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In questo volume, ormai col­ Dal Sommario

laudato nell'edizione originale


Introduzione:
tedesca, Klaus Berger cerca di
problemi di un'ermeneutica
stabilire i criteri per l'interpre­
l. Posizioni importanti della
tazione del contenuto della
storia della ricerca
Scrittura. Oltre a una riflessio­
ne sistematica di fondo su ciò 2. Schema di un'ermeneutica
che avviene nell'esegesi, egli del Nuovo Testamento
propone regole concrete per
3. Sulla prassi dell'applicazione
una trasposizione e applicazio­
ne della Scrittura oggi. A questi
due aspetti dell'esegesi e del­
l'applicazione l'autore dà rispo­
sta in primo luogo pragmatica.
KLAUS BERGER, 1940, ha studiato
Egli abbandona l'orizzonte del­
filosofia, teologia e orientalistica a
la filosofia idealistica tedesca e,
Miinchen, Ber lin e Ham burg; dal
al suo posto, mostra che è pos­
1970 è stato docente alla Rijksuniver­
sibile imparare proprio da filo­ si tei t di Leiden (Paesi Bassi); dal
sofi ebrei come potrebbero og­ 1974 è docente di teologia neotesta­
gi essere i criteri cercati. mentaria all'università di Heidelberg
n tentativo di tenere distinte ed è uno dei più noti esegeti di lingua

l'interpretazione storica e l' ap­ tedesca.

plicazione attuale insegna so­


prattutto a riflettere di più sul
metodo e a guadagnare chiarez­
za espositiva.

In copertina: Pagina della Bibbia di Gutenberg


(1452-55), Prologo del vangelo di
Giovanni, Museo Gutenberg, Mainz. L. 45.000- Euro 23,24 (i. i.)
Klaus Berger

ERMENEUTICA
DEL NUOVO TESTAMENTO

Editrice Queriniana
Titolo originale
Hermeneutik des Neuen Testaments
© 1999 by A. Francke Verlag, Ttibingen und Basel
© 2001 by Editrice Queriniana, Brescia
via Ferri, 75 - 25123 Brescia (Italia)
tel. 030 2306925 -fax 030 2306932
internet: www.queriniana.it
e-mail: direzione@queriniana.it
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È pertanto vietata la riproduzione, l'archiviazione o la trasmissione, in qualsiasi forma e
con qualsiasi mezzo, comprese la fotocopia e la digitalizzazione, senza l'autorizzazione
scritta dell'Editrice Queriniana.

ISBN 88-399-2026-9

Traduzione dal tedesco di


CARLO DANNA

Stampat o dalla Tipolitografia Q ue rini ana , Brescia


PREFAZIONE

Dopo che il mio libro Hermeneutik des Neuen Testaments [Ermeneutica


del Nuovo Testamento] (Giitersloh 1 988) fu esaurito, si poneva il compito di
una revisione fondamentale della sua concezione e del testo. Accolsi le sol­
lecitazioni che mi venivano dal gruppo dei parroci e in particolare dal colle­
gio pastorale e feci tesoro del risultato ermeneutico scaturito dalla discussio­
ne portata avanti nei miei «libri col punto interrogativo», in specie in Wer
war Jesus wirklich? [Chi era realmente Gesù?] ( 1 995), Daif man an Wun­
der glauben? [Possiamo credere nei miracoli?] ( 1 997), Wozu ist der Teufel
da? [Che ci sta a fare il diavolo?] ( 1 998). Ho rifatto completamente la parte
conclusiva del libro sulla base della situazione attuale della discussione e
concepisco in essa la mia posizione come alternativa alla spiegazione demi­
tizzante, come 'terza via' tra fondamentalismo e razionalismo.
Poiché l' Ermeneutica doveva diventare un libro di studio accattivante per
gli studenti, ebbi occasione di esporre e confrontare in anticipo le singole
posizioni della ricerca. Ho reso più conciso il testo principale e ho rinuncia­
to a portare alcuni esempi. Per quanto riguarda singole più ampie fondazioni
teoretiche a proposito di temi come ' situazione' , 'etica' e 'estetica' occorre
continuare a far riferimento al primo libro.
Quanto alla tematica, l'Ermeneutica rientra propriamente nella serie dei
miei libri sul metodo, libri che, per quanto concerne l' esegesi, hanno trovato
la loro conclusione nel volumetto Einfiihrung in die Formgeschichte [Intro­
duzione alla storia delle forme] (Tiibingen 1 987).
La dedica del primo libro («Alle mie uditrici e ai miei uditori di Heidel­
berg dal 1 974 in poi») fu indovinata, perché molti di essi si fecero sentire,
commentarono il mio lavoro e mi diedero dei suggerimenti, cosa di cui sono
loro cordialmente grato.
L' istanza fondamentale dell'Ermeneutica non è cambiata e - di fronte al
crescente sconcerto, da un lato , e ali ' irrigidimento dogmatico, dali' altro lato
6 Prefazione

- mi sembra più pressante di prima: separazione tra esegesi e applicazione,


un'ermeneutica dell'estraneità a favore della grande ricchezza spirituale dei
testi e di ciò che essi testimoniano.
Lo stato delle chiese è diventato drammaticamente chiaro negli ultimi
dieci anni. Due cose riguardano direttamente il tema 'ermeneutica', anzitut­
to il riconoscimento che il modo in cui l'esegesi fu concepita e proposta è in
parte responsabile di tale stato, in secondo luogo la sensazione che gli esodi
dalle chiese sono la prova del fatto che 'le chiese' già da generazioni hanno
perso il cuore degli uomini, per cui è necessario ricordare loro la forza in
esse nascosta.
Ringrazio di cuore il mio laureando Markus Richter per l'attenta corre­
zione delle bozze e la revisione di tutto il libro.

Klaus Berger
Introduzione

PROBLEMI
DI UN'ERMENEUTICA

L'Antico e il Nuovo Testamento sono la Bibbia dei cristiani, valida parola


di Dio sotto forma di parole umane. I problemi che ne risultano, se si dichia­
ra superflua un'ermeneutica, sono noti: le donne dovrebbero portare il velo
durante le celebrazioni liturgiche (l Cor 11 ) , i cristiani non potrebbero man­
giare sanguinaccio (At 15,20), non potrebbero giurare (Mt 5 ,34-37) e non
potrebbero sposare persone non battezzate (At 15,20). Le donne non potreb­
bero insegnare religione e meno che mai predicare (l Cor 14,33-36; l Tm
2,11-15). E cosa non insignificante: i cristiani sarebbero tenuti a osservare il
sabato. Il divorzio sarebbe impossibile. Anzi bisognerebbe addirittura pren­
dere in considerazione la possibilità che Ap 14,4 esiga il celibato per tutti i
cristiani. Proibito sarebbe in ogni caso l'assassinio del tiranno (Rom 13,1-7
e il problema che l'attentato contro Hitler del 20 luglio 1944 costituì per i
cristiani fedeli alla Bibbia).
Tali problemi non sono eliminabili con un'esegesi superficiale e contorta.
Questi testi hanno un loro senso onestamente non eludibile. Inoltre i loro
autori non distinguono tra importante e meno importante. Se l'avessero fat­
to, avrebbero vanificato le loro esortazioni e le loro direttive. Chi infatti dice
che non è poi 'tanto importante' seguire la sua direttiva, non può sperare di
essere obbedito.
Né ha senso voler distinguere, nel singolo caso, tra parola di Dio e parola
umana, tra storicamente condizionato e eterno. Troppo facilmente una cosa
del genere può essere smascherata come una manovra per autoingannarsi.
L'esegesi nonè fatta per rendere più facili e per stemperare simili questioni.
Per risolverle ci vuole un'ermeneutica approfondita.
E proprio anche a proposito delle realtà 'soprannaturali', come ad esem­
pio gli angeli, l'ascensione, la nascita verginale e la descrizione dell'inferno
ci sentiamo in continuazione rispondere che si tratta di «concezioni storica­
mente condizionate» e che possiamo confidare nel fatto che i teologi riesca-
8 Introduzione

no a individuare ciò che in esse è realmente importante. Possiamo realmente


confidare in una cosa del genere? Al riguardo sono molto scettico, perché
vedo di continuo all' opera solo dei pii desideri e il tentativo di modemizzare
la Bibbia per, in qualche modo, 'salvarla' .
Notiamo, per inciso, che di un' ermeneutica c'è bisogno non solo per il
Nuovo Testamento, bensì ovviamente anche a proposito di varie fasi della
storia della chiesa. Così recentemente E. Jiingel (EvKomm 8 [1998] 457s.)
ha sostenuto la necessità di un' ermeneutica degli scritti confessionali e delle
condanne dottrinali del secolo XVI. E lo ha fatto perfettamente a ragione,
perché prima di domandarci che cosa sia 'oggi' valido, dobbiamo chiarire
come possiamo oggi concepirlo, per cui dobbiamo guardarci dalla semplice
ripetizione di formule.
Il problema, che qui mi sta a cuore, è stato riconosciuto molto bene da G.
Kegel nella sua replica al parere espresso da professoresse e professori della
facoltà di Tubinga a proposito della teologia femminista1• Egli ha individua­
to perlomeno il problema, perché pone là la questione dei criteri della sele­
zione legittima in seno all' Antico e al Nuovo Testamento, e afferma: non è
mai stato dimostrato che si possa utilizzare in maniera inoppugnabile il prin­
cipio della Scrittura. Egli si domanda: esiste l' unico messaggio dell' Antico e
del Nuovo Testamento? E crede di poter rispondere: il principio della Scrittu­
ra è soprattutto una professione di fede puramente formale, esso non è soste­
nibile quando si tenta di utilizzarlo, e conclude: «Non esiste alcun contenuto
a proposito del quale si possa dimostrare, con un metodo inoppugnabile e
universalmente riconosciuto, che esso costituisce il contenuto principale del­
la Scrittura» . Qualsiasi 'contenuto' teologico della Scrittura poggia su una
decisione reale , e tale decisione sarebbe indipendente da fonti testuali.

Rinuncia ad una armonizzazione delle affermazioni bibliche

Prendiamo l'esempio di Mc 11,12: Gesù maledice il fico, perché non gli ha


dato niente da mangiare. Non era il tempo dei fichi, tuttavia l' albero avrebbe

' E. MOLTMANN-WENDEL - G. KEGEL (edd.), Feministische Theologie im Kreuzefeuer. Der


Streit und das 'Tiibinger Gutachten '. Dokumente, Analysen, Kritiken, Giitersloh 1992. Qui: G.
KEGEL, Wie Man(n) mit der Feministischen Theologie nicht umgehen solite. Analyse und Kritik
eines 'Gutachtens 71-154.
',
Introduzione 9

dovuto ugualmente darli. Un vero schiavo deve star pronto giorno e notte.
Gesù è il Signore, per cui il fico avrebbe dovuto esser sempre pronto. - Nes­
suna traccia del fatto che qui si tratti di una maledizione d' Israele. Che senso
avrebbe allora l' annotazione che non era il tempo dei fichi, visto che bisogna
compiere in ogni tempo delle opere, o la frase: «Nessuno possa mai più man­
giare i tuoi frutti»? No, poiché il fico non ha servito Gesù, il suo unico Signo­
re, non dovrà mai più poter servire alcun altro. In modo inverso, ma simile al
caso del puledro, che nessuno doveva ancora aver cavalcato. Chi parla così, è
matto oppure Dio. - Quel che Gesù poi promette a coloro che credono non è
meno spettacolare: basta che essi non dubitino, quando credono di aver già
ricevuto quel che chiedono, ed esso sarà loro concesso. Allora potranno spo­
s tare montagne e alberi. Cose quindi che solo il Creatore può fare. Tale fede
non è però diretta o non solo diretta verso Dio, ma si tratta prevalentemente
della sua propria qualità. Essa consiste nel fatto di non dubitare e di essere
una forza immaginifica. Qui è in discussione la propria divinizzazione. Gli
uomini come portatori della potenza creatrice specifica di Dio. Chi crede ha
ricevuto la stessa potenza creatrice, può parlare e le cose avvengono, come
nel caso del Creatore secondo Gen 1 . Se uno è una cosa sola con se stesso e
-

non dubita, se è una cosa sola con altri mentre perdona loro, ed è una cosa
sola con Dio nella fede, allora Dio è presente come il Creatore. Una presenza
dinamica di Dio. Dio è presente mentre viene riprodotto e realizzat� nel signi­
ficato più vero del termine mediante l' unione con lui.
Marco parla di questo anche quando dice: abbiate sale in voi. Sale come
immagine della presenza preziosa e insostituibile di Dio (Mc 9,49s.). Un
messaggio emozionante e del tutto impossibile.
Compito dell' esegesi e dell' ermeneutica non è quello di rendere più com­
prensibile, di rendere più accettabile e di portare in qualche modo più vicino
all' uomo moderno questo messaggio impossibile e semplicemente scandalo­
so. Non esiste qui alcuna costante antropologica al di fuori dell ' unico bilan­
cio negativo che questo è un messaggio insopprimibilmente scandaloso.
A seconda delle epoche la concezione dell' inerranza della Scrittura ha
assunto forme diverse. Nel corso dei secoli è stata la cronologia biblica
quella che doveva essere sincronizzata con la cronologia profana. Poi fu la
volta del rifiuto delle contraddizioni con le scienze naturali e dell' equipara­
zione della Bibbia a diverse scienze umane (antropologia, sociologia, psico­
logia) e ai moderni movimenti di emancipazione (teologia della liberazione,
femminismo). Di qui vediamo che da sempre la dottrina dell ' infallibilità
della Scrittura ha avuto il suo Sitz im Leben in manovre apologetiche. E qua­
si di regola la moderna teologia ( 'progressista') è parte di una simile apolo­
getica.
10 Introduzione

A ben riflettere una strana situazione è già il fatto che una gran parte
dell' acume teologico venga speso per 'salvare' in qualche modo la Bibbia,
per mostrare che essa ha sempre 'comunque' ragione e che potrebbe aver
qualcosa da dire . Questi tentativi sono di regola effettuati ·sulla base
dell' armonizzazione con le correnti e i movimenti moderni. lo ritengo che
qui siamo di fronte a dei fraintendimenti a proposito del concetto di verità.
Se la Scrittura non deve contenere in primo luogo una verità dottrinale e
intellettuale, ma contiene vari 'modelli di vita' , progetti diversi incarnati in
singole persone, i quali mostrano come il primo comandamento possa sedi­
mentarsi in uno stile di vita, allora essa non ha bisogno di essere armonizza­
ta, bensì il suo carattere provocatorio consiste allora nel fatto che Gesù Cri­
sto, gli apostoli e i profeti vanno presi pienamente sul serio, in seno a questo
unico popolo di Dio, come autorità in tutta la loro vera scandalosità e
impossibilità, due cose che non possono appunto essere apologeticamente
appianabili. In verità infatti lo stile di vita e la fiducia in Dio del profeta
Amos e di Gesù di Nazaret non corrispondevano neppure all' immagine del
mondo di quel tempo e sono in ogni tempo impossibili.
È compito dell'esegesi elaborare i campi di queste impossibilità. Sarebbe
troppo comodo trattare dell ' ispirazione e dell ' inerranza nei campi della
conoscenza e liberarsi così di esse. Il vero problema sta nel domandarsi se
sia possibile vivere così. E al riguardo non è possibile dare alcuna risposta
dottrinale e metatemporale.
Tutte le nostre professioni di fede sono soprattutto troppo ammodo di
fronte al messaggio provocatorio di Gesù. E una delle illusioni di molti
cosiddetti uomini di sinistra è che la B ibbia sarebbe un libro dei diritti
dell'uomo. Ciò non è vero, e l' onestà viene qui in soccorso. Né il libero svi­
luppo della personalità, né l' emancipazione, né l' autorealizzazione, né la
libera decisione pro o contro la fede, né l ' umanitarismo universale, né
l' esclusione della vendetta o altre cose simili sono anche solo lontanamente
ciò che la Bibbia si propone di dire. No, l' uomo è un vaso d' argilla o uno
schiavo, egli è chiamato o colto di sorpresa, la vendetta non è proibita ma
rimessa a Dio, non l' umanità universale è eletta, bensì Israele e l'ulivo unico
di Dio, la santità si diffonde per contagio, i tabù sono virulenti, e la suddivi­
sione dei poteri è molto lontana. L'uomo di cui parlano le parabole è colui
che punta follemente tutto su un' unica carta, non la personalità completa­
mente formata. La fede in Gesù è piena di magia, possiamo parlare di mes­
sianismo magico.
Applicazione: non esiste solo un biblicismo evangelicale, ne esiste anche
uno di sinistra. La verità della Bibbia non consiste nel fatto che essa è
moderna. La Bibbia è un libro estraneo e provocatorio.
I.

POSIZIONI IMPORTANTI
DELLA STORIA DELLA RICERCA

In linea con il carattere di un manuale esporremo brevemente e valutere­


mo criticamente anzitutto alcune importanti posizioni del passato.

OSSERVAZIONI SULL'ERMENEUTICA DELLO STESSO NUOVO TESTAMENTO

I primi scrittori cristiani concepiscono sostanzialmente quel che espongo­


no come il risultato di una preistoria e lo esprimono utilizzando attentamen­
te la Scrittura secondo le regole rabbiniche allora in vigore. At 1 3 ,3 4s. ne è
una prova. Come è possibile dimostrare, in base alla Scrittura, la risurrezio­
ne di Gesù, si domanda l' autore. E risponde:
l. Secondo fs 55,3 Dio « Vi» ha promesso, ha cioè promesso ad Israele di
dare (in futuro) quanto aveva promesso sotto giuramento a Davide.
2. Il Sal 16 è opera di Dav ide (così come tutti i Salmi secondo la conce­
zione di allora).
3. In Sal 1 6, 1 0 l' orante (Davide) dice a Dio: «Non permetterai che il tuo
santo subisca la corruzione». Che significa questo? È chiaro: Dio preserverà
Davide, il santo e l' eletto, dalla morte.
4. Problema: ma Davide è morto.
5. Lo possiamo documentare: secondo l Re 2, 10 Davide «fu unito ai suoi
padri», per cui il Sa/1 6 , 1 0 non si è in ogni caso adempiuto nei suoi confron­
ti .
6. Ma se secondo il punto l Dio agirà, quant o è stato promesso a Davide
deve ancora avverarsi. Dio lo ha ade mpiuto in Gesù, figlio di Davide. A lui
si riferiva infatti, secondo 1 3 ,33, anche il Sal2,7.
Caratteristiche d i questa ermeneutica: la Scrittura è interpretata come un
documento unitario. L' inte rprete è paragonabile soprattutto a un giurista che
12 prima parte

deve dare esecuzione a un difficile processo di successione e che legge deci­


samente il documento in favore del proprio assistito. - Sotto il profilo erme­
neutico ciò significa: qui non si tratta di associazioni letterarie, ma di legitti­
mità e di diritto. La Scrittura è una testimonianza. Qui valgono i seguenti
principi:
l. La ' Scrittura' , l' Antico Testamento (non esiste ancora un' altra 'Scrittu­
ra' ), è in ogni caso-vera e valida.
2. La parola non è per questo slegata dal tempo, però essa svolge la pro­
pria funzione su più piani temporali. Dio è infatti colui che era, che è e che
viene. Ciò è qualcosa di diverso da un' eternità atemporale; esistono tre piani
temporali individuabili con precisione.
3. La Scrittura è segno, annuncio e prova della fedeltà di Dio. La sua
parola illumina sempre.
4. Ma non si tratta di affermazioni generali sull'uomo e sul mondo, bensì
la parola di Dio si riferisce sempre a eventi concreti ben determinati della
storia della salvezza. Essa è come una freccia diretta al suo bersaglio. Se la
parola è come un uccello, allora il volo di questo uccello è sempre un allon­
tanamento tra due luoghi di permanenza, tra la promessa e l' adempimento,
tra adempimento terrestre e quello celeste della promessa.
5. Questo Dio non è un Dio del passato. Da lui ci dobbiamo attendere
ancora qualcosa. Quale Dio vivo egli non è elevato al di sopra del tempo,
ma è sempre al centro del tempo.
6. La parola della Scrittura sta in una cornice di fondo che potremmo chia­
mare promessa. Per la comprensione di singoli passi tale cornice è molto più
determinante che non il suono letterale delle parole. Anche gli autori neote­
stamentari, che citano la Scrittura, osservano spesso che le parole di un passo
non danno ancora quello di cui essi hanno bisogno, per cui citano numerosi
passi al fine di presentare, mediante una catena di citazioni, per così dire più
testimoni che si completano a vicenda. Ma essi si sottopongono a questa fati­
ca e a un dispendio spesso 'geniale' di energie perché sanno dalla cornice che
la parola di Dio non rimarrà vana. A suo tempo (e non solo alla fine dei tem­
pi) essa trova compimento. La 'Scrittura' documenta perciò per i primi scrit­
tori cristiani soprattutto la dimensione della 'promessa' .

Risultato: il Nuovo Testamento non conosce alcuna interpretazi one antro­


pologica, bensì solo un' interpretazione 'kairologica' , riferita al kair6s (ora
della salvezza) .

D ue altri punti dell' ermeneutica neotestamentaria dell' Antico Testamento


sono importanti:
Posizioni importanti della storia della ricerca 13

l. Notiamo una chiara tendenza a esige re una connaturalità tra autore del
testo e interprete. Ciò significa: poiché lo Spirito Santo è l ' auto re della
Scrittura, si può avere un' interpretazione attuale giusta di questa solo nella
virtù del medesimo Spirito Santo. Esempio: I Pt l, lls., secondo la quale lo
Spirito Santo fece annunciare dai profeti a proposito di Cristo quel che ades­
so viene annunciato come vangelo mediante la forza del medesimo Spi rito
Santo. Così pu re la Lette ra di Barnaba: i profeti parlarono nello Spi rito - i
cristiani, che adesso comprendono la Scrittu ra, lo possono fare mediante lo
Spi rito ( 1 ,3).
Significato : c'è una sola rivelazione . Non si presuppone che si possa
comprendere l ' interpretazione cristologica della Scrittura con la semplice
ragione (esempio : Filippo e il funzionario etiope secondo At 8. Filippo è
ripieno di Spirito: 8, 29.39) . .
2. Specialmente Luca e l' auto re del vangelo di Giovanni conservano il
ricordo che l' interpretazione cristologica della Scrittura da parte dei disce­
poli è un dono del tempo postpasquale. Secondo il vangelo di Giovanni è il
Paraclito a ri cordare tutto e a introdurre in tutto. - Secondo Luca è lo stesso
Risorto a introdurre nella Scrittu ra, cioè a spiegame il significato cristologi­
co.

Ambedue le concezioni hanno la loro preistoria ellenistica nella cornice della


mantica. Che ci fosse bisogno dello Spirito o di una potenza particolare per ricorda­
re era un problema riguardante la fedele trasmissione di rivelazioni. Quando infatti
il ricettore di una rivelazione era di nuovo tornato alla normalità, doveva poter
ricordare e comprendere quanto gli era stato rivelato (documentazione in Jub 32,25
e in K. BERGER, Die Auferstehung des Propheten, in StUNT 13 [1976] 492, nota
212). E per quanto riguarda l ' insegnamento impartito dal Risorto: secondo molte
testimonianze dell'antichità deve comparire l' autore di un testo (Omero, Mosè, un
profeta) per spiegare il proprio testo (documentazione in K. BERGER, Auferstehung,
575s., nota 427 e lo., Visionsberichte, in TANZ 7, 205-207, Lehrvisionen).

Da tali testimonianze risulta che la spiegazione 'traslata' non è evidente,


ma è possibile solo a colui che ha ricevuto una rivelazione aggiuntiva. Il
ruolo dell' 'angelus interpres' stava a indicare già nelle visioni che una rive­
lazione non basta; pure la spiegazione va rivelata. Se i cristiani avesse ro
conse rvato queste antiche sapienze, si sarebbero verificati meno ci rcoli
viziosi e corrispondenti dolorose polemiche sulla Scrittu ra.
14 prima parte

ERMENEUTICA MEDIEVALE

Bibliografia: H. DE LUBAC, Exégèse médiévale. Les quatre sens de l'Ecriture, 2


voli., 1959 [trad. it. , Esegesi medievale. l quattro sensi della Scrittura, 2 voli., Edizio­
ni Pao1ine, Roma 1 972]; H. MERCKER, Schriftauslegung als Weltauslegung. Untersu­
chungen zur Stellung der Schrift in der Theologie Bonaventuras, Miinchen 1 97 1 .

La base dell ' interpretazione medievale della Scrittura fu posta dal filo­
sofo ebreo Filone di Alessandria, che attraverso la scuola alessandrina influì
sull' occidente. Fondamentale è la sua distinzione (platoneggiante) tra senso
letterale e senso allegorico.
Nel secolo XIII vide la luce questa formulazione:
littera gesta docet
quid credas allegoria
moralis quid agas
quid speres (quo tendas) anagogia

(il senso letterale insegna gli eventi, il senso allegorico quel che devi cre­
dere, il senso morale quel che devi fare e il senso anagogico quel che devi
sperare [la meta a cui devi tende re], il compimento escatologico). I tre ulti­
mi 'sensi' furono collegati alla triade fede, carità e speranza.
Il più delle volte si distinsero solo due sensi, quell o letterale e quello 'spi­
rituale' (mistico, allegorico). Questa distinzione permise di interpretare in
maniera 'figurata' tutti i passi difficili in base al loro senso letterale.
La dottrina del quadruplice senso della Scrittura è anche diventata, in
molteplici varianti, la base della suddivisione intrateologica in discipline.

l. Ermeneutiche confessionali

PRINCIPI DELLA RIFORMA

L'interpretazione come opera dello Spirito Santo

Secondo M. Lutero lo Spirito, che ci viene incontro nel la parola, suscita


la fede. Lo Spirito Santo adopera la parola este rna (lettera, legge) per opera­
re sotto forma di luce interiore come vangelo nei cuori umani (TRE 1 2, 208
con riferimento a WA 55 /1, 1 7 1 s . 248). Lo Spirito è la presenza creatrice di
Posizioni importanti della storia della ricerca 15

Dio nella parola della Scrittura, presenza che reali zza la fede e quindi una
nuova esistenza. Stando a quanto dice il Grande Catechismo a proposito
dell' Articolo 3 (WA 30/1 , 1 87s.), lo Spirito, quale forza mediatrice, ci avvi­
cina a Cristo mediante la comprensione e l' accoglimento del vangelo. Egli
opera solo indirettamente mediante la parola della Scrittura e la predicazio­
ne quali suoi strumenti (TRE 1 2, 209) . Perciò la chiesa guidata dallo Spirito
è l' assemblea sotto la parola. Lo Spirito non opera accanto ad essa in qual­
che modo immediatamente e direttamente.
Critica: i teologi si chiedono in continuazione se lo Spirito Santo non sia
appunto importante per i temi dell ' interpretazione e dell' applicazione trattati
in una erme neutica. Alla luce di M. Lutero possiamo dire: sì, lo Spirito San­
to è importante, però in Lutero si tratta in tutto e per tutto solo di una teoria
dogmatica. Dietro tale teoria non c'è una qualche esperie nza, una qualche
percezione, foss' anche solo quella di una liberazione. «Lo Spirito Santo non
opera per Lutero direttamente, unendosi in modo carismatico, e ntusiastico,
mistico, speculativo o sacramentale con lo spirito umano. L' i nteresse per
una simile unione, tipico della pneumatologia della chiesa antica e di quella
medievale, non è condiviso da Lutero» '.

Scriptura sui ipsius interpres

«La Scrittura possiede la chiarezza necessaria per conferire certezza alla


fede e alla dottrina. Lutero distinse la chiarezza intrinseca della cosa, comu­
nicata solo dallo Spirito Santo, dalla chiarezza esteriore, che la semplice let­
tera mostra quasi ovunque, cosicché la Scrittura si spiega da sola e può da
sola correggere la falsa comprensione ed essere pietra di paragone per la
verità. La sua autorità e la sua interpretazione non posso no perciò dipendere
dalle decisioni della chiesa, dei suoi dottori o del papa» (H. KARPP, Bibel IV,
in TRE 6,7 1 ) .

JOHANN J AKOB R AMBACH ( 1 693- 1735)

Nelle sue lnstitutiones hermeneuticae sacrae (Jena 1 7 24, 17648) Ramba­


ch compie tre passi pratici :

' W. D. HAUSCHILD, Geist/Heiliger Geist/Geistesgaben IV. Dogmengeschichtlich, in TRE 1 2


( 1984) 209.
16 prima parte

la subtilitas intelligendi - la comprensione per evitare fraintendimenti,


la subtilitas explicandi la spiegazione chiarificatrice,
-

la subtilitas applicandi - l' applicazione agli uditori.


Da quest' ultimo passo, che si occupa dell' attualizzazione, del carattere
vincolante e della ricezione ecclesiale, deriva anche il termine di 'Applika­
tion' (applicazione) adoperato in questo libro.

LA POSIZIONE EVANGELICALE

Bibliografia: G. MAIER, Biblische Henneneutik, Ttibingen 1 988; Io. , Das Ende


der historisch-kritischen Methode, Wuppertall9753•

L' unitarietà e la compattezza della propria posizione (sistematica) la tro­


viamo di nuovo nell' affermazione dell'unitarietà della testimonianza bibli­
ca. Alla luce della professione di fede si nega qualsiasi differenza sostanzia­
le tra i singoli scritti. Si ammettono solo cosiddetti 'passi oscuri' . Per questa
'ermeneutica' non esiste in partenza tutta una serie di problemi:
l. La differenza culturale tra la situazione delle prime comunità cristiane
e la situazione odierna viene ignorata affermando che l' obbedienza della
fede è richiesta all'una e all' altra. Ciò riguarda sia il modo di concepire le
cose che il linguaggio. La verità è infatti questa: i miracoli erano poco pen­
sabili allora come oggi. E il linguaggio formula allora come oggi qualcosa
che è accessibile solo nell' obbedienza della fede. Cercare di andare incontro
usando un linguaggio particolare non facilita in fondo nulla.
2. Si coprono le differenze tra le teologie neotestamentarie dichiarandole
non sostanziali. È infatti possibile dire che si tratta solo di aspetti di versi. Le
eventuali distanze (tra le teologie bibliche e tra l' allora e l ' adesso) sono
quindi 'ritenute piccole' , cosicché in tali distanze non può penetrare nulla di
estraneo, né alcun cambiamento allora (nella cornice della storia della teolo­
gia del cristianesimo primitivo), né alcun cambiamento nel periodo interme­
dio.
Da questo punto di vista la teologia sistematica può perciò consistere solo
e sempre nel comporre a modo di mosaico i singoli passi biblici 'importan­
ti' . Il senso non può essere altro che quello di 'allora' , e. appunto in questo si
manifestano la fedeltà e l' obbedienza verso la Scrittura.
Si negano la differenza legge/vangelo e la 'critica reale' (Sachkritik), per­
ché la Bibbia è considerata una fonte della rivelazione che «sta al di sopra di
qualsiasi critica umana» . Né si distingue tra elementi centrali e elementi
Posizioni importanti della storia della ricerca 17

meno importanti e s i concepisce questo tipo di lavoro come «metodo stori­


co-critico».
Qui dobbiamo criticamente osservare: questo modo di appianare tutte le
differenze temporali e oggettive facilita solo in apparenza la questione
dell' applicazione e solleva più problemi di quanti ne risolva. Infatti:
3 . Prendendo le distanze dalla corrente evangelicale dobbiamo richiamare
l' attenzione sul problema della traduzione, perché qui i problemi della lealtà
insorgono già quando si tratta di rendere il testo biblico in una lingua
moderna, cosa per la quale non basta come criterio il solo 'lessico' . Piutto­
sto: riconoscere il problema della traduzione non significa ancora attenuare
o facilitare l' obbedienza della fede. Significa solo cercare l' obbedienza ai
passi realmente importanti e non a numerosi altri che sarebbero presunta­
mente di uguale importanza. Chi vede tutti i gatti bigi potrebbe chiedere
troppo alla capacità di comprensione. Così potremmo domandare se l' obbe­
dienza della fede consista primariamente nel fatto che le donne devono por­
tare il velo in chiesa (vedi altri esempi sopra) o nel fatto che bisogna affida­
re la propria vita a Dio. Questo significa: pure per la posizione evangelicale
indispensabile è l' indicazione di criteri.
4. Potrebbe essere che l' uniformità renda la fede cristiana molto più pic­
cola di quanto essa abbisogni. - Il problema posto dalla multiformità degli
scritti neotestamentari non può essere sicuramente risolto come ha proposto
di fare E. Kasemann: il canone non fonda l' unità della chiesa, bensì la diver­
sità delle confessioni. Potremmo riflettere se non sia il caso di risolvere que­
sto problema storicamente, come sviluppo di teologie diverse sulla base di
un tronco unitario di elementi comuni (cfr. K. BERGER, Theologiegeschichte
des Urchristentums, 1 9952) .

L' 'ERMENEUTICA BIBLICA'

Bibliografia: J. CHR. K. VON HOFMANN, Biblische Hermeneutik, Nordlingen


l 880; P. STUHLMACHER, Schriftauslegung auf dem Weg zur biblischen Theologie,
Gottingen 1975; lo. , Vom Verstehen des Neuen Testaments. Eine Hermeneutik
(NTD.E 6), Gottingen 1979; W. ScHENK, Hermeneutik III. Neues Testament, in TRE
15,144-150; I. BALDERMANN (ed.), Biblische Hermeneutik (JBTh 12), Neukirchen
1998.

Secondo von Hofmann ( 1 880) una certezza della fede e della salvezza,
che «soltanto il cristiano evangelico ha» e che egli deve sviluppare in una
18 prima parte

teologia sistematica, è il presupposto di ogni lettura della Scrittura. Von


Hofmann si scaglia sì contro ogni «falsa armonistica)), però l' ecclesialità
confessionale è qui il presupposto della comprensione della Bibbia.
In modo del tutto simile l'interprete deve, secondo P. Stuhlmacher, «fon­
dere l' orizzonte della propria comprensione e l' orizzonte storico dei testi
nella luce della tradizione (confessionale) ecclesiale )) (p. 22 1 ) . Qui, così
potremmo dire, la concezione di vo ii Hofmann è stata congiunta con quella
di H . - G . G adamer (vedi più avanti ) . L' elemento comune c o n s i ste
nell ' accentuazio Ne della tradizione (in Gadamer non ancora specificamente
ecclesiale !). In modo simile a Gadamer, anche per P. Stuhlmacher l' accordo
è sostanzialmente un accordo con la tradizione della propria chiesa.
Critica: come nel caso di Gadamer, così anche qui dobbiamo domandare
dove mai debba esistere una possibilità di innovazione. Esiste qualcosa che,
condizionato dalla situazione o da una maturata o mutata comprensione
oggettiva o forse addirittura da altri uomini ( ! ), possa e debba essere pensato
e concepito in modo nuovo? - Pure io sostengo un' ermeneutica di tipo
ecclesiale, e secondo il modello delle gambe della sedia, che esporrò più
avanti, tengo conto della tradizione ecclesiale. Ma una sedia ha, a mio modo
di vedere, quattro gambe e non solo due. Inoltre io mi schiero a favore di
una differenza metodica tra esegesi e applicazione proprio per amore della
ricchezza della Scrittura. Perciò non mi spavento e non mi turbo se qualche
volta le tradizioni ecclesiali (incluse le liturgie) non sono letteralmente
conformi alla Scrittura. Finché non si abbandona l' orizzonte della verità pri­
maria ( discepolato ), possiamo stare qui tranquilli.

LA POSIZIONE 'CENTRO DELLA SCRITTURA'

Bibliografia: E. HERMS, Was haben wir an der Bibel? Versuch einer Theologie
des christlichen Kanons, in JBTh 112 (1997); Io., Biblische Henneneutik, Neukìr­
chen 1998, 99- 152.

Secondo M. Lutero il centro della Scrittura sta nella dialettica tra legge e
vangelo (lettera della legge che uccide - promessa della grazia) . Tale centro
si trova in ambedue i Testamenti e soltanto esso rende la Bibbia la 'vera
Scrittura' . In altre parole: soltanto questo elemento essenziale è propriamen­
te Scrittura ne lla sua funzione normativa (H. KARPP, Bibel IV, in TRE 6, 7 1 ).
Critica: molti teologi faticano assai a riconoscere che il Nuovo Testa­
mento contiene differenti teologie. Così non riescono a immaginare e non
Posizioni importanti della storia della ricerca 19

vogliono di consegu enza neppure ammettere che il vangelo di Giovanni


non tramandi alcuna parola di spiegazione sul pane e sul vino adoperati
nell ' ultima cena e che in tale vangelo la morte di Gesù in croce non sareb­
be avvenuta - diversamente da quanto affermano Paolo e la lettera agli
Ebrei - in rappresentanza per la remissione dei peccati, bensì piuttosto nel
senso dei crocifissi romani , il cui messaggio non è la sofferenza espiatrice,
bensì la vittoria del martire perseverante. Tutto ciò viene respinto con gran­
de ansietà. Oppure il fatto che, al di fuori della l Corinzi, nessun' altra lette­
ra neotestamentaria sembra conoscere la cena del Signore e il fatto che
l ' escatologia dell ' Ap ocalisse di Giovanni è tanto diversa da quella della
lettera agli Efesini e della lettera ai Colossesi. Essi cercano di minimizzare
queste differenze, perché i dati essenziali della loro dogmatica (cena del
Signore, morte espiatrice) devono comparire il più possibile ovunque.
A ciò si aggiungono le direttive bibliche in fatto di condotta che ora sem­
brano realmente in parte superate, come in particolare le esortazioni secon­
do le quali le donne e i bambini dovrebbero sottomettersi come schiavi. For­
se esiste infatti la possibilità - questa la speranza quasi disperata - di rico­
noscere in base alla stessa Scrittura che cosa è essenziale e che cosa secon­
dario. In tal caso il principio della Riforma, secondo il quale la Scrittura
sarebbe interprete di se stessa, potrebbe essere confermato per via esegetica.
Il problema non è però quello di far sì che la Riforma abbia 'ragione' . Se
infatti non è possibile riconoscere in base alla stessa Scrittura che cosa è
importante e che cosa no, allora ci vogliono dei criteri aggiuntivi. Ma da
dove dovremmo attingerli? La 'parola di Dio ' è in fondo insostituibile. Il
problema ermeneutico nasce dunque quando si adotta il principio riformato­
rio dell' identità tra Scrittura e parola di Dio.
Pure il 'kerygma' di R. Bultmann aveva di fatto una funzione simile, con
il risultato che H. Conzelmann cercò poi di trovare tale kerygma in determi­
nate formule.
Poiché uno può o vuole, come protestante, essere sicuro di non dover
ricorrere alla 'chiesa' nell 'interpretazione della Bibbia, finisce per muoversi,
a quanto pare, in circoli viziosi.
Un tentativo di individuare gli elementi colleganti teologie cristiane pri­
mitive, effettuato sulla scorta di elementi comuni filologicamente dimostra­
bili (per esempio Dio come Padre, Gesù come Figlio di Dio, discorso del
regno di Dio, dello Spirito Santo e del giudizio; cfr. K. B ERGER, Theologie­
geschichte des Urchristentums, Ttibingen- Basel 1 9952), fu chiaramente per
i rappresentanti di questa corrente piuttosto un ulteriore ostacolo. Non dove­
vano infatti essere singoli elementi a svolgere questa . funzione collegante,
benslla dottrina della giustificazione.
20 prima parte

Ma qui è di nuovo l' esegesi a ribellarsi. Infatti, pur con tutta la buona
volontà, né la morte espiatrice, né la giustificazione del peccatore sono dap­
pertutto dimostrabili. E come potrebbero dunque essere qui il centro della
Scrittura?
Critica: il problema del 'centro della Scrittura' come norma ermeneutica
è un problema dottrinale unilateralmente protestante, originato dalla proble­
matica più antica dei concetti dottrinali di singoli autori (in termini critici al
riguardo si era espresso già W. WREDE, Uber Aufgabe und Methode der
sogenannten Neutestamentlichen Theologie, Gottingen 1 897), che si tra­
sformò poi qui nel concetto dottrinale dell' intera Scrittura. Forse possiamo
trovare una soluzione, se teniamo saldamente davanti agli occhi due cose: a)
la rivelazione cristiana primaria è lo stesso Gesù Cristo, e poiché si tratta di
una persona, anche l' accesso a tale rivelazione è di tipo personale, passa
cioè attraverso il discepolato, e b) la Scrittura è nata in seno alla chiesa e
testimonia i suoi inizi. Con questo non diciamo chi occupi qui una posizione
di preminenza, ma piuttosto che la chiesa può diventare certa della propria
base solo attraverso la Scrittura.
In altre parole: l' interpretazione autoritativa della Scrittura non può avve­
nire mediante un concetto dottrinale liberamente fluttuante e individuabile
in primo luogo da professori di teologia (o da essi conosciuto), ma deve
avvenire in qualche modo in forma ecclesiale. Solo chi dubita di una auto­
rità dottrinale vinc olante della chiesa ha bisogno di un centro della Scrittura.
Al riguardo è fuori discussione che questa autorità ecclesiale è pervenuta in
tutti i tempi a formulare i propri giudizi per vie differenziate. Non è escluso
che anche la chiesa abbia potuto o dovuto ricorrere qui a dei criteri. In pri­
mo luogo e in linea di principio una cosa dovrebbe esser certa: l' interpreta­
zione vincolante della Scrittura può avvenire solo all' interno di un processo
vivo (discepolato vivo) della stessa chiesa, perché tale interpretazione non è
un evento in linea di principio distinguibile da questo processo vivo. Il crite­
rio dell' 'oikodom i ' , di cui ancora parleremo, possiede perciò una preminen­
za qualitativa rispetto a tutti gli altri criteri. - La preminenza qualitativa del­
la verità, che consiste nella persona di Gesù e nella stretta unione con lui,
condiziona una preminenza della verità vissuta e attuata della chiesa rispet­
to a qualsiasi verità dottrinale. Al riguardo deve però esser chiaro che la
Scrittura non è morta e che viene ascoltata in seno alla verità della chiesa
vissuta in ogni funzione liturgica. Questa affermazione è diretta solo contro
dottrine autonomizzatesi.

In un saggio importante H. Herms ha recentemente ( 1 998) constatato:


secondo la concezione veteroprotestante il contenuto dottrinale unitario del-
Posizioni importanti della storia della ricerca 21

la Scrittura avrebbe in effetti il proprio centro nella proclamazione di Gesù


come Cristo (p. 1 28). Ma l 'esegesi storico-critica avrebbe mostrato che «la
cristologia del dogma della chiesa antica non è l ' unità sostanziale . . . della
testimonianza contenuta negli scritti della stessa graphi)> (p. 1 29). La visua­
le veteroprotestante della sintesi reale del canone sarebbe perciò fallita. Né
si sarebbe potuto chiarire con un consenso pos itivo se la concezione
dell ' esistenza sia unitaria (contributo dell' ermeneutica esistenziale) . - Risul­
tato: la sintesi reale della Scrittura non si troverebbe né in un singolo scritto,
né in qualche testo derivante da utenti della Scrittura, né in alcuna testimo­
nianza personale della fede, né nel documento di un magistero. - La propo­
sta avanzata da E. Herms : la sintesi reale sta nell' oggetto delle Scritture, in
·
quel che esse testimoniano, cioè nell' «autocoscienza della vita in seno alla
comunione della fede nel Dio d' Israele )), in seno al movimento vivo della
fede nel Dio d' Israele, in seno al «movimento storico della vita nella fede
nel Dio d' Israele)) (p. 1 35). Il fatto che questo Dio avrebbe rivelato la pro­
pria identità (Es 3 , 15) mostrerebbe che appunto l ' identità di Dio sarebbe il
luogo della sintesi. Se i nfatti Dio stesso dice di essere colui che è, allora
questo significa anche: io sono già da sempre presso di voi. - Non si tratta
perciò tanto del ricettore della rivelazione quanto piuttosto del soggetto del­
la rivelazione. Reale sarebbe in ogni caso il movimento coerente della fede
in Jahvé. Il canone, proprio perché rappresenta solo una sintesi formale,
lascerebbe libero lo sguardo di concentrarsi sullo sfondo trascendente
dell' identità. Inoltre ciò diventerebbe un evento nel culto cristiano, nello Sitz
im Leben della Scrittura.
Critica: E. Herms è molto vicino alla posizione qui sostenuta. Ma il suo
modo contorto di parlare del movimento vivo della fede nel Dio d'Israele
può essere, a mio avviso, semplificato: si tratta della storia del popolo di
Dio con il proprio Dio e al cospetto del proprio Dio. Quando parleremo del
concetto di verità parleremo di 'discepolato' . Anziché solo di 'fede in' , si
tratta già da sempre di un intreccio drammatico. Molto spesso infatti Israele
non ha creduto. - Non nell' identità di Dio sta, a mio giudizio, la sintesi -
pure altri dèi sono permanentemente identici con se stessi -, ma nella sua
fedeltà. E così siamo esattamente giunti al concetto biblico di verità. -
L' ambientazione nel culto, ammessa da E. Herms, va decisamente sottoli­
neata.
22 prima parte

2. Ermeneutiche liberali

F. D. E. SCHLEIERMACHER ( 1 768- 1 834)

Bibliografia: Sch1eiennacher non ha mai pubblicato un"ermeneutica' . Lo scritto


Hermeneutik und Kritik (a cura di M. Frank, Frankfurt 19935) è una nuova edizione
rielaborata delle precedenti edizioni di Friedrick Liicke ( 1 838) e Heinz Kimmerle
( 1 959). Costoro avevano cercato di comporre un testo unitario servendosi di spunti
e di appunti di Schleiennacher per le lezioni. Il testo si presenta perciò come una
serie di aforismi. Schleiennacher si era occupato del problema dell'enneneutica a
partire all ' incirca dal 1 805 . - Cfr. W. G. JEANROND, The lmpact of Schleierma­
cher 's Hermeneutics on Contenporary lnterpretation Theory, in D. JASPER (ed.),
The lnterpretation of Belief Coleridge, Schleiermacher and Romanticism, London
1 986, 8 1 -96.

Per Schleiermacher l' ermeneutica è l' «arte di comprendere nel modo giu­
sto il discorso di un altro», e questo è l' anello di congiunzione tra il porgere
nel modo giusto e il comunicare qualcosa ad altri (a un terzo).

l. Parte e tutto

Un principio che ritorna di continuo nell' ermeneutica di Schleiermacher è


la complementarietà tra la parte e il tutto. La parte viene compresa antici­
pando il tutto, e il tutto viene compreso solo se sono state comprese tutte le
parti. Schleiermacher applica questo principio sia a ogni singola opera sia
anche al confronto di tutte le opere fra di loro, nonché all ' ambientazione
biografica di un' opera:
a) a ogni singola opera: le parti arrivano ad occupare mediante la ricostru­
zione il loro posto nel tutto,
b) al confronto con altre opere: qui si tratta di una infinità mai completa­
mente esaurita. Ma l'importanza di un' opera dipende dal suo valore posizio­
nale in seno a una somma pensata,
c) in rapporto alla biografia di un autore : l' opera va ambientata nel tutto
della vita, e la vita risulta nel suo complesso dalla successione delle opere.
Posizioni importanti della storia della ricerca 23

2. Confrontare

La metodica, con cui egli compie questi passi, è quella tcomparativa.


Sempre infatti si tratta di confrontare la parte con il tutto e di: individu arne
così l' importanza. Accanto a questa metodica comparativa Schleiermacher
menziona anche quella divinatoria, una comprensione piuttosto intuitiva
mediante il confronto con se stesso. Anche qui si tratta quindi di confronta­
re !

3. Due metodi

Schleiermacher distingue quindi la metodica divinatoria e quella compa­


rativa, che si completano a vicenda:
a) Metodo divinatorio: uno si immedesima per così dire con l' autore del
testo e cerca di cogliere direttamente 'l'individuale' . Ogni uomo possiede­
rebbe «una ricettività nei confronti di tutti gli altri», ciascuno porta un mini­
mo di ogni altro in sé e lo paragona 'divinatoriamente' (intuendo, vaticinan­
do) co il se stesso. Il fatto che ognuno porti qualcosa dell' altro in sé ricorda
la monade senza finestre di Leibniz. Sulla base della semplice divinazione
questo metodo è insicuro e ha bisogno del confronto.
b) Metodo comparativo: uno stabilisce dei paragoni con altre testimonian­
ze dello stesso genere. Stabilisce dei paragoni mediante la comparazione,
che poi però dovrebbe procedere all' infinito, o di nuovo mediante la divina­
zione (intuendo, vaticinando).

4 . L'opera

Schleiermacher riserva una particolare attenzione all' 'opera' di un autore,


e precisamente sotto questi due aspetti:
a) L' opera è una realtà nella vita di un autore. Perciò la domanda: che
relazione ha essa con la sua vita, come si colloca nel complesso della sua
vita? L'opera fa parte della professione dell' autore - e allora come è egli
giunto alla sua professione? La questione si complica se l ' opera appare
casuale.
b) Importante è la decisione dell' autore, a volte detta anche decisione ger­
minale. Occorre domandarsi che cosa significhi il germe intimo nella vita
dell' autore. - La questione delle circostanze esteriori della composizione
conduce invece facilmente all' 'anedottica' .
24 prinuJ pane

5. Contesto

Accanto all' inquadramento nella vita (biografia) si colloca l ' inquadra­


mento nella storia, nella storia della religione e nella storia della società. Se
la biografia dell' autore indica la verticale, la storia indica l' orizzontale. Le
due si incrociano nell' opera e ne sono il c_ontesto. Schleiermacher ha antici­
pato con grande lungimiranza la categoria moderna della contestualità,
importante per l' ermeneutica.

WILHELM DILTHEY (1833-1911)

Bibliografia: W. DILTHEY, Gesammelte Schriften (GS), Leipzig und Stuttgartl


Gottingen 1 9 1 4ss. (Dilthey) (volumi citati con numeri romani); Io., Die Entstehung
der Henneneutik, 1 900; O. F. BOLLNOW, Dilthey. Eine Einfiihrung in seine Philo­
sophie, Stuttgart 1 98()4; R. E. PALMER, Henneneutics. lnterpretation Theory in Sch­
leiennacher, Dilthey, Heidegger, and Gadamer, Evanston 1 969; M. RIEDEL, Ver­
stehen oder Erkliiren ? Zur Theorie und Geschichte der hermeneutischen Wissen­
schaft, Stuttgart 1 97 8 ; eu. ZòCKLER, Dilthey und die Hermeneutik. Diltheys
BegrUndung der Hermeneutik und die Geschichte ihrer Rezeption, Stuttgart 1 975.

Punto di partenza è per Dilthey la psicologia, mediante cui egli cerca di


comprendere la multiformità della vita psichica umana. Concetto centrale
diventa per lui la comprensione, e precisamente la comprensione di tutto
l' individuo . Meta è la comprensione della storia, ovviamente non nel senso
della semplice cronaca. 'Tipi' di con cezioni del mondo determinano via via
le epoche e si esprimono nella religione, nella cultura e nella costituzione
statale . Fondamento comune di tutta la storia è la vita, che compare nella
storia in guise multiformi. «La vita non si esaurisce mai nella sua rappresen­
tazione . L' esperienza religiosa rimane piuttosto sempre l' eternamente inti­
mo; in nessun mito e in nessuna rappresentazione di un dio essa trova perciò
un' espressione adeguata . . . La vita . . . è ciò che si conosce dall' intimo; essa è
quella cosa al di là della quale non possiamo retrocedere. La vita non può
'
essere portata dav anti al tribunale della ragione» ( GS [ 1883] 141; VII [verso
il 1910] 359).
Attraverso la comprensione delle «forme espressive e vive dell'esperienza
religiosa lo studio scientifico e culturale della religione scopre il senso e
l' importanza pratica della religione» (U. HERRMANN, Dilthey, W., in TRE 8,
761), mentre l' «esperienza religiosa acquista vitalità e forma in un atteggia­
mento (interiore) religiosamente prezioso (pace, contentezza, beatitudine) e
Posizioni importanti della storia della ricerca 25

in una pras si esteriore ad esso collegata» (ibid. ) . Per l ' ultimo Dilthey
determinante è la domanda: «Come possiamo promuovere una conoscenza
storica del cristianesimo contro il dottrinarismo teologico, che vive solo in
scuole e in catene concettuali dogmatiche, lontano dai motivi che determina­
no la vita morale degli uomini, senza legame tra le sue formule monotone e i
cuori agitati degli uomini? L' intrinseca mancanza di verità della teologia,
sempre intenta a redigere nuovi compendi dogmatici, è la sua più grande
sventura e la sua più grande colpa» .
Significato: la religione cristiana non viene posta in relazione soltanto con
la razionalità dell' uomo, bensì con tutto il campo delle sue percezioni ed
esperienze. Se comprendo bene Dilthey, si tratta per lui anche di una religio­
sità popolare radicata nella vita quotidi-ana, in ogni caso di ciò di cui gli
uomini per davvero 'psichicamente' vivono se sono cristiani, della religio­
sità vissuta. All' esperienza individuale, di cui uno «prende coscienza» , si
contrappongono in un modo carico di tensione forme dello spirito oggettivo,
in cui la vita si realizza (religione, arte ecc.).
Critica: Dilthey smarrisce cammin facendo la specificità dell'esperienza
religiosà. Essa comprende, per esempio, il lato mistico della religione, che si
riferisce a un Dio sperimentato «come una persona» . Così egli dice di se
stesso: «Io non sono una natura religiosa» (Der junge Dilthey [Briefe ] ,
1870, 279). Tuttavia dall' esterno Dilthey ha osservato delle cose importanti,
che in parte non sono state sino ad oggi assimilate.

RUDOLF BULTMANN (1884-1976)

Bibliografia: B. JASPERT, Sackgassen im Streit um Rudo/f Bultmann, S t Ottilien


.

1 985; W. SCHMITHALS, Bultmann, in TRE 7, 387-396; ID., Die Theologie Rudo/f


Bultmanns, Tiibingen 1 9672; K. BERGER, Exegese und Philosophie, Stuttgart 1 986,
cap. VI: «R. Bultmann und M. Heidegger>), 1 27 - 1 76 con bibl.; tra gli scritti di R.
Bultmann d'importanza fondamentale è qui Das Problem der Hermeneutik ( 1 950),
in Glauben und Versteben II, Tiibingen 1 965, 2 1 1 -235 [trad. it. Il problema
dell 'ermeneutica, in Credere e comprendere, Queriniana, Brescia 1977, 565-588].

Il problema ermeneutico di R. Bultmann fu, come dice bene W. Sch­


mithals (TRE 7, 395), la «problematica indubbiamente aperta della possibi­
lità della fede cristiana nella condizione della concezione scientifica del
mondo tipica dell ' evo moderno» . Importanti sono a questo riguardo i
seguenti elementi:
26 prima parte

l. La teologia, se vuole essere una scienza credibile, deve servirsi di una


concettualità chiarificata («più precisa»). Essa non può approntare tali con­
cetti con i propri mezzi, ma si serve a questo scopo della filosofia, più preci­
samente dell' antropologia filosofica di M. Heidegger. R. Bultmann conside­
ra questa antropologia come effettivamente scientifica, e ciò non da ultimo
sotto l ' influsso del neokantismo di Marburgo, che si concepiva in parte
come metascienza per scienze della natura e dello spirito.
2. Chi ora vuole còmprendere il Nuovo Testamento in questo modo deve
proiettarlo sul piano di una antropologia filosofica.
3. Di ostacolo per il procedimento descritto nel punto 2 sono soprattutto
gli elementi mitologici del Nuovo Testamento, che derivano da un' epoca
prescientifica. Essi non vanno certo eliminati, però se li si interpreta nel sen­
so dei punti l e 2, li si può rendere accettabili anche all' uomo moderno. Del
resto questo è pure un comandamento dell' onestà e corrisponde pertanto alla
provenienza liberale di Bultmann (J. Weiss, W. Heitmiiller, A. Jiilicher).
4. Per Bultmann l' antropologia di Heidegger è utile soprattutto quando si
tratta di chiarire la concettualità antropologica paolina. Così il corpo viene
da lui inteso come l' essere storico non disponibile dell' uomo, e sempre così
egli ricorre a termini come autenticità e inautenticità, 'si ' , 'mondo' , colpa,
autocomprensione, essere-per, chiamata, esistenza, cura, decisione, storicità,
importanza, temporalità e molti altri ancora. Specialmente l' idea fondamen­
tale di Essere e tempo, cioè la struttura temporale dell ' esistenza umana
diventa per lui il punto di aggancio per interpretare in termini attuali l' esca­
tologia cristiana primitiva. Il suo maestro Johannes Weiss aveva riscoperto
nel 189 1 , nel proprio scritto Jesu Predigt vom Reich Gottes [Predicazione
del regno di Dio da parte di Gesù] , l' escatologia cristiana primitiva quale
entità trascendente (così come parallelamente a lui aveva fatto A. Schweit­
zer). Questo lascito della teologia liberale ebbe però in un primo momento
un carattere piuttosto deludente per qualsiasi genere di predicazione e si sot­
trasse (con cura) ad ogni applicazione. Bultmann, collegandolo con la con­
cezione heideggeriana del tempo, riesce invece ora a rendere teologicamente
fruttuoso per uomini odierni questo importante aspetto della predicazione
cristiana primitiva.
5. L' adozione dell ' antropologia filosofica è per Bultmann una via per
superare lo storicismo. Egli ritiene in questo senso che la filosofia sia capa­
ce di fare delle affermazioni permanentemente valide sull' essenza perma­
nente dell' uomo. Qui non si tratta infatti soltanto di 'cose' permanenti, ma
di possibilità dell' esistenza umana in generale. Pertanto egli scrive in Crede­
re e comprendere che gli imperativi di Gesù e dei profeti andrebbero inter­
pretati come scaturenti «da rapporti di reciprocità fra gli uomini in generale
Posizioni importanti della storia della ricerca 27

e non solo da una forma storica concreta di tale reciprocità» (1, 320 [trad. it. ,
340]).
6. Nel recepire Heidegger, Bultmann non è coerente: del resto, perché
dovrebbe esserlo? L' analisi filosofica dell 'esistenza è, secondo Bultmann,
abolita, elevata e conservata (aufgehoben) nel nuovo. Le strutture dell'esi­
stenza permangono, perché il credente è pur sempre un uomo: egli è appun­
to simultaneamente 'peccatore ' (uomo ordinario) e 'giustificato' (figlio di
Dio), perché la fede non è una nuova qualità essenziale. Soprattutto un atei­
smo ermeticamente chiuso non è più un presupposto. Qui la concezione di
Heidegger viene fatta radicalmente saltare. - Così la chiamata/interpellanza,
che porta l' uomo all' autenticità, viene estesa da Bultmann fino a compren­
dere il kerygma, cosa mediante la quale sembra essere anche subito stabilito
che cosa la parola di Dio è.
7. Ma Bultmann non va interpretato solo partendo da Heidegger, perché
egli è pure un 'teologo dialettico' e un compagno di viaggio di K. Barth.
Non dovremmo dimenticare che Bultmann, Barth e Heidegger sono insieme
neokantiani di Marburgo. - Alla luce delle origini di questa teologia non a
caso il punto di partenza, secondo il quale occorre superare la divisione del
soggetto, si incontra con l ' istanza di Heidegger. Ciò significa in concreto:
non possiamo disporre di Dio, non possiamo parlare di lui in una concettua­
lità oggettivate, bensì solo in una concettualità esistenziale e 'personale ' .
Ciò significa anche: non può esistere un agire di Dio nel mondo che sarebbe
oggettivamente afferrabile. I miracoli sono perciò tutti quanti esclusi. L' uni­
co miracolo, che di conseguenza rimane, è la riconciliazione. A questo pun­
to il cerchio si chiude: se inizialmente sembrava essere lo scandalo provato
dagli uomini moderni per il miracolo a costituire un ostacolo per l' onestà
scientifica, adesso si mostra anche perché le cose stanno così: tutti i cosid­
detti testi mitologici della Bibbia non parlano «in modo adeguato» di Dio,
perché interpretano l' agire di Dio come qualcosa di esistente nel mondo. Ma
questo non può essere, perché Dio e il suo agire non sono un oggetto del
mondo. Qui valgono solo le relazioni personali sul piano di affermazioni
esistenziali.

Il principio del superamento della separazione soggetto-oggetto è di una portata


molto vasta per il neoprotestantesimo degli ultimi trent' anni del secolo XX, special­
mente per quel che riguarda le sue forme 'di sinistra' e le sue forme secolarizzate.
Se infatti tutto l ' autentico è di tipo mondano, cadono di conseguenza 'in crisi ' le
entità fatto storico, diritto, istituzione, tecnica, metodo e anche 'atteggiamento eti­
co' . Tutto il mondano, il visibile e l' apparentemente solido - anzi soprattutto questo
- sono infatti profondamente problematici. In corrispondenza già Bultmann non
28 prima parte

conosce più alcuna etica dettagliatamente formulata. A ciò corrisponde, nella cor­
rente di sinistra della scuola bultmanniana, divenuta politica, la sostituzione almeno
tendenziale dell' azione mediante la commozione. - Molte singole posizioni
dell 'ecopacifismo si spiegano facilmente come eredità culturale della scuola bult­
manniana divenuta politica.
Pure l' infelice doppia combinazione 'indicativo e imperativo' e 'già e non anco­
ra' , risalente a R. Bultmann, corrisponde alla posizione tardoideali-stica che dissol­
ve ogni certezza al di fuori dell' autocomprensione.

8. Per il resto Bultmann collega in modo addirittura geniale la dottrina


luterana della giustificazione con la ricerca critica liberale su Gesù. Se
quest' ultima aveva concluso che neppure un evento tramandato nei vangeli
andrebbe ritenuto come un evento storico, da parte sua Bultmann dichiara,
applicando la dottrina della giustificazione, che tale storicità non è affatto
necessaria e che essa non andrebbe neppure nel senso della dottrina della
giustificazione. Infatti se l' unica cosa importante è la fede, un sostegno for­
nito alla fede da fatti sarebbe del tutto fuori luogo e distruggerebbe addirit­
tura la fede; anzi il richiamo a fatti assumerebbe il carattere di un' opera. E
tutto l' appoggiarsi sul visibile, sul mondano, sul preesistente sarebbe contra­
rio alla fede quale pura fiducia; così il problema più grande del modo di
considerare la Scrittura, la distruzione della base storica, divenne sottobanco
addirittura una virtù. Il radicalismo critico e il luteranesimo strinsero qui
un' alleanza felice-infelice. Così in Kerygma und Mythos [Kerygma e mito]
leggiamo che la demitizzazione radicale sarebbe «il caso parallelo alla dot­
trina paolina-luterana della giustificazione senza l' opera della legge e unica­
mente mediante la fede. O piuttosto: essa è la sua applicazione coerente nel
campo della conoscenza» (Il, 207).
9. Problematica diventa tutta là dimensione della storia. Alla non oggetti­
vabilità di Dio corrisponde infatti la non oggettivabilità dell' uomo. Questa
non riguarda solo gli elementi mitologici del Nuovo Testamento, bensì
anche il rifiuto della perspicuità storica e psicologica dell' esperienza religio­
sa. Perciò completamente degradato viene anche il valore di analogie stori­
co-religiose, un processo questo portato coerentemente a termine solo dai
discepoli di Bultmann: «Il criterio è la cosa e non l' analogia temporale stori­
ca», così potremmo riassumere la convinzione fondamentale qui imperante.
Ma la cosa è la fede da denominare antropologicamente e teologicamente.
Questa cosa non sarebbe appunto afferrabile con strumenti storici, · anzi que­
sti sarebbero appunto controproducenti. Viene così posta la base per l' elimi­
nazione vera e propria della storia. Ciò non è tanto triste per gli storici della
chiesa, quanto piuttosto per qualcos ' altro: la salvezza non può essere colta
Posizioni importanti della storia della ricerca 29

in modo positivo. Chi infatti volesse così coglierla, dovrebbe ricorrere a


concetti oggettivanti.
La conseguenza pratica di tutto ciò è la continua interpretazione dei testi
del Nuovo Testamento , ritenuti mitologici, nel senso di affermazioni
sull' uomo e sui suoi atti esistenziali. Che così insorgano dei problemi parti­
colari per quanto riguarda l' Antico Testamento e la sua valutazione, è cosa
che non abbiamo bisogno di menzionare in modo specifico. - Il compito
dell'esegesi consiste sostanzialmente solo in una trasposizione in una con­
cettualità scientifico-teologica adeguata.
Quanto alla valutazione della posizione di R. Bultmann dobbiamo dire:
per una o anche due generazioni questa ermeneutica è stata o è una possibi­
lità di conciliare in modo scientificamente onesto le affermazioni della fede
con il pensiero moderno . Le correnti evangelicali o fondamentalistiche
opposte non erano in grado di rispondere perlomeno alle questioni concer­
nenti una relazione positiva tra pensiero e fede. Bultmann ha almeno tentato
ancora una volta di porre la moderna scienza umana in dialogo con la fede,
cosa che nella sua scia fu poi portata avanti nel campo della psicologia e
della sociologia.
Per molti teologi e laici l' opera di Bultmann fu una vera liberazione. Essi
non dovevano infatti più depositare l ' intelletto alla porta della chiesa. Si
sentivano presi sul serio come uomini moderni e non più costretti ad accet­
tare il soprannaturalismo.
Quanto alla difesa di Bultmann dobbiamo dire in partenza: egli non vuole
cancellare, ma solo interpretare i racconti mitici del Nuovo Testamento.
Noi cioè non dovremmo cominciare a stupirei nel punto sbagliato. Non il
miracolo visibile - per le concezioni di allora - sarebbe il motivo dello stu­
pore, bensì la salvezza dell ' uomo mediante la grazia. - E inoltre: il fatto che
Bultmann si sia riferito precisamente ad Heidegger non dovrebbe significare
che solo Heidegger e nessun altro sarebbe adatto a spiegare il Nuovo Testa­
mento. La demitizzazione è piuttosto un compito permanente, cioè: ogni
generazione dovrebbe di bel nuovo dissolvere tutte le posizioni solidificate
inadeguate, che bloccano 'dogmaticamente' le vie di accesso personali e
una comprensione degna dell' uomo.

Quanto alla critica di Bultmann dobbiamo dire:


l. Dobbiamo domandarci se la demitizzazione sia in linea generale possi­
bile. La più recente scienza del testo ha reso problematica la divisione tra
affermazione del testo e tutto ciò che starebbe 'dietro' al testo. In base a che
cosa infatti conosceremmo con precisione la cosa, che può essere presunta-
30 prima parte

mente separata dalla forma (Bultmann adopera l' immagine del nocciolo e
del guscio)?
2. Dobbiamo domandarci se la demitizzazione è necessaria. Se infatti
rinunciamo a una immagine uniforme del mondo, possiamo ritenere reali
tutti i racconti mitici senza contrapporli a fatti scientifici naturali. In questo
libro batteremo più avanti questa via.
3. Dobbiamo domandarci se l' astinenza dall 'esperienza storica, praticata
con coerenza da Bultmann, sia del tutto irrealistica e presenti una tendenza
fatalmente deleteria. Se il contenuto della salvezza non può essere descritto
in modo positivo e tutto l' autentico è personale e invisibile (e da ritrattare in
continuazione subito), per i cristiani non ci possono essere né una continuità
storica, né una patria spirituale. Noi non solo dipendiamo dal l ' una e
dall' altra, ma togliere l'una e l' altra all'uomo è cosa che non può significare
alcunché di buono per la figura della chiesa.

Non abbiamo certamente motivo di 'ergerci' al di sopra di Bultmann. Egli fece


parte della chiesa confessante, tenne regolarmente prediche e soleva tra l ' altro
anche - a quanto si dice - pregare a tavola. La questione sta solo nel sapere fino a
che punto tutto ciò sia anche una conseguenza diretta della sua teologia. Ciò riguar­
da, ad esempio, proprio la dimensione della preghiera, che in Bultmann e nei suoi
discepoli non pare svolgere alcun ruolo.

4. La storia viene in R. Bultmann eliminata in favore di una semplice illu­


strazione di possibilità umane (diversamente in E. Klisemann: la storia come
luogo concreto dell' incontro con il Dio esigente). Pure per questo motivo
viene a mancare l' etica.
5. Uno sguardo al Nuovo Testamento e agli studi successivi su di esso
effettuati mostra che molte posizioni, le quali sembravano essere in modo
singolarmente liscio conformi all ' impostazione sistematica di Bultmann,
non affermano in ogni caso in maniera tanto indiscutibile quanto Bultmann
avrebbe volentieri voluto e che esse inducono spesso piuttosto a pensare il
contrario. Ciò riguarda anzitutto il rapporto tra vedere e credere e il signifi­
cato dei racconti di miracoli nel vangelo di Giovanni e, inoltre, la presunta
demitizzazione che già lo stesso Nuovo Testamento avrebbe intrapreso.
6. Con la limitazione della certezza al campo dell ' autocomprensione, del
personale e della relazione, Bultmann si mostra discepolo dell' idealismo
tedesco nella versione datane da Kant e da Fichte (in fondo già a partire da
Descartes, che trovò l ' unica certezza nel cogito). Il Nuovo Testamento è
molto ricalcitrante nei confronti di questi presupposti fondamentali. Con Th.
Sundermeier dobbiamo constatare: le religioni dell' Africa nera sono molto
più vicine al pensiero biblico che non le tradizioni filosofiche del secolo
Posizioni importanti della storia della ricerca 31

XIX 2 •
Tenendo presente in modo particolare l' ermeneutica ebraica cerchere­
mo di seguire ulteriormente questa linea critica.

Questo potrebbe significare : al posto della suddivisione in personale e


storicamente cosale e fattuale dovrebbe subentrare una fraternità dell' essere.
Bisognerebbe mettere in discussione la riduzione del concetto occidentale di
persona ali 'uomo consapevole di sé. Bisognerebbe rivedere la suddivisione
cartesiana in res cogitans e res extensa, perché qui si tratta di un ultimo
baluardo del neoplatonismo. Tutto quel che vive è infatti nello stesso tempo
materiale e sotto un certo aspetto psichico (cosicché la suddivisione tomista
in anima vegetativa, anima sensitiva e anima rationalis avrebbe la sua rela­
tiva ragion d' essere) .

HANS WEDER (n. 1 946)

Bibliografia: H. WEDER, Einblicke ins Evangelium. Exegetische Beitriige zur


neutestamentichen Hermeneutik, Gottingen 1 992; Io., Autoritiit und Auslegung der
Schrift. Neutestamentliche Uberlegungen zur Problematik ausgelegter Wahrheit, in
H. F. GEISSER H. WEDER (edd.), Wahrheit der Schrift - Wahrheit der Auslegung.
-

Vorlesungsreihe zum 80. Geburtstag von Gerhard Ebeling, Ziirich 1 993.

H. Weder parla di ermeneutica, ma non come di una dottrina del metodo e


neppure nel senso di una sua descrizione fenomenologica. Quel che egli ha
pubblicato sotto il titolo di 'ermeneutica' è - secondo il mio punto di vista - né
più né meno che una riflessione teologica sistematica sulla parola di Dio e sul
modo in cui essa opera nei confronti dell'uomo. Se teniamo presente questo,
vediamo che lo scopo è del tutto diverso da quello perseguito, ad esempio, in
questo libro. Le coincidenze tematiche sono perciò piuttosto casuali.
Weder ha proposto le proprie riflessioni attenendosi rigorosamente alla
dottrina della giustificazione di tipo protestante, anzi le sue riflessioni sono
propriamente una applicazione di tale dottrina al problema dell' ascolto della
parola. Perciò egli non procede in modo empirico (ad esempio nell' analisi
della comprensione), bensì in modo sistematico deduttivo, e precisamente
usando il linguaggio della Bibbia. I seguenti aspetti sono per lui importanti:
l . '.Grazia' è il termine guida di un' ermeneutica neotestamentaria.

' T H . SUNDERMEIER, Nur gemeinsam konnen wir leben. Das Menschenbild schwarzafrikanischer
Rl•ligionen, GUtersloh 1988.
32 prima parte

L' uomo sperimenta tale grazia come una grazia creativa e non come una
grazia commisurata al merito.
2. Il termine appare perciò estraneo, perché la grazia è estranea. L' «erme­
neutica scopre nella parola estranea che essa vale per me» (H. Weder). Allo­
ra comprendiamo il testo come parola di Dio, come linguaggio della grazia.
3 . Questa realtà della grazia condiziona la distanza reale dalle nostre
costruzioni della realtà. Compito della teologia è quello di far conoscere
all ' uomo la realtà e la presenza di Dio, cioè di parlare dell' amore come
dell' unica cosa vera.
4. Alla comprensione guarita dall' ermeneutica si oppone il peccato nella
comprensione. Peccato nella comprensione significa legge, non vangelo,
significa un unico Dio che compare come comandante supremo.
5. Nella percezione del testo non bisogna distinguere tra testo e applica­
zione. Né il testo aiuta in una situazione, ma crea (per esempio come pro­
messa) una nuova situazione. Perciò esso ha anche autorità (non a motivo
del suo autore).
6. L' ermeneutica rende manifesto: il testo incide sull' uomo. Questd lavo­
ro del testo sull'uomo è l 'evento propriamente importante. Possiamo parlare
anche della parola sempre preveniente.
7. La teologia è in questo senso commossa e commovente.
8. Weder attinge anche alla teologia della parola di Dio di Ebeling: così le
parabole sono eventi della bontà di Dio. I testi non parlano di qualcosa, ma
sono interpellanze rivolte a uomini. L'uomo è coinvolto in un dialogo con i
testi e così redento dal dialogo con se stesso.

Critica: queste tesi non vanno propriamente criticate, perché esse sono
convinzioni di fede formulate in modo teologico sistematico e si sottraggo­
no, come tali, a ogni superverifica empirica. Chiara è anche una concezione
della teologia diversa da quella qui proposta. Quanto alla prassi dobbiamo
però domandare due cose: a) la concezione di H. Weder ha una qualche rile­
vanza per l ' applicazione pratica quotidiana del vangelo? La deve mai avere?
Oppure si tratta solo di un accertamento 'interiore' ? b) Weder, quando dice
che solo il testo crea la situazione, si dispensa con ciò da qualsiasi approfon­
dimento della situa�ione esistente. Evidentemente non dobbiamo neppure
domandare in modo concreto che cosa una determinata situazione esige,
quali sono le cose di cui gli uomini si interessano o di cui hanno bisogno. La
'parola' del messaggio manda in ogni caso a monte tutto?
La particolare fissazione della parola creativa di Dio (evento) su determi­
nati generi (parabole) è già stata criticata in antecedenza e da altri.
Proposizioni come: «Dio è amore. Questa frase è semplicemente vera al
Posizioni importanti della storia della ricerca 33

tempo del Nuovo Testamento così come oggi»3 ci dicono che qui viene
sacrificato qualsiasi senso della dogmatica per differenze linguistiche o cul­
turali.

HANS-GEORG GADAMER (n. 1 900)

Bibliografia: H.-G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Tiibingen 19754 [trad. it.,
Verità e metodo, Bompiani, Milano 1 9885] . - Commento e critica: W. G. JEANROND,
Text und Interpretation als Kategorien theologischen Denkens (HUTh 23), Tiibin­
gen 1 986; B . J. HILBERATH, Theologie zwischen Tradition und Kritik. Die philo­
sophische Hermeneutik Hans-Georg Gadamers als Herausforderung des theologi­
schen Selbstverstiindnisses, Diisseldorf 1 97 8 ; T. 0Rozco, Platonische Gewalt.
Gadamers politische Hermeneutik der NS-Zeit, Hamburg - Berlin 1 99 5 ; H.-G.
STOBBE, Hermeneutik - ein okonomisches Problem. Eine Kritik der katholischen
Gadamer-Rezeption (OTh 8), Giitersloh 1 98 1 .

H.-G. Gadamer ha influito come nessun altro sull' ermeneutica teologica


conservatrice degli ultimi trent' anni di questo secolo. Com'è potuto succe­
dere?
Gadamer vuole descrivere la comprensione e farlo in modo del tutto neu­
trale, senza procedere ad alcuna valutazione. La comprensione è per lui un
intendersi-su-qualcosa, un intendimento a proposito della cosa. Quando
comprendiamo qualcosa di una cosa, ci inseriamo nel complesso della tradi­
zione della cosa. Tali termini stanno a indicare questo: nel corso della storia
gli uomini si sono in continuazione intesi sulla cosa. Una tradizione del
modo di agire e di comprendere non esiste solo in seno alle corporazioni
d' arti e mestieri. Una volta raggiunta tale comprensione, la cosa 'va da sé' ,
si comprende e si agisce in modo adeguato.
Gadamer chiama tale buona riuscita con l ' espressione un po ' misteriosa
di 'fusione di orizzonti' . Detto in termini più semplici: se leggo attentamen­
te le istruzioni per l' uso di una macchina, se le assimilo in modo tale che la
macchina funzioni, allora l' orizzonte dell' istruzione per l' uso (del funziona­
mento della macchina) combacia con la mia intenzione (di avere una mac­
china che funzioni). Questo è la fusione di orizzonti, un modo di agire
oggettivamente adeguato e coronato da successo nel senso della cosa.
L' argomentazione preferita di Gadamer è su questo punto giuridica: se si

' H. WEDER ( 1 986), a senso 284s.


34 prima parte

applica una legge al caso per cui essa è pensata, siamo di fronte a una com­
prensione della legge. Gadamer non si perita di menzionare in simili conte­
sti anche la Bibbia: la predica sarebbe un caso di applicazione della Bibbia.
In questo modo il singolo si inserisce in un grande processo fatto di tra­
smissione e tradizione. Quel che qui viene tramandato è meno importante
del fatto che esso sia tramandato. L'individuo è descritto a lettere minuscole,
egli è solo un barlume. Pure l' autore di un testo estraneo ha poca importanza
per Gadamer. L' importante non sono le persone e i soggetti. I testi o i settori
oggettivi si sono autonomizzati nei loro confronti. Il testo poté autonomiz­
zarsi perché l ' uso ha levigato, attraverso il contatto con il 'ferro caldo' della
cosa, gli elementi personali e individuali, che erano una volta propri
dell' autore e che egli può anche aver avuto di mira. - P. Stuhlmacher ha
salutato con favore, nella sua ermeneutica dell' intendimento, questo inten­
dersi in seno a tradizioni. - Tuttavia Gadamer ha preso le distanze dal fatto
di volere, con i suoi mezzi, legittimare tradizioni o dogmatiche ben determi­
nate. Questa è certamente la forza e la debolezza della sua concezione. Egli
vuole infatti solo descrivere quello che chiamiamo così comprensione. In
questo egli è in tutto e per tutto un fenomenologo. Ma questa epoch i
(sospensione) può essere sfruttata bene da ogni genere di conservatori. In
fondo in Gadamer il classico arriva a occupare una posizione di particolare
prestigio, perché sopravvive nel processo della tradizione. Il classico è forte
quanto basta per poter ricomparire in continuazione. Così, malgrado tutta la
neutralità, proprio il forte diventa sempre più forte. Ma così è appunto fatto
il mondo, risponderebbe presumibilmente Gadamer.

Sui singoli punti della critica:


l . Essenziale è per Gadamer la separazione tra interpretazione (metodo,
per es. critica testuale; scienze naturali) e comprensione (verità; scienze del­
lo spirito). Tale separazione è sempre stata criticata, e a ragione (W. G. Jean­
rond 1 986; M. Frank 1 977).
Gadamer fonda la propria posizione dicendo che non la storia (quindi
l' oggetto delle scienze dello spirito) appartiene a noi, bensì noi alla storia.
Invece il lavoro dell' accostamento storico-critico consiste a mio avviso pro­
prio nel fatto di rappresentare l' altro come altro e non nel fatto di seque­
strarlo. In questo modo la semplice appartenenza alla storia è interrotta.
Riconosciamo che sono due mondi quelli che si incontrano. Questo è allora
alterità compresa e estraneità capita. In questo modo viene resa possibile
una convivenza accompagnata dal rispetto delle peculiarità individuabili
non sequestrabili. Né si tratta di immedesimarsi negli altri. Questa sarebbe
la falsa alternativa.
Posizioni importanti della storia della ricerca 35

Il tema è quindi il sequestro. L' altro non vuole precisamente solo lasciarsi
sequestrare? In veste di esegeti osserviamo spesso come Paolo sia esposto
inerme in balia dei suoi interpreti, che in parte hanno introdotto nel mondo
varie interpretazioni sbagliate oltremodo coronate da successo. Nessuno può
giustificare l' ottimismo, secondo il quale le interpretazioni sbagliate si cor­
reggerebbero da sole già a motivo della cosa. La comunicazione è quindi
fine a se stessa? Quel che Gadamer chiama complesso della tradizione non è
troppo disomogeneo anche in se stesso perché si possa dire che qui starebbe
la chiave della comprensione?
2. Ma la controparte storica non viene dichiarata (contro Gadamer) l' uni­
versale, essa rimane individualità. Tra le due individualità può allora esiste­
re un punto di paragone (il tertium comparationis). Non si tratta quindi di
una verità universalmente valida, bensì di accordi consensuali e compromis­
sori. L' estraneità dell' altro significa possibilità di gettare degli sguardi nella
ricchezza del suo essere (sull' ermeneutica dell' estraneità, cfr. più avanti).
3 . Gadamer vuoi descrivere in modo 'neutrale' la conoscenza. Ma in
realtà descrive quel che si impone ( 'classico'). E: «Il successo tardivo e per­
durante dell' ermeneutica di Gadamer sta non da ultimo nella sua promessa
di una comprensione innocente e pura e di una scienza dello spirito presun­
tamente apolitica» (R. Suchsland, in FRu qel 20.9.96, 9). Sottobanco Gada­
mer trasmette il criterio del successo, dell' effettivo imporsi (immagine spe­
culare del sistema educativo borghese e liberale).
4. Il problema se una comprensione possa essere realmente criticata dalla
cosa non si pone per Gadamer. Tra cosa e comprensione non esiste per lui
alcuna differenza critica.
5. Gadamer parla del necessario rapporto vivo con una cosa come della
condizione della possibilità di comprendere. Questo punto è notoriamente
accolto con favore da teologi, e l' autocomprensione credente fu dichiarata il
presupposto della comprensione di testi biblici. Ma la necessaria, oltre a ciò,
capacità di una distanza critica - se deve trattarsi di scienza - fa difetto in
Gadamer. Qui si tratta, nel mezzo di un rapporto vivo, della capacità di
maneggiare in maniera autocritica la ragione critica. Perché solo con questa
capacità sarò in grado di lasciar sussistere anche altre realtà. In questo senso
la ragione storica è anche orientata socialmente.
La presa di distanza impedisce un inserimento solo docile nell' evento
della tradizione. Essa fa diventare visibile proprio anche la peculiarità indi­
viduale, e in questo modo non si tratta solo di riguadagnare il soggetto dalla
parte del conosciuto, bensì si riguadagna anche il soggetto del conoscente.
6. Invece secondo Gadamer «l' autoriflessione dell' individuo non è che un
barl ume nel compatto fluire della vita storica» ( 1 975, 3 1 5 .266 [trad. it. ,
36 prima parte

325]), e nella ricezione del testo si tratterebbe solo dell ' universale (op. cit. ,
323 [trad. it., 333]): il testo tramandato non viene concepito come manife­
stazione vitale di un tu ed è disgiunto da ogni legame con un io e con un tu
(op. cit. , 340 [trad. it. , 350]). Infatti solo il senso avrebbe una storia, solo
disgiunto dal proprio autore il testo diventerebbe universale.
Scopo dell 'ermeneutica che esporremo in queste pagine è anche la riabili­
tazione del soggetto. Infatti con M. Frank dovremmo rivendicare il fatto, già
alla luce della fusione di orizzonti di Gadamer, che qui comunicano tra di
loro realmente due soggetti (M. Frank 1 977, 34).
Che ogni testo possa avanzare di per se stesso una pretesa di essere vero è
cosa che comunque non si può dire a proposito del canone della Bibbia, per­
ché a essere ispirati sono gli autori e non la lettera. E nei confronti di chi
dovrebbe valere la virtù ermeneutica della lealtà se non nei confronti
dell ' autore di un testo? Per il gusto ecclesiale i testi non furono mai autono­
mi . E appunto per questo essi non possono neppure essere sequestrati in
modo non distaccato.
7. Riconosciamo fino a che punto gli esegeti, che videro in costanti antro­
pologiche la via dell' ermeneutica biblica, si sentirono strettamente affini a
Gadamer. Si trattava infatti dell ' atemporalmente universale, e quindi in ulti­
ma analisi di una problematica dell' idealismo tedesco. - Invece qui faccia­
mo il tentativo di lasciar parlare anzitutto gli individui e poi di trovare dei
ponti limitati e provvisori tra di loro. Perciò nella prassi etica non esiste nep­
pure alcuna ossessione biblicistica di trarre conclusioni da norme della Bib­
bia (legalismo biblicistico ).
Nel fare così cerchiamo perciò non da ultimo di conferire, prima e al di là
di ogni universalità, il necessario peso ermeneutico alla non sequestrabilità
di Gesù. Questa è la premessa ermeneutica del mio libro Wer war Jesus
wirklich ? [Chi era realmente Gesù ?] ( 1 995, 1 9984), in cui rinuncio a deli­
neare un' immagine di Gesù facile da maneggiare e applicabile in modo
definitivo.

Risultato:
l. L' accentuazione dell'individualità del testo e del processo dell' applica­
zione corrisponde, da un lato, alla distinzione tra esegesi e applicazione, ma,
dall' altro lato, anche alla affinità dei mezzi per questo adoperati (analisi) .
2. La comprensione proclamata da Gadamer è una cattiva comprensione,
perché le spigolosità del testo vengono smussate e livellate e non si tiene
conto delle sue peculiarità. Gadamer canonizza il puro consumo del testo. -
Io invece potrei chiamare con questo nome solo una comprensione più sen­
sibile, una comprensione a cui partecipa una ragione differenziante. Gada-
Posizioni importanti della storia della ricerca 37

mer, per risolvere la crisi delle scienze dello spirito, propone qualcosa che -
abbandonato inerme in balia delle ideologie - somiglia troppo al comporta­
mento consumistico, che tali scienze vogliono invece contrastare.
3. La libertà è decisamente importante per l' esegesi e l' applicazione, per­
ché essa ha la propria origine nella pari originarietà dell' essere dei vari sog­
getti. Solo così la ragione stòrica e nello stesso tempo sociale, nonché la tol­
leranza ermeneutica acquistano un senso e sono necessarie.
4. L'individualità dell' autore è riscoperta come l'estraneità provocatoria,
come l' altro termine del paragone. L'opinione dell' autore e l' applicazione
sono qui tenute il più possibile distinte, affinché tale tensione possa dimo­
strarsi fruttuosa per sempre nuove applicazioni. L' autore va accostato con la
ragione storica. - Il nesso con l' impostazione etica di fondo dell' ermeneuti­
ca sta in questo: non la continuità, bensì solo la diversità sarà di aiuto e
potrà far registrare dei progressi .

La mia concezione è diametralmente opposta a quella di Gadamer, secon­


do la quale non l' intenzione dell' autore, bensì l ' intelligenza oggettiva è
importante, non la tensione tra il ricostruito storico e l' applicazione sempre
nuova, bensì la continuità dei classici e la comprensione oggettiva come
modo di conoscenza della verità.

GLI ASSIOMI IMPLICITI

Bibliografia: D. RITSCHL, Zur Logik der Theologie. Kurze Zusammenstellung der


Zusammenhiinge theologischer Grundgedanken, Mtinchen 1 984; Io., Gott wohl in
der Zeit. Auf der Suche nach dem verlorenen Gott, in Gottes Zukunft - Zukunft der
Welt (FS J. Moltmann), Mtinchen 1 986, 250-26 1 .

Secondo la proposta di D. Ritschl gli 'assiomi impliciti ' vanno caratteriz­


zati in questo modo: essi sono criteri di tutto ciò che promuove la comunica­
zione, cioè la comprensione e la convivenza umana razionale; di essi fanno
perciò parte anche le regole del dialogo ; quanto al contenuto, essi sono
orientati al successo, perché corrispondono all' intuizione «Sì, così va bene»,
«Così si vive bene». La base empirica scientifica di tali criteri sta nel fatto
che essi adottano l' associazione statisticamente prevalente. Ad essi corri­
sponde «ciò che viene preferibilmente visto dal prossimo», e questa cosa di
preferenza vista è la sostanza di esperienze utili. Ritschl non riesce propria­
mente a decidersi in favore di assiomi impliciti stabili e dal contenuto sem-
38 prima parte

pre uguale4; qui si porrebbe anche il dilemma di tutte le 'costanti metatem­


porali'.
Critica: contro questa concezione di tipo formale dobbiamo sollevare
obiezioni simili a quelle sollevate nei confronti della concezione di H.-G.
Gadamer. Ancora più fortemente che non in Gadamer sospetta è la chiara
derivazione del criterio dall'esterno: se è vero ciò che serve alla maggioran­
za per comunicare, pressante diventa la questione del potenziale critico e
innovativo della verità. Che ne è di quelli che non possono partecipare a tali
verità (secondo l'esempio addotto da Ritschl: per es. di tutte le chiese cri­
stiane non calcedonensi)? Dove va a finire la capacità di anticipare le conse­
guenze dell'azione che non sono state verificate prima? Che ne è dei settori
dell'uomo, che non sono capaci di una comunicazione razionale? Amore e
comunicazione sono realmente identici? Che ne è dei comportamenti non
comunicativi come il silenzio, il rintanarsi in un cantuccio, l'indecisione
permanente? I criteri di Ritschl non si risolvono in modo preoccupante in
una dittatura della maggioranza? I conflitti storicamente necessari non pos­
sono essere semplicemente risolti in favore della capacità di comunicazione.
Di fronte al criterio formale «Così si vive bene» dobbiamo domandare: la
voglia di vivere non conosce né limiti né misure. La vita in quanto tale non
può perciò essere un criterio sufficiente. I criteri di Ritschl (comunicazione,
vita) sono metaetici. Ma il 'successo della vita' è un criterio sufficiente?
È stato sempre soprattutto il lavoro filologico e storico quotidiano attorno
a testi antichi a dovermi eventualmente comunicare come esegeta un senti­
mento dell'esistenza completamente diverso da quello che il sistematico D.
Ritschl può avere. È il confronto quotidiano con le resistenze, le chiusure e
le spigolosità dei testi, è l'esperienza esegetica di continuo 'sofferta' della
distanza ad aver indubbiamente forgiato in modo diverso nel corso del tem­
po i presupposti del pensiero. Tale esperienza rende difficile anche una com­
prensione, cosa che non mi permette di accettare in modo più facile il rim­
provero, che certamente devo attendermi, di non aver del tutto compreso D.
Ritschl.
Varie osservazioni rendono ora per me problematica in tanti punti la pro­
posta di Ritschl:

l. Gli assiomi espliciti hanno il senso e lo Sitz im Leben di sommari.


Gli assiomi espliciti sono regole fondamentali verbalmente formulate in

4 D. RITSCHL (1986), 163.


Posizioni importanti della storia della ricerca 39

modo completo in un testo. Invece gli assiomi impliciti sono strutture comu­
ni, che sono potenzialmente presenti in più testi.
Gli assiomi espliciti sono senza dubbio in un certo senso necessari per la
comunità ecclesiale, cioè ai suoi confini. Perciò queste formulazioni si trova­
no nei catechismi e nei dogmi, due strumenti che hanno la funzione di traccia­
re dei confini: i catechismi accompagnano alla soglia del cristianesimo, e i
dogmi tracciano i confini nei confronti di coloro che non appartengono alla
comunità ecclesiale. Perciò gli assiomi espliciti costituiscono solo un settore
molto limitato anche rispetto alla 'doctrina'. Essi sono come i paletti che deli­
mitano un pascolo: ma chi può mai pretendere che il bestiame si occupi sem­
pre di tali paletti anziché pascolare nel prato?
2. Gli assiomi espliciti sono utili solo in misura estremamente limitata e
sono determinazioni possibilmente da evitare.
La religione non vive di essi e non è primariamente e inizialmente da essi
neppure trasmessa. Tale trasmissione avviene senza dubbio in primo luogo
attraverso la persona di testimoni (Cirillo di Gerusalemme: se qualcuno vuo­
le diventare cristiano, deve vivere un anno con me), solo in misura assai
limitàta attraverso l'insegnamento e in misura ancora sostanzialmente più
piccola per mezzo di assiomi.
Come ognuno. sa, neppure i dogmi hanno in primo luogo il carattere di
assiomi, bensì il carattere di confessioni di lode, e brani come il decalogo,
per esempio, non sono affatto originariamente dei principi generali, bensì
furono pensati come una serie di casi concreti di un tipo determinato. Essi
servono senza dubbio soprattutto alla regolazione nel senso razionalistico
del termine (amministrazione). Non è certamente un caso che fenomeni
come il presunto «piccolo Credo storico-salvifico» dell'Antico Testamento
abbia dovuto essere ascritto più ai sogni sistematici moderni che non ai testi
veterotestamentari5•
Perché l'ebraismo non ha sviluppato alcuna dogmatica? Perché non è
possibile racchiuder!o neppure in simboli? Perché qui vale solo una cosa: la
vita con e in seno a questo popolo lungo il suo cammino. Solo una volta
l'antico ebraismo compose una specie di somma della Torah, allorché rabbi
Hillel si sentì domandare che cosa fosse possibile insegnare a un proselito e
proporglielo come il contenuto più importante della Torah, stando su una
gamba sola: Lv 19,18. Di qui risulta chiara una cosa: gli assiomi espliciti

' Cfr. W. RICHTER, Beobachtungen zur theologischen Systembildung in der alttestamentlichen


Literatur anhand des 'kleinen geschichtlichen Credo', in L. SCHEFFCZYK (ed.), Wahrheit und
VerkiJndigung, FS M. Schmaus, Miinchen- Paderborn- Wien 1967, I, 175-212.
40 prima parte

vanno bene come dottrina scolare, ma l' elogio della dottrina più astratta non
ha nel caso di noi insegnanti la funzione di una fogli� di fico, non distoglie
lo sguardo dalla vera e autentica trasmissione attraverso di noi come uomini,
trasmissione che non è di per sé traducibile in assiomi? Già secondo la con­
cezione del Nuovo Testamento l ' influsso dell' individuo trasmittente è la
cosa decisiva.
Perciò qui dovevamo solo richiamare l' attenzione sulla funzione didattica
limitata degli assiomi espliciti.
3. Il problema fondamentale degli assiomi impliciti consiste nella possibi­
lità o meno di formularli verbalmente.
A me non sembra sia facilmente possibile erigere in modo non arbitrario
strutture (nel senso di N. Chomsky) o centri di guida dietro testi esistenti o
addirittura dietro persone e definirli verbalmente.
4. Quanto agli assiomi impliciti verbalmente formulati dobbiamo distin­
guere tra assiomi formulati da noi stessi e assiomi formulati da altri.
Gli assiomi formulati sono il risultato di processi cognitivi concernenti
substrati di esperienze fatte. Quando a proposito di altri uomini sostengo che
alla base delle loro affermazioni ci sono determinati assiomi (caso quindi di
eteroformulazione), assiomi che io esplicito verbalmente, il mio modo di
procedere non è soltanto assai soggettivo, bensì anche in notevole misura
violento e categorico. Quando ascrivo così in modo perentorio a qualcuno le
sue convinzioni fondamentali, questo mio modo di ordinare le cose è un
modo di procedere razionalistico.
Pure nel caso di una terapia ciò è problematico. Il principio basilare di
alcuni trattamenti terapeutici consiste nell' arrivare a esplicitare verbalmente
i presupposti (assiomi) del paziente nel senso di un procedimento salutare.
Questo è un rischio perché ogni ordine viene comprato con perdite e perché
ogni concentrazione su assiomi è esposta al pericolo di una intrusione domi­
nativa.
Diverso è il caso quando uno parla dei propri principi. Qui esiste una
diversità qualitativa rispetto all' ordine stabilito da altri. In questo senso pos­
so vedere qualsiasi terapia solo come un aiuto a rappresentare se stessi, così
come esattamente solo allo stesso modo posso vedere qualsiasi esegesi. Il
compito principale di ogni interpretazione consisterebbe allora nel procurare
alla controparte la possibilità di mos_trarsi a se stessa. Perché uno sia così è
cosa che forse posso esplorare, ma come egli è è cosa che egli deve prima
mostrarmi. Analogamente dovrebbe valere per l' esegesi il fatto che la cosa
importante sarebbe quella di permettere a Paolo stesso di parlare, anziché
legarlo a degli assiomi. Questo io lo chiamerei allora estetica nel senso
ampio del termine, percezione di una totalità.
Posizioni importanti della storia della ricerca 41

Non riesco perciò a capire chi, a proposito del Nuovo Testamento, formu­
la degli assiomi impliciti invece di lasciar agire in maggior misura lo stesso
testo. In ciò io vedo un 'influsso' nel senso dell' estetica della ricezione. Il
dissenso con D. Ritschl riguarda perciò verosimilmente una discussione tra
estetica della ricezione e strutturalismo. E qui occorre in primo luogo com­
battere contro una svalutazione dell' estetica e della retorica (inclusa la mes­
sa in scena liturgica di testi).
Sempre più dubito che gli assiomi espliciti siano realmente solo l' altra
faccia della moneta di assiomi impliciti. Nel caso di assiomi espliciti si trat­
ta di regole e formule, invece nel caso di assiomi impliciti si tratta del
mistero dell' individualità e soggettività, del campo della storia e non
dell' astratto. È realmente possibile dibattere dell 'una e dell' altra cosa con­
temporaneamente? Sta qui la causa delle nostre difficoltà? Quando per que­
stione degli assiomi . impliciti di uomini intendo questa domanda: «Perché
uno agisce e pensa così, e l' altro agisce e pensa diversamente?», ogni tenta­
tivo di ricostruire una serie di regole non diventa per il teologo sistematico
una tentazione che lo spinge a supporre senza riguardo nella controparte
una dogmatica coerente (così come quando si parla della dogmatica di Pao­
lo, cosa giustamente bollata da E. Kasemann come un pio desiderio sbaglia­
to)?
5. Difficoltà nell' individuare forze guida implicite. Gli assiomi impliciti
sono, nel caso di testi, chiaramente qualcosa di diverso da quello che sono
nel caso di uomini. l testi sono prodotti intenzionali: ogni sommario di un
testo ha bisogno che si individui un' assiomatica implicita di tale testo. Nes­
sun riassunto è possibile senza l' astrazione che va nella direzione dei princi­
pi e delle decisioni fondamentali realizzate in tale testo. Pertanto nel caso di
qualsiasi comunicazione verbale la richiesta avanzata da D. Ritschl è una
necessità comunicativa ermeneutica. Tutto ciò lo ammettiamo espressamen­
te. Ma:

a) Un 'sommario' non può essere l' unica forma di ricezione di un testo (cosa che
anche D. Ritschl può senza dubbio ammettere). Esistono infatti molti modi estetici
di ricezione di un testo, il cui buon diritto e la cui funzione ermeneutica non posso­
no essere contestati. E possiamo benissimo dire: proprio nel caso della Bibpia que­
sti sono i modi abituali.
b) Ogni cosiddetto sommario è in realtà una produzione di un nuovo testo a par­
tire da quello 'vecchio' , da quello percepito. Così proprio anche la rappresentazione
dell'ossatura o dei principi di un testo o addirittura di più testi costituisce appunto
un testo nuovo e ulteriore. Questo significa: per colui che deve formulare tale som­
mario, sussistono allora sempre e poi sempre l' impresa e la specificità e, rispettiva­
mente, la diversità di un nuovo testo.
42 prima parte

c) Ma questo significa: a seconda del punto di vista dell' interprete risulteranno


delle presupposizioni diverse circa gli assiomi impliciti di un testo preesistente. Per
quanto quindi nel senso di una comunicazione di un' immagine un riassunto sia
necessario («Che cosa ha lui, che cosa ha lei 'propriamente detto' ?»), altrettanto
individuale sarà il modo in cui tale sommario viene stilato.

Quale esempio menzioniamo semplicemente i diversi tentativi delle


cosiddette teologie bibliche di trovare un denominatore comune per scritti
biblici. Tali tentativi spaziano, come è noto, dalla dottrina della giustifica­
zione all' idea dell 'espiazione e fino alla risurrezione. Esistono delle tradi­
zioni locali molto chiaramente riconoscibili nella ricerca. - Anche qui dob­
biamo ripetere la domanda critica rivolta da P. Stuhlmacher alla teologia di
R. Bultmann: con quale diritto si afferma che proprio questo e nient' altro è
l' assioma implicito di un testo o di un gruppo di testi? È necessaria l' astra­
zione, ma appunto un' astrazione soggettiva.
E la stessa cosa vale anche per le professioni di fede che un gruppo eccle­
siale compone sulla scorta della Scrittura e della tradizione: esse sono sem­
pre e poi sempre ermeneuticamente necessarie, ma dicono relativamente
poco sul contenuto del canone biblico.
D. Ritschl ha chiaramente riconosciuto questo problema della legittimità
di assiomi esplicitati e ricorre spesso alla 'saggezza' (quindi alla saggezza
dell'esperienza) quale ultimo criterio. Ora tale criterio mi sembra assai poco
affidabile.
Nel processo dell' astrazione due elementi sono infatti il portone forzato
della soggettività: ciò che viene precisamente lasciato e il contesto che uno
sceglie o limita. Forse - non lo so però con sicurezza - agli assiomi impliciti
si accompagna una specie di desiderio di realtà tangibili regolari, che posso­
no anche essere fornite da riferimenti a dati delle scienze naturali (cfr. al
riguardo pure il punto 1 2). Così, ad esempio, quando nel corso della discus­
sione si dice che gli assiomi impliciti sarebbero una introduzione a riassu­
mere non arbitrariamente, bensì legittimamente. Ma proprio qui occorre
domandare: proprio quello che ascriviamo a testi come assiomi impliciti,
non va considerato in modo estremamente critico sotto il profilo della critica
delle ideologie? La formazione di assiomi impliciti avviene «in modo inno­
cente»? Non cediamo spesso alla tentazione di ritenere che la specie di sem­
plicità e razionalità irradiata dagli assiomi sia qualcosa come un criterio del­
la verità?
Ma se nel caso dell' individuazione degli assiomi impliciti si tratta di
un' astrazione responsabile, allora bisogna in modo particolare domandarsi
chi sia competente a effettuare tale individuazione.
Posizioni importanti della storia della ricerca 43

6. Non esiste alcuna istanza capace di stabilire assiorni impliciti univer­


salmente validi.
A mio giudizio si può arrivare a formulare delle affermazioni vincolanti
solo in seno a una continua diatriba tra l' autorità e una minoranza critica.
Ma tali affermazioni vincolanti sono tutt' altro che affermazioni essenziali
valide. Compito della minoranza critica potrebbe infatti essere sempre quel­
lo di immettere nella discussione altri assiomi. Il distintivo dell' odierno cri­
stianesimo di tutte le confessioni sta oggi piuttosto nel fatto che, proprio di
fronte alla relatività della verità, si rimane e si vuole rimanere nello stesso
tempo attaccati ad affermazioni vincolanti. In realtà infatti solo un soggetto
metastorico potrebbe formulare degli assiomi perenni, e anche allora
dovremmo domandarci se ciò sarebbe 'bello' .
S e ammettiamo che è cosa necessaria formulare per un gruppo proposi­
zioni centrali e avvianti la comprensione, tali 'affermazioni essenziali' sono
tuttavia sempre pericolose e minacciate. Esse, per quanto siano necessarie,
possono avere solo un valore limitato.
Risultato : per un processo attuale di comprensione la supposizione
dell' esistenza di presupposti 'dietro' un dato testo è un aspetto necessario.
Ma anche tale supposizione di presupposti è soggettivamente e storicamente
condizionata. Ciò vale anche a proposito di affermazioni circa la 'dottrina'
del canone della Scrittura. Esse sono in continuazione necessarie, ma non
vanno scambiate con la Scrittura.
Chi postula di realizzare realmente un' armonia prestabilita tra gli assiomi
(supposti) interpretativamente formati e il testo, supera indebitamente lo
spazio del legame con la storia e corre il pericolo di distruggere i testi in
quanto testi.
7. Dubbi circa la fondazione pragmatica.
Secondo D. Ritschl gli assiomi acquisirebbero la loro validità perché
potremmo dire: «Sì, così va bene», oppure come regole del dialogo. Se alle
spalle di questa concezione ci fosse semplicemente il criterio «buona riusci­
ta della prassi», tale criterio sarebbe utilizzabile soltanto nel caso noi avessi­
mo realmente una piena conoscenza dei costi eccezionali di una vita ben riu­
scita, costi distribuiti in maniera universale e non ricadenti solo su un singo­
lo individuo. La stessa cosa vale anche per le regole del dialogo; qui lo sfon­
do potrebbe essere costituito per Ritschl dalla comunità universale e non
violenta della comunicazione, per la quale il dialogo è fine a se stesso. Ma
neppure questo è possibile in qualsiasi stadio pre-definitivamente valido, in
qualsiasi stadio pre-escatologico. La comunicazione non è un valore in sé
quando e fin quando essa può essere, tramite l ' ideologia, strumento di inte­
ressi molto partigiani, egoistici e ipocriti. Solo se tutti sono 'giusti ' , se han-
44 prima parte

no interessi immacolati, questo può essere un criterio. D. Ritschl ha osserva­


to a proposito di questo punto che non è questo quel che la teologia sistema­
tica odierna intende per dialogo; ciò malgrado occorre domandare se, fin
quando la vita riesce solo a spese di altri, fin quando quindi gli assiomi
impliciti della controparte o della minoranza sconfitta non sono accettati, si
possa parlare di comunicazione riuscita o di vita riuscita.
La vita riuscita così come la comunicazione riuscita sono - utilizzati
come criteri - frammenti di una escatologia presente secolarizzata. lo penso
invece che proprio il cristianesimo come religione abbia appunto la funzione
di gettare mediante criteri specificamente religiosi dei ponti verso l' essere­
non-ancora-presente di stati escatologici ideali. Proprio perché non abbiamo
stati utopico-presenti c ' è bisogno della religione e la religione svolge a
modo suo un ruolo essenziale come luogotenente dell' Assoluto. Così, ad
esempio, nell ' esortazione alla disponibilità al martirio (martirio come modo
di por fine alla comunicazione) o sotto forma di quella disponibilità alla lot­
ta e non alla pace, di cui parlano i vangeli.
La fondazione di assiomi impliciti di questo tipo risente perciò della riser­
va escatologica.
8. Razionalismo e platonismo calvinistico.
Il collegamento tra questi due elementi ci è noto dalla storia culturale
dell'Inghilterra, però esso suscita tra i luterani e i cattolici continentali qual­
che apprensione. Astrarre significa infatti: tralasciare dei distintivi può esse­
re cosa necessaria, ma con questo non si è ancora detto da dove tale omis­
sione attinga il suo buon diritto e se questa astrazione debba avvenire secon­
do principi che sono essenzialmente metastorici o sono addirittura già dati
come contenuti spirituali con la costituzione biologica dell' uomo. I più sim­
patici per me sono perciò quegli assiomi di Ritschl, a proposito dei quali
egli dice che essi hanno una scadenza temporale e che passano, perché met­
tersi d' accordo su delle validità universali limitate è cosa possibile. A questo
punto dobbiamo menzionare anche gli elementi comuni e universali della
storia della tradizione e distinguerli dalla questione degli assiomi. Non ci
sarebbe bisogno di alcuna controversia se si trattasse solo di accettare pre­
supposti storico-culturali comuni (per es., la fede nella creazione) o modelli
di stile (per es., antitesi) tra testi o testi e ricettori. Tali elementi comuni fan­
no parte di ciò che è filologicamente dimostrabile (campi semantici, sintas­
si). Invece io potrei considerare come assiomi solo quegli elementi comuni
che si trovano più in profondità sotto la superficie del momento e che pre­
sentano un più alto grado di astrazione.
Naturalmente Ritschl, a differenza dei razionalismi tradizionali, vuole
pensare gli assiomi impliciti soltanto insieme alle forme contingenti in cui
Posizioni importanti della storia della ricerca 45

noi li troviamo. A differenza della riduzione agli esistenziali, intrapresa da


Bultmann, il vantaggio di questa soluzione sta anche nel fatto che essa mette
in conto una molteplicità, non fissabile in partenza, di assiomi dalla più
diversa durata.
9. Riduzione strutturalistica o: come la dogmatica non dovrebbe essere.
L' arringa di Ritschl in favore della semplicità del messaggio biblico mi
riesce tanto sospetta (come può il teologo dogmatico dire che il messaggio
biblico sarebbe semplice, se la critica testuale non è neppure riuscita a darci
un testo sicuro della maggior parte dei Salmi? Inoltre: la religione è realmen­
te una semplificazione o non piuttosto una percezione più complessa e diffe­
renziata del reale?) quanto la notizia che anche la teologia di Paolo poggereb­
be in fondo forse solo su dieci assiomi e che la peculiarità dell' autore consi­
sterebbe soltanto nella concatenazione di questi assiomi.
Il teologo dogmatico si affaccenderà con la 'simplicitas Dei' e con la
'perspicuitas scripturae' , ma l ' esegeta obietterà precisamente come storico
che ciò non corrisponde né alla filologia né alla pluristratificazione della
religiosità vissuta e che qui si tratta di un problema pronunciatamente filo­
sofico, di un problema di quegli elementi ereditari che risalgono a Filone di
Alessandria (per il resto da me molto stimato) .
Circa il problema della semplicità: il comportamento religioso è certa­
mente ' semplice ' , o non dovremmo piuttosto dire 'integrale' ? E anche la
lode di Dio è 'semplice' . E soprattutto ci vogliono determinati criteri, secon­
do i quali poter dire: qui si è abbandonata l' immagine biblica di Dio. Quindi
di nuovo il fenomeno della delimitazione dei confini. Astrazion fatta da que­
st'ultimo compito, mi sembra che, per il compito della teologia, la sempli­
cità del suo oggetto sia un postulato ingiustificato. Il procedimento descritti­
vo deve infatti spesso affrontare cose molto complicate, che tuttavia in actu
sono sperimentate come semplici, come lascia chiaramente trasparire
l' esempio dell' 'amore' . Se si separa la teologia dell' atto religioso, la sempli­
cità di quest' ultimo non vale più per la prima. Lo vediamo nel modo più
facile osservando le professioni di fede, che sono recitate o cantate con
devozione e che possono essere piene di stratagemmi dogmatici per la
scienza.
E circa le regole fondamentali degli autori biblici: dovremmo qui ripetere
tutto ciò che è stato detto contro ogni strutturalismo e in particolare contro
strutture profonde: che non è possibile tenere, con questi mezzi, conto nel
debito modo di un testo come di una totalità; che la moderna estetica ricetti­
va ha sollevato delle obiezioni di fondo contro tutti i tentativi di trovare
qualcosa 'dietro' un testo. Già l' impresa della demitizzazione ha richiamato
la nostra attenzione sul fatto che così si distrugge il fascino di un testo e che
46 prima parte

questi elementi universali sono relativamente insignificanti per la sua capa­


cità di influire. Ma in particolare tutta l' esperienza professionale di un ese­
geta va contro la tesi che nella Bibbia e nella rivelazione cristiana si tratti
propriamente di cose del tutto semplici, che potremmo riassumere in una
proposizione fatta di elementi fondamentali. In ogni caso: non deve trattarsi
semplicemente di modelli, ma di sempre nuove ramificazioni. Tuttavia: il
filologo tende spontaneamente a dimostrare il contrario, quando sente dire
che le cose seguenti sarebbero assiomi impliciti del messaggio neotestamen­
tario: «Gesù è nello stesso tempo Signore e servo>> (così formulato ciò non
vale neppure per la lettera agli Ebrei), o: «Diveniamo giusti per mezzo di
Dio, non per mezzo di noi stessi»; questo non è, ad esempio, affatto un
assioma del vangelo di Matteo, dove gli uomini sono piuttosto esortati a
divenire giusti con il loro fare secondo il discorso della montagna e ad
entrare così nel regno di Dio. Né Matteo ha pensato di leggere quell' assio­
ma contropelo, bensì non l ' ha piuttosto semplicemente pensato. Egli confida
piuttosto nella volontà decisa dell' uomo di volere, una volta rettamente
ammaestrato da Gesù, divenir giusto. - E chi vorrebbe invece riconoscere il
contrario, come spesso fa l' esegesi confessionalmente protestante a proposi­
to di Matteo, adotta una posizione filologicamente e storicamente sbagliata
e interpreta Matteo alla luce di Paolo o della Riforma. E questo è semplice­
mente inammissibile nei confronti del soggetto Matteo. - Ora la proposta di
Ritschl è naturalmente superiore al razionalismo tradizionale per il fatto che
essa non afferma che questi assiomi sarebbero dappertutto presenti, ma
afferma soltanto che essi non sarebbero falsi. E perciò appunto impliciti.
Ciò ha un suono seducente, ma ha determinati presupposti che vanno
discussi: esso presuppone, per quanto riguarda il Nuovo Testamento, un
quadro complessivo piuttosto armonicistico, e inoltre o contemporaneamen­
te questa tesi è un allettamento a compiere delle acrobazie esegetiche senza
fine. Ad esempio, è tutto implicito quello a proposito del quale Matteo non
afferma il contrario? La proposizione: «Diveniamo giusti per mezzo di Dio,
non per mezzo di noi stessi» è realmente sbagliata per lui? Matteo la pensa
diversamente, ma rinnegherebbe questa proposizione? Con i 'teologi biblici'
siamo spesso costretti a discutere di simili questioni. Tutte le teologie cri­
stiane antiche sono tasselli di un grande mosaico che si completano fra loro,
così da non escludersi a vicenda, ma da integrarsi? A simili operazioni ten­
tatrici io ho sempre opposto il no dello storico e lo faccio anche adesso. Né
la domanda, né la risposta sarebbero note a Matteo. Parlare qui ·di assiomi
impliciti significa parlare in maniera astorica (perché Matteo sarebbe
costretto a dare una risposta a proposito di qualcosa di cui non si è mai
occupato, un po' come se in base al suo vangelo si volesse stabilire a quale
Posizioni importanti della storia della ricerca 47

partito egli sarebbe oggi più vicino), oppure tentare di giudicarlo da un pun­
to di vista extrastorico. Proprio l' 'implicito ' è la continua tentazione ad
abbandonare il terreno della storia nell' uno o nell' altro senso. Che le teolo­
gie cristiane primitive siano un mosaico che' si completa lo può dire solo
qualcuno il quale conosce la verità e sa con tutta sicurezza che essa è una.
Dobbiamo addirittura dire: gli assiomi impliciti, quando intendiamo fare
delle affermazioni sulla Scrittura, non dovrebbero mai e poi mai andare a
spese dell' evidenza filologica e storico-teologica chiara e dovrebbero rinun­
ciare all'argumentum e silentio. Ma proprio per questo essi sono possibili
solo come assiomi limitatamente validi. Proprio per questo esistono soltanto
delle intese circa unità testuali limitate o (per quanto riguarda l' applicazio­
ne) soltanto intese a tempo. Io rabbrividisco di fronte al termine assioma
perché esso, rispetto agli scritti occasionali biblici, ha il peso di una massa
di ferro, sotto cui i testi e la loro ricezione vanno in frantumi.
E al teologo dogmatico chiediamo di non fare, circa testi biblici, alcuna
affermazione che induca automaticamente l' esegeta a opporsi ad essa e a
dire seccato che tale affermazione dogmatica è esegeticamente tanto arbitra­
ria e tanto labile che sarebbe con facilità possibile affermare anche il contra­
rio. Nel caso degli schematismi provo sempre molto fastidio per l' arbitra­
rietà dell' ordinamento . Non sarebbe possibile fare delle affermazioni
responsabili che sfuggano a questa trappola? Che non inducano l' esegeta a
voler subito affermare semplicemente il contrario di simili enunciazioni
sommarie?
Per l' esegesi gli assiomi formulati sono tutt' al più delle semplificazioni
provvisorie utili. Invece per quanto riguarda l' applicazione occorre doman­
darsi se gli assiomi esplicitati siano strumenti della comprensione ermeneu­
tica:
lO. Gli assiomi impliciti sono ermeneuticamente necessari e la base per
tertia comparationis ?
Qui non si tratta di ciò che la teologia dialettica chiama 'la cosa' del cri­
stianesimo?
Forse potremmo descrivere il rapporto dell' ermeneutica di Ritschl con le
mie concezioni nel modo seguente: al centro c'è un consenso circa il fatto
che in singoli testi esistono strutture e assiomi impliciti. Ritschl si allontana
quindi subito nella direzione che va verso l' alto, dal momento che si dirige
verso assiomi universali anche biologicamente fondati. lo invece procederei
dal centro comune piuttosto verso il basso e considererei le strutture e gli
assiomi individuali già come quelli più astratti tra le dimensioni degli effetti
o influssi. Inoltre importante per la mia concezione dell' ermeneutica non è
soltanto la struttura razion ale bensì altrettanto importanti sono pure le con-
,
48 prima parte

dizioni dell' influsso emotivo, di cui fa parte pure la forma del testo. A qual­
siasi ermeneutica razionalistica rimprovererei una disposizione d' animo
antiretorica. Nel caso dell' ermeneutica io metto decisamente in conto l' ana­
logia dell' influsso, e questo avviene per così dire 'davanti' a un testo, non
sulla base dei suoi assiomi.
Forse potremmo dire nel senso di D. Ritschl: il senso ermeneutico della
questione degli assiomi impliciti è racchiuso in questa domanda: che cosa è
propriamente 'detto' nel ·testo (assiomi impliciti del messaggio) rispetto ai
motivi per i quali io credo (assiomi impliciti del soggetto)? Oppure: oggi, di
fronte ai miei assiomi impliciti, in quale altro modo Matteo formulerebbe il
proprio messaggio? - Viceversa: come io affermo la necessità di un con­
fronto tra le esperienze odierne e il testo, così mi pare problematico il tenta­
tivo di ricorrere a una assiomatica comune o a qualcosa di simile per ambe­
due.
1 1 . Il pericolo dell' astoricità.
Alla fin fine: quale immagine della storia sta dietro l' illusione di poter
racchiudere qualcosa in assiomi? La rivelazione e la storia del popolo di Dio
non sono qualcosa di molto più vivo? Questa è una domanda che riguarda
anche le presupposizioni antropologiche fondamentali. Gli assiomi sono
realmente adeguati al carattere della rivelazione come storia, alla peculiarità
della teologia paolina quale teologia sempre provocata dalla situazione, con
un Paolo in grado di compiere sempre nuove inversioni di marcia e di ricor­
rere a elementi sempre nuovi del suo armamentario giudaico? Gli assiomi
tengono conto in modo adeguato del carattere storico del giudaismo e del
cristianesimo? O sono solo tentazioni pedagogico-didattiche non dissimili
da quelle di sant' Antonio?
1 2. Il rapporto della dimensione 'chiesa' con gli assiomi impliciti e espli­
citi ci permette di cogliere la loro utilità e problematicità.

a) La chiesa ha bisogno di assiomi espliciti e esplicitati per motivi pedagogici


(catechismo) e allo scopo di delimitare se stessa nei confronti di altri.
b) Nell' applicazione della Scrittura la chiesa deve in continuazione dire che cosa
è per lei di volta in volta essenziale. In questo modo essa costituisce - in parte attra­
verso la fonnulazione di assiomi - un sempre «nuovo canone nel canone>>, e questo
è un processo enneneuticamente senza dubbio necessario. Ma, cosa interessante, la
norma normans della chiesa non è una raccolta di assiomi, bensì il canone. Un
canone che fa apparire tutti i tentativi di cogliere gli assiomi in esso contenuti come
uh ; attività umana necessaria e nello stesso tempo caduca.
c) Gli assiomi sono la 'doctrina' della chiesa. Il loro valore posizionate per quel­
lo che costituisce la vita ecclesiale è limitato.
Posizioni importanti della storia della ricerca 49

d) Molte cose nella chiesa si oppongono alla ricerca di assiomi, perché esse non
sono sommabili. Non sommabile è tutto ciò che esiste come superficie o non esiste
affatto, come ad esempio la retorica di un testo, il rito della sua messinscena e, in
generale, tutta la realtà attinente l' azione. Sommabili invece sono molti testi, però
di gran lunga non tutti (testi fortemente concomitanti l' azione, come, ad esempio, in
un altro campo della vita umana, le lettere d' amore).
e) È forse relativamente superfluo cercare il 'tema' del 'cristianesimo' , quando la
chiesa è intensamente percepita, sperimentata e fatta oggetto di riflessione come
una entità sociale e come una realtà viva in tutta la sua multiformità. Perciò la que­
stione dell'essenza, astrazion fatta da quanto menzionato sotto il punto a), presup­
pone una presa di distanza accademica o borghese dalla chiesa, in modo da potersi
poi occupare del 'cristianesimo' . Di conseguenza sarebbe forse possibile prendere
questo fatto come uno stimolo a considerare il cristianesimo non primariamente
come una entità culturale, ma come una entità sociale•.
f) La questione degli assiomi è esposta al sospetto di voler rendere superfluo e
voler sostituire una volta per tutte, mediante una specie di collana di perle di vetro,
un 'magistero' vivo della chiesa. Si tratta di una forma di metadottrina dalla quale,
in caso di dubbio, occorre solo dedurre?

Il gioco della riduzione e della deduzione apparirà all' esegeta come la


tentazione per eccellenza del teologo sistematico, e se egli dovesse dipinge­
re qui un diavolo sulla parete, tale diavolo si chiamerebbe 'fattibilità perfe­
zionata' , 'dominabilità' . L' esegeta non opta qui per la bellezza strutturale
del sistema, ma per la forma individuale di ogni testo e quindi per la sua
specifica bellezza.
Perciò la mia preoccupazione nei confronti dell' impresa di D. Ritschl non
è solo quella di salvaguardare i testi, bensì anche quella di salvaguardare
tutti i lati del cristianesimo che non sono dottrina e didattici, e difendo il
diritto della vasta complessità della realtà chiesa di fronte al tentativo di
ricondurre il 'cristianesimo' a qualcosa di più semplice.
1 3 . Il rapporto tra scienze dello spirito e scienze naturali.
Quasi tutte le teorie ermeneutiche di questo secolo divenute importanti
sono nate in seno alla discussione con le scienze naturali e si concepiscono
come una risposta a tale sfida. In questo contesto, di fronte alle difficoltà di
ogni ermeneutica di poter coordinare fra di loro l' individualità contingente e
l ' universalità, un fascino per eccellenza esercita in particolare l' universalità

'' A questa tesi corrisponde l'osservazione, espressa nel corso del dibattito, che la questione
dell "essenza del cristianesimo' e, corrispondentemente, degli assiomi impliciti fu guardata decisa­
mente con sfavore da pensatori di stampo cattolico, mentre fu studiata soprattutto da calvinisti.
50 prima parte

della legge delle scienze naturali. In Gadamer, ad esempio, il testo è l' uni­
versale che viene applicato come una legge; in R. Bultmann la precisione e
soprattutto la scientificità della fisica sono considerate come il modello
dell' interpretazione esistenziale, e D. Ritschl si spinge su questa linea più
lontano di tutti, dal momento che non va solo alla ricerca dell' analogia, ben­
sì dell ' identità. L'uomo è inalveato nella natura anche per quanto riguarda la
sua ricerca della verità. In questo senso il contributo di Ritschl è il più radi­
cale a proposito di questa questione. Ora il principio menzionato per ultimo
non va contestato. Ma si tratta di vedere con quale metodo lo si verifica.
Infatti anche gli assiomi di Ritschl non sono altro che leggi naturali nel cam­
po del culturale.
Ma proprio qui bisogna forse, a mio giudizio, procedere diversamente.
C ome storico io trovo una pretesa esagerata quella secondo la quale
dovremmo adottare il discorso delle leggi universali delle scienze naturali,
foss' anche nel senso di una loro esistenza implicita. Al riguardo io ritengo
opportuno invertire il modo di pensare: che succederebbe se facessimo una
buona volta il tentativo di fare delle scienze storiche, protese a rilevare e a
descrivere individui, il punto di partenza della ricerca scientifica in genera­
le? Il tentativo di porre la ricerca schleiermachiana dell' individuo al posto
dell' ermeneutica rovinata a partire dall' Aristotele cultore delle scienze
naturali? Non ha la sua storia anche la natura? Il presupposto della legge
universalmente valida non fa essenzialmente parte della cosiddetta fisica
classica anteriore a Einstein? Visto che pure per le scienze naturali vale il
circolo ermeneutico, potremmo piuttosto partire dalla circostanza che anche
la natura va letta come un testo: secondo i principi della struttura individua­
le e del contesto. Certo, la natura non è verbale, non vuole dire alcunché.
Ma se vediamo i singoli suoi capitoli, primo, come parte di un contesto gra­
duato, secondo, come risultato del divenire e, terzo, sotto l' aspetto della
responsabilità dell ' uomo per lo Sitz im Leben nel tutto (precisamente in
questo senso la natura fa parte della storia di questa terra), Sitz im Leben
che proprio un determinato capitolo deve occupare, allora di qui risultano
anche spunti etici che non sono più apposti solo dall' esterno alle scienze
naturali. La natura fa parte della storia di questa terra. Non potrebbe forse
significare un cambiamento necessario dell ' autocoscienza delle scienze del­
lo spirito, se tentassimo almeno di occuparci della loro problematica (storia,
contesto, struttura) , anziché !asciarle vivacchiare all' ombra delle scienze
naturali?
Nella mia concezione io peroro la priorità della questione storica rispetto
a tutte le altre.
Comune con il tentativo di D. Ritschl sarebbe il fatto che non dovrebbe
Posizioni importanti della storia della ricerca 51

più esistere una semplice coesistenza tra scienze naturali e scienze dello spi­
rito.

3. Ermeneutiche emancipatrici

TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE

B ibliografia: CL. BoFF, Theologie und Praxis. Die Erkenntnistheoretischen


Grundlagen der Theologie der Befreiung (FfhS 7), Mtinchen - Mainz 1 983 [ed. or. ,
Teologia e pratica, Petropolis 1 978].

Qui non dobbiamo esporre in modo completo la teologia della liberazio­


ne, ma solo alcune sue tesi ermeneutiche particolarmente caratteristiche.
Quella principale, il riferimento dell' applicazione alla situazione, viene
ripresa - su un alto grado di astrazione - nella esposizione della mia posi­
zione. Tale tesi rappresenta una acquisizione permanente della teologia della
liberazione, che va già impallidendo nelle sue forme ideologizzanti.
Già U. Luz7 lamenta - rifacendosi a J. Miguez-Bonino - «l' anteposizione
praticamente dominante» nell' esegesi occidentale «della 'verità' (metastori­
ca) di testi biblici e della sua applicazione (successiva, storica, imperfetta)»:
«La verità esiste quindi prima della sua efficacia storica ed è da essa indi­
pendente. La sua legittimità va verificata in base alla relazione con questo
'cielo ' astratto 'della verità' ». - Queste parole indicano la questione che
interessa anche a noi.
Le considerazioni seguenti si ispirano a questi punti di vista, e in esse
vorrei adottare positivamente e sviluppare alcuni spunti della teologia della
liberazione:
l . L' applicazione non parte in primo luogo dalla questione del modo in
cui un testo dovrebbe essere reso oggi complessivamente comprensibile o
andrebbe tradotto. L' applicazione non è una chiarificazione accademica del
messaggio (trasposizione di 'rappresentazioni' nel 'presente' ), ma una com­
prensione attinente l' azione. Essa stessa è già un' azione altamente carica di
responsabilità.

' U. Luz ( 1 982), 501 nota 30.


52 prima parte

2. Il modello del modo di procedere non consiste nel partire dal «diritto
della parola di Dio» adesso, bensì la teologia 'dal basso' comincia piuttosto
dall' esperienza del bisogno e non ha il proprio criterio in una adeguatezza
presunta o reale con il testo biblico, bensì nella funzione pratica efficace e
'liberante' . Qui la teologia non si concepisce primariamente come avvocato
della «parola sovrana di Dio», ma si ispira piuttosto al modello d�l ministe­
ro terreno di Gesù.
3. L' inizio dell ' applicazione è l' evidenza dell' appello che scaturisce dalla
situazione, allorché insorge un bisogno di agire cui non è lecito chiudersi e
che non va ideologicamente rimosso.
4. Le conseguenze pratiche derivanti da questa impostazione sono :
l' interprete sa di operare delle scelte nella Scrittura e lo ammette apertamen­
te. D' importanza decisiva diventano il fine e l' effetto del testo applicativo
da allestire. Il predicatore si interroga su ciò che l'ha colpito e su ciò che
può indurre poi altri a sentirsi consolati o all' azione. La liberazione - nel
senso ampio del termine - è lo scopo dell' azione applicativa.
5. Questo principio è comune con la teologia della liberazione: il mondo
non va interpretato alla luce del vangelo, esso non va considerato un caso
cui applicare una norma universale conservata nella Scrittura, bensì bisogna
capire il vangelo partendo dalla situazione (tra l' altro anche dalla situazione
sociale), scoprire di nuovo il vangelo partendo da questa base e lasciare che
esso si manifesti così di nuovo.
Quel che un programma di questo tipo praticamente significa lo possiamo
vedere considerando un esempio opposto: il commento di R. Bultmann al
vangelo di Giovanni fu pubblicato nel 1 94 1 ( ! ) . Esso, stando a quanto si
propone di fare, è una miscela particolare di affermazioni esegetiche e di
affermazioni teologiche. Bultmann raggiunge questo scopo fondendo tra di
loro le affermazioni del vangelo di Giovanni e la filosofia di M. Heidegger e
mostrando così l' attualità di quelle affermazioni e applicandole. L' attualiz­
zazione viene qui cercata ad altissimo livello rifacendosi a una moderna
antropologia filosofica. Inoltre non si distingue tra esegesi e questo tipo di
applicazione.

Sollecitazioni:

In Cl. Boff ( 1 983), un classico della teologia della liberazione, leggiamo:


«L' esperienza effettiva e molto intima di una determinata situazione permette
di capire e di percepire sensibilmente che cosa in quella situazione è 'rilevan­
te' . I 'punti salienti' della storia sono percepibili con le mani. Questa perce-
Posizioni importanti della storia della ricerca 53

zione trova nella maggior parte dei casi la sua espressione nel discorso
dell' esperienza vissuta, che manifesta le reazioni dello sdegno, della critica,
dell' accusa, dell' invito pressante al cambiamento, della mobilitazione dello
spirito ecc. Di ciò fa parte anche il giudizio etico, l'espressione della coscien­
za morale, che conferisce a tutto questo una grande importanza. Questo pri­
mo momento potremmo chiamarlo un momento etico o, meglio ancora, un
momento profetico»8• Dobbiamo però riflettere: la coscienza morale è
un'entità relativa e bisognosa di ulteriori criteri.
Importante è il fatto che, nel contesto, Boff nomina due elementi che
strutturano questa esperienza: la percezione sensibile (l' «esperienza vissu­
ta») e l' analisi (razionalità). Al riguardo egli osserva anche che questa espe­
rienza fondante non si lascia costituire nella forma di una teoria chiara o
nella forma di una teologia9• Pure a proposito dell'elemento 'profetico' dob­
biamo convenire con Boff, perché qui si tratta di un elemento dell' efficacia
storica del cristianesimo.
Secondo J. B . Metz d' importanza decisiva per una nuova ermeneutica
non è più il rapporto tra teologia sistematica e teologia storica, bensì il rap­
porto tra teoria e prassi. Per lui «il cosiddetto problema ermeneutico fonda­
mentale della teologia non è propriamente quello del rapporto tra teologia
sistematica e teologia storica, tra dogma e storia, bensì quello tra teoria e
prassi, tra intelligenza della fede e prassi sociale», cosa che comporterebbe
anche una nuova definizione del rapporto tra dogmatica e etica10• Di qui poi
anche la richiesta: «I metodi ermeneutici sono metodi che hanno a che fare
anche con la prassi, in quanto non cercano solo di chiarire le condizioni e
gli orizzonti della comprensione in seno a un determinato contesto operati­
vo, ma si occupano anche del cambiamento di tali condizioni e di tali oriz­
zonti» ; la teoria non andrebbe esclusa, solo che essa «andrebbe posta in rap­
porto con l ' azione molto più decisamente di quanto permettano di fare i
modi a noi noti e nella teologia abituali di filosofare» 1 1 • Importante è
l ' osservazione di J. B . Metz, secondo la quale questo significherebbe anche
un «nuovo rapporto con l' informazione non teologica» 12• Finora la discus­
sione ermeneutica si è occupata il più delle volte del rapporto tra teologia
storica e· teologia sistematica, si è interrogata sul permanente «contenuto di
verità» di eventi passati e storicamente unici e irripetibili, si è occupata del
«brutto largo fossato» esistente tra la verità storica casuale e la verità razio-

' Cfr. CL. BoFF ( 1 983), 289.


• CL. BoFF, op. cit. , 290.
"' J. B. METZ ( 1 969), in H. PEUKERT ( 1 969), 267-30 1 .
" J . B . METZ, op. cit. , 238.
" J. B. METZ, op. cit.
54 prima parte

naie assoluta13• Queste questioni - così dobbiamo obiettare al 'non'/'ma' di


J . B. Metz - sono sicuramente di un' importanza permanente, però esse sono
'inquadrate' dai problemi che risultano dalla necessità di padroneggiare la
situazione. Di conseguenza non possiamo che convenire in linea di principio
con lui, allorché egli dice che il compito principale dell' ermeneutica è quel­
lo di riflettere sul rapporto tra teoria e prassi e non soltanto su quello tra
Bibbia e dogmatica. Ciò significa una percezione completamente diversa e
nuova di ciò che nella situazione mi trovo di fronte e che va qui padroneg­
giato. Anziché di 'teoria' e 'prassi' noi avevamo finora parlato di tradiziona­
le idea della verità e della necessità di corrispondere alla situazione tenendo
conto dei fattori più importanti che la costituiscono. E qui io concepisco
anche la scoperta di una nuova verità come azione/lavoro.
Già nel 1 967 Y. -M. Congar scriveva: «Anziché partire dalla rivelazio­
ne e dalla tradizione, come ha fatto la teologia classica, essa [cioè la nuo­
va teologia] deve ora partire da fatti e da problemi desunti dal mondo e
dalla storia, cosa che è molto più dispendiosa . . . Dobbiamo partire dalle
idee e rappresentazioni odierne come da un nuovo 'dato ' , che va natural­
mente spiegato in base al 'dato ' del vangelo, senza che al riguardo ci
rifacciamo alle elaborazioni già acquisite e assimilate di una tradizione
sicura» .
Importante è qui che il nuovo 'dato' non venga scambiato con la 'rivela­
zione' , ma sia concepito come una domanda cui occorre cercare di risponde­
re con l' aiuto della Scrittura. Assolutamente giusta trovo qui anche la conce­
zione del processo ermeneutico come di una correlazione tra realtà.
Nell' ermeneutica della neoortodossia luterana la 'situazione' non compa�
re . Dobbiamo certo condividere il discorso della Scrittura come «norma
pneumatica», ma problematica diventa una simile impostazione a motivo di
ciò che in essa non compare: chi riduce il problema dell' applicazione alla
questione della fede e della mancanza di fede, della comprensione e
dell' indurimento, dell' obbedienza e della disobbedienza, nonché al tema
della legge e del vangelo14 e non trova in tutto ciò necessario dire qualcosa
sull' importanza teologica della situazione, costui è così fissato sulla dottrina
da non riuscire a scorgere il mondo, al quale tuttavia la dottrina è destinata,
o, cosa che è forse ancora peggiore, una simile teologia 'segna il passo ' ,
perché i l fenomeno 'situazione' andrebbe infatti discusso soprattutto in una
concezione storico-teologica, che qui manca. - La situazione non è presa sul

" Cfr. al riguado anche K. BERGER, Exegese und Philosophie, Stuttgart 1 986.
14Cfr. R. SLENCZKA, Die Krise des Schriftprinzips und das okumenische Gesprach, in TH. SCHO­
BER (ed.), Grenziiberschreitende Diakonie (FS P. Philippi), Stuttgart 1 984, 40-52.
Posizioni importanti della storia della ricerca 55

serio dove si parla soltanto dello Spirito Santo e dove per il resto non si nota
alcuna consapevolezza della possibile problematica dell' applicazione. Non
conviene nascondere - come succede spesso anche nell' ermeneutica neoor­
todossa - tutti i problemi con un richiamo all' entità 'Pneuma' . Tale richia­
mo conduce in particolare a un concetto quietistico della comprensione15.
Un esempio opposto a R. Slenczka è il progetto avanzato da D. Tracy
(The Analogica/ Imagination. Christian Theology and the Culture of Plura­
lism, New York 1 98 1), che sviluppa uno schema 'dialettico' , secondo il qua­
le una reciproca interpretazione tra testo e situazione mantiene in vita la teo­
logia, cosicché nel processo ermeneutico nessuna delle due entità rimane
non interpretata. Nel corso di tale processo la teologia deve naturalmente
prendere parte a tutte le interpretazioni della situazione presente16. Dalla
concezione di Tracy risulta che ci vogliono quindi due specie di criteri: cri­
teri che descrivono in modo pertinente la situazione, e criteri che interpreta­
no in modo adeguato il testo17. Tracy chiama questo fatto «revisionist theo­
logy», cioè teologia aperta alla revisione. Naturalmente l' indicazione dei
criteri, per quel che finora conosco dei lavori di Tracy, è per il momento sta­
ta ancora troppo scarsa. In ogni caso egli tiene conto della necessità, come
facciamo anche noi qui, di una cernita tra i testi della Scrittura nella situa­
zione18.
Secondo la nostra concezione valgono soprattutto i punti seguenti:
l. L'analisi della situazione ha nel processo ermeneutico la stessa impor­
tanza dell' analisi del t�sto biblico. In ambedue i casi lo scopo è quello di
individuare sia nel testo sia nella situazione il maggior numero possibile di
aspetti, per accrescere così il numero dei possibili punti di contatto. In altre
parole: quanti più aspetti di un testo mi sono noti e quanto più, dall' altra
parte, conosco la situazione, tanto maggiore è la probabilità che trovi su
ambedue le sponde dei punti che «quadrano fra di loro», cosicché il testo
può agire criticamente o influire positivamente. Pertanto vale la regola:
quanto maggiore è l' analisi, tanto più numerosi sono i punti di contatto a
disposizione.

" Il richiamo al Pneuma serve cioè regolarmente a indicare il puro carattere di dono della com­
prensione ermeneutica (applicazione della dottrina della giustificazione), come se appunto ogni
conoscenza fosse frutto dell'opera dello Spirito. Ora non è solo la più recente antropologia a
mostrare che anche la conoscenza è azione e che perciò valgono per la conoscenza le stesse condi­
�.ioni che valgono per l' azione. Ciò significa: qui come altrove lo Spirito Santo non escluderebbe
l ' azione umana, bensi la provocherebbe, la fonderebbe e l'accompagnerebbe.
,. Cfr. W. G. JEANROND ( 1986), 146.
" D. TRACY, Blessed Rage for Order. The New Pluralism in Theology, New York 1 975, 71 ss.
" D. Tracy chiama questo il «Working canom> (Analogical lmagination, 264).
56 prima parte

2. L' analisi della situazione non è fine a se stessa (questo sarebbe un pro­
cesso infinito), ma viene fatta al cospetto del testo e in ordine ad esso.
Esaminiamo ora quest' ultimo punto per scoprire alcune importanti singo­
le questioni in esso racchiuse.

Analisi della situazione ed esegesi

In modo simile a come avviene nell'esegesi storico-critica, non è possibi­


le analizzare anche solo approssimativamente una situazione mediante una
semplice statistica, perché la statistica è sì necessaria, ma può di per sé sola
risultare assai poco eloquente.
La cosa decisiva per l' analisi della situazione - tanto per dirlo subito in
modo sommario e provvisorio - può essere colta solo mediante una grande
sensibilità per 'umori ' . Pertanto ci imbattiamo qui nella medesima entità
particolarmente importante · e nello stesso tempo difficilmente afferrabile,
che era importante anche per la reazione morale e etica in generale.
Diversamente da altre concezioni ermeneutiche (per esempio da quella di
H. Weder) non vengono prese come punto di partenza della riflessione
ermeneutica la rivelazione o la fede. In termini più chiari ancora: il proble­
ma dell'ermeneutica teologica non sta nel fatto che esiste una B ibbia che
andrebbe tradotta, bensì nel fatto che davanti a Dio esistono degli uomini
che hanno bisogno di una redenzione completa. Non si tratta per così dire
del tentativo di aiutare la 'parola di Dio' a imporsi adesso, perché essa non
riuscirebbe a farlo da sola. L' applicazione non significa dover essere anzi­
tutto avvocati della parola sovrana di Dio, suoi precursori e antesignani, ren­
derle giustizia e «aiutarla a camminare».

Grande sensibilità e plausibilità

Il problema può essere illustrato dal fatto che sia l' attentato contro Hitler
del 20 luglio 1 944 sia quello contro H. M. Schleyer del 1 977 furono com­
piuti da pochi uomini, senza la copertura del consenso della maggioranza e
«solo sulla base di una decisione di coscienza» secondo il modello del tiran­
nicidio. In ambedue i casi gli attentatori si consideravano come l' élite a ciò
chiamata, così come i piloti della RAF pensavano di liberare gli uomini dal­
la sventura e dalla schiavitù. - Dove sta la differenza? Cosa mancava ai tei:"-'
roristi? La difficoltà della risposta non va minimizzata19• Furono la 'plausibi-

" Infatti: come la penserebbero oggi gli uomini e le donne del 20 luglio, se per caso Hitler aves-
Posizioni importanti della storia della ricerca 57

lità' e una 'grande sensibilità' a mancare ai terroristi e alla loro azione? Qui
non possiamo chiaramente indicare alcun criterio astratto (perché essi sareb­
bero indicabili solo a posteriori).
l. La percezione delle situazioni non avviene di fatto 'senza preparazio­
ne' , ma presuppone un' educazione alla sensibilità, quale in parte può essere
stata trasmessa nella cornice dell' influsso storico del cristianesimo20• Con
tale educazione sono nello stesso tempo trasmessi anche determinati ideali,
un ethos molto generale, una specie di sensibilità generica per ciò che sareb­
be 'propriamente' umano. - La situazione della reazione a un bisogno ele­
mentare, descritta da H. Jonas, non esiste perciò di fatto mai dalla parte del
reagente in maniera così pura, bensì esiste tra di noi forse nella cornice di
influssi generali del cristianesimo.
Per la precisione si tratta qui di due punti: uno è il fenomeno del circolo
(influsso della storia e educazione come presupposto, quindi anche norme,
impressioni, elementi che incidono), l' altro è la capacità individuale di impa­
rare e la sensibilità attuale (quindi un comportamento personale, non deter­
minate 'rappresentazioni' come nel caso del circolo della comprensione).
Nella teologia della liberazione spesso non si vede la formazione imparti­
ta in precedenza dall' influsso storico del cristianesimo. Questo fenomeno
viene chiaramente individuato nel modo giusto solo là dove esso comincia a
diventare problematico, come avviene nell 'Europa occidentale.
Importante è in ogni caso il fatto che non la lettura della Scrittura produce
da sola l' applicazione, bensì che l' applicazione presuppone una percezione
sensibile della situazione. Questa specie di percezione potrebbe molto spes­
so essere già stata comunicata dal cristianesimo sotto forma di senso di
umanità e di libertà.
Questa specie di 'precomprensione sensibile' non ha affatto bisogno di
essere semplicemente già identica con la 'fede' o con la «decisione in favore
di Gesù Cristo». Si tratta piuttosto di un fenomeno assai diffuso nella comi­
ce di una chiesa di popolo. L' importante non è perciò che «il credente pro­
clami la parola di Dio» in una situazione, la immetta in essa, ma che il cri­
stianesimo faccia sentire, secondo il nostro modello, il proprio influsso mol­
to mediatarnente e solo indirettamente. Questa forma di influsso del cristia­
nesimo va considerata più da vicino.

se vinto? Una riflessione approfondita è particolarmente necessaria se non vogliamo che sia etica
semplicemente ciò che è in vigore.
'" L'accento cade sul 'può', e questa osservazione non intende fare l' apologia del cristianesimo,
ma evidenziare piuttosto un intreccio di relazioni. Inoltre le percezioni vigili delle situazioni non
necessariamente devono essere trasmesse o provocate cristianamente.
58 prima parte

La formazione molto 'tenue' , sommaria, impartita dal cristianesimo costi­


tuisce infatti gran parte della sua 'realtà' in seno alla nostra società (dalla
svolta costantiniana in poi). Il cristianesimo diventa realtà e applicazione
non tanto consapevolmente o per una decisione di fede (e meno che mai
come ricordo di Gesù Cristo), bensì mediante una reazione diretta (sulla
base di un 'habitus' inculcato, per quanto molto superficiale), che spesso
avviene quasi automaticamente e non viene ulteriormente fatta oggetto di
una riflessione etica. Sotto il profilo teologico questo tipo di influsso eserci­
tato dal cristianesimo è importante, perché si tratta della conseguenza di
un' esistenza in seno alla storia.
2. L' importante è non soffocare la sensibilità spontanea con pretesti (ideo­
logici) secondari, che di fronte al dovere spontaneamente sentito di essere
umani rappresentano la tentazione di «tirarsi fuori dalla faccenda>> . Cfr. la
frase: «Chi sente quel che vede, dà quel che può».
3. Ma la semplice 'sensibilità' non basta; per un' applicazione realmente ben
riuscita ci vuole piuttosto un'analisi (storico-critica) precisa e una conoscenza
oggettiva approfondita, così come ci vuole un 'senso di responsabilità' . Questo
spiega il ruolo che già J. B . Metz assegna al sapere 'mondano' .
4 . Una volta effettuata con attenzione questa percezione, ci s i domanda
quale aiuto la Scrittura possa fornire nella situazione (come appello, come
promessa, come consolazione o critica: qui andrebbero menzionati tutti i
generi della storia delle forme) . Precisamente questo è il campo dell' innova­
zione.
Innovazione che avviene nel modo seguente: l'interprete porta nel proces­
so di applicazione il ricordo fresco o latente del bisogno attuale (presente in
sé o nei suoi destinatari) ; questo ricordo viene attivato nell ' incontro con il
testo e assume così un nuovo significato, che tiene conto della controparte
rappresentata dal testo. Non possiamo certo dire che la situazione di miseria
e necessità sia stata riconosciuta solo grazie al testo, tuttavia l' immagine
della situazione assume adesso nuovi tratti. E viceversa, alla luce di quel che
è stato percepito nella situazione, si sceglie nel testo ciò che si confà (criti­
camente, sotto forma di conferma ecc.) a questa situazione. I due processi ­
messa a punto della situazione e selezione di importanti elementi del testo -
si svolgono in seno a un reciproco rapporto, e tale evento è il proprio e vero
atto della libertà nell' interpretazione.
A questo punto vediamo con chiarezza quale funzione l' esegesi critica
può avere per l' applicazione. L' esegesi può infatti notevolmente moltiplica­
re il numero degli aspetti contenutistici di un dato testo e evidenziarli. Inol­
tre può fare questo anche mediante l' analisi dell' efficacia storica del testo.
In questo modo essa evidenzia un maggior numero di possibili punti di con-
Posizioni importanti della storia della ricerca 59

tatto (analoga con un tertium comparationis) con la situazione. - Grazie


all' esegesi storico-critica diventa per così dire visibile nel testo esistente un
gran numero di superfici cristalline, il testo guadagna in spazialità e guada­
gna di conseguenza tutta una dimensione.
Ma un' opera simile per il campo dell' innovazione deve svolgere anche
l' analisi della situazione, qualora essa venga parimenti effettuata in modo
quasi storico-critico (analisi storica, sociologica ecc.). Perciò possiamo dire
che sia l' analisi del testo sia quella della situazione contribuiscono a far
riconoscere un maggior numero di possibili punti di contatto.
Inoltre l' evidenziazione della ricchezza del testo è anche un possibile
ethos dell' esegeta, un ethos che compare accanto a quell' altro, similmente
tradizionale, secondo il quale l' esegesi ha una funzione critica nei confronti
delle ideologie e della chiesa ed è quindi rivolta contro l'esercizio del potere
ecclesiale.
Ma il criterio per la selezione da operare nel testo e per la corrispondenza
tra la situazione e aspetti del testo non è la pura corrispondenza stessa, bensì
il fine dell' applicazione, un fine che si spinge al di là di queste analogie. Il
criterio per tutte le 'combinazioni' di questo genere è l' effetto perseguito21 •
E a questo scopo occorre, tra l' altro, anche approntare u n testo applicativo.
5. Se la reazione deve corrispondere realmente alla situazione non biso­
gna tener conto solo della domanda Perché?, bensì anche della domanda
Per chi ? Cioè, nel rispondere alla situazione, bisogna tener conto anche del
destinatario dell' azione. Esiste perciò il dovere di una critica preventiva del­
la ricezione. Ciò esige che si tenga conto della dimensione dell' efficacia già
anche nei testi biblici stessi. Similmente, quando si formula il testo applica­
tivo, occorre interrogarsi sullo scopo perseguito. L' importante non sarebbe
perciò «proclamare la parola di Dio» nella buona e nella cattiva sorte e
abbandonare il resto a se stesso, bensì piuttosto riflettere in antecedenza
sugli effetti del testo applicativo.
Proprio collegando quanto detto sotto il punto l e sotto il punto 4 è possi­
bile cogliere tutto il processo: attraverso l' influsso storico del cristianesimo,
tradotto in rappresentazioni e sedimentatosi nella propria persona, un uomo
si lascia impressionare in una situazione, è capace di accogliere la Scrittura
e fa attenzione a che la risposta, che trova, possa essere accolta dal destina­
tario. Il predicatore si interroga su ciò che l'ha impressionato e su ciò che
può poi anche impressionare altri. Si tratta perciò di un complesso processo
di ricezione verificantesi in più fasi, di un processo che non equivale sem-

11
Cfr. al riguardo T. RENDTORFF, Ethik l, Stuttgart 1 980, 65s.
60 prima parte

plicemente a entrare nell' alveo di una tradizione. La partenza dalle condi­


zioni e possibilità della ricezione è legata a un' anali�i accurata. Pertanto tut­
to il comportamento è qui l' opposto di un trionfalismo missionario ed è nel­
lo stesso tempo in larga misura un «congedo dai principi» e un orientamento
verso le fondazioni più prossime (0. Marquard).
6. Per rendere un modo di agire plausibile (agli occhi della 'pubblica opi­
nione ' ) non basta richiamarsi alla propria coscienza o dedurre tale modo di
agire da norme tradizionali, così come non bastano una votazione o un
richiamo a un ' sentimento collettivo della giustizia' , ma occorrono piutto­
sto:

a) Una articolazione: occorre scoprire una situazione catastrofica insopportabile,


la cui insopportabilità sta anche ad altri «sulla punta della lingua>>, ma che viene
spesso rimossa per assuefazione o per rassegnazione.
b) Una anticipazione: bisogna voler prevedere e calcolare tutte le conseguenze
con l' aiuto di una fantasia prospettica.
c) Una valutazione: i mezzi devono essere proporzionati e bisogna cercare di
contenere i sacrifici e l' impegno entro un certo limite. È questa la «passione per il
possibile» di cui parla S. Kierkegaard.
d) Un'educazione della sensibilità quale importante fine etico della pedagogia, al
fine di suscitare un sentimento per la giustizia e per la proporzione, coraggio e pas­
sione.
e) Attenzione e vigilanza quale riflessione incessante sul rapporto tra realtà, azio­
ne e quel che potrebbe essere via via necessario fare («Volontà di Dio nella situazio­
ne»).
f) Altri uomini e una solidarietà critica con essi; un criterio importante per un
consenso potenzialmente 'pubblico' lo si ha chiaramente quando uomini molto
diversi, provenienti da situazioni molto diverse, possono assentire.

Spiritualità

Per poter essere vigili e molto sensibili occorre essere stati influenzati dal
cristianesimo e dalla dottrina cristiana, che non alterano la realtà, bensì aiu­
tano a vederla. A questo scopo i contenuti della fede e la tradizione cristiana
devono già essere stati così 'elaborati' e 'integrati' da non essere giustappo­
sti, bensì da essere diventati una seconda natura. Questo significa vivere cri­
stianamente, senza sciorinare in continuazione 'contenuti dottrinali' o 'pie
affermazioni ' . Con ciò intendiamo parlare di tutt' altro che di un' apertura
verso il mondo fine a se stessa, intendiamo parlare di autenticità (e non di
divaricazione tra linguaggio religioso e comportamento quotidiano ad esso
contrario). In Meister Eckhart troviamo molti testi che lasciano già intravve-
Posizioni importanti della storia della ricerca 61

dere l a spiritualità postmoderna22• Una simile integrazione di contenuti cri­


stiani in un modo libero e gioioso di vivere è una parte dell' identità persona­
le. Se essa si verifica, poniamo, in Meister Eckhart al termine di una vita
monastica, il teologo odierno, per esempio, la acquisisce mediante il lavoro
(attorno alla tradizione e nel confronto con essa) e la sofferenza, e chiara­
mente non in maniera più semplice. Malgrado tutte le differenze, tale spiri­
tualità mostrerà poi alcune somiglianze con la 'spiritualità' postecclesiale
dei laici (cioè del 90% di non frequentatori della chiesa)2\ cosicché esistono
delle possibilità di contatto con essa.

FEMMINISMO

Bibliografia: E. SCHUSSLER FIORENZA, But She said. Feminist Practices of bibli­


ca/ Interpretation, Boston 1 992; L. ScHOTIROFF - M.-TH. WACKER, Kompendium
feministischer Bibelauslegung, Gtitersloh 19992•

L' ermeneutica femminista fa parte di quelle concezioni ermeneutiche che


rifiutano una separazione tra esegesi e applicazione (e fin qui niente di spe­
ciale). Al contrario: la presunta neutralità dell' esegesi è considerata una pro­
prietà truffaldina della concezione dominante della scienza. Nei confronti di
questa scienza e, in linea generale, di tutta l' applicazione della Bibbia vige
un' «ermeneutica del sospetto». Anche su questo punto l' ermeneutica fem­
minista si colloca perfettamente nella tradizione europea (K. Marx, F. Nietz­
sche, S. Freud), desume anzi da essa il sospetto centrale stesso, e cioè il
sospetto che l ' interpretazione della Bibbia serva a legittimare il potere.

22 Ricordo temi noti come «Dio per amor di Dio>>, o <<Trovare Dio in ogni azione>>, o <<Avere Dio
in tutti i luoghi, per la strada e in tutti gli uomini» (Meister Eckhart), l' invito a liberarsi da immagi­
ni e forme, la posizione critica verso la mediazione tramite sacramenti e rappresentazioni, l'abban­
dono del rapimento estatico per servire i bisognosi, la concezione della figliolanza verso Dio, in
cui viene eliminato l' atteggiamento di contrapposizione all' altro come ad un estraneo, in termini
moderni :' la differenza soggetto-oggetto.
" L' esperienza monastica può contribuire molto a spiegare questo tipo di spiritualità: comuni
sono infatti il fenomeno della nausea di fronte alla sovraalimentazione mediante frasi, della non­
più-interpellabilità, del non-poter-più-ascoltare malgrado una persistente curiosità, il rifiuto di
i stanze mediatric i, la sete di autenticità. Certo : l ' abbandono da parte di Dio (esperienza
dell "assenza di Dio' nell'evo moderno) e l' esperienza della libera figliolanza di Dio (Meister
Eckhart) sono due cose diverse. Tuttavia chissà che il fatto di essere sorretti e di essere protetti non
sia anche oggi sperimentato come il più forte? Del resto i non frequentatori della chiesa hanno
spesso un pizzico di 'identità' in più rispetto alla maggior parte dei teologi.
62 prima parte

Nessuna, ma proprio nessuna esegesi andrebbe esente da interessi. Ogni


interpretazione dovrebbe ammettere di essere politica, cioè di mettere defi­
nitivamente a tacere gli oppressi e di oscurare i rapporti di forza.
Naturalmente il sospetto non riguarda solo l' interpretazione della Bibbia,
bensì anche già la sua nascita. Dappertutto nella Bibbia si troverebbero
infatti a) un linguaggio androcentrico (per es., Dio come 'Signore ' ) e b) una
cultura patriarcale (per es., solo sacerdoti maschi). Perciò anche la rivelazio­
ne biblica sarebbe solo un discorso prospettico. Alcune femministe si spin­
gono su questo punto così lontano da mettere in dubbio l' unicità, l' irripetibi­
lità e l' avvenuta conclusione della rivelazione biblica.
Un tratto particolare dell' ermeneutica femminista è un netto dualismo,
che sempre e in ogni testo è in grado di distinguere, sotto il profilo femmini­
sta, tra bianco e nero e che propende perciò sempre piuttosto a condannare,
precisamente in base a sospetti.
La tendenza antiebraica, a volte tipica di un primo stadio dell' ermeneuti­
ca femminista, è stata nel frattempo percepita e combattuta come un perico­
lo.
D ' importanza permanente è il fatto che l' ermeneutica femminista ha
richiamato in modo particolare l' attenzione sul ruolo della retorica nella tra­
duzione e nella predicazione. Pure l'esegesi scientifica sarebbe di fatto reto­
rica e produrrebbe nuovi significati . - Importante è inoltre il fatto che
l' ermeneutica femminista richiama ancora una volta l' attenzione sulla rile­
vanza del contesto (visto sotto vari aspetti).
Circa la critica: è opportuno distinguere con cura. A me sembra che gli
aspetti indiscutibilmente positivi non si trovino in alcun altro progetto, men­
tre alcuni punti criticabili sono comuni ad alcune altre ermeneutiche. Da
valutare positivamente è di certo la vigilanza critica, che si estende a tutti i
campi in cui domina l' ingiustizia nei confronti delle donne. Ciò riguarda, ad
esempio, anche le traduzioni della Bibbia che non hanno un carattere pura­
mente documentale, ma che sono oggi destinate ad essere lette durante le
funzioni liturgiche. Qui, a mio giudizio, bisognerebbe ad esempio ampliare
le parole di saluto rivolte alla comunità («fratelli e sorelle»), o porre «figli e
figlie di Dio» al posto del semplice «figli di Dio». I temi delle 'donne' sono
stati finora seminati molto scarsamente nell'esegesi storica (inclusa la storia
della chiesa antica), e al riguardo c'è molto da recuperare.
Ma d' altra parte anche l' ermeneutica del sospetto diventa un' ideologia
insopportabile, se gira solo e sempre attorno allo stesso sospetto. E che testi
di ogni genere mirassero in linea di principio a legittimare qualcosa ce lo
possiamo sì domandare, però non possiamo pronunciare questa frase come
se fosse una risposta ovvia. Infatti oltre a legittimazioni, per giunta di siste-
Posizioni importanti della storia della ricerca 63

mi androcentrici o patriarcali, possiamo documentare e dimostrare anche


l' esistenza di altre vie dello spirito. Chi presuppone che tutti i testi avessero
solo un unico tema e un unico interesse, rende ridicolo se stesso e i testi.
Considero in linea generale deleterio il fatto che l' esegesi dei testi non sia
separata da istanze attuali, per quanto giustificate queste possano essere.
Ogni miscela delle due cose può solo portare a esercitare una tutela sui testi.
La via qui proposta porta il nome di 'ermeneutica dell 'estraneità' proprio
perché occorre perlomeno tentare di non leggere solo e sempre i testi con gli
occhi delle proprie intenzioni. Chi non fa il tentativo di interrompere il cir­
colo della comprensione, chi al contrario dichiara addirittura che tale circolo
è obbligatorio, necessario e non intralciabile, che l'interpretazione si regole­
rebbe piuttosto solo in base alla valutazione positiva o negativa dei modelli
interpretativi presupposti, costui ha aperto tutte le vie alla ideologizzazione
dello spirito e della cultura.

L' impegno in una esegesi impegnata è sempre bello, ma i risultati lo sono meno.
Citiamo per questo motivo qui il cosiddetto 'Loccumer Kompromiss' (Compromes­
so di Loccum) del 1 995, che ho a suo tempo proposto a D. St>lle , rappresentante
impegnata dell' ermeneutica femminista: «Gentilissima Signora Solle, noi esegeti di
professione abbiamo con la nostra esegesi storico-critica annoiato gli uomini, svuo­
tato le chiese e diviso le comunità. E Lei ha, con la sua esegesi prevenuta, annoiato
gli uomini, svuotato le chiese e diviso le comunità. Cerchiamo di integrarci: Lei ci
presta l' impegno e l'entusiasmo delle sue allieve per l'esegesi e la storia della chie­
sa antica, e noi prestiamo loro la capacità di distinguere e il desiderio di rendere
giustizia ai testi»24•

Perciò io distinguo due ethos: esiste un ethos dell' esegeta 'di professio­
ne ' , ed esiste un ethos del combattente impegnato contro l' ingiustizia nella
chiesa e nella società. I due impegni possono entrare fra loro in conflitto.
Per esempio: dobbiamo, per impegno femminista, dichiarare probabilmente
l Cor 14,34-36 non paolina, oppure dobbiamo lasciare a Paolo quel che è di
Paolo, e lavorare oggi malgrado questo passo per la giustizià? A mio avviso
bisognerebbe per prima cosa render giustizia a Paolo e non cercare di
migliorarlo a posteriori, solo perché egli faccia così bella figura ai nostri
occhi.

L' intenzione del programma qui proposto consiste nel mantenere separati e nel

" K. BERGER, Hermeneutik des Fremden angesichts des Bekannten, in W. GREIVE (ed.), Die Her­
meneutik des Bekannten. Neue Zugiinge zur Bibel (Loccumer Protokolle 60/1992), 1 35- 145, 154.
64 prima parte

dissociare il più possibile i singoli procedimenti dell' 'interpretazione' della Scrittu­


ra: l'esegesi va il più possibile separata dall' applicazione, e l' applicazione può certo
avvalersi di una determinata antropologia filosofica, però essa va considerata solo
come una tra altre applicazioni possibili. Perciò l' ampiezza dello spettro dei proce­
dimenti deve nello stesso tempo dischiudere la possibilità di essere più liberi lì dove
si tratta realmente di tener conto della situazione: liberi da una · zavorra esegetica
non analizzata e liberi dalla necessità, per il resto ineludibile, del dialogo con la
filosofia moderna. Tutto questo ha il suo momento. Invece una fusione cancella la
molteplicità delle possibilità, che occorre viceversa liberamente sfruttare. E, a
seconda della situazione, potrebbe nel singolo caso essere utile un' esegesi che rico­
struisce con rigore (anche la pura esegesi può esercitare il suo influsso e avviare un
cambiamento), così come altrove può essere utile un' applicazione assai libera. La
questione dei criteri non va oscurata con una fusione dei processi di lavoro, come fa
Bultmann25•

" Cfr. al riguardo, tra l' altro, anche K. BERGER, Exegese und Philosophie, Stuttgart 1 986, 1 27-
1 76.
II.

SCHEMA DI UN'ERMENEUTICA
DEL NUOVO TESTAMENTO

l. n problema della verità

VERITÀ GENUINA E VERITÀ DERIVATA

In un' ermeneutica del Nuovo Testamento non è possibile parlare di verità


senza esaminare prima a fondo la concezione biblica della verità, concezio­
ne che dovrebbe essere il punto di partenza e il criterio anche di un' erme­
neutica del Nuovo Testamento. In questo modo la questione gnoseologica
( 'ermeneutica' ) classica si sposta naturalmente in misura notevole in avanti,
perché la 'verità' nel senso della teoria della conoscenza è per la concezione
biblica tutt' al più una verità derivata, qual è appunto la verità dottrinale,
della quale parliamo spesso nel senso di una verità di fede.
Questa verità dottrinale può essere solo secondaria rispetto alla genuina
verità biblica ed è piuttosto un fenomeno conseguente. La verità genuina è
infatti, come vedremo, la realtà, la stabilità e la fedeltà di Dio stesso, quindi
una verità personale. Ad essa partecipa Gesù Cristo, quando dice: «<o sono
la verità» . Con queste parole Gesù non pensa appunto alla dottrina giusta,
ma alla permanente fedeltà alle promesse, che deriva dal fatto che Dio è la
fedeltà ' stessa' . Se questo è vero, allora il rimanere presso Dio, l' agire in
virtù del fatto che si è acquisito 'stabilità' e 'identità' in Dio (in termini gio­
vannei: il fare la verità), la conservazione della nuova comunione inaugurata
da Dio (in termini giovannei: «rimanere nell' amore») sono il criterio decisi­
vo della verità genuina. Di conseguenza l' unità della chiesa è il primo crite­
rio, chiaramente anteriore alla sua unità nella dottrina.
Qui non si tratta, beninteso, di lampi dogmatici improvvisi di non chiarita
origine. Cerchiamo piuttosto che cosa sta propriamente alla base della paro-
66 seconda pane

la che nella Bibbia greca viene resa con verità. Si tratta perciò di ricostruire
la teoria biblica della conoscenza.
Importante è sorprendentemente per tale teoria la questione di quel che
sopravvive. La risposta consiste in un allontanamento dal pluralismo e in un
deciso orientamento al primo comandamento e alle sue conseguenze gno­
seologiche. Non la pluralità sopravvive, ma solo l ' identico. Ciò vale per
l' immagine di Dio, per la comunità e per ogni singolo. E appunto per questo
l' unità della chiesa è il criterio. L'unicità di Dio è infatti 'contagiosa' . Il Dio
della Bibbia non conserva la propria identità per sé, ma fa pervenire anche
altri alla loro identità, anziché lasciare che essi si disperdano nella pluralità.
Egli non rimane l ' uno dietro i popoli, ma raduna gli uomini in una unità
(popolo di Dio) e dà la possibilità ad ogni singolo di divenire identico con se
stesso.
Per il fatto che il concetto di verità è così spogliato del suo nembo gno­
seologico, la questione pratica balza in primo piano rispetto a quella gnoseo­
logica. La verità va in continuazione stabilita in maniera applicativa.

Verità genuina

La verità 'genuina' non è una verità che si possa dimostrare scientifica­


mente, ma una verità religiosa. Tuttavia essa è scientificamente descrivibile.
Per dimostrabile scientificamente intendo questo: spiegabile causalmente,
teoreticamente riproducibile in qualsiasi momento con l'esperimento. Ogni
specie di verità ha la sua propria evidenza. La verità scientifica ha la sua
evidenza nella verifica che essa regge al contesto del sapere, la verità reli­
giosa ha la sua evidenza nella vita o nella morte, una evidenza che è perciò
in un certo senso escatologica. - Qui di seguito descrivo la 'verità religiosa'
e mi lascio in ciò guidare dalla concezione della verità fondabile nella stessa
Scrittura.
La concezione biblica della verità non va scambiata con quella aristoteli­
ca. Gesù, quando dice: «lo sono la verità», non pensa naturalmente con que­
sto alla concordanza tra la cosa e il giudizio, bensì alla affidabilità della sua
persona. Questa verità si manifesta nel fatto che è costantemente possibile
costruire su Gesù, che la sua parola è valida e che la sua potenza sorregge.
'Veri' non sono perciò neppure fatti isolabili, bensì determinate esperienze
della stabilità ecc. La 'verità' di fatti e eventi dipende soltanto - dal punto di
vista biblico - dal fatto che essi sono espressione di questo rapporto di
fedeltà. Se nel caso di questa verità si tratta di stabilità, l' evidenza futura
svolge un ruolo particolare. Similmente diventa chiaro che la fede non pog-
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 67

gia su singoli fatti, bensì in certo qual modo per definizione su una catena
coerente di interventi di Dio, appunto sulla sua costante fedeltà. Questo
distintivo della fede biblica salvaguarda da un deleterio isolamento di singo­
li dati nel senso di «mangia questa minestra o salta dalla finestra» .

Verità derivata (verità dottrinale)

Dalla descritta 'vera' relazione vitale viene ora derivata la verità dogmati­
ca, e precisamente come tentativo di comprendere anche teoreticamente
questo rapporto del discepolato, per cui esiste poi una interazione tra teoria
e prassi. La comprensione teoretica della verità avviene in due modi: sotto
forma di regola di vita (morale) e sotto forma di confessione o professione
di fede.
Tale comprensione teoretica e tale formulazione verbale sono necessarie,
perché il linguaggio (e i segni in generale) sono una parte costitutiva essen­
ziale della comunità umana. Il rapporto tra la chiesa e la verità teoretica va
pensato in questo modo: la chiesa riflette su ciò di cui vive. Ma poiché la
vita è - ancora una volta per definizione - radicalmente storica, anche la
verità teoretica avrà per contenuto, accanto ad elementi che collegano con
il passato, sempre anche elementi estremamente attuali . I primi elementi io
li individuo piuttosto nella confessione, i secondi piuttosto nella morale. È
utile e, a mio giudizio, anche onesto partire nel caso della verità teoretica
da un consenso e da una universalità limitata. Ciò è necessario già per il
fatto di non far insorgere l ' illusione che non Dio, bensì la dogmatica sia
eterna e che l' eternità nel senso della Bibbia significhi rigida immobilità.
La vita eterna è piuttosto la vitalità del Dio vivo. La vita eterna dei cristiani
significa perciò che il loro nome, il loro mistero più intimo permane, per­
ché essi poggiano sulla fede in Dio. - Una delle conseguenze è anche una
priorità della comunione dell ' amore - da Roma già da sempre praticata nei
rapporti con le chiese orientali uniate - (e rispettivamente una priorità della
comunione con Roma) rispetto alla stretta identità della confessione. La
teologia dogmatica e la professione di fede non diventano perciò in questa
visuale superflue, però sono concepite e concepibili come entità derivate
rispetto alla vita della chiesa e, quindi, strettamente come funzioni 'eccle­
siali' .
Per ' verità derivata' intendiamo nelle pagine che seguono la verità
dell' applicazione, non la verità filologica dell' esegesi. Nel caso dell' esegesi
il 'vero' e il 'falso' possono essere filologicamente o storicamente verificati.
Nel caso della verità applicativa si tratta di qualcosa di più complicato. Essa
68 seconda parte

è quel programma racchiuso in segni, in virtù del quale e in ordine al quale


degli uomini cercano di vivere individualmente e insieme.

VERITÀ UNIVERSALE LIMITATA

Dobbiamo ora esaminare fino a che punto non possiamo sostenere uno
storicismo coerente nei confronti della verità dottrinale derivata. Natural­
mente proprio il fatto che si tratta solo di una verità derivata impedisce una
dissoluzione totale in un puro individualismo. Non si tratta di dissolvere
totalmente la storia nella chiesa, bensì di prenderla seriamente.- Non si tratta
perciò della mia verità, ma di 'universalità limitate ' . Pure il radicamento
sociale della verità impedisce questa dissoluzione. L'intenzione di 'stare in
collegamento' , attraverso l' autore biblico, con Gesù è il motivo della limita­
zione della libertà dell' applicazione . Pure il fenomeno della «comunità
interpretativa» , proposto da St. Fish ( 1 980), ha lo scopo di impedire sia
interpretazioni oggettivistiche sia interpretazioni puramente soggettive.
Sotto il profilo strettamente filologico una riesumazione del senso origi­
nario della Scrittura nell' applicazione è impossibile. Il senso risulta infatti
dalla relazione tra segno e situazione, situazione che è però rigorosamente
unica e irripetibile. Ciò significa per ogni applicazione la possibilità, anzi la
necessità di un fraintendimento produttivo del testo. Precisamente in questo
senso Cl. Boff dice che il testo è una fonte del senso e non una cisterna1 • -
Dobbiamo parlare di fraintendimento, perché ogni riferimento del testo a
una situazione, per la quale esso non era stato pensato, fa in misura più o
meno grande violenza a quel che esso intendeva dire.

Singoli aspetti

l. La rinuncia a una ermeneutica che lavora con una verità dottrinale


identica a se stessa la troviamo anche in un' altra forma: il principio cusanico
dell' «unitas in diversitate» (intracristianamente concepito) trova la ' sua
moderna espressione nella concezione della complementarietà dei modelli
di J. G. Barbour ( 1 974)2, pure qui intracristianamente concepita. L'esegeta

1 CL. BOFF ( 1 983), 235.


2Cfr. J. G. BARBOUR ( 1 974), 7 1 -84. Le religioni non cristiane sono espressamente escluse dalla
complementarità nei confronti del cristian_esimo. Il Cusano si spingerebbe qui più avanti.
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 69

tende piuttosto a concepire questo principio anche in senso cronologico,


cioè nel senso di una successione cronologica (e nello stesso tempo di una
simultaneità geografica) delle più diverse interpretazioni, la cui unità non è
afferrabile, non è formulabile, bensì solo 'misticamente' intuibile. In corri­
spondenza pure tutte le formulazioni ecclesiali sono soggette alla relatività
delle coniecturae.
2. La rinuncia a una verità metatemporale è comunque tutt' altro che un
comportamento rassegnato, ma significa al contrario la grande possibilità
di non dover parlare in modo metatemporale e di poter invece reagire in
modo conforme alla situazione3• Così anche l' unità (tanto orizzontale quan­
to verticale nella storia) ha la possibilità di costituirsi in maniera più schiet­
ta, cioè come dialogo (e non con una formula apparentemente metatempo­
rale).
(3) La 'comunità interpretativa' significa, secondo St. Fish4, opposizione
contro una interpretazione oggettivistica del testo, nonché contro categorie
metatemporalmente valide dell' interpretazione (pure per quanto riguarda i
generi letterari). Dall' altra parte non si tratta neppure di un rapporto solo
individuale e soggettivo con il testo, bensì il lettore si trova posto in una
comunità interpretativa temporalmente e localmente limitata e tuttavia chia­
ramente superindividuale, secondo i cui criteri e «con i cui occhiali» egli
legge il testo. La critica mossa da W. G. Jeanrond a questo modello è sicura­
mente giustificata solo in parte5• La posizione di Fish guarda, come la
nostra, anche a entità sociologicamente afferrabili e tiene conto di una spe-

' Cfr. in modo analogo anche la questione della necessità di sistemi storici universali, come quello
proposto da F. C. Baur, in K. BERGER ( 1 986), 48: «Per superare il positivismo è realmente possibile e
necessario un progetto universale? Il problema dell'isolamento può essere risolto soltanto con la con­
cezione di una totalità storica universale orizzontale? Oppure non risolviamo meglio e più onesta­
mente l'isolamento comprendendo e penetrando la profondità della situazione?». - Con questo non
intendo dire che bisogna contrapporre una cosa all'altra (ambedue le cose sono sicuramente sempre
in qualche modo necessarie), bensi che al posto della totalità universale subentra l'universalità limita­
ta. Precisamente essa diventa visibile nella «profondità della situazione>>.
4 ST. FisH, ls there a text in this class ? The authority of interpretative communities, Cambridge
(Mass.) - London 1 980 [trad. it., C'è un testo in questa classe ? L 'interpretazione nella critica let­
teraria e nell 'insegnamento, Einaudi, Torino 1 987].
' W. G. JEANROND ( 1986), l l l s., obietta a Fish che la sua proposta escluderebbe la possibilità
della critica. Ma che cosa impedisce di criticare le convenzioni sociali preesistenti al testo? E
anche la necessaria armonizzazione degli interessi all' interno della comunità dei lettori non inclu­
de forse la critica? Occorre pure domandarsi se un testo non possegga di per sé un potenziale criti­
co. Qui si tratta infatti di stabilire i principi e gli accordi comuni a proposito del comportamento
verso il testo nella comunità concreta dei lettori. Inoltre nulla vieta di supporre che, lungo i secoli,
siano esistite, accanto a forme relativamente compatte di tali comunità, anche forme meno compat­
te.
70 seconda parte

cie di universalità limitata. Infatti la chiesa, non la Scrittura, è la sposa di


Cristo, come giustamente afferma Cl. Boff6•
4. E. StOve ha avanzato la tesi che non è possibile superare il relativismo
storico nel quadro dello studio teologico della storia e che esso va piuttosto
solo adeguatamente formulato7• Egli ricorda giustamente il fatto che tentati­
vi frettolosi di superare il relativismo hanno sempre il difetto di non tener
conto di vasti settori della storia empirica, e propone di mettere al posto di
schemi sistematici della verità dei campi a forma di mosaico, che poggiano
su una raccolta di aspetti di possibili interpretazioni, al fine di far emergere
una immagine più complessa e non univoca della realtà passata8• Egli propo­
ne l' idea di un ammasso prospettico (presenza simultanea di vari aspetti
autonomi indissolubili)9 e si ispira non tanto a sistemi, quanto piuttosto a
modelli spaziali : parla di spazi di comunicazione e di campi di relazioni, in
cui al centro dell' attenzione non sta una unità del mondo e della storia, bensì
una realtà multicentrica. L' arbitrarietà è limitata da regolazioni della
scarsità10, il che in altre parole significa: lo spazio, in cui si muove un perso­
naggio storico, è costituito da limitazioni e confinamenti ovunque sperimen­
tati, cioè dalla costellazione sempre specifica di finitudini.
Se applichiamo questa concezione del «fraintendimento produttivo» - qui
solo brevemente illustrata - all' ermeneutica neotestamentaria, abbiamo que­
sto risultato: lo spazio gigantesco di quasi duemila anni, in cui si svolgono
l' interpretazione e l' applicazione del Nuovo Testamento, non ha come pro­
prio centro una cosa unitaria, in base a cui tutto bisognerebbe misurare, ben­
sì presenta diversi punti di cristallizzazione, attorno ai quali si raggruppano
tentativi caratteristici di trovare in modo sempre nuovo il centro vivibile
della Scrittura (la verità).
Naturalmente il risultato non è una quantità illimitata di nuove interpreta­
zioni, bensì si costituisce uno spazio, in linea di principio controllabile, con
più centri («tipi di applicazione»): il principio quot capita tot sententiae non
vale, bensì esiste il fenomeno delle 'universalità litnitate' , esistono cioè per
un tempo limitato e uno spazio limitato una specie di consenso, un accordo
possibile e una universalità riconosciuta come vincolante.
Il tipo di verità qui proposto rende piuttosto possibile, nella sua qualità di

6 CL. BoFF ( 1 983), 246.


7 E. STOVE ( 1 980), 283 .
' Cfr. E. STOVE ( 1 980), 1 86.
9 Cfr. E. STOVE ( 1 980), 1 88.
10
Cfr. E. STOVE ( 1 980), 2 1 3ss. Viene espressamente sottolineato che di ciò fa parte anche una
scarsità materiale.
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 71

consensus limitato, proprio l'obbligatorietà, a cui uno non riesce facilmente


a sottrarsi a motivo della sua concretezza, e precisamente all' interno di una
comunità che così si mette d' accordo. Ecclesiale è al riguardo in ogni caso
la chiarezza con cui si mette qualcosa in discussione.
5. J. Miguez-Bonino critica l' esegesi occidentale: «La verità esiste quindi
prima della sua efficacia storica ed è da essa indipendente. La sua legittimità
va verificata in base alla relazione con questo astratto 'cielo della verità' » n .
Queste parole attaccano i l modo abituale di procedere, secondo i l quale ogni
applicazione deve dimostrare di essere valida perché concorda con la verità
metastorica sovraordinata. - Si tratta quindi di liberarsi delle obiezioni
dell' esegeta o del teologo dogmatico per abbracciare una verità situazionale
'relativa' .
6. I tentativi di eliminare la concezione della storicità radicale della
verità, postulando una 'cosa' cristiana che esisterebbe dietro i testi e che
sarebbe ad essi comune, fallisce di fronte all' obiezione dell' esegesi storico­
critica. Ciò vale anche per l' affermazione che importante per l' applicazione
sarebbe solo ciò che una determinata situazione ha in comune con tutte le
altre'2• Al riguardo dobbiamo osservare che le posizioni di K. Barth e R.
Bultmann, le quali trattano del lemma 'cosa' , concepiscono questo fatto
come superamento dei problemi dello storicismo.
7. La 'verità' esiste, a mio giudizio, sempre come consenso di una comu­
nità in una fase limitata della storia. Essa è sentita come vincolante per una
generazione o un' epoca. Perciò essa è una universalità limitata. Io parto per­
ciò dalla possibilità di una pluralità orizzontale e verticale di verità, perché
esistono le une accanto alle altre e le une dopo le altre situazioni diverse e
comunità diverse. Diverso è ciò di cui i cristiani vivono e il modo in cui essi
possono essere cristiani. Se una comunione abbraccia diverse 'Chiese, allora
la reciproca comunione delle chiese parziali autonome è tanto stretta quanto
è stretta la verità comune che le unisce.
8. La posizione di S chleiermacher nei confronti dell ' illuminismo e
dell' idealismo poggia sul fatto che la ragione non consiste per lui in una
verità metatemporale e che perciò essa non è universale. La ragione diventa

" J. MIGUEZ-BONINO, Theologie im Kontext der Befreiung, Gottingen 1 977, 80s. - Cfr. anche
CL. BoFF ( 1 983), 229, il quale parte naturalmente dalla posizione fondata da Gadamer e Ricoeur,
secondo la quale il senso di un testo non sarebbe stabilito, ma si realizzarebbe soltanto mediante la
risposta ad esso data nella vita concreta. In questo modo la dialettica tra libertà e legame scompare
qui di vista.
12
Cfr. J. ROTHERMUND ( 1 984), 80 (qualsiasi testo si adatterebbe a qualsiasi situazione, l' impor­
tante nella situazione del momento sarebbe soltanto quel che essa avrebbe in comune con tutte le
altre situazioni).
72 seconda parte

piuttosto storica a motivo del suo legame con il linguaggio. Il linguaggio o


la lingua è una convenzione storica, è una istituzione limitata e un risultato
generalizzante dell' autosuperamento storico dei soggetti 13• Inoltre ogni lin­
guaggio è specifico, perché implica una determinata visione del mondo e
non è di conseguenza qualcosa di universale, bensì un qualcosa di determi­
nato. M. Frank arriva perciò a concludere che - a motivo della relazione tra
linguaggio e verità - la verità sarebbe per Schleiermacher un universale
individuale (op. cit., 1 85).
Con ciò non possiamo che dirci in linea di principio d' accordo. Anziché
parlare di 'linguaggio' bisognerebbe solo parlare in termini più generali
(con P. Ricoeur) del mondo dei segni (simboli), che sono sempre espressio­
ne di una cultura (di cui, secondo questa più ampia definizione, farebbero
parte anche le opere d' arte). A ciò corrisponde il fatto che, nel caso della
verità, non si tratta solo della ragione, bensì anche del campo dell' emotività
dell'uomo. Né nel caso di questa universalità limitata si tratta sicuramente
solo di una 'convenzione' (questa sarebbe una concezione troppo razionali­
stica), bensì si tratta dell ' inveramento di campi culturali sempre diversP4• A
differenza di M. Frank io non parlo dell' «universale individuale», al fine di
far intendere che non si tratta di qualcosa di paradossale, che sarebbe fonda­
bile solo in modo speculativo, bensì piuttosto di una universalità con limiti e
limitazioni.
L' aspetto etico di questa concezione sta nel fatto che essa rinuncia a siste­
mi universali di verità e alla loro pretesa di dominio, mentre l' aspetto esteti­
co consiste nel fatto che, nel quadro di verità limitate, la pretesa di validità
della ratio diminuisce e il valore posizionate delle emozioni aumenta.
9. Ho potuto trovare cose molto simili anche per quanto riguarda il suono
letterale delle parole - ovviamente solo dopo aver approntato il mio schema
- nell' impostazione di E. Troeltsch, la qual cosa non mi assolve certo anco­
ra dall' accusa di insensatezza, ma mi pone in buona compagnia. Egli si
occupa della dimensione ecclesiale della verità via via trovata (nel senso
dell' ebraica emet); questa è infatti sì essenzialmente legata alla situazione,
tuttavia non 'sempre mia' , bensì sempre nostra. Essa è una risposta storica­
mente condizionata e tuttavia non priva di un carattere vincolante15•
Il valore gnoseologico di questo modello delle universalità limitate sta nel

13 M. FRANK ( 1 977), 1 57.


" La situazione sociale e economica non fa parte delle 'universalità limitate' nel senso di segni,
mediante cui gli uomini si intendono sulla verità.
1' Cfr. E. TROELTSCH, Der Historismus und seine Probleme (Ges. Schriften III), Tiibingen 1 922,
l, 2, 2: << Versuche, Historisch-Individuelles und Allgemeingiiltiges zu verbindem> spec. 1 1 6- 1 20.
,
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 73

fatto che è possibile . introdurre una osservazione storicamente verificabile


(consenso relativo di una determinata epoca) contro l ' aut-aut filosofico
astratto di una verità metatemporale o di una verità strettamente individuali­
stica.
1 0. Spunti sistematico-critici importanti trovo in F. Rosenzweig16 (sogget­
tività e autoaffermazione come condizione, non come ostacolo nella ricerca
della verità; il soggetto non può mai 'risolversi' in un sistema, perché il
«soggetto privato comune» continua semplicemente a sussistere) e in M.
Merleau-Ponty l\ che in Le visible et l 'invisible [Il visibile e l 'invisibile]
( 1 964) delinea un nuovo concetto di verità che abbraccia anche la sua asso­
luta storicità: il senso non è costituito in una coscienza autonoma, ma in
concreti campi esperienziali che sono collegati con la dimensione della
intercorporeità (cioè dell ' esistenza corporea comune con altri). Ma nella
corporeità noi assumiamo la preistoria e presumiamo la storia futura. In que­
sto campo l' uomo è vulnerabile, può far esperienze e riconoscere i propri
limiti.
1 1 . Con le due 'universalità limitate' della sfera di azione e del contesto
(letterario) lo storico potrebbe sfuggire alle due astrazioni radicali del meta­
fisico, all' astrazione dell' individuo isolato e all' astrazione dell' universalità
universale. Le conseguenze di questa riflessione dello storico sulle proprie
possibilità limitate potrebbero essere notevoli, in particolare di fronte alla
constatabile invasione della storia da parte della metafisica a motivo di una
carente voglia o disponibilità dello storico a occuparsi di riflessioni sistema­
tiche. - Si potrebbero scorgere altre universalità limitate, come le epoche
della storia della chiesa, il fenomeno dell' 'opinione pubblica' (del pubblico
ogni volta limitato al posto degli individui o della totalità indifferenziata) . Si
potrebbero evitare una riduzione individualistica o una pura etica della
situazione per l' applicazione, così come una pretesa globale e metatempora­
le. Oltre a ciò una universalità limitata permette sia una maggior concretiz­
zazione sia anche un carattere vincolante maggiore di quel che l' autointelli­
genza abituale del discorso ecclesiale pubblico si riconosce. Rispetto a W.
Benj amin non rimarrebbe solo l' attimo come opposizione al continuo della
storia, bensì esisterebbe anche una universalità limitata sotto il profilo tem­
porale.
L' applicazione non si trova più allora di fronte al compito irrealizzabile di
tradurre una verità presuntamente atemporale in un punto della storia, bensì

,. Cfr. al riguardo S. MosES ( 1 985), 2 1 -35.


" Cfr. al riguardo K. MEYER-DRAWE ( 1 985).
74 seconda parte

è, a motivo del suo coinvolgimento, più fortemente impegnata a conoscere


le ulteriori circostanze della situazione e quindi a procurarsi una cognizione
di causa. L'universalità limitata permette di cogliere gli accordi storici (con­
venzioni) 18 e le istituzioni storiche, soprattutto il consenso sociale da non
pensare né solo come puntuale né come valido per l' eternità. Infine anche i
criteri di verità si collocano nello spazio di questa universalità storica limita­
ta controllabile e quindi ancora feconda per una simile problematica. Delle
universalità limitate fanno parte anche le comunità interpretative descritte
da St. Fish ( 1 980), che si oppongono sia a una verità atemporale sia a una
lettura puramente individualistica e del tutto non mediata del testo. La realtà
non è in linea generale data solo nel senso di universalità limitate, in conso­
ciazioni e 'sistemi' di media durata? La riflessione filosofica non dovrebbe
far maggiormente riferimento a queste 'entità intermedie' ? Le universalità
limitate potrebbero essere così molto importanti per comprendere la dimen­
sione della storia. La storia sta perciò in continuazione nel mirino di questa
ermeneutica, perché nella storia si tratta degli accadimenti e della tangibilità
(della sofferenza e della liberazione), dell' influsso dali' esterno e dell' espe­
rienza dal basso (non di deducibilità).

VERITÀ DOTIRINALE COME CONSENSO

Le universalità limitate posseggono una realtà storica nel punto di incro­


cio tra sfera di azione e contesto. Una serie di fattori svolge qui un ruolo
particolare: l' identità, la sicurezza nella storia e la realizzazione dell' appar­
tenenza alla storia mediante segni.

Identità

Nel grosso volume di raccolta di saggi della collana Poetik und Herme­
neutik (VIII) O. Marquard definisce giustamente l' identità come la «grande
superstite della storia della filosofia» 19. L' identità sarebbe sempre più pensa­
ta come l' identità di gruppi, «perché gli uomini sono costretti - sopratutto
adesso - a collegare l'identità universale con l' identità particolare nel tenta­
tivo di esser in qualche modo 'appartenenti' e in qualche modo 'ininter-

" Cfr. al riguardo M. FRANK ( 1 977), 1 57.


19 o. MARQUARD ( 1 979), 36 1 .
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 75

scambiabili' : in qualche modo»20. Inoltre l' identità ha a che fare per due
motivi con la storia: da un lato si tratta in effetti dell' ininterscambiabilità nel
corso del tempo21 , e dall' altra parte esiste un' identità personale «nel punto di
incrocio tra corpo, coscienza e società» . L' identità non si sviluppa dall' inter­
no verso l' esterno, ma dall' esterno verso l' interno. L' uomo infatti non si
sperimenta direttamente, bensì solo tramite altri uomini, che con il loro cor­
po sono dati direttamente e che gli impongono delle responsabilità22. - Nella
cornice dell' ermeneutica qui proposta l' identità è un concetto chiave.
l . L' identità nel senso di ininterscambiabilità acquisita non può essere
'eliminata' o ignorata da alcun tipo di universalità. Diversamente da H. G.
Gadamer, non penso che la verità trovi posto solo e sempre in seno a una
universalità superiore, per la quale l' individualità -sarebbe piuttosto di osta-
'
colo23.
2. Il valore posizionate dell' identità individuale nell' atto del conoscere è
di regola sottovalutato: già secondo l' interpretazione volgare di Schleierma­
cher si rinuncia superficialmente all ' identità nell i:atto del conoscere, dal
momento che, grosso modo, si dice che il so g g'etto della comprensione
dovrebbe identificarsi con la cosa da comprendere fino al punto di rinuncia­
re a se stesso24. Qui, per amore di una migliore comprensione, si perde il let­
tore come soggetto. E anche H. G. Gadamer si preoccupa sempre, nel caso
della comprensione, della cosa secondo il modello del colloquio degli esa­
mi. Ma il colloquio degli esami è un modello per i colloqui umani? Non si
tratta molto più spesso, e precisamente anche in verifiche moderne, del fatto
che uno deve imparare a conoscere l' altro? Non risulta proprio qui come il
discorso della verità universale e atemporale e di altre simili costanti antro­
pologiche si occupi troppo velocemente dell ' universale, senza farsi carico
della fatica dello studio del particolare? Infatti tra un rapido passaggio
all 'universale e l' esercizio di un discutibile potere esistono forse delle con­
nessionF5.

20
O. MARQUARD, op. cit. , 362.
21
Cfr. al riguardo D. HEINRICH ( 1 979), 1 8 1 .
22
Cfr. TH. LucKMANN ( 1 979), 297.299. Cfr. al riguardo il concetto biblico di corpo, secondo il
quale il corpo è primariamente un organo di contatto nella convivenza sociale.
23 Per H. G. GADAMER ( 1 975) la comprensione della verità consiste essenzialmente nell' assimila­
re una cultura quale contesto complessivo e universale, mentre l'individuale possiamo secondo lui
tutt' al più 'spiegarcelo'.
24 Cfr. al riguardo M . FRANK ( 1 985), 3 1 4s. e, sulla questione, qui p. 9 1 .
" Il livellamento dei 'sudditi' h a infatti sempre facilitato l' esercizio del potere, e l a stessa fun­
zione ha la catalogazione in base a leggi psicologiche. Il compito dello storico non consiste in pri-
76 seconda parte

3 . Applicato all' escatologia, da quanto abbiamo detto risulta anche che


non l"unità' può essere di per sé il fine, bensì soltanto l' unità nella diver­
sità, quindi un equilibrio tra le due. Soltanto questo equilibrio è giusto.
4. L' identità è anche (nel senso dell' evitare l' autocontraddizione) il crite­
rio dell' applicazione della Scrittura (vedi più avanti).
In tutto questo l ' identità, l' essere-diventato-così, non appare come ciò che
va superato o dimenticato ad ogni costo, ma appare piuttosto, in termini teo­
logici, come testimonianza (quasi come 'prodotto' ) del peccato e della gra­
zia e del loro contrasto sempre inconfondibile. E poiché l' identità non si
costituisce senza una storia specifica, la valutazione dell 'una e dell' altra sta
e cade insieme26•

2. Verità razionali e il brutto largo fossato

Su G. E. LESS ING E R. BULTMANN

Non solo, a partire da G. E. Lessing, ci siamo abituati a considerare le


verità di fede come eterne e anche come razionali. Lessing applica solo sino
in fondo il concetto aristotelico di verità nella teologia, allorché (Die
Erziehung des Menschengeschlechtes, § 4) [L'educazione del genere umano]
dice che la rivelazione di Dio tramandata dalla chiesa non comunicherebbe

mo luogo nel coltivare una scienza regolatrice di questo tipo, bensì soprattutto nel rilevare il singo­
lo tipo (e la sua biografia individuale).
26
La mancanza spesso 'tipicamente' protestante del senso per la storia ha comunque il suo cor­
relato positivo nella capacità di cogliere e di amare l ' immediatamente dato; ciò però corrisponde
sostanzialmente a una dottrina della giustificazione interpretata in modo assai individualistico e,
inoltre, anche alla posizione della comunicazione diretta della salvezza. La storia della chiesa è qui
sperimentata soprattutto come la storia del fallimento e come ciò che va deposto e che ci separa da
Gesù. La storia appare come un peso e come un qualcosa di inquietante (parallelamente a ciò si
spiega lo scarso favore di cui la disciplina della storia della chiesa gode nell'insegnamento della
religione e nello studio della teologia). Questa valutazione della storia viene fatta anche a spese del
rapporto con l'Antico Testamento e con il giudaismo. Il rapporto con essi dipende infatti diretta­
mente dall'importanza della dimensione 'storia' per il pensiero teologico in generale. Particolar­
mente chiaro ciò diventa nella valutazione di queste entità data dalla scuola di Bultmann (storia del
fallimento e, rispettivamente, indifferenziazione della storia ebraica della salvezza e della storia
deli' elezione), secondo la quale il cristianesimo è la «fine della storia». Contro di ciò prendiamo
posizione in quel che segue.
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 77

all ' uomo nulla a cui la ragione umana, lasciata a se stessa, sarebbe pervenu­
ta, ma ha dato e dà agli uomini soltanto in modo più veloce le più importanti
di queste cose. Gesù Cristo, essendo il maestro divino, il «miglior pedago­
go», si rende superfluo educando a pensare da se stessi . Le verità religiose
da lui comunicate vanno perciò tradotte in «verità razionali», se vogliamo
con esse aiutare il genere umano (§ 76). In questa luce possiamo vedere
anche un' affermazione di R. Bultmann sul rapporto tra rivelazione e filoso­
fia:

«La questione non è se si possa scoprire la natura dell'uomo senza il Nuovo


Testamento: perché di fatto essa non è stata ovviamente scoperta senza il Nuovo
Testamento; la filosofia moderna infatti non esisterebbe senza il Nuovo Testamen­
to, senza Lutero, senza Kierkegaard. Con questo indichiamo però solo un nesso cul­
turale storico, e la concezione dell' esistenza proposta dalla filosofia moderna non
trova la propria fondazione oggettiva attraverso la sua origine storica. Viceversa il
fatto che il concetto neotestamentario di fede può essere secolarizzato dimostra che
l' esistenza cristiana non è qualcosa di misterioso e di soprannaturale» (KuM l, 15-
18.35). - Secondo altre affermazioni una analisi formale dell'esistenza è possibile
anche senza il vangelo (cfr. K. BERGER, Exegese und Philosophie, 145).

Bultmann prescinde dallà storia effettiva, e nella teologia antropologica si


tratta di realtà razionali.
Per Lessing e Bultmann, tra questo contenuto razionale e la storia con­
creta verificatasi nell ' antica Palestina esiste un «largo brutto fossato», un
fossato che si spalanca tra la contingenza storica dei racconti biblici e le
verità razionali, che di là devono essere dedotte e che invece non possono
essere di là propriamente dedotte. Il problema sta nel fatto che ciò che si
ritiene essere una verità razionale appartiene alla tradizione cristiana contin­
gente e si riferisce a qualcosa di contingente.
Mentre Lessing riconosce ancora che il fossato è doloroso e non valicabi­
le, Bultmann lascia semplicemente fuori la «storia cruda», dichiarando che
dopo tutto essa non è affatto necessaria per la fede. Lessing è quindi costret­
to, come mostra la sua parabola di Nathan, a fallire con il suo concetto ari­
stotelico di verità di fronte al fenomeno delle religioni abramitiche. L' espe­
diente da lui raccomandato (senso di umanità) non è un superamento del
concetto aristotelico di verità.

Il confronto religioso fra le tre religioni abramitiche non perviene ad una soluzio­
ne apologeticamente descrivibile . . . «Sotto il profilo logico soltanto una delle tre
potrebbe essere vera. Questo è il problema. Si tratta di un problema molto serio.
Perché proprio qui, dove si tratterebbe realmente della verità, questa non può essere
78 seconda parte

dimostrata. Ma questo è fatale: nel caso della questione della verità più profonda e
autentica fallisce il principio elementare che la verità può essere soltanto una. La
ragione capitola di fronte al suo compito ultimo e più alto, non riesce a distinguere.
Lessing tira di qui questa conclusione: dove la ragione e la sua esigenza di chiarez­
za sono evidentemente impotenti, lì ci devono essere altri criteri: mitezza, tolleran­
za . . . , amore». Ma: «<n Lessing la verità non è concepita in modo troppo dottrinario?
Lessing dà l'impressione di meravigliarsi per il fatto che le tre religioni non diano
alcuna risposta al problema della verità da lui posto ... Occorre soltanto chiarire se la
questione sia posta nel senso della verità aristotelica ignorando la Bibbia. La Bibbia
ha . . . un' altra concezione della verità, una concezione che non può essere confutata
o confermata con la ragione e con l'esperimento. E diversamente da come la pensa­
va Lessing, non è logicamente neppure possibile dare una risposta morale, o irrazio­
nale o puramente escatologica» (K. BERGER, lst Christsein der einzige Weg ?, Stutt­
gart 1997, 1 92s.).

E il dilemma presente in Lessing rende più visibile anche il dilemma pre­


sente in Bultmann: chi fa teologia cristiana sotto forma di antropologia filo­
sofica, approda facilmente a una 'verità' che non ha più nulla a che fare con
la concezione biblica della verità.
Lessing e Bultmann sono, dal mio punto di vista, le due colonne di una
vasta tradizione che identifica rivelazione, parola di Dio e dottrina vera.
Lessing e Bultmann non conoscono di fatto alcun altro concetto di verità se
non quello storicamente e scientificamente dimostrabile. Mentre Lessing e
Bultmann cercano perlomeno vie di uscita o vie traverse, ultimamente nella
scienza del Nuovo Testamento ci si spinge fino a identificare la parola di
Dio solo con le poche parole autentiche di Gesù che sono state individuate
dalla scienza neotestamentaria (negli USA mediante una decisione a mag­
gioranza presa in seno a un gruppo di biblisti). Qui vediamo come il metodo
del circolo vizioso sia palese e come il cristianesimo corra il pericolo di
degenerare in una superstizione dettata da una erudizione filologica. Dove -
come normalmente avviene nelle facoltà teologiche - il modello dello studio
è il dotto umanista del rinascimento, lì la pura dottrina diventa il compendio
della cosa cristiana. E se con la dottrina sta e cade sempre anche la vera
fede, a ogni differenza dottrinale segue necessariamente una nuova divisio­
ne della chiesa. Non la 'cerebralizzazione' è quello di cui il cristianesimo
del secondo millennio ha sofferto; ma un concetto non biblico di verità, il
quale ha perso di vista che la verità dottrinale può essere solo e sempre
secondaria.
Le antiche professioni di fede del primo millennio della storia della chie­
sa cristiana erano invece ancora sagge. Esse infatti propongono ancora pre­
valentemente delle esplicazioni narrative del nome del Padre e del Figlio e
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 79

dello Spirito Santo, e precisamente nello stile della preghiera. I tre articoli
cominciano infatti ogni volta con il nome e poi raccontano quel che il porta­
tore del nome ha fatto. Questo è prec isamente lo stile della preghiera
(«Signore, che hai fatto . . . »). Concepire questi formulari delle professioni di
fede in modo diverso, cioè come dogmatiche brevi, equivarrebbe chiara­
mente a chiedere troppo a qualsiasi immaginabile intelletto umano. Le pro­
fessioni di fede non sono un discorso dogmatico su Dio, ma sono una com­
pitazione dei suoi atti sotto forma di lode a lui indirizzata. Di più noi non
possiamo veramente fare.

CAMBIAMENTO DI PARADIGMI

Cerchiamo di riflettere: se Gesù Cristo è la stessa verità, allora la parteci­


pazione a questa realtà onnidecisiva è anche il fondamento del cristianesi­
mo. Allora la parola di Dio non è una dottrina, non equivale a parole presun­
tamente autentiche di Gesù, ma è la potenza del Creatore divenuta presente
e ora salvante. La realtà dell' essere cristiani diventa afferrabile nel modo
migliore nell' immagine della vite (Gv 1 5).
Come l' abituale fraintendimento del discorso biblico della verità operi è
cosa che possiamo facilmente constatare a proposito di Gv 8,32: «La verità
vi farà liberi». Pure nella predicazione questa frase è di solito così interpre­
tata: la chiarezza circa il passato, la scoperta impietosa, l ' ammissione sin­
cera renderebbero liberi e sarebbero di sollievo alla coscienza. Invece al
centro della frase c ' è qualcosa di completamente diverso: l ' incontro con la
realtà di Dio in Gesù Cristo significa la fine del peccato, e questo significa
libertà dalla morte, dalla distruzione, dal freddo. La verità non è qui una
illuminazione, ma la realtà salvante e vivificante di Dio stesso. E il 'cono­
scere' , di cui parla Gv 8,32, è l' apprendimento pratico, l' incontro intenso
(come nel caso di Adamo e Eva: «E Adamo conobbe sua moglie . . . », Gen
4, 1 ) .
S e quindi l a permanenza viva nella vite è primaria, allora l a conservazio­
ne dell ' unità nell' amore è di primaria importanza. Allora la forma in cui la
chiesa si presenta è l' interpretazione primaria e più importante del messag­
gio. La forma fenomenica della chiesa è il mezzo più importante della tra­
smissione del vangelo. Soprattutto attraverso se stessa la chiesa dovrebbe
mostrare cosa c'è di vero nella sua verità.
Ciò significa un cambiamento di paradigmi: secondo la concezione bibli­
ca la credibilità non la si raggiunge in primo luogo mediante l' adattamento e
80 seconda parte

la modernizzazione del messaggio, bensì, in una ermeneutica, di primaria


importanza diventa il segno che la chiesa stessa rappresenta e può rappre­
sentare.

Un esempio concreto: se in chiesa si comunica: «ll gruppo delle donne si raduna


martedì alle 20» e, per il resto, nient' altro a questo proposito, allora gli ascoltatori e
le ascoltatrici che non fanno parte di questo gruppo hanno l' impressione che si tratti
di una società chiusa. L' annuncio non contiene alcun invito per estranei, alcuna
indicazione del luogo. Gli iniziati lo conoscono già. Questo è un esempio tipico di
'società chiuse' in seno alle comunità parrocchiali.
Conseguenze concrete dovrebbe avere tale pensiero anche per ciò che nella 'mis­
sione' si fa pervenire ai destinatari. È noto infatti che è in prima linea l'esempio dei
cristiani ad essere efficace e non tanto la dottrina presentata in modo affascinante.
Con il termine esempio intendo il modo giusto di affrontare la vita e la morte, anche
il peccato e la colpa, il modo giusto di sperare e di affrontare la delusione. Gesù
conosceva bene l' efficacia accattivante dello stile di vita, e Matteo ha formulato a
chiare lettere questo fatto in Mt 5 , 1 3 - 1 6.

Il presunto ideale di Lessing: «Qu,anto più atemporale, tanto meglio, tanto


più vero e tanto più razionale», non può essere l' ideale della verità cristiana.
Con questo non dissolviamo naturalmente la verità cristiana nell' atomi­
smo, nella soggettività e nell' arbitrarietà. Le universalità limitate qui propo­
ste (vedi sopra) sono tutt' altro che lampi individuali. Inoltre le universalità
limitate sono tra loro verticalmente e orizzontalmente collegate come cerchi
olimpici (cioè attraverso la storia e nel presente), collegate attraverso la sto­
ria degli influssi dei testi. Ma poiché ogni testo significa in ogni tempo - a
ben vedere - qualcosa di diverso, l'unità del cristianesimo non può in primo
luogo consistere in una verità proposizionale identica, bensì - per quel che
riguarda la realtà empirica - nella successione dei battezzati (uno battezza
l' altro, non ci si può battezzare da soli) e nella trasmissione della 'potestà' .
- Il vantaggio di questo tipo di considerazione è il seguente: la parola cri­
stiana non diventa tanto più vera quanto più essa sembra essere sganciata
dal tempo. Piuttosto: essa diventa tanto più vera quanto più credibili sono i
suoi portatori (il che non significa che essi debbano essere dei campioni di
virtù).
Il concetto di chiesa così inteso non conosce alcun serio contrasto tra la
chiesa come creatura verbi, intesa nel senso della parola della creazione, e
la chiesa come assemblea di coloro che amano la stessa cosa (Agostino). Se
la chiesa stessa è un segno importantissimo già nella sua forma fenomenica,
pure il culto della chiesa assume una grande importanza ermeneutica.
Ciò significa: il fatto filologicamente dimostrabile che la dottrina e i dog-
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 81

mi hanno una storia, arricchito della posizione sobria dello storicismo e filo­
soficamente consolidato dai frutti gnoseologici della fisica teoretica del
secolo xx, porta di fatto a una attesa riscoperta di rappresentazioni bibliche
dell' 'ermeneutica' nel senso della felice trasposizione (applicazione, inter­
pretazione) del messaggio.
Di conseguenza la concezione della verità e dell' ermeneutica qui propo­
sta significa una chiara presa di distanza dallo sviluppo della filosofia occi­
dentale della riflessione da Descartes in poi.
Per Descartes stava in primo piano soprattutto la questione della certitu­
do. Dal 1 7 1 9 in poi si parla quindi anche in Germania di «certezza della
fede» (rispetto al dubbio, alla mancanza di fede ecc .). Se uno raggiungeva
tale certezza con il pensiero, allora la fede era il modo migliore di pensare.
La Bibbia è invece troppo estroversa per permettere ai cristiani di trovare la
pace nella certezza via via riflessa del singolo credente. lo trovo il mio
sostegno nella controparte (Dio), non nella certezza, riflessivamente acquisi­
ta, della mia fede.

CRITICA DELLA FILOSOFIA DELLA RIFLESSIONE

Già in partenza lo schema proposto rappresenta una critica nei confronti


delle concezioni 'idealistiche' tradizionali, quali sono state in particolare
elaborate dalla tradizione tedesca, nella scia di Kant, dal secolo XIX in poi e
che potrebbero essere catalogate sotto il titolo di «filosofia della riflessio­
ne». Neppure lo schema di H. G. Gadamer riesce, nonostante tutta la sua
critica presa di distanza, a sottrarsi all' influsso della filosofia della riflessio­
ne27. Il distintivo principale di questa tradizione è un universalismo raziona­
listico, cioè l'estensione dei problemi della teoria della conoscenza a una
filosofia della storia dalle pretese universali. Anche posizioni che dipendono
sostanzialmente dal marxismo, come quella di J. Habermas, sono in fondo
debitrici di questo modello.
Se qui di seguito critichiamo questo modello, lo facciamo anzitutto dal
punto di vista di una esegesi di tipo storico-religioso che, rispetto a sistemi
complessivi universali, è di per sé un' esegesi segnata da brutte esperienze e
che non vorrebbe a nessun costo saltare il campo dell' esperienza storica
concreta.

27 Cfr. M. FRANK ( 1 977), per es. 33.49.


82 seconda parte

Nel frattempo la critica mossa alla filosofia della riflessione assume un


tono più generale. M. Frank si richiama a Schleiermacher contro l' 'autosuf­
ficienza' della riflessione e fonda il dubbio di Schleiermacher nei confronti
di una ragione che afferma se stessa nella trascendenza dell' essere rispetto
all ' autoconoscenza del soggetto28• - Nelle sue riflessioni sull' ermeneutica
nell' era postmoderna W. Nethofel lamenta un attaccamento incessante alle
«determinazioni empiriche cattive dell' impostazione trascendentale della
riflessione»29•
Nel corso della chiarificazione di questa posizione e quindi in certo qual
modo dopo di essa è emersa molto spesso una concordanza con posizioni di
filosofi ebrei di questo secolo (F. Rosenzweig, W. Benjamin, H. Jonas). Tali
concordanze sono forse frutto anche di una precomprensione circa l' antico
ebraismo, da cui è chiaramente possibile 'ereditare' un punto di vista critico
simile.
Nella moderna discussione circa l' ermeneutica si è ripetutamente criticato
almeno in forma implicita la 'filosofia della riflessione' ·e la 'filosofia della
coscienza' , nonché il 'logocentrismo' dell' idealismo tedesco, anche se il più
delle volte ci si è fermati a mezza strada30• In fondo tale critica risale già a
Fichte, che si imbatté nell' impossibilità di spiegare l' autocoscienza secondo
il modello della riflessione3 1 •
Comuni alle concezioni della filosofia della riflessione sono la dottrina
dell' universalità della ratio discorsiva e l' affermazione che tutto il particola­
re non è essenziale. M . Frank ha dimostrato che lo Spirito Santo quale
garante della verità metatemporale era già stato sostituito al tempo dell' illu­
minismo dalla ragione naturale universale. E già Schleiermacher solleva
qualche dubbio a proposito di questa «ragione affermante dogmaticamente
se stessa»32, allorché pone al primo posto della riflessione ermeneutica la
considerazione della possibilità che il testo sia appunto in tutto e per tutto
estraneo.
Naturalmente questa critica viene di regola effettuata su uno sfondo assai
irrazionale. In Heidegger l' uomo è in balia dell' essere, in Gadamer è espo­
sto all' influsso della storia, secondo l' interpretazione di Schleiermacher data
da Frank Dio è, nella sua qualità di realtà fondante il soggetto, 'inconscio' .

28
Cfr. M. FRANK, op. cit. , 1 1 1 . 1 5 1 s.
29 W. NETHQFEL ( 1 987), 2 1 1 .
30 M . FRANK ( 1 977), 50: la «rottura con il narcisismo della relazione con se stesso>> sarebbe stata

effettuata solo di malavoglia.


" M . FRANK, op. cit. , 94.97.
32 M. FRANK, op. cit., 1 50s.
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 83

La reazione più importante contro la filosofia della riflessione è pertanto in


effetti anche l' ermeneutica psicologica odierna ispirata il più delle volte a S.
Freud e a C. G. Jung.
Dobbiamo domandarci se tale critica non vada piuttosto effettuata a) con
l' aiuto di una teoria della contingenza e b) mediante il programma di
un' ampia analisi. L' aspetto etico sta in tal caso nel fatto che l ' agire
dell'uomo, lo spazio di questo agire (società, chiesa), le sue condizioni e il
suo soggetto (per es., la minoranza critica) balzano al centro dell' attenzione
molto più fortemente che non in qualsiasi ermeneutica ispirata alla filosofia
della riflessione. L' aspetto estetico sta nel fatto che la corporeità e la sensi­
bilità assumono un altro valore posizionale nell' ermeneutica. Diversamente
da quanto avviene negli schemi psicologici (C. G. Jung, S. Freud), non si
sarebbe qui tentati di cedere a fissazioni dogmatiche.
Con questi ripetuti attacchi alla filosofia della coscienza ho di mira la
base di una diffusa ermeneutica che, nonostante tutte le affermazioni in con­
trario, non può negare di avere la sua origine nel neokantismo di Marburgo.
In particolare penso con questo alle varie forme della concezione della fede
come autointelligenza e, parallelamente a ciò, a una teologia ipertrofica del­
la parola di Dio, che sottolinea in maniera unilaterale l' ascolto e la com­
prensione. Queste concezioni di R. Bultmann e di K. Barth poggiano, per
quanto stimolanti esse siano state, su predecisioni filosofiche molto unilate­
rali e molto europee (secolo XIX). Io mi rifiuto di adottare tali predecisioni a
scatola chiusa, perché le ritengo antropologicamente riduttive33• Vorrei com­
pletare queste osservazioni con la dimensione dell' esperienza religiosa qua­
le base, della sensibilità della mediazione nella prassi dell ' applicazione e,
non da ultimo, con la dimensione della chiesa quale cornice sociale di tutto
l' agire applicativo.

" Cito con gratitudine TH. SUNDERMEIER, Nur gemeinsam konnen wir leben. Das Menschenbild
schwarzafrikanischer Religionen, Giitersloh 1 988. Quanto vi viene esposto è molto più vicino al
pensiero biblico che non la tradizione filosofica del secolo XIX. - In modo simile quanto all'inten­
zione: K. BERGER, Historische Psychologie des Neuen Testaments (SBS 146/147), Stuttgart 1 995'
[trad. it., Psicologia storica del Nuovo Testamento, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1 994] .
84 seconda parte

POSIZIONI CRITICHE

Husserliani di sinistra

Contro il predominio della tradizionale filosofia della riflessione si schie­


ra M. Merleau-Ponty, l' allievo francese di Husserl34• La sua concezione si
oppone a quella della ragione a se stessa trasparente. La filosofia non
dovrebbe infatti dimenticare la dipenàenza della conoscenza da atti preog­
gettivi della vita. Perciò il soggetto trascendente viene ricondotto ad essere
un soggetto esistente e incarnato. Dal momento che la filosofia è legata
all'esperienza della fattualità, la riduzione trascendentale viene retrodatata
nel processo storico, da cui essa deriva: la coscienza è in ogni caso corporal­
mente incarnata e sussiste ·all' interno di determinati contesti in campi espe­
rienziali concreti. La base della critica è perciò la costituzione corporea e
storica dell' uomo. Ma il mondo e la storia non diventano mai un sistema fat­
to di rapporti trasparenti. - Noi prendiamo da questa concezione l' importan­
te scoperta della corporeità (e quindi della storia e di tutte le condizioni con­
crete) al punto di partenza della filosofia della riflessione.
All ' entità dell"inter ' o 'tra' (Zwischen) di Husserl si ispira anche M.
Theunissen ( 1 97 1), che fonda su questa concezione una critica antiindivi­
dualistica della filosofia della riflessione . L' ' inter ' è la base previa
dell' incontro costitutivo con l' altro.

Il «soggetto privato comune» (F. Rosenzweig)

Costitutiva per la filosofia di Franz Rosenzweig è una critica della tota­


lità: l ' uomo non può risolversi in alcun sistema perché egli è soggetto .
Secondo Rosenzweig l' uomo si sperimenta come soggetto attraverso la pau­
ra della morte e attraverso la rivelazione, che lo interpella. - Di fronte alle
concezioni trascendentali Rosenzweig difende la legittimità del relativismo:
il soggetto riserva a se stesso uno spazio, di cui è il centro, e un tempo, di
cui è l' origine.
Se poniamo il soggetto in rapporto a uno spazio assoluto e a un tempo
assoluto, finiamo con questo per eliminarlo e per annientarlo. Invece contro
ogni sistema della ragione assoluta dobbiamo obiettare: «Io, in tutto e per
tutto soggetto privato comune, sono pur qua» . Ma sulla base di questa evi-

34 Cfr. al riguardo K. MEYER-DRAWE ( 1 985).


Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 85

denza la soggettività e non l' oggettivistica filosofia della riflessiòne è il


punto di partenza della ricerca della verità: la soggettività non è un ostacolo
sulla via della ricerca della verità, ma ne è la condizione35• - Punto di parten­
za è qui la soggettività resistente ai tentativi della spiegazione sistematica.

La sollecitudine per il contingente (H. Jonas)

L' assioma fondamentale di Das Prinzip Verantwortung ( 1 984) [Il princi­


pio responsabilità] è diretto contro le concezio-ni idealistiche, perché l' etica
che esso propugna non cerca di realizzare valori e principi metatemporali.
Non la deducibilità generale da un imperativo categorico universalmente
valido o la giustificazione davanti ad esso possono fornire nella odierna
situazione il criterio, bensì solo la reazione alla richiesta di sopravvivenza e
la sollecitudine per l' essere contingente stesso. Non più l' eternità e il gene­
rale conferiscono un senso all' esistenza umana, bensì solo la salvezza e la
conservazione di esseri viventi vulnerabili, finiti e minacciati. Punto di par­
tenza è l' evidente esperienza del fatto che il vivere è cosa più dotata di sen­
so del non vivere.

La sfida semiologica (P. Ricoeur)

Secondo P. Ricoeur non è del tutto possibile trasporre la «semantica del


discorso dell' altro» nella propria autocoscienza. Ciò per diversi motivi: da
un lato l ' uomo, data la sua corporeità, non è trasparente al 'cogito' (un
segno questo che egli non è padrone di se stesso e che è votato alla morte),
mentre dall' altro lato è 'situato' prima ancora di porsP6• E infine tutte le
manifestazioni verbali dell' uomo sono segno di qualcosa che non sarà mai
in se stesso accessibile (per esempio di desideri, di pulsioni, del 'sacro' )37•

Sospetto di ideologia

Nei confronti di tutti i sistemi razionalistici totalizzanti è possibile avan­


zare il sospetto di ideologia: non si tratta di regole che devono sempre ,aver
ragione anche quando esse «non si addicono bene al singolo»? Non si

" Cfr. al riguardo S. MosES ( 1 985), 2 1 .35.


"' Su questi due punti cfr M. BùHNKE ( 1 983), 2 1 s
. .

·" Cfr. M. FRANK, op. cit.


86 seconda parte

'sacrifica' spesso troppo facilmente il singolo e l' individuale a favore della


conferma del sistema? In caso di dubbio, per mantenere lo schema sistema­
tico, non si fa violenza ai singoli elementi in modo tale da conservare
l' armonia? Per quanto ci sia certamente bisogno di progetti sistematici (che
sono però giustificati solo come progetti parziali), il loro limite è continua­
mente indicato dalla tentazione di ricorrere alla violenza, di non tener conto
di certi argomenti e di comportarsi in modo disonesto. 'Ideologica' io chia­
mo in questo caso l' autonomizzazione del progetto, cosicché esso diventa in
senso stretto irrefutabile. Il sostenitore di un' ideologia è in grado di rispon­
dere con fermezza ad ogni domanda, e siamo di fronte a un' ideologia quan­
do la teoria è così disgiunta dai fatti da non essere più correggibile mediante
questi ultimi.
Rispetto ai sistemi totalizzanti della filosofia della coscienza, qui il punto
di partenza viene cercato nell' esperienza concreta e innegabile.

INDIVIDUALITÀ

Quando M. Frank afferma: «Il potere e l' irriducibilità dell' individuo sono
solo l' altra faccia della trascendenza dell ' essere rispetto al senso»38, ciò
significa: noi non possediamo noi stessi, il nostro essere così come quello
dell' altro rimangono trascendenti rispetto alla nostra autoconoscenza39• Esi­
ste perciò una stretta connessione fra la tradizionale filosofia della riflessio­
ne e la perdita della dimensione della soggettività individuale. Ma il fonda­
mento del rimanere-trascendente-a-se-stessi già dell' individuo sta - così la
vedono pure Merleau-Ponty e Ricoeur - nella corporeità dell' uomo: solo un
individuo è capace di soffrire. La conformità ha sempre significato la capa­
cità di evitare la sofferenza. La percezione della sofferenza e del bisogno,
l' importanza dell' individualità e la critica della filosofia della riflessione
sono strettamente collegate fra di loro.
Il conflitto tra potere e essere vivo non è solo e non è in primo luogo un
fenomeno culturale storico, bensì un fenomeno fisicamente sperimentato.
Nel conflitto tra potere e essere vivo la corporeità dell 'uomo è una specie di
spalla e di criterio. Mentre gli uomini sono fuorviabili nella loro argomenta­
zione razionale, il corpo fornisce una evidenza non ignorabile della soffe-

" M. FRANK ( 1 977), 1 32.


'9 Cfr. M. FRANK, op. cit., l 5s.
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 87

renza nel caso dell' uso fisico e psichico della violenza e nel caso di ogni
forma di tortura e di dolore. Così nella vita quotidiana la situazione di un
uomo diventa spesso riconoscibile in primo luogo in base alla sua sessua­
lità. Ma anche in linea del tutto generale possiamo dire: il corpo deve 'sconta­
re' tutto questo. La morte è in tutte le sue forme lo stipendio dell' ingiustizia.
Rom 7,24 formula l' evidenza delle conseguenze del 'peccato' e dell' ingiusti­
zia con grande accortezza proprio in rapporto al corpo dell'uomo.
Si tratta dell' evidenza dell� violenza esercitata sul singolo da qualsiasi
sistema che è 'al potere' . Si tratta dell' evidenza della sofferenza dell'uomo
provocata dall' ingiustizia esistente tra gli uomini, una situazione questa in
cui più si guardano le cose a fondo e più la questione della colpevolezza o
dell' innocenza passa in secondo piano.
A differenza della scuola della sinistra husserliana noi non vediamo per­
ciò come punto evidente di partenza la corporeità dell'uomo 'in sé' , bensì la
«corporeità nel conflitto» quale luogo dove si svolge il conflitto tra potere e
essere vivo. Il conflitto tra potere e essere vivo è pertanto un conflitto intra­
storico e quindi anche un conflitto politico, perché esso si accompagna alla
questione della responsabilità nella storia e della giustizia.
Proprio le concezioni ermeneutiche 'progressiste' del secolo XIX (D. F.
Strauss) e della prima metà del secolo .xx (R. Bultmann) si sono finora distin­
te per una coerente svalutazione della fattualità. Ciò si manifesta in modo
particolare nella questione della storicità dei racconti di miracoli. La conce­
zione che qui proponiamo va piuttosto in direzione opposta e su questo punto
non si concepisce più in modo idealistico, bensì come già reperibile alla fine
dell'illuminismo. Infatti tutto lo storico appare qui in linea di principio come
importante per la fede (anche se sicuramente non nel senso di una fondazione
causale). E la fede non è diretta all' universale rispetto al particolare trascura­
bile. La fede non va in questo senso paragonata alla conoscenza astraente, e
di conseguenza qui anche la verità è concepita in modo diverso.
Questa valutazione radicalmente diversa della relazione tra fede, cono­
scenza, verità e individualità è strettamente collegata al mutato valore posi­
zionale della dimensione storia. Diversamente dalla filosofia idealistica non
facciamo qui il tentativo di abbordare il cristianesimo vedendo in esso un
complesso di idee idealisticamente concepite come la vera dottrina, ma cer­
chiamo piuttosto di affrontare la dimensione della storia. Per giustificare
questo cambiamento di prospettiva gravido di conseguenze dovremmo qui
menzionare tutto ciò che abbiamo già obiettato alla posizione idealistica di
H . G. Gadamer e ciò che già J. Habermas ha in parte detto al riguardo. Que­
sto interesse per la concretizzazione storica ha come conseguenza anche una
diversa posizione ermeneutica dell' etica.
88 seconda parte

Uno dei motivi di questa posizione divergente è la mutata valutazione del


rapporto tra antica e nuova alleanza, tra Israele e la chiesa. Se infatti il cri­
stianesimo non è in primo luogo una dottrina vera, ma è nella sua qualità di
entità sociologicamente strutturata (chiesa) parte della storia inaugurata da
Abramo, allora anche il fatto che Gesù fosse un ebreo diventa importante
per il nostro essere cristiani. Il cristianesimo non è una religione razionale,
bensì credere significa partecipare a una storia concreta e il fatto che io sto
dalla parte di questa storia. La conseguenza: contrariamente alla concezione
di Strauss, Fichte40 e Bultmann, tutto l' oggettivabile di questa storia (quindi
anche tutta la 'cronaca' ) è di grandissima e fondamentale importanza per la
fede cristiana. Tutto questo infatti fonda un' identità storica essenzialmente
concreta, che trapassa nella forma della fede o continua a far sentire in essa i
suoi effetti. Nella fede del singolo l ' universalmente valido non va infatti
separato dal particolare come se la sua fede fosse formulabile senza riguar­
do alla storia effettiva.
L' insistenza sulla concretizzazione storica ha perciò qualcosa a che fare
con l' affinità tra ebraismo e cristianesimo e con il rifiuto di tendenze odier­
ne a livellare e a non tener conto della forma specifica di singoli gruppi
(opposizione contro ogni ecumenismo livellante) . La fede non si riferisce
all ' universale, e perciò nello spazio dell' ebraismo e del cristianesimo la
diversificazione, la segregazione e la distinzione sono segnali particolari sul
piano dell' oggettivabile. Quel che nella Bibbia si presenta come 'stato di
elezione' è per noi oggi la storia particolare distinguibile.

3. Ermeneutica deli' estraneità

Se mi limito semplicemente a 'credere' l' affermazione di un testo, questa


non mi disturba più. La stessa cosa avviene anche se, mediante metodi stori­
co-critici, confino il testo in una grande lontananza. La sua affermazione
viene infatti neutralizzata da analisi e da un inquadramento storico. Queste
due vie si oppongono perciò a un influsso del testo nella situazione attuale.
Come è possibile, da un lato, giudicare storicamente e, dall' altro lato, non
privare il testo della sua capacità di influire, ma far proprio così entrare tale
capacità in azione? Ciò lo si potrebbe fare con un metodo rispettoso di veri-

40 Cfr. K. BERGER ( 1 986), 1 9s.


Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 89

fica e con un modo di affrontare il testo storico che ne metta in luce la ric­
chezza. Per 'ricchezza' io intendo tutto ciò che può venire in aiuto della
nostra indigenza, che è abbastanza spesso condizionata da paraocchi. Quali
esempi menzioniamo le prospettive future e le 'visioni' del futuro che i testi
apocalittici possono trasmettere. L'esperienza mostra che l' ermeneutica qui
proposta sembra essere in ogni caso particolarmente adatta a evidenziare
questi tesori, mentre altre ermeneutiche non suscitano neppure la curiosità a
loro riguardo.
Il principio dell' ermeneutica dell'estraneità deriva da F. D. E. Schleier­
macher, il quale parte dal fatto che la non comprensione dell' altro è il caso
normale, per cui il criterio di verità di volta in volta chiamato in causa
diventa indissolubile «dall' autointelligenza di individui che tale criterio con­
dividono»4 1 . Perciò, per pervenire alla ' verità' , rimane solo la via della
comunicazione ermeneutica. La ragione non è infatti universale e metatem­
porale, bensì esiste solo nella concretizzazione storica42. L' ipotesi che un
testo sia estraneo è perciò un' esigenza del rispetto dovuto alla peculiarità
dell' autore. Chi . vuole rendergli giustizia deve autocriticamente partire dal
fatto che forse lo ha frainteso e dovrebbe perciò cercare di eliminare i possi­
bili fraintendimenti mediante un costante controllo esercitato attraverso lo
studio del contesto.

Di questa cautela non fanno naturalmente parola diverse ermeneutiche odierne.


Troppo spesso esse affermano che il testo acquisirebbe il proprio significato o il
proprio senso solo nel corso dell'ulteriore applicazione, la quale di regola non si
curerebbe né avrebbe bisogno di curarsi dell' intenzione dell' autore. Io non condivi­
do questa forma di crescita sfrenata di significati dei testi.

Una delle tesi fondamentali di questa ermeneutica è che l'estraneità sco­


perta e compresa delle proprie basi può essere un punto di partenza per
l' auspicata innovazione. L' importante è qui che la chiesa sia sufficientemen­
te tranquilla e forte da ammettere la diversità delle proprie fonti nel proprio
spazio (e da non sequestrarle piuttosto sempre). La chiesa, ammettendo
un' esegesi teologica storica, dimostra di essere veramente 'cattolica' , perché
è capace di ammettere l ' esistenza di cose diverse, storicamente non più
immediatamente vicine e non più direttamente utilizzabili, e di prestare cio­
nonostante loro attenzione.

41 M. FRANK ( 1 977), 1 52s.


42 Cfr. M. FRANK ( 1 977), 1 52. 1 57.
90 seconda parte

Ora esistono sempre molte vie per rimuovere e neutralizzare l'estraneità e


la diversità di testi. Una di queste vie consiste nelle 'costanti antropologi­
che ' , con il cui. aiuto l' esistenza umana andrebbe considerata come la comi­
ce permanente delle varie affermazioni. Rappresentanti di altre scienze uma­
ne (psicologia e sociologia) hanno seguito in questo sforzo i fautori
dell' antropologia filosofica. In singoli casi le loro problematiche furono e
sono ragionevoli e stimolanti. Ma di regola le cose non si fermano qui. Non
conosco alcun esegeta che non si sia lasciato indurre a trasporre in maniera
pura e semplice le leggi delle moderne scienze della religione, leggi quasi
simili a quelle delle scienze naturali, al Nuovo Testamento. In questo modo
l ' autonomia e l'estraneità di tali testi va semplicemente perduta. Ciò vale
dalle rivolte dei contadini di D. Crossan fino all' applicazione della dogmati­
ca di C. G. Jung e di S. Freud al Nuovo Testamento operata da E. Drewer­
mann. È infatti forse almeno possibile fare il tentativo di adottare sì la pro­
blematica antropologica, ma poi di trovare una risposta neotestamentaria43•
In questo contesto l' apertura asistematica del linguaggio scientifico quoti­
diano assume, a mio parere, una nuova importanza.
Chi parte dalla estraneità dei testi deve in continuazione insistere sul fatto
che i sistemi o i sistemoidi moderni sono molto insufficienti, perché deve
temere che all ' affermazione specifica del testo ne venga sovrapposta
un ' altra e le sia in certo qual modo impedito di parlare. La tendenza a fare
questo è sempre presente già per il fatto che esiste la tendenza clericale a
desiderare e a rappresentare la chiesa come uniforme.
Comunque la ricostruzione dell' estraneità non è fine a se stessa, ma serve
a render visibile la ricchezza del testo. E quanto più grande è la distanza,
tanto più grande è anche la libertà di cui l' interpretazione e l' applicazione
godono. Questa è l ' altra faccia del fatto che la «lealtà verso l' autore» (vedi
più avanti) dei testi biblici opera spesso in grado sempre minore man mano
che cresce la distanza.
Di fronte a questa 'libertà' gli spiriti si dividono. Per 'libertà' intendia­
mo: il testo biblico, essendo un testo specifico non sequestrabile, composto
per una determinata situazione e determinati uomini, non può essere dichia­
rato letteralmente e semplicemente valido anche oggi. Anche se uno deside­
rasse una cosa del genere, perché ama la Scrittura sopra tutto, si inganne­
rebbe tuttavia in parte, se la ritenesse valida per oggi così come essa sem­
plicemente è.

43 Ho fatto questo tentativo in Historische Psychologie des Neuen Testaments (SBS 1 46/ 147),
Stuttgart 1 9953 [trad. it., Psicologia storica del Nuovo Testamento, Edizioni San Paolo, Cinisello
Balsamo 1 994] .
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 91

A questi problemi abbiamo già accennato all' inizio. - Una soluzione me


la rappresento in questo modo:
l . L' affermazione della Scrittura è valida, vincolante, e ad essa occorre
obbedire. La Scrittura è infatti l' unica via di accesso agli inizi posti con
Gesù e con la storia d'Israele. Il cristianesimo, non essendo una filosofia, ha
bisogno di accertarsi criticamente ricorrendo a questi inizi.
2. La Scrittura è un documento non sequestrabile dell' inizio irripetibile.
Perciò è impossibile considerarla già di per sé come una legge eternamente
sussistente, sempre ugualmente e astoricamente valida, come una legge che
andrebbe sempre e solo applicata. La dimensione dell' eternità atemporale è
estranea alla Scrittura così come le è estranea l' idea che i primi documenti
cristiani potrebbero o dovrebbero rappresentare una specie di legge.
3. Esiste piuttosto una distanza tra la Scrittura e il presente, una distanza
caratterizzata

a) da una lunga e sottile serie di influssi storici, che ha prodotto numerose nuove
interpretazioni;
b) da molteplici nuove inculturazioni del messaggio collegate a cangianti interes­
si.
A questo proposito dobbiamo osservare che non esiste una cultura cristiana uni­
taria e che lo stesso cristianesimo è sempre e solo esistito in una forma multicultura­
le. Potremmo chiamare questo fatto anche sincretismo religioso. Il tentativo di indi­
viduare un 'vangelo puro' indipendente dalla cultura è un pio desiderio di umanisti
del secolo XVI formati alla scuola della filologia classica. La sostanza di ogni 'mis­
sione' consiste nel tentare una nuova inculturazione e nel non stabilire ansiosamen­
te a priori (a casa) fino a che punto è possibile 'andare' . Il necessario risulta dalla
convivenza tra messaggeri della fede e destinatari. Una convivenza ben riuscita è
sicuramente già sempre di per sé un criterio. Per convivenza intendo un vivere
insieme di uomini diversi, vivere che nella chiesa assume la sua forma più concreta
nel convivium (convivio).
c) da un crescente estraniamento nei confronti della situazione originaria del
testo.

4. Di fronte alla distanza temporale sarebbe falso e irrealistico affermare


che la Scrittura potrebbe avere oggi lo stesso significato che aveva per i
primi destinatari . Poiché la situazione è diversa, tale diversità riguarda
anche il grado di obbligatorietà. E per questo grado bisogna indicare dei
criteri .
5. B isogna dimostrare che tali criteri non sono arbitrari.
6. La dimensione della storia non va presa sul serio solo per quanto
riguarda gli inizi, bensì anche per quanto riguarda il presente sempre nuovo.
92 seconda parte

Ciò vieta un' applicazione legalistica della Scrittura e un' obbedienza lettera­
le priva di senso. La libertà storica è il problema e, nello stesso tempo, la
possibilità.
7. Occorre domandarsi: che ruolo dovette e deve propriamente svolgere il
canone? Sarebbe chiaramente cosa contraria alla sostanza della libertà cri­
stiana, se il libro dovesse rappresentare l' unica fonte per tutte le questioni
del mondo. Per libertà cristiana intendo il fatto che i cristiani possono essere
liberi di riconoscere in una data situazione la 'volontà di Dio ' , perché essi
sono 'vigili' , 'sensibili' e guidati dall' amore. Dall' altro lato bisogna mettere
in risalto la particolare validità della Scrittura. Essa va difesa sino al limite
del possibile, un lavoro questo che io chiamo 'lealtà' (vedi più avanti il
capitolo «Lealtà e libertà»).

OBIEZIONI CONTRO UN' ERMENEUTICA DELL'ESTRANEITÀ

Il mondo della Bibbia è indubbiamente estraneo agli uomini (nel senso


che essi non lo comprendono e che tale mondo non è loro familiare). Dob­
biamo qui renderlo ancora più estraneo? Chi può mai infatti vantare di pos­
sedere una via di accesso a questi testi antichi? A chi tali testi potrebbero
dire qualcosa? A molti essi non dicono più nulla e sono tuttavia in questo
senso estranei ! E. Drewermann non è uno 4ei pochissimi che superano tale
estraneità? E tuttavia proprio i suoi metodi vengono in questo libro aspra­
mente criticati?
Viceversa: nella nostra società esiste una grande fame di conferma e di
riconoscimento. Non riusciamo a sopportare l'estraneo, donde anche la ten­
denza a contemplare il proprio ombelico, a incontrarsi commossi con se
stessi. E proprio E. Drewermann non ha, a mio avviso, di fronte al testo del­
la Bibbia, tenuto conto del necessario reciproco estraniamento tra la situa­
zione e il testo e ha adottato in maniera pura e semplice il desiderio borghe­
se di conferma e di sicurezza. Il senso universale di umanità e il messaggio
completamente spogliato di ogni forma di angoscia confermano infatti solo
la carente audacia. La mancanza piccolo-borghese di consolazione è solo
avvolta, ma non cambiata dal senso molto generico di umanità. Il mancante
coraggio dell' avventura non viene così affatto sostituito.
Il traduttore ha il compito di indurre il recipiente ad essere attivamente
tollerante verso il testo propostogli. Il recipiente non è tendenzialmente lea­
le, ma bada al consumo; egli vuole introdurre il testo nella propria cultura e
Schenw di un 'enneneutica del Nuovo Testamento 93

non lasciarlo stare nella sua estraneità. Tuttavia una presentazione di testi
biblici non serve a nulla se essa si esaurisce in uno sfoggio di erudizione.
L' aureola museale, per esempio, del 'dizionario teologico' è frutto di una
estraneità non compresa. Comprendiamo l'estraneità se riusciamo a presen­
tarla in maniera attraente, tale da farle significare quel che all' uditore del
messaggio manca, qualora il messaggio sia l' altro pertinente. - Ciò avviene
per esempio per il fatto che i testi biblici possono influire svolgendo il ruolo
di immagini o modelli.
Due sono soprattutto le conseguenze da trarre nella cornice del nostro
schema di un' ermeneutica a partire dali' estraneità:
l . Un «metodo e una verifica rispettosi» nei confronti di tutti i testi 'miti­
ci' o ' soprannaturali' . Non può essere compito dell'esegesi criticare questi
testi e la loro concezione della realtà, bensì l' esegesi deve piuttosto lasciarli
stare come testimonianze a noi estranee di un' 'altra' fede e far porre da essi
in discussione noi e la nostra percezione.
2. L' esegesi va distinta dall' applicazione: si tratta perlomeno di due fasi
di lavoro. Se l' esegesi serve al tentativo di una ricostruzione storica - senza
saccenteria -, l' applicazione serve al tentativo di trovare delle teste di ponte
verso il presente. In questa operazione il testo biblico rimane. Il testo da
applicare compare accanto ad esso, ma certamente non al di sopra di esso.

CONSEGUENZE

l . La religione biblica presenta una estraneità, una diversità che scaturi­


sce dalla sua tradizione, esigenze spaventose come quella di Mt 5 ,27-30 e
cose sconcertanti come il comportamento incomprensibile di Dio verso
Israele (Rom 9-1 1 ).
2. La comprensibilità non può essere l' ultimo criterio per la produzione o
applicazione di testi. Esempio: i «lati abissali di Dio» secondo Rom 9, 19-22.
3. Un testo non deve necessariamente diventare 'diretto' e 'contempo­
raneo' . Bisogna anche poter !asciarlo stare lontano.
4. La conseguenza è la «tolleranza ermeneutica» . Il fatto che la cosa
importante non è solo la 'mia' verità è il presupposto dell' esistenza della
chiesa. La chiesa è infatti la convivenza di diversi.
5 . Questa multiforrnità è fondata anche nel divieto veterotestamentario
delle immagini. Poiché di Dio è possibile parlare soltanto in senso metafori­
co, esiste anche una 'distanza metaforica' , che fonda nello stesso tempo una
molteplicità di possibili schemi e concezioni teologiche. Se non è infatti
94 seconda parte

possibile racchiudere Dio in una immagine, diventa lecita una molteplicità


di immagini e metafore. Non può perciò esistere solo una teologia e solo un
segno che siano degni di Dio. E anche realtà sempre nuove, finora estranee,
possono diventare segni (apertura missionaria!).
6. L'estraneo, nella sua qualità di altro pertinente, ha a che fare con ciò
che di volta in volta non viene visto, non viene percepito, viene rimosso e
non ha valore. Ma in questo modo si stabiliscono dei collegamenti con il
ruolo della rivelazione nel ·mondo' . Infatti, in particolare secondo la visuale
a volte apocalittica del Nuovo Testamento, la rivelazione riguarda l' invisibi­
le, ciò che non è pubblicamente valido, ciò che attende la propria emancipa­
zione nell'eone futuro.
7. L' estraneo qualificato è la sofferenza. Né la sofferenza né altre diffe­
renze sono eliminate finché dura questo mondo. La diversità della Scrittura
(estraneità ermeneutica) è perciò solo una tra le altre. Essa sta sotto la pro­
messa che l' elemento doloroso di tale distanza sarà eliminato, ma che non è
appunto ancora eliminato. Chi invece fa come se esso fosse eliminato, corre
il pericolo di sequestrare indebitamente la Scrittura. L' amore ha infatti per
oggetto il non identico. Perciò la chiesa non è una universalità omogenea,
bensì sussiste sulla base della tolleranza e del compromesso.
8. Con l' applicazione delle moderne scienze umane l' estraneità va pro­
grammaticamente perduta, per quanto utile possa essere l' utilizzazione delle
loro problematiche. Solo che non bisognerebbe scambiare le domande con
le risposte. E per quanto riguarda la predilezione delle scienze umane per
termini tecnici di lingue straniere: in linea generale l' apertura del linguaggio
quotidiano sembra più adatta del linguaggio regolato di un sistema a scanda­
gliare l'estraneo.
9. L' estraneità è la condizione dell' efficacia. Infatti una Scrittura di nuovo
compresa nella sua estraneità può comunicare anche una nuova esperienza.
La nuova esperienza è ben riuscita se essa ha assunto una forma, che può
reggere il confronto con quella antica44•

44 Cfr. al riguardo le importanti osservazioni fatte da T. KocH ( 1 984), 3 1 5s.: «(2) L' argomento

della proiezione (cioè in cristologia) viene confutato soltanto se, in un primo momento, si delinea
il passato nella sua precisa peculiarità esclusivamente come ciò che è antiquato, tipico, estraneo e
lontano, quindi soltanto se si prende coscienza e si rispetta la distanza di Gesù da noi: le convin­
zioni e le esperienze di Gesù non possono più essere direttamente le nostre. (3) La teologia ... fa
spazio a un libero rapporto con il Gesù storico, rispettando la libera formazione della coscienza e
la conoscenza sempre individuale . .. (4) ... Solo un Gesù presentemente non sequestrabile può incar­
nare una provocazione e una critica nei confronti della coscienza attuale... (5) Questa relazione
attuale, costituita mediante l ' intenzione universale attuale della verità, con l' alterità estranea di
Gesù ci stimola precisamente a cercare di fare qualcosa di nostro nella teoria e nella prassi... (8) Le
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 95

10. L'estraneo può agire soltanto come l' altro pertinente. Ciò che è in tut­
to e per tutto estraneo non potrebbe infatti essere colto e compreso. L' effetto
più grande si ha lì dove si enuncia proprio la cosa limitrofa a quella abituale.
1 1 . Il canone serve a escludere una nuova rivelazione nel senso di una
rivelazione direttamente vincolante. Si può acquisire qualcosa di nuovo solo
alla luce della Scrittura, alla luce del testo più antico e abituale. I testi biblici
hanno infatti una loro propria insondabilità e furono spesso poco compresi e
insufficientemente recepiti. Questo non significa che il canone dovrebbe
essere la fonte di qualsiasi esperienza, ma significa solo che le esperienze
dovrebbero lasciarsi chiarire, criticare e articolare alla sua luce e «davanti ad
esso» . Che il nuovo assuma realmente forma in modo fruttuoso è soprattutto
una questione di linguaggio.
12. L'esegesi ha una grande importanza per la nuova esperienza del testo
antico. Infatti un testo divenuto muto non ha più nulla da dire. Qui sta inve­
ce il 'fallimento storico' dell' esegesi: essa avrebbe dovuto dischiudere la
ricchezza della Scrittura e ha invece prodotto ossari di erudizione.

4. n circolo della comprensione

FEDE E ESEGESI

L' esegesi è possibile senza la fede? Io penso di sì, però non senza amore
per il testo e non senza rispetto per il suo autore. E a mio giudizio non biso­
gnerebbe interrogarsi solo sulla fede come presupposto dell' esegesi, bensì
anche sulle conseguenze dell' esegesi per la fede.
Secondo Gadamer e molti altri (per es., U. Luz 1 982, 50 1 ) all' inizio c'è la
relazione con la cosa del testo, relazione in cui uno come lettore già da sem­
pre si troverebbe. A me sembra che qui venga applicato all' ermeneutica il
modello pietistico fondamentale di J.J. Rambach, a cui Gadamer ( 1 975,
292ss. [trad. it. , 358ss.]) e U. Luz ( 1 982, 50 1 ) si richiamano: come la reli­
giosità (fede) non sussiste senza la prassi, così la conoscenza non sussiste
senza partecipazione alla sofferenza di altri e senza amore del prossimo.

cristologie sono sotto questi punti di vista giustificate come prese di posizione rispondenti
al l ' autointesa cristiana di volta in volta attuale>>.
96 seconda pane

Problematico è però soprattutto questo: al testo interessa realmente la


stessa cosa, con la quale io come lettore ho un rapporto vitale? Inoltre posso
in qualche modo saperlo in anticipo?
Il discorso della 'cosa' (Sache) nella moderna ermeneutica teologica risa­
le a K. Barth, che nella seconda edizione della Romerbrief (Ziirich 1 922, XI
[trad. it. , Lettera ai Romani]) parla dell'enigma del documento e dell'enig­
ma del linguaggio. Però i teologi dopo K. Barth non parlano più dell' enig­
ma, bensì solo della cosa che conoscono già da sempre bene. Come .può
allora il testo esprimere ancora qualcosa di nuovo? Il pericolo di questo tipo
di ermeneutica: non si presta ascolto né al testo né ai destinatari odierni,
bensì si parla della 'cosa' . Ma l' identità della cosa non è data già col sempli­
ce fatto che il traduttore adopera la parola tradizionale (per esempio 'fede'
per pfstis). - lo devo partire da questo fatto: la cosa non è né data, né cono­
sciuta in antecedenza, ma va di continuo conquistata, sofferta e donata.
E per quanto riguarda la pretesa di un testo, all' inizio del lavoro non è
ancora stabilito se, per esempio, la lettera ai Romani, indirizzata alla comu­
nità di Roma, possa oggi avanzare la pretesa di poter dire qualcosa di deter­
minato in una situazione determinata.

DISTURBO DELLA RICEZIONE

Il compito di una riflessione ermeneutica sta, a mio avviso, nel dischiude­


re nuove possibilità a un testo, affinché esso possa essere compreso in modo
nuovo e influire in modo nuovo. E qui occorre infrangere il potere e l' abitu­
dine. Questo non si può naturalmente ottenere con semplici decisioni arbi­
trarie. Purtroppo quelli che mancano non sono uomini di buona volontà, ma
uomini informati, competenti, curiosi e molto aperti.

LA ROTIURA DEL CIRCOLO ERMENEUTICO

Il riconoscimento del carattere radicalmente storico dell' essere da parte di


M. Heidegger porta come conseguenza anche ad affermare che il circolo
della comprensione va soggetto a un continuo cambiamento. Tale cambia­
mento ha sue proprie leggi, che sono emotivamente condizionate. Pertanto
le tendenze di moda e il fenomeno dell' obsolescenza avrebbero un' impor­
tanza decisiva per il cambiamento.
Schei1UJ di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 97

Ora, diversamente da Heidegger e Gadamer, io vedo il problema di


un' ermeneutica critica nello studiare le stesse leggi di questo cambiamento e
nell' investigare il margine di azione forse così dischiudentesi. Non possia­
mo sperare di poter sfuggire al circolo della comprensione, bensì solo di
poter accompagnare in modo critico il processo dell ' innovazione. L'innova­
zione non scaturisce infatti solo sulla base di determinate esperienze ineludi­
bili e ininfluenzabili, bensì anche sulla base di determinate possibilità, che
nel caso favorevole non vengono coperte, bensì percepite.
Di qui viene che, quale problema centrale di un' ermeneutica critica, si
dischiude la possibilità di non seguire inattivi il cambiamento della precom­
prensione, bensì di anticiparlo criticamente e, quindi, di guidarlo. Con que­
sto non intendiamo parlare in favore di una fede acritica nel progresso,
come se gli uom.ini si avvicinassero per questa via sempre più alla verità. Si
tratta piuttosto di vedere ciò che già da sempre si sarebbe dovuto vedere,
vale a dire di verità necessarie. Si tratta perciò di non mettere a tacere le dif­
.
ficoltà e di non ignorare la sofferenza che va accumulandosi. - La tesi che
dobbiamo ora illustrare suona perciò : l' innovazione anticipatrice critica
avviene grazie alla sensibilità per ciò che è chiaramente difettoso. Tale inno­
vazione significa rottura (non lento cambiamento) della precomprensione
sino ad allora esistente, e ciò per amore di una reale 'contemporaneità' , alla
quale soltanto sono concessi margini di azione. Questa tesi è nata dali' espe­
rienza che, da secoli, l' applicazione ecclesiale rimane indietro rispetto al
proprio tempo e arriva regolarmente con decenni di ritardo. La causa di ciò
sta molto spesso chiaramente - in conseguenza del carattere emotivo dei
pregiudizi sopra descritto - in una apprensione per l' identità, anche e soprat­
tutto per l'identità di tipo teologico.
Appunto questa apprensione e mancanza di tranquillità e di apertura han­
no continuamente avuto come conseguenza quella applicazione tardiva.
Pure la reazione opposta - un falso adattamento ai tempi - è non meno fata­
le e penosa. Il nesso tra pregiudizio e emotività si manifesta, nel comporta­
mento di teologi e della chiesa, in modo particolare con la preoccupazione
ansiosa per l' identità teologica considerata sempre in pericolo. Tale appren­
sione ossessiva ostacola l' abbandono di pregiudizi tradizionali. Una serie di
possibilità di metter criticamente fine ai pregiudizi è la seguente:
l. Fondamentalmente si tratta della capacità di lasciarsi commuovere,
cioè dell' educazione alla sensibilità nei confronti di ciò che viene taciuto e
nei confronti di coloro che devono di volta in volta maggiormente soffrire.
2. Origine dell' innovazione/rottura del circolo è la percezione dell' estra­
neità di un testo e la presa di coscienza che tale testo non dice la stessa cosa
che dice il lettore . In questo senso sono d ' accordo con M. Trowitzsch
98 seconda parte

( 1 984) . Poi però questo autore parte dal presupposto che il lettore dovrebbe
lasciarsi correggere dalla 'cosa' , dalla parola di Dio. Questo, per quanto
giusto possa essere sotto l' aspetto della 'metdnoia' , non è un possibile pun­
to di partenza per un' esegesi e un' applicazione responsabili e effettuabili
secondo precisi criteri, perché l ' estraneità non può essere contenutistica­
mente riempita già prima dell' incontro con lo stesso testo; con la fissazione
sulla 'cosa' e sulla 'parola di Dio ' sarebbe infatti già dato in partenza quel
che deve invece venire alla luce nel corso di questo tipo di incontro con la
Scrittura.
3 . Una funzione importante per la rottura e l ' interruzione del circolo ha
la comunità dei ricercatori che rivaleggiano e disputano fra di loro. Infatti
mediante il contatto con essi si può esser costretti a uscire dal proprio cir­
colo. Ciò significa ancora una volta non liberazione dalla circolarità della
comprensione, bensì la possibilità di prender atto di altri circoli, cosicché
nella comunità dei disputanti la molteplicità dei circoli che si toccano e
che anche si interrompono può essere un aiuto contro una rigida persisten­
za. E in questo modo si raggiunge un traguardo decisivo: la circolarità non
solo sussiste, bensì se ne prende anche coscienza; con questo essa non vie­
ne naturalmente superata, però viene indotta ad essere tollerante e mode­
sta.
4. Il cambiamento e la rottura della precomprensione non sono - come ha
visto bene Heidegger - in prima linea una questione dell' intervento domi­
nativo e disponente dell' uomo. Però, a differenza di quanto affenna Gada­
mer, essi non possono consistere solo in una fusione anonimamente verifi­
cantesi di orizzonti o addirittura in un inserimento in un processo della tra­
dizione.
L' innovazione della precomprensione avviene piuttosto spesso mediante
catastrofi e in 'catastrofi' biografiche. Si tratta piuttosto di un processo fatto
di cose subite, di conduzione o di spinte da parte di altri o di altro. Chi è
così costretto a cambiare, è stato in gran parte involontariamente spinto in
vicoli ciechi e nel bisogno personale. Il fatto di cadere involontariamente in
aporie, che coinvolgono personalmente, è forse sempre una fortuna per lo
studente di teologia nel suo rapporto con coloro che lo spingono e lo stimo­
lano. Ma questi processi - c'è sempre da rammaricarsi quando essi vengono
risparmiati a qualcuno - avvengono in mezzo a contraddizioni e lotte, in
modo simile a come avvengono anche altri processi biografici di distacco e
di cambiamento. Perciò difficilmente possiamo programmare la rottura di
un pregiudizio. Soprattutto tale rottura avviene in un processo doloroso.
Quando infatti vengono distrutte delle rappresentazioni compatte, ciò avvie­
ne quasi sempre in mezzo a proteste. Il fatto che qui non vengano taciute
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 99

aporie e che proprio la percezione del dolore conduca alla ' verità' corri­
sponde al principio fondamentale di questa ermeneutica.
La storia dell' esegesi storico-critica mostra infine che i critici più fecondi,
che più di ogni altro contribuirono al cambiamento di vecchi pregiudizi
(come ad es. D. F. Strauss o F. Overbeck), furono persone operanti ai margi­
ni, che pagarono l' apertura del sistema con un' esistenza in ogni caso infeli­
ce sotto il profilo accademico. Così, ad esempio, D.F. Strauss, nominato nel
1 839 professore di teologia a Zurigo, fu mandato in pensione prima che
prendesse possesso della cattedra e ricevette annualmente mille franchi «per
stare zitto». Non i dotti enciclopedici, pronti a ogni accordo, poterono fun­
gere da stimolo, bensì solo coloro che erano a loro modo persone unilateral­
mente 'inattuali ' e che proprio così riuscirono ad anticipare e ad avviare
future possibilità. In questi personaggi della storia dell' esegesi quel che
sopra abbiamo chiamato la catastrofe biografica produttiva diventa via via
tangibile anche in un' esistenza da ricercatore nel suo complesso.
5. L' eliminazione della precedente opinione preconcetta non avviene
mediante una rimozione o una volontà di dimenticare le vecchie possibilità
e forze di comprensione, bensì mediante una loro altissima sollecitazione.
La capacità del dubbio metodico - di questa antica istituzione qui si tratta -
presuppone coraggio, fantasia e competenza. Essa significa esercizio
dell' antiinteresse contrastante con il proprio interesse, nel tentativo di fare
spazio proprio a ciò che appare assurdo. - Soprattutto si tratta della temera­
rietà di non tener conto del proprio interesse sempre dominante. D' impor­
tanza decisiva non è qui tanto il risultato (non è possibile raggiungere 'la'
verità), quanto piuttosto fondamentalmente l' atteggiamento. Non stupisce
perciò che lo scienziato competente si distingua per il proprio atteggiamento
verso la scienza e la conoscenza in misura perlomeno uguale a quella con
cui si distingue per il suo sapere specialistico concreto45•
Questa osservazione è d' importanza metodica fondamentale: nessuno
dubita che esista un circolo della comprensione. Questa conoscenza non è in
discussione. D ' importanza decisiva è però quel che di essa si fa, e sembra
che la teologia corra come nessun' altra scienza il pericolo di fare dell' affer­
mazione filosofica 'è' (ogni comprensione è circolare) una regola del com­
portamento. In questo modo però la conoscenza del circolo della compren­
sione si colloca di colpo su un nuovo piano, sul quale serve soltanto a fon­
dare e a prescrivere l'impermeabilità di un dogmatismo di destra o di sini­
stra46. Di continuo facciamo l ' esperienza che il circolo serve perciò nella

., Cfr. al riguardo H. JoNAS ( 1 987).


"" La conoscenza del circolo della comprensione è messa al servizio di un' argomentazione, che
1 00 seconda parte

teologia soltanto all' affermazione. Sorprendentemente il circolo della com­


prensione non è più così adatto a servire da base per l' ethos dell' azione
conoscitiva, perché comprendere e interpretare sono azioni, sono guidati da
interessi e sono sempre minacciati dalla comodità. Il modello del circolo è
solo adatto a servire da conferma 'post cognitionem ' , non a servire da
preambolo (a motivo del suo effetto demoralizzante). E invece: sul piano
dell' azione conoscitiva l'importante è intraprendere il tentativo di 'disturba­
re' il circolo, di interromperlo, di non lasciare che esso si culli in ciò che è
via via dominante. E ciò vale anche se ognuno sa che si tratta soltanto di cir­
coli nuovi e diversi, non de 'la verità' . Ma appunto qualsiasi tentativo di
spingersi ai limiti del possibile costituisce in se stesso la scienza. Soprattutto
bisogna prestar attenzione alle possibilità represse nello stesso soggetto via
via conoscente, perché esse offrono come possibilità proprie, per quanto
represse, la miglior opportunità di comprendere anche la critica proveniente
dall'esterno o la diversità annunciantesi. Così anche qui viene salvaguardato
il nesso tra conoscenza e interesse, però non a senso unico, bensì in maniera
più sottile, qualora l' interesse non sia orientato ali' autoaffermazione, bensì
ali ' autoripiegamento.
In modo simile dobbiamo dire, anche a proposito del dibattito circa la
'minoranza critica' , che la possibilità più importante di correzione e di cam­
biamento nella società scaturisce dalle possibilità sino ad allora represse e
non realizzate anche in questo campo della realtà. Dobbiamo infatti partire
dal fatto che il percepito (ma poi rimosso) è di regola molto più vasto di
quel che alla fine ogni volta si realizza. Questo sovrappiù del percepito va
portato a termine nella sua ricchezza proprio per quanto riguarda molte per­
cezioni dirette. Così la possibilità di cambiare il pregiudizio sta spesso nel
fatto di articolare preopinioni già presenti, ma solo latentemente date, e di
scoprirle prima del tempo in cui esse diventeranno una moda generale. E qui
si tratta poi dell' articolazione di un' esperienza diretta del bisogno. Traspo­
sto alla dimensione sociologica chiesa ciò significa: la chiesa, se vuole esse­
re maestra, deve prestar sensibilmente attenzione a esperienze dirette,
dischiudere così uno spazio orientativo per il dopodomani e conquistarsi
uno spazio in cui poter ancora intervenire. A questo scopo essa dovrebbe
superare l' attesa titubante, reagire direttamente a dati di fatto che vanno
appena delineandosi, il tutto con una percezione originaria del prossimo e
con una costruzione di nuovi ponti verso la Scrittura.

alla fine lascia sussistere solo la preghiera o la meditazione (nella corrente 'di sinistra ' : la prassi
rivoluzionaria) come comportamento adeguato all'oggetto. Questi infatti sono poi metodi 'conna­
turali' .
Sche11U1 di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 101

Risultato: abbiamo fatto i l tentativo di differenziare l e entità apparente­


mente evidenti della 'precomprensione ' e del 'circolo della comprensione' .
Nel farlo ci siamo resi conto del nesso esistente tra sensibilità e circolo della
conoscenza, nonché delle diverse possibilità di rompere il circolo, anche di
quelle di natura anticipatrice.

L' ESEGESI È POSSIBILE?

Un uso puramente confermante della Bibbia è semplice ed è praticato da


sempre. Il problema è se il confronto critico della chiesa con i propri inizi è
in linea generale possibile e se l' esegesi è quindi solo una disciplina partico­
lare della sistematica.
Spesso ci si domanda infatti se sia possibile stabilire una distanza nei con­
fronti della propria fede. La storia dell'esegesi mostra che questo è un proces­
so rischioso e riguardante tutto l'uomo. Solo con dubbi metodici non si fa
molta strada. Però essi ci mostrano che l'oscurità, l' incertezza e il coraggio
sono di un' importanza insostituibile per arrivare ad avere una fede capace di
dialogare. Queste crisi sono per la fede dell' esegeta più importanti di ogni
altra cosa. L' oscurità, lo scetticismo, la sofferenza e le catastrofi biografiche
fanno emergere una identità personale della fede, che non poggia più su con­
vulsioni e ripetizioni pappagallesche, bensì sulla tranquillità e sulla convinzio­
ne che in e al di là della differenza delle forme della fede esiste un' unità. Si
tratta quindi del raggiungimento della capacità di pensare e di agire in maniera
veramente ecumenica e verace. Il rapporto delle singole teologie bibliche fra
di loro e con noi va infatti definito in maniera simile a come oggi si definisce
il rapporto tra le forme geograficamente diverse del cristianesimo. In ogni
caso si tratta della questione dell' unità e della diversità. L'unità ha, come
un' ellisse, due punti focali che stanno in tensione fra di loro: Dio quale coinci­
denza degli opposti e il diritto canonico quale esercizio pratico del potere.
L' esegesi è possibile? - Questa è anche una domanda rivolta al modello
del circolo e della precomprensione. Può infatti essere che la fede, proprio
nella forma della professione di fede, non abbia solo bisogno di essere cor­
retta e rinnovata e vada per questo motivo messa a disposizione, ma può
anche essere che essa abbia addirittura una funzione bloccante nei confronti
delle affermazioni estranee della Bibbia. E la storia dell' esegesi mostra che
spesso furono i 'cani miscredenti' a contribuire di più, con la loro imperti­
nente disinvoltura e la loro realistica comprensione del mondo, a far progre-
·

dire le questioni della verità esegetica.


1 02 seconda parte

Ma dall' altra parte dobbiamo dire che l' esegesi storico-critica, perlomeno
nella forma in cui io la pratico, è un metodo di ricerca molto rispettoso. I
testi non vengono affatto posti sotto tutela, e la percezione non consiste nel­
la riduzione. Fare esegesi non significa giudicare i testi e ridurli a formule
dottrinali vuote, bensì significa lasciar valere l'estraneo con amore e far
arricchire la nostra povertà dalla ricchezza di queste esperienze, e non, vice­
versa, fare della nostra povertà il criterio di giudizio. Se la via qui rifiutata si
possa chiamare la via dei «criteri solo secolari, scientifici» è cosa che lascia­
mo in sospeso.

CONSEGUENZE DELL'ESEGESI PER LA FEDE

Nel moderno dibattito teologico sull' ermeneutica si parla sempre della


fede come se essa fosse soltanto la base, il punto di partenza e il punto fer­
mo, che andrebbe tradotto nell' applicazione. Inoltre si agisce come se que­
sta base fosse inaccessibile a ogni critica e in sé astorica.
Quando si considera la celebre formulazione proposta nella Lettera ai
Romani da K. Barth sul rapporto tra documento e cosa47 e anche quando si
leggono tutti gli altri rappresentanti di questa corrente , si ha sempre
l' impressione irrefutabile che l' incontro con il documento, con il testo stori­
co, sia sì necessario e cronologicamente antecedente, ma sotto il profilo del
valore di secondaria importanza rispetto alla fede e al carattere vincolante
della cosa48• Questa valutazione rispecchia bene il decorso della solita e
appresa preparazione della predica ( l . esegesi, 2. la «cosa autentica, vera e
propria»). Che l' esegesi storico-critica abbia una rilevanza critica per la fede
lo dice invece già, tra l' altro, il seguente dato di fatto: neppure la fede è
corazzata contro l' ideologia. È perciò impossibile esentarla da ogni critica.
Neppure nel campo strettamente religioso può solo e sempre trattarsi di con­
fermare o, tutt' al più, di trovare una veste moderna.
Ora, la biografia di ogni due studenti di teologia mostra questo fenomeno:

47 K. BARTH, Der Romerbrief, Zurigo 1 922', XI [trad. it., La lettera ai Romani, Feltrinelli, Mila­
no] : «Come persona che comprende devo spingermi sino al punto in cui mi trovo quasi solo di
fronte all'enigma della cosa, quasi non più di fronte all'enigma del documento in quanto tale, sino
al punto quindi in cui quasi dimentico di non essere l' autore, sino al punto in cui ho quasi compre­
so l'autore così bene da farlo parlare in mio nome e da poter parlare in nome suo>>.
48 Dovremmo riflettere e domandarci se l' accentuazione della 'cosa' e del contatto precorritore
con la cosa non contrasti addirittura con la concezione della Scrittura quale norma critica. Qui
l' importanza della fede e del rapporto diretto non si è per caso autonomizzata?
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 1 03

l' incontro con l' esegesi mette in crisi la fede. E ciò non avviene perché
l' esegesi negherebbe Dio, sarebbe atea o praticherebbe con la «ragione pec­
catrice» una critica oggettiva della Scrittura, bensì semplicemente perché,
accanto al modo religioso abituale di considerare la Scrittura, ne compari­
rebbe un altro che non rimane senza conseguenze per il modo religioso. E
queste conseguenze subentrano quando l' esegesi non si limita a informare,
ma va in senso contrario alla direzione della percezione religiosa della Scrit­
tura, cioè quando essa, anziché comunicare un' esperienza sensibile capace
di fondare l' unità, mostra soprattutto che nel documento centrale della fede
esistono delle diversità (quattro vangeli; diverse teologie; prove scritturisti­
che prob�ematiche sia nel Nuovo Testamento che nella storia dei dogmi;
relativizzazione del canone; tensioni tra Paolo e Lutero, tra autorità religiose
in genere ecc.). Questa crisi significa perciò per lo studente di esegesi una
crisi di identità, perché il suo interesse religioso personale di partenza è
disturbato dall' incontro diretto con la Scrittura. Anziché una conferma egli
sperimenta una contraddizione, e precisamente non una contraddizione
morale (ciò avrebbe dovuto verificarsi già prima; chi riduce il problema a
questo se lo semplifica), ma religiosa. In effetti vengono distrutte delle espe­
rienze religiose di sicurezza, e io penso che giudica in modo troppo superfi­
ciale colui il quale considera lo studio della teologia solo come comunica­
zione di capacità di dare una veste moderna alla cosa antica e identica.

SOGGETIO E STORIA

La conseguenza della nostra impostazione è che il rapporto del singolo


soggetto con la storia va pensato in modo diverso da come avviene in Gada­
mer: non si tratta dell' autoconferma (in fondo priva di soggetto) dell'insieme
della tradizione, bensì del rapporto dialettico reciproco tra ricordo e libertà.
Con M. Frank posso so_lo citare E. Betti e concordare con lui, quando egli
obietta all ' ermeneutica di Bultmann e Gadamer: il dialogo, che dovrebbe
stabilirsi tra lo storico e lo spirito oggettivato nelle fonti, verrebbe completa­
mente a mancare e a trasformarsi in un puro monologo; manca infatti del
tutto l' interlocutore che dovrebbe esistere nei testi come uno spirito incrolla­
bilmente diverso e senza il quale non è possibile immaginare un processo di
interpretazione49• «Due orizzonti comunicano» qui infatti «realmente tra di

•• E. BETII ( 1 962), 30; cfr. M. FRANK ( 1 977), 34 A.27.


104 seconda parte

loro, e bisogna che, rispetto a quello dell' interprete, l' orizzonte dell' inter­
pretando possa affermarsi nella sua relativa autonomia»50•

RIABILITAZIONE DEL SOGGETIO

Punto di partenza è l ' osservazione dello storico, secondo la quale gli


uomini, i gruppi, le lingue e le culture sono contraddistinti da peculiarità
irriducibili. Lo storico ha perciò a che fare, su tutti i piani della realtà, con
un' autenticità non sostituibile con alcuna astrazione. Se un testo è. concepi­
to come espressione di un uomo, esso acquista una unicità e irripetibilità
concreta e induce proprio per questo la libertà e la creatività del soggetto
odierno a concretizzarsi a sua volta. Solo attraverso la categoria del sogget­
to è possibile cogliere l' autorità dell' autore, e solo a questa condizione
diventa possibile cogliere e ammettere onestamente come tali anche suc­
cessivi scostamenti dal significato che il testo aveva nella situazione origi­
naria.
Non si tratta certo di risalire isolatamente all' «opinione dell' autore bibli­
co», ma solo di riabilitare ciò che egli intendeva dire nella sua situazione.
Diversamente da H. G. Gadamer noi non pensiamo perciò alla restaurazione
dell' autorità (testi classici) e della tradizione, bensì pensiamo a questo:
l' individualità del testo (compreso l' autore) esige sempre l' individualità del
lettore e viceversa. La storia degli effetti o influssi comincia a diventare una
faccenda importante solo se si riesce a vedere che dal testo preesistente e
sulla sua scorta nascono di volta in volta nuovi testi. La libertà quale signum
della storia degli influssi non significa solo che si concede una individualità
della lettura, bensì che, dal momento che questa va per motivi etici necessa­
riamente plasmata e riempita, la si incoraggia anche positivamente.
Trova qui conferma la vecchia osservazione, secondo la quale chi si occu­
pa anche solo della controparte rappresentata da un testo individuale trova
anche quasi automaticamente i rapporti che tale testo ha con il proprio pre­
sente e un' applicazione: contrariamente alla critica corrente mossa all' erme­
neutica di Schleiermacher, il soggetto del ricercatore che si occupa intensa­
mente di un testo non viene 'annientato' , ma al contrario 'provocato' . Man
mano che egli penetra il testo e lo comprende (cosa che non può avvenire in
maniera solo positivistica), la sua lingua si scioglie come da sola, perché

50 M. FRANK, op. cii., 34.


Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 1 05

adesso e solo adesso egli ha messo in luce i lineamenti del testo in misura
tale che questo può diventare un interlocutore.
Ciò va concepito nel modo seguente: il profilo di un testo antico non può
certamente essere individuato riassumendo il suo significato in una frase
(contro la teoria, proposta da Ad. Jiilicher, delle «verità proposizionali» qua­
le somma delle parabole, qui riferita a testi antichi in generale), ma d' altra
parte neppure sommando delle conoscenze a suo riguardo. Una approfondìta
e reale comprensione del testo collegherà invece i molteplici dati scoperti
tramite i metodi scientifici, in modo tale da far emergere delle connessioni
chiare tra di loro. Questa coerenza costituisce il senso di un testo nella cor­
nice della ricerca storica (senso storico), senso che scaturisce di regola solo
di fronte a una molteplicità di dati. - Questo, se è vero, ha anche una sua
importanza per le associazioni così suscitate, che riguardano il soggetto del
ricercatore e una possibile applicazione del testo: le analogie e le diversità
diventano tanto più .�convincenti' quanto meno isolatamente esse vengono
presentate e quanto più numerosi sono i dati che vengono tra di loro collega­
ti in modo «evidentemente dotato di senso». Per la ricerca del soggetto, che
constata analogie o diversità, vale perciò lo stesso principio: il senso risulta
dalla coerenza del maggior numero possibile di punti.
Ma poiché la coerenza può essere solo e sempre frutto di una scelta (ogni
volta diversa a seconda dell'osservatore), ci vuole un numero di dati di gran
lunga maggiore di quello che può poi essere utilizzato per la ricerca del sen­
so. Perciò possiamo dire: la ricerca storica del senso (del testo antico nella
sua situazione) e la ricerca applicativa del senso (del sòggetto nel proprio
presente) mediante analogie o dissomiglianze si condizionano in un certo
modo a vicenda. Presupposto fondamentale è cioè una somma più grande
possibile di dati storici a proposito del testo. Che le due ricerche del senso
faranno forse riferimento a punti diversi del medesimo materiale è cosa
piuttosto probabile. Date le capacità umane di stabilire delle associazioni e
di stabilire una coerenza, la ricerca effettuata a proposito del soggetto stori­
co, delle sue intenzioni, delle sue condizioni e del senso da lui inteso (nella
misura in cui esso è constatabile) non esclude perciò, bensì include la costi­
tuzione del soggetto del ricercatore e dell' applica�te.
Invece in H. G. Gadamer e nelt6 'strlttturitlism'd;ifft6dettiou io · vedo piutto­
sto una rinuncia più o meno completa alla categoria del soggetto. Secondo
Gadamer la comprensione di un testo non è appunto la comprensione
dell' esternazione di un tu ( 1 975, 340 [trad. it. , 350]), e anche secondo H.

" Sull 'eliminazione del concetto di soggetto in J. Derrida, cfr. M. FRANK ( 1 977), 58.
106 seconda parte

Weder l' interpretazione non è l' interpretazione dell' opinione di un autore,


bensì la comprensione consiste piuttosto secondo l' uno e l' altro in un com­
plesso dotato di senso e privo di soggetto. I metodi interpretativi sociologici
e marxisti condividono con la filosofia della riflessione questa negazione
metodica della categoria dell' autore di un testo. Chi perciò si schiera a favo­
re dei diritti di quest' ultimo, si pone con ciò contro tutta la recente ermeneu­
tica 'di destra' e 'di sinistra' . E proprio per questo siamo costretti a doman­
darci: quale dogmatica filosofica costrinse propriamente a non tener conto
di questo dato quanto mai ovvio?
In Gadamer la mancata pres a in considerazione della soggettività
dell' autore si manifesta nel fatto che alla fine permane solo l' insieme della
tradizione. Secondo M. Frank «l' evento della tradizione diventa» così
«l'unico soggetto della storia ... In effetti al soggetto-come-storia degli effetti
viene così attribuito ciò che è stato disconosciuto al soggetto-come-indivi­
duo-progettantesi-attivamente: la costituzione (motivata dalla tradizione, ma
non priva di libertà) del senso come interiorizzazione attiva e superamento
del discorso storicamente dato»52• E a proposito della fusione di orizzonti
possiamo dire: «L' essere dell' altro in quanto altro rimane per strada. La
manifestazione del soggetto viene fatta scomparire nel soggettivismo senza
soggetto della storia degli effetti» (op. cit. , 33).
Invece chi perora la causa della riabilitazione dei soggetti dell' autore e
dell' interprete dovrebbe lasciarsi dare qualche suggerimento dalla concezio­
ne di Schleiermacher, come al di fuori della discussione teologica fa anche
M. Frank ( 1 977). Schleiermacher fonda la soggettività (dell' autore e del let­
tore) dicendo che il soggetto può cogliere, mediante il sentimento, qualcosa
che non è stato da lui operato e che egli non può cogliere con la conoscenza.
Il «sentimento della dipendenza pura e semplice» così costituito riflette «la
crisi del soggetto senza eliminarlo» (M. Frank, op. cit. , 1 1 1 ). La dipendenza
e la libertà stanno perciò qui tra di loro in un rapporto dialettico dotato di
senso. Infatti «la coscienza più alta possibile dell'uomo è la coscienza di un
limite insuperabile, di fronte al quale egli sente di essere preso in appalto
dall' altro da sé, anzi dall' altro della ipseità in generale» (op. cit. , 1 1 5).
Chi riesce a rinunciare a fondare filosoficamente la soggettività
dell' uomo53, si orienta verso ciò che in primo luogo lo storico constata. Così
egli può ricordare come la filosofia della riflessione e lo strutturalismo non
sono in grado di spiegare «il così-e-non-diversamente della figura superfi-

52 M. FRANK, op. cit. , 23s.


" Cfr. anche H. G. VESTER, Die Thematisierung des Selbst in der postmodernen Gesellsclulft,
Bonn 1 984.
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 1 07

ciale del senso messo in circolazione»54• Al centro sta la questione del modo
in cui il singolo e l 'universale possono in generale tra loro coesistere.
L' aspetto etico sta qui nel fatto che il potere esistente tende a spegnere la
soggettività e a non farla neppure emergere. Esiste perciò una connessione
tra la negazione della soggettività del singolo e la repressione degli uomini
nei sistemi dispotici, da un lato, e tra la soggettività e «la capacità di essere
chiesa», dall' altro lato. Il messaggio della remissione dei peccati e della giu­
stificazione significa in fondo che gli uomini solo così sono guariti e messi
nella condizione di diventare soggetti e di imparare a essere liberi. Qui sus­
siste una stretta relazione oggettiva con la nostra concezione della 'minoran­
za critica' .
L' aspetto estetico consiste nel fatto che viene riconosciuta la libertà crea­
tiva dell' interprete nella sua situazione. Inoltre solo soggetti sono capaci di
emozioni.

5. Storia degli effetti

La storia degli effetti ha nella concezione proposta il significato di sosti­


tuire positivamente verità universalmente valide. L' effetto o influsso è infat­
ti un' entità mediatrice attraverso la storia, che lascia nello stesso tempo spa­
zio all' individualità e alla particolarità. Evitiamo così il discorso della 'cosa'
identica e lasciamo ciò malgrado esistere un nesso ali' interno della storia,
cosicché i singoli elementi non si scollano fra di loro . Per la questione
dell' effetto d'importanza decisiva sono l' impulso e i mezzi della trasmissio­
ne. Diversamente dalla presunta identità della cosa, l ' effetto può essere
scientificamente descritto. Inoltre l' impulso non è una strada a senso unico,
bensì di regola gli uomini vogliono retroriferirsi a qualcuno o a qualèosa.
Da un lato i cristiani si retroriferiscono a Gesù. In questo modo l' impulso
che continua ancor sempre a partire dagli inizi del cristianesimo può rag­
giungerli. Dall' altro lato Gesù Cristo appare in una luce diversa e assume un
diverso significato a seconda della problematica e del punto di partenza. In
questo modo l ' unità può essere colta come storicamente trasmessa, cioè
come complesso di effetti o come retroriferimento.

,. M. FRANK ( 1 977), 289.


1 08 seconda parte

All' interno di questa storia il ricordo ha una funzione liberante, perché


libera dal peso del passato. Con D. Ritschl ( 1 986, 26 1 ) adopero volentieri
l' immagine dell' 'inserimento' , con il «rabbi Gesù, nella stretta storia che va
da Abramo fino ad oggi». Qui il ricordo non è soltanto libertà di proseguire,
bensì anche sicurezza nella lode degli antichP5• Invece il modello della
fusione di orizzonti è troppo fortemente segnato dall ' ideale problematico ­
della contemporaneità di tutta la verità.
Chi prende seriamente l' universalità 'limitata' riesce a comprendere
anche l' opzione in favore della penultima realtà e verità e non conosce il
tutto o niente dei filosofi metafisici. Le rappresentazioni astratte e assolute
del fine sono quelle veramente disumane.

6. Lealtà e libertà

Ci orientiamo in base alla Scrittura perché alla fine non riusciamo ad aiu­
tarci da soli. Ma affinché la rivelazione possa diventare un fattore capace di
aiutare, occorre anzitutto lasciare alla Scrittura la possibilità di diventare
efficace così come essa è, senza essere da noi 'preorientata' . Il suo influsso
capace di aiutare è infatti essenzialmente un influsso critico, oltre che un
influsso incoraggiante e consolante, solo che lo vogliamo scoprire e ascolta­
re. Tutto questo però non può avvenire, se la Scrittura diventa soltanto la
conferma del nostro bisogno.
Ora dovrebbe essere chiaro che una posizione biblicistica è un autoingan­
no ermeneutico e che anche una selezione arbitraria di ciò che 'va bene'

" Cfr. al riguardo F. STEFFENSKY ( 1 984), 20: «<l ricordo di ciò che è riuscito bene è ciò di cui
adesso viviamo>>; 34: «Preziosa è per me la lingua, anche se essa non è mia, perché nella sua forma
così tanti uomini hanno prima di me fugato le loro ansie, formulato le loro sofferenze e espresso i
loro desideri. La vecchia lingua mi collega con i desideri inappagati e con i sogni ancora non
adempiutisi dei defunti. Proprio la forma antica e non propriamente 11.1ia della lingua mi aiuta nella
fede>>; 35: <<Questo costituisce una parziale liberazione e un parziale sollievo rispetto alla propria
onestà patologicamente scarsa. Io non sono più responsabile di tutto, neppure totalmente responsa­
bile di una cosa tanto personale qual è la propria fede. lo rispondo di essa con quei molti che prima
di me hanno cercato di farlo e che con me cercano di farlo>>. - Secondo quanto egli afferma a p. 36
la lotta contro l' eterodeterminazione da parte della tradizione non sarà in futuro la lotta principale.
37: <<Non ho bisogno di contentarmi della mia povertà. Questa è la proposizione che più mi dà sol­
lievo. Possiamo mietere quel che non abbiamo seminato, possiamo dirci parole di incoraggiamento
che non abbiamo escogitato noi>>.
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 1 09

sarebbe un 'consumo' ideologico della Scrittura. Chi vuole evitare queste


due vie (che spesso sono di fatto identiche, cioè nella forma del pio monolo­
go), deve fare il possibile per conservare alla Scrittura sia la sua propria
voce sia anche la sua efficacia critica. Con questo formuliamo due istanze,
che vanno attuate in modo diverso.
Io concepisco tali due istanze come 'lealtà ' , intendendo con questo una
fedeltà libera verso la Scrittura. Vedo infatti la lealtà come opposta al 'lega­
lismo' , a una applicazione soltanto 'obbediente' della Scrittura senza tener
conto della situazione, come se si trattasse di applicare un codice generale a
determinati casi come si fa con la Costituzione. La fedeltà alla Scrittura può
solo essere libera, perché il cristianesimo non è una religione del libro e per­
ché ogni situazione è unica. E qui è pienamente chiaro che la 'libertà' è un
rischio. Ma non sono gli interpreti a prendersi la libertà nei confronti del
testo biblico, bensì si tratta piuttosto di impiegare e definire la libertà
dell' interpretazione già da sempre praticata in modo tale che gli interpreti
facciano delle affermazioni cristiane plausibili, senza far violenza alla Scrit­
tura56.
Che in questo la Scrittura possa conservare la propria voce critica è anzi­
tutto un' istanza dell' esegesi storico-critica stessa. Io considero come compi­
to principale dell'esegesi quello di porre davanti agli occhi fino al limite del
possibile la ricchezza propria della Scrittura, prima di procedere a qualsiasi
suo uso e applicazione. Per questo motivo ritengo sia una cosa ideale sepa­
rare l'esegesi dall' applicazione. Lasciamo da parte la questione se questo
riesca o possa in linea generale riuscire. In ogni caso ritengo il tentativo57 di
una simile separazione necessario e tutto il resto dichiaratamente funesto. Il
miscuglio programmatico di esegesi e applicazione, praticato sia nella scuo­
la bultmanniana di sinistra sia in quella di destra, è per me inammissibile.
D ' altra parte, se mi schiero in favore di una separazione programmatica,
non lo faccio per il semplice amore di tale separazione, bensì perché solo

56 D' importanza decisiva è che si percepisca e che si ammetta francamente un conflitto di lealtà
tra testo e situazione; forse così l' atto religioso va poi paragonato piuttosto a un'ellisse con due
punti focali (testo biblico e situazione) e non solo con uno. Questo modello mi sembra adatto a
eludere i tentativi ripetutamente fatti nell'ermeneutica cristiana per sottrarsi al peso del pensiero
storico. Il pensiero autonomistico dell'evo moderno fuoriesce a modo suo dalla tensione di questa
ellisse, in quanto lascia di nuovo un solo centro, il nostro presente. - Cfr. al riguardo anche il mio
saggio Loyalitiit als Problem neutestamentlicher Hermeneutik, in CH. ELSAS e altri (edd.), Loya­
litiitskonflikte in der Religionsgeschichte (FS C. Colpe), Wiirzburg 1990, 1 2 1 - 1 3 1 .
57 Verosimilmente i l 'tentativo' d i una rinuncia alla nostra tendenza a rinchiuderei i n un monolo­
go e a inserire le nostre pie opinioni nel testo giova meno delle crisi personali, dei confronti bio­
grafici con la 'chiesa' e con il suo modo di utilizzare la Scrittura e i lavori storici nel campo della
religione.
1 10 seconda parte

così diventa possibile un dialogo al posto del solito monologo. Perciò spe­
cialmente la proposizione «l' estraneità di un testo biblico è il presupposto
del suo influsso oggi» va considerata come compito dell'esegesi, che deve
riacquisire e illustrare l'estraneità di un testo. Con questo non penso natural­
mente a una estraneità museale (come scostante accumulazione di sapere
filologico), bensì a una estraneità capita. In altre parole: l' esegesi deve trac­
ciare un quadro plastico degli atti vitali che si manifestano in un testo e, nel
farlo, deve partire dal fatto che questi atti differiscono singolarmente e nel
loro complesso in misura molto notevole dal nostro modo di pensare e valu­
tare le cose. L' estraneità compresa rende il testo trasparente e ci permette di
cogliere le esperienze religiose in esso implicite.
L' esegesi, lasciandosi guidare dalla presupposizione che il testo abbia
qualcosa di estraneo da dire, fa spazio nello stesso tempo alla possibilità che
esso abbia qualcosa di nuovo, di stimolante e da . noi non visto da annuncia­
re. Perciò la lealtà verso il testo della Bibbia è, a motivo della funzione del
canone, necessaria per la rivelazione cristiana. La lealtà significa di fatto
che sono possibili degli scostamenti, ma che essi devono essere motivati.
Appunto questo, non di più, ma neppure di meno, io intendo per «pretesa o
diritto del testo» : anzitutto il fatto che esso vuole essere sentito e percepito
così come è, senza che mi sia lecito inserire apertamente o di soppiatto in
esso qualcosa. Questo significa che devo cercare di comportarmi onesta­
mente nei suoi confronti, e precisamente anche quando la mia posizione è -
forse necessariamente - diversa. In secondo luogo, specialmente per il testo
biblico: esso, dal momento che è canonico, ha il carattere di un 'modello
autentico' per ciò che il cristianesimo può essere.
Ma naturalmente la lealtà verso il testo biblico non può essere l' unico cri­
terio quando si tratta di passare all' applicazione.
Per lealtà io intendo un determinato modo di ascoltare la Scrittura, un tipo
di obbedienza verso la parola di Dio. Il termine 'lealtà' descrive qui, a mio
parere, un atteggiamento molto complesso, che racchiude libertà e obbliga­
torietà, equivalenza della traduzione e capacità di evitare un biblicismo sen­
za senso.
Per lealtà intendo un rapporto del traduttore di un testo verso l' autore o
l' autrice del testo di partenza. Lealtà significa: nel tradurre non bisogna mai
perdere di vista l' intenzione del testo di partenza. Tale intenzione va ricerca­
ta con i mezzi dell' esegesi storica. Parlo di 'intenzione ' , perché si tratta
dell' intenzione dell' autore (o del redattore finale) del testo divenuta forma.
Nel caso di una interpretazione responsabile di un testo constatiamo infat­
ti con facilità l' esistenza di due movimenti: l' uno in direzione del consumo,
in direzione d'una libera interpretazione a seconda del bisogno, l' altro in
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 111

direzione dell' opinione dell' autore. Il secondo movimento è necessario, se


considero il contatto sociale con questo autore come un valore, per esempio
nella cornice della chiesa. Perciò la questione dell' opinione dell' autore non
è solo una questione riguardante la verità filologica (la dimostrabilità aristo­
telica) , bensì anche e soprattutto una questione riguardante una 'verità
comunicativa' , riguardante una comprensione storica e nello stesso tempo
sociale. - Tali due movimenti costituiscono il conflitto della lealtà ermeneu­
tica, che è indubbiamente anche un conflitto sociale tra gli interessi degli
uomini, per i quali io traduco, e l' intenzione dell ' autore.
La lealtà così da noi intesa ha i seguenti compiti:
l. Essa prende forma nell' esegesi e interrompe la tendenza del lettore a
adoperare i testi come articoli spirituali di consumo. L' esegesi si concepisct(
come interruzione, come interruzione salutare di utilizzazioni pie o ideologi­
che di testi. Ciò vale anche nel caso che, alla fine, essa dovesse confermare
un uso (affermazione) . L' utilizzazione 'interessata' è il caso normale e a
lungo andare non impedibile. L' interruzione ha però la possibilità di tratte­
nere per un momento, per sfociare in un modo di agire contro corrente.
L' interruzione produce un frutto leale, quando il punto principale del
testo storico e il punto principale del testo tradotto sono tra loro perlomeno
analoghi.
2. Sempre si tratta della nostra capacità di percepire e di non mettere a
tacere l'estraneo della Bibbia in quanto tale, anche andando contro le nostre
sante convinzioni.
Ciò presuppone naturalmente che la verità - adesso intesa come verità
che, in qualità di programma di vita, trova forma in parole - non è data in
partenza nella B ibbia, bensì nasce solo dalla tensione o anche dalla somi­
glianza tra la provocazione che scaturisce dalla Scrittura e ciò che oggi
risulta utile e conveniente. Gli errori più frequenti degli uomini di destra e di
sinistra impegnati derivano dal fatto di pensare che la scelta di volta in volta
più o meno arbitraria fatta in seno alla Bibbia sia direttamente di aiuto. Per
questo l'esegesi e l' applicazione vanno distinte.
Alle domande di Giinter Kegel, riportate all' inizio, possiamo perciò così
trovare anche una risposta: non si tratta di un processo tecnico, bensì in ogni
caso di un complicato processo ecclesiologico. In tale processo non ha valo­
re soltanto la Scrittura, ma hanno un loro valore anche la competenza, le
regole della ricezione e dell' efficacia, l' interpretazione ecclesiale definibile
come modello delle gambe della sedia (vedi più avanti), in cui la Scrittura
rappresenta la gamba di ferro. La lealtà significa infatti che gli scostamenti
vanno motivati.
3. D ' importanza decisiva è percepire e ammettere l'esistenza di un con-
1 12 seconda parte

flitto di lealtà. Il più delle volte sembra infatti solo trattarsi di una questione
di applicazione e di obbedienza. Sotto questo aspetto della lealtà ogni testo
tradotto e applicato ha un carattere di compromesso.
La percezione del conflitto ermeneutico di lealtà presuppone un ricono�
scimento del diritto sia del momento presente sia del tempo del canone. Un
conflitto di lealtà non esiste né nella posizione clericale (obbedienza alla
Bibbia), né nella posizione laicista (diritto esclusivo del presente). Qui come
altrove più adatta è l' immagine dell'ellisse bipolare che non quella del cer­
chio.
Tra la semplicità dell' atto religioso e la semplicità dell'universale filoso­
fico esiste chiaramente un' affinità naturale; in ambedue i casi si tratta della
purezza cristallina e quasi sovraterrena come programma. La stessa storia
del cristianesimo è anche una storia di tentativi di sottrarsi al peso del pen­
siero storico. Ciò è vero in modo particolare dell ' Antico Testamento e del
giudaismo intertestamentario. Tuttavia il giudaismo e il cristianesimo hanno
sviluppato potenti forze contro l' unidimensionalità dell' atto religioso, e ciò
già per il semplice fatto che il popolo di Dio è diviso e noi dobbiamo rico­
noscere ad Israele il privilegio del primo amore, inoltre per esempio per il
fatto che permane il conflitto tra culto e etica, che sussiste una molteplicità
di teologie canoniche ecc.
4. Dobbiamo menzionare la lealtà soprattutto perché essa risulta oggetti­
vamente dal criterio supremo di ogni applicazione: dall'esistenza del popolo
di Dio stesso. Se questo popolo è il fine della storia58 e se la Scrittura e la
sua interpretazione sono inalveate solo in esso, allora una delle regole ele­
mentari di vita di questo popolo è che nessuno sia ingiustificatamente passa­
to sotto silenzio, in particolare non i primi testimoni. La lealtà è correttezza
e permettere-di-parlare. In questo senso è un comportamento orientato a
valori. Ed è per me incomprensibile come si possa negare al processo di
comprensione e interpretazione della Scrittura il carattere di azione. Tradur­
re è agire ed è, in quanto tale, legato a categorie etiche.
E qui la lealtà si riferisce sempre e soprattutto alle rappresentazioni di
valori che le persone hanno. Essa non riguarda testi, bensì concittadini in
seno al popolo di Dio. - La posizione opposta consiste qui nel dire che i

58 Questa affermazione non intende rimuovere quella dogmaticamente più giusta, secondo la
quale il fine della storia consisterebbe nella lode/gloria di Dio, ma ha piuttosto un significato feno­
menologico e pragmatico. Già la formula dell' alleanza rappresenta in questo senso una alternativa
alla pura teologia cultuale innica. La Bibbia stessa conosce questo tipo di considerazione, che a
volte rappresenta un necessario e completo capovolgimento. Anziché affaticarmi a citare una serie
di passi biblici, ricordo semplicemente Did 10,5: <<Raccogli la tua chiesa dai q�Jattro venti nel tuo
regno>>.
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 1 13

testi sarebbero dei messaggi autonomizzati subito dopo la loro nascita. A me


questa posizione non pare sostenibile, tuttavia nella teologia essa ha trovato
molti sostenitori, perché la concezione del kerygma della scuola di Bult­
mann, più vecchia di qualche decennio, era similmente strutturata e ha
orientato le opinioni dei teologi in questa direzione.
La lealtà consiste nel lasciar sussistere e valere l' alterità dell' altro nella
situazione della traduzione. All 'utilità viene preferita la società comunicati­
va dialettica. Ma l' alterità dell' altro dev' essere un' alterità comprensibile e
compresa perlomeno a grandi linee e perlomeno nella sua portata. Scopo:
anche cristiani che sono molto diversi da noi trovarono addirittura posto e
voce nel canone, e questo è per molti uomini una liberazione dalla pressione
dogmatica.
Perciò la realizzazione della concordantia discordantium nel testo tradot­
to è la realizzazione di un frammento di pace viva.

Non vorrei dimenticare di rilevare subito che, così dicendo, abbiamo solo
posto i paletti dei processi che sono oggetto dell' ermeneutica. Qualcosa di
diverso sono le dimensioni della percezione o dimensioni estetiche, di cui fa
parte anche il cristianesimo come movimento mistico59•
Se una delle istanze dell' ermeneutica può essere considerata quella di
evitare il dogmatismo, allora la lealtà è doppiamente idonea a questo scopo.
Essa può aiutare a evitare il dogmatismo della visuale del mond� dell' età
moderna nei confronti dei testi biblici, perché essa consiglia di adottare
'metodi rispettosi ' che non distruggono l' estraneo. Ed essa può evitare che
anche professioni di fede ben intenzionate e necessarie blocchino la via che
conduce alla vitalità della Scrittura. Infatti, quando tali professioni di fede,
per esempio sotto forma di dottrina della giustificazione, diventano la gri­
glia che serve alla critica oggettiva della Bibbia, si ottiene il contrario della
serenità ermeneutica. La storia stessa della Riforma mostra che cosa signifi­
ca lasciar parlare la Scrittura viva al posto del dogmatismo. In altre parole:
può essere che la dottrina della giustificazione diventi così rigida da condur­
re a ignorare letteralmente più della metà della Scrittura.
Al processo fondamentale della vita della chiesa, la cui vitalità consiste
appunto nell ' evitare una cosa del genere, la questione della lealtà intende
portare solo un contributo piccolo e modesto.
'Tradurre' indica nelle pagine seguenti l' applicazione.

" Cfr. K. BERGER, Theologiegeschichte des Urchristentums, Tiibingen - Basel l 9952, § 14.
1 14 seconda parte

TESI l : Tradurre significa agire ed è come tale legato a categorie etiche,


che sono sottratte all 'arbitrio individuale.
Spiegazione: il tradurre ha una funzione sociale e 'comunitaria' da non
sopravvalutare, in particolare sotto forma di un' azione interculturale. Scopo
di tale azione è l' edificazione di una comunità, in quanto al recipiente della
cultura finale viene trasmesso qualcosa attinto dal mondo culturale del testo
di partenza e a proposito di tale mondo. Ma la comunità, anzi proprio essa,
ha bisogno delle regole di un' etica; già Agostino constatò che pure una banda
di ladri e i suoi vari membri hanno bisogno di una serie di regole vincolanti.

TESI 2: La lealtà nei confronti dell 'autore di un testo non ha per oggetto
particolarità arbitrarie, bensì le sue rappresentazioni di valori.
Spiegazione: a differenza del concetto di cultura, a questo punto della
discussione sinonimico, io scelgo qui il concetto di valore per i seguenti
motivi:
l. Questo concetto non è solo descrittivo ( 'etnologico'), bensì normativo
ed è quindi in linea con l' orizzonte etico del tradurre illustrato nella Tesi l .
Qui si tratta però, beninteso, delle rappresentazioni di valori dell' autore di
un testo, non di quelle del traduttore.
2. Si presuppone che l' autore abbia o abbia avuto rappresentazioni di
valori diverse da quelle dei traduttori e dei destinatari della traduzione. Il
traduttore, quando traduce, deve per prima cosa ricostruire queste rappre­
sentazioni di valori (qualora tale ricostruzione non esista già) .
3. Le rappresentazioni di valori sono di regola articolate gerarchicamente.
Ciò significa: lo stesso autore ci fornisce mediante ricorrenti segnali testuali
dei criteri, grazie ai quali possiamo intuire quali sono le sue linee guida. La
lealtà può muoversi lungo queste rappresentazioni di valori dell' autore. Tut­
tavia in caso di dubbio il traduttore deve partire dal fatto che la sua ricostru­
zione rimane insicura e che è perciò pericoloso dichiarare frettolosamente
che qualcosa è privo di valore.

TESI 3: La lealtà come comportamento del traduttore è necessaria nel


senso descritto nella Tesi l .
Spiegazione : tra i presupposti qui decisamente sostenuti c ' è anche il
seguente: i testi vanno visti come esternazioni di persone. Solo nei confronti
di persone, e non nei confronti di 'mondi testuali' o di 'testi ' autonomizzati,
può e deve esserci lealtà. Ciò significa: io leggo testi come testimonianze di
uomini . Così facendo però opto in favore di un tipo radicalmente storico di
considerazione.
La posizione opposta, dominante nell ' odierna ermeneutica filosofica,
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 1 15

consiste notoriamente nell' affermare che i testi sono 'messaggi ' indipenden­
ti e autonomizzatisi direttamente dopo la loro nascita, messaggi che, essen­
do stati licenziati dai loro autori, contengono poi una quantità pressoché illi­
mitata di possibili significati.
A me questa posizione non sembra sostenibile60• La concezione del keryg­
ma della scuola di R. Bultmann, di qualche decennio più vecchia, era molto
simile e ha qui svolto un lavoro di preparazione61 •
Questo significa: la lealtà va alla persona dell' autore di un testo e alla sua
intenzione. Questa tesi è l' altra faccia della posizione ermeneutica, secondo
la quale un testo va senza riserve storicamente spiegato, cioè senza un resto
di una qualche 'universalità antropologica' o di altre strutture atemporali .
Chi infatti parte da costanti antropologiche o strutture può continuamente
fare di queste il centro del testo e dichiarare che le caratteristiche individuali
di un testo (riferentisi specificamente al suo autore) sono 'ghiribizzi' trascu­
rabili. Ma appunto questo non va bene, perché non è possibile distinguere in
modo argomentativamente dimostrabile tra caratteristiche 'universali' e
caratteristiche 'solo individuali' di un testo. E questo significa anche: ogni
successiva situazione in cui un testo viene immesso, in cui viene tradotto e
interpretato, è altrettanto importante. Il problema ermeneutico di fronte a
questo fatto non è più quello dell ' individuale e dell ' universale (che presun­
tamente sonnecchia nella 'profondità' del testo e che ha solo bisogno di
essere svegliato dal traduttore), bensì appunto il problema della relazione tra
due persone poste in situazioni diverse, tra l' autore e il traduttore, con il tra­
duttore debitore del testo ali' autore, cosicché la loro posizione è disuguale.
Il fatto che non si tratti più della relazione universale/individuale costitui­
sce naturalmente una chiara differenza rispetto a tradizioni antiche della
metafisica occidentale, che ha senza dubbio influenzato nella teoria e nella

"" Malgrado tutte le affermazioni in contrario questo tipo di considerazione diventa alla fine asto­
rico: un testo non va infatti sganciato dalla situazione complessiva in cui esso è nato, situazione di
cui fanno parte la biografia dell'autore e tutto il contesto culturale e sociale. Sono questi elementi a
imprimere a un testo la sua forma concreta. Tale forma concreta non è ora affatto superflua o soltan­
to una possibilità rispetto alla poli valenza di posteriori possibili interpretazioni. Né la forma concre­
ta può essere sostituita da potenziali contenutistici universalmente umani. Contenuto e forma non
sono piuttosto separabili. È la sua forma unica e irripetibile a 'costituire' un testo. Soltanto colui che
prende radicalmente sul serio la situazione in cui un testo è nato e le sue conseguenze può poi real­
mente valutare anche il peso di ogni situazione successiva e la sua importanza decisiva per la diver­
sa e nuova interpretazione del testo. In fondo la teoria dell' autonomizzazione dei testi vela le inter­
pretazioni radicalmente diverse di fatto subentranti. Maggiori dettagli al riguardo più avanti.
., Pure il 'kerygma' in ogni caso dei discepoli di Bultmann (cfr. ad esempio i lavori di H. Con­
zelmann), è una entità costante rispetto alle molte sue formulazioni, un contenuto indipendente da
tutte le sue forme. Non è perciò un caso che proprio alcuni discepoli e nipoti di Bultmann poterono
aderire alla teoria del mondo dei testi isolato da ogni storia concreta.
1 16 seconda parte

prassi anche il tradurre. Appunto questo viene messo in luce nella concezio­
ne dell' 'universalità limitata' .

TESI 4: La lealtà è possibile.


Motivazione: esiste tutto un arsenale di metodi storico-critici, i quali per­
mettono di individuare approssimativamente l' opinione di un autore perlo­
meno fino al punto che, per una determinata generazione di interpreti, esiste
un 'consenso critico' da difendere argomentativamente. Qui non dobbiamo
risolvere il problema se sia mai possibile pervenire a conoscere la vera opi­
nione di un �tore, e tale problema è perciò in una certa misura d'importan­
za secondari a. Di primaria importanza è un' altra cosa, e cioè quella di
ammettere l' esistenza di una differenza rispetto alla pura funzionalità della
traduzione e di ammetterla precisamente nella forma della lealtà verso
l' autore di un testo.
Si tratta perciò di stabilire se sia in linea generale possibile una cosa come
questa: percepire e rendere visibile in qualsiasi orientamento di una tradu­
zione o in qualsiasi interpretazione in ordine alla situazione esistente l' alte­
rità della persona e dell' intenzione dell' autore del testo.
La lealtà consiste perciò nel lasciar parzialmente valere l ' alterità del­
l' altro (dell' autore) in una situazione di traduzione.
Questo lasciar valere non è statico, bensì consiste anche nel fare spazio
all' autore di un testo pure nel testo finale, e precisamente in modo tale che il
traduttore abbia il coraggio di esporre il testo finale, durante la fase della sua
nascita, all' influsso da parte dell' autore del testo.
Io penso perciò che la lealtà sia possibile finché è possibile che un uomo
si sforzi di prestar attentamente ascolto a un altro. Non il fatto che egli com­
prenda qualcosa è la cosa da dimostrare, bensì la sua intenzione di ascoltare,
a differenza dell' autodecisione nel senso che soltanto una determinata com­
prensione 'funziona' .

TESI 5 : Il problema della lealtà ha per oggetto il modello «utilità contro


società comunicativa».
Il punto di vista della pura utilità e quindi della adeguatezza tecnica, sen­
za dover necessariamente tener conto della lealtà, vale senza dubbio per la
traduzione di testi non letterari (ricette culinarie, istruzioni per l' uso). Que­
sta formulazione è intenzionalmente prudente, perché uno potrebbe natural­
mente dire: la lealtà verso l' autore, ad esempio nella traduzione di testi rela­
tivi alla fabbricazione di determinati prodotti chimici, riguarda il fatto che
l' autore non aveva, ad esempio, pensato ad un loro impiego bellico. Ma la
differenza rispetto a testi letterari consiste tuttavia senza dubbio nel fatto che
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 117

il 'funzionamento' o 'scorrimento liscio' di un processo tecnico è di un' evi­


denza palmare e, viceversa, che un' intenzione etica dell' autore, che si spin­
ge al di là del processo tecnico come tale, non è di regola dimostrabilmente
rilevabile in testi tecnici e non disturba il funzionamento, qualora di essa
non si tenga conto. Ciò significa: il processo tecnico e eventuali intenzioni
dell' autore che · vanno al di là di esso sono due cose notevolmente tra loro
differenti nel caso di testi non letterari. Invece nel caso di testi letterari essi
sono strettamente tra loro intrecciati.
Per il nostro tema questo significa una precisazione della lealtà: rispetto
alla pura utilità nella cornice di una rigida funzionalità, nel caso di testi let­
terari la lealtà vale come un elemento all' interno di una società comunicati­
va. Appunto la società comunicativa esige anche il rispetto dell' autonomia e
dell' alterità dell' autore estraneo di un testo, e ciò precisamente quando si
tratta del suo testo. Lealtà significa perciò non procedere, nei confronti di un
testo, soltanto secondo la ratio della convenienza o delle esigenze della
situazione.
Occorre procedere in questo modo, perché questo rispetto dell' autore di
un testo è un frammento di 'pace' . E a questo riguardo vale il principio: pax
utillima ratio, per cui si tratta di un ultimo orizzonte di utilità.

TESI 6: Il dibattito sulla lealtà si colloca anche nel contesto di altre pre­
cisazioni circa la nonnatività che regola il tradurre (ethos della traduzio­
ne).
Uno dei problemi centrali della scienza della traduzione è chiaramente
quello delle norme e dei criteri che devono regolarla. La 'lealtà' entra nella
discussione come una di tali norme. L' ideale dell'equivalenza va in proposi­
to considerato come antiquato.
Rivaleggiante in qualche modo con la lealtà sembra essere a prima vista
l' «incarico di effettuare la traduzione» (teoria dello scopo). Le due cose pos­
sono infatti nel caso concreto confliggere tra di loro. Esse però si collocano
su piani diversi, per cui è indubbiamente possibile una chiarificazione di
fondo perlomeno teoretica del loro rapporto.
Anzitutto: l' incarico di effettuare la traduzione (scopo) non parte di rego­
la dal traduttore, ma da un terzo. Tuttavia la soluzione del problema non sta
ora nel dire che la lealtà verso la controparte sarebbe unilateralmente una
virtù del traduttore. Qui vale piuttosto quanto segue:
l . L' incarico di effettuare la traduzione non è il criterio supremo. Quale
azione sociale (vedi Tesi l ) anch' esso sottostà piuttosto a determinati criteri
etici. Neppure l' incarico se ne sta solitario su un' ampia distesa, ma è sogget­
to alle regole fondamentali della società comunicativa.
118 seconda pane

2. La lealtà vale perciò sia per colui che conferisce l' incarico di effettuare
la traduzione sia per il traduttore: essa è una norma comune che governa in
modo diverso il diverso agire dei due.

TESI 7: Sotto l 'aspetto della lealtà ogni testo tradotto presenta un carat­
tere di compromesso.
Spiegazione: il compromesso viene effettuato tra le intenzioni dell' autore
del testo, lo scopo della traduzione e le attese dei futuri lettori. Si tratta per­
ciò di un cammino su un filo di lana, il cui risultato è il testo tradotto.
Le questioni sopra discusse nella Tesi 3 tornano qui in altra forma: se si
trattasse solo di rendere un messaggio per raggiungere uno scopo, allora sol­
tanto questo scopo sarebbe normativo. Allora la funzione del testo nell ' oriz­
zonte delle convenzioni in vigore tra i destinatari della traduzione sarebbe
l' unico criterio oggettivo. L' intenzione dell' autore avrebbe infatti allora sol­
tanto una funzione puramente antiquaria.
Ma poiché non si tratta di un messaggio isolato, bensì di un evento socia­
le e comunicativo, non può trattarsi solo di un funzionamento oggettivo, cui
andrebbe sacrificata qualsiasi inattualità del testo. Allora ci vuole piuttosto
una fondamentale capacità sociale: la capacità di compromesso.
Rispetto a qualsiasi radicalità sia nel senso del puro funzionalismo, sia
nel senso di una 'traduzione esoterizzante ' , questa esigenza risulta meno
attraente e più differenziata. Essa pone anche il problema dell'utilità: che ne
viene all' autore di un testo, se io lo rendo in modo leale o meno? se nel tra­
durre tengo costantemente conto delle sue rappresentazioni dei valori? - Ma
appunto qui possiamo ben dire : la cultura estranea, appunto la cultura
dell' autore di un testo, e le sue rappresentazioni dei valori vanno di per sé
rispettate come un valore umano, e qualsiasi 'stravolgimento' di tale 'cultu­
ra' è problematico.
Il fatto di definire qualsiasi testo letterario tradotto un compromesso e di
redigerlo soprattutto anche sotto questo aspetto non va sicuramente esente
da problemi. Lo svantaggio sta nel fatto che il testo tradotto viene eventual­
mente privato di una parte della sua efficacia62• La possibilità del carattere di
compromesso sta invece nel fatto che un testo tradotto può svolgere una par­
te del necessario dialogo interculturale e evidenziare e far comprendere
l' altra cultura come diversa.

62
Proprio nel caso delle traduzioni della Bibbia e di tutto il processo della traduzione attualiz­
zante del cristianesimo questo risulta chiaro: l' esigenza di attualità contrasta tradizionalmente in
misura non insignificante con la necessità politico-ecclesiale di essere un partner interpellabile da
generazioni e rappresentazioni di valori diverse.
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 1 19

Al posto di 'compromesso' possiamo anche dire 'equilibrio' . Un testo tra­


dotto crea un equilibrio - forse labile - tra persone e culture assai diverse e
rappresenta così uno spazio di una possibile comunicazione. La comunica­
zione è qui pluristratificata: in una prima fase essa è attuata dal traduttore
per se stesso; in una specie di gioco interiore delle parti egli deve far parlare
e far entrare in comunicazione davanti a sé la cultura di partenza e quella di
arrivo. Il risultato di questo dialogo è il testo tradotto. La lealtà significa che
in questo processo si tratta realmente di un dialogo. La comunicazione
comincia poi di nuovo con il lettore della traduzione: la traduzione gli ha
avvicinato la cultura estranea, ma a motivo della lealtà non l'ha fatta diven­
tare identica a lui, cosicché egli deve confrontarsi in certo qual modo con un
nuovo scostamento o con una nuova multiformità instauratasi nell' orizzonte
della propria cultura, in cui la traduzione ha immesso il testo.
La creazione qui sottolineata di un equilibrio, oltre che per il modo di
operare del traduttore, ha oggi senza dubbio un' importanza generale di fron­
te al pericolo ( ! ) di una cultura mondiale unitaria e livellante, da un lato, e di
fronte ai nazionalismi purtroppo di nuovo risorgenti, dall' altro lato. A lungo
andare la soluzione può consistere soltanto in una concordantia discordan­
tium. Con questa espressione io intendo - nella scia di Nicola Cusano - la
riconciliazione degli opposti mediante un' azione 'politica' di unificazione.
Appunto di questo si tratta anche nel caso di una traduzione. La traduzione,
quale creazione di un equilibrio tra persone, stabilisce anche un pezzo di
unità del diverso.

TESI 8: L'alterità dell 'autore, il cui diritto è protetto dalla lealtà, deve
essere un 'alterità compresa dal traduttore e comprensibile da/ lettore.
Spiegazione: il traduttore non può limitarsi ad essere leale in senso giuri­
dico (perché allora la sua è solo una fedeltà priva di senso), né può non
offrire a sua volta alcuna possibilità al lettore di comprendere l ' alterità
dell' autore (che a motivo della lealtà egli ha 'salvaguardato' ) . Ma per fare
questo non può neppure limitarsi ad attualizzare in ordine alla cultura di
arrivo, bensì deve stabilire dei paragoni, menzionare delle analogie o indica­
re elementi più antichi o marginali presenti nell ' orizzonte della propria cul­
tura. Anche il lavoro attorno alla propria tradizione (alla tradizione del ricet­
tore) rende possibile la comprensione.

TESI 9: Nella cornice della lealtà il ruolo del traduttore e quello del
ricettore sono in modo caratteristico diversi.
Spiegazione:
l . Proprio nei confronti di una traduzione 'leale' il comportamento del
1 20 seconda parte

ricettore non è soltanto passivo. Egli collega secondo le istruzioni, riempie


gli spazi vuoti e crea delle associazioni con elementi sconosciuti.
2. Nei confronti del ricettore (dei destinatari viventi nella cultura di arri ­
vo) il traduttore ha, con la categoria della lealtà, una funzione pedagogica,
che consiste nell' indurlo ad essere attivamente tollerante verso l' alterità rap­
presentata. Per 'tolleranza attiva' io intendo qualcosa di diverso da una sem­
plice accettazione e da un semplice riconoscimento dell' altrui validità,
intendo cioè una determinata approvazione dell' estraneo, naturalmente sen­
za curiositas e senza l' adattamento scimmiottante ad esso.
3. D' importanza decisiva è questo: la tolleranza attiva descritta nel punto
2 è piuttosto un elemento ritardante nel processo di comprensione del ricet­
tore, elemento che va per sua natura strettamente in senso contrario al desi­
derio di lealtà. Perlomeno il lettore vuole infatti potersi realmente identifica­
re con quanto viene offerto nel testo, vuole l' inserimento del testo nella pro­
pria cultura, vuole una conferma e si attende a breve termine una qualche
utilìtà dal testo letto. Il ricettore tende (questa è esattamente la fusione di
orizzonti nel senso di H. G. Gadamer) a stabilire un' unità e una perfetta cor­
rispondenza, il che significa: il ricettore non è tendenzialmente leale, bensì
tendenzialmente 'applicativo' .
Ma se il ricettore reagisce così, a che serve la lealtà del traduttore, per
quale scopo essa era buona? Essa sarebbe certamente priva di senso se non
perseguisse uno · scopo nel ricettore. Evidentemente essa ha lo scopo di ser­
vire, mediante la rappresentazione della ricchezza e delle molteplici possibi­
lità del testo tradotto, al livello e al formato dell' unità applicativa stabilita
dal ricettore. Infatti tutta la 'pace' della comunicazione interculturale non
serve a niente, se per il singolo ricettore essa ha solo il sapore di una fatica.
Piuttosto per lui il guadagno sta come minimo nella possibilità di poter
'scorgere' una grande ricchezza di possibilità di essere. Perciò la lealtà del
traduttore significa per il ricettore un ampliamento dell' 'offerta' di possibi­
lità di esistenza (foss' anche solo allo scopo di percepirle mediante la visio­
ne) e, quindi, di una multiforme ricezione.
Questo lascia però a mio avviso intravvedere una funzione fondamentale
della lealtà del traduttore: la lealtà consiste di fatto nel non anticipare la pre­
stazione del ricettore. Il traduttore leale rimanda di una fase questa operazio­
ne. Tale dilazione ha il senso di permettere ai lettori di collegarsi in molte­
plici modi al testo tradotto e di }asciarli quindi liberi. Il traduttore rinuncia
perciò a esercitare un' azione di tutela sul lettore, perché egli non può tra­
sportaretutte le possibilità di comprendere o rappresentarsele anticipandole.
Di qui segue: la lealtà equivale a un arresto nel processo di attualizzazione.
Dove questo riesce particolarmente difficile e dispendioso, lì ci vuole un tra-
Schema di un 'enneneutica del Nuovo Testamento 121

dottore e un 'testo intermedio' , finché il ricettore crea il proprio testo appli­


cato (perlomeno in modo inespresso).
Pure tutta la problematica del rapporto tra esegesi scientifica di un testo e
applicazione va risolta secondo questo modello: l' esegeta di un testo o il tra­
duttore leale non fa qualcosa che fanno poi gli ulteriori ricettori, non stabili­
sce cioè una perfetta corrispondenza con la situazione concreta. In altre
parole: l' esegeta o il traduttore leale si contiene in certo qual modo nel pro­
cesso dell' attualizzazione del testo in questione, interrompe quel che egli
stesso ha avviato. Risparmia qualcosa e lo riserva agli ulteriori ricettori. Egli
è infatti come un costruttore di ponti, debitore verso ambedue le sponde. Ed
è di conseguenza anche lui stesso un ricettore, così come ogni ricettore è un
traduttore.
La lealtà verso l' autore del testo ha perciò la sua altra faccia nel fatto che
al ricettore (lettore) del testo non viene fornita un' applicazione completa e
già 'bell' e pronta' , bensì viene fornito solo un 'testo intermedio' con 'spazi
vuoti' e conseguenze lasciate aperte. E questo modo di agire ha un suo sen­
so non solo per la società comunicativa interculturale con l' autore del testo,
bensì anche per la società dei ricettori. Infatti la relativa apertura del testo
intermedio significa nientemeno che proprio una società pluralistica di ricet­
tori può far riferimento ad esso: la mancanza di una attualità diretta, frutto
della lealtà verso l' autore, significa per i ricettori che essi possono rifarsi in
molteplici modi al testo tradotto, appunto perché questo non 'indottrina' o
lega in un solo senso.
Per una società dai tratti pluralistici questo è importante, perché solo in
una simile lettura complementare del testo il grande bisogno di libertà di
una molteplicità di comunità di lettori può essere soddisfatto63•
Il ricettore non è più «obbligato verso ambedue le sponde», ma deve
vedere come può 'sopravvivere' , e si domanda come un testo può a ciò
cçmtribuire. Il traduttore leale è in questo processo il legame con gli altri
ed ha quindi una funzione unica, irripetibile e sociale oltremodo importan­
te .

•, Qui si potrebbe obiettare (dal punto di vista di una teoria della traduzione radicalmente funzio­

nale): a seconda della comunità dei lettori ci vuole di conseguenza una traduzione solo e sempre
funzionale, quindi una Bibbia per adulti e una Bibbia per le elementari e le medie. - Questo si può
fare, ma cosi agendo si terrebbe conto soltanto di una 'metà' della lealtà, cioè dell'apertura alla
pluralità. L'istanza dell' altro aspetto, che vieta di perdere di vista l' autore, rimarrebbe cosi ancor
sempre un desiderato. Ciò significa: la lealtà ha due aspetti, e se essa viene attuata in modo coeren­
te, allora tali due aspetti stanno fra di loro anche in un reciproco rapporto.
1 22 seconda parte

TESI 10: Per la ricezione da parte dei lettori la lealtà ha anche questo
significato: essa limita detenninate fonne di ricezione e ne favorisce altre.
Spiegazione: con la «ricchezza di possibilità di collegamento» offerta dal
traduttore leale non è ancor detta l' ultima parola, perché la rice�ione viene
pilotata anche in altro modo.
Limitati vengono: il consumo puramente affermativo, l' adattamento sen­
za riserve a qualsiasi convenzione, l' 'abuso' di un testo per ottenere da esso
una conferma, senza riguardo alla sua natura e in particolare senza tener
conto della sua funzione critica, il che significa alla fine interscambiabilità
dei testi (i testi, quali che essi siano, confermano tutti la stessa cosa).
Favorite vengono: la percezione differenziata, la tolleranza e la curiosi­
tà64.
Possiamo perciò dire : la lealtà e, quindi, l' attualizzazione ininterrotta
sono una precondizione di una multiforme ricezione. Detto in termini un po'
iperbolici: proprio l' individualità non adattata65 del testo tradotto rende pos­
sibile una pluralità di ricezioni.

TES I 1 1 : La lea ltà ha de i confini. Il ·confine inferiore è stabilito


dall 'autore, il confine superiore è stabilito dalla capacità di ricezione del
ricettore.
Spiegazione: la riflessione sui limiti della lealtà ci costringe a trattare
ancora una volta tutta la tematica sotto questo aspetto: la libertà è il «tema
centrale occulto» di ogni ermeneutica. È di una evidenza palmare che queste
questioni sono assai importanti per qualsiasi tipo di discorso interculturale.
Il confine inferiore della lealtà (cioè una misura minima, al di sotto della
quale secondo me non bisognerebbe scendere) è violato, se il traduttore per­
de completamente di vista e non indica più, con alcun segnale, il fatto che si
tratta di un testo di origine estranea. Già sopra (Tesi 2) abbiamo visto che la
lealtà si riferisce alla compagine dei valori dell' autore di un testo, alle con­
vinzioni di fondo che costituiscono la sua identità biografica.
Per identità biografica io intendo: chi la disprezza non riesce più a com­
prendere periodi essenziali della vita dell' autore, in particolare i periodi col­
legati con il testo prodotto. Lo scopo della lealtà era infatti quello di entrare
personalmente in colloquio con l' autore di un testo e di non permettere che

64 «La santa curiosità della ricerca, questa piantina delicata ha bisogno, oltre che dello stimolo,

soprattutto della libertà; senza di questa essa deperisce inevitabilmente>> (A. EINSTEIN, Autobio­
graphische Notizen, in P. A. SCHLIPP, Albert Einstein, Stuttgart 1 95 1 , 7) .
•, Grazie al riferimento ali' autore, salvaguardato dalla lealtà del traduttore, il testo tradotto rima­

ne infatti sino ad un certo grado un corpo estraneo nella cultura di arrivo.


Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 1 23

egli scomparisse di vista. Pertanto il traduttore che trasforma uno scrittore di


guerra antifrancese in un francofilo pacifista ha con ciò violato la lealtà nel
senso del superamento del confine inferiore.
In fondo possiamo definire questa regola in base al nostro principio teore­
tico circa la comunicazione: se ignoriamo l' autore come partner del dialogo,
se non ne teniamo regolarmente conto e non gli permettiamo 'più di compa­
rire' , allora abbiamo superato il confine inferiore.
Per quanto riguarda il confine superiore: lo superiamo se il lettore non
comprende più quello che gli offriamo (cfr. la Tesi 8), cioè se egli non è più
in grado di stabilire delle associazioni, di ricordare e/o di stabilire dei para­
goni. Ciò significa: il confine superiore è grosso modo stabilito dalla base
delle associazioni da parte dei ricettori nella cultura di arrivo.
Tanto per fare un esempio: il lettore non deve certo poter penetrare tutto
nel senso della chiarezza razionale; la comprensione in questo senso non
può essere un criterio, perché proprio il mistero e il misterioso fanno costi­
tutivamente parte dei mondi dei testi letterari. Il lettore deve però essere per­
lomeno capace di fare delle associazioni. Non è perciò certo assolutamente
necessario tradurre la giaculatoria tibetana «om mani padme hum», perché il
lettore conosce testi in lingua straniera esistenti anche nel proprio mondo
culturale, testi attinenti precisamente la magia e la prassi della preghiera,
appunto i cosiddetti Rhesis barbarike. Invece non sarebbe possibile offrire,
senza tradurlo, un testo più lungo, che vada al di là della dimensione di una
formula.
Pertanto possiamo dire: il minimo della lealtà esige che si continui a tener
conto dell' autore come partner del dialogo; la lealtà diventa una pretesa
eccessiva, se i lettori non riescono più a collegare alcunché con quanto vie­
ne loro offerto.
Proprio a questo punto diventa ancora una volta chiaro che l' esigenza del­
la lealtà è definita nel singolo caso dal conflitto: dove la comunità dei lettori
condivide senza fatica i valori dell' autore, lì non c'è bisogno di lealtà. Essa
è in fondo già presente. Di lealtà c ' è bisogno quando insorge un conflitto di
lealtà, per cui possiamo dire: sotto il profilo contenutistico la misura della
lealtà è stabilita dalla differenza tra l' ordine dei valori dell' autore e l' ordine
dei valori dei lettori. Essa dipende pertanto da tale differenza. Non l' autore
di per sé preso, bensì la situazione effettiva tra i lettori della traduzione deci­
de se c'è bisogno di lealtà verso l' autore.

TESI 12: Per quanto riguarda la concretizzazione della lealtà: un tradut­


tore è indubbiamente leale in primo luogo là dove esiste o potrebbe esistere
un conflitto di lealtà.
1 24 seconda parte

Spiegazione: di grandissima importanza è che il traduttore sia sufficiente­


mente sensibile da percepire il conflitto di lealtà, cosa questa che esige_ la
relativizzazione autocritica del proprio punto di vista. - Ma allora la lealtà
consiste nel posporre i propri interessi, le proprie necessità e le proprie
ovvietà per salvaguardare i diritti dell' autore contro di esse. La lealtà è per­
ciò la capacità di far valere gli interessi, le rappresentazioni dei valori e le
intenzioni dell' autore contro gli evidenti interessi ecc. del traduttore e dei
destinatari.
Perciò per un traduttore del Nuovo Testamento la lealtà verso gli autori
neotestamentari consisterebbe nel non smussare passi dogmaticamente diffi­
cili come Eb 3,2 (Dio ha 'fatto' Gesù, Gesù è una creatura di Dio), Mc 3,21
(i familiari di Gesù pensano che egli sia impazzito) o Gv 1 0,34 (degli uomi­
ni sono apostrofati come 'dèi ' ) nell' interesse di una conformità o conve­
nienza ecclesiale-autoritaria moderna. Qui l' evidenziazione di queste scon­
venienze non è fine a se stessa, ma ha un' importante funzione sociale e di
politica ecclesiale: a) diventa perlomeno chiaro che anche cristiani con rap­
presentazioni assai diverse dalle nostre trovano posto e hanno voce addirit­
tura nel canone neotestamentario; b) nell' odierna situazione esistente, ad
esempio, in Germania ci sono molte persone per le quali le affermazioni di
questo tipo potrebbero significare una liberazione dalla pressione dogmati­
ca. In que sto modo si potrebbe ampliare la serie dei destinatari a cui il testo
ha qualcosa da dire (pluralismo).
Così diventa, in conclusione, ancora una volta chiaro che la lealtà, quale
comportamento del traduttore, ha proprio, come espressione della. sua sensi­
bilità filologico-storica sia verso l' autore sia verso i ricettori, una sua impor­
tanza nel campo del sociale.
Perciò la realizzazione (}ella concordantia discordantium nel testo tradot­
to equivale a stabilire un pezzo di pace viva.

7. Esegesi - Applicazione - Ermeneutica

DISTINZIONI

L'esegesi è l' accesso descrittivo scientifico al testo. I criteri sono costitui­


ti dalla totalità dei metodi filologici e storici e dalla verificabilità intersog­
gettiva ad essi collegata.
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 1 25

L' applicazione consiste nel mettere un testo in relazione con il presente


(con la situazione del momento), nel «raccontare ad altri il messaggio» ecc.
L'ermeneutica è il tentativo di descrivere i due modi di accesso al testo in
sé e nel loro reciproco rapporto e di inquadrarli in modo teoretico scientifi­
co. Questa operazione comprende anche la questione della buona o cattiva
riuscita dell ' applicazione. Si tratta di individuare tutti i fattori che sono
importanti per l' applicazione.
L'ermeneutica, nonostante il suo carattere teoretico, non procede (in que­
sto saggio) in modo deduttivo, bensì il più possibile in modo fenomenologi­
co-induttivo66. - L'ermeneutica non è lo stesso procedimento dell' applica­
zione, ma la descrizione scientifica dell' applicazione (l' illustrazione della
sua coerenza e delle sue motivazioni). Essa assegna all 'esegesi e all ' applica­
zione il loro posto.

SEPARAZIONE TRA ESEGESI E APPLICAZIONE

Fondazione della separazione

Un fenomeno non proprio raro : certi teologi fanno esegesi e 'critica


oggettiva' insieme e, nel farlo, pensano di essere teologi critici e nello stesso
tempo impegnati. L' esempio della recente storia dell' interpretazione di l
Cor 1 4,3 3b-36 lo mostra bene : contrariamente ad ogni evidenza critica
testuale si cerca di 'dimostrare'67 che il passo sarebbe un' aggiunta successi­
va non paolina (la stessa cosa si tenta di fare con Rom 1 3 , 1 -7)68, perché non
si può e non si vuole ascrivere a Paolo queste affermazioni così spiacevoli,
inoltre perché per i teologi non esiste chiaramente la possibilità di ascrivere
a un autore canonico come Paolo qualcosa di completamente diverso da ciò
che da lui ci si attende e di continuare nello stesso tempo a ritenerlo
un' autorità biblica. Se si seguisse infatti questa logica occorrerebbe effetti­
vamente domandarsi: su che cosa possiamo fare ancora affidamento, se Pao-

66 Qui e nelle pagine che seguono 'fenomenologico' significa: descrizione con l' aiuto del lin­

guaggio quotidiano. Esso non significa: adesione alle vie in parte astoriche e astraenti della feno­
menologia e della storia delle religioni anni addietro in auge (questione dell' 'essenza' ) .
•, Così ad esempio G. DAUTZENBERG, Urchristliche Prophetie, Stuttgart 1 975, 257-273.

68 E. Schweizer, in ID. (ed.), Dimensions de la vie chrétienne Rom 12-13 (St Paul), Ziirich 1979,

1 33: «lo spero sempre nell' intimo del cuore che Paolo non abbia scritto Rom 1 3 , 1 -7», e teologi
cal vinisti (per es., Bamikol e Eggenberger).
1 26 seconda parte

lo si esprime forse qui in un modo diverso da come fa in Gal 3,27s.? - In


breve, non esiste solo un' apologetica dei conservatori interessati, ma esiste
anche un' apologetica dei progressisti interessati, la quale tenta ciò che è sot­
to il profilo filologico difficilmente possibile, per poter scagionare l' autore
canonico e per poterlo poi tanto più disinvoltamente mettere sotto sequestro
con il resto dei suoi testi da lui derivanti. Un modo di procedere apologetico
di questo tipo è perciò molto 'più pericoloso ' , perché il progressismo suole
ammantarsi dei panni della ragione e perché certe operazioni esegetiche
(come la spiegazione che parla di aggiunta o di glossa, quest' ultima un
modo di procedere particolarmente ricorrente in R. Bultmann) appaiono già
di per sé assai più ragionevoli e critiche di una semplice accettazione del
testo. Inoltre ancora ci si appella poi di solito sfacciatamente, per questo tipo
di 'esegesi interessata' , al «circolo della comprensione» ripetuto a mo' di
professione di fede, circolo che appunto non solo permetterebbe un simile
impegno, ma lo renderebbe addirittura inevitabile. - Nel frattempo si pratica
spesso questo tipo di miscela di esegesi e di interesse morale anche a propo­
sito di affermazioni neotestamentarie concernenti Israele, nel tentativo di
scagionare autori neotestamentari da affermazioni antigiudaiche69•
Il collegamento apologetico da noi descritto tra esegesi e applicazione è
sempre frutto del desiderio di essere, precisamente come esegeta storico-cri­
tico, anche teologo (applicativo). Si vorrebbe dimostrare di essere teologi
salvaguardando nello stesso tempo i metodi storico-critici . Così facendo non
solo si pretende troppo in una sola volta (l' esegeta appare nello stesso tempo
come il maestro normativo puro e semplice della chiesa, maestro che deve
poter tutto e fare tutto), bensì soprattutto siamo qui a mio giudizio di fronte
a una falsa concezione della natura della teologia come funzione della chie­
sa. In questo modo non si vede la funzione 'ecclesiale' dell' analisi di testi e
situazioni.
Noi invece separiamo l' applicazione dall 'esegesi, perché altrimenti non è

69 Cfr. la recente esegesi di l Ts 2, 1 5- 1 6. - Due cose lasciano spesso a desiderare tra gli interpre­

ti : l ' una è I' antigiudaismo realmente deplorevole di esegeti, i quali cercano di isolare artificiosa­
mente il cristianesimo primitivo del secolo I dal giudaismo e di considerare cristiano soltanto ciò
che è presuntamente non giudaico. - Potremmo chiamare questo modo di procedere una falsa apo­
logetica conservatrice. - Qualcosa di diverso è invece cercare di inserire in autori cristiani primiti­
vi propri pii desideri e non ammettere che tali autori possano aver fatto delle affermazioni antigiu­
daiche, perché nella loro qualità di autorità canoniche debbono aver detto la 'verità' valida. Qui
tocchiamo con mano le perplessità in cui si dibatte la situazione ermeneutica. lrrisolta rimane qui
la questione del tipo di normatività del canone. Se si afferma ingenuamente tale normatività, si è
poi di continuo tentati di piegare certe affermazioni neotestamentarie in favore delle istanze attuali
spesso indubbiamente giustificate. E questa è un' apologetica progressista.
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 1 27

più possibile alcuna esegesi onesta e perché altrimenti subentrano conse­


guenze di vasta portata sotto forma di ideologizzazione e di consumo dei
testi. Alla base di questa separazione c'è una distinzione tra comprensione
storica e comprensione applicativa.

CHE RIMANE ALL' ESEGESI?

L' applicazione avviene nella chiesa da sempre senza esegesi storico-criti­


ca e indipendentemente da essa, e le cose continueranno a rimanere così
anche in futuro. In particolare a proposito dell' applicazione per molti versi
ben riuscita possiamo dire: qui l'esegesi non deve interferire, né dovrebbe,
per semplice amore della propria autoconferma, giocare la carta della pro­
pria saccenteria storica contro un' applicazione 'senza esegesi' . L' esegesi ha
perciò molto chiaramente solo una funzione limitata. La chiesa vive di rego­
la alla luce della Scrittura in modo più diretto, più semplice, più spontaneo e
in un certo senso forse anche più docile.

Nessun carattere vincolante dell 'esegesi

L' esegesi non può fare alcuna affermazione vincolante per gruppi cristia­
ni. Le sue ricostruzioni storiche non possono infatti essere oggi di per sé
vincolanti. Questo significa anche: l' esegeta non è come esegeta già anche
una guida ecclesiale.

L'esegesi non sostituisce l 'applicazione

L' esegesi non può e non deve perciò sostituire l' applicazione viva. I gran­
di movimenti all' interno della storia della chiesa scaturiscono sì sempre dal­
la lettura della Scrittura, ma non dali' esegesi storico-critica. L' esegesi non
ha forse mai indotto qualcuno a 'convertirsi' . Naturalmente rimproverarle
questo come una 'mancanza' sarebbe cosa non oggettivamente giusta, per­
ché essa vuole essere giudicata in base alle sue intenzioni. Il suo servizio è
essenzialmente più semplice. Se lo si riconosce, non ci si attenderà neppure
troppo da lei e non la si potrà neppure ritenere responsabile di tante cose
infruttuose.
Solo se vediamo che l ' esegesi non può sostituire il servizio vitalmente
128 seconda parte

necessario dell ' applicazione, eviteremo anche lo scambio spesso constata­


bile tra predicazione e esegesi.

Nessun dominio dell 'esegesi sulla Scrittura

L' esegesi non vuole e non può perciò neppure ergersi a 'padrona della
Scrittura' (come suona una critica spesso mossale), perché essa non può dire
che cosa oggi 'sia valido' e che cosa no. Né essa è sicuramente l' unica via
possibile per rispondere alla questione del significato del testo biblico come
testo antico. Non si può infatti semplicemente escludere che qualcuno che
comprende mediante l' intuizione un testo o che lo segue docilmente nella
sua prassi colga anche il senso storico di tale testo meglio dell' esegeta.
Spesso una simile intuizione può successivamente essere resa plausibile
anche con argomenti esegetici, benché non sia stata appunto acquisita esege­
ticamente.

L'esegesi non critica la concezione biblica della realtà

L' esegesi descrive e ricostruisce affermazioni su Dio. Non è assolutamen­


te suo compito prendere delle decisioni pro o contro tali affermazioni. Que­
sto è compito della fede.
L' esegesi insegna a capire che ciò che spesso appare come una supersti­
zione antica poggia in verità su una diversa concezione delle categorie fon­
damentali del tempo, dell' identità, della persona e della fattualità. E così
diventa possibile ricostruire non solo nei particolari, bensì anche nel suo
insieme quel che i cristiani del secolo 1 hanno concretamente pensato nel
caso di determinate affermazioni.
Da questa concretizzazione dipende semplicemente tutto. E proprio su
questo punto non esiste un interesse solo antiquario. Perché l' interesse per la
concretezza nel secolo 1 d.C. corrisponde nel senso stretto del termine
all' interesse per la concretizzazione adesso. Questo significa: se l' esegeta
insiste nel voler sapere con molta precisione come certe affermazioni sono
state 'pensate' , lo fa perché vorrebbe sapere una cosa: gli uomini come sono
arrivati a pensare proprio così? Quali esperienze (umane e quindi perlomeno
in linea di principio nonché parzialmente ricostruibili) stanno alla base delle
affermazioni? Quali conseguenze vennero nel singolo caso da determinate
affermazioni per la vita quotidiana? Quali effetti storici ha avuto il testo?
Solo se l' esegeta riesce a ragguagliare in modo così concreto a proposito
delle implicazioni e delle conseguenze possibili e effettive del testo, balena-
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 1 29

no anche oggi nell' orizzonte del campo visivo delle concretizzazioni quoti­
diane . Solo così si impedisce infatti che il testo sia concepito come una
'verità' globale o come una dottrina universalmente valida. La ricostruzione
della concretizzazione storica si avvale in modo particolare (a mio giudizio
primariamente) delle problematiche storico-religiose e (anche) storico­
sociali, nonché della fenomenologia della storia delle religionF0•
Risultato: l' esegesi storico-critica mostra che la verità non esiste al di
fuori della realtà storica e che essa è inevitabilmente sempre e poi sempre
legata alla storia concreta e in essa inserita.

L'esegesi indica alcune alternative false e deleterie

L'esegesi non concepisce le proposizioni teologiche del passato nel senso


di verità immutabili, bensì individua le domande ' storiche ' a cui il testo
risponde. Così facendo essa mostra che la sistematizzazione effettuata nel
posto sbagliato nel corso della ricezione ha portato ad alternative deleterie
(perché insolubili). Queste alternative sono soprattutto:
l . l' alternativa tra opera o grazia (con opzione in favore di quest' ultima) ;

70 L' esempio del racconto della trasfigurazione di Mc 9,2-8 permette di mostrare che solo rifa­
cendosi ad alcune analogie della storia delle religioni (cfr. BERGER-COLPE [ 1 987] 59-6 1 ) si com­
prende, anche se in maniera sempre molto insufficiente, il possibile fondamento esperienziale
dell'episodio raccontato. lo penso infatti che compito dell' esegeta sia quello di stabilire, per esem­
pio nel caso della trasfigurazione di Gesù, che cosa potrebbe stare alla base del racconto, cioè di
ricostruire le stesse esperienze senza cadere in un piatto razionalismo. Occorre interrogarsi sui pre­
supposti che soli fecero apparire plausibile a lettori antichi un racconto come quello di Mc 9,3. Se
infatti facciamo come se una trasfigurazione sia la cosa più ovvia del mondo e come se essa non
avesse bisogno di alcun commento, oppure come se essa fosse appunto uno dei molti 'miracoli' a
noi non più accessibili, ambedue queste concezioni sarebbero sicuramente e in egual modo proble­
matiche. In questo caso ciò significa: la via di accesso va a) cercata attraverso la metaforica storica
dell' immagine di Dio: nella sua qualità di Dio del cielo Jahvé è essenzialmente sperimentato come
luce, cosa da cui deriva anche il discorso dello splendore della sua gloria. Chi appartiene a Jahvé
partecipa a questa luce. Perciò il messaggero di Jahvé, che lo rappresenta direttamente in qualità di
Figlio, può essere sperimentato nel suo splendore. Inoltre b) va evidentemente presupposta l' espe­
rienza - e qui sono di aiuto analogie della storia delle religioni, che partono dalla sola trasfigura­
zione del 'volto' - che vengono cambiati in modo particolare il volto e gli occhi (che rappresenta­
no soprattutto il volto) dell' estatico. Nel campo della tradizione giudeo-cristiana vediamo dagli
occhi che gli estatici sono afferrati dalla 'presenza di Dio' . Questo è un argomento fenomenologi­
co e storico-religioso, che è avallato da casi paralleli della storia delle religioni. Risultato: la trasfi­
gurazione di Gesù è sperimentata come presenza della luce di Dio, da un lato (nella tradizione
ebraica Dio è in continuazione sperimentato così), e come trasformazione della sua espressione,
dall' altro lato, trasformazione che qui - e questa è l' accentuazione particolare rispetto ai casi paral­
leli - non riguarda soltanto il volto, ma tutta la persona di Gesù. Questo non spiega l ' evento in se
stesso, però precisa ciò in cui esso consiste e perché sia stato sperimentato proprio così.
1 30 seconda parte

2. l' alternativa tra colpa personale o condizione universale (con opzione


in favore di quest' ultima);
3. l' alternativa tra un Dio che ama o un Dio che castiga (con opzione in
favore del primo) ;
4. l' alternativa tra predestinazione da parte di Dio o libertà umana (i
Riformatori optarono spesso per la prima) ;
5. l' alternativa tra un Dio che è presente per tutti gli uomini e ama tutti o
un Dio che ne ha eletti alcuni in modo particolare (Israele/chiesa).
Proprio queste alternative hanno dato infinitamente da fare alla teologia
sistematica e tormentano ancor oggi ogni studente di teologia. - Per ogni
alternativa parziale è possibile addurre di volta in volta citazioni bibliche, e
il tentativo di armonizzazione battendo vie intermedie è spesso fallito71 • Ma
non potrebbe essere che i metodi della successiva sistematizzazione siano
nel loro complesso e già come metodi inadeguati ai dati biblici? Non potreb­
be essere che ciò che per uomini antichi nel campo del giudaismo viene spe­
rimentato, per esempio, in modo processuale e successivo, sia escluso sol­
tanto sotto l' aspetto della contemporaneità, aspetto introdotto artificiosa­
mente da una successiva sistematizzazione?
Un problema particolare nel caso delle menzionate alternative sta chiara­
mente nella teologia dell' onnipotenza, che da parte sua costituisce un peri­
colo di assorbire nella teologia un pensiero realmente storico72•

L'esegesi serve alla necessaria riflessione sull 'inizio

Per la chiesa cristiana il richiamo alla Scrittura è d'una necessità vitale.


Questo la distingue da una 'visuale' filosofica 'del mondo' . La chiesa cri­
stiana è infatti legata alla unicità, irripetibilità e insostituibilità di Gesù Cri­
sto, e l' orientamento a Gesù può essere verificato soltanto attraverso la
Scrittura.
Questo richiamo alla Scrittura può avvenire in modo 'ingenuo' mediante
una relecture e viene effettuato in ogni nuova applicazione. - L' esegesi non
può dimostrare la legittimità dei vari modi di applicazione. Il suo compito

71 Cfr. al riguardo l'excursus in O. Kuss ( 1 978) sulla problematica della 'predestinazione' (828-
935).
72 Se Dio è pensato come il semplicemente onnipotente e si comporta di conseguenza, non rima­
ne àlcuno spazio per la libertà dell' uomo. Ma è giusto parlare teologicamente di Dio sempre in
modo tale da partire da lui come dall' «ens peifectissimum>>? L'esperienza asistematica dei testimo­
ni biblici non è diversa e in fondo più complessa? Cfr. al riguardo K. BERGER, Wie kann Gott Leid
und Katastrophen zulassen ?, Stuttgart 1 996, 1 9982, ed. economica 1 999.
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 131

consiste solo nel far parlare e nel far valere la Scrittura (anche e proprio nel­
la molteplicità delle sue teologie) di fronte a qualsiasi applicazione. Essa
può fare questo criticamente e correggendo, senza però poter o dover di vol­
ta in volta dimostrare positivamente il buon diritto di un' applicazione, ma
anche senza voler mai assumersi il compito di effettuare la stessa applica­
zione.
È infatti in partenza chiaro che il senso storico della Scrittura non sarà
mai identico (come vedremo) all' applicazione e al senso adesso valido per
l' applicazione. Mai infatti una situazione sarà uguale all ' altra, e il 'senso' o
'significato' risulta sempre dal confronto tra testo (lettera) e situazione.
Nella concezione qui esposta l' occasione o la motivazione dello sforzo
per arrivare alla conoscenza è in più punti eticamente determinata.
l . Si fa esegesi con l ' intenzione di rendere giustizia al testo di fronte
all ' abuso che di esso viene fatto dall' autorità e dall' abitudine ecclesiale.

A proposito di questo ethos, cfr. H. Thyen ( 1 983), 1 0: «A somiglianza di sua


madre, l ' illuminismo, la critica storica cerca la verità come la cosa giusta e stabile,
in quanto niente affatto per amore della maggior età, libertà, uguaglianza e frater­
nità già esistenti di tutti gli uomini, bensì solo per amore della maggior età, libertà,
uguaglianza e fraternità ancora da stabilire di tutti gli uomini spodesta tutte le auto­
rità contrarie a tale fine e smaschera i loro sistemi ideologici di legittimazione per
quel che essi sono: i pensieri dominanti come i pensieri dei dominanti. La coscienza
critica deve continuamente rivedere il proprio essere oggettivatosi nella cultura esi­
stente in ordine al suo fine costituito dalla libertà e dalla giustizia per tutti...>>. - La
critica storica rimanda così in quanto tale alla critica che la stessa rivelazione è.

2. Si vuole l' applicazione perché si desidera eliminare il bisogno concre­


to.
3. Si fa esegesi e applicazione richiamandosi all' inizio della chiesa in
Gesù Cristo, al fine di stabilire una 'comunione' con lui. Questa estensione
della comunione al di là del gruppo ecclesiale di volta in volta esistente
equivale nello stesso tempo a perseguire la comunione con tutti coloro che
similmente appartengono a questo Cristo. Anche indipendentemente dalla
conoscenza teologica, lo sforzo per comprendere un qualsiasi testo estraneo
è un contributo all' unità degli uomini e dell' umanità.
Se perciò nel caso di questi sforzi per conoscere si tratta sempre in primo
luogo di una convivenza tra gli uomini, questo spiega anche automatica­
mente i criteri più importanti (vedi più avanti) per l' applicazione: il criterio
centrale dell' 'edificazione della comunità' , ad esempio, si riferisce alla sem­
plice esistenza di una comunità 'viva' di Cristo. E pure altri criteri derivano
dall'esistenza del 'popolo di Dio' o della sua vita.
1 32 seconda parte

L'applicazione come un 'impresa rischiosa

Dal punto di vista dell' esegeta, dalla sua prospettiva limitata, la storia
dell' applicazione della Scrittura è una storia di fraintendimenti. Se il teologo
fosse solo esegeta dovrebbe continuamente dire: «così non va» ; «questo non
corrisponde alla lettera» . Nessuna applicazione successiva può infatti corri­
spondere al senso letterale; la medesima parola, detta in una mutata situazio­
ne, significa sempre qualcosa di nuovo e di diverso, e già la prima applica­
zione da parte degli uditori al tempo del Nuovo Testamento fu, sotto il profi­
lo esegetico, un' impresa rischiosa.
Che la medesima parola, ripetuta successivamente, non sia più la stessa
cosa risulta in modo evidente proprio dalle affermazioni antigiudaiche del
Nuovo Testamento. Una cosa è che Paolo parli dell' indurimento e della
disobbedienza dei giudei non cristiani (Rom 9, 1 8 ; 1 0,2 1 ), e un' altra cosa è
che noi ripetiamo oggi, come cristiani provenienti dal paganesimo e dopo
una storia disgraziata, tali affermazioni. Una cosa è che parlino così mino­
ranze perseguitate, profondamente preoccupate per il loro popolo e piene di
amore per esso (Rom 1 1 , 1 s.), e un' altra cosa è che a ripetere le stesse affer­
mazioni sia la chiesa esistente come vincitrice (e persecutrice) dopo Costan­
tino. - Ma appunto perché le cose stanno così, appunto per questa diversità
di situazioni e di locutori pur nella identità delle parole, l' esegesi e l' appli­
cazione vanno distinte, e la ricostruzione del senso storico va, nei limiti del
possibile e ovunque ciò è possibile, tenuta al riparo da influssi provenienti
dalla situazione dell' applicazione.
Se il senso storico è irripetibile, allora l ' applicazione è appunto un
rischio. Chi ricorrendo al metodo storico-critico pensa di ovviare a questo
rischio cerca false sicurezze. La precisione esegetica non dispensa dalla
necessità di avvalersi di una fantasia concreta nell' applicazione.
Però dobbiamo domandarci: qual è il ruolo dell' esegeta (dell' esegesi) in
questo rischio, se a rigor di termini nessuna applicazione può 'soddisfare'
l' esegesi? Con la separazione tra esegesi e applicazione non è infatti già
risolta la questione del rapporto tra di loro esistente, bensì proprio solo così
tale questione viene posta nel modo più chiaro.

L'esegesi evidenzia il rischio dell 'applicazione

L' esegesi ha la funzione di rendere visibile il rischio dell' applicazione e


di far apparire l' applicazione come un' opera umana relativa e provvisoria
(contro il pericolo di scambiare l' interpretazione ecclesiale per la 'parola di
Schema di un 'enneneutica del Nuovo Testamento 1 33

Dio'). L' esegesi relativizza ogni applicazione. Essa non può mai dimostrare
la giustezza o legittimità di un' applicazione, bensì evidenzia piuttosto - se
effettuata come esegesi o come storia degli effetti (o anche come storia
dell'interpretazione) - la differenza esistente tra il significato storico e ogni
altro significato che compare nella cornice della storia successiva. Qui
importante è naturalmente il grado della divaricazione, e un ruolo importan­
te svolge la lealtà verso il testo73•

Funzione critica dell 'esegesi nei confronti dell 'ideologia

Fin dalle sue origini storiche l' esegesi non viene praticata per amore
dell' esegesi, ma in un confronto critico con ciò che la chiesa ha via via «fat­
to della Scrittura» . Perciò il senso storico va posto accanto all' applicazione,
affinché da questo confronto diventi visibile di che tipo è ciò che la chiesa
ha aggiunto o cambiato. E qui nessuno contesterà che qualcosa dovette per
forza di cose essere cambiato e aggiunto; però diventa visibile il modo del
cambiamento, e questo è particolarmente importante per i casi seguenti:
l . L' esegesi può richiamare l' attenzione sulla problematicità di una 'sem­
plice' trasposizione dal Nuovo Testamento nel presente; in questo modo
essa evidenzia l' illusione di una fedeltà alla Bibbia, che con un cambiamen­
to pressoché nullo del testo biblico è presuntamente legata nell' applicazione.
Ciò risulta particolarmente chiaro nei tentativi sempre ricorrenti di tra­
sporre senza discernimento a una condizione di chiesa di popolo affermazio­
ni neotestamentarie, che storicamente valevano per comunità minoritarie
missionarie (e in parte perseguitate). Interessati da questo fatto sono: il valo­
re esperienziale del 'battesimo' , il valore dell' appartenenza al gruppo eccle­
siale in generale, meccanismi di delimitazione (indicazione di quelli che
' sono fuori' ) e soprattutto la chiamata missionaria alla conversione (la prima
missione è qualcosa di diverso dalla seconda missione nella cornice di una
esistente chiesa di popolo).
2. L' esegesi può richiamare l' attenzione sul fatto che un' applicazione va
contro regole e punti di vista fondamentali diffusi nella Scrittura. In questo
caso colui che effettua l ' applicazione deve impegnarsi molto di più nel
dimostrarne la validità. L' esegesi può almeno costringere a fare questo.
3. L' esegesi può avere una funzione critica nei confronti dell' ideologia in

73 Uno scostamento notevole fa ogni volta diventare particolarmente acuta la questione di una
applicazione critica e accurata dei criteri. - Uno scostamento è di per sé necessario e va spesso
presentato senza commenti.
1 34 seconda parte

quanto può contribuire a mostrare come l' 'opinione' di volta in volta 'domi­
nante' è l' opinione dei 'dominanti' . Naturalmente anche l' esegesi storico­
critica è diventata da lungo tempo - in ogni caso nei suoi metodi conserva­
tori - uno strumento sottile della regolazione ecclesiale, con conseguente
resistenza contro 'nuovi ' metodi (particolarmente temuti sono i nuovi aspet­
ti inquietanti che ripullulano come teste di drago dietro gli aspetti inquietan­
ti addomesticati). - Ma se vale la regola che la ragione e gli argomenti
(autocritici) non sono universalmente validi o non lo sono affatto, allora tut­
to ciò che è fondato in questo modo (e anche i metodi così fondati) possono
in continuazione generare nuove funzioni ( ' sociali ' ) critiche nei confronti
dell' ideologia.
L' esegesi viene così senza dubbio effettuata con un"intenzione etica' .
Inoltre l' esegeta, proprio perché dispone di un efficace strumento critico,
può in caso di necessità essere più di altri obbligato a scendere in campo
contro un' ideologia nemica della vita (per i criteri, cfr. più avanti).

Sul compito positivo dell 'esegesi per l 'applicazione

Mentre fin qui stava in primo piano il ruolo critico e differenziante


dell' esegesi (cosa che corrisponde anche alla successione storica), adesso
dobbiamo accennare alle sue possibilità produttive evidenziate in modo par­
ticolare nel corso degli ultimi anni.
La riacquisizione dell' estraneità del testo significa una riscoperta della
sua ricchezza critica. Testi che «sembravano dire più niente» sono recuperati
per l' applicazione. Pensiamo ad esempio alle 'parabole scandalose' e al pro­
blema ad esse collegato dell' «ingiustizia di Dio», al «demoniaco presente in
Dio» secondo alcuni testi biblici, la qual cosa poté - dopo esser stata risco­
perta - fornire un contributo per la soluzione del problema del male e
dell' esistenza del diavolo.
La funzione dell ' esegesi per la teologia e per la prassi ecclesiale può
essere sommariamente descritta così:
l . Compito dell' esegesi è quello di dare criticamente la parola all ' inizio
non sequestrabile del cristianesimo. A ciò corrisponde l' ethos della veridi­
cità senza compromessi da parte dell' esegeta.
2. L' esegesi è sinonimo di impegno esemplare nella comprensione della
controparte e di comportamento dialogico, un impegno e un comportamento
che non 'fanno violenza' al partner. Questo ethos è importante anche per la
professione dei futuri parroci e pedagoghi.
3. L' esegesi è lo strumento adatto per illustrare criticamente l ' influsso
storico esercitato dalla Scrittura in tutte le altre discipline teologiche.
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 1 35

4. Compito dell ' esegesi è quello di relativizzare, mediante l' ostensione


della problematicità di ogni applicazione, la polemica (in parte confessiona­
le )14 circa la giusta applicazione.
5. Compito dell'esegesi è quello di evidenziare la ricchezza della Scrittu­
ra contro ogni livellamento effettuato dall' uso e dal sequestro ecclesiale.
Da quanto abbiamo detto risulta chiaro che la Scrittura, e non l ' esegesi, è
il punto su cui la chiesa torna continuamente a riflettere. L' esegesi ha infatti
una portata limitata: essa mette in luce la distanza che ci separa dalla Scrit­
tura, smaschera, dischiude di nuovo la ricchezza della Scrittura, senza però
voler o poter fornire lei stessa un' applicazione.
Se tutto va bene, tra l' esegesi e l' applicazione esiste una tensione perma­
nente. Chi effettua un' applicazione in base a questo presupposto, sa che la
ricchezza del testo biblico75 supera la sua applicazione limitata. Egli sa che
un fraintendimento del testo nell' applicazione può essere benissimo produt­
tivo e fruttuoso, e ha il coraggio di fraintendere il testo in modo così produt­
tivo. Egli sa infatti che il testo biblico non può pienamente valere per tutte le
situazioni e che proprio anche l' audacia e la disponibilità al rischio di effet­
tuare un' applicazione libera possono essere una forma particolare di obbe­
dienza. Poiché non è possibile fare alcuno sconto all"onestà' dell' esegeta
(in quanto esegeta), proprio per questo l' applicazione viene ad essere una
faccenda della libertà umana76• Proprio anche la libertà, che risulta dalla ten­
sione tra esegesi e applicazione - cioè dalla loro pura coesistenza - ha una
funzione importante per gli uomini viventi nella chiesa77•

74 L'esegesi non può fondare nella sua qualità di disciplina paniale l' unità della chiesa. Essa può
solo relativizzare alla luce della Scrittura tutte le posizioni di tutte le confessioni, cosicché esse
potrebbero imparare una cosa, e cioè che con il richiamo a citazioni bibliche non è possibile porta­
re avanti alcun dialogo ecumenico.
75 Con questo non penso all'eccedenza di senso nel significato di P. Ricoeur (cosicché soltanto
tutte le interpretazioni prese insieme riprodurrebbero il senso del testo), bensì penso alla ricchezza
di possibilità di aggancio e di aspetti che il significato storico del testo biblico offre.
76 Infatti se l'esegeta cerca di presentare il senso storico di un testo senza mischiarlo con ciò che
nella situazione dell' applicazione sarebbe opportuno o piacerebbe ascoltare, e se in particolare egli
non sgrava autori biblici da opinioni che adesso appaiono non moderne o non progressiste (per es.,
l Cor 1 4,34-36 come testo paolino!), allora la conseguenza per l' applicazione non è la trasposizio­
ne pura e semplice dell' opinione biblica come opinione valida nel presente, bensì corrisponde
all' onestà dell'esegeta, da un lato, e alla libertà dell' applicazione, dall' altro lato.
77 L'esegesi storico-critica ha infatti anche a che fare con la curiosità, col semplice bisogno di
informazione, che insorge in modo particolare perché molti uomini arrivano di continuo a pensare
che la chiesa nasconda loro risultati scientifici importanti, ma per lei sfavorevoli. L'esegesi non ha
ancora finito di svolgere il proprio compito, se e fintanto che degli uomini soffrono ancora a moti­
vo della nebulosità della loro fede (che è spesso anche fin dalla prima giovinezza una fede sempli­
cemente uniformata) e a motivo delle loro ansie. Già la stimolazione della semplice curiosità può
avere un effetto liberante.
136 seconda parte

CHE COS'È LA TEOLOGIA?

Definizione

La teologia è una descrizione dell' esperienza religiosa e della prassi reli­


giosa. In quanto teologia scientifica essa è una · descrizione accurata della
religione. D' importanza decisiva sono qui, come in ogni scienza, colui che
fa questo e lo scopo per cui egli lo fa.
Ma la teologia non è come azione (scientifica) identica con ciò che essa
descrive. La teologia è qualcosa di diverso dall' esperienza e dalla prassi
religiosa. È un altro modo di agire.
Noi poniamo le seguenti domande : che significa 'descrizione ' ? qual è
esattamente l' oggetto della descrizione? mediante che cosa e perché la teo­
logia è scienza? perché è importante colui che fa teologia e lo scopo per cui
egli la fa? in che rapporto sta questo agire con la prassi religiosa?

La teologia come descrizione

Descrivere significa rappresentare e riprodurre con l' aiuto della lingua.


La teologia è un' azione esclusivamente linguistica. Descrivere significa ten­
tare di rendere giustizia a un oggetto affrontandolo dal maggior numero pos­
sibile di lati. Chi descrive cerca di vedere il proprio oggetto sotto molti
aspetti. L' oggetto deve infatti diventare visibile così com'è. Tali aspetti non
rimangono comunque l' uno accanto all' altro, perché la teologia scientifica
cerca di dare una spiegazione coerente della menzionata e sperienza
religiosa78• E la coerenza esige che la descrizione non sia superficiale, ma
cerchi essenzialmente anche di indicare le cause e le implicazioni.
La descrizione riguarda sia il passato che il presente. Infatti non solo la
Bibbia o la storia della chiesa e la storia dei dogmi, bensì pure la prassi
ecclesiale attuale può essere oggetto della teologia.
L'oggetto della teologia non è però Dio. Essa porta questo nome perché
parla dell' esperienza di Dio, ma non perché sia essa stessa esperienza di
Dio. Il suo oggetto consiste perciò in affermazioni umane su Dio e nel com­
portamento umano verso Dio. Dio in quanto tale non è invece oggetto di una
scienza79•

78 Qui notiamo - per quanto riguarda l'aspetto formale - una concordanza con la filosofia, cfr.
M. FRANK ( 1 988), col. 3. Gli oggetti sono però diversi.
19 Su questo punto posso esser certo anche del consenso della teologia dialettica, nella misura in
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 1 37

La descrizione non va scambiata con l ' astrazione o con la pura riflessio­


ne. La descrizione non va infatti subito alla ricerca del contenuto spirituale o
ideale del proprio oggetto, ma guarda anzitutto alla sua manifestazione con­
creta e corporea. Essa si interessa perciò in primo luogo del fenomeno stori­
co individuale. La ricerca della coerenza, che viene contemporaneamente
effettuata e che poi traccia anche le linee di collegamento con i contesti cir­
costanti, non fa violenza al singolo fenomeno.
Se descrivere significa stabilire una connessione, allora la descrizione
vuoi rendere qualcosa plausibile: essa vuole penetrare ciò che descrive, ren­
derlo comprensibile come un fenomeno unitario e vederlo nell' intreccio del­
le sue condizioni.
Ma come scienza descrittiva la teologia non viene solo dopo, limitandosi
a concedere a tutto il fattuale la benedizione della propria descrizione rispet­
tosa; la teologia come descrizione non significa che essa sia solo una presa
di coscienza dell' esistente o una statistica, incapaci di fare delle proposte.
Essa, come scienza descrittiva, può piuttosto presentare esempi ben riusciti
e mal riusciti di prassi religiosa. Infatti proprio presentando fenomeni nel
loro complesso, con le loro condizioni e i loro esiti (anche se essi sono solo
ipotetici, perché le ipotesi fanno parte della scienza), la teologia opera nor­
mativamente. Se qualcosa riesca bene o riesca male è cosa che si può nega­
tivamente stabilire «dal numero dei morti», che un sistema lascia sul campo
oltre la media che ci si poteva aspettare, e positivamente in base a tutti i
fenomeni dello shalom ebraico. È anche possibile cercare di cogliere stati­
sticamente le due cose. Quel che la teologia non fa è però questo: essa non
fornisce criteri come una predicatrice profetica. La teologia non è predica­
zione.
Quel che essa descrive lo può anche dimostrare con il tipo di certezza
usuale tra gli storici (può per esempio dimostrare che ci furono molti disce­
poli i quali credettero d' aver visto il Signore risorto). Quel che essa non può
dimostrare non è neppure suo compito (per esempio la dimostrazione che
colui che i discepoli a Pasqua ritennero di vedere era realmente il Signore
corporalmente risuscitato). Più avanti ci domanderemo come una descrizio­
ne del genere sia possibile e se l' interesse per l' oggetto, necessario per tale
descrizione, sia sinonimo di assenso della fede.
Perciò, secondo la mia conce.;z:ione, la teologia non è U1l discorso com-

cui si tratta della non-oggettivabilità. Quel che segue vuoi anche essere un contributo alla discus­
sione tra H. Scholz e K. Barth, cfr. al riguardo H. ScHOLZ, Wie ist eine evangelische Theologie als
Wissenschaft moglich ?, in G. SAUTER (ed.), Theologie als Wissenschaft. Aufsiitze und Thesen (ThB
43), MUnchen 1 97 1 , 22 1 -264.
138 seconda parte

mosso e commovente, bensì un discorso che analizza spassionatamente e


che pensa sino in fondo il proprio oggetto. Con questo non peroro affatto la
causa dell' illusione di una teologia priva di un proprio punto di vista. Con la
distinzione tra teologia e pietà (o in termini più ampi: tra teologia e religione
praticata) intendo raggiungere solo questo scopo: bisogna scoprire e non
coprire una tensione esistente tra la mia forma di religione e altre forme pre­
senti nel campo del cristianesimo, che come teologo descrivo. O qualora
rifletta teologicamente sulla mia religione: vorrei imparare a vedere critica­
mente anche la mia religione e a prendere le distanze da essa (a vederla con
gli occhi di altri). L' importante è permettere a tale tensione di esistere e non
dissolverla apologeticamente in modo precipitoso. Infatti il dialogo con altre
chiese, in particolare con quelle che incontro nel Nuovo Testamento, non è
un dialogo reale, se non imparo perlomeno a pensare queste altre possibilità
come possibilità esistenti anche per me. Accanto alla unilinearità dell' atto
religioso (al sursum corda o all' ascolto del discorso di Dio) si collocano la
riflessione teologica e l' acquisizione di una distanza critica nei confronti di
me stesso e della mia convinzione.

La teologia è all 'altezza del proprio oggetto ?

Possiamo domandarci: la teologia, in quanto scienza, può realmente


cogliere l ' esperienza religiosa? Sotto le mani di una scienza descrittiva
l'esperienza religiosa non diventa qualcosa di completamente diverso e di
deformato? La religione non degenera necessariamente in una faccenda del­
la ragione, se viene descritta razionalmente? Le regole della descrizione:
verifica rispettosa e approfondimento dell ' oggetto, suo lumeggiamento in
base ai diversi contesti esistenti.
Ma la ragione descrive anche di regola altrimenti realtà irrazionali e -
munita di autocritica - è assieme ali' amore l' intervento più rispettoso sulla
realtà che noi conosciamo. Essa ha tuttavia un presupposto: vale universal­
mente oppure non vale affatto. Chi le pone dall ' esterno dei limiti non trovati
da lei stessa, la distrugge completamente.
La ragione critica80 è in grado di stabilire da sola dove cessa la sua com­
petenza e di riconoscere i propri confini81 • La critica delle proprie vie è una

80 La ragione critica non è semplice competenza, né è in quanto critica istituzionalizzabile.


81
Non si può rimproverare sommariamente alla scienza moderna di non conoscere i confini di
ciò che essa potrebbe conoscere. Solo di questo qui si tratta. Ogni scienza vive del fatto di dire ciò
che essa non conosce. (Esistono numerosi scienziati, i quali non affrontano questa esigenza; tutta-
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 1 39

faccenda che spetta a ogni scienza e non può essere dettata dalla fede nella
rivelazione. Ciò vale per ogni scienza e quindi anche per la teologia. Perciò
la teologia potrà dire qualcosa sull' immagine di Dio di Isaia, Ezechiele e
Gesù, non però sugli attributi stessi di Dio. Come limite autoimpostosi dalla
ragione questo non sarebbe naturalmente una regola atemporale.
Il permanentemente misterioso è invece il punto di riferimento del com­
portamento religioso; il mistero in quanto tale non è oggetto della teologia.
La teologia descrive le affermazioni fatte sul mistero, non lo stesso mistero.
Perciò la nostra separazione tra teologia e fede non nega il mistero, bensì gli
assegna solo il suo giusto posto.
I mezzi con cui la teologia vuole descrivere e rappresentare l'esperienza
religiosa non sono spesso di certo sufficientemente adeguati . Da un lato
questo spinge a usare anche metodi nuovi. Dall' altro lato esistono sicura­
mente anche metodi diversi dai metodi scientifici per comprendere l' espe­
rienza religiosa; l ' unico vantaggio delle vie scientifiche sta nel fatto che
esse sono praticabili intersoggettivamente. Il carente successo dei metodi
scientifici non è sicuramente un motivo per indulgere, al loro posto, ai dog­
mi ecclesiali. Ogni cosa ha il suo tempo e il suo 'Sitz im Leben' .
Risultato: la teologia come scienza dispone di metodi limitati ed è legata
alla verificabilità intersoggettiva dei propri risultati. I suoi confini oggettivi
affiorano al più tardi, appunto in base al criterio menzionato per ultimo, nel
dialogo scientifico e non possono essere dettati dali' esterno.

Grazie a che cosa la teologia è scienza ?

Dopo l' avvento delle scienze naturali alla fine del secolo xvm, i teologi
dibattono in modo particolare (come già avevano fatto dopo l' avvento
dell' aristotelismo nel secolo XIII) la questione del carattere scientifico della
loro attività teologica. Modelli classici di soluzione, qui solo brevemente
delineati, sono i seguenti:
l. La risposta idealistica del secolo XIX: riduzione82•

via ciò è sempre una questione di qualità nel senso stretto dell'espressione). - Qualcosa di diverso
e da accuratamente distinguere è la questione della responsabilità etica della ricerca scientifica.
Pure qui si tratta di limiti, ma non di limiti della conoscenza, bensì di limiti dell'azione responsabi­
le.
" La teologia è scienza, perché è - in modo simile alla filosofia - rappresentazione di un' idea.
Tutto ciò che non si confà allo schema di questa idea è presentato come un suo rivestimento. Per­
ciò, ad esempio, questa teologia speculativa prescinde dalla fede della Bibbia nei miracoli. Conse­
guentemente questa impostazione si trova, ad esempio, in D. F. Strauss (idea del cristianesimo:
140 seconda parte

2. La risposta teologica esistenzialista di R. Bultmann: continuità e rottu­


ras3.
3. La risposta teologica dialettica di K. Barth: la teologia come tipo auto­
nomo di scienza84• Problematico in questa concezione della teologia appare
il fatto che già il metodo è plausibile solo per il credente e che esso contra­
sta con ogni sua trasmissione argomentativa. Già l' ammissione della teolo­
gia come facoltà all' università significò, in base a queste premesse, una
decisione in favore della sua pretesa incontrollabile. Potremmo infatti natu­
ralmente dire: l ' intersoggettività ha ora, secondo K. Barth, un' altra base di
appoggio, la rivelazione.
4. La concezione storico-fenomenologica, sostenuta anche qui: la teologia
è scienza precisamente a differenza della fede. Essa adopera metodi storico­
fenomenologici come fanno anche altre scienze dello spirito e scienze socia­
li. Questi metodi e il loro uso implicano sì determinate predecisioni (vedi
più avanti), che però non si collocano sul piano della fede o della mancanza
di fede. Tutto quel che la teologia dice come scienza deve risultare dimo­
strabile in base al fenomeno da essa descritto.
Tuttavia specialmente la storia delle scienze (naturali) del secolo xx
mostra una cosa: con i loro metodi le scienze si collocano già in determinati
contesti, nei quali la cosa importante è sapere chi adopera tali metodi e per
quale scopo li adopera. Ciò vale in misura particolare anche per la teologia,
e qui essa assume il suo proprio carattere.

Chi fa teologia e a quale scopo la fa ?

La teologia è qualcosa di diverso dalla scienza della religione. Ciò va


ribadito con forza proprio a proposito di quei molti casi in cui i metodi
scientifici delle due discipline non si distinguono. Quel che però un agire 'è'
non si decide in base ai suoi metodi o in base a singoli punti di vista isolati,
bensì in base alla sua funzione nel più grande contesto della realtà circostan-

l' incarnazione di Dio nell'umanità). Parlo di 'riduzione' , perché tutto ciò che è al di fuori dell' idea
viene respinto come zavorra storicamente condizionata.
" La continuità con l' antropologia filosofica moderna consiste nel fatto che questa fornisce i
concetti scientificamente affidabili. La rottura consiste nel fatto che le molteplici possibilità di
autenticità, fomite dall' antropologia, sono ridotte nella teologia a una sola (la fede). Perciò alla
fine la scienza moderna rimane solo nell' anticamera. Cfr. al riguardo K. BERGER ( 1 986), 1 35- 1 4 1 .
84 La teologia cerca in modo particolare la verità e la comunica anche (cfr. al riguardo K. BARTH,

KD 11 1 , 6s.): nessun concetto di scienza proveniente dall'esterno può danneggiare la teologia. Piut­
tosto la rivelazione fa della teologia un tipo autonomo di scienza.
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 141

te. Nessuna scienza viene coltivata per pura necessità, e ognuna è collegata
a determinati interessi pratici (siano essi morali o pedagogici o dettati da
interessi vitali di determinati gruppi). - La storia delle facoltà teologiche
dell'Europa occidentale mostra che ognuna di esse deve se stessa, ora in un
modo ora nell' altro, al gioco delle forze tra stato e chiesa, per esempio al
fatto che lo stato aveva mostrato un interesse anche per una certa istruzione
dei membri della gerarchia ecclesiale85• A differenza della scienza della reli­
gione la teologia coltivata in modo scientifico dipende perciò anche in ogni
caso, come facoltà universitaria, dal fenomeno chiesa.
La teologia non si distingue perciò dalla scienza della religione e da altre
scienze umane per i suoi metodi, bensì per la sua funzione 'sociale' e quindi
anche per la sua realtà socialmente descrivibile. La teologia è infatti un atto
della riflessione della chiesa su se stessa. E questo vale per i teologi operanti
al di fuori dell' università così come per quelli operanti all' interno dell' uni­
versità. E se, come abbiamo detto, lo stato ha un particolare interesse per
tale riflessione, occorre anche che questa avvenga proprio nelle università.
La teologia è un atto di riflessione della chiesa su se stessa. I metodi con
cui tale atto è compiuto non sono specificamente teologici, e i loro risultati
devono essere comunicabili. L' elemento specificamente teologico è piutto­
sto la funzione di questo atto in ordine alla chiesa.
Tuttavia voler praticare la teologia come scienza non significa (a motivo
di un atteggiamento critico di fondo) che i suoi risultati devono essere 'utili'
per la chiesa nel senso superficiale del termine o che essi possano essere
controllati. Dal punto di vista della chiesa la teologia scientifica si presenta
perciò spesso come un azzardo. La chiesa, se desidera o permette la teolo­
gia, si prepara con ciò ad essere messa a confronto con ciò che è dimostrabi­
le e a dover 'vivere' con ciò che viene così messo in luce.
E dall' altra parte questa concezione significa: la teologia diventa priva di
senso se non vuole più raggiungere nulla in relazione al fenomeno chiesa, se
perde di vista questa realtà86• Tuttavia la scienza vuole 'aiutare' a modo suo
la chiesa e vuole farlo a modo proprio. E ogni chiesa farebbe bene a permet­
tersi questa libertà. Ci vuole una grande tranquillità per non esigere che dap-

85 È pensabile che un giorno in Europa uno stato possa essere interessato a far formare anche
ministri religiosi islamici in facoltà teologiche. Allora la stessa comunità religiosa interessata
potrebbe mettere in atto qualcosa di simile alla teologia scientifica del cristianesimo. E a questa
'attuazione' potrebbero essere interessate anche chiese cristiane.
"" Secondo K. BARTH, Der Romerbrief, Ziirich 1 922', XI (Prefazione), l'interpretazione è cosa
che riguarda il «futuro ecclesiale degli studenti>>, e pure secondo altre affermazioni la teologia è
per luf una funzione della chiesa. La differenza rispetto al nostro programma sta nel fatto che K.
Barth non distingue tra esegesi e applicazione.
1 42 seconda parte

pertutto si 'predichi' ; ci vuole una grande schiettezza per 'fare' teologia


scientifica. Infatti la predicazione non è l' unica cosa che la chiesa deve fare.
Essa ha piuttosto bisogno dell' atto della riflessione descrittiva e penetrante
su se stessa, atto liberato dai bisogni attuali della predicazione. La cosa deci­
siva è questa: la chiesa può concedersi la libertà di riflettere illimitatamente
e scientificamente su se stessa? si sente sufficientemente forte per permet­
terlo?
Questo atto libero della riflessione su se stessa87 è in parte effettuato in
una unione personale in seno alla chiesa (membri della gerarchia sono nello
stesso tempo teologi), in parte in rappresentanza per lei (per es., da teologi
universitari o da persone cui la chiesa ha demandato il compito della ricer­
ca) . In altre parole: non dappertutto la chiesa deve compiere lei stessa in
modo esclusivo tutte le proprie funzioni. D' altro canto non sarebbe neppure
una . cosa buona se soltanto altri si assumessero questo compito dell' autori­
flessione, di fare teologia, e dispensassero così la chiesa dal farlo (cosa che
purtroppo avviene invece in modo sempre più frequente) . È infatti essen­
zialmente un compito suo quello di rendersi trasparente.
È pertanto chiaro che la teologia vuole stare in rapporto con la chiesa, ma
a modo suo. Essa denomina quindi la sua realtà, fa proprie le sue domande,
la pone criticamente a confronto con essa, con i suoi inizi e con la sua storia,
forma i suoi parroci e i suoi insegnanti di religione e aiuta molti suoi mem­
bri ad informarsi, il tutto sempre a proprio modo. - In altri termini: il lavoro
della teologia scientifica svolto in modo distaccato (sotto vari aspetti nei
confronti della chiesa) può tuttavia portare per la chiesa almeno il frutto di
teologi critici (se e nella misura in cui essa è realmente interessata a tale
frutto).
Questo significa: ciò che rende la teologia scienza sono i suoi metodi; ciò
che la rende teologia, e precisamente a differenza della scienza della religio­
ne, è il suo orientamento alla chiesa. La teologia è infatti un atto libero di
riflessione della chiesa su se stessa. E viceversa possiamo dire: dove viene a
mancare questo aspetto sociale, foss' anche solo nella sua finalità critica, lì
ciò che i teologi fanno è solo una specie di antropologia e serve, per esem­
pio, all' interesse di gruppi che vedono appunto il proprio scopo nel com­
prendere in maniera completa l' uomo, per permettergli di divenire un buon
cittadino o un buon cosmopolita.
Non ha perciò alcun senso formulare delle affermazioni univers ali

"' 'Libero' significa: a) senza riguardo al fatto che il risultato sia gradito o meno alla chiesa; b)
con distacco critico. Per 'riflessione su di sé' non intendo l' autoriflessione, ma il retroriferimento
alle proprie fondamenta.
Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 143

sull"essenza' della 'teologia' , senza vedere concretamente quale servizio


essa svolge e di quale libertà essa ha bisogno per questo. Perciò l' orienta­
mento alla chiesa visibile rimarrà un elemento importante di questa erme­
neutica.

La ricerca teologica in che rapporto sta con la prassi religiosa ?

Questa domanda riguarda un settore centrale della discussione ermeneuti­


ca, settore che a questo punto non viene ancora del tutto chiarito. Qui cer­
chiamo solo di indicarlo a grandi linee.
La prassi teologica e quella religiosa spesso non sono suddivise tra uomi­
ni diversi, bensì la stessa persona può, ad esempio, studiare come teologo il
significato e il valore del Padre nostro e subito dopo recitarlo con devozione
assieme ad altri in un atto liturgico. Ciò è possibile perché gli uomini non
sono unidimensionali, ma mostrano di essere capaci di agire su diversi piani.
La questione di sapere come, ad esempio in questo caso, i diversi piani di
azione stanno in rapporto fra di loro, è ermeneuticamente importante88• Qua­
li possibilità offre una relazione del genere? Tali possibilità non possono
essere stabilite a priori, ma vanno desunte da un' analisi critica di casi esami­
nabili. Così non è possibile stabilire in partenza un' identità dei due settori di
azione (ad esempio a motivo della coerenza della fede).
Per 'fede ' o per 'fede religiosa' intendiamo nelle pagine che seguono
un' esperienza religiosa concreta, non però come un complesso di afferma­
zioni e dogmi sistematici, a proposito dei quali ci si interroga tutt'al più sul­
la loro applicabilità. Dall' altra parte la sistematica teologica e i dogmi non
stanno affatto in un rapporto concorrenziale con le problematiche sperimen­
tate in modo personale, sociale e storico89•
La teologia è chiaramente qualcosa di di verso dali' atto religioso della
fede. La fede non si esaurisce infatti - malgrado una serie di atti cognitivi ­
in una descrizione della realtà. Essa è piuttosto un progetto ardito, dotato di
senso e completo90, il quale - pur potendo essere fatto oggetto di analisi e di

" A questo punto si riferisce la discussione tradizionale sulla precomprensione e sui limiti sog­
gettivi come possibilità della conoscenza.
" Religione/fede religiosa sono nelle pagine che seguono intese come interpretazione, approfon­
dimento e trasformazione di esperienze, che riguardano le fondamenta dell'esistenza individuale,
sociale e storica dell'uomo e che, in quanto esperienze religiose, costituiscono soprattutto l' intrin­
seca coesione di tale esistenza. L' agire religioso è qui il tentativo dell'uomo di percorrere attiva­
mente la via che l'ha condotto alla conoscenza del senso fondante l' unità.
'"' Su pretese simili della filosofia moderna, cfr. M. FRANK ( 1 988), col. 4 (esperienze interpretate
coerentemente).
144 seconda parte

critica - abbraccia qualcosa di più di ciò che può essere dimostrato, abbrac­
cia cioè ad esempio l ' azione. Invece, secondo la nostra definizione, la ragio­
ne scientifica non può essere nella teologia diversa da quello che essa è
anche altrimenti nella scienza modema91•
A questo punto insorge una serie di domande classiche, che riguardano il
rapporto tra la decisione di credere e la teologia come scienza. La più
importante di esse è quella che si chiede se le affermazioni teologiche pos­
sono essere fatte in modo adeguato solo da colui che si sa personalmente
obbligato a credere. La conoscenza del circolo ermeneutico nella filosofia si
ripercuote nella teologia come circolo della fede?

9' Con E. HERMS ( 1 978) io vedo la teologia come una scienza dell' esperienza, con Schleienna­
cher (cfr. E. HERMS, op. cit. , 72) la vedo come una scienza positiva, che si occupa del settore eccle­
siale della prassi sociale (sulla base del mondo sperimentabile del cristianesimo del momento).
Tuttavia a differenza di E. Henns non riesco a vedere la teologia soprattutto come teologia pratica
(«scienza professionale>>).
III.

SULLA PRASSI DELL'APPLICAZIONE

l. Fondazione sistematica

Un' ermeneutica neotestamentaria ha, da un lato, aspetti pratici, mentre


contiene, dali' altro lato, almeno a partire dalla questione dei criteri, giudizi
teologici. Nell' affrontare quindi la questione dell' interpretazione e applica­
zione della Scrittura dobbiamo domandarci che cosa tale Scrittura significa
per la chiesa (che è infatti l' orizzonte dell' applicazione) e, inoltre, se da
questo significato risultino già delle indicazioni per l' applicazione.
Noi cerchiamo perciò di chiarire noti topoi dogmatici sulla Scrittura e di
valutare in modo sistematico, a partire da qui, il processo ermeneutico stes­
so.

LA SCRITIURA COME PAROLA DI DIO ISPIRATA

È opportuno partire dai pochissimi passi del Nuovo Testamento, secondo


i quali le cose udite sono realmente la parola stessa di Dio. Gesù ode Dio
dire : «Tu sei il mio Figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Mc
l , l l s.). Inoltre Dio dice in modo del tutto simile: «Questi è il Figlio mio
prediletto: ascoltatelo» (Mc 9,7). Nel passo corrispondente di Gv 1 2,28 Dio
dice: «L' ho glorificato e di nuovo lo glorificherò». Infine Dio dice: «Ecco,
io faccio nuove tutte le cose ... Scrivi, perché queste parole sono certe e vera­
ci . . . Io sono l' Alfa e l' Omega, il Principio e la Fine. A colui che ha sete darò
gratuitamente acqua della fonte della vita» (Ap 2 1 ,5-6).
Importante è in ogni caso il fatto che in tutti e quattro i vangeli e
nell' Apocalisse di Giovanni le parole e le situazioni assolutamente impor-
1 46 terza parte

tanti sono caratterizzate come parola diretta di Dio. Il problema non è qui
quello di sapere se possiamo condividere una cosa del genere. L' importante
è sapere che una cosa del genere fu ritenuta possibile e che si percepirono
gli eventi così.
Il fatto che il Nuovo Testamento stesso conosca, accanto a parole di Gesù
e degli apostoli e da esse distinte, anche parole dirette di Dio è utile
nell' argomentazione contro ogni fondamentalismo. 'Parola di Dio' in senso
stretto sono appunto soltanto le parole menzionate. Tutto il resto che noi -
non la Bibbia - abbiamo successivamente così chiamato è 'parola di Dio' in
un senso tutt' al più metaforico. Qui prescindiamo da esternazioni verbali di
Dio o dello Spirito Santo (come quelle di At 1 3 ,2 ; Ap 14, 1 3b) riportate nella
cornice di racconti, quindi dalla voce raccontata di Dio, perché in tal caso la
parola di Dio è solo udibile, ma non è riferita alla Scrittura, e cerchiamo per­
tanto solo di stabilire in quale senso traslato possiamo adesso parlare della
Scrittura come parola di Dio.
Ripetutamente la Scrittura (per i primi cristiani l' Antico Testamento) è
citata come parola diretta di Dio. Secondo Mc 1 , 1 Dio dice al proprio Figlio
(Gesù) : «Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te». In modo simile
anche per Eb la Scrittura è parola diretta di Dio per il presente.
La formula «Così dice il Signore» introduce nell ' Antico Testamento, sot­
to forma di cosiddetta formula dei messaggeri, le sentenze dei profeti. Ana­
loghe sono formulazioni come la seguente: «Ecco, ti metto le mie parole
sulla bocca» (Ger 1 ,9).
Le più antiche tracce della formazione del canone veterotestamentario
ricorrono sotto la formulazione «Mosè e i profeti». Pure Mosè è considerato
un profeta (Dt 1 8 , 1 5), e precisamente in modo qualificato. Data la concezio­
ne della parola profetica, pure la Scrittura acquista il carattere di parola su
mandato di Dio.
Nel Nuovo Testamento le lettere degli apostoli sono fatte risalire a Dio
come al loro vero mittente mediante la formula introduttiva: «Grazia e pace
a voi da Dio Padre». L'apostolo, promettendo grazia e pace in nome di Dio,
fa di Dio il proprio mandante. L' apostolo concepisce senza dubbio la parola
della propria predicazione come una parola autorizzata. Le analogie tra let­
tere degli apostoli e discorso profetico come pure lettere di profeti sono state
spesso evidenziate.
Io penso quindi che la risposta alla domanda se la Bibbia sia parola di
Dio dipenda dalla valutazione e dal riconoscimento della potestà della paro­
la dei profeti 'storici' e del Gesù 'storico' , nonché degli apostoli.
Questo significa: la questione di cui ci occupiamo dipende dalla legitti­
mità degli autori biblici e non può essere risolta in modo astratto in base alla
Sulla prassi dell 'applicazione 147

semplice parola. La semplice parola della Scrittura va chiarita e spiegata


esclusivamente in modo filologico e storico. Ma per questa via storico-filo­
logica non è possibile dimostrare che essa è divina, per cui non possiamo
che respingere una 'philologia sacra ' . Ciò vale anche per la storia della reli­
gione. Chi intendesse dimostrare attraverso un confronto storico-religioso
l' assolutezza del cristianesimo - qui nel senso di una sua vicinanza diretta a
Dio -, imboccherebbe una strada sbagliata. Diversa è la questione di sapere
chi parla o scrive per chi e in nome di chi ciò avviene.
In questo modo possiamo stabilire una prima tesi : essere parola di Dio
non è una qualità del semplice testo. La parola di un profeta biblico non è
come tale ispirata, bensì ispirato è (semmai) colui che la pronuncia.
Se infatti Gesù è il Cristo e il Figlio dell'uomo, se Isaia è un profeta chia­
mato da Dio e Paolo un apostolo chiamato da Dio, allora le loro parole sono
vincolanti per coloro che vogliono avere qualcosa a che fare con questo Dio.
Questo significa allora che è la chiesa a stabilire che cosa è parola di Dio?
Certamente no. Però la chiesa (e un gruppo all ' interno di essa) dovette rico­
noscere in Paolo e mediante Paolo l' azione di Dio, affinché la vocazione di
Paolo potesse divenire storicamente efficace.
Naturalmente viene da domandarsi: chi legittima la chiesa? Di solito si
risponde a questa domanda chiamando in causa lo Spirito Santo. Sarebbe
appunto l' azione dello Spirito Santo a garantire che tutto si sia così svolto
nel modo giusto, per esempio che Paolo sia stato riconosciuto e abbia intro­
dotto il vangelo pagano-cristiano.
Esiste tra i teologi una diffusa tendenza ad ascrivere allo Spirito Santo le
cose più difficili, che non si possono dimostrare bene e che hanno qualcosa
a che fare con la conoscenza e con la comprensione. La conseguenza è la
nota sottoesposizione del terzo articolo e l' altrettanto noto svuotamento del­
la festa di Pentecoste.
Particolare interessante, mancano quasi completamente le prove bibliche
in favore di questa concezione. Infatti secondo il Nuovo Testamento lo Spi­
rito Santo fa sì saltare i confini, per esempio nella questione della missione
tra i pagani. E il Paraclito del vangelo di Giovanni ricorda tutte le parole di
Gesù (Gv 1 4,26) . Ma che, ad esempio, sia stato lo Spirito di Dio a provoca­
re l ' adesione a Paolo, non è chiaramente la concezione del Nuovo Testa­
mento.
Il cristianesimo di Paolo per i pagani senza l'obbligo della circoncisione è
nuovo e propriamente non legittimato da nulla. Possiamo perciò domandarci
che cosa ne sarebbe stato di Paolo e del suo cristianesimo, se non ci fosse
stato il concilio degli apostoli. In quel concilio fu riconosciuta l ' azione di
Dio in Paolo e mediante Paolo. La parola di Paolo è perciò la parola di un
1 48 terza parte

apostolo legittimo, e le sue parole possono stare nel canone accanto alle
parole di Gesù.
Durante la vita di Paolo questo era però chiaramente controverso e, se il
nostro modo di leggere i testi giudeocristiani della chiesa primitiva è giusto,
tale rimase per lungo tempo anche dopo. Paolo, quando si richiama ai segni
del vero apostolo, sa benissimo quanto debole sia il suo argomento (2 Cor
1 2, 1 2). La sua legittimità, per divenire storicamente efficace, ebbe bisogno
dell' assenso di altri apostoli e discepoli importanti della chiesa.
Ora però 2 Tm 3 , 1 6 afferma che i passi della Scrittura sono «ispirati dallo
Spirito di Dio». Tutte le analogie (per es., Ger 36,4), anche quelle relative
alla parola 'ispirata da Dio' (per es., nel poema didascalico dello Pseudo­
Focilide V, 1 29: «La parola della sapienza ispirata da Dio è la migliore»)
permettono di riconoscere che si tratta dell' idea di autori ispirati (come Eb
3,7; 9,8).
Ma che cosa dobbiamo pensare, quando Gesù dice: «Non siete infatti voi
a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi» (Mt 1 0,20)?
Mentre l'ebreo ellenista Filone di Alessandria pensa che l'intelletto umano
'tramonti' (come il sole tramonta nel tardo meriggio), allorché lo Spirito di
Dio entra in azione (in modo simile anche nella mantica antica, per es. nella
Pizia di Delfo ), Paolo la pensa in modo chiaramente diverso: secondo l Cor
14, 1 4 l ' intelletto dell' uomo non viene messo fuori causa, allorché lo Spirito
di Dio prega «con il dono delle lingue» ; solo che esso non ne trae vantaggio.
Qui dobbiamo distinguere: lo Spirito concede, secondo Paolo, doni diver­
si, alcuni in lingua umana (profezie, preghiere, insegnamenti ecc.) e alcuni
nella lingua degli angeli ( 'lingue' , anche il pregare in lingue), che compren­
diamo solo con l' aiuto di interpreti. La parola dell' apostolo fa parte del pri­
mo gruppo (cfr. l Cor 7 ,40b ). Come la parola dei cristiani davanti al tribu­
nale essa è un discorso umano: ma fino a che punto Paolo ci tiene a che que­
sto discorso sia opera dello Spirito? Nel caso degli uomini davanti al tribu­
nale non c'è infatti una determinata esperienza a ciò congiunta?
Qui dobbiamo richiamare un' importante categoria, che vale sia per la
situazione davanti al tribunale sia per la preghiera davanti a Dio: la fran­
chezza (greco: parrhesia). Sicuramente si tratta qui di un' importante espe­
rienza: mancanza di paura, eliminazione delle barriere tra l'umile condizio­
ne del locutore e l'elevata posizione del destinatario del suo discorso. Qui
come anche altrove lo Spirito elimina i confini. Ma la forma delle parole
non cambia.
Questo significa qualcosa per 2 Tm 3 , 1 6 e per passi affini? Io suppongo
che significhi questo: tra Dio e la Scrittura non esiste alcuna differenza di
rango quanto all ' autorità del locutore, nessuna separazione. Esattamente
Sulla prassi dell 'applicazione 1 49

come Gesù, secondo il vangelo di Giovanni, non fu mai separato da Dio e


mai lo sarà.
Pure l' autore dell' Apocalisse di Giovanni si considera un profeta. Proprio
la discussione attorno a questo libro ha mostrato che qui non è possibile
contrapporre la tradizione della dotta conoscenza della Scrittura e la cono­
scenza apocalittica del mondo ali' esperienza visionaria. Da un lato consta­
tiamo infatti numerose allusioni alla Scrittura, che fanno pensare a un dotto
lavoro effettuato a tavolino, e la stessa cosa possiamo dire dei molti riferi­
menti alla tradizione apocalittica (per es. a libri sibillini). D' altro canto però
sarebbe cosa del tutto stolta negare il carattere visionario dell'esperienza del
profeta Giovanni . Si tratta di una rivelazione visionaria, che gli è stata
mostrata da un angelo e in ultima istanza da Gesù (Ap 1 , 1 s.), e nello stesso
tempo tutto ciò è molto dotto.
Questo non sarebbe un esempio concreto particolare e di conseguenza un
modello per rappresentazioni dell ' ispirazione anche altrove? Qui non si trat­
ta solo di un compito e di una missione, ma di un dono. Ciò che è formulato
con mezzi umani e con diligenza umana è peraltro considerato come un
dono che è stato concesso al veggente. Ciò vale anche per l ' ispirazione
davanti al tribunale, che Mc 1 3 , 1 1 (cfr. Le 1 2 1 2) formula così: «Non siete
,

voi a parlare, ma lo Spirito Santo». Pure qui è evidente il carattere di dono.


L' autore 'nota' che gli è dato e donato qualcosa, che la verità gli si svela?
Verosimilmente bisognerà rispondere a questa domanda con un sì limitato:
sì, un autore ispirato sa che quanto egli scrive va molto al di là di ciò che
egli potrebbe desiderare, costruire ( 'proiettare ' ) e anche molto al di là di ciò
di cui potrebbe assumersi la responsabilità: egli sperimenta la verità come
qualcosa che gli si disvela. Egli si vede posto davanti a qualcosa di sempli­
cemente dato, davanti a qualcosa che gli viene donato. Quando la chiesa
dice che è l' 'apostolicità' a costituire il canone neotestamentario, forse pos­
siamo intendere questo concetto nel senso di quanto abbiamo sopra esposto.
Un ap6stolos è infatti un inviato, che non escogita lui stesso quanto dice.
Ma come si arrivò a riconoscere Paolo come legittimo e i suoi avversari
come non legittimi? Si tratta del problema degli eretici, che qui va discusso
nel contesto della formazione del canone. Verrebbe addirittura voglia di sup­
porre a questo punto un canone nel canone, un centro della Scrittura o un
Credo primitivo come criterio, mediante il quale Paolo avrebbe potuto
dimostrare di essere legittimo.
Paolo dice in Ga/ 2,9: «Essi riconobbero la grazia a me conferita». Si trat­
ta perciò di conoscere e di riconoscere, di percepire e di approvare. La 'gra­
zia' conferita a Paolo - in altre parole: ciò che Paolo faceva e diceva - era
da Dio. Come lo sappiamo? Forse possiamo dire così: nell' agire di Paolo si
150 terza parte

riconoscono presentimenti, esperienze, ricordi, il modo di vivere con il Dio


dei padri. E a riconoscerlo sono precisamente uomini che sono a loro volta
riconosciuti e credibili sotto questo aspetto. I ricordi si riferiscono sicura­
mente anche al modo in cui allora si leggeva la Scrittura (l' Antico Testa­
mento) e si lodava Dio in inni. Nel caso di Paolo si aggiunge soprattutto
questo: l' esistenza di comunità vive, che gioiscono della loro fede, è anche
una conferma della sua legittimità.
Il riconoscimento (di Dio), la liberazione nel nome di Gesù e la gioia
sarebbero perciò esperienze indubbiamente intramondane, che poterono ser­
vire da criteri per la legittimità di altri apostoli e di potenziali autori di un
canone cristiano (cosa che nel secolo 1 era ancora anacronistica). Per il resto
possiamo dire: le madri e i padri della chiesa ebbero verso il 200 d.C. motivi
concreti per la scelta del canone. Tali motivi possiamo ancora oggi condivi­
derli quasi tutti e quindi difenderli argomentativamente.
A mio giudizio non ha senso partire, anziché di qui, dal criterio formale
della visione di Cristo e dire: chi ha una visione di Cristo è un apostolo
legittimo. Molti ebbero visioni del genere e non furono tuttavia apostoli.

Modelli di rappresentazione

Se vogliamo conservare l' espressione 'parola di Dio' o 'ispirazione' dob­


biamo poter dire come una simile affermazione sia immaginabile e fondabi­
le. Dobbiamo esaminare vari modelli: sicuramente non può qui trattarsi di
una contrapposizione tra Dio e l ' uomo, perché il fatto che la Bibbia sia
anche parola umana dovrebbe essere indubitabile. Una cosa non esclude
l' altra.
In questo modo cade anche il modello del Corano. Parliamo di coranizza­
zione della B ibbia qualora essa sia considerata addirittura come manifesta­
zione fisica propria di Dio e come libro celeste, che si sottrarrebbe a ogni
presa, anche alla traduzione. Il testo sarebbe considerato in quanto tale come
'la rivelazione' . E tuttavia: il canone è 'anche' una raccolta fatta da uomini.
La Scrittura rispecchia l' unica reale rivelazione in Gesù Cristo? Secondo
il vangelo di Giovanni la vera rivelazione risiede nella persona stessa di
Gesù, e tutto il resto, le sue parole e le sue azioni, sarebbero da essa dedotte.
In Gesù abita la parola creatrice di Dio, e ciò va concepito come una super­
ispirazione. Le sue parole non sono altro che un discorso su se stesso. Gesù
stesso ha predicato parole con potestà, come mostrano i suoi miracoli (che
già per questo motivo fanno parte della sostanza del vangelo di Giovanni).
Qui si tratta della presenza sperimentabile della parola creatrice di Dio nella
Sulla prassi dell 'applicazione 151

persona di Gesù. Il vangelo è solo un ricordo di questo fatto (grazie al Para­


dito: Gv 14,26). Così però l'ispirazione va spiegata sullo sfondo della 'mis­
sione ' . Qui, come altrove nel Nuovo Testamento , non si tratta tanto
dell' ispirazione come evento psichico, quanto piuttosto di una questione di
autorità e di legittimazione.
Ma non esiste l ' evento speciale e distinguibile dell' ispirazione? Paolo
non ne parla quando parla della profezia? Egli sottolinea comunque il fatto
che l' intelletto dell'uomo non viene messo qui tra parentesi, perché si tratta
di linguaggio umano secondo le regole della grammatica (l Cor 14, 1 4- 1 9).
E anche il Gesù giovanneo non va pensato secondo il modello della missio­
ne dei profeti, anche se in modo radicalizzato e incentrato sull 'unica parola
creatrice? Tuttavia anche in questi casi l'ispirazione dipende dall' autorità e
dali' autorizzazione.
Risultato: le rappresentazioni dell' ispirazione, nella misura in cui sono
importanti per la comprensione della Scrittura, dicono qualcosa sulla que­
stione dell' autorità, sul carattere della parola da non separare dalla maestà di
Dio. Si tratta perciò di un caso simile a quello della missione.

Parola di testimoni

La parola di Dio non può essere individuata sottraendola dal complesso


delle parole umane. La parola di Dio, per quanto riguarda il Nuovo Testa­
mento, è la parola di testimoni, la cui testimonianza, il cui martirio (di rego­
la), la cui personalità e predicazione, la cui attività, il cui legame con Gesù e
la cui importanza spirituale-liturgica poterono essere ampiamente accettati.
Non possiamo dimostrare che si tratta di parola di Dio in base a singole
parole, bensì solo in base ai suoi portatori e alla sua funzione. Questa fun­
zione ha qualcosa a che fare con il 'canone' dei due Testamenti. La sua fun­
zione consiste nel fatto di rendere possibile l' accesso ai padri e ai profeti del
popolo di Dio Israele e a Gesù. Il canone dell' Antico Testamento la chiesa
l 'ha semplicemente preso dal giudaismo sia nella sua versione ebraica sia
nella versione greca dei LXX. Questo è - all' inizio del secolo n ! - un even­
to importante e significativo.
Qui non si tratta di un qualsiasi accesso storico, bensì la Scrittura immette
nel rapporto di questi testimoni con Dio. Questo accesso storico è d' impor­
tanza vitale per la chiesa, perché esso dice a chiare lettere che l' inizio non è
sequestrabile.
152 terza parte

Testimonianza dell 'inizio

In questo inizio non sequestrabile cristiani e ebrei vedono la parola di


Dio. I testimoni, che si esprimono nella Scrittura, vanno perciò di continuo
ascoltati, perché questa immagine di Dio comporta che l' inizio e la fine sia­
no fasi speciali della rivelazione. All' inizio la rivelazione 'irrompe' contro
tutto l' abituale. Alla fine tutto diventa 'visibile' in corrispondenza a tutto il
nascosto. L'entità 'canone' testimonia incessantemente l' inizio ed è alla fine
l' entità, grazie alla quale è possibile mostrare l' adempimento della promessa
di Dio. Per questo la Scrittura è importante.
La parola di Dio si contrappone perciò soltanto sotto pochi aspetti alla
parola umana. Essa non è vana, 'rimane' ed è per noi reperibile soltanto
negli inizi storici. Per il resto però anch' essa è sempre e solo accessibile
come parola umana.

Dove troviamo la parola di Dio ?

Troviamo la parola di Dio nelle esperienze mistiche dei profeti veterote­


stamentari e della persona inafferrabile di Gesù Cristo. Essa è testimoniata
nel canone. Quindi possiamo domandarci : essa è realmente reperibile nella
Scrittura o non piuttosto in continuazione nella confessione della chiesa, che
vive della comunione con i profeti e con Gesù? Qui di seguito chiameremo
questo fatto «riconoscimento nella fede».
Di fondamentale importanza per la valutazione dell ' ispirazione e della
parola di Dio sono perciò due elementi: l'autorità apostolica e/o carismatica
degli autori e il fatto che verso il 200 la chiesa riconobbe in questi scritti la
propria religiosità, la propria fede viva e quella dei suoi padri. Il riconosci­
mento è, dal punto di vista teologico, un elemento importante della verità
biblica primaria fondamentale, cioè della verità che la realtà di Dio è la sua
fedeltà alle sue promesse. Riconoscere significa quindi percepire un fram­
mento della donata fedeltà di Dio.

APPLICARE LA PAROLA DI D IO ?

p
Anche qualsiasi interpre�azione (i��esa nel senso di ap licazione) dovreb­
be poi naturalmente ispirarsi a: qudta concezione del canone biblico. Ciò
significherebbe:
l . Determinante per la legittimità dell' interpretazione è che la chiesa par-
Sulla prassi dell 'applicazione 153

ziale di volta i n volta interpellata riconosca appunto l a propria fede anche in


tale interpretazione, riconosca cioè in essa i propri ricordi concernenti la
propria storia 'con Dio' , le proprie speranze e le proprie aspirazioni. Questo
significa: l' interpretazione deve essere ecclesiale in quanto corrisponde alla
storia religiosa particolare e alla cultura religiosa di una chiesa parziale, cri­
tica eventualmente tale storia e tale cultura, ma non la distrugge nel senso di
una rivoluzione culturale. E qui non bisogna distinguere tra 'profezia' e
'pastorale' .

Un esempio desunto da una predica: «Non abbiamo alcuna patria? Anche nella
chiesa possiamo, eccome possiamo, avere la tranquillità a proposito di qualcosa
che nessuno può più toglierei. Essere qui a casa significa infatti qualcosa di più che
abitare semplicemente in una strada. Conosciamo infatti la chiesa in cui siamo stati
battezzati, confermati e sposati, conosciamo le croci davanti alle quali abbiamo
pregato quando fummo confermati, quando nostro figlio era malato o la mamma
morì. Forse ricordate anche una croce che solo voi conoscete, che ha per voi il
significato di una patria spirituale. Oppure un battistero o i gradini dell' altare su
cui avete ricevuto la benedizione nuziale o la benedizione della madre dopo la
nascita del primo figlio» (K. BERGER, Wozu ist Jesus am Kreuz gestorben ?, 1 998,
1 34s.).

2. Potrebbe così diventare chiaro che nella storia della chiesa esistono una
accanto all' altra e una nell' altra due cose: la storia della colpa e della grazia
e la gioia per la propria fede. Dove manca una delle due non può più cresce­
re nulla.
3. Non esiste alcuna pura ripetizione. Pure ciò che ritorna (l' anno liturgi­
co) è tuttavia sempre completamente nuovo e diverso. Precisamente la ripe­
tizione spezza il corso del tempo.
4. La comunità interpellata o interpellabile è sempre limitata. Poiché solo
e sempre una parte della comunità può riconoscersi, comprendiamo anche
che l'interprete o la chiesa non possono e non sono mai tenuti ad 'acconten­
tare tutti' .
Sia nel caso dell' ispirazione sia quando occorre constatare che qualcosa è
ispirato, si tratta perciò della questione della legittimità e dell' autorità; il
riconoscimento fonda l' autorità.
L' elemento dell' autorità significa: non bisognerebbe affos�are l' autorità
del predicatore facendolo cadere nella trappola della credibilità. Tale trappo­
la consiste soprattutto in una esagerata moralizzazione del messaggio, che
poi genera una pletora di giudici morali. Non il perfetto nel senso della cor­
rectness può avere autorità, bensì colui che può parlare con tranquillità
anche dei propri dubbi, ma parla appunto allora di religione e non di morale.
1 54 terza parte

IL RUOLO PERMANENTE DELLA SCRITfURA

La rivelazione primaria avviene in eventi al cospetto di persone, per


esempio nel roveto ardente o sul Sinai al cospetto di Mosè. Nel Nuovo
Testamento la rivelazione avviene - secondo l' opinione di tutti gli scritti -
nella persona e con la persona stessa di Gesù Cristo. - Dal che consegue:
L' autorità della Scrittura è solo un' autorità derivata, perché sotto il profi­
lo puramente formale essa deriva la propria autorità dal prestigio di coloro
che nelle sue pagine parlano. Questo non rappresenta un circolo vizioso.
Infatti, tanto per fare un esempio, l' autorità di Gesù esisteva già da lungo
tempo prima della composizione dei vangeli, e l' autorità di Paolo fu il pre­
supposto che gli permise di comporre delle lettere e il motivo per cui queste
vennero poi raccolte insieme. Inoltre l' autorità e il prestigio sono una que­
stione che riguarda la rispettiva comunità, in cui e per cui essi sussistono.
Perciò l' autorità è qualcosa di vivo, e i lunghi processi della formazione del
canone vanno visti anche sotto questo aspetto. Essi rispecchiano gli alti e
bassi del prestigio delle diverse autorità e delle loro posizioni . Pure
quest'ultimo fatto è importante, perché qualcosa può acquisire una nuova
autorità solo se esso risulta evidente a una generazione. Il ricorso al presti­
gio esistente serve qui poco in caso di dubbio. Ciò vale anche dopo la con­
clusione del canone e si manifesta nei tentativi sempre ricorrenti di dichiara­
re determinati testi il 'canone nel canone ' e di spiegare tutti i rimanenti testi
canonici alla luce di questo 'centro della Scrittura' . Questo non basta a legit­
timare tali tentativi, ma spiega soltanto la loro origine. È sì evidente che in
determinati tempi singoli testi possono diventare particolarmente importanti.
Ed è perciò sempre un diritto della predicazione pastorale accentuare deter­
minati punti e scoprire il 'kair6s' di un testo. Ma data la normatività fonda­
mentale dell' inizio non è cosa legittima valutare arbitrariamente le testimo­
nianze dell' inizio e dichiarare alcuni scritti 'meno importanti' . L' autorità dei
posteri non si spinge sino a tanto. Uno dei motivi di ciò sta nel pericolo che
si abusi ideologicamente della Scrittura e che si mettano a tacere delle sue
voci scomode. In caso di dubbio nella ricerca della verità un' orchestra è
infatti più importante di un solista.
Ma l' autorità della Scrittura, astrazion fatta dai difficili e controversi ten­
tativi di trovare un 'centro della Scrittura' , è soprattutto un' autorità critica.
Perché, dato il carattere normativo della unicità e irripetibilità escatologica
di Gesù, ogni tradizione successiva va messa criticamente a confronto con
l' inizio. In questo senso la funzione della Scrittura diventa autonoma, per­
ché essa esiste ed è sì tramandata nella chiesa, però è anche un' istanza criti­
ca nei suoi confronti.
Sulla prassi dell 'applicazione 155

La Scrittura deriva in ultima analisi la propria funzione critica dal fatto


che nella storia del popolo di Dio esistono autorità elette come Mosè e i pro­
feti, nonché dal fatto che soprattutto Gesù Cristo è il rappresentante insupe­
rabile di Dio. Tali autorità hanno il valore di pilastri e sono perciò una nor­
ma critica. La Scrittura rappresenta, grazie al suo carattere scritto, l' unica
via di accesso ancora possibile a tali autorità.
Per l ' interpretazione della Scrittura l' origine di quest'ultima significa:
Da un lato la Scrittura è una parte della chiesa, nata in essa come testimo­
nianza della sua vita, per lei raccolta e da lei conservata. Perciò la Scrittura
ha una funzione 'nella' chiesa e non contro di essa. Ad esser precisi essa
'serve' , perché non è fine a se stessa; l' ultimo criterio della sua interpreta­
zione può essere soltanto la vita di questo organismo, il 'popolo di Dio' . In
questa luce vanno visti l ' uso 'religioso ' pratico della Scrittura, che serve
sostanzialmente alla conferma, nonché la sua interpretazione da parte del
magistero.
Dall' altro lato la Scrittura è anche autonoma rispetto alla chiesa, perché la
funzione critica degli inizi e in particolare di Gesù Cristo è insostituibile e
non può essere scalzata da alcun uso ideologico della Scrittura. Un' esegesi
storico-critica è - se ben intesa - l' avvocato di questa autonomia della Scrit­
tura rispetto a tutto ciò che la chiesa ne fa o ne vorrebbe fare. Un avvocato
non produce ciò che rappresenta, ma cerca solo di affermare nella maniera
più corretta possibile il diritto della Scrittura contro ogni suo sequestro.
Come avvocato egli deve, così agendo, ritirarsi il più possibile in secondo
piano. Egli non è il giudice della Scrittura, né è autorizzato a criticare la
Scrittura. E non i metodi fanno dell' esegesi una scienza teologica, bensì il
suo destinatario, cioè la 'chiesa' .
Inoltre possono sì darsi nuove rivelazioni, perché nessuno può «mettere la
museruola a Dio». Ma data la legge biblica dell ' inizio, nessuno può costrin­
gere la chiesa a dichiarare tali nuove rivelazioni normative.

2. Criteri dell'applicazione

fONDAZIONE

Sotto il profilo puramente storico lo studio esegetico del testo biblico fu


soltanto la reazione critica a un' applicazione già esistente . Perciò noi
1 56 terza pane

cominciamo il nostro lavoro nel bel mezzo dell' atto dell' applicazione e ci
domandiamo per quale interesse la si attui.
Lo studio del testo della Scrittura allo scopo di applicarlo ( ! ) non viene
effettuato per pura curiosità e meno che mai per curiosità scientifica, ma per­
ché dal testo ci si attende un 'aiuto' . Cioè: noi cerchiamo consiglio o conso­
lazione nella Scrittura, perché qui ci viene offerta una salvezza di fronte a
una realtà deficitaria, bisognosa di aiuto e di sostegno. La base è perciò
costituita da una multiforme miseria umana, materiale e spirituale. Per cui la
nostra tesi di partenza suona: base dell' applicazione della Scrittura è la pro­
messa di fronte all 'imperfezione e al bisogno. In questa situazione l ' applica­
zione aiuta o critica, in ogni caso essa deve «soddisfare un bisogno» .
In concreto non intendiamo dire che l'interprete, che compie l' applicazio­
ne, diverrebbe sensibile al bisogno via via esistente soltanto sulla scorta del­
la lettura della Scrittura, bensì che egli se ne ricorda o cerca di ricordarsene
(ricordo attivo) allorché si accinge all' interpretazione. Egli si domanda: qua­
le elemento del testo può essere critico e utile nel bisogno presente e nelle
sue singole situazioni?

Sul problema dei criteri dell 'interpretazione della Scrittura

Riflettere sui criteri dell' interpretazione della Scrittura e indicarli è cosa


in linea di principio necessaria, perché bisognerebbe perlomeno a grandi
linee dire: come possiamo rispondere all' esigenza della lealtà e assecondar­
la? Il filo conduttore dell' argomentazione che segue può essere così riassun­
to: il modo di salvaguardare la lealtà risulta soprattutto dalla funzione della
Scrittura nel suo complesso.
Questa necessità emerge già dalla pluralità delle posizioni sostenute e
(soprattutto ! ) ammesse nella Scrittura. E dobbiamo ammettere che un ricor­
so ingenuo alla Scrittura «a seconda del bisogno» avviene e avverrà di con­
tinuo, ma che esso è appunto solo un lato della vita con la Scrittura. L' altro
lato è precisamente la funzione critica della Scrittura, che non comprendere­
mo mai a fondo e in misura completa.
Onde evitare dei fraintendimenti diciamo subito: qui non parliamo di
metodi esegetici, ma dei criteri momentanei dell' applicazione, vale a dire
della questione di sapere che cosa è di volta in volta 'valido' e perché l'una
cosa deve valere, mentre l' altra non lo può altrettanto bene.
I criteri dell' applicazione risultano qui dalla funzione della Scrittura in
seno al popolo di Dio. Se la Scrittura non è fine a se stessa, ma serve come
conferma e critica alla vita di questo popolo di Dio, allora l ' applicazione è
Sulla prassi dell 'applicazione 157

nel senso stretto del termine l a messa a confronto della chiesa con i suoi ini­
zi nei profeti e in Gesù, una messa a confronto per lei vitalmente necessaria.
In questo lavoro ciò che è di necessità vitale (Paolo parla dell' edificazione,
oikodomi, come del metacriterio puro e semplice) non è esattamente preve­
dibile, bensì la stessa messa a confronto con il proprio inizio è un processo
vitale che è sì guidato da intenzioni, ma il cui risultato non è calcolabile. Si
tratta perciò, specie quando si pratica l ' esegesi estraniante, di un rischio
dall ' esito imprevedibile. (La Riforma del secolo XVI testimonia proprio que­
sto sia in modo positivo sia in modo negativo). Ogni chiesa fa bene ad
ammettere questo confronto vivo, e fruttuosa va detta l' esegesi che non
teme questo estraniamento critico. Se il criterio è l' edificazione, allora il
risultato non può e non deve essere in nessuna circostanza una divisione del­
la chiesa (l Cor 3 , 1 7). Pertanto ogni scisma cristiano è uno scandalo teolo­
gico, che tocca realmente la sostanza fondamentale stessa del cristianesimo.
E la superficialità con cui nell' età moderna si accettano le divisioni della
chiesa è assolutamente insopportabile sia sotto il profilo religioso che sotto
il profilo teologico. Il popolo di Dio è pensabile solo come un unico popolo
(con l' unità e la pace sempre tra loro strettamente connesse), oppure esso si
è già ridotto ad absurdum, e nessuna autorità ecclesiale ha poi più bisogno
di aprire la bocca.
Il superamento della divisione del popolo di Dio è perciò in certo qual
modo il criterio ultimo e più importante dell' applicazione della Scrittura.
Tutti gli altri criteri sono di secondaria importanza. Essi dovrebbero a mio
avviso tener conto del fatto che interpretare significa agire. L' interpretazio­
ne non è un evento naturale né un automatismo, ma è un' azione responsabi­
le. Essa è perciò una forma particolare di responsabilità e non una serie di
processi che si svolgerebbero per mezzo di noi e di cui noi saremmo più o
meno gli zimbelli.
Naturalmente esiste una diffusa neo-ortodossia, che non presta più orec­
chio non appena risuonano le parole 'agire' , 'etica' o 'responsabilità' . Chi
vede qui sempre e subito messa in gioco tutta la dottrina della giustificazio­
ne, trae delle conseguenze a buon mercato allo scopo di produrre in massa
berretti da eretici.
Se la comprensione e l ' interpretazione sono una forma di azione, allora
per questa così come per ogni altra azione bisogna indicare dei criteri. Que­
sti criteri sono diversi a seconda che si tratti dell ' azione esegetica o
dell' azione applicativa. Nel caso dell' azione esegetica (e applicativa) si trat­
ta di stabilire fino a che punto teniamo conto dell' autore biblico, per cui val­
gono la correttezza, la libertà, l' uguaglianza e la fraternità, perché queste e
nient' altro sono le cose importanti.
158 terza parte

Fondazione religiosa dei criteri

I cristiani non concepiscono il loro agire in maniera disgiunta dal loro


Credo, qualunque questo sia. Nel campo del giudaismo e del cristianesimo
le esortazioni scaturiscono spesso da realtà e ragioni preetiche e in connes­
sione con l'esperienza via via fatta di Dio. Gli uomini non agiscono infatti
«in uno spazio vuoto», bensì in base a premesse sociali, filosofiche o reli­
giose.

AUTOCONTRADDIZIONE RELIGIOSA

Importante è il fatto che quello da denominare qui il criterio fondamenta­


le è il criterio dell' autocontraddizione, un criterio funzionante quindi sulla
base della logica. Criterio fondamentale dei singoli aspetti in seguito da
menzionare è la domanda: dove una singola decisione etica distrugge l' iden­
tità religiosa esistente e fungente da cornice? Dove viene distrutta la base,
su cui poggiamo? Dove, mediante le conseguenze etiche o dogmatiche che
traiamo, viene «segato il ramo su cui poggiamo»? Dove esistono campi su
cui la religione e l 'etica sono così strettamente unite che, trascurando l ' uno
o l' altro aspetto, insorge un' autocontraddizione? Quali sono le cinghie di
trasmissione (d' importanza decisiva) tra l' essere cristiano e l' agire cristia­
no?
I criteri qui ricercati dovrebbero avere qualcosa a che fare con aspetti che
sono chiaramente molto importanti nella religione cristiana. Il criterio sareb­
be allora la contraddizione con la propria religione su elementi decisivi e
costitutivi della sua realtà (stabilire i quali non è solo una faccenda del senti­
mento, bensì soprattutto della ricerca storico-fenomenologica).
La ricerca dei criteri non si propone perciò qui semplicemente di indivi­
duare delle metanorme etiche, bensì le articolazioni esistenti tra la religione
e l ' etica, gli anelli di collegamento tra le due, anelli così importanti che
l' una e l' altra dipendono da essi e che non è possibile avere l' una senza
l' altra. Si tratta perciò di criteri per norme discutibili «nella cornice della
religione cristiana» .
Se teniamo conto di questo, allora diventa anche evidente il motivo . per
cui l' 'amore' e la 'riconciliazione' non fanno parte dei criteri da cercare,
nonostante ambedue svolgano un grande ruolo sia sotto il profilo religioso
che sotto il profilo etico (per es. , sotto forma di ricezione e di trasmissione).
Queste due entità non sono chiaramente in primo luogo religiose, bensì sono
Sulla prassi dell 'applicazione 1 59

per il campo religioso metafore che hanno nel comportamento il loro campo
fungente da metafora. Non si tratta tuttavia di rapporti 'metaforici' di questo
genere, ma di punti di collegamento tra i due campi, che in quanto tali sono
un oggetto e una realtà.
Se ciò che potrebbe essere distrutto è la religione cristiana come realtà
(per es., come comunità) nelle sue parti costitutive essenziali, allora in un
certo senso un effetto dell' impulso di Gesù e la sua permanenza diventano il
criterio di molteplici singole parole. Che questo non significhi affatto che 'la
chiesa' o addirittura la sua tradizione dogmatica prese in se stesse starebbe­
ro al di sopra della 'Scrittura' è cosa che diventerà subito chiara. Si tratta
piuttosto della vita cristiana o dell'esistenza viva di cristiani, che rappresen­
tano una specie di 'norma viva' .
Rispetto all ' antichità e al medioevo il criterio della verità si è chiaramen­
te spostato nel cristianesimo. Se prima il criterio era costituito dall ' unità
della professione di fede e dalla verità dogmatica della chiesa in quanto tali,
dall ' illuminismo in poi (e rispettivamente dalla fine del secolo xvn)
l' accento viene posto molto più fortemente sul carattere vincolante delle
posizioni etiche e sull' unità in esse necessarie (anche il pietismo contribuì a
questo fatto). Un sintomo di questo spostamento è il rapporto tra pluralismo
e carattere vincolante. Mentre prima l' accento cadeva sul carattere vinco­
lante della dogmatica, da lungo tempo si nota in questo campo piuttosto un
pluralismo; mentre prima l' etica e la teologia morale conducevano una vita
piuttosto grama (esse furono sviluppate soprattutto in connessione con gli
specchietti di esame di coscienza per la confessione), oggi ci si attendono
dalla chiesa parole vincolanti proprio in questo campo. - Noi cerchiamo di
vedere strettamente assieme, astraendo da queste tendenze, ambedue gli
aspetti.
Criteri sono perciò ritenuti nelle pagine seguenti non contenuti 'positivi'
scelti arbitrariamente, non rappresentazioni contenutistiche stabilite seman­
ticamente, che costituirebbero ad esempio 'il carattere' del cristianesimo. E
meno ancora si tratta di un canone occulto nel canone o di pallini esegetici
nel senso di temi, che uno potrebbe poi trovare particolarmente importanti
nel Nuovo Testamento. Piuttosto ci domandiamo: dove gli stessi autori neo­
testamentari potrebbero esserci oggi di aiuto nella ricerca di criteri? Non
con ciò che essi dicono, bensì con il modo in cui essi pervennero ai loro
risultati e con le metanorme del tipo di quelle che qui cerchiamo di indivi­
duare e che essi chiaramente presuppongono.
Se la Scrittura è un 'modello autentico' , allora non dobbiamo !imitarci di
continuo a verificare le sue singole affermazioni per vedere se esse ci posso­
no aiutare sotto forma di stimolo o di critica (in quale direzione, dovremmo
1 60 terza parte

poi domandarci). Da orientamento potrebbero piuttosto servirei i suoi stessi


procedimenti ermeneutici, le metanorme che potremmo desumere da essa
stessa e che, nella loro qualità di decisioni prese in maniera più indipendente
dalla situazione di quanto lo siano le singole decisioni, potrebbero appunto
indi c arei, a mo ' di modello , la direzione da seguire. Perciò dobbiamo
domandarci: esistono metanorme religiosamente fondate che svolgono un
ruolo nella stessa Scrittura? Questi metodi di ricerca delle norme sono ancor
oggi evidenti o hanno di nuovo una possibile evidenza? Può la stessa Scrit­
tura essere un modello ermeneutico?
Questa problematica è particolarmente promettente nel caso del Nuovo
Testamento, perché al tempo della composizione degli scritti neotestamenta­
ri non esisteva alcun canone cristiano al di fuori dei LXX, per cui mancava
un modo biblicistico di procedere nei confronti di documenti cristiani. Fu
giocoforza stabilire di bel nuovo norme per i molteplici nuovi problemi o
svilupparle abilmente partendo dali' Antico Testamento . Di particolare
importanza sono naturalmente i testi in cui si trattava di rispondere a
domande realmente concrete, in cui occorreva fornire contemporaneamente
la legittimazione di fondo, cosa che si verifica in modo speciale nelle lettere
di Paolo.
Interrogarsi nel senso indicato è cosa giustificata anche perché gli autori
neotestamentari desumono spesso i contenuti concreti delle loro norme
dall ' esterno (dal campo del giudaismo ellenistico, dell ' apocalittica o
dell'ellenismo pagano). La cosa importante non era perciò se le singole nor­
me fossero o meno di origine cristiana, piuttosto si desunsero addirittura
correntemente modelli etici dall' ambiente circostante• . Né mai si pretese che
questi contenuti fossero cristiani; una cosa del genere fu in parte riservata
solo all' apologetica moderna. Tanto più importante è perciò esaminare i cri­
teri secondo i quali gli autori neotestamentari adottarono la tradizione.
Il modo di procedere degli autori neotestamentari significa di per sé anzi­
tutto questo: la tradizione (cioè per questi autori i LXX e i documenti cri­
stiani primitivi orali o scritti) non ha in quanto tale alcun peso formale
obbligante assoluto (nel senso dell ' essere-pienamente-sufficiente). Per que­
sti autori esistettero chiaramente situazioni in cui nessuna tradizione di tipo
biblico o cristiano-primitivo era di aiuto, come nel caso di molte parenesi
neotestamentarie (per es., le tavole domestiche) 2 • Tali parenesi potettero

' Ciò è vero sia sotto il profilo contenutistico che sotto il profilo della storia delle forme. Proprio
qui possiamo piuttosto dimostrare lo stretto legame esistente tra storia delle forme e storia della
religione.
' Cfr. K. BERGER, Formgeschichte des Neuen Testaments, Heidelberg 1984, 135- 1 4 1 .
Sulla prassi dell 'applicazione 161

benissimo essere desunte da schemi non cristiani. D i qui possiamo dedurre :


una determinata tradizione non è vincolante già in base alla sua semplice
origine3• Si tratta solo e sempre di possibilità, che un interprete responsabile
dovrebbe naturalmente conoscere, che vanno" messe a confronto con i criteri
seguenti e che vanno almeno in parte anche criticate in base a tali criteri.
Solo questi criteri guidano la scelta allora come oggi.

IDENTITÀ

Se l ' autocontraddizione è il criterio, allora dobbiamo domandarci


mediante che cosa si costituisce il Sé, e per rispondere a questa domanda
seguiamo due esempi desunti dalla storia della chiesa.
l . Possiamo tentare di seguire Meister Eckhart quando afferma: «Gli
uomini non dovrebbero riflettere tanto su ciò che dovrebbero fare, ma piut­
tosto su ciò che sarebbero»4• «In questa concezione etica il potere viene
quindi prima del dovere. Le qualità morali sono pienamente presenti lì dove
esse compaiono con facilità e gioia in virtù di un esercizio. Il potere morale
appare come trasparenza della realtà verso Dio»5• Giustamente D. Mieth
riconosce qui un apriorismo dell ' esistenza, la vera liberazione da ogni
preoccupazione (tranquillità), con l'essere che è esso stesso dovere e fonda­
mento delle opere, cosicché il potere non si riconosce in primo luogo dalla
produzione, bensì dalla figura umana6• Questa concezione supera una distin­
zione tra ontologia e etica, perché in essa l' importante è il ritrovamento
dell ' identità umana.
2. Il cosiddetto inno clementino7 afferma che la comunità osannante
sarebbe composta da agnelli appartenenti al re, da bambini innocenti, da un
«gregge perfettamente santo», da bambini illibati, da un coro della pace, da
un popolo saggio. La comunità è perciò concepita - di certo contrariamente
alla sua condizione visibile - come assemblea di santi, in modo simile a
come avviene nelle lettere neotestamentarie. Proprio la sua identità è la cosa
incomprensibile, che si esprime nell' inno. La comunità non va solo faticosa­
mente difesa dal presente maligno, bensì è semplicemente concepita - in

' Ciò risulta già dal non raro carattere contraddittorio delle stesse direttive bibliche.
4 MEISTER ECKHART, Reden der Unterscheidung, 1 97 ,6[ - 1 98,9] (Quint DW 5, 1 963).
' D. MIETH ( 1 982), 1 08.
" D. MIETH, op. cit. , 92.95s. l 2 l .
' Cfr. al riguardo ANRW II, 25,2, 1 1 53s.
1 62 terza parte

modo del tutto controfattuale - come l' assemblea dei santi. La pura utopia è
l' indicativo.
Con l ' aiuto di Meister Eckhart, dell' inno clementino e dell' apostrofe neo­
testamentaria di ' santi' noi cerchiamo di rappresentare una forma di pensie­
ro che sta alla base della concezione ermeneutica dell' autocontraddizione
religiosa e che ha alle sue spalle anche una tradizione cristiana8• Il vantaggio
particolare di questa forma di pensiero è l' unità indissolubile tra essere e
dovere, cosa che riguarda anche l' effetto retorico e esortativo. Di fronte a
tutte le difficoltà delle 'teologie neotestamentarie' di tipo kantiano, caratte­
rizzate dai due concetti dell' indicativo e dell' imperativo, qui il punto di par­
tenza va piuttosto presentato come uno status9• In altre parole: il fare di Dio
vuoi essere completo e non può fermarsi a metà dell' opera. Qui domandarsi
quale sia la parte divina e quale la parte umana nell' azione è cosa sbagliata
in linea di principio. Forse può esserci di aiuto l' immagine della recita tea­
trale10.
Naturalmente dobbiamo ancora avanzare di un passo dietro quanto abbia­
mo detto.

Il circolo dell 'identità nell 'etica moderna

Ampiamente noto è il problema centrale dell' etica moderna, che si chiede


che cosa occorra fare affinché gli uomini siano capaci di essere responsabili.
Non è infatti il dovere a cambiare l' uomo, bensì dobbiamo piuttosto dire:
«Come può l' uomo essere soggetto responsabile delle proprie azioni?». Pure
secondo J. B . Metz non dobbiamo lottare solo affinché gli uomini rimanga­
no soggetti di fronte alle crescenti coercizioni collettive, bensì anche affin­
ché essi possano diventare soggetti1 1 • O in altre parole: il contributo decisivo
di un' etica teologica sta in primo luogo nelle sue componenti soteriologiche:

' Non si tratta di dimostrare o fondare una proposizione di fede, ma di descrivere anche storica­
mente una categoria qui adoperata, al fine di mostrare l'affinità che questa forma di pensiero ha
con contenuti cristiani. Per il resto essa mi sembra essere meno problematica del modello moderno
del rapporto tra indicativo e imperativo.
• Cfr. al riguardo anche O. HANSSEN, Heilig, tesi di laurea, Heidelberg 1 985.
10
Punto di partenza di quanto segue è l'osservazione che riusciamo a padroneggiare più facil­
mente la realtà umana quando la rappresentiamo in teatro o in altro modo che non quando cerchia­
mo di farlo nella realtà. L' attore ha un ruolo, che svolge con facilità e come giocando. L' identità
cristiana equivale ad essere immessi in un ruolo da parte dello stesso Dio che ha scritto anche il
copione. La cosa importante è quella di non uscire da questo ruolo. Il ruolo è il nostro status.
I l J. B. METZ ( 1 977), 56.
Sulla prassi dell 'applicazione 1 63

come può l' uomo essere liberato e messo in grado di volere cambiamenti
salutari?
La prima cosa qui importante è quella di riconoscere il ruolo dell' identità
per l' etica e di considerare l' identità come un dono benefico. Questo signifi­
ca: anche se una identità capace di assumersi responsabilità è solo il fine
dell' azione, tuttavia essa ha anche il valore di un suo criterio. E appunto di
questo si tratta qui e nelle pagine che seguono.

3. I singoli criteri

I criteri seguenti si ispirano tutti quanti alla logica dell' autocontraddizio­


ne religiosa. - Per il resto essi si correggono a vicenda, in modo tale da
costituire una specie di ' setaccio' .

EDIFICAZIONE DELLA COMUNITÀ

Questo criterio riprende affermazioni esplicite di Paolo, secondo le quali


l' utilità e l' edificazione della comunità sono il fine delle sue direttive, e pre­
cisamente sia delle direttive che riguardano l' unità della comunità1 2 sia delle
direttive che riguardano l' uso del potere nei confronti della comunità13• Qui
}"edificazione' non è, come risulta dal variegato uso del termine, una norma
riempita di contenuti, bensì un principio formale che bada all' effetto. Parti­
colarmente sorprendente è la posizione di principio sovraordinato assegnata
all ' edificazione della comunità in l Cor 14,26-33, dove perfino i doni cele­
sti devono sottoporsi a questo principio; perfino alle 'rivelazioni' e allo spi­
rito che parla nei profeti, è possibile in questo senso comandare (gli spiriti
dei profeti sono soggetti ai profeti) e imporre loro un ordine. Paolo regola
con questo principio il propriamente non regolabile, per salvaguardare la
comunità dal caos e dalla disgregazione. In modo simile egli usa la metafora
del corpo in l Cor 1 2 : la comunità, costituita come corpo di Cristo dallo

" Pensiamo al problema dei forti e dei deboli (l Cor 8, 1 . 10; 10,23) e a quello dei carismi (l Cor
1 4,3-5. 12. 17.26).
" 2 Cor 10,8; 1 3 , I O.
1 64 terza parte

Spirito, è una realtà religiosa preetica che non va distrutta, e nello stesso
tempo da questa struttura a forma di corpo derivano conseguenze concrete
per il comportamento 14• Ef 4, 1 2 parlerà quindi dell' edificazione del corpo.
Accanto al principio dell' edificazione si colloca quello dell' utilità, riferito
sia al singolo (l Cor 1 3 ,3) sia alla comunità (l Cor 14,6).
Oltre all' edificazione e all' utilità dobbiamo qui menzionare come terzo
criterio anche l' esistenza stessa della comunità: in 2 Cor 3 , 1 -3 Paolo, che
non può esibire lettere di raccomandazione davanti alla comunità, chiama la
comunità stessa la propria lettera. In altre parole: la stessa comunità, così
come essa esiste, è il criterio della legittimità dell' apostolo e del suo mes­
saggio. Con questo argumentum ad hominem la comunità interpellata viene
rimandata alla sua propria esistenza di comunità cristiana. I cristiani di
Corinto non vorranno certamente negare che essa esiste, e di conseguenza
non vorranno neppure negare la legittimità in questo modo palese del van­
gelo paolino.
Le menzionate affermazioni neotestamentarie sull' esistenza della comu­
nità come base e criterio sono ermeneuticamente importanti, perché sono
aperte sotto il profilo del contenuto e vanno messe in rapporto con la conti­
nuità della storia dell' elezione. Quest'ultimo punto va spiegato: ciò che inte­
ressa a Paolo non è l' esistenza contingente di una qualche associazione reli­
giosa, la cui esistenza o scomparsa non meriterebbe di servire da criterio per
direttive etiche. Ciò che gli sta a cuore sono piuttosto i santi e eletti di Dio
(l Cor 1 ,2; 6 , 1 s. ; 2 Cor 1 , 1 ), l " ekkles{a di Dio' e quindi la storia di Dio con
il suo popolo. Chi distrugge la comunità distrugge perciò l' opera di Dio (l
Cor 3 , 1 7).
Chi con la propria azione distrugge la comunità cade in contraddizione
con se stesso, perché «sega il ramo su cui sta seduto». Non si tratta perciò
solo di disturbi superficiali della comunicazione15, bensì Dio ha posto la sua
opera nel mondo come popolo, come tempio dello Spirito Santo. Chi la
distrugge, distrugge la sostanza dell' azione di Dio. Per questo motivo la
divisione della chiesa è condannata con tanta veemenza in l Cor 3 , 1 7 .
Un criterio è pertanto il seguente : l' esistenza stessa della comunità è

14 Pure in l Cor 6, 1 2-20 la tesi giuridica secondo la quale il corpo sarebbe, in base al proprio sta­
tus, il tempio dello Spirito Santo è il fondamento dell' argomentazione.
" L'edificazione non ha in Paolo qualcosa a che fare né con il rapporto da uomo a uomo (indivi­
dui), né con il rapporto tra uomo e Dio (il singolo e la sua conversione); il concetto di <<superamen­
to della mancanza di rapporti>> (S. Kierkegaard), già in partenza di tipo filosofico, non coglie la
realtà filologico-storica dell' 'edificazione' in Paolo e meno ancora il problema ermeneutico. La
limitazione al modello del rapporto con Dio e con il prossimo non permette di scorgere la comu­
nità.
Sulla prassi dell 'applicazione 1 65

un' opera preetica di Dio, che non va assolutamente distrutta. Nell' adottare
questo criterio nell' ermeneutica moderna occorre cercare di ovviare a possi­
bili fraintendimenti:
l . Non si tratta del principio: «È bene ciò che giova alla comunità» . Si
tratta piuttosto dell' unità della comunità, e precisamente sotto il profilo del­
la teologia dell' elezione. Questo significa concretamente : la divisione
volontaria della comunità cristiana è un delitto spaventoso, che va in ogni
caso impedito. Perché, per dirla in termini paolini, è il tempio santo di Dio
ad essere altrimenti distrutto.
Naturalmente nelle condizioni attuali, caratterizzate da una chiesa di
popolo, questa affermazione non va adottata senza riflettere, soprattutto per­
ché non è plausibile la base della teologia dell' elezione, secondo la quale
l' unità della comunità è effetto e segno dell' unità e dell' unicità di Dio. Tut­
tavia tale affermazione conserva anche oggi il suo peso critico: l' esistenza di
ogni comunità di battezzati è di per sé un valore, nonché opera e segno di
Dio nel mondo. Di conseguenza essa non va posta a cuor leggero in perico­
lo. E ciò riguarda - questa è la punta ermeneutica della nostra tesi - qualsia­
si applicazione della Scrittura in essa. Sotto il profilo positivo questo signifi­
ca: il fine dell' interpretazione della Scrittura è la stessa esistenza viva della
comunità di Dio16 e la sua unità.
2. Il criterio sorprendentemente realistico dell' utilità è un buon correttivo
contro la spiritualizzazione e un falso idealismo altruistico. Già nello stesso
Nuovo Testamento osserviamo infatti che al singolo viene chiesto moltissi­
mo (perdonare 70 volte 7), mentre bisogna impedire che singoli disprezzino
la comunità o la facciano cadere in discredito (Mt 1 8, 1 5-30 e l Cor 5). La
misericordia pura e semplice e il perdono ad ogni costo non valgono per la
comunità.
3. L'unità della comunità significa (cfr. l Cor 1 2) l' unità viva del diverso.
In altre parole il compromesso e il dialogo occupano qui sicuramente una
posizione di onore.

" Dato che qui si tratta della storia dell' elezione di Dio, vi è pienamente implicato nel senso di
Paolo anche il rapporto con l ' Israele non cristiano.
1 66 terza parte

SANTITÀ

Paolo fonda spesso la propria etica con l' aiuto del motivo della santità,
perché la santità fonda per lui l' unità tra soteriologia e etica, come ad esem­
pio in 1 Ts 4,3 .7-8. L'etica della santità è perciò un' alternativa intrapaolina
al collegamento, altrimenti usuale nella teologia protestante, tra giustifica­
zione e etica secondo Rom e Gal. Da l Ts 4,3ss. risulta chiaro che la 'san­
tità' è una cerniera tra lo status religioso della comunità e le esigenze che di
qui vengono. La santità è perciò esattamente uno di quei criteri che noi cer­
chiamo. Essa ha le seguenti importanti implicazioni teologiche:
l . La santità significa orientamento teocentrico. Non ci si domanda che
cosa 'ne viene' all' uomo o che cosa egli se ne fa. Si tratta piuttosto di una
·
proprietà corporea di Dio, donde la sua importanza per il corpo (l Cor 7,34)
o per la discendenza corporea (Rom 1 1 , 1 6) e tutte le conseguenze nel campo
del visibile (santità dello spazio e del tempo).
2. La santità implica sempre un taglio, un restringimento e una limitazio­
ne della libertà delle manifestazioni vitali umane. Le tradizioni dell' ascesi
sacra e del lutto cultuale limitano in linea di principio la vita17• Esse ci dico­
no perciò che la benedizione, la vita, la sessualità e la gioia sono cose che
non dipendono solo dall' uomo e alludono simbolicamente al fatto che
l' uomo non è il loro ultimo autore e che esse ci devono essere donate da
Dio. Esse rendono Dio visibile come origine e come padrone della vita. La
santità e le rappresentazioni tabuistiche vogliono nel loro insieme marcare la
vita come un dono.
3. La santità significa perciò che la vita comporta necessariamente sotto
l' aspetto religioso qualcosa che a prima vista sembra contraddirla: l' ascesi,
la rinuncia ecc., qualcosa che è tuttavia strettamente necessario.
4. La categoria della santità18 equivale perciò a una critica della fame di
vita di per sé illimitata dell' uomo. La fame di vita è infatti di per sé insazia­
bile e quindi anche senza criterio. La santità è perciò rinuncia a una volontà
illimitata di vivere e di conseguenza una critica dei bisogni dell'uomo. Di
qui scaturiscono delle domande importanti:

17 Queste limitazioni (per es., divieto dei rapporti sessuali in tempi sacri o in luoghi sacri nel giu­
daismo del tempo di Gesù) hanno, nella loro qualità di interruzioni del decorso normale della vita,
una importante funzione simbolica (anche magicamente concepita): esse stanno a indicare che la
benedizione e la vita (per esempio nel caso della continenza cultuale) o la gioia (nel caso del lutto
cultuale) devono essere di nuovo donate da Dio nel luogo sacro o nel tempo sacro.
" Su questo punto ho tratto preziosi suggerimenti dalla tesi di laurea di O. HANSSEN, Heilig, Hei ­

delberg 1 985 .
Sulla prassi dell 'applicazione 1 67

a) Quali sono veramente i bisogni fondamentali innegabili dell' uomo?


b) Un' esistenza completamente libera dal dolore (cosa che la vita di per sé
appunto vuole) è un fine realmente auspicabile?
c) Non esiste un nesso chiaro tra una volontà illimitata di godere (di vivere) e la
crisi ecologica?
d) Non esiste una felicità completa, che consiste sostanzialmente nella rinuncia al
consumo?
e) Nel singolo caso la tutela dei 'miei' diritti umani e l' attaccamento alla 'mia'
vita sono realmente l'ultima realtà? Il godimento della vita è il fine ultimo?
f) La dimensione della santità potrebbe avere la conseguenza che noi ci limitia­
mo a uno stile di vita, che rende necessario solo un minimo di responsabilità ecolo­
gica e politica (0. Hanssen). Se infatti la santità ci dice che non l 'uomo è il Signore,
bensì Dio, allora neppure tutta la creazione rientra nel campo di ciò di cui l 'uomo
potrebbe avere l 'ardire di assumersi la responsabilità. Se egli non ha potere su tutta
la vita, non deve neppure agire come se tutta la vita stesse 'a sua disposizione' e ne
potesse usare illimitatamente. La santità è perciò un freno posto alla tendenza di
'usare' tutto e tutti e di pensare quindi che tutto dipenda da noi.

Risultato: se la santità significa in ogni caso e perlomeno che dobbiamo


trarre la conseguenza che la vita ci è donata, questo significa in pratica che
dobbiamo costantemente cercare di riconoscere che Dio è il Signore e di
limitare la capacità dell'uomo di disporre.
Invece la volontà illimitata di vivere equivale a un' autocontraddizione.
Nel senso di J. B . Metz possiamo aggiungere: qui non pensiamo alla santità
come a «un ideale strettamente privato verso cui si aspira e che potrebbe
dunque facilmente indurci al conformismo nei confronti dei rapporti esisten­
ti», bensì a una «santità che si afferma nel legame tra mistica e amore com­
battente, capace di assumersi le altrui sofferenze» 19• La possibile obiezione,
secondo la quale l' ascesi necessariamente collegata alla santità sarebbe stata
adoperata per reprimere creature umane (in particolare le donne), va presa in
considerazione, ma non coglie nel segno20• Connessi tra di loro potrebbero
piuttosto essere l' ascesi e lo sviluppo della soggettività.

19 J. B. METZ ( 1 980), 22.


211 Ogni fine è pervertibile e abusabile da parte del potere. - Sempre le donne hanno svolto fin
dall' inizio nella chiesa un grande ruolo proprio nelle comunità ascetiche.
1 68 terza parte

RADICALITÀ

Come l'edificazione e la santità, così anche la radicalità è un criterio per


evitare l' autocontraddizione. Essa è infatti un fenomeno nello stesso tempo
religioso e etico.
La religione ebraico-cristiana, quale esperienza di un progetto completo
dotato di senso, è radicale e non superficiale. Essa non abbraccia infatti solo
situazioni limite, bensì ogni istante. Di conseguenza tutta la vita ne viene
coinvolta e precisamente al cospetto della pretesa di dominio da parte
dell' unico Dio (una pretesa che, trattandosi dell' unico Dio, è di per sé radi­
cale e che esige di conseguenza una risposta altrettanto radicale). Va perciò
da sé che l' agire nel campo della religione sottostà ali' esigenza di essere
attuato «con tutto il cuore e con tutte le forze» (Dt 6,4s.). Di conseguenza
sia il messaggio di Gesù (cfr. il discorso della montagna) che l'etica paolina
(lo Spirito come adempimento senza riserve della legge) sono una risposta
al messaggio della vicinanza insuperabile di Dio agli uomini.
Perciò esistono anche oggi «una gioventù chiamabile alla sequela, un
desiderio di un' esistenza cristiana radicale e di alternative alla religione bor­
ghese», con la chiesa che deve lasciarsi qui dire: «Se essa fosse più evange­
licamente 'radicale' , probabilmente non avrebbe bisogno di essere tanto
'rigorosa' sul piano della legge»21 •
Un modo di agire di tipo religioso è perciò nel campo dell' ebraismo e del
cristianesimo un agire radicale. Chi non tiene conto di questo e pensa di
potersela cavare con un' etica adattata, distrugge il fondamento su cui poggia
e cade in contraddizione con se stesso. - In concreto questo significa: quan­
do si tratta di stabilire delle norme, occorre prestare particolare attenzione al
carattere e alla natura dei compromessi. Perciò di fronte a qualsiasi compro­
messo raggiunto occorre domandarsi se si è realmente sfruttato sino in fon­
do il margine di azione in direzione della radicalità.

RISPETTO

Il timore e il rispetto di fronte al numinoso e al suo strapotere, ovunque


essi si manifestino, sono comportamenti religiosi e fenomeni religiosi di
fondo noti ben al di là del mondo ebraico-cristiano. Questo significa nello

21 J. B. METZ ( 1 980), 16. 1 8.


Sulla prassi dell 'applicazione 1 69

stesso tempo: il rispetto come criterio e misura non è solo un comportamen­


to etico, ma ha qualcosa a che fare con il comportamento verso una potenza
religiosamente sperimentata. Quando perciò qui di seguito parleremo del
rispetto come criterio, intendiamo ancora una volta con tale termine un
fenomeno ad un tempo religioso e etico, che è religiosamente fondato. A
questa concezione l' antichità greca fornisce un contributo particolare, che
però si era già fuso nel campo del giudaismo ellenistico, prima del Nuovo
Testamento, con la concezione veterotestamentaria-ebraica della creazio­
nezz.
Perciò il cosmo rappresenta, in qualità di sua opera, Dio, cosicché anche
nel rapporto con il cosmo abbiamo a che fare con Dio; nel pensiero greco
più antico il cosmo aveva perciò anche un carattere personale. La conse­
guenza di questa presenza di Dio nel cosmo e di questa sua rappresentazione
da parte del cosmo, di questo collegamento dei vari campi dell' esistenza con
le divinità che nel cosmo «ci vengono incontro», fu in particolare quella che
tali divinità andavano di continuo onorate. In linea generale il timore di
fronte al carattere religioso della realtà equivale ad evitare la superbia uma­
na. Gli interventi umani nei vari campi dell ' essere e l ' uso della potenza
umana nei loro confronti furono visti sotto questo aspetto.
Il modo adeguato di incontrare lo strapotere di Dio o degli dèi rappresen­
tato nei campi dell' essere era perciò il seguente: riconoscere rispettosamente
la competenza divina e cercare di non superare i confini della capacità uma­
na di disporre. Questa concezione, recepita nella cornice della religione
ebraico-cristiana, suona: la creazione del mondo da parte di Dio ci dice che
quanto è stato disposto da Dio va rispettato e che ad esso bisogna riconosce­
re una stretta priorità rispetto a tutto ciò che l' uomo ne può fare. (Questa
struttura di pensiero ritorna del resto notoriamente anche nella dottrina della
giustificazione). Questo significa una preminenza dell' etica del rispetto nei
confronti di qualsiasi etica utilitaristica.
Per etica del rispetto io intendo perciò la somma dei comportamenti che
tendono ad incontrare Dio nel mondo creato e che considerano la creazione
come la sua rappresentanza personale. L'etica utilitaristica è invece un com­
portamento che cerca di cambiare e trasformare la realtà e precisamente in
modo esclusivo per scopi stabiliti e pianificati dall ' uomo. Se l' etica del

" Cfr. al riguardo K. BERGER, «Der Kosmos ist der heiligste Tempel . >> . Zur unterschiedlichen
. .

Wertung des Kosmos in der paganen und der christlich-gnostischen Antike, in G. RAU - A. M.
RITIER - H. TIMM (edd.), Frieden in der SchOpfung. Das Naturverstiindnis protestantischer Theo­
logie, Giitersloh 1 987, 58-72.
1 70 terza parte

rispetto23 deve avere, per motivi desunti dalla teologia della creazione, una
priorità e una preminenza rispetto all' etica utilitaristica, tale priorità e pre­
minenza comportano le seguenti cose:
l . L'etica utilitaristica non va accantonata, però ha nell'etica del rispetto
una cornice che le fornisce delle norme.
2. Se tale cornice è valida, ciò significa: gli interventi dell' uomo, che
cambiano stabilmente i campi della creazione e della vita, vanno ridotti al
minimo, perché la superbia umana viola il dovuto rispetto davanti a Dio.
Ciò vale, per esempio, per le uccisioni non necessarie in generale. Si tratta
di una vera e propria ritrosia di fronte all' uso di questo potere, perché la
realtà ha un carattere personale.
3. Tutto il 'fare' e ogni manipolazione d' una certa entità non sono di per
sé giustificati, ma vanno adeguatamente motivati e va dimostrata la loro rea­
le necessità.
La riscoperta del mito e del pensiero mitico è senza dubbio collegata nel
nostro tempo con la percezione della crisi ecologica ed è una reazione reli­
giosa spontanea a tale crisi. Il timore numinoso di fronte alla divinità pre­
sente nella creazione è infatti tipico dell' immagine mitica del mondo. In
questo senso la . discussione sul mito va salutata. con favore, a patto che si
veda che il mito non è una faccenda 'pagana' , ma un tipo di esperienza pos­
sibile e reale anche nell' ebraismo e nel cristianesimo24•

Risultato:
l . L' evitare interventi d' una certa entità e soprattutto non necessari nella
creazione (natura e uomo) è una conseguenza necessaria e diretta del rico­
noscimento della creazione come opera di Dio antecedente qualsiasi opera
umana. Il rispetto religioso di Dio ha perciò come conseguenza diretta il
rispetto di tutto il creato (e non solo dell' uomo). Se infatti diciamo che la
creazione è 'opera' di Dio, qui il termine 'opera' non viene inteso nel senso
di un oggetto estraniato dal proprio autore, bensì nel senso di un oggetto che
rappresenta l' autore25• Contro l' etica del rispetto va anche una morale ses­
suale nemica della vita.
2. L'etica del rispetto non dice che il mondo sia buono (pericolo questo

23 Cfr. A. SCHWEITZER, Kultur und Ethik (GW 2, 1 974, 95ss.), spec. XXI: «Die Ethik der Ehifur­

cht vor dem Leben» (375-402) [cfr. A. SCHWEITZER, Rispetto per la vita, Claudiana, Torino 1 9834] .
24 Cfr. al riguardo K. BERGER, Daifman an Wunder glauben ?, Stuttgart 1996, 70-9 1 .
25 Sulla critica al concetto teologico abituale d i valore, cfr. K . BERGER, «Der Kosmos ist der hei­

ligste Tempel... >>, 65s. e R. HEILIGENTHAL, Werke als Zeichen, Tiibingen 1 983.
Sulla prassi dell 'applicazione 171

presente nel pensiero mitico), bensì dice che l' agire dell'uomo è pericoloso.
Perciò il 'rispetto della vita' non si identifica neppure con una affermazione
della validità del diritto naturale.
3 . Poiché un noto pericolo del pensiero cristiano è quello di considerare il
mondo attuale solo come un mondo provvisorio e di trattarlo di conseguenza,
la funzione ermeneutica dell'etica del rispetto tende a privilegiare determina­
te tradizioni e determinati effetti del Nuovo Testamento rispetto ad altri26•

GIOIA

La gioia carismatica è in parte di origine estatica, è un dono dello Spirito,


un bene escatologico, una partecipazione al mondo celeste, e la salvezza
celeste o escatologica è in parte semplicemente descritta come gioia27• Poi­
ché è anche possibile esortare a gioire (un' esortazione questa difficile da
assecondare per noi uomini odierni), come avviene in l Ts 5 , 16; 2 Cor
1 3 , 1 1 , la gioia è nello stesso tempo riconoscibile come comportamento uni­
tario, complesso e ricco di valori, in ogni caso essa comporta in parte gli
aspetti della perfezione e dell' eliminazione dell' adesso e del poi . Possiamo
anche dire che la gioia è il lato soggettivo del discorso della 'gloria' .
La 'gioia' è perciò adatta come nessun altro criterio a cogliere i lati psi­
chici, dal momento che nel suo caso si tratta del rapporto tra condizione
redenta e agire, dell' eliminazione dell' estraniamento tra dovere e fare28• La
gioia non significa solo l' unità della giustificazione e dell' etica (oppure: le
affermazioni teologiche del Nuovo Testamento sulla gioia sono una base
genuina per la soluzione di questo problema) , bensì significa oltre a ciò
anche qualcosa di sperimentabile, una forza e una motivazione sperimenta­
bili. È perciò comprensibile che in 2 Cor 1 ,24; 1 3 , 1 1 essa sia detta la somma
dell' esistenza cristiana. Inoltre con la gioia . scompare ogni sospetto di etero­
nomia.

,. Per esempio: prima della tradizione della scomparsa della vecchia creazione alla fine (Ap 2 1 )
o della consumazione degli elementi tra le fiamme (2 Pt 3), bisognerebbe, quando s i tratta di assu­
mere come conseguenza un determinato comportamento verso la creazione, porre l' accento su
quelle affermazioni che non prevedono una catastrofe cosmica finale (per es., sull'escatologia
come processo di Ef e Col; dove Gesù Cristo è il mediatore della creazione, non si parla mai di una
catastrofe finale annientante il mondo, neppure in Eb).
27 Cfr. al riguardo K. BERGER, chdiro, in EWNT III, 1 079- 1083; chdra, ibid., 1087- 1090.
" Cfr. ad esempio Le 15,6.9.32; Gv 14,28; Mt 5 , 1 2; l Pt 4, 1 3 ; Fil 3, 1 ; 4,4. 10; l Ts 5 , 1 6; 2 Cor
1 3, 1 1 .
1 72 terza parte

Essa può perciò assumere una particolare importanza come criterio erme­
neutico:
l . La gioia è un 'interruttore' religiosamente (estaticamente, escatologica­
mente, carismaticamente) fondato e posto tra il fondamento salvifico e l' agi­
re. Essa esprime il fatto che la salvezza concessa può e deve significare non
solo «sotto l' aspetto teologico», bensì anche in base all'esperienza una libe­
razione che rende capaci di agire con gioia (in tedesco qualcosa di simile
esprime il termine Gebefreudigkeit, gioia di dare, generosità) .
2. In concreto questo criterio rappresenta una domanda rivolta ad ogni
applicazione: nell' effettuare un' applicazione si tiene conto del fatto che il
cristianesimo è possibile e teologicamente legittimo soltanto come supera­
mento del contrasto tra essere e dovere, come fare gioioso? I comandamenti
cristiani non sono infatti delle norme che impongono un dovere, ma sono
aspetti della stessa realtà posti con la religione cristiana.
3. Perciò l' applicazione effettuata nella predicazione cristiana è legittima
soltanto se essa possiede una affinità con la facilità, con la spontaneità, con
la liberazione (anche dalla tendenza ossessiva ad adottare quelle rispettabili
abitudini di vita, che sono naturalmente capaci di venire a patti con qualsiasi
sistema) , con il gioco, con l' entusiasmo e con l' eliminazione della noia.
Contrari a ciò sono pertanto la costrizione e la minaccia come contenuto
prevalente della predicazione.
4. La gioia come criterio non significa ricevere solo cose piacevoli da
ascoltare o procedere solo con comodità, bensì è finalizzata alla radicalità ed
è con essa apparentata. E l' opzione in favore di elementi carismatici come
quello della 'gioia' non significa promozione di qualsiasi 'movimento cari­
smatico' .

4. Reperimento di norme concrete

NECESSITÀ DI NORME

Le norme sono direttive in fatto di comportamento per determinati grup­


pi, direttive che presentano uno specifico contenuto o che sono anche detta­
gliate e che hanno un carattere vincolante. Il problema ermeneutico sta in
questo: poiché la lettera della Scrittura vale solo per l' ambiente e per la
situazione ristretta in cui essa fu anticamente recepita, occorre via via trova-
Sulla prassi dell 'applicazione 1 73

re nuove norme vincolanti per i gruppi ecclesiali. Alcuni rappresentanti


classici della teologia protestante rifiutano nettamente l' elaborazione di
simili norme (al di là della Scrittura), come fa ad esempio M. Lutero nel
Sermone sulle buone opere del 1520, dove egli ammette come unico criterio
etico la 'fiducia' 29• Già E. Troeltsch criticò in modo pertinente questo orien­
tamento, e la sua critica è stata portata avanti da M. Horkheime�0•
Diversa è la posizione di R. Bultmann. Di fronte a una eteronomia della
legge e a una autonomizzazione di norme, egli riconosce solo la validità del
comandamento dell' amore e respinge qualsiasi etica che stabilisca norme
concrete3' . Unico tema dell' etica è in lui la libertà dell' essere se stesso dona­
to nella fede, e ciò a debita distanza da tutte le dipendenze naturali e sociali.
H. E. Todt parla qui di paure del contatto di R. Bultmann nei confronti di
tutti i contesti naturali e sociali; l' essere se stesso sottolineato da Bultmann
non verrebbe in ogni caso posto in relazione con il campo delle norme pub­
blicamente in vigore, e Bultmann difenderebbe in continuazione la trascen-

"' Secondo questo scritto di Lutero 'tutte le opere' diventano 'uguali' nella fede (WA 6,206).
Infatti il modo in cui uno deve comportarsi lo insegna soltanto la fiducia, perché tutto l'essenziale
avviene tra l'uomo e Dio (WA 6,207). - Questo significa: l' agire viene liberato dall'osservanza del
comandamento e trasformato in spontaneità. Il timore della giustizia delle opere conduce qui a
rinunciare a qualsiasi contenuto concreto. In questo modo però la tensione esistente tra etica indi­
viduale e riferimento alla comunità non viene dissolta in misura sufficiente. Ognuno viene lasciato
solo con la decisione della propria coscienza (come dicono con frequenza anche nel presente cri­
stiani evangelici disorientati). In questo modo si prepara però il distacco dell'etica dalla religione,
che caratterizza in larga misura il protestantesimo moderno nell' Europa occidentale. E questo tipo
di scomparsa dell'etica nella religione, come quella praticata in Lutero, comporta necessariamente
come contraccolpo una eticizzazione della religione quale quella attualmente diffusa. Di fronte alla
problematica di Lutero (che era nella sua epoca giustificata) dobbiamo dire: d'importanza essen­
ziale dal nostro punto di vista non è solo il rapporto tra Dio e l' uomo, bensì anche la fantasia con­
creta che costruisce su questa base.
30 E. TROELTSCH, Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen l, Ttibingen 1 96 1 , 1 74:
«Per i teologi evangelici l' idea di un contenuto determinato dell'ethos cristiano è andata così smar­
rita che tutto questo ethos si risolve per essi nel rifiuto delle buone opere e nella giusta definizione
della grazia comunicante le energie morali, mentre dal lato del contenuto esso degenera in una
totale mancanza di determinatezza>>. Cfr. al riguardo M. HoRKHEIMER, Kritische Theorie l, 1968,
27 1 [trad. it., Teorica critica, Einaudi, Torino] : « .. .infatti la religione fu così a lungo privata di un
contenuto chiaro e determinato, formalizzata, adattata, spiritualizzata, relegata nella interiorità più
intima del soggetto, fino a che essa venne a patti con ogni modo di agire e con ogni prassi pubblica
che era corrente in questa realtà ateistica».
" Cfr. R. B ULTMANN , GuV l, 239: «Il comandamento dell' amore dà fiducia all'uomo, presume
che nella concreta situazione della vita egli veda il suo prossimo o sappia cosa fare. (Nota: cfr.
l' <<ama, et fac quod vis>> di Agostino). Non esiste pertanto un'etica cristiana, intesa come una intel­
ligente teoria circa quello che il cristiano ha da fare e da omettere>> [trad. it. , Il comandamento cri­
stiano dell 'amore del prossimo, in Credere e comprendere, Queriniana, Brescia 1 977, 256-257]. Il
cristiano dovrebbe sempre decidere se vuole amare o no.
1 74 terza parte

denza dell' essere se stesso credente contro ogni sua immersione nel relati­
vo32. Anche qui vediamo come l ' ermeneutica di Bultmann, così come
l' ermeneutica di Gadamer e della filosofia della riflessione, si riferiséano
soprattutto alla comprensione. Esse guardano, come diventa qui particolar­
mente riconoscibile, alla comprensione del singolo33•
La posizione di Bultmann permette di riconoscere bene che la posizione
assunta verso il fenomeno della 'sfera pubblica' dà qualche indicazione cir­
ca l' importanza etica di un' ermeneutica. Mentre in Lutero (cosa che non
stupisce più di tanto) e in Bultmann questo fenomeno non compare, nel
nostro schema esso ha una duplice funzione:
l . La sfera pubblica è l' orizzonte della plausibilità di decisioni non garan­
tite da norme. Esiste una specie di 'coscienza pubblica' , che è oltremodo
importante per lo sviluppo di un'etica concreta e che non mira affatto solo
ad attenuare esigenze radicali. Vero è piuttosto che un determinato stato del­
la coscienza pubblica non può di regola essere più semplicemente revocato.
2. La sfera pubblica è in linea generale il campo dell' agire (anche di quel­
lo più privato) ed è perciò anche il campo della validità delle norme e della
loro obbligatorietà. E in essa esistono dei cerchi concentrici e sovrapponen­
tisi.
Di qui deriva la necessità di norme anzitutto generali, desunte da qualsia-.
si antropologia che prenda sul serio la natura sociale dell'uomo, poi di nor­
me particolari, atteso il fatto che la realtà del cristianesimo è una realtà
ecclesiologica34• Proprio qui sta la carenza perlomeno in R. Bultmann. Inol­
tre io vedo le norme come accordi limitati, per cui il problema del legalismo
nella misura temuta da Lutero e Bultmann si fa meno pressante.
Quanto poi alla prassi del reperimento delle norme come problema erme­
neutico dell' interpretazione della Scrittura, io considero i punti menzionati
qui di seguito come particolarmente importanti.

" H. E. TbDT, Rudolf Bultmanns Ethik der Existenztheologie, Giitersloh 1978, 1 0 1 - 1 03 .


" Cfr. R . BULTMANN, GuV II, 27 1 : «L' uomo trova s e stesso unicamente nella solitudine radica­
le . . . comunione nel trascendente ... comunione in Dio» [trad. it., in Credere e comprendere, Queri­
niana, Brescia 1 977, 624] . Questo essere se stesso è naturalmente trascendente rispetto alla natura
e alla società.
34 Cfr. al riguardo la mia voce Kirche l, Il, in TRE XVIII, 1 98-2 1 8.
Sulla prassi dell 'applicazione 1 75

IL NUOVO TESTAMENTO: UN MODELLO

Nel senso della concezione ermeneutica, qui determinante, del carattere


di immagine e di parabola della Scrittura, dobbiamo dire a proposito
dell' applicazione: la Scrittura non è il principio generale da applicare (come
una legge), ma è il concreto paragonabile. Questa concezione è diametral­
mente opposta a quella di H. G. Gadamer, perché secondo Gadamer il testo
rappresenta nell ' applicazione la generalità ( classica)35•
La categoria del modello etico non era sconosciuta neppure agli autori del
Nuovo Testamento (cfr. la ' sequela' nei vangeli e !"imitazione' in Paolo; i
generi letterari dei racconti di esempP6 e degli esempi) . Questa concezione
ha le sue radici nella teoria antica dell' exemplum e, quindi, nell' importanza
ermeneutica dell' affettività, perché il «verba docent, exempla trahunt», qua­
le una delle proposizioni chiave della pedagogia retorica antica, si riferisce
espressamente alla commozione e all ' affettività. «L' esigenza di essere vin­
colati senza sistema è l' esigenza di modelli di pensiero . . . Il modello coglie
lo specifico e più dello specifico, senza vanificarlo nel suo concetto più
generale sovraordinato»37•
Un modello non fornisce alcunché di astratto, ma opera piuttosto sulla
base del collegamento tra riferimento all ' affettività e riferimento al mondo. I
modelli, poiché hanno di regola a motivo della loro compattezza una struttu­
ra drammatica, 'operano' mediante il 'contagio' e si rivolgono direttamente
all ' istinto di imitazione. La traslazione ermeneuticamente importante avvie­
ne quindi in modo preconcettuale, così come avviene anche nel caso dei
segni. La sua normatività non nasce quindi attraverso la via dell' astrazione
extrastorica. Né i modelli operano pertanto come consigli isolati, bensì in
quanto influenzano l' uditore. Questo influsso rende poi possibile un nuovo
agire. Inoltre essi, in quanto simboli, si riferiscono in modo fondamentale
alla società (carattere ecclesiologico: la chiesa come un mondo di exempla).
Il vantaggio di un orientamento ermeneutico ai modelli sta soprattutto nei
punti seguenti:

" H. G. GADAMER ( 1 975), per es. 295 [trad. it., 358] (tradizione e applicazione come rapporto tra
universale e particolare).
" Per esempio, in Le 1 0,25-37 alla domanda di tipo casistica viene data una risposta mediante
un racconto, che come tale non va imitato alla lettera, ma è un modello di come nasce una relazio­
ne tra 'prossimi' . Luca risponde con un exemplum, che nel suo tempo poteva essere capito e accet­
tato anche dai pagani.
" TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, Frankfurt/M. 1966, 37 [trad. it. , Dialettica negativa,
Einaudi, Torino 1 970, 28).
1 76 terza parte

l . Diversamente da come avviene nel caso della semplice applicazione di


un principio generale, il carattere di modello della Scrittura salvaguarda la
libertà dell' applicazione, anzi solo così si capisce che la libertà è un dato
centrale dell ' applicazione. In questo modo si evita l' eteronomia. Invece H.
G. Gadamer nega espressamente il legame tra applicazione e libertà. Pertan­
to la concezione del carattere di modello etico della Scrittura si accompagna
alla rivalutazione proposta in questa ermeneutica della soggettività e
dell ' individualità. Infatti se le affermazioni della Scrittura sono un modello,
non si lede né l' individualità storica della Scrittura né quella dell'interprete.
Lo scopo è quello di non eliminare la dimensione della storia (qui dello sto­
ricamente individuale) . Il modello tipico è l' analogo.
2. La libertà dell' applicazione non è salvaguardata solo perché la concre­
tezza del modello impedisce che esso sia direttamente imitato, bensì anche
perché il modello non è accessibile astrattamente, ma mediante un' esperien­
za e una conoscenza dei valori che non sono limitate al solo- morale e
soprattutto al solo-razionale (parola d' ordine: grande sensibilità).
3. L' importanza pratica dell'etica del modello sta nel fatto che essa forni­
sce aiuti mediante analogie e una motivazione mediante l' influsso.
4. I testi neotestamentari, presi come immagini nell' applicazione, non
sono da parte loro semplici illustrazioni di norme concettuali. Con W. Iser io
sono dell' opinione che bisogna respingere la questione del messaggio che
sta 'dietro' il testo, come se tale messaggio fosse un kerygma da concepire
concettualmente38•
5. L' orientamento a testi come modelli non significa rinuncia a norme in
generale, ma è una risposta alla questione della validità di norme passate.
Ciò corrisponde pertanto al nostro concetto di norma, che avevamo concepi­
to come universalità limitata nel senso di convenzioni valide temporalmente
e spazialmente limitate.
6. La nostra concezione non mira perciò a cancellare le norme, bensì a
salvaguardare la libertà nella elaborazione di nuove norme: le affermazioni
etiche e le 'scenette' della Scrittura non sono, così come esse là suonano,
nello stesso tempo norme oggi valide. Occorre piuttosto formulare nuova­
mente delle norme - qualora esse siano concepite come accordi limitati -
per questo tempo e per le sue necessità.

38 W. ISER, Der Akt des Lesens (UTB 636}, Miinchen 1 976, 1 4.


Sulla prassi dell 'applicazione 1 77

C OMPROMESSI

D' importanza centrale per il reperimento di norme di fronte alla Scrittura


è il problema del compromesso nei confronti delle affermazioni bibliche
radicali e delle esigenze esagerate che da esse derivano. Noi cerchiamo di
affrontare questo problema presupponendo vari piani, su cui le norme etiche
svolgono un ruolo.

l. La norma fondamentale sovraordinata

Norme del genere si trovano spesso nella Bibbia sotto forma di serie di
norme e hanno spesso un carattere protrettico39, come ad esempio comanda­
menti del decalogo quale quello di «Non uccidere» o «Non resistere al
male», «Amate i vostri nemici...» (rinuncia alla violenza come ideale del
discorso della montagna) . Nella loro qualità di norme protrettiche queste
brevi formulazioni sono di regola generali (perciò formulate negativamente)
e 'radicali ' .

2 . La norma di fatto in vigore

Queste norme rappresentano già dei compromessi rispetto a quelle men­


zionate sotto il punto l . Così, per esempio, il divieto di uccidere non vale
più in caso di legittima difesa o di tirannicidio, così come non vale più il
comandamento di rinunciare alla violenza qualora sia necessario difendere il
prossimo da una aggressione ecc. - In ogni caso le norme di fatto vigenti
limitano fortemente la portata della validità delle norme fondamentali
sovraordinate. Già lo stesso Nuovo Testamento presenta in questo senso -
soprattutto in Paolo (l Cor) e nelle lettere pastorali - un' etica compromisso­
ria. - Con questo pensiamo a quella morale che tiene conto della situazione
e che rende possibile la convivenza nella comunità e nella società.

'" Cfr. al riguardo K. BERGER, Formgeschichte des Neuen Testaments, Heidelberg 1984, § 62,
2 1 7-220. Protrettiche sono le norme centrali che riguardano sempre l' orientamento di fondo. Inve­
ce le norme casistiche entrano nei dettagli.
178 terza parte

3. La norma giuridicamente in vigore

Le leggi statali (o in parte anche ecclesiali) limitano ulteriormente la por­


tata delle norme vincolanti e la riducono al minimo socialmente necessario e
esigibile.

4. La norma realizzata di fatto nell'azione

Ciò che di fatto viene realizzato si colloca spesso al di sotto delle norme
menzionate nel punto 2 e 3.
I quattro gradi diventano chiaramente via via meno radicali. Il divario
esistente tra l'esigenza radicale (l) e la morale che tiene conto della situa­
zione (2) si ripropone ancora una volta tra la morale che tiene conto della
situazione e il fare effettivo (4). Perciò si fanno regolarmente sempre perlo­
meno due compromessi, quello tra il punto l e il punto 2 e quello tra il pun­
to 2 e il punto 4. È perciò cosa problematica se si possa presentare il com­
promesso effettuato nel punto 2 già come la massima attenuazione possibile,
perché poi si stabiliscono automaticamente ulteriori compromessi. Un com­
promesso effettuato totalmente verso il basso nel punto 2 va contro il crite­
rio sopra illustrato della radicalità di principio.
Una applicazione leale della Scrittura non può essere effettuata dichiaran­
do semplicemente 'non valide' le norme menzionate nel punto l; occorre
piuttosto tener fede alla loro validità incondizionata in modo tale che ogni
compromesso escogitato (quanto menzionato nei punti 2, 3 e 4) possa essere
in continuazione da tali norme criticato. Con questo intendiamo dire: nel
caso di ogni compromesso occorre domandarsi se si è realmente sfruttato in
modo completo nella direzione della radicalità il margine esistente di
azione40•

40 Due esempi possono chiarire come esigenze bibliche, che sono condizionate dal bisogno della
situazione, possano in questo senso pervenire nuovamente a una rinnovata radicalità: se una volta
il comandamento dell'amore dei nemici di Mt 5,44 era riferito soprattutto all'inimicizia personale
e alle liti tra vicini (cfr. gli specchietti dell'esame di coscienza), adesso grazie alla peculiarità della
situazione e nello stesso tempo grazie a un rinnovato ricorso alla Scrittura diventa di nuovo visibi­
le un tratto della radicalità originaria, in quanto quella proposizione viene riferita soprattutto ai
gruppi di nemici (valutazione di più vasti conflitti sociali con conseguenze importanti per ognu­
no). La stessa cosa avviene con i comandamenti biblici relativi all'elemosina. Se fino al secolo
XIX essi erano spesso interpretati, nel senso del pauperismo, soltanto come un invito a donare
volentieri, una loro applicazione aggiornata è sicuramente tenuta a imporre a ognuno dei sensibili
oneri sociali. - I due esempi mostrano qualcosa dell'importanza della 'coscienza pubblica' per
l'applicazione.
Sulla prassi del!' applicazione 179

lo presuppongo perciò un movimento critico dal punto l al punto 4, e


precisamente in modo tale che ogni punto superiore critica via via quello
inferiore. Questo movimento critico è necessario a motivo del principio che
impone di evitare l'autocontraddizione religiosa. Si tratta infatti dell'impor­
tanza pratica del criterio della radicalità. Detto in termini della storia delle
forme: i testi protrettici non vanno letti in senso legalistico, però vanno letti
come testi vincolanti e precisamente nel senso di un principio critico.
In questo modo salvaguardiamo la norma di volta in volta più radicale e
la sua funzione di segno, e fortunatamente nella storia del cristianesimo ci
sono sempre stati uomini che con la loro stessa esistenza esteriore ricordaro­
no in modo simbolico la validità delle norme radicali4'. Già la morale che
tiene conto della situazione (punto 2) è legittimata solo come il massimo del
via via possibile. Dall'altro lato essa significa, rispetto alla radicalità astratta
delle esigenze menzionate nel punto l, la possibilità di una concreta fanta­
sia, creatività e scansamento dell'ipocrisia e, soprattutto, del radicalismo
verbale. Invece l'orientamento alle esigenze radicali sottostà al principio
dell'autocontraddizione religiosa anche perché il cristianesimo si richiama
di per sé al proprio inizio, in cui si trovano le esigenze radicali.
Dall'altro canto esiste anche un movimento dal punto 4 al punto 2, perché
la plausibilità delle norme trovate in modo compromissorio può anche deri­
vare dalla prassi. Il fare pratico può svilupparsi in modo più o meno esigen­
te. Poiché gli uomini non esistono per le norme ma viceversa, anche la
realtà del momento, in cui gli uomini devono vivere con norme e mediante
norme, possiede un'importante funzione critica. Il problema sta perciò sem­
pre nel sapere se gli uomini possono vivere con le norme e mediante le nor­
me. Mentre nel movimento critico sopra descritto si tratta della ripercussio­
ne della radicalità religiosamente fondata, qui si tratta piuttosto di 'umanità'.
Tuttavia non può naturalmente essere il bisogno a stabilire che cosa occorre­
rebbe fare, bensì dobbiamo piuttosto dire: in ogni caso, per arrivare a trova­
re norme concrete, ci vuole la collaborazione di ambedue i movimenti.
Una delle conseguenze concrete di questa concezione è la seguente: pure
le stesse affermazioni bibliche assumono, in una applicazione leale, un valo­
re diverso a seconda del loro genere letterario, e qui vediamo che la storia
delle forme può avere una rilevanza ermeneutica: ad esempio, le affermazio-

., Così io interpreto l'affermazione di J. Blank: «Ogni traduzione in pratica del testo deve
mostrare che l'uso della violenza è un segno del mondo irredento, che ha urgentemente bisogno di
redenzione e quindi... dei segni della non violenza» (Gewaltlosigkeit - Krieg - Militiirdienst, in
Orient. 46 (1982) 157-163.213-216.220-223, qui 161).
1 80 terza parte

ni protrettiche vanno eventualmente42 trattate in modo diverso (cioè come


norme critiche supreme) dalle affermazioni molto condizionate storicamente
e situazionalmente (come, ad esempio, le affermazioni di l Cor l l , l ss.; l
Tm 2). Neppure gli stessi compromessi concreti e il loro contenuto possono
essere il più delle volte adottati a scatola chiusa; solo il modo e la via forma­
le della ricerca e della definizione del compromesso possono servire da
modello. Detto in altre parole : i compromessi già testimoniati nel Nuovo
Testamento sono qualcosa di diverso dalle norme supreme; essi vanno valu­
tati e relativizzati come una morale storicamente43 e situazionalmente condi­
zionata e vanno considerati come un possibile modello storico della traspo­
sizione della radicalità iniziale.
I testi protrettici individuati dalla storia delle forme non devono natural­
mente impartire delle direttive concrete per l' applicazione.

LA CASISTICA È NECESSARIA ?

Mentre per M. Lutero e per R. Bultmann non solo le norme, bensì in par­
ticolare le norme casistiche sono il compendio del legalismo da evitare ad
ogni costo, una ermeneutica orientata alla concretizzazione della prassi etica
e a norme di portata limitata non può rinunciare alla casistica. Uno sguardo
spassionato al Nuovo Testamento mostra infatti che il modo di procedere vi
è simile. E. Kasemann ha detto al riguardo il necessario44• Come ho già
accennato sopra, io non penso che la casistica neotestamentaria vada adotta­
ta come là suona, bensì che la via, lungo la quale gli autori neotestamentari

42 Questa limitazione è importante, perché non bisogna introdurre surrettiziamente l' idea che i
testi biblici porrebbero di per sé delle 'esigenze' anche ai lettori odierni dei testi.
43 Con questo non intendiamo naturalmente dire che le esigenze radicali menzionate nel punto l
non siano storicamente condizionate. Esse rispecchiano solo l' intenzione del testo in altro modo;
sulla soluzione di questo problema cfr. quanto abbiamo sopra detto a proposito della lealtà.
44 E. KAsEMANN, Gruruisiitzliches zur lnterpretation von Rom 13, in Id., Exegetische Versuche

und Besinnungen II, Gottingen 1 964, 205 : il Nuovo Testamento porrebbe «incessantemente in
modo quasi casistico singole esigenze». «Nel Nuovo Testamento>> la grazia «farebbe valere il pro­
prio diritto mediante un gran numero di singole esigenze, la qual cosa significa che essa ci prende
a proprio servizio in tutti i nostri rapporti e con tutto il nostro patrimonio, quindi con il nostro
mondo e il nostro mondo con noi>>. Sullo sfondo si delinea una concezione dell'importanza teolo­
gica del mondo chiaramente diversa da quella di R. Bultrnann: mentre in R. Bultmann la fede è
'demondanizzazione' (decisiva è la libertà nei confronti del mondo), in Kiisemann vengono sottoli­
neate la responsabilità del credente nel mondo e le pretese che la fede avanza nei confronti del
mondo e del servizio dei cristiani nel mondo.
Sulla prassi dell 'applicazione 181

sono arrivati a fare tali affermazioni, possiede un carattere di esempio e di


modello.

C RmCA DELLE RAPPRESENTAZIONI DEL FINE

Nella discussione teologica ci si rende chiaramente troppo poco conto


delle rappresentazioni del fine che fungono da guida nella formazione delle
singole norme. Le rappresentazioni del fine sono strettamente collegate con
specifici temi religiosi (attese escatologiche e utopie circa il futuro). Il nesso
per noi importante tra religione e etica è rilevante anche qui. Nel caso delle
metafore bibliche occorre per prima cosa vedere se esse evocano oggi delle
associazioni che sono problematiche; ciò riguarda, ad esempio, l' uso della
metafora del dominio per descrivere il fine escatologico, come ad esempio
Le 1 9, 1 7 . 1 9 par; Ap 20,6; 22,545•
Una serie di rappresentazioni del fine sino ad ora indiscusse sembra del
tutto problematica46• La maggior parte di queste rappresentazioni del fine
parte dal fatto che il dolore fisico e psichico e la morte vadano evitati o pro­
crastinati ad ogni costo. L' immagine ideale è l' ozio e il riguardo per l' indi­
viduo. Viceversa alcuni tratti dell ' immagine biblica dell'uomo, di tipo reli­
gioso, potrebbero avere un' utile funzione correttiva. Qui non si tratta solo
della critica mossa dalla santità alla illimitata volontà di vivere, bensì anche
della dialettica tra dono di sé e recupero di sé, nonché della preminenza del
cuore rispetto ad ogni benessere puramente esteriore. - In una diversa ma
simile direzione va la domanda posta da D. Ritschl: la rappresentazione cri-

., Per il tempo del Nuovo Testamento il 'dominio' , la sovranità, il regnare, sono chiaramente
l 'unica possibilità di descrivere la libertà. Gli oppressi di oggi sono pensabili solo come i regnanti
di domani. Oggi la pensiamo diversamente al riguardo (influsso della rivoluzione francese sul
nostro modo di pensare?). Qui, nell' applicazione, occorre perciò badare all'effetto che questo tipo
di linguaggio produce sull' ascoltatore. - La base metodica di queste osservazioni non è il - vano ­
tentativo di esercitare una critica oggettiva, bensì la critica della ricezione. - Per quanto riguarda
Luca possiamo dire: egli approva la 'pulsione del dominio' così come approva la 'pulsione del
possesso' e si attende da Dio solo un' altra ripartizione dell' uno e dell' altro. In questo modo egli
interpella sì gli uomini e i loro interessi, però Dio è e rimane il Signore.
"" Di ciò fa parte una serie di ideali del Paese della Cuccagna, come lo scansamento ad ogni
costo del dolore (conseguenza concreta: iniezioni contro il dolore ad ogni intervento del dentista;
l' ideale del parto indolore reso possibile da iniezioni; il prolungamento della vita secondo criteri di
possibilità puramente cliniche; deprezzamento del lavoro per avere il maggior tempo libero possi­
bile; riposo e cura ansiosa della salute ad ogni costo; uso illimitato della tecnologia come fine
dell'esistenza dell 'uomo).
1 82 terza parte

stiana del fine è «l'uomo perfetto», pienamente autosviluppatosi e piena­


mente capace di adattarsi47, oppure l' amore non è piuttosto necessariamente
e permanentemente diretto verso ciò che è imperfetto? I nostri ideali si ispi­
rano troppo alla perfezione e troppo poco all' individualità e originalità?
La critica di diffu se rappre sentazioni del fi ne comprende anche
qualcos ' altro : il più delle volte l ' applicazione etica della Scrittura dà
l' impressione che l' etica cristiana sia concepita in modo puramente altruisti­
co e che si tratti solo e sempre di dare via tutto, senza voler ricevere qualco­
sa in cambio. Questa etica di ispirazione kantiana più che biblica ha come
presupposto la perdita dell' escatologia e come conseguenza la perdita della
motivazione. Invece la teologia lucana mostra l' importanza del sano egoi­
smo: sia il figliol prodigo che l' amministratore infedele agiscono per il loro
ben calcolato e futuro tornaconto. Luca ritiene anche in linea generale che
gli uomini aspirino al possesso e al potere. Radicali sono tuttavia qui la
disponibilità con cui dobbiamo attenderci da Dio l' appagamento di questi
desideri e la ferma decisione di affidarci a una ridistribuzione divina. Per­
tanto il bene non viene fatto «per amore del bene» come nell' etica filosofi­
ca, bensì si colloca in una prospettiva strettamente collegata con il dominio
di Dio sulla storia. Pertanto la conseguenza etica comporta indubbiamente la
'radicalità' , però la motivazione non è altruistica. - Se si fosse tenuto mag­
giormente conto di questi tratti della teologia lucana, non si sarebbe arrivati
a deformare in modo deleterio l' immagine biblica dell' uomo. Tale deforma­
zione consiste in uno spostamento dell' aspetto della radicalità: secondo
Luca 'radicale' è la capacità di essere nel mondo liberi per la volontà di Dio,
di . essere sempre schiavi di Dio malgrado le mansioni da svolgere nel mon­
do. Nella rappresentazione deformata del fine radicali sono invece solo il
dare via in quanto tale e la sopportazione della mancanza di prospettive ad
esso collegata. Come c'è da aspettarsi, questo nessuno lo può a lungo andare
sopportare, perché non è una cosa plausibile in se stessa. Il dilemma teologi­
co sta poi naturalmente nell' applicazione quasi non più possibile delle affer­
mazioni escatologiche.

47 D. RITSCHL ( 1 986), 1 60.


Sulla prassi dell 'applicazione 1 83

C OERCIZIONI OGGETIIVE

Nell ' odierna discussione teologica una maggiore attenzione viene riser­
vata al fenomeno dell' 'autonomia' di ordinamenti umani di fatto esistenti e
delle coercizioni oggettive che da essi risultano48• - Siamo di fronte a una
'coercizione oggettiva' quando coloro che sono chiamati ad agire non rie­
scono più a vedere, a motivo della situazione e della materia, alcun margi­
ne decisionale per soluzioni alternative. Spesso questa necessità di agire è
sul punto di essere istituzionalizzata (come, per esempio, nel caso della
ossessione dei regali a Natale). Spesso si tratta perciò di binari nel modo di
agire, che non possono più essere semplicemente cancellati, di binari in
gran parte moralmente accettati in modo rigoroso e che sono perciò 'più
sacri ' di leggi. Poiché spesso si adducono a pretesto 'coercizioni oggetti­
ve' , mentre in realtà si preferisce semplicemente ciò che è più comodo,
occorre qui accennare alle possibilità dell ' «applicazione come libertà» .
Non di rado però si instaura anche un circolo vizioso: lo stato non può dan­
neggiare rami dell' economia ecologicamente pregiudizievoli, perché vive
in modo determinante di essi. Oppure: il lobbismo, l' opinione pubblica e
gli strumenti di comunicazione sociale bloccano" misure ragionevoli, ma
impopolari, che possono risolvere i problemi. In questo senso valgono le
seguenti regole:
l . Sfruttare l' anticamera: durante la discussione, prima della fissazione, i
margini di azione sono di regola ancora più grandi.
2. Autorità mediante la competenza: una maggiore conoscenza della
materia significa una maggior libertà di azione.
3. Rispetto diversificato di coazioni oggettive: occorre distinguere tra ciò
che risulta da leggi e ciò che sembra essere predettato solo dalla situazione
finanziaria. In ogni caso l ' importante sta nel non rendersi la decisione facile
mediante asserite coercizioni oggettive.
Regola 1: c'è responsabilità solo là dove si conoscono i dati oggettivi. -
Per questo motivo esistono ruoli diversi nella società. I cristiani non sono
per natura responsabili di tutto. Esiste però una responsabilità sussidiaria, se
vengono toccati gli interessi di tutti. Tuttavia anche la percezione di questa
sussidiarietà presuppone una competenza.
Regola II: le strutture e le istituzioni non sono più rigide degli uomini che
le maneggiano. - Dappertutto si tratta di uomini che amministrano e maneg­
giano qualcosa. Pure i detentori di un ufficio hanno bisogno di riposo (Le

4' Cfr. A. HAKAMIES ( 1 97 1 ).


1 84 terza parte

1 8, 1 -8). E viceversa, nella lotta per conquistare margini di azione di fronte


ad as serite coercizioni oggettive, moltissimo dipende da coloro che vogliono
raggiungere qualcosa, dalla loro credibilità, dalla loro convinzione, dalla
loro esperienza del dolore, dalla loro sincerità e non da ultimo anche dal
loro desiderio di assumersi personalmente delle responsabilità.
Regola III: con la crescente autorità sociale cresce anche la libertà di
spezzare coercizioni oggettive. Questa regola, facilmente fraintendibile, è da
un lato una conseguenza del principio personale (l' autorità poggia sulla
capacità e sul prestigio) ed è dali' altro lato diretta contro l' affermazione
spesso fatta dai detentori dell' autorità, secondo la quale essi sarebbero espo­
sti in modo particolarmente intenso a coercizioni oggettive. Con questo
intendiamo dire che la libertà di spezzare delle coercizioni oggettive dipen­
de in una società dalla capacità di influire e dal prestigio. Da qui risulta la
sicuramente per molti scandalosa
Regola IV: la gerarchia ecclesiastica è necessaria per aumentare la possi­
bilità di infrangere coercizioni oggettive intraecclesiali e soprattutto extraec­
clesiali, e proprio nel senso di polene credibili.

M ODELLO DELLE GAMBE DELLA SEDIA

D. Ritschl49 ha dimostrato in modo convincente che, per prendere delle


decisioni etiche, non bastano argomenti puramente teologici o addirittura
puramente biblici: «In questo modo noi facciamo spesso un buco nell' acqua
o pretendiamo dalla Bibbia e dall' argomentazione teologica una forza pro­
bativa che esse non possono fornire. Dobbiamo distinguere tra fondazioni e
deduzioni bibliche possibili e necessarie: la maggior parte sono 'possibili' e
tollerano una serie di varianti, solo pochissime sono necessarie e unilineari . . .
I o ritengo invece che i l 'modello delle gambe della sedia' sia più indovina­
to, quando si tratta di fondazioni nell' etica teologica: come una sedia poggia
su più gambe, così anche le posizioni etiche possono tollerare fondazioni
multiple e poggiare su più catene probative. La struttura complessa di certi
problemi esige addirittura con molta insistenza simili fondazioni multiple . . .
Che fondazioni unipolari dirette i n base alla Bibbia e alla dottrina cristiana
siano difficili e possibili in modo relativamente raro, è una cosa che vale
soprattutto per le richieste positive» (op. cit. , col. 1). Anche altrimenti risul-

•• D. RtTSCHL, Urteile, in Unispiegel Heidelberg l ( 1 998) 7.


Sulla prassi dell 'applicazione 1 85

terebbe che le regole etiche sono più facilmente formulabili in modo negati­
vo che non in modo positivo-prescrittivo. Le conseguenze derivanti da que­
sta concezione sono le seguenti:
l . Nella ricerca delle norme, quanto più complessi sono i contesti, tanto
meno la Scrittura e la sua applicazione possono da sole fornire argomenti.
Più spesso si tratterà di combinazioni di fondazioni.
2. La sola distinzione astratta tra bene e male e tra giusto e sbagliato è
spesso insoddisfacente. Questo significa: si tratta di casistica e quindi di un
modello che, come si può dimostrare, è più vicino al pensiero biblico che
non la suddivisione in bene e male.
3. «< criteri etici negativi (argomenti di rifiuto, criteri di contraddizione)
sono spesso fondabili in modo più chiaro che non le richieste. I cataloghi
etici negativi non dovrebbero essere respinti dai teologi come 'legalistici' »
(D. RITSCHL, op. cit. , col. 3).
La trattazione così conclusa dei criteri dell' applicazione e della conèreta
ricerca di norme rimanda chiaramente, sotto il profilo contenutistico, al di là
di una ermeneutica immanente al testo e/o alla coscienza. Ciò vale in mag­
gior misura quando ora ci occupiamo degli artefici concreti dell' applicazio­
ne della Scrittura.

5. Gli artefici dell 'applicazione

I L PRINCIPIO GNOSEOLOGICO

La comprensione e l' applicazione non vanno descritti come atti cognìtivi


che sarebbero isolabili dalla realtà circostante. Piuttosto bisogna domandar­
si, a motivo della validità universale del principio del contesto, chi com­
prenda e applichi e a quale scopo ciò avvenga. L' importanza del contesto
sociale e etico costituisce perciò un tema dell' ermeneutica. Rispetto
ali ' impostazione idealistica, la questione del soggetto dell' applicazione vie­
ne così posta ancora una volta in modo nuovo. Nelle pagine che seguono
effettueremo una riflessione socio-epistemologica sulle condizioni in cui
avviene l' innovazione nel campo dell ' applicazione della Scrittura. In questo
modo descriveremo quel che io chiamo il tentativo di spezzare il circolo
ermeneutico dal lato dell' esperienza del soggetto, quindi in certo qual modo
«dal di dentro».
1 86 terza pane

In questa questione qualificata, concernente il soggetto dell' applicazione,


punto centrale della riflessione ermeneutica non sono soltanto l' individuo
conoscente e la sua autointelligenza, bensì consideriamo tale riflessione
piuttosto come un processo sociale. Formulato in relazione alla chiesa que­
sto significa: l' applicazione è sempre un processo dalla dimensione eccle­
siologica. Di essa fanno perciò parte entità come il dialogo, la discussione,
le associazioni, i sinodi e i concili, così come la questione di obbligatorietà
ecclesiali specifiche per determinati gruppi. Già nel Nuovo Testamento
questo risulta del tutto chiaro, allorché la comunità viene sempre esortata
nel suo complesso a verificare e cercare quale sia la volontà di Dio (gr.
dokimdzein, così in Rom 1 2,2; Ef 5 , 1 0; Fil 1 , 1 9)5°. Queste sollecitazioni
hanno un' importanza fondamentale, perché ricorrono spesso nella cornice
di esortazioni rivolte a convertitP1 • Perciò possiamo dire che esse occupano
il posto dell ' obbligo usuale di osservare la legge nel caso della conversione
al giudaismo. Nel caso di queste sollecitazioni si tratta perciò di primi
esempi dello sconcerto cristiano di fronte al fatto di non poter adottare nor­
me, ma di doverle sviluppare autonomamente e, precisamente, in modo
collettivo.
La via principale per trovare collettivamente le norme è senza dubbio la
discussione52, anche se non è di sicuro sempre possibile trovarle mediante
votazioni a maggioranza. Qui per discussione intendiamo lo scambio di
argomenti, e discutere bisogna anziché richiamarsi a un immaginario senso
collettivo della giustizia. La ricerca collettiva delle norme non è una faccen­
da estremamente precaria solo nella chiesa, bensì pure in tutti gli altri gruppi
(famiglia, stato), perché qui di fatto (dal tempo del giudaismo ellenistico
con il principio degli 'anziani' ) la soluzione è stata cercata non di rado per
via aristocratica e non mediante una votazione a maggioranza tra la massa.
Ciò corrisponde a un fenomeno sempre ricorrente nella società umana, cioè
al fatto che esistono e devono chiaramente esistere delle autorità (dottrinali).
Proprio anche le democrazie mostrano che la formazione critica della
volontà è sorretta da minoranze. Le norme non sono infatti spesso concilia­
bili con gli interessi oscillanti e di breve durata di semplici maggioranze. E
nel caso di una ricerca a maggioranza delle norme non avrebbero alcuna

"' Cfr. al riguardo K. WENGST ( 1 970).


51 Cfr. al riguardo K. BERGER, Formgeschichte des Neuen Testaments, Heidelberg 1 984, 40.
" Cfr. al riguardo, per esempio, M. FR.ANK ( 1 988), coiJ. 4 e 6, che sostiene la necessità deiJa for-
mazione del consenso con questa tesi: occorre «elevare l'intersoggettività neiia vita e nel mondo
ad ultima istanza, quando si tratta di dichiarare che qualcosa è valido e vincolante, ed elevare quin­
di ad ultima istanza il valore stesso de Ila socialità>>.
Sulla prassi dell 'applicazione 1 87

possibilità in particolare gli elementi critici del messaggio biblico. Già


quando abbiamo parlato della necessità di compromessi, abbiamo accennato
ai gruppi che richiamano simbolicamente alla memoria la validità perma­
nente delle norme supreme e radicali. Questa costellazione vale in ogni caso
per una situazione di chiesa di popolo.

PERCEZIONE DEL DOLORE

Seguiamo alcune proposizioni di F. Steffenskys3: «Esiste solo un gruppo


di persone che può pretendere la particolare protezione da parte di Dio, la
sua particolare verità, la sua particolare approvazione. Sono le vittime. La
verità è presso le vittime ... Dio elegge ciò che è minacciato ... Il criterio della
verità sono le vittime. Nessun grande inquisitore possiede la verità, nessun
papa l' amministra, nessun concilio la definisce eccezion fatta per il concilio
delle vittime o per il concilio che parla a nome delle vittime, perché esse
non hanno più voce».
La verità è dunque presso le vittime, perché soltanto le vittime - quelle
vere e anche solo quelle possibili - possono scoprire senza mezzi termini
quale via non conduce alla vita. Il «concilio delle vittime», che parla per
coloro che non hanno più voce, è una metafora indicante i gruppi di uomini
che almeno in parte corrispondono a quelle che qui di seguito descriveremo
come le 'minoranze critiche' .
Per 'vittime' io non intendo qui tutti coloro a cui qualcosa non va bene,
tutti coloro che vorrebbero semplicemente avere di più (tempo libero, dena­
ro, prestigio)54, tutti coloro che desiderano semplicemente qualcosa di diver­
so. Per vittime intendo tutti coloro che sono sproporzionatamente troppo
svantaggiati nella vita, che sono costretti a vivere tra gli affanni o sono tor­
mentati, che pagano unilateralmente quanto altri godono. Importanti sono
perciò le categorie della proporzione e della corrispondenza tra lavoro/fatica

" F. STEFFENSKY ( 1 9 8 1 ), 1 1 1 .
" Cfr. al riguardo S. LENZ, Gescprache mit Manès Sperber und Leszek Kolakowski, Hamburg
1 980; i vi L. Kolakowski: <<Siamo costretti ad accettare e riconoscere limitazioni, che lo vogliamo o
no, anche se questo ci getta nella disperazione o ci fa soffrire, cosa che è naturalmente possibile
per molti. Il guaio è' solo che nessun uomo politico ha il coraggio di dirlo, né nei paesi democratici
né in quelli dispotici. Nessuno ha il coraggio di dire ai propri elettori: 'Avete abbastanza. Dovete
contentarvi di quel che avete. O, se necessario, anche di meno. E non morirete per questo ! ' . Nes­
sun uomo politico può dire una cosa del genere. Tutti devono promettere di più o, diciamo meglio,
mentire - 'lo vi darò sempre di più, voi guadagnerete sempre di più ' >> ( 1 17).
1 88 terza parte

e retribuzione. - Pure qui i rapporti sono nella realtà più complicati di quan­
to appaia secondo il nostro modo idealtipico di rappresentarci le cose: le vit­
time non sono infatti stabilite in partenza, vittime si è solo e sempre sotto
questo o quell' aspetto, solo e sempre in seguito a una capacità di azione tra­
dotta in atto (a una grave minaccia, a un annientamento fisico: martiri). Inol­
tre di regola sempre più scompaiono i confini tra carnefici e vittime. In ogni
caso nelle nazioni industriali occidentali gli uomini sono nello stesso tempo
oppressori e oppressi. Dobbiamo riflettere sui nessi intercorrenti tra il ruolo
di vittime e quello di carnefici (trasmissione di quanto si è ricevuto). Se con­
tinuo a usare il termine 'vittime' , lo faccio ancora una volta perché esso
descrive aspetti della realtà umana (sofferenza, mancanza di voce ecc.),
anche se di rado pu ò essere totalmente identificato con persone.
Il problema sta sicuramente abbastanza spesso nel fatto che le vittime non
riescono a stabilire per che cosa e come esse soffrono. E la domanda è: pos­
sono esse, qualora lo percepiscano, articolare il loro dolore provocato dalla
massiccia pressione sociale, la quale conduce a far sì che i sofferenti, che
non possono addurre come causa della loro sofferenza alcun colpo del desti­
no, siano esclusi come dei falliti? - Qui dobbiamo ricordare quanto abbiamo
sopra detto a proposito della questione della possibilità di diventare sogget­
to. E per quanto riguarda l' importanza delle vittime palesi per il ritrovamen­
to della verità dobbiamo dire:
Gli elementi negativi, gli errori e le omissioni sono di regola riconosciuti
in modo più preciso di tutto il resto; la critica troverà sempre più facilmente
consenso che non le posizioni. Il diritto disprezzato, . la dignità ferita e le
relazioni violate sono più facilmente individuabili e descrivibili in un modo
capace di riscuotee il consenso che non controversi beni positivi. - Occorre
sfruttare in favore della questione della verità questa evidenza ovunque
imponentesi della mancanza. I limiti e il bisogno di rinnovamento di qual­
siasi iniziativa, di qualsiasi sistema e di qualsiasi potere vengono infatti
riconosciuti in base al fatto che essi producono indubbiamente delle vittime
innocenti . La sofferenza ha di regola più diritto del potere, perché la soffe­
renza innocente indica già con la sua semplice esistenza i limiti della legitti­
mità del potere.
L' altra faccia di questa conoscenza è che ogni possesso del potere mani­
festa in quanto tale una tendenza a creare sempre più ingiustizia. Innegabi­
le è l' esperienza che il possesso del potere corrompe, e precisamente già
per il fatto che il detentore del potere, ben sapendo che si tratta di un pos­
sesso passeggero, si impegna sempre di più per conservarlo. Si sviluppa un
dinamismo automatico in direzione della conservazione del potere, dina­
mismo a cui non è pressoché possibile sottrarsi, dinamismo che rende cie-
Sulla prassi dell 'applicazione 1 89

chi e che conduce a favorire sempre più solo gli amici e a svantaggiare i
dissidenti55•

6. Confronto

VIE DEL CONFRONTO

Questo paragrafo è frutto della trasposizione di un' operazione esegetica


fondamentale ali ' ermeneutica in generale. Di conseguenza possiamo in
linea di massima riassumere l ' esegesi storica, nonché quella più recente
metodicamente collaudata, sotto l ' aspetto del confronto di testi (accosta­
mento di testi; individuazione di somiglianze e dissomiglianze; acquisizione
di punti di confronto su un piano più alto e più astratto; chiarificazione delle
relazioni storiche tra i testi comparabili). L'esegeta si concepisce così nella
propria professione essenzialmente come un costruttore di ponti tra testi che
gli si presentano come disparati56•
In modo fondamentalmente simile va giudicato anche il proce sso
dell ' applicazione, perché pure in esso si tratta di gettare dei ponti.
Qui di seguito parleremo di tre vie, su cui il confronto come processo
ermeneutico fondamentale può diventare importante per l' applicazione:
l. Ci interroghiamo sul punto di convergenza con il contesto (modello è
l ' interpretazione delle parabole).
2. Paragoniamo tra di loro gli effetti che i testi (il testo biblico di partenza
e il successivo testo applicativo) sempre producono nel loro contesto (critica
funzionale dell' effetto; aspetto dell' effetto).
3. Mettiamo a confronto tra di loro i vari modi di comportarsi con il patri­
monio della tradizione sempre preesistente, e precisamente i modi adottati

" Come invito a riflettere citiamo, senza ulteriori commenti, R. OBERLERCHER, Erst revoltiert,
dann promoviert, in Rheinischer Merkur l Christ und Welt, nr. 1 6, 1 4.4. 1 988: «l crimini, che
l'inconsapevole conformismo copre, non avvengono mai nel passato, bensì sempre nel presente.
La dialettica della nostra vittoria (cioè della generazione dei sessantottini, K. B.) si è spinta sino al
punto che il fascismo e l' antisemitismo sono oggi effettivamente le uniche posizioni la cui assun­
zione in Germania richiederebbe coraggio morale e ardire intellettuale. Di questo ardire aveva
negli anni ' 60 bisogno colui che applicava accademicamente la teoria marxista, e non ne ha oggi
bisogno colui che la ignora come un tema non moderno>>.
•• Cfr. sulla teoria della storia comparata delle religioni K. BERGER - C. COLPE ( 1 987), 1 1 ss.
1 90 terza parte

dall' autore neotestamentario e quelli adottati nella successiva applicazione


(aspetto della derivazione).
Procediamo secondo quest' ordine.

PUNTO DI CONFRONTO TRA SITUAZIONE E TESTO

A mio giudizio possiamo utilizzare alcune cognizioni fondamentali della


moderna interpretazione delle parabole per comprendere che cosa è l' appli­
cazione di un testo biblico. Le parabole bibliche hanno infatti sempre un
punto principale di raccordo con il loro contesto. Cioè: il lettore 'le puntua­
lizza' ; esse non comunicano una verità proposizionale. Questo punto segna­
la l' influsso esercitato dalla parabola sul contesto letterario e storico (letto­
re). Il materiale figurato della parabola è qui relativamente estraneo al con­
testo, e precisamente questa relativa estraneità rende la parabola interessante
e le permette di ottenere il suo effetto. Perciò le parabole sono senz' altro in
linea generale paragonabili a 'immagini ' , che in un dato contesto rappresen­
tano settori desunti da una realtà estranea. Il fascino dell' immagine sta qui
sicuramente anche nel doppio estraniamento. Chiara è perciò per noi una
cosa: le parabole agiscono come immagini relativamente estranee nel loro
contesto.
Nella interpretazione delle parabole stanno l' uno di fronte all' altro, da un
lato, il piano di partenza (piano del contesto) e il piano dell' immagine: nes­
suno dubita dell' autonomia dei due settori. Solo a motivo dell'estraneità del
materiale della parabola è possibile il suo effetto specifico. I due mondi,
quello della parabola e quello del rispettivo piano di partenza (piano del
contesto), sono in sé relativamente chiusi, cioè di per sé sussistenti. Ma
dall' altro lato esiste anche una serie di collegamenti trasversali, che soli per­
mettono parimenti alla parabola di divenire efficace. La somma di queste
relazioni (filologicamente e storicamente dimostrabili) tra piano di partenza
(piano del contesto) e piano dell' immagine la possiamo chiamare la più o
meno forte 'connessione semantica' dei due pianP7• Questo fenomeno pog­
gia soprattutto sull ' uso di metafore più o meno già abituali, derivanti dal
piano di partenza (piano del contesto), anche nella stessa parabola. Mentre
io mi attengo al principio dell' unico punto principale (per quanto non pro­
posizionalmente formulabile), la questione della connessione semantica

57 Cfr. K. BERGER, Formgeschichte des Neuen Testaments, Heidelberg 1 984, 4 1 -45 .373-376.
Sulla prassi dell 'applicazione 191

concretizza la ricerca del tertium comparationis. Fin qui l ' interpretazione


delle parabole.
Quanto così vale delle parabole nel loro contesto può essere trasposto
anche al ruolo di testi biblici nella situazione della loro applicazione: il testo
biblico è, come testimonianza dell' antichità, oggi estraneo e viene citato
frammentariamente, così come anche un' immagine è appunto un frammen­
to. L' importante è ora trovare il punto principale, che esso può avere in rela­
zione ad una data situazione.
Nel caso dell' applicazione di questo modello al rapporto tra testo biblico
e situazione presente potremmo dire: in ambedue i casi assistiamo al fatto
che all' interno di un contesto, che ha una funzione di cornice e di ambiente,
sta un testo particolarmente significativo, che è estraneo rispetto ad esso:

campo che l parabola canone testo biblico


fornisce antico
contesto lett. della Bibbia situazione successiva
le metafore

Il testo estraneo incorniciato è nel Nuovo Testamento la parabola e, nella


situazione successiva dell' applicazione, il testo biblico. La cornice è nel
Nuovo Testamento il contesto letterario e poi anche quello non letterario,
nella situazione successiva dell' applicazione la situazione con tutti i suoi
fattori.
L' estraneità nasce nella parabola dal fatto che il campo che fornisce le
metafore è di regola un campo estraneo, non religioso. L' estraneità nella
situazione dell' applicazione deriva invece dal carattere antico del testo
biblico. In ogni caso si instaura una tensione, che è percepita dal lettore e
che costituisce il 'fascino' particolare di questa inclusio. Tale tensione va
infatti 'compitata a fondo' dallo stesso lettore; essa, già per il semplice fatto
di esistere, lo induce in modo particolare ad interpretare, perché egli deve
venirne a capo e risolverla nel 'suo' testo. In altre parole : nel caso della rice­
zione attiva nasce dalla parte del lettore il 'suo' modo di leggere, il suo testo
frutto della ricezione, che egli ora lo dica, lo scriva o lo conservi semplice­
mente nella memoria. In ogni caso la sua ricezione deve superare la tensione
tra il testo estraneo e il proprio contesto.
Questo superamento non avviene però in modo del tutto diretto. Infatti
quando leggiamo un testo estraneo, si instaura qualcosa che funziona da
testa di ponte verso il contesto estraneo circostante. Questa testa di ponte noi
la chiamiamo punto principale. Esso sarà diverso a seconda della tensione
esistente tra testo incorniciante e testo incorniciato, tuttavia risiede nel testo
1 92 terza parte

incorniciato. Di certo esso va distinto dall"intenzione letteraria' di questo


testo. L' intenzione letteraria riguarda infatti il testo incorniciato soltanto
come unità testuale, mentre il punto principale organizza il testo incorniciato
in ordine a ciò che esso 'ha da dire' al contesto. Una cosa è infatti certa:
l'inserzione della parabola ha il senso che da questo testo deve promanare
un determinato effetto per il lettore del contesto via via esistente. E questo
rapporto non è reversibile: il testo estraneo deve avere un effetto sul conte­
sto incorniciante e non viceversa. Il lettore deve specialmente attualizzare
tale effetto. Il punto di aggancio nel testo per questo effetto noi lo chiamia­
mo proprio punto principale. Il punto principale è il compendio dell' 'effica­
cia' del testo incorniciato su quello incorniciante. Perciò possiamo dire: il
testo estraneo inserito ha un punto principale, non il testo incorniciante. Da
quanto abbiamo detto risulta chiaro che il punto principale sarà diverso a
seconda del contesto (il lettore, che fa parte del contesto, glielo ascrive), nel­
lo stesso tempo però esso aderirà in qualche modo anche al testo incornicia­
to, 'sarà' in esso (anche se forse spesso adottato nel momento dell' applica­
zione in modo sbagliato). Il testo incorniciante ha un' intenzione, un punto
focale espressivo, ma nessun punto principale. Un punto principale vuole
infatti influenzare attivamente il testo incorniciante, mentre l' intenzione/il
punto focale espressivo non vuole influire sul testo incorniciato.
La capacità di influire di un punto principale è frutto di esperienze parti­
colari. Nel caso della parabola si tratta delle esperienze non oggettivate
(appunto perché si tratta di una parabola), che stanno dietro alle singole
metafore58 e poi ancora una volta dietro alla storia con esse formulata. Si
tratta dell ' esperienza religiosa non aggettivale . Per chiarirla si ricorre
all ' esperienza non religiosa. Il contrasto con il contesto nasce proprio a
motivo di questa qualità poetica delle parabole. Nel caso dell' applicazione
del testo biblico si tratta della diversità della sua esperienza religiosa in
generale. Nel caso dell' applicazione di testi parabolici si addizionano ambe­
due i contrasti.
Neppure lo schema rappresentato nello specchietto (vedi sopra) riproduce
tutto. Quanto abbiamo così espresso si ripropone infatti almeno su altri due
piani: l'interpretazione (applicazione) nella predica si presenta a sua volta
come corpo estraneo, come immagine estranea nel mondo del lavoro degli
uomini, nell'usuale decorso del tempo lungo la settimana. E pure qui occor­
re scoprire dei ponti tra il testo della predica e il mondo del lavoro delle

" Sul rapporto tra metafora e esperienza, cfr. K. B ERGER, Formgeschichte des Neuen
Testaments, 1 984, 32-36; sul carattere non oggettivate dell'esperienza formulata in metafore, cfr.
lo. ( 1 986), 1 74- 176.
Sulla prassi de/l 'applicazione 1 93

ascoltatrici e degli ascoltatori. E la stessa cosa si ripete con il culto liturgico


nella cornice della biografia dell' uditore. Pure esso appare come un corpo
estraneo con segni 'estranei' , che devono influire e che devono trovare il
loro punto principale.
In ogni caso l' esperienza religiosa presente nel testo incorniciato (metafo­
rico-parabolica o l'esperienza del cristianesimo primitivo e antico) entra in
contrasto con l'esperienza religiosa di altro tipo presente nella cornice. La
verità viva nasce dal fatto che il lettore collega le due esperienze. Nella
interpretazione allegorica delle parabole un simile collegamento è guidato
da indicazioni particolari concernenti l' applicazione di testi biblici. In specie
risultano questi aspetti:
l . La situazione antica non viene mescolata con quella presente; si tratta
di due piani autonomi.
2. Solo l'estraneità e le relazioni affini contemporaneamente sussistenti
rendono possibile l' influsso specifico del testo sulla situazione.
3. Al posto della connessione sernantica nel caso dell' interpretazione del­
le parabole subentra il collegamento storicamente efficace dei due campi.
Tale collegamento è frutto sia di tradizioni comuni, sia anche in particolare
dell' influsso già esistente della Bibbia sul cristianesimo nelle varie epoche,
compresa l'epoca attuale. Questo collegamento continua a rendere 'leggibi­
le' il testo biblico.
4. La situazione via via presente è confrontabile con il testo biblico, per­
ché possiamo far riferimento a determinate esperienze (religiose) articolate;
che tali esperienze vadano in linea di principio studiate sotto il profilo della
storia delle religioni (e socio-storico) esattamente come il testo biblico, è
cosa che abbiamo già esposto sopra.
5 . I due ' testi ' non sono sotto un certo aspetto definitivi nel caso
dell' applicazione, perché solo al lettore risulta quale sia il punto principale
del testo incorniciato e dove stia il punto focale della situazione in relazione a
questo testo: mentre l' esegesi storico-critica cerca di stabilire retrospettiva­
mente con chiarezza il punto principale di un testo parabolico (compresa
l' intenzione del testo)59 tenendo conto dei contesti circostanti, quel che
nell' applicazione può essere il punto principale del testo estraneo inserito
deve ancor� essere appurato. Ciò è naturale, perché il punto principale di una
parabola risulta appunto solo quando la si pone in relazione con il contesto60•

" Cfr. al riguardo W. RICHTER, Exegese als Literaturwissenschaft, Gi:ittingen 1 97 1 , 1 14; K. BER­
GER, Exegese des Neuen Testaments (UTB 658), Heidelberg 1 9842, I l s.
"' Cfr. al riguardo K. BERGER, Formgeschichte des Neuen Testaments, Heidelberg 1 984, 42: <<La
parabola è un testo relativo al suo contesto e non un testo a sé stante». - Opposta è la concezione
1 94 terza parte

Con le diverse situazioni dell' applicazione, in cui un testo viene posto, cam­
bia perciò il contesto di questa 'parabola' e quindi anche ciò che essa per
tale contesto significa. - Dall' altro lato neppure la situazione è un testo defi­
nitivo, perché di fronte ai numerosi aspetti che una situazione racchiude in
sé non è stabilito in partenza dove stia il suo punto focale espressivo nei
confronti del testo biblico. Si stabilisce così un circolo, una reciproca chiari­
ficazione del punto principale del testo biblico e del punto focale della situa­
zione al cospetto di questo testo. Solo di fronte al testo biblico da interpreta­
re la situazione acquisisce quel punto focale che si adatta a questo testo.
Così alla fine si stabilisce oggi un collegamento tra il punto principale del
testo biblico e il punto focale della situazione in cui esso parla e su cui deve
influire.
6. La differenza rispetto ad alcune tecniche dell' interpretazione allegorica
sta nel fatto che non vanno appunto applicati tutti i punti di collegamento.
Questo costituisce la libertà dell' interprete. Il problema del punto principale
deve soprattutto servire a impedire un' applicazione del testo biblico parola
per parola. Esso traspone perciò l' istanza avanzata da Jiilicher nello studio
delle parabole all' applicazione di testi in generale. Quella che Jiilicher com­
batté come interpretazione allegorica sta anche qui nel mirino, però in un
senso più generale e radicale.
Mentre l ' esegeta può individuare il punto principale di una parabola
biblica in relazione al contesto di quel tempo (o può motivare o contestare
con argomenti filologici e storici questa o quella ipotesi circa il punto prin­
cipale), quale possa essere il punto principale di un testo biblico in una
situazione odierna è cosa che non risulta naturalmente chiara in partenza,
ma che va individuata dall' interprete. Io mi rappresento questo processo
così: l' interprete si domanda sotto quale aspetto un testo biblico potrebbe
essere efficace nel nuovo contesto in cui esso viene posto, come in partico­
lare lo possa correggere e contribuire al suo fruttuoso cambiamento. Detto
in termini figurati: il testo e la situazione vanno 'scrollati' fin quando dai
due non cadono elementi che stanno in parallelo fra di loro e che possono
servire da reciproche teste di ponte.
Questo processo non esige solo conoscenze in ambedue i campi, nel cam­
po del testo come in quello della situazione; oltre alle conoscenze ci vuole
(come in generale quando si tratta di esprimere un giudizio retorico su para­
bole) una sensibilità per l'effetto potenziale. In altre parole: quale elemento

secondo la quale le parabole di Gesù sarebbero state originariamente non correlate al loro contesto
e 'autonome' ; cfr. W. HARNISCH, Die Gleichniserziihlungen Jesu (UTB 1 343), Gottingen 1985.
Sulla prassi dell 'applicazione 1 95

del testo biblico può qui diventare il punto principale in modo tale da rag­
giungere ora gli uomini e parlare loro?
Dalla tensione tra l' immagine e il contesto nasce, provocato dal punto prin­
cipale, un nuovo testo, il 'testo applicativo' . Nel caso delle parabole neotesta­
mentarie, per esempio, le interpretazioni allegoriche sono tentativi di colloca­
re i testi applicativi direttamente accanto ai testi metaforici che li hanno susci­
tati. - Un testo applicativo nasce anche dalla tensione tra il testo biblico e la
situazione e ha spesso la forma di una predica o di una meditazione.
Ma questo testo applicativo così inteso, qualora colui che l'ha prodotto
non sia nello stesso tempo anche il suo 'consumatore finale ' , è a sua volta di
nuovo un testo parabolico. Questo succede, ad esempio, quando l' ascoltato­
re di una predica inserisce ora il testo ascoltato nel mondo della sua vita
quotidiana. Pure in questo caso il testo ascoltato, per esempio, in una chiesa
agisce come un corpo estraneo nel mondo del lavoro quotidiano. E adesso si
tratta di nuovo di trovare in questo testo un punto principale che gli permet­
ta di riferirsi alla situazione in cui l' ascoltatore si trova. Sorge così di nuovo
un secondo testo applicativo, spesso sotto forma di modo di fare non espres­
samente formulato in parole.
La differenza tra l' immagine e la legge sta qui : l ' immagine lascia la
libertà di percepire in modo individuale e quindi anche di interpretare in
modo creativo. Perciò già negli stessi testi biblici di particolare importanza
sono le metafore, perché esse possono essere riprese e portate avanti in
metafore affini (riferimento a catene o reti di metafore). Molto importanti
sono le tipologie proposte o suggerite dalla stessa Scrittura, in particolare
quelle tra Antico e Nuovo Testamento ; una tipologia lascia infatti alla
rispettiva figura e al rispettivo testo il suo proprio diritto storico, · ma inco­
raggia nello stesso tempo a stabilire dei paragoni, lascia cioè sussistere il
simile e il dissimile nella cornice di una storia. Infine una particolare impor­
tanza per la sfera emotiva degli ascoltatori hanno gli elementi mitici della
B ibbia, perché essi sono delle interpretazioni fondamentali della vita.
D ' importanza decisiva sono perciò nella ricezione e nell ' applicazione di
miti il riconoscimento e la trasformazione.
Per la prassi della meditazione, che si colloca tra esegesi e testo applicati­
vo, particolarmente importanti sono per me i punti seguenti: a) scoperta del­
le teste di ponte tra il testo e la mia situazione, di cui fanno parte in modo
particolare anche i miei timori e le mie speranze; b) estraniamento della mia
situazione di fronte al testo (qui anche modo nuovo di sperimentare espe­
rienze quanto mai qu otidiane ; inserimento delle esperienze di 'vita' ) ; c)
rafforzamento della forma figurata del testo biblico, anche riprendendo le
numerose metafore dei Padri della chiesa; d) 'messinscena' liturgica del
196 terza parte

messaggio; e) in corrispondenza con l' importanza antropologica della sfera


emotiva un particolare peso rivestono i testi poetici (dal Cantico dei cantici
agli inni sacri).
In ogni caso eminentemente importante è la forma sperimentabile della
testimonianza, perché «la chiesa della parola vive nel mondo delle immagi­
ni» (H. Kasner, parlamentare regionale) . Tuttavia il campo trascurato
dell' esperienza religiosa si spinge molto al di là della funzione ermeneutica­
mente centrale delle immagini e dei simboli. Non per nulla si comincia pro­
prio adesso a riscoprire la dimensione genuinamente religiosa, ad esempio,
della categoria dell' interruzione (silenzio, digiuno). E tutto questo è impor­
tante per la messinscena dell ' applicazione, perché essa si svolge soprattutto
'attraverso il cuore' .

'
CONFRONTO DI CAMPI DEI TESTI (ASPETIO DELL EFFICACIA )

Qui dobbiamo partire dalla cognizione riacquisita negli ultimi decenni,


secondo la quale un testo è pienamente 'reale' solo nel suo contesto storico.
Perciò neppure nell ' esegesi bisogna partire solo da testi isolati, bensì da
qualcosa che io vorrei chiamare «campo del testo» . Con tale espressione
intendo l' unità del testo e della situazione storica. Tale unità è una unità
carica di tensione, perché si tratta di presupposti della situazione per il testo
e di effetti del testo sulla situazione. Se studiamo questo fatto, per il compito
dell' applicazione ne risulta anzitutto - per dirla in modo indifferenziato - la
seguente costellazione: stanno uno di fronte ali' altro
il campo testuale 1: il testo neotestamentario nella situazione antica, e
il campo testuale II: il testo neotestamentario applicato (in breve: applica­
tivo) nella situazione odierna.
Ogni situazione implica un autore e un lettore, e interessante è qui l' effet­
to che, attraverso l' azione dell' autore e il tipo della situazione, viene ottenu­
to nel lettore. A essere precisi non si tratta perciò del 'testo' e della 'situa­
zione' , bensì dell ' atto del lettore nella cornice del suo essere (più o meno
legato a un gruppo specifico) nel mondo. Importante è perciò che i campi
dei testi siano rappresentati come relazioni (efficaci) . L' aspetto dell' efficacia
riguarda il carattere di modello del testo biblico o del testo applicativo per la
situazione dei lettori. A confronto viene messa la relazione testo/situazione
di allora con la relazione testo/situazione di oggi (rispettivamente in ogni
successiva situazione di applicazione) . Si tratta quindi di una analogia tra
Sulla prassi dell 'applicazione 1 97

relazioni («analogia di proporzionalità» ). Qui non viene chiarita la nascita


del testo applicativo, bensì la sua finalità; l' intenzione di influire da parte
dell' interprete andrebbe continuamente fatta oggetto di riflessione prima e
durante la nascita del testo applicativo e andrebbe messa in rapporto con il
testo di partenza, se ci si vuole appunto riferire ad esso.
La libertà, da descrivere più avanti, ·sotto l' aspetto della derivazione non
ha infatti il proprio fine in se stessa, bensì in un orientamento funzionale e
efficace di tutto il processo. Quando perciò, nella cornice di un processo
applicativo, si mettono a confronto il campo testuale I e il campo testuale II,
bisogna imparare, per quanto riguarda l' ethos, dal campo testuale I la libertà
rispetto alla relazione di derivazione, e l ' orientamento a un punto principale
rispetto alla relazione dell ' efficacia. Poiché in ambedue i testi 'compare' il
medesimo testo, è particolarmente raccomandabile confrontarli fra di loro
per quanto attiene il loro punto principale61 •
Nel caso d i u n ' applicazione pratica - a d esempio della funzione
dell' Apocalisse di Giovanni - ciò significherebbe:
campo testuale 1: l' Apocalisse di Giovanni consola comunità di martiri ;
campo testuale Il: oggi, in un testo applicativo, l' Apocalisse di Giovanni
potrebbe funzionare come relativizzazione di potenze politiche.
Tertium comparationis: il Dio cristiano mette in discussione, con la sua riven­
dicazione storicamente efficace, la sovranità di ogni potere umano sulla terra.
Pure con l' esempio di un singolo testo è possibile mostrare che è cosa
ragionevole concepire l ' applicazione secondo questo modello:
campo testuale 1: Rom 14s. tutela i deboli nella comunità romana;
campo testuale Il: oggi è possibile trasporre questo testo in senso applica­
tivo per tutelare la 'religiosità' minacciata di laici che stanno ai margini.
Tertium comparationis: tutela della fede di coloro che, a motivo del com­
portamento di altri, corrono il pericolo di perdere la propria fede.
L' orientamento a un tertium comparationis serve - come si può vedere
nei due esempi - alla concretezza nel campo testuale Il. La sua affermazione

61 L' individuazione del punto principale ha soprattutto il compito di rendere possibile al testo di
funzionare nel modo giusto (suggerimento di C. Nord). Se interpreti diversi trovano, nella cornice
di questa libertà, diversi punti principali, diventa necessario un dialogo critico. Questa esigenza sta
in un permanente rapporto dialettico con la libertà dell' applicazione, e qui sta anche un' importante
differenza rispetto al modello del Nuovo Testamento. Gli autori neotestamentari non fanno
dell'esegesi storico-critica, e questo non è certo una cosa che si possa loro rimproverare. Proposta
di soluzione: oggi dovremmo distinguere un' esegesi che guarda al testo dalla lealtà personale (ver­
so autori cristiani antichi). Le due cose non si escludono a vicenda, ma si completano.
198 terza parte

non è infatti semplicemente il tertium comparationis. Si tratta di due funzio­


ni concrete, che possono essere tra loro paragonate. Non si tratta invece di
individuare, in base a un dato testo biblico, una verità metatemporale.

SPIEGAZIONE ESEMPLARE DA PARTE DELLA STESSA SCRITTURA


(ASPETTO DELLA PROVENIENZA)

Per quanto riguarda ·la relazione di derivazione, si tratta di questo : il


modo in cui un autore biblico si comporta con i suoi documenti può essere
paragonato al modo in cui anche oggi potremmo comportarci con il testo
biblico? La conoscenza della nascita di un testo è quindi importante per il
modo della sua applicazione? - L' importanza di questa problematica sta nel
fatto che non si parte semplicemente dal testo biblico come da un prodotto
bell'e pronto, bensì nel fatto che esso viene considerato sotto l' aspetto della
sua origine, dei suoi condizionamenti e dei documenti che l' hanno precedu­
to. Sotto questo aspetto risultano, ad esempio, le seguenti costellazioni:

LXX e tradizione tradizione ecclesiale oggi


cristiana primitiva, prepaolina Scrittura e professione di fede

testo paolino come testo applicativo come elaborazione


utilizzazione di questi documenti di questi documenti precedenti

Le due costellazioni sono parti del rispettivo campo testuale (vedi


sopra) . In ambedue i casi si tratta del rapporto tra risultato e documento
precedente. E la domanda è: può la Scrittura essere sotto questo aspetto un
modello del procedimento applicativo? Non: può la lettera essere applicata,
bensì : il modo ermeneutico di procedere della stessa Scrittura non è ad�tto
a fungere da modello per quel che l' applicazione dovrebbe compiere anche
in seguito? Lo stesso modo della elaborazione della tradizione non è 'esem­
plare ' ?
Chi afferma questa possibilità, s i rende conto che tutti i procedimenti
applicativi sono messi in atto nel Nuovo Testamento con grande libertà. Ciò
riguarda sia il rapporto con la tradizione della comunità cristiana primitiva,
sia il rapporto con l' Antico Testamento. Il fatto che già il primo rabbinato e,
ad esempio, Filone di Alessandria si comportino in modo similmente libero
con la Scrittura mostra che qui non si tratta di uno specifico aspetto del rap-
·

porto giudaismo/cristianesimo.
Sulla prassi dell 'applicazione 1 99

Quel che era indubbiamente noto a proposito della prova scritturistica


vale in modo simile anche per la tradizione della comunità: la regola fonda­
mentale del procedimento applicativo è l' uso della libertà. Si compie nella
Scrittura e nella tradizione una scelta unicamente sotto il punto di vista della
loro utilizzabilità per una determinata situazione, e poi si sottolinea di volta
in volta in modo unilaterale un: determinato aspetto. La selezione e l' accen­
tuazione unilaterale sono perciò i distintivi principali di questa libertà. In
questo modo però i documenti precedenti (Scrittura e tradizione della comu­
nità) rivestono uno specifico carattere di modello nei confronti della situa­
zione. Così in 2 Cor 5, 1 2- l 562 la morte di Gesù diventa solo un 'criterio' per
il comportamento adesso richiesto, una specie di modello e di stimolo. In
modo simile si comporta infatti fondamentalmente anche l' esegesi tipologi­
ca. Così Paolo concepisce indubbiamente anche il proprio ufficio di aposto­
lo (cfr. 2 Cor 4, 1 1 ) come partecipazione esemplare alla realtà primaria fon­
dante del vangelo. Perciò nella figura dell' apostolo stesso, nel suo destino
corporeo diventa concreto, esemplare e nello stesso tempo realmente visibi­
le anche il suo messaggio (2 Cor 1 ,9s. ; 4, 1 1 ). E l' apostolo ha una funzione
di modello per la comunità (non solo nelle proposizioni concernenti l' imita­
zione).

M EDIAZIONE LITURGICA

Il culto cristiano è il genuino 'Sitz im Leben' della Scrittura. La realtà del­


la chiesa consiste infatti, già secondo Paolo, nella riunione di coloro che si
radunano «nel nome del Signore».
Nel gioco dei ruoli liturgici la salvezza è rappresentata in modo sensibil­
mente tangibile, cioè come dimora di Dio tra gli uomini e con gli uomini ; di

62 Paolo cita in 2 Cor 5, l4b- l 5 la tradizione cristiana primitiva della morte vicaria di Gesù Cri­

sto. Egli lo fa però senza alcuna intenzione di dire qualcosa sulla eliminazione del peccato; nel
patrimonio delle idee tradizionali viene qui unicamente scelto un determinato punto di vista: uno
esistette per tutti, e sotto questa regola stanno pure tutti coloro che a questo uno appartengono.
Fine perseguito nel contesto: l' apostolo non ha interessi personali, ma esiste completamente per
altri. Non può perciò gloriarsi come fanno gli uomini. Questo significa: l' apostolo utilizza qui la
tradizione della rappresentanza per distinguere apologeticamente il proprio apostolato da quello di
altri. Non possiamo dire che egli fosse qui animato da un interesse cristologico. La stessa cosa suc­
cede in 5, l 8s., con la dottrina della riconciliazione: pure questa è citata per classificare l'apostolo
come mediatore della riconciliazione (cfr. v. 20). In altre parole: Paolo cita e seleziona molto libe­
ramente.
200 terza pane

qui i diversi gradi della rappresentanza nel culto. La celebrazione della mes­
sa offre una specie di concentrato di tutte le funzioni vitali essenziali per
quanto riguarda la nuova vita davanti a Dio: ascoltàre e rispondere, mangia­
re e bere, lavare e riscaldare, tacere e cantare, pensare agli altri (collette) e
darsi a vicenda la pace. Il fatto che manchi (sperabilmente) solo il dormire
ha la sua motivazione nel fatto che, nella comunione con gli angeli (isan­
ghelia, così il culto è infatti concepito) il dormire non ha alcun posto.
Già la metafora degli stessi testi liturgici si riallaccia al linguaggio bibli­
co, in particolare a metafore bibliche. In maniera esemplare questo è ricono­
scibile nel modo in cui le liturgie dei defunti delle piccole chiese orientali
cristiane prolungano tale linguaggio (citazioni al riguardo in K. B ERGER, 1st
rrtit dem Tod al/es aus ?, Stuttgart 1 997).
Lo stile di vita realizzato nello spazio del culto deve irradiarsi come lievi­
to anche nella vita quotidiana.

7. Applicazione e emotività

S ULL' IMPORTANZA DELLE EMOZIONI NELL' ERMENEUTICA

Se l' analisi descrittiva della comprensione umana deve racchiudere anche


l'illimitato apprezzamento delle sue condizioni, allora un ruolo importante
spetta qui alle emozioni umane:
l . Già nell'esegesi non bisogna partire solo dalle rappresentazioni elabo­
rate, bensì bisogna domandarsi, dal momento che in particolare le lettere
sono documenti della comunicazione umana, quali sentimenti l' autore volle
esprimere o ha espresso.
2. Se le esperienze umane sono importanti per la rivelazione e per la sua
applicazione, allora questo riguarda in modo particolare il linguaggio usato
per espri�ere sentimenti religiosi. Nella scarsa attenzione prestata a questo
linguaggio sta una carenza cronica63, che è anche una carenza antropologi-

63 Cfr. al riguardo D. SOLLE ( 1 975), 85: «<l protestantesimo, che all'interno della propria religio­
ne ha tanto rinunciato a immagini, miti e rituali, lascia gli uomini inermi, non sviluppa alcun lin­
guaggio legato all'esperienza che abbia effetti umanizzanti, consolanti e comprensibili. Dio diven­
ta inesprimibile e muto; il suo carattere di superpotenza fatale, che atterra, divora tutte le altre
Sulla prassi dell 'applicazione 201

ca64• E qui la verbalizzazione delle emozioni potrebbe avere anche una rile­
vanza emancipatoria.
3. A questa osservazione corrisponde la riscoperta della retorica nell' ese­
gesi65 e nell' omiletica moderna (cfr. G. Otto).
4. Pure nella discussione tradizionale sull' ermeneutica la dimensione del­
le emozioni è importante, perché un' analisi più accurata mostra che sia la
'precomprensione' di Gadamer, sia anche !"ermeneutica dell' intesa' di P.
S tuhlmacher possono es sere debitamente valutate solo tenendo conto
dell' emotività.

DEFINIZIONE CONCETIUALE

Consideriamo emozioni/emotività66 tutte le percezioni e manifestazioni


psichiche non razionali. Supponiamo che in questo campo esista forse una
specifica logica; che è diversa da quella razionale67• Le differenze dal campo
razionale contraddistinguono nei punti che seguono la nostra esposizione.
Qui non distinguiamo tra conscio e inconscio, perché questa opposizione,
diversamente da quella tra razionale/non razionale, non può essere dimostra-

esperienze; egli è così lontano dagli uomini, così 'completamente diverso' che le esperienze fatte
con lui diventano inesprimibili e incomunicabili>>. A p. 1 72 ella lamenta la repressione dell'emoti­
vità, che ha come conseguenza il rigurgito dei sentimenti e un diffuso stato di depressione: «Le
emozioni non vengono espresse e comunicate verbalmente; e appunto questo possono invece fare
gruppi religiosi di tipo emancipatorio>>.
64 Cfr. al riguardo J. B. MElZ ( 1 980), 75 [trad. it., 6 1 ] (sull'ermeneutica del protestantesimo):

<<In effetti essa è l' unica religione del mondo, che per bocca dei suoi teologi fa dire di non voler
essere una religione, bensì ' solo fede' , 'solo grazia' , come se la religione visibile, la religione
festosa, la religione con liturgie toccanti, con la gioia dei simboli e dei miti, non fosse anche una
lode essenziale, per quanto sempre insidiata da pericoli, della grazia con i sensi>> .
., Cfr. al riguardo F. SIEGERT, Argumentation bei Paulus, Tiibingen 1 985; K. BERGER Einfuh­ ,

rung in die Formgeschichte (UTB 1 444) , Tiibingen 1 987, 1 39s. l 62- 1 64. 1 67. 1 73.207.257.259-26 1 .
66 Circa i l metodo: in questo paragrafo rasentiamo la psicologia, e i l nostro modo di procedere va

distinto dalla psicologia così: l) a differenza delle normali scienze moderne adottiamo qui aperta­
mente un tipo di considerazione (religioso-) fenomenologico. b) La cosa più importante sono affer­
mazioni antiche sul tema, perché esse sono più vicine ai testi che non le valutazioni moderne. c)
Queste affermazioni antiche sono tuttavia qui utilizzate in modo tale che noi aderiamo solo a ciò
che appare a prima vista plausibile e utile. La teoria antica è così utilizzata non in modo esegetico,
ma applicativo.
67 Verosimilmente questa logica segue l'intensità (anche se questa assume forme paradossali; in

ogni caso segue meno la logicità lineare), la sinestesia, la qualità complessiva dell' appello e bada
di più alla contemporaneità. Per il resto, cfr. più avanti.
202 terza pane

ta con i nostri mezzi. Qui di seguito ci riferiamo al campo dei segni, del lin­
guaggio e dei testi.

LA CORNICE

Punto di partenza delle nostre considerazioni è il fatto che, nel campo del
non razionale, l' emotività costituisce la più grande cornice possibile di cui
occorre tener conto e a cui bisogna far riferimento. Tra l' altro, pure questo
rientra nella logica dell' emotività: per le emozioni può in questo campo
essere importante semplicemente tutto, dall' abbigliamento alla gestualità, al
tono della voce e fino all' uso di parole straniere e di pause nelle proposizio­
ni, dalla semantica fino alla sorpresa (nella ricezione) provocata da nuove
forme. La cura minuziosa e spesso affaticante con cui antichi retori descri­
vono la comunicazione umana (e nella loro scia H. Lausberg con la sua
meritevole opera in collaborazione Handbuch der Rhetorik), è espressione
del fatto che, per la comunicazione non razionale, possono diventare sempli­
cemente importanti tutti gli elementi della situazione comunicativa.
L'emotività si riferisce perciò potenzialmente al tutto e ad elementi (appa­
rentemente) qualsivoglia della situazione. Che qui il 'tutto' o il 'qualsivo­
glia' possano diventare importanti costituisce la non prevedibilità e la non
calcolabilità di questo campo . Importante è una cosa: naturalmente non
sempre tutto è in ugual modo importante in una situazione, bensì l' emotività
provvede a far sì che, nel campo extrarazionale, si formino dei punti focali.

EMOTIVITÀ E LIBERTÀ

Ovviamente esiste un nesso particolare tra la soggettività e l' apparente


arbitrarietà delle emozioni, da un lato, e il bisogno umano di libertà,
dall' altro lato, e qui siamo di fronte a una chiara contrapposizione nei con­
fronti del campo dell' argomentazione razionale. Con il modo dell' argomen­
tazione il 'mittente' indica il tema e la via a cui sia lui che il ricettore sono
legati. Il campo, che dopo l' inizio rimane ancora aperto, è molto ristretto,
come nel caso di un passo di danza che non lascia molto all' arbitrarietà.
Diversamente stanno le cose nel campo dell' emotività: il campo della libertà
è qui più grande da ambedue i lati. Il mittente può impiegare quasi a piaci-
Sulla prassi dell 'applicazione 203

mento molti mezzi in una successione quasi arbitraria, e il ricettore può


sempre reagire in modo diverso dal previsto. Seguire una conferenza è una
cosa diversa dal seguire una trasmissione di canzoni. Poiché nel caso del
contatto emotivo sia il mittente che il ricettore dispongono di un più grande
margine di libertà, più grande è anche la possibilità di sbagliarsi (com'è noto
dal fenomeno di fallite prese di contatto emotive tra creature umane) . Ciò è
vero, anche se l' emotività non è affatto in linea di principio collegata con
una mancanza di chiarezza.
Questo significa: poiché il campo emotivo della comunicazione è assai
meno rigorosamente regolato (per es., dalla logica convenzionale), la comu­
nicazione, per riuscire, ha qui bisogno in misura particolare di un' intesa68, di
circostanze fortunate o della medesima 'linea' di comunicazione. Mentre nel
caso della comunicazione razionale l' accento viene posto dal mittente, nel
caso della comunicazione tendenzialmente emotiva (e nel caso di ogni
comunicazione nella misura in cui essa è emotiva) tale accento rimane sino
alla fine indeciso, a meno che non si voglia sin dall' inizio una unità di azio­
ne. In caso contrario non rimane che attendere la buona riuscita della comu­
nicazione.

SUL RAPPORTO TRA INTERNO E ESTERNO

Già il tener conto della dimensione dell'effetto sottolinea l' importanza di


esperienze contingenti e, quindi, anche sensibili. L' interpellabilità razionale
dell' uomo è vista entro limiti realistici. I segnali e le leggi della corporeità
dell' uomo sono presi sul serio, anche e proprio quando non bisogna nel sin­
golo caso indulgere a questi bisogni ; ostile al corpo sarebbe solo un suo
disprezzo in linea generale.

C ONSEGUENZE PER L' ERMENEUTICA

l . Pure nel caso della comunicazione intenzionale e consapevole occorre


che l ' emotività contemporaneamente esistente e mai eliminabile rimanga

•• L' «ermeneutica dell' intesa» di P. Stuhlmacher (cfr. al riguardo P. STUHLMACHER [ 1 979]


1 986') va perciò vista anche come un'ermeneutica che tiene conto delle emozioni.
204 terza parte

libera, a meno che essa si sia in antecedenza per propri motivi volontaria­
mente legata.
2. Il fenomeno della 'patria culturale/spirituale' significa, con la massa
dei 'pregiudizi' , nello stesso tempo un chiaro legame emotivo.
3 . Una applicazione non dovrebbe essere solo un discorso razionale 'sul '
testo, bensì con l' aiuto delle immagini utilizzate dovrebbe comunicare quan­
to intende comunicare anche in modo esperienziale vivo. Ciò può avvenire
mediante la messinscena dello stesso testo applicativo o per la via di proba­
bili associazioni.
4. La nostra ermeneutica non è un' ermeneutica 'emotiva' ; essa vuole sol­
tanto porre in risalto il valore posizionate di questa sfera e farlo precisamen­
te in base al principio che la teologia è una descrizione che dovrebbe render
completamente giustizia a ogni fenomeno. Perciò, a differenza ad esempio
di H. G. Gadamer e di P. Stuhlmacher, io non posso fare come se questo set­
tore non esistesse per il campo dell' ermeneutica e come se l' emotività fosse,
rispetto alla ratio universale, solo l' individuale e, quindi, qualcosa di trascu­
rabile (H. G. Gadamer) . - Piuttosto, secondo la mia opinione, la ratio e
l' emotività svolgono funzioni diverse nell' ermeneutica.
5. Di fronte all' evidenza del conflitto tra potere e vita la reazione della
ratio va distinta da quella dell' emotività.

a) la ratio attua la comunicazione interumana precisamente tra avversari, e il suo


proprium specifico è l' esclusione della violenza mediante i mezzi dell' argomenta­
zione e del compromesso;
b) l' emotività e il modo in cui i soggetti insostituibili compaiono con i loro inte­
ressi (spesso altamente problematici) in una situazione. Ma proprio perché gli inte­
ressi personali sono spesso problematici è necessario renderli visibili e esternarli,
affinché possa regnare la lealtà69 e affinché venga esercitata nello stesso tempo la
necessaria critica, che non riguarda soltanto le emozioni, bensì anche gli stati e le
condizioni a cui esse volevano dare una risposta. Proprio della necessaria manife­
stazione70 delle emozioni si occupa il paragrafo seguente .

., La lealtà della comunicazione fa perciò parte dei valori impliciti in questa ermeneutica. Il suo
significato corrisponde a quello che sopra abbiamo rilevato a proposito del fenomeno della sfera
·

pubblica (cfr. p. 1 74).


70 Per manifestazione non intendo il discorso razionale astratto, ma la manifestazione di senti­
menti.
Sulla prassi dell 'applicazione 205

EMANCIPAZIONE DELL' EMOTIVITÀ

Per emancipazione dell' emotività intendo questo: nella teologia e nella


chiesa non bisognerebbe solo 'riconoscere ' l' esistenza della sfera non razio­
nale, bensì bisognerebbe anche decifrarne le implicazioni antropologiche e
teol ogiche. L' emotività rappre senta un importante settore parz iale
dell' applicazione estetica, perché l' emotività fa parte dell'esperienza uma­
na; parlando dell ' emancipazione di questa sfera, seguo l ' impulso eti C o
dell' ermeneutica nel senso dell " uguaglianza' e della ' giustizia' , perché
l ' applicazione considera spesso proprio questa sfera come una sfera di
minor valore rispetto alla ratio.
Dalla discussione attorno ali' arte cristiana è noto il problema del rapporto
tra l' ortodossia dogmatica e il valore specifico dell' opera d' arte per l' atto
della religiosità non verbale. Proprio nel campo dell' arte figurativa regnano
da secoli tra i protestanti - se si escludono poche eccezioni - insicurezza e
carente coraggio in fatto di produttività. I seguenti campi sono nel loro com­
plesso interessati dal problema dell' emotività: musica, poesia, arti figurati­
ve, rituale e liturgia, l' organizzazione di feste e inoltre il kitsch e l' idillica,
che si intersecano in parte con i campi menzionati per primi. NÒi scegliamo
il campo dell' idillica sentimentale, perché esso è considerato particolarmen­
te sconveniente e perché, secondo l ' opinione generale, si presta meno a
un' applicazione del Nuovo Testamento, e lo illustriamo per mezzo dei tratti
sentimentali da sempre conferiti alla festa di Natale dalla pietà popolare.
Qui infatti la popolarità degli elementi sentimentali contrasta nettamente
con la valutazione che di tali elementi danno la chiesa ufficiale e le persone
illuminate tra i cristiani.

LA NECESSITÀ ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DELL' 'IDILLICA'


(ILLUSTRATA CON L'ESEMPIO DELLA SPIEGAZIONE DI Le 2,4-20
NELLA FESTA DI NATALE)

Tratti dell 'idillica antica nel racconto biblico

L' 'ambiente pastorale' di Le 2,4-20 allude chiaramente, da un lato, con la


sua cristologia pastorale a elementi tipologici veterotestamentarF1 • Dall' altro

71 Secondo l Sam 16 Davide era «con il gregge» a Betlemme prima di diventare re. Manca una
206 terza pane

lato però Luca si ispira per il suo racconto alla bucolica pagana contempora­
nea che - in modo affine alla georgica72 - descrive spesso il carattere idillia­
co della vita dei pastori, un carattere che serve da parte sua, proprio in quan­
to idilliaco e con ciò capace di costituire un appello emotivo, a una conce­
zione storico-teologica.
Nell ' ordinamento della vita campestre sopravvive una traccia dell' età
dell' oro; la vita in campagna ne è l'ultimo riflesso. In Virgilio e Tibullo tro­
viamo la nostalgia di un passato in cui non c ' erano guerre, in cui non c' era­
no né fortezze né muraglioni e in cui il pastore poteva sonnecchiare tran­
quillo accanto alle pecore pascolanti in pace. Quello era un mondo di purez­
za, di armonia e di ordine73• Nel mondo semplice dei pastori vivono ancora,
in mezzo all ' età del ' ferro ' altrove imperante, la pace e la giustizia
dell 'aurea aetas. Qui la terra è rimasta in un' alleanza pacifica con i contadi­
ni, e un ruolo particolare svolgono anche le api, cui qui - così come negli
inni cristiani successivi (cero pasquale) - vengono ascritti attributi quasi
divini.
L'età dell ' oro non è naturalmente solo un punto di riferimento passato e
critico per il presente: la quarta egloga di Virgilio mostra chiaramente che
qui si tratta anche di una speranza escatologica relativa al futuro, verosimil­
mente relativa addirittura a un futuro prossimo. «Dai primi giorni dell' uma­
nità spira verso il poeta il ricordo presago della realtà perduta, e sul futuro
pende la promessa del ritorno di tale realtà. L' arcadia è una rivisitazione
onirica di ciò che è stato e una struggente anticipazione del futuro»74• La
promessa, e questo è qui importante, è «pervasa e dominata dal grazioso e
dal lezioso»75• Perciò la nascita del bambino promette l' inizio di una futura
età felice.
Tipica dell ' età saturniana e dell ' oro è la pace che regna tra gli animali .

esposizione complessiva della cristologia pastorale neotestamentaria. Spunti ve ne sono in K. BER­


GER, Gleichnisse als Texte, in Imago Linguae (FS F. Paepcke), Miinchen 1977, 64 note 1 1 - 1 2. ­

Su una chiara cristologia pastorale nel Nuovo Testamento, cfr. soprattutto: Gesù cerca la pecora
smarrita, egli è 'inviato' alle pecore smarrite della casa d'Israele. Questa missione viene continua­
mente resa, per quanto riguarda il suo contenuto, con i termini 'salvare' e 'salvatore', allorché si
tratta di descrivere la funzione del pastore. Alla base della cristologia pastorale c'è perciò in modo
particolare la concezione della salvezza come 'raduno' . Anche in Eb 13,20 Gesù è detto il <<pastore
grande delle pecore>> .
72 Cfr. al riguardo R. KETIEMANN, Bukolik und Georgik. Studien zu ihrer Affinitiit bei Vergil und
spiiter, Heidelberg 1 977.
73 Cfr. R. KETIEMANN, op. cit. , 1 29.
74 F. BECKMANN, Mensch und Welt in der Dichtung Vergils (Orbis antiquus l ), Miinster 1 960',
13.
7 5 C. BECKER, Vergils Eklogenbuch, i n Hennes 8 3 ( 1 955) 3 1 4-349, qui 341 .
Sulla prassi dell 'applicazione 207

Nella quarta egloga di Virgilio leggiamo: «Le mandrie non temono più i
possenti leoni. . . scomparirà anche il serpente». Si confrontino queste parole
con fs 1 1 ,6s. : «Il lupo dimorerà insieme con l' agnello, la pantera si sdraierà
accanto al capretto . . . La mucca e l' orsa pascoleranno insieme; si sdraieranno
insieme i loro piccoli. Il leone si ciberà di paglia, come il bue)). Come sotto­
linea H.-J. MahF6, nell' idillica delle egloghe la realtà poetica diventa per la
prima volta l' immagine dell'età dell' oro77• - Pertanto concludiamo: la pace
tra gli animali è un elemento dell ' idillica; in Virgilio essa è concepita come
una parte integrale del mondo romantico dei pastori, e il tutto è un' immagi­
ne della pace di grande rilevanza politica.
Infine la bucolica e l' idillica contrastano nettamente con il mondo della
città di Roma e delle città in generale78• Simile è anche il contrasto tra il
mondo dei generali e delle guerre, da un alto, e il mondo pacifico dei pasto­
ri, dall' altro lato. Il potere, gli intrighi e la guerra stanno dalla parte della
civilizzazione urbana. L' alternativa è idilliaca. L' idillio è quindi una imma­
gine per antonomasia della pace, un' utopia concreta. Perciò per le Georgi­
che di Virgilio l' Italia è anche la terra saturnia.
Nella sua composizione Luca ha posto motivi veterotestaméntari accanto
al t6pos contemporaneo del mondo felice dei pastori79 e ne ha fatto un' unità.
La Betlemme agreste contrasta perciò in lui (come del resto anche in Mat­
teo, che però pensa in termini più marcatamente politici) con Gerusalemme,
dove Gesù dovrà morire. Già nella città di Nazaret comincia la storia del
rifiuto. Betlemme ne è invece in Luca esente, e pure in Matteo essa è un
luogo ideale80•
Questo è pertanto per il momento il risultato: a) l' idillica dei pastori sta in
un rapporto storico con il racconto del Natale di Luca. Se perciò, a partire
dal primo Rinascimento, viene riesumata questa linea nella ricezione del
vangelo del Natale, non v'è in ciò nulla di strano. b) In Luca l' idillica ha ­
così come nel periodo imperiale romano e successivamente nelle riedizioni
dell' impero romano - una funzione escatologica. Questa pace non ha natu­
ralmente tratti trascendenti e celesti, bensì tratti familiari e 'terreni' (utopia

76 Die Idee des goldenen Zeitalters im Werk des Novalis, Heidelberg 1 965, 60.
" Cfr. anche l'esposizione delle analogie tra i racconti neotestamentari dell' infanzia e la quarta
egloga in G. ERDMANN, Die Vorgeschichte des Lukas- und Matthiiusevangeliums und Vergils 4.
Ekloge (FRLANT 30), Gtittingen 1 932.
78 Questo è importante per il cristianesimo, che fin dall 'inizio fu un cristianesimo di tipo urbano.
Perciò il testo contiene già una controistanza critica nel senso di un correttivo.
79 Cfr. sulla quarta egloga e sulla sua relazione con Luca anche K. BERGER - C. CoLPE ( 1 987),
1 28s. (n. 2 1 3).
80 In Mc e Gv il luogo ideale è, in altro modo, la Galilea.
208 terza parte

concreta) . A ciò corrisponde il fatto che questo stile di vita era ancora stori­
camente tangibile per Virgilio e Luca.

Valutazione teologica dell 'idillica natalizia

V idillica nel contesto della festa di Natale è tuttavia in linea generale


disprezzata dalla teologia; a ciò corrisponde il fatto che nella teologia
moderna, così come nella coscienza di cristiani evangelici praticanti, la festa
più importante dell' anno liturgico è il venerdì santo. La dialettica della cro­
ce e della ri surrezione non lascia quasi nessuno spazio già all ' idea
dell' incarnazione e meno che mai ne lascia a una qualsiasi forma idilliaca.
Quel che a Natale ha preso piede sotto forma di pietà popolare e di senti­
mentalità è al massimo tollerato, ma è in ogni caso considerato irrilevante
sotto il profilo teologico, mentre l' accentuazione della povertà della stalla di
Betlemme, pur non corrispondendo alla prospettiva di Luca, corrisponde
bene all'istanza di prediche che cercano di ricavare denaro per i 'poveri ' .
L' idillica di Luca è perciò rimossa mediante i punti di vista morali della pro­
blematica moderna del livello di vita e del conflitto nord-sud.
Ma l' accentuazione della povertà sul piano dell' esortazione è qualcosa di
diverso dall' idillica lucana. La povertà non sarebbe idilliaca; segni dell' idil­
lica lucana sono invece la semplicità e la schiettezza, non la povertà ai limiti
della fame. Maria e Giuseppe non sono infatti descritti come dei salariati,
che non avrebbero saputo di che vivere il giorno dopo. - La ricezione mora­
le ha perciò trasformato in una immagine della miseria straziante quel che
era stato concepito come immagine della pace. Essa ha posto la compassio­
ne pauperistica per il «povero Bambin Gesù» al posto dell' utopia concreta e
ha sostituito l' immagine della pace con la monetina per i poveri.
Perciò possiamo dire: nella ricezione del racconto di Natale la forma idil­
liaca adottata dalla mentalità popolare in seno alla chiesa, nella scia di Luca,
contrasta chiaramente con la forma morale adottata nelle prediche in dire­
zione della povertà. Sembra che le cose stiano così: se il Natale non frutta
nulla sotto l' aspetto teologico (ad altissimo livello), lo si fa fruttare almeno
moralmente (povertà/cosiddetto terzo mondo), mentre il sentimentale è
combattuto o al massimo tollerato al livello più basso. Perciò l' abituale rice­
zione di Luca 2 si presenta così:
l . Piano teologico: sconcerto (problematica della nascita verginale, incar­
nazione, apparizione degli angeli, messianismo giudaico).
2. Piano morale: trasposizione dell' idillica pastorale lucana nel senso del­
la povertà. Esortazione a donare ai poveri (del cosiddetto terzo mondo).
Sulla prassi dell 'applicazione 209

Limitazione dell' appello etico del cristianesimo alla compassione (rimozio­


ne della problematica della pace dell' idillio terreno).
3 . Piano emotivo : lotta contro la sentimentalità, sentimentalità passata
sotto silenzio o tollerata, senza farla oggetto di alcuna considerazione teolo­
gica.
Ora vediamo naturalmente che l"alto' piano teologico non viene attuato a
motivo dello sconcerto che esso provoca, che il piano morale è quello
dell' usuale interpretazione dei parroci e che il piano emotivo è quello della
stragrande maggioranza del popolo (e pure di tutti coloro che non vogliono
più sapeme della chiesa) . Il divario tra il secondo e il terzo piano è notevole
ed è uno dei punti in cui la chiesa evangelica si rivela come una 'chiesa dei
pastori' .

Fenomeni affini

Anche la valutazione del kitsch è in un modo del tutto simile un problema


sociologico, che è a sua volta affine alla classificazione di fenomeni religio­
si come 'magia' . Perciò si possono mettere a confronto fra di loro:
forme affermate: arte, gusto, 'pietà regolare' ;
forme declassate: kitsch, mancanza di gusto, magia.
Cioè: il prestigio sociale di determinati gruppi incide sulla valutazione
nominale dei loro prodotti nel campo dell'estetica e della religione.
Possiamo facilmente osservare come le classificazioni in questo campo
siano sottili, coerenti e espressione tipica della preminenza assoluta del pre­
stigio sociale nella nostra società, perché esse riguardano, ad esempio, in
particolare le popolazioni meridionali a noi vicine. Anche nella dichiarazio­
ne che determinati uomini o gli uomini in generale 'avrebbero' appunto
'bisogno' del kitsch e di un 'angolo kitsch' , risuona il tono di commisera­
zione, che degrada il non accettato al livello del semplice bisogno81 •
L' emancipazione dell' emotività significa cancellare proprio mediante
un' opera di chiarificazione questi elementi di un disprezzo non illuminato.
E qui la valutazion'e teologica della sentimentalità corrisponde alla classifi­
cazione del sentimento e della sensibilità in generale.

81 Esempio: il fatto che nella notte di Natale 'si possa' cantare la melodia natalizia Stille Nacht
(se sì, allora il più delle volte alla fine, dopo che si sono fatte le «cose più serie») è solo una con­
cessione incoerente.
210 terza parte

Una nuova valutazione teologica dell 'emotività


nella ricezione di testi biblici

l . Rifiuto del punto di vista 'sì-ma' : intendo dire che il punto di vista,
secondo il quale le emozioni sarebbero sì importanti, ma da regolare ad ogni
piè sospinto dalla ratio, è incoerente. La ratio è sicuramente in grado di cri­
ticare82, ma una regolazione incessante sarebbe solo il riflesso di ben noti
interessi egemonici della teologia razionale. La ratio non è in linea generale
fuorviabile quanto i sentimenti?
Nella situazione ecclesiale attuale l' importante è sicuramente in primo
luogo che si ammetta l' esistenza di emozioni, che esse possano esprimersi e
che si conceda un' autonomia al campo dell ' emotività, senza che altri campi
e i loro classici rappresentanti (che 'sanno tutto' ) vi ficchino continuamente
il naso.
2. Necessità dell' idillica: l' idillica è necessaria, perché la pace e la tran­
quillità non vanno comunicate in modo astratto e meno che mai attraverso
slogan e parole d' ordine, bensì il più possibile mediante immagini. L' idillica
non è solo una possibile forma di speranza, bensì anche un modo in cui essa
può essere presente . Un idillio non è infatti mai del tutto irreale, bensì
un'esperienza in una misura notevole reale. E appunto questa esperienza è
necessaria. Forse è anche vero che l' idillio deve essere tanto più dolce,
quanto più grandi sono la miseria e la sofferenza del momento presente.
L' idillica non è perciò solo una forma della protesta, bensì anche e soprattut­
to una anticipazione della tranquillità. In questo modo essa è di per sé rinun­
cia alla violenza e appunto così anche 'razionale' . E quanto gli uomini con­
siderano come tranquillità e lo descrivono poeticamente così, chi mai può
loro comandarlo? L' idillica non è stata strumentalizzata commercialmente
anche perché fu costretta a emigrare dalla chiesa8J?

82 Sul rapporto emotività/ratio: ci sono diversi campi della vita che la ratio non può 'costruire',
che sono perciò di per sé insostituibili e che non sono tuttavia per questo tabù, ma vanno perlome­
no nelle loro conseguenze sottoposti alla critica della ratio. La stessa cosa si verifica anche per il
rapporto tra esegesi e applicazione: l'esegesi non può sostituire l' applicazione, che viene per esem­
pio spesso effettuata con un linguaggio poetico, tuttavia può cercare di analizzarla e di rendeme
conto in modo flessibile, per esempio descrivendola.
83 I fenomeni postconciliari della chiesa cattolica nel cosiddetto terzo mondo non mostrano forse
che, con una crescente razionalizzazione della chiesa, le massicce esigenze emotive poste alla reli­
gione finiscono per essere soddisfatte in culti oscuri che enumerano subito milioni di adepti? Le
numerose segnalazioni di rituali spiritici, provenienti proprio dalla Germania settentrionale, non
sono oggi una domanda rivolta al carattere razionai-etico della predicazione cristiana? Abbiamo
fatto bene a disprezzare tanto solo e sempre il carattere popolare della festa di Natale? - Una cosa
Sulla prassi dell 'applicazione 21 1

3 . Primitività dell ' idillica? Contrassegni dell ' idillio sono l' assenza di
dolore, la serenità, il calore, la concordia, l' unità tra interno e esterno, la
quiete, la tranquillità, lo splendore, l' armonia e la bellezza. L' idillica non
riflette tutte le aspirazioni e le speranze84, però ne riflette di molto essenziali.
È perciò possibile cominciare una predica sulla rinuncia al potere con la
descrizione dell' idillio in cui Carlo V visse a San Yuste dopo la sua abdica­
zione8S, cominciarla cioè con le immagini di alberi di castagno nella solitudi­
ne dei monti, con l ' immagine di viti e con la descrizione del profumo
dell' alloro e di incontaminati garofani.
4. Idillica e realismo: l' idillica è contraddistinta da un di più che nella
realtà non è 'mantenibile' . Tuttavia gli idilli, quali isole che comunicano
qualcosa di quel che può essere, di quel che potrebbe essere, hanno qualcosa
in comune con altri segni e con altre azioni simboliche nel campo della reli­
gione cristiana.
Ma non si tratta di un' apparenza ingannevole, di una fuga dalla realtà, del
'rifugio nell' idillio' , della simulazione di una felicità privata che manda tut­
to il resto del mondo 'al diavolo' ? Con questo non abbiamo menzionato un
pericolo di ogni forma di estetica in generale?
Ma d' altra parte: proprio il realismo del cristianesimo deve prendere
seriamente anche bisogni e evitare riduzioni razionali. Il cristianesimo si
distingue per un realismo che prende in tutto e per tutto sul serio le condi­
zioni dell' uomo, che non le tace e che conosce l' ambivalenza di ogni sfera
umana. Come può proprio colui che vuole essere appassionatamente giusto
fare a meno di fermarsi un momento, di una sosta che può consistere nel fat­
to di gioire, attraverso la corporeità, di un fiore e di un paesaggio? Dovrem­
mo percepire ciò che sotto forma di dono già esiste, ciò che non siamo sem­
pre costretti a fare prima noi e che ci viene invece incontro e ci bacia sotto
forma di frammenti di un mondo beato.
L' idillica e ciò che spesso diciamo kitsch fanno parte del vasto campo dei
sogni dell ' uomo. Essi sono spesso molto semplici, ma condividono la sua
dignità. E quando essi sono 'commoventi ' e maldestri, ci mostrano con ciò
qualcosa della sua miseria, della sua lacerazione e del suo desiderio di pace.

è indulgere in modo puro e semplice alla voglia di magia degli uomini e un' altra dare costante­
mente e in modo del tutto unilaterale alla religione una forma antropologica .
.. È certamente compito della ratio evidenziare qui eventuali carenze. Nel caso dell'idillica tali
carenze risiedono nel campo del linguaggio e del dialogo, forse nel campo del sociale nel senso più
vasto del termine, in quanto il sociale si spinge al di là della 'sicurezza animale' . Ma non per que­
sto l' idillica va rinnegata, bensì va presa, in quanto settore parziale, in tutto e per tutto sul serio.
" Cfr. K. BERGER, Wie ein Vogel ist das Wort, Stuttgart 1987, 2 1 6-22 1 (su Rom 5, 1 - l l ).
212 terza parte

Come ogni utopia, così anche l' idillio ha perciò una grande importanza etica
e politica.
5 . Idillica e cristianesimo: l' idillica non ha mai a che fare con la dogmati­
ca; essa non è né rigorosamente cristologica, né rigorosamente trinitaria, né
qualunque altra cosa che possa essere 'rigorosamente' pensata; l' idillica
riguarda il lato umano, pensato 'dal basso' , della salvezza. A motivo delle
categorie sacerdotali e clericali86 della teologia cristiana, straordinariamente
influenzate già dai presupposti giudaici del Nuovo Testamento, noi ci rap­
presentiamo la salvezza e il paradiso sostanzialmente in termini cultuali87• Il
problema è perciò essenzialmente anche un problema del nostro culto: il
lato umano risalta troppo poco in questa concezione metaforica, e una delle
conseguenze è la mancanza della possibilità di collegare la felicità umana
con il regno di Dio. Io ritengo perciò che quanto si esprime sotto forma di
idillio e, in parte, anche come 'kitsch' religioso, sia un frammento di una
rimossa aspettativa celeste.
L' idillica non riguarda sogni teologicamente dettati o legittimati, ma
sogni umani, sogni non sublimati e tradotti in principi. - Quando nella fre­
nesia dell' avvento gli uomini percepiscono da qualche parte il suono di Stil­
le Nacht, heilige Nacht, non ci è forse lecito pensare che essi vogliono tutti
quanti in qualche modo una notte silente e santa? Possiamo realmente cre­
dere che sia scomparso ogni presagio di ciò che una notte santa potrebbe
essere? Occorre assolutamente conoscere la distinzione tra Antico e Nuovo
Testamento per poter associare qualcosa all'espressione 'notte santa' ?
La chiesa dei pastori, che si rivolge all' intelletto, deve verosimilmente
imparare molte cose sul carattere differenziato dei sentimenti umani, che
non è necessariamente legato all' istruzione. Né dovrebbe in continuazione
rimuovere le proprie emozioni.
lo non condivido perciò affatto l' idea piena di commiserazione che certi
uomini avrebbero purtroppo bisogno di sentimentalità. Come se non ne
'avessimo' tutti 'bisogno' . Gli uomini sono piuttosto esseri che hanno biso­
gno di moltissime cose. La tenerezza è anche una forma di idillica. Non si
tratta perciò di un bisogno purtroppo presente accanto ad altri, bensì noi

86 Già nel giudaismo intertestamentario il pensiero teologico viene decisamente formulato con

l' aiuto della metaforica sacerdotale. Ciò vale per tutta la rappresentazione del cielo o paradiso
come santuario (e per il tempio di Gérusalemme concepito come la sua immagine). Quanto al
Nuovo Testamento vanno ricordate la concezione dei due ordinamenti cultuali secondo Eb e la
suddivisione della realtà in due piani, nel piano terreno e nel piano celeste-cultuale, secondo
l' Apocalisse di Giovanni.
87 Come culto in cielo, come canto e adorazione davanti a Dio. Gli angeli sono qui pensati quasi
solo come addetti al culto celeste e meno come messaggeri.
Sulla prassi dell 'applicazione 213

uomini siamo tutti quanti molto bisognosi. E anche se qualche volta l' idilli­
ca può essere un momento di illusione, ciò ci dice solo qualcosa sulla gran­
dezza della nostra aspirazione.

8. L'interpretazione di testi 'mitici '

CHE COSA SONO I TESTI MITICI ?

Per testi mitici intendiamo quelle testimonianze che abbracciano ciò che
nel secolo XIX fu detto ' soprannaturalistico' . Cioè : racconti concernenti
visioni, trasfigurazioni, miracoli (singole dimostrazioni strabilianti di poten­
za, che vanno dalla nascita verginale agli esorcismi, alle guarigioni, alle
moltiplicazioni di pani e fino alla risurrezione), inoltre affermazioni apoca­
littico-escatologiche riguardanti sia l' escatologia indi vi duale («Con la morte
è tutto finito?»), sia l ' escatologia futura universale. Di esse fanno parte
anche affermazioni relative a figure invisibili come gli angeli, i demoni, -il
diavolo, nonché affermazioni sullo stato intermedio tra la morte e la risurre­
zione. Al centro sta senza dubbio la problematica della risurrezione, e preci­
samente sia della risurrezione di Gesù, sia della risurrezione corporea di tutti
o di tutti i cristiani 'alla fine' . Questi testi costituiscono una buona parte del­
la tradizione neotestamentaria e sono considerati 'difficili' , una difficoltà
accresciuta dal fatto che qui particolarmente forte è proprio la presunta o
reale pressione esercitata dagli 'ortodossi' che stanno al margine o ai vertici
della chiesa.
Questi racconti furono detti ' mitici' , perché frutto di una concezione
dell' influsso di potenze divine in questo mondo, una concezione diffusa in
modo particolare nel mondo antico, frutto cioè di una immagine del mondo
che è considerata superata dall' esegesi critica e che non può più essere con-
·

divisa.

M ETODO DELL' ESEGESI STORICO-CRITICA CLASSICA

L' esegesi classica parte, di fronte a queste affermazioni, dal problema


della loro condivisibilità e adopera la ragione critica per individuare nei testi
214 terza pane

il loro contenuto razionalmente comprensibile. La ragione e le leggi della


natura (nel senso del secolo XIX) furono considerate il criterio della cosid­
detta 'critica oggettiva' , cui si riconobbe una validità universale. Se alla loro
luce certe affermazioni bibliche sembrano impossibili, il contenuto di tali
affermazioni va ridotto a ciò che appare possibile. Quel che in questo senso
viene ritenuto possibile ha poi anche il valore di un qualcosa di storicamente
perlomeno pensabile.
Qui spesso si traccia anche una linea critica di demarcazione tra le notizie
prepasquali e quelle postpasquali riguardanti Gesù. Ciò che è possibile nella
cornice delle leggi naturali può essere storico, il resto viene spesso attribuito
a una formazione postpasquale di miti88•
Per l' interpretazione dei racconti 'rnitici' si pensò perciò che fosse possi­
bile percorrere queste vie:
l . Distinzione tra fatti possibili e fatti non possibili secondo le leggi natu­
rali e, di conseguenza, la loro classificazione in fatti 'storicamente pensabili'
o fatti 'leggendari' .
2 . Il procedimento descritto nel punto l viene sostenuto con operazioni di
critica letteraria. Un racconto meno inaccettabile è considerato come quello
originario89•
3. Interpretazione coerentemente morale dei miracoli. Così il comando di
Gesù: «Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina» è concepito come un invi­
to a camminare in. maniera (moralmente) eretta, oppure i racconti della mol­
tiplicazione dei pani sono interpretati come un invito a condividere90• A mio
avviso questo diffuso modo di interpretare non è in nulla secondo al metodo
allegorico spesso criticato.
·
4. Interpretazione psicologica mediante la trasposizione degli eventi
nell' intimo degli uomini. Così le visioni pasquali sono trasformate in feno­
meni psicopatologici91 • Il resto è leggenda.
5 . Gli altri testi particolarmente inaccettabili, che riguardano il corpo
(sepolcro vuoto) o oggetti materiali (per es., il sudario di Pietro), sono quali­
ficati come «fede grossolana nei miracoli» di origine ellenistica e interpreta­
ti alla luce di vite di santi scritte il più delle volte secoli dopo (come la leg­
genda di Rufino, l' Historia apostolorum o la Legenda aurea), e precisamen­
te nel senso di cose astruse, ridicole e da non prendere in partenza sul serio.

" Cfr. per esempio A. MERZ, Jesus als Wundertiiter, in ZNT l ( 1998).
•• Cfr. per esempio l ' interpretazione di Gv I l , secondo la quale questo capitolo avrebbe riguar­

dato originariamente la guarigione di un malato.


90 Cfr. ad esempio G. THEISSEN, Urchristliche Wundergeschichten, Giitersloh 1 987'.

•• Cfr. ad esempio G. LODEMANN, Die Auferstehung Jesu, Gottingen 1 994.


Sulla prassi deli 'applicazione 215

Il ricorso a questa successiva produttività in fatto di storie di miracoli è un


argomento importante per presentare come 'non credibili' anche i racconti
neotestamentari. Qui fanno sentire il loro influsso sulla ricerca neotestamen­
taria pure sospetti classici a proposito dell' oscuro alto medioevo. Viene tra­
lasciato ogni tentativo di spiegare anche solo un po' , per esempio, la nascita
successiva di racconti di miracoli.
6. La difficoltà rappresentata dall' interpretazione dei testi apocalittici vie­
ne scansata grazie alle avversioni protestanti tradizionali, antientusiastiche,
nei confronti dell' apocalittica in generale (cui viene rimproverato il tentati­
vo di fare calcoli nel senso di un orario dei treni e di fare politica) e in parti­
colare (l' Apocalisse di Giovanni definita da Lutero il «sacco da prestigiatore
di spiriti faziosi»). Lo sconcerto è qui più grande che mai. Per lo più ci si
cava d' impiccio dicendo che già lo stesso Nuovo Testamento sarebbe critico
e diffidente nei confronti delle «fantasiose descrizioni» apocalittiche e che
le eviterebbe completamente.
7. Tra i 'miracoli' un posto particolare occupa la nascita di Gesù per ope­
ra dello Spirito Santo (nascita verginale), perché essa è considerata - a moti­
vo del fatto che è testimoniata soltanto in due vangeli - come il caso esem­
plare di una successiva leggenda non storica. Tuttavia pure il 'Padre nostro'
è testimoniato soltanto in due vangeli (per caso proprio gli stessi), e neppure
Paolo - utilizzato sempre volentieri come testimone principe contro la
nascita verginale e il sepolcro vuoto - lo conosce.
8. Quanto alle 'persone' trascendenti, si dichiarano gli angeli, i demoni e
il diavolo come propriamente non esistenti, e anche a proposito della perso­
nalità di Dio si dà la preferenza a una sua concezione deistica.

CHE COS'È LA REALTÀ?

La domanda critica decisiva suona necessariamente: a quale realtà si pen­


sa, quando qualcosa è considerato come «realmente accaduto»? È reale sol­
tanto ciò che può essere condiviso nel senso delle scienze naturali del secolo
XIX o che perlomeno non contrasta con esse? Da uno scienziato critico io mi
attendo una valutazione autocritica dei propri risultati , in quanto egli
dovrebbe ammettere che i suoi risultati corrispondono solo ai suoi metodi e
alle sue problematiche, ma non a ogni realtà pensabile. Esiste dunque
un' unica via di accesso alla realtà, il cui ultimo criterio sarebbe l' assenza di
contraddizione? - Il problema di questa visuale del mondo è che non è pos­
sibile dimostrare e neppure presentare come verosimile il fatto che il mondo
216 terza parte

normale, nel quale sono valide le leggi naturali classiche, sia l' unico possi­
bile. In modo simile al razionalismo classico argomenta anche il fondamen­
talismo. Per i suoi rappresentanti tutto quel che la Bibbia dice è vero e reale,
e precisamente nel senso di un' affermazione delle scienze naturali. Pure qui
esiste solo l'unico mondo regolato da leggi e nessun altro piano della realtà.
E poiché la Bibbia deve essere vera nel senso dimostrabile con l' aiuto delle
scienze naturali, si gioisce per ogni pietra che testimonia, ad esempio, che
Ponzio Pilato sarebbe realmente vissuto. Così infatti è possibile dimostrare
che la B ibbia ha ragione.
La visuale del mondo dell' era postmoderna dischiude invece, a mio avvi­
so, la possibilità di contare su diverse possibilità di accesso alla realtà, con
ogni campo avente le sue proprie regole e i suoi propri criteri.
In un prirrìo passo si tratta ancora una volta di ricostruire qualcosa. In tale
ricostruzione occorre mostrare che la visuale del mondo tipicamente antica
non comprende solo la nota e famigerata costruzione a tre piani del mondo,
ma comprende anche una concezione particolare circa gli invisibili «influssi
provenienti dall' esterno» sugli uomini.

ESTERNO I E ESTERNO II

Nell ' uomo noi riscontriamo oggi un esterno e un interno. L' esterno lo
chiamiamo mondo, l' interno anima. Collochiamo tutto il campo dei pensie­
ri, dei sogni, dei sentimenti e delle esperienze religiose nell' interno. Di qui
deriva l' idea del 'pastore d'anime' , che si occupa appunto dell' anima. Pure
l' idea che la religione sia semplicemente una faccenda privata deriva dal
fatto che la situiamo completamente nell' anima del singolo.
Diversamente stavano le cose per gli uomini del tempo di Gesù. Qui
l' uomo dotato di occhi, cuore e voce, non divisibile in corpo e anima, bensì
esistente come un tutto, si muove tra due campi esterni. Il primo, che chia­
miamo qui di seguito Esterno l, è il mondo visibile, in cui esistono altri
uomini e tutto il cosmo percepibile. L' altro esterno è il mondo invisibile,
che chiamiamo Esterno II. Si tratta infatti di una seconda zona della realtà
esterna all' uomo, non di un mondo presente nel suo intimo. Questo mondo
invisibile non è soggettivo, privato o solo immaginato, bensì addirittura
oltremodo reale. Esso è radicalmente distinto dai sogni. Sognare, così si dice
già nel primo giudaismo, è una faccenda dei veggenti e dei profeti pagani, e
le loro affermazioni sono tutte parti della fantasia. Invece per ebrei e cristia­
ni l'Esterno II è la realtà di Dio, e precisamente una realtà immarcescibile. È
Sulla prassi dell 'applicazione 217

possibile vedere questo campo o suoi settori anche con gli occhi normali,
ma spesso esso è descritto così: questo campo diventa accessibile se - per
dirla in termini figurati - ci si volta. Allora si percepisce quel che altrimenti
si ha dietro la schiena.
Questo secondo campo esterno (Esterno Il) è a sua volta diviso in due :
Dio e gli angeli stanno da una parte, satana e i demoni dall' altra, ma distan­
ziati di alcuni gradini in fatto di potere. L' Esterno II non è quindi il mondo
interiore, né consiste in rappresentazioni o in cose che 'bisogna credere ' .
Esso è piuttosto la metà più importante e perenne della realtà. Non c' è biso­
gno di dimostrarne l' esistenza. No, per questi uomini è del tutto chiaro che
gli occhi del cuore sono più acuti di quelli del corpo. Di fronte a questa
realtà delle potenze buone e delle potenze cattive l' unica cosa importante è
sapere su quali di esse si punta, quale nome si invoca. Si capisce che nel
caso di questo Esterno II si tratta tutto sommato di religione, e certo non
solo della religione cristiana e ebraica.
Questo mondo dell ' Esterno II diventa accessibile nel momento della
visione ; allora un veggente profetico può forse percepire il lembo della
veste di Dio. Dal primo all' ultimo libro della Bibbia simili visioni fondano
la fede degli ebrei e dei cristiani. Esse sono viste con gli occhi corporei,
come se il sipario fosse alzato per un momento. Anche la trasfigurazione di
Gesù fa parte di queste visioni.
Oltre alle visioni, che permettono un accesso diretto a questo Esterno Il,
esiste una specie di zona intermedia tra Esterno i e Esterno Il, in cui l'Ester­
no II influisce sul mondo visibile. In questa zona intermedia esistono imma­
gini, parabole, potestà, miracoli, inviati da Dio, la fede e la preghiera. Essi
costituiscono altrettante possibilità dell' Esterno II di influire sull' Esterno L
Con ciò non pensiamo naturalmente ad alcun soprannaturalismo, in cui due
mondi starebbero l' uno accanto all' altro e per i quali esisterebbe poi una
zona in cui essi si sovrapporrebbero. Il vantaggio della nostra distinzione tra
'visibile' e 'invisibile' sta piuttosto nel fatto che essa riguarda l' esperienza.
Si tratta infatti di un' esperienza particolarmente qualificata e trasparente
(nei confronti dell' Esterno Il) e non dell' influsso di un campo sull ' altro. A
motivo di questa struttura dell' esperienza succede che i compagni di Paolo
non vedono nulla quando egli ha la visione della sua conversione . - Al
riguardo non va tuttavia dimenticato un effetto fondamentale dell' invisibile
Esterno II: la creazione. È importante. vedere questo, perché le immagini, le
parabole e i miracoli, anzi anche l' Inviato di Dio e la sua potestà hanno
qualcosa a che fare con la creazione. Ciò riguarda, da un lato, il potere crea­
tore. L'Inviato di Dio è infatti, per esempio secondo Paolo, secondo il van­
gelo di Giovanni e secondo molti altri testimoni, il «mediatore della creazio-
218 terza parte

ne» ; «per mezzo di lui tutto è stato fatto». E a proposito della fede Gesù dice
che essa può spostare le montagne, che essa ha cioè un potere creatore. Di
conseguenza la fede può anche guarire colui in cui essa si trova. E le parole
di Gesù sono parole potenti come la parola creatrice. I miracoli sono atti
creatori. Il fatto che il potere di creare riluca nei miracoli non significa che
esso non sorregga continuamente di nascosto anche l 'Esterno l.
Dall ' altro lato l ' influsso dell ' Esterno II sull ' Esterno I riguarda anche
l' ordine della creazione. La creazione è infatti, come l ' uomo può vedere
osservandola, una realtà ordinata con cura e in maniera grandiosa, natural­
mente ordinata anche i n modo rigoro s o e addirittura tras gredibile
(dall' uomo). I miracoli ripristinano qualcosa dell' ordinamento della creazio­
ne nel senso del primo mattino del paradiso terrestre, e in modo simile ope­
rano le parabole: di fronte al mondo visibile spesso sconfortante (Esterno I)
brilla a volte una realtà nuova e diversa, in cui poi il padrone serve addirittu­
ra lo schiavo fedele e in cui il padre abbraccia il figliol prodigo, anziché
condannarlo. La funzione terapeutica delle parabole sta nel fatto che esse
offrono agli uomini incerti , preoccupati e pieni di aspettative ' storie'
dell' inizio e della fine. Ad esempio la storia del lievito, che all' inizio è insi­
gnificante, ma che alla fine avrà fatto fermentare tutta la pasta. In modo
simile la preghiera comunica, con la ripetizione di formule fatte o anche di
modi prestabiliti di comportarsi con Dio, un frammento dell' ordine della
creazione e induce l' uomo a inserirsi in esso.
Gesù opera guarigioni e parla in parabole per influire beneficamente con
le une e con le altre, in certo qual modo parallelamente. E nella preghiera
personale notturna partecipa direttamente al mondo dell ' Esterno II e attinge
forza da esso.
Condizione di questa partecipazione non è naturalmente il fatto che uno
la voglia, bensì il fatto che uno è una sola cosa con Dio (o anche con gli
uomini). Questa unione con Dio si chiama, ad esempio, fede. Chi infatti
costruisce con la fede su Dio e punta su di lui, è una sola cosa con lui. Per
questo valgono poi le promesse che la fede, piccola anche solo come un gra­
nello di senape, possiede la potenza creatrice di spostare alberi e montagne
o di guarire malati. E poiché Gesù è una sola cosa con Dio, Dio lo risuscita.
La risurrezione di Gesù in quanto miracolo va vista alla luce della sua unio­
ne con Dio. E le stesse azioni mirabili le possono compiere anche gli uomi­
ni, qualora essi siano una cosa sola tra di loro o concludano fra di loro la
pace. Allora la loro preghiera sarà esaudita, allora essi potranno spostare
montagne. L'unione vale però anche come condizione per operare in allean­
za con la parte avversa, perché nel caso di Gesù i suoi avversari si domanda­
no se egli cacci i demoni «in Beelzebub». Questa 'unione' ha quindi due
Sulla prassi dell 'applicazione 219

aspetti: a) quello della partecipazione (a Dio o a Beelzebub); b ) quello della


riproduzione dell ' unione con Dio (tra gli uomini). - Nell' immagine del
mondo del Nuovo Testamento qui delineata l' unione, la pace con gli altri,
l' essere inseparabili hanno perciò addirittura un' importanza magica e una
potenza creatrice miracolosa.
E se questa regola vale anche per gli uomini, allora qui si tratta addirittura
di un avamposto dell' Esterno II nel mondo visibile. Se gli uomini fanno qui
pace, se riesce loro di compiere quest' unica, preziosissima cosa, allora
anch'essi dispongono dello stesso potere creatore di Dio. Ovunque l'unità di
Dio venga anche solo raffigurata, lì egli fa dono della sua potenza creatrice.
Qualcosa 'di simile succede con il perdono: gli uomini, quando si perdo­
nano a vicenda, costringono anche in certo qual modo Dio a perdonare. In
ogni Padre nostro diciamo questo: «Rimetti a noi i nostri debiti, perché (e
come) noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori». Dio non è qui un lontano
direttore generale, ma stravede, come si dice, per la pace e la riconciliazio­
ne. Se uno si riconcilia, può, come dice Gesù, danzare come vuole con la
sua potenza creatrice (Vangelo di Tommaso 48). Nello stesso tempo Gesù dà
così a vedere qual è per lui la cosa più importante: credere in Dio e costruire
su di lui per fare la pace. Il motivo di ciò non è la commozione morale, ben­
sì sta nel fatto che anche Dio è uno e vuole l' unità e l' unione. Specialmente
il vangelo di Giovanni mette chiaramente in evidenza questo principio: se i
discepoli sono una cosa sola tra di loro, allora gli uomini potranno ricono­
scere da ciò la gloria di Dio, esattamente come poterono vederla guardando
i m.iracoli di Gesù.
Dio, questa è l' idea di Gesù, suscita la fede in colui che lo ascolta. Egli ha
trasmesso la propria potenza creatrice direttamente alla fede e la fa parteci­
pare alla propria potenza sanante. La grande differenza rispetto a Giovanni
Battista sta nel fatto che, nel caso di Gesù (e di Paolo), Dio opera allo stesso
modo nel predicatore e nel destinatario del messaggio: nel predicatore con
la sua potestà, nell' uditore della parola con la potenza della fede che dona
direttamente.
Risultato: Gesù opera con le sue parabole in modo simile a come opera
con i miracoli. Con le une e con gli altri egli comunica al mondo dubbioso e
lacerato (Esterno l) un frammento della 'pace' di Dio. La malattia e il male
in generale appaiono qui come mancanza di un ordine salutare. Ogni fram­
mento di 'pace' (eb. shalom) ha un significato vittorioso e capace di supera­
re tutto. In questo senso nelle lettere degli apostoli del Nuovo Testamento la
morte di Gesù viene poi concepita come fondazione della pace tra Dio e
l' uomo. Gesù comunica l' ordine salutare di Dio attraverso le più diverse
vie, una delle quali è la sua interpretazione della legge.
220 terza parte

Un' importanza attuale hanno diversi di questi elementi, e accanto alla


nostra immagine 'moderna' e tecnica del mondo e al di là di essa è precisa­
mente rimasta viva una serie di esperienze dell' Esterno II, per esempio nelle
entità festa, tabù, benedizione, preghiera, inno, santità e nell' attesa di segni
e segni premonitori. Ciò succede ovunque la realtà non sia concepita nel
senso dell' intelletto tecnico e nel senso delle leggi naturali o della sua utiliz­
zabilità puramente pratica. Ciò succede ovunque la realtà non sia stretta­
mente e subito allontanata dal suo centro e mistero, bensì stia in vario grado
vicina. a Dio e possegga perciò anche una diversa forza e potenza. Non è
quindi vero che tutta la realtà scorra in modo uniforme e secondo leggi sem­
pre uguali della natura. La stessa cosa succede con la storia: non ogni epoca
è ugualmente lontana da Dio. E questo non è vero neppure per gli uomini,
perché dove c'è pace e dove essi sperimentano la forza e l' ordine salutare
dell'Esterno II, lì Dio è più vicino. E chi entra in una 'scuola' scoprirà che
anche il campo dell' Esterno II è diviso in due, in cose che portano bene e in
cose che sono pericolose.

CONSEGUENZE ERMENEUTICHE92

l . Non è cosa giusta identificare il campo Esterno II semplicemente con


la psiche umana. Nel caso dell' Esterno II, di cui qui parliamo, non si tratta
infatti delle esperienze psichiche del singolo. Qui vengono sperimentate
altre potenze, il soggetto non sperimenta solo e sempre se stesso.
2. Nella visuale antica e neotestamentaria l 'Esterno I e l'Esterno II non
rimangono tra loro contrapposti; il messaggio diretto di questi testi è quello
della potenza miracolosa dell'unità e della pace. Se la fede, quale dono di
Dio, è considerata una specie di unità e di pace, allora questo è un contribu­
to importante per la questione della riconciliazione del mondo.

92 Il paragrafo che segue è in buona parte una citazione da K. BERGER, Wer war Jesus wirklich ?,
Stuttgart 1998'.
Sulla prassi dell 'applicazione 22 1

LA TERZA VIA

La concezione qui proposta deve essere una terza via tra il fondamentali­
smo e il razionalismo. - Le considerazioni a questo riguardo sono maturate
tra il 1 994 e il 1 997, negli anni che erano dominati dal dibattito sulle tesi di
G. Liidemann, teologo di Tubinga, circa la risurrezione, i miracoli e tutto il
campo dei testi 'mitici' della Bibbia. Allora divenne chiaro che l' ermeneuti­
ca tradizionale è più o meno riducibile ai due gemelli che portano il nome di
fondamentalismo e di razionalismo.
Questi due sistemi, come abbiamo visto, non hanno solo la stessa conce­
zione dei fatti, ma sono anche animati da un pathos molto simile. Il fonda­
mentalismo sottolinea l ' obbedienza, lo scandalo, il caparbio 'tuttavia' della
fede, la lettera della Scrittura, la corporeità ineliminabile. Il razionalismo
sottolinea l' onestà, la necessità di venire a patti con la ragione, l ' attenzione
pastorale per quei molti che non possono credere alla lettera.
La crisi attuale delle chiese è anche una crisi dell' ermeneutica, perché
essa non riesce a comunicare nel modo giusto i temi religiosi centrali (realtà
di Dio, risurrezione di Gesù, futuro del mondo). E il modo in cui si è fatto e
si fa esegesi non è privo di colpe per lo stato delle chiese.
La terza via qui da esporre vuole essere un contributo al dibattito circa il
cambiamento di questa situazione. Come terza via essa presenta le seguenti
caratteristiche:
l . Evita la collisione con la ragione (ratio ), senza tuttavia ridurre il mes­
saggio alla misura della ragione, e raggiunge questo risultato collocando le
affermazioni 'mitiche' su un altro piano, sul piano di una realtà dotata di
propri criteri e di una propria logica.
2. Mette al centro questo aspetto: nei fatti 'mitici ' si tratta sempre di un
incontro molto ravvicinato con la realtà stessa di Dio, una realtà che è
governata da proprie leggi e che non obbedisce semplicemente al sistema
delle regole della ragione.
Non che qui qualcuno conosca esattamente Dio. I fenomeni 'mitici' sono
tuttavia forme di incontro con le potenze del mondo invisibile, che deve
avere qualcosa a che fare con la realtà di Dio, come racconta la Bibbia.
3. Non si tratta di sottrarre qualcosa ai testi biblici che parlano della cor­
poreità. Solo che, secondo la concezione della Bibbia, il corpo è una realtà
molto complessa e non !imitabile appunto ai dati · clinici. Se il corpo è in
linea generale l' organo del contatto con la realtà, allora proprio il modo in
cui esso è percepito e in cui qualcosa produce per suo tramite un effetto è
d' importanza decisiva.
222 terza parte

4. La qualificazione di 'mitiche ' , data a certe affermazioni dalla scuola


bultmanniana, suona sempre come una specie di svalutazione, è quasi sino­
nimo di 'favole' o di 'non reale' . Per evitare questo fraintendimento, ora che
passiamo ad esporre la nostra concezione, useremo da qui in avanti il termi­
ne 'spirituale' . Con esso indichiamo semplicemente la peculiarità di una
zona della realtà, i cui distintivi cercheremo di descrivere meglio.
Per spiegare quanto intendiamo dire, utilizziamo anzitutto un' immagine,
l' immagine di diverse porte: ci troviamo in una casa di vecchia costruzione
a più piani. Chi si è lasciato alle spalle la porta d' ingresso, si trova in un pic­
colo vestibolo, da cui si dipartono quattro porte in diverse direzioni e condu­
centi in diversi ambienti.
Una prima porta immette nella realtà scientifico-tecnica. Qui valgono la
prova e l'esperimento. Nessuno vorrebbe mancare questa realtà. Pure la cri­
tica storica dell' esegesi biblica fa parte di questo settore. Essa è scienza per­
ché e in quanto descrive qualcosa di dimostrabile. Per esempio, è possibile
dimostrare che l'espressione 'regno di Dio' ha in Gesù un significato simile
a quello che essa aveva nel giudaismo e un significato diverso da quello
attribuitole nel secolo XIX. In questo senso la teologia nelle università non è
un controsenso o un corpo estraneo. Un professore non è infatti un profeta o
viceversa.
Una seconda porta immette nel mondo della sapienza. Di questa fanno
parte proposizioni come le seguenti: le bugie hanno le gambe corte, chi ad
altri scava una fossa non di rado vi cade per primo. Una gran parte della
Bibbia, soprattutto dell' Antico Testamento, è una sapienza di questo tipo.
Gli autori biblici non ebbero paura di adottare semplicemente e a piene mani
la sapienza che trovarono nel loro ambiente circostante, come fece ad esem­
pio il Libro dei proverbi con l' Egitto. Nella sapienza dell' Oriente, cui vanno
ascritte alcune parti della B ibbia, sono sedimentate esperienze di molti seco­
li come altrettanti strati geologici. Le nostre idee morali poggiano in gran
parte su di esse. Infatti anche all' interno della Bibbia esistono strette relazio­
ni tra i comandamenti (e i divieti) e le sentenze sapienziali. Questa è senza
dubbio una realtà particolare. Nulla può essere qui dimostrato. Conta solo
un'esperienza lunga e che rende saggi. Essa conduce a 'valori esperienziali'
nel doppio significato dell'espressione.
Una terza porta immette nella realtà dell' arte. Qui si tratta della musica,
della poesia, della pittura e della scultura, nonché della capacità di ogni sin­
golo di parlare del proprio cuore e con «il cuore in mano» in modo tale da
raggiungere e commuovere altri. - Una sinfonia di Beethoven non è 'falsa'
o 'indimostrabile' , ma una realtà di tipo particolare nel «regno delle forme».
Questa realtà è collegata al quarto campo.
Sulla prassi dell 'applicazione 223

Questa quarta porta immette nella realtà del religioso o dello spirituale.
Chiamo 'spirituale' un' esperienza della realtà, in particolare di una forza,
che non è regolata dalle leggi naturali. La regola fondamentale dello spiri­
tuale si chiama concentrazione: si tratta di una realtà, potenza o tempo con­
centrato, in modo simile a quello che conosciamo come 'presenza di spiri­
to' . Questa realtà non opera sorprendendo e sconvolgendo solo nel caso del
miracolo e riesce spesso a commuovere il cuore.
Qui vigono regole specifiche e una logica particolare. Non si procede
i nfatti in modo semplicemente 'irrazionale ' . Il fatto di percepire questo
campo della realtà è, a mio avviso, d'importanza decisiva per il futuro del
cristianesimo come religione. Nella misura in cui tale campo è anche oggi
ancora accessibile, si diparte da qui un ponte per comprendere i racconti
biblici di miracoli. I miracoli sono 'spirituali ' nella loro origine, perché nel­
la triplice costellazione fatta di taumaturgo - destinatario del miracolo - Dio
si perviene a una strabiliante esperienza della potenza.
Il punto ermeneutico di aggancio per una applicazione 'oggi' sta nel fatto
che pure oggi facciamo una serie di esperienze spirituali. Si tratta di feno­
meni a cui ci possiamo rifare, non di verità di fede. Tali fenomeni sono:
l . Guaritori del terzo mondo e guaritori delle nostre latitudini, i cui suc­
cessi non sono spiegabili con il principio di causalità.
2. La benedizione liturgica, ove la parola benedicente quale parola poten­
te crea realtà. Qui rientrano anche la preghiera di intercessione e le preghie­
re potenzialmente di tipo esorcistico.
3. La presenza reale nella cena del Signore o - in modo diverso - nelle
icone.
4. Le feste e i tempi sacri. La festa significa presenza spirituale dell' even­
to celebrato (teologia dei misteri).
5 . La presenza 'ricordata' di più eventi in un determinato giorno (notte di
Pasqua/notte di P a s s ah come pre senza della creazione della luce,
dell' alleanza con Abramo, della fuga dall' Egitto, della risurrezione di Gesù,
del ritorno o avvento del Messia).
6. Concentrazione di eventi in una persona (lo sono uscito con Mosè
·

dall' Egitto, sono stato gasato a Auschwitz . . . Ezer Weizmann nel 1 996 al
Bundestag tedesco, secondo Die Zeit, relazione gen. 1 996).
Comune a tutte queste percezioni è il fatto che la realtà non è qui contrad­
distinta dalla causalità. Tuttavia i 'successi' sono a volte visibili . Così il suc­
cesso di una guarigione è a volte visibile a uomini che non sono convinti di
questo tipo di medicina spirituale. Altre esperienze spirituali non sono chia­
ramente sperimentabili da tutti o comunque non da tutti gli interessati allo
stesso modo, cosa che vale ad esempio per le visioni, per la cui percezione
224 terza parte

bisognava essere amici (discepoli) o nemici (Paolo). Nel caso delle guari­
gioni si presuppone addirittura una aspettativa positiva. Per questo, secondo
Mc 6,5 , Gesù non poté compiere guarigioni nella propria patria, perché que­
gli uomini «non si aspettavano nulla da lui» .
S e c i ponessimo dal punto d i vista della prima porta e riconoscessimo tut­
tavia la validità della quarta porta, potremmo distinguere tra fatti 'solidi' e
fatti 'morbidi' . I fatti 'solidi' sarebbero quelli che, in base al risultato, sono
visibili e constatabili, anche se la loro origine rimane inspiegabile in base al
punto di vista della prima porta. I fatti 'morbidi' sarebbero quelli che sono
percepiti solo all' interno dello spazio dischiuso dalla quarta porta.
Risultato ermeneutico: in questo modo non disponiamo solo di ponti per
comprendere i testi neotestamentari , bensì riscopriamo e prendiamo
coscienza di un campo tuttora esistente di esperienze spirituali.

ELEMENTI COMUNI DELLE VARIE ESPERIENZE SPIRITUALI

Domandiamoci: possiamo trovare un denominatore comune per le diverse


forme, qui menzionate, di percezione spirituale ancora oggi accessibile e poi
gettare da qui dei ponti verso il miracolo?
Comune ad esse è il fatto che il flusso regolare del divenire viene interrot­
to. Né tutto ciò che è reale è in egual modo lontano da Dio; esiste una realtà
(persone o cose) che è a lui vicina, e una realtà che è da lui lontana. Le dif­
ferenze spaziali e temporali sono eliminate, e si verifica una condensazione,
una concentrazione della realtà, che la Bibbia chiama ' santità' . - Nel lin­
guaggio spirituale ricompare la forza concentrata della parola della creazio­
ne, come nel caso delle parole potenti di Gesù operanti miracoli. - Nel caso
della benedizione viene eliminata la distinzione tra semplice opinione (pen­
siero) e fatto. - Nel caso dell'esperienza spirituale del tempo in seno alla
festa viene spazialmente e temporalmente eliminata la differenza tra l' even­
to originario e la sua commemorazione, i due sono «raccolti in un unico
evento». - Nel caso della personalità spirituale diverse persone sono presen­
ti in una sola persona. - Nel caso dell' esperienza spirituale dello spazio un
luogo (o oggetto) diventa, grazie alla attualizzazione di uno altrimenti
as sente , un luogo ' sacro ' . - Infine, nel caso dell ' esperienza spirituale
dell' ordine, le diverse regole delle singole tappe del ciclo sono sperimentate
come un'unità complementare e reciprocamente integrantisi.
Le esperienze spirituali non sono quindi semplicemente irrazionali, bensl
seguono una propria logica.
Sulla prassi dell 'applicazione 225

CONSEGUENZE PER I MIRACOLI

Il ponte verso il Nuovo Testamento, verso i miracoli di Gesù, verso la sua


nascita ad opera dello Spirito Santo e verso la sua risurrezione, verso la fede
che sposta le montagne e guarisce chi la possiede, sta in questo:
In continuazione si tratta, nel Nuovo Testamento, della partecipazione
alla potenza creatrice di Dio; per questo Gesù, il portatore della parola
potente, è detto il mediatore della creazione. Punti di aggancio sono perciò
locuzioni 'performative' , quali anche oggi vengono compiute e sperimenta­
te, come ad esempio nel caso della benedizione.

DIVERSIFICAZIONE DAL FONDAMENTALISMO

Alla posizione qui esposta93 viene spesso obiettato (da rappresentanti del­
la scuola bultmanniana) di essere 'fondamentalistica' . Ma si tratta di un
grossolano fraintendimento: quanto alla loro causa e, in parte, anche quanto
al loro effetto i fenomeni spirituali non sono parte costitutiva di una realtà
solo unidimensionale e misurabile in base a regole e criteri collaudati dal
punto di vista delle scienze naturali e dal punto di vista storico-critico. Que­
sto significa: qui siamo di fronte - dal punto di vista della prima porta - a un
carattere di realtà gradualmente 'massiccio' .
Mentre i fondamentalisti s i attendono che il Gesù apparso a Pasqua non
sia altri che il Gesù rianimato così com' era prima, qui si ritiene che, nel caso
di queste apparizioni, deve essersi trattato di una corporeità trasformata di
Gesù nel senso della quarta porta, perché con un corpo ordinario non si pas­
sa attraverso una porta chiusa ( Gv 20), né si scompare improvvisamente (Le
24) . La dimensione della trasformazione va fatta cominciare già prima di
Pasqua in occasione della trasfigurazione e del cammino sulle acque. - E la
corporeità trasformata è una categoria tipicamente spirituale.
'Trasformazione' significa qui anzitutto: diventare diverso, e precisamen­
te diverso dalla realtà in cui valgono in misura piena le leggi dello spazio e
del tempo. Tutte le visioni e trasfigurazioni poggiano su questa diversità. Si
tratta indubbiamente di corporeità, ma il corpo non è un meccanismo, per

., Cfr. al riguardo maggiori ragguagli in K. BERGER, Darf man an Wunder glauben ?, Stuttgart
1 996.
226 terza parte

cui vale qui in modo particolare l' affermazione che il corpo umano è, dopo
Dio, il più grande mistero.
Per questo tipo particolare di corporeità trasformata valgono poi anche
determinate regole, che valgono altrimenti per lo spirito, così per esempio il
fatto che attraverso la condivisione esso aumenta («una gioia condivisa è
una più grande gioia»).
Per il fondamentalismo e per il razionalismo la fotografabilità è il criterio
decisivo. Ma chi dice: «Tutto fu precisamente così», misconosce il fatto che
il verbo 'fu' possiede una diversa dimostrabilità a seconda della porta scelta.
Mentre il fondamentalismo pensa a una ovvia produzione di miracoli e la
fonda semplicemente sull' 'onnipotenza' di Gesù (o sulla fede dei cristiani),
la 'realtà' della quarta porta è in alta misura una realtà relazionale (cfr. sopra
a proposito di Mc 6,5) e fondamentalmente distinta da quella della prima
porta. Si tratta perciò solo in piccola parte di fatti 'oggettivi' ( ' solidi ' ) e
piuttosto di eventi 'relazionali' (con conseguenze). Con questo i fatti non
sono 'soggettivi' .
Diversamente da come suppone il fondamentalismo, il potere di compiere
miracoli non è sempre l' unica via per guarire qualcuno. Nel nostro schema
vengono piuttosto riconosciuti la coesistenza e lo specifico diritto di ogni
zona della realtà. Perciò in esso non si punta «tutto su una carta», bensì io
penso a una complementarità delle vie di accesso alla realtà (la qual cosa
include anche il fatto che una via non può mettere sotto tutela un' altra via) e
a una interdisciplinarità nel modo di procedere.
I miracoli non sono necessariamente causati né dalla qualità delle perso­
ne interessate ( 'Figlio di Dio' ), né come prodotti della fede, né la fede in
essi è ottenibile con la forza. I fatti, di cui parlano le scienze naturali, sono
divenuti necessariamente (causalità) e vanno perciò necessariamente accet­
tati. I miracoli posseggono, sotto questo punto di vista, maggiori tracce di
libertà. Quanto alla loro provenienza essi sono figli della grazia, quanto alla
loro accettazione dipendono dal fatto che uno si occupi in linea generale di
questo campo .
I miracoli non sono perciò riproducibili o esigibili a piacimento, e va
respinto per questo motivo il motto spesso ricorrente: «Chi non riesce a fare
miracoli, non crede a sufficienza» . Nel settore in cui immette la quarta porta
non vige l' immagine aristotelica del mondo con una struttura teleologica,
immagine secondo la quale un' azione viene compiuta per un determinato
scopo e ogni effetto è il risultato di una causa efficiente. Qui vale piuttosto
la proposizione: «Il bene si diffonde» (bonum est diffusivum sui), cioè: esso
irradia, si dà a profusione. Quindi non: «lo voglio operare dappertutto un
miracolo» (e rispettivamente: «Devi credere in ogni circostanza ai miraco-
Sulla prassi dell 'applicazione 227

li»), bensì: «La piena potestà vuole comunicarsi prodigalmente». La peris­


séia, la sovrabbondanza, è una categoria messianica. La prodigalità non per­
segue alcun fine egoistico, è puro dono.

RISULTATO POSITIVO DEI RACCONTI DI MIRACOLI

Facciamo sicuramente bene a non prendere come criterio quei racconti di


miracoli che, nella loro qualità di casi facili da spiegare sotto il profilo psi­
cosomatico, sono da sempre considerati storici. Del resto il Nuovo Testa­
mento non conosce alcuna distinzione tra racconti 'difficili' e racconti 'spie­
gabili' di miracoli. Partire da casi 'facili' e dichiarare non storici quelli diffi­
cili è cosa, secondo me, del tutto ingenua dal punto di vista ermeneutico. In
questo modo non si riconosce ancora affatto il problema della estraneità e
della 'distanza storica' . Un miracolo come quello della 'moltiplicazione dei
pani ' non è spiegabile e non deve poter essere spiegato. Perché dovrebbe
mai essere spiegata una cosa come l' incontro con Dio? La Bibbia dice o
presuppone mai da qualche parte che l' agire di Dio va dichiarato razionale
per essere accettato? Stando a quanto conosciamo, esistono qui due criteri,
che nella predicazione cristiana primitiva erano molto seguiti: a) il principio
della sovrabbondanza messianica (cfr. anche le nozze di Cana) e b) la libertà
da ogni preoccupazione vissuta in modo esemplare da Gesù fino alla morte.
Questo spiega perché, ad esempio, la moltiplicazione dei pani sia collocata
dopo la predicazione dottrinale di Gesù (secondo Mt 6,33: «cercate prima . . .
e tutte queste cose v i saranno date i n aggiunta») e perché essa sia collegata
con il cammino sulle acque, che dimostra appunto similmente - a differenza
del comportamento di Pietro - la mancanza di preoccupazione da parte di
Gesù. Queste non sono naturalmente delle spiegazioni dei miracoli, ma allu­
sioni trasversali allo stile di vita di Gesù e al contesto prossimo, in cui sono
tramandati racconti di questo genere. I miracoli rappresentano qui il lato
concretamente sperimentabile della salvezza. Come molte altre azioni di
Gesù, anch' essi hanno il carattere di simboli reali, cioè specialmente i mira­
coli riproducono l' azione escatologica di Dio.
Importante è, inoltre, il fatto che i racconti di miracoli non sono né
vogliono essere di per sé oggetto della fede, bensì esperienze utili che allu­
dono al senso complessivo della predicazione di Gesù. Pure sotto questo
aspetto si tratta di allusioni trasversali.
228 terza pane

SULL' INTERPRETAZIONE DI AFFERMAZIONI APOCALITTICHE

Pure l ' interpretazione delle affermazioni apocalittiche è particolarmente


difficile. Dobbiamo prendere tutto alla lettera? O dobbiamo interpretare tut­
to solo in senso simbolico e allegorico, per cui tutto sta unicamente in rap­
porto con la fede?
Gli stessi testi danno qualche indicazione circa il modo in cui essi vanno
interpretati? Sotto un certo aspetto è possibile rispondere di sì. L'Apocalisse
di Giovanni mostra di seguire, nel suo modo di trattare le tradizioni 'della
Scrittura' , cioè del nostro Antico Testamento, una prassi decisamente tipolo­
gica. Ciò significa: Gezabele, Balaam e Babilonia (Tiro), le piaghe d' Egitto
e l' evento dell ' esodo e, in particolare, il libro di Ezechiele sono usati come
documenti tipologici per identificare con essi entità contemporanee e quali­
ficarle teologicamente. Pure nella storia dell' applicazione si è di continuo
proceduto in questo modo. Così le 'sette teste' (Ap 1 7,9) sono state di conti­
nuo identificate in modo nuovo (per es., con Bisanzio e poi con Mosca).
Pure la 'bestia' di Ap 1 3 e la sua guerra contro i santi fu di continuo usata
come documento per classificare apocalitticamente eventi contemporanei.
Questa tecnica è conforme alla Scrittura in quanto è stata utilizzata dalla
stessa Apocalisse di Giovanni. Dobbiamo però domandarci se sia possibile
continuare tranquillamente a utilizzarla in un' epoca dallo spirito storico-cri­
tico e se essa vi possa essere accettata. Dobbiamo cioè chiederci: dobbiamo
ritenere realmente come canonici i metodi usati, per esempio, dal veggente
Giovanni per interpretare la Scrittura (l' Antico Testamento)? Lo possiamo
sicuramente fare per quanto attiene il fatto che il veggente Giovanni si astie­
ne da dirette identificazioni . · S olo con grande fatica possiamo dire, per
esempio, che egli con le immagini di Tiro e Babilonia pensa a Roma. Egli
evita perciò proprio ciò che gli interpreti fondamentalistici volentieri fanno.
A differenza da come fanno costoro, le funzioni permanenti nel dramma
della storia della salvezza sono come costumi nel teatro, che possono essere
indossati da sempre nuovi attori . Per cui non possiamo dire: «X è l' anticri­
sto», bensì solo: «X si comporta come Tiro e Babilonia» ed è perciò destina­
to ad essere annientato. Solo il punto finale è unico e rimane identico a se
stesso. Prima viene una molteplicità di protagonisti che svolgono quel ruolo.
Spesso ci si domanda: le visioni, per esempio le visioni dell' Apocalisse,
non sono appunto in quanto tali in certo qual modo «rivelazioni di prima
classe)) , per cui sono in ogni caso e assolutamente valide ? - A questa
domanda dobbiamo rispondere di no. La successiva storia della chiesa è
strapiena di visioni. Solo chi non lo sa può arrivare a pensare che le visioni
Sulla prassi dell 'applicazione 229

siano mezzi particolarmente privilegiati della rivelazione. In realtà già nel


Nuovo Testamento le visioni sono soltanto una delle vie paritetiche della
rivelazione. Perfino riguardo a Gesù ci sono tramandate solo poche visioni.
La terza via tra fondamentalismo, da un lato, e riduzione razionalistica,
dali' altro lato, deve qui guardare in modo particolare alla dimensione della
storia. L' apocalittica è un' interpretazione della storia. I testi apocalittici non
sono delle divinazioni, né sono semplici illustrazioni della fede, ma parlano
della storia reale.
A motivo di questa decisione di fondo mi sembra perciò che occorra
seguire le seguenti regole ermeneutiche nell' interpretazione di testi apocalit­
tici:
l . In base alla loro origine i testi apocalittici sono una critica di qualsiasi
ideologia politica dell' onnipotenza. Essi parlano contro il conformismo
richiesto dai detentori terreni del potere e contro il livellamento. Sotto il
profilo positivo essi cercano di salvaguardare i tratti giudaici del cristianesi­
mo primitivo.
2. Le apocalissi si concepiscono come una proiezione del primo coman­
damento sul piano temporale e dicono: al termine di tutte le cose e i giorni
Dio sarà più manifesto di quanto è adesso. Dio è in tutti i tempi signore del­
la storia.
3. Le apocalissi non spingono a sbirciare nel futuro, ma non Impediscono
di farlo. Le immagini che accumulano in maniera in parte surrealistica
ostruiscono addirittura il 'cannocchiale' . Perciò esse sono più un 'caleido­
scopio' che un 'cannocchiale' . Anziché tacere del futuro, presentano imma­
gini che spiegano la realtà di Dio. Non speculano, ma operano - come il
caleidoscopio - con oggetti colorati sempre uguali, che sono noti dall' agire
di Dio.
4. Le apocalissi mostrano una cosa: poiché la sofferenza, il dolore, il
potere e tutte le cose del mondo sono assai limitati, non può risiedere in essi
l' ultimo senso.
5. Le apocalissi sono nate dalla negazione e dal ferimento. Esse hanno
negato tutto ciò che, a motivo della propria somiglianza con la salvezza,
voleva dar ad intendere di essere già esso stesso la salvezza. Costitutivo è
perciò sempre il principio dello scimmiottamento diabolico seguito dalla
parte avversa. Il ferimento da parte dei detentori del potere può essere cor­
poreo (fino al martirio) o anche religioso. - Questo significa: la politica non
deve creare la salvezza. L' apocalittica contribuisce sempre al disincanto del­
la politica.
6. L' apocalittica svela sempre ciò che è nascosto, e precisamente in ordi­
ne ali ' andamento da noi predisposto delle cose nel futuro, quindi in ordine
230 terza parte

alle conseguenze che il presente ha per il futuro. Essa non svela perciò delle
cose qualsiasi, ma indica le linee che vanno dal presente alla salvezza o al
giudizio.
7. Le apocalissi cristiane si riferiscono sempre non soltanto a condizioni
future, bensì soprattutto al ruolo del mediatore Gesù Cristo. Secondo i testi
apocalittici egli deve ancora svolgere il ruolo decisivo, che consiste nel sal­
vare dall' ira di Dio, nel vincere l' inferno, la morte e il diavolo e, poi, nella
fondazione della comunità salvata. In altre parole: qui diventa essenziale
quel che ancora deve accadere. Il ruolo di Gesù non è ancora stato svolto
sino in fondo.
8. Può certamente essere cosa ragionevole scuotere di nuovo il caleido­
scopio, cioè scrivere nuove apocalissi con le vecchie immagini o anche con
nuove immagini applicate. Tuttavia non bisognerebbe progettare alla luce
del passato, bensì - come avvenuto nell' Apocalisse di Giovanni - alla luce
del punto finale.
9. L' apocalittica ha qualcosa a che fare con la pedagogia, cerca cioè di
guidare con comprensione ogni singolo ad attivare la propria fede in corri­
spondenza delle proprie paure o speranze.

PERSONAGGI INVISIBILI: ANGELI, DEMONI, DIAVOLO

L' insicurezza in questo campo è quasi ancor più grande che nel paragrafo
precedente. Infatti, con l' aiuto della costruzione di una 'escatologia' , era
perlomeno ancora possibile trarre profitto dalle affermazioni apocalittiche
per delineare delle categorie come quella di una 'esistenza escatologica' .
Invece questo non è facilmente possibile nel caso degli angeli, dei demoni e
dei diavoli. Ma una considerazione più attenta mostra che il problema prin­
cipale sta nella traduzione del concetto di persona. Per il Nuovo Testamento
queste potenze sono persone con un nome, agli uomini moderni riesce inve­
ce difficile estendere tanto il concetto di persona, che nel frattempo è stato
linguisticamente definito in modo assai rigoroso. Possiamo tuttavia osserva­
re che le 'potenze buone' di Bonhoeffer sono accettate, malgrado lo scettici­
smo generale nei confronti degli angeli94• L' importanza religiosa pratica di
queste potenze sta, per la concezione biblica, nella possibilità di raggiunger­
le mediante la parola (esorcismi, inni), e qui disponiamo anche di correzioni
neotestamentarie (Gd 9; Co/ 2).

94 Cfr. al riguardo K. BERGER, Wozu ist der Teufel da ?, Stuttgart ]998 .


GUARDANDO AL FUTURO

Il dibattito deve proseguire sui punti seguenti:

Recenti sviluppi dell 'ermeneutica, specialmente negli USA

Bibliografia: J. DERRIOA, Text und Interpretation, 1 984; Io., Die Schrift und die
Differenz [trad. it., La Scrittura e la differenza, Einaudi, Torino] , in Io., Gesetzes­
kraft, 1 99 1 ; Io., Aporien, 1 998; S. FrsH, fs there a text in this class ? The authority
of interpretative communities, London 1 980 [trad. it. , C'è un testo in questa classe ?
L 'interpretazione nella critica letteraria e nell 'insegnamento, Einaudi, Torino
1 987] ; A. THISELTON, New Horizons in Hermeneutics, 1 997.

Le recenti concezioni possono essere così riassunte: i testi sono poliva­


lenti, l' opinione di un autore o la sua intenzione sono prive di interesse.
Ogni uomo è piuttosto parte di un evento complessivo, in cui vengono
costantemente decifrati dei codici. L' «interpretazione creativa» è l' ermeneu­
tica del momento. Il singolo uomo può riconoscere i testi in base al proprio
sentimento della vita e utilizzarli per una conferma. Questa lettura, così
spesso intesa come 'semiotica' , ha in comune con la lettura fondamentalisti­
ca della B ibbia la tecnica dell' inserimento nella vita religiosa del singolo.
L' arbitrarietà dell' applicazione è una forma secolarizzata dell' individuali­
smo religioso.
Le differenze rispetto all' enìleneutica qui proposta dipendono soprattutto
da una diversa valutazione dell' autore (principio lealtà) . Il limite della
libertà nell' applicazione è per noi di natura ecclesiologica.
232 Guardando al futuro

Importanza della questione del canone

Bibliografia: U. Luz, Hermeneutik als Theologie ?, in EvTheol 47 ( 1 987) 265-


269; J. SCHROTER, Religionsgeschichte des Urchristentums statt Theologie des
Neuen Testaments ?, in Berliner Theol. Zeitschrift 16 ( 1 999) 3-20; K. BERGER, Ein­
leitung zu: Das Neue Testament undfriihchristliche Schriften, Frankfurt 1999.

Mentre con Ulrich Luz ( 1 987) possiamo rimproverare all ' ermeneutica di
H. Weder di essere solo paolina e non canonica, J. Schroter sostiene di nuo­
vo una rigorosa limitazione della teologia 'neotestamentaria' al canone.
Invece io, nella mia nuova traduzione di tutti gli scritti cristiani primitivi
sino all' anno 200 d.C., ho decisamente rinunciato, anche per quanto riguar­
da la successione degli scritti, alla limitazione al canone. Infatti quel che la
semplice storia della crescita del canone insegna non può essere all' improv­
viso tutto completamente diverso sotto il profilo teologico. E del resto nei
confronti della pretesa di J. Schroter possiamo dire: se esistesse perlomeno
un solo caso di un teologo che prendesse davvero sul serio sotto il profilo
teologico il canone neotestamentario, per esempio, nel senso di una corretta
valutazione di tutto il corpus epistolare postpaolino, già la metà della mia
istanza sarebbe soddisfatta. Nulla vediamo però in realtà di ciò, e neppure J.
Schroter dice come egli vorrebbe attuare un' impresa del genere. A scanso di
equivoci rimando, per la mia concezione della «insostituibilità del canone»,
al primo paragrafo della mia Einleitung sopra citata.

Le quattro porte e l 'unica realtà

Bibliografia: K. BERGER, Darf man an Wunder glauben ?, 1996, 68ss.

Possiamo domandarci: in che rapporto stanno le quattro porte tra di loro?


La realtà non è in fondo una? Che significa allora veramente per la realtà la
contrapposizione tra lo spazio in cui immette la prima porta e lo spazio in
cui immette la quarta? L' invenzione di quattro porte non è una manovra
apologetica diversiva?
Risposta: io non ho cercato tappabuchi apologetici, ma ho voluto indica-
Guardando al futuro 233

re esperienze irrecusabili e, in questo senso, evidenti. Mi rifiuto di ridurre


tali esperienze ad una delle menzionate porte. Per il resto concepisco queste
porte come piste (o cunicoli) che immettono nell' unico mistero della realtà
e affermo : quest' unica realtà è accessibile soltanto attraverso vari varchi.
Veniamo incontro all' intuizione o presagio dell' unica realtà - diversamente
da una coesistenza priva di relazioni dei 'varchi' - anzitutto ammettendo
umilmente per ognuno dei quattro settori i loro limiti e poi affermando che
tra i diversi settori esistono delle relazioni trasversali (per es., tra la musica
e la religione). Alla fine l' unità esiste lì dove la causalità e la non causalità,
il punto e il processo, il bello e il buono sono una cosa sola. Qui l' immagi­
ne di Dio di Nicola Cusano, che parla dell' unità degli opposti, assume una
grandissima importanza pratica per la questione della realtà. Il Cusano ha
anche indicato come questa idea va maneggiata: egli è uno scienziato e un
filosofo, un uomo politico di chiesa e un teologo speculativo, che non
mischia mai questi settori e che osserva le regole di ognuno di essi. Cristia­
na è qui addirittura la radicalità della osservanza delle regole, della indagi­
ne incondizionata e dell ' autolimitazione contemporaneamente. - Questo
vale pertanto anche per l' esegeta che è contemporaneamente anche un cri­
stiano.
Detto in termini più netti: rinunciamo alla costruzione di una realtà totale
nel senso che dovremmo avere o volere una cosa del genere. L'unità della
realtà esiste, ma non è decifrata. Ad essa corrisponde, da parte dell' uomo,
non una costruzione teoretica, ma uno stile di vita e di conoscenza, che rico­
nosce umilmente la pluralità delle vie. L'unità del tutto è presagibile soltan­
to come coincidenza degli opposti. E questo non è un qualcosa di sbiadito o
di approssimativo, bensì il tentativo di tenere onestamente conto di ciò che
si impone come reale.

D problema della verità

Bibliografia: CHR. LANDMESSER, Wahrheit als Grundbegriff neutestamentlicher


Wissenschaft, Ttibingen 1 999.

Nella sua ricerca storica C. Landmesser espone le posizioni attuali da


Bultmann in poi, in modo molto equilibrato anche H. Weder, e afferma che i
miei precedenti lavori ermeneutici non hanno portato alcun contributo al
234 Guardando al futuro

problema della verità' e respinge come insostenibili i criteri formali da me


propostP.
Rispondo brevemente a questa critica tutto sommato dal tono corretto:
troppo frettolosamente la mia concezione della verità biblica (verità come
relazione) viene liquidata come invenzione di R. Bultmann e scambiata con
essa. Se si pone il problema oggettivo, le conseguenze di tipo ermeneutico
che scaturiscono dalla concezione biblica della verità potrebbero essere
molto rilevanti. Questo avrebbe una grande importanza per il valore posizio­
nate delle controversie dogmatiche e per le differenze dottrinali in genere.
Criterio della mia concezione sono il giovanneo «lo sono la verità» e il
«fare la verità» di cui parlano sia Qumran che il vangelo di Giovanni.
La concezione biblica della verità include infatti certamente anche l' orto­
dossia delle affermazioni («È vero che Gesù è risorto dai morti»). Ma queste
ed altre ortodossie stanno nel contesto di una storia, e in questa storia le
affermazioni ortodosse sono soltanto un lato e pure le professioni di fede
soltanto una parte della vita del popolo di Dio.

Gnoseologia teologica e mistica

Bibliografia: K. BERGER, Wie kommt das Ende der Welt?, Stuttgart 1 999.

Io non intendo la mistica nel senso dello stravolgimento degli occhi e


dell ' esclusiva biografia di santi 'comici' . Per mistica intendo un principio

' Cfr. C. LANDMESSER, op. cit. , 389. - Del resto io distinguo effettivamente tra verità scientifico­
esegetica e verità ermeneutica. - La cosa che più delude Landmesser sembra essere il fatto che io
non sviluppo contenutisticamente un credo nell'ermeneutica. lo concepisco in effetti l' ermeneutica
come una dottrina del metodo e non come una dogmatica in breve. La domanda, che suona come
una critica, perché mai, nel caso di un' ermeneutica formale, si debba leggere proprio la Bibbia,
suona in realtà come un autogol: chi vuole trovare in una ermeneutica il motivo per cui deve legge­
re la Bibbia, scambia occasione e causa. Viceversa bisogna chiedere a Landmesser se sia veramen­
te giusto dire che le professioni di fede della chiesa antica siano un 'effetto' di testi neotestamenta­
ri. Al contrario: non i testi creano le professioni di fede, bènsì le professioni di fede sono cristalliz­
zazioni della vita della chiesa. Lex orandi lex credendi!
2 Il modo in cui il criterio paolino deli' oikodomi è giudicato da Landmesser come ermeneutica­
mente inadeguato (pp. 369-372) è sintomatico della sua posizione in generale: la croce e la risurre­
zione di Gesù sarebbero il criterio della <<edificazione della comunità>>. Solo la parola salvante del­
la croce sarebbe il vero criterio contenutistico della verità (p. 37 1). Sotto il profilo esegetico questi
tentativi di Landmesser ben difficilmente potrebbero essere considerati come riusciti.
Guardando al futuro 235

ermeneutico. In questo campo si tratta anche dell' 'unità della realtà' . Come
indicato più da vicino nel titolo menzionato, la mistica è il lato positivo del­
la 'teologia negativa' . Cioè : la conoscenza categoriale degli oggetti teologici
conduce ad aporie e contraddittorietà (per es. , tra scienze naturali3 e alcuni
dogmi ; tra libertà e grazia) . Per sfuggire all' affermazione che tutto sarebbe
risolvibile solo 'nel fallimento' , io guardo al Nuovo Testamento e alla tradi­
zione cristiana e trovo che la soluzione delle contraddittorietà sta, al di là del
categoriale, nell 'esperienza del mistero di Dio e, in fondo, dell ' amore.
Si tratta pertanto di una dimensione relazionale, e qui conta soprattutto il
concetto di verità che si ha. Lo spazio vitale e la realtà di questo amore è la
chiesa. In fondo l' esistenza di questo spazio della verità è solo la conse­
guenza derivante dall' immagine stessa di Dio: l' unico Dio si protende al di
là di sé e comunica la propria unità e unicità come amore. A chi ritiene que­
sto troppo poco scientifico o approssimativo diciamo: qui non si tratta di
filosofia kantiana, ma di un campo che sta più vicino alla poesia e alla misti­
ca di tutti i secoli. O viceversa: il modo categoriale di comprendere la realtà
non è all' altezza del mistero di Dio. Perciò la teologia ha ragion d' essere
solo come preparazione alla via mistica di essere cristiani.
L' affermazione sul giudizio non è, nella menzionata esperienza dell' amo­
re, una limitazione dogmatica, bensì l' intuizione che l' amore ha lineamenti
e che riguarda uno spazio vitale avente limiti concreti.
La mistica è in fondo una prassi sorretta dalla fiducia che l' unità degli
opposti, che sta alla base e come fine di tutta la realtà, non è un principio
morto, bensì il Dio vivo. La vita dell ' esegeta della B ibbia trova perciò
l ' unità nello studio degli opposti che trova nell' inno, nella preghiera e nel
lamento 'davanti a Dio' . Qui è il luogo della verità, e quanto fa categorial­
mente a pugni nello spazio, potrebbe trovare qui la pace.

' La bella teoria rabbinica, secondo la quale Dio avrebbe fatto al momento della creazione anche
i miracoli, ma li avrebbe resi accessibili solo a determinate persone elette, ha la sua profonda verità
nel fatto che ambedue, la creazione normale e i miracoli incomprensibili, risalirebbero al medesi­
mo unico Dio.
Appendice

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INDICE DEI NOMI

Barbour, J. G. 68 Lutero, M. 14s., 1 8 , 1 73, 1 80


Barth, K. 27, 7 1 , 83, 96, 1 02, 140 Luz, U. 5 1 , 95
Boff, Cl. 5 1 , 68, 70
Bu1tmann, R. 1 9 , 25-3 1 , 50, 5 2 , 7 1 , Marquard, O. 74s.
76s., 83, 88, 1 26, 140, 1 73s., 1 80 Merlau-Ponty, M. 73, 84
Metz, J.B. 53, 58, 1 67
Congar, Y.-M. 54 Mieth, D. 1 6 1
Miguez-Bonino, J. 7 1
Dilthey, W. 24s.
Drewermann, E. 90, 92 Rambach, J.J. 1 5 s., 95
Ricoeur, P. 85
Fish, St. 68s., 74 Ritsch1, D. 37ss., 1 08, 1 84s.
Frank, M. 86, 1 03, 1 06s. Rosenzweig, F. 73, 84
Freud, S . 83, 90
Schleiermacher, F.D.E. 22-24, 7 1 s., 82,
Gadamer, H.G. 1 8, 33-37, 75, 8 1 , 95, 89
1 05, 1 75, 20 1 , 204 Slenczka, R. 54
stme, D. 63
Heidegger, M. 26s., 52, 82, 96 Steffensky, F. 1 87
Herms, E. 20s. Stove, E. 70
Hofmann, J.C.K. 17s. Strauss, D.F. 88, 99
Stuhlmacher, P. 1 8, 42, 20 1 , 204
Jeanrond, W.G. 69
Jonas, H. 57, 85 Theunissen, M. 84
Jiingel, E. 8 Tracy, D. 55
Jung, C.G. 83, 90 Troeltsch, E. 72, 1 73
Trowitzsch, M. 98
Kegel, G. 8
Weder, H. 3 1 -33, 1 06
Lessing, G.E. 76s., 80
INDICE

Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5

Introduzione: Problemi di un 'ermeneutica . 7


Rinuncia ad una armonizzazione delle affermazioni bibliche 8

I. Posizioni importanti della storia della ricerca . . . . . . . . 11


Osservazioni sull' ermeneutica dello stesso Nuovo Testamento 11
Ermeneutica medievale 14
l . Ermeneutiche confessionali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14
Principi della Riforma 14
Johann Jakob Rambach ( 1 693- 1 735) 15
La posizione evangelicale 16
L' 'ermeneutica biblica' 17
L a posizione 'centro della Scrittura' 18
2 . Ermeneutiche liberali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 22
F.D.E. Schleiermacher ( 1 768- 1 834) 22
Wilhelm Dilthey ( 1 833- 1 9 1 1 ) 24
Rudolf Bultmann ( 1 884- 1 976) 25
Hans Weder (n. 1 946) 31
Hans-Georg Gadamer (n. 1 900) 33
Gli assiomi impliciti 37
3. Ermeneutiche emancipatrici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51
Teologia della liberazione 51
Femminismo 61

II. Schema di un 'ermeneutica del Nuovo Testamento 65


l . Il problema della verità . . . . . . . . .
. . . . . 65
Verità genuina e verità derivata 65
25 8 Indice

Verità universale limitata 68


Verità dottrinale come consenso 74
2. Verità razionali e il brutto largo fossato . 76
Su G.E. Lessing e R. Bultmann 76
Cambiamento di paradigmi 79
Critica della filosofia della riflessione 81
Posizioni critiche 84
Indi vi dualità 86
3. Ermeneutica dell' estraneità . 88
Obiezioni contro un' ermeneutica dell' estraneità 92
Conseguenze 93
4. Il circolo della comprensione 95
Fede e esegesi 95
Disturbo della ricezione 96
La rottura del circolo ermeneutico 96
L' esegesi è possibile? 101
Conseguenze dell' esegesi per la fede 1 02
Soggetto e storia 1 03
Riabilitazione del soggetto 1 04
5. Storia degli effetti 1 07
6. Lealtà e libertà . . . . . . . .. . .. . 1 08
7. Esegesi - Applicazione - Ermeneutica . 1 24
Distinzioni 1 24
Separazione tra esegesi e applicazione 1 25
Che rimane all' esegesi? 1 27
Che cos'è la teologia? 1 36

III. Sulla prassi dell 'applicazione . . . . . 1 45


l . Fondazione sistematica . . . . . . . . . 1 45
La Scrittura come parola di Dio ispirata 145
Applicare la parola di Dio? 152
Il ruolo permanente della Scrittura 1 54
2. Criteri dell' applicazione . . . . 1 55
Fondazione 1 55
Autocontraddizione religiosa 158
Identità 161
3. I singoli criteri . . . . . . . 1 63
Edificazione della comunità 1 63
Santità 1 66
Radicalità 1 68
Indice 259

Rispetto 1 68
Gioia 171
4. Reperimento di norme concrete . 1 72
Necessità di norme 1 72
Il Nuovo Testamento: un modello 1 75
· Compromessi 1 77
La casistica è necessaria? 1 80
Critica delle rappresentazioni del fine 181
Coercizioni oggettive 1 83
Modello delle gambe della sedia 1 84
5. Gli artefici dell' applicazione 1 85
Il principio gnoseologico 1 85
Percezione del dolore 1 87
6. Confronto . . . . . . .
. . . . .. . . 1 89
Vie del confronto 1 89
Punto di confronto tra situazione e testo 1 90
Confronto di campi dei testi (aspetto dell' efficacia) 1 96
Spiegazione esemplare da parte della stessa Scrittura
(aspetto della provenienza) 1 98
Mediazione liturgica 1 99
7. Applicazione e emotività . . . . .
. . . .. .. . . . . . . . . 200
Sull' importanza delle emozioni nell'ermeneutica 200
Definizione concettuale 20 1
La cornice 202
Emotività e libertà 202
Sul rapporto tra interno e esterno 203
Conseguenze per l' ermeneutica 203
Emancipazione dell' emotività 205
La necessità antropologica e teologica dell' 'idillica'
(illustrata con l' esempio della spiegazione di Le 2,4-20
nella festa di Natale) 205
8. L' interpretazione di testi 'mitici' . . . . . . . . . . . . . 213
Che cosa sono i testi mitici? 213
Metodo dell' esegesi storico-critica classica 213
Che cos' è la realtà? 215
Esterno I e Esterno II 216
Conseguenze ermeneutiche 220
La terza via 22 1
Elementi comuni delle varie esperienze spirituali 224
Conseguenze per i miracoli 225
260 Indice

Diversificazione dal fondamentalismo 225


Risultato positivo dei racconti di miracoli 227
Sull' interpretazione di affermazioni apocalittiche 228
Personaggi invisibili: angeli, demoni, diavolo 230

Guardando al futuro 23 1

Bibliografia . . . 237
Indice dei nomi . 254
Biblioteca biblica

l. LUIS ALONSO SCHOKEL


Manuale di poetica ebraica
Pagine 272

2. GIUSEPPE SEGALLA
Introduzione all 'etica biblica del Nuovo Testamento.
Problemi e storia
Pagine 320

3. GERHARD LOHFINK
Per chi vale il discorso della montagna ?
Pagine 232

4. ROBERT ALTER
L 'arte della narrativa biblica
Pagine 232

5. JOSEF SCHREINER
I Dieci comandamenti nella vita del popolo di Dio
Pagine 128

6. JOSEPH A. FITZMYER
Luca teologo.
Aspetti del suo insegnamento
Pagine 1 92

7. JEAN-NOEL ALETTI
L 'arte di raccontare Gesù Cristo.
La scrittura narrativa del vangelo di Luca
Pagine 232

8. ROLAND MEYNET
L 'analisi retorica
Pagine 296

9. JOACHIM GNILKA
Teologia del Nuovo Testamento
Pagine 184

10. JoHN L. McKENZIE


Teologia dell'Antico Testamento
Seconda edizione - Pagine 272

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