrivere piuttosto un ulteriore livello del suo pensiero, quello che fa di lui un degno
esponente della corrente utopica del Rinascimento italiano ed Europeo. Parlando di ierocrazia, teocrazia e
concezione politico-religiosa di Campanella è dunque necessario proporre alcune riflessioni anche sulla sua
concezione utopica, che come vedremo è molto particolare. Ho già sottolineato come la visione politica che
lo Stilese si preoccupava di chiarire in numerosi scritti abbia certamente come orizzonte una concezione
utopica e mitica del mondo e del tempo. La Città del Sole, come tutti sanno, occupa giustamente un posto
assai rilevante all’interno della produzione utopistica di tutti i tempi. Sarebbe interessante cercare di stabilire
qualche punto di confronto tra la Città e le altre principali opere rinascimentali e tardo rinascimentali,
nonché, ovviamente, con la Repubblica di Platone. Per quanto riguarda il discorso delle possibili influenze di
altre opere a carattere utopico, la Yates si dimostra convinta di un'unica influenza principale, quella
ermetica: Secondo la Studiosa inglese, anche se varie fonti sono state suggerite per la campanelliana Città
del Sole378, si tratta comunque di influenze secondarie. Per scoprire la fonte originaria sarebbe invece
necessario scavare più a fondo e riportare alla luce quelle sorgenti magiche sotterranee da cui venne
alimentato il Rinascimento. Da questo punto di vista la Yates si dice convinta che il parallelo più vicino alla
Città campanelliana non sia nient'altro che la Città di Adocentyn del Picatrix. In questa città magica, ricorda
la Yates, c'era un castello con quattro porte e su di esse figuravano immagini entro cui Ermete Trismegisto
aveva introdotto spiriti parlanti. Si pensi ora alle quattro porte e alle quattro strade della Città del Sole, ed il
confronto sarà più che accettabile. Sulla sommità del castello c'era un faro che irradiava sulla città i colori
dei sette pianeti. Nella Città del Sole sette lampade planetarie ardono perennemente nel tempio. Anche
questo particolare concorda. Intorno al perimetro di Adocentyn, Ermete aveva collocato immagini magiche e
le aveva disposte in modo tale che gli abitanti fossero resi virtuosi e tenuti lontani da qualsiasi male e
scelleratezza. Se si vuole fare un confronto di tutto ciò con le immagini celesti della Città del Sole che, come
abbiamo visto, hanno una funzione molto simile, si rimane sbalorditi dalla concordanza dei temi e delle
espressioni. In mezzo ad Adocentyn cresceva un grande albero che produceva il frutto di tutta la
generazione. Pensiamo alla procreazione selettiva nella Città del Sole. «Inoltre, nel passo del Picatrix con la
descrizione della città di Adocentyn, si dice anche che Ermete Trismegisto aveva eretto un tempio al Sole. Se
colleghiamo [...] l'ermetica città di Adocentyn e il tempio del Sole del Picatrix all'esposizione della religione
"naturale" egiziana ed al Lamento per la sua decadenza contenuti nell'Asclepius, vi troviamo, fra le profezie
della futura restaurazione della religione e delle leggi egiziane, le parole:

Un giorno, gli dei che esercitano il loro dominio sulla terra, saranno restaurati e installati in una
città all'estremo confine dell'Egitto, una città che sarà fondata in direzione del sole che tramonta e
nella quale accorrerà, per mare e per terra, l'intera razza dei mortali.

Qui, in questo testo fondamentale per la magia rinascimentale che è l'Asclepius, è contenuta indubbiamente
una anticipazione dell'universale Città del Sole campanelliana. Una volta verificato questo, diventa ovvio che

377
Il Meineeke aggiunge: «Attento alla realtà del suo tempo, Campanella seppe conciliare la sua grandiosa visione dell'unum ovile e dell'unus pastor con il più profondo
attaccamento alla nazione italiana, di cui il suo temperamento e la sua opera riflettono tendenze caratteristiche. L'elogio della Spagna, qualunque fosse il grado della sua
sincerità, e la sua ulteriore francofilia, più o meno forzata (infatti non aveva un maggiore margine di scelta per il suo obiettivo politico primordiale), non supponevano una
diminuzione dell'ardente amore che sentì sempre per la sua patria e che riuscì ad esprimere in formule piene di tenerezza, soprattutto nelle Poesie. Le sue successive
apologie della Spagna e della Francia obbedirono a uno stimolo intellettuale: alla convinzione che in quanto all'egemonia politica era passato il momento dell'Italia con
l'inesorabilità dei destini storici. Più realista di Dante, Campanella dà l'Impero Romano per morto, la sua missione per compiuta, e lo proclama schiettamente, traendo le
conseguenze del fatto: «che non ci è tempo per noi di ricuperar imperio, che 'l circolo dell'umane cose nol comporta». L'opera politica dell'Italia consisteva nel coadiuvare
l'avvento della monarchia pontificia, appoggiando la nazione più capace di conseguirlo. Ciò non suppone in Campanella disaffezione o disprezzo per la sua terra. Al
contrario, Campanella si avvicina a Dante per un pathos patriottico, formulato spesso in termini di sviscerato affetto. Per il momento, se l'Italia ha perso l'Impero, possiede,
nel Papato, l'autentica monarchia universale. Il cristianesimo ha conservato a Roma, trascendendolo, l'antico primato. Come Dante, Campanella giudica severamente la
situazione di impotenza politica in cui le lotte fratricide, le ambizioni meschine e una navigazione politica di equilibrio sommersero la Penisola. Come Machiavelli, aspira a
conseguire l'unità politica dell'Italia, anche se sotto forma di una federazione presieduta dal Papa, e che sarebbe un fattore di equilibrio, positivo stavolta, di fronte a una
Spagna eventualmente tentata di abusare del suo potere. Tale federazione italiana avrebbe potuto significare il primo passo verso quella di tutta la cristianità. Anche
nell'attuale stato di prostrazione, il valore e il nome dell'Italia è superiore a tutte le nazioni. Non temendo audaci paragoni, lamenta Campanella che l'Italia non abbia preso
maggiormente coscienza della peculiarità della sua tradizione nazionale e dei suoi egregi valori, di fronte alla Grecia. Tale è il tema della sua poesia Agl'Italiani, che forse
costituisce il culmine delle sue effusioni patriottiche. Questo sentimento di una personalità nazionale italiana all'interno della continuità italo-romana, che d'altra parte
Campanella rivendica, plasmò la prima delle tre elegie che elegantemente compose in metro latino, quale autoaffermazione della «barbara lingua» che in forma condensata
viene ad essere come la replica campanelliana del De vulgari eloquentia dantesco e si conclude con l'esaltazione della nuova era italiana, di cui l'idioma, già reso illustre da
opere letterarie, è adeguato strumento: «Al novo secol lingua nova instrumento rinasca: può nova progenie il canto novello fare». Molto giustamente ha detto un autore che
Campanella concilia l'amore per la patria, ma nei suoi confini naturali, con la visione della monarchia universale, che dovrà cancellare tutti i confini. Se la concezione
campanelliana del governo ierocratico del mondo supponeva storicamente e dottrinalmente un ritorno alla posizione superata della teoria del potere diretto della Chiesa
nell'ambito temporale, questa armoniosa integrazione delle peculiarità nazionali nella superiore unità politica e spirituale del mondo non è la meno significativa, e allo
stesso tempo attuale, delle esortazioni campanelliane».
378
... fra cui un'influenza dell'Utopia di Tommaso Moro, particolarmente per quanto concerne l'invenzione che la Città fosse stata scoperta nel Nuovo Mondo da un
viaggiatore; oppure un'influenza di altri progetti di città rinascimentali.
i biancovestiti Solari di Campanella altri non sono che Egiziani, vale a dire pseudo-Egiziani ermetici. Il
sacerdote Sole "tutte le scienze ha da sapere [...], e li gradi degli enti e corrispondenze loro con le cose
celesti"379. Tale era la sapienza degli ermetici sacerdoti egiziani e tale la sapienza di Ermete Trismegisto nel
suo triplice ruolo di sacerdote, filosofo e re-legislatore. Così è il sacerdote Sole della Città campanelliana,
assommando in sé le prerogative del saggio, del sacerdote e del reggitore. Naturalmente egli è anche l'ideale
re-filosofo del platonismo. Ma, nella prospettiva storica del Rinascimento, Platone aveva imparato dagli
Egiziani e gli scritti ermetici costituivano una sapienza anteriore alla sapienza greca. Anche Mosè apprese la
sua sapienza in Egitto. La Città di Campanella si colloca in questa prospettiva: ci sono influenze ebraiche,
echi del tempio di Salomone nel tempio del Sole; ci sono influenze platoniche; ma, celata dietro tutte queste,
c'è l'influenza egiziana. Lo strato di influenza più profondo, primario, della Città del Sole è [...] ermetico; e il
suo primo modello, a cui si sono aggiunte molte più tarde influenze, è, per me, la città magica di Adocentyn
descritta nel Picatrix, oltre alla descrizione della religione degli egiziani contenuta nell'Asclepius.
La Città di Campanella si colloca pertanto - osserva la Yates - fra i prodotti infinitamente ricchi e vari
dell'ermetismo religioso rinascimentale. Essa appartiene al tipo magico estremo di ermetismo religioso ma,
in seguito alla profonda cristianizzaione degli scritti ermetici, Campanella crede tuttora che la loro religione
"naturale" e le loro leggi siano vicine al Cristianesimo, che esse passano venire agevolmente completate dai
sacramenti cristiani e che, con Cristo venerato come mago, esse possano formane la nuova religione e la
nuova etica universali che il mondo sta aspettando»380.
È certamente possibile concordare con la Yates, ed ulteriori conferme alle ipotesi della Studiosa inglese
vengono anche da numerosi passi di altre opere. Ritornando alla Città, basti ricordare questa secca
affermazione «Se questi [i Solari], che seguon solo la legge della natura, sono tanto vicini al Christianesimo,
che niuna cosa aggiunge alla legge naturale, se non li sacramenti, io cavo argumento di questa relazione che
la vera legge è la Christiana, e che, tolti gli abusi sarà signora del mondo».
Per proporre un brevissimo confronto, è possibile sottolineare che l'Utopia alla quale Campanella pensava è
in realtà molto distante dagli altri classici del genere utopico, da Platone (La Repubblica) a Tommaso Moro
(Utopia) a Giordano Bruno (Spaccio de la bestia trionfante)381, ma anche dai «minori», come per esempio il
platonico Francesco Patrizi, la cui Città felice, che risale al 1553, espone una razionalistica costruzione di
Stato organico, fondato su una rigida gerarchia di ceti 382.
Un intervento utile al caso nostro (una breve delineazione dei tratti principali che caratterizzano un
confronto tra la Città e le altre opere utopistiche) è quello di Rodolfo De Mattei, il quale aveva
opportunamente osservato che «il Cinquecento italiano ci offre altri vagheggiamenti di città esemplari. Basti
pensare alla Città felice del filosofo platonico, e professore nell'Archiginnasio romano, Francesco Patrizi da
Cherso383. Nonché allo sbrigliato schema di una nuova società comunistica abbozzato, nei famosi Mondi 384,
da Anton Francesco Doni il quale, peraltro, nella sua Seconda Libraria, allude a un membro dell'Accademia
veneziana dei "Pellegrini" ("il Perduto"), il quale "con un ordine mirabile ha fatto una Republica non più
veduta"385. Il Campanella - secondo De Mattei - non faceva se non fornire un suo anello a quella catena di
costruzioni concettuali che altri anelli riceverà, in Italia e fuori d'Italia, nei secoli decimosettimo e
decimottavo. Visuali, tutte, di nuove società ove la vita dei cittadini viene meticolosamente controllata, e ove
l'amor proprio si annulla in omaggio all'amor comune. Ma, a differenza del Moro e del Patrizi, il Campanella
si sforza di sostenere (come attestano le sue Questioni sull'ottima republica) che il suo "trovato filosofico",
mentre si concilia col diritto naturale, coincide col pensiero di questo o di quel luminare della Chiesa.
Impegno a momenti spasmodico, il suo, mirante a non lasciar librata la Città del Sole nella spregiudicata
sfera della gratuita immaginazione, ma anzi a volerla agganciata ai maggiori apporti teorici e pratici.
Significativo, lo stesso titolo dell'Articolo primo delle citate Questioni: "Se a ragione e utilmente si sia
aggiunto alla dottrina politica il dialogo della Città del Sole"386. La Città del Soie, dunque, nell'intendimento
del Campanella è un'appendice di pensiero politico, un'aggiunta: che, pure stando a sé, non scuote né
contraddice altri suoi presupposti dottrinali. Ma - si interroga il De Mattei - il Campanella non si sarebbe
379
Evidente, il legame con la teoria espressa nel De vinculis e nel De Magia di Giordano Bruno, che a sua volta si ricollegava a teorie ermetiche.
380
F.A.Yates, cit.
381
Lo Spaccio de la bestia trionfante (1584) di G. Bruno è un testo assimilabile alla Città del Sole ed alla generale posizione del Campanella per vari motivi: l'idea di un
generale rinnovamento del mondo; la concezione della politica come emanazione dell'etica e della religione; la ripresa della «prisca theologia», ermetica; le suggestioni
magico-astrologiche; la delineazione di un sapere con funzioni pratiche etc.
382
Si tratta, come è stato affermato da più critici, di una utopia «reazionaria», in cui si riconoscono numerosi luoghi comuni tradizionali, piuttosto lontana dai contenuti
sociali presenti, ad esempio nelle opere di T. Moro e di T. Campanella.
383
FRANCESCO PATRITIO, La Città felice, etc., Venetia, per Giov. Griffio, 1553.
384
ANTON FRANCESCO DONI, Mondi celesti, terrestri et infernali, etc., Vinegia, 1567.
385
La seconda libraria del Doni, Vinegia 1555, p. 162.
386
Quest., cit., Art. I, p. 287.
accinto a comporre la sua Città del Sole senza l'intima persuasione di potere offrire uno schema diverso e
migliore della Repubblica di Platone e dell'Utopia del Moro. Ora, sotto quali aspetti la costruzione
campanelliana si distacca dall'una e dall'altra?
Per quanto riguarda la concezione di Platone, il Campanella, pur apprezzandola, anzi difendendola dagli
attacchi di Aristotele, non esita, tuttavia, a giudicar la propria "longe praestantior". E, se nelle Questioni
sull'ottima republica egli include il modello platonico fra quelli non immuni da "difetti" che "nella nostra
republica, a chi ben vi guarda, non si trovano", ciò significa che, a suo avviso, anche lo schema platonico può
risultar carente. (Fra parentesi, aggiunge De Mattei, gioverà rammentare che il suo fervente platonismo non
gli impedisce, ove occorra, di dissentire dal maestro greco: non è solo, infatti, nella sua Metafisica che egli
manifesta le sue riserve o contestazioni a proposito di talun enunciato del pur venerato filosofo antico) 387. Un
fondamentale distacco della concezione campanelliana da quella platonica ci vien significato dallo Stilese
proprio dopo la denunzia delle deficienze di ogni altra costruzione concettuale, allorché vien precisato che la
visione eliaca "è dedotta dalla dottrina delle primalità metafisiche". Le "Primalità", come stanno a base di
tutto il pensiero filosofico del Campanella, così stanno a fondamento della Città del Sole. Ed è il presupposto
della essenziale presenza di queste "Primalità", che consente al Campanella di superare la ristretta
angolazione platonica di una disciplina normativa assegnata da un'arcana predeterminazione a una limitata
categoria di consociati, con aprioristica esclusione di altra massa di individui inidonei a osservarla. Né il
mito platonico della caverna può ritenersi punto adottabile dal Campanella. Gli abitanti della città eliaca non
assomigliano davvero ai prigionieri descritti da Platone 388, che vedono le ombre delle cose e non le cose, e
resterebbero abbagliati dalla luce del sole: essi, al contrario, sono "solari", hanno familiarità col sole, che
"onorano", sono a contatto diretto con "le quiddità delle cose". La Natura, quale la vede il Campanella, si
spande su tutti, vive in tutti, perché tutti sono membra divina. Ed è qui che si può scorgere un ancoraggio di
quella nave del Diritto Naturale che ha fluttuato lungo i secoli, e alla quale lo Stilese ha offerto un suo,
magari tutto particolare, approdo. Ed è significativo che il Diritto Naturale venga frequentemente invocato in
quelle Questioni sull'ottima republica che intendono chiarire l'essenza della Città del Sole. I "lumi naturali",
infatti, sono percepibili da chicchessia. È una "società di molti", non davvero una confraternita di pochi,
quella che il Campanella presuppone. Egli ci dirà che l'Amore è "di sua natura diffuso, come il fuoco". Lo
Stilese è indotto, quindi, a respingere quella sorta di selezione castale che nella città platonica dà
inevitabilmente la sensazione di un ceto parassitario vivente a carico di una classe non eletta. Il Campanella
può parlare di "tutto il popolo", di "comunità", con pienezza e responsabilità di dizione. Non a caso, il
Campanella arriva a proclamare che la sua repubblica "è del tutto apostolica", pervasa com'è di fatto da quel
superiore messaggio e dal disteso afflato evangelico che rende veramente "fratelli" tutti i Solari. Donde,
l'estensione, nella Città del Sole, a tutti indistintamente i consociati delle norme relative all'istruzione,
all'educazione, alla generazione. E donde, altresì, l'accantonamento del numero fisso di abitanti previsto da
Platone: un numero fisso, che costituirebbe quasi un limite alla stessa diffusione delle "Primalità", cioè di
Dio.
Ancora. L'innatezza dei lumi naturali nell'individuo, riconosciuta dal Campanella, fa sì che questi non
vegga la necessità di quella faticosa ascensione culturale prevista da Platone per i custodi della sua
organizzazione comunitaria. Nella Città del Sole il Sapienza "tiene un libro solo, dove stan tutte le scienze,
che fa leggere a tutto il popolo ad usanza de' Pitagorici. E questo ha fatto pingere in tutte le muraglie, su li
rivellini, dentro e di fuori, tutte le scienze". E nell'interno dei vari gironi vi son le raffigurazioni di tutto ciò
che si trova in natura, con elementari e pur esaurienti spiegazioni. Sì, certo, nella Città del Sole vi saranno
maestri di singole discipline: ma l'importante sarà conseguire non tanto un freddo addottrinamento, quanto
una immediata percezione della sostanza delle cose. Il Campanella dispregia la "memoria servile, onde
l'uomo si fa inerte, perché non contempla le cose ma li libri, e s'avvilisce l'anima in quelle cose morte, né sa
come Dio regga le cose e gli usi della natura". No: "nella città nostra s'imparano le scienze con facilità tale,
come vedi, che più in un anno qui si sa, che in diece o quindici tra voi". (Altrove: "li figliuoli senza fastidio,
giocando, si trovano saper tutte le scienze istoricamente prima che abbin dieci anni"). È, appunto, codesta
agevole cognizione dell'essenza delle cose da parte di tutti che autorizza il Campanella a confidare nella
"volontà del popolo" e nel "consenso del popolo".
Si potrebbe aggiungere che la "libertà dell'arbitrio" cui si accenna nel finale della Città del Sole (quella
libertà che "manco le stelle, che inchinano con modi lontani, ponno sforzare") suona implicita eliminazione
di tutto quel complicato problema, presente in Platone - e sempre oggetto di faticose interpretazioni -

387
Metaphys., cit., L. II, Cap. V, Pars I, Art. VII, ed. cit., pp. 267-270.
388
Plato, Resp., VII.
connesso alla maggiore o minore conquista della libertà del volere umano. E a lui peculiare è il concetto cui
il Campanella accenna nella Città del Sole circa il problema del male e del peccato.
Si venga al confronto tra la Città del Sole e l'Utopia. È noto che, nelle citate Questioni, il Campanella si
riallaccia espressamente a Tommaso Moro "martire recente, che scrisse la sua republica Utopia immaginaria,
sul cui esempio noi abbiamo trovato le istituzioni della nostra": ma, ben considerando, l'appello al "martire
recente" non sa forse un po' d'innocente pretestuosità? Si può davvero dire che le istituzioni di Utopia
abbiano potuto servire da "esempio" a quelle della Città del Sole? O non risulta, invece, affatto diverso, il
timbro della concezione campanelliana, da quello di Utopia?
In quest'opera è difficile non rilevare un certo carattere di esercizio intellettualistico, cui visibilmente si
contrappone nella Città del Sole un profondo anelito verso una palingenesi sociale di sapore savonaroliano.
La Città del Sole è propriamente, quale l'autore stesso la definisce, un "trovato filosofico", cioè la proiezione,
il frutto di tutta una tensione filosofica; ed effettivamente il "trovato" è in funzione di una sofferta
investigazione della natura e degli universali. Se Utopia può stare a sé fra gli scritti del More, come
un'episodica improvvisazione (e staremmo per dire - tenuto conto di certa sua sotterranea vena d'ironia -
come un divertissement), ciò non potrebbe ritenersi affatto per la Città del Sole, indubbiamente imparentata -
osservava giustamente il De Mattei - al resto delle pagine campanelliane.
Sarà magari lecito rinvenire qualche concordanza (come, peraltro, anche qualche discordanza) tra la Città
del Sole e Utopia. Ma il confronto va fatto tra i due sistemi architettonici, non tra questo e quel dettaglio. Sì,
in Utopia la proprietà è abolita; ma evidentemente ciò non appare al Campanella bastevole, ai fini di una
verace realizzazione di armonia e mutualità fra i consociati. Non verrebbe, infatti, quest'armonia,
compromessa dalla distinzione, esistente in Utopia fra chi contempla e chi lavora, e soprattutto dalla
discriminazione fra uomini schiavi? E la coesistenza in Utopia dalla discriminazione fra uomini schiavi a
coesistenza in Utopia di una varietà di culti, non creerà per avventura altrettanti motivi di disunione fra i
cittadini? (Nella sua Metafisica, il Campanella ha detto che l'uomo, in quanto animale socievole, deve avere
in comune con gli altri assieme ai quali vive la religione, come ha in comune le cose riguardanti il corpo e
l'anima)389 Inoltre: la parallela presenza in Utopia di un capo politico e di un capo religioso non sarà atta a
generare eventuali conflitti di attribuzioni? Politica e religione per il Campanella fanno un tutt'uno. Ciò,
senza accennare all'esistenza, in Utopia, dell'istituto familiare: fonte - secondo il Campanella e secondo
Platone - di disparità di affetti e impedimenti a una generale fratellanza. A parte il fatto - conclude il De
Mattei - che in Utopia si respira una certa aura di epicureismo 390 (e, in ultima analisi, di individualismo), che
non ha nulla a vedere con l'atmosfera religiosa, e conventuale, della Città del Sole»391.
In generale, questa ricostruzione del De Mattei mi sembra accettabile, soprattutto là dove sottolinea (pur
senza insistere sufficientemente su questa posizione e senza motivarla in modo adeguato) l'omogeneità delle
tesi della Città del Sole con il resto della produzione letteraria, filosofica e politica del frate di Stilo. Non è
qui il caso di insistere ulteriormente sulle fonti del pensiero utopistico del Nostro, poiché sono da ritenersi
ancora valide ed insuperate le osservazioni della Yates. Anche circa la questione di un confronto con la
letteratura utopistica, possiamo concludere, dopo la ricostruzione del De Mattei, mettendo semplicemente in
rilievo come l'Utopia di Campanella sia in ultima analisi fondata sulla religione, anzi sulla Riforma religiosa
che doveva culminare nella instaurazione della ierocrazia universale. Per quanto riguarda la coppia dialettica
dei termini qui presi in esame (teocrazia e ierocrazia) si dovrà dunque concludere che essi esprimono in
fondo lo stesso concetto. Per Campanella la Riforma della religione e dei costumi (ovvero della morale)
dovrà portare alla instaurazione di un regime universale, religioso prima che politico, di tutti gli uomini
prima che esclusivamente della casta sacerdotale effettivamente governante. Il sogno della Città del Sole è
un sogno di armonia e bellezza, equilibrio e senso di riconciliazione con la Natura. Tutte le immagini
utilizzate dal Campanella rievocano un quadro d'insieme nel quale razionale e mitico si intrecciano
continuamente, dominati al più profondo dal tema dell'analogia tra divino e umano, tra microcosmo e
macrocosmo, tra Rivelazione e Natura. Lo sforzo del Campanella è appunto quello di mostrare tutti gli
sviluppi possibili di questo tema analogico, dal livello politico a quello religioso, dal metafisico a quello
dell'invenzione utopistica. Teocrazia e ierocrazia sono insomma due termini che ben si adattano all'ideale
Campanelliano, e si inseriscono a pieno diritto tra i concetti chiave del suo disegno di rinnovamento
spirituale e politico, entro il più vasto progetto di riforma ermetica. Il Cristianesimo rinnovato in senso
ermetico doveva infatti portare alla instaurazione di una città felice, prefigurando in questo modo una nuova
389
Metaphys., L. XVI, Cap. V, Art. I, P. III, ed. cit., p. 228.
390
Cfr. T. Campanella, Disputationum, etc., cit., Quaestiones super II P. Philos. Realis quae est ethicorum, Quaest. I, De Summo bono, p. 4: «Thomas Morus in sua Rep.
vo1uptatem fecit summum bonum, licet mussitando».
391
Cfr. R. De Mattei, Sulla Città del Sole di Tommaso Campanella, in "Tommaso Campanella", Miscellanea di studi in occasione del 4° centenario della sua nascita,
Fausto Fiorentino Editore, Napoli, 1969, pp. 143-158.
- definitiva - rivelazione del divino al livello dell'umano. In una parola: l'instaurazione della ierocrazia
campanelliana corrisponde all'instaurazione del Paradiso perduto sulla Terra, alla rinascita dell'età dell'oro.
Se è vero che teocrazia e ierocrazia rendono bene l'idea del nuovo assetto, mondiale, che verrà instaurato
dopo la rinnovazione del secolo, con quali disegni politici il Frate di Stilo aspirava alla rivoluzione? E qual è
il nesso tra pensiero religioso e pensiero politico?
Per rispondere a queste domande sarà necessario - brevemente - prendere in considerazione ancora alcuni
passi illuminanti tra le diverse opere che hanno come oggetto la relazione, il nesso profondo, che Campanella
poneva tra religione e politica.
Come abbiamo già visto, uno studio della concezione campanelliana della società internazionale e della sua
organizzazione deve cominciare dalla Città del Sole. Infatti è significativo non solo il lungo elenco di
elementi che designano l'aspetto futuro della teocrazia mondiale (è implicita infatti la corrispondenza tra città
intesa come polis e città universale, in perfetta corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo), ma anche il
fatto, non certo trascurabile, che quest'opera abbia una stretta relazione con la crisi dell'anno 1598 che
condusse all'arresto. La cospirazione, come sappiamo, voleva non solo porre fine alla dominazione spagnola,
ma anche instaurare un nuovo ordine del mondo sul piano politico sociale ed ecclesiastico.
Parlando del rapporto tra teocrazia e teocrazia nel pensiero campanelliano, in relazione con quanto si legge
nella Città del Sole, abbiamo già visto che le due idee centrali che costituiscono il motivo principale del
pensiero politico campanelliano sono: la necessaria subordinazione della parte al Tutto (corrispondenza
analogica: sia nella società degli uomini che nell'universo) e l'inevitabile unione del potere spirituale e del
potere temporale appunto sotto forma di "ierocrazia" (questo secondo punto sarà per Campanella fonte di
problemi).
Abbiamo già visto che la Città del Sole può essere giustamente considerata come un'immagine
dell'universo, sia per il modo in cui è strutturata, ma anche perché è fondata su un sapere universale, che si
basa sullo studio di tutte le scienze, le migliori, le più progredite ed aggiornate. La comunità umana in questo
modo trova una sua corrispondenza nell'universo e nel suo funzionamento: l'esempio è dato dal macrocosmo
del mondo reale-naturale, dal quale lo stato concreto, il microcosmo, riceve il suo indirizzo. Allo stesso
modo la struttura politico-istituzionale della Città del Sole è evidentemente riferita al Tutto cosmico e divino
(riemerge insomma il classico motivo ermetico dell'unità metafisica del mondo e dl Cielo) e della
sottomissione-coordinazione delle parti al Tutto. Come è già stato osservato da Anton Truyol Y Serra, fino a
che punto Campanella inserisca l'individuo nella vita dello Stato e proietti il suo pensiero religioso
nell'ambito politico è dimostrato dal ruolo che in un passaggio famoso egli assegna alla confessione come
instrumentum regni: la Città intera confessa le proprie colpe ai magistrati, questi a loro volta confessano
quelle proprie e quelle altrui ai tre principi-sacerdoti supremi, i quali infine le confessano, con quelle che
sono loro proprie, al Metafisico; il Metafisico, dopo aver offerto a Dio sacrifici e preghiere, confessa
pubblicamente tutti i peccati della città, senza dire il nome dei colpevoli; e così conosce tutti i mali della
collettività. Abbiamo anche messo in rilievo come la struttura della Città del Sole non sia affatto arbitraria o
innovativa, ma vada spiegata con la precedente concezione metafisica del Campanella. La metafisica delle
primalitates, come abbiamo visto, si basava sul dualismo primario dell'essere e del non-essere. Tale rapporto
binario è riconducibile alla metafisica ermetica, interamente dominata, alla maniera neoplatonica, dall'idea
del distacco progressivo dall'Unum attraverso una scala che da metafisica diventa naturale. Questa
impostazione è un classico dei pensatori ermetici, da Marsilio Ficino a Giordano Bruno. Il non essere è
concepito, sempre alla maniera neoplatonica, come negazione parziale dell'essere. Il non-essere possiede,
neoplatonicamente, tutte le caratteristiche negative dell'Essere. Dio, l'essere puro, ha come attributo le
proprietà primarie (primalitates) potenza, sapienza e amore. Poiché partecipano dell'essere, le cose finite
partecipano anche delle sue proprietà e quindi possiedono un certo grado di sapienza, potenza e amore. Tutte
le cose partecipano secondo diversi gradi e secondo diverse modalità dell'essere di Dio, ed è per questo che
tendono a tornare a ciò che è il loro primo principio. Questa ansia di tornare a Dio, presente in tutti gli esseri
creati, è appunto per Campanella il sentimento religioso (religio). Secondo lo Stilese una linea ininterrotta,
attraverso vari gradi (quasi alla maniera di Marsilio Ficino e della scala naturale di Giordano Bruno)
conduce, elevandosi, dall'istinto di vita del mondo vegetale (che deve senz'altro essere interpretato come una
specie di istinto religioso, in quanto si tratta pur sempre di una modalità di ansia di ritorno al Creatore)
all'idea naturale di Dio propria dell'essere umano dotato di ragione. Tale desiderio culmina nella conoscenza
soprannaturale di Dio che può essere attinta o mediante la Rivelazione o mediante la magia astrologica e lo
studio del libro della natura (che è pur sempre la prima Rivelazione). Su questa base, ovvero sulla dottrina
metafisica e religiosa delle primalità si basa anche la concezione politica di Tommaso Campanella. Questa
dottrina delle primalità, infatti, costituisce la spiegazione razionale della dottrina teologica della Trinità
divina, ma costituisce anche l'intento di una fondazione naturalistica della realtà. Il Metafisico della Città del
Sole dispone effettivamente del massimo potere, sapienza e amore. L'intera vita della Città del Sole è
completamente irradiata dalla pienezza d'essere che scaturisce dall'incontro con il divino rappresentato
appunto dal Sole. L'incontro e il mantenimento del contatto con il divino garantisce alla Città la pienezza di
verità, plenitudo veritatis, nell'ambito sociale e politico.
Come ho già accennato, uno dei problemi fondamentali che Campanella doveva risolvere nella
trasposizione della sua teocrazia in ambito politico era costituito dalla contrapposizione tra potere spirituale e
potere temporale. Sarà possibile comprendere la soluzione campanelliana a questo problema soltanto tenendo
conto le sue premesse metafisiche, e in particolar modo la stretta continuità tra il mondo naturale e quello
soprannaturale. Non a caso Di Napoli aveva osservato che la soprannaturalmente (cristianamente) ierocratica
civitas Dei ha la sua rispondenza nella naturalmente ierocratica civitas Solis. Non sarebbe dunque
concepibile un potere temporale separato da quello spirituale, soprattutto tenendo conto che la Città del Sole
è tutta pensata su base analogica, ovvero in riferimento all'Universo vivo e quindi a Dio. L'ideale politico e
religioso del frate di Stilo è infatti il governo dell'umanità da parte di Gesù Cristo, esercitato attraverso il
Sommo Pontefice (Metafisico) come suo vicario sulla terra. Alla Chiesa (così come Campanella la pensava)
doveva dunque essere subordinato ogni potere temporale. Abbiamo già visto che questa dottrina implicava
un ritorno all'agostinismo politico dell'alto medioevo. In gioventù Campanella aveva già avuto modo di
esprimere la sua idea di un governo universale del papato in due scritti andati perduti (Della monarchia dei
cristiani e Del governo ecclesiastico). Ancora questa idea ricompare comunque nello scritto Discorsi
universali, del 1631, che riassumono il trattato giovanile sul governo della Chiesa. Compare anche negli altri
trattati politici dello Stilese, negli Aforismi politici per esempio. Ma su quale idea si basa questa concezione?
Il punto di partenza di questa teoria del governo mondiale ierocratico è senz'altro l'idea della somma potestà,
ossia del dominium, secondo la quale nessun uomo può governare gli altri se non in quanto luogotenente di
Dio. Ciò implica naturalmente che il Papa, rappresentante di Dio sulla terra, sia allo stesso tempo anche il Re
supremo (governante sui principi e signori) del mondo. In questo modo emerge il principio, caro al
Campanella, per cui i titoli giuridico-politici non hanno più un valore proprio fondato sul diritto naturale
contrapposto o comunque indipendente ai titoli divini (ma al contrario sono assorbiti tutti all'interno della
sfera dei titoli divini). L'ambigua equiparazione campanelliana della religione naturale con il cristianesimo
manifesta ora una delle conseguenze più radicali in campo politico: il diritto naturale viene assorbito
all'interno del più ampio diritto divino. Chi rifiuta Dio, il non-religioso, l'empio, anche se possiede saggezza
e capacità di governo, non potrà presiedere all'esercizio di controllo sulla comunità né potrà governare sugli
altri, poiché il diritto si fonda sulla vicinanza a Dio e l'empietà (ovvero la mancanza di religiosità)
corrisponde ad un allontanamento da Dio che è il fondamento del diritto e del dominio. La contrapposizione
con Machiavelli è radicale. Dio può naturalmente permettere che l'empio governi, però sarà in qualità di
carnefice e quindi si tratta di un governo del tutto "negativo". Ricondurre ogni diritto di dominio all'unico
Dio significa far riemergere la teoria dell'Unum e della sottomissione delle parti al Tutto. Campanella stesso
sostiene che Dio avrebbe potuto mandare ad ogni regione un apostolo e farlo capo assoluto e padre spirituale.
Ma «perché tra loro non nascesse disparere d'opinione nella religione e controversia nella politica ha fatto un
capo per tutti alla cui obbedienza e determinazione tutti consentendo vivessero uniformi, sicuri della verità
dell'altra vita, e senza guerra e discordia in questa mortale». È facile notare con Anton Truyol y Serra che
l'idea della ierocrazia mondiale in Campanella, come in Dante l'idea della monarchia mondiale, converge di
conseguenza in quella della pace universale. In Campanella il monarca universale poggia il suo diritto sulla
religione cristiana in quanto manifestazione della capacità naturale di conoscenza speculativa e pratica. Si
capisce dunque come mai Campanella rifiuti nettamente la posizione di Dante, Marsilio da Padova, e dei
Riformatori.
Questa teoria della universale monarchia pontificia doveva naturalmente implicare importanti conseguenze
nell'ambito giuridico internazionale. Un chiaro esempio è offerto dal commento alla occupazione del Nuovo
Mondo da parte degli spagnoli. Nello scritto "Discorso delle regioni che ha il Re Cattolico sopra il Nuovo
Mondo", Campanella sostiene che le nuove terre appartengono di diritto al Papa Alessandro VI poiché egli è
signore e giudice del mondo, con conseguente, ovvia, capacità di disporre dei territori recentemente scoperti
a favore dell'una o dell'altra potenza.
Una ulteriore conseguenza di questa concezione giuridico internazionale della assoluta pienezza della
potestà pontificia consiste nell'idea di guerra giusta, concepita non solo come sanzione ma anche come
mezzo di correzione e perfezionamento dei vinti. Il Papa può e deve entrare in guerra per sottomettere i
ribelli e i nemici dello Stato universale e della religione. La priorità del Tutto nei confronti delle parti è
ancora una volta evidente.
Il disegno ierocratico della Città del Sole doveva costituire il risultato del governo mondiale pontificio.
Quello che Campanella aveva in mente era un disegno di unità e la forza unificatrice non era altro che
l'effetto della rivoluzione, del rinnovamento, del ritorno all'età dell'oro. Non appena tutti i popoli vivranno
sotto lo stesso potere spirituale e temporale, le situazioni di dominio politico particolari saranno private di un
autentico significato. Così Campanella finisce con il sottolineare che la fusione dei popoli alla nascita del
nuovo secolo d'oro porterà all'uomo non solo la felicità dell'anima ma anche il benessere materiale. La
fusione delle nazioni, ora opposte tra loro a causa della mancanza di un potere unificante e di un diritto di
dominio che discende direttamente da Dio, porterà con sé la fine delle guerre, ma anche della fame e delle
carestie, grazie ai trasporti rapidi e al traffico di mercanzie da un estremo all'altro del territorio. Il progresso
delle scienze si vedrà enormemente accelerato perché non incontrerà più ostacoli come la diversità delle
lingue e delle opinioni o la scarsità di osservatori e mezzi di osservazione in determinate regioni. Ma questa
situazione potrà verificarsi solamente con la nuova Età dell'Oro ovvero con l'instaurazione della Città del
Sole universale. Nel mondo reale attuale, infatti, il pluralismo statale non è superato e la monarchia
universale dovrà fare i conti con esso ancora per molto tempo. Nel mondo storico in cui è chiamato ad
operare, il governo mondiale ierocratico non distrugge i piccoli regni e le repubbliche particolari, al contrario
le perfeziona e le rafforza poiché le unisce. La teoria della corrispondenza analogica, anche in campo
politico, riemerge con tutta la sua forza. Il ritorno all'Età dell'Oro sarà possibile solo con il ritorno all'unità
pur nel rispetto delle realtà particolari così come l'universo è uno ed i pianeti molti. Il rapporto uno-
molteplicità deve basarsi un equilibrio dinamico che prenda come esempio la realtà del mondo naturale e
metafisico. In questo quadro generale non si deve dimenticare l'importanza dell'astrologia (già nella Città del
Sole il corso degli astri annunciava un ciclo di pienezza storica, favorevole agli sforzi umani). Né si deve
dimenticare che il cristianesimo al quale Campanella fa riferimento è alquanto modificato. Questo quadro di
generale attesa mistica e mitica non deve però portare a credere che Campanella sia stato un "poeta della
politica", un semplice visionario. Al contrario, come è stato opportunamente ricordato da molti studiosi, lo
Stilese percepiva perfettamente il senso e le conseguenze delle scoperte tecniche del suo tempo, della
scoperta dei nuovi mondi, dell'invenzione della stampa, delle prime armi da fuoco, la possibilità di
circumnavigare la terra ecc. La politica di Campanella, come ha osservato Anton Truyol y Serra, può infatti
essere considerata "realista": «I trattati di Campanella che possiamo chiamare "di politica realista" posso
essere classificati in due gruppi cronologicamente ben differenziati e successivi. Il primo gravita intorno
all'apologia dell'Impero spagnolo come strumento della monarchia universale pontificia, il secondo - che
corrisponde all'epoca della sua liberazione, cioè, dei soggiorni a Roma e a Parigi, dove morì - cerca di
affidare alla Francia la grande opera. La principale delle opere "ispanofile" è la Monarchia Hispanica
(Monarchia di Spagna), molto letta nel secolo XVII, e che ha nei Discorsi ai principi d'Italia del 1607 un
compimento importante. Se la celebre Epistola quinta di Dante era stata un incitamento ai principi d'Italia
perché appoggiassero gli sforzi di Enrico VII a favore della restaurazione del potere imperiale nella penisola,
i Discorsi di Campanella costituiscono un salmo in onore della pax Hispanica come supporto temporale della
monarchia spirituale, che i poteri italiani dovevano appoggiare. Gli scritti che al contrario trasferiscono alla
Francia questa missione storico-universale sono meno conosciuti. Il più rilevante (1635) deve il suo titolo, Le
monarchie delle nazioni, alle parole con cui inizia, ma ben avrebbe potuto chiamarsi "Monarchia di Francia"
e così la designa di fatto il Di Napoli. Ad essa bisogna aggiungere la Ecloga latina che Campanella compose
in occasione della nascita del Delfino di Francia, il futuro Luigi XIV, e in cui confidava nella pax Gallica per
vedere realizzati gli ideali della Città del Sole»392. Abbiamo già rilevato che il cambiamento di atteggiamento
di Campanella rispetto alle due prime potenze del suo tempo non significa in nessun modo una virata
radicale nell'ordine dei principi: l'unica cosa che esprime è casomai una nuova valutazione dei mezzi del
potere. Campanella mantiene sempre il suo punto di vista per cui la spada temporale appartiene al Papa per
mezzo della potenza che in ogni momento risulta la più idonea (ovvero la più forte militarmente ed
economicamente). Poiché il Papa non disponeva di una forza militare adeguata, doveva fare affidamento sui
principi cristiani. Dunque non erano solo alcuni stati o principi ad essere chiamati a svolgere un ruolo
speciale: era piuttosto l'insieme dei membri della cristianità che dovevano considerarsi come unità, per cui
tutti erano coinvolti e responsabili in base alle loro differenti possibilità. Il rinnovamento del secolo era e
Campanella una impresa comune, alla quale tutti dovevano partecipare. Soprattutto nei primi scritti politici il
frate di Stilo sembrava propendere per idea di una alleanza delle potenze cristiane sotto la direzione del Papa.
In seguito cercò di indurre l'Impero spagnolo a fornire l'impulso decisivo per la realizzazione del sogno
ierocratico. Quindi si aspettò dalla Francia questa iniziativa, senza peraltro abbandonare mai del tutto l'idea
392
Anton Truyol y Serra, Hierocracia mundial y estados particulares en Campanella, in "Tommaso Campanella", Deputazione di Storia patria per la Calabria, Atti del
convegno, cit., pp. 537-563
di una confederazione cristiana guidata dal Papa. A questo proposito Anton Truyol y Serra aveva osservato
che «allo stesso modo che in Dante e nei teorici tedeschi dell'Impero nel medioevo, la teoria della monarchia
universale cristiana sfocia in Campanella in una filosofia della storia di grande respiro che ruota intorno
all'idea della Provvidenza»393. Abbiamo già visto che parallelamente alla critica della svalutazione
neoplatonica del mondo, Campanella pensa ad una struttura regolatrice del Cosmo, ordinato secondo una
serie di Influenze magne. Questa concezione è strettamente legata anche alla credenza nell'astrologia e nella
magia. Come si è già ricordato, Campanella era convinto che fossero imminenti modificazioni profonde nella
storia dei regni e delle religioni, che pure hanno un oroscopo che ne determina la nascita, lo sviluppo e la
morte. Ogni cosa ha senso soltanto se inserita nella grande vita del Cosmo, nel Tutto-Uno universale. Questa
grande vita, considerata nella sua globalità come nel suo aspetto microcosmico, subisce gli influssi
astrologici e le operazioni del mago-astrologo (nel caso del Frate di Stilo anche poeta, rivoluzionario e
scienziato politico). Le Magne Influenze, come abbiamo visto, non sono altro che facoltà magiche attribuite
in ultima istanza a Dio. L'idea di Provvidenza deve essere dunque inserita nel quadro più ampio della
concezione metafisica campanelliana. La Provvidenza esercita la sua azione mediante le Magne Influenze, le
quali possono essere studiate con profitto (se non addirittura parzialmente modificate) dall'intervento del
mago astrologo. Così dunque la magia astrologica si inserisce nel campo della filosofia politica e della
filosofia della storia.
L'intervento della Spagna viene così visto da Campanella come l'ultima tappa (il corso ulteriore della storia
dirà se definitivamente l'ultima) della progressiva restaurazione dell'unità spirituale e materiale dell'umanità.
La Spagna assume dunque l'eredità degli Assiri, dei Medi e dei Persiani, dei Greci e dei Romani, e ciò spiega
la sua espansione voluta da Dio, imprevedibile dal punto di vista umano (altro discorso sarà riservato per
l'astrologo). Campanella continua a sottolineare il principio di ordine superiore che pone le azioni
individuali, indipendentemente dal loro significato soggettivo, al servizio di una finalità oggettiva che le
supera e le colma di significato. Anton Truyol y Serra paragona la Provvidenza di Campanella alla Ragione
di Hegel, ma credo che questa operazione sia resa impossibile anzitutto dalla personificazione campanelliana
della divinità-Ragione e dal fatto che l'orizzonte entro cui si muove la Provvidenza campanelliana è mitico:
le Influenze Magne non operano sotto la spinta di una ragione dialettizzante che procede per stadi; si tratta
piuttosto di un oscuro procedimento magico che ha come fine ultimo il ritorno al tempo mitico delle origini,
all'Età dell'Oro. Magia ed astrologia si inseriscono con pieno diritto in questo orizzonte e la ragione
dialettizzante è solo un aspetto della realtà. L'altro aspetto fondamentale è il Mistero, il mondo magico delle
origini, del tempo in cui tutto era possibile. La ragione, anche se divina, non è mai per Campanella una forza
onnicomprensiva, che giustifica ogni evento e comprende in sé lo svolgersi del tempo. Ci sono anche forze
estranee alla dialettica della ragione, forze magiche e spirituali, che seguono percorsi alternativi e sono a loro
volta soggette a forze che non sono sottomesse alla Ragione.
Anton Truyol y Serra ha scritto giustamente che «questa missione storico-universale della Spagna, a sua
volta, riceve il suo significato ultimo alla luce di una evoluzione degli imperi che allo stesso tempo spiega
che giustifica il suo auge e la sua decadenza. Il cambiamento delle cose è necessario, perché tutte abbiano un
inizio, una fase intermedia, ed una fine. Se per esempio non fosse crollata la dominazione romana, né la
Francia, né la Germania, né la Spagna avrebbero potuto conseguire un'esistenza gloriosa, per non parlare
degli Arabi e dei Turchi, che avrebbero continuato ad essere sconosciuti: dunque risponde all'ordine della
giustizia divina colui che conferisce un potere a tutti i popoli - ad alcuni immediatamente ad altri più tardi - e
si serve di essi per castigarli a vicenda per l'abuso dei suoi doni. Gli Italiani devono comprendere che passò
per essi irreversibilmente l'epoca dell'egemonia. "Nulla nazione dopo perduto l'imperio ha potuto recuperarlo
più". Da ciò si deduce che il primo imperativo etico politico dei contemporanei e patrioti di Campanella non
potesse essere altro, secondo lui, che quello di cooperare con la potenza cristiana dominante - e allora era la
Spagna per l'appunto - nel compimento della sua benefica missione» 394.
Parlando di un imperativo etico-politico è però necessario insistere sul tema della Provvidenza e della sua
relazione con il problema del libero arbitrio. Accanto a Dio, inteso come prima causa, intervengono
l'opportunità e la prudenza come fattori secondari concomitanti dell'accadere storico. Dal loro
congiungimento si ottiene il concetto di Fato (Destino) a sua volta collegato al concetto di Influenze magne
che abbiamo prima analizzato. Nonostante questi tre fattori agiscano in ogni circostanza in diverso grado e
soltanto la prima causa (Dio) sia irremovibile, rimane alla ragione umana un margine sufficiente per
contribuire positivamente al divenire del mondo storico. È dunque possibile la politica come scienza e come
conseguenza da una parte della logica e dall'altra della prudenza astrologica. Collegata a questo discorso è
393
Ibidem.
394
Ibidem.
l'idea di federalismo e di differenze nazionali tanto cara al Campanella. Un impero universale guidato da uno
Stato egemonico non può, a lungo andare, reggersi esclusivamente sulle forze nazionali di questo, ma deve
servirsi razionalmente dei diversi popoli, dando loro alcune soddisfazioni, valorizzandoli e interessandoli
attivamente al mantenimento del Tutto di cui fanno parte. Fondamentale è dunque la ricerca ed il
mantenimento di un equilibrio che da una parte faciliti il mantenimento del Tutto organico in analogia con il
sistema metafisico del macrocosmo e d'altra parte non svilisca le singole realtà nazionali portatrici di una
storia irripetibile. Abbiamo già detto che Campanella vedeva il punto più debole dell'Impero Spagnolo
nell'indebolimento demografico e nella decadenza economica. Da qui l'importanza attribuita all'eugenìa
(secondo la metodologia esposta nella Città del Sole). Sappiamo che uno dei metodi pratici che proponeva
per consolidare il potere spagnolo era quello di promuovere i matrimoni tra persone appartenenti a diverse
ragioni sottomesse al Re di Spagna con l'obiettivo di predisporre la fusione dei popoli ed il miglioramento
delle sue razze (pur mantenendo ciò che le tradizioni secolari dei singoli Stati potevano portare di utile per la
vita della ierocrazia mondiale). Un secondo metodo doveva consistere in trasferimenti di elementi di diverse
popolazioni da una regione all'altra, per fini economici o politici. È dunque evidente che il concetto di
stabilità ed omogeneità del Tutto appare prioritario rispetto alla salvaguardia delle singole realtà individuali e
statali. Campanella non si stanca mai di insistere sull'importanza del progresso delle scienze e per questo
propone con insistenza la fondazione di scuole di nautica, di matematica e di meccanica. Non è il caso di
insistere ulteriormente sulle speciali osservazioni di psicologia dei popoli che Campanella aveva formulato
con particolare riferimento al percorso storico e geografico. Si dovranno invece precisare ancora un poco i
motivi che spinsero il Frate di Stilo a preferire la Francia come nazione in grado di instaurare la Città del
Sole universale.
Già nelle sue opere favorevoli al dominio spagnolo, Campanella aveva segnalato che questo, a differenza
dell'Impero Romano, sorse più grazie alla fortuna ed a circostanze favorevoli, a matrimoni e successioni, che
per l'assennatezza degli Spagnoli, e che doveva dunque la sua ascesa più a forze estranee che alle proprie.
Era chiaro il concetto: senza l'intervento delle Influenze Magne e del Fato non sarebbe stato possibile anche
alla Nazione più forte il dominio del mondo. In particolare Campanella aveva cominciato a rimproverare alla
Spagna un cesaropapismo che voleva invertire il rapporto di subordinazione temporale-spirituale, attenendosi
alle esigenze religiose sono in misura della propria convenienza. La nazione più idonea ad assumere il
comando al posto della Spagna era ora la Francia. Nei disegni del Campanella, così come si legge nella
Ecloga latina, la Francia avrebbe dovuto sottomettere al Papato riformato in senso ermetico un mondo
riformato. Abbiamo già detto che si potrebbe rimproverare a Campanella il non aver denunciato nella
politica di Richelieu lo stesso utilitarismo religioso che era stato giustamente attribuito alla Spagna, ma
sappiamo che il Frate di Stilo era convinto che l'ascesa di una Nazione dipendeva più dal Fato che dalle
astuzie dei singoli politici. In ogni caso, con il passaggio di preferenza dalla Spagna alla Francia si verifica
anche un mutamento di concezione. Se pensando alla Spagna Campanella incitava alla creazione di uno
Stato-Impero ora, pensando alla Francia, cercava piuttosto di facilitare l'esercizio di una egemonia mondiale,
piuttosto che la creazione di uno Stato francese propriamente detto (mondiale ed accentrato). Forse, come
osserva Anton Truyol y Serra, Campanella si era già reso conto che era passato il momento
dell'universalismo politico e dello stato centralizzato. Ma la prospettiva globale non cambia. L'idea era
comunque sempre la stessa: la riforma universale doveva essere preparata militarmente e con alleanze
politiche da uno Stato solo, il quale avrebbe poi dovuto consegnare al Papato il dominio del mondo intero,
riunificando in questo modo il potere spirituale con quello temporale, nella giusta dipendenza dell'uno nei
confronti dell'altro. Il problema era dunque solo tecnico, e meno che mai Campanella aveva pensato di
modificare il suo disegno, tanto è vero che, sempre nella Ecloga latina, parla chiaramente della "Urbs
heliaca" universale, riprendendo le stesse espressioni della Città del Sole.
Pur con qualche variazione, le tesi politiche e religiose di Campanella si mantengono dunque
sostanzialmente omogenee e coerenti in tutto l'arco del loro sviluppo. Un esempio ci viene fornito anche
dalla lettura del Quod reminiscentur (titolo completo: Che si rammenteranno e si convertiranno al Signore
tutti i Paesi della Terra), che doveva appunto costituire una "Orazione al Sommo Iddio [...] destinata a
risvegliare la reminiscenza di Dio in tutto il genere umano" 395. Già da queste frasi iniziali è possibile scorgere
il noto tema dell'Età dell'Oro perduta, dimenticata, che è necessario ristabilire tramite un nuovo incontro con
il Dio creatore. Non è dunque possibile, come abbiamo già detto, accettare le tesi di L. Negri, secondo il
quale «grazie alla riscoperta di alcune opere inedite di Campanella, quali la Theologia e il Quod
reminiscentur, si è potuto giungere ad una interpretazione più aderente della vicenda del filosofo di Stilo»
tanto che «sembra ora impossibile sostenere, come l'Amabile, che il fervente deismo, riposto nella Città del
395
T. Campanella, Quod reminiscentur, a cura di R. Amerio, Cedam, Padova, 1939.
Sole, abbia accompagnato fino alla morte i pensieri più intimi del Campanella» 396. Al contrario, è necessario
essere particolarmente fermi su questo punto, pena l’impossibilità di cogliere il senso genuino dell'opera
campanelliana (a meno di non voler tacere alcuni "particolari" scomodi con interpretazioni ... accomodanti).
Per il chiarimento di questo problema (la questione dell'ortodossia campanelliana) rimando alla breve
Appendice posta alla fine di questo lavoro. Per ora ricordiamo solo questo pensiero di Negri, che
francamente sembra uno dei pochi accettabili: «Il Quod Reminiscentur non è certo da annoverare tra le opere
politiche campanelliane, ma a noi è sembrato importante menzionarlo perché riteniamo che il disegno
ecumenico del Nostro non possa restare avulso dalla profonda esigenza, più volte avvertita da Campanella, di
ricomporre ad unità la frantumazione religiosa del suo tempo. Quest'opera, più di qualunque altra, mostra lo
sforzo, da parte del filosofo, di ricondurre l'intera umanità verso l'universalismo ierocratico, che può essere
realizzato solo tramite il missionarismo della Chiesa. Proprio per questo lo Stilese vuole togliere gli "abusi"
di quanto ha potuto falsare l'immagine della presenza storica di Cristo: la corruzione mondana e i residui di
gentilismo presenti tuttora tra i ministri di Dio»397.
Passiamo ora alla citazione di alcuni passi del Quod reminiscentur con l'intenzione di metterne in evidenza
l'omogeneità con le altre opere e per mostrare come non siano accettabili le tesi volte ad accreditare una
presunta conversione o quantomeno un presunto passaggio da una fase "deistica" ad una, più matura, durante
la quale il frate di Stilo sarebbe ritornato ad abbracciare un cattolicesimo ortodosso. Per questo sarà
sufficiente da una parte ricordare che il Frate di Stilo scriveva dal carcere, dopo anni di detenzione in
condizioni che difficilmente possiamo paragonare a quelle delle carceri attuali, indirizzando i propri scritti
all'attenzione del potere ecclesiastico e molto spesso del Papa in prima persona (le uniche autorità in grado di
provvedere ad una eventuale scarcerazione). Non devono dunque stupire alcune affermazioni di pentimento e
scuse, soprattutto se immediatamente seguite da affermazioni perfettamente in linea con le opere precedenti,
considerate da alcuni critici "panteiste" o "deiste".
Nel Quod Reminiscentur è infatti Campanella stesso a ricordare «Io lo riconosco per tua gloria e per mia
confusione: fra gli innumerevoli ingegni tu avevi collocato il mio in posizione non oscura, e non c'era nel
mondo cosa che filosofo, legislatore, poeta, cosmografo, medico, astrologo o altro cultore di scienze aperte
ed occulte [corsivo mio], così antico come moderno, conoscesse, la quale io non mi fossi studiato di
apprendere. Anzi tentando di esaminare nuovamente tutte le scienze sul codice della natura [corsivo mio], in
cui tu disseminasti le tue scienze vive, mi ero accinto a riformarle, senza prima essermi riformato, e mi
pareva di intendere, più di coloro che mi ammaestravano, le istorie del mondo dal principio sino al presente,
le genealogie, gli eventi e i paesi di tutte le nazioni, e le sedi in cui ciascun evento si era svolto, e come le
mutazioni del cielo corrispondano dappertutto a quelle della terra [corsivo mio], studiandomi di abbracciare
tutto col pensiero e colla memoria, della quale mi pareva non essere uomo al mondo cui tu avessi dato un
così immenso, non dico mare, ma cielo. Anche gli arcani occulti dentro e sopra il cielo io investigai con non
volgare acume [corsivo mio]. E mi pareva di penetrare le parabole e i proverbi e i poemi, e di sventare i
sofismi, e di scrivere meglio di ogni altro, ed ero divenuto come colui il quale cammina tra le pietre preziose
splendenti come il fuoco e a cui pare di non avere oggetto da onorare migliore di se stesso. Perciò tu, o
giustissimo Iddio, mi umiliasti e mi togliesti la possibilità di esercitare l'ingegno, affinché pensassi soltanto
al giudice che così mi provava, e non potessi ostentare la mia sapienza e glorificarmi in essa, tranne che di
fronte a draghi e a bestie, che stimano nullaggine quel che vado loro dicendo intorno alle cose più eccelse e
mi prendon per pazzo, quando il discorso non si aggira intorno a dadi, bossoli, bagatelle e cose profane. E
perciò mi furon levati i libri dei santi Dottori e dei filosofi, perché non potessi nemmeno dalla loro
conversazione trarre qualche diletto. Ma sei tu, o Signore, che mettesti nel loro cuore di far così, affinché non
potessi disporre di quegli autori che avevo frequentato con non retta intenzione e così la mia mente, ormai
sazia delle altrui dottrine, si dedicasse interamente a te solo. Buon per me, o Signore, che tu mi umiliasti:
infatti, riformando la mia vita in seguito all'umiliazione, mi trasportai tutto alla divina scienza. Adesso
concepisco il profondissimo dogma della Santissima Monotriade in modo da vederne e quasi palparne con
mano la evidentissima credibilità: da questo arcano sono andato specolando in tutte le scienze verità mirabili.
Non c'è infatti cosa alcuna che non ti renda testimonianza: ma io lo ignoravo, anzi in qual modo lo ignoravo!
Indi l'anima mia riconobbe se stessa e il corpo coi suoi lacci, e intese con quali ali si vola a te: ed ora,
risvegliata dagli splendori tuoi, che tralucono per la materia, rammentandosi della tua infinita bellezza, anela
ad unirsi con i divini splendori remotissimi e insieme vicinissimi a noi. Meraviglia delle meraviglie! [...] E
così tu mi inspirasti di diventare, per la salvezza, servo di tutti, dopo aver voluto esser signore di tutti, e di
risvegliare negli uomini la reminiscenza di te [corsivo mio], come era stata risvegliata in me. Hai amato il
396
L. NEGRI, Fede e ragione in Tommaso Campanella, cit., p. 39.
397
L. NEGRI, cit., p. 170.
frutto del pentimento, non la causa del pentimento. O Signore, che esaudisci il povero e non disprezzi la tua
creatura incatenata, ma in mezzo al regno di morte la serbi in vita per la tua gloria, ti lodino cielo e terra e
mare e quanti sono in essi viventi. Infatti considerando le esorbitanze celesti e la calata del Sole verso la
Terra e la trasposizione delle stelle e degli equinozi e dei solstizi e l'azione dei pianeti e la scoperta di nuovi
continenti e di nuove stelle e gli altri portenti del nostro secolo, io cominciai a meditare che cosa la tua
provvidenza andasse preparando, e, colpito dal tuo flagello, intesi e scrissi. Adesso poi per mezzo dei
portenti meravigliosi e dei vaticini dei profeti, attraverso i quali hai parlato, mi studierò di richiamare tutti i
popoli alla memoria di te e al divino culto. Si scrivano dunque queste cose in una generazione novella e il
popolo, rinnovato, loderà il Signore per aver guardato dal suo tempio eccelso, per aver mirato dal cielo in
terra, ascoltando i gemiti dei carcerati e liberando i figli dei martiri trucidati, sicché annunzino il nome del
Signore in Sion e la sua lode in Gerusalemme per radunare re e popoli al servizio del Signore [corsivo mio].
O Signore, tu che mi ammaestrasti fin dalla mia giovinezza e di cui io canterò le meraviglie ora e sempre
fino alla vecchiaia e alla decrepitezza, non abbandonarmi prima che io annunci la tua potenza a ogni
generazione ventura, e canti come Iddio salverà Sion e saranno riedificate le città di Giuda [corsivo mio]».
Non credo sia difficile accorgersi che, dopo le righe iniziali (dove viene espresso un generico pentimento
per aver concentrato l'attenzione più ai testi e alle dottrine filosofiche-astrologiche che a quelle ortodosse),
Campanella non esita a parlare del Secolo Nuovo, nel quale saranno riedificate le città di Giuda,
preannunciato da eventi astrologici ben precisi, arcani che solo una sapienza ermetica avrebbe potuto
decifrare. Anche qui, come altrove, il Frate di Stilo non esita a rivendicare con fierezza il proprio ruolo:
Campanella è il profeta del Secolo Nuovo che sta per iniziare, durante il quale verrà instaurata la Città eliaca
universale e nel quale sarà possibile vivere nella pace mondiale, in una specie di Eden artificiale. Infatti,
poche righe dopo, scrive:
«Eccita, o Signore, i nostri cuori, perché ti preparino le vie. Illumina il tuo pontefice e fortificalo nella via
della verità, perché getti e mantenga un saldo ponte fra te e gli uomini. Manda i tuoi angeli al tuo vicario, ai
cardinali della tua Chiesa e ai re della terra, affinché, mirando alla rinnovazione del mondo, si volgano con
tutte le forze a guadagnare le anime preziosissime dei Giudei, dei Maomettani, dei Gentili e degli eretici, per
le quali hai versato il sangue, convochino un'assemblea di tutto il genere umano e mostrino che tu solo sei il
Signore e te solo devono tutte le nazioni adorare». Come può Campanella credere francamente di essersi
sbagliato per le sue posizioni giovanili ed augurarsi ora addirittura che il Pontefice sia illuminato e fortificato
da Dio per intraprendere la riunificazione del genere umano? Si tratta di una posizione francamente
paradossale, tale per cui risulta incredibile il pentimento iniziale. Esso riguarda la forma, non la sostanza
delle posizioni giovanili, tanto più che Campanella è ancora convinto, prigioniero in carcere, di essere
investito da una missione divina:
«Anche alla nostra sorella la beata Caterina da Siena fu detto da Dio che i frati domenicani porteranno agli
infedeli l'ulivo della pacificazione con Dio: su tutti sarà la pace, quando ci riuniremo mediante un'unica fede
sotto un unico pastore all'unico Dio il quale, come profetava Davide, "si volse ad ascoltare il gemito dei
carcerati", quale fui io per diciannove anni, "e liberarli e riunire i popoli e i re, affinché servano al supremo
Signore", dal quale riceveranno la vita eterna. Mi chiamo infatti CAMPANELLA, di cui è officio chiamar gli
uomini a Dio. Coloro che credono, si accostino; e coloro che non credono, si accostino similmente, per
apprendere o per insegnare. Vi reco un annunzio giocondissimo: da questa assemblea generale del genere
umano sorge un altro bene mirabile. Saranno cioè deposte le armi, onde difendiamo i nostri dogmi a guisa di
bestie, e si verrà alle ragioni e alle discussioni e alle comunicazioni, e tutto il mondo sarà riempito di pace e
di scienza, e non si eserciterà più alla guerra: così infatti è stato profetato da Isaia, da Michea e da Davide.
Ciascuna nazione comunichi le leggi e i libri sacri della sua religione, tradotti nelle altrui lingue, a ciascuna
altra nazione, affinché tutti possiam comprendere contro quali dogmi e quali prove ci tocchi combattere, e
sapere quanto neghi e quanto conceda ciascun legislatore, per poter argomentare anche da quel che ciascuno
ammette. Così si esaminerà il vero, si propagherà la dottrina e ciascuno riceverà da tutti lode in quel che
professa di vero, e sarà da tutti corretto in quanto tiene di falso. Il padre Adamo si rallegrerà dei suoi figliuoli
e Dio sarà glorificato nelle sue creature. I Cristiani che, a mio avviso e secondo la fede, sono i più sapienti tra
i mortali, sogliono, in caso di dissenso, convocare concilio generale di tutti i soggetti più eccellenti, cioè di
tutti i vescovi, che sono i nostri maestri, nonché dei re e dei saggi, i quali ultimi hanno da ascoltare e
consigliare e avvisare (i re tuttavia vi mandano i loro legati e raramente intervengono di persona). Che cosa
vieta dunque che i re dei Gentili e dei Maomettani e gli antistiti dei Giudei e dei Cristiani si radunino, anche
soltanto per mezzo di legati e di uomini sapienti, ai quali si commetta la discussione intorno alla fede, e che
quello che tutti insieme avran finalmente decretato dopo divine dimostrazioni, si creda vero e da tutti ? La
divina verità infatti non abbandonerà una così generosa assemblea radunata nel suo nome, purché si osservi
questa legge, che cioè chi sarà vinto con ragioni, testimonianze, profezie e miracoli, rivendichi a sé il lucro
della riconosciuta verità e conceda al vincitore la gloria. I beni temporali continuino ad appartenere, come
prima, agli attuali possessori, ma i vinti ricevano dai vincitori i maestri della religione. Titolo delle questioni
che si sogliono dibattere per la conversione degli infedeli, trattate praticamente nel seguente volume e già
ventilate teoricamente nella nostra Metafisica e nella nostra Teologia attraverso tutte le scienze». Oltre a
qualche evidente accenno alla Città del Sole, qui non nominata apertamente, Campanella rivendica per sé il
ruolo di Profeta, e ripete apertamente il suo disegno rivoluzionario («su tutti sarà la pace, quando ci
riuniremo mediante un'unica fede sotto un unico pastore all'unico Dio»). Naturalmente, se i popoli sapranno
unirsi sotto la guida dell'unum pastor, anche le stelle potranno essere agevolmente utilizzate per il
conseguimento in terra della città celeste:
«Un astrologo ferrarese scrisse che nella presente epoca il clero rovinerà nell'avarizia e nell'ambizione e
non avrà più cura alcuna delle cose spirituali; ma certo questa profezia egli non la dedusse dalla
considerazione degli astri, come attesteranno con me quelli che sono anche solo mediocremente versati in
tale scienza, ma piuttosto argomentò e divinò, dai costumi del clero e mosso da malevolenza, la natural
conseguenza di tali costumi. Che se la tua Santità intraprenderà l'opera che ci auguriamo, gli uomini appren-
deranno che l'umana libertà, specialmente nella religione, non è soggetta alle stelle, ma usa le stelle,
vivendo secondo ragione, e anzi, vivendo secondo religione, signoreggia le stelle, come abbiam dimostrato
inoppugnabilmente nella nostra Astrologia [corsivo mio]. Quando i principi del secolo giuocano il loro
giuoco a loro familiarissimo, vincono infallantemente i chierici, perché i figli di questo secolo sono nel loro
genere più prudenti dei figli della luce; ma se tu avvierai il tuo giuoco, in cui per contro più prudenti sono i
figli della luce, quelli saranno vinti: se segui Pietro trionferai, se Machiavelli, cadrai schiavo e ti sarà detto
"Indietreggia o Satana, poiché non conosci le cose di Dio, ma le cose degli uomini" (Matteo, 16). Lì è per voi
fortezza e libertà, qui soltanto timore e schiavitù. Sorgi, o vigilantissimo Pastore, che come Pontefice getti il
ponte tra Dio e gli uomini, che sei mediatore fra noi e Dio, adempi il tuo ministerio, e tutto il resto vi sarà
dato in più».
Per agevolare l'avvento della nuova Età dell'Oro, di seguito Campanella afferma: «Ritengo opportuno
elencare i rimedi già trattati nel libro De Regimine ecclesiastico e ventilati sotto Paolo III dai cardinali
preposti alla riforma, per il bene comune di tutto il clero, in vista di fare di tutto il mondo un sol gregge e un
sol pastore». E infatti mostra un lungo elenco di accorgimenti tattico-politici, di stile machiavelliano, per
accelerare la fine dei tempi attuali e l'instaurazione del dominio universale del papato riformato.

Teologia e politica

Come abbiamo visto, la grande complessità delle argomentazioni campanelliane sembrerebbe ridurre le
possibilità di una «riduzione» interpretativa, di un «chiarimento» valido per tutti, accettabile senza tante e
serie obiezioni. Giustamente, Rodolfo De Mattei, si chiedeva a questo proposito «Ma sarà possibile trovare
un accordo fra i critici, quando un accordo non v'è tra le numerosissime opere dello Stilese? Ha scritto oltre
cento volumi, questo vulcanico frate, e leggerli e ricapitolarli è difficile non solo per la mole e per l'intrico,
ma anche per la necessità di leggere oltre le righe, tra le righe. Ha scritto molto, in disparate e disperate
circostanze, sul monte di Stilo e nel sotterraneo del carcere, in Francia e in Italia, in latino e in italiano, in
versi e in prosa. Autori di questo genere sono fatti per disorientare e disperdere quanto dispersi e disorientati
sono stati essi medesimi. Ad accostarvisi, si assimila la loro qualità, come a mettersi nel moto di un
fiume»398. De Mattei aveva in questo caso perfettamente ragione. La mole e la varietà di livelli in cui si
muove l’abile frate sembrerebbe escludere qualsiasi giudizio finale. Campanella non si lascia «ridurre»: ed è
questo il fascino della sua ironia e del suo stile. In carcere scrive incoraggiando (!) il Papa alla renovazion
del secolo, lo sostiene nel dubbio e nell’indecisione politica, gli offre una utopia, un sogno da realizzare. Lui
stesso si offre per andare in Germania a convertire i calvinisti, promettendo di ritornare nelle carceri romane
appena compiuto il suo “dovere”, e cioè nell’arco di quindici mesi (!). Scrive esaltando la Spagna, poi la
Francia. Pone se stesso a capo di un movimento rivoluzionario armato, scrive di magia, di politica, di
astrologia, di teologia, di diritto canonico, di storia, di fisiologia, si interessa di medicina e psicologia, è
poeta, ribelle, romantico e sognatore. Scrive da solo, in cella, senza libri di riferimento, come lui stesso
denuncia più volte (è peraltro dotato di una memoria impressionante). Eppure non si rassegna, passa dal

398
R. De Mattei, La politica di Campanella, A.R.E., Roma, 1927, p. 7
carcere alla corte del Re di Francia, come si trattasse semplicemente di passare da una stanza all’altra della
sua abitazione. Scrive per discolparsi dalle accuse di eresia e ricolma la sua difesa di posizioni eretiche per
ogni verso, frammiste a passi “ispirati”, in cui rivela una grande finezza psicologica (è sconcertante come gli
elementi eretici contenuti nelle sue “difese” siano passati per lo più inosservati). Convince papa Urbano VIII
a praticare con lui alcuni riti esoterici al fine di allontanare la morte, indicata come imminente dalle profezie
astrologiche. In sede teologica scrive centinaia di pagine, compone un’opera monumentale qual è la Teologia
in 30 volumi, dove sfoggia una profonda conoscenza di metafisica classica, di filosofia scolastica, di diritto
canonico, di naturalismo e storia (mostra di conoscere in particolare Plinio il Vecchio) mescolando il tutto ai
noti elementi mitici ed ermetici, all’ansia della rinnovazione del secolo, al ritorno all’Età dell’Oro, ma nel
senso già spiegato nella sua Città del Sole. Scrive a più riprese di magia, narra di aver perfino praticato
magia nera... di aver avuto un incontro niente di meno che con il Diavolo in persona. Dice di essere ormai
pentito di queste sue azioni giovanili, ma non demorde: nelle sue poesie ricompare in ogni verso l’ansia di un
ritorno all’armonia delle origini, e la strada da percorrere non è certamente quella dell’ortodossia del suo
tempo, ma quella del ritorno al gran libro della Natura e alle possibilità magiche in esso contenute. Cita
Ermete Trismegisto perfino nella sua Theologia. Perfino in sede di teoria politica riesce a procurarsi l’accusa
di Machiavellismo ... proprio lui che aveva sempre preso di mira, non senza una certa malignità, il Segretario
fiorentino e la sua idea di astuzia ed arte politica! È frainteso, si lamenta, deve spiegare con esempi, chiarire
di continuo la sua posizione, in bilico fra il tradimento dell’ortodossia ed il tradimento di se stesso. Eppure...
Nonostante tutti questi elementi, a volte contraddittori, a volte addirittura paradossali, ho cercato di
mostrare più volte come si possano tuttavia trovare alcune invarianti, alcuni elementi costanti che
caratterizzano nel profondo il pensiero di Tommaso Campanella. Questi sono da collocarsi ad un livello più
profondo del discorso campanelliano, ovvero al livello del pensiero mitico. Abbiamo già insistito a
sufficienza su questo punto e non è il caso di ritornarci sopra.
Passiamo invece alle conclusioni di questo lungo percorso, durante il quale ho cercato di chiarire il nesso
tra il rapporto Religione-Natura, ovvero teologia-politica, Mondo di Dio-mondo degli uomini (Macrocosmo
e microcosmo, in altri termini), e tutti gli altri temi e livelli del discorso campanelliano.
Il discorso politico di Campanella, così come il suo mutevole atteggiamento di preferenza (prima nei
confronti della Spagna, poi della Francia....) mostrano a mio parere in modo chiaro qual è lo spirito del
nostro Frate, quale il suo stile. Egli si mantiene sempre fedele ai suoi propositi. L’unico suo obiettivo di
fondo è il rinnovamento dell’umanità, il ritorno al tempo mitico delle origini. Per questo gli è possibile
muoversi con tanta facilità da un livello all’altro, dal discorso metafisico e quello teologico, da quello
politico a quello antropologico. Per questo può preferire prima la Spagna per la sua missione di
rinnovamento universale, poi, come se niente fosse, appoggiare la Francia. È come se girasse intorno alla sua
preda e cercasse di colpirla da angolature diverse, con tattiche sempre nuove. Poco importa il metodo,
importante è il risultato.
Focalizzando l’attenzione sul discorso strettamente politico, è ora necessario avanzare alcune riflessioni.
Prima di tutto si deve notare che, fra tante opere, Campanella non scrisse mai un vero e proprio trattato
politico. Questo perché probabilmente riteneva sufficienti le indicazioni fornite in tutte le altre opere, in tutti
gli altri discorsi.
Queste molteplici indicazioni, come abbiamo visto, tendono tutte a ribadire la centralità di quel processo
analogico, imitatitvo, che porta all’uomo la salvezza ed il ritorno al tempo mitico delle origini: lo strutturarsi
della vita civile e della singola persona sul modello del Mondo, il Libro dove Dio ha impresso le sue leggi
eterne, costituisce una condizione ineliminabile per l’attuarsi della renovazion del secolo. Ricompare nel
profondo la solita concezione metafisica della realtà: il mondo è strutturato su base analogica, sul modello
divino. Volendo stravolgere la natura si stravolge in realtà il progetto di Dio. Le Primalità sono forze reali,
che convergono nell’orientare l’uomo al mondo del divino. Avevamo già visto che come in Dio ci sono le tre
primalità - assolutamente - così sono nel Mondo e nell'Uomo. Perché Dio e Mondo sono in fondo uniti,
questo è immagine, statua di Quello. Nella Metaphysica, quasi ripetendo l’espressione di Trismegisto,
Campanella aveva appunto sostenuto che «l'uomo è stato posto fra cielo e terra» 399, ha una parte celeste ed
una mondana. Tra microcosmo e Macrocosmo vi è corrispondenza, analogia. A sua immagine e somiglianza
l'uomo è stato creato: dunque se Dio si caratterizza per Sapienza, Potenza e Amore, così un riflesso di queste
primalità deve trovarsi nello specchio del Mondo e a maggior ragione nell'Uomo. Allo stesso modo acquista
una rilevanza tutta speciale la struttura astrologica e magica del mondo.
Avevamo già sottolineato un punto centrale della concezione metafisica campanelliana, che emerge con
forza là dove Campanella scrive: «Dalle principiazioni procedono le cause; dalle cause, in quanto unite,
399
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 283.
provengono i semi; dal concorso delle cose provengono le occasioni, regolate mediante la Necessità, il Fato e
l'Armonia, che hanno l'influsso dalle primalità, come la condizione acconcia le cause al causare» 400. Qui
Campanella utilizzava senza mezzi termini tre importanti figure, estranee alla tradizione ortodossa, quali
appunto Necessità, Fato ed Armonia. Queste tre figure - come abbiamo visto - esprimono delle modalità
regolative ed armonizzatrici di tutto il creato. Si tratta delle Influenze Magne, le quali in ultima analisi sono il
segno profondo del concetto di partecipazione analogica tra Microcosmo e Macrocosmo: «Tutte le cose, che
sono partecipazione di un ente, da esso hanno di essere simili, in quanto sono nello stesso tempo simili anche
ad esso; inoltre la somiglianza ci conduce alla conoscenza delle cose simili; esse infatti, in quanto simili,
sono un'unità; e chi sa l'uno, sa pure le cose une; inoltre esiste pure la dissomiglianza tra i simili in quanto
molti; la conoscenza del simile si compie con la conoscenza del simile solo in quanto conosciamo quanta e
quale distinzione esso abbia»401.
Le Influenze Magne sono alla base della storia e degli accadimenti del Mondo. La politica non può
ignorarle. Infatti lo Stilese tiene sempre vivo questo punto: per esempio, nella Monarchia di Spagna, da tutti
i critici riconosciuta coma una delle sue maggiori opere «politiche», Campanella, in questo caso influenzato
anche da Botero402, allo studio dei modi di mantenimento e di accrescimento premette un esame circa le
cause che concorrono alla conquista «d’ogni gran signoria» (Dio, prudenza, opportunità), «le quali unite
insieme si dicon Fato». Per Campanella dunque, come già aveva suggerito De Mattei, la scienza politica è
quella che ha per base la conoscenza dei principi eterni, delle leggi universali e di quelle particolari a ogni
nazione, nonché delle cause del progresso e regresso degli Stati: «arte» è l'abile gioco quotidiano di chi,
disinteressandosi dei principi eterni e dei dettami dell'esperienza storica e naturale, mira soltanto a risolvere i
problemi contingenti di un dominio incerto e violento403. Se queste osservazioni sono valide per chiarire la
differenza tra la concezione politica campanelliana e quella di un Machiavelli, sono altrettanto valide per
evidenziare il richiamo costante del frate di Stilo alle leggi universali e alla struttura metafisica delle
Primalità che devono dominare la prassi politica come la vita sociale in generale. Queste leggi universali
sono rintracciabili anzitutto nel Codice della Natura, nella prima Rivelazione divina. Il progressivo distacco
da questo Codice e dalla Parola ha determinato il peccato e la supremazia del male, con tutte le ovvie
conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. È allora proprio dalla constatazione di questa natura egoistica
dell’uomo e della immanenza del male che scaturisce la necessità delle teorie politiche basate anzitutto sul
rifiuto delle tentazioni “artistiche” del Machiavelli, e che mirano invece a ripristinare il concetto di gerarchia,
di autorità, così come questi sono funzionali al mantenimento dell’ordine naturale, del Mondo. Ma non solo.
È direttamente dal discorso teologico e metafisico che discendono i principi sui quali si dovrà basare una
giusta ed efficace teoria politica. Purtroppo, dice Campanella, non si trova più individuo che stimi «più la
famiglia che se stesso uno individuo; né chi piuttosto tutto il suo individuo che la parte, qual è la sensualilà
spesso vitiosa»404; «l’animo humano è quasi infinito in intelligendo ed appetendo, et non può star
nell'egualità né in misura»405; «chi ti si è fatto eguale non vuol dipendere più da un suo pari, tanta è la
superbia innata»406; «imperocchè l'ambitione humana è vastissima, e chi è padrone del mondo per
conseguenza ambisce altri mondi»407. Questo individualismo, causato dall’egoismo umano e da una natura
contaminata dal male, era stato oggetto di polemica nella Città del Sole, così come nella Fisiologia, dove
Campanella prendeva ad esempio la Natura ed i procedimenti naturali: animali e piante sopravvivono solo
nell’equilibrio, solo nell’Armonia. Scopo della politica è, dunque, correggere il male e spronare al bene, per
mezzo dell'ordinamento giuridico e della legge, la quale, nata dall'interesse e dal consenso collettivo, ha un
compito non tanto punitivo quanto educativo: «il fine della legge è la carità di produr buona coscienza»,
insiste Campanella, il compito della politica è quello di migliorare la società e l’umanità nel suo insieme.
Naturalmente, l’obiettivo finale è sempre la renovazion del secolo, il ritorno all’Età dell’oro.
Quanto alla classificazione delle forme di governo, Campanella si riporta, in sostanza, allo schema di
Platone, accettato da Aristotele e San Tommaso408: «In ogni comunità, o domina uno come il Re in Spagna, o
molti come i Nobili in Venezia; o tutti come gli Ateniesi e li Svizzeri: o uno e molti insieme come in
400
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 219.
401
T. Campanella, Metafisica, cit., p. 231.
402
Cfr. R. De Mattei, La politica di Campanella, A.R.E., Roma, 1927, p. 21 e sgg.
403
Cfr. R. De Mattei, La politica di Campanella, A.R.E., Roma, 1927, p. 81
404
Cfr. Discorso politico fra un Venetiano, Spagnuolo e Francese circa li rumori passati di Francia (in L. Amabile, Fra Tommaso Campanella ne’ castelli, etc. di Napoli,
in Roma e in Parigi, vol. II, Napoli, Morano, ed. 1887), citato in R. De Mattei, La politica di Campanella, A.R.E., Roma, 1927, p. 85
405
Discorsi universali del governo ecclesiastico per fare una gregge et un pastore, (in Amabile, Fra Tommaso Campanella ne’ castelli, etc.).
406
Ibidem
407
Discorso politico fra un Venetiano, Spagnuolo e Francese, cit.
408
Cfr. Atheismus triumphatus: «divisit enim in Lib. de Justitia tres status, Principis, Paucorum Bonorum et Omnium, idest Monarchiam, Aristocraticam et Politiam.
Quarum degenerationes docuit esse Tyrannidem, Oligachiam et Democratiam»; C. XIX, p. 176. Cfr. R. De Mattei, La politica di Campanella, A.R.E., Roma, 1927, p. 87
Polonia; o molti e tutti come in Roma la plebe e il Senato; o uno molti e tutti insieme, come in Lacedemonia
il Re, gli Efori e il Popolo». Forme, che in fondo si possono ridurre a tre, secondo i poteri di chi detiene il
governo: «Perciò la Repubblica Romana fu di tutti popolare; la Veneta è de' pochi, benché il Doge vi regni;
la Chiesa è d'uno benché il Senato dei Cardinali col Papa reggano insieme» 409. E per definire tali forme
conclude: «Il dominio d'uno buono si dice Regno o Monarchia; d'uno malo si dice Tirannia; di più buoni si
dice Aristocrazia; di più mali Oligarchia; di tutti mali Democrazia 410. Tali le forme, attraverso le quali, per
via di successive degenerazioni e reazioni il potere politico si produce» 411. La Monarchia, dunque, è la forma
di governo preferita da Campanella. Naturalmente si tratta della monarchia elettiva (non ereditaria). Anche
questa convinzione si basa, in ultima analisi, sulla struttura metafisica della realtà, sul rapporto Uno-molti (di
matrice plotiniana) che aveva chiarito nei libri della Metaphysica. Avevamo già visto che in questi libri era
emersa una costante preoccupazione: costruire una filosofia religiosa che possa fornire un adeguato supporto
teoretico al rinnovamento della società intera. Avevamo ricordato la giusta osservazione di Abbagnano e
Fornero: «Il pensiero di Campanella parte dalla fisica e dalla magia per giungere ad una metafisica teologica
che egli assume a base di un rinnovamento politico e religioso dell'umanità» 412. La metafisica è «la dottrina
dei primi principi e fini della realtà e dei fondamenti delle scienze» 413. Ad essa, come abbiamo visto,
spetterebbe il compito di fondare in modo autonomo il sapere delle altre scienze:«nessuna scienza tratta di
tutte le cose come sono, ma solo come appaiono e sono per noi. Occorre quindi fornire una scienza che
insegni sugli enti come sono non solo nel proprio essere, ma pure in quanto si riferiscono ad ogni essere, e
all'uso e all'ordine e alla connessione del primo ente e del mondo e delle singole cose [corsivo mio]»414.
Occorre dunque una scienza che chiarisca anzitutto la struttura dell'essere, le connessioni degli enti con Dio,
che studi e per così dire materializzi ed identifichi la catena che lega gli esseri al Primo Ente. Una metafisica
- insiste lo Stilese - è indispensabile per la ri-fondazione del sapere, per lo studio della catena dell'essere,
delle influenze magne e della teoria politica. Solo in base all'accoglimento dei due Codici, quello naturale e
quello biblico, altrettanto divini, sarà possibile conseguire un autentico ritorno all'età dell'oro. Tale ritorno
non vedrà l’annullamento delle leggi e degli ordinamenti, ma piuttosto un loro progressivo, infinito,
perfezionamento. La misura di questa crescita sarà data anche dal numero delle leggi e dalle loro finalità
implicite o dichiarate. Il fine della legge, come abbiamo visto, è educativo non punitivo, perciò «dove son
più di numero le leggi punitive che istruttive, è segno di mal governo» 415. Insomma, «legge e ragion politica
è quella che serve la moltitudine ed è la ragione della giustizia schietta, equità [...]. Guarda alla ragione
eterna, e però trasgredisce la lettera della legge, ma non il senso» 416. Perciò, la legge è il consenso di tutti
scritto promulgato per il ben comune417. Ora, se la legge vuole veramente, secondo il suo fine, realizzare la
felicità nella repubblica, e costituire le condizioni per l’avvento del secolo felice, per il ritorno all’età
dell’oro, essa deve tener da conto due condizioni: essere in armonia con la natura e con la religione, e non
essere adulterata dai ripieghi dell'astuzia, della tirannia, della ragion di Stato. Delicato sarà, pertanto, il
compito del legislatore, il quale «deve essere lodatissimo, sapientissimo, divinissimo, religiosissimo e
sovrumano»418, proprio come avevamo visto nella Città del Sole, dove l’incontro tra teologia, politica e
struttura metafisica era particolarmente evidente e rilevante. Nella Città, come abbiamo visto, Campanella si
era basato sul modello dell'analogia del mondo reale a quello astrologico e metafisico, divino. Il microcosmo
dello Stato, della città e della comunità dovrà corrispondere simmetricamente e proporzionalmente alla
struttura del Tutto. La struttura istituzionale e politica della Città del Sole pesata in relazione al Tutto
cosmico e divino: la città è infatti governata da un principe-sacerdote chiamato Hoh, cioè, il Metafisico, che
gestisce il potere spirituale e quello temporale. Accanto a lui Campanella aveva posto tre principi-sacerdoti
chiamati nella lingua degli eliaci Pon, Sin e Mor, voci che equivalgono a Potenza (Potestas), Sapienza
(Sapientia) e Amore (Amor), i quali sono incaricati di provvedere rispettivamente a quanto concerne la
guerra o l'impiego della forza, le scienze, le arti e l'insegnamento, la perpetuazione, conservazione e
benessere materiale della popolazione. Avevamo già osservato che anche in questa tripartizione di incarichi e
denominazioni è possibile riscontrare l'impostazione della Metaphysica, dove prevaleva il riferimento
409
Cfr. Aforismi politici, 16.
410
Cfr. Aforismi politici, 17.
411
Cfr. Aforismi politici, 18.
412
N. Abbagnano - G. Fornero, Filosofi e Filosofie nella Storia, vol. II, Paravia, Torino, 1988, p. 86.
413
T. Campanella, Metafisica, a cura di Di Napoli, p. 4.
414
T. Campanella, Metafisica, op. cit. p. 91.
415
Cfr. Aforismi politici, 38.
416
Cfr. Aforismi politici, 35.
417
Cfr. Aforismi politici, 32.
418
Cfr. Aforismi politici, 50.
analogico alla Trinità divina mediante la specificazione dell'essere mondano in tre primalità: possenza, senno
e amore. In seguito Campanella riporterà lo stesso schema trinitario nel Libro II della Theologia, dove
parlerà della Santa Monotriade, rifacendosi alla Metaphysica ed alla autorità di Ermete Trismegisto.
Solo in Dio però potenza, sapienza e amore sono perfetti; nelle creature invece, come abbiamo visto, alle
tre primalità dell'essere si aggiungono tre opposte primalità del non-essere (impotenza, ignoranza e odio). Da
qui la necessità di un ordine religioso, morale e politico che governi il mondo nell'attesa del ritorno alla
mitica età dell'oro. Nella Città del Sole, infatti, avevamo visto che dopo il Metafisico e dopo i suoi stretti
collaboratori, Pon, Sin, Mor, compare una serie di funzionari politico-ecclesiastici, di grado inferiore, che
assumono tutti gli incarichi sociali necessari alla buona gestione della società. In questo modo la vita dei
cittadini si svolge secondo il principio del primato incondizionato del bene della comunità rispetto a quello
del singolo, ed in costante riferimento al Gran Libro della Natura. Abbiamo già sufficientemente messo in
luce il riguardo, quasi mistico, che Campanella aveva per la Natura, il gran libro di Dio. Nella Città del Sole,
i cui abitanti «si erigono difensori del diritto naturale» viene, a ogni piè sospinto, fatto appello alla Natura.
Le leggi umane devono assecondare quelle naturali: questo è il punto centrale della teoria politica
campanelliana. Ma anche gli Aforismi politici sono tutti richiami alla Natura, che non va tradita, alterata,
deformata, ma intuita e favorita: assecondata e presa ad esempio. Giustamente allora De Mattei sosteneva
che Campanella vuole che il dominio sia naturale, e naturale è quel dominio dove il bene è più comune a
tutti, dove la religione è anima della politica, dove signoreggia chi precede per virtù e serve chi di virtù
manca, dove ciascuno è adibito all'ufficio cui è vocato. La signoria quando è naturale è divina, e
naturalmente domina solo la sapienza non sofistica ma filosofica 419. Ma appunto per assecondare la natura, la
legge dovrà, regione per regione, tener conto delle speciali esigenze dei popoli e accordarsi con il loro
costume, con il loro temperamento: «chi signoreggia a diverse nazioni, diverse leggi donar a quelle deve» 420,
sosteneva il Frate di Stilo. Pertanto, il legislatore deve essere perfettamente edotto dei costumi dei vari paesi
e delle tendenze di vari popoli421. L’attenzione che lo Stilese concentrava su queste metodiche non dovrà poi
essere fraintesa. Certo, a volte Campanella sembra aver assimilato un po’ troppo l’arte di Machiavelli e le
sue astuzie. Ma il fine di queste tattiche, che a volte sfiorano la perfidia, è alla fine onesto. Campanella è più
che altro realista, è un profondo conoscitore della natura, ed in particolare di quella umana. Per questo
disprezza la democrazia e si fida dell’astrologia. Inoltre, parlando di leggi che dovranno sapientemente
adattarsi ai differenti luoghi e alle differenti popolazioni, Campanella non fa che ripetere una intuizione di
Giordano Bruno. Anche il confratello domenicano aveva infatti raccomandato di adattare le leggi «alla
complessione e costumi de' popoli e genti»422, e, come osserva De Mattei, era questo il pensiero dei
machiavellisti, cui la Controriforma si oppose energicamente, paventando l'insidia alla legge universale di
Dio423. Anche in questa concessione (territori diversi devono essere soggetti a leggi diverse, in riferimento
alle diverse usanze e mentalità) Campanella trova sempre l’occasione per un costante richiamo alle leggi
eterne, delle quali le terrene debbono essere complemento. La legge sarà, dunque, un prodotto dell'uomo, ma
di un uomo che non prescinda dall'imperativo divino. Il carattere volontario della legge non esclude quindi
un contenuto religioso424. Del resto, negli Aforismi politici, Campanella aveva chiarito che esistono due tipi
di legge. La prima, è eterna, «la seconda è in parte eterna e in parte temporale come quella data da Mosè».
«Quando è dalli istanti bisogni fatta, è variabile e temporale. La mista è come quella del Papa; in quanto è
divina è naturale è eterna; in quanto è da lui, per il bene o male instante è mutabile» 425. Quindi, le varie leggi
si spiegano come varie specificazioni, esplicazioni e applicazioni della prima legge eterna 426. Ma, soprattutto,
per Campanella, la legge politica dovrà accordarsi, anzi coincidere, con la religiosa, la quale si fonde a sua
volta con la legge naturale, così come avevamo visto nella Città del Sole. De Mattei osserva che è da questa
radicata convinzione che parte la sua dottrina controriformista. «La setta luterana e calvinista che nega la
libertà dell'arbitrio e di far bene o male, non si deve mantenere in Repubblica, perché i popoli ponno
rispondere al predicante della legge che essi peccano per fatto, e non possono osservare, che non sono liberi
in questo»427. Contro la Riforma, che corrode la compagine statale, egli sferra la sua battaglia, fino a farsi
fautore di un'intolleranza implacabile, in nome della legge cattolica «la quale con amor di Dio ch’è è il
419
Cfr. R. De Mattei, La politica di Campanella, A.R.E., Roma, 1927.
420
Cfr. Aforismi politici, 44.
421
Cfr. Atheismus triumphatus, C. XVIII, p. 170.
422
Cfr. G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante. BUR, Milano, 1985.
423
Cfr. R. De Mattei, La politica di Campanella, A.R.E., Roma, 1927.
424
Cfr. R. De Mattei, La politica di Campanella, A.R.E., Roma, 1927.
425
Cfr. Aforismi politici, 95.
426
Cfr. Atheismus triumphatus, C. X, p. 75
427
Cfr. Aforismi politici, 84.
sommo bene e con il timor delle pene eterne sommo male, raffrena in pubblico e in secreto i sudditi e i liberi
da far oltraggio al prossimo»428. Una legge che prescindesse dalla religione renderebbe «i principi tiranneschi
e infingardi, e i popoli disubbidienti e sconoscenti», ma peggio sarebbe se la religione fosse asservita alla
politica; chè ove i popoli «cominciassero a credere che la religione è solo arte di Stato per frenare i popoli
uccideriano li principi e'l Senato: nè mai obbedirebbero» 429.
Uno Stato fondato sui principi campanelliani (sapienza, potenza, amore) è aristocratico, in quanto parte
dall'intelligenza ordinatrice e superiore (in contrapposizione all'ignoranza e turbolenza delle masse), in
quanto esige l'unità e compattezza sociale (in contrapposizione a ogni sorta di pluralismo politico). È però
anche democratico in quanto, lungi dal prescindere dall'elemento popolare, fa della legge un'elaborazione ed
espressione della coscienza dei consociati, in quanto vuole che a cementare l'unità valga la spontaneità e il
consenso, non «l'obbligo, il legame et esattione, cose odiosissime», in quanto mira, non alla fortuna del
tiranno, ma al vantaggio e al progresso civile della collettività. È infatti la società nel suo insieme il soggetto
della renovazion del secolo, e non l’oligarchia o il tiranno.
Certo, una forma politica duratura non c’è, «mentre siamo nel Teatro della Terra nati». Per questa ragione,
come avevamo visto, i Solari «vanno spiando di tutte le nazioni l'usanze, e sempre migliorano» 430 e la loro
Città «durerà fino ad uno dei periodi generali delle cose umane che dan origine ad un nuovo secolo» 431.
Naturalmente, questo nuovo secolo sarà preannunciato da eventi astrologici del tutto speciali, così come è
successo per l’anno 1600. Allo stesso modo si può prevedere astrologicamente il percorso ed il successo di
ogni Stato e di ogni governo, così come si può, magicamente, intervenire sul corso della storia. Campanella
si dice pertanto in grado di preavvertire le ragioni di mancamento e di mutazione 432. Ogni evento si
riproduce, la storia si ripete: «questa è la chiave della natura e della profezia: quel che fu sarà. Perché le cose
passate son simili alle future, e quanto fu detto di Babilonia s'intende di tutte le monarchie che a quella
successero et imitaro, come li pomi del futuro anno son simili a quelli del passato» 433. Sicché, in sostanza, il
compito del politico realista è, volta per volta, situazione par situazione, prevedere e provvedere, applicando
elementi di compenso o di rimedio. Il richiamo al motto salomonico quid est quod est? Ipsum quod fuit deve
far ritornare alla mente l’ermetismo del confratello Giordano Bruno, come ho chiarito in un precedente
lavoro434. La storia si muove secondo un disegno preordinato, superiore, immancabile. «Non è l'huomo solo
che guida li regni, ma ci sono cause invisibili, et occasioni più segrete emergenti fuori dell'antivedenza
humana, che mutano e torciono i pensieri inavvertentemente, e per conseguenza l'operatione di quei che
governano le cose humane»435. Oltre alle visibili, insomma, v'ha cause invisibili che governano i fatti umani e
politici. Lo studio di questa «politica visibile e invisibile dell'ordine fatale» è appunto la sua scienza politica.
Il vero politico, per Campanella, non è insomma l'uomo astuto, ma l'uomo saggio, colui che ha
approfondito le leggi della natura; e s'intende che, essendo sapiente, il Principe campanelliano non sarà mai
malvagio. «Il nostro Hoh, supposto anche inespertissimo in ogni forma di governo non diverrà mai crudele,
scellerato o tiranno, e solo perché possiede un'immensa sapienza» 436. All'astuzia suggerita dal Machiavelli,
Campanella oppone la prudenza: «La prudenza si accorda con Dio, cioè con la saggezza, l’astuzia con il
428
Dialogo politico contro luterani, calvinisti, e altri eretici, Carabba, Lanciano. Citato anche in R. De Mattei, La politica di Campanella, A.R.E., Roma, 1927, p. 107.
429
Cfr. Argomenti da farsi a’ Venetiani, etc. Citato in R. De Mattei, La politica di Campanella, A.R.E., Roma, 1927, p. 107.
430
Cfr. Città del Sole, ed. cit.
431
Cfr. Questioni sull’ottima republica, ed. cit. p. 291.
432
Cfr. gli Aforismi politici.
433
Cfr. Lettera al Pontefice Paolo V, in Lettere, op. cit. p. 43. Citato anche in R. De Mattei, La politica di Campanella, A.R.E., Roma, 1927, p. 110.
434
Cfr. A. Benigni, L’infinito nei dialoghi metafisici di Giordano Bruno, Università di Parma, 1993. Nella Lampas triginta statuarum Bruno aveva parlato di una «scala di
Minerva» che organizza percezione, conoscenza e saggezza, secondo un preciso ordine che prevede alla sommità (trentesimo grado) la «Sapienza». La «Sofia» corrisponde
alla unità, sostanziale, dell'universo: «ogni produzione, di qualsivoglia sorte che la sia, è una alterazione, rimanendo la sustanza sempre la medesima; perché non è che una,
uno ente divino, immortale. Questo lo ha possuto intender Pitagora che non teme la morte, ma aspetta la mutazione. [...] Questo lo ha inteso Salomone che dice non esser
cosa nova sotto il sole; ma quel che è, già fu prima. Avete dunque come tutte le cose sono ne l'universo, e l'universo è in tutte le cose; noi in quello, quello in noi: e cossì
tutto concorre in perfetta unità. [...] Quelli filosofi hanno ritrovata la sua amica Sofia, li quali hanno ritrovata questa unità. Medesima cosa a fatto è la Sofia, la verità, la
unità» (De la Causa, Principio et Uno, p. 219). La filosofia è quindi contemplazione estatica del Tutto e della sua unità divina. La filosofia naturale diventa misticismo. Si
noti che il tema dell'unità con il divino è fondamentale anche nella discussione dell'ordinamento civile: questo deve essere costituito in base al rapporto con la divinità che
si comunica direttamente all'uomo per mezzo della Natura. A questo proposito Alfonso Ingegno ha rilevato opportunamente che la saldatura tra momento propriamente
civile e momento religioso si realizza «sul piano del culto. In effetti se l'antica religione conteneva anche un rapporto 'vero' [...], con il divino, non potrà non presentare
questo rapporto secondo uno stretto parallelismo con ciò che Bruno ha affermato della vita civile e della sua dipendenza in maniera corretta dalla divinità. Quest'ultima,
nella sua accezione suprema, non provvede all'uomo solo attraverso leggi e statuti ma partecipando se stessa alla natura, digradando ancora una volta dalla sua unità
inaccessibile a forme che possano essere colte dall'uomo e volte non diversamente che nel caso della vita civile, alla sua utilità, pur determinando ancora una volta un
livello religioso inveitabilmente imperfetto se posto in relazione con un culto dell'assoluto che ci è d'altra parte precluso nella sua purezza. Anche qui - quasi a sottolineare
maggiormente il rilievo di questo parallelisnmo - ci viene ricordato cbhe la divinità in quanto è absoluta non ha a che fare con noi ma in quanto si partecipa, contraendosi
alle varie parti della natura in forme e misure diverse, può essere onorata e volta ai suoi fini dall'uomo attraverso il culto magico. (La scala discendente attraverso cui essa
si partecipa verrà ancora illustrata nella Cabala ma ormai solo per un fine satirico, per rappresentare l'ideale, puramente immaginaria scala metafisica da cui discende il
sapere, anzi, il non sapere dell'asino.) Le pagine riservate alla religione egizia e in genere al paganesimo sono così destinate ad illustrare una superiorità metafisica nei
confronti del cristianesimo che è andata smarrita e deve essere recuperata [...]» (A. INGEGNO, La sommersa nave della religione. Studio sulla polemica anticristiana del
Bruno, cit., pp. 83-84).
435
Cfr. Discorsi politici fra un Venetiano, Spagnolo e Francese. Citato in R. De Mattei, La politica di Campanella, A.R.E., Roma, 1927, p. 111.
436
Cfr. Le Monaerchie delle Nationi, etc. Citato in R. De Mattei, La politica di Campanella, A.R.E., Roma, 1927, p. 112.
proprio arbitrio. Campanella è dunque l'Antimachiavelli, nonostante la critica di alcuni studiosi, secondo i
quali il nostro Frate non sarebbe in fondo che un nuovo e più sottile divulgatore dell'insegnamento
machiavellico, divulgatore, tanto più pericoloso, in quanto dissimulato sotto l'abito di difensore della Fede.
In effetti, come abbiamo visto, sono numerosi i concetti del Campanella derivati dal Machiavelli. Il «ciò che
fu sarà» di Campanella, infatti, oltre che dall'Ecclesiaste e da Ermete Trismegisto, è infatti derivato dal
Fiorentino: «Chi vuol vedere tutto quello che ha da essere, consideri, quello che è stato, perché tutte te cose
del mondo in ogni tempo, hanno riscontro con gli antichi tempi», sosteneva Machiavelli 437.
Ma a parte queste molteplici influenze, la politica campanelliana sembra piuttosto legata e derivante da
alcune precise indicazioni che il nostro Frate aveva chiarito nella Metaphysica e nella Theologia. Non a caso
Campanella chiarisce che uno dei motivi ispiratori della nuova Theologia è stato dato proprio dalla scoperta
dei Nuovi Mondi, dei nuovi popoli, nonché dal diffondersi di nuove teorie astronomiche e astrologiche. Di
fronte a questi eventi spettacolari, segni di un radicale cambiamento prossimo venturo, i teologi “ufficiali”
sembrano poco preparati ed inadeguati per indicare la via del rinnovamento. Ancora una volta emerge
dunque lo stretto legame che unisce il discorso teologico-religioso a quello politico-naturale.
Scriveva lo Stilese «Il secondo motivo di quest’opera è la scoperta di nuovi paesi del Nuovo Mondo un
tempo ignoti e di nuovi popoli di cui ignoriamo le origini, e la scoperta di un nuovo cielo e di nuove stelle e
di nuovi sistemi celesti e di nuove concezioni nell’universo elaborate dopo Copernico; e segni mirabili nel
sole, nella luna e nelle stelle, osservati dagli astronomi, i quali però ne ignorano le cause, non avendo pratica
di teologia, novità dalle quali si assurge a un’elevata notizia del sommo autore della natura e scaturiscono
nuove concezioni del paradiso e dell’inferno»438. E proseguendo nell’elenco dei motivi, aggiunge
significativamente che «Il terzo motivo è l’invenzione di novità e la riforma delle scienze poiché abbiamo
trovato che le scienze della natura devono essere da noi trattate altrimenti che da Aristotele. Da ogni parte
pullulano nuove dottrine della natura, che meglio di quella di Aristotele convengono con gli insegnamenti
dei Padri e della Bibbia, come risulta dai varii scrittori moderni, in favore dei quali stanno i santi dottori
Basilio, Ambrogio, Origene, Agostino, Crisostomo, Giustino, Lattanzio, Cirillo, Gerolamo etc. Gli scolastici
però sembran talmente legati ad Aristotele, che non sanno decidere alcuna questione senza il consenso di
lui; anche se si tratti di cose manifeste nella Sacra Scrittura.[...] Io in verità riconosco di avere attinto più
fisica dalla Bibbia che non dagli innumerevoli libri filosofici letti e dalle osservazioni intraprese. Onde,
essendo la fisica ridotta in forma migliore e più compiuta e più consentanea alla Bibbia e ai Padri, e
parimenti rinnovata l’astronomia e svelati in cielo e in terra mirabili arcani, e la morale stupendamente
chiarita, e le opere di Dio più luminosamente riconosciute conviene che la teologia si illumini più vivamente
mediante l’applicazione di nuovi strumenti ed ausilii e che non anneghittisca nel puro trascrivere e non abbia
a ignorare le nuovo dimostrazioni. [...] Manifesto è infatti che la metafisica di Aristotele non è che una logica
vana, come riconoscono gli Scotisti, e che non apre nessuna verità divina, tranne l’esistenza di Dio, a patto
però che si conceda l’eternità del moto celeste, altrimenti, per Aristotele, nemmeno Dio esiste. E quando egli
prova che Dio esiste, gli toglie la provvidenza, lo carica della funzione di muovere necessariamente,
supponendolo contrario agli intelletti che muovono in senso opposto, nega gli angeli e i demoni, esecutori
della provvidenza nel mondo, deride l’inferno e la beatitudine dopo morte, tutte verità che Pitagorici, Stoici e
Platonici hanno asserite. [...] Il quarto motivo è questo che cioè io non mi sono applicato a una sola scienza,
ma a tutte o che da ultimo le ho tutte riformate secondo le mie proprie meditazioni e le illuminazioni della
Sacra Bibbia: la logica, la rettorica, la poetica, la storiografia, la fisica, la metafisica. Mi ero infatti esercitato
in ogni istoria divina e umana, di tutti i popoli, e naturale di tutto l’universo, sotto il rispetto storico e
cosmografico. E oltre alla teoria delle scienze ho scritto e letto molti libri di prassi di quelle scienze. Sempre
paragonando quel che scrivo o leggo con il libro del mondo, scritto dalla sapienza di Dio in lettere vive e
reali, per cogliere se mai quelli concordassero o discordassero dal loro originale. Con queste cognizioni è
possibile chiarire grandemente le divine verità» 439.
Vediamo di chiarire ulteriormente. A parte l’eloquenza e l’esaltazione delle proprie capacità, Campanella
sta qui enunciando il suo discorso programmatico: riunire sotto la medesima scienza (la Theologia) i principi
della Bibbia e quelli della Natura, la fisica con la metafisica, utilizzando le nuove cognizioni e le antiche arti
magico-astrologiche. Sfondo di questa operazione è l’attacco alla filosofia scolastica ed aristotelica, tutta
intrisa di una logica sì coerente, ma incapace di portare alla salvezza (a partire da quella terrena), alla
rinnovazione del secolo. La teologia si fonda dunque su tutte le scienze, nessuna esclusa, e su di esse esprime

437
N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima decade di Tito Livio, L. III, C. XLIII, citato in R. De Mattei, La politica di Campanella, A.R.E., Roma, 1927, p. 155.
438
T. Campanella, Theologicorum Liber I (Dio e la predestinazione), Edizione critica con introduzione, versione italiana, appendici e una tavola a cura di Romano
Amerio, Vallecchi Editore, Firenze, 1949, p. 5
439
T. Campanella, Theologicorum Liber I, pp. 5-11.
un giudizio, indicando la direzione per il rinnovamento spirituale e sociale dell’umanità. Emerge insomma
l’idea che Campanella aveva formulato nella Metafisica: la realtà vive in un processo analogico con il
creatore. Il Mondo è il libro dove Dio ha scritto le leggi eterne, alle quali l’uomo può e deve fare riferimento.
In questo senso è possibile per la teologia servirsi delle scienze naturali, che hanno una grande dignità: esse
studiano infatti la prima rivelazione divina, quella del Mondo. Scrive dunque lo Stilese: «Non senza ragione
abbiamo asserito che la teologia ricava le sue dimostrazioni da tutte le scienze. Infatti, essendo la scienza una
cognizione della realtà, o evidente, o derivata da cognizioni evidenti, ed essendo tutte le cose effetti di Dio
recanti o l’immagine o la similitudine o il vestigio di Dio, necessariamente esse guideranno, chi rettamente
filosofa, alla cognizione di Dio, ma mediante una dimostrazione che argomenti dall’effetto o dal segno.
Oggetto poi della teologia è Dio, causa di tutte le cose, al quale pertanto tutte le cose in qualche modo
assomigliano: dunque la teologia assumerà le sue prove da tutte le cose e conseguentemente da tutte le
scienze. Onde Trismegisto giustamente dice: guardati dal chiamare Iddio nascosto: niuna cosa infatti si dà,
per quanto piccola, che non manifesti Dio in modo assai grande: che veramente in tutte le cose rilucono la
potenza, la sapienza e la bontà di Lui. Tuttavia la principale delle scienze è la metafisica, la quale prova i
principii loro e da questi assurge alle cose divine; dunque tutte le scienze sono come ancelle e la metafisica
come soprintendente delle ancelle sotto la quale vengon tutte convocate nella cittadella, per servire alla loro
signora, come sta in Salomone»440. Il riferimento ermetico all’autorità di Trismegisto e Salomone ricorda
immediatamente la posizione espressa da Giordano Bruno nel De umbris idearum 441 e sta qui a ricordare,
ancora una volta, che il primo codice della teologia, quello naturale, può ben essere interpretato dal mago-
astrologo, così come era stato chiarito nel De sensu rerum. Campanella, molto attento a inserire nelle sue
affermazioni i nomi dei Padri e delle autorità più apprezzate, non manca infatti di affermare: «Il primo
codice della teologia è la natura, come insegnano S. Bernardo e Antonino e il Crisostomo [...] Il primo codice
a cui attingiamo la teologia era la natura. Ma siccome questa a noi, abbandonati all’ignoranza e alla stoltezza
in seguito al peccato, era divenuta insufficiente, ci fu bisogno di un altro codice più a noi confacente,
sebbene non migliore in sé. Migliore è infatti la natura universale scritta in vive lettere, che la Sacra Bibbia
scritta in lettere morte, le quali sono soltanto segni e non cose, come nel primo codice. Tuttavia per noi,
almeno in ordine alla scienza, migliore è il codice delle divine Scritture, perché più facile: infatti esso ci
insegna in una maniera umana e quasi puerile, come se fossimo fanciulli, le verità che ci erano nascoste
intorno a Dio, alla stessa guisa che un padre si rivolge al suo bambino con parole smozzicate e balbutite,
come bene osserva Origene»442. Il codice della Scrittura e quello della Natura va interpretato poi alla luce del
concetto di analogia al Primo Ente, in modo da ritrovare tutte le concordanze tra il sistema del Mondo e la
struttura metafisica della realtà: «Tutte queste verità concordano perfettamente con quelle che apprendiamo
nel libro della natura, e completano quello che non vi sapevamo leggere, e lumeggiano più vivamente il
grado della provvidenza somma e del sommo amore di Dio verso di noi. Nel primo libro v’è un duplice
senso: uno storico e l’altro mistico. Il senso storico è il senso percettibile coi sensi, con cui vediamo la terra,
il mare, le stelle e tutte le cose che si trovano in essi: e siccome tali cose non possono esistere né governarsi
da se stesse, cogliamo l’autore e governatore del mondo e le cause esecutrici del suo governo. Il senso
mistico è quello per cui, mediante la ragione convenientemente retta da Dio, scrutiamo le verità riposte,
giacché sappiamo che le cose tutte sono simili alle loro cause, e che tutte son simili a Dio. Allora
cominciamo ad attribuire a Dio tutto quanto esse hanno di entità di bontà e di perfezione, e ad argomentare in
qualche modo per mezzo delle similitudini intorno all’essenza di Dio: tutto quanto invece esse hanno di non
440
T. Campanella, Theologicorum Liber I, p.19
441
Cfr. Cfr. A. Benigni, L’infinito nei dialoghi metafisici di Giordano Bruno, Università di Parma, 1993.
442
T. Campanella, Theologicorum Liber I, p.21-23. E prosegue: «Dopo aver individuato i due codici coi quali il teologo prova le sue verità, conviene ora discorrere del
loro senso e della loro interpretazione. Dalla natura conosciamo preliminarmente che Dio esiste, che è uno, che è creatore dell’universo, che governa e si prende cura di
tutti gli enti, e principalmente degli uomini come della più nobile tra le creature corporee, che l’uomo ha anima immortale ed è capace di un’altra vita, che dopo la morte
l’anima, che è divina, tornerà al divino, così come ogni cosa alla sua origine, cioè il corpo alla terra e lo spirito all’aria, e che l’uomo versa tra molte miserie e abbisogna
dell’aiuto di Dio per operare rettamente e per conseguire l’altra vita migliore. Nella Sacra Scrittura ritroviamo questa medesima verità e inoltre il modo in cui Dio creò
l’universo, e che, essendo uno, è anche trino, non soltanto negli attributi, ma nelle persone, che creò l’uomo immune da miseria e lo pose in luogo di delizie, che l’uomo
peccò e cadde nell’ignoranza di se stesso e di Dio, che Dio curandosi in modo peculiare degli uomini, apparve loro e diede loro legge, che li visitò per mezzo di angeli e di
profeti e da ultimo direttamente, assumendo forma umana per condiscendere a noi, che non potevamo ascendere insino a lui, che ci ha largiti doni e rimedi costituiti dai
sacramenti, per purgarci dai peccati e elevarci al divino, e ha insegnato che il nostro mondo è luogo di lotta, in cui ci acquistiamo la geenna o la corona attraverso lo buone
opere, e che ci ha dato una legge di opere buone e l’esempio in se stesso, bene operando e morendo per la virtù e insieme redimendoci dai mali incorsi per il peccato, e che
ha promesso un’altra vita in cielo non soltanto alle anime ma anche ai corpi, e che una tale vita ha dimostrato in se stesso risorgendo e ascendendo al cielo, preannunciando
che verrà come giudice a giudicare il genere umano alla fine dei secoli, quando si chiuderà il ciclo di questo mondo, come ci ha indicato per mezzo di segni nel sole, nella
luna e nelle stelle, svelando anche l’ordine delle pene e dei premi. [...] Anche la provvidenza di Dio si argomenta dalla nostra provvidenza e dall’ordine della realtà: e
questo è il secondo mistero. Nel codice della Scrittura giace un senso quadruplice, cioè: primo, il senso storico, per cui nella Sacra Bibbia prendiamo i detti e i fatti nella
loro accezione grammaticale; secondo, il senso morale per cui trasportiamo il senso storico all’ammaestramento morale, il qual senso si dà anche nel codice della natura,
come si vede in Salomone che ci invita alla scuola delle formiche; terzo, il senso allegorico, per cui gli eventi del Vecchio Testamento comprendiamo esser figura di quelli
del Nuovo, come per esempio Agar e Sara figurano i due Testamenti; quarto il senso anagogico, per cui ciò che avviene nel Nuovo o nel Vecchio Testamento è segno di
quel che avviene in cielo o nel futuro secolo, come per esempio la Gerusalemme terrestre è tipo di quella celeste e le lodi nella Chiesa militante son tipo di quelle della
Chiesa trionfante. E invero questi duo sensi esistono anche nel libro della natura, poiché i frutti preferiti sono simili a quelli avvenire e tipo di essi di anno in anno. E così i
giorni e gli anni». Theologicorum Liber I, cit., pp. 35-39
entità, di malizia e di imperfezione, lo neghiamo in Dio, e facciamo risalire queste imperfezioni al fatto che
le cose han tratto origine dal nulla, e non dalla sostanza di Dio. Presto poi vedremo che le similitudini tra Dio
e le creature sono, dal punto di vista fisico, equivoche, dal punto di vista logico, univoche, e dal punto di
vista metafisico, analoghe»443.
Il corso degli eventi nel mondo è certamente dominato dalla necessità, la quale però dirige il mutamento
sotto l’influsso di Fato ed Armonia: «Anche il fato, la necessità e l’armonia dell’universo e delle cose singole
dimostrano l’esistenza di Dio. Infatti tutte le cause e concause e cose, come spinte dalla necessità,
concorrono nella costruzione del mondo e nella produzione degli enti secondi. E questo concorso costituisce
una serie fatale determinata dalla necessità, dalla quale tuttavia sorge immediatamente l’armonia, onde tutte
le cose si svolgono rettamente e meravigliosamente, e si reggono con mutui offici e utilità. Anche nell’ordine
fatale delle cause bisogna che si dia una causa prima, che colla sua potenza influisca necessità nelle cose
agenti e pazienti, colla sua sapienza influisca l’ordine fatale, col suo amore l’armonia, sicché mentre
avvengono necessariamente, avvengano in vista del meglio. Dunque esiste un Dio potente, sapiente e
buono»444. È proprio dalla constatazione dell’Armonia e del Fato che possiamo risalire alla Prima Causa,
soprattutto mediante osservazioni astronomiche. L’esistenza di Dio non necessita di dimostrazione ulteriore:
«L’esistenza di Dio si dimostra infine con ragioni astronomiche. Infatti sia che nel centro dell’universo si
trovi la Terra, sia che si trovi il Sole, tutte le stelle ruotano con un’arte mirabile, senza trasgredire i loro giri:
le cosiddette erranti ora appaiono stazionarie, ora tarde, ora veloci, ora retrograde, ora boreali, ora australi,
ora più alte, ora più vicine a noi, con un’arte mirabile di alternative e di conversioni ai loro principii: onde
nasce la serie degli anni e dei mesi e dei secoli e i loro avvicendamenti e l’ordinata generazione e corruzione
delle cose, come se un artefice magno usasse delle stelle come di magli sull’incudine, rappresentata dalla
Terra, battendo la materia ora in un modo ora in un altro, elevando, abbassando, accelerando, tardando
puntualmente ai lati e in tutte le parti, finché si faccia e rifaccia la mirabile struttura dell’universo come
sembra all’artefice bisognare per l’opera sua complessa ed eccellente. Chi poi non ravvisa Dio in questo,
nemmeno nella bottega dell’orefice riconoscerà l’orefice. Specialmente le anomalie mostrano di essere
regolate da un intelletto, e non dalla sola natura» 445. La Natura è tutta viva, testimonianza dell’opera creatrice
di Dio. Sostenendo che ogni essere dispone delle Primalità, Campanella può direttamente assimilare il piano
fisico al piano metafisico della realtà, senza ulteriori giustificazioni: «Dunque tutti gli enti che hanno grazie
alle primalità un essere perfetto, si dice che vivono, poiché hanno l'essere, il conoscere e l'amare. La vita poi
è molteplice, come il senso. Abbiamo spiegato infatti nelle Questioni fisiologiche che altro è il senso
naturale, per cui le cose conoscono di essere e sentono l'ente contrario e lo fuggono, altro il senso detto
animale, che viene esercitato dagli oggetti sensibili attraverso gli organi e gli orifizi e che làtita nello spirito
dentro il corpo; infine altro è il senso gratuito, che è di un ordine più elevato e col quale Dio gratifica gli
amici suoi. Questo risulta dall'Ecclesiastico cap I dove insegna che la sapienza di Dio generata effuse poi una
sapienza creata partecipata sopra tutte le opere sue (e questa è 1a sapienza naturale), e quindi dice e sopra
ogni carne (e questa e la sapienza animale), e infine dice e la dono a coloro che la amano (e questa e la
sapienza gratuita). E in verità Sant'Ambrogio, che pure nega il senso agli elementi, attribuisce loro
nell'Esamerone un potere vivificativo e animativo, mentre insegna che il fuoco da vita e senso alle cose, e
che l'acqua da vita e animazione alle uova dei pesci, perché questi elementi continuano ad avere forza
vivificante e animante dal precetto di Dio, quando disse che le acque producano i rettili e che la terra
produca l'erba: dove S. Ambrogio ripetutamente dimostra che la vitalità inerente alla terra e all'acqua deriva
prima da Dio che dal sole. E il Crisostomo nel commento alla Genesi dice la stessa cosa e interpreta lo spirito
che si librava sulle acque come l'energia vitale e motiva data alle acque. Perciò ritengo che tutti gli enti
hanno vita naturale, e che gli animali l'hanno in più animale, gli uomini razionale, gli angeli intellettuale; ma
che tutte queste vite presuppongono la vita naturale, e che il moto e le operazioni sensitive non costituiscono
la vita, ma indicazioni della vita. [...] Di qui risulta con evidenza che tutti gli enti vivono, poiché se vivono
gli elementi, vivono conseguentemente anche le cose risultanti dagli elementi. [...] Di qui risulta che poiché
Dio è supremamente ente, essenziato di primalità perfettissime, non solo è supremamente vivente e possiede
in grado sommo le operazioni vitali, ma e la vita stessa e la vita di tutti gli enti, così come è l'essere di tutti
gli enti in maniera causale ed eminente, e che ha da sé stesso e non altronde la propria vitalità, mentre tutte le
altre cose si dicono morte rispetto a Dio, non essendo esse vita per sé. [...] Noi però in tutta la Metafisica, nel
libro intorno al Senso delle cose e nelle Questioni fisiologiche, abbiamo dimostrato che, sia che il mondo
abbia un'anima intellettuale, come dicono Agostino e Basilio in certi luoghi, sia che tale anima non abbia,
443
T. Campanella, Theologicorum Liber I, cit., p. 39
444
T. Campanella, Theologicorum Liber I, cit., p. 67
445
T. Campanella, Theologicorum Liber I, cit., p. 69
tutte le parti ha piene di vita, perché tutte sentono e appetiscono quel che riesce loro proficuo e rifuggono da
quel che infligge loro dolore. Ma anche il Santo Vangelo dice contro i Sadducei: Tutte le cose vivono a Dio.
Lo stesso insegnano Virgilio, Lucano e tutti i poeti, e i Platonici vogliono che il mondo sia animale, il che
viene insegnato esplicitamente da Trismegisto. Perciò reputano che non vi sia luogo alla morte, poiché come
dice Virgilio, Dio penetra per tutte le terre e le distese del mare e il cielo profondo, onde viene la razza degli
uomini e delle bestie. e la vita dei volatili etc. Perciò Trismegisto sostiene che non c'è morte, ma
trasmutazione, che egli chiama poi manifestazione e occultazione. Noi pure asseveriamo che non si dà morte,
se non si dia annientamento del calore, del freddo e del loro senso. Infatti sebbene alcune cose muoiano a
noi, non muoiono alla natura: muoiono nella vita animale e vivono in quella naturale: perciò si vedono nei
cadaveri crescere i peli e le unghie, il che non avverrebbe senza vita e dalla vitalità inerente al cadavere
generarsi i vermi, che non si genererebbero certo dal nulla o dal seno della materia, della quale è proprio
ricevere il senso, e non darlo, come fu provato altrove. S. Agostino nel libro della Divinazione dei demoni
insegna che i demoni sono sagaci perché hanno corpo aereo passibilissimo, e quindi estremamente sensitivo.
Ma se l'aria è sensitiva, il medesimo si dirà evidentemente degli altri enti» 446.
Confermato, anche grazie all’autorità di Ermete Trismegisto, che tutte le cose sono piene di vita e che
dunque il Mondo è veramente simulacro di Dio, non resta che chiarirne ulteriormente le analogia strutturali,
partendo dalle Primalità. Così come Dio si costituisce in trinità, allo stesso modo ogni essere mondano
riflette questa struttura. Nel De Sancta Monotriade (Theologicorum Liber II), Campanella scrive infatti che
«Anche i Pitagorici facevano adorazione nella trinità, come riferisce Agostino. Similmente Trismegisto dice
“La monade ha generato la monade e ha riflesso in se medesima il suo proprio ardore”, onde sembra porre il
Figlio e lo Spirito Santo. Quanto ai Pitagorici poi, essi adoravano Dio nei sacrifici secondo il numero
ternario, non però sapevano che è trino nelle persone. Trismegisto poi disse che la monade ha generato la
monade, cioè Iddio uno un mondo uno, e che ha riflesso in se stesso il suo ardore, cioè ha creato e amato
attraverso l’amore. Ciò nonostante, sebbene rettamente parli S. Tommaso, dato che non aveva letto né i
Platonici né Trismegisto, non ancora al suo tempo voltati in latino, come risulta dal commento all’Etica di
Aristotele e dalla storia, non è da stupire che dia di quei testi delle interpretazioni non convenienti. Platone
invero, quantunque nel Timeo chiami il mondo figlio di Dio e lo identifichi colle idee onde egli generò il
mondo, tuttavia nella lettera a Corisco insegna Chiamo a testimonio Iddio guida del futuro e del passato, e il
Padre Signore del medesimo Dio, che conosceremo chiaramente se filosoferemo come si conviene [...]
Risulta inoltre che Platone formulò questa dottrina seguendo i Pitagorici che adoravano Dio in trinità, né
d’altra parte costoro avrebbero applicato a Dio il numero ternario nei sacrifici. Se non avessero capito che
così piaceva a Dio per cagion del simbolo. Infine Trismegisto non parla del mondo, ma di Dio trino creatore
del mondo: infatti insegna che creò l’universo col suo Verbo e gridò Germinate e pullulate opere mie tutte,
come Mosè dice “Crescete e moltiplicatevi”. Similmente insegna che Dio col Verbo ha generato una terza
mente, che è Dio e spirito e nume, e nell’essere divino egli considera sempre questa trinità» 447.
E ancora ritorna il solito concetto di analogia: «A me sembra che dall’analogia degli enti perfetti creati
possiamo elevarci alla cognizione dell’essenza divina, come abbiamo fatto nel primo libro E così se negli
enti perfetti si ritrova una trinità essenziativa, ritengo che da essa si debba sollevarsi alla dichiarazione della
somma trinità. Quantunque infatti Dio si comunichi ad extra in quanto uno, non però saranno privi della
divina similitudine gli enti da lui creati fuori di lui. Dio infatti non farà cosa alcuna dissimile da se, ma
assimilerà, quanto è possibile, l’effetto, come tutta la fisica e la metafisica insegnano. Ora abbiam detto nella
Metafisica che ogni ente è essenziato di potenza, sapienza e amore: infatti niun ente sussiste, se non può
essere e non sente di essere e non ama di essere. Ora in questo v’è un certo ordine e un’emanazione
intrinseca ineffabile, che però appare estrinsecamente nelle azioni, le quali sono indicatrici delle intrinseche
operazioni. Vediamo invero che ogni creatura perfetta ama e appetisce qualche cosa: dal qual fatto
riconosciamo l’amore ad extra e insieme ad intra. Infatti l’ente non ama altro da sé, se non perché ama sé
stesso, da se stesso come per es. il grave ama il basso perché ama conservar sè stesso e l’uomo ama il cibo,
perché ama sé. L’amore poi non è di cosa ignota, ché la cosa non conosciuta affatto, né in sé stessa né in
alcunché di simile, non viene appetita. Dunque l’amore emana alla cognizione. [...] Questa dottrina può
anche essere provata con la parola del Signore “Facciamo l’uomo a nostra immagine”, dove il termine nostra
indica l’immagine della trinità nell’uomo, la quale non potendosi meglio dichiarare che colla potenza, la
sapienza e l’amore, è chiaro che non abbiamo filosofato invano, anzi tanto meglio degli altri, in quanto

446
T. Campanella, Theologicorum Liber I, cit., pp. 298-301
447
T. Campanella, Theologicorum Liber II (De sancta monotriade), testo critico e traduzione a cura di Romano Amerio, Roma, Centro Nazionale studi umanistici, 1958,
pp. 13-15
abbiamo individuato emanazioni essenziali interne, e non soltanto accidentali, partecipi della mutazione e del
tempo, come gli altri»448.
Con queste lunghe citazioni vorrei mostrare, in sede conclusiva, come anche a livello teologico Campanella
sia coerente con il suo impianto teoretico di fondo. La sua speculazione sembra in gran parte basarsi sul
concetto di analogia, dal quale derivano le Primalità e tutte le proposizioni metafisiche. Il mondo è un libro
eterno, vivo, e perfino la scienza teologica deve basarsi su di esso. La gestione della società civile nel mondo
non è affare esclusivo dell’arte politica. Questa costituisce per Campanella solo un insieme di regole derivate
dalle Leggi eterne contenute nel gran libro del Mondo e, in ultima analisi, nella religione corretta in senso
ermetico. Questa “correzione” consiste nell’ansia e nell’aspirazione di un rinnovamento che porti al secolo
nuovo, al ritorno all’età dell’oro, al ripristino di un tempo mitico che riporti il Paradiso sulla Terra.
L’interesse teologico-politico messo giustamente in rilievo da Nicola Abbagnano 449 non è allora altro che un
interesse per l’uomo, per le sue splendide possibilità ora degenerate a causa del male, che già Trismegisto
aveva esaltato con l’affermazione Homo magnum miraculum. Il problema che ci eravamo posti all’inizio di
questo percorso (quale valore e quale significato profondo hanno i termini di teologia e politica nel pensiero
campanelliano?) può dunque essere così risolto: teologia e politica sono due sguardi sul mondo e su Dio,
nella speranza di un ritorno alle origini. In questo orizzonte, come ho già chiarito, il mito gioca un ruolo
determinante. Mitica è l’idea che sia possibile un ritorno alle origini, che tale tempo sia effettivamente
esistito. Mitica è l’idea stessa di analogia del creato con il Creatore. Mitica è la Città del Sole e la perfezione,
nella assoluta comunanza dei beni e del Bene che in essa vige. Mitica è l’idea di un progresso senza fine, che
dovrà sfociare in una restaurazione della società perfetta.
La con-fusione di ermetismo e cristianesimo operata con grande stile da Tommaso Campanella toglie dal
campo il problema della sua ortodossia, o meglio lo riduce semplicemente a finto problema. Campanella fu
certamente cristiano, ortodosso, così come fu ermetico, mago, astrologo, politico, teologo, scienziato, storico
e poeta. Campanella fu tutto quello che poteva essere per assecondare l’avvento della nuova era. Non credo
sia più costruttivo cimentarsi nella disputa infinita sulle opere in cui Campanella è sincero contrapposte a
quelle in cui il poeta è costretto alla dissimulazione. Questa storia fa casomai parte di una tristissima vicenda
personale (... sappiamo che il Frate di Stilo ha passato in carcere più di venti anni).
Avevamo visto che nella Metaphysica, così come in tutte le altre opere, era emersa un costante
preoccupazione: costruire una filosofia religiosa, tutta concentrata su Libro del Mondo, sulla Natura, che
potesse fornire un adeguato supporto teoretico al rinnovamento della società intera. Questa sembra essere
l’unica, ossessiva, preoccupazione del Frate di Stilo, mago, filosofo e poeta.

448
T. Campanella, Theologicorum Liber II, cit. p. 27
449
Cfr. N. Abbagnano, Storia della Filosofia, UTET, Torino, 1989, vol. II, p. 146.
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