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Come sappiamo, Manzoni si distacca completamente dalla poetica neoclassica (fondata sulla
contemplazione disinteressata della bellezza) per dare spazio alla ricerca di una conoscenza critica della
realtà e un profondo interessa per la storia e per la morale. L’arte, per Manzoni, non è fine a sé stessa, ma
deve rispondere a concrete finalità educative e di impegno sociale e civile.
A tutti gli ideali già propri del Manzoni, vanno aggiunti quelli del cattolicesimo. Una conversione che non
stravolge i suoi valori illuministici, ma fa in modo che si crei con essi un “sistema” culturale che vede i
principi di ambe le parti unirsi e rinsaldarsi in nome della fede. Egli riconosce nel Vangelo la via per la
realizzazione degli ideali settecenteschi di giustizia e di libertà: potremmo dire che egli non cerca di
invocare la fede, ma di raggiungerla attraverso i nuclei fondamentali dell’Illuminismo.
Il suo incontro col giansenismo non riesce a stravolgere totalmente la propria concezione religiosa, già
ambigua di per sé, ma gli permette di condividere NON la dottrina agostiniana, ma il rigorismo morale,
secondo cui il cristiano deve condurre una vita rispettando i princìpi del Vangelo, e la consapevolezza del
male che condiziona irreparabilmente la storia. Ciò fa in modo che egli viva il sentimento religioso come
travagliata meditazione sulla storia degli uomini: la fede risulta NON pacificata, ma si presenta come una
volontà di comprendere le contraddizioni del vivere; inoltre egli non rinuncia mai alla denuncia impietosa
della miseria e della violenza che sconvolgono la vita quotidiana. Il sentimento religioso, la fede che ci sia
un posto dove vigono leggi della giustizia non fa in modo che egli chiuda gli occhi sulla terrena realtà
decadente. Egli inoltre si rifà ugualmente al cristianesimo di sant’Agostino, e non dimentica il pessimismo
di Pascal e la sua idea che l’uomo sia un essere sofferente e colpevole. La virtù, per Manzoni, è una
conquista da meritarsi giorno dopo giorno.
“Storia” e “invenzione” assumono in Manzoni un rapporto fondamentale: il lavoro del poeta completa e
integra quello dello storico: si arriva laddove la cronaca e la storiografia non possono arrivare. Per tale
motivo la invenzione poetica deve risultare VEROSIMILE: solo così si possono scovare quei lati segreti della
storia, rivelando tutte le caratteristiche dei potenti, le emozioni e altri dettagli lasciati nascosti. L’invenzione
riempie le lacune dello storico, ma non in modo fantastico, ma verosimile, e per un fine istruttivo e
“interessante”.
Il messaggio che ne ricaviamo, specialmente dai Promessi Sposi, è l’idea di una concezione anti-classicistica
e anti-aristocratica: la storia è un bene che si deve anche agli umili.
Per rappresentare il “vero” egli rinuncia a tutto lo stile retorico e stilistico ricevuto dai suoi predecessori,
perché incapace di arrivare ad un vasto pubblico. Si ha l’obiettivo di trovare una lingua unitaria, nazionale,
comune a chi scrive e a chi legge, che si possa utilizzare sia nella letteratura che nella comunicazione orale.
Nasce un nuovo modello di lingua letteraria con la stesura della seconda edizione dei Promessi Sposi (1840):
una lingua che risulta agile e duttile, destinata a diventare un modello fondamentale di lingua nazionale
d’uso. E potremmo dire che questo romanzo rappresenta in anticipo quell’unità che poi diventerà concreta
con la effettiva unità d’Italia.
Poesia storica e messaggio politico Manzoni attualizza il passato, di conseguenza il motivo storico si fonde
con il messaggio politico. Il poeta, con un’amara esortazione ai latini (Udite! v. 31), evidenzia la vanità delle
loro speranze, ma i destinatari reali del suo ammonimento sono gli italiani suoi contemporanei, affinché
non contino sull’aiuto dello straniero ma prendano in mano le proprie sorti per il Risorgimento nazionale.
Ritmo lessico e sintassi È significativa la scelta metrica del coro: il dodecasillabo con la sua ampiezza e una
pausa fissa a metà verso crea un ritmo fortemente scandito, da poesia epica. La metrica è in accordo con la
sintassi: il periodo non oltrepassa mai la misura della sestina (strofe di sei versi), che si chiude sempre con
un punto fermo. Le proposizioni paratattiche e coordinate per asindeto (senza congiunzione) di solito
coincidono con la misura del verso e si susseguono con simmetria mediante una serie di anafore, che
costruiscono una facile scansione ritmica. È evidente la tendenza manzoniana a creare una poesia
«popolare» (nel significato romantico del termine), che coinvolga con immediatezza il lettore borghese.
Solo il lessico tende a essere colto e ricco di latinismi (tema, desire, brandi, fere, latèbre, speme, prandi,
membrando, volgo, perigli, ruine).
La morte di Ermengarda
Ermengarda, ripudiata dal marito Carlo Magno, si è rifugiata nel convento di San Salvatore, a Brescia,
presso la sorella Ansberga. Spesso, nella quiete apparente di quelle giornate, le ritornano alla mente,
tormentandola, le immagini del passato, soprattutto la nostalgia di Carlo e l’amore che ancora nutre verso
di lui. Si illude che tutto un giorno possa tornare come prima e che il suo sposo ritorni disposto a
riaccoglierla tra le sue braccia. Giunge, però, improvvisa, la notizia che Carlo ha contratto un nuovo
matrimonio; Ermengarda capisce allora che per lei non c’è più alcuna speranza. Così, delusa come donna e
come sposa, serenamente rivolge il suo pensiero a Dio e spira, mentre il poeta ne accompagna gli ultimi
istanti con l’invito a liberarsi da ogni passione terrena e dai ricordi, che ancora si affollano nella sua mente.
Infatti, solo quando avrà sgombrato dal suo animo ogni legame con la terra, potrà elevarsi a Dio, purificata
attraverso le sofferenze patite dalla colpa di discendere da una progenie di oppressori.
Analisi Il Coro, che scandisce nell’Atto IV (quarto) della tragedia Adelchi gli ultimi istanti di vita di
Ermengarda, costituisce uno dei momenti più intensamente lirici di tutta la tragedia. Offre, inoltre, al
Manzoni l’occasione per una meditazione sul destino di ogni giusto, cui sulla terra non possono toccare che
dolori e umiliazioni. Tale destino deve essere sempre accettato: o in espiazione di colpe non sue (come
Ermengarda), o come strumento del proprio perfezionamento nella prospettiva del premio che l’attende
unicamente oltre la vita. Il Coro dell’Atto IV dell’Adelchi si sviluppa attraverso più piani espressivi: si apre
sui commossi accenti lirici delle strofe iniziali, divise tra descrizione e allocuzione; passa, poi, nella parte
centrale, ai toni elegiaci e fortemente mossi della rievocazione, in rapide scene, dei momenti di felicità di
Ermengarda; infine, si chiude nei toni riflessivi e moraleggianti delle ultime strofe, incentrate
sull’esaltazione della «provida sventura», che ha fatto di Ermengarda l’innocente vittima designata per
l’espiazione delle colpe dei suoi avi.
Metro: venti strofe di sei settenari. In ogni strofa: il primo, il terzo e il quinto verso sono sdruccioli; il
secondo e il quarto verso sono piani e rimano tra loro; il sesto verso, tronco, rima con il corrispondente
della strofa successiva.