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LUCA ARCARI

L’apocalittica giudaica e proto cristiana tra «crisi


della presenza» e «crisi percepita»
Il testo apocalittico e la pratica visionaria

Tra il 1960 e il 1961 Ernesto de Martino incomincia a lavorare a La


fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, testo
rimasto allo stato di prezioso e immenso «cantiere»1. Non ostante le cri-
ticità e i problemi connessi a una ricostruzione globale dell’opera, la
pubblicazione degli appunti preparatori2 ha offerto nuovi spunti per ri-
contestualizzare, all’interno dell’incompiuto testo demartiniano, la con-
cezione del tempo cristiano e dell’apocalisse.
Il presente contributo intende partire da quel nodo problematico che
si profila nella cosiddetta «sezione storico-religiosa» dell’opera, per poi
volgersi all’analisi della cosiddetta «apocalittica» (giudaica e proto cri-
stiana, due facce di una stessa medaglia) intesa non nel senso, tutto
sommato relativo, di rivelazione concernente la fine di un mondo, ma
nel senso di pratica di rivelazione che spesso implica la fine di un mon-
do come conseguenza di un discorso costruttore di autorità in certi
gruppi religiosi. In altre parole, la parola «apocalisse» (ajpokavlu yi") –
che, come è noto, si trova come titolo nell’incipit dell’Apocalisse gio-
vannea (cfr. Apoc 1,1) – sembra indicare la «rivelazione», lo svelamento
dell’oltre-il-mondo ottenuto da un mediatore affinché lo comunichi ad
una collettività più o meno ampia, mentre l’ulteriore restringimento del
campo d’azione del termine (rivelazione circa la fine del o di un mondo
e successiva reintegrazione in un altro mondo) è conseguenza dell’inter-
pretazione del testo successivamente accolto nel canone neotestamenta-
rio in chiave espressamente escatologica, interpretazione che è stata e-
stesa, per analogia e, forse, per meglio contestualizzare il dopo alla luce
__________
1
P. Angelini, Ernesto de Martino, Carocci, Roma 2008, pp. 121-122.
2
Cfr. E. de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali,
a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino 1977 (testo recentemente riedito con una introduzione a
cura di C. Gallini e M. Massenzio, Einaudi, Torino 2002; d’ora in poi si citerà secondo questa
edizione). Sul tema delle apocalissi culturali e di quelle psicopatologiche di recente si veda
anche E. de Martino, Rituali della memoria. Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologi-
che, a cura di L. de Martino, Argo, Lecce 1997. Per una ricostruzione generale del pensiero di
de Martino in merito al tema dell’apocalisse cfr. G. Sasso, Ernesto de Martino fra religione e
filosofia, Bibliopolis, Napoli 2001.

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LUCA ARCARI - L’APOCALITTICA GIUDAICA E PROTO CRISTIANA 481

del prima, a quei testi che presentano somiglianze formali e contenuti-


stiche con il testo canonico. Il caso dell’indagine demartiniana appare,
dunque, almeno in questa sede, emblematico3: gli appunti preparatori
all’opera ultima dello storico delle religioni e/o etnologo napoletano
__________
3
De Martino negli appunti sottolinea l’imprescindibilità di un’analisi storica ai fini della
valutazione del problema apocalittico; un brano, non ostante il tenore metodologico generale,
appare emblematico, proprio perché sembra riassumere molto bene l’impasse in cui gli stu-
diosi sono spesso incorsi nell’analisi della cosiddetta «apocalittica»: «Il primo compito dello
storico è di accertare la coscienza che gli operatori storici contemporanei ebbero di un feno-
meno (di un istituto, di un prodotto artistico, di un mito, di una liturgia, di una teoria scientifi-
ca o filosofica, di un’epoca, etc.). Ma con ciò il suo compito è tutt’altro che esaurito perché la
conoscenza storiografica non consiste nel ripetere il vissuto consapevole che accompagna un
fenomeno culturale, ma nel situare questo vissuto in una rete di condizioni e di risultati che
non appartengono ovviamente alla coscienza contemporanea e che tuttavia conferiscono a
quel vissuto la sua realtà e verità, il suo “significato” e la sua “importanza”. Senza dubbio il
pericolo polarmente opposto a quello di una semplice “ripetizione” della coscienza contempo-
ranea sta nell’attribuire a questa stessa coscienza ciò che in realtà appartiene alla sfera delle
condizioni inconsapevoli o ai risultati percepibili solo in una prospettiva maturatasi successi-
vamente: la storiografia idealistica si è macchiata spesso di tale arbitrio. Ma purché risulti nel
discorso storiografico che cosa appartiene all’accertata coscienza dei contemporanei e che
cosa alle condizioni inconsapevoli che l’analisi storiografica mette in luce e che cosa ancora
ai risultati che matureranno più tardi e che lo storiografo identifica con la prospettiva più am-
pia di cui si giova, il processo alle intenzioni è di regola nella ricerca storiografica, anzi la
coscienza limitata dei “contemporanei” emerge proprio per entro una ricostruzione dinamica
che abbraccia condizioni e risultati inconsapevoli» (La fine del mondo, brano 150, p. 275). Si
veda anche quanto de Martino riferisce in merito allo specifico dell’apocalittica proto cristia-
na all’interno dei vari gruppi proto cristiani nel brano 160 (La fine del mondo, p. 285). Non
ostante la quasi profetica innovatività delle asserzioni metodologiche demartiniane, che a ra-
gione indicano nello storico delle religioni ed etnologo napoletano uno dei primi difensori di
quella varietà di orientamenti e posizioni presenti nel proto cristianesimo, oggi a ragione so-
stenuta da quasi tutti gli studiosi, l’utilizzo stesso della categoria di «apocalittica», e la relati-
va frattura tra i vari orientamenti presenti nel giudaismo del secondo Tempio e quelli attestati
nel proto cristianesimo, portano, oserei dire quasi inevitabilmente, la trattazione verso ele-
menti di rigidità e criticità vere e proprie (è quanto cercheremo di rilevare in questo nostro
contributo); insomma, per sintetizzare, come cercheremo di rilevare anche in seguito, è la
stessa categoria di «apocalittica proto cristiana» quell’elemento che, proprio perché prove-
niente da un ambito di studi ben preciso, inevitabilmente porta lo studioso a prediligere alcuni
elementi a discapito di altri (ad esempio, l’associazione apocalittica/escatologia, oppure apo-
calittica/tempo finale). A ciò si unisca la sostanziale funzionalità teologica dell’argomento,
che lo stesso de Martino sembra appoggiare, che il centro ideologico attorno a cui ruotava il
variegato universo proto cristiano fosse quello della morte redentrice di Cristo. Se è vero che
tale centralità si affermerà definitivamente nel successivo sviluppo del cristianesimo, è altret-
tanto vero che ricerche recenti stanno sempre più rilevando come tale concezione non fosse
ugualmente centrale, e non fosse quindi letta allo stesso modo, in tutti i gruppi di credenti in
Cristo delle origini; a titolo esemplificativo, in merito cfr. R. Penna, Inizi e primi sviluppi del-
la cristologia giudeo-cristiana, in «Ricerche storico-bibliche» 15/2(2003), pp. 201 ss.; Id.,
Cristologia senza morte redentrice: un filone di pensiero del giudeocristianesimo più antico,
in G. Filoramo-C. Gianotto (eds.), Verus Israel. Nuove prospettive sul giudeocristianesimo.
Atti del colloquio di Torino, 4-5 novembre 1999, Paideia, Brescia 2001, pp. 68-94. Più in ge-
nerale, cfr. S.-C. Mimouni, Les chrétiens d’origine juive dans l’antiquité, Albin Michel, Paris
2007.
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mostrano quanto la tradizione di studi tra ’800 e ’900 sul tema


dell’apocalisse4 fosse sostanzialmente volta a 1. inserire il discorso sulla
fine del/di un mondo (e relativa reintegrazione in un altro mondo) nel
contesto della concezione del tempo proto cristiano inteso come già e
non ancora (da qui la scissione tra tempo ciclico e tempo lineare, fun-
zionale per definire l’unicità, e l’assoluta innovazione rivoluzionaria, del
tempo proto cristiano nel quadro delle concezioni del tempo attestate nel
mondo antico); 2. disancorare il proto cristianesimo dal giudaismo, ope-
razione teologica che sta all’origine della creazione scientifica del con-
cetto stesso di apocalittica, inteso come ambito formale ed ideologico
definitivamente perfezionato alla luce dell’evento Cristo5; 3. interpretare
i testi cosiddetti apocalittici in chiave esclusivamente escatologica, tanto
da ritenere il fattore ideologico onnicomprensivo ai fini della definizio-
ne del genere letterario (da qui la relativa distinzione tra genere profeti-
co, inteso come discorso volto a orientare l’azione nel presente, e genere
apocalittico, discorso volto a definire l’azione nel presente alla luce del
futuro; in realtà, tale distinzione non è così chiara nell’antichità giudaica
e proto cristiana6); 4. stagliare l’apocalittica proto cristiana, risolutiva
proprio per la centralità dell’evento Cristo, nel quadro dell’apocalittica
cosiddetta irrisolvente (non solo l’apocalisse psicopatologica, ma anche
l’apocalisse marxista e quella secolarizzata: qui de Martino rileva, in
maniera assolutamente probante, il fatto che ogni apocalittica, esclusa
ovviamente quella psicopatologica, proprio in quanto operazione cultu-
rale, ovvero costruzione volta a garantire l’operatività culturale
dell’essere umano nel mondo, è di per sé risolvente).
Come cercheremo di mostrare nel prosieguo, oggi gli studiosi sono
in maggioranza convinti del fatto che la cosiddetta «apocalittica» non
sia altro che un genere letterario che il cristianesimo delle origini ha mu-
tuato dal giudaismo del periodo ellenistico-romano7. Sebbene de Marti-
no abbia impiegato il concetto di «apocalisse» in una accezione abba-
__________
4
Cfr. La fine del mondo, cit., pp. 294-335.
5
Per uno status quaestionis che analizza tali tendenze ermeneutiche in merito al concetto
di «apocalittica giudaica», soprattutto in relazione all’apocalittica proto cristiana, cfr. L. Arca-
ri, Apocalisse di Giovanni e apocalittica giudaica da Bousset alle più recenti acquisizioni
sulla cosiddetta ‘apocalittica giudaica’, in D. Garribba-S. Tanzarella (eds.), Giudei o cristia-
ni? Quando nasce il cristianesimo?, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2005, pp. 147-156.
6
Cfr. E. Lupieri, L’Apocalisse di Giovanni, Mondadori, Milano 1999; L. Arcari, Apoca-
lisse di Giovanni e apocalittica giudaica, cit.
7
Cfr. P. Sacchi, L’apocalittica giudaica e la sua storia, Paideia, Brescia 1990; J.J. Col-
lins, Seers, Sybils, and Sages in Hellenistic-Roman Judaism, Brill, Leiden 1997; E. Lupieri,
L’Apocalisse di Giovanni, cit.; L. Arcari, Intorno al concetto di ‘genere letterario apocalitti-
co’. Osservazioni di metodo, in «Henoch» 24(2002), pp. 343-353; Id., «Una donna avvolta
nel sole…» (Apoc 12,1). Le raffigurazioni femminili nell’Apocalisse di Giovanni alla luce
della letteratura apocalittica giudaica, EMP, Padova 2008.
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stanza larga8 (accezione oggi poco considerata dagli specialisti), indagi-


ni degli ultimi anni stanno sempre più rilevando la non-onni-
comprensività della definizione di apocalisse nel senso di rivelazione
connessa solo ed esclusivamente al rivolgimento millenaristico e/o
all’escatologia9 come meccanismo di fuga dalla crisi del reale. Oggi, di
contro, si sta tentando di rivalutare la funzione assolta dal genere apoca-
littico nel giudaismo e nel proto-cristianesimo10, mettendo soprattutto
__________
8
È importante sottolineare come nel linguaggio comune il termine «apocalisse» abbia
quasi perduto il suo connotato religioso (e specificatamente cristiano) e venga adoperato co-
me sinonimo di «cataclisma» o «catastrofe», senza più alludere a una dimensione culturale
dell’evento ed evidenziandone casomai l’aspetto oscuro e negativo (il caso del film del 1979
Apocalypse Now di Francis Ford Coppola è quasi emblematico; ma si veda anche il recente
Codice Genesi dei fratelli Allen e Albert Hughes, che si ricollega a tutto il filone del cinema
apocalittico e post-apocalittico americano; sull’utilizzo di immagini derivanti dall’apo-
calittica giudaico-cristiana nel recente cinema americano, immagini riprese, però, in chiave
fortemente secolarizzata, cfr. D. Pezzoli-Olgiati, Vom Ende der Welt zur hoffnungsvollen
Vision: Apokalypse im Film, in T. Bohrmann-W. Veith-S. Zöller [eds.], Handbuch Theologie
und populärer Film, Schöningh, Paderborn 2009, II vol., pp. 255-275; più in generale,
sull’accezione che il termine ha assunto nella modernità, cfr. P. Barcellona-F. Ciaramelli-R.
Fai [eds.], Apocalisse e post-umano. Il crepuscolo della modernità, Edizioni Dedalo, Bari
2007). De Martino impiega la definizione di «apocalisse» utilizzata dagli specialisti della sto-
ria delle religioni della sua epoca; basandosi sull’analisi di Bertholet, de Martino definisce
apocalissi «certe visioni circa i tempi futuri che, fissate da una ricca letteratura e nate soprat-
tutto in tempi di grandi afflizioni, volevano infondere la speranza in un migliore avvenire»
(cfr. A. Bertholet, Religionsgeschichtiliches Lesebuch, Mohr, Tübingen 1928, s.v. Eschatolo-
gie, II vol., pp. 320 ss.; altro studio a cui si riferisce de Martino è quello, strettamente feno-
menologico, di H. Janke, Das Eschaton als Sinnverwirklichung. Eine religionsgeschichtliche
Untersuchung zum Phänomen der Enderwartung, Echter, Würzburg 1938; cfr. La fine del
mondo, p. 368; per quanto concerne la posizione di G. van der Leeuw, de Martino riporta la
definizione di escatologia di Urzeit und Endzeit, in «Eranos Jahrbuch» 17(1948), pp. 11-51,
presente anche nella precedente Phänomenologie der Religion, Mohr, Tübingen 19562 [edi-
zione citata da de Martino: cfr. La fine del mondo, p. 234], ma non ne condivide alcuni ecces-
si restrittivi [cfr. La fine del mondo, brano 123, pp. 234-242]). Per de Martino, comunque, le
apocalissi non sono solo «rivelazioni» circa la fine (come vuole l’etimologia del termine, al-
meno secondo una certa lettura teologica), ma anche dei «rivolgimenti» che segnano la fine di
un mondo; queste possono anche fallire, «così come possono morire di mera inedia le tartaru-
ghe capovolte» (P. Angelini, Ernesto de Martino, p. 124). Sulla visione demartiniana
dell’apocalisse come fatto religioso e, quindi, antropologico, cfr. V. Lanternari, «L’apocalisse
come problema antropologico: Ernesto de Martino», in Id., Festa, carisma, apocalisse, SE,
Palermo 1983, pp. 267-280; E. de Martino, Rituali della memoria; si vedano anche alcune
intuizioni presenti in E. de Martino, Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro,
a cura di M. Massenzio, Argo, Lecce 1995.
9
Cfr. P. Sacchi, L’attesa come essenza dell’apocalittica?, in «Rivista Biblica» 45(1997),
pp. 71-78.
10
Per il caso dell’Apocalisse di Giovanni nei gruppi proto cristiani dell’Asia Minore del
I secolo d.C., cfr. A. Yarbro Collins, Crisis and Catharsis: The Power of the Apocalypse,
Scholars Press, Philadelphia 1984; G. Carey, Elusive Apocalypse. Reading Authority in the
Revelation to John, University Press, Macon 1999; E. Lupieri, L’Apocalisse, cit.; L. Arcari,
«Una donna avvolta nel sole…», cit.; per le apocalissi giudaiche del periodo ellenistico-
romano cfr. K. M. Hogan, Theologies in Conflict in 4 Ezra. Wisdom Debate and Apocalyptic
Solution, Brill, Leiden-Boston 2008.
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l’accento sulla specificità concreta che, di volta in volta, ha portato sin-


goli gruppi religiosi ad utilizzare lo strumento formale «apocalittico». A
ciò si unisca, inoltre, che molti studiosi stanno cercando di smussare una
definizione troppo unilaterale di «genere letterario apocalittico», inteso
solo ed esclusivamente come un genere giudaico, e sempre di più si
sforzano di rivalutare le connessioni tra le apocalissi giudaiche e proto
cristiane e quei testi provenienti dal mondo antico che trasmettono, allo
stesso modo, rivelazioni e viaggi ultramondani11.

De Martino e la fine di un/del mondo. La concezione demartiniana


dell’apocalisse in rapporto alla teologia cristiana tra ’800 e ’900.

Non ostante la frammentarietà dell’ultima opera demartiniana, la


trattazione emergente dai frammenti e dagli schizzi, nonché dalle pub-
blicazioni propedeutiche, si presenta con una struttura tripartita: de Mar-
tino parte dall’analisi delle apocalissi «non culturali» (o psicopatologi-
che) e delle apocalissi «religiose» in parte irrisolventi, ovvero quelle che
si rifanno ad una concezione ciclica del tempo. Solo successivamente lo
studioso sembra volgersi verso le apocalissi della tradizione giudaico-
cristiana, quelle dei popoli impegnati nella lotta anticolonialista e quella
che lui definisce l’«apocalisse marxista». L’epilogo, con una certa vero-
simiglianza, raccoglie le testimonianze (filosofiche e letterarie) dell’apo-
calisse senza eschaton, ovvero di quell’apocalisse che è in pieno corso
nel mondo occidentale moderno e contemporaneo12. Tutte e tre le sezio-
ni appaiono percorse da un filo rosso: la stretta correlazione tra tempo
storico e tempo finale, inteso come rivolgimento che segna la fine di un
mondo e l’inizio di un altro mondo.
«La fine dell’ordine mondano esistente può essere considerato come tema cul-
turale nel quadro di determinate figurazioni mitiche che vi fanno espresso rife-
rimento, per esempio come tema delle periodiche distruzioni e rigenerazioni del
mondo nel quadro del mito dell’eterno ritorno o come tema della catastrofe
terminale nel quadro dell’unilineare e irreversibile corso escatologico della sto-
ria umana. In quanto tema culturale esplicito la fine dell’ordine mondano esi-
__________
11
Cfr. S. Niditch, The Visionary, in J.J. Collins-G.W.E. Nickelsburg (eds.), Ideal Fig-
ures in Ancient Judaism: Profile and Paradigms, Scholars Press, Missoula 1980, pp. 153-
179; Ead., The Symbolic Vision in Biblical Tradition, Scholars Press, Chico 1983; F.
Flannery-Dailey, Dreamers, Scribes, and Priests: Jewish Dreams in Hellenistic and Roman
Eras, Brill, Leiden-Boston 2004.
12
Qui appaiono evidenti i collegamenti con alcuni saggi precedenti; si veda soprattutto
l’articolo Furore in Svezia, in E. de Martino, Furore, simbolo, valore, a cura di M. Massen-
zio, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 167 ss. Cfr. anche il saggio di de Martino, vera e propria
preparazione all’opera incompiuta, Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, in
«Nuovi argomenti» 69-71(1964), pp. 105-141.
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stente è da considerare come prodotto storico di varia diffusione e rilievo, e di


diverso significato: un prodotto storico che la ricerca sulle apocalissi culturali
ha il compito di analizzare di volta in volta nella concretezza di singole società
e di particolari epoche»13.

Nel contesto della «fine dell’ordine mondano esistente», de Martino


distingue due piani di azione del concetto stesso: da un lato il tema della
fine come operazione culturale volta a garantire l’esser-ci nel mondo, o,
per meglio dire, operazione volta a garantire la prosecuzione dell’attività
umana nel presente culturale, dall’altro come rischio permanente
dell’uomo, inteso sempre come soggetto culturale, di soccombere defi-
nitivamente14:
«La fine dell’ordine mondano esistente può essere considerata in due sensi di-
stinti, e cioè come tema culturale storicamente determinato, e come rischio an-
tropologico permanente. Come tema culturale storicamente determinato essa
appare nel quadro di determinate configurazioni mitiche che vi fanno esplicito
riferimento: per esempio il tema delle periodiche distruzioni e rigenerazioni del
mondo nel quadro del mito dell’eterno ritorno o il tema di una catastrofe termi-
nale della storia nel quadro del suo corso unilineare e irreversibile. Come ri-
schio antropologico permanente il finire è semplicemente il rischio di non po-
terci essere in nessun mondo culturale possibile, il perdere la possibilità di farsi
presente operativamente al mondo, il restringersi – sino all’annientarsi – di
qualsiasi orizzonte di operabilità mondana, la catastrofe di qualsiasi progetta-
zione comunitaria secondo valori. La cultura umana in generale è l’esorcismo
solenne contro questo rischio radicale, quale che sia – per così dire – la tecnica
esorcistica adottata; e se il tema delle modalità storiche di ripresa e di riscatto
rispetto a questo rischio anche lì dove questo tema è assente, o irrilevante, il
rischio corrispondente è sempre presente e la cultura si costituisce appunto nel
fronteggiarlo e nel controllarlo, quale che sia la modalità con cui la drammatica
15
vicenda si riflette nella consapevolezza culturale storicamente determinata» .
La Natura-Vita, avvertita nella sua straordinaria potenza distruttiva,
rappresenta quell’elemento inconscio di angoscia collettiva che spinge
gli essere umani, culturalmente operativi, a cercare nel passato e nei riti
del tempo extraquotidiano una regolare protezione magico-religiosa (o
mitico-rituale) contro la «crisi della presenza»; protezione, questa, che
avviene perlopiù attraverso l’attivazione simbolica di quel meccanismo
semiotico che de Martino definisce destorificazione del negativo16. Tale
__________
13
La fine del mondo, brano 9, p. 14.
14
Su questi temi in generale cfr. B. Baldacconi-P. Di Lucchio (eds.), Dell’apocalisse:
antropologia e psicopatologia in Ernesto de Martino, Guida, Napoli 2005.
15
La fine del mondo, brano 108, p. 219.
16
Sul tema in generale si veda C. Santi, La destorificazione del divenire, in «Studi e Ma-
teriali di Storia delle Religioni» 72(2006), pp. 137-160.
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meccanismo semiotizzante occupa uno spazio simbolico assai vasto dal


quale si dipartono due momenti protettivi solo in apparenza diversi tra
loro: la magia e l’apocalittica (o sindrome della linearizzazione della
storia). Entrambi questi momenti sono, a ben guardare, gli aspetti più
significativi di un processo unitario che riguarda essenzialmente la co-
struzione di orizzonti metastorici e mitodinamici di tipo o fondante o
contrappresentistico17. La «linearizzazione della storia», più in partico-
lare, può essere anche definita come l’esito ultimativo di una mitodina-
mica del ricordo contrappresentistico, rivolto cioè, in questo caso, non
solo alla protezione dalla potenza negativa della Natura, ma anche alla
resistenza al Potere – come studi che sembrano ispirarsi ai presupposti
metodologici dell’indagine demartiniana hanno rilevato18 –, rappresenta-
__________
17
Riprendo da J. Assmann queste categorie, con le quali egli definisce le funzioni tipiche
del mito: per l’egittologo e storico delle religioni tedesco la prima funzione del mito è quella che
pone il presente sotto la luce di una storia che lo fa apparire dotato di senso, teologicamente o-
rientato, necessario e immutabile; l’altra è la funzione definibile come contrappresentistica, per
cui, prendendo le mosse dall’esperienza di negazioni e carenze nel presente ed evocando, nel
ricordo, un passato che di solito assume i tratti di un’epoca eroica, tale meccanismo diffonde ed
allarga sul presente un’ombra di sospetto che mette in rilievo ciò che manca o perché scompar-
so, o perché emarginato (cfr. J. Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità
politica nelle grandi civiltà antiche, Einaudi, Torino 1997, pp. 50-52).
18
Il rapporto tra oppressione e rivolgimento apocalittico non sembra essere esplicita-
mente richiamato ne La fine del mondo in connessione all’apocalittica antica. Il tema è estre-
mamente complesso e di certo non possiamo esaurirlo in questa sede, per giunta in margine
alla trattazione (ci proponiamo di affrontarlo in un successivo contributo, specificatamente
dedicato alla questione). Qui riteniamo sufficiente richiamare l’influenza della visione gram-
sciana in merito alle classi subalterne, che ha profondamente influito sul rapporto tra potere e
folklore così come analizzato da de Martino (si veda il saggio Intorno a una storia popolare
del mondo subalterno, in «Società» 5[1949], pp. 411-435; in merito alle possibili influenze
del pensiero gramsciano su de Martino, unitamente ad alcune istanze provenienti
dall’etnografia sovietica, si veda S. Cannarsa, Genesi del concetto di folklore progressivo.
Ernesto de Martino e l’etnografia sovietica, in «La ricerca folklorica» 25[1992], pp. 81-97;
più recentemente, cfr. il quadro di riferimento fornito da V.S. Severino, Ernesto de Martino
nel PCI degli anni cinquanta tra religione e politica culturale, in «Studi storici» 44[2003],
pp. 527-553). Tale tema, inoltre, è inevitabilmente connesso a quello, certamente più ampio,
di «folklore progressivo», sulla cui definizione il contributo di Gramsci e de Martino è stato
decisivo: in merito si vedano L.M. Lombardi Satriani, Antropologia culturale e analisi della
cultura subalterna, Guaraldi Editore, Rimini 1974 e F. Franceschini, Cultura popolare e in-
tellettuali. Appunti su Carducci, Gramsci, de Martino, Giardini Editori, Pisa 1989. In questa
sede, comunque, basti fare riferimento all’indagine, teorica ed etnografica insieme, che de
Martino ha condotto in alcuni villaggi della Lucania degli anni cinquanta, dove la persistenza
di precarie condizioni di vita materiale accentua la percezione collettiva degli effetti del pote-
re del negativo sulla vita umana: «Se ci chiediamo quali sono le ragioni che fanno ancora so-
pravvivere una ideologia così arcaica nella Lucania di oggi, la risposta più immediata è che
tuttora in Lucania un regime arcaico di esistenza impegna ancora larghi strati sociali, malgra-
do la civiltà moderna» (E. de Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Milano 2004, p. 89). De Mar-
tino, dunque, pur non legando deterministicamente i temi della forza magica, della fascina-
zione, della possessione, dell’esorcismo, ecc. ai fattori materiali di vita e, quindi, alla fragilità
delle strutture basilari dell’esistenza in paesi come quelli della Lucania, individua in essi, tut-
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to quasi sempre dallo Stato e da quella cultura egemone, o alta cultura,


mediante la quale la sua forza si afferma e si propaga. L’oppressione,
non a caso, è sempre stata un incentivo per il pensiero «storico» lineare
e «per la formazione di quadri che attribuiscano un senso in cui colloca-
re significativamente la rottura, la svolta e il cambiamento»19.
Il passato trattenuto e «ricordato» può, dunque, caratterizzare
l’identità sociale di un gruppo umano che vive in uno stato di oppressio-
ne (o crisi) almeno secondo due modalità ricostruttive: quella magico-
protettiva (esplicata tramite il mito e il rito) e quella apocalittica (costi-
tuita dalla cosiddetta «sindrome» della linearizzazione storica). Ma sia
l’uno che l’altro processo, derivando da un comune sostrato simbolico,
la destorificazione del negativo, contribuiscono parimenti alla formazio-
ne di strutture di base e di forme di intensificazione riguardanti la genesi
dell’identità collettiva, ovvero la coscienza dell’operatività culturale.
Tale meccanismo de Martino ritrova anche alla base dell’apocalisse
giudaico-cristiana, sebbene nella trattazione assuma un ruolo fondamen-
tale il tema del tempo, ritenuto dallo studioso di cruciale importanza per
chiarire la specificità della linearizzazione della storia avvenuta in ambi-
to proto cristiano20.

__________
tavia, quel sostrato sociologico, negativamente condizionato, dal quale emerge una presenza
individuale – intesa come centro di scelta e di decisione – continuamente sottoposta al rischio
dello smarrimento, e sulla cui labilità va ad innestarsi, pertanto, la funzione protettiva della
pratica destorificante. Sul tema più in generale si vedano gli spunti presenti in M. Massenzio-
C. Gallini (eds.), Ernesto de Martino nella cultura europea, Liguori, Napoli 1997.
19
V. Lanternari, Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi, Feltri-
nelli, Milano 19742, p. 64. Cfr. anche M. Massenzio, Kurangara. Un’apocalisse australiana,
Bulzoni, Roma 1976; Id., Destino e volontà: mitopoiesi e dinamica storica, in C. Tullio-
Altan-M. Massenzio, Religioni, simboli, società. Sul fondamento umano dell’esperienza reli-
giosa, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 243-312.
20
Sulla visione demartiniana del cristianesimo in generale, cfr. M. Massenzio, La reli-
gione cristiana vista da Ernesto de Martino, in C. Gallini (ed.), Ernesto de Martino e la for-
mazione del suo pensiero. Note di metodo, Liguori, Napoli 2005, pp. 131-146. Non è nostra
intenzione, in questa sede, ridiscutere la visione generale di de Martino in merito al cristiane-
simo quale dispositivo mitico-rituale che, al pari delle altre religioni, esercita una funzione
protettiva nei riguardi della presenza umana, non ostante i tratti che, sempre secondo de Mar-
tino, lo distinguono dalle altre tradizioni religiose (cfr. ibi, pp. 136-137). Riteniamo valido
quanto affermato da Marcello Massenzio nei numerosi studi dedicati al tema (si veda infra).
Ciò non ostante crediamo che la definizione di un’essenza del fenomeno cristiano, che de
Martino individua nel superamento della concezione ciclica del tempo, a vantaggio del rico-
noscimento positivo della storia, considerata come valore autonomo, pur nella varietà di o-
rientamenti e di posizioni che de Martino non manca di sottolineare nella complessa vicenda
storica di sviluppo del cristianesimo (emergenti molto spesso proprio in quei meccanismi cul-
turali attivi in ambiti subalterni), inevitabilmente sacrifichi le non poche specificità emergenti
dal cristianesimo soprattutto antico, che, come è noto, racchiude al suo interno una varietà di
istanze e di posizioni difficilmente ingabbiabili in una prospettiva ideologica unitaria.
488 SAGGI / ESSAYS

«La reversibilità del tempo come rischio di annientamento è ripresa e mutata di


segno, cioè avviata di nuovo verso la irreversibilità del divenire storico-
culturale aperto al dover essere valorizzante: questo è il significato della ripeti-
zione rituale di un mito delle origini. La tradizione giudaico-cristiana lascia en-
trare nella stessa coscienza mitico-rituale la coscienza storica del divenire irre-
versibile: l’accento si sposta dalla esemplarità delle origini alla esemplarità del
centro del divenire, dal divino al divino incarnato (il Cristo), dalla ripetizione
delle origini alla ripetizione del centro (la morte e le resurrezione di Cristo),
dalla ciclicità delle catastrofi all’attesa di un termine a direzione unica (il Re-
gno). Alla ripetizione delle origini divine della storia segue ora la ripetizione
del centro divino-umano della storia col problema della salvezza individuale
nel termine unico annunziato»21.

Il caso del delirio catastrofico del contadino bernese22, che funge da


vero e proprio paradigma interpretativo per illustrare quelle che de Mar-
tino chiama le «apocalissi psicopatologiche», chiude23 la sezione del
primo capitolo dell’incompiuta fatica demartiniana dall’indicativo titolo
Mundus, ma fa anche da ponte di passaggio alla sezione successiva. Il
delirante crollo cosmico descritto dal contadino si presenta infatti come
«una cosmogonia a rovescio»24, con numerosi rimandi ai miti delle ori-
gini e delle periodiche rinascite, tali da porre all’autore il seguente que-
sito: una siffatta concezione patologica del tempo presenta o meno una
qualche analogia con l’immagine del tempo che alcune religioni hanno
elaborato attraverso un insieme complesso di miti e riti? L’analisi di de
Martino si concentra dapprima sul pensiero religioso degli antichi e dei
primitivi, con particolare riferimento alle credenze che prevedono una
periodica fine e rinascita del mondo, o come si diceva allora – sulla scia
del libro di Eliade – alle teorie dell’eterno ritorno25, per poi dedicarsi al
__________
21
La fine del mondo, brano 110, p. 221.
22
È un caso di delirio WUE, descritto dagli psichiatri Storch e Kulenkampff (cfr. A.
Storch-C. Kulenkampff, Zum Verständnis des Weltuntergangs bei den Schizophrenen, in
«Der Nervenarzt» 21[1950], pp. 102-108). Nella sezione dedicata alle apocalissi psicopatolo-
giche, de Martino riprende la scuola della cosiddetta «psichiatria esistenziale» (scuola che in
Italia ruotava attorno alla figura di D. Cargnello: si veda l’opera dall’emblematico titolo Alte-
rità e alienità. Introduzione alla fenomenologia antropoanalitica, Feltrinelli, Milano 1966), la
cui metodologia era stata definitivamente perfezionata da L. Binswanger, il medico che aveva
applicato alla psichiatria gli spunti fenomenologici contenuti in Essere e tempo di M. Heideg-
ger (cfr. L. Binswanger, Per un’antropologia fenomenologica. Saggi e conferenze psichia-
triche, Feltrinelli, Milano 1970; Essere nel mondo, Astrolabio, Roma 1973). In merito alla
ripresa di Binswanger da parte di de Martino, cfr. B. Baldacconi-P. Di Lucchio (eds.),
Dell’apocalisse, cit., pp. 85 ss.; R. Di Donato, La contraddizione felice. Ernesto de Marti-
no e gli altri, ETS, Pisa 1990, pp. 79-80; Id., I greci selvaggi. Antropologia storica di Er-
nesto de Martino, Manifestolibri, Roma 1999, pp. 44.187.209; G. Sasso, Ernesto de Marti-
no, pp. 336-378.
23
Cfr. La fine del mondo, pp. 194-211.
24
Angelini, Ernesto de Martino, p. 130.
25
M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Borla, Roma 1966.
LUCA ARCARI - L’APOCALITTICA GIUDAICA E PROTO CRISTIANA 489

faticoso processo di elaborazione del tempo presente nell’apocalisse ne-


otestamentaria e proto cristiana. Sebbene la trattazione sia, anche in
questo caso, allo stato di appunti e abbozzi, la pubblicazione di numero-
si inediti e le successive indagini svolte da alcuni specialisti26, e il dibat-
tito che lo stesso de Martino svolse sulla rivista De Homine27 in dialetti-
ca con Rudolph Bultmann, in occasione della traduzione italiana del li-
bro del teologo tedesco Geschichte und Eschatologie28, permettono di
illuminare lo svolgimento del pensiero demartiniano in merito al rappor-
to tra tempo storico e deflagrazione finale sulla base di alcune testimo-
nianze del cristianesimo delle origini29.
__________
26
Cfr. A. Momigliano, Per la storia delle religioni nell’Italia contemporanea: Antonio
Banfi ed Ernesto de Martino tra persona e apocalissi, in «Rivista storica italiana» 99(1987),
pp. 435-456; G. Sasso, Le apocalissi culturali. Ultime riflessioni di Ernesto de Martino, in
«Nuovi argomenti» 5(1993), pp. 46 ss.; Id., Ernesto de Martino; B. Baldacconi-P. Di Lucchio
(eds.), Dell’apocalisse, cit. Si veda anche tutto il filone di ricerca portato avanti in Italia da
Vittorio Lanternari, prima, e Marcello Massenzio, dopo: a titolo esemplificativo V. Lanterna-
ri, Antropologia religiosa: etnologia, storia, folklore, Edizioni Dedalo, Bari 1997, pp. 7-64;
M. Massenzio, Sacro e identità etnica. Senso del mondo e linea di confine, Franco Angeli,
Milano 1994, pp. 53-80.
27
Cfr. E. de Martino, A proposito del volume di Rudolph Bultmann Storia ed escatolo-
gia, in «De homine» 9-10(1964), pp. 218-222.
28
Ed. orig. Mohr, Tübingen 1958. Tr. it.: Storia ed escatologia, Queriniana, Brescia 1962.
29
C’è da dire che la ricezione della trattazione demartiniana in seno ad ambienti teologi-
ci, sia cristiani che protestanti, è stata piuttosto alterna, per non dire nulla. Ciò è dovuto, con
una certa verosimiglianza, a ragioni legate alla frammentarietà degli appunti che compongono
il volume postumo, e, secondariamente, ma non in ordine di importanza, all’approccio stret-
tamente antropologico messo in campo dallo studioso napoletano, capace di coniugare mira-
bilmente etnologia, psicologia, sociologia e storia, senza trascurare gli apporti provenienti
dalla storia della letteratura, metodi allora tenuti in sospetto soprattutto in seno a certa teolo-
gia cattolica e protestante. A ciò si unisca che, almeno stando a quanto emerge dagli appunti
che compongono l’opera ultima dello studioso, l’intento di de Martino non fosse quello di
inserirsi nel dibattito teologico della sua epoca, ma utilizzare alcune delle conquiste concet-
tuali e speculative raggiunte da quello per focalizzare meglio la sua attenzione sul problema
che più gli stava a cuore, ovvero rilevare e riconoscere l’origine e la destinazione integral-
mente umane dei prodotti culturali, tra i quali l’apocalisse. Come osserva Massenzio, «Una
simile consapevolezza non è compatibile con la dinamica della destorificazione religiosa che
permea il cristianesimo stesso; ciò implica un paradosso […]: la religione cristiana entra in
crisi in concomitanza con l’affermazione della coscienza umanistica che essa stessa ha in par-
te plasmato. Detto altrimenti, tale crisi, che si riflette nel weberiano “disincanto del mondo”, è
dovuta meno all’aggressione di eventi esterni che all’evoluzione di fattori interni, gli stessi
sui quali riposa l’originalità del cristianesimo» (La religione cristiana vista da Ernesto de
Martino, cit., pp. 138-139). Ma qui emerge, oserei dire inevitabilmente, il problema dei rap-
porti della visione demartiniana con la teologia di Rudolph Bultmann, quella tendente a spo-
gliare il cristianesimo delle origini del suo “involucro” mitico, per recuperare al suo interno
tutto ciò che può essere comprensibile all’oggi come ieri, prescindendo dalla forma con cui è
restituito dal passato alla contemporaneità. E non stupisce, come rileveremo anche in seguito,
che de Martino abbracci in sostanza l’approccio di O. Cullmann a discapito di quello di Bul-
tmann. È comunque singolare che la trattazione di de Martino abbia non di poco influenzato
alcune indagini di Ernesto Balducci (1922-1992), personaggio di spicco di un cattolicesimo
aperto al dialogo con il mondo laico (e che ha non poco pagato certe sue posizioni “di fron-
490 SAGGI / ESSAYS

Un aiuto sembra provenire dall’articolo preparatorio al volume, dal


programmatico titolo «Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologi-
che»30; qui de Martino dichiara di volersi occupare di cinque tipi di do-
cumenti, tra i quali spiccano – al secondo posto dello schema di lavoro
proposto dallo studioso – proprio le apocalissi giudaiche e proto-
cristiane, messe in stretta correlazione con il cosiddetto «millenarismo».
Tale schema, però, non ha lasciato se non qualche debole traccia negli
appunti su La fine del mondo; le apocalissi giudaiche non vengono mai
citate, e la principale fonte che l’A. sembra tenere in considerazione è,
solo ed esclusivamente, il Nuovo Testamento31. Forse, trattandosi di ap-
__________
da”). Il tema del “crinale apocalittico” e della radicale contingenza del genere umano è ricor-
rente nella predicazione e nella saggistica balducciana degli anni ’70-’80: oltre a Cronaca
dell’Apocalisse e trasformazione dell’uomo, in Religiosi e laici di fronte all’Apocalisse, Edi-
zioni dell’Apocalisse, Milano 1979, pp. 22-24, è sufficiente richiamare il saggio, per certi
versi rappresentativo di una certa linea di pensiero, L’uomo planetario, ECP, San Domenico
di Fiesole 1990, pp. 7-17. Sui rapporti de Martino-Balducci si veda la trattazione, puntuale e
ricca di spunti, di L. Martini, La laicità nella profezia: cultura e fede in Ernesto Balducci,
Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002, pp. 97-100.
30
E. De Martino, Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, cit.
31
L’unico riferimento più diretto al giudaismo del secondo Tempio è quello sugli Esse-
ni, citati in connessione con Giovanni Battista (cfr. La fine del mondo, p. 287). Proprio il col-
legamento tra il Battista e il gruppo essenico lascia supporre che de Martino ritenesse valida
la tesi, abbastanza in voga negli anni immediatamente successivi alla scoperta dei manoscritti
di Qumran, di un contatto diretto tra il profeta battista e il gruppo stanziato presso le rive del
Mar Morto. Non è possibile stabilire, inoltre, se de Martino interpretasse i manoscritti di
Qumran come documenti strettamente proto cristiani, una tesi, questa, in quegli anni sostenu-
ta da numerosi studiosi (per i rapporti tra Essenismo e Giovanni Battista negli anni immedia-
tamente successivi alle scoperte di Qumran, cfr. A. Dupont-Sommer, Aperçus préliminaires
sur les Manuscrits de la Mer Morte, Adrien-Maisonneuve, Paris 1950; Les écrits esséniens
découverts près de la Mer Morte, Adrien-Maisonneuve, Paris 1959; su Dupont-Sommer cfr. il
recente quadro di insieme fornito da F. García Martínez, André Dupont-Sommer et les manu-
scrits de la Mer Morte, in «Comptes-rendus des séances de l’Académie des Inscriptions et
Belles-Lettres» 147/4(2003), pp. 1421-1434. Per una rassegna completa sul problema dei
rapporti tra Qumran e il cristianesimo delle origini nella fase successiva alle scoperte cfr. W.
Stegemann, Qumran, Jesus und das Urchristentum: Bestseller und Anti-Bestseller, in «Theo-
logische Literaturzeitung» 119(1994), coll. 387-408. Per una tesi più estrema in merito ai rap-
porti tra Qumran e origini del cristianesimo, cfr. J. Allegro, Further Light on the History of the
Qumran Sect, in «Journal of Biblical Literature» 75 (1956), p. 93, The People of the Dead Sea
Scrolls, Doubleday & Company, Garden City 1958 e gli studi raccolti in The Dead Sea Scrolls
and the Christian Myth, Westbridge Books, Devon 1979). La tesi di una filiazione diretta tra
essenismo e cristianesimo delle origini venne sostenuta, anche prima delle scoperte di Qumran,
da E. Renan, Les Apotres (Histoire des origines du christianisme X), Michel Lévy Freres – Li-
braires éditeurs, Paris 1866, pp. 187 ss. Per approcci più recenti al medesimo problema, mag-
giormente attenti alle singole specificità storiche, cfr. J.H. Charlesworth, Jesus and the Dead Sea
Scrolls, Doubleday, New York 1992, H. Stegemann, Die Essener, Qumran, Johannes der Täu-
fer und Jesus, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1993, J.A. Fitzmyer, The Dead Sea Scrolls and
Christian Origins, Eerdmans, Grand Rapids 2000, G.W.E. Nickelsburg, Ancient Judaism and
Christian Origins: Diversity, Continuity, and Transformation, Fortress Press, Philadelphia
2003, P. Luomanen-I. Pyysiäinen-R. Uro (eds.), Explaining Christian Origins and Early Juda-
ism. Contributions from Cognitive and Social Science, Brill, Leiden 2007.
LUCA ARCARI - L’APOCALITTICA GIUDAICA E PROTO CRISTIANA 491

punti, si potrebbe pensare che de Martino volesse partire dai testi più
noti, utili soprattutto a mettere in luce la concezione proto cristiana del
tempo finale in rapporto al tempo storico e all’evento Cristo. Ma se an-
che ciò fosse, il giungere alle apocalisse proto cristiane senza il tramite
delle apocalissi giudaiche del periodo del secondo Tempio è fattore che
inevitabilmente conduce ad una sopravvalutazione del novum cristiano
rispetto al giudaismo.
I testi apocalittici del Nuovo Testamento portano, quasi inevitabil-
mente, la riflessione demartiniana verso uno dei principali nodi che ebbe
un posto di rilievo nel dibattito scientifico in merito alle origini del cri-
stianesimo della teologia tedesca del primo cinquantennio del novecen-
to: il differimento della parusía e quella che de Martino definisce, in
maniera icastica, interpretazione del cristianesimo come grandioso
complesso funerario. Per de Martino il tempo cristiano, a differenza di
quello giudaico, pur oscillando tra due dimensioni fondamentali, quella
dell’attesa costante della fine (attesa della parusía di Cristo, che in alcu-
ni gruppi proto cristiani era ritenuta imminente e, quindi, come punto di
arrivo e di arresto della storia umana) e quella della riproposizione nel
culto della ciclicità tipica di alcune religioni del mediterraneo antico (la
liturgia come riproposizione continua di un passato ritenuto fondativo),
presenta una nuova ripartizione a partire dal centro della storia santa:
«Giudaismo e cristianesimo hanno una diversa prospettiva del tempo: entrambi
lo dividono nella tripartizione di tempo prima della creazione, tempo compreso
dalla creazione al Regno, e tempo del Regno. Ma il tempo mondano, quello tra
creazione e Regno, nel giudaismo è vissuto nella prospettiva di un evento cen-
trale futuro, la venuta del Messia; nel Cristianesimo, invece, il centro è retro-
cesso dal futuro al passato, onde dopo questo centro “il Regno già comincia”.
L’emergenza della storia per entro il simbolo cristiano si compie attraverso
questa retrocessione del termine (la parusía) al centro (il Cristo) dell’aión pre-
sente, mantenendo tuttavia il termine come compimento e come seconda paru-
sía: onde dalla prima alla seconda parusía il Regno, che nella concezione giu-
daica è soltanto una promessa del futuro, si inizia e cresce e si compie già qui
ed ora, nella celebrazione liturgica dell’agape, e nella espansione mondana di
questa stessa agape di cui si è fatta provvista nel rito eucaristico. La eucaristia
quindi acquista dunque il significato di ripresentare sempre il centro “passato”
della storia della salvezza, cioè la prima parusía, via via che il tempo presente
passa: e per questa ripresentazione del centro passato, che è origine della nuova
epoca, il presente viene di volta in volta riassorbito nel piano escatologico, en-
trando in partecipazione con i tempi estremi della seconda parusía»32.
«Occorre individuare la “crisi” della fine e il riscatto culturale operato dal Cri-
stianesimo mediante il ridischiudersi dell’orizzonte della storia operabile, del
__________
32
La fine del mondo, brano 174.1, pp. 310-311.
492 SAGGI / ESSAYS

futuro significante. Occorre intendere il generarsi della prospettiva del Victory


Day, e comprendere come, attraverso il “già” e il “non ancora”, la prima e la
seconda parusía, l’inizio e il compimento, si dischiude il tempo operabile cri-
stiano, in una caratteristica tensione che evita i tempi non operabili sia della
imminenza della catastrofe sia della catastrofe già avvenuta (ancora una volta
perché operare?). Il senso del tempo cristiano va dall’immenso della catastrofe
al compimento di una promessa»33.

In questo contesto de Martino si confronta con l’indagine di O. Cull-


mann34, prima di tutto mettendone in luce una certa rigidità interna 35.
__________
33
La fine del mondo, brano 174.3, p. 317.
34
La fine del mondo, brani 174-175, pp. 304-325. Cfr. O. Cullmann, Christus und die
Zeit. Die urchristliche Zeit und Geschichtsaufassung, Evangelischer Verlag A.G., Zollikon-
Zürich 19482; Id., Studi di teologia biblica, A.V.E., Roma 1969.
35
Nell’analisi dell’opera di O. Cullmann la principale critica di de Martino, al di là
dell’accettazione globale della prospettiva del teologo (La fine del mondo, pp. 304-325), si
fonda proprio sui presupposti di uno storicismo declinato in una forte ed umanistica visione
del mondo (si veda, per la messa in luce di tale nesso, il saggio Mito, scienze religiose, civiltà
moderna, in Furore, simbolo, valore, pp. 35-83; su tale angolatura demartiniana cfr. M. Mas-
senzio, Sacro e identità etnica, pp. 53-54, 69-72; Id., La religione cristiana vista da Ernesto
de Martino, cit., pp. 132-136), a fronte della visione teologica messa in campo dallo studioso
tedesco: «Il problema che si pone O. Cullmann, se il centro del Cristianesimo primitivo sia o
meno la storia della salvezza ridistribuita rispetto all’evento storico di Cristo-Dio, non è un
problema storiografico. Sia pure accertato che, per il Cristianesimo primitivo, valesse questa
visione salvifera della storia come nucleo centrale: per lo storico non basta identificare
l’essenza del Cristianesimo primitivo, ma occorre individuare le ragioni umane (consapevoli
e inconsapevoli) di questa particolare coscienza del divenire storico, e gli umani valori (con-
sapevolmente o inconsapevolmente) ne vennero mediati (per esempio l’amore). Non si tratta
di identificare l’essenza del Cristianesimo primitivo, cioè dove batteva l’accento della sfera
cosciente, ma di ricostruire un movimento di cui la coscienza della storia della salvezza me-
diante Cristo al centro del divenire storico sta come risultato. […] La tesi di Cullmann ha il
limite di presentare le concezioni protocristiane del tempo come una totalità statica, senza
sviluppo, come una essenza. L’autore coglie senza dubbio molto bene la distinzione fra tale
concezione e quella anticotestamentaria o greca o iranica (e si potrebbe aggiungere indiana),
ma non ci espone le fasi distinte, le accentuazioni diverse, che per entro la stessa storia del
Cristianesimo primitivo dagli antecedenti giudaici della predicazione di Cristo, da questa sino
alla morte di Gesù, dalla morte di Gesù sino a Paolo e a Giovanni subirono i tempi dell’Aión,
del kairós, del Regno, della parusía, e di quant’altro ha attinenza con la fine del mondo e con
l’escatologia, con il divenire cosmico e con la storia della salvezza. Il Cristianesimo primitivo
viene offerto qui come un blocco monolitico, caduto dal cielo, e quindi senza storia in se stes-
so, e che la ellenizzazione doveva poi scalfire o addirittura spezzare (gnosticismo). Ma c’è da
chiedersi, a proposito del tempo, se la fine del mondo, l’attesa del Regno, etc., si configuraro-
no con accento diverso in Gesù e dopo la morte di Gesù, nei Vangeli sinottici e in Paolo, nel
quarto Vangelo e nell’Apocalisse. Proprio la storia di questa diversa accentuazione forma
problema onde occorre sciogliere il rapporto Christus und die Zeit negli altri: Gesù e il tempo;
i sinottici e il tempo; Paolo e il tempo; il quarto Vangelo e il tempo; l’Apocalisse e il tempo. I
limiti del lavoro del Cullmann sono in fondo quelli del protestantesimo, cioè di una ricerca
orientata verso una essenza del Cristianesimo che è stata tradita e che occorre riguadagnare»
(La fine del mondo, brano 174, pp. 304-306). Sulla visione demartiniana del cristianesimo si
veda il filone di ricerca perseguito da Marcello Massenzio in numerosi contributi: a titolo e-
semplificativo, cfr. Religion et sortie de la religion. Le christianisme selon Ernesto de Marti-
LUCA ARCARI - L’APOCALITTICA GIUDAICA E PROTO CRISTIANA 493

Per il teologo alsaziano la prospettiva cristiana non può fare altro che
abbattere la dicotomia, tipica della cultura greca, tra tempo ed eternità.
Se, infatti, il mondo greco pone un’alterità qualitativa irriducibile tra
tempo ed eternità (intesa come assenza di tempo), per cui il tempo è ri-
dotto a simbolo dell’eternità, ovvero durata successiva delle cose, e il
tempo stesso si trova ad essere una sorta di limite, di ostacolo, all’azione
divina 36, per i cristiani tale dualismo non può più costituire problema;
essi non concepiscono l’eternità come una vittoria sul tempo e, quindi,
come una sua conseguente eliminazione37. Per capire l’insussistenza del
problema del tempo per i primi cristiani, secondo Cullmann, è necessa-
rio partire da due domande fondamentali: qual è la loro idea di tempo?
Non solo, spiega, non è concepito come ostacolo all’azione di Dio, ma
anzi è considerato come il mezzo attraverso il quale Dio giunge a salva-
re l’uomo; Dio è «il Signore del tempo» (Ap 1,4), cioè usa il tempo per
realizzare, attraverso di esso, il suo piano di salvezza 38. L’altra domanda
è la seguente: qual è la loro idea di eternità? Rientra, secondo il nostro
Autore, nella loro concezione dell’aion: questo ricopre sia le nozioni di
tempo limitato che illimitato (cioè l’eternità); per questo l’eternità è suc-
cessione temporale illimitata, quindi, come successione, è temporalità
per eccellenza, per cui non viene a crearsi nessuna dicotomia tra tempo
ed eternità, nessuna alterità qualitativa39. Non stupisce che tale visione
del Cullmann venisse giudicata insufficiente già nell’ambito di alcuni
studi teologici della sua epoca40: il porre alla base della visione del tem-
po proto cristiano la sola concezione biblica dell’aión, porta inevitabil-
mente il teologo alsaziano a sottovalutare il fatto che già nel giudaismo
del periodo ellenistico-romano esistessero idee diverse in merito ad una
differenza qualitativa tra tempo ed eternità. Lo stesso de Martino, dun-
que, partendo da una puntuale analisi dell’opera del Cullmann, spesso
nota in essa una certa mancanza di storicità.
«Ma questo simbolo cristiano a sua volta ha una storia interna di formazione:
poiché se Cristo per i cristiani è un evento passato, Gesù in vita non poteva ov-
viamente rivivere il Cristo crocefisso e risorto come un “passato”, ma in Lui
doveva porsi in primo piano l’accento sul termine ultimo, sulla fine del mondo
e sull’avvento del Regno: Gesù stava in prossimità dei tempi estremi, toccava il
margine di una storia giunta al suo termine. Per lo storico sta dunque in primo
piano il problema di questo continuo spostamento di accenti nella storia proto-
__________
no, in «Gradhiva» 28(2000), pp. 23-32; Il simbolismo cristiano visto da Ernesto de Martino,
in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni» 72(2006), pp. 125-136.
36
Cfr. Cullmann, Studi di teologia biblica, pp. 44.53.
37
Ibi, p. 43.
38
Ibi, p. 53.
39
Ibi, p. 54.
40
Ad esempio, cfr. P. Althaus, Die letzten Dinge, Mohn, Gütersloh 1956, p. 339.
494 SAGGI / ESSAYS

cristiana, per cui alla prospettiva estrema della predicazione di Gesù si venne so-
stituendo la prospettiva del Cristo morto e risorto come evento centrale passato
della storia della salvezza: la prospettiva di un Regno già cominciato con quella
morte e risurrezione, e tuttavia ancora da compiersi con la seconda parusía»41.

In merito alla riflessione del Cullmann42 che il futuro proto cristiano


non è, come nel giudaismo, ciò che dà significato alla storia della sal-
vezza (il telos cristiano è già avvenuto, è l’ephapax del Cristo, ed il fu-
turo, in questa prospettiva del centro, diventa soltanto il compimento del
telos), per cui mentre l’escatologia giudaica si distende fra patto e gior-
no di Jahve, l’escatologia cristiana assegna all’evento del Cristo il carat-
tere di un inizio storico decisivo di ciò che si compirà con la seconda
parusía, de Martino osserva:
«Ma questa contrapposizione è tipologica, schematica, per “essenze”, non ge-
netica, propriamente storiografica. Riproduce il risultato di un processo che cer-
tamente ha avuto luogo nel Cristianesimo primitivo, ma come se questo risulta-
to fosse già tutto dato sin dalla predicazione di Gesù, e come se la sua morte
non avesse introdotto modifiche sostanziali nel processo. Il passaggio dalla im-
minenza del Regno predicato da Gesù al tema cristologico del significato della
croce nella economia della salvezza non costituisce problema per Cullmann: il
teologo di Basilea non fa distinzione fra il documento cristiano elaborato dopo la
morte di Cristo e la predicazione di Gesù prima della sua morte, e ripete la pro-
spettiva neotestamentaria post-mortem senza generarla storicamente dalla pro-
spettiva ante-mortem di Gesù e dei suoi discepoli. Lo spostamento di accento
dall’imminenza degli ultimi giorni agli ultimi giorni già iniziati e avviati al com-
pimento in virtù della morte e della resurrezione di Cristo esula dalla interpreta-
zione di Cullmann. In realtà lo storico non è formulatore di “essenze”: una “es-
senza” del Cristianesimo primitivo staticamente concepito riecheggia tradizionali
motivi della teologia protestante, ma è estranea al pensiero storico»43.

È interessante notare, però, come de Martino in altri appunti sembri


appoggiare la ricostruzione del Cullmann, come, ad esempio, in merito
al problema, estremamente discusso già all’epoca della teologia liberale,
dell’imminenza o meno del ritorno del Signore. De Martino si rifà ad
__________
41
La fine del mondo, brano 174.1, p. 311. Si veda anche la nota di de Martino presente
nel brano 174.4 (La fine del mondo, p. 318): «Secondo A. Schweitzer, Gesù nella prima fase
della sua vita credeva che la fine sarebbe intervenuta nel corso della sua vita, e nella seconda
avrebbe fatto coincidere la sua propria morte con l’irrompere del Regno. Cullmann osserva
che mentre la distinzione delle due fasi non trova appoggio nei testi, certamente Gesù ha cre-
duto la sua morte come il punto decisivo del piano di salvezza. Ma, al tempo stesso, un inter-
vallo anche se piccolo sussiste tra la sua morte e la parusia: cfr. Mc 14,62 (distinzione tra il
figlio dell’uomo che siede alla destra di Dio e il suo ritorno); 13,10 (predicare il Vangelo ai
pagani); 2,18; 14,28».
42
Cfr. Christus und die Zeit, pp. 122 ss.
43
La fine del mondo, brano 174.3, pp. 316-317.
LUCA ARCARI - L’APOCALITTICA GIUDAICA E PROTO CRISTIANA 495

alcune affermazioni del teologo volte a negare le tensioni presenti nei


primi gruppi di credenti in Cristo in merito all’imminente ritorno del
Cristo glorificato:
«La imminenza del Regno, la attesa del suo prossimo avvento, ha, secondo Cul-
lmann, la sua radice nella fede che l’evento di salvezza è già accaduto, si è già
prodotto. Non è dunque da dire – sempre secondo Cullmann – che la fede nel
Salvatore che ha “già” salvato sia un surrogato della delusa attesa del prossimo
avvento del Regno, ma, al contrario, proprio questa fede ha generato l’attesa
prossima. L’essenziale nell’annunzio “Il regno è prossimo” concerne certamen-
te la cronologia, ma in strettissima connessione con il sapere di una decisione
già intervenuta. Concerne dunque non già in prima linea la delimitazione della
prossimità della fine ad una generazione, anche se questa delimitazione si trova
certamente nel Vangelo. Il tratto teologicamente importante nella predicazione
della prossimità del Regno di Dio non è questo, ma l’affermazione implicita
che noi da Cristo in poi già siamo in una nuova epoca temporale e che perciò la
fine è ormai prossima. Il protocristianesimo ha certamente rappresentato questa
prossimità al più in decenni, non in secoli o millenni: ma questo errore di pro-
spettiva, che è stato corretto nello stesso N.T. in II Petr., 3, 8, non incide sul
contenuto teologico dell’ēggiken ē basileía. Questo annunzio non si riferisce
primariamente ad una determinazione di data o ad una limitazione cronologica,
ma ad una partizione del tempo»44.
Con Cullmann de Martino ritiene che – al di là della continuità tra
alcuni assunti del giudaismo e del proto cristianesimo – l’evento Cristo
assuma un ruolo decisivo, in tutti i gruppi proto cristiani del I-II secolo
d.C., nella ridefinizione del concetto di tempo rispetto al passato; emer-
ge, come in Cullmann, una cesura netta tra il prima e il dopo, per cui il
secondo non può fare altro che venire fuori come una sintesi nuova, ten-
denzialmente propulsiva, rispetto al primo:
«Si dànno tre immagini fondamentali del divenire storico: l’eterno ritorno
dell’identico, la unilinearità dello sviluppo da un’arché ad un escaton e la fran-
__________
44
La fine del mondo, brano 174.4, p. 317. Cfr. anche La fine del mondo, brano 174.4, p.
321: «Sulla quistione della affermazione e negazione del mondo alla luce della storia neote-
stamentaria della salvezza, O. Cullmann afferma che se effettivamente nel Cristianesimo pri-
mitivo, come nella apocalittica giudaica, la economia della salvezza avesse il suo centro nel
futuro, avrebbero ragione Franz Overbeck e Alberto Schweitzer nell’illustrare l’atteg-
giamento del protocristianesimo rispetto al mondo come “negazione del mondo”. Ma secondo
la tesi di Cullmann la economia della salvezza nel protocristianesimo non è nel futuro, ma nel
passato, e il senso del presente, per quanto stia in uno stretto particolare rapporto col futuro, è
tuttavia da determinare a partire da un centro che sta nel passato. Nel quadro di questa “batta-
glia decisiva” già combattuta, onde poi la futura vittoria finale anche se non ancora consegui-
ta è tuttavia certissima proprio in virtù di quella battaglia decisiva già combattuta, conduce
non soltanto ad una relativa svalutazione del problema del rinvio della seconda definitiva pa-
rusía, ma comporta altresì un particolare atteggiamento verso il mondo, atteggiamento che
non può essere riassunto nella formula semplicistica di “negazione del mondo”».
496 SAGGI / ESSAYS

tumazione dell’accadere nel relativismo delle culture e delle epoche. L’eterno


ritono dell’identico fu il tardo erede speculativo della destorificazione mitico-
rituale delle religioni estranee alla tradizione giudaico-cristiana: al periodico
riassorbimento della proliferazione storica del divenire nella esemplarità di un
mito di fondazione nell’illud tempus delle origini corrisponde, nella riflessione
speculativa, la teoria delle periodiche distruzioni e rigenerazioni del mondo. La
unilinearità dello sviluppo da un’arché ad un escaton fu inaugurata nella tradi-
zione religiosa giudaico-cristiana, riplasmandosi in particolare nel Cristianesi-
mo in un evento centrale decisivo, per cui fra la fondazione divina del mondo
ed il suo irreversibile processo di ritorno a Dio si inseriva un momento privile-
giato del tempo, l’incarnazione, scandente il corso dall’arché all’escaton in due
fasi, nel prima e nel poi della promessa. Questa immagine della storia si fonda-
va sulla fede nel Cristo, e fuor di quella fede non aveva nessun senso: col venir
meno di questa fede nell’evento centrale furono tentate due vie: quella di una
unilinearità interamente mondana della storia (il progresso della scienza
nell’epoca positivistica; il progresso dell’idea nella speculazione idealistica; il
rovesciamento di questo progresso nella dialettica marxiana) e quella della
frantumazione relativistica, ora biologizzante alla Spengler, ora variamente
congiunta ai vari esistenzialismi negativi, ora – sotto coverta di un nuovo scien-
tifismo – riplasmantesi nella contemplazione della molteplicità irrelata delle
culture umane»45.

Oltre de Martino sembra ancora più esplicito:


«La tradizione giudaico-cristiana segna in un’area della terra e in un’epoca della
storia la prima apparizione della storia per entro la stessa coscienza destorificatrice
in atto (cioè per entro il simbolismo mitico-rituale) sia pure come storia della sal-
vezza, come patto di Dio con il popolo eletto, come predicazione di Gesù del Regno
sopravvenente, come cristologia e come dottrina del Paracleto fra le due parusíe, la
storia fa breccia nella coscienza mitico-rituale in una misura sconosciuta a tutte le
altre culture dell’ecumene […]. Il simbolismo mitico-rituale delle religioni tradizio-
nali mascherava l’asprezza della storicità, e aiutava a riplasmare la crisi di aliena-
zione secondo modelli di riappropriazione del rischio di alienarsi radicalmente e
senza compenso. Ma con l’apparire della storia nella stessa coscienza mitica (il
Dio-Uomo, l’irreversibile piano divino, ecc.) fu gettato il germe della dissoluzione
per l’efficacia della protezione mitico-rituale. Da allora la storia prese a crescere, e
il simbolismo mitico-rituale a declinare. Al tempo stesso la consapevolezza di ciò
che l’uomo può fare con il proprio lavoro e con la propria iniziativa rese meno ri-
schiosa la crisi esistenziale»46.

Ferma restando la fondamentale rivoluzione operata dal tempo proto


cristiano47, che da ciclico diventa unilineare, per cui nella profezia del
__________
45
La fine del mondo, brano 196, p. 351.
46
La fine del mondo, brani 196 e 197.1, pp. 353.355.
47
Si può ben dire che la critica di de Martino al Cullmann non sia nella sostanza della
visione del tempo proto cristiano, ma in alcune questioni di merito più specifiche; le osserva-
LUCA ARCARI - L’APOCALITTICA GIUDAICA E PROTO CRISTIANA 497

Regno si configura il nuovo orizzonte delle operabilità mondane conce-


pite come svolgentisi secondo un percorso tra inizio e fine della storia48,
per de Martino il cristianesimo, proprio in quanto religione, non può ab-
dicare alla manipolazione del tempo storico attraverso l’iterazione cul-
tuale, nel suo caso basata sulla centralità del «mito cristologico» riattua-
lizzato in tutto l’anno liturgico:
«Il tempo ciclico, reversibile, connesso alla iterazione rituale di una metastoria
mitica, caratterizzato dal riassorbimento della proliferazione del divenire nel
tempo primordiale e inaugurale, e dall’occultamento della storicità del divenire
stesso; negazione del tempo vissuto. Ad esso si contrappone il tempo vissuto
ricompreso nell’orizzonte di un inizio e di una fine assoluti: appare la irreversi-
bilità, la processualità del tempo, ma non la infinità della storia umana. Il mon-
do è cominciato, finirà, la storia è storia santa, e d’altra parte si fa valere
l’eterno ritorno per entro questo quadro, come eterno ritorno calendariale
nell’anno liturgico (anno destorificato). Nel tempo ciclico manca, nel ciclo, un
evento decisivo: ogni evento non decide nulla, ma ripete il già deciso nei pri-
mordi. Nel tempo escatologico in un determinato punto del corso temporale ir-
rompe qualcuno che dice qualche cosa di definitivo, il giorno di Jahve, il giudi-
zio universale, la salvazione finale, o l’ultima battaglia, come nell’Iran. Le im-
magini di cui ci si serve sono tutte sottratte al divenire naturale, giorno e notte,
estate ed inverno, ma l’ethos è però diventato un altro, è stato operato un taglio,
un tempus nel senso più proprio, un taglio che rovescia tutto l’ordine esistente.
Così il profeta Zaccaria può dire che la luce diventerà sera. Il tempo conclusivo
comporta un rovesciamento del corso mondano»49.

Ciò non ostante, nella ciclicità del culto cristiano si dischiude una
storia radicalmente nuova rispetto alle precedenti: si rende possibile il
rinvio continuo e sistematico degli eventi legati alla fine, garantendo un
orizzonte temporale all’azione missionaria.
Proprio in merito al rapporto tra tempo lineare della religione e tem-
po in fieri della storia (tempo etico) si consuma il dibattito teologico sul-
la cosiddetta «liberazione del cristianesimo» dal suo involucro «mitico»
__________
zioni generali sull’opera del teologo alsaziano appaiono, in tal senso, illuminanti: «È senza
dubbio una impostazione errata attribuire al ritardo della parusía la de-escatologizzazione del
cristianesimo primitivo, poiché il problema è di individuare una dinamica del Regno, una
qualità del modo di esperirlo, per cui già sin dall’inizio era al coperto dai rischi del rinvio,
così come fu poi al coperto dai rischi della morte violenta del maestro e ne riplasmò l’evento
nella cristologia» (La fine del mondo, brano 174.9, p. 324). Pur rimanendo nell’ambito della
terminologia cullmanniana, de Martino la riformula in una direzione che lo stato dei fram-
menti in nostro possesso non ci permette di valutare in tutta la sua reale portata (cfr. La fine
del mondo, brano 175, p. 324, commento all’articolo di O. Cullmann, Das wahre durch die
ausgebliebene Parusia gestellte neutestamentliche Problem, in «Theologische Zeitschrift»
3/3(1947), pp. 177-191).
48
Cfr. La fine del mondo, p. 283.
49
La fine del mondo, brano 123, pp. 241-242.
498 SAGGI / ESSAYS

e si apre il relativo confronto di de Martino con Geschichte und Escha-


tologie di Rudolph Bultmann50. Per il teologo tedesco, uno dei principali
iniziatori della cosiddetta «scuola delle forme», il momento escatologico
va strappato di forza dal pensiero mitico; il momento escatologico è pre-
sente in atto, già attivo nel presente cristiano e tutto teso alla presentifi-
cazione di una scelta, di una decisione, quella del credente che deve ac-
cettare la sostanziale presenza del «già e non ancora». Non è casuale che
gli appunti demartiniani mettano in rapporto Cullmann e Bultmann. In-
fatti, in una formula, la teologia di Bultmann è incentrata sul nunc, quel-
la di Cullmann sul tunc51. Ma, poiché un’analisi dei testi bultmanniani ci
fa scoprire il riferimento del nunc al tunc, dell’esistenza-in-decisione
all’essere-già-deciso (Entschlossenheit) dell’esistenza, come apertura
all’evento ephapax, si può dire che la ripresa cullmaniana del motivo
della Heilsgeschichte, intesa in base al nunc dell’esistenza, sia in qual-
che modo contenuta potentialiter nelle concezioni bultmanniane52.
De Martino, nell’analisi del rapporto fra divenire storico e momento
escatologico in Bultmann, parte, per così dire, in medias res, rilevando
immediatamente il nucleo centrale dello sforzo teologico del pensatore
tedesco:
«Il problema del rapporto fra divenire storico e momento escatologico si muove
in Bultmann nei limiti circoscritti di un’operazione di identificazione e di salva-
taggio di un nucleo della fede religiosa cristiana che è compatibile con la civiltà
moderna e col suo senso di storicità della condizione umana. Dentro questi limiti
il pensiero di Bultmann è da valutare come un episodio della crisi della storia u-
__________
50
Cfr. R. Bultmann, Storia ed escatologia. Cfr. La fine del mondo, brani 177-177.4, pp.
327-333.
51
Cfr. F. Costa, Teologia ed esistenza. Bultmann interprete di Paolo e di Giovanni, G.
D’Anna, Messina-Firenze 1978, pp. 347-350.
52
Cfr. O. Cullmann, Dalle fonti all’Evangelo, A.V.E., Roma 1971, p. 99. Il senso nuovo
dei concetti riabilitati da Culmann risulta, ad esempio, dall’analisi terminologica di “credere”
e “vedere”. Alla vista spetta la temporalità del tunc, alla fede quella della nunc. L’aver-visto è
un tunc autentico, perché determina il nunc. L’aver-creduto non ha questa proprietà; chi ha
creduto non per questo crede ancora, “ora”, tanto meno “vede ora”. Il rapporto tra nunc e tunc
nell’esegesi praticata da Cullmann si complica, però, allorché l’A. ripristina contro Bultmann
il punto di vista della Heilsgeschichte: la storia terrena di Gesù non è semplicemente il tratto
centrale della Heilsgeschichte, ma significazione germinale di essa, ricapitolazione. Il punto
cruciale è colto da Cullmann nel concetto di predeterminazione divina: «Dio, Signore del
tempo, ha scelto gli avvenimenti di cui si tratta, fra tutti gli altri avvenimenti, secondo un pia-
no determinato, addirittura secondo un “orario” per realizzare con essi la salvezza» (Studi di
teologia biblica, cit., p. 185). Ma allora qual è la differenza fondamentale tra la predestina-
zione storico-salvifica e la predestinazione di stampo stoico (non ostante la visione orizzonta-
le della Heilsgeschichte che ha Cullmann: cfr. ibi, pp. 194-195)? Quando Cullmann afferma
la continuità tra la predicazione di Gesù e il Cristo che opera nella sua Chiesa, non spiega di
che genere di continuità si tratti: mondana, storico-spirituale, storico-salvifica, kerygmatica,
dogmatica… Tutti inizi di una nuova tendenza interpretativa, quella messa in campo dallo
stesso Bultmann. In merito cfr. Costa, Teologia ed esistenza, cit., p. 350.
LUCA ARCARI - L’APOCALITTICA GIUDAICA E PROTO CRISTIANA 499

niversale come “piano” che si dispiega da una origine ad un termine, da un inizio


53
ad una fine ultima che conferisce senso univoco alle diverse tappe intermedie» .
L’affermazione va compresa come risposta alle riflessioni di Bul-
tmann in merito al pensiero apocalittico proto cristiano: per il teolo-
go tedesco il dualismo era certamente una caratteristica importante
dello sviluppo del kerygma apocalittico proto cristiano, ma tale rile-
vanza andava intesa soprattutto per viam negationis. Per Bultmann il
Nuovo Testamento non era altro che il tentativo di liberare la stessa
teologia cristiana primitiva dall’escatologia apocalittica, della cosmi-
cità dell’individuo propria della visione apocalittica della storia54. De
Martino così focalizza i problemi emergenti dal pensiero del teologo:
«Dentro questi limiti il Bultmann si prova a tracciare un disegno storico del te-
ma escatologico nella civiltà occidentale. La comunità cristiana primitiva atten-
deva la fine del mondo e la seconda parusía del Cristo in una temperie di attesa
che non dava orizzonte alla storia se non nel senso della imminente catastrofe
dell’ordine mondano. I rischi e le delusioni a cui era necessariamente esposta
questa attesa furono evitati mediante il differimento indefinito della seconda
parusía e la concentrazione dell’esperienza cristiana nella “fine” già avvenuta
col sacrificio del Dio-Uomo (Paolo), nella fede attuale del Cristo morto e risor-
to (Giovanni), e nella possibilità per il cristiano di partecipare attualmente, at-
traverso i sacramenti amministrati dalla Chiesa, alle efficacie soprannaturali

__________
53
La fine del mondo, brano 177.1, p. 327.
54
Cfr. R. Bultmann, Offenbarung und Heilsgeschehen, in Kerygma und Mythos, Herbert
Reich Evangelischer Verlag, Hamburg 1954, pp. 15-48. A p. 23 Bultmann afferma: «[nel cri-
stianesimo delle origini] da un lato l’uomo è inteso come un’entità cosmica, dall’altro come un
io autonomo, che è salvato o dannato dalla sua decisione personale». La stessa idea era difesa da
R. Schnackenburg (cfr. Gottes Herrschaft und Reich. Eine biblisch-teologische Studie, Herder,
Freiburg-Basel-Wien 1956): Gesù non avrebbe fatto altro che elevare il concetto apocalittico
della sovranità di Dio a idea salvifica di contenuto «puramente religioso» (ibi, p. 62). La tesi di
Bultmann si opponeva con forza a quella di A. Schweitzer, tesi che oggi viene definita della «e-
scatologia conseguente» (su cui cfr. anche La fine del mondo, brani 174.4.7.264.274.278) e ri-
presa anche dallo storico della dogmatica Martin Werner (cfr. Die Entstehung des christlichen
Dogmas, P. Haupt, Bern 1941; 19532), secondo il quale alla base dell’escatologia apocalittica vi
era un vero e proprio universalismo, quello stesso universalismo ripreso dal cristianesimo delle
origini (cfr. ibi, p. 8). La tesi di Bultmann è stata anche al centro di un aspro dibattito tra il mae-
stro e uno dei suoi più celebri discepoli, Ernst Käsemann (cfr. Die Anfänge christlicher Theolo-
gie, in «Zeitschrift für Theologie und Kirche» 57 [1960], pp. 160-186). Per Käsemann il Nuovo
Testamento avrebbe avuto lo scopo di interpretare l’antica alleanza in chiave essenzialmente
apocalittica e con lo sguardo sempre rivolto alla parusía del Figlio dell’Uomo. Per Käsemann,
inoltre, sarebbe stata proprio l’apocalittica a rendere possibile la presenza di un pensiero storico
all’interno del Nuovo Testamento (cfr. ibi, p. 175; si veda, per un quadro generale delle tesi di
Käsemann, R. Penna, Apocalittica e origini cristiane: lineamenti storici del problema, in
«Ricerche storico-bibliche» 7/2, 1995, pp. 11-13).
500 SAGGI / ESSAYS

precedenti all’evento centrale del Golgota, fondamentale unità di misura esca-


55
tologica di un prima e di un poi assoluti nel piano della storia della salvezza» .
In tale contesto ideologico va anche inquadrata la riflessione di de
Martino in merito alla crisi del piano della storia universale, la quale
emergerebbe dal tentativo del teologo di «de-escatologizzare» il cristia-
nesimo delle origini e, quindi, di «demitizzarlo» per renderlo completa-
mente accettabile all’uomo moderno (per Bultmann soltanto il nucleo
etico del messaggio proto cristiano poteva meglio adattarsi all’oggi):
«Il Bultmann accoglie dal pensiero moderno la crisi del “piano della storia uni-
versale”, cioè di un processo unilineare dell’umanità da una sua origine ad un
termine: ma tale accoglimento acquista in Bultmann il significato di una prova
che la “storicità della condizione umana”, affidata unicamente a se stessa, con-
duce ad un relativismo culturale senza orizzonte, manifestando anche per que-
sta via la sua riduzione all’assurdo e quindi l’esigenza della decisione della fede
cristiana, che meglio di tutte le altre rende conto del “negativo” inerente a quel-
la storicità e, al tempo stesso, del positivo della decisione personale – conti-
nuamente rinnovata dalla grazia mediante il Cristo. In realtà, fra la mitica storia
universale come “piano” più o meno divino o più o meno secolarizzato e il rela-
tivismo culturale nella forma rozza in cui si ritrova per esempio in Patterns of
Culture della Benedict, vi è una terza possibilità, e cioè il riconoscimento di
una dispersione delle genti e delle culture e, al tempo stesso, la unificazione
come compito concreto»56.
De Martino riconosce alla visione di Bultmann un’aporia di fondo:
pur cercando un modo per oltrepassare il pensiero mitico, e quindi libe-
rare il cristianesimo del suo retaggio antico, l’abbandono nella fede, e
quindi in una libertà come dono della grazia mediante Cristo, che rico-
nosce nella storicità della vita umana l’esposizione alla crisi della pre-
senza, riporta inevitabilmente il mito al centro dell’attenzione dell’uomo
contemporaneo:
«Ora il limite della posizione del Bultmann è che per un verso essa riconosce il
raccogliersi dell’escaton nell’attualità della decisione umana valorizzatrice, nel
trascendimento della situazione secondo valori intersoggettivi, ma poi alla base
di questo decidere mantiene la decisione fondamentale della fede, cioè la libertà
come dono della grazia divina mediante il Cristo e la congiunta esperienza di
una storicità della condizione umana come di un “negativo” che le forze umane
in quanto tali non possono oltrepassare. Da ciò deriva il carattere ambiguo del
pensiero di Bultmann, che resta ancora inconsapevolmente prigioniero del “mi-
to”, sia pure nella forma attenuata di una decisione per Cristo che dischiude al
compito della predicazione e dell’amore: una ambiguità destinata fra l’altro a
__________
55
La fine del mondo, brano 177.3, p. 329.
56
La fine del mondo, brano 177.3, pp. 331-332.
LUCA ARCARI - L’APOCALITTICA GIUDAICA E PROTO CRISTIANA 501

scontentare tutti, teisti e umanisti, i primi perché vi troveranno troppo poco mi-
57
to e i secondi perché ve ne troveranno ancora troppo» .
De Martino ritorna sulle tesi di Geschichte und Eschatologie, in oc-
casione della pubblicazione della traduzione italiana del volume di Bul-
tmann58, nel corso di un dibattito apparso sulla rivista De Homine nella
primavera del 196459. Qui lo storico delle religioni italiano rileva che la
tesi del teologo ha un sapore inevitabilmente storicistico, per cui va letta
come un’ulteriore prova della presenza di un lievito umanistico attivo
nel pensiero cristiano, come un esplicito riconoscimento della positività
della storia. Ma è una tesi che, al tempo stesso, più o meno espressa-
mente, taglia via dall’esperienza del credente simboli che non sono af-
fatto estranei alla fede religiosa cristiana e che contribuiscono alla fon-
damentale operazione di non lasciare il soggetto in balia di una crisi de-
strutturante60. Emerge, in tale contesto, la nozione di tempo etico, ovve-
ro un tempo che parte da un centro, da un evento-frattura capace di im-
primere una nuova direzione alla storia e di prospettare una nuova meta,
da raggiungere e superare61.
A differenza delle tesi del Cullmann, di cui de Martino rileva la so-
stanziale rigidità a-storica, ma di cui riprende, grossomodo, la formula-
zione generale, nel caso della critica a Bultmann ci troviamo di fronte ad
un rigetto totale dell’impostazione di fondo:
«Malgrado ogni apparenza egli si muove ancora nel solco tradizionale di un eu-
ropeismo dogmatico, che nella misura in cui è impegnato a verificare i titoli del
suo privilegiato rapporto col divino lascia senza lume il compito decisivo della
nostra epoca, cioè la lotta contro la dispersione delle genti e contro la moltepli-
cità irrelata delle loro storie corporative»62.

__________
57
La fine del mondo, brano 177.3, p. 331.
58
Cfr. R. Bultmann, Storia ed escatologia, cit.
59
Cfr. E. de Martino, A proposito del volume di Rudolph Bultmann Storia ed escatolo-
gia, cit.
60
Cfr. P. Angelini, Ernesto de Martino, cit., pp. 136-138.
61
Cfr. ibi, p. 138. Si veda anche quanto de Martino afferma ne I fondamenti di una teo-
ria del sacro (in E. de Martino, Storia e metastoria, cit., pp. 99-138): «La Pasqua è il vertice
di destorificazione dell’anno liturgico cattolico. La settimana di Pasqua è la settimana esem-
plare, la domenica di Pasqua il punto di riduzione di tutti i giorni dell’anno: così tutte la altre
settimane e tutte le altre domeniche ripetono quella settimana e quella domenica […]. La Pa-
squa è il giorno in cui l’uomo-dio è risorto vincendo la morte; la vigilia di Pasqua fu il model-
lo delle vigilie cimiteriali presso le tombe dei martiri, e le vigilie cimiteriali dettero luogo alle
feste dei martiri». Sebbene de Martino ammetta la profondità della costruzione cristiana del
tempo, evidenzia anche come, in quanto Religione, il cristianesimo non possa offrire ai cre-
denti la possibilità di vivere la fede in una storia, ma solo fuori di essa.
62
La fine del mondo, brano 177.4, p. 333.
502 SAGGI / ESSAYS

L’indagine demartiniana su La fine del mondo, così come prospettata


per i testi del cristianesimo delle origini, partecipa del dibattito che la
teologia del primo cinquantennio del Novecento svolgeva in merito al
problema della parusía di Cristo e al relativo rapporto tra questo ritorno
apocalittico-escatologico e la prima venuta, intesa come evento salvifico
già di per sé proprio in virtù della morte e resurrezione del Cristo.
Schematizzando le varie prospettive su cui de Martino innesta la sua di-
scussione, si può osservare quanto segue:
1. Secondo alcuni l’apocalittica andava considerata il centro del
messaggio proto cristiano; essa rappresentava la sicura promessa
dell’imminente irruzione della potenza di Dio nella storia del mondo.
Secondo l’apocalittico, infatti, stando a tale prospettiva di indagine, l’era
finale sarebbe venuta direttamente dal trono di Dio, probabilmente in un
tempo breve, spostando completamente il mondo dell’oggi, pieno di
malvagità, ed eliminando – ecco il dualismo apocalittico – non solo il
cosmo fisico, ma anche le aspirazioni, i progetti e le opere degli uomini
terreni. Il contenuto della «rivelazione» (apokalypsis) esisterebbe già,
univoco, finito, dettagliato e, al tempo stesso, minaccioso63.
2. Tale comprensione del cristianesimo delle origini era, invece,
completamente assente, per non dire avversata, nella lettura cosiddetta
«esistenziale» dei testi del Nuovo Testamento, portata avanti da Rudolf
Bultmann e dalla sua scuola. Secondo l’esegeta luterano i testi cosiddetti
«apocalittici» del Nuovo Testamento non erano altro che la rappresenta-
zione figurata, potremmo dire mitica, della trascendenza di Dio. Non ci
sono previsioni o promesse di un futuro per l’umanità, né riferimenti al-
la seconda venuta del Signore Gesù nella gloria; per Bultmann tali testi
erano forti espressioni di sapienza rivelata, intenti a chiarire la presenza
viva di Dio attraverso la fede del singolo individuo64. In questa direzio-
ne si poneva anche l’opera esegetica dell’anglicano Charles H. Dodd,
con la sua «escatologia realizzata». Basandosi principalmente sullo stu-
dio del Vangelo di Giovanni, l’autore sosteneva che il contenuto teolo-
gico della Scrittura andasse riferito, solo ed esclusivamente, al presente.
L’avvenimento cristiano par excellence – vita, passione, morte e risur-
rezione di Cristo – aveva già avuto luogo, e la salvezza dell’uomo me-
diante la fede non doveva fare altro che riferirsi a quell’avvenimento,

__________
63
Secondo alcuni apocalittici «an absolutely fixed future exists, which they perceived,
not as the inevitable outcome of present conduct, but rather as the violent revolution of the
present situation»: E.C. Porter, The Messages of the Apocalyptical Writers, Charles Scrib-
ner’s Sons, London-New York 1905, pp. 66ss.
64
In merito cfr. J. Chapa, La antropología teológica de Rudolf Bultmann, in «Scripta
Theologica» 36(2004), pp. 231-257.
LUCA ARCARI - L’APOCALITTICA GIUDAICA E PROTO CRISTIANA 503

tralasciando del tutto l’attesa del futuro escatologico65. Una posizione


simile veniva sostenuta, in quegli stessi anni, da quegli autori che consi-
deravano la letteratura apocalittica in generale – anche il Nuovo Testa-
mento – come testi di sapienza rivelata, intenti ad offrire spiegazioni
sulla situazione dell’essere umano in generale, in modo astratto e senza
riferimento ad un tempo specifico66. I testi apocalittici avrebbero dato
espressione alla trascendenza di Dio, senza preoccuparsi del futuro
dell’uomo concreto, per non parlare del destino dell’umanità intera67.
3. L’insistenza di Bultmann e dei suoi discepoli sul valore puramen-
te esistenziale dell’escatologia apocalittica è stato ridiscusso, negli anni
’60, da studiosi come Wolfhart Pannenberg68 e Jürgen Moltmann69, se-
guendo una linea già tracciata dal teologo riformato Oscar Cullmann70.
Essi partivano dal presupposto che l’attesa apocalittica della fine del
mondo apparteneva all’essenza del messaggio cristiano. In tal senso, la
riflessione cristiana si sarebbe sviluppata all’interno di una polarità non
tanto tra il Cristo pre-pasquale e quello post-pasquale, ma piuttosto tra la
vita terrena di Gesù Cristo, vivo, morto e risorto e il ritorno del Signore
Gesù nella gloria alla fine dei tempi per giudicare i vivi e i morti. Questi
autori erano pienamente consapevoli delle potenzialità intrinseche alle
posizioni precedenti, che consideravano l’escatologia cristiana come un
__________
65
Cfr. C.H. Dodd, The Interpretation of the Fourth Gospel, Cambridge University Press,
Cambridge 1953; Historical Tradition in the Fourth Gospel, Cambridge University Press,
Cambridge 1963.
66
Per un quadro generale cfr. K. Koch, Difficoltà dell’apocalittica. Scritto polemico su
un settore trascurato della scienza biblica, Paideia, Brescia 1977, pp. 55 ss.
67
Cfr. R. Bultmann, Kerygma und Mythos, cit., p. 131. Per Bultmann nel cristianesimo
non vi è alcun riferimento alla fine alla storia umana (per cui, quando il Nuovo Testamento
parla di parusía, bisognerebbe leggere Thanatos o morte dell’individuo: cfr. ibi, pp. 116-121),
mentre per Dodd la venuta del Signore nella gloria va considerata come una storia definitiva
di salvezza, come qualificazione dal di dentro dello stesso concetto di «rivelazione», in rife-
rimento alla vita della Chiesa pellegrina. Secondo queste posizioni l’istanza apocalittica, in-
vece di prendere atto della fine della Chiesa e della sua missione terrena attraverso il ritorno
del Salvatore, come giudice universale, sarebbe un semplice esempio sapienziale, teso ad una
lettura esistenziale della Bibbia. La Bibbia va resa più «attuale», parola destinata ad essere
letta «nello Spirito». In una simile visione delle cose, come si può facilmente comprendere, si
riflette, in qualche modo, la dottrina protestante del Sola Scriptura.
68
Cfr. Heilsgeschehen und Geschichte, in «Kerygma und Dogma» 5(1959), pp. 218-237;
259-288; W. von Pannenberg (ed.), Offenbarung als Geschichte, Vandenhoeck & Ruprecht,
Göttingen 1961. Pannenberg attribuiva alla risurrezione di Gesù un vero e proprio valore e-
scatologico, di anticipazione degli eventi finali: la resurrezione di Gesù sarebbe soprattutto
rivelazione di Dio e della sua potenza, connessa con l’avvenimento finale della resurrezione
dei morti e del giudizio (cfr. K. Koch, Difficoltà dell’apocalittica, cit., pp. 128-131).
69
Cfr. Theologie der Hoffnung, Christian Kaiser Verlag, München 1964; Das Kom-
men Gottes. Christliche Eschatologie, Chr. Kaiser-Gütersloher Verlaghaus, Gütersloh
1995, pp. 44 ss.
70
Cfr. Heil als Geschichte. Heilsgeschichtliche Existenz im Neuen Testament, J.C.B.
Mohr, Tübingen 1965.
504 SAGGI / ESSAYS

percorso a-storico, a-cosmico ed esistenzialista. Per questo, il tentativo


di ripensare la teologia cristiana nell’orizzonte di un’accettazione aperta
all’annuncio del ritorno glorioso di Gesù Cristo (la parusía, e con essa
la fine dei tempi, la resurrezione dei morti e il giudizio finale) ricono-
sceva nell’escaton, come consumazione definitiva della storia, l’obiet-
tivo e, quindi, un vero e proprio determinativo per il pensiero e l’azione
cristiani. Non stupisce che diversi autori cattolici della stessa epoca – ad
esempio Hans Urs von Balthasar71 e Rudolf Schnackenburg72 – abbiano
assunto una posizione analoga.
De Martino, pur con notevoli distinguo e forti prese di posizione su
aspetti generali e di merito, in sostanza, con il suo concentrarsi sul con-
cetto di apocalisse proto cristiana intesa come fine dell’ordine mondano
e restaurazione di un mondo altro, completamente rinnovato rispetto al
precedente, finisce con l’inserirsi nella temperie teologica della sua epo-
ca, intenta a chiarire se nel Nuovo Testamento fosse o no presente una
tensione escatologica volta a prefigurare la fine del costituito e la venuta
(imminente o meno) dell’era del giudizio, simbolo della completa e de-
finitiva palingenesi dell’universo. Per de Martino le apocalissi culturali,
e tra queste un posto di spicco lo trovano le apocalissi proto cristiane,
additano, con esplicita consapevolezza, la fine di un mondo; esse non
sono, o non sono soltanto, rivelazioni circa la fine, ma rivolgimenti che
segnano la fine di un mondo e l’inizio di un altro. Il fatto che de Marti-
no attribuisca valore realmente euristico decisivo al fenomeno
dell’apocalisse psicopatologica, la quale permette confronti illuminanti
(sebbene e contrario) con il fenomeno dell’apocalisse culturale73, mette
__________
71
Cfr. Eschatologie, in J. Feiner-J. Trütsch-E. Böckle (eds.), Fragen der Theologie heu-
te, Benziger, Einsiedeln-Zürich-Köln 19582, pp. 403-421.
72
Cfr. Gottes Herrschaft und Reich, cit., pp. 77-79.
73
Per i rapporti, sostanzialmente oppositivi, tra apocalisse psicopatologica e apocalisse
cristiana nell’indagine di de Martino si veda La fine del mondo, brano 179, pp. 334-335 (in
merito allo studio di E. Mounier, Pour un temps d’apocalypse, in Œuvres III: 1944-1950,
Seuil, Paris 1962, pp. 341 ss.). Resta, però, da chiarire a questo punto come mai de Martino
definisca anche quelle psicopatologiche apocalissi, dato che i due fatti si pongono su orizzon-
ti assolutamente opposti, da un lato la malattia, di per sé irrisolvente, una sorta di gorgo oscu-
ro che inghiotte ogni contatto con l’esterno, dall’altro la cultura, un superamento della crisi
nell’operatività nel e per il mondo. Evidentemente ciò che le accomuna è il tratto della fine,
ovvero il momento descrittivo dell’esperienza implicante la fine (ma non tutte le apocalissi
culturali testimoniano della fine del/di un mondo: si veda il Libro dei Vigilanti, la più antica
apocalisse a noi giunta), al di là degli esiti cui tale fine conduce. È sintomatico che il proble-
ma dei rapporti tra apocalissi irrisolventi e culturali venga affrontato nell’appunto dedicato
all’opera del filosofo francese E. Mounier, iniziatore di quella tendenza speculativa definita
del «personalismo comunitario», la cui riflessione porta de Martino a vedere nell’attesa della
fine proto cristiana, intesa soprattutto come fatto comunitario e, quindi, come scrive lo stesso
de Martino, «attivistico, tragicamente ottimistico» (La fine del mondo, p. 334), un dato asso-
lutamente determinante per opporre psicopatologia e cultura. Si trascura, in tal senso, come il
tema della preparazione gioiosa della fine non sempre, almeno nel giudaismo e nel cristiane-
LUCA ARCARI - L’APOCALITTICA GIUDAICA E PROTO CRISTIANA 505

in luce che il significato che lo studioso attribuisce al fatto apocalittico,


pur riformulato in una prospettiva antropologica volta a prendere atto di
differenze storico-culturali significative, è sostanzialmente aderente al
dibattito teologico tipico della tradizione di studi di matrice neotesta-
mentaria, pur se in una prospettiva «amplificata» e realmente pluridisci-
plinare. L’apocalisse ci mette in rapporto con un comune rischio di non
esserci nel mondo, e ciò non è molto differente dalle valutazioni di stu-
diosi come Rowley, Russell, Frost, Noth, Plöger, Rössler, von Rad, e
altri74, studiosi che – come vedremo fra poco – rappresentano il punto di
partenza delle stesse indagini di Cullmann, Bultmann, Moltmann e Pan-
nenberg. L’apocalittica non sarebbe altro che il tentativo di far irrompe-
re il futuro nel presente, di auspicare il rinnovamento per un presente
vissuto come crisi assoluta: la credenza che la storia umana sia sotto la
completa supervisione di Dio, che la storia stessa, dunque, sia causata e
originata da un’azione di Dio stesso, da un dono gratuito di Dio, restereb-
be la speranza sempre valida della teologia apocalittica, fondata sul rivol-
gimento e sul capovolgimento, meccanismi di fuga da un crisi reale.
Per quanto concerne la ricca letteratura cosiddetta apocalittica del
giudaismo del periodo ellenistico-romano, de Martino la analizza (seb-
bene tale aspetto non sia del tutto esplicito negli appunti dell’incompiuta
opera ultima) – così come negli studi di area tedesca comparsi tra ’800 e
’900 – sempre e comunque in funzione di una migliore comprensione
dell’attesa apocalittica (inteso quasi come sinonimo di escatologica) at-
testata in alcuni ambiti del cristianesimo delle origini. A tale valutazione
è sottesa l’idea, piuttosto diffusa nella tradizione di studi tra ’800 e ’900,
che esiste una apocalittica giudaica, intesa sostanzialmente come un
gruppo (più o meno unitario, ma comunque un gruppo religioso) di cui
il cristianesimo avrebbe raccolto l’eredità, ma per riformularla, ed inno-
varla, alla luce dell’evento «Cristo».

Dall’apocalittica giudaica come ideologia all’apocalittica giudaica co-


me complesso di testi da cui scaturiscono differenti visioni del mondo.

Si è incominciato ad utilizzare il termine «apocalittica», in maniera


scientifica, nell’Ottocento: partendo proprio dalla titolatura dell’Apo-
__________
simo antico (ma si pensi anche a casi di suicidi di massa collettivi tristemente noti al secolo
ormai scorso), abbia assunto le fattezze di una ripresa storica del rischio, «la riplasmazione
del finire di questo mondo nella iniziativa mondana che testimonia per questa fine e che in tal
guisa ridischiude di fatto sempre più larghi orizzonti di operabilità valorizzatrice del mondo»
(ibi). La riplasmazione culturale del dato catastrofico circa l’hic et nunc mondano non sempre
assicura della sua «non-morosità» totale (cfr. ibi).
74
Per un ampio quadro di sintesi sulle prospettive messe in campo da questi studiosi cfr.
K. Koch, Difficoltà dell’apocalittica, cit., pp. 43 ss.
506 SAGGI / ESSAYS

calisse di Giovanni e, di conseguenza, da un ambito prettamente forma-


le, si è passati alla definizione di un vero e proprio «movimento apoca-
littico». In tale contesto storiografico la stessa definizione di «genere
letterario apocalittico» è stata impiegata in una prospettiva ideologica e
non come classificazione esclusivamente formale (la definizione lettera-
ria appariva funzionale a definire uno specifico gruppo sociale da cui far
derivare l’apocalittica proto cristiana)75. Tale impiego, potremmo dire
ancillare, del concetto di apocalittica può essere fatto risalire a F. Lücke
e A. Hilgenfeld, autore il primo, nel 1852, di un’opera dal titolo Versuch
einer vollständingen Einleitung in die Offenbarung des Johannes oder
Allgemeine Untersuchungen über die apokalyptische Litteratur über-
haupt und die Apokalypse des Johannes insbesondere76 ed autore, il se-
condo, nel 1857, dello studio Die jüdische Apokalyptik im ihrer geschi-
chtlichen Entwickelung. Ein Beitrag zur Vorgeschichte des Christen-
thums nebst einem Anhange über das gnostische System des Basilides77.
Entrambi questi studiosi collegavano, in maniera quasi inscindibile, i
concetti di apocalittica ed escatologia. Entrambi, inoltre, sulla scorta di
tale quadro ermeneutico, individuavano il nesso «storico» tra la profezia
veterotestamentaria, l’apocalittica giudaica del secondo Tempio e il cri-
stianesimo delle origini: l’apocalittica rappresentava la vera e propria
«linea di displuvio» delle due parti della Bibbia, per cui risultava più
agevole mostrare come, dopo una fase di profondo declino spirituale e
religioso (la fase cosiddetta «apocalittica»), il Nuovo Testamento, rinvi-
gorendo l’annuncio profetico veterotestamentario alla luce dell’evento
«Cristo», fosse la più completa e veritiera realizzazione delle promesse
dell’antico Israele. Tale quadro di riferimento, sostanzialmente teologi-
co, o, meglio, volto a giustificare la pretesa biblica della cosiddetta «teo-
logia della sostituzione», ha inevitabilmente contraddistinto, come una
sorta di stigma, anche il successivo impiego del concetto di «apocalitti-
ca». Non ostante una maggiore attenzione ai testi cosiddetti «apocalitti-
ci», il medesimo impianto teologico, definibile senza mezzi termini co-
me evoluzionistico, è riscontrabile nelle indagini di H.H. Rowley78, D.S.
__________
75
Cfr. Arcari, Apocalisse di Giovanni e apocalittica giudaica, cit.
76
I-II voll., Bonn 1852. Sulla figura di questo studioso, recentemente, cfr. A. Christo-
phersen, Friedrich Lücke (1791 1855). Teil 1: Neutestamentliche Hermeutik und Exegese im
Zusammenhang mit seinem Leben und Werk; Teil 2: Documente und Briefe, Walter de Gruy-
ter, Berlin 1999 e Die Begründung der apokalyptischen Forschung durch Friedrich Lücke.
Zum Verhältnis von Eschatologie und Apokalyptik, in «Kerygma und Dogma» 47(2001), pp.
158-179.
77
Jena 1857 (rist. Rodopi, Amsterdam 1966). Su Hilgenfeld cfr. J.M. Schmidt, Die jüdi-
sche Apokalyptik: Die Geschichte ihrer Erforschung von den Anfängen bis zu den Textfunden
von Qumran, Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn 1969, pp. 127 ss.
78
Cfr. The Relevance of Apocalyptic. A Study of Jewish and Christian Apocalypses, from
Daniel to the Revelation, Lutterworth, London 1947. Qui lo schema della distanza tra profe-
LUCA ARCARI - L’APOCALITTICA GIUDAICA E PROTO CRISTIANA 507

Russell79, S.B. Frost80, per l’area anglosassone, M. Noth81, O. Plöger 82,


D. Rössler83, G. von Rad84, O. Eissfeldt85, per l’area tedesca, M. Go-
__________
zia e apocalittica viene abbastanza ridimensionato, per cui la profezia emerge come la madre
della teologia apocalittica; a ciò si unisca che l’apocalittica giudaica si fa corifea di valori re-
ligiosi universali. Emerge, però, non ostante l’innovazione legata ad alcune prospettive inau-
gurate dall’A. (ad esempio, lo stretto collegamento tra apocalittica giudaica e mondo persia-
no), una valutazione ugualmente evoluzionistica: per gli apocalittici il presente è qualcosa di
negativo, dominato dal male; il male è, il più delle volte, incarnato dalle istituzioni politiche e
dal potere; coloro che invece sono fedeli a Dio appartengono agli emarginati e ai derisi; la
speranza degli apocalittici suscita in ogni uomo la speranza nell’al di là e nella resurrezione
finale. Emerge, quasi in maniera lapalissiana, come tale schema inevitabilmente conduca a
vedere nel cristianesimo delle origini la più completa realizzazione della speranza apocalittica
giudaica la quale, non a caso, con l’apparire del N.T., si sarebbe definitivamente estinta, per-
ché realizzatasi nell’evento «Cristo».
79
Cfr. The Method and Message of Apocalyptic, 200 B.C.-A.D. 100, SCM Press, London
1964. Per Russell l’apocalittica è una profezia rinnovata (e arricchita) dalla sapienza, legata al
gruppo degli Hasidim. Anche per Russell l’apocalittica è il punto di sutura tra Antico e Nuovo
Testamento, una profezia che attribuisce peso a un giudizio che è «oltre il tempo e la storia» (ibi,
p. 95). Per quanto concerne l’origine del fenomeno apocalittico, Russell lo situa all’epoca elleni-
stica, non ostante l’incrollabile fede degli apocalittici nel giudaismo tradizionale.
80
Cfr. Old Testament Apocalyptic. Its Origin and Growth, Fernley, London 1952. In
questo studio Frost si muove sulla scia del Rowley: sostiene che gli apocalittici «vedevano il
loro compito in una teodicea», in una «filosofia della storia» (ibi, p. 8; cfr. K. Koch, Difficoltà
dell’apocalittica, cit., p. 63). Successivamente, però, Frost sembra schierarsi a favore di una
tesi opposta a quella sostenuta in precedenza; in Apocalyptic and History, in J.Ph. Hyatt, ed.,
The Bible in Modern Scholarship, Abingdon Press, Nashville 1966, pp. 98-113, egli sostiene
il completo abbandono, da parte degli apocalittici, del metodo storico per quanto concerne il
modo di pensare l’antico Israele; l’escatologia non sarebbe altro che una fuga da e un rifiuto
della stessa tragicità della storia (cfr. Apocalyptic and History, cit., pp. 112-113).
81
Cfr. Das Geschichtsverständnis der alttestamentlichen Apokalyptik, in Id., Gesammel-
te Studien zum A.T., Kaiser, München 1957(19602), pp. 248-273. Qui Noth parte dall’analisi
di un problema specifico, l’origine dello schema dei quattro regni in Daniele 7. Ma per l’A.
tale problema è di fondamentale importanza per comprendere la concezione apocalittica della
storia: il numero tondo di 4 testimonia che «tutta la storia cosmica è in continua attesa della
parusia del regno di Dio» (cfr. K. Koch, Difficoltà dell’apocalittica, p. 47).
82
Cfr. Theokratie und Eschatologie, Neukirchener Verlag, Neukirchen 1959. L’A. con-
sidera il giudaismo post-esilico diviso in due grandi correnti in opposizione: da un lato, i «te-
ocratici», la cui espressione massima sarebbero i libri biblici delle Cronache, per i quali il
presente in cui si trovano a vivere è la diretta continuazione dell’opera di Dio, dato che il pro-
fetismo ha esaurito il suo compito (connesso a tale prospettiva è il rifiuto di ogni escatologia),
e gli «apocalittici», i quali sono alla ricerca del «piano di Dio per l’umanità» che ancora non
si è realizzato (gli apocalittici simpatizzano per idee di matrice iranica e sono separati dalla
maggioranza teocratica in piccole comunità dissidenti: cfr. ibi, pp. 44.59).
83
Cfr. Gesetz und Geschichte. Untersuchungen zur Theologie der jüdischen Apokalyptik
und der pharisäischen Orthodoxie, Neukirchener Verlag, Neukirchen 1960 (19622). Anche in
questo studio il giudaismo del periodo ellenistico-romano viene diviso in due grandi correnti
contrastanti, quella «apocalittica» e quella «rabbinica». Queste due correnti vengono analiz-
zate come in opposizione sul binomio legge/storia: se la prima guarda alla storia come ad un
immenso scenario terreno e cosmico interamente dominato da Dio, la seconda ritiene la storia
completamente sottomessa alla Torah. Con Rössler nasce quella considerazione, che mette a
frutto alcune intuizioni di M. Weber, secondo cui i movimenti cosiddetti carismatici sarebbe-
ro all’opposto del consolidato e dell’istituzionalizzato.
508 SAGGI / ESSAYS

guel86, M.J. Lagrange87, J. Bonsirven88, per l’area francese. Tutti gli stu-
diosi richiamati, non ostante alcune specificità e particolarità, rappresen-
tano, in sostanza, due tendenze: quella che potremmo definire
dell’allontanamento (o della svalutazione), per cui l’apocalittica è, in
realtà ciò da cui il cristianesimo delle origini si è distanziato, oppure
quella del perfezionamento, per cui è l’apocalittica ciò che ha permesso
lo sviluppo del cristianesimo delle origini89. In entrambi i casi, siamo di
__________
84
Cfr. Theologie des Alten Testaments, Kaiser, München 1960 (19654). Certamente
quella del von Rad è una delle prospettive che più ha pesato nella storia degli studi sul feno-
meno apocalittico. L’A. ha trattato il tema dell’apocalittica in maniera diversa a seconda delle
edizioni della sua Theologie: se nella prima (1960) l’accento viene messo sull’escatologia
delle apocalissi (descritta attraverso i concetti di dualismo, trascendentalismo ed esoterismo:
cfr. ibi, pp. 314 s.), nella quarta edizione (1965) viene soppressa la parte inerente
all’escatologia (si parla solo di «vivo interesse per gli eschata»: ibi, p. 319), e scompare la
trattazione sui rapporti tra apocalittica e messianismo, per meglio definire i rapporti tra apoca-
littica e sapienza. Per quanto concerne la visione apocalittica della storia, il von Rad la defini-
sce attraverso i concetti di «determinismo», «gnosi universale di aspetto del tutto ibrido»,
«macroscopica perdita di senso storico», «concezione gnosticizzante di un decorso calcolabi-
le», «pensiero a-storico», «abrogazione della contingenza». Per quanto concerne l’origine
dell’apocalittica, il von Rad vede nella sapienza il precedente più immediato dell’enciclo-
pedismo e della parenesi apocalittici; anche i brani più espressamente escatologici, per il von
Rad, vanno inquadrati in una discorso più ampio, di carattere sapienziale.
85
Cfr. Einleitung in das Alte Testament, unter Einschluss der Apokryphen und Pseude-
pigraphen, sowie der apokryphen- und pseudepigraphenartigen Qumranschriften, Mohr, Tü-
bingen 19642. Eissfeldt è uno dei primi studiosi a mettere a frutto le scoperte di Qumran per
una definizione dell’apocalittica. Per lui l’apocalittica è diretta discendente del profetismo
veterotestamentario (sebbene gli apocalittici, a differenza dei profeti, vadano considerati
scrittori e non oratori).
86
Cfr. Eschatologie et apocalyptique dans le christianisme primitif, in «Revue de
l’Histoire des Religions» 106(1932), pp. 381-434; 489-524. Lo studio si pone sulla scia di
certa teologia del primo cinquantennio del ’900. L’A. sviluppa la tesi del Gesù «non apocalit-
tico» e di una comunità primitiva «apocalittica». In una prima fase della sua predicazione Ge-
sù si sarebbe rifatto a Giovanni Battista, espressione di un gruppo apocalittico, ma per poi
discostarsene (cfr. ibi, p. 387). Gesù avrebbe accolto la teoria dei due eoni solo perché piutto-
sto diffusa; ma sarebbero del tutto assenti, nella sua predicazione, i tratti salienti e distintivi
del pensiero apocalittico: la fine del mondo, la venuta imprevedibile del Figlio dell’Uomo, la
disfatta definitiva ed ultima di Satana.
87
Cfr. Le judaisme avant Jésus-Christ, J. Gabalda, Paris 1931. L’A. si concentra sui
rapporti tra profezia ed apocalittica (ibi, pp. 70-81) e sulle idee tipiche dell’apocalittica (ibi,
pp. 81-90). Queste possono essere facilmente riassunte nell’idea della basileia tou Theou,
concetto definitivamente perfezionato dal cristianesimo delle origini.
88
Cfr. Le judaisme palestinien au temps de Jésus-Christ, I-II voll., Beauchesne, Paris
1935. Per l’A. quello apocalittico sarebbe un gruppo che odia la realtà, fattasi insopportabile,
e che si rifugia nell’attesa spasmodica di un futuro di rinnovamento. Non ostante tali premes-
se, però, per Bonsirven gli apocalittici «non hanno affatto preparato la strada a Cristo, anzi è
vero il contrario; esasperando essi l’idea di un Messia glorioso, potente in forza terrena, con-
tribuirono ad irretire viepiù Israele nel tragico errore, la cui conseguenza doveva essere il de-
litto del Golgota» (K. Koch, Difficoltà dell’apocalittica, p. 119).
89
Si veda anche quanto affermava W. Bousset, Die jüdische Apokalyptik, ihre religion-
sgeschichtliche Herkunft und ihre Bedeutung für das neue Testament, Reuter & Reichard,
LUCA ARCARI - L’APOCALITTICA GIUDAICA E PROTO CRISTIANA 509

fronte a un concetto storiografico ancillare, costruito per contestualizza-


re il cristianesimo delle origini. In tale meccanismo ermeneutico, appare
evidente quanto fosse funzionale livellare le differenze emergenti dagli
scritti cosiddetti apocalittici del giudaismo del periodo ellenistico-
romano in una sorta di ologramma indistinto: tutti i testi esprimevano, in
sostanza, una medesima ideologia o, per meglio dire, una identica teolo-
gia, interamente fondata sull’attesa escatologica (tanto che i concetti di
apocalittica ed escatologia andavano di fatto ad identificarsi) e
sull’attesa del liberatore finale e/o del Messia, un giudice escatologico
dai tratti fortemente terreni e regali. In entrambe le tendenze richiamate,
comunque, l’accento veniva messo sulla sostanziale sovrapponibilità tra
il genere letterario dei testi e l’ipotetico gruppo che li avrebbe prodotti,
entrambi etichettati come apocalittici; le differenze ideologiche tra i te-
sti, emergenti anche ad una lettura epidermica, venivano oscurate, oppu-
re attribuite ad un ipotetico sviluppo storico del movimento apocalittico,
per lasciare emergere quella che veniva ritenuta essere l’essenza, o la
cifra essenziale, del movimento. Il meccanismo ermeneutico soggiacente
all’impiego del concetto è, d’altronde, evidente nella ricerca, già richia-
mata, di E. Käsemann, forse il punto più alto degli studi del secolo scor-
so sull’apocalittica giudaica nei suoi rapporti con lo sviluppo del proto
cristianesimo. Il discepolo di Bultmann parte da una domanda fonda-
mentale: è l’apocalittica la «madre» di ogni teologia cristiana? Analiz-
zando le proposizioni di diritto sacro, quali si presentano nella tradizio-
ne sinottica e la cui origine sarebbe da ricercarsi in fasi orali e prelette-
rarie della tradizione (ad esempio, Mt 19,28 s.; 24,37), Käsemann ri-
sponde affermativamente, sebbene egli introduca la separazione tra Ge-
sù storico e kerygma «apocalittico» degli evangelisti. Per Käsemann90:
1. Gesù non può essere considerato in alcun modo un apocalittico;
2. solo la Chiesa post-pasquale risponde alla predicazione di Gesù con
una «apocalittica nuova» (attesa della parusía del Figlio dell’Uomo
alla fine dei tempi);
3. l’apocalittica post-pasquale ha conosciuto tre tappe fondamentali:
i. apocalittica giudeo-cristiana (ad esempio, Mt 5,17-20 e 7,22-
23: legalismo e attesa della parusía; opposizione alla missione
tra i gentili);
ii. apocalittica misterico/ellenistica (ad esempio, la comunità di
Corinto con il suo ejnqousiasmov~ escatologico);

__________
Berlin 1903, capostipite dell’indagine cosiddetta «storico-religiosa» in merito all’apocalittica:
cfr. L. Arcari, Apocalisse di Giovanni e apocalittica giudaica, cit.
90
Cfr. Die Anfänge, cit., pp. 184-186. Cfr. anche Penna, Apocalittica e origini cristiane,
cit., pp. 11-13.
510 SAGGI / ESSAYS

iii. apocalittica paolina (o della «sintesi» paolina: combinazione


tra il già e il non ancora).
L’analisi del discepolo di Bultmann ha destato, come era ovvio a-
spettarsi, un certo scalpore; G. Ebeling ed E. Fuchs, in particolare, han-
no preso posizione, non condividendo, l’uno91, il peso eccessivo conces-
so alla tradizione (che non può essere considerata come la reale espres-
sione del pensiero di Gesù), non accettando, l’altro92, l’unione tra termi-
nologia e contenuto apocalittici all’interno della teologia neotestamenta-
ria. Käsemann, nella risposta, ribadisce la sua visione dello sviluppo del
cristianesimo primitivo dall’alveo apocalittico, spostando, però, la di-
scussione su un piano più espressamente metodologico93. Anche Bul-
tmann risponde alle tesi del suo discepolo, ammettendo un certo influsso
dell’apocalittica su Gesù, ma non all’interno del pensiero paolino, mag-
giormente teso ad una vera e propria antropologia94. Al di là delle pro-
spettive richiamate, comunque, ciò che emerge è
1. una visione del fatto apocalittico giudaico in funzione dello sviluppo
del cristianesimo delle origini;
2. una considerazione dell’apocalittica giudaica come un vero e pro-
prio movimento del periodo ellenistico-romano;
3. un livellamento delle specificità dei testi apocalittici giudaici in
funzione teologica, ovvero mostrare lo sviluppo del cristianesimo
delle origini secondo un modello evoluzionistico di continuità o di
opposizione.
Negli anni ’70 del secolo scorso, però, incomincia ad intravedersi un
primo importante mutamento nel quadro degli studi sull’apocalittica
giudaica, forse in seguito alla pubblicazione di nuove traduzioni ed edi-
zioni dei testi cosiddetti apocrifi e/o pseudepigrafi95, allo stato di avan-
__________
91
Cfr. Der Grund christlicher Theologie, in «Zeitschrift für Theologie und Kirche»
58(1961), pp. 227-244.
92
Cfr. Über die Aufgabe christlicher Theologie, in «Zeitschrift für Theologie und Kir-
che» 58(1961), pp. 245-267.
93
Cfr. Zum Thema der christlicher Apokalyptik, in «Zeitschrift für Theologie und Kir-
che» 59(1962), pp. 257-284.
94
Cfr. Ist die Apokalyptik die Mutter der christlicher Theologie? Eine Auseinandersetzung
mit E. Käsemann, in Apophoreta: Festschrift für Ernst Haenchen zu seinem siebzigsten Geburt-
stag am 10. Dezember 1964, Töpelmann, Berlin 1964, pp. 64-69. Ricordiamo un’altra polemica
che si sviluppò tra Bultmann e Käsemann, quella inerente al problema del Gesù storico. Da un
lato, troviamo l’impossibilità di raggiungere la storicità effettiva del Gesù/persona (essendo il
kerygma preponderante nelle tradizioni su Gesù), dall’altro, invece, l’affermazione della fonda-
mentale presenza della storia oltre il kerygma: in merito, cfr. G. Jossa, La verità dei Vangeli.
Gesù di Nazaret tra storia e fede, Roma, Carocci 1998, pp. 56-65.
95
Per un completo quadro bibliografico cfr. J.H. Charlesworth, The Pseudepigrapha and
Modern Research with a Supplement, SBL Press, Chico CA 1981; Gli pseudepigrafi
dell’Antico Testamento e il Nuovo Testamento. Prolegomena allo studio delle origini cristia-
ne, Paideia, Brescia 1990, pp. 31-70. Più recentemente, cfr. P. Sacchi, Il problema degli apo-
LUCA ARCARI - L’APOCALITTICA GIUDAICA E PROTO CRISTIANA 511

zamento degli studi sui manoscritti di Qumran96, e, non da ultimo in or-


dine di importanza, ad una maggiore sensibilità per quanto concerne
l’analisi dei rapporti tra giudaismo del periodo ellenistico-romano e pro-
to cristianesimo97. Uno dei principali protagonisti di tale rinnovamento è
certamente lo studioso americano John J. Collins, docente di Antico Te-
stamento a Yale e coordinatore, tra il 1977 e il 1980, di un gruppo di
studio sull’apocalittica giudaica 98.
In un primo importante articolo, apparso nel 1977, Collins ha affron-
tato, con estrema chiarezza, il problema dei rapporti tra forma e conte-
nuto «apocalittici»99. L’A. esordisce con l’osservare che i termini «apo-
calisse» e «apocalittica», in riferimento ad una classe ben definita di
scritti, sono derivazione della titolatura dell’Apocalisse neotestamenta-
ria. Eppure – continua lo studioso – alcuni esegeti hanno messo in di-
scussione l’appartenenza dello scritto successivamente accolto nel ca-
none neotestamentario al genere in questione:
«The name “apocalypse” and “apocalyptic” by which refer to a class of Jewish
writings from the Hellenistic period are derived from the title of the Apoca-
lypse of John. Nevertheless, a number of recent scholars have disputed whether
the Apocalypse is an apocalypse» (p. 329).
Non ostante ciò, lo studioso non manca di rilevare le colleganze,
strettamente formali, che associano lo scritto neotestamentario ad al-
cuni testi del giudaismo del periodo ellenistico-romano: la forma con
cui viene presentata la rivelazione, il contenuto, l’espediente della vi-
sione ultraceleste. Il raffronto viene condotto sulla base di una selezio-
ne di testi del giudaismo del secondo Tempio, selezione che sembra
obbedire ad una classificazione esclusivamente letteraria e formale,
partendo proprio dalle similarità letterarie con l’Apocalisse neotesta-
mentaria (l’A. cita Daniele 7-12, il Libro dei Vigilanti, il Libro delle
Parabole di Enoc, il Libro dell’Astronomia, il Libro dei Sogni, il
2Enoc, il 4Ezra, il 2Baruc e l’Apocalisse di Abramo; questi testi pos-
sono essere suddivisi, sotto il piano strettamente formale, in due parti-
__________
crifi dell’Antico Testamento, in «Henoch» 21(1999), pp. 97-130 (ora in Id., Apocrifi
dell’Antico Testamento, III vol., Paideia, Brescia 1999, pp. 9-52).
96
Cfr. J.A. Fitzmyer, The Dead Sea Scrolls. Major Publications and Tools for Study,
Society of Biblical Literature Press, Missoula MT 1975.
97
Dovuta ad una serie di motivazioni storiche legate alla fase post-Shoah: cfr. M. Del
Verme, Didache and Judaism: Jewish Roots of an Ancient Christian-Jewish Work, T.&T. Clark,
New York-London 2004, pp. 16-111; D. Garribba, La presentazione del giudaismo del secondo
Tempio nella storiografia del XX secolo, in «Rassegna di teologia» 45(2004), pp. 73-88.
98
Cfr. J.J. Collins (ed.), Apocalyptic. The Morphology of a Genre, in «Semeia»
14(1979).
99
Cfr. J.J. Collins, Pseudonymity, Historical Reviews and the Genre of the Revelation of
John, in «Catholic Biblical Quarterly» 39(1977), pp. 329-343.
512 SAGGI / ESSAYS

colari sotto-generi: «apocalissi con viaggio ultraterreno» e «apocalissi


senza viaggio ultraterreno o storiche»100):
«We may begin by noting the similarities which link Revelation to a group of
Jewish writings which are usually recognized as apocalypses […]. The similari-
ties between Revelation and these writings pertain to both the form in which the
revelation is presented and the content of that revelation. In each of the works
mentioned the revelation is given at least in part in the form of a heavenly vi-
sion. It is always mediated by a heavenly figure – usually an angel who inter-
preters the vision»101.
Connesse a queste osservazioni di carattere esclusivamente formale
sono quelle legate ad una specifica “visione del mondo’ (quello che Col-
lins classifica come content):
«In content, each of these writings is eschatological, and expresses the hope of
both cosmic transformation and personal afterlife. However the combination of
this manner of revelation with an eschatology which is both cosmic and personal
is found only in these writings. This combination is also found in Revelation. In-
deed, the opening verse of the book […] already highlights the mediated revela-
tion and the eschatological content as defining characteristics»102.

Che Collins intenda Content nel senso di una speciale visione del
mondo, e non come una specifica ideologia di uno specifico gruppo, si
evince dai numerosi studi che l’A. ha dedicato all’argomento: le osser-
vazioni riguardanti il contenuto apocalittico sono sempre formulate in
base ad osservazioni di tipo letterario e formale103. La stessa definizione
__________
100
Cfr. Introduction. Towards the Morphology of a Genre, in «Semeia» 14(1979), p. 28.
101
Pseudonymity, Historical Reviews and the Genre of the Revelation of John, cit., pp.
329-330.
102
Ibi, p. 330.
103
Cfr. Introduction. Towards the Morphology of a Genre, cit.; The Apocalyptic Imagi-
nation. An Introduction to Jewish Apocalyptic Literature, Eerdmans, Grand Rapids 1998²: «If
the word “apocalypticism” is taken to mean the ideology of a movement that shares the con-
ceptual structure of the apocalypses, then we must recognize that there may be different types
of apocalyptic movements, just as there are different types of apocalypses» (p. 13). «The
study of the apocalyptic genre rejects the genetic orientation of previous scholarship and
places its primary emphasis on the internal coherence of the apocalyptic texts themselves
[…]. It is generally agreed that apocalypse is not simply “a conceptual genre of the mind” but
is generated by social and historical circumstances. On the broadest level “the style of an ep-
och can be understood as a matrix insofar as it furnishes the codes or raw materials – the typi-
cal categories of communication – employed by a certain society” (cit. da R. Knierim, «Old
Testament Form Criticism Reconsidered», in Interpretation 27 [1973], p. 464) (pp. 21-22)».
Ma, al di là di questo, Collins specifica: «The more specific social and historical matrices of
apocalyptic literature will be discussed in relation to specific texts. Older scholarship in this
area has suffered from excessive hastiness because of the tendency to assume that the setting
of one or two well-known apocalypses is representative of the whole genre […]. We cannot
assume a priori that the Enoch literature attests the same phenomenon that anthropologists, on
LUCA ARCARI - L’APOCALITTICA GIUDAICA E PROTO CRISTIANA 513

di «apocalittica» riguarda solo un’astrazione risultante da un particolare


«genere» che presenta, come qualsiasi altro genere letterario, una sua spe-
cifica visione del mondo derivante dalle caratteristiche del genere mede-
simo, prescindendo dalle diversità ideologiche dei singoli testi che posso-
no essere classificati all’interno di quello specifico genere. Ma resta che la
cosiddetta «apocalittica» non rappresenta il làscito di un ben determinabi-
le movimento presente nel giudaismo del periodo ellenistico-romano:
«It is not apparent, however, that the authors of Daniel belonged to the same
circles as those of 1 Enoch. 4 Ezra and 2 Baruch represent a very different
theological tradition from the Enoch literature. It is misleading, then, to speak
of “the apocalyptic movement” as though it were a single unified social phe-
nomenon»104.

Il raffronto tra l’Apocalisse di Giovanni e l’apocalittica giudaica


viene condotto dal Collins sulla base dei principi metodologici sopra ri-
chiamati: il primo elemento che viene analizzato è quello della pseude-
pigrafia, ed è dunque un procedimento esclusivamente formale (ma che
ha implicazioni anche nella visione del mondo dei testi apocalittici105).
L’A. rileva come l’assenza del procedimento pseudepigrafico in Apoca-
lisse fosse una delle argomentazioni decisive per quegli studiosi che
hanno negato la continuità del testo neotestamentario con la letteratura
apocalittica giudaica. Per Collins, così come per Russell prima di lui, la
pseudonimia, negli scritti apocalittici, è uno stratagemma che mira a da-
re «prestige to apocalyptic writing. First the pseudonym chosen was in-
evitably that of a venerable and prestigious figure – Ezra, Enoch,
Daniel»106. La posizione dell’Apocalisse neotestamentaria – in questo
__________
the basis of very different evidence, call a millenarian movement or “apocalyptic religion”
[…]. There is no basis for the assumption that all the apocalyptic literature was produced by a
single movement» (pp. 37-38). Ciò non toglie che il genere stesso sia portatore di una sua
«visione del mondo» e, conseguentemente, di una specifica «funzione» (consolazione e/o e-
sortazione per gruppi in crisi: cfr. Introduction. Toward the Morphology of a Genre, cit., pp.
9.12): «The function of the apocalyptic literature is to shape one’s imaginative perception of a
situation and so lay the basis for whatever course of action it exhorts» (The Apocalyptic
Imagination, cit., p. 42); cfr. anche Seers, Sybils, and Sages, cit., pp. 25-38; 39-58; 75-98;
261-286; 301-314; 317-338; 385-408). Cfr. anche Apocalypticism in the Dead Sea Scrolls,
Routledge, London-New York 1997, p. 8 (l’apocalittica non è un movimento). Ciò non ostan-
te è possibile ricostruire filoni per quanto concerne la ripresa di elementi che derivano dalla
«visione del mondo» apocalittica: ad esempio, cfr. Id., The Mythology of Holy War in Daniel
and Qumran War Scroll, «Vetus Testamentum» 25 (1975), pp. 596-612 (il caso dei rapporti
tra Daniele e Qumran, per Collins, è particolarmente indicativo, visto che nel testo andrebbe
ravvisata una delle matrici ideologiche e, quindi, storiche della comunità: cfr. Apocalypticism
in the Dead Sea Scrolls, cit., pp. 12-18).
104
The Apocalyptic Imagination, cit., p. 38.
105
Cfr. Pseudonymity, Historical Reviews, cit., pp. 330-333.
106
Ibi, p. 332.
514 SAGGI / ESSAYS

ambito – ha certamente una sua specificità, ma questa è spiegabile sulla


scorta del contesto storico in cui il testo ha visto il suo sorgere107. Con-
nesso a questo problema, inoltre, è quello delle profezie ex eventu: la
pseudepigrafia è lo strumento privilegiato che permette agli autori di
scritti apocalittici di sviluppare e trarre argomentazioni da previsioni che
si retrodatano al tempo del personaggio protagonista dello scritto, la cui
testimonianza – di conseguenza – assume maggiore valore autoritati-
vo108. La ripresa della storia passata in chiave profetica si ritrova in al-
cuni scritti dal carattere apocalittico (soprattutto Daniele 7, 8, 9, 11, il
Libro dei Sogni, 2Baruc 36-40; 53-74, 4Ezra 11-12109), ed è strettamen-
te collegata, da un lato, al procedimento pseudepigrafico e, dall’altro, ad
una «visione del mondo» che appare, almeno in alcuni testi, «determini-
stica»110. La sua funzione è, dunque, quella
«to assure the reader that the end is near. The manner in which this assurance is
given presupposes a deterministic view of history. The course of history has a
predetermined duration and a fixed number of periods. This approach to history
is not peculiar to Daniel. The very idea of ex eventu prophecy readily lends it-
self to the inference that the events predicted were already determined in the
time of the visionary, whether Enoch, Daniel or the Sybil. The impression of
determinism was accentuated by the division of history into a set number of pe-
riods which explicitly determined its duration»111.

La specificità dell’Apocalisse neotestamentaria, in questo contesto


concernente la pseudepigrafia e la visione storica, è condizionata, per
così dire, dalla credenza della prossimità dell’eschaton in alcuni settori
del cristianesimo primitivo, come è testimoniato, ad esempio, da certe
osservazioni che Paolo invia alla comunità di Corinto (cfr. 1Corinzi

__________
107
Ibi, p. 333: «Evidently the author of Revelation felt that a revelation of Jesus Christ
would be accepted by his audience without the added authority of such a pseudonymous vi-
sionary. The lack of pseudonymity, then, reflects the heightened eschatological fervor of the
early Christian community and its greater receptivity for apocalyptic revelations. In departing
from the use of pseudonymity, Revelation merely dropped one of the accrediting devices of
apocalyptic style which was found superfluous in the historical context. This omission is not
sufficient to indicate a new genre».
108
Ibi, p. 332: «The second factor involved in pseudonymity is that it created the possi-
bility of ex eventu prophecy. If Daniel, speaking in the time of the exile, is to prophecy the
future course of history he must fill in a few hundred years before he reaches the time of the
real author. The accuracy of the ex eventu prophecy confirms the reliability of the real predic-
tion and so augments its prestige».
109
Collins nota, però, come la rievocazione attuata da 4Ezra non sia presentata come una
profezia ex eventu, ma come un esplicita rievocazione storica.
110
Ibi, p. 335: «The review of history is designed to enable the reader to recognize his
place in the course of history by identifying the last “prediction” which has been fulfilled».
111
Ibi, p. 335.
LUCA ARCARI - L’APOCALITTICA GIUDAICA E PROTO CRISTIANA 515

15,51)112. La conclusione cui giunge lo studioso americano è la seguen-


te: l’Apocalisse neotestamentaria presenta alcune divergenze dal genere
apocalittico e con la visione del mondo derivante da quello, ma questo
non ci autorizza a parlare di «generi letterari» differenti113.
L’analisi del Collins sui rapporti tra l’Apocalisse neotestamentaria e
la letteratura apocalittica giudaica ha il merito di concentrarsi sugli a-
spetti esclusivamente formali del testo successivamente accolto nel ca-
none neotestamentario e sulla conseguente “visione del mondo” che de-
riva dalla sua specifica costruzione letteraria; così come per i testi apo-
calittici giudaici, anche per il testo giovanneo Collins mette in risalto
come il genere letterario apocalittico presenti al suo interno variazioni
attorno ad una “struttura generale primaria” e che le variazioni hanno, il
più delle volte, un’origine “ideologica”. La forma di un testo è specchio
di una volontà, da parte dell’A. che lo utilizza consciamente, di avallo e
conferma di alcuni presupposti tipici del genere stesso o di polemica e
rifiuto; allo stesso modo, proprio perché il “genere apocalittico” appare
investito di una forte valenza autoritativa, con funzioni consolatorie ed
esortatorie particolari114, unite – in certi testi – ad un notevole accento
polemico nei confronti di altri testi che presentano procedimenti letterari
similari, le differenze ideologiche stricto sensu che l’Apocalisse giovan-
nea presenta in relazione agli altri testi di tipo apocalittico non divergo-
no, per specificità e particolarità, da quelle riscontrabili all’interno dello
stesso corpus apocalittico giudaico. Le divergenze presenti tra i diversi
__________
112
«The belief was widspread that the “last days” had been ushered in by the death and
resurrection of Christ» (ibi, p. 338); «Accordingly, the use of ex eventu prophecy to show that
the end was at hand was quite superfluous. Whereas a Jew with an apocalyptic perspective in
time of persecution needed to establish that the end was at hand by showing that the prede-
termined periods had elapsed, a Christian with a similar perspective did not need to refer to
any history prior to Christ. That Revelation, like the Jewish apocalypses, held that the course
of events was predetermined, is amply clear from the opening verse of the book – “to show to
his servants what must soon take place” (ha dei genesthai)» (ibi, p. 339).
113
«We have seen that the major points at which Revelation has been contrasted with the
Jewish apocalypses […] are superficial differences which do not reflect a significant change
of perspective. There is no reason to deny “that Apocalypse is an apocalypse” […]. Obvi-
ously the role of Jesus Christ constitutes a major difference between Revelation and the Jew-
ish works. That difference however is not as far-reaching as we might expect. The eschato-
logical functions of Christ in Revelation conform to the traditional Jewish conceptions of the
heavenly warrior or judge» (ibi, p. 342). Certamente il riferimento al Gesù storico, seppur
labile, in Apocalisse provoca una sorta di “adattamento” del genere apocalittico, ma questo
non «involve a rejection of either the forms or the values of the Jewish apocalypses, but rather
an intensification» (ibi, p. 342). Sull’adattamento “cristiano” del “genere apocalittico” cfr. J.J.
Collins, Seers, cit., pp. 115-127. Qui Collins parla di «Christian appropriation of the apocal-
yptic tradition», dove per “tradition” si intendono materiali «that circulated orally or in sour-
ces no longer extant» (ibi, p. 116). Elementi che derivano da queste “traditions” in Apocalis-
se, tra i tanti, sarebbero presenti in 1,12-16, in 5,6, nel cap. 12 e nel cap. 19 (ibi, pp. 121-127).
114
Cfr. The Apocalyptic Imagination, cit., p. 42.
516 SAGGI / ESSAYS

scritti di genere apocalittico si definiscono ed organizzano sempre sulla


scorta di un piano letterario comune che permette, a sua volta, la valuta-
zione delle stesse differenze. L’analisi del Collins ha avuto il merito di
partire da una definizione dell’apocalittica fondata sul dato letterario e,
quindi, su specifici testi che – sotto il profilo formale – presentano carat-
teristiche letterarie tutto sommato comuni. Solo dopo la classificazione
formale, lo studioso si è dedicato allo studio della caratteristiche ideolo-
giche emergenti da quei testi preventivamente classificati come apparte-
nenti al genere letterario apocalittico. Ma tale indagine ideologica ha vo-
lutamente evitato di connettere le idee emergenti dai testi a uno specifi-
co gruppo sociale del giudaismo del periodo ellenistico-romano.
L’analisi esclusivamente letteraria del Collins ha certamente contri-
buito ad una definizione abbastanza precisa degli scritti cosiddetti apo-
calittici del giudaismo del periodo ellenistico-romano. Si è così giunti
ad una lista condivisa da quasi tutti gli studiosi115: il Libro dei Vigilanti,
il Libro dell’Astronomia, Testamento di Levi 2-5, Giubilei, Daniele, il
Libro dei Sogni, l’Apocalisse degli Animali, l’Apocalisse delle settima-
ne, il Libro delle Parabole, 2Enoc, 4Ezra, 2Baruc, 3Baruc, l’Apocalisse
di Abramo, l’Apocalisse di Sofonia, il Testamento di Abramo,
l’Apocalisse di Adamo. Su alcune inclusioni o esclusioni c’è ancora di-
scussione, ma sembra che – per 15 titoli su 17 (in particolare le sezioni
appartenenti al pentateuco enochico, 4Ezra, 2Baruc, 3Baruc, Daniele,
Testamento di Levi 2-5, Apocalisse di Sofonia, Apocalisse di Abramo) –
ci sia una certa unanimità. Di questi testi si è messa in rilievo una certa
comunanza formale e di espedienti narrativi: la presenza di un mediatore
che spiega le visioni e le interpreta, il fatto che la rivelazione dei misteri
venga “concessa” dall’alto, la rilettura di elementi derivanti dal profeti-
smo biblico, la circolarità con cui viene disposta la materia, la ripetizio-
ne di alcune frasi tipiche, la strutturazione in quadri in sé conchiusi delle
diverse visioni, ma in reciproco rapporto, ecc. Ciò non toglie che di que-
sto genere si siano messe in rilievo, però, anche delle differenziazioni
interne, come il fatto che alcune apocalissi sono descrizioni di “viaggi
ultracelesti” (ad es. il Libro dei Vigilanti, il Libro delle Parabole,
2Enoc, Testamento di Levi 2-5, parte dell’Apocalisse di Abramo), men-
tre altre si riconnettono, in maniera più esplicita, al profetismo “bibli-
co”, con il loro concentrarsi sulle visioni estatiche avute in sogno o in
momenti particolari della storia del popolo di Israele (cfr. 2Baruc,
__________
115
Cfr. J.J. Collins, The Apocalyptic Imagination, cit., pp. 5-6; M.E. Stone, Lists of Re-
vealed Things in the Apocalyptic Literature, in F.M. Cross-W.E. Lemke-P.D. Miller (eds.),
Magnalia Dei. The Mighty Acts of God, Doubleday, Garden City NY 1976, pp. 414-454.
M.E. Stone (ed.), Jewish Writings of the Second Temple Period, Fortress Press, Assen-
Philadelphia 1984, pp. 383-441.
LUCA ARCARI - L’APOCALITTICA GIUDAICA E PROTO CRISTIANA 517

4Ezra, e, prima ancora, il Libro dei Sogni e parte di Daniele)116. Dopo


gli studi del Collins si è definitivamente acquisito anche che le opere
apocalittiche sono portatrici, ciascuna, di una particolare visione del
mondo, ma che non è possibile ricorrere ad un unico e particolare
“gruppo” per chiarire il loro concreto Sitz im Leben.
Le ricerche della scuola italiana di P. Sacchi, a differenza di quelle
del Collins e del suo gruppo, si sono invece concentrate soprattutto sulla
possibile definizione di una “tradizione storica apocalittica” o, per usare
un’altra terminologia, sulla possibile esistenza di un vero e proprio mo-
vimento apocalittico, che avesse una sua ideologia fondante, una sua i-
dentità di gruppo, delle pratiche condivise, un suo “testo” ed una sua
evoluzione storica. Gli studi di P. Sacchi hanno chiarito la datazione, il
Sitz im Leben e la storia redazionale del Libro dei Vigilanti, una delle
più antiche sezioni che oggi compongono la raccolta di 1Enoc117: questa
sezione del pentateuco enochico – attraverso il racconto della caduta de-
gli angeli vigilanti, nelle sue differenti varianti, e la relativa protologia
che ne discende118 – sembra aver gettato le premesse ideologiche per il
__________
116
Cfr. J.J. Collins, Introduction, cit., p. 24; The Apocalyptic Imagination, cit., p. 7. Cfr.
anche M. Himmelfarb, Ascent to Heaven in Jewish & Christian Apocalypses, Oxford Univer-
sity Press, Oxford-New York 1993, pp. 9-28 e M. Dean-Oetting, Heavenly Journeys: A Study
of the Motif in Hellenistic Jewish Literature, Peter Lang, Frankfurt 1984.
117
Cfr. P. Sacchi, L’apocalittica giudaica e la sua storia, cit., pp. 31-78. Sui più antichi
testi enochici si veda recentemente Id., History of the Earliest Enochic Texts, in G. Boccacci-
ni (ed.), Enoch and Qumran Origins. New Light on a Forgotten Connection, Eerdmans,
Grand Rapids 2005, pp. 401-407. Gli studi del Sacchi hanno messo in rilievo i collegamenti
tra il “capostipite” della tradizione enochica e altri testi che, almeno apparentemente, non
sembrano essere collegati a quell’alveo ideologico; ma attraverso un’analisi ideologica “oli-
stica” Sacchi ha visto che, a livello di sistema di pensiero, la visione protologica emergente
dal Libro dei Vigilanti (il male è qualcosa che ha corrotto l’intera creazione ed è, in un certo
senso, precedente ad essa; esso è il frutto di una trasgressione angelica che ha sovvertito
l’intero cosmo; l’uomo, in questa ottica, non “compie” il male, ma è vittima di esso ed è, in
certo qual modo, inevitabilmente spinto verso di esso) viene condivisa da alcuni dei testi che
compongono gli attuali Testamenti dei XII Patriarchi, Giubilei, 11QT, 4Ezra, oltre che dagli
altri documenti del pentateuco enochico e da numerosi scritti della comunità di Qumran: cfr.
Storia del secondo Tempio. Israele tra VI secolo a.C. e I secolo d.C., SEI, Torino 1994, pp.
302-329; L’apocalittica: ovvero storia di alcune idee del mediogiudaismo, in S. Dianich (ed.),
Sempre Apocalisse. Un testo biblico e le sue risonanze storiche, Piemme, Casale Monferrato
1998, pp. 85-104.
118
Certamente l’escatologia è una dimensione importante nella “visione del mondo” di
alcuni testi come Daniele, 2Baruc o 4Ezra, per non parlare del Testamento di Levi e
dell’Apocalisse di Abramo. Ma per altri testi come il Libro dei Vigilanti o il Libro
dell’Astronomia, così come Giubilei, Sacchi ha rilevato che essa è subordinata al problema
delle origini del male (cfr. P. Sacchi, L’apocalittica giudaica, cit., pp. 56ss.; L’attesa come
essenza dell’apocalittica?, cit.; si veda anche J.J. Collins, Seers, Sybils, and Sages, cit., pp.
39-57). Il concentrarsi troppo sulla dimensione escatologica perde di vista il fatto che questa
non è presente solo negli scritti di genere apocalittico, ma in moltissimi ambiti del giudaismo
del periodo ellenistico-romano; a quel punto l’apocalittica dovrebbe essere una sorta di con-
tenitore “olistico”, dalle delimitazioni cronologiche e sociologiche abbastanza dilatate (una
518 SAGGI / ESSAYS

successivo svolgersi di altre tradizioni del giudaismo del periodo elleni-


stico-romano. Continuando su questa scia, G. Boccaccini119 ha messo in
rilievo il fatto che due opere come il Libro dei Sogni e Daniele, non o-
stante la contemporaneità e la comunanza di stilemi letterari, non possa-
no essere considerate derivazione da uno stesso movimento, ma, anzi,
sembrino polemizzare tra loro su alcuni aspetti ideologici centrali. Pro-
blematiche come quelle del male, della storia e dell’azione dell’uomo in
essa, assumono una luce del tutto diversa se inserite nell’ideologia fon-
dante che sta dietro ai rispettivi testi: se il Libro dei Sogni sembra ap-
poggiarsi all’ideologia del Libro dei Vigilanti, concentrandosi sul pecca-
to originario degli angeli vigilanti e sulla conseguente degenerazione di
tutta la storia umana, non mettendo alcun accento particolare sulla Leg-
ge concessa a Mosè sul Sinai (l’A., di fatto, al di là di un fugace cenno,
elimina dal suo quadro storico questo evento: cfr. 1Enoc 89,29), Danie-
le, non ostante un certo “determinismo” storico, collega le sciagure pre-
senti del popolo di Israele alla mancata osservanza della Legge da parte
di Antioco IV e di coloro che, come lui, hanno pensato di «mutare i tem-
pi e la legge» (7,25).120 Allo stesso modo, tra la metà del I secolo a.C. e
il I secolo d.C., nell’ottica di Boccaccini, se il Libro delle Parabole con-
tinua la tradizione del Libro dei Vigilanti, 2Baruc sembra riconnettersi
alla «teologia della Legge» di Daniele, soprattutto attraverso la media-
__________
simile confusione terminologica e concettuale è, ad esempio, soggiacente al lavoro di B. Cor-
sani, L’Apocalisse e l’apocalittica del Nuovo Testamento, EDB, Bologna 1997, così come ri-
levato da G. Biguzzi, in «Rivista Biblica» 47[1999], pp. 252-253). Per questo, la definizione
di “apocalittica” sembra insufficiente se viene utilizzata al di là di paradigmi e classificazioni
formali. Su questo si vedano le lucide affermazioni di J.J. Collins, Seers, Sybils, and Sages,
pp. 39-40: «Apocalyptic eschatology is most appropriately defined as the kind of eschatology
that is typical of apocalypses, although it may also be found elsewhere. The movements most
appropriately called apocalyptic are those which either produced apocalypses or were charac-
terized by the beliefs and attitudes typical of the genre. Whether some postexilic prophecy
should be called apocalyptic or taken to attest an apocalyptic movement depends on our as-
sessment of the similarities between this material and the literary genre apocalypse. One of
the problems that has beset the quest for “the origin of apocalyptic” is that the apocalypses
are not simply uniform but contain diverse sub-genres and motifs that may be traced to differ-
ent sources. If we wish to arrive at an understanding of the historical development of apoca-
lypticism, it is necessary to differentiate the various apocalyptic texts and the movements that
may be inferred from them».
119
Cfr. Jewish Apocalyptic Tradition. The Contribution of Italian Scholarship, in J.H.
Charlesworth-J.J. Collins (eds.), Mysteries and Revelations. Apocalyptic Studies since the
Uppsala Colloquium, Academic Press, Sheffield 1991, pp. 33-50; Il mediogiudaismo. Per
una storia del pensiero giudaico tra il III sec. a.e.v. e il II sec. e.v., Marietti, Genova 1993, pp.
19.34-36.47-48.51-86.87-93; Roots of Rabbinic Judaism. An Intellectual History, from Eze-
kiel to Daniel, Eerdmans, Grand Rapids 2002, pp. 8-41; Oltre l’ipotesi essenica. Lo scisma
tra Qumran e il giudaismo enochico, Morcelliana, Brescia 2003, pp. 11-15.37-53.
120
Cfr. È Daniele un testo apocalittico? Una (ri)definizione del pensiero del Libro di
Daniele in rapporto al Libro dei Sogni e all’apocalittica, in «Henoch» 9(1987), pp. 267-299;
Il mediogiudaismo, cit., pp. 87-121; Roots of Rabbinic Judaism, cit., pp. 169-201.
LUCA ARCARI - L’APOCALITTICA GIUDAICA E PROTO CRISTIANA 519

zione di alcuni circoli farisaici121. Emerge, di conseguenza, che, stando


almeno alle tesi di Sacchi e Boccaccini, il termine “apocalittica” non
può essere più utilizzato nel momento in cui dalla letteratura si passa ai
gruppi che hanno prodotto una specifica tradizione letteraria122. Sulla
base dell’ideologia dei testi apocalittici è possibile ricostruire, da un la-
to, quelli che sono stati prodotti da un gruppo definibile “enochico” (so-
prattutto gli scritti entrati a far parte di 1Enoc e pochi altri, come Giubi-
lei, alcuni strati dei Testamenti dei XII Patriarchi e 11QT) e, dall’altro,
quelli che – riprendendo Daniele – cercano di ricondurre il “genere apo-
calittico” nell’alveo del giudaismo legalistico (2Baruc, la sezione “apo-
calittica” del Liber Antiquitatum Biblicarum e, almeno in certi punti,
4Ezra, Apocalisse di Abramo e 3Baruc). Le concezioni emergenti dal
Libro dei Vigilanti e dalla successiva tradizione enochica, col mettere il
loro accenno sul disordine che nel cosmo è sopravvenuto in seguito al
peccato angelico primordiale, sembrano polemizzare con quegli ambien-
ti che, di contro, proprio attraverso le tradizioni sacerdotali, vedevano il
cosmo come una “ordinata” creazione di Dio123.
Gli studi di Sacchi e Boccaccini su un concreto movimento apocalit-
tico del giudaismo del periodo ellenistico-romano hanno permesso an-
che una nuova valutazione della cosiddetta apocalittica proto cristiana.
Da una fumosa apocalittica giudaica, un indistinto movimento di cui i
vari testi giudaici sarebbero monolitica espressione, si è passati a defini-
re l’influsso di concrete tradizioni nelle diverse comunità del cristiane-
simo delle origini; oltre alle allusioni contenute in Ebrei 11, Giuda 14-

__________
121
Cfr. Esiste una letteratura farisaica del secondo Tempio?, in «Ricerche storico-
bibliche» 11(1999), pp. 23-41. Sull’appartenenza di Daniele a quei circoli di ascendenza “sa-
docita” avversati dagli stessi enochici cfr. Roots of Rabbinic, cit., spec. pp. 172-176.
122
Per questo la critica che Collins faceva al “riduzionismo” degli studi del Sacchi non
sembra pienamente giustificata (cfr. J.J. Collins, Seers, cit., pp. 35-36); Sacchi non nega, al-
meno a livello di principio, l’esistenza di un “genere letterario apocalittico” (cfr. P. Sacchi,
L’apocalittica giudaica, cit., pp. 22-26.39-42), ma i suoi studi hanno, per così dire, un’altra
“mira”, capire se dietro i “testi” apocalittici possa esserci un gruppo o se questi siano il pro-
dotto di più gruppi sociali. Più recentemente, d’altronde, lo stesso Sacchi ha dichiarato che
oggi non intitolerebbe più il suo volume L’apocalittica giudaica e la sua storia (cfr. La teolo-
gia dell’enochismo antico e l’apocalittica, in «Materia giudaica» 7[2002], pp. 7-13; The Book
of the Watchers as an Apocalyptic and Apocryphal Book, in «Henoch» 30[2008], pp. 4ss.).
123
Cfr. G. Boccaccini, Roots of Rabbinic Judaism, cit., pp. 73-82 e, prima, P.P. Jenson,
Graded Holiness. A Key to the Priestly Conception of the World, Academic Press, Sheffield
1992. Il “sistema socio-religioso” dei gruppi di ascendenza sadocita si concentra attorno
all’ordine gerarchico che sta attorno al Tempio, ordine che riproduce quello cosmico di Dio.
Il racconto enochico della caduta degli angeli è specchio di un’esperienza di esclusione e di
disordine che ha interrotto un breve periodo di ordine (cfr. D.W. Suter, Fallen Angels, Fallen
Priest. The Problem of Family Purity in 1 Enoch 6-16, in «Hebrew Union College Annual»
50[1979], pp. 115-135; G. Boccaccini, Roots of Rabbinic Judaism, cit., p. 99).
520 SAGGI / ESSAYS

15, 1Pietro 3,18b-20, 2Pietro 4,9124, si è visto che numerose concezioni


espresse da Gesù e dal suo movimento, e anche da alcune successive
comunità di credenti in Cristo sparse nel mondo greco-romano, risenti-
vano dei dibattiti e delle problematiche presenti nel giudaismo enochico.
Il punto fondamentale di questa metodologia di indagine è quello che
parte dalla definizione del/i “cristianesimo/i” (o proto cristianesimo/i o
giudaismo/i cristiano/i) come di un fenomeno totalmente inserito nel
giudaismo e che, di conseguenza, ha costruito il suo proprium – così
come gli altri gruppi del giudaismo del periodo ellenistico romano – sul-
la scorta di altri gruppi ad esso coevi. Se l’enochismo rappresenta un
movimento (ancorché complesso e variegato), e non solo una tradizione
letteraria o una ideologia, allora non è impossibile ritenere che anche
Gesù e il suo movimento si confrontasse con esso (dato che entrambi i
gruppi sembrano provenire dalla Galilea 125).

__________
124
A titolo esemplificativo, recentemente cfr. G.W.E. Nicklesburg, From Roots to
Branches. 1 Enoch in Its Jewish and Christian Contexts, in H. Lichtenberger-G.S. Oegema
(eds.), Jüdische Schriften in ihrem antik-jüdischen und urchristlichen Kontext, Mohn, Güter-
sloh 2002, pp. 335-346; M. Barker, The Great High Priest. The Temple Roots of Christian
Liturgy, T. & T. Clark, London-New York 2003; M. Del Verme, Didache and Judaism, cit.,
pp. 221-262; A. Yosiko Reed, Fallen Angels and the History of Judaism and Christianity.
The Reception of Enochic Literature, Cambridge University Press, Cambridge 2005.
125
Cfr. G.W.E. Nickelsburg, Enoch, Levi, and Peter. Recipients of Revelation in Upper
Galilee, in «Journal of Biblical Literature» 100(1981), pp. 575-600; D.W. Suter, Why Gali-
lee? Galilean Regionalism in the Interpretation of 1 Enoch 6-16, in «Henoch» 25(2003), pp.
167-212. Anche per quanto concerne il possibile “giudaismo” dell’Apocalisse neotestamenta-
ria, in seguito agli studi richiamati è apparso evidente che non è possibile addebitarlo ad una
fumosa apocalittica giudaica. Dalla disamina condotta quello che emerge è che è assoluta-
mente impossibile parlare di apocalittica come di un vero e proprio movimento del giudaismo
del secondo Tempio: la definizione di apocalittica giudaica è utilizzabile solo come classifi-
cazione esclusivamente formale e letteraria (genere letterario con cornice narrativa nel quale
viene mediata da un essere soprannaturale una rivelazione destinata ad un gruppo che si per-
cepisce in crisi. Naturalmente, come vedremo fra poco, il concetto di crisi può essere inteso
in modi piuttosto diversi, ma non necessariamente in chiave politica o di contrasto con
l’impero romano). Per i nuovi approcci sui rapporti tra apocalittica e Apocalisse, cfr. D. Fran-
kfurter, The Legacy of Jewish Apocalypses in Early Christianity. Regional Trajectories, in W.
Adler-J.C. Vanderkam (eds.), The Jewish Apocalyptic Heritage in Early Christianity, Van
Gorcum-Fortress Press, Assen-Minneapolis 1996, pp. 129-200; L.L. Thompson, Social Loca-
tion of Early Christian Apocalyptic, in H. Temporini-W. Haase (eds.), Aufstieg und Nieder-
gang der römischen Welt II.26.3, Walter de Gruyter, Berlin 1996, spec. pp. 2645-2646; S.E.
Goranson, Essene Polemic in the Apocalypse of John, in M. Bernestein-F.García Martínez-J.
Kampen (eds.), Legal Texts and Legal Issues. Proceedings of the Second Meeting of the In-
ternational Organization for Qumran Studies (Cambridge, 1995), Published in Honour of
Joseph M. Baumgarten, Brill, Leiden-New York-Köln 1997, pp. 453-460; D.E. Aune, Qum-
ran and the Book of Revelation, in P.W. Flint-J.C. VanderKam (eds.), The Dead Sea Scrolls
After Fifty Years: A Comprehensive Assessment, vol. II, Brill, Leiden-Boston-Köln 1999, pp.
622-648; Lupieri, L’Apocalisse, cit.; D.E. Aune, Apocalypticism, Prophecy, and Magic in
Early Christianity, Mohr, Tübingen 2006, pp. 1-65; 150-174; 280-319.
LUCA ARCARI - L’APOCALITTICA GIUDAICA E PROTO CRISTIANA 521

Dall’apocalittica come complesso di testi all’apocalittica come com-


plesso di pratiche visionarie: la crisi percepita e l’autorità competitiva.

La storia dell’indagine scientifica in merito all’apocalittica condotta


tra ’800 e ’900 emerge, in realtà, come viziata da una precomprensione
di fondo: per far emergere la specificità del proprium proto cristiano, in
relazione al mondo giudaico dell’epoca, si è costruito il concetto di «a-
pocalittica giudaica», associando indebitamente aspetti formali e stori-
co-sociali: si è dedotta l’esistenza di gruppi apocalittici partendo proprio
da una classificazione formale. In tale quadro di contesto, l’escatologia
proto cristiana si staglierebbe come un qualcosa che avrebbe «trasfor-
mato» ed «innovato» il «genere apocalittico» e la sua ideologia.
Tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80 del secolo scorso,
di contro, l’analisi di concreti testi e/o tradizioni del giudaismo del pe-
riodo ellenistico-romano ha avuto il merito di scardinare un quadro troppo
unilaterale, volto, in sostanza, a semplificare le testimonianze giudaiche
per meglio contestualizzare lo sviluppo del proto cristianesimo. Eppure,
non ostante il fondamentale apporto derivante dagli studi richiamati, pro-
prio perché tendenzialmente conservativi del concetto stesso di «apocalit-
tica giudaica» (sebbene trattato alla stregua di un vero e proprio genere
letterario), questi non sono stati in grado di eludere alcune difficoltà. La
più cogente ed importante, tra le altre, oggi sembra essere la seguente: è
davvero possibile definire l’apocalittica come uno specifico genere lette-
rario del giudaismo126? Sebbene alcune ricerche richiamate abbiano cor-
rettamente rilevato che sono esistite anche una apocalittica iranica, una
apocalittica greca, una latina ed una gnostica127, ciò non ostante l’utilizzo
del concetto, anche sotto l’aspetto propriamente formale, non sembra ren-
dere conto dei rapporti tra gli scritti giudaici classificati come apocalittici
e quei testi, provenienti da vari ambiti del mondo antico, che presentano
indiscutibili somiglianze formali con i testi in questione. D’altronde, co-
__________
126
Su questo problema si veda quanto già affermava, con indiscutibile sensibilità storica,
A. Momigliano, Indicazioni preliminari su Apocalissi ed Esodo nella tradizione giudaica, in
Id., Pagine ebraiche, a cura di S. Berti, Einaudi, Torino 1987, pp. 95-107. Ma si veda, forse
in maniera meno esplicita, anche P. Sacchi, L’apocalittica giudaica, cit., pp. 100 ss.
127
Cfr. «Semeia» 14(1979): contributi di A. Yarbro Collins, The Early Christian Apoca-
lypses; F.T. Fallon, The Gnostic Apocalypses, H.W. Attridge, Greek and Latin Apocalypses,
A.J. Saldarini, Apocalypses and “Apocalyptic” in Rabbinic Literature and Mysticism. La po-
sizione che sta all’origine di simili valutazioni è quella espressa a suo tempo da W. Bousset
(già richiamata: cfr. n. 89). Ma l’idea che l’apocalittica giudaica fosse una sorta di summa
dell’apocalittica del mondo antico presupponeva, nello studioso tedesco, una valutazione so-
stanzialmente cristianocentrica: il cristianesimo delle origini, erede dell’apocalittica giudaica,
rinnovata però alla luce dello spirito profetico, si poneva al culmine di un quadro evolutivo di
cui le varie apocalittiche attestate nel mondo antico non erano altro che manifestazioni transi-
torie, definitivamente superate dalla perfezione cristiana.
522 SAGGI / ESSAYS

me è noto, la ricostruzione storica dei generi letterari per il giudaismo an-


tico è estremamente problematica, mancando ogni tassonomia provenien-
te dall’interno della stessa cultura giudaica128.
Nel numero 14 di «Semeia» (1979), edito da J.J. Collins, troviamo
un inventario dei testi iraniani, giudaici, cristiani, gnostici e greco-
romani di «apocalisse». Il sistema classificatorio del Collins, tendente
all’individuazione di un vero e proprio genere letterario apocalittico, ha
mostrato che il genere apocalittico (nel senso etimologico del termine
greco apokalypsis, ovvero come rivelazione proveniente dall’alto), ulte-
riormente analizzabile in due sottogruppi più specifici, quello
dell’apocalisse con visione estatica e quello dell’apocalisse con viaggio
ultraterreno e/o ultramondano, è diffuso in aree molto diverse, sia gre-
che ed ellenistico-romane, sia medio-orientali antiche, tra il 250 a.C. e il
250 d.C. Proprio per questo, alcuni studiosi si sono votati alla ricerca di
definizioni meno «stratificate» a livello ermeneutico (quale quella di
apocalittica indubbiamente è), identificando alla base dei testi preceden-
temente classificati come apocalittici delle vere e proprie pratiche di ca-
rattere visionario ed estatico. Tali tentativi di definizione hanno abban-
donato la classificazione esclusivamente letteraria e/o tradizionale, per
concentrarsi sulla pratica visionaria e/o estatica soggiacente al testo vi-
sionario e/o apocalittico129.
__________
128
In questo la differenza con il mondo greco-romano è abbastanza evidente: sulle teorie
dei generi letterari nel mondo greco-romano cfr. L.E. Rossi, I generi letterari e le loro leggi
scritte e non scritte nelle letterature classiche, in «Bull. Inst. Class. St. London» 18(1971),
pp. 69 ss.
129
Cfr. supra, n. 11. Ma cfr. anche I. Gruenwald, Knowledge and Vision, «Israel Oriental
Studies» 3(1973), pp. 63-107; A.F. Segal, Heavenly Ascent in Hellenistic Judaism, Early
Christianity and Their Environment, in H. Temporini-W. Haase (eds.), Aufstieg und Nieder-
gang der römischen Welt II.23.2, Walter de Gruyter, Berlin 1980, pp. 1333-1394; Id., Life
After Death. A History of the Afterlife in Western Religion, Doubleday, Garden City NY
2004; B. Otzen, Heavenly Visions in Early Judaism. Origin and Function, in W.B. Barrick-
J.R. Spencer (eds.), In the Shelter of Elyon. Essays on Ancient Palestinian Life and Literature
in Honor of G.W. Ahlstoem, Academic Press, Sheffield 1984, pp. 199-215; M. Himmelfarb,
From Prophecy to Apocalypse. The Book of the Watchers and the Tours of Heaven, in A.
Green (ed.), Jewish Spirituality. From the Bible through the Middle Ages, Crossroad, New
York 1986, pp. 145-165; D. Halperin, Heavenly Ascension in Ancient Judaism. The Nature of
the Experience, in SBL Seminar Papers 1987, pp. 218-232; Id., Ascension or Invasion. Impli-
cations of the Heavenly Journey in Ancient Judaism, in «Religion» 18(1988), pp. 47-67; Id.,
The Faces of the Chariot, Mohr, Tübingen 1988; D. Merkur, The Visionary Practices of Jew-
ish Apocalyptists, in L.B. Boyer-S.A. Grolnick (eds.), The Psychoanalytic Study of Society,
The Analytic Press, Hillsdale NJ 1989, pp. 119-148; M.D. Swartz, Patterns of Mystical
Prayer in Ancient Judaism, in P.V.M. Flescher (ed.), New Perspectives on Ancient Judaism,
University Press of America, Lanham 1989, pp. 173-186; Id., Mystical Prayer in Ancient Ju-
daism, Mohr, Tübingen 1992; C.R.A. Morray-Jones, Transformational Mysticism in the
Apocalyptic-Merkabah Tradition, in «Journal of Jewish Studies» 43(1992), pp. 1-31; Id., A
Transparent Illusion, Brill, Leiden-Boston-Köln 2002; P. Borgen, Heavenly Ascent in Philo.
An Examination of Selected Passages, in J.H. Charlesworth-C.A. Evans (eds.), The Pseudepi-
LUCA ARCARI - L’APOCALITTICA GIUDAICA E PROTO CRISTIANA 523

È realmente così netto il confine tra profezia e apocalittica, e tra


queste e la letteratura visionaria attestata nel mondo antico? Esiste una
categorizzazione rigida, soprattutto sotto l’aspetto genetico-formale, per
cui è possibile ipotizzare l’esistenza di un genere profetico chiaramente
distinto da un genere apocalittico e dal più vasto ambito della letteratura
visionaria antica? Non sembra che la documentazione in nostro possesso
possa fornire una risposta univoca in tal senso. È però altamente indica-
tivo che gran parte degli scritti che oggi vengono definiti «apocalisse»
siano etichettati come «profezia» in molti dei testi antichi che li citano e
li riprendono130.
Il meccanismo profetico-rivelatorio è una delle componenti delle va-
rie religiosità antiche: una letteratura di rivelazione, che certamente è
testimonianza di «reali» pratiche estatiche utilizzate un po’ ovunque nel
mondo antico, è attestata sin dai primordi della letteratura greca, dato
che sia i poemi omerici, così come quelli esiodei, si presentano come
rivelazioni ottenute o tramite il procedimento dell’invasamento o tramite
la visione diretta di una divinità che impartisce l’ordine di trasmettere

__________
grapha and Early Biblical Interpretation, Academic Press, Sheffield 1993, pp. 246-268; J.R.
Davila, The Hekhalot Literature and Shamanism, in SBL Seminar Papers 1994, pp. 767-789;
E.R. Wolfson, Visionary Ascent and Enthronement in the Hekhalot Literature, in Id. (ed.),
Through a Speculum That Shines, Princeton University Press, Princeton 1994, pp. 74-124; M.
Smith, Ascent to the Heavens and the Beginning of Christianity, in Id., Studies in the Cult of
Yahweh. II. New Testament, Early Christianity, and Magic, edited by S.J.D. Cohen, Brill,
Leiden 1996, pp. 47-67; J.M. Scott, Throne-Chariot Mysticism in Qumran and in Paul, in
C.A. Evans-P.W. Flint (eds.), Eschatology, Messianism, and the Dead Sea Scrolls, Eerdmans,
Grand Rapids, Michigan-Cambridge, U.K. 1997, pp. 101-119; J.A. Filho, The Apocalypse of
John as an Account of a Visionary Experience. Notes on the Book’s Structure, in «Journal for
the Study of New Testament» 25(2002), pp. 213-234; P.A. de S. Nogueira, Celestial Worship
and Ecstatic-Visionary Experience, in «Journal for the Study of New Testament» 25(2002),
pp. 165-184; V.D. Arbel, Beholders of Divine Secrets, State University of New York Press,
Albany 2003; C. Tretti, Enoch e la sapienza celeste. Alle origini della mistica ebraica, Giun-
tina, Firenze 2007; C. Fletcher-Louis, Religious Experience and the Apocalypses, in F.
Flannery-C. Shantz-R.A. Werline (eds.), Experientia, Volume I. Inquiry into Religious Ex-
perience in Early Judaism and Early Christianity, SBL Press, Atlanta 2008, pp. 125-144; A.
Destro-M. Pesce, Il viaggio celeste in Paolo. Tradizione di un genere letterario apocalittico o
prassi culturale in contesto ellenistico-romano?, in L. Padovese (ed.), Paolo di Tarso. Arche-
ologia, storia, ricezione, Effatà, Torino 2009, I vol., pp. 401-435.
130
Ad esempio cfr. Giuda 14-15; ma cfr. anche Orig., In Math. 27,11 (ed. Klostermann,
in GCS 38, 250); Clem. Alex., Strom. 3, 16 (ed. Stählin-Früchtel, in GCS 15, 242); Ier., In
Dan. 3,11,1 (ed. Glorie, in CCSL 75, 897). In merito cfr. anche L. Arcari, La titolatura
dell’Apocalisse di Giovanni: “apocalisse” o “profezia”? Appunti per una ri-definizione del
“genere apocalittico” sulla scorta di quello “profetico”, in «Henoch» 23(2001), pp. 243-
265. La questione della categorizzazione di Daniele è molto complessa; in merito, comunque,
cfr. M. Nobile, Il canone e il concetto di profezia nella questione della trasmissione-ricezione
di testi quali i Profeti anteriori e Daniele come opere profetiche, in «Ricerche storico-
bibliche» 11(1989), pp. 107-129.
524 SAGGI / ESSAYS

quanto da essa rivelato131. Per questo, a livello strettamente formale, i


procedimenti estatici attestati nella letteratura profetica biblica, prima, e
apocalittica del secondo Tempio, dopo, non sono differenti da quelli
documentati nella più vasta letteratura di rivelazione antica: i profeti e
gli apocalittici non sono altro che i depositari e i tradenti di un messag-
gio impartito dall’alto. Il meccanismo estatico appare dunque volto alla
costruzione di un «discorso autorevole», ovvero di un discorso che –
proprio perché filiazione diretta della divinità – debba essere capace di
indirizzare, orientare e fondare l’azione di coloro che lo ascoltano. In
tale contesto visionario anche il viaggio ultraceleste dovrebbe essere
compreso come meccanismo volto alla costruzione di un discorso auto-
revole132, ma con una specificazione in più per quanto concerne il qua-
dro culturale giudaico: se, in generale, esso ha la funzione di fondare
una dottrina esoterica riguardo alla struttura del cosmo e ai destini del
mondo e degli uomini133, in altri casi il viaggio ultraceleste sembra rap-
presentare uno strumento utile a costruire un’autorità «competitiva» ri-
spetto a un precedente. I cosiddetti testi apocalittici giudaici dimostrano
quanto la letteratura profetica, derivazione di reali pratiche estatico-
divinatorie, fosse, almeno in alcuni casi, messa in competizione con altri
stratagemmi costruttori di autorità. Tra questi spicca la pratica del viag-
gio ultraceleste, meccanismo sostanzialmente assente nella letteratura
profetica «biblica» e attestato per la prima volta nel Libro dei Vigilanti,
primo tomo dell’attuale 1Enoc etiopico e la più antica apocalisse giu-
daica a noi nota134.
__________
131
È interessante notare come la letteratura omerica associ il canto alla Musa, per cui è il
canto stesso ad identificarsi con la divinità (ad esempio Il. II, 484): cfr. M. Detienne, I maestri
di verità nella Grecia arcaica, Laterza, Bari-Roma 1987, pp. 1-16.
132
Si veda quanto affermano in merito alla funzione del viaggio ultramondano Destro-
Pesce, Il viaggio celeste in Paolo, p. 408: «In tutto questo insieme di testi esistono importanti
accenni alla concreta esperienza psico-somatica in cui avviene il viaggio celeste, sia per quan-
to riguarda il momento iniziale o di preparazione, sia per le esperienze sensoriali durante il
“viaggio”, sia per il momento finale di ritorno in sé. Il viaggio permette sempre di ottenere la
conoscenza di una dottrina esoterica circa la struttura del cosmo, la natura dell’uomo e il suo
destino finale».
133
Cfr. ibi, pp. 433-434: «Ma ciò che varia da situazione a situazione è anche la funzione
dell’esperienza all’interno delle strutture relazionali in cui si colloca colui che compie il
viaggio celeste. A volte il viaggio ha funzione legittimante all’interno di un gruppo, altre vol-
te serve al singolo per essere certo di un suo compito religioso, altre volte per convalidare una
concezione filosofica o una teodicea, altre volte per avvalorare un modello di comportamento
sociale. Altre volte ha la funzione di un rito di iniziazione o preparazione che introduce il
viaggiante all’interno di un gruppo di eletti o di un gruppo particolare di persone». In sostan-
za, comunque, le funzioni richiamate da Destro-Pesce rientrano nell’ambito della costruzione
di un discorso «autorevole».
134
Si vedano le conclusioni ibi, pp. 434-435: «a. Il viaggio celeste non va identificato
semplicemente con la rivelazione. Nella sua morfologia del genere letterario rivelativo, J.J.
Collins lo ha considerato come uno dei “media” attraverso cui si ottiene la rivelazione. Nella
LUCA ARCARI - L’APOCALITTICA GIUDAICA E PROTO CRISTIANA 525

Le osservazioni appena fatte ci permettono di affrontare un ultimo


aspetto del tema discusso, aspetto toccato da taluni studiosi non in ma-
niera onnicomprensiva, soprattutto per via di alcune difficoltà connesse
all’impiego di certa terminologia 135. È stata rilevata la connessione tra
alcuni testi apocalittici provenienti dal giudaismo ellenistico-romano e
la tanto discussa definizione, impiegata, tra gli altri, da M. Eliade, di
sciamanesimo136. Il termine, come è noto, da vocabolo tecnico per indi-
care uno specialista rituale tipico dei popoli siberiani e dell’Artico, è di-
ventato, di recente, un concetto «di moda», che viene spesso utilizzato
con finalità e significati diversi. Lo sciamanesimo, come ha osservato
Fiona Bowie, «è uno di quei termini (come “stregoneria” o “totemi-
smo”) che vengono spesso impiegati in modo molto ampio, con riferi-
mento a numerosi fenomeni differenti, alcuni dei quali hanno poche re-
lazioni gli uni con gli altri o con una qualsiasi derivazione originaria»137.

__________
sua classificazione abbiamo così rivelazioni con viaggio ultraterreno (tra cui quello celeste) o
senza di esso. La sua classificazione in sostanza non è nient’altro che un modello politetico,
in cui il viaggio celeste è uno degli elementi che possono ritrovarsi in fenomeni rivelativi, ma
possono anche non verificarsi, senza che il fenomeno rivelativo cessi di essere tale. Il viaggio
celeste è però un fenomeno in sé che non si riduce a quello di rivelazione, anche se può essere
esaminato dal punto di vista rivelativo. Esso può e deve essere classificato indipendentemente
dal concetto di rilevazione. b. A noi sembra, complessivamente, che il viaggio celeste sia una
forma religiosa molto densa e molto rielaborata in tutto il mondo antico medio-orientale, gre-
co e romano. Non stupisce perciò di trovarlo anche all’interno di diversi gruppi giudaici e
successivamente nei diversi tipi di tendenze e comunità protocristiane, tra cui anche in Paolo.
Questa forma di esperienza e pratica religiosa va posta accanto ad altre estremamente diffuse,
come la preghiera o il sacrificio, nessuna delle quali è caratteristica esclusiva di una sola reli-
gione o gruppo religioso. Questa pratica fa parte dell’insieme degli atti religiosi di cui uomini
e donne del mondo antico disponevano per raggiungere gli scopi religiosi che si proponevano.
In ogni cultura, in ogni religione e in ogni gruppo questa pratica ha assunto (come del resto è
capitato anche per la preghiera o il sacrificio) contenuti, forme, funzioni e scopi differenti».
135
Per una prospettiva sul problema, con ulteriori riferimenti bibliografici, cfr. J.M. At-
kinson, Shamanisms Today, in «Annual Review of Anthropology» 21(1992), pp. 307-330. Si
veda anche la recente messa a punto di S. Botta, Gli animali simbolici nella tradizione scia-
manica, in A.M.G. Capomacchia (ed.), Animali tra mito e simbolo, Carocci, Roma 2009, pp.
25-46; Id., La via storicista allo sciamanismo: prospettive archeologiche e storia delle reli-
gioni, in A. Saggioro (a cura di), Sciamani e sciamanesimi, Carocci, Roma 2010, pp. 59-86.
136
Per la definizione di Eliade, cfr. Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi, Ed.
Mediterranee, Roma 1974. In particolare, per le connessioni apocalittica/sciamanesimo, cfr.
F. Flannery-Dailey, Dream Incubation and Apocalypticism in Second Temple Judaism, Paper
presented at the 2000 Annual Meeting of the Society of Biblical Literature; Ead., Dreamers,
Scribes, and Priests, cit.; prima ancora, cfr. J. Teixidor, The Pagan God: Popular Religion in
the Greco-Roman Near East, University Press, Princeton 1977; più recentemente, cfr. anche
Davila, The Hekhalot Literature and Shamanism, cit.; A.F. Segal, The Afterlife as Mirror of
the Self, in F. Flannery-C. Shantz-R.A. Werline (eds.), Experientia, Volume I, cit., pp. 19-40;
T. Engberg-Pedersen, Paul’s Rapture: 2 Corinthians 12:2-4 and the Language of the Mystics,
ibi, pp. 147-157.
137
F. Bowie, The Anthropology of Religion: An Introduction, Blackwell, Oxford 2000,
pp. 190-191.
526 SAGGI / ESSAYS

Negli studi sullo sciamanesimo, comunque, si possono agevolmente


individuare due tendenze generali138: da un lato, la ricerca di un’ampia
sfera di fenomeni comuni a molte, se non a quasi tutte, le religioni indi-
gene e a molte religioni del passato, che si incentrano su una generica
figura di specialista religioso e su una grande varietà di esperienze esta-
tiche; dall’altro lato, un fenomeno circoscritto alle culture siberiane ed
artiche, con l’ammissione di possibili continuità con fenomeni simili in
aree più lontane, ma connesse geograficamente e storicamente, come
l’Asia centrale, il Sud-Est asiatico, le Americhe.
Certamente entrambe le prospettive presentano criticità se non rischi
di eccessiva semplificazione o banalizzazione; la proposta recentemente
avanzata da Wallis, comunque, quella di utilizzare il plurale sciamane-
simi, sembra tenere in conto solo in parte i problemi connessi ad un uso
troppo generalizzato della dizione139. Per Wallis, vanno individuati degli
elementi comuni alla definizione del fenomeno sciamanico, elementi
che possono ritrovarsi come frammenti, in diversa combinazione, in
forme culturali e religiose differenziate; questi, sempre secondo Wallis,
potrebbero essere:
1. agenti che consapevolmente alterano la propria coscienza;
2. stati di coscienza alterata che vengono riconosciuti e accettati dalla
comunità come pratiche rituali;
3. il controllo sulla conoscenza relativa a questi stati di coscienza che
viene impiegato per effettuare particolari attività sancite socialmente.
Tale definizione rende ulteriormente operativi, in quanto categorie
ermeneutiche, una serie di elementi che erano stati rilevati in alcune in-
dagini precedenti: tiene nel debito conto, ad esempio, le conclusioni cui
giungeva l’indagine di Ioan M. Lewis, secondo il quale il ricorso a stati
di coscienza non ordinaria è un elemento spesso ritenuto caratteristico
dello sciamanesimo140; tiene anche conto del classico lavoro di M. Elia-
de, secondo cui lo sciamanesimo è «una delle tecniche arcaiche
dell’estasi, a un tempo mistica, magia e “religione” nel senso ampio del
termine», e, soprattutto, «estasi provocata per ascendere al Cielo o per
discendere agli Inferi»141.
Ma il campo degli sciamanesimi oggi deve andare oltre una vuota
fenomenologia dell’estasi e della possessione; il riferimento a un con-
cetto più vasto di «stati di coscienza non ordinaria» consente di inclu-
dervi anche molti altri aspetti, come sogni, visioni, capacità di vedere
__________
138
Si veda, per una sintesi bibliografica accurata, la recente messa a punto di E. Comba,
Antropologia delle religioni. Un’introduzione, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 167-173.
139
Cfr. R.J. Wallis, Shamans/Neo-Shamans. Ecstasy, Alternative Archaeologies and
Contemporary Pagans, Routledge, London-New York 2003, p. 11.
140
Cfr. I.M. Lewis, Le religioni estatiche, Ubaldini, Roma 1972.
141
Cfr. Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi, cit., pp. 15.388.
LUCA ARCARI - L’APOCALITTICA GIUDAICA E PROTO CRISTIANA 527

cose nascoste o inaccessibili, modalità di percezione non ordinaria, e co-


sì via142. In altri termini, è possibile definire una tipologia sociale di me-
diatori tra il mondo umano e quello altro, caratteristica anche
dall’attività cosiddetta sciamanica (prescindendo da alcuni elementi che
pure sembrano precipui di operatori del sacro attivi in varie aree, in al-
cuni tratti associabili agli sciamani ma non definibili, in maniera onni-
comprensiva, “sciamani”143), connessa alla gestione di una vera e pro-
pria autorità competitiva, una autorità che viene riconosciuta, in alcuni
gruppi, come supporto e rimedio contro i pericoli e le difficoltà di un
particolare momento storico144. È possibile vedere nel mediatore estatico
la testimonianza di una funzione sociale di relazione con l’invisibile,
non nel senso che è l’unico a potervi accedere, perché spesso nelle so-
cietà in cui esistono forme di sciamanesimo le modalità di interazione
con l’invisibile sono diffuse e accessibili, ma nel senso che colui (o co-
lei) che ha acquisito una maggiore familiarità con questa dimensione è
in grado di trarne una forma di conoscenza da trasmettere a beneficio
degli altri membri della comunità in competizione con altre forme di
conoscenza non ordinaria.
Quest’ultimo elemento permette di valutare la bontà, da un lato, e le
criticità, dall’altro, di una possibile applicazione delle funzioni sociali
visionarie, così come emergenti da alcuni fenomeni cosiddetti sciamani-
ci, alle pratiche soggiacenti ai testi cosiddetti apocalittici provenienti dal
giudaismo del periodo ellenistico-romano.
Per quanto concerne la bontà di un confronto tra le funzioni sciama-
nica e apocalittica si può rilevare quanto segue. Quello che viene defini-
to, non senza il rischio di immettere una cesura troppo netta tra il giu-
__________
142
Cfr. ibi, pp. 169-170.
143
Per le criticità connesse ad una associazione esclusiva tra la figura dello sciamano e
quella del Medicine-Man, cfr. Å. Hultkrantz, The Specific Character of North American Sha-
manism, in A.A. Znameski (ed.), Shamanism. Critical Concepts in Sociology, Routledge,
New York 2004, spec. pp. 24-27.
144
Già de Martino guardava secondo una simile prospettiva al fenomeno dello sciamane-
simo (cfr. Il mondo magico. Prolegomeni ad una storia del magismo, Bollati e Boringhieri,
Torino 1997). Si vedano le recensioni alle opere di M. Eliade e M. Boutellier sullo sciamane-
simo, in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni» 23(1951-1952), pp. 150-155 e pp. 155-
157, e gli appunti dedicati al tema in La fine del mondo, volti soprattutto a chiarire i rapporti
tra visione sciamanica e psicopatologia (brani 88, pp. 176-177, e 95, pp. 182-186). Il punto
critico dell’analisi di de Martino sta, forse, in una sostanziale indeterminatezza del concetto di
sciamanesimo, che arriva ad inglobare al suo interno anche il fatto culturale «magico». La
prospettiva di Eliade, di contro, abbastanza criticata da de Martino perché ritenuta figlia della
metodologia praticata a suo tempo da W. Schmidt (cfr. «Studi e materiali di storia delle reli-
gioni» 23[1951-1952], pp. 151-152), cerca di restringere la definizione di sciamano ad un
ambito geografico e sociale particolare, quello delle popolazioni Tungusi, ritenuto la scaturi-
gine del fenomeno sciamanico: di questo le altre forme religiose riconosciute come analoghe
non sarebbero altro che sostanziale derivazione.
528 SAGGI / ESSAYS

daismo del secondo Tempio e le culture circostanti, come «genere lette-


rario apocalittico» (ma lo si potrebbe definire, più in generale, «genere
visionario» o «profetico-visionario») rappresenta una costruzione for-
male che pretende di svelare il senso più vero dell’intero cosmo e del
mondo divino, e di offrirne la più completa e veritiera interpretazione.
Ogni costruzione di tipo «apocalittico», dunque, si propone come un di-
scorso intrinsecamente investito di autorità. Tale autorità si costruisce (e
non potrebbe essere altrimenti) anche dal confronto con autorità visiona-
rie «altre», avvertite come automaticamente in competizione, e quindi
come «false» o, comunque, non completamente aderenti a quella «veri-
tà» che il visionario attribuisce alla propria esperienza. La tradizione
enochica più antica (soprattutto il Libro dei Vigilanti) sembra volonta-
riamente rovesciare i procedimenti tipici del profetismo classico e «bi-
blico», appoggiandosi, per la prima volta nell’ambito della tradizione
giudaica, al modello estatico del viaggio ultramondano. Il Libro dei Vi-
gilanti si presenta come un resoconto di ciò che Enoc «ha visto» nel suo
viaggio ultraterreno. Il veggente ha certamente funzioni profetiche (co-
me emerge da 1En. 12,1 ss.), ma questo elemento – associato a quello
del viaggio – sembra rimandare ad una rilettura «competitiva» dei mo-
duli estatici attestati nei testi profetici: l’osservazione «autoptica» delle
realtà oltremondane assicura alla rivelazione ottenuta da Enoc una asso-
luta eccezionalità rispetto ai propri precedenti. Se i modelli estatici della
visione per incubazione e del sogno riconnettono l’esperienza di vari vi-
sionari apocalittici (si vedano i casi di Daniele, del Libro dei Sogni, del
2Baruc, del 4Ezra) alla profezia dell’antico Israele, per cui rappresenta-
no un modello autoritativo che legittima la specificità della loro rivela-
zione in continuità con la tradizione cosiddetta «biblica», il viaggio ul-
traterreno sembra fondare un’autorità che, proprio in virtù dell’accesso
diretto all’al di là, mostra tutta la sua rottura rispetto al passato145.

__________
145
Tale atteggiamento polemico è stato ulteriormente indagato anche per quanto concerne
alcuni aspetti ideologici emergenti dal Libro dei Vigilanti e dalla successiva tradizione enochica,
aspetti che, non a caso, hanno avuto un’importante ricaduta anche in seno a numerose istanze
ideologiche espresse da alcuni gruppi del giudaismo ellenistico-romano in opposizione al Tem-
pio di Gerusalemme. In questa sede non possiamo che rimandare a una serie di studi che fanno il
punto sulla situazione: in merito ai rapporti tra tradizione enochica e giudaismo templare, si ve-
dano le analisi di D.W. Suter, Temples and Temple in the Early Enoch Tradition. Memory,
Vision, and Expectation e M. Himmelfarb, Temple and Priests in the Book of the Watchers, the
Animal Apocalypse, and the Apocalypse of Weeks, in G. Boccaccini-J.J. Collins (eds.), The E-
arly Enoch Tradition, Brill, Leiden 2007, rispettivamente alle pp. 195-218 e 219-236; per quanto
concerne il ruolo della tradizione enochica nella definizione dell’identità qumranica, sostanzial-
mente oppositiva rispetto all’ambiente del Tempio, si veda, a titolo esemplificativo, D.W. Suter,
Theodicy and the Problem of the ‘Intimate Enemy’, in G. Boccaccini (ed.), Enoch and Qumran
Origins, cit., pp. 329-335.
LUCA ARCARI - L’APOCALITTICA GIUDAICA E PROTO CRISTIANA 529

Per quanto concerne le criticità connesse alla sovrapposizione tra


pratiche visionarie c.d. apocalittiche e sciamaniche è importante sottoli-
neare, ugualmente, alcuni non trascurabili, almeno secondo il nostro
punto di vista, elementi. Le tradizioni visionarie attestate nel giudaismo
del periodo ellenistico-romano si pongono, con dei distinguo abbastanza
forti, nell’alveo della trance di matrice biblica, pur cercando di innovare
dall’interno quella specifica pratica culturale. Certamente il procedimen-
to del viaggio ultramondano è assente nel profetismo c.d. biblico; per
questo appare plausibile che – con la tradizione enochica – il motivo del
viaggio ultramondano, quasi certamente di derivazione babilonese, di-
venti uno strumento costruttore di autorità competitiva rispetto alle mo-
dalità estatiche di tipo tradizionale. Ciò non ostante c’è un elemento che
lega l’esperienza estatica di Enoc a quella di profeti come Isaia, Gere-
mia ed Ezechiele: la scrittura. In Israele la profezia si configura – in al-
cuni casi – come fatto connesso alla scrittura, se non nell’aspetto estati-
co, in tutto analogo a quelli che gli antropologi chiamano stati modifica-
ti o alterati di coscienza146, almeno in quello della trasmissione del mes-
saggio profetico, che avviene o tramite il veggente stesso, oppure trami-
te un suo segretario, preposto alla scrittura di quanto il profeta vede
quando si trova in stato modificato di coscienza (cfr. Is 8,1; 29,11-12;
30,8; Ger 36; 45,1; Bar 1,3-4; Dan 9,1-3)147. Ciò connette la profezia
c.d. biblica ai fenomeni scribali attestati nel Vicino Oriente antico, seb-
bene qui la scrittura c.d. profetica avvenga nelle cerchie del palazzo (si
vedano i testi di Mari), mentre, nel contesto ebraico, in cerchie di spe-
cialisti, veri e propri collegi profetici148. D’altronde, l’iscrizione dell’VIII

__________
146
Per lo studio della profezia giudaica antica secondo questa prospettiva, a titolo esem-
plificativo cfr. T.W. Overholt, Prophecy in Cross-Cultural Perspective. A Sourcebook for
Biblical Researchers, SBL Press, Atlanta 1986; Id., Channels of Prophecy. The Social Dy-
namics of Prophetic Activity, Fortress Press, Minneapolis 1989; J.J. Pilch, The Nose and Al-
tered States of Consciousness. Tascodrugites and Ezekiel, in «Hervormde Teologiese Stud-
ies» 58(2002), pp. 708-720; Id., Visions and Healing in Acts of the Apostles. How the Early
Believers Experienced God, The Liturgical Press, Collegeville 2004. Si vedano anche i rife-
rimenti e la trattazione presenti in D. Tripaldi, Lo spirito e la memoria: esperienza “profeti-
ca” e ricordo di Gesù nell’Apocalisse di Giovanni, Baiesi, Bologna 2007.
147
L’elemento della scrittura, in riferimento a quanto il visionario ha visto nella sua e-
sperienza di contatto con l’oltre-mondo, ritorna con una certa frequenza nei testi c.d. apocalit-
tici del giudaismo del secondo Tempio e del proto cristianesimo: cfr. 1Enoc 13,4-6, 14,1,
92,1, 93,1-3, 106,19-107,1, 108,1.10, Giubilei 1,26-28, 4,17-19, 2Baruc 78,1-2, 86,1-87,1,
4Ezra 12,37-39, 14,6.24-26.37-48, Apocalisse 1,3.11, 2,1.8.12.18, 3,1.7.14, 21,5, 22,7.9-
10.18-19, Ascensione di Isaia 6,17.
148
Sul tema, in generale, si veda C. Grottanelli, Profezia e scrittura nel Vicino Oriente,
in «La ricerca folklorica» 5(1982), pp. 57-62 (ora in Id., Kings and Prophets. Monarchic
Power, Inspired Leadership, and Sacred Text in Biblical Narrative, Oxford University Press,
Oxford-New York 1999, pp. 173-184).
530 SAGGI / ESSAYS

secolo di Tell Deir ‘Alla, rinvenuta nel 1967 in Transgiordania149, rivela


come il profeta Balaam venisse designato con lo stesso termine con cui
nella Bibbia sono chiamati i profeti (l’incipit del testo recita: «Libro di
Balaam, il veggente degli dèi»).
I resoconti delle trances di tipo sciamanico, il più delle volte, pro-
vengono da civiltà prettamente orali, o emergono come fatti culturali ti-
pici di quella che Ong ha definito «civiltà dell’oralità»150. Certamente
non è corretto contrapporre in blocco civiltà dell’oralità e civiltà della
scrittura, dato che in molti casi si osservano sovrapposizioni, in uno
stesso sistema socio-culturale, abbastanza fluide, se non vere e proprie
osmosi151. Ma resta che il profetismo e i fenomeni estatici attestati nel
mondo ebraico sono, programmaticamente, fatti culturali che trovano
nella scrittura un elemento fondamentale per la definizione della stessa
autorità visionaria152.
Tali osservazioni ci conducono all’ultimo punto che ci preme sotto-
lineare153. Per farlo, riteniamo utile riprendere l’accezione sociologica
del termine «autorità». In tale contesto, essa emerge come la facoltà di
motivare, anzi elaborare, le opinioni, gli interessi e le necessità di una
comunità. Di conseguenza «autorità» coincide, in sostanza, con «legit-
timità», legittimità che viene conferita da una collettività più o meno
ampia, la quale riconosce, in base a determinate motivazioni, che vanno
__________
149
Cfr. J.A. Hackett, The Balaam Text from Deir Allā (HSM 31), Harvard University
Press, Chico 19842; Observations on the Balaam Inscription at Deir Alla, in «Biblical Ar-
cheological Review» 5(1986), pp. 218-22; I. Hoftijzer-G. van der Kooij (eds.), The Balaam
Text from Deir Alla Re-evaluated. Proceedings of the International Symposium held at Lei-
den, 12-14 August 1989, Brill, Leiden 1991. Il caso dell’iscrizione in questione è di estremo
interesse, dato che in Numeri 22-24 un profeta-mago di nome Balaam viene usato dai Moabiti
contro Israele.
150
Cfr. W.J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna
1986.
151
Si veda quanto rilevato da S. Cicconi, Nota critica: Walter J. Ong, Oralità e scrittura,
in J.S. Petofi (ed.), Sistemi segnici e loro uso nella comunicazione umana, Università di Ma-
cerata, Macerata 1993, pp. 81-92.
152
Un confronto particolarmente interessante potrebbe essere istituto con i canti sciama-
nici nepalesi: cfr. G.M. Maskarinec, Nepalese Shaman Oral Texts (HOS 55), Harvard
University Press, Cambridge MA 1998; Nepalese Shaman Oral Texts II: Texts of the Bhuji
Valley (HOS 68), Harvard University Press, Cambridge MA 2009. Ma anche in questo caso ci
troviamo nell’ambito di una trasmissione prettamente mnemonica, e quindi orale, delle cono-
scenze sciamaniche, in vista della loro tesaurizzazione e conservazione; la messa per iscritto
dei canti si deve, sempre e comunque, a terzi. Infine, cosa ancora più rilevante, la scrittura
non è vista parte integrante del processo costruttivo dell’autorità visionaria: cfr. G.M. Maska-
rinec, The Rulings of the Night. An Ethnography of Nepalese Shaman Oral Texts, The Uni-
versity of Wisconsin Press, Madison 1995, pp. 194-232.
153
Si veda quanto già affermava, in un suo pionieristico studio, C. Grottanelli, Speciali-
sti del soprannaturale e potere nella Bibbia ebraica: appunti e spunti, in F.M. Fales-Id.
(eds.), Soprannaturale e potere nel mondo antico e nelle società tradizionali, Franco Angeli,
Milano 1985, pp. 119-140.
LUCA ARCARI - L’APOCALITTICA GIUDAICA E PROTO CRISTIANA 531

incontro a particolari aspettative collettive, in un individuo (o in un te-


sto/documento) la capacità di porre in essere un sistema di comunica-
zione in grado di orientare in un senso o nell’altro le proprie scelte e di
fronteggiare possibili momenti di crisi e difficoltà; un’autorità è tale,
dunque, se riesce a mettere in atto un sistema simbolico capace di in-
contrare le esigenze e i bisogni di un gruppo di persone. In tale qua-
dro, lo studio dei testi visionari giudaici, a confronto con alcuni fe-
nomeni estatici solitamente etichettati come sciamanici, appare parti-
colarmente fecondo.
Secondo alcuni studiosi, la visione dell’al di là contenuta in 1Enoc 12-
16, dove il veggente arriva a contemplare il trono su cui Jhwh è assiso,
sarebbe stata prodotta in seno ad un gruppo contrario all’ellenizzazione
della Giudea, ellenizzazione che da altri Ebrei non era evidentemente vis-
suta come una crisi assoluta154; il 4Ezra e il 2Baruc, scritti in seguito alla
catastrofe del 70 d.C., anch’essi resoconti di esperienze estatiche ottenute
soprattutto attraverso il procedimento del sogno, si pongono in prossimità
di un evento che, e questo lo si è rilevato soprattutto di recente, non era
definito da tutti gli ebrei presenti nel mondo greco-romano nei termini di
una «fine assoluta» della loro cultura e del loro mondo155; le stesse visioni
confluite nell’Apocalisse neotestamentaria sembrano rispondere ad una
crisi derivante soprattutto dall’ellenizzazione del giudaismo (e non da una
presunta persecuzione dell’impero romano contro i primi cristiani)156, fat-
tore che da altri attori del medesimo contesto sociale, anch’essi “cristia-
ni”, era invece ritenuto non del tutto ostativo ai fini della propagazione
della fede (lo stesso veggente di Patmos non manca di stigmatizzare con
virulenza tale atteggiamento: cfr. Ap 2-3).
In gruppi in cui è attestata un’autorità mediatrice di tipo sciamanico
è ugualmente possibile riscontrare fenomeni di competizione sociale
ruotanti attorno alla pratica estatico-visionaria. Presso i Songhai del Ni-
ger, studiati da Jean Rouch tra gli anni ’50 e ’60 del secolo ormai scor-
so157, è attestata la presenza di due élites che praticano riti di carattere
sciamanico, gli holey e i sohantye. Mentre i primi svolgono manifesta-
__________
154
Cfr. G.W.E. Nickelsburg, 1 Enoch I: A Commentary on the Book of Enoch, Chapters
1-36; 81-108, Fortress Press, Minneapolis 2001, pp. 238-247; ulteriore bibliografia in L. Ar-
cari, «Una donna avvolta nel sole…», cit., pp. 121-130.
155
Per ulteriore discussione e bibliografia, cfr. ibi, pp. 199-211. In merito al 4Ezra e al
2Baruc, e ai relativi contesti polemici di riferimento, si vedano le recenti monografie di Ho-
gan, Theologies in Conflict in 4 Ezra, cit. e L. Ingeborg Lied, The Other Lands of Israel. I-
maginations of the Land in 2 Baruch, Brill, Leiden 2008.
156
Per ulteriore discussione e bibliografia, cfr. L. Arcari, «Una donna avvolta nel so-
le…», cit., pp. 287-301.
157
La religion et la magie Songhay, PUF, Paris 1960. Recentemente ha ripreso la que-
stione L. de Heusch, Con gli spiriti in corpo. Transe, estasi, follia d’amore, Bollati e Borin-
ghieri, Torino 2009.
532 SAGGI / ESSAYS

zioni pubbliche, i secondi si caratterizzano per la pratica di riti solitari


che si svolgono nella boscaglia o nell’intimità della capanna; più in par-
ticolare, i secondi si considerano eredi spirituali del primo re sacro, e, in
virtù di questa ascendenza, si ritengono depositari del dono della veg-
genza, connesso al potere che da questo deriva. Viene a crearsi un lega-
me assai stretto tra i sohantye e gli avvoltoi, gli unici animali in grado di
attraversare i sette cieli per arrivare fino all’oltre-mondo. I sohantye
comunicano nei sogni con questi uccelli e sono, a loro volta, in grado di
compiere il viaggio soprannaturale all’inseguimento degli stregoni man-
giatori di anime. Nel caso dello sciamano sohantye, come osservato da
Jean Rouch, l’estasi – nello specifico contesto socio-culturale del Niger
– è uno straordinario mezzo di percezione e di azione; lo sciamano vede
cosa avviene nel villaggio nel raggio di più di duecento chilometri, indi-
vidua il male e le minacce, li allontana. Questa eruzione di potenza as-
sume carattere sostanzialmente competitivo rispetto alla trance praticata
dagli holey, figure mediatrici associate alle potenze naturali, sciamani
che incarnano periodicamente i geni associati alle grandi forze della na-
tura. Tali complessi scontri-relazioni sociali vanno inseriti nel contesto
di una civiltà che discende dall’impero Songhai, in Sudan, che ebbe una
grande importanza nella storia dell’Africa nera, anche grazie alla sua
posizione strategica a cavallo tra l’Africa c.d. nera e quella c.d. bianca,
ma che fu sottoposta ad una pesante berberizzazione.
L’autorità visionaria è ritenuta tale perché è dichiarata provenire da
una reale esperienza di tipo estatico. Ciò avviene in particolari momenti
di «crisi percepita», ovvero in momenti che solo particolari gruppi so-
ciali percepiscono come critici, a fronte di altri che consolidano e co-
struiscono il loro potere, spesso innescando quei mutamenti che, per al-
tri, rappresentano la molla scatenante della crisi stessa. I cosiddetti mo-
menti di crisi non sono necessariamente tali per tutti i gruppi operanti
nello stesso sistema socio-culturale; a fronte di certe situazioni, alcuni
possono considerarle come la fine del/di un mondo, altri, di contro, pos-
sono non ritenerle delle concrete minacce all’ordine costituito, ma,
semmai, dei veri e propri strumenti di ottenimento e/o consolidamento
del potere.

ABSTRACT

L’articolo tratta della dizione di “apocalittica” nella storia della ri-


flessione teologica e storico-religiosa tra ’800 e ’900, rilevandone la
sostanziale inadeguatezza euristica, figlia di una visione dei rapporti tra
giudaismo del periodo ellenistico-romano e proto cristianesimo sostan-
zialmente cristiano-centrica. Partendo dall’incompiuta opera di Ernesto
LUCA ARCARI - L’APOCALITTICA GIUDAICA E PROTO CRISTIANA 533

de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi


culturali (1977), di cui vengono rilevati i debiti nei riguardi della specu-
lazione teologica del primo cinquantennio del secolo scorso, lo studio si
sofferma sugli approcci messi in campo da studiosi come John J. Col-
lins e Paolo Sacchi, per arrivare a definire i rapporti tra i testi apocalit-
tici giudaici e cristiani e alcune concrete prassi visionarie, senza tra-
scurare le connessioni con pratiche cosiddette “sciamaniche” attestate
in alcuni ambiti di interesse etnografico. Lo studio, sfruttando una com-
parazione storico-religiosa differenziante, rileva le similarità e le diffe-
renze tra concrete esperienze visionarie attive in contesti di interesse
etnografico e i testi cosiddetti apocalittici, al fine di valutare la bontà di
una possibile definizione di questi ultimi in chiave “sciamanica”.

This contribution deals with the concept of “apocalypticism” in


both theological and historical-religious debates between the XIXth and
XXth centuries. The study argues that such a definition derives from a
Christian-centric vision of the relationship between Second-Temple Ju-
daism and Christian origins. The article analyzes the unfinished work of
Ernesto de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle
apocalissi culturali (1977), highlighting its connections with the theo-
logical speculation of the XXth century; John J. Collins’ and Paolo Sac-
chi’s research is also discussed, as is the relationship between Jewish
and proto-Christian apocalyptic texts and some shamanistic visionary
techniques attested in different ethnographic examples. Commencing
with a historical-religious comparative methodology of differentiation,
this study stresses the similarities and the differences between the con-
crete visionary experiences in ethnographic contexts and the ecstatic
reports transmitted by the apocalyptic texts, in order to evaluate the
possibility that there exists a “shamanistic” key to this documentation.

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