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Amalia Signorelli, in un commento al taccuino, disegna un ritratto affascinante dello storico-etnografo, là dove

descrive de Martino come «il programmatore e organizzatore del lavoro di squadra» e ne ricorda la «presenza
autorevole, persino carismatica di un capo, il prestigio del quale mantiene concorde e coordinata la squadra e
riesce a farla accettare all’esterno, da un ambiente spesso diffidente e talvolta francamente ostile»

Clara Gallini

Osservazione partecipante quale componente essenziale dell’incontro etnografico

Com’è noto fra il 1952 e il 1959 de Martino ha intrapreso alcune campagne di ricerca nel sud Italia, in
particolare in Puglia, in Basilicata e in Calabria, i cui esiti editoriali costituiscono l’ormai famosa trilogia di
monografie etnografiche demartiniane (de Martino, 1958 [1975] 1 , 1959, 1961) sulla quale molto è stato scritto,
sia per la parte riguardante l’impostazione metodologica e il contesto storico e politico delle ricerche2 , sia per
quanto riguarda lo specifico versante dell’antropologia visiva di impostazione demartiniana.

Nel testo di presentazione pubblicato sul «Radiocorriere», con fotografie di Franco Pinna, Ernesto de Martino
(1954, p. 17) sintetizzava con chiarezza l’intento e i riferimenti metodologici che lo avevano convinto ad
accettare l’invito della Rai, precisando, in apertura dell’articolo, che: Il gusto del primitivo e del popolare ha
senza dubbio variamente influenzato in modo immediato certe correnti artistiche e letterarie e persino certi
aspetti del costume e della ideologia del mondo moderno, ma non direi, in generale, che questo gusto vada
incoraggiato. Lo studioso faceva riferimento alle forme di irrazionalismo di richiamo primitivista e, pertanto,
proponeva una divulgazione dei contenuti etnografici rispondenti a criteri derivanti dall’approccio storicistico e
individuante di tutta la sua produzione saggistica maggiore, dando risalto alla complessità dei contenuti di
alterità culturale piuttosto che alle esigenze di semplificazione comunicativa e di appiattimento del gusto
attraverso pratiche di edulcorazione delle forme espressive

I due termini fotoreportage e fonoreportage alluderebbero a una vera e propria modalità di approccio al campo,
in questo caso mutuato dalla fotografia di stampo giornalistico e con un intento di immediatezza e di
contemporaneità dell’esperienza di ricerca: il secondo termine è, infatti, coniato sul primo, di uso largamente più
consueto. In tal senso, l’attenzione dei 6 Lo stesso etnologo lo aveva ben chiarito in relazione con le esecuzioni
di lamentazioni funebri registrate per lo più su richiesta (de Martino, 1975, p. 74). Molti anni dopo rispetto al
1958, anno in cui uscì il libro di de Martino, Roberto De Simone (1979, p. 8) esprimeva analoghe considerazioni
in merito alle registrazioni di canti popolari campani da lui realizzate in studio. Copyright © 2020 by
FrancoAngeli s.r.l., Milano, Italy. ISBN 9788835115946 49 fotoreporter e fonoreporter, più che a una perfezione
tecnica dei documenti, avrebbe dovuto essere rivolta il più possibile a cogliere ed evidenziare le specificità
culturali

L’antropologo Ernesto De Martino è fra i primi, nel 1952, a prendere la strada del Sud, inseguendo i tratti del suo
volto magico. I suoi viaggi portano allo scoperto un nuovo sguardo sull’uomo, che, con l’aiuto della fotografia,
amplia il proprio orizzonte visivo.

De Martino in una sua intervista a Fausta Leoni, nel descrivere il rapporto fra le popolazioni lucane e la
morte, soprattutto nel secondo saggio citato, parla dell’impegno dei vivi, di coloro cioè che sono “al di
quà”, nel risolvere “la situazione luttuosa in un valore di memoria, in un valore morale” , sottolineando
come le popolazioni osservate abbiano “cercato un al di là nel quale trovare recupero e integrazione e con
cui stabilire un rapporto per trasformare il morto da larva (qualcosa cioè di non posseduto e di non
controllato) in cara memoria (cioè un valore morale).  Il loro sforzo era insomma quello di “trasformare il
defunto (…) in un dato spirituale, in un legame di insegnamento o altro”.  Attraverso il suo studio De
Martino ammette di aver compreso “come gli uomini superano quel tanto di allontanante, di sgomentante
e anche di trascinante insito nel cadavere”    e il loro modo di “trasformare questo rapporto – che non si
può sostenere a lungo senza averne una profonda crisi – in un valore morale, in una cara memoria”.  E tale
modo consiste nel vedere “che cosa il morto ha fatto o non ha fatto nella vita, che cosa ha insegnato o
non insegnato: fare un bilancio, in altri termini, da cui automaticamente emergono solo gli aspetti positivi”.

Carlo Bavagnoli, L'Africa in casa, 1960.

Utilizzando la ricerca musicale raccoglie i suoni delle antiche civiltà, le voci disperse delle origini. Sa
bene che tutto questo non è che un cumulo di scarti nella galoppante americanizzazione del pianeta
dopo la seconda guerra mondiale. Ma proprio rovistando fra gli scarti, nelle pratiche magiche, nei
pianti rituali, osservando i movimenti convulsi delle tarantate salentine (nulla di più lontano da quello
che, negli stessi anni, accade nel grande triangolo industriale del Nord), setacciando instancabilmente
paesi e campagne fra Puglia e Basilicata, De Martino scopre la crosta rocciosa dell’umano, la linea,
obliqua, mille volte spezzata, che dalle origini arriva fino a noi. Niente di nuovo sotto il sole: l’uomo è
un essere in lotta, vive nella temperie del rischio. Tutto lo può colpire, e annientare, facendolo
precipitare nel nulla: una qualche impennata della natura, siccità, alluvioni, un terremoto, un’epidemia,
o più semplicemente l’umore o il capriccio di un dio ostile. Tutto può sfaldare l’edificio umano, in
bilico su precarie fondamenta. Se dunque si fa ricorso al rito è per sanare le ferite dell’assenza, o
arginare l’azione devastatrice della morte. Il rito non è che un involucro protettivo, una struttura
difensiva, un avamposto che sorveglia la continuità della vita sociale. Volendo ricorrere a un concetto
di larga circolazione potremmo dire che magia e riti non sono che procedure di quello che oggi
chiamiamo immunizzazione, un modo per dare riparo alla “presenza” umana, al nostro stare al mondo
costantemente minacciato.
Ma il Sud ha altre porte d’accesso, ha molti lati, una geografia diversificata. Anche se il fantasma
dell’arretratezza, una disgiunzione temporale apparentemente irrecuperabile, l’attraversa per intero. Il
Nord e il Sud del Paese non vivono nello stesso tempo. La distanza che li separa è un taglio lacerante.
“Nel dicembre del 1954, racconta il fotografo Pablo Volta, arrivato per la prima volta in Barbagia,
provai la fortissima emozione di aver fatto un salto indietro nel tempo”.
Franco Cagnetta che, per la rivista “Nuovi Argomenti” lavorerà a un’inchiesta su Orgosolo, dichiara la
sua prima impressione entrando in paese: 
“Orgosolo presenta per l’etnologo un terreno di osservazione che, per primitività di strutture sociali e
per manifestazioni di mentalità e culture proprie solo alle civiltà primitive, è difficile trovare ancora
oggi forse, in un qualsiasi altro paese d’Italia e di Europa”.

Carlo Bavagnoli, Sardegna 1969.

L’altra metà dell’Italia corre veloce, brucia le tappe, mentre il Sud arranca in una fatica secolare, che
non consente accumulazione di ricchezza, e neppure la semplice sopravvivenza. E ineluttabilmente si
svuota. L’ondata migratoria appare travolgente. Un incontenibile esodo di massa: fra la fine degli anni
cinquanta e la metà dei sessanta si spostano da Sud a Nord quasi 1.500.000 di persone, un popolo di
diseredati alla ricerca della vita.
Nota un grande meridionalista, Francesco Compagna:
“La strada dell’emigrazione è tanto dolorosa quanto antica, dura sempre e rischiosa spesso, qualche
volta tragica, ma chi s’incammina su di essa lo fa di propria deliberata volontà, perché non vuole più
restare sulla piazza del paese, intorno alla fontana”.
E cosa accade a chi continua a girare attorno alla fontana del paese affondato nell’inerzia? Come vive
chi è rimasto “prigioniero del proprio isolamento”? Quali residue speranze, o quale disperazione, si
muovono nell’“Italia che non cambia”?
Restiamo in Sardegna, spostandoci in Baronia, appena più a Nord rispetto a Orgosolo, nella parte nord-
orientale della provincia di Nuoro, fra Barbagia e Gallura. Una piccola piana attraversata da un fiume,
il Cedrino, che ogni due anni, esibisce piene devastanti che azzerano i seminati d’orzo e di grano.
“Tutta l’economia della zona si restringe alle colline sassose che non basterebbero neppure a soddisfare
i bisogni di una tribù di selvaggi”. Per metà dell’anno i “servi-pastori”, ragazzi fra gli 8 e i 14 anni,
dormono sotto un albero, o al riparo di una tenda fatta di stracci e pelli. Il pasto di tutti i giorni è una
sfoglia di pane secco e un po' di formaggio.

 l’atteggiamento di superiorità e strumentalità dell’antropologo Ernesto De Martino nei


confronti del lavoro dei “suoi” fotografi); frustrata nel tentativo di raccontare il paese
reale dall’editing (vedi il geniale ma assoluto dispotismo di Pannunzio sul suo Mondo)
e poi dalla linea editoriale sempre più frivola dei rotocalchi.

Restano fuori da questo quadro ancora alcuni ambiti del fotografico, non indifferenti. Le
fotografie private, quelle utilitarie e tecniche, le “semplici fotografie” che riempiono in realtà le
nostre giornate e i nostri sguardi. Del resto è una carenza di tutta la nostra storiografia
fotografica (c0n l'eccezione dei libri e soprattutto delle riviste irriverenti di Ando Gilardi) questa
mancanza di un racconto documentato dei modi e dei sistemi di fruizione, di consumo, di
condivisione e di disseminazione delle fotografie, sia prima che dopo Internet, ovvero le
modalità con cui milioni di italiani interagiscono quotidianamente con l’idea e la pratica della
fotografia.

“Fotografare in queste condizioni è come essere sbronzi, è navigare in una marea di


accanimenti e di esultanze, è smarrire il senso di quello che succede”.
Penso che Cecilia Mangini abbia scritto  queste righe, oggi che ha novant’anni, ripensando
con tenera indulgenza alla ragazzina che era quando ne aveva venticinque.

Cecilia Mangini la conoscono più i cinefili che i fotofili. Ed anche tra i cinefili, soprattutto
quelli con lo sguardo ampio, che spazia oltre il cinema di fiction. 
Perché Cecilia, assieme al marito Lino Dal Fra, è stata la pioniera del documentario italiano
del secondo dopoguerra. Quella stagione di cinema alla scoperta del reale, di impegno
sociale, di militanza intellettuale in cui la coppia avrebbe affiancato autori come Pier Paolo
Pasolini e Lino Miccichè.
Quello che vediamo ora è un reportage, almeno così ci appare. Il racconto di un luogo
emarginato dalla storia, di una comunità falcidiata dall’emigrazione in Australia,  il racconto di
un lavoro durissimo e pericoloso, quello dei minatori di pomice, vittime predestinate della
silicosi.
Cecilia Mangini, da Isole © Fondo Cecilia Mangini

Era una vacanza, ma non erano foto di vacanza. Cecilia, quando tornò a casa e le riguardò,
capì che erano un’altra cosa, e provò a farle pubblicare. Molte volte. Per anni. Ma quel
reportage non fu mai pubblicato da nessuno. “Quasi quelle foto volessero essere mie
soltanto”

Ma poi, basta guardarle, le fotografie quadrate di Cecilia Mangini: sarebbe neorealismo


questo? Non c’entra solo l’assolata mediterranea antiretorica nettezza delle immagini. Non
c’è il romanzo popolare, non c’è l’epica della povertà trascesa in eroismo proletario.
Cecilia Mangini, da Isole © Fondo Cecilia Mangini

C’è l’incontro stuporoso di una giovane borghese, di una donna emancipata e di buoni
studi, con l’esotico vicino del nostro Meridione. Ma  senza la tentazione del pittoresco. I suoi
bambini sono bambini, non elfi della miseria; i suoi minatori sono lavoratori a rischio, non
prometei  tragico-eroici.
Forse per quello non ci fu posto per queste foto sui rotocalchi del Neorealismo
agonizzante. “Presepi 

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