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La nostalgia è il sentimento che, forse più di altri, ha accompagnato l’origine, lo sviluppo e

l’affermazione del mondo moderno. Su questo sentimento Vito Teti ha scritto un libro
bellissimo “Nostalgia. Antropologia di un sentimento del presente” (Editore Marietti 1820,
pp.296, 20 euro). Classificata come fissazione patologica o attitudine retrospettiva
che frena ogni cambiamento, è stata liquidata in modo frettoloso per occultare
l’insostenibile pesantezza del tempo presente. Tra pandemie e rischi climatici,
dolore e speranza, la nostalgia ritorna ostinatamente a offrirsi come àncora di
salvezza, strategia, risorsa, elemento creativo capace di misurarsi con il passato
e di delineare possibili itinerari per il futuro. In modo paradossale essa si
trasforma così da malattia legata al rapporto con i luoghi, desiderio di altrove e
di tempi sconosciuti, in meravigliosa macchina del tempo che agisce come
terapia della modernità criticandone i presupposti, le ingenuità e le menzogne.
Capace di intercettare il pensiero apocalittico e quello utopico, di collocarsi
dalla parte degli sconfitti e degli emarginati, la nostalgia mostra in questo modo
anche un aspetto sovversivo che riconsidera potenzialità inespresse e vie mai
percorse da un’umanità che non può più semplicemente sperare nelle proprie
«magnifiche sorti e progressive».
La nostalgia (parola composta dal greco νόστος, ritorno, e άλγος, dolore ; “dolore del
ritorno”) è un’emozione caratterizzata da un senso di tristezza e rimpianto per la lontananza
da persone o luoghi cari o per un evento collocato nel passato che si vorrebbe rivivere. Il
termine nostalgia in sé, pur derivato dal greco come molti termini scientifici, era sconosciuto
al mondo greco. Entra nel vocabolario europeo nel XVII secolo, per opera di uno studente di
medicina alsaziano dell’ Università di Basilea Johannes Hofer, il quale, constatando le
sofferenze dei mercenari svizzeri al servizio del re di Francia Luigi XIV, costretti a stare a
lungo lontani dai monti e dalle vallate della loro patria, dedicò a questo fenomeno una tesi,
pubblicata a Basilea nel 1688 con il titolo “Dissertazione medica sulla nostalgia”. Con questo
termine greco di nuovo conio, infatti, Hofer traduce nel linguaggio scientifico l’espressione
francese «mal du pays» e il termine tedesco «Heimweh» (letteralmente dolore per la casa),
ancor oggi utilizzati nelle rispettive lingue. Ma fu solo con la fine del secolo XIX e con gli
albori della società di massa, che la nostalgia assunse le caratteristiche peculiari con cui si
identifica ancora oggi come Svetlana Boym, nel testo “Ipocondria del cuore: nostalgia,
storia e memoria”, spiega: “La nostalgia come emozione storica raggiunge la maggiore età in
epoca romantica ed è contemporanea alla nascita della cultura di massa. Ebbe inizio con
l’affermarsi del ricordo dell’inizio del XIX secolo che trasformò la cultura da salotto degli
abitanti delle città e dei proprietari terrieri istruiti in una commemorazione rituale della
giovinezza perduta, delle primavere perdute, delle danze perdute, delle occasioni perdute.
[…] Tuttavia questa trasformazione della cultura da salotto in souvenir era festosa, dinamica
e interattiva; faceva parte di una teatralità sociale che trasformava la vita quotidiana in arte.
[…] Il malinconico senso di perdita si trasformò in uno stile, una moda di fine Ottocento”.

Teti, basandosi sulle riflessioni di studiosi, analizza la nascita del sentimento


moderno della nostalgia, vista un tempo come una malattia addirittura mortale
che prevedeva le più strampalate cure: nostalgia finta, nostalgia vera e
patologica, vissuta e costruita; in sintesi nostalgia negativa e positiva. Tra i
capitoli più interessanti del saggio, un trattatello sociologico, è quello
incentrato sul rapporto tra cibo e defunti – col rito del cosiddetto consòlo in cui
i parenti e i vicini della famiglia del trapassato si impegnano a sostenerla dal
punto di vista alimentare nei giorni del lutto – ed anche quello titolato “Andare
altrove” in cui Vito Teti puntualizza il tema dell’emigrazione, uno dei temi
fondanti e ricorrenti dell’opera, la febbre di “andare all’America” che decimò il
Mezzogiorno d’Italia tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Una particolare
forma di nostalgia colpì quelle popolazioni – sia chi partiva sia chi restava,
genti che prima di trasformarsi in “Homo migrans” non si erano di fatto mai
spostate dai paesi natii e che per secoli avevano avuto “come punto di
riferimento il campanile della chiesa”. Nelle duecentosettanta pagine del
volume, ci sono le riflessioni dei più importanti autori calabresi sui temi del
viaggio, dell’abbandono, dell’emigrazione, del ritorno, del senso di colpa del
migrante e di quello di estraneità del ritornato: Saverio Strati, Franco
Costabile, Francesco Perri, Corrado Alvaro (Gente in Aspromonte, 1930), e
altri ancora.
E per finire, erano anni che non leggevo parole così vere e così accorte sul Sud,
in queste Teti è stato grande, ve le porgo, perché io già le conservo come in un
reliquiario: “ L’avventura del restare – la fatica, l’asprezza, la bellezza, l’etica
della restanza – non è meno decisiva e fondante dell’avventura del viaggiare. Le
due avventure sono complementari, insieme vanno colte e narrate. Restare non
è stata, per tanti una scorciatoia, un atto di pigrizia, una scelta di comodità, ma
un’avventura, un atto di incoscienza e forse di prodezza, una fatica e un dolore.
Non si ceda alla retorica o all’enfasi, ma restare è la forma estrema del
viaggiare. Restare è un’arte, un’invenzione; un esercizio che mette in crisi le
retoriche delle identità locali. Restare è una diversa pratica dei luoghi e una
diversa esperienza del tempo, una riconsiderazione dei ritmi e delle stagioni di
vita. Restare significa contare le macerie, curare gli anziani e gli ammalati,
accompagnare i defunti, custodire e consegnare ricordi e memorie, raccogliere
ed affidare ad altri nomi e soprannomi, episodi di mondi scomparsi o che
stanno morendo. Restare significa mantenere il sentimento dei luoghi e
camminare per costruire qui e ora un mondo nuovo, anche a partire dalle
rovine del vecchio. … Restare significa raccogliere i cocci, ricomporli,
ricostruire con materiali antichi, tornare sui propri passi per ritrovare la
strada, vedere quanto è ancora vivo quello che abbiamo creduto morto e quanto
sia essenziale quello che è stato scartato dalla modernità. Nostalgie, rimpianti,
risentimenti attraversano le pietre, le grotte, i ruderi, le erbe che nascondono o
proteggono le rovine, le piante di fico che accompagnano e provocano la caduta
delle abitazioni. Le feste che si svolgono nei paesi abbandonati e diroccati
svelano questi sottili e controversi legami con i ruderi; i pellegrini di ritorno tra
le rovine segnalano forse anche un’insofferenza per i non luoghi e un desiderio
latente di costruire nuove forme dell’abitare”.
Vito Teti è professore ordinario di Antropologia culturale dell’Università della
Calabria(Unical), dove ha fondato e dirige il Centro di iniziative e ricerche «Antropologie e
Letterature del Mediterraneo». Tra le sue pubblicazioni: Il senso dei luoghi (Donzelli, 2004;
III ed. 2014); Storia del peperoncino (Donzelli, 2007); La razza maledetta (Manifestolibri,
2011); Maledetto Sud (Einaudi, 2013); Pietre di pane (Quodlibet, 2014); Terra inquieta. Per
un’antropologia dell’erranza meridionale (Rubbettino, 2015); Fine pasto. Il cibo che verrà
(Einaudi, 2015); Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni (Donzelli, 2017).

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