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In questo secondo dei sei tomi della Controstoria della filosofia - che

segue Le saggezze antiche, dedicato alla Grecia e a Roma -Michel Onfray


continua l’opera di rivalutazione degli “sconfitti” del pensiero filosofico:
coloro che hanno rifiutato di aderire alla corrente principale dell’ideologia
occidentale, idealistica, metafisica, antimaterialista e oltremondana.
Onfray si concentra proprio sugli “edonisti cristiani", i pensatori che
dall’alto Medioevo alle soglie dell’Età Moderna si sono battuti per l'hic et
nunc senza rinnegare la propria fede. Qui dunque non troverete
sant’Agostino né san Tommaso, ma personaggi dei quali non v’è quasi
traccia nei testi universitari (come gli gnostici Basilide e Carpocrate),
accanto ai più famosi Lorenzo Valla, Marsilio Ficino, Erasmo da
Rotterdam. Pensatori molto diversi, accomunati però da un progetto che
sottolinea la pienezza e la dignità della vita mondana. Il volume si chiude
con l’analisi della figura di Michel de Montaigne, cui sono riservate le
ultime cento pagine, un vero e proprio “libro nel libro": originale
introduzione al pensiero del Rinascimento e degna conclusione di questa
appassionante rilettura di oltre mille anni di filosofia.
 
 
 
Michel Onfray Nato nel '59, dopo vent’anni di insegnamento nei licei ha
fondato nel 2002 l’Università Popolare di Caen, che dispensa corsi di
filosofia a persone di ogni età e ceto. È autore di una quarantina di libri.
Fazi Editore ha finora pubblicato: Trattato di ateologia (2005, ed. tasc.
2006), Teoria del corpo amoroso (2006, ed. tasc. 2007), La scultura di sé
(2007), Atei o credenti? (con Paolo Flores d’Arcais e Gianni Vattimo,
2007), La politica del ribelle (2008) e il primo volume della Controstoria
della filosofia, intitolato Le saggezze antiche (2006, ed. tasc. 2007).
 
 
«Il cristianesimo edonista ripercorre la vita di alcuni intellettuali
medievali e dell’Età Moderna, accomunati dalla ricerca di una felicità non
trascendente ma terrena».
© Massimiliano Panarari II Venerdì di Repubblica
«II cristianesimo edonista, ovvero come l’arte del buon vivere non
sia stata estranea alla Chiesa».
Mirella Appiotti, «ttL-La Stampa»
 
«Onfray è autore di una vasta opera alla quale non manca la
brillantezza dello stile e la postura antiaccademica».
Roberto Ciccarelli, «il manifesto»
 
«Onfray si addentra nel Medioevo cristiano e attraversa le politiche,
le tematiche, le eresie di quella corrente di maghi, malfattori, uomini
da taverna e da bordello che definisce “edonisti cristiani”».
Pino Bertelli, «Le Monde Diplomatique»
 
«Onfray dà la sensazione che la filosofia possa, in fondo, essere
anche leggera e sfiziosa».
Paolo Mantegazza, «Left»
 
«Questa Controstoria della filosofia è un documento capitale».
«Lire»
 
«La galleria presentata nel secondo volume, Il cristianesimo
edonista, è ancora più straordinaria. Accanto a Lorenzo Valla, Marsilio
Ficino, Erasmo e Montaigne, scopriamo dei personaggi
inimmaginabili».
«Libération»
 
«La Controstoria della filosofia è l’occasione di Michel Onfray per
ridare la parola a chi non ha avuto voce nella storia della filosofia, a
quelli che, dall’Antichità al Medioevo, hanno prodotto una critica del
mondo occidentale».
«Le Magazine Littéraire»
Scansione, Ocr e conversione a cura di Natjus

Ladri di Biblioteche
 
 
I edizione Tascabili saggi: gennaio 2009
I edizione Le terre: novembre 2007
© 2006 Éditions Grasset & Fasquelle
© 2007 Fazi Editore srl Via Isonzo 42, Roma
Tutti i diritti riservati
Traduzione dal francese di Gregorio De Paola
Titolo originale: Le Christianisme hédoniste. Contre-histoire de la
philosophie II
 
ISBN: 978-88-8112-900-3
 
www.fazieditore.it
Tascabili saggi

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Michel Onfray

IL CRISTIANESIMO EDONISTA
CONTROSTORIA DELLA FILOSOFIA II

Traduzione di Gregorio De Paola


IL CRISTIANESIMO EDONISTA
 
 
 

Il primo pensiero della giornata. Il mezzo migliore per cominciare


bene ogni giornata è: svegliandosi pensare se non si possa in questa
giornata procurare una gioia almeno a una persona. Se ciò potesse
valere un sostitutivo dell’abitudine religiosa della preghiera, il
prossimo trarrebbe vantaggio da questo cambiamento.
 
NIETZSCHE, Umano troppo umano, I,589
Introduzione

La cancellazione dell’Antichità

 
 
 
 
 
L’invenzione di Gesù, la costruzione violenta e autoritaria del
cristianesimo che diventa religione di tutto l’impero con il colpo di Stato di
Costantino, il deliberato vandalismo della soldatesca ai suoi ordini, la
distruzione degli uomini, l’incendio delle biblioteche, la persecuzione dei
filosofi, la chiusura delle loro scuole, l’iscrizione nel corpus giuridico -
Codici di Teodosio e di Giustiniano - dell’esclusione dei pagani dal diritto
di cittadinanza, l’estendersi della nevrosi di san Paolo alla cultura
dell’intero pianeta, il trionfo del paolinismo - odio delle donne, delle
passioni, della scienza, dell’intelligenza, della filosofia -, gli antichi
perseguitati che diventano, e per un lungo tempo, persecutori, tutto questo
produce nella Storia un salasso che priva i secoli successivi, dunque il
nostro, di una mole notevole di informazioni su questo lungo periodo.
Il mondo antico sprofonda, muore, scompare, e con esso la filosofia
pagana, una gran parte della quale non attraverserà i secoli per ragioni che
non dipendono tutte dalla deliberata volontà degli uomini di rinunciare al
patrimonio degli Antichi greci e romani. E se gli uomini bruciano
biblioteche, incendiano, saccheggiano, assassinano i loro simili, tra cui
letterati, anche il tempo cancella le tracce di quella civiltà divenuta campo
di rovine.
Si comprende che a scomparire per primi siano i libri  dei filosofi
materialisti abderiti - i seicento titoli di Democrito -, le opere dei cinici o
degli epicurei, i tanti volumi -trecento, si dice - di Epicuro o dei suoi
discepoli. I copisti cristiani hanno altre priorità che non quella di salvare
quei volumi sovversivi. Il platonismo e lo stoicismo, difesi talora dai Padri
della Chiesa come saggezze propedeutiche al cristianesimo, dispongono di
un certo vantaggio sui pensieri realmente nemici dell’ideale ascetico
cattolico.
E poi, il libro antico serve solo come promemoria, in un’epoca dominata
dall’oralità e dalla trasmissione verbale. La parola evanescente quando non
viene registrata dagli scribi o dai copisti scompare per sempre. Come
l’insegnamento orale di Platone, probabilmente assai diverso
dall’insegnamento dei testi che rimangono. Ostacolo dell’oralità, dunque. E
ostacolo della fragilità del supporto: il papiro, di origine egiziana, tollera
male l’igrometria, i climi e le stagioni di Roma. Esso marcisce, si
polverizza, assieme a ciò che trasmette. Inoltre, il numero di esemplari di
un’edizione originale non supera mai la trentina.
Ostacolo della lingua, anche: a partire dal V secolo dell’era comune, il
greco non viene più parlato da nessuno. Agostino, ad esempio, lo ignora del
tutto. Si parla, e si scrive, in latino. Quando si passa dal rotolo di papiro al
codex in pelle di animali, questa rivoluzione causa la perdita di ciò che si
scarta nel ricopiare. Numerose opere semplicemente spariscono. I monaci
nei loro monasteri riprendono i testi utili alla propagazione della loro fede,
li migliorano, e intanto li ritoccano. L’edizione originale, priva di
punteggiatura, di maiuscole, di separazione tra le parole, del nome del
personaggio che parla, complica ancora di più le cose.
Ciò che è stato risparmiato dai saccheggi, dai terremoti, dagli incendi,
dalle devastazioni, dai vandalismi umani e dalle devastazioni del tempo,
viene abbandonato negli angoli. Non sempre è granché. Siccome qualche
volta mancano le pelli di animali su cui vengono scritti i testi - il più an-tico
manoscritto della Vulgata latina è composto da millecinquecentocinquanta
pelli di vacca - esse vengono qualche volta grattate per servire ad altri
autori: ad esempio, la Repubblica di Cicerone scompare sotto il Commento
ai salmi di sant’Agostino. Si cancella talora la vecchia traccia per sostituirla
con ciò che va di moda. E la moda è cristiana.
L’arrivo della carta dalla Cina nel IX secolo implica nuove trascrizioni,
dunque nuove scelte. La religione di Paolo di Tarso trionfa da più di
quattrocento anni. Il paganesimo e la filosofia antica sono un lontano
ricordo. I nuovi padroni, quelli che vengono copiati, ricopiati, utilizzati,
diffusi, letti, commentati, e per i quali lavorano i monaci nei loro monasteri,
sono i Padri della Chiesa: Tertulliano crede perché è assurdo, Origene si
taglia i genitali per arrivare più vicino al Signore, Cipriano di Cartagine
scopre Dio corteggiando una fanciulla, Gregorio di Nazianzo si considera
un cadavere che respira, Evagrio Pontico fugge le donne e i vescovi nel
deserto, Giovanni Crisostomo invoca l’assassinio dei pagani, Gregorio di
Nissa conosce l’epectasi e sant’Agostino insegna l’inesistenza degli
antipodi e piagnucola nel corso di tutte le Confessioni, e tanti altri... Un bel
mondo filosofico, ma tutti adirati col loro corpo e con la vita. Bisogna ormai
fare i conti con loro per mille anni. La possibilità di una filosofia edonista si
assottiglia sensibilmente... Ma esiste: è quella degli eresiarchi che seguono.
Primo tempo

LA COMUNIONE DEI SANTI ERETICI


 
 
 
 
 
1. Il cafarnao settario
 
Il clima intellettuale e l’ambiente ontologico in cui si forma il
cristianesimo è di assoluta confusione. E difficile immaginare la profusione
di comunità stravaganti, di profeti esaltati, di messia illuminati, di pensatori
esoterici, di filosofi deliranti che riempiono la scena spirituale del I secolo
dell’era comune. Certo, la filosofia degna di questo nome persiste, e a Roma
o altrove si seguono ancora gli insegnamenti stoici o epicurei. Nel momento
stesso in cui si affacciano queste isterie del concetto, nel mondo antico
perdurano figure sagge, come Seneca, Epitetto, Plutarco. Ma non per molto
tempo.
L’epoca si caratterizza per la scomparsa di civiltà: l’antica muore ma non
lo sa, la nuova sta per prendere il potere, ma anch’essa lo ignora. Da una
parte Atene e Roma, dall’altra Gerusalemme e Bisanzio. Pericle contro
Costantino, Aristotele contro Tertulliano, la democrazia dell’agorà in
competizione con lo Stato totalitario cristiano, l’ideale pagano della palestra
distrutto dalla venerazione di una crocifissione. Due mondi, due ideali, due
modi di pensare. Gli scricchiolii agitano la società. Marco Aurelio e
Diogene di Enoanda rappresentano le punte avanzate di un’epoca ormai
prostrata.
Il nuovo pensiero si cerca e non si trova immediatamente. Esso non può
uscire completamente armato dalla testa di Zeus. L’epoca è una specie di
terreno di sperimentazione di possibilità concettuali, di tentativi per mettere
in piedi un mondo alternativo, anche in campo intellettuale. La filosofia
obbedisce alle leggi della creazione delle specie: le forme meno adatte
periscono, le più adatte alla sopravvivenza resistono e mettono radici. La
selezione avviene grazie a conversioni imperiali e colpi di Stato. Le forze
che trionfano gettano nel baratro tutto ciò che non serve alla loro crescita e
al loro dominio.
E' facile indicare la zona geografica di questo ribollimento senza esempio
nella Storia da molto tempo. La vitalità si sposta da ovest a est, abbandona i
porti romani o le cale greche e si dirige verso Oriente. L’essenziale ormai si
trama tra la valle del Giordano e l’Asia Minore, più particolarmente in
Palestina, in Siria, in Samaria e in Egitto. Dai deserti, dall’austerità
geologica, dai venti torridi, dalle temperature da fornace, dalle popolazioni
di pastori, un pugno di allevatori di greggi scheletriche, dove rare sono le
zone con acqua e dove povertà e miseria sono diffuse dappertutto, questo
focolare confina con i luoghi mesopota-mici, dove è nata la cultura sul
pianeta. Ritorno alle sorgenti orientali.
Tra i tentativi filosofici di formulare un’alternativa al nichilismo
dell’epoca, lo gnosticismo occupa un posto importante. Il termine
comprende molteplici posizioni teoriche, talvolta contraddittorie, ma sta a
indicare numerose correnti di pensiero di individui stravaganti che vivono
in piccole comunità - una trentina di fedeli -, insegnano, ma soprattutto
praticano una vita filosofica indotta dal contenuto della loro dottrina. Come
gli antichi, essi pensano per vivere meglio la loro vita e darle un senso in un
periodo destabilizzante, in cui mancano sia i progetti collettivi quanto le
occasioni per federare le differenze.
Chiaramente, gli gnostici, più che un continente omogeneo e coerente,
con paesaggi precisi e definitivi, costituiscono un arcipelago composto da
molteplici frammenti, diseguali per importanza e interesse, diversi per
consistenza e portata. Grandezza degli uni, insignificanza degli altri, senza
che si sappia talora se queste qualità dipendono da un contenuto intrinseco
o dai frammenti superstiti dopo duemila anni di distruzioni naturali e
umane, a cui bisogna aggiungere le falsificazioni, le cattive reputazioni, le
interpretazioni interessate e sbagliate, il rifiuto di riconoscerne la saggezza e
altri modi di dare ragione ai pensieri dominanti così pronti a praticare gli
autodafé simbolici.
Si ignora quasi tutto della gnosi: i nomi propri che la illustrano non ci
dicono quasi nulla, le rubriche sotto cui si conosce questa o quella setta
sembrano talora assai fragili: alcuni considerano come sette separate ciò che
altri vedono come gradi, posizioni occupate nella gerarchia della comunità.
Che dire di Simone, il filosofo volante? Di Basili-de, il depravato? Di
Carpocrate e di Epifanio, i gozzovigliatori concettuali? Di Valentino, lo
pneumatico? Di Nicola, il mangiatore di sperma? E che cosa nascondono
gli Ofiti, adoratori del serpente, forse sodomiti? O i Barbelo-gnostici,
talentuosi cuochi bravissimi nel confezionare pàté di feti? Chi sono i
Fibioniti, numerologi del sesso? E tanti altri, di cui talora resta solo il nome
o l’unico significato dissociato dal suo contenuto.
 
 
2. La logica dei vincitori
 
La fragilità del supporto dei manoscritti, la vendetta cristiana quando i
seguaci di Cristo arrivano al potere, il lavoro dei copisti al soldo dei
monasteri, la decisione di bollare come eretiche quelle dottrine da parte dei
Concili e della Chiesa, il destino che di solito i vincitori riservano ai vinti, i
guasti operati dal tempo, la fortuna anche, e spesso la sfortuna, spiegano la
rarità del corpus, la sua dispersione in opere abbandonate sugli scaffali
meno consultati delle biblioteche. Non parliamo delle edizioni: i frammenti
gnostici non sempre dispongono di un’edizione, anche parziale -
figuriamoci di un’opera completa!
I cristiani attaccano violentemente gli gnostici sul campo, come
contemporanei. I venditori delle sette gnostiche e di quella cristiana
evangelizzano le stesse folle, compiono gli stessi viaggi, visitano le stesse
città, occupano gli stessi posti pubblici, si disputano gli stessi fedeli. Simon
Mago e Paolo di Tarso si fanno concorrenza nell’offrire la loro mercanzia
concettuale: il successo dell’uno corrisponde all’insuccesso dell’altro. Gli
Atti degli Apostoli (viii, 9-24) testimoniano che gli uomini si conoscono e
non ignorano le rispettive tesi. La lotta oppone alla pari uomini che mirano
al dominio simbolico della loro epoca.
Così, come succede spesso con le correnti di pensiero alternative dell
Antichità, lo gnosticismo esiste per più di mille anni, grazie a ciò che sul
suo conto riportano i Padri della Chiesa e i filosofi stipendiati dal
cristianesimo. Per un’astuzia della ragione, la lotta contro le eresie - definite
tali dalle autorità ufficiali del pensiero cattolico - salva le eresie: scrivendo
contro di esse, illustrandole minuziosamente per meglio confutarle,
precisando le loro tesi per dimostrarne la falsità, Giustino di Roma (attorno
al 160: Apologia), Ireneo di Lione (attorno al 170: Contro le eresie),
Ippolito di Roma (attorno al 230: Philosophumena), Clemente
d’Alessandria (Stromati, fine del II-inizio del III secolo) e Epifanio
(Panarion, attorno al 375) - sant’Epifanio, perché esiste uno gnostico con lo
stesso nome, che però non è santo - permettono a queste idee di giungere
alla posterità. Il più delle volte, il primo collaziona ciò che si può sapere sul
soggetto, gli altri si accontentano di ricopiare.
E poi, fortuna di archeologo, una scoperta rende possibile un accesso
diretto ai testi che evita la mediazione polemica cristiana: nel 1945, a Nag
Hammadi, in Egitto, a un centinaio di chilometri da Luxor, viene esumata
una giara gnostica. All’epoca, i rotoli erano posti e conservati in recipienti
di terracotta che li proteggevano dalle intemperie, dagli animali, dal tempo.
Il loro contenuto? La biblioteca, verosimilmente integrale, di una comunità
gnostica del V secolo.
Come dire, le fonti dirette, i testi stessi. Ossia tredici volumi rilegati in
cuoio contenenti cinquantuno trattati: più di settecento pagine inedite, tra
cui i Vangeli di Filippo, di Mattia, di Tommaso e i Logia di Gesù, una
raccolta di parole, sentenze, massime, attribuite a Gesù, che si pensa siano
serviti a fabbricare i Vangeli, più tardi detti sinottici. Mezzo secolo dopo, si
aspetta ancora l’edizione di quanto i beduini non hanno distrutto: gli
scopritori avevano infatti utilizzato alcuni manoscritti per accendere il
fuoco per il tè.
 
 
3. Encratici e licenziosi
 
Lo gnosticismo copre un periodo immenso che va dal I al v secolo,
almeno per le tracce accertate. Lampezio in effetti viveva al limite estremo
di questa epoca, in una comunità in cui le donne e gli uomini conducevano
una vita gioiosa, libera, vestiti di abiti sontuosi, mangiando bene e
praticando una sessualità ludica priva di sensi di colpa. Una associazione
contrattuale edonista che fa pensare a quella degli epicurei del Circolo
campano. Se gli stessi gnostici non si richiamano mai ai filosofi
materialistici antichi, Ireneo di Lione, invece, li fustiga come individui che
professano la filosofia di Epicuro e l’indifferenza dei cinici. L’atomismo
mal si addice agli gnostici, in quanto come platonici accettano l’esistenza di
anime immateriali capaci di trasmigrare, ma l’insolenza asociale e
immorale dei discepoli di Diogene calza loro come un guanto!
Alcuni storici rintracciano sopravvivenze di comunità gnostiche nell’VIII
secolo, in pieno alto Medioevo, una fortuna, perché il trionfo assoluto del
cristianesimo rende pericolosa la pratica eretica in questo settore geografico
mediorientale. L’insegnamento della gnosi persiste verosimilmente presso
gruppi che vivono isolati in montagna, lontano dal mondo, nascosti dal
segreto, con una discrezione che per lo storico delle idee è fatale.
Nella migliore delle ipotesi, il pensiero gnostico copre otto secoli, i primi
della nostra civiltà detta ebraico-cristiana. Ritengo che le idee gnostiche
siano sopravvissute nell’Europa medievale attraverso la migrazione di
comunità o di individui distaccatisi da questi gruppi, ma portatori del
messaggio affidato ai Fratelli e alle Sorelle del Libero Spirito, che
realizzano la saldatura della nostra cultura col periodo medievale, e poi
rinascimentale. Marco, discepolo di Valentino, diventa lui stesso capo di
gnostici in Gallia. Lo gnosticismo passa da Oriente a Occidente attraverso
l’Armenia, la Cappadocia, la Grecia, la Bulgaria e la Bosnia. I Paesi Bassi
l’accolgono con discrezione, ma benevolmente.
Evidentemente, in questo lungo arco di tempo e in questo esteso spazio
geografico, appare impensabile l’unità dello gnosticismo. Da Simon Mago,
il tafano di Paolo di Tarso, a oscuri anonimi contemporanei di Carlo Magno,
lo spettro non può ricoprire un pensiero omogeneo, discorsi identici, una
teoria comune. Si scoprono variazioni, in qualche caso contraddizioni,
affermazioni che si escludono, ma questi uomini e queste donne, i cui secoli
d’oro corrispondono al I e al II secolo della nostra era, sono animati da una
identica sensibilità.
In questo arcipelago, si può provare ad avanzare una prima
classificazione - anche se domina l’arbitrario. Essa consente di distinguere
due linee di forza: da una parte gli gnostici encratici, sostenitori di una linea
ascetica, dall’altra gli gnostici licenziosi, difensori di una opzione edonista.
Questa distinzione può sembrare infondata, poiché gli stessi gnostici
lasciano talora ai discepoli la scelta tra l’opzione encratica e quella
licenziosa. Poiché sulla terra il male regna in modo assoluto - un punto
dottrinale condiviso da tutti -, è indifferente optare per la negazione del
corpo  o per la sua affermazione. In questo campo trionfa spesso
l’indifferentismo: ciò che conta non è tanto la carne debole, intrisa di male,
ma l’anima, assolutamente indipendente, pura, e sola a lavorare per la
salvezza. Il corpo non conta nulla, perciò dimenticarlo o utilizzarlo fino
all’eccesso è la stessa cosa.
In questo bazar filosofico, un piccolo gruppo insegna chiaramente a fare
del corpo uno strumento di liberazione -più avanti dirò come e perché. Lo
gnosticismo si colloca al di là del bene e del male, su tutte le questioni,
compresi il sesso, la libido, i desideri, passioni e pulsioni. Paolo insegna
una gnosi ascetica, francamente ascetica; sullo stesso terreno, gli gnostici
licenziosi affermano l’inverso: il vostro corpo brucia di desiderio?
Spegnete, esige il Tarsiota, consumate, rincara Simon Mago! E nella gioia...
 
 
4. La gioia dello pneumatico
 
La teoria gnostica mira a una pratica coerente. Sui comportamenti di
queste comunità non rimane nulla, o molto poco. L’epoca funziona in base
al principio dell’oralità. Il libro esiste come promemoria, un mezzo per
conservare un discorso, ma ha un ruolo secondario. Domina il verbo, e con
esso la relazione maestro-discepolo. L’insegnamento si costruisce sulla
parola, non sui testi. Le parole scambiate tra lo gnostico e la sua comunità
oggi sono scomparse.
Restano frammenti compilati dai nemici. Con tutte le violenze fatte alla
verità che ciò implica.
Il corpus gnostico è uno dei più esoterici che esistano! Gli scritti
superstiti, dissociati dalla parola che li racconta, li commenta e li spiega,
resistono in modo incredibile, in quanto questi filosofi praticano un
ermetismo di alto livello. Creazione di neologismi, passione numerologica,
esacerba-zione del meraviglioso, estrapolazioni mitologiche, linguaggio
settario, tutto scoraggia il lettore desideroso di penetrare gli arcani gnostici.
Senza la voce della guida in grado di dirigere il discepolo - logica propria di
ogni setta, cristiana o altra - il discorso resta lettera morta. Esso esige una
parola viva. Che, ovviamente, è definitivamente scomparsa.
La pratica gnostica è settaria, nel senso originario del termine: implica la
setta, cioè la comunità elettiva, scelta per cooptazione. Esistono numerose
ragioni per giustificare questa posizione segreta o discreta, tra cui il
sentimento di appartenere a un’élite, a una casta di eletti, la paura di
apparire alla luce del sole in caso di persecuzioni, e la logica intrinseca
della setta che costringe a obbedire al maestro, all’iniziato, al più elevato in
grado. Queste tre ragioni soprattutto riguardano gli gnostici.
Gli gnostici, come i massoni di oggi, dispongono di segni di
riconoscimento per rivolgersi in modo diverso ai fratelli e ai profani.
Sant’Epifanio dice che si grattano la palma quando si incontrano e si
stringono la mano per assicurarsi che il loro interlocutore sia iniziato. Dopo
questa comunicazione gestuale, il discorso si libera, e anche la pratica,
poiché dopo cominciano i banchetti - le agapi massoniche - seguiti da
sessualità generalizzate nell’oscurità. E' in questo, mi sembra, che si
distinguono i seguaci del Grande Oriente e della Grande Loggia.
Lo gnostico crede di essere un eletto. Egli divide gli uomini in tre
categorie: gli ilici, gli psichici e gli pneumatici. I primi, alla base, sono
invischiati nella materia, e non conosceranno mai la salvezza; privi di
anima e costituiti unicamente di materia, sono destinati alla pura
distruzione; in un certo modo, gli ilici corrispondono ai pagani fissati al
suolo a causa dell’ignoranza delle verità gnostiche. I secondi possono
sperare nella salvezza grazie alla loro complessione mentale: gli psichici
hanno sì un’anima, ma non uno spirito, possono sperare la liberazione solo
se incontrano l’iniziazione; forse gli gnostici designavano in questo modo i
cristiani, considerati in parte, ma soltanto in parte, sulla buona strada. I
terzi, gli pneumatici dunque, sono designati dalla Potenza delle Potenze,
dispongono della grazia, la qual cosa permette di agire senza curarsi del
bene e del male. Qualunque cosa facciano, sono già salvati - e sono gli
gnostici.
L’ilico e lo pneumatico non si muovono nello stesso mondo. Gli uni
marciscono nel mondo sensibile, gli altri si muovono già nell’universo
intelligibile, mentre sono ancora in vita, su questa terra materiale. Gli ilici si
riducono al loro corpo; gli psichici dispongono di un’anima definita come
un frammento del fuoco che brucia nel cielo in cui vivono le divinità, e tra
esse la prima; gli pneumatici, pur disponendo anch’essi di un corpo, già non
dipendono più da esso. Sgravati al massimo, partecipano di fatto alla verità
intelligibile.
Chiaramente, gli gnostici sono dei perseguitati, sin dall’arrivo al potere di
Costantino e dalla sua conversione, contemporanea a quella dell’impero.
Ma prima di queste date funeste, gli gnostici passano già per maghi,
taumaturghi che non insegnano ciò che professano i sacerdoti del culto
pagano. Le autorità del sacro, i gerarchi del potere religioso non amano
questi uomini e queste donne che predicano sul loro stesso terreno e
seducono ben più facilmente di essi ricorrendo ad argomenti edonistici. Le
religioni ufficiali insegnano tutte l’amore per il prossimo, ma limitano le
loro prescrizioni solo ai simili.
Ma essi sono anche rigidi: in questo caso, seguendo la logica della setta
che costruisce tutta una strategia per costringere all’obbedienza o escludere.
La lezione è valida ancora oggi con alcuni filosofi il cui vocabolario
esoterico, i neologismi a profusione, le dissertazioni oscure spingono allo
psittacismo più che all’intelligenza. Davanti a un corpo chiuso, autistico,
impossibile da penetrare malgrado la migliore volontà del mondo e gli
sforzi connessi, resta la fuga, oppure l’adesione in base al principio della
ripetizione, dell’incantesimo, della reiterazione nei termini utilizzati dalla
setta.
L’alternativa oppone dunque interdizione e adesione. La prima minaccia
quelli che rifiutano di giocare il gioco della duplicazione negli stessi
termini, i tic linguistici ed espositivi; la seconda consente di accedere
all’iniziazione a condizione di far proprie, senza nessuno spirito critico, la
fraseologia e le formule della setta. Gli gnostici generano in tal modo una
duplice logica: l’esclusione di quelli che non aderiscono ciecamente e
l’integrazione di un capitale di fedeli, pronti invece a seguire il guru dando
garanzie col piegare intellettualmente la schiena, gesto che suppone
l’accettazione parola per parola del discorso riservato dal maestro ai suoi
discepoli. Abdicazione di ogni intersoggettività, sottomissione alla legge
del gruppo, il contratto comunitario della setta autorizza un ultimo uso della
ragione: ma solo per rinunciare al suo libero uso...
 
 
5. Zucche, meloni e cetrioli
 
Il lessico gnostico offre un impareggiabile esempio di logomachia.
Questo genere di glossolalia rappresenta - dicono gli psichiatri - un’isteria
che sembra contraddistinguere l’epoca. Certo, un filosofo degno di questo
nome crea il proprio vocabolario, infligge alla lingua comune torsioni e
trazioni dalle quali nasce una specie di lingua propria, una musica
caratterizzata da alcuni accordi ricorrenti - parole, concetti, costruzioni, tic
linguistici, periodi, ritmi ecc. L’originalità di un pensiero passa del resto
attraverso una manciata di parole particolari, dalla cui comparsa si
riconosce la visione del mondo propria del pensatore in questione.
Talvolta, la creazione di concetti ha bisogno di una paiola nuova, poiché
capita che non si possa dare un nome alla scoperta con un termine
preesistente alla scoperta. Nulla in contrario, purché i neologismi non
spuntino come lunghi. Ma ci sono anche casi in cui l’apparente profondità
di una filosofia si nasconde sotto una valanga di vocaboli nuovi, di nozioni
inventate, di costruzioni formali inedite che mal dissimulano un’assenza di
fondo, anzi una reale mancanza di contenuto. Inutile fare nomi o esempi.
Il delirio verbale dello gnosticismo infastidisce persino gli specialisti - ad
esempio Jacques Lacarrière. Ma come non immaginare che questo eccesso
radicale di termini nuovi, di nozioni sconosciute, non miri un po’ a mettere
alla prova il postulante? Più la lingua costruita è difficile da imparare, da
ricordare, padroneggiare, più il suo abile maneggio appartiene a un piccolo
numero, necessariamente minimo, tanto meglio si possono distinguere gli
sforzi e la docilità dell’individuo che cerca di imparare il discorso.
Esercizio iniziatico e, al tempo stesso, efficace strumento di misura della
plasticità mentale del soggetto e della sua determinazione ad accedere nella
cerchia degli iniziati.
L’apprendista gnostico deve perciò venire a patti con gli  Eoni che
procedono dal Pro-Padre e costituiscono un pleroma in cui si muovono dei
Sigizi... Tanto per cominciare, è ovvio. Precisiamo: il Pro-Padre - si può
chiamare anche Pro-Principio o Padre o Abisso, perché semplificare? -
definisce l’Eone perfetto, l’Eone degli Eoni. Invisibile, inconcepibile,
eterno, risparmiato dalla generazione e dalla corruzione, mai interessato dal
movimento, contempla la propria immagine in se stesso come in uno
specchio e somiglia stranamente a Dio, al Dio dei filosofi. Un po’ platonico,
un po’ aristotelico, vagamente alessandrino - l’Uno di Plotino, ad esempio
-, potrebbe semplicemente chiamarsi Dio, ma la novità non sembrerebbe
così evidente. Tanto più che gli gnostici credono spesso all’esistenza di un
Dio che non esiste - Basilide eccelle in dimostrazioni di questo genere.
Certo, si tratta di un inizio di definizione del Pro-Padre, ma questa
proposta di soluzione utilizza parole che devono a loro volta essere definite:
gli Eoni per esempio. Vediamo: l’Eone si definisce come emanazione
generata dal puro intelligibile. In base al principio metaforico, l’Eone
utilizza il registro spaziale - punto, linea, piano, volume -per esprimersi in
quello del tempo - istante, giorno, anno ecc. In questo delirio si avverte una
grande puzza di platonismo e vi si ritrovano le delizie della filosofia, più in
particolare della teologia, del Timeo.
Questi Eoni funzionano in coppia: un maschio, una femmina. La dottrina
afferma che essi esistono in numero di trenta, non uno di più, non uno di
meno. Uno di loro si chiama del resto Edonio, il Piacere - poiché ciascuno
dispone evidentemente di un nome particolare: Abisso e Silenzio, Intelletto
e Verità, Uomo e Croce, Logos e Saggezza ecc. Quindici coppie, dunque, e
ciascuna si chiama Sigizia. Il raggruppamento di questa famiglia di Eoni
costituisce il Pleroma. Come dire il Cielo, il mondo divino, la fonte paterna.
Ireneo di Lione si fa beffe di questo difetto valentiniano - gli altri gnostici
seguono sulla base dello stesso principio... - di creare un vocabolario
esoterico. Certo, Contro le eresie contiene più passi noiosi che strani, ma
uno solo merita di essere citato nei termini utilizzati dal vescovo cristiano,
che scrive: «Esiste un certo pro-Principio regale, pro-privo di intelligibilità,
pro-privo di sostanza e pro-dotato di rotondità, che chiamo Zucca. Con
questa Zucca coesiste una potenza che chiamo anche Supervacuità. Questa
Zucca e questa Supervacuità essendo uno, hanno emesso, senza emettere,
un Frutto visibile da ogni parte, commestibile e gustoso, che il linguaggio
chiama ( Cetriolo. Con questo Cetriolo coesiste una potenza della sua stessa
sostanza, e che io chiamo anche Melone. Queste potenze, ossia Zucca,
Supervacuità, Cetriolo e Melone hanno scritto tutto il resto della
moltitudine dei meloni deliranti di Valentino». Leggere quasi mille pagine
indigeste trova la sua giustificazione nella sola scoperta di queste righe
gustose.
 
 
6. Cifre libidinose e numeri attivi
 
Quando non stordiscono la gente con il lessico, gli gnosi ici rincarano la
dose con considerazioni numerologiche verosimilmente familiari in
un’epoca che pratica l’astrologia e la divinazione. Le aritmetiche sacre si
susseguono e si somigliano. Esse testimoniano di una passione della
classificazione e dell’ordine. La gnosi mette in forma, costringe la realtà in
caselle, numera il mondo affinché tutto sia al suo posto e nulla circoli
liberamente.
Ogni serie, gruppo o disposizione implica, evidentemente, una parola
nuova per caratterizzarli. Così la Tria-contade designa i trenta Eoni del
Pleroma valentiniano; o la Diade, la Dodecade, l’Ogdoade, altrettanti
termini per caratterizzare le combinatorie di due, dodici o otto. La suddetta
Ogdoade, per esempio, si compone successivamente dell’Abisso e del
Silenzio, dell’intelletto e della Verità, del Verbo e della Vita, dell’Uomo
ideale e della Chiesa. Le lezioni di catechismo gnostico dovevano durare
per un tempo interminabile.
Talora, gli adepti praticano matematiche divertenti. Così i Fibioniti -
probabilmente una sottosezione dei Barbelognostici allo stesso titolo degli
Zacchei, Nicolaiti, Barbe-liti, Stratiotici, Levitici, Borboriti e Coddiani, che
alcuni considerano anche gradi di una sola e identica setta - questi Fibioniti
dunque, praticavano la sessualità con la calcolatrice in mano, poiché
invitavano i loro discepoli a spillare trecentosessantacinque volte il loro
sperma nel corso di trecentosessantacinque unioni con trecentossessantacin-
que donne diverse. Lascio agli scrupolosi la cura di stabilire contabilità
precise.
Spesso l’uso dei numeri rientra in registri meno divertenti. Gli gnostici il
più delle volte si servono di cifre per soddisfare la loro mania genealogica.
Essi infatti si attivano con passione per trovare origini alle cose, spiegare
come nasce il mondo, in che modo il reale deriva da un primo principio
prima di diversificarsi in modo da poter essere colto in termini matematici.
Dall’Uno al Molteplice, la discesa prodigiosa ha in effetti di che interessare
la curiosità filosofica. All’altra estremità della loro preoccupazione si trova
il divenire e il destino del mondo: dove va? Verso la sua rovina? La sua
durata? La scomparsa? La salvezza? La rigenerazione? La mania dell’epoca
per le apocalissi trova nell’uso del numero un genere di copertura seria: la
riduzione del mondo a formule matematiche tenta i filosofi da molto tempo,
da Pitagora a Spinoza o a Leibniz, l’idea di una mathesis universalis
persiste a lungo.
Mescolare i neologismi, le cifre e i personaggi concettuali produce alla
fine un gioioso bazar intellettuale, spirituale e concettuale: gli Arconti
giocano con Sigizie nel Pleroma,  i Grandi Luminari stanno accanto alla
Sofia Lasciva o agli Ami Salvatori, l’Uomo Primordiale si intrattiene con la
Madre celeste nell’Ebdomade - i Cieli inferiori, mentre l’Ipoctonio designa
Caos e Ade - il tutto nell’ambiente di Semi Pneumatici che garantiscono la
facezia delle convivialità.
 
 
7. La gnosi taglia e incolla
 
Da dove vengono questi uomini e queste donne? Da quali stirpi
discendono? Quali maestri riconoscono? Da dove provengono quei
neologismi venuti dal nulla, quelle matematiche stravaganti discese dal
cielo, quelle etiche immorali senza fonti, quelle mitologie strampalate? Gli
gnostici infatti si iscrivono in un’epoca segnata da influenze, come
testimonia la geografia: i luoghi dove essi fondano le comunità sono città,
porti, luoghi di passaggio, di commercio, dunque di mescolanza degli
uomini e delle idee.
Ippolito di Roma costruisce tutta la dimostrazione di Philosophumena
ovvero Confutazione di tutte le eresie sull’idea che tutti gli gnostici
commettono errori e propagano eresie perché plagiano i filosofi
dell’Antichità, colpevoli di essere pagani, e di non essere cristiani prima del
tempo. Simon Mago? Un seguace di Empedocle... Basilide? Un clone di
Aristotele... Valentino? Una mescolanza di Pitagora e di Platone. Ireneo di
Lione li considera tutti come un misto di Epicuro e dei cinici. Ma tutti si
ingannano - salvo forse sulla filiazione cinica.
Non gli si può rimproverare il materialismo: tutti credono all’esistenza di
un’anima immateriale distinta dal corpo benché rinchiusa in esso in base al
principio della punizione; tutti accettano l’idea che dopo la morte queste
anime trasmigrano in altri corpi e continuano a vivere; tutti affermano che il
loro destino post mortem dipende dall’uso che se ne fa durante la vita; tutti
popolano il cielo di creature intelligibili; tutti spiegano il mondo per mezzo
di un principio divino assistito da demiurghi; tutti definiscono la salvezza
come la liberazione del principio spirituale igneo dalla sua prigione
materiale, carnale, corporea. Come Pitagora e Platone.
Allora, platonici gli gnostici? No, perché Platone afferma nettamente la
sua detestazione per la vita, il corpo, i desideri e i piaceri, mentre gli
gnostici licenziosi si pongono al di là del bene e del male, e al corpo, ai
desideri, ai piaceri, alle passioni e alle pulsioni chiedono le occasioni della
salvezza filosofica. Se l’edonismo definisce ogni pensiero che tiene conto
del corpo, scende a patti con esso, preferisce la vita alla morte e la gioia alle
passioni tristi, allora gli gnostici appartengono al continente edonista.
Nondimeno, le tracce del platonismo esistono, e in maniera netta. Di modo
che, paradossalmente, verranno considerati dei platonici edonisti, un genere
ossimorico.
Onestà vorrebbe che si rendano all’Oriente le tesi platoniche sopraccitate:
chiaramente Platone deve molto - se non l’essenziale - del suo pensiero a
Pitagora. Ma il filosofo che non ama le fave deve, da parte sua, il contenuto
della sua dottrina a dei gimnosofisti, come dire gli yogin indù. Riattivando
le tesi platoniche sull’anima e la metempsicosi, gli gnostici si rifanno alle
fonti di tutto il pensiero greco: l’altra riva del bacino del Mediterraneo.
Di modo che le influenze implicano anche una deviazione dalla parte
delle spiritualità geograficamente influenti: il mazdeismo persiano, il
giudaismo palestinese, probabilmente l’orfismo ellenico, ovviamente il
pitagorismo e il platonismo greci. Il dualismo del manicheismo caldeo - III
secolo dell’era comune - deriva anch’esso dalla mescolanza di queste
influenze quando oppone il bene e il male in base allo stesso principio degli
gnostici. Lotta tra Luci e Tenebre in Ormuz e Arimane dei Persiani,
messianismo apocalittico e profetico venuto dalla Palestina, iniziazioni e
pratiche comunitarie segrete alla maniera dei discepoli di Orfeo, e
cosmogonie ereditate da Pitagora e Platone, altrettante piste da scavare per
rintracciare le origini della gnosi.
E poi, segnaliamo quanto essa sia contemporanea alla fabbricazione del
cristianesimo. La qual cosa giustifica un certo numero di punti in comune.
Si potrebbe affermare che il cristianesimo è una gnosi che ha avuto
successo, l’ipotesi regge. Tanto più che Gesù salito al cielo e risuscitato tre
giorni dopo la sua crocifissione gareggia in miracoli con Simon Mago che
vola nel cielo di Roma, con Marco che soggioga le donne trasformando il
contenuto di coppe in sangue virtuale, o con Basilide che afferma che Gesù
utilizza un incantesimo per far crocifiggere Simone di Cirene al suo posto.
La costruzione del cristianesimo nuota in queste stesse acque.
Come Gesù è costruito da coloro che credono in lui a partire da citazioni
del Vecchio Testamento destinate a mostrare che egli è davvero il Messia
annunziato e il profeta atteso dagli Ebrei, gli gnostici piluccano in certi libri
veterotestamentari per elaborare la loro ideologia: la Genesi per esempio
offre loro l’occasione di ampie esposizioni sulla nascita del male,
sull’origine della negatività nel mondo o sulla decadenza dell’umanità. Il
libro di Enoch fornisce una tesi essenziale per la comprensione del carattere
indifferentista o licenzioso di certi gnostici: la tesi della grazia e della
predestinazione - che, da Agostino al XVII secolo giansenista e pascaliano,
fa scorrere molto inchiostro.
Alcuni brani degli Atti degli Apostoli, delle Epistole di Paolo o
dell’Apocalisse di Giovanni testimoniano dello scontro tra cristiani
primitivi - Pietro e Paolo nel caso specifico - e gnostici - Simone in
particolare. Le due correnti si abbeverano alle stesse fonti, rispondono agli
stessi bisogni di una stessa epoca. Il clima pesa su di loro in modo simile:
l’angoscia, la paura, il timore, la sensazione di un mondo che crolla e
l’attesa di un’altra cosa; da qui il numero incalcolabile di profeti, di
millenaristi, di messia, di annunci della fine del mondo in tempi imminenti.
La gnosi taglia e incolla nei tempi antichi, e si nutre di influenze del
momento.
Il cristianesimo pure. Ma lo gnosticismo non dispone di un Costantino
per imporsi. La differenza è tutta qui.
 
 
8. La caduta nel tempo
 
Lo gnosticismo agli occhi dei filosofi passa spesso per una religione - e
viceversa... Di modo che né gli uni né gli altri affrontano questo continente,
persuasi che esso sia di competenza dell’altra corporazione. Il fatto che
Agostino sia vescovo di Ippona, Tommaso d’Aquino domenicano e Dottore
angelico, più tardi Malebranche oratoriano o Kierkegaard pastore
protestante, non impedisce tuttavia ai professionisti della filosofia di
considerarli dei loro. Come creatori di concetti, inventori di personaggi
concettuali che biascicano un linguaggio inventato, una musica,
corrispondono in pieno alle definizioni di un Deleuze per avere accesso al
santo dei santi filosofico!
L’epoca si caratterizza per l’oscillazione della filosofia, di tutta la
filosofia, in direzione del cielo: essa scruta un mondo ipotetico per cercare
di adattarsi al reale, anzi per negarlo o abbandonarlo più facilmente. Gli
gnostici e i Padri della Chiesa condividono una stessa preoccupazione di
inventare un universo suscettibile di dispensarli dal dover sopportare il
presente di questo mondo. L’odio del mondo li riguarda ugualmente. Il I e il
II secolo - anche gli altri, ma più particolarmente questi tempi inaugurali -
si definiscono per una forsennata volontà di collocare il reale nel cielo -
mentre l’edonismo propone di calare il cielo sulla terra.
Il punto in comune a tutti questi pensatori, che avvertono l’urgenza di un
mondo alternativo, è la coincidenza di mondo e male: la negatività avvolge
il più piccolo frammento della realtà. Per arrivare a questa conclusione non
c’è bisogno di cogitare o di postulare. Basta constatare, guardarsi attorno,
imparare aprendo gli occhi. Il tempo della dinastia imperiale giulio-claudia
-  Gesu viene concepito contemporaneamente a Tiberio -, quello del basso
Impero e dell’alto Medioevo traboccano di imperatori sanguinari, tirannici e
autocratici, sulle frontiere persistono le guerre, la povertà è un destino
comune, gli intrighi politici si susseguono e si rassomigliano, il popolo ne
fa continuamente le spese: il desiderio di un altro mondo, quando non
sembra possibile sul terreno politico, investe le zone teologiche. Quando
manca una Città degli uomini dégna di questo nome, si inventa una Città di
Dio che promette felicità e gaudio eterni. Il fallimento della politica
favorisce l’avvento della religione.
Gli gnostici affermano che il male governa, come testimonia la caduta nel
tempo. Il mondo deriva dalla volontà perversa di una cattivo demiurgo.
Contro i cristiani, i quali pensano che la negatività sia stata prodotta dal
libero arbitrio del primo uomo - nel caso specifico della prima donna -,
sgravano Dio da ogni responsabilità per quanto riguarda l’origine del male,
gli gnostici credono che la Creazione sia stata un fallimento. Per i seguaci
di Cristo, la colpa ha un peso notevole, in quanto il peccato originale si
trasmette di generazione in generazione; per gli gnostici, non è il caso di
sentirsi in colpa per un fallo che non è stato commesso: se il male esiste,
bisogna prendersela col Dio cattivo, unico ideatore della prigione.
Questa idea fondamentale basta a mostrare contro Renan che gli gnostici
non sono dei cristiani, ma filosofi a pieno titolo, che lottano e lavorano sullo
stesso terreno dei discepoli di Gesù, ma propongono concezioni del mondo
con conseguenze metafisiche diametralmente opposte. La desolante
ontologia dei cristiani condanna l’uomo dall’eternità, fin tanto che trascina
il suo fardello sulla terra. In compenso, l’ontologia gnostica discolpa gli
umani e li lascia liberi di agire in un mondo che somiglia a un campo di
rovine. Adamo colpevole per gli uni, vittima per gli altri: il destino
dell’umanità si gioca in queste due posizioni radicalmente antinomiche.
Così, per gli gnostici Bene e Male esistono sì, ma nien-t’affatto separati:
anzi evidentissimamente mescolati, inseparabili. Se quei due tempi restano
impossibili da distinguere, come pensare e agire, se non aldilà del bene e
del male? Prima della caduta, il mondo conosceva la felicità, sempre
associata (Platone non è lontano...) all’eternità, all’immaterialità e
all’immortalità - all’incorporeo. Dopo quella caduta vertiginosa, noi
viviamo nell’esatto contrario: il tempo, la materia e la morte - il corpo.
Bisogna fare  i conti con questi dati irrefutabili - questo è il progetto
gnostico, il suo disegno.
Sempre in una prospettiva platonica, e con le torsioni intellettuali e
mentali inflitte da più di sette secoli di esistenza della corrente, la gnosi
invita a ritrovare la via del cielo, sola prospettiva in grado di generare la
salvezza. Si ritiene che Plotino combatta gli gnostici in una delle sue
Enneadi (II, 9). Tuttavia, la sua opera sembra illustrare una delle modalità
dello gnosticismo: anche lui condanna il mondo della materia e aspira
all’unione con l’Uno-Bene, principio di ogni cosa, dopo un’opera di
purificazione e di ascesi. Gli gnostici pensano e agiscono esattamente in
base allo stesso principio: abbandonare questo mondo e accedere alla
felicità del Pleroma in cui gli Eoni giubilano danzando con gli Arconti e
altre figure del paradiso.
Una differenza comunque c’è, ed è enorme, poiché permette di collocare
Plotino, i filosofi alessandrini e i platonici ortodossi dalla parte dell’ideale
ascetico, mentre gli gnostici licenziosi si collocano nella tradizione del
pensiero edonista: questa differenza risiede nel diverso modo di considerare
il corpo. Plotino si vergognava di averne uno, ci dice ad esempio Porfirio
nella sua Vita di Plotino. Da parte loro, gli gnostici stimano che è
indifferente averne uno, e che con l’aiuto dell’indifferenza, è meglio
adattarvisi, scendere a patti, utilizzarlo, trasformarlo non in nemico, ma in
occasione di liberazione. Come? Sperimentandone tutte le possibilità: un
modo diverso di farne uso da quello dei divieti.
Platone insegna che il saggio aspira alla morte per non dover più
sopportare il peso del suo corpo e della sua materia, che ogni impresa
filosofica consiste nel liberare l’anima dalla carne in cui essa giace,
prigioniera; analogamente Plotino rifiuta i bagni, le cure, le riproduzioni del
suo volto per dei busti, la sua dieta alimentare è pietosa, somatizza -mal di
gola cronico, grave malattia della pelle -, si priva del sonno, vive in una
continua tensione nervosa, dispone di un equilibrio psichico fragile, invita a
fuggire il mondo e conosce quattro periodi di angoscia nel corso della sua
esistenza, non privi di rapporto con questa sollecitazione di tipo sciamanico
della sua fisiologia; in questo periodo, Valentino, Basilide, Carpocrate,
Epifanio e altri banchettano, copulano, si masturbano, confezionano pàté di
aborti per le loro comunioni. Prova che il platonismo può non essere
ascetico, anzi essere francamente edonista, a patto che abbandoni
l’essenziale della dottrina di Platone!
1. Simon Mago

e «la grazia»

 
 
 
 
 
1. Il filosofo volante
 
Simone di Samaria - di Gitton precisamente - insegna alle sue pecorelle
nel I secolo della nostra era. Anche lui cerca di conquistare il mercato
filosofico sulle agorà dove Paolo cura la sua isteria. Dal momento che gli
apostoli ricorrono alla magia, perché non dovrebbe farlo anche lui? In
quell’epoca, infatti, la magia e i miracoli rientrano nel campo di un identico
meraviglioso. Non si va per il sottile in fatto di ragione ragionevole e
ragionante. In quei tempi di effervescenza intellettuale, gli spiriti, i demoni,
l’irrazionale, i miti coesistono senza difficoltà col Logos. Del resto, anche
oggi...
Perciò Simone attacca bottone con Pietro per farsi rivelare i segreti dietro
compenso. Evidentemente, il mago cristiano non gli rivela nessun trucco se
non la sua fede e la sua credenza in un Dio che rende possibili quei
miracoli. Di fronte a questo rifiuto, Simone conclude che quella divinità non
esiste! Pertanto, più che alla taumaturgia cristiana, continua a credere
nell’abilità di maghi che utilizzano sotterfugi per pervenire ai loro scopi:
evangelizzare, vendere la dottrina del Cristo - pur creandola per
l’occasione.
Simone rivaleggia con i seguaci di Gesù, riportando grandi successi data
la sua reputazione notevole. Al punto che - si dice - l’imperatore Claudio,
sotto il cui regno vive, ordina la costruzione di una statua per onorarlo. Per
un uomo di potere è sempre opportuno intrattenere buone relazioni con i
maghi, con quelli che compiono miracoli, maneggiano l’irrazionale, e,
soprattutto, con i loro discepoli, altrettanti sudditi che diventano docili
quando per demagogia se ne blandiscono gli idoli.
A Tiro, Simone compra una prostituta, di nome Elena. Si ignora se fosse
in attività o avesse messo la testa a posto. Ireneo di Lione ne attesta
l’incredibile bellezza. Precursore di Auguste Comte, Simone la trasforma in
divinità e ne organizza il culto. Per fare ciò, dà informazioni sul suo passato
prestigioso e sui suoi talenti genealogici. Intermediaria della potenza di Dio,
essa ha generato addirittura gli angeli, i quali, in seguito, hanno creato il
mondo. Non volendo riconoscerla come genitrice, essi l’hanno tenuta
prigioniera e costretta a subire oltraggi. Il Messia è dunque apparso
unicamente per risolvere il problema: è dunque a lei che si deve la venuta in
cielo per mettere ordine in quel caos angelico e regolare quella
competizione permanente degli angeli privi del più grande potere possibile.
Si immagina che, visto il suo antico mestiere, essa sopportasse gli
oltraggi meno facilmente delle altre donne. Uno di questi oltraggi consiste
in una punizione platonica: rinchiudere la sua anima - il suo principio e il
suo essere -in un corpo. E il seguito atteso: un ciclo perpetuo di
reincarnazioni in funzione del suo comportamento nel corso della vita.
Sempre Pitagora e Platone. Si spiega pertanto più facilmente come mai,
prima di esercitare il mestiere di peripatetica a Tiro, essa potesse essere
stata la Elena responsabile della guerra di Troia, in seguito diventata
quell’occasione filosofica del ladrone Simone, che predica alle folle in sua
galante e radiosa compagnia - un argomento supplementare per sedurre il
popolino.
La morte di Simone è simile a quella del Crocefisso per il meraviglioso di
cui si circonda. Ne esistono due versioni, come spesso nella dossografia in
cui i filosofi lasciano la scelta. Lo scopo consiste nel significare che si
muore come si vive: il modo di morire informa sul contenuto
dell’insegnamento professato durante la vita. Nessun filosofo ha il cattivo
gusto di optare per una morte che contraddice il suo passato: per Diogene,
la dossografia lascia la scelta tra l’ingestione di un polpo crudo o il morso di
un cane; in entrambi i casi, muore persistendo nel suo essere: la natura
cruda è preferibile alla cultura cotta e gli animali indicano sempre la giusta
direzione - compresi i cani arrabbiati.
Prima versione: Simon Mago - bisogna esserlo per questa singolare
performance... - vola nel cielo di Roma, a lungo. Se la prende comoda e
plana sopra i luoghi che presto accoglieranno la prima basilica di San
Pietro. Pietro, per l’appunto, passa di là, scorge il nuovo Icaro e quella
impareggiabile pubblicità per la gnosi non gli piace. Una pubblicità difficile
da eguagliare. Il futuro santo, al presente cristiano e assai desolato, prega
perché cessi il sortilegio di Simone. Effetto garantito: Simone si schianta al
suolo e muore. Una versione dell’amore per il prossimo - e dell’efficacia del
cristianesimo, anzi della sua superiorità sulla gnosi.
Seconda versione: sulla terra come in cielo, il Mago vola. Di
conseguenza, sfida il suo uditorio: lo si interri molto profondamente, e tre
giorni dopo risusciterà dai morti. Si coglie l’allusione: il termine di tre
giorni suona come una sfida lanciata al Cristo e ai suoi. Simone può anche
lui realizzare questo tipo di performance - che tra parentesi gli yogin
allenati riescono a fare. Niente affatto yogin, un po’ perentorio - non si
rivaleggia impunemente col futuro padrone dell’universo visibile e
invisibile in procinto di riuscire nella sua impresa -, Simone finisce sotto
terra e lì resta ancora oggi. Scommettiamo che un’uscita inopinata quasi
duemila anni dopo gli darebbe oggi un vantaggio innegabile.
 
 
2. Amare il prossimo, ma a letto
 
Quando non imbroglia il suo pubblico e non utilizza storie inverosimili
per attirare l’attenzione su di sé e attribuire al proprio messaggio un valore
incalcolabile, Simon Mago pensa. Egli teorizza, propone idee. Accanto alle
scappatelle - simili a quelle di tutti i protagonisti dell’Antichità,
ripetiamolo, non solo dei cristiani - di una vita movimentata e divertente, il
filosofo gnostico elabora una teoria destinata a produrre un numero
considerevole di effetti nel corso dei secoli, poiché si tratta di quella della
grazia e della predestinazione - così cara all’agostinismo, ai giansenisti, al
luteranesimo e al calvinismo. Una posta in gioco rilevante, dunque.
La lettura proposta da Simone - e dagli gnostici licenziosi - passa
attraverso un’interpretazione di certi versetti di Paolo di Tarso. Da qui la
collera e l’irritazione delle autorità ecclesiastiche, le quali constatano che
bevendo alla fonte cristiana si può trovare ben altro che acque putride.
Ireneo di Lione, per esempio, si strozza all’idea che si possa utilizzare il
castigamatti della cristianità per giustificare orge sessuali di ogni genere! Il
Tarsiota pieno di odio per la carne, stravolto da quelli che gli chiedono di
accelerare il trasporto verso il cielo! E il colmo...
Quali sono i brani incriminati? Quello della Lettera ai Romani (6,14),
dove si afferma che il peccato non fa presa su un individuo nato sotto il
segno della grazia e non della legge. Ugualmente quello dei Proverbi (1, 14)
che invita a mettere in comune tutto ciò che si possiede. A verbale, precisa
Simone: poiché le donne fanno parte del patrimonio, esse devono essere
comuni a tutte e a tutti! Protetti dalla grazia e invitati al comunitarismo
integrale, giustificati da Paolo e da una verità professata dall’Antico
Testamento, agli gnostici non resta che trarre le conclusioni costruendo la
teoria che si impone.
Nell’opera che gli viene attribuita - Rivelazione della grande potenza -
Simone insegna la libertà di agire di testa propria: se si ha la grazia, non c’è
nulla da temere. Solo essa salva, non le opere. Il bene e il male non esistono
in sé, in assoluto, ma relativamente a decisioni arbitrarie. Il giusto e
l’ingiusto solo tali per convenzione. Chi ha deciso le virtù e i valori sui
quali il comune mortale costruisce la sua esistenza? domanda Simon Mago.
Gli angeli. Ora queste creature sono anch’esse cattive. Poiché il loro
disegno, quando hanno promulgato le virtù, era molto semplicemente quello
di ridurre gli uomini in schiavitù.
Invertendo i valori, praticando una trasmutazione, si ritrova la via del
bene: il mondo è cattivo, dunque anche gli angeli, ma poiché i valori
derivano dagli angeli, anch’essi sono dunque cattivi. Per voltare le spalle al
male, niente di più semplice che fare esattamente il contrario di quanto
insegna la morale tradizionale, anch’essa cattiva. Essa esalta l’ideale
ascetico? Cattiva virtù... Gli gnostici licenziosi annunciano dunque la buona
novella: viva l’ideale edonista!
Bisogna basarsi sulle Scritture per giustificare il seguito? Esaminiamo il
senso dell’invito del Nuovo Testamento: santificatevi gli uni con gli altri.
Gli gnostici danno la chiave: lasciate libero corso ai vostri desideri,
praticate la sessualità più attivamente che mai. Non soltanto tra marito e
moglie, poiché non importa chi conclude l’affare: poco importa dove ci si
stuzzica purché ci si dia da fare. Questo modo di agire definisce il vero
amore per il prossimo. L’amore perfetto, il santo dei santi. Il paradiso degli
gnostici non aspetta il domani...
L’iscrizione di ogni azione e di ogni pensiero al di là del bene e del male
pone di fatto al di là di ogni sanzione. Per punire, è necessario un libero
arbitrio, una scelta, una libertà. Ora tutto ciò manca. Gli astri determinano il
corso delle esistenze individuali - un’idea all’epoca condivisa dalla
maggioranza - e Dio designa tra la moltitudine quelli che egli salva. Nel
caso specifico gli individui convinti dell’opzione gnostica - visto che si
deve... Non c’è alcun bisogno quindi di una morale repressiva, di virtù che
immiseriscono, di una morale che ostacola, di sacerdoti e di agenti di questa
ideologia della rinuncia. Contano solo l’affermazione, la grande salute, la
voluttà condivisa, scambiata. Simone inaugura un pensiero che la filosofia
fa propria: la negazione del libero arbitrio, il relativismo e l’arbitrio della
morale, l’uso del corpo come amico, l’ancoramento della propria esistenza
alla più radicale pulsione di vita e alle forme più primitive: il desiderio
risolto nel piacere.
2. Basilide

e «la dissolutezza»

 
 
 
 
 
1. Il riso sardonico di Gesù
 
Basilide muore verso il 130. Si ignora quasi tutto di lui, se non una serie
di viaggi come predicatore che lo porta a Cipro, in Grecia, a Roma, dove
numerosi gnostici officiano nel foro. Dal momento che le date lo
permettono, possiamo immaginare un incontro con Epitteto, schiavo di
Epafrodite, un liberto di Nerone - e con altri filosofi stoici, depositari della
virtù romana e della tradizione antica, così precaria e talmente minacciata in
quell’epoca dalle credenze venute dai deserti orientali.
Il suo stile lo porta verso il registro intellettuale. A lui si deve la
creazione e lo sviluppo di molte delle nozioni che costituiscono il corpus
della gnosi. Nella scuola da lui creata ad Alessandria, egli si basa sugli
insegnamenti di Simon Mago e di Menandro, uno dei suoi discepoli. Con
ogni evidenza, le tesi del filosofo che vola nel cielo di Roma e quelle di
Basilide sono comuni. Ciò che si può attribuire all’uno si ritrova nell’altro.
Le variazioni non dovevano essere così numerose al punto da rappresentare
differenze essenziali. Sulla grazia, dunque, come sul resto.
Tuttavia, Basilide si distingue in maniera particolare. La storia merita di
essere raccontata: Gesù, dice, e stato invia-to sulla terra dal Padre
ingenerato. Niente di anormale per il momento. La scena in questione si
svolge il giorno della morte. Gli evangelisti tergiversano: sia che Gesù porti
la croce da solo - è del resto il senso del cristianesimo - sia che gliela porti
Simone di Cirene - secondo Luca - la qual cosa pare singolare: come
portare la croce di un Salvatore? Il filosofo gnostico mette tutti d’accordo e
agisce come il noto giudice con i litiganti dell’ostrica1...
Chiaramente, Gesù disponeva di poteri magici, come testimoniano le
guarigioni miracolose. Ebbene, il giorno che per lui avrebbe potuto essere
funesto, egli avrebbe effettuato un gioco di prestigio, assumendo la
fisionomia di Simone e dando all’uomo di Cirene il proprio aspetto. Così,
quando si crocefigge un uomo, è l’aspetto di Gesù che si mette a morte, non
la sua realtà. In compenso, si sacrifica la carne di Simone Cirene - senza
saperlo... Per lo meno senza che ne dubitino né i soldati romani, né Pilato,
né gli Ebrei, né la madre, né nessuno. Mentre l’immagine di Gesù espia e
spira sulla croce, mentre Simone di Cirene rende l’ultimo respiro al posto di
colui che si crede morto per riscattare i peccati del mondo, Gesù sghignazza
tranquillamente nel cielo che ha raggiunto mentre il suo clone metafisico
saliva al calvario... Roba da far davvero preoccupare l’apologetica cristiana!
Basilide inventa un’eresia chiamata docetismo. Per i sostenitori di questa
opzione i quali giustificano questa singolare presenza di Simone di Cirene
vicino al Crocefisso -Gesù è nato, morto e resuscitato in apparenza
(Basilide afferma che il nome del Figlio di Dio durante queste facezie
terrestri è Caulacau). Il docetista crede che Gesù, durante la sua morte -
almeno quella a cui credono gli altri -, assiste alla crocefissione tra il
pubblico. Ridendo del bel tiro giocato a tutti, e per l’eternità...
 
 
2. Certezza dell’indifferenza
 
La conversione gnostica assicura l’invisibilità dello gnostico.
Chiaramente, i poteri di Gesù, alias Caulacau, testimoniano in questo senso
e mostrano quali benefici se ne possono trarre. Basilide considera tutto
indifferente, in base allo stesso principio di Simone, rafforzato dalla sua
lettura di Paolo di Tarso: la grazia basta. Il filosofo gnostico sembra avere
buone ragioni per insegnare le sue dottrine in quanto pretende di essere
depositario dei suoi segreti - tra cui quello dello scherzo giocato a Simone
di Cirene - grazie alle confidenze dell’evangelista Matteo in persona. Come
dubitare di una fonte così sicura? Infatti è verità di vangelo.
Sul terreno della morale, Basilide trae le stesse conclusioni di Simon
Mago: egli aggiunge una critica della Chiesa nascente, del potere dei
cristiani, sezione paolina, fustiga la fede, critica la legge, si prende gioco
dei divieti e invita a una contro-morale, la sola in grado di restaurare
l’ordine delle cose: contro il male, scegliere il bene che definisce l’esatto
contrario delle virtù insegnate dagli altri, colpevoli di ignorare che essi
professano il negativo, invischiati nella negatività sin dall’origine del
mondo.
Non c’è bisogno di credere a falsi valori. Ad esempio, la verità. Per quali
ragioni si dovrebbe morire per le proprie idee? Di fronte alle persecuzioni,
quando un torturatore chiede un’abiura, è inutile arrivare fino al martirio.
Basilide invita freddamente a ricredersi: bisogna rinunciare alle proprie
opinioni. Grazie all’indifferenza, poco importano una cosa o il suo
contrario, conta solo la purificazione gnostica che porta alla
dematerializzazione di sé e alla perfezione quintessenziata della propria
anima dissociata dalle impurità materiali.
In materia di sessualità, Basilide conclude come Simon Mago: senza
colpevolezza, lungi da ogni divieto, incuranti della morale tradizionale,
contro l’encratismo e i suoi turiferari, al di là del bene e del male, fedele al
principio che la buona etica gnostica ribalta quella cattiva promulgata dagli
angeli ingannatori - anch’essi traditi dal fallimento del mondo prodotto
dalle sue cure -, bisogna gettare a mare gli imperativi sociali della fedeltà,
della monogamia, dell’affettività stessa, per darsi all’ascesi nel dispendio.
Ma, da buon indifferente, aggiunge che l’ascesi che rifiuta l’uso del corpo
vale quanto quella che arriva fino allo sfinimento...
3. Valentino

e «i semi di elezione»

 
 
 
 
 
1. Elogio degli pneumatici
 
Come si distribuisce la grazia? E in che modo è possibile sapere se ne
siamo stati toccati? Tutto infatti dipende da questo sapere... Se ci
abbandoniamo alla dissolutezza e il dito di Dio ci tocca senza trovarci, anzi
non ci cerca perché non ha intenzione di trovarci, che fare? Mancano i
segni, e anche la certezza. Ma ingannarsi porta verso strade pericolose. Non
però per gli gnostici che credono alla determinazione astrale e che, di
conseguenza, negano assolutamente ogni possibilità di libero arbitrio. Ciò
che io sono, non lo scelgo, lo subisco, come tutto ciò che esiste nell’ordine
dell’universo.
Il vegetale, sprovvisto di coscienza, di ragione e di linguaggio, obbedisce
alla legge che presiede all’organizzazione del mondo. Anche gli uomini,
che si vantano di conoscere il loro “io”, pretendono di riflettere e non sanno
fare a meno di parlare, anche se a vanvera. Ma solo gli uomini, per evitare
la ferita dell’orgoglio, o per ignoranza, si credono liberi di decidere, anche
se è evidente che vengono decisi e voluti da qualcosa di più forte e più
potente di loro. Dio vuole ciò che è così come avviene.
Nell’umanità degli gnostici, come ho già detto, esistono tre tipi di
uomini. Gli ilici, impantanati nella materia, trop-po insozzati dalla
negatività del reale, non possono aspettarsi nulla dal mondo; gli psichici
possono sperare la salvezza, è sufficiente pendere dalla parte degli eletti
eccitando l’anima che in loro rende possibile l’epifania; in tal modo essi
diventano gli pneumatici, gli iniziati gnostici, chiaramente. Ecco dunque gli
eletti! Optare per la setta li trasforma di fatto in soggetti designati dalla
grazia... Non si può trovare pubblicità migliore, per rendere desiderabile qui
e ora un’adesione franca e massiccia alla dottrina!
Lo gnostico non può essere toccato da ciò che avviene nel mondo
triviale, basso e volgare. Valentino utilizza una metafora e precisa che,
anche coperta di fango, una bellezza resta bella. Non si può nulla contro
questa evidenza. La sua carne? Poco importa, perché egli ha assegnato alla
sua anima - frammento strappato al Fuoco divino e originario, legame
ontologico permanente col mondo celeste del Pleroma - il ruolo principale:
portare il suo essere fuori dal mondo, là dove la generazione e la
corruzione, il bene e il male, la vita e la morte cessano di avere significato.
Gli pneumatici dispongono quindi di uno statuto di extraterritorialità
metafisica: nel mondo, si muovono fuori dal mondo.
 
 
2.I semi di elezione
 
Valentino, nativo di Frebone, in Egitto, crede dunque all’esistenza di ciò
che egli chiama «i semi di elezione», individualità toccate dalla grazia.
Mentre nella sua scuola elitaria Plotino invita all’ascesi, costringe a sforzi,
invita a morire in vita per rinascere purificati, partecipi della luce e
dell’incandescenza immateriale, Valentino propone un altro metodo per gli
stessi fini: egli assegna al corpo un ruolo paradossale poiché implica la
negazione della carne per mezzo della sua affermazione assoluta. Platonici
tanatofili contro platonici biofili. Prefigurazione dell’hegeliana astuzia della
ragione.
Da qui una serie di inviti a consumare la materia ostile di questo mondo:
l’amore sessuale, le voluttà fisiche, la sensualità senza limiti e la
sregolatezza alla Rimbaud di tutti i sensi. Solo l’esaurimento della propria
sostanza, il dispendio forsennato, l’economia libidica consumata in una
specie di potlach generalizzato delle proprie forze, permette di negare la
materia. Svuotare, svuotarsi, spandere, spandersi e costringere in tal modo
la scintilla divina in noi a prendere forza fino ad arroventare un essere
spogliato della propria carne attraverso la purificazione gnostica, è questo il
progetto.
Concretamente, anche Valentino propone una trasmutazione dei valori. I
pagani offrono doni agli dèi, carni e frutti, vini prelibati. Bisogna
impadronirsene e mangiare ciò che gli sciocchi riservano a false divinità.
Tutti affermano la necessità della misura sul terreno sessuale? Gli gnostici
valentiniani vogliono piuttosto l’orgia, la festa, l’isteria bacchica e senza
ritegno. La morale dominante impedisce la copulazione con i membri della
famiglia? Viva l’incesto. Crede alla coppia, alla fedeltà, alla monogamia?
Ognuno cerchi la sua compagna là dove la trova, perché poco importano i
matrimoni o i contratti conclusi in precedenza... La salvezza si trova solo in
questa combustione di sé. L’orgia di Valentino porta allo stesso posto
dell’austerità di Plotino. E se i due si ingannano, perché non esiste nessun
posto in fondo alla strada, una delle due strade sembra comunque più
divertente da imboccare.
4. Carpocrate

e «l’amore»

 
 
 
 
 
1. Reincarnazioni libidiche
 
Carpocrate insegna nella seconda metà del I secolo. Vive ad Alessandria,
vivaio gnostico, sotto il regno di Adriano. Ireneo di Lione riferisce che i
suoi discepoli portavano dietro il lobo dell’orecchio destro un segno
particolare, prodotto col ferro rovente. La tradizione lo presenta come
platonico e, chiaramente, la sua teoria della trasmigrazione delle anime
deriva dai fedeli di Platone - ma, come sappiamo, anche da Pitagora.
Tuttavia egli arricchisce la tradizione e, con questo supplemento, rovescia il
platonismo.
In effetti, il Fedone insegna che le anime cambiano corpo dopo la morte e
si reincarnano in un altro essere - o in un animale - in funzione dei meriti
accumulati durante la sua esistenza. Tesi buddhista del resto, sia detto di
sfuggita... L’intemperante e il gaudente rischiano la reclusione della loro
anima nella carcassa di un asino o di un porco; in compenso il saggio - cioè,
il filosofo platonico - può persino sperare di sbarazzarsi della necessità di
un supporto materiale e scontare la sua felice unione col principio
intelligibile primo.
Carpocrate afferma la stessa cosa, ma al rovescio. Stessa cosa: dopo la
separazione dell’anima e del corpo che definisce la morte, il principio
immateriale va alla ricerca di una nuova carne in cui abitare. Il nuovo
supporto dipende dal genere di esistenza vissuto dal novello defunto. Fin
qui le tesi coincidono. Il rovescio: Platone crede che più ci si purifica nella
rinuncia, più il merito è grande, Carpocrate afferma invece che la
purificazione deve sì effettuarsi, ma non nell’ascesi, bensì nella gozzoviglia.
Perciò il filosofo gnostico pensa che le anime cambiano di corpo fino a
che non hanno commesso tutti i peccati possibili e immaginabili. Quando il
peggio è certo, quando l’accumulo di negatività arriva al suo massimo con
una reale saturazione di vizi, appare la salvezza. Ma solo in queste
circostanze. Non c’è bisogno di andare a cercare più lontano: si ottiene la
propria salvezza di pneumatico sposando la negatività. Una volta compiuto
questo lavoro, l’anima risale verso Dio, il quale esiste ben al di là degli
angeli, creatori del mondo e perciò colpevolmente responsabili della caduta
nel tempo e nella materia.
Certo, la faccenda può richiedere tempo. Tutto dipende dall’ardore del
postulante nel darsi a orge, gozzoviglie, incesti e altri malefici, che sono tali
agli occhi dei sostenitori dell’ideale ascetico e della morale moralizzatrice.
Ma a questo gioco, nessuno perde, tutti vincono: non esiste nessuna anima,
nessuna individualità che sfugga a questo processo di purificazione
attraverso il peggio. C’è persino da scommettere che la vicinanza di alcuni
col Pleroma sembra più grande di quella di molti altri...
Se un’anima decide di darsi a tutti i vizi nel corso della sua esistenza
precedente, allora essa può sperare di non avere bisogno di una serie di
reincarnazioni nel tempo a venire. Una sola basta! Essa non avrà bisogno di
un nuovo ciclo da compiere in un mondo in cui il male regna in tutto e
dappertutto. Il pagamento di tutti i suoi debiti ontologici in una sola volta
cancella l’obbligo di una lunga ascesi. La salvezza richiede dunque un
tempo proporzionale alla determinazione del soggetto.
 
 
2. Orge filosofiche
 
Che cos’è che salva? L’amore. Chiaramente non l’amore per il prossimo
dei cristiani che implica l’agape, no, ma l’amore greco, eros, che non
nasconde né la sua origine né la sua definizione: il corpo, la carne, la
sessualità praticata senza complessi, prima della polizia cattolica di Paolo e
del suo corteo di seguaci, i troppo numerosi Padri della Chiesa. La fede e
l’amore, nient’altro, il resto è indifferente perché estraneo a ciò che salva.
Nell’arsenale delle distruzioni gnostiche si trova la proprietà. I cristiani
paolini non la criticano. Di più, assai presto del resto, essi la amano e
scendono a compromessi in sposalizi osceni. La gnosi scarta questa
opzione. I carpocraziani invitano a distruggere ogni possesso e ogni
proprietà privata. Come discepoli di un Platone di cui si dimentica che nella
Repubblica preconizza la comunità dei beni e delle donne, i fedeli di
Carpocrate difendono idee simili. Abolizione della proprietà e del
matrimonio, sua versione sessuale.
Altre opzioni fustigate: il digiuno, la privazione e le mortificazioni,
assolutamente e del tutto inutili. Clemente d’Alessandria riferisce nei suoi
Stromati come gli gnostici si ritrovano ai banchetti dove consumano cibi
afrodisiaci prima di spegnere le luci e unirsi in tutti i modi possibili con tutti
i partner pensabili, in balia dei casi dell’oscurità. Una specie di comuniSmo
realizzato... Una «pratica di cani, di porci e di caproni», scrive da parte sua
un Padre della Chiesa...
5. Epifanio

e «il desiderio imperioso»

 
 
 
 
 
Un Rimbaud gnostico
 
Carpocrate ebbe un figlio chiamato Epifanio - da non confondere con
sant’Epifanio, l’autore delle severe confutazioni delle eresie in un’opera
intitolata Panarion o la Cassetta dei rimedi contro tutte le eresie... Di
Alessandria da parte di padre, di Cefalonia da parte di madre - Same più
esattamente -, eredita attraverso il genitore una cultura enciclopedica. Prima
dei diciassette anni scrive un’opera intitolata Della giustizia, un libello tanto
violento da sembrare anarchico, dove mette alla gogna gli dèi di carta, di
argento e di fumo esaltati dalla maggior parte dei viventi. Muore all’età di
diciassette anni. Sembra che fosse onorato come un dio, con templi, altari,
santuari, museo, feste, sacrifici, libagioni, banchetti, canti, inni.
Clemente d’Alessandria, sempre critico spietato degli gnostici, salva
miracolosamente alcune idee difese nell’unica opera di questo “Rimbaud
gnostico”, come simpaticamente scrive Jacques Lacarrière. Tra queste,
l’abolizione della proprietà e la critica radicale dell’ingiustizia.
Un’occasione per mostrare la differenza col cristianesimo, indotto invece a
considerare la povertà, la miseria, il dolore sociale come altrettante
opportunità per esercitare la pazienza prima del cielo. Si capisce anche
perché l’impero potesse tollerare i seguaci di Gesù, non quelli di Carpocrate
o di Epifanio.
Nello stesso filone del padre, egli difende la comunanza delle donne,
critica tutte le forme di proprietà, il matrimonio e la monogamia,
ovviamente, e fa un elogio del desiderio imperioso - l’ineffabile Clemente
d’Alessandria dixit -in base al principio che Dio non può aver dato agli
uomini il desiderio e il piacere per riprenderglieli... In virtù di quale
capriccio, in effetti, e secondo quale insana logica, Dio potrebbe agire in
questo modo? Utilizziamo dunque questo dono di Dio, appunto, per fuggire
questo mondo infestato di Male a causa dei cattivi demiurghi.
6. Cerinto

e «il soddisfacimento del ventre»

 
 
 
 
 
Gesù edonista...
 
Cerinto passa velocemente attraverso i denti del rastrello patrologico. E
passa a malapena. Appena citato, presto scomparso. E per di più citato dal
solo Ippolito di Roma, che regola il suo caso in poche righe concise.
Abbastanza per intravedere un’idea interessante. Nulla sulla biografia,
com’era da sospettare. Ma si trova questa idea singolare: per questo
gnostico appena visibile, il regno del Cristo sarà di questa terra. Dopo la
resurrezione, niente vita eterna, corpo glorioso, anima senza corpo, o
l’inverso, niente miti o finzioni, giusto questa idea semplice: una salvezza
sulla terra, in condizioni di esistenza che noi conosciamo.
L’idea, del resto, ha sedotto abbastanza perché al momento della
costruzione del mito di Gesù si pensi di fare di questa opzione immanente la
regola e la legge. Come nel profetismo e nel millenarismo di certe sette
ebraiche, l’affermazione dell’altra vita, ignara della morte e della negatività,
dopo la venuta del Messia e la sua espiazione sulla croce, ma sulla terra,
non sembrava priva di fondamento. Gesù ritornato a Gerusalemme sotto
forma carnale conoscerà l’imperio delle passioni e dei desideri, delle
pulsioni e dei piaceri di un corpo d’uomo a un punto tale che ne diventerà
schiavo, afferma Cerinto. Contrariamente alla plu-risecolare raffigurazione
pittorica di un Dio fatto uomo, ma incapace di esplorare ciò che definisce
l’umanità di un uomo nelle sue attività meno nobili: mangiare, bere - altro
che simboli - ridere, copulare, defecare ecc.
Cerinto dà del resto alcuni particolari: bevande a volontà, cibo in quantità
smisurata, sessualità libertaria integrale e feste generalizzate. Secondo
questo buontempone le agapi e le orge durerebbero mille anni. Il vescovo di
Roma, com’era da sospettare, scredita il filosofo gnostico, trovando
all’origine delle sue idee il solo e colpevole allargamento delle sue passioni,
di cui conosceva solo quelle del ventre e del basso ventre. A suo discarico,
chi del resto fa filosofia se non generalizzando il proprio caso?
7. Marco

e «le donne eleganti»

 
 
 
 
 
La coppa alle labbra
 
Marco, anche lui passato fugacemente come Carpocrate ed Epifanio nelle
gallerie di ritratti gnostici, lascia poche tracce, nessuna sul terreno delle
idee. Salvo forse una opzione femminista - benché il suo interesse per le
donne sembri dipendere più dal suo piacere e dal suo capriccio che da una
reale decisione metafisica. Gli gnostici nel loro insieme accordano al
femminile un posto importante. Alla pari con gli uomini, poiché i due
hanno bisogno l’uno dell’altra per esistere davvero. Allo stesso modo,
quando incita alle orge, alle feste sessuali generalizzate, le donne valgono
meno come singolarità, soggettività distinte che come quintessenze: esse
incarnano il Femminile, la Femminilità, a cui viene tributato un culto.
Ecco perché troviamo Marco il Mago accanto alle donne più belle -
confessa Ireneo. Il primate dei Galli precisa che persino nella sua contrada
del Rodano Marco ha mietuto vittime. Affascinanti, eleganti, ricche, egli le
ha iniziate alle sue pratiche meravigliose - o magiche... - con delle coppe
nelle quali versa liquidi rossi per lasciar credere che stia sanguinando.
Segnato dalle stimmate, può perciò profetizzare. Quando si credono
iniziate, riferisce il vescovo di Lione, esse danno la stura a un torrente di
parole... Che spettacolo!
A questi talenti, egli aggiunge una passione da giocoliere per le cifre e le
lettere, i giochi di parole e le assonanze. Una specie di Lacan ante litteram...
Alle donne che lo seguono, egli concede il suo stesso potere di
divinizzazione.
E ne fa uso per la sua ascesi orgiastica. Quando esse ricevono i «Semi di
luce», beneficiano anche di un bonus meno luminoso. Talora aggiungono
alle tasche del filosofo denaro sonante! Così dicono i maldicenti...
8. Nicola

e «la vita senza ritegno»

 
 
 
 
 
1. Il gusto degli altri
 
Nicola viene considerato uno dei primi sette diaconi scelti dagli apostoli.
Bella gente, quindi. L’Apocalisse di Giovanni lo presenta come uno che
vive senza ritegno. I particolari delle pratiche licenziose si possono
immaginare. Ignoriamo che cosa distingue le diverse sette, ma ciò che
corrisponde a un filosofo vale complessivamente per l’altro.
Il puzzle può essere ricostruito in questo modo: nella comunità degli
gnostici licenziosi, si pensa in modo simile - il mondo è cattivo, la salvezza
passa attraverso l’esaurimento delle possibilità del corpo, la grazia libera da
ogni colpa, l’azione gnostica si iscrive al di là del bene e del male.
In fatto di sessualità collettive, possiamo in un primo momento
immaginare quel che si può fare. Oppure dalle accuse riportate nei loro
confronti da istitutori molto cristiani. Non c’è bisogno di scendere nei
dettagli. In compenso, per quelli che mancano di immaginazione,
aggiungiamo alcuni particolari sulle pratiche dei Barbelognostici. Esse
permettono di misurare quanto l’inversione dei valori arrivi fino al suo
confine trasgressivo.
Vada per le spermatofagie. I banchetti collettivi dopo che si spengono le
luci implicano infatti l’acquisizione di queste pratiche. Alcune fedeli
estraggono il seme dagli uomini - non vengono precisate le tecniche e i
metodi, esso sembra sgorgare da una fonte -, lo presentano in forma di
elevazione verso il Pleroma, poi fanno la comunione con questo liquido
benedetto dagli dèi gnostici. Questa energia assorbita dal corpo, raccolta,
concentrata, acquista così una potenza particolare che accredita l’offerta di
una efficacia impareggiabile.
Perché dunque vietarsi di fare la stessa cosa con le donne? Non con lo
sperma femminile - un’invenzione di Aristotele -, ma col sangue mestruale?
In effetti, il liquido seminale corrisponde all’emissione del flusso mestruale.
Così i discepoli si comunicano unendo l’utile al dilettevole, ma anche il
maschile al femminile, scoperta ontologica di primaria importanza, perché
essa assicura la ricostituzione delle unità perdute. Nicola sembra inventare
una comunione dei santi di tipo particolare.
 
 
2. Il pàté di feti
 
Per giustificare le sue teorie, egli si appoggia su una divinità - Pruniko, o
Barbelo, altro suo nome - la cui bellezza causa la guerra tra gli angeli,
anch’essi toccati dalla negatività che satura il pianeta: solo Dio sfugge al
massacro. Gli gnostici dedicano un culto particolare a questa potenza la cui
etimologia indica lussuria, corruzione - un «marciume di godimento e di
depravazione», scrive sant’Epifanio nella sua Cassetta dei rimedi contro le
eresie.
Le eucarestie libidiche permettono l’ingestione delle potenze concentrate
di Barbelo allo scopo di accelerare l’ascensione verso il Pleroma. Con lo
sperma, gli officianti annunciano il corpo di Cristo, con l’emoglobina
mestruale, il suo sangue. L’Unione dei due permette un’offerta
quintessenziata e sostanziale. Non c’è dubbio che la pazienza dei Padri
della Chiesa preoccupati di domare il corpo sia stata rudemente messa alla
prova. Ma non tutto è stato ancora detto.
Infatti gli gnostici licenziosi in genere pensano che in un mondo simile,
votato al male, la procreazione aumenti la negatività. Da qui il loro elogio
delle pratiche contraccettive. Del resto si può credere senza ingannarsi che i
filtri di cui parla la tradizione patrologica potessero designare in parte i
beveraggi e i decotti utilizzati all’epoca per impedire la fecondazione. Le
tecniche erano note. Le prostitute ne facevano un uso quotidiano.
Quando non bastano né le spermatofagie - efficaci mezzi contraccettivi -,
né le precauzioni mediche, gli gnostici portano all’estremo la loro ontologia
del negativo allo scopo di sopprimerlo: estraggono manualmente il feto dal
ventre della barbelognostica incinta. Quando recuperano l’aborto, lo
triturano in un mortaio, lo mescolano a miele, condimenti, pepe e oli
profumati, allo scopo di confezionare una specie di pàté. Evidentemente
nelle cerimonie in cui lo sperma e i mestrui scorrono a fiotti, a credere a
sant’Epifanio, i fedeli mangiano questa pietanza ontologica. Per il maggior
bene della loro ascesi, ovviamente...
 
 
3. Cancellazione dello gnosticismo
 
Costantino, diventato imperatore, chiede a Eusebio di Cesarea,
l’intellettuale al servizio del Principe per eccellenza, di trascrivere dei testi
allo scopo di unificare il cristianesimo. Dalla schiera ne vengono scelti
ventisette allo scopo di creare l’abbozzo di un Nuovo Testamento definitivo.
Gli scritti gnostici - eretici, secondo la decisione dell’impero -spariscono
dalla circolazione. Gli gnostici, perseguitati come eretici e pagani,
subiscono i fulmini cristiani: distruzione delle biblioteche, autodafé,
inquisizioni delle autorità, pestaggi, torture - l’abbiamo già visto. Si
verificano adesioni in massa al cristianesimo. Le seduzioni di una
spartizione del potere o di una partecipazione a esso rendono l’abiura o la
conversione desiderabili per le anime cupide.
In queste condizioni, il pensiero gnostico si nasconde, ina non sparisce.
Nell’VIII secolo, in pieno Medioevo, gli Euchiti, una setta tra le altre,
persiste a tenerlo in vita. Dunque la tradizione gnostica perdura. Essi
ricusano il digiuno, rifiutano di lavorare, si sostentano mendicando, vivono
in comune, vagabondano, praticano la comunanza delle donne e dei beni.
Rifiutano ogni obbedienza a qualunque autorità. Renitenti, esercitano una
libertà radicale. Lontano dai villaggi d’Egitto dove il pericolo è grande, si
riuniscono in villaggi di montagna, in disparte. Nelle città, i vescovi
cristiani regnano incontrastati, dispongono della spada e della licenza per
farne uso. Senza mai privarsene. La gnosi passa dalle città alla campagna,
poi dai deserti orientali ai climi europei. I Fratelli e le Sorelle del Libero
Spirito riprenderanno la fiaccola.
Secondo tempo

UNA LUCE MEDIEVALE


 
 
 
 
 
1. Il terzo flagello
 
Siccome una catastrofe non arriva mai da sola, non appena il
cristianesimo si insedia al potere, vede la luce l’islam. Ai roghi e ai bracieri,
agli autodafé e alle stanze di tortura dei seguaci di Gesù si aggiunge ormai
la violenza di Maometto, guerriero spietato, misogino, pieno di odio per il
corpo, spregiatore dell’aldiquà in nome di un aldilà di cartapesta, inventore
di rituali la cui osservanza corrompe la vita quotidiana. Ebrei, cattolici e
musulmani cominciano una guerra fratricida tra loro benché vendano
globalmente lo stesso odio del mondo.
L’alto Medioevo degli ultimi gnostici corrisponde all’epoca in cui
Maometto abbandona La Mecca, dove subisce persecuzioni, e si stabilisce a
Medina. La notte del 16 luglio 622 segna l’inizio dell’era musulmana:
l'Egira - la Fuga. Benché profeta scelto da Allah, Maometto muore, senza
tanti complimenti, nel 632. In Francia imperversa Dagoberto, dalla terra
spuntano abbazie. Calma piatta filosofica. Stessa osservazione per le lettere
e le arti.
Bastano pochi anni all’islam per conquistare un numero considerevole di
paesi: alla morte del profeta, l’essenziale dell’Arabia è conquistata. Il Primo
califfo (632-651) travolge la Persia - l’attuale Iran -, l’Iraq, la Siria, l’Arme-
nia, l’Egitto, la Cirenaica - la Libia di oggi. Gli Omayyadi (651-750)
aggiungono una parte dell’Asia minore, il Maghreb - Tunisia, Algeria,
Marocco di oggi -, ma anche il Portogallo e la Spagna. Nel 719, i
musulmani varcano i Pirenei. Carlo Martello li ferma a Poitiers nel 732.
Damasco, Baghdad, Antiochia, Gerusalemme, Alessandria, Costantinopoli,
Orano, Saragozza vivono all’ombra dei minareti. Nonché Carcassonne,
Autun, Tolosa.
Venuti dal Nord, i Vichinghi si danno anch’essi alle conquiste a pieno
ritmo. Nell’885, sono in quarantamila ad assediare Parigi. Una consistente
somma di denaro li convince a lasciare il luogo e a proseguire verso sud.
Direzione Borgogna, saccheggiata e devastata. La costa aquitana, la
Bretagna, la foce della Senna, Tours, Rouen, la Normandia, l’Auvergne, la
Champagne, il Belgio, Reims subiscono la stessa sorte. Nel frattempo,
l’Europa viene sconvolta da pesti e carestie.
I cristiani continuano la loro espansione e le loro violenze. I valdesi, i
manichei, più tardi i catari, vengono bruciati col pretesto che seguono
dottrine eretiche. Nel 1324 Bernardo Gui redige il suo Manuale degli
inquisitori, completato da Nicolas Eymerich nel 1376. Viene definito
eretico chi si oppone a un articolo di fede (la Trinità o l’Incarnazione, ad
esempio), a una verità dichiarata tale dalla Chiesa (lo Spirito Santo non
procede dal Padre; l’usura non è un peccato), al contenuto dei libri canonici
(Dio non ha creato il cielo e la terra; Gesù non ha inviato discepoli a
predicare). Ossia: chi rifiuta i simboli della fede, i decreti della Chiesa e i
libri sacri. Come dire, eretico è chi si oppone al clero, ai preti, ai vescovi, al
papa.
La filosofia, inesistente dopo la cristianizzazione dell’impero, riappare
nel XII secolo, periodo florido, in cui officiano Abelardo, Pietro Lombardo,
Alain de Lille, Moisé Maimonide, Averroè. Gli scritti di Aristotele arrivano
in Occidente con gli Arabi, e la lettura della Metafisica, della Politica e dell
'Etica nicomachea consentono alla riflessione di emanciparsi un pochino
dall’ortodossia imposta dalla religione. Si osa decifrare la natura
studiandola direttamente senza passare per ciò che ne dicono le Scritture, si
avanza molto lentamente verso una laicizzazione del pensiero. Boezio di
Dacia afferma che la filosofia vale come fine in sé, senza l’obbligo di
sottomettersi alla teologia. Ruggero Bacone (XIII secolo) propone una
scienza sperimentale. Dante (xiii-xiv secolo) e Marsilio da Padova invitano
a separare spirituale e temporale.
Certo, questo pensiero resta idealista, spiritualista, fondamentalmente
cristiano. La forma implica discussioni che si svolgono nelle università,
esposizioni commentate, precisate, formattate e ricopiate dagli studenti. I
libri sono costosi - un volume costa l’equivalente di un mese e mezzo del
salario di un artigiano dell’edilizia -, circolano poco, raramente sono
affidabili, spesso sono difettosi, incompleti. L’insieme resta cristiano.
Neanche a parlare di ateismo, materialismo, epicureismo. L’ombra del rogo
minaccia chiunque deroga ai diktat della Chiesa e dei suoi ufficiali, sempre
assecondati dal delatore, dal vicino sicofante, dal primo che capita.
 
 
2. Una luce medievale
 
Tuttavia in questo clima ostile al libero pensiero, individui dalle identità
oggi quasi cancellate tengono alta la fiaccola di una filosofia edonista - che
passa cioè per il corpo, e non lo disprezza. Meglio: che ne fa lo strumento
della salvezza e della gioia. Questa corrente si chiama del Libero Spirito.
Evidentemente, la storia ufficiale della filosofia la ignora. Talvolta la cita
vagamente, ma per ricordare il nome dei meno radicali e riciclare il
movimento in un quadro intellettuale dell’epoca dove conta quanto altre
sensibilità - realismo, nominalismo, occamismo, averroismo, tomismo...
I    Fratelli e le Sorelle del Libero Spirito designano un certo numero di
uomini e donne che insegnano in una relativa clandestinità - c’è da capirli...
- per quattro secoli: dal XIII secolo di san Bonaventura al XVI secolo di
Rabelais e Montaigne. Il loro numero può essere considerevole -parecchie
migliaia -, le loro formazioni diverse - chierici o artigiani, letterati o
illetterati -, il loro raggio d’azione estremamente esteso - dall’Italia alla
Scozia, dalla Spagna degli Alumbrados ai Piccardi e Adamiti di Boemia,
passando attraverso i Beghini e i Begardi dei Paesi Bassi, quelli del Belgio
e altri libertini di Francia e Germania -, e i loro destini diversi - dal
tradimento che genera il collaboratore, all’eroismo discreto di una morte sul
rogo, passando attraverso un talento consumato per l’uso di una retorica che
permette di evitare o di liberarsi dalle grinfie dell’Inquisizione, per poi
ritornare alla vita normale.
Il    Libero Spirito designa la prima filosofia europea coerente. Là dove
altri propongono tesi diverse, molteplici, persino contraddittorie, il Libero
Spirito opera sì variazioni, ma sempre sullo stesso tema: l’essere-dio
dell’uomo, la sua divinità dopo la crocifissione di Gesù che ha riscattato i
peccati del mondo, di tutte e di tutti, e per sempre. Da quel giorno, nessuna
azione peccaminosa è possibile o pensabile. E' sufficiente la negatività della
vita quotidiana, dove già agisce con troppa efficacia. Non c’è bisogno di
aggiungerne altra, trasformando l’esistenza in valle di lacrime in cui si deve
espiare, dunque soffrire.
L’uomo si scopre dunque divino, le sue azioni e i suoi pensieri
coincidono con l’essere e il volere di Dio. Dio non si pensa come separato
dal reale, perché egli è il reale in tutte le sue modalità: un’individualità, le
sue parole, i suoi gesti, i suoi silenzi, una pietra, un albero, tutte le pietre,
tutti gli alberi, niente sfugge a Dio perché egli è Dio. Que-sto panteismo
annienta la morale, annichila i valori e rende caduchi i vizi e le virtù.
Conseguenze logiche: tutto ciò che avviene, avviene al di là del bene e del
male, in una logica che Nietzsche chiamerà «l’innocenza del divenire».
Alcuni difendono l’ascetismo, altri la povertà; qui si vanta l’indigenza, là
l’austerità. Ma ogni volta, si tratta di preparare l’accesso a un nuovo stato:
quello della perfezione dello spirituale ormai inaccessibile al male, alla
colpa, al peccato, al rimorso, al senso di colpa. Non si salva uno che già lo è
stato, a meno di sostenere che la prima salvezza è stata inefficace. Il Libero
Spirito combatte contro la repressione della vita, organizzata dalla Chiesa in
nome di una religione che odia la carne. Esso vuole invece la libertà del
piacere e del desiderio, vuole la liberazione del corpo.
 
 
3. Radici introvabili
 
Chiaramente, le fonti del Libero Spirito pongono dei problemi. Non
rimane nessun testo di cui si possa dire che costituisca un manifesto. Walter
d’Olanda una volta aveva scritto un’opera intitolata De novem rupibus
spiritualibus, considerata dai Beghini e dai Begardi un breviario del Libero
Spirito. Ma quelle pagine sono perdute... Restano allusioni, testi in cui una
parte della rara critica crede di individuare in questo o in quell’accenno
l’insegnamento di un Fratello o di una Sorella. Ad esempio, nel libro di
Master Eckhart Telle était soeur Katrei o in alcune pagine consacrate da
Martin Lutero Ai cristiani di Anversa, o ancora in quelle di Calvino
intitolate Contro la setta fantastica e furiosa dei Libertini che si chiamano
spirituali, in cui alcuni vedono degli attacchi in piena regola di questo o
quello, senza che alcun nome sia mai citato.
Ugualmente, la tendenza al segreto dei libertini spirituali impedisce che i
particolari dei loro pensieri o delle loro pratiche siano pervenuti fino a noi.
Il rischio che allora si corre - di finire immancabilmente sul rogo -
impedisce ogni pubblicità per l’attività eretica. Non ci si arrischia a rendere
pubblici tesi, idee e insegnamenti così sovversivi da scioccare sia il potere
temporale che quello spirituale - all’epoca, è vero, mescolati... La pratica è
settaria, come presso gli gnostici, e implica la cooptazione di membri sicuri.
I seguaci ricorrono del resto a segni di riconoscimento - anche in questo
come gli gnostici. Inoltre il fatto che i libelli all’epoca fossero scritti su
supporti fragili e degradabili, e la pericolosità di conservarli in quei tempi di
cristianesimo inquisitore, spiegano la scomparsa di fonti dirette.
Restano testimonianze indirette e talora poco sicure. Anzitutto le opere
che attaccano e condannano. Esse sono piuttosto accuse, e non sappiamo se
talora non dipingano a tinte fosche il quadro per fare l’apologia del
cristianesimo. Stessa osservazione per gli atti dei processi e altre minute
scritte sotto dettatura nel corso delle sedute di interrogatorio o di torture,
prima delle numerose condanne a morte cui vanno incontro i seguaci del
Libero Spirito. Che cosa pensare poi delle ritrattazioni di libertini passati
dall’altra parte e diventati collaboratori del potere cattolico? Le loro
confessioni contano più del loro coraggio?
 
 
4. Lo spirito di libertà
 
Da dove viene l’espressione “Libero Spirito”? Si trova anche “Novello
Spirito”, “Spirito di Libertà”, “Libertà per mezzo dello Spirito”, utilizzati
per indicare la stessa cosa. L’espressione deriva dalle invenzioni della
Chiesa, abituata a dare un nome a ciò che le sfugge per meglio
circoscriverlo e combatterlo. Il Manuale degli inquisitori di Eymerich
redige delle liste in cui compaiono Pneumato-machi, per i quali Padre e
Figlio sono Dio, ma non lo Spirito Santo; Papianisti, che credono che mille
anni dopo la sua morte il Cristo instaurerà nuovamente il regno degli Ebrei
con degli eletti; Pepuziti, che consacrano latte e non vino durante la messa,
al contrario degli Idroparastati, amatori d’acqua per i calici; Messaliniani -
o Euchiti, o Entusiasti -, che passano tutta la loro vita a pregare senza
nessun’altra attività; gli Audiani, per i quali la divinità ha forma umana;
Tascodrogiti, che venerano due puttane; Apo-tattici, che detestano le
persone sposate e chiunque possieda qualcosa in proprio. All’origine
dell’espressione -che non esiste quando la cosa ha inizio, nel XIII secolo,
ma man mano che il tempo passa -, si trova probabilmente la mania per le
classificazioni dei regimi autoritari, che vogliono dare un nome a ciò che
condannano.
Si può congetturare che il Libero Spirito si forgia sul modello dello
Spirito Santo. Il secondo qualifica la provvidenza divina nel mondo, è lo
spirito di Dio che rivela alle anime i segreti divini. Lo Spirito Santo
presiede al concepimento e al battesimo di Gesù. Più tardi, discende sui
discepoli riuniti nel cenacolo e si comunica ai nuovi credenti. Di modo che
si può inferire che, inversamente, il Libero Spirito manifesta la potenza
dell’uomo sul mondo, designa l’intelligenza e la ragione umane applicate al
reale, e spiega pertanto ciò che agli occhi degli altri appare un mistero.
Sempre lui legherebbe alla dottrina i nuovi aderenti... Un anti-Spirito Santo
che discende sulla terra e colloca ogni uomo al centro del mondo, alla
maniera di Dio.
Allo stesso modo, l’espressione non può non essere messa in relazione
con i movimenti millenaristi, specialmente quelli di Gioacchino da Fiore,
un mistico italiano del XII secolo, per il quale la storia ha già conosciuto
due epoche: la prima, l’età della legge e dell’Antico Testamento, è il tempo
di Dio Padre, da Adamo a Noè, durante il quale gli uomini vivevano
secondo la carne, nella paura e nella schiavitù; la seconda, l’età della grazia,
quella del Nuovo Testamento, è il tempo del Figlio: va da Eliseo alla
rivelazione del Cristo; durante questi secoli, gli uomini vivono secondo la
carne e lo spirito nella fede; una terza epoca, che deriva dialetticamente
dalle due precedenti, si apre col tempo del monacheSimo di san Benedetto:
il tempo dello Spirito Santo, quando si vivrà nella carità, nella libertà e
nell’innocenza rinnovata di tutta l’umanità. Il ritorno del profeta Elia
segnerà questa nuova epoca. Per Gioacchino da Fiore, il tempo del Figlio è
passato. La Chiesa spirituale sta per sostituire la sua versione temporale e
visibile. Queste tesi, esposte nel Libro di concordanza dell’Antico e del
Nuovo Testamento, producono presso i libertini spirituali una matrice nella
quale iscrivere la loro dialettica.
Fratelli e Sorelle del Libero Spirito aderiscono a questo schema di una
lettura poetico-razionale della Storia. Ai loro occhi il piano di Dio, più che
lineare, come insegna il cattolicesimo apostolico e romano, è ciclico. Il
tempo rovescia i punti di riferimento e permette di progettare l’abolizione
delle Scritture. Questa logica singolare produce e legittima un’inversione
dei valori: mentre la Chiesa insegna la povertà, la castità e l’obbedienza per
i membri del clero e per i suoi fedeli, i seguaci del Libero Spirito effettuano
una trasvalutazione. Perciò essi esaltano il lusso, la raffinatezza, i piaceri, la
sessualità assolutamente libera e il rifiuto di riconoscere qualunque autorità:
la legge degli uomini contro le leggi di Dio.
Infine, questo Libero Spirito interpreta liberamente le Scritture. Combatte
la Chiesa con le sue stesse armi, prelevando dai testi veterotestamentari o
dai Vangeli, o dalle Lettere di Paolo, brani con l’aiuto dei quali fonda il suo
edificio libertino. Le Beatitudini insegnano che i semplici di spirito
aumentano la rapidità del loro cammino verso il cielo? I seguaci del Libero
Spirito invitano ad abbandonare le Scritture e a ritrovare l’innocenza
primitiva. Paolo afferma che noi siamo il tempio di Dio? I Beghini e i
Begar-di, gli Amauriciani e i Loisti, e altri settari libertini, lo prendono in
parola e trasformano il corpo in ricettacolo del divino nell’uomo. Giovanni
insegna che nascere da Dio impedisce di essere macchiati dal peccato, dal
momento che in ciascuno resta sempre la traccia della divinità? Il Libero
Spirito conclude che la grazia rimane e che gli atti non contano nulla, mai.
9. Amalrico di Bène

e «la santificazione della vita ordinaria»

 
 
 
 
 
1. Già redenti...
 
Come afferma già nell’851 Giovanni Scoto Eriugena, il filosofo
irlandese, nel Della predestinazione: Dio non prevede né i peccati né le
pene, perché queste due finzioni non sono nulla; l’inferno non esiste, al
massimo indica i rimorsi che ci tormentano interiormente. Alcune noie con
la Chiesa, ovviamente, e il filosofo passa un certo tempo a farsi dimenticare
effettuando delle traduzioni in cui mostra la sua ortodossia. Quattro secoli
più tardi un uomo si richiama a queste tesi straordinarie. Si chiama
Amalrico di Bène, un villaggio vicino a Chartres dove era nato. Nel bigotto
XIII secolo, da queste ipotesi scotiste trae conclusioni radicali.
Ai suoi occhi, i cristiani hanno realmente sofferto col Cristo il supplizio
della Croce. Di modo che la loro presenza presso colui che si presenta come
l’agnello di Dio, il capro espiatorio sacrificato per cancellare i peccati dal
mondo, li ha trasfigurati in Perfetti ormai incapaci di peccare. Riscattati una
buona volta per tutte, non hanno ormai ragione alcuna per trasformare
l’esistenza in occasione di riscatto. Una vita di penitenza è del tutto
improponibile, è un non-senso, una contraddizione. Non si paga due volte
un debito già onorato.
Perciò Amalrico rifiuta i sacramenti. A che cosa infatti può servire il
battesimo, che si propone di contrastare il potere del male originato dalla
colpa commessa nel Paradiso? Stessa osservazione per l’eucarestia: recitare
di nuovo simbolicamente la scena del sacrificio non ha nessun senso.
Neanche l’estrema unzione, amministrata al morente per liberarlo dalle
colpe prima di affrontare il giudizio di Dio. Stessa cosa con la cresima degli
adolescenti, il matrimonio degli adulti, la penitenza dei credenti o l’ordine
del monaco votato a una vita di contemplazione o di azione rivolta a Dio.
Questi sette sacramenti, Amalrico li ricusa, li rifiuta.
Da qui una lotta spietata contro i professionisti della Chiesa, in primo
luogo i sacerdoti, guardiani della legge cristiana nella vita quotidiana, ma
anche contro la gerarchia cattolica, fino al vertice: il papa. Il Libero Spirito
constata che il clero domina il popolino, la povera gente, tramite finzioni
che gli permettono di giustificare le punizioni, la servitù, la schiavitù, il
dominio. Il peccato genera il senso di colpa, che tormenta il corpo e porta
all’odio di sé. Dio non somiglia affatto a una figura antropomorfica, non
chiede e non esige, non punisce e non condanna, non odia e non conosce lo
sdegno.
 
 
2. L’Uomo è Dio
 
Infatti il Dio della Chiesa cattolica è stato costruito per legittimare
l’impero sulle anime, dunque sui corpi. Lettore di Scoto Eriugena, chierico,
docente di filosofia e teologia a Parigi, conoscitore dei classici della
filosofia, Amalrico di Bène insegna il Dio dei filosofi, assolutamente non
quello di Abramo o di Giacobbe. La sua definizione di Dio rientra in ciò
che, in seguito, si chiamerà panteismo. Quello di Spinoza non è lontano -
quello degli atei che lo definiscono una pura finzione nemmeno... Dio è
dappertutto, ma da nessuna parte in particolare; egli è in se stesso, ma anche
altrove; compie tutto in sé, ogni momento del reale coincide con lui.
Dio è dunque in ogni cosa, perciò è corruttibile, ma anche eterno, al
tempo stesso. Poiché tutto muore ma anche rinasce, sparisce nella sua
complessione, ma riappare sotto altra forma, in un’altra struttura. Il corpo
del Signore, per esempio, non è scomparso definitivamente dopo la sua
morte, poiché è riapparso in una forma reale, a cui è integralmente unito.
Vivere significa immancabilmente vivere in essa. Impossibile sfuggirvi. Lo
spirituale conosce questa verità. E, forte di questo sapere, vive riconciliato
con essa, con gli altri, col mondo, perché ciò che egli è e ciò che egli fa è
Dio. Questa visione del mondo porta a una totale eliminazione del clero: a
che serve? Nessuno deve mostrare la via, indicare la direzione. Basta
l’esistenza. Essere al mondo significa essere in Dio. Di modo che per essere
in Dio basta essere al mondo - e non obbedire alle ingiunzioni papali.
In una logica panteista, non esiste separazione tra il mondo, Dio e gli
uomini. Il nome dell’uno corrisponde a quello degli altri: la natura è Dio;
gli uomini sono la natura; Dio sono gli uomini. Esiste una sola sostanza, il
reale si riduce alle modificazioni, alle variazioni di questa sostanza unica.
La stoffa delle cose non si distingue affatto da quella di Dio. Come si
potrebbe allora giudicare, condannare, mandare all’inferno o al paradiso,
agire come potenza gelosa, cattiva o collerica?
 
 
3. Decodificare le allegorie
 
Da qui una lettura del cristianesimo che implica la decodificazione delle
allegorie. Le Scritture parlano in maniera oscura, polimorfa. Il Libero
Spirito non nega l’inferno o il paradiso in quanto tali, ma rifiuta le
definizioni cattoliche, apostoliche e romane. L’inferno? Certo che esiste, ma
è una metafora dell’ignoranza, certamente non una geografia ctonia dove
bruciano per l’eternità esseri che espiano i loro peccati. Non sapere, questa
è la sua definizione. Il paradiso? Certo, ma non è affatto un luogo perduto,
suscettibile di essere un giorno ritrovato, dopo macerazioni, sofferenze e
salvezza. In compenso, esso coincide con la conoscenza della verità. Perciò
l’individuo che non sa ciò che insegna il Libero Spirito vive all’inferno, al
contrario dell’iniziato che, affrancato tramite il sapere della setta, conosce il
paradiso.
Niente paura, dunque. Il castigo eterno non esiste; né la salvezza
definitiva. Il cielo è una finzione. La sola realtà che conta? La terra, qui e
ora. La tristezza, la paura, l’angoscia, il rimorso, la disperazione e altre tristi
passioni non hanno alcuna ragion d’essere. A che servono? Di che cosa si
deve aver paura? Che cosa si deve temere? Per quale motivo essere tristi?
Per quale catastrofe disperarsi? Il Libero Spirito elimina le occasioni
cristiane di rovinare la propria vita con delle finzioni. A modo suo, senza
citarli esplicitamente, Amalrico di Bène prende posizione per Democrito
che ride contro Eraclito che piange. Essere e vivere in Dio deve condurre
piuttosto al riso che alle lacrime. Persistenza della tradizione dei filosofi che
ridono.
La resurrezione non va intesa nel senso della Chiesa ufficiale, ossia come
resurrezione della carne, vita eterna, corpo glorioso destinato
all’immortalità e alla beatitudine, soltanto per coloro che l’avranno meritato
dopo una vita di penitenza, di sofferenza e di dolore. Essa non si realizza
dopo la morte, ma durante la vita. Anche qui reminiscenze gnostiche: la
salvezza si realizza quaggiù. Iniziato e affrancato, guidato dai seguaci
sapienti, il libertino spirituale conosce ciò che è avvenuto allo stesso Cristo,
del quale il Libero Spirito afferma che non è mai resuscitato se non su
questo terreno simbolico: morto rispetto alla sua vecchia esistenza, ma
ritornato alla vita grazie alla conversione dovuta al suo incontro col
discorso terapeutico.
 
 
4. Una gnosi medievale
 
Chiaramente, le tesi gnostiche si ritrovano nel pensiero di Amalrico di
Bène. In particolare l’idea che basta la grazia, che la salvezza è assicurata
una buona volta per tutte dalla morte di Cristo e che, forti di questo sapere,
bisogna dedicare il tempo della propria vita a rallegrarsi piuttosto che a
lamentarsi. Poiché l’esistenza è allora posta sotto il segno della terza età -
quella dello Spirito Santo -, ogni azione, ogni parola, ogni silenzio
manifestano la nostra divinità. Non si sfugge a questa evidenza: il nostro
percorso sulla terra è una delle modalità dell’esistenza di Dio.
Poiché questa nuova epoca si pone sotto il segno della carità, il Libero
Spirito propone la sua lettura. Anche in questo caso decodificazione. La
carità cristiana implica amare il prossimo come se stessi per amore di Dio.
Chi è il prossimo? L’Altro nella sua differenza radicale, nella sua alterità
assoluta. Certo. Ma non chi è amabile, troppo facile... Il prossimo
caratterizza il non-amabile, anzi il detestabile. Il comandamento di amare
l’altro che già si ama -un padre, una madre, i figli, i fratelli e le sorelle, gli
amici... - non presenta alcun interesse. Che cosa sarebbe un invito al dovere
di ciò che già si pratica? In compenso, amare il proprio carnefice, il
padrone, il persecutore, ecco una reale occasione per praticare l’amore per il
prossimo.
Nel Libero Spirito non si prende l’altro in ostaggio per guadagnare il
paradiso, non si pratica la carità o l’amore per il prossimo per garantirsi la
salvezza, perché si è già salvi. Nella logica della grazia e del riscatto dei
peccati assicurato per l’eternità, informati dalla tendenza dei seguaci a
decodificare ciò che percepiscono come allegorie, bisogna definire la virtù
teologale in maniera particolare: un libertino caritatevole pratica sì l’amore
per il prossimo, ma prioritariamente l’amore del proprio corpo. Il
libertinaggio implica la scelta delle gioie dell’esistenza contro le penitenze
cattoliche. La gioia del corpo in primo luogo.
Dio risiede nei piaceri della natura e non nell’autorità che li reprime. Il
dono della possibilità di godere equivale a un invito a farne uso. A che cosa
somiglierebbe un Dio che desse agli uomini e alle donne un potere esigendo
che non vi facciano ricorso, se non a un’istanza perversa e castrante?
L’edonismo implica l’obbedienza, per quanto è possibile, a un movimento
che ci impone la Natura - l’altro nome di Dio. La sessualità deriva dalle
forme assunte dal divino nel mondo.    
Quando queste relazioni sfociano in una procreazione, il battesimo non
serve. A parte il fatto che i sacramenti non servono a nulla nella logica di
questo panteismo edonista, non c’è nulla da farsi perdonare nel fatto di
intrattenere relazioni fisiche e generare al di fuori di vincoli come il
matrimonio - altra finzione costruita dal cristianesimo per rovinare la vita
degli uomini. Ogni essere concepito tramite l’intermediario di un Fratello o
di una Sorella del Libero Spirito deriva direttamente dalla grazia che lo
dispensa dal ricorrere alle favole vaticanesche.
 
 
5. L’odio cristiano
 
E' chiaro che le tesi di Amalrico di Bène non possono rallegrare i cattolici
apostolici romani. La pratica della carità e dell’amore per il prossimo ha dei
limiti... Nella Chiesa si ama l’Altro, se è lo Stesso e ci somiglia, se pensa
come noi e difende le nostre idee. Un filosofo il quale proclama che dopo la
morte non c’è più nulla; che la grazia e le azioni contano zero; che il clero e
i servi della Chiesa impediscono di vivere, uccidono la vita; che si deve
praticare liberamente la sessualità; che il corpo funziona come la grande
ragione; che la lettura dei testi implica la libertà e non l’obbedienza ai
dogmi; che i sacramenti sono finzioni; che la necessità impone la sua legge;
e che di conseguenza non le si può sfuggire, per quanto ci si sforzi -
quest’uomo non può che dar fastidio alla Chiesa... Giovanni il Teutonico
afferma in uno dei suoi Sermoni che gli amauriciani sono piuttosto discepoli
di Epicuro che di Cristo... A verbale!
I discepoli di Amalrico di Bène si contano a migliaia. Certo, non tutti
sono lettori di Scoto Eriugena o delle Scritture. Tra di essi si distinguono
molte persone modeste, parrocchiani privi di grande cultura. Nel 1204 la
dottrina viene condannata dal papa. Amalrico di Bène muore nel 1207. Il
segretario del filosofo viene consegnato alla giustizia da un delatore che
rivela anche una quindicina di altri nomi. Dieci degli accusati periscono sul
rogo eretto dai cattolici il 19 dicembre 1207. Quattro vanno in prigione,
dove passeranno il resto della loro vita. Le autorità reiterano la loro
condanna nel 1209 e nel 1211. Posto sotto accusa dopo la morte, Amalrico
viene dissotterrato. Le sue ossa vengono portate fuori dal cimitero del
monastero di Saint-Martin-des-Champs, bruciate e disperse tra i rifiuti.
Versione medievale dell’amore per il prossimo.
10. Willem Cornelisz d’Anversa

e «il peccato contro natura»

 
 
 
 
 
1. La salvezza per mezzo della povertà
 
Cornelisz d’Anversa appartiene al basso clero, quando rinuncia alla
prebenda e fonda un movimento di povertà volontaria. Il cristianesimo
primitivo si pone dalla parte dei poveri. Finché subisce le persecuzioni,
riguarda nel complesso gli emarginati della società. Quando, grazie alla
ricchezza e ai palazzi, arriva gradualmente a detenere il potere pubblico in
maniera incontrastata, la Chiesa continua sì a vantare i meriti della povertà,
ma per gli altri... Le promesse eristiche di riservare il primo posto in cielo
agli umiliati degli ultimi posti sulla terra valgono per gli altri, non per i
prelati.
Se il regno dei cieli appartiene ai poveri, nessuno dubita che in Vaticano
si conti un numero considerevole di dannati. Willem Cornelisz, da parte
sua, vive tra gente modesta, tessitori nel caso specifico. Forte di questo
interessante paralogismo - che i ricchi e i potenti del Vaticano rischiano di
occupare l’ultimo posto in cielo... -, insegna che solo la povertà assicura
una grazia e una perfezione che rende possibile ogni azione. La povertà
pone al di là del bene e del male. Di fatto, i religiosi saranno tutti dannati,
senza eccezione.
Willem Cornelisz critica le indulgenze, che permettono alle persone di
Chiesa, in cambio dei doni dei peccatori per le buone opere, di cancellare i
peccati e di comprare un’ipotetica santità. Tutto ciò che si compie nella
povertà sfugge alla morale. Così - genealogia del “gesto individuale” degli
anarchici del XIX secolo - il povero che santifica la povertà volontaria può
senza vergogna e senza timore dei castighi, in terra come in cielo - che non
esiste... -, rubare a un ricco per far fronte ai propri bisogni.
 
 
2. Proprietario del proprio sesso
 
Così come il peccato è assolto dalla povertà, la sessualità libera trova la
sua legittimazione nello stato di privazione del libertino. Privo di tutto,
ognuno dispone della propria sessualità e dell’uso libero del proprio corpo.
Willem afferma che una donna può darsi senza peccare se non possiede
nulla. Le Beatitudini lo insegnano: la povertà è condizione sufficiente a
guadagnare il cielo - e il cielo si trova esattamente sulla terra.
Non stupisce, allora, che la Chiesa non ami le facezie del seguace del
Libero Spirito! Legittimare il furto, anzi una specie di prostituzione, col
pretesto che le Scritture insegnano l’eccellenza della povertà, è un richiamo
all’ordine che le persone della legge cristiana non possono ascoltare senza
battere ciglio. Quando Willem Cornelisz muore nel 1253, l’anno in cui
Robert de Sorbon crea la futura Sorbona, il cadavere non basta. Quattro
anni più tardi, i cattolici riesumano il cadavere e lo bruciano. Ancora un
altro...
11. Bentivenga da Gubbio

e «l’occupazione infame»

 
 
 
 
 
1. La santa e l’eresiarca
 
Bentivenga da Gubbio, un italiano del XIII secolo, aderisce inizialmente
a un movimento francescano. Gli adepti di Francesco d’Assisi (che parla
anche agli uccelli e ai pesci, ma sa anche rimettere al loro posto i grandi di
questo mondo) praticano la carità e la povertà volontaria. I frati minori
predicano il vangelo altrettanto bene nel castello feudale che nella
stamberga del contadino povero. Bentivenga proviene da questo ambiente
spirituale dove penetra probabilmente il Libero Spirito svevo, assai efficace
a quell’epoca.
Bentivenga si è allontanato dall’insegnamento dei francescani, a
giudicare da una conversazione riportata tra lui e Chiara di Montfaucon nel
corso della quale, falsamente ingenuo, interroga la futura santa su questioni
di filosofia e di religione. Egli le confida alcune delle sue tesi: la possibilità
per l’uomo di fare ciò che vuole; l’inesistenza dell’inferno; il rischio per
l’anima di perdere il desiderio di questa vita. Tre bombe teologiche dalle
conseguenze rilevanti.
Provocando Chiara, Bentivenga le chiede se un uomo che conosce
carnalmente una donna fuori del matrimonio e al solo scopo del mutuo
“godimento”, può il giorno dopo ricevere la comunione. La Chiesa cattolica
apostolica e romana risponde formalmente di no: secondo la sua dottrina,
entrambi si trovano in stato di peccato mortale e rischiano la dannazione
eterna in caso di morte senza pentimento. Bentivenga afferma invece che
Dio potrebbe far sì che il peccato non esista. Detto altrimenti: che Dio può
andare contro la Chiesa, e che dunque dispone del potere di manifestare una
forza contraria a quella dell’autorità ecclesiastica.
 
 
2. L'impeccabile apatico
 
Tutto, assolutamente tutto ciò che avviene nel mondo, dipende da Dio. Le
foglie che cadono dagli alberi o la notte d’amore di due amanti. Né la
caduta delle foglie né le carezze degli innamorati dipendono dalla morale,
dalla colpa, dal peccato, dal bene o dal male. Gli uni obbediscono alla legge
della caduta dei corpi, gli altri alla logica delle carni. Né Chiara la santa che
si pretende ispirata dallo Spirito Santo, né Bentivenga il seguace del Libero
Spirito scelgono di essere ciò che sono o di fare ciò che fanno. Né
colpevoli, né vittime, essi si muovono al di là del bene e del male. Ciò che
avviene obbedisce alla volontà di Dio, il quale non permetterebbe qualcosa
di cattivo. Solo l’invenzione monoteista del libero arbitrio può rendere
l’uomo responsabile, dunque colpevole, di avere preferito una cosa al suo
contrario. Intanto, il panteismo impedisce questa macchinazione diabolica.
Bentivenga insegna l’assenza di rimorsi, l’innocenza del divenire, il
giubilo senza preoccupazione di minacce cristiane. Per fare ciò, avanza due
tesi essenziali. La prima vanta i meriti dell’apatia: non c’è bisogno di
partecipare alla sofferenza del Cristo o a quella del prossimo; preferiamo
l’esercizio della serenità nel compiere ciecamente la volontà di Dio in tutte
le sue forme. Meglio: godiamo di questa sottomissione alle forze del
destino. La seconda tesi insegna l’impeccabilità: la grazia e la carità
consustanziali agli uomini li pone fuori del peccato: seconda lezione,
dunque, agire senza complessi, Dio scrive la nostra storia. Bere, mangiare,
copulare, sono tutte attività indifferenti.
Non si conversa impunemente con Chiara di Montfaucon, divenuta santa
tramite la grazia della Chiesa cattolica per un certo numero di virtù, certo,
ma anche probabilmente per quella di aver rivelato il nome di Bentivenga
da Gubbio all’inquisizione italiana, che ne fece buon uso, poiché l’estate
1307 Bentivenga entra in prigione a Firenze per passarvi il resto dei suoi
giorni, in compagnia di sei compagni di sventura. L’uomo del Libero
Spirito, che la riteneva una sempliciotta, stupida, assolutamente ignorante in
tutto, non avrebbe dovuto credere che potesse manifestare un grammo di
intelligenza e di carità cristiana.
12. Walter d’Olanda

e «la libertà suprema»

 
 
 
 
 
I costumi di Adamo
 
Walter d’Olanda professa nel XIV secolo a Magonza e a Colonia. A lui si
deve un’opera, perduta, considerata una sintesi dell’insieme delle tesi del
Libero Spirito - De novem rupibus spiritualibus, già citata. Egli predica alle
persone semplici nella loro lingua. Scomparsa ogni traccia, difficilmente
può essere ricostruito il suo modo d’agire presso i fedeli, il cui numero
probabilmente era considerevole. Si dice sia stato capo dei Fraticelli e dei
Lollardi, seguaci del movimento libertino.
Organizza banchetti orgiastici, una specie di parodia della Cena e della
messa in serate segrete e notturne. Un Cristo vestito in maniera sontuosa,
coronato di un diadema e accompagnato da una Maria raggiante. Entrambi
costituiscono la coppia primordiale che celebra il ritorno all’innocenza
edenica. Per fare ciò, un predicatore nudo dà l’esempio e invita l’assemblea
a spogliarsi in segno di restaurazione dell’ordine adamita. Seguono orge
filosofiche nella debita forma, con molti canti e moti di allegria! (Alcuni -
storici d’arte - considerano le tele di Hieronymus Bosch come allegorie o
figurazioni di queste cerimonie adamitiche. Senza prove realmente
convincenti. Per esaltarle o per criticarle? È difficile immaginare il
cristianissimo Filippo II collezionista sfrenato delle pitture di un eretico).
I cattolici non amano molto questa scenografia gioiosa e lo fanno capire a
Walter mandandolo al rogo nel 1322 con una cinquantina di vittime,
annegate nel Reno o bruciate anch’esse sul rogo. La repressione continua.
13. Giovanni di Brno

e «il nichilismo integrale»

 
 
 
 
 
1. Un Sade medievale
 
Tra il XIII secolo e l’inizio di quello successivo alcuni filosofi riescono a
ottenere attestati di nobiltà! Nella tradizione filosofica e teologica, san
Bonaventura viene considerato il dottore serafico, Duns Scoto il dottor
sottile, Guglielmo di Ockham il dottore invincibile e Ruggero Bacone  il
dottore ammirabile... Si potrebbe dire di Amalrico di Bène che col suo
panteismo immorale egli eccelle come dottore edonista, di Willem
Cornelisz d’Anversa che col suo invito al gesto individuale - idea che più
tardi sarà di Ravachol... - funziona in modo straordinario come dottore
anarchico, di Bentivenga da Gubbio che splende come dottore apatico che
esalta l’indifferenza nei confronti della negatività del mondo, di Walter
d’Olanda che incarna il dottore innocente... ma indiscutibilmente Giovanni
di Brno personifica il dottore sadico - se mi si consente l’anacronismo! Egli
formula infatti fino in fondo le conseguenze di un panteismo naturalista e,
di fatto, materialista.
Giovanni e Alberto di Brno, suo fratello, sono vissuti per vent’anni in un
gruppo di povertà volontaria a Colonia e otto anni nella Libertà dello
Spirito. Attaccato dal potere ecclesiastico, Giovanni abiura, entra nei
domenicani e collabora a quella che è la loro specialità, la persecuzione dei
suoi vecchi compagni libertini. A questo prezzo sfugge al rogo. La Storia
conserva di lui una specie di confessione in cui dà i particolari della dottrina
del Libero Spirito.
Vi si scopre la tesi di un panteismo radicale e di uno sfruttamento
oltranzista delle conseguenze di questa opzione metafisica: un essere al
mondo amorale - più che immorale - il cui comportamento, pensiero e
azione funzionano al di là del bene e del male. Giovanni di Brno - un tempo
Brünn, oggi una città della Repubblica Ceca - pone le basi di un solipsismo
ontologico, di un nichilismo integrale e di una temporalità posta sotto il
segno assoluto dell’innocenza che si avverte in Sade o in Stirner, i radicali
del pensiero edonista.
 
 
2. Tradizione del Libero Spirito
 
Come bisogna procedere per vivere nel Libero Spirito? Giovanni di Brno
dà le modalità d’impiego. Anzitutto vendere tutti i propri beni, disfarsi di
ogni legame materiale, compresa la moglie - inclusa tra i beni. Una
precisazione comunque: se ci si intende bene con lei, l’interesse ci obbliga a
non separarcene. Ma solo l’interesse. Questo distacco si accompagna a una
distribuzione delle proprie ricchezze ai poveri. La privazione si giustifica se
è totale.
La condizione di indigenza avvicina alla perfezione, stato che si
perfeziona prendendosi gioco dei preti, del clero e dei diktat della Chiesa.
Essere privi di averi libera l’essere e gli conferisce un grado di spiritualità
superiore al normale. La povertà volontaria comune ai discepoli di
Francesco d’Assisi e ai mendicanti volontari definisce in un certo modo
quest’epoca del Medioevo. A produrre questa reazione tra gli esclusi della
macchina sociale ed economica sono l’incipiente nascita del capitalismo,
l’esplodere delle ric-chezze private, il dispendioso tenore di vita dei membri
del clero, di commercianti e di proprietari, l’ascesa al potere del denaro che
risolve ogni problema.
Il postulante deve sollecitare la sua ammissione presso un collegio di
seguaci del Libero Spirito. E' la prova che a decidere non è il singolo, ma
solo la maggioranza. Autogestione e comunitarismo libertario... Allora si
costituisce una coppia, che implica una relazione tra maestro e discepolo. Si
impara dall’altro conformandosi alle sue azioni: fare ciò che egli fa, dire ciò
che gli dice, accompagnarlo in tutto e per tutto. Vestito di una tunica
rattoppata, la testa nascosta sotto il cappuccio, la mendicità è l’attività
quotidiana.
A prezzo di questa ascesi, la libertà diventa integrale: mangiare e bere
quando lo si desidera; avere relazioni sessuali quando se ne ha voglia;
salumi, vino e donne si consumano e si frequentano indifferentemente
durante e fuori l’ufficio divino. Quando si fa sentire il bisogno di dormire, si
dorme, poco importano il luogo, le circostanze, le occasioni.
Per evitare le noie, la persecuzione, il rogo, la prigione, i seguaci vivono
nascosti. Come certi gnostici dall’Antichità al Basso Impero. I Fratelli e le
Sorelle del Libero Spirito dispongono di un codice erotico per indicare con
discrezione la possibilità di un contratto edonista. La Sorella mette un dito
sul naso del Fratello? Lo invita a entrare a casa sua. Si tocca la testa? Il
Fratello entra in camera e prepara il letto. Si tocca il petto? Sale sul letto e
prodiga le prime carezze. Per il seguito, non c’è più bisogno di segni. In
questo gioco amoroso, l’iniziativa viene dalla donna, la qual cosa
testimonia di una specie di cortesia libertina in cui non si chiede al bel sesso
di svolgere un ruolo secondario e passivo come nel Medioevo cristiano -
misogino, fallocrate e violento verso il loro corpo. Ovviamente, di queste
pratiche non ci si confessa in quanto non sono colpevoli. Il rimorso è
bandito - in ogni caso non ha alcuna ragion d’essere.
 
 
3. L’assassinio, una delle belle arti...
 
Fin qui, nulla di strano: un seguace qualsiasi del Libero Spirito. Grandi
linee, solite tesi, dottrina classica. Ma Giovanni di Brno si spinge oltre. Non
sappiamo se è animato dal desiderio di formulare idee della ragione
eccessive, allo scopo di convincere della fondatezza di ogni azione
legittimata e giustificata dalla grazia; o se, come tutti i rinnegati in
condizione di spergiuro, esagera sul conto della sua setta per meglio (far)
credere che viene da lontano, e che quindi il suo tradimento sembra tanto
più meritorio...
A che cosa somigliano dunque questi eccessi? L’elogio del furto per
esempio - già potenzialmente legittimato, come il resto d’altronde, presso
gli altri seguaci del Libero Spirito. Esempio: se troviamo del denaro per
terra, ci appartiene; anche se si fa avanti il proprietario, abbiamo il diritto di
non restituirglielo; se persiste, domanda, chiede, esige, possiamo resistergli
con ogni mezzo; se recrimina, se si arriva agli insulti, o addirittura alle
mani; se non lascia la presa, l’omicidio è legittimo. La grazia, sempre la
grazia... Nei confronti del movimento panteista delle cose, la carità equivale
al crimine, poiché tutto avviene al di là del bene e del male.
Altro caso tipico: la sessualità che coinvolge almeno un membro del
Libero Spirito è assolutamente libera e senza colpa. Sfocia nel
concepimento di un bambino? Lo si può sopprimere alla nascita. La povertà
giustifica l’infanticidio che non è un peccato più di quanto non lo sia tenere
il bambino per allevarlo. Non c’è bisogno di confidarsi col prete,
confessarsi o provare rimorsi. La libertà perfetta non incontra nessun
ostacolo che la potenza individuale non possa superare. L’affermazione
integrale di sé manifesta la libertà integrale, che è anche il potere totale di
Dio. Giovanni di Brno spinge all’estremo le conseguenze etiche di un
panteismo integrale. Non c’è un Dio separato, né una morale inferiore o
superiore a un’altra, né del bene distinto dal male, dunque niente istanza
regolatrice trascendente, niente giudice, niente senso di colpa: tutto ciò che
avviene si iscrive secondo il puro regno della necessità. Niente libertà,
niente libero arbitrio, niente scelta, niente responsabilità, niente colpa o
senso di colpa.
Ciò che avviene non può non avvenire e dipende da una logica cieca:
essa regola il movimento degli astri e quello degli uomini; decide del
tropismo delle piante e delle parole umane; implica che niente esiste al di
fuori della natura, del reale, di ciò che è, di modo che “Dio” indica
l’insieme dell’universo visibile e invisibile, conosciuto e sconosciuto. La
conservazione del nome di “Dio”, il suo uso a questi fini nichilistici,
pongono in una prospettiva dove tutto equivale perché niente vale. Il Dio da
qualche parte -teista o deista - giudica, rende la vita impossibile con la
castrazione, il divieto, la legge, presenti dappertutto; il Dio da nessuna
parte, e quindi ovunque - panteista -, produce lo stesso effetto, ma in virtù
di altre considerazioni: sotto il suo regime ontologico, l’invivibile
imperversa in mancanza di principi e di leggi in grado di determinare le
regole del gioco per costruire il vivibile. Il Libero Spirito enuncia un’aporia
risolta da Spinoza - buono e cattivo al di là del bene e del male - ma
riattualizzata dall’edonismo feudale del marchese de Sade.
14. Heilwige di Bratislava

e «lo spirito sottile»

 
 
 
 
 
1. Beghine libertine
 
Le comunità di begardi e beghine vedono la luce all’inizio del XII secolo.
L’etimologia di Littré rimanda a “pregare, mendicare” - l’attività principale
e originaria di queste comunità. Altri a un’omofonia con gli albigesi. Niente
di certo da questo lato... Se l’origine del termine sembra incerta, la cosa,
invece, designa una comunità di uomini -per i begardi - o di donne - per le
beghine - uniti da un desiderio di povertà volontaria praticata all’interno di
gruppi laici benché parzialmente cristiani. La fioritura di beghinaggi nei
Paesi Bassi, dove la ricchezza di alcuni produce la povertà di tutti gli altri,
manifesta il ricorso alle soluzioni contrattuali già esaltate dagli epicurei.
Queste comunità raccolgono i mendicanti, i diseredati, i disoccupati, le
vittime di un sistema duro con i poveri. La volontà di praticare la carità si
accompagna nei primi tempi a una volontà di evangelizzare e di
catechizzare. Poveri analfabeti vivono accanto a vedove o a ricchi tentati
dalla vita di povertà volontaria. Nelle città, queste associazioni conoscono
un successo considerevole. Mille persone a Parigi nel 1250, altrettante a
Cambrai, il doppio a Colonia.
I vescovi si occupano di questi beghinaggi. Tengono sotto costante
osservazione questi gruppi non legati da vincoli di castità o di obbedienza a
un ordine monastico. La gente di Chiesa non ama molto che, nei
beghinaggi, si accolgano le persone modeste nei giardini per seppellire le
loro spoglie, perché così perdono il prezzo dell’inumazione, perdita che
arriva a somme considerevoli. Il commercio dei morti, l’amore per i
cadaveri e la passione per il denaro, alimentati dalla Chiesa cattolica e
romana, fanno sì che essa trovi nella pratica caritatevole e gratuita dei
begardi materia di risentimento e animosità. Come minimo...
Tanto più che, oziosi, poveri, stando in gruppo e vivendo insieme senza
distinzione di sesso ventiquattr’ore su ventiquattro, senza la legge religiosa
sopra le teste per impedire loro il libero uso di sé e più particolarmente del
loro corpo, fanno la loro comparsa pratiche libertine che suscitano
pettegolezzi. Il Libero Spirito imperversa in numerose comunità e, in base
al principio di una salvezza assicurata dalla povertà volontaria, invita a
vivere la vita sulla terra e a creare fin dal presente le condizioni di
un’esistenza gioiosa, ludica e libera da ostacoli.
 
 
2. Lo spirito sottile dopo l’ascesi
 
Una di queste comunità olandesi del XIV secolo si chiama Unione delle
Figlie di Udillynde. Tra le Sorelle e i Fratelli del beghinaggio di
Schweidnitz, Heilwige di Bratislava. Un gruppetto di esse, denunciato da
sedici sorelle, viene accusato dai domenicani di vivere secondo il Libero
Spirito, ed è chiamato a risponderne presso l’inquisitore, assistito da dieci
chierici. Il colloquio si svolge nel refettorio. Ci restano le minute, che
permettono di conoscere i motivi della condanna: preferiscono il libro della
vita - così dicono - alle pelli di vacca su cui sono consegnate le Scritture.
Le beghine praticano l’ascesi e la mortificazione. Anche la povertà.
Cambiano i loro vestiti con cenci. Si battono fino al sangue con fruste le cui
corregge in cuoio terminano con dei chiodi. Una per volta, si stendono sulla
soglia della propria camera per farsi frustare e umiliare dagli altri. Si
privano del cibo, dell’acqua e del sonno. Questi metodi aprono la via a uno
stato di perfezione nel quale tutto diventa possibile, in quanto compiuto
nella logica della purezza realizzata.
Godimento nella sofferenza, masochismo, direbbero gli psicanalisti.
Negatività necessaria all’epifania di una positività, spiegherebbero i
dialettici con un’infarinatura di teologia. Conservazione e superamento del
cristianesimo, che invita sì a detestare il corpo, ma propone di restare in
questo stato di odio senza sfociare nella radura di un godimento possibile,
di una gioia legittima, di una beatitudine pensabile. L’ascetismo si rivela,
più che un fine, un mezzo - simile quasi alla trance sciamanica - in grado di
rivelare una stasi, se non addirittura un’estasi.
Successivamente, i begardi del Libero Spirito salgono molto in alto, in
proporzione alla loro discesa in basso. Più essi gustano l’odio di sé, più
sono in grado di conoscere il godimento di sé. E l’impunità. Poiché questa
preparazione ascetica trasfigura la carne in cera vergine nella quale possono
iscriversi tutti i godimenti possibili e immaginabili. Hanno avuto fame, sete,
freddo? La loro libertà di mangiare, bere e vestirsi con abiti magnifici
diventa illimitata. Hanno sofferto, versato il sangue? Il loro diritto al piacere
viene d’ora in poi giustificato.
Certo, il puro e semplice soddisfacimento non basta. L’eccesso dà la
misura: mangiare sì, ma carne a Pasqua, è meglio; bere, evidentemente, ma
alcol, in eccesso; andare sì a letto, ma con chi ne hanno voglia, quando ne
hanno voglia, perché il numero delle combinazioni - e le loro qualità - non
contano nulla: con begardi, con donne, con gente di fuori, ricorrendo sì alle
vie naturali o a quelle di Sodoma, ma durante gli uffici, durante la stessa
predica, il piacere si decuplica. Così lo spirito sottile, fortificato dall’ascesi,
genera la perfezione e lascia lontano dietro di sé lo spirito rozzo in cui
marcisce la maggior parte degli uomini.
15. Giovanni Hartmann d’Amtmanstett

e «la vera beatitudine»

 
 
 
 
 
1. L'innocenza del divenire
 
Conosciuto col nome di Giovanni il Tessitore, questo adepto del Libero
Spirito compariva davanti all’inquisitore il 26 dicembre 1367 a Erfurt. Si
ignorano i dettagli, ma questo incontro col provveditore di roghi nominato
da papa Urbano V, amico dell’imperatore, porta il filosofo libertino qualche
tempo dopo a perire tra le fiamme per le sue idee, forse a causa di un nuovo
processo. Uno di più. Una quarantina di altri accompagnano Giovanni il
Tessitore davanti al giudice. Ci rimane il testo integrale dell'interrogatorio.
Il panteismo edonista dei seguaci del Libero Spirito implica ciò che
Nietzsche chiamerà più tardi l’innocenza del divenire: come immaginare, in
effetti, che la necessità trionfi dappertutto e che si possa essere considerati
colpevoli di ciò che essa decide prendendoci come ostaggi? Il cristianesimo
ufficiale parte dal principio che, per punire e consolidare i suoi pieni poteri
sul corpo, deve inventare una macchina per fabbricare sensi di colpa: da qui
l’invenzione del peccato originale, colpa trasmessa di generazione in
generazione - attraverso l’atto sessuale, dice esplicitamente sant’Agostino -,
da cui il postulato della libertà, della possibilità di una scelta, l’esistenza di
un Dio che crea l’uomo libero, ma gli impedisce l’uso della libertà libera -
per usare le parole di Rimbaud.
Dotato pertanto del libero arbitrio, l’uomo sceglie di fare il male quando
potrebbe preferire il bene. Essendo colpevole di un errore che poteva non
commettere, è debitore di un’espiazione. La punizione? Lavorare,
conoscere la vergogna, partorire nel dolore per le donne, morire, soffrire e
trasmettere questa maledizione fino alla fine dell’umanità. La vita sulla terra
offre perciò l’occasione di espiare. La sofferenza diventa necessaria, come
anche la pena, poiché bisogna redimersi, anche se Cristo afferma di essere
morto per riscattare tutte le colpe dell’umanità e per sempre.
Il panteismo fa a pezzi queste finzioni. Dio esiste, certo - il Medioevo
non arriva alla negazione pura e semplice della divinità -, ma cessa di essere
personale, antropomorfico, vendicatore, separato dal mondo e dagli uomini:
coincide col reale e gli uomini. Nessun bene e nessun male, niente rimorsi,
niente paura o angoscia. La vita esiste per il tempo del tragitto terrestre, la
morte non apre su un altro mondo, dove bisognerebbe render conto.
L’invenzione del Purgatorio nel XII secolo corrisponde al bisogno della
Chiesa ufficiale di aggiungere negatività alla negatività e colpevolizzare
ancora e sempre: questo luogo intermedio obbliga a preghiere, azioni di
grazie, costringe quelli che sopravvivono a provare sensi di colpa per i
defunti.
Giovanni il Tessitore e gli altri seguaci del Libero Spirito spazzano via
queste sciocchezze. Quando il domenicano inquisitore affiancato da notai
(!) interroga l’accusato, gli chiede in che cosa consiste il Libero Spirito.
Risposta: nella fine dei rimorsi. Detto altrimenti: nell’abolizione del
peccato. Nel diventare impeccabili, nell’identificarsi, anzi nell’essere
identici a Dio. Il Perfetto può legittimamente intraprendere tutto ciò che
assicura il suo piacere, afferma Giovanni davanti alla gente di Chiesa in
combutta con i ricchi.
 
 
2. Nuovi sadiani
 
Come Giovanni di Brno che pone le basi di un pensiero che Sade difende
verso la fine del periodo feudale, Giovanni il Tessitore e i suoi riprendono
l’idea che tutto è legittimo nella ricerca del soddisfacimento radicale dei
propri desideri. Il crimine? Sì. L’omicidio? Sicuro. Il furto? Certamente.
Ciò che ostacola la volontà di godimento merita un’orgia di mezzi per
distruggerlo. E senza alcuna preoccupazione di ciò che può rientrare nella
morale, regola del gioco buona per gli imperfetti, per coloro che ignorano
come funziona l’umanità, meglio: come funziona l’universo. Il volere di
Dio è in tutto, è tutto. Il Libero Spirito invita ad aderire a questo grande
movimento del mondo. Una specie di amor fati anzitempo e ante litteram:
imparare ad amare il proprio destino, quali che siano le forme e i modi di
apparizione.
In materia di sessualità, ogni licenza è benvenuta. Non solo ciò che la
Chiesa condanna - in Alain di Lille è adulterio persino desiderare troppo la
propria moglie legittima! - ma oltre: come accoppiarsi con la propria madre
e la propria sorella, preferibilmente su un altare... Sade riprende anche lui
questi argomenti. Giovanni il Tessitore aggiunge addirittura che le relazioni
sessuali accrescono la castità, meglio: che l’unione con un partigiano del
Libero Spirito restaura la verginità! L’esercizio di questa ascesi edonista dà
la felicità e trasforma in Beati.
16. Willem van Hildervissem di Malines

e «il piacere del paradiso»

 
 
 
 
 
1. Eros e Thanatos nel corso del secolo
 
Willem van Hildervissem officia al Libero Spirito di Bruxelles, in una
comunità chiamata gli Uomini dell’Intelligenza. Benché lettore di Sacre
Scritture presso i carmelitani, egli si vede messo sotto accusa da parte
dell’inquisitore. Con ogni evidenza, il suo insegnamento e le sue pratiche
giustificano le attenzioni del cattolicesimo. Siamo nel 1411 - Giovanna
d’Arco attende la sua ora nel ventre della madre. L’accusato abiura ed evita
il rogo. Viene condannato alla prigione e alla reclusione in un monastero del
suo ordine.
Il carmelitano eterodosso difende una posizione radicalmente edonista, in
quanto afferma che la vita è sufficientemente una valle di lacrime perché si
abbia bisogno di accrescerne la negatività. In realtà, lo spettacolo del
mondo in questi tempi oscuri convince della pertinenza di una simile tesi: la
peste ha appena portato via milioni di persone, un terzo della popolazione;
la guerra dei Cent’anni imperversa da più di sessantanni, generando
saccheggi, massicce distruzioni di villaggi, di raccolti e di regioni, stupri,
salassando le popolazioni civili; compaiono le carestie, conseguenza di ogni
catastrofe. Perché allora aggiungere a ciò macerazioni, sofferenze,
espiazioni e celebrazione della pulsione di morte?
La vicinanza quotidiana dei cadaveri esposti al sole, agli animali erranti,
la putrefazione di carogne prive di sepoltura, la quantità incredibile e
interminabile di seppellimenti alla meno peggio in fosse comuni, la paura
delle brutalità e delle violenze della soldatesca, il giogo feudale, il timore
del domani, l’incertezza di sopravvivere alla mancanza di cibo, alle
epidemie, alla malattia, richiedono una compensazione dalla parte della
pulsione di vita e del suo sbocco. In modo reattivo, tanti profumi di morte
sollecitano il desiderio di vivere fino in fondo la vita finché dura, anche sul
terreno sessuale.
 
 
2. Un tantrismo belga
 
Willem van Hildervissem proviene da questo versante del Medioevo:
esaltare la pulsione di vita, vantare i meriti dell’amore contro l’ascetismo,
costruire il paradiso in terra. In particolare usando il corpo come un amico -
mai come nemico. La relazione sessuale si chiama il Piacere del paradiso.
Essa viene anche chiamata acclività, un neologismo che permette ai seguaci
del Libero Spirito di parlare in gergo per salvaguardare la propria
tranquillità, o addirittura la propria sicurezza. L’idea? Ogni pratica sessuale
crea un’ascensione, la sola di cui valga davvero la pena occuparsi.
Leggendo tra le righe del documento che riporta il suo processo, sembra
che Willem praticasse una sessualità senza emissione di sperma - come
Adamo nel paradiso! Insomma, una specie di tantrismo belga che, come
l’altro -quello delle origini... -, implica tecniche di respirazione, una
scenografia di concatenazioni di giochi e di posture sessuali, di pratiche di
compressione del sesso maschile alla sua base, vicino al retto, per disporre
del piacere dell’orgasmo senza rischiare l’inconveniente della procreazione.
In un’epoca in cui la donna viene considerata un ricettacolo di escrementi
- Georges Duby scrive su questo argomento pagine definitive nelle Donne
del XII  secolo, Eva e i preti -, la debole peccatrice a cui si devono tutte le
disgrazie del pianeta, la tentatrice che perverte il mondo coinvolgendo il
primo uomo nel peccato della carne, la strega capace delle peggiori
transazioni con Satana, l’incarnazione del male che copula col Diavolo, il
Libero Spirito pratica un’erotica femminista in cui la preoccupazione della
donna e del suo piacere senza pericolo di partorire occupa un posto chiave.
Un’antitesi radicale alle posizioni ufficiali della Chiesa...
17. Eloi di Pruystinck

e «la maniera epicurea»

 
 
 
 
 
1. Riforma contro Rivoluzione
 
Abbiamo già visto che gnostici e seguaci del Libero Spirito giocano con
le Scritture, le interpretano, prelevano ciò che, nel corpo della Bibbia,
giustifica la loro visione del mondo. Eloi di Pruystinck insiste sul fatto che,
nei libri conservati dalla Chiesa per fabbricare un canone più o meno
coerente, rimangono nondimeno delle contraddizioni. Evidentemente,
l’esegesi non è molto amata dalla Chiesa. Come dice la Genesi,
l’obbedienza agli articoli di fede vale mille volte di più del desiderio di
assaggiare il frutto dell’albero della conoscenza. Cosa che i libertini
rifiutano, determinati a sapere piuttosto che a sottomettersi alle prescrizioni
della Chiesa.
Il Libero Spirito vive i suoi ultimi anni nel xvi secolo. Eloi il Copritore -
di ardesie - d’Anversa incontra Lutero per confrontare le loro rispettive
opzioni. Il prete scomunicato divenuto il creatore della Riforma ha scritto le
sue tesi essenziali. Della libertà del cristiano è del 1521, le Tesi sulle
indulgenze del 1517. Certo egli si ribella contro il Vaticano, il papa, il
cantiere della basilica di San Pietro e il denaro drenato dalle indulgenze per
finanziare il faraonico progetto architettonico, ma comunque non approva il
Libero Spirito.
Eloi sottopone le sue tesi a Lutero: ogni uomo dispone dello Spirito
Santo definito esattamente dalla sua ragione; ognuno godrà della vita eterna
indipendentemente dai suoi comportamenti, basta la grazia; non esistono né
l’inferno né la dannazione; la giustizia e la misericordia di Dio trionfano
immancabilmente; la carne perisce, certo, ma l’anima dura eternamente in
Dio; la religione cattolica insegna finzioni e stupidaggini, le Scritture
pullulano di imprecisioni, di inesattezze, di errori; più della lettera conta
l’interpretazione, di cui può avvalersi ogni membro del Libero Spirito.
Lutero non è convinto... Troppo rivoluzionario (tra parentesi, avanzo l’idea
che numerose tesi di Nietzsche sul panteismo della forza - da lui chiamata
volontà di potenza -, il trionfo integrale della necessità, l’inesistenza del
libero arbitrio, l’iscrizione di ogni realtà al di là del bene e del male, perciò,
conseguentemente, l’innocenza del divenire, il rifiuto dei dietromondi e
l’invito al senso della terra, dunque all’immanenza, così come numerose
altre posizioni filosofiche, possono derivare dal Libero Spirito. Non che
l’autore della Gaia scienza abbia avuto direttamente accesso agli autori e
alle tesi, la qual cosa sembra improbabile, ma che sia venuto a conoscenza
delle sue dottrine attraverso ciò che Lutero ne dice duellando contro di esse
in testi sparsi, ma numerosi, della sua opera completa. Una pista...).
 
 
2. L' imperativo categorico edonista
 
In modo quasi ironico, Eloi formula l’imperativo categorico edonista
parodiando san Paolo. Conosciamo l’insegnamento dell’isterico di Tarso:
non fare agli altri ciò che non vorremmo si facesse a noi. Questa morale
negativa prescrive una sottrazione. Il filosofo copritore va oltre e afferma, in
una frase importante, che nello Spirito Libero e oltre bisogna seguire
l’imperativo categorico edonista: fare agli altri ciò che vorremmo fosse
fatto a noi. Rivoluzione radicale.
Con un simile invito, l’edonismo e la logica contrattuale che ne deriva
trovano le loro patenti di nobiltà. Fatta eccezione per la delinquenza
relazionale di un individuo che pone come desiderabile la pulsione di morte
- negando con ciò ogni possibilità di intersoggettività -, ognuno vuole
godere e non soffrire. Conseguentemente, facendo agli altri ciò che ognuno
amerebbe per sé, si fa godere e si evita di far soffrire. Un gradino al di sopra
della morale negativa di Paolo. Eloi affila le armi di un’autentica etica del
giubilo.
Nel 1526 viene arrestato con nove dei suoi amici. La sua reputazione è
notevole, i loisti, suoi discepoli, si contano a migliaia. Gli si rimprovera di
leggere libri proibiti e di insegnare dottrine eretiche. Ostile al martirio, di
cui non vede né l’utilità né il profitto, ritratta. Buon retore, abile dialettico,
ottiene il minimo: viene condannato a esibire un segno che lo indica come
eretico. Persiste nondimeno a insegnare con discrezione. Non abbastanza,
probabilmente, poiché nel 1544 viene arrestato, torturato e bruciato. Era
tuttavia pronto a ritrattare una seconda volta. Una vittima in più tra le fila
dei filosofi liberi assassinati dal cristianesimo.
18. Quintin Thierry

e «la libertà della carne»

 
 
 
 
 
Lo spinto contro la lettera
 
Eccoci in pieno secolo di Rabelais e di Montaigne. Il Libero Spirito
brucia i suoi ultimi fuochi. Come lo gnosticismo, da cui deriva e col quale
condivide l’opposizione al cristianesimo ufficiale, anche questo movimento
libertino non muore, ma si trasforma. Una delle metamorfosi che subisce dà
vita al libertinaggio erudito del XVII secolo, generatore a sua volta di future
tempeste intellettuali - tutte occasioni per scalzare il cristianesimo.
Per il momento, Quintin Thierry viaggia: Poitou, Limousin, lo si vede a
Parigi, insegna ad Anversa, ma anche a Valenciennes, Tournai e in altre
città della regione. Quest’uomo che parla ai diseredati e raccoglie il loro
consenso, racconta la libertà dello spirito ai contadini nelle campagne, non
sa né leggere né scrivere. Da qui il suo uso particolarmente interessato di
san Paolo al quale dà ragione di credere che la lettera uccida e lo spirito
vivifichi!
Poiché Dio dà agli uomini la possibilità di vivere nel piacere, che cosa
giustifica che vi si rinunci? Quale strana perversione, se non un singolare
odio di sé, una pulsione contro la propria persona? Come Eloi il Copritore
che affronta Lutero, Quintin Thierry incontra Calvino, altro amatore
dell’ideale ascetico. Il riformatore che manda al rogo Michele Serveto,
scrive un libello, Contro la setta fantastica dei libertini spirituali (1545), in
cui verosimilmente si trova un’eco degli scambi di Quintin e altri seguaci
del Libero Spirito con Calvino.
Autore di un catechismo, perseguitato nel suo tempo, all’epoca
all’origine di un lavoro sulla clemenza, Calvino non si preoccupa
dell’amore per il prossimo. Quando parla del pensatore libertino, dice
«quella grossa canaglia di Quintin». L’uomo del Libero Spirito fa l’elogio
della comunanza delle donne e dei beni, trasforma le relazioni sessuali in
matrimonio spirituale, predica la carità e passa dalle parole ai fatti dando in
prestito la propria moglie. Quando viene trovato in una strada in compagnia
di un cadavere, dice di essere l’autore del crimine perché tutto è in tutto,
perché Dio vuole e fa tutto e lui, Quintin, obbedisce a questa legge e
dunque è responsabile del morto e di tutto il resto. A morte, dicono cattolici
e protestanti che fanno causa comune per il peggio - e questo sin dall’inizio:
Quintin e tre suoi amici si fanno tagliare la testa. La lotta continua...
Terzo tempo

IL CRISTIANESIMO EPICUREO
 
 
 
 
 
1. Ma dove sono andati gli epicurei?
 
Per più di dieci secoli, il rullo compressore cristiano, sostenuto dalla
legge, dalla polizia, dall’esercito, dalla forza pubblica, non risparmia
nessuno. L’ideologia paolina trionfa e domina incontrastata, che non tollera
nessuna deviazione. L’ortodossia cattolica, apostolica e romana si forma
arrivando a distruggere persino le idee cristiane quando non servono lo
Stato poliziesco alla lettera. Ma paradossalmente la resistenza al
cristianesimo è spesso... cristiana.
Come gli gnostici e i Fratelli e le Sorelle del Libero Spirito, che non
negano Dio, e nemmeno l’esistenza di Cristo, ma si accontentano di
interpretare in modo diverso i testi che le autorità del Vaticano obbligano a
leggere in maniera univoca. Partendo da premesse tratte dalla Sacre
Scritture, tra cui quelle del caro Paolo di Tarso, i Simone, i Basilide, i
Bentivenga da Gubbio e i loro simili giungono a conclusioni etiche diverse
da quelle dei Padri della Chiesa o dei filosofi compagni di strada della
Chiesa ufficiale. La Bibbia è un porto di mare.
La distruzione delle biblioteche, la fragilità materiale dei manoscritti, la
persecuzione dei pensatori pagani, la proibizione delle scuole filosofiche, la
dominazione radicale del cristianesimo sul terreno mentale, spirituale e
ideologico impediscono l’emergere di ogni altro modo di pensare. Come è
possibile allora immaginare che possano sussistere gli insegnamenti delle
saggezze antiche alternative? Una follia... Impensabile che gli abderiti, i
cinici, i cirenaici o gli epicurei possano esistere, neanche con discrezione.
Il Grande sistema del mondo di Democrito, o il suo libro Del benessere?
Scomparsi. I dieci tomi dell’opera di Antistene, tra cui Sul piacere?
Introvabili. Il Trattato di etica di Diogene? Volatilizzato. Il dialogo Della
virtù di Aristippo di Cirene? Polverizzato. I trecento libri scritti di Epicuro?
Non è rimasto niente. Stessa cosa per le pagine dell’epicureo Metrodoro
intitolate Del cammino verso la saggezza. Idem per Filodemo di Gadara o
Diogene di Enoanda. Senza parlare di filosofi di minore importanza, il cui
nome è stato cancellato dalla superficie della terra. Il cristianesimo ha
gettato in un braciere reale e simbolico una biblioteca alternativa ricca di
migliaia di volumi essenziali. Odio dell’intelligenza ancora e sempre.
Epicuro ha scritto su ogni argomento: non solo la natura, gli atomi e il
vuoto, nonché le scelte, i rifiuti, i fini e i criteri, oppure la santità, gli dèi,
l’amore e l’azione giusta, ma anche i simulacri e le immagini, la musica e la
giustizia, la regalità, la vista, il tatto. Il sistema epicureo non trascura nulla:
fisica, etica, religione, epistemologia, estetica, politica, sicché la visione del
mondo proposta dal filosofo del Giardino offre un’alternativa integrale ai
pensatori spiritualisti, idealisti e dualisti che trionfano col cristianesimo.
Si comprende che la dottrina di Epicuro diventa l’emblema di ciò che
bisogna detestare: l’edonismo, il materialismo, l’irreligione. Si capisce
anche perché il corpus epicureo fornisce un vivaio di idee utili per
combattere l’ideologia dominante. Il cristianesimo esalta la pulsione di
morte, la verità dei dietromondi, il disprezzo della carne, la passione
dolorista, la paura dei castighi, la catastrofe del peccato originale? Epicuro
insegna esattamente il contrario: l’amore della vita, l’eccellenza di questo
mondo, il radicamento della saggezza nel corpo, l’amore per i piaceri,
l’inesistenza di dèi vendicatori, l’assenza di sensi di colpa. C’è davvero di
che contrariare la Chiesa!
Come sempre con i pensatori alternativi vittime di questa distruzione
sistematica e programmatica, ciò che rimane di Epicuro lo si deve alle
critiche dei suoi avversari, per lo più Cicerone e Plutarco che lo citano per
attaccarlo. Ma disponiamo anche della magnifica opera di Diogene Laerzio,
Vite dei filosofi, che riporta le tre Lettere - a Erodoto, a Pitocle e a Meneceo
- e le Massime capitali (le Sentenze vaticane verranno alla luce molto più
tardi). E la storia dell’epicureismo dopo il cristianesimo si confonde in parte
con quella di quest’opera: dal VI al XIV secolo circola attraverso
manoscritti che conoscono tutte le avventure immaginabili. Ma, grazie a
queste copie, il lavoro di Epicuro non muore, posto al riparo degli sguardi
degli inquisitori dalla notevole mole dell’opera.
L’invenzione della stampa modifica notevolmente il gioco. Verso il 1450
il perfezionamento della tecnica di Gutenberg permette la moltiplicazione,
dunque la diffusione di quest’opera. Nel 1472 compare la prima traduzione
latina di Diogene Laerzio. L'editio princeps stabilita da Frobenius a Basilea
è del 1533. Lucrezio sopravvive grazie a manoscritti copiati in Gallia o in
Irlanda, e poi in Italia dove Poggio Bracciolini lo scopre nel 1417.
Chiaramente la rarità delle fonti rende la diffusione del pensiero epicureo
assai improbabile. Del resto, se per miracolo queste opere fossero sfuggite
alla distruzione, il loro contenuto sarebbe stato troppo pericoloso per poter
circolare liberamente.
 
 
2. L’epiteto infamante
 
Il termine “epicureo” serve a marchiare, insultare, screditare. Dai porci
contemporanei di Orazio, e persino mentre era ancora in vita lo stesso
Epicuro, il Giardino è considerato un luogo di perdizione, malfamato, un
lupanare, una taverna in cui regnano lussuria e immoralità. Diogene Laerzio
riporta le maldicenze diffuse sul conto del filosofo: grossolano, volgare,
ingordo, beone, cupido, lenone, disonesto, ladro di idee, libidinoso,
colpevole di aver fatto prostituire il fratello ecc. Questa caricatura attraversa
i secoli, serve a screditare l’opera e il pensiero. Quando, ad Atene, Paolo
incontra i filosofi che si prendono gioco di lui ascoltando la sua predica
sulla resurrezione della carne, si tratta di stoici, e di epicurei...
Non c’è da stupirsi, quindi, che il Talmud utilizzi il termine per riattivare
il consueto discredito. I rabbini se ne servono per attaccare i Sadducei, non
perché depravati, come viene loro rimproverato, ma in quanto seguaci del
gruppo rivale dei Farisei. Il loro torto? Pensano che l’anima sia mortale e la
resurrezione dei corpi una sciocchezza. Per questo motivo, e perché
diffidano dei movimenti messianici, i Sadducei subiscono gli attacchi dei
Farisei, la cui pietà e virtù sono proverbialmente considerate non molto
reali! L’ospedale farisaico che si prende gioco della Carità sadducea.    
Mishnah e Gemara - le due parti costitutive del Talmud, l’una palestinese
e redatta in ebraico, l’altra scritta in aramaico, la lingua parlata in Babilonia
- raccontano di un personaggio che nega non l’esistenza di un Creatore, ma
il suo coinvolgimento nei particolari e nel quotidiano del mondo. Il suo
nome? L'Apikoros - l’Epicureo. I rabbini considerano ateo chiunque afferma
l’inesistenza di un giudice, quindi l’impossibilità di un giudizio. In
definitiva, pertanto, il carattere fallace della religione. Chiaramente, la
negazione della Provvidenza - e non quella di potenze demiurgiche - rientra
bene nell’epicureismo ortodosso.
L’uso di questo termine nella patrologia greca e latina scredita un uomo o
un pensiero. Così gli gnostici Simone e Carpocrate in Contro le eresie, di
Ireneo di Lione. O Tertulliano che, nel Matrimonio unico, accosta anche lui
sadducei ed epicurei. Talora alcuni riconoscono la virtù di Epicuro e la sua
vita sobria, austera, retta, ma criticano la sua concezione immanente del
mondo. Tutti i cristiani intuiscono che col filosofo del Giardino essi
combattono un pensiero che mette realmente in pericolo la loro visione del
mondo, dunque il loro potere sul mondo.
Malgrado la scolastica medievale cristiana e l’amore cortese ispirato dal
culto mariano, la tradizione epicurea persiste anche sul terreno meno dotto,
letterario o filosofico, ma più popolare: per esempio nei duecentotrentotto
poemi Carmina Burana (XI-XIII secolo), ritrovati in un’abbazia dell’Alta
Baviera nel 1803. Da dove vengono questi testi? Giovani “goliardi” la cui
etimologia segnala, a scelta, l’incarnazione del diavolo, la gola o l’arte di
ingannare! In tutti i casi, si tratta di presentarli come nemici di Dio. Lontano
dalle università, la poesia di questi studenti squattrinati, gioiosi, libertini,
giullari, grandi bevitori, artisti erranti, ironisti e polemisti taglienti, spesso
condannati dai concili locali, sfiora le possibilità dell’epicureismo su un
tono piuttosto oraziano, come elegiaci romani che avessero incontrato a
bere nelle locande autori di canzoni.
Con un’infarinatura di Catullo, Tibullo o Properzio, epicurei sul modello
campano, amano Bacco e Venere, ma detestano meno la religione che la
Chiesa - i preti e i monaci, i vescovi e il papa -, i signori, i ricchi e altri
rappresentanti dell’ordine stabilito. Essi vantano i meriti della povertà, del
gioco - dei dadi -, delle taverne, dell’amicizia, della canzone, della poesia,
della primavera, delle donne, di una sessualità ludica, gioiosa, priva di sensi
di colpa. «Obbediamo ai nostri desideri - ecco un comportamento divino»,
afferma un autore anonimo.
L’ispirazione è epicurea, ma probabilmente la maggior parte lo ignora...
forse qualcuno... La Chiesa li combatte: essa non ama la loro ironia, né la
loro libertà di spirito, né il loro vagabondare e la loro mendicità. Al punto
che nel XIII secolo i goliardi spariscono, vittime dello zelo dei loro
persecutori cristiani. La parola “goliardo” serve da allora a fustigare chi
inganna, chi ama gli scherzi, prima di diventare, nel linguaggio giudiziario,
sinonimo di tenutario di case chiuse.
Al momento in cui i goliardi scompaiono, Dante scrive la Divina
Commedia (tra il 1307 e il 1321, l’opera sarà stampata solo nel 1472, più di
centocinquant’anni dopo la morte di Dante), in cui i discepoli di Epicuro
gemono in compagnia del loro Maestro nel sesto cerchio deU’Inferno (x,
13-15). Questo posto è un luogo basso, oscuro, lontano dal cielo e puzza di
zolfo. Qui si trovano gli eretici, condannati per l’eternità a espiare in tombe
infuocate la negazione dell’immortalità dell’anima. All’epoca, epicureo
designa in genere un anticristiano, una persona che non crede in Dio, alla
natura incorruttibile ed eterna dell’anima, al Giudizio universale e ad altre
stupidaggini cattoliche.
Distorcendo il concetto di epicureo, facendogli dire cose diverse dal suo
reale significato - discepolo di Epicuro -, presentendo il pericolo implicito
in una visione materialistica dell’universo, i nemici degli atomisti
trasformano l’epicureismo in filosofia di lotta e in nemico privilegiato. A
ragione, perché Epicuro fornisce un arsenale capace di colpire il
cristianesimo al potere offrendo una metafisica, un’etica, una saggezza, una
politica alternativa. Peccati mortali per dei filosofi.
 
 
3. Vie verso la luce
 
Col Rinascimento, il latino domina meno saldamente, e torna il greco. Il
greco, ossia gli autori greci, dunque la filosofia greca. Le loro traduzioni
latine permettono di riallacciare i rapporti col continente intellettuale
ellenistico e con le sue potenzialità pagane precristiane. Certo, il ritorno a
Platone, Omero, Tucidide, Erodoto, non significa la riscoperta di Diogene o
Aristippo, e tuttavia la comprensione di opere non contaminate dal
cristianesimo offre i mezzi per un pensiero alternativo al dominio cattolico.
Le conseguenze della stampa vanno oltre la rivoluzione tecnica. Il
ristabilimento dei testi divenuto moneta corrente allontana
dall’approssimazione religiosa e garantisce la scientificità della
documentazione. L’aleatorio, il bricolage politico, la copia intellettualmente
debole perché fabbricata ideologicamente - volutamente o meno, esiste
l’inconscio collettivo... - lasciano il posto a metodi di critica testuale che
generano un’ermeneutica che ha effetti considerevoli nella Storia.
Si lavora con una precisione nuova e sconosciuta: l’ortografia, la
grammatica, la sintassi, lo stile, la punteggiatura, la prosodia sono ormai
importanti per stabilire correttamente un testo destinato alla moltiplicazione
e alla diffusione. Gli eruditi del Rinascimento chiedono all’archeologia e
all’epigrafìa un aiuto considerevole per affrontare le opere più da storici che
da fedeli della religione. La storia antica scopre un orizzonte diverso da
quello dei popoli della Bibbia, rivela mondi diversi. Malgrado il Dio dei
monoteisti - non ancora contro -, i dotti scendono ormai a patti con tutti gli
dèi del pantheon greco. La meccanica cristiana comincia ad arrugginire.
Il Libro rivoluziona il pensiero. Ma si modifica anche la forma. Si
abbandonano i pesanti metodi espositivi della Scolastica. Basta aprire la
Somma teologica di Tommaso d’Aquino per constatare quanto l’architettura
carceraria dell’esposizione impedisce un pensiero fluido: l’intelligenza è
appesantita, oppressa, rallentata, imprigionata in questioni, articoli,
obiezioni, confutazioni, risposte, soluzioni; ogni ragionamento viene
ingessato in una logica a tre tempi; per giustificare e legittimare le
asserzioni si citano ab-bondantemente le autorità - la Bibbia, Aristotele si
affrontano questioni stravaganti: «C’è in Dio composizione di essenza o di
natura e di soggetto?». Ci si chiede come «l’angelo possa muoversi
localmente»... Pesante, pesante.
Il Rinascimento espone in modo diverso, più fluido, più elegante, più
leggero, più gradevole. Oserei dire, più edonista. .. Si scoprono i Trattati, i
Dialoghi, i Saggi, le Epistole, la Lettera, il Discorso, tutte modalità
espositive meno scoraggianti, che mostrano più il desiderio di trasmettere,
di dialogare, di condividere, che non la volontà di creare formule per
discepoli incapaci di leggere senza la ferula del maestro che blocca
l’interpretazione. La nuova forma permette il rapporto diretto col testo,
senza mediazioni, dunque senza torsione intellettuale né costrizione
ideologica.
Cambiamento di forma, e cambiamento di contenuto. Le questioni
oziose, tecniche, iperspecialistiche, al limite del ridicolo, care alla
Scolastica, cedono il posto a interrogativi meno preoccupati del cielo che
della terra. Si torna ad affrontare la morale, l’etica e la politica, ci si occupa
meno di Dio e più degli uomini. Ai particolari della vita degli Angeli, di
Dio, dei Demoni, ai misteri della verginità di Maria o dell’Eucarestia si
sostituiscono altre questioni: quale posto occupa l’uomo nella natura? Quali
influenze reali, e non divine o fittizie, determinano gli uomini? Da qui
interrogativi sul destino, gli astri, la fortuna, il libero arbitrio.
Il Medioevo scompare. Dunque il cristianesimo indietreggia. E viceversa.
Lentamente, impercettibilmente, in modo non brusco, ma con decisione. I
letterati che vivono in quest’epoca devono avvertirlo, non necessariamente
saperlo in maniera chiara e netta, in quanto la fine di un mondo si
percepisce attraverso scricchiolii infimi, micro-spostamenti, tutta una
tettonica a zolle più facilmente individuabile una volta giunta a termine la
deriva dei continenti.
Chiaramente, il cristianesimo resta al potere, e brutalmente: come
numerosi Fratelli e Sorelle del Libero Spirito, trucidati dalla Chiesa, Giulio
Vanini - soprannominato il “Principe dei libertini” -, più panteista che ateo,
autore dell’Anfiteatro dell’Eterna Providenza, viene torturato e messo a
morte a Tolosa: strangolato, bruciato, le sue ceneri sparse al vento con
l’accusa di empietà. Aveva trenta-quattro anni. Siamo nel 1619, diciannove
anni dopo il rogo su cui il domenicano Giordano Bruno fu bruciato
dall'Inquisizione a Campo dei Fiori a Roma, accusato non di ateismo, ma di
eterodossia. In piazza San Pietro non si scherza con l’amore per il
prossimo...
19. Lorenzo Valla

e «la voluttà»

 
 
 
 
 
1. Finalmente venne Valla
 
Lorenzo Valla (Roma 1407-1457) emerge in questo clima intellettuale e
ideologico. La storia delle idee menziona il suo nome con estrema
parsimonia, passa sotto silenzio la sua specificità di filosofo e si accontenta
per lo più di ridurlo ad alcuni luoghi comuni, costruiti a partire dalla Falsa
donazione di Costantino (1440) - dove si dimostra che il potere del
cristianesimo si basa su un falso documento che aveva appositamente
confezionato -, o dalle Dispute dialettiche (1439) e dalle Eleganze della
lìngua latina (14351444), che permettono di relegarlo nel ruolo di filologo
ossessionato dalla restituzione di un latino puro.
In che cosa consiste allora la sua specificità filosofica? Lorenzo Valla
sviluppa, precisa, formula e propone per la prima volta un cristianesimo
epicureo. A priori l’espressione sembra un ossimoro: la dottrina di Cristo
sembra opporsi storicamente e intrinsecamente a quella di Epicuro.
L’ideologia paolina e la filosofia del Giardino sembrano non avere nessun
rapporto, oppure un rapporto di contraddizione, di franca opposizione e di
impossibile complementarietà. E tuttavia...
Per sapere a che cosa somiglia questo cristianesimo epicureo -
un’occasione mancata dalla Chiesa per far uscire il cristianesimo dalla sua
carreggiata mortifera -, proviamo a leggere Lorenzo Valla sul serio. La
storia della filosofia ufficiale non legge, ma si limita a riprendere le
informazioni, spesso sbagliate, rilasciate dai più antichi storici della
disciplina. In assenza di una lettura dei testi, a causa di una scrittura
incestuosa che riprende le finzioni spacciate dai predecessori, si rinchiude
Valla in malintesi: o lo si trasforma in libertino dissimulato, in ateo che
avanza mascherato, in cinico volgare che non crede in Dio ma difende la
sua posizione sociale presso lo zio alla curia romana; oppure se ne fa un
cristiano un po’ lunatico, certo, ma in fondo apostolico e romano. In
entrambi i casi si dimentica il suo genio specifico: la proposta di una sintesi
tra le due scuole sorelle nemiche, a beneficio di un cristianesimo mondato
dalle sue implicazioni dannose all’esercizio del potere temporale.
Se si legge con attenzione - e non un solo libro, ma tutti -, si coglie la
coerenza di questo pensiero. Su Costantino e la voluttà, sul libero arbitrio e
la lingua latina, sulla dialettica e l’eleganza, Lorenzo Valla sviluppa un
pensiero inconsueto, fuori dai quadri dentro i quali pensa la solita
storiografia. Da qui la spiacevole tendenza degli storici ufficiali a prelevare
nell’opera ciò che permette di rinchiudere la sottigliezza di un pensiero in
una scatola facile da etichettare: il cristianesimo epicureo non può essere
etichettato con le categorie della storia delle idee; dunque si va a tentoni, e
poi si mutila senza vergogna: cristiano non epicureo per gli uni, epicureo
non cristiano per gli altri. In entrambi i casi, si trascura l’originalità
dell’autore.
Di solito Lorenzo Valla viene erroneamente collocato nella categoria
degli epicurei, versione porcello. A questo tipo di valutazione negativa si
arriva utilizzando del De voluptate - Sul piacere - solo un discorso su tre.
Ora, il primo discorso è stoico, il secondo epicureo, il terzo cristiano. Il
tutto nello spirito evolutivo e progressivo di una dialettica caratterizzata
dalla trinità, dal ritmo ternario consueto nella Scolastica e nella retorica
classiche. Valla si manifesta nel terzo momento, mentre il secondo propone
un momento necessario ma non sufficiente. Ci tornerò dettagliatamente.
Quando si sostiene senza prove che Antonio Beccaldi -un personaggio
realmente esistito (Palermo 1392-Napoli 1471), autore di un libro di
epigrammi osceni: Hermaphrodite - svolge il ruolo di prestanome di
Lorenzo Valla, ci si guarda bene dall’affrontare i particolari dell’opera e di
rispettarne l’integrità.
E il terzo momento, quello cristiano? E' una commedia, un sotterfugio,
uno stratagemma, una diversione, scrivono alcuni. Valla si nasconde,
tradisce, finge, avanza mascherato. Epicureo, cerca di ingannare il nemico
lanciando del fumo cattolico! Libertino, scrive tra le righe e non si muove
dove dice di muoversi e, ovviamente, è assente da dove dice di essere!
Come meglio trascurare la coerenza delle posizioni di parecchi libri in
un’esistenza?
Basta leggere Il libero arbitrio (1443) per accorgersi che Lorenzo Valla
crede in Dio, e precisamente in quello dei cristiani. Ateismo, deismo,
materialismo, atomismo sono fuori discussione: il filosofo difende la
religione cattolica, apostolica e romana. Da qui la necessità di affrontare il
De voluptate in relazione a tutta la produzione di Valla e non solo a partire
da un terzo di libro.
 
 
2. Temperamento, foga e carattere
 
È difficile capire il tono di questo o quel testo se, dimenticando la
biografia, si trascura il suo carattere, il suo temperamento, la sua foga.
Quando certi storici vedono nel tono di certi suoi discorsi una prova della
sua ironia, della sua inclinazione allo scherno, della sua abilità a
nascondersi, essi dimenticano una cosa: il poco che si sa sulla vita di Valla
rivela un personaggio collerico, nervoso, sanguigno, atrabiliare,
ipersensibile. Nelle sue Invettive, Fazio segnala un portamento altero, una
lingua tagliente, una gestualità esuberante, una fretta in tutti i suoi
movimenti. La sua vita si svolge sotto il segno delle amicizie rotte e degli
screzi dovuti alle sue polemiche per delle inezie.
Un personaggio che compare nel De voluptate (fra Antonio da Rho, il
suo interlocutore cristiano, un vecchio amico di Milano) diventa la sua testa
di turco quando, in una delle sue opere dedicata all’imitazione
dell’eloquenza latina, esprime il suo disaccordo con Valla a proposito
dell’uso del pronome quisque... Non c’è bisogno d’altro perché il filosofo
vada su tutte le furie! Egli si arrabbia anche con teologi e predicatori -
Antonio Bitonto -, giuristi - Bartolo -, membri della Curia, col papa -
Eugenio IV -, col suo segretario - Antonio Loschi -, con un bibliotecario
consigliere culturale - il Panormita -, con gli universitari, con l’umanista
Poggio Bracciolini, lo scopritore di Lucrezio ecc. Di conseguenza, egli si
esilia spesso, viaggia molto, passa di città e città, rischia la pelle in
regolamenti di conti, sfugge per un soffio a dei pestaggi! Filosofo d’assalto.
Valla è un guerriero, un polemista. Conduce una battaglia per la verità e
non guarda in faccia a nessuno, neanche a personaggi utili per far carriera a
Roma. Dialettico brillante, oratore impareggiabile, retore sottile, elegante
cesellatore, mette la sua notevole potenza di fuoco al servizio delle sue tesi
esposte apertamente. Così, quando dà vita a un epicureo, ne traccia un
ritratto emblematico: quando parla del Paradiso, non si ferma alle mezze
misure e descrive la geografia celeste da militante convinto - del
Quattrocento, ricordiamolo per non perdere di vista l’episteme del
momento... Niente in lui si avvicina al libertino mascherato, Valla marcia da
soldato cristiano epicureo e avanza allo scoperto.
 
 
3. Falsi e uso dei falsi
 
Per un individuo che avanza mascherato, per un libertino preoccupato di
preservarsi, per un filosofo ambiguo e prudente volpone come Lorenzo
Valla, non è cosa da poco pubblicare col suo nome La falsa donazione di
Costantino, un’opera che può costargli direttamente la testa! Niente
pseudonimi, niente falso editore, niente informazioni erronee per
confondere le piste: il filosofo, fedele al suo metodo agonico, polemico,
combattivo, militante, afferma chiaramente che il documento addotto dalla
Chiesa per legittimare e giustificare il suo potere temporale è un falso
fabbricato di sana pianta. E lo dimostra con metodo storico e filologico.
Con lui, la scienza si attiva contro la pretesa della teologia di governare gli
uomini in nome di Dio.
Questo libro, intitolato esplicitamente Della donazione di Costantino,
falsamente creduta e smentita - scusate se è poco... - è del 1440: Lorenzo
Valla ha trentacinque anni. Rischia di vedersi stroncata la carriera (tanto più
per uno che aspira a un posto presso il papa!), se non di finire su un
mucchio di legna, attaccato a un palo, consumato dalle fiamme
dell’inquisizione! Per firmare un libro simile, occorre avere un coraggio a
tutta prova, una determinazione franca e netta, una passione per la verità
incurante del prezzo, anche se alto, da pagare.
A che cosa somiglia il dossier? La Chiesa pretende che Costantino il
Grande abbia redatto un testo col quale dava l’impero al papato. Il
documento risalirebbe al IV secolo. Questa donazione permette dunque a
papa Silvestro I di esercitare la sovranità su Roma, sull’Italia,
sull’Occidente. La Chiesa ottiene anche il primato sulle quattro sedi
principali: Antiochia, Alessandria, Costantinopoli, Gerusalemme. L’eredità
include inoltre il palazzo del Laterano, San Pietro e le insegne imperiali.
Ovvero come dare a Dio ciò che è di Cesare.
Per dimostrare la falsità di questa donazione, Valla si basa sulla filologia
e mette sotto accusa le costruzioni linguistiche: la lingua di questo
documento tradisce un latino della larda età merovingia, in nessun modo
quello dell’epoca della sua pretesa redazione. Alcune parole contenute nel
testo sono inesistenti al momento della sua pretesa redazione! Vi si parla
persino di Costantinopoli, quando la città non esiste ancora, neanche l’idea
nella mente di colui che la creerà.
Del resto, il documento è pieno di assurdità e di controsensi, se non
addirittura di inverosimiglianze in quantità. Per esempio: come potrebbe
Costantino, che per tutta la sua esistenza di imperatore pensa e agisce con
l’obiettivo di costruire uno Stato stabile, dopo lo smembramento deciso
dalla Tetrarchia, sacrificare il suo progetto più caro? Per quali motivi? Egli
voleva l’unità più di tutto, e avrebbe infranto il suo sogno realizzato? L’idea
stessa non sta in piedi.
Anche ammettendo che Costantino avesse compiuto questo gesto,
Silvestro non l’avrebbe accettato: questo papa gode di una buona
reputazione, anzi eccellente, ed è difficile immaginare il sovrano pontefice
in contraddizione col principio cristiano secondo cui il suo regno non è di
questo mondo. Infine, e solo come ipotesi, ammettiamo che Costantino e
Silvestro abbiano davvero concluso questo accordo: diventato sovrano, il
papa avrebbe battuto moneta, come sempre in questi casi: ma non rimane
nessuna moneta, come testimonia la numismatica. Conclusione: questo
falso è stato fabbricato nell’VIII secolo per legittimare il colpo di Stato
permanente della Chiesa sull’impero, già cristiano dopo il concilio di Nicea.
 
 
4. Contro la Chiesa, per la verità
 
Scrivendo questo testo radicale, Lorenzo Valla si attira evidentemente
delle noie. Il papa Eugenio IV e la curia progettano di vendicarsi. L’amore
per il prossimo ha dei limiti. Il perdono delle offese anche... Messo al
corrente abbastanza presto, Valla fugge travestito verso Ostia. Va a Napoli,
poi a Barcellona per sfuggire alla collera della Chiesa. Sotto la protezione
del re Alfonso d’Aragona, di cui è stato segretario per dieci anni e per il
quale aveva scritto una Storia di Ferdinando, Re d’Aragona (un libro che il
figlio regnante non aveva trovato abbastanza agiografico), ritorna in Italia.
Nel frattempo, Alfonso è diventato re di Napoli e di Sicilia. Quando il papa
muore, il suo successore Nicola V gli concede l’autorizzazione di rientrare
a Roma, la sua città. Diventa allora, suprema ironia, funzionario e poi
segretario pontificio! Posto al quale aspirava da molto tempo, e che le
inimicizie tenaci del Vaticano gli impedivano di sperare.
Valla sa che con quel libro egli lavora per la verità e che, per essere un
buon cristiano, è meglio tendere a questo scopo che non a piacere alla
Chiesa. Egli pensa che Dio preferisce che ci si ostini a dimostrarla, anche se
per questo occorre andare contro la burocrazia di San Pietro che sostiene un
errore. Tanto peggio se il papa, i suoi cardinali e l’amministrazione di
questa azienda politica se ne adombrano. L’attacco alla Falsa donazione di
Costantino mira sì alla Chiesa, ma non al cristianesimo: meglio, esso viene
mosso in suo nome, per purificare il suo funzionamento e migliorare il suo
magistero. Eugenio IV si sbaglia, Nicola V no.
Attaccando il principio e i fondamenti di questa pretesa donazione
all’origine del potere temporale della religione cristiana, Lorenzo Valla
aggredisce un papa che guerreggia, fomenta discordie tra gli Stati e i
principi, si arricchisce personalmente alle spalle dei poveri. La sua opera
sembra meno empia che pia: vuole rendere alla Chiesa la sua vocazione
originaria e porla dalla parte della pace, dell’amore per il prossimo, della
carità, della fraternità, dei poveri, dei miseri e degli emarginati, degli
individui esaltali nelle Beatitudini. Se i cattolici avessero a suo tempo
ascoltato questo messaggio di Valla, non c’è dubbio che Lutero avrebbe
perso un paio di ragioni di esistere!
Nello stesso spirito, e nello stesso anno, Valla scrive un’opera intitolata
Degli ordini religiosi (1442), dove viene criticata la pratica monastica e
attaccata la pretesa dei monaci di illustrare la perfezione della vita cristiana.
Mentre chi rinunzia si crede al di sopra degli altri credenti, il filosofo
ridimensiona la sua boria. La vera fede non si trova nella comunità (spesso
assai poco santa), ma sempre nella pratica delle virtù teologali: fede,
speranza e carità. Sono pagine che rallegreranno Erasmo, il quale, nei suoi
Colloqui, si dà alla pazza gioia contro i religiosi incarcerati.
 
 
5. L'impegno cristiano
 
Valla porta avanti il suo attacco anticlericale in nome della verità del
messaggio cristiano, non in relazione a un progetto libertino, ateo o di
decostruzione del cristianesimo. Il pensiero del Romano mira a purificare
questa religione e a ritornare ai principi etici genealogici, e considera Cristo
il filosofo per eccellenza, che si manifesta sotto quel guazzabuglio
scolastico che egli non manca di criticare a ogni pie’ sospinto.
Così come nelle Dispute dialettiche (1439), una vera macchina da guerra
contro l’aristotelismo. La filosofia è amore della saggezza, certo, ma la
saggezza coincide col messaggio evangelico. Essa non ha bisogno di
perdersi in sillogismi contorti, in intrecci di sottigliezze dialettiche o in un
labirinto formale. Tutto ciò che implica un passaggio attraverso la filosofia -
da intendersi: la filosofia scolastica - allontana dal messaggio cristiano.
La fede di Lorenzo Valla non è assolutamente in dubbio, come dimostra
ognuna delle sue opere. Essa somiglia un po’ alla fede ingenua dell’uomo
semplice. Il termine “fideismo” sembra essere particolarmente adatto a
qualificare la sua posizione nei confronti della religione: bisogna credere, e
ciò basta. Non c’è bisogno di utilizzare la ragione, di fare appello alla
dimostrazione, poiché i limiti dell’analisi sono evidenti non appena si
affronta questo tema. Dio, la sua natura, le sue opere, il suo funzionamento?
Sono tutti misteri impenetrabili per un uomo così scarsamente dotato, con la
sua piccola ragione ragionevole e ragionante.
Professore di retorica all’università di Pavia (dal 1429 al 1433),
protagonista di gare oratorie sull’erudizione filologica alla corte di Alfonso
V a Napoli (1435), latinista impareggiabile, autore delle Eleganze della
lingua latina (1435-1444) - conosce Cicerone e Quintiliano quasi a
memoria -, insegnante di retorica a Roma (1450), Lorenzo Valla potrebbe
maneggiare la retorica e convincere da buon scolastico. Rifiuta e preferisce
fare appello a una fede necessaria e sufficiente, al di qua - o al di là... - della
ragione.
Questo impegno cristiano si manifesta nel Libero arbitrio (1443), una
manciata di pagine nelle quali mette in scena se stesso accanto ad Antonio
Glarea a dibattere la famosa questione della predestinazione e della libertà,
del rapporto tra determinismo divino, prescienza di Dio e (in)esistenza del
libero arbitrio. L’argomentazione non manca di brio, è sottile, la dialettica
impressiona, si riconosce la potenza intellettuale di Valla. Ma egli non ne fa
uso, se non per concludere che è necessario rinunciare alle questioni senza
risposte umane possibili, poiché solo la credenza e la fede pura e semplice
consentono di fornire una soluzione accettabile. Il filosofo dimostra la sua
forza d’urto concettuale, prova l’efficacia della sua meccanica intellettuale,
dà un saggio della sua formidabile intelligenza - ma rinuncia a combattere e
predica come un parroco di campagna.    
 
 
6. Esistenza di Dio contro libertà degli uomini
 
L’esercizio di stile su questo tema rasenta il caso da manuale: se Dio
esiste, sa tutto, tutto vede, tutto prevede, quale posto rimane per la libertà
degli uomini? Infatti se Dio conosce in anticipo ciò che gli uomini
sceglieranno e faranno, come parlare di scelta, di libertà o di libero arbitrio?
Se non esiste la possibilità di scegliere, gli uomini non possono essere
considerati responsabili di ciò che sono, dicono o fanno. Né responsabili, né
colpevoli quindi, e nemmeno punibili. Negare la libertà significa decretare
l’irresponsabilità, aprire anche la via all'impossibilità di punire, in questo
come in un altro mondo.
Come conciliare allora l’esistenza di Dio, che non può non sapere, non
vedere, non volere tutto (in virtù delle sue qualità: onnipresenza,
onnipotenza, onniscienza), e la libertà degli uomini? Dio vuole tutto ma, per
poter essere considerati responsabili, gli uomini devono disporre del libero
arbitrio: questa dotazione ontologica è necessaria per giustificare l’arsenale
poliziesco di ogni metafisica che conta e si accorda con le obbligazioni, le
sanzioni, la responsabilità, la colpevolezza. Così il cristianesimo ebraico.
Del resto, se gli uomini sono predeterminati, come credere alla possibilità
di correggersi, di modificarsi o di migliorare? Ogni speranza di diventare
diversi da ciò che si è, grazie a un lavoro della propria volontà, sparisce a
vantaggio di un fatalismo integrale: non c’è bisogno di vivere da cristiani,
di desiderare di perfezionarsi nella vita, perché niente è possibile all’uomo
sottomesso al beneplacito di Dio. Lui solo detiene il potere della grazia,
della salvezza o della dannazione. Le azioni non contano nulla. Questa
opzione metafisica apre la porta alla dissolutezza, alla licenza,
all’immoralità!
Ecco la posta in gioco nel dibattito: Dio esiste, l’uomo non è libero, si
limita a obbedire, nulla dipende dal suo volere, dunque non è né colpevole
né responsabile. Fratelli e Sorelle del Libero Spirito arrivano a queste
conclusioni. Oppure Dio non esiste, gli uomini possono scegliere, sono
causa di ciò che avviene, e perciò possono essere puniti o messi sotto
processo. Come conciliare queste due opzioni che sembrano contraddittorie:
l’esistenza di Dio che predetermina e quella degli uomini dotati di libertà?
Di fronte ad Antonio Glarea che, non senza talento, gioca con tutte
queste aporie, solleva queste contraddizioni, individua queste
incompatibilità, Lorenzo Valla affronta la questione della prescienza divina:
in virtù dei suoi attributi, Dio non può non sapere ciò che gli uomini stanno
per fare. Al tempo stesso, gli uomini restano liberi di agire. E' questa la
posizione del filosofo. Come lo dimostra? Affermando che Dio prevede sì le
nostre azioni, ma ciò non obbliga affatto che esse si compiano. Predire non
è provocare.
La possibilità di un evento non implica di fatto che esso si realizzi.
Quando Dio prevede un evento, non ne è la causa: egli sa ciò che avviene,
ma non lo vuole. Il sapere divino non implica nessun effetto sulla natura
della realtà. Presentire non significa causare la necessità che, da parte sua,
obbedisce alle proprie leggi; predire non implica provocare. Perché la causa
di ciò che avviene dipende dal libero arbitrio degli uomini. Dio non vuole
l’uso che gli uomini ne fanno, ma il suo potere implica che egli sappia ciò
che stanno per farne.
Esempio, di mia fattura: Antonio difende la sua posizione su questo tema.
Dio sa quale tesi sosterrà, ma non è sua la causa di questa opzione
particolare. L’interlocutore di Lorenzo crede incompatibili libero arbitrio ed
esistenza di Dio. Dio sa che egli crede questo, che lo pensa, e che sta per
enunciarlo, ma non è Dio a decidere che Antonio difenda questa tesi
piuttosto che un’altra, poiché in questa faccenda è in gioco solo il libero
arbitrio del filosofo.
Antonio non è del tutto soddisfatto. Vede sì l’abilità intellettuale di
Lorenzo, ma non si trova del tutto persuaso. Il preteso chiarimento accresce
l’oscurità. Perciò, una volta risolta la questione della conciliazione della
prescienza divina e dell’esistenza del libero arbitrio, come affrontare il
problema del volere di Dio? Che cosa vuole? Come vuole? Perché vuole
questo piuttosto che quello? Ci sono o non ci sono limiti al suo volere? Fino
a che punto può volere? Quando comincia il volere degli uomini? Ecc.
Valla rifiuta di proseguire il confronto. Ha definito le regole del gioco
all’inizio della conversazione: una domanda, una risposta. Sfoggia brio,
talento, dialettica, abilità retorica, dimostrando il suo innegabile potere
concettuale. Se rifiuta una seconda domanda non è dunque per incapacità
intellettuale. Lo scontro cessa perché la questione è senza soluzione. Non
c’è alcun bisogno di cercare una risposta inesistente!    
Questo rifiuto implica il mistero. E' chiaro che gli uomini non sapranno
mai che cosa muove il volere divino. Anche gli angeli lo ignorano, precisa
Valla! E allora, come potrebbero, quei sotto-angeli che sono le creature
umane, sperare di superare in sapienza e sagacia potenze che gli sono
infinitamente superiori? La volontà di Dio appartiene all’impenetrabile. In
nessun modo è oggetto di sapere, ma oggetto di fede. Kant non lo dirà
meglio...
La fede basta. L’umiltà cristiana deve soppiantare la pretesa della
filosofia di risolvere questi enigmi. Perché spesso è l’orgoglio a trascinare
quelli che pretendono di essere amanti della saggezza: essi credono
possibile sapere, e si ingannano. La ragione sperimenta i suoi limiti.
Cogliere la natura del rapporto tra volere di Dio e attività umana supera le
possibilità umane. Ora, ignorare le intenzioni di Dio non impedisce di
amarlo e di servirlo. La fede in Cristo, la pratica dell’umiltà e della carità
sembrano di gran lunga preferibili alla volontà di sapere. Permanenza
cristiana del divieto di assaggiare il frutto dell’albero della conoscenza, il
peccato mortale che è all’origine dell’allontanamento di Dio e degli uomini!
 
 
7. Un edonismo cristiano...
 
Dopo la lettura di questo breve dialogo, è difficile fare di Lorenzo Valla
un epicureo, un gaudente, un libertino mascherato. Avanzare a viso scoperto
implica maggiori precauzioni! Niente zigzag concettuali o intellettuali,
Valla pensa e riflette da cristiano, afferma la sua fede senza ambagi e
preferisce la pratica delle virtù teologali - fede, speranza e carità - alle
meccaniche filosofiche che tuttavia mostra di saper guidare a piena velocità:
Valla può fare il giocoliere perché mostra di saperlo fare, e bene, ma decide
di fame a meno su un tema che richiede altre risorse e altri rimedi che la
ragion pura.
Una volta letto Il libero arbitrio, si evita di commettere l’errore di
considerare il De voluptate (1431) come un manifesto edonista ed epicureo
ortodosso! Valla non professa qui una fede cristiana indefettibile per
difendere una posizione radicale ed emblematica, in realtà sostenuta non da
lui, ma da un altro nel suo dialogo. Tanto più che dopo il discepolo del
Giardino prende la parola un terzo individuo per difendere una posizione
cristiana che somiglia tanto a quella del filosofo romano... Lorenzo Valla
persiste in un cristianesimo epicureo, e - per quanto ne so - il De voluptate
ne fornisce la prima formulazione nella storia della filosofia nel 1431.
L’anno del supplizio di Giovanna d’Arco a Rouen.
Lorenzo Valla scrive questo dialogo all’età di ventisei anni. L’anno
successivo ne cambia il titolo per Del vero e del falso bene, probabilmente
perché il suo cristianesimo epicureo, intellettualmente troppo atipico,
apparentemente troppo ossimorico, non è stato capito, e si ci è accontentati
senza dibattito di una pura e semplice condanna a partire dal titolo - già. La
radicalità di una simile tesi seleziona coloro che sono in grado di intendere
la buona novella. E sono più rari degli imbecilli incapaci di pensare al di
fuori delle categorie dell’epoca.
Il libro contiene tre discorsi tenuti uno dopo l’altro? Si ascoltano
successivamente uno stoico, un epicureo, un cristiano? Mette in scena tre
interlocutori, Leonardo Bruni l’uomo del Portico, Antonio Beccaldi il
filosofo del Giardino e Niccolò Niccoli il pensatore del Paradiso cristiano,
ognuno dei quali difende la propria posizione? Poco importano l’economia
interna del libro, la sua dialettica, il suo approccio, il suo percorso retorico:
per certi cattivi lettori, Valla deve essere un epicureo sotto le mentite
spoglie di un Beccaldi che fa da prestanome.
Col passare dei secoli, questa disonestà intellettuale si costruisce a prezzo
di un oblio, di un diniego, di un disprezzo del discorso cristiano che
conclude l’opera e diventa, a seconda dei lettori - spesso universitari... - un
pretesto, una commedia buffonesca, un artificio retorico per mascherare la
violenza dell’arringa epicurea. Valla libertino, Valla ateo, Valla materialista,
Valla epicureo, ma mai Valla cristiano - cosa che nondimeno egli rivendica
da un libro all’altro! Come evitare meglio un pensiero nuovo e le sue
potenzialità, per ucciderlo ancora in embrione?
La triade, la trilogia, come la santa Trinità, le costruzioni articolate in tre
momenti hanno un significato. Inizio dell’equilibrio, triangolazione,
Lorenzo Valla, esperto di retorica, sofistica e logica, non ignora nulla delle
modalità espositive della dialettica classica. Il suo dialogo sul piacere
obbedisce a questa architettura evolutiva: lo stoicismo al grado zero, primo
momento di un movimento che ne comporta un secondo - l’epicureismo -,
in grado di indicare sì un progresso, ma anche di annunciare, e meglio, il
cristianesimo come sintesi conclusiva.
Prelevare un discorso sui tre, attribuirlo senza prove a Valla, ridurre il
filosofo alle parole di uno dei suoi personaggi (che è sì la figura
rappresentativa di una posizione nel dialogo, ma anche un individuo
realmente esistente nello stato civile dell’epoca), significa mutilare al tempo
stesso sia l’opera che il suo autore. Il De voluptate difende chiaramente un
edonismo cristiano, anzi un cristianesimo edonista che non contrappone la
pratica della religione cristiana alla filosofia epicurea, al contrario, perché
pensa il piacere come una via d’accesso all’essenziale: una pratica
realmente, autenticamente cristiana.
 
 
8. Onestà della voluttà, e ritorno
 
Come Dante, il quale prima di arrivare al Paradiso attraversa l’inferno e il
Purgatorio - dialettica sottile -, Lorenzo Valla comincia il suo periplo con
Leonardo Bruni, portatore dei colori stoici. Per lui il bene supremo consiste
nella virtù, che è un fine in sé. Valla non condivide l’austera opzione della
scuola filosofica, perché l’ascetismo eroico non gli si adatta molto. L’onore
e la gloria costituiscono falsi valori e virtù ridicole. La passione romana per
il suicidio è indifendibile. Catone, Scipione, Lucrezio? Finzioni. Muzio
Scevola, Regolo? Figure ossessionate dalla gloria.
Ma la cosa peggiore dei seguaci del Portico è la tristezza, l’accidia che
essi generano ponendo tanto in alto le loro virtù che esse restano impossibili
da raggiungere. Gli uomini vengono sollecitati a comportarsi da eroi, ma
non ci riescono e, di conseguenza, si portano dietro una inguaribile
malinconia. Questa etica disumana, nel senso etimologico, scatena passioni
umane, molto umane, di scontentezza contro se stessi. Una scontentezza
sbagliata.
Un altro errore si aggiunge al precedente: essi dissociano la virtù da ogni
trascendenza. Nel caso specifico, Dio. Infatti assegnano alla natura un posto
importante. Il loro panteismo impedisce ogni comunanza col cristianesimo.
Il Dio, creatore del mondo e separato da lui, è una cosa impossibile nella
visione del mondo dello stoico Leonardo. L’assenza di un Dio distinto dalla
realtà, l’impossibilità della virtù in questo mondo, la passione triste che ne
deriva, sono tutte buone ragioni per non essere un discepolo della Stoa.
L’epicureo Antonio Beccaldi critica evidentemente le tesi di Leonardo
Bruni. L’opposizione tra il Portico e il Giardino propone un caso da
manuale in filosofia: l’austerità contro la gioia, l’ascetismo contro il piacere,
l’eroismo contro la serenità, l’apatia contro l’atarassia. E' un’opposizione
che agita la storia delle idee per molti secoli: Epicuro o Cicerone, Seneca o
Lucrezio, la scelta, agli occhi dei sostenitori della filosofia ufficiale,
equivale a una confessione di moralità o di dissolutezza.
Al bene supremo stoico identificato con la virtù, Antonio oppone il
piacere e l’utile. E' la posizione ufficiale del Maestro del Giardino. Il
piacere infatti è in accordo con la natura, le cui lezioni perciò sono da
ascoltare: gli animali e i bambini obbediscono naturalmente al movimento
che li porta verso il godimento e fa detestare loro il dispiacere e la
sofferenza. Là dove lo stoico crede nell’autonomia della virtù, l’epicureo la
associa alla gioia: si è virtuosi per interesse, per soddisfacimento
dell’essere.
La tradizione oppone i piaceri del corpo a quelli dell’anima. I primi sono
considerati disonesti, i secondi difendibili. Da una parte, i porcelli, il
godimento bestiale, l’ingordigia, la sessualità, la dissolutezza - conosciamo
la musica; dall’altra, la contemplazione, l’amicizia, la dolcezza, la
conversazione, la meditazione. Voluptas contro honestas: i termini di questa
alternativa permettono solitamente di distinguere i libertini dalle persone
frequentabili.
L’epicureo emblematico di Lorenzo Valla non rientra nella categoria: egli
difende tutti i piaceri senza distinzioni.
L’autore del De voluptate carica le tinte, certo, ma mette in scena un
personaggio concettuale: la quintessenza dell’Epicureo... - e al tempo stesso
una figura storica, contemporanea, conosciuta per il suo libertinaggio e per
le sue scappatelle poetiche licenziose. Il temperamento di Valla esclude la
mezza misura, polemizza, combatte, milita. Sulla scena filosofica, Antonio
indossa la divisa di un soldato dell’epicureismo, divisa che Valla confeziona
su misura per lui, in un tessuto diverso dal proprio.
Da qui una difesa dei godimenti più attesi, certo, ma anche di altri: bere
buoni vini, mangiare pietanze raffinate, godere della bellezza degli uomini e
delle donne, godere della salute, esercitare al massimo sensi e disperarsi che
non ne esistano cinquecento, difendere il lusso, d’accordo. Ma Beccaldi
rincara la dose: esalta l’adulterio, la sessualità libera, la fornicazione, critica
la verginità, difende il libero amore tra partner consenzienti, compreso
quello tra fratelli e sorelle, religiosi e laici, raccomanda anche la comunanza
delle donne - sul modello della Repubblica di Platone.
L’epicureo parte dal principio che gli animali e gli uomini si distinguono
per alcuni particolari, ma che per l’essenziale si somigliano: composti di
materia, animati da un’anima corruttibile, votati alla decomposizione dopo
la morte, assolutamente privi di destino dopo la morte, dunque risparmiati
dai castighi e dalle ricompense, il filosofo e il cane - caro a Diogene -
subiscono la stessa legge, quella della natura. Da qui la conclusione etica di
questa opzione antimetafisica: conta solo l’uso dell’istante, e il migliore
implica un godimento dei beni di questo mondo qui e ora. In questo caso, il
corpo e i sensi offrono la sola via d’accesso alla salvezza.
Fedele anche su questo punto a Epicuro, Antonio Beccaldi invita a
ricercare l’utile, poiché tutte le leggi implicano il perseguimento interessato
di uno scopo dissociabile dalla virtù - il piacere. Mai nessuno obbedisce
perché la legge è legge, ma perché obbedendo si ottiene più soddisfazione
che insoddisfazione. Per esempio, non trasgredendo non si incorre nelle
pene, nei castighi, nel senso di colpa e in altri dispiaceri conseguenti alla
disobbedienza. Obbedire genera il piacere di evitare dispiaceri. Rispettare
una regola per motivi di interesse non rende per questo il rispetto impuro.
Tanto più che la purezza non esiste.
 
 
9. Dunque, un cristianesimo epicureo...
 
Il terzo interlocutore dell’opera, Niccolò Niccoli, si infila in questa
breccia aperta dall’epicureo: l’interesse, l’utilità, l’azione, la virtù motivata
dal piacere. Egli non rifiuta la possibilità di utilizzare la gioia, il giubilo, il
soddisfacimento, il piacere appunto, la voluttà, per arrivare ad altri fini,
certo superiori, ma associati: come la contemplazione di Dio. Il piacere di
prepararsi a un cammino verso Dio, di andarci e arrivarci, la speranza intesa
come occasione di felicità, ecco che cosa può far pensare che il
cristianesimo possa stare insieme con l’epicureismo. Il piacere diventa il
mezzo, il tramite, il veicolo verso il di più e il di meglio: il rapporto con
Dio, il piacere di Dio.
Dell’epicureismo, Lorenzo Valla non trattiene la definizione del piacere
come assenza di turbamento, l’atarassia, ma l’utilitarismo, la teoria
dell’interesse o dell’impurità, per dirla in termini etimologici. Il piacere di
Epicuro qualifica lo stato in cui ci si trova dopo la soppressione di tutte le
occasioni di sofferenza. Lungi dagli affetti e dalle passioni triviali, il saggio
epicureo gode del puro piacere di esistere e coincide assolutamente con se
stesso, come amico di sé.
In nessun momento dunque il piacere è un fine in sé, ma un mezzo per
arrivare a qualcosa di più: la serenità di sentirsi nella quiete all’epoca del
Giardino, la felicità di un’unione con Dio - il vero bene nella seconda
formulazione del De voluptate - nella prospettiva di un cristianesimo
epicureo. Non si deve amare Dio alla maniera stoica, per obbligo, in virtù di
una specie di imperativo categorico, né obbedirgli perché è Dio, ma per la
felicità che si trae dalla sua vicinanza, questa volta come amici di Dio.
Le tecniche di accesso a questa voluttà rientrano nel-l’ascesi classica
delle filosofie antiche: liberarsi dalle passioni tristi, non cedere ai godimenti
che ci alienano, dare al corpo solo ciò che esso può prendere, senza mettere
in pericolo la felicità acquisita a caro prezzo. Il cristiano aggiunge: liberare
in sé la parte spirituale allo scopo di conoscere, sulla terra, qui e ora, il
piacere e la gioia di un movimento verso Dio. Il piacere terrestre è dunque
un veicolo utile per condurre al piacere celeste, solo vero bene.
 
 
10. Un giardino straordinario
 
Il piacere terrestre offre un assaggio della sua versione celeste. Il
godimento sperimentato dagli uomini qui e ora annuncia, ma in modo assai
sommario e frusto, i veri beni unicamente accessibili in paradiso. Lorenzo
Valla - o almeno il suo portavoce Niccolò Niccoli - ne dà una descrizione
poetica, lirica, e tutto sommato classica. Le descrizioni del corpo glorioso
offerte da Agostino nella Città di Dio forniscono il modello corrente.
In cielo, ci si affranca dagli elementi: l’eletto vola o cammina per aria, si
sposta a velocità siderali, percorre vastità infinite per durate impensabili; in
tutte le occasioni, egli ignora la fatica; il caldo e il freddo sono senza potere
su di lui; cammina sui fiori senza rovinarli, sull’acqua senza bagnarsi; può
vivere sott’acqua, come i pesci, senza nessuna difficoltà; circola tra le
nuvole; regola i venti ecc. Tutto ciò che resiste sulla terra in cielo si
scioglie, le difficoltà svaniscono, l’impossibile è abolito, la negatività
risolta. Quale felicità!
La voluttà sperimentata in paradiso si iscrive nell’eternità; sulla terra essa
si dispiega nel tempo e nella durata di istanti infiniti. Intanto, come costruire
un piacere qui e ora, con questo cristianesimo epicureo? Non vietando a se
stessi i piaceri connessi alla pratica delle virtù teologali. Credere in Dio,
praticare l’amore per il prossimo, aspettare con fiducia l’ora certa della
voluttà finalmente realizzata, ecco la ricetta.
La singolare costruzione filosofica di Lorenzo Valla è epicurea nel
difendere il piacere come mezzo per condurre l’individuo verso il bene
supremo; in compenso, è cristiana nel collocare il sommo del piacere non
sulla terra, ma in un dietromondo assai improbabile. Essa è cristiana e
epicurea nell’affermare che la religione può venire a patti col piacere, che le
due istanze non sono contraddittorie, meglio, che esse si presuppongono e si
completano. Che Lorenzo Valla credesse al paradiso come a una realtà
rivelata dalla fede, è una faccenda; un’altra, se la pensava come un’idea
della ragione. Ma nulla impedisce di pensare che in pieno Quattrocento
abbia creduto contemporaneamente alle due opzioni! La Fede e la Speranza
permettono questo doppio accesso al mondo delle idee...
20. Marsilio Ficino

e «le voluttà contemplative»

 
 
 
 
 
1. Marsilio Ficino brucia (per) Lucrezio
 
Il cristianesimo epicureo inventato da Lorenzo Valla sopravvive al suo
creatore per almeno due secoli: con ogni evidenza il canonico Gassendi,
autore nel 1649 del De vita et moribus Epicuri, e lo stesso anno del
Syntagma philosophiae Epicuri, propone anche lui una versione di quella
inedita sensibilità filosofica. Per duecento anni, altri filosofi si iscrivono in
questo movimento: come il giovane Marsilio Ficino, autore nel 1457 di un
De voluptate o Erasmo che nel 1533 firma un Colloquio intitolato
L'Epicureo, ma anche Montaigne, più vicino a un epicureismo cristiano che
un cristianesimo epicureo, certo, ma anche lui cristiano ed epicureo.
Riguardo a Marsilio Ficino, la notizia stupisce. Infatti, la storiografia
ufficiale insiste, chiaramente, sul suo platonismo: traduttore dei Dialoghi di
Platone, delle Enneadi di Plotino, dello pseudo-Dionigi, autore lui stesso di
una Teologia platonica (1482) in cui afferma che bastano alcuni piccoli
cambiamenti perché i platonici possano essere considerati cristiani - come
ha ragione! -, autore di un celebre e influente Sopra lo amore ovvero
Convito di Platone (1488), lungo tutto il Rinascimento Marsilio Ficino
passa per neoplatonico emblematico, colui la cui influenza va oltre la sua
Accademia platonica di Firenze - nella pittura di un Angelo Poliziano e di
un Botticelli, per esempio. Ora questo Marsilio Ficino in gioventù era stato
epicureo.
A ventiquattro anni (1457 ) Marsilio Ficino scrive De voluptate... con
piacere, precisa ad Antonio, l’amico dedicatario. La sua corrispondenza
comporta anche alcuni scambi che testimoniano di un’influenza aristippea
ed epicurea (queste lettere sono state semplicemente soppresse
nell’edizione delle sue opere di Kristeller, che preferisce eliminare ciò che
disturba la tesi, generalmente ammessa, di un Ficino politicamente corretto:
platonico, cristiano, insomma non epicureo).
Lo stesso anno, egli redige un commento personale del De rerum natura
di Lucrezio a cui dà fuoco. L’esegesi bigotta parla di crisi spirituale in
Ficino, presto spazzata via grazie a un ripensamento cristiano, un sussulto
salvatore! Si può anche immaginare che non è bene, e neanche cristiano,
professare simpatie per Epicuro e i suoi discepoli a quell’epoca. Il castigo
del rogo rimanda tanto all’espiazione di un peccato di gioventù per mezzo
del fuoco quanto a un’elementare prudenza quando si aspira a far carriera
nella Chiesa cattolica.
 
 
2. Le voluttà contemplative
 
Il futuro canonico della cattedrale di Firenze (1487) scrive dunque
un’opera sul piacere. Peccato di gioventù. Ma peccatuccio, perché se
l’opera mostra un’eccellente conoscenza dei problemi, delle questioni e
delle poste in gioco su questo tema nella filosofia antica, invano vi si
troverebbe una presa di posizione personale in favore del filosofo di Samo.
Definizioni platoniche del piacere, della gioia, del soddisfacimento che
passano in gran parte attraverso un commento del Filebo; rinvio alle
critiche e obiezioni mosse da Aristotele nell'Etica nicomachea; esame delle
posizioni stoiche, cirenaiche, scettiche; analisi delle tesi di Democrito,
Eudosso, Aristippo, Epicuro; una bella opera dossografica, utile, intanto,
per mettere a disposizione le idee edoniste.
Marsilio Ficino non condanna il piacere in sé ma relativamente al suo
uso: se moderato, è difendibile. I piaceri vengono gerarchizzati: più sono
utili alla meditazione e all’unione con Dio, più presentano interesse. Da qui
l’elogio dell’udito e della vista, ovviamente, i sensi della messa a distanza,
dell’immaterialità, della cerebralità, dei supporti nobili (l’immagine e il
suono), e una classificazione decrescente verso l’odorato, il gusto e il tatto,
sensi ignobili della prossimità con la materialità del mondo, e i supporti vili
(gli odori, i sapori, i contatti tattili con la carne del mondo, il corpo del
reale, gli oggetti).
Si comprende pertanto come il cristiano possa praticare legittimamente
certi piaceri: accontentandosi dei sensi che permettono l’accesso al divino.
Ciò che più intimamente e con maggior sicurezza favorisce l’unione con la
divinità ottiene la benedizione del giovane filosofo. La purezza platonica e
la tranquillità epicurea, la teologia di Platone e l’ascesi di Epicuro possono
star bene insieme col cristianesimo. Allo stesso modo, agli occhi di Marsilio
Ficino, sul terreno della cosmogonia sembra possibile conciliare Platone ed
Epicuro: la teoria degli elementi sviluppata nel Timeo può collegarsi senza
grosse contraddizioni con quella che compare nella Lettera a Erodoto di
Epicuro. Marsilio Ficino, che ignora il greco ma affronta l’argomento
attraverso le glosse di Guglielmo di Conches a questo dialogo platonico
sulla genealogia del mondo, non impedisce una conciliazione, se non
addirittura un’assimilazione dei triangoli platonici e degli atomi di Epicuro.
Analogamente, la Venere che apre il De rerum natura e che per Lucrezio
è il principio vitale, il soffio, la causa di ogni macchina atomica del mondo,
non è francamente in contraddizione con l'anima mundi di Platone.
All’origine di un reale tangibile, si trovano nel caso specifico due nomi
diversi sì, ma che indicano una stessa potenza genesica e geneaologica.
Anche in questo caso, Marsilio Ficino arruola Epicuro e Platone nella
costruzione della sua visione del mondo.
 
 
3. Elogio del rosso d’uovo
 
Marsilio Ficino brucia dunque il suo Lucrezio e trascura il suo libro sul
piacere. E sperimenta la gioia cristiana delle prebende fiorentine cattoliche.
Quando muore il suo protettore, Lorenzo il Magnifico, ha la saggezza di
ritirarsi in campagna e di condurre un’esistenza tutto sommato abbastanza
vicina a un epicureismo ben inteso. Da lettore probabile della Vita solitaria,
l’eccellente breviario di Petrarca, più epicureo di quanto non sembri.
Nei suoi tre libri Sulla vita egli gioca con la mitologia, col cristianesimo,
con le guide celesti, con le funzioni psichiche e le guide umane, per mettere
insieme Mercurio, la Volontà e il Padre carnale, Febo, l’intelletto e il
Precettore spirituale, Venere, la Memoria e la medicina del corpo.
Chincaglieria astrologica, mitologica, ermetica, alchemica, se non
addirittura poetica! L’insieme culmina in un elogio della vita sana, regolata
sui movimenti della natura e in particolare del sole.
Alzarsi con esso, dunque, approfittare dei primi raggi, evitare il vino, la
carne di manzo, la cacciagione, il formaggio fermentato, le lenticchie, la
mostarda, guardarsi dalle passioni cattive, dalla tristezza, dalla collera, dalla
solitudine, ricorrere spesso ai bagni, ascoltare musica, passeggiare per prati
fioriti, vivere all’aria aperta, evitare l’ombra, amare la piena luce. E nutrirsi
di rossi d’uovo, il cui oro proviene dal sole... Marsilio Ficino, il quale
credeva anche agli astri, agli spiriti, temeva i presagi meteorologici, dava
credito al linguaggio delle pietre, non amava i fuochi fatui, comincia la sua
esistenza come teorico del piacere, vive come propagatore di un incrocio tra
fede cristiana e platonismo - o l’inverso -, e termina la sua esistenza come
un epicureo che il Maestro di Samo non avrebbe rinnegato...
Poco tempo prima di morire - tre anni prima, precisamente, nel 1497 -,
quando pubblica a Venezia Dei misteri di Giamblico, aggiunge un volume...
il suo De voluptate. Quaranta anni dopo averlo scritto, manifestando il
desiderio di non dimenticare quell’opera giovanile, Marsilio Ficino
dimostra che per tutta la vita non ha sicuramente smesso di essere epicureo.
Certo, sulla cosmogonia o sul nome da dare alla potenza costitutiva del
mondo, la Chiesa poteva non trovare da ridire sull’accostamento al filosofo
del Giardino, In compenso, sul terreno etico, rispetto alla morale edonista di
Epicuro, così vicina all’ascesi del filosofo fiorentino ritirato dal mondo, non
potremo mai sapere che tipo di epicureo avrebbe potuto essere!
21. Erasmo

e «il piacere onesto»

 
 
 
 
 
1. La saggia follia di Erasmo
 
Erasmo da Rotterdam (1467-1536) riconosce un vero debito nei confronti
di Lorenzo Valla: i lavori di filologia e di esegesi biblica del Romano
scatenano un autentico entusiasmo presso colui che classicamente viene
presentato come il padre dell’Umanesimo, quasi cento anni dopo Valla, al
punto da pubblicare nel 1505 le Annotazioni al Nuovo Testamento di Valla,
un manoscritto da lui scoperto nella biblioteca dell’abbazia norbertina di
Parco, presso Lovanio. Redige poi due parafrasi delle Eleganze della lingua
latina dello stesso autore. Dal suo maestro italiano, di cui fa molto presto
l’elogio nella sua corrispondenza, Erasmo deriva la passione per il latino e
la necessità di lavorare sulle fonti dei pretesi testi rivelati, di leggerli da
filologo, dunque da storico. Quando scrive il suo Saggio sul libero arbitrio
(1524), l’influenza di Lorenzo Valla non è affatto dissimulata.
Sin dal 1511, nell’Elogio della follia, Erasmo precisa le modalità del suo
cristianesimo epicureo. Affermando che un autentico cristianesimo deriva
da una saggia follia, il filosofo ricorre all’ironia, allo humour, al paradosso.
Il filosofo esalta la follia: la quale perpetua la specie umana, fa la felicità
della vita, prolunga l'infanzia, tiene lontana la vecchiaia, satura di desiderio
i rapporti degli uomini e delle donne, è necessaria all’amicizia, sostiene il
matrimonio, ispira le prodezze guerresche, genera le arti, rende sopportabile
la vita, mette pepe nei banchetti, ecc. Perciò è meglio esser folle che saggio.
Vada per la follia dei buffoni, dei mercanti, dei teologi, dei filosofi, delle
donne, dei cortigiani. Ma quella dei preti, dei monaci, dei vescovi, dei
cardinali, dei papi e dei re, anch’essi pizzicati? Erasmo non risparmia
nessuno e il riso si fa amaro man mano che la lettura va avanti. Questo
cristiano non ama il clero, anzi manifesta un reale anticlericalismo. I preti?
Molto spesso complici della miseria dei poveri. I monaci? Gaudenti. I papi?
Guerrieri assetati di conquiste, di denaro, di potere, di potenza militare e
politica. Il riso di Erasmo devasta una parte dell’edificio cristiano...
 
 
2. Ironico e insolente, ma cristiano...
 
Che cosa salva questo insolente da tale dilagante ironia? Cristo. Lui e
nient’altro. La sua parola, il suo esempio, il suo insegnamento, la sua
testimonianza, la sua vita, la sua dolcezza, la sua saggezza, ma non quelli
che lo usano per difendere l’opposto - violenza, brutalità, guerra, miseria,
sfruttamento, terrore, dominio, servitù ecc. Erasmo, ma anche Valla, usano
Cristo contro la Chiesa e il clero. Come antidoto ai diktat del Vaticano,
propongono la parola, il pensiero e la filosofia di Gesù complice di Epicuro.
Il loro obiettivo? Riformare la Chiesa per salvare la Chiesa.
L'Elogio della follia è conosciuto, ma non letto. L’immensa reputazione
di questo libro fa sì che i più ne parlino senza averlo studiato davvero. Ora,
alla fine dell’opera, dopo il brillante esercizio stilistico sulla follia che non
risparmia nessuno, Erasmo propone un’ascesi che conduce al piacere: il
vocabolario che egli utilizza non inganna - gioia suprema, vita beata,
beatitudine, oceano di felicità inesauri bile -, l’unione mistica in Dio genera
un gaudio senza fine. Follia dunque di tendere alla purificazione - sul
modello platonico - dell’anima e alla spiritualizzazione del corpo, follia
dell’amore di Dio, follia del desiderio di imitazione del Cristo, certo, ma
quale gioia con questa dolce follia!
Come conoscere questo piacere nell’aldilà? Leggendo e vivendo quaggiù
i Vangeli, praticando le virtù teologali -fede, speranza e carità. Le minacce
dei preti hanno scarsa importanza; le decisioni della gerarchia ecclesiastica
contano zero; la preghiera dei monaci serve a poco; i diktat del sovrano
pontefice non valgono nulla: è importante solo vivere l’esistenza a
imitazione di Gesù, povero, umile, dolce, pacifico, generoso. Fare appello
alla fonte dà sempre fastidio ai rappresentanti del cristianesimo ufficiale,
ricchi, affaristi, bellicosi, violenti, avidi.
 
 
3. Epicuro cristiano!
 
Non c’è dubbio che Erasmo sia cristiano, più cristiano persino dei
rappresentanti ufficiali del cristianesimo. Ma epicureo? Come lo è? Come e
quando, dove, in che modo? Per rispondere a questi interrogativi, esiste un
Colloquio -l’ultimo dei cinquantasei - intitolato L’Epicureo (1533), in cui
Erasmo spiega chiaramente il suo rapporto con Epicuro: il vertice della
rinuncia epicurea è il cristianesimo.
Quando si vive come insegna Epicuro, decisi a soddisfare solo i desideri
naturali e necessari, rinunciando a tutti gli altri, preoccupati di realizzare
una condizione di pace intellettuale e di serenità mentale - l’atarassia -
identificabile col piacere e col bene supremo, si vive da cristiani. Lutero lo
considera un epicureo? Benché ciò non stia in piedi, Erasmo rivendica ad
alta voce l’epiteto, e va oltre il luogo comune di discepolo di Epicuro
assimilabile al porcello, per riabilitare una figura filosofica ingiustamente
calunniata.
I Colloqui propongono dei dialoghi di tipo socratico. Sono esercizi che
servono anzitutto a imparare il latino, con un metodo pedagogico
rivoluzionario, e a stabilire una relazione sottile e coerente tra maestro e
discepolo. Talvolta il testo viene messo in scena in forma di
rappresentazione teatrale. Questa forma filosofica permette diversi accessi.
Oltre a insegnare il latino e le tecniche di retorica attivate oralmente nel
dialogo tra maestro e allievi, il colloquio permette anche un’edificazione
spirituale. Sugli argomenti più diversi - il modello di vita da preferire, la
vita coniugale, la dignità delle donne, l’ingiustizia di tutte le guerre, la
menzogna, l’educazione dei bambini, l’alchimia ecc. -, Erasmo trasmette
un’etica, una morale, una saggezza, una filosofia.
Evidentemente, viene anche affrontata la questione religiosa... E come! Il
pensatore di Rotterdam lascia libero corso al suo anticlericalismo e critica
l’adorazione delle reliquie, la pratica del digiuno o del pellegrinaggio, il
culto dei santi e della Vergine, la confessione e le indulgenze, attacca anche
i monaci, che ritiene corrotti, sbafatori e mangioni. I voti di povertà, castità
e obbedienza? Sono tutte costrizioni che generano mali: ad esempio il
parassitismo sociale, i vizi contro natura e la servitù.
A questa critica Erasmo aggiunge degli inviti: ritrovare la fede delle
origini, agire secondo lo spirito evangelico, leggere direttamente i testi sacri
per evitare la mediazione del clero incolto o interessato. Con queste accuse,
Erasmo critica il cattolicesimo sì, ma da cristiano: sottolinea i difetti della
Chiesa in nome del cristianesimo ideale e purificato. Riformista, se fosse
stato ascoltato, capito, seguito, non c’è dubbio che Erasmo avrebbe
eliminato una parte dei motivi che spiegano l’avvento del suo
protestantesimo. Ma ecco.
 
 
4. Cristo nel Giardino
 
Il dialogo intitolato L'Epicureo mette in scena Edonio e Spudeo. Come
indica l’etimologia, il primo cerca il piacere, il secondo definisce l’uomo
serio. Uno rivendica il suo epicureismo, l’altro sembra piuttosto stoico, il
che conferma che si tratta di un esercizio di stile che oppone classicamente
il Portico e il Giardino. Da perfetto discepolo di Epicuro, Edonio afferma di
identificare piacere e bene supremo. Ai suoi occhi, la vita felice comporta
meno tristezza e più voluttà possibile. Per il momento, niente di molto
eterodosso.
Dove Edonio rompe con l’idea comunemente accettata a proposito
dell’epicureismo, è quando afferma, meglio, più chiaramente e più
nettamente di Lorenzo Valla, che i più grandi epicurei sono i cristiani che
conducono una vita santa - e viceversa. La vita nel Giardino di Atene
implica la santità che il cristianesimo autentico formula alla sua maniera.
Qual è la miseria peggiore? La cattiva coscienza. Il culmine della felicità?
Una coscienza tranquilla. La colpa? Ciò che distrugge l’amicizia tra Dio e
l’uomo - riscattata dalla penitenza e dalla carità. Ecco come riformulare in
termini cristiani l’atarassia: la suprema voluttà consiste nella tranquillità
dell’animo dell’individuo che non ha nulla da rimproverarsi.
Con ogni evidenza il bene supremo non è il piacere, ma Dio. Ma il
piacere accompagna la vita cristiana e discende dalla sua pratica: nessuno
più dell’uomo pio vive in maniera tranquilla. Di conseguenza, il più
miserabile è l’empio. Pratica delle virtù teologali e comportamento
modellato su quello di Cristo, di questo è fatta una vita di vera felicità. I
piaceri terreni sono futili, secondari, inesistenti in confronto a quegli altri.
Il corpo esige, l’anima risponde a questa esigenza: forte, degna, grande e
bella, può avvilirsi o salvarsi. Eccelle quando resiste alla negatività, alla
pena, al dolore, alla sofferenza, alla morte; si indebolisce quando cede agli
istinti, alle pulsioni rozze. Le ricchezze, gli onori, i soddisfacimenti dei
sensi e i vini generano soddisfacimenti illusori e passeggeri. Una volta
appagati, questi desideri ricompaiono e comportano una schiavitù che
ostacola lo spirito e impedisce la serenità.
Tanto più che il soddisfacimento sfocia sì in un piacere, ma fugace, e
spesso pagato con un dispiacere; la genealogia di passioni tristi, l’usura
della salute, la diminuzione della forza e del vigore, la comparsa di malattie
incurabili - la sifilide, scrive Erasmo -, l’aumento della povertà, la
scomparsa della serenità, che è il bene più prezioso. Ora un piacere non è
tale quando si paga con un dispiacere. Allo stesso modo, questi piaceri così
spesso contrari alla morale dominante generano sensi di colpa e cattiva
coscienza. Come dire la negatività per eccellenza.
Il modello del perfetto epicureo? Il francescano che si è privato di tutto,
avendo rinunciato a ciò dietro cui corrono i più. Niente donne, niente
denaro, niente desiderio di potere, se non su se stesso. Il cristiano conosce
la vera voluttà perché è meglio armato per affrontare la negatività
consustanziale a ogni esistenza: la morte, la malattia, la sofferenza, la
vecchiaia, le calamità, i pericoli, le catastrofi, le guerre. Il vero cristiano non
ignora che le prove si presentano per mettere alla prova la fede.
Il cristiano di Erasmo - al contrario del cristiano apostolico e romano -
non cerca, e non ama, il dolore e la sofferenza, ma sa allontanarli con la
potenza della sua determinazione e della sua fede. Longanime, affronta con
serenità le prove che sopraggiungono nella vita poiché esse non sono nulla
al confronto di ciò che, post mortem, attende il cristiano che si è comportato
secondo lo spirito di Cristo. Fortificato dalla speranza di una voluttà eterna
che si conquista solo con l’imitazione, il cristiano gode di una vita terrena,
che è la condizione per ottenerla.
L’uso dei piaceri terreni implica la moderazione. Una volta scartate le
voluttà triviali, si tratta di goderne con misura. L’abuso dei piaceri, anche se
permessi, è sconsigliato. Ad esempio in materia di sessualità: Erasmo non
accetta l’odio del corpo professato dai cristiani, né la condanna delle
relazioni sessuali al di fuori della procreazione, ma considera preferibile la
castità. Il marito deve amare la moglie come Cristo ama la propria sposa !
Amarla per il piacere sessuale che essa ci procura non è amare. Il vero
piacere consiste nella vita comune vissuta sotto il segno di una condivisione
armoniosa degli stessi valori. In virtù di questa idea, più diminuisce l’amore
sensuale, più cresce il vero amore.
 
 
5. Un’orticoltura trascendentale
 
Erasmo consacra un altro colloquio alla possibilità di un cristianesimo
epicureo. Senza esprimersi in questi termini, senza militare per una
conciliazione franca e aperta dei due mondi, ma realizzando tuttavia una
saldatura della migliore fattura fra la filosofia del Giardino e l’ideale del
Vangelo. Erasmo dipinge un cristianesimo gioioso, gaio, edonista, che
esalta la vita, l’amicizia, la discussione, ma anche la tavola, i cibi terreni. In
pagine eleganti, sottili, i piaceri corporali e i piaceri spirituali non
compaiono mai separati, ma sempre in connessione reciproca - come se la
separazione dell’anima e del corpo fosse solo una finzione.
Il filosofo di Rotterdam ama i banchetti, il principio dei banchetti. Ne
pubblica almeno sei nei suoi Colloqui: un Banchetto laico confronta i meriti
del vino bianco e del vino rosso, del manzo e del montone, del bollito e
dell’arrosto, del coniglio, dell’oca, del maiale, del pollo e del cappone, del
foie-gras ecc.; un Banchetto di poeti procede allo stesso modo, ma col
giambo, l’anapesto, lo spondeo, il tribraco; un Banchetto sobrio permette ai
suoi personaggi di festeggiare senza né pane né vino, con acqua e insalata
non condita; un Banchetto di favole, come dice il nome, riunisce narratori di
racconti; un Ricevimento complicato, sotto  il titolo di La grande tavola,
mette in scena Spudeo che interroga Apicio sul modo migliore di preparare
un festino; e quel Pranzo religioso (1522) che descrive nei particolari un
Giardino che ricorda incontestabilmente quello di Epicuro.
Erasmo descrive dunque una Casa e il suo Giardino come occasioni
filosofiche. Meglio: come occasioni per filosofare. L’esegesi mette in
relazione questo posto e le case del tipografo Froben a Basilea, del canonico
Jean Botzheim a Costanza, del suo amico così caro Tommaso Moro a
Chelsea, o quella in cui il filosofo abitò ad Anderlecht. Io ritengo piuttosto
che non si riferisca a un contesto storico, diversamente da Epicuro in Grecia
e da Filodemo nel golfo di Napoli, ma che sia una creazione filosofica di
Erasmo, il quale trasfigura quella Casa e il suo Giardino in personaggio
concettuale, in figura noumenica, in idea della ragione, in luogo ideale. Per
dirla con il termine creato da Tommaso Moro sei anni prima, Erasmo
propone un’“utopia” - ossia un luogo immaginario, inesistente, ma utile per
costruire qualcosa di reale nella sua direzione.
Questo Giardino - nel significato ampio del termine -comprende un
giardino nell’accezione classica della parola - ma anche un’abitazione ed
edifici specifici: biblioteca, ospedale... Esso corrisponde ai fabbricati di
Epicuro ad Atene: un luogo di filosofia, un luogo filosofico dove si
manifesta un pensiero filosofico e si incarna la maniera di vivere che
l’accompagna. Questa scuola deriva sì dal Maestro di Samo, ma anche da
Cristo, che Erasmo considera un filosofo a pieno titolo - il migliore tra tutti.
Il Giardino del banchetto religioso è indiscutibilmente quello del
cristianesimo epicureo.
Quando Timoteo si rivolge a Eusebio, il proprietario del luogo, e gli
confida la sua impressione di contemplare i giardini di Epicuro, non offende
il suo interlocutore. Al contrario. Eusebio concorda e precisa secondo quali
criteri si può pensare così: il piacere sì, certo, ma un piacere onesto che
permette di soddisfare i cinque sensi con una specie di orticoltura e di
architettura trascendentali, e al tempo stesso distende lo spirito, rallegra
l’animo ed edifica l’amante della saggezza.
Trascendentale, questo Giardino lo è perché esiste nei limiti della
semplice ragione. Oggetto di carta e non traccia empirica, ma carta
suscettibile di diventare empirica, è costruito esattamente come un rebus.
Nulla è lasciato al caso, tutto ha un significato, il dettaglio ha un senso. Si
può vivere senza vedere nulla, passare accanto all’essenziale, certo, ma a
uno sguardo esercitato o informato l’insieme mostra una reale coerenza
intellettuale. I fiori, i dipinti, gli oggetti, gli edifici, la loro disposizione
mirano a produrre un effetto filosofico: il Giardino parla a chi lo ascolta e lo
sa comprendere.
 
 
6. Il linguaggio silenzioso delle cose
 
Evidentemente, l’antico Giardino di Epicuro non spunta dal nulla. Lo
precede un altro giardino, ancora più celebre, e anche più antico: il Giardino
dell’Eden, a sua volta ricalcato sul modello dei meravigliosi e realissimi
Giardini orientali. Al centro del Paradiso - si veda la Genesi - si trova una
Fontana, ai piedi dell'Albero della vita. Nel Giardino di Eusebio-Erasmo
anche. Acqua viva, acqua chiara, acqua rinfrescante, acqua lustrale,
simboleggia la vita, l’immortalità, la giovinezza.
Un canale collega questa fontana a un collettore esterno e passa
attraverso la cucina: drena l’acqua che trasporta le impurità, le allontana
dalla casa, pulisce, lava e purifica il luogo. Questo corso d’acqua taglia il
Giardino in due. Metafora dell’uso potenziale di questa acqua: essa serve
anche simbolicamente agli uomini sporchi, sudici. La redenzione dei
peccati - le immondizie della carica - si compie grazie a questa corrente
regolare che proviene dalla fonte primordiale e centrale nel dispositivo.
In questo Giardino si trovano due giardini: uno trabocca di piante
commestibili, l’altro di piante medicinali. Il primo permette a Eusebio una
vita frugale, sobria e parca. Non dovendo comprare i prodotti al mercato,
egli risparmia il denaro, disponibile quindi per l’esercizio della carità. Il
secondo permette di curare il corpo, di scongiurare le malattie o di guarire
con i semplici. Infatti la salute del corpo va di pari passo con quella dello
spirito: come vivere da cristiani, praticare le virtù del Vangelo, volgere
l’animo verso l’essenziale se il corpo si indebolisce. Contro il dolorismo
cristiano, Erasmo esalta la salute, la cura di sé e anche la pulizia.
La simbolica del giardino implica un’iniziazione: i fiori e i frutti hanno
un significato. Oggi, la simpatia voluttuosa, la bellezza ardente, la
magnificenza, la gentilezza si comunicano attraverso un bouquet di
gelsomini, di rose rosse, di tulipani e di fucsia, mentre la calunnia, la
causticità, le lacrime, la cattiveria associano piombaggine di Cina, inula e
luppolo. Bouquet edonisti, bouquet detestabili... Nel Giardino di Eusebio -
il cui nome significa “il Pio” -piante e fiori sono accompagnate da pannelli
esplicativi dove vengono illustrati insieme adagi e virtù.
Un frutteto costituisce una riserva di alberi esotici dove si raccolgono le
meraviglie della natura, di solito sparpagliate sul pianeta. C’è anche una
voliera che, secondo lo stesso modello, ha la funzione di raccogliere le
specie più belle di uccelli sconosciuti, dai colori variopinti e dai versi
insoliti. Un prato all’inglese chiuso da un’aia di rovi intrecciati pone questo
spazio sotto il segno del verde. Ora il verde simboleggia la vita, la linfa, la
funzione clorofilliana, ossia le nozze del sole - il principio genesico - e del
pianeta.
 
 
7. La natura e l’artifizio
 
La natura occupa quindi un posto speciale, certo, ma viene costretta dalla
mano dell’uomo ad assumere un significato. Ciò che cresce, dionisiaco, è
domato da un volere apollineo. Non si tratta assolutamente di un giardino
selvatico. Il Giardino filosofico è costruito, allegorico, voluto, deciso,
scelto. Come la sua formula orientale zen. L’erba e l’albero, il frutto e
l’ortaggio obbediscono al piano e al progetto degli uomini. La natura
erasmiana è naturata da un uomo che maneggia abilmente un linguaggio
silenzioso.
Del resto, nella maggior parte delle stanze di questa casa, Eusebio ha
commissionato dei dipinti. All’ingresso, per esempio, là dove la tradizione
pagana destina Priapo, il dio itifallico dei giardini che protegge dagli uccelli
e dai razziatori, Eusebio fa rappresentare san Pietro, il tradizionale custode
delle chiavi del Paradiso; nella sala estiva, scene religiose - la Cena tra altre
storie bibliche - accompagnano rappresentazioni pagane - Cleopatra,
Alessandro il Grande ecc.; in un’altra zona si penetra nella galleria dei
sovrani pontefici, ma anche degli imperatori - è impensabile che lo
spirituale prevalga sul temporale, e viceversa; e poi, un po’ dappertutto,
trompe-l’oeil ricordano l’immensità della natura: laghi, mari, fiumi popolati
di animali. Ci sono anche uccelli e pesci.
E poi, non lontano dai fiori naturali, il pittore ha dipinto... dei fiori. Per
quale ragione? Allo scopo di mostrare quanto il talento degli uomini eccelle
nel rappresentare le meraviglie della natura, certamente, ma anche quanto, a
confronto di quelle meraviglie vicine, l’arte più bella fallisce davanti alla
più semplice delle creature di Dio. L’arte mostra in sé che il creatore di
colui che rappresenta cosi bene quelle creature si muove a un livello mille
volte superiore. Un’estetica apologetica, in un certo senso. A proposito del
trompe-l’oeil e della sua .virtù edificante!
E poi, i veri fiori liberano profumi sublimi. Cosa che nessun artista è in
grado di restituire. Nessun artista riesce a creare una fragranza, un odore di
rosa o di garofano così sottile quanto la realtà. Nella lotta che oppone
l’artefatto e la natura, la seconda vince, e di gran lunga. Tra l’altro, Eusebio
ne approfitta per esaltare il naso al pari della vista e dell’udito. Questo
rifiuto di gerarchizzare i cinque sensi in funzione del loro possibile uso
religioso non sfiora Erasmo: l’olfatto conta quanto gli altri sensi. Di solito
l’idea si trova nei pensatori materialisti.
 
 
8. Un’architettura simbolica
 
L’edificio deriva dall’intelligenza di un architetto - invisibile, assente nel
testo, e del quale si ignora tutto. Metafora, anche in questo caso. L’ordine,
l’armonia, l’equilibrio e il significato implicano una volontà preesistente. Il
disordine, il caos, il caso non possono produrre questa raffinata meccanica
concettuale. Lo spirito dei luoghi implica uno spirito che spira sui luoghi.
Probabilmente è questa l’intenzione di Eusebio, se ci si ricorda
dell’etimologia del nome: Eusebio è il Pio, l’incarnazione della Fede.
L’ombra e la luce rimandano anche al simbolismo: le tenebre infernali e
la luminosità celeste, la notte delle potenze sataniche e la luce eterna degli
eletti. Eusebio prevede un uso sapiente di porte e finestre scorrevoli,
imposte mobili - interne ed esterne - che permettono molteplici
modulazioni. Per ripararsi dalla canicola, ci si chiude, ci si ripara al fresco
dell’interno, si passeggia nelle gallerie protette dalle colonne colorate; per
evitare il rigore degli inverni dalle corte giornate e dalle lunghe notti, si
utilizzano le vetrate, gli spazi aperti sul Giardino. Con la possibilità di
meditare prendendo spunto dallo spettacolo costruito per incantare l’occhio
e l’animo.
Infatti lo scopo a cui mira Eusebio resta la serenità, l’amicizia con se
stessi, lo scongiuro del male assoluto: la cattiva coscienza. La vita
quotidiana posta sotto il segno di un epicureismo autentico che riduce il
piacere al soddisfacimento dei soli desideri necessari - ossia un po’ più di
quanto conceda lo stesso Epicuro - include esercizi spirituali, una pratica
meditativa: il Giardino offre l’occasione di questa ascesi mentale - anche in
questo caso secondo un modello familiare al saggio zen...
La sistemazione degli edifici permette anche una sapiente mescolanza tra
la ricerca intellettuale del filosofo e la pratica spirituale del credente. Così la
biblioteca, ricca di pochi libri, ma tutti di qualità, accanto a una piccola
cappella - o l’inverso! Di modo che la lettura degli antichi autori - Platone,
Cicerone, Plutarco - o canonici - Paolo -, la meditazione delle Scritture o il
lavoro dei Vangeli richiamano subito, anche dal punto di vista topografico,
la preghiera, il raccoglimento, il silenzioso rapporto col sacro. Altro mezzo
di meditazione: il ballatoio della biblioteca, che dà sulla distesa del
Giardino.
In un’altra sala, Eusebio mostra ai suoi amici un globo terrestre e alcuni
dipinti sulle pareti (si pensa al Geografo di Vermeer di Delft, un secolo più
tardi). In questa stanza si trovano i ritratti di Cristo e di alcuni grandi
uomini. Il simbolismo? La missione civilizzatrice planetaria del
cristianesimo, il suo disegno universale, non per via di conquiste storiche,
militari o guerresche - Erasmo è il filosofo pacifista per eccellenza -, ma
attraverso la fede, la carità e la speranza. Solo la pratica evangelica delle
virtù teologali  realizza questa conquista sulla totalità delle terre
rappresentate sui dipinti alle pareti.
E poi - come Tommaso Moro - Erasmo non dimentica un ospedale nel
perimetro del suo edificio, ma lo colloca a parte, per consentire alla
comunità di occuparsi dei malati che hanno bisogno della quarantena. Il
contagioso, il malato - anche qui una metafora - non è escluso, e nemmeno
incluso, ma ha diritto alle cure per recuperare la salute e ritrovare il
cammino del Giardino.
 
 
9. Una convivialità edonista
 
La vita in questo luogo magnifico è quasi un capolavoro. I convitati si
ritrovano in uno scrigno ideale che favorisce conversazioni, scambi e
convivialità. Erasmo ricorre a personaggi concettuali e presenta Figure
collegate a qualità essenziali. Si ignora tutto della loro età, delle loro
funzioni, del loro fisico, del loro abbigliamento. Alla fine del dialogo - al
momento in cui Eusebio distribuisce dei regali - emergono alcuni tratti del
carattere, una psicologia, un abbozzo di temperamento che corrispondono
forse a personaggi reali. Ironia, humour e comicità consueti in Erasmo,
anche lui un filosofo che ride.
L’onomastica solleva un po’ il velo: Eusebio, dunque, lo sappiamo,
incarna la Pietà. Ma gli altri? Timoteo? Onora Dio. Teofilo lo ama.
Teodidatto è istruito da lui. Crisoglotto? E' l’uomo dalla lingua d’oro.
Uranio? Il Celeste. Sofronio? Il saggio e il temperante. Eulalio? L’individuo
che dice il Bene. Nefalio? Il sobrio. Tutte variazioni sul tema della Virtù e
della Pietà.
Questi nove personaggi - dieci col servitore - rappresentano anche il
simbolismo del nove: le Muse, i Cori che nello pseudo-Dionigi dispongono
su una scala gerarchica gli angeli, il principio organizzatore delle Enneadi
di Piotino, il numero del cielo, quello di Beatrice in Dante - essa stessa
simbolo dell’amore. Nove corrisponde anche all’ultimo della serie delle
cifre. In questo senso annuncia una morte e una rinascita, una conclusione e
un ricominciamento, la fine di un ciclo. Perché non osare questa idea: la fine
(desiderata) del cristianesimo ufficiale e dello Stato, e l’avvento di una
(possibile) nuova era grazie al cristianesimo epicureo? Nove, zero, uno,
due, tre e così via...
Come epicurei, bevono e mangiano cibi terrestri, buoni e reali; come
cristiani, leggono testi della Bibbia e li commentano a turno attorno alla
tavola. Come cristiani epicurei, essi non trascurano né i piaceri del corpo,
né quelli dello spirito e non privilegiano nessuno dei due; meglio: ritengono
che ogni soddisfacimento qui deve indurre a un piacere là. Gustare cibi
raffinati nel Giardino, a condizione che questa gioia non contravvenga ai
principi evangelici, significa godere la vita, dunque piacere a Dio che l’ha
fatta perché se ne approfitti.
Il banchetto si apre con una purificazione. Fisica, certo, per ragioni di
pulizia, ma anche simbolica: non ci si avvicina alla tavola impuri, perché
ogni pasto si svolge come citazione della Cena. In queste agapi, i convitati
si cibano di simbolo, come a messa, ma più che del pane per il lievito della
Chiesa o del vino in memoria del sangue di Cristo, si cibano dei prodotti del
Giardino. Ora i prodotti del giardino sono anche i prodotti del Giardino:
detto altrimenti, simboli della perfezione della creazione, effetti di
quest’ordine realizzato nell’utopia epicurea e cristiana di Erasmo.
Eusebio dà i particolari del menu: vino proveniente dalla tenuta, ortaggi,
cappone, una spalla di montone di prima scelta - Eusebio dixit - quattro
pernici e una magnifica coppa di frutta - cocomeri, meloni, fichi, pere, mele
e noci. Siamo lontani dal rigore austero e monacale, lontani   anche dal
pentolino di formaggio e dal pane secco di Epicuro, lontani anche dal
peccato di gola decretato dalla
Chiesa ufficiale che associa la colpa al piacere che si prova mangiando e
bevendo, anzi all’idea stessa di mangiare e bere bene. Epicureo, Erasmo lo
è più nello spirito del Circolo campano che secondo la lettera del Maestro di
Samo.
 
 
10. Il verbo e la carne
 
Tra una coscia di pernice e un pezzo di cocomero, alcune letture servono
come pretesto per scambi e dibattiti. Si può mangiare insieme, precisa
Eusebio, lattuga e uova, da aggiungere al menu! Poi i nove convitati
discutono di questioni sollecitate dalla lettura dei brani: le qualità di un
buon re; il modo di vita più appropriato per condurre una vita filosofica; i
rapporti tra sacrificio e misericordia; la santità di Socrate; la critica delle
spese voluttuarie intraprese dalla Chiesa per la costruzione di chiese e
monasteri; l’errore di credere sufficiente, per essere cristiani, la pratica dei
riti e dei sacramenti della Chiesa, e non dei Vangeli; e altre questioni di
questo tenore.
Tra queste, il corpo. Andando contro la dottrina ufficiale della Chiesa,
Eusebio rifiuta di fare del corpo un nemico. Per quali ragioni? Né
avversario, né tomba - una frecciata contro Platone -, il corpo esiste come
compagno dell’anima. Il problema non si pone né in termini dualistici né
monistici. Ancor meno materialistici. Erasmo evita qui la questione
dell’immaterialità o dell’immortalità dell’anima, ancor più quella del suo
destino post mortem. Ai suoi occhi, corpo e anima costituiscono un tutto:
privilegiare una parte provoca dannose mutilazioni.
Come considerare l’anima senza il corpo? O l’inverso? La vita filosofica,
la pratica cristiana, l’equilibrio tra la meditazione e l’azione esigono uno
spirito e una carne in buono stato. Ora l’interdipendenza è manifesta: un
corpo malsano, malato, impedisce all’anima di effettuare un lavoro
spirituale; allo stesso modo, un’anima in cattivo stato produce sul corpo
effetti negativi. Erasmo ama la salute, tanto quanto la pulizia. La morte, il
dolore, la sofferenza? Troppo poco per lui... Preferisce la gioia, la felicità, il
piacere, la contentezza. E per fare questo, i cibi terrestri presentano
altrettanto interesse dei cibi spirituali.
A un’anima pura, tutto è permesso. Erasmo non proibisce nulla per
quanto riguarda il corpo in sé, ma relativamente all’uso. Lungi da lui l’idea
di rifiutare ogni libido. E se nel dialogo ripropone le teorie misogine della
sua epoca - le donne incapaci di filosofare, buone solo a discutere tra loro o
con i bambini, colleriche come Santippe, bisognose di essere formate ed
educate dai mariti -, il filosofo ammette anche che nulla sembra più
desiderabile di una moglie che si ama. La coppia atarassica di Lucrezio.
 
 
11. Diventare l’amico di se stessi
 
Alla fine del banchetto Eusebio offre un dono a ciascuno. Piacere di
offrire, piacere di dare, piacere di ricevere. I regali consistono in quattro
libri, due orologi, una lucerna e un astuccio con penne egiziane.
Ovviamente, ognuno manifesta la propria felicità all’idea di ricevere un
presente. Ma Erasmo, astuto e ironico, approfitta di questo dono per indurre
e sollecitare un controdono cristiano: si augura di sviluppare in Timoteo la
saggezza che egli già possiede e gli dà un libretto, una raccolta dei Proverbi
di Saio-mone; a Sofronio offre un orologio arrivato dalla Dalmazia col
pretesto di permettergli un miglior uso del tempo, dal momento che ne fa
economia; l’interessato, che non è sciocco, capisce che Eusebio ricorda al
pigro la puntualità; a Teofilo tocca il Vangelo di Matteo, per rinsaldare il
suo amore di Dio; a Eulalio le Epistole di Paolo; a Crisoglotto la piccola
lucerna perché possa, dice Eusebio, soddisfare la sua passione di grande
lettore - ma anche perché quel dormiglione inveterato vegli di più;
Teodidatto riceve le penne per celebrare la gloria di Cristo; Uranio riceve
alcuni trattati morali di Plutarco; anche Negale un orologio, lui che spende
il suo tempo con parsimonia.
Il piacere si dà ma non esclude tuttavia l’edificazione, la costruzione di
sé. Al contrario, ne è l’ausiliario. I libri cristiani affiancano gli scritti
pagani, Cristo e Plutarco si completano. Paolo e lo stoicismo stanno bene
insieme, a condizione che il tutto converga verso la pratica del Vangelo, il
solo modo di vivere da cristiano autentico. Nel corso del banchetto, con le
agapi, i cibi e il vino, la discussione e la conversazione, il commento di
massime bibliche, i nove protagonisti sperimentano l’epicureismo e il
cristianesimo senza sacrificare l’uno all’altro.
Eusebio prende congedo dai suoi amici e li invita ad accomodarsi in
giardino, anzi a restare tre giorni, se fa piacere loro. E fa seguire il gesto
alla parola: parla da cristiano? Vive, si comporta e agisce allo stesso modo.
Due compiti lo attendono fuori: aiutare un malato ad affrontare la morte e
riconciliare due testardi che litigano. Chiaramente, l’amore per il prossimo
motiva questi comportamenti generosi e benevoli, amichevoli e dolci.
Nessun dubbio che Epicuro avrebbe agito allo stesso modo.
 
 
12. Epicuro cristico e Cristo epicureo
 
Erasmo ricorda l’etimologia: Epicuro - epikouros - è colui che salva. Ma
chi salva meglio di Cristo? Perciò il Cristo salvatore e il Cristo epicureo,
anzi l’Epicuro cristico, danno la formula della salvezza: un composto di
saggezza pagana e di sapienza cristiana, una miscela dell’austerità del
Giardino di Atene e della virtù dell’Orto degli Ulivi, un misto di atarassia
greca e di speranza cattolica, di voluttà nell’ascesi e di ascesi per la voluttà,
un’alleanza tra la filosofia del pentolino di formaggio e quella del profeta
simboleggiato dal pesce, ecco l’equazione della voluttà autentica e del bene
vero e proprio.
La possibilità di un cristianesimo epicureo scompare con la comparsa
della Riforma - e del suo correlato, la Controriforma. Nei primi tempi, essa
realizza parzialmente ciò che la Chiesa cattolica, apostolica e romana non
ha saputo fare: emendarsi, modificarsi, avvicinarsi ai poveri e ai piccoli,
farla finita col coinvolgimento della Chiesa nei conflitti politici, costosi in
termini di vite umane, abolire il lusso e il fasto della vita come in Vaticano,
moralizzare il clero a tutti i livelli della gerarchia ecclesiastica, ritrovare il
senso del messaggio evangelico nascosto sotto un ammasso di glosse
ufficiali.
Lutero e Calvino ricorrono a misure drastiche in un organismo corrotto.
Valla ed Erasmo, tra gli altri, avrebbero potuto servire a un rinnovamento
del cristianesimo, meno legato alla pulsione di morte, più attento alla
pulsione di vita, più desideroso di potere spirituale che di potere temporale,
meno ossessionato da Cesare e un po’ più rivolto verso Dio. Rinunciando
alle potenzialità del cristianesimo epicureo, la Chiesa si priva della
possibilità di rivitalizzarsi umanizzandosi.
Dopo il passaggio di Lutero, nel pieno delle guerre di religione,
Montaigne modifica, anzi inverte le prospettive. Fa evolvere il cristianesimo
epicureo, formulando un epicureismo cristiano. La ricetta dissimulata nei
Saggi? Un po’ meno di cristianesimo, un po’ più di epicureismo. Il
movimento filosofico alternativo alla corrente dominante prende questa
direzione, mentre la Chiesa opta per la Controriforma: a partire da Lorenzo
Valla, Epicuro diventa nettamente il filosofo emblematico della lotta contro
il cristianesimo ufficiale.
22. Montaigne

e «l’uso dei piaceri»

 
 
 
 
 
1. Fisica della sua metafisica
 
Contrariamente alle affermazioni cattoliche, apostoliche e romane -
Blaise Pascal in testa, e a seguire Bossuet, Malebranche, i giansenisti, e poi
tanti altri nella loro scia -Montaigne non si ama. Proprio per questo motivo
egli si mette a nudo in ogni pagina, e ciò per venti anni: dal 1572, data della
prima riga scritta dei Saggi, fino al settembre del 1692, l’anno della sua
morte nel castello di Montaigne.
Gli si rimprovera di aver raccontato la piccolezza del suo sesso, rivelato
la propria impotenza, descritto nei dettagli le sue digestioni difficili,
enumerato le sue coliche, fatto l’autopsia dei suoi calcoli renali, redatto la
lista delle sue mediocrità intellettuali e delle sue indigenze corporali. Certo,
ma perché rifiutare di vedere che questi esorcismi implicano un’impresa
singolare: imparare ad amare, arrivare a un compromesso con ciò che a
priori sembra indegno di essere amato? Poiché il progetto di Montaigne di
fare il ritratto di sé non mira all’egotismo, al narcisismo, all’amore smodato
della propria persona, ma alla giusta stima di sé da parte di un individuo che
dubita di essere amabile - nel senso etimologico - e spera di diventarlo,
anzitutto per se stesso.
Tra l’eccesso del disprezzo di sé, a cui sicuramente prepara il
cristianesimo, e quello della passione eccessiva nei propri confronti,
Montaigne cerca una via di mezzo. Egli riconosce a se stesso due o tre
qualità morali, virtù come la Fede e la coscienza, la franchezza e la libertà,
la mitezza dei costumi, ma dopo la lettura dei tre libri della sua unica opera
resta una strana sensazione: Montaigne traccia il ritratto di un uomo che, nel
fisico e sul piano morale, non è indulgente con se stesso. Masochista? Non
del tutto, ma è lungi dall’essere il miglior amico di se stesso: irritato con sé,
dà l’impressione di intraprendere il suo lavoro per produrre, con l’aiuto del
tempo, una figura finalmente degna di essere amata.
Sul piano fisico, Montaigne soffre di un handicap determinante: la bassa
statura. Quando talora riceve visite e gli si chiede la strada che porta al
padrone di casa, constata, de visu, quanto la sua scarsa prestanza induce una
presenza al mondo fragile, carente, dolorosa, che implica la necessaria
conquista di un artificio in grado di compensarla. Chi non appare
individuabile e distinto allo sguardo altrui, deve rendersi individuabile e
distinto.
La differenza vissuta sulla propria pelle contribuisce evidentemente alla
costruzione di un temperamento inquieto e attento a tutto ciò che, sotto ogni
forma - dai cannibali alle streghe, passando per i matti e per quelli che
presentano malformazioni congenite -, manifesta la differenza, la bizzarria,
la stranezza, la mostruosità. Montaigne, infatti, si dice al tempo stesso
«miracolo e mostro» - tardi, nell’ultimo libro dei suoi Saggi, quando
verosimilmente può dire (di sé) che a partire da quel mostro è diventato un
miracolo attraverso la scrittura.
Piccolo, forte, peloso, precocemente e rapidamente calvo, barbuto,
dormiglione, maldestro con le mani, assolutamente poco abile, privo di
talento, nullo nello sport, per niente melomane, e ovviamente neanche
musicista, incapace di scrivere, tanto erano impacciate le sue mani,
incapace persino di temperare la sua penna o di mettere i finimenti ai suoi
cavalli, incapace di cacciare con un uccello o di parlare correttamente ai
suoi animali. E poi, aggiunge in confidenza, quando si è piccoli di statura a
nulla valgono l’aspetto piacevole del viso e una giusta proporzione delle
membra.
Sessualmente, Montaigne non ha nascosto granché... I suoi
contemporanei - e tanti venuti dopo - vogliono sì il ritratto, ma stendono un
velo pudico su una questione che il filosofo considera determinante. Marie
de Gournay censura un’edizione per relegare nell’ombra queste confessioni
impudiche: giovinezza libidinosa, iniziazione precoce, collezione di donne,
probabile propensione per le prostitute durante la giovinezza, stessa cosa in
viaggio - contrariamente alle sue affermazioni... -, nulla di particolarmente
insolito.
La sua salute sessuale fu robusta - egli parla di un record di sei «assalti»!,
la metafora guerresca è di suo pugno. Immagino le conquiste di quelle
piazzeforti una dopo l’altra e nella stessa notte... la sua impotenza comparsa
molto presto - verso la cinquantina definitivamente, ma con annunci
parecchio prima - sembra perciò assai più dolorosa. Da qui alcune
dichiarazioni in cui confida il suo talento nel fare di necessità virtù,
passando intere notti a carezzare più che a cavalcare alla maniera soldatesca
come nei suoi verdi anni!
Il ricorso ad alcuni versi dei Priapei anonimi gli permette, attraverso la
citazione - spesso egli nasconde l’essenziale dietro prestiti senza firma -, di
confessare al lettore un sesso corto, e neanche molto grosso, e un «danno
enormissimo» - senza che si sappia esattamente la natura di questa
particolarità, ma noi possiamo immaginare il peggio. A ciò occorre
aggiungere quella famosa malattia della pietra che trasforma in calvario la
sua vita quotidiana per quattordici anni - al punto che più di una volta
quest’uomo dolente viene sfiorato dall’idea del suicidio.
Piccolo, maldestro, dotato di un sesso piccolo ben presto inoperante,
Montaigne si descrive senza compiacimento. Quando, attraverso
l’espediente di una digressione, confessa la coincidenza della sua metafisica
e della sua fisica, si può affermare, senza andare troppo in là, che quel corpo
pensante scende a patti con un corpo pesante... La carne di Montaigne
funziona come genealogia del suo pensiero. Le sue confidenze intime,
anatomiche, fisiologiche, mediche, dietetiche, sportive, libidinali, collocano
i Saggi tra i documenti eccezionali nella storia delle idee, per chi spera di
indagare i misteri di come nasce e si costituisce una visione del mondo. Mai
come in questo caso si assiste alla costruzione di una filosofia che intende
trasformare le debolezze in forze - condizione sine qua non di ogni
sopravvivenza, e di ogni esistenza.
 
 
2. Ricordi di un uomo senza memoria
 
Neanche sul piano morale Montaigne si presenta sotto i suoi lati migliori.
Spesso insiste sulla sua mancanza di memoria. Dimentica di aver letto un
libro, di aver fatto una cosa, incontrato qualcuno. Nel corso del suo libro, si
sbaglia su certe date senza che si sappia sempre se l’errore dipenda da una
volontà deliberata o da una reale incapacità di ricordare: quando cita la data
del testamento di La Boétie; quella della composizione del Discorso sulla
servitù volontaria, il libro del suo amico; l’età della morte del padre; il
tempo che confessa di aver consacrato alla traduzione del libro di Raymond
Sebond per far piacere al suo genitore.
Ma Montaigne non saprà mai contare. Lui e le cifre non vanno mai
d’accordo - il padre lo sa e infatti lascerà l’eredità alla moglie, non al figlio,
perché conosce bene l’incapacità del suo Micheau (il nome che gli dà da
bambino...) -di gestire correttamente la proprietà. Durante la giovinezza,
dilapida il denaro; più tardi, durante i suoi viaggi, por-ta sempre con sé una
cassetta piena d’oro - le locande, le donne venali, gli extra... Ma il testo dei
Saggi fustiga la spilorceria e la vanità dell’avarizia - che egli sembra
praticare con costanza.
La sua mente? Lenta. Il passo? Indolente. Non apre subito la
corrispondenza, che resta inevasa. A che serve? Non è portato per la
gentilezza e la cortesia. Irresoluto in tutto: magistrato per tredici anni,
sindaco di Bordeaux due volte, più volte incaricato dal re di missioni
diplomatiche della più alta importanza - da una di esse dipende che la
Francia diventi protestante o resti cattolica! -, alla testa di cento persone nel
suo castello, è difficile immaginare le conseguenze di questa incapacità di
decidere, prendere risoluzioni, deliberare.
Disorientato fino a questo punto, Montaigne afferma di non saper
nominare.o riconoscere gli utensili nel suo castello; di aver appreso molto
tardi che il lievito fa lievitare il pane, e che cosa significa far fermentare il
vino; di essere assolutamente incapace di dare un nome alle verdure del suo
orto; di non essere in grado di compiere i lavori più comuni nella sua
fattoria, ad esempio preparare il cavallo per una passeggiata. Gentiluomo di
campagna, possiamo immaginarlo modello ideale per un ritratto di La
Bruyère!
Malinconico, Montaigne conosce i tormenti degli attacchi di depressione:
quando non è in forma, si lascia andare su una brutta china e vede tutto
nero. Vede il peggio dappertutto e si demoralizza. Bisogna leggere in questi
sintomi nevrotici il segno dell’incapacità di uccidere il padre, il quale, da
parte sua, sembra a suo dire esattamente l’inverso esatto del figlio: allegro,
sportivo, disinvolto, abile, colto? Con ogni evidenza, Pierre Eyquem è come
un’ombra importuna per questo figlio eccentrico, imbarazzato, incerto nel
mondo, perduto nel reale come uno zombie, errante come il fantasma di un
povero diavolo.
La sua ipersensibilità tradisce in effetti un essere fragile, emotivo. È un
cacciatore che non sopporta la vista del sangue. La sofferenza degli animali
lo mette in uno stato pietoso. Se si sgozza un pollo davanti a lui, gira lo
sguardo. Montaigne, l’abituale frequentatore degli atti eroici dei Romani, il
contemporaneo delle gesta dei grandi uomini stoici, l’amico di Catone, il
fratello di Epaminonda, il filosofo che riporta numerosi aneddoti in cui
scorre il sangue, in cui traboccano l’ardire, il coraggio e la virilità, questo
Montaigne confessa di avere la lacrima facile.
 
 
3. Essere stranieri a se stessi
 
Questo corpo singolare, che la madre porta per undici mesi, come se
esitasse a venire al mondo, diventa dunque quello di un piccolo uomo dalla
debole sessualità, la cui presenza al mondo sembra contrariata da una
ragione oscura, ma determinante. Da eccellente analista del profondo,
Montaigne ritiene che gli anni dell’infanzia siano decisivi per la formazione
di un carattere e di un temperamento. Alle nutrici assegna il ruolo più
importante nell’elaborazione della sensibilità.
La sua? Una contadina a cui viene affidato sin dalla nascita. Nato nel
castello, Michel vive due anni in compagnia di una famiglia di contadini
semplice e sobria, non lontano dalla proprietà di famiglia. Là contrae per
sempre delle abitudini di austerità - ai dolciumi preferisce il lardo e l’aglio...
L’amante di Sparta, il difensore perpetuo di Lacedemonia - muto sulle
pretese virtù di Atene... - conclude l’odissea dei Saggi con un elogio della
vita semplice, della frugalità delle persone modeste e della voluttà epicurea
-nel senso filosofico del termine.
Dopo due anni (1533-1535) passati in una modesta capanna, Montaigne
torna alla casa di famiglia, al castello. La storia è nota: di ritorno dalla sua
campagna come soldato  di Francesco I, il padre riporta dall’Italia alcune
idee sull’educazione dei fanciulli, la pedagogia, la maniera di trasmettere le
maniere. Come conoscitore di Erasmo e delle tesi del Piano di studi -
apparso poco tempo prima, nel 1511 -, Pierre Eyquem intraprende
l’educazione del figlio. A tale scopo mette in pratica le idee essenziali del
filosofo di Rotterdam: sollecitare l’intelligenza e non la memoria; mirare a
una testa ben fatta, e non a una testa ben piena; dare un ruolo cardinale ai
testi antichi; rispettare la libertà e l’individualità dei fanciulli; esercizio
quotidiano della conversazione.
Concretamente? Concretamente mette il figlio nelle mani di un precettore
tedesco che al filosofo in erba si rivolge unicamente in latino. Lui e tutte le
persone di casa si affidano alla lingua di Cicerone! Persino nei dintorni si
parla come i Romani dell’età repubblicana - al punto che, nella regione,
termini latini passano nella lingua corrente. Dopo il suolo in terra battuta
dove i contadini parlano guascone, Montaigne ascolta un’altra musica,
un’altra lingua, e parla molto presto correntemente latino. Cosa eccellente
per un contemporaneo di Quintiliano... ma quindici secoli dopo!
Il padre forma un ragazzo geniale, ma eccentrico, inadatto al mondo.
Tanto più che Montaigne - non sappiamo per quali ragioni - subisce ancora
uno sradicamento: viene mandato al collegio di Guyenne a Bordeaux, dove
impara che cosa significa diventare estranei a se stessi: latinista perfetto a
soli sei anni - uno che utilizza quindi una lingua morta come lingua
materna! -, “Micheau” scopre il mondo, gli altri e dunque se stesso. Ma se
stesso come un altro. Incapace di comunicare con i suoi simili perché parla
una lingua straniera, privo di una lingua veicolare, escluso perciò dalla
possibilità di dialogare e comunicare con i bambini della sua età, suoi
contemporanei, sperimenta il solipsismo, fisicamente, carnalmente.
Isolato in collegio, non si raccapezza più, non acquisisce nuove
conoscenze, si annoia, si trova nell’incapacità di allacciare una relazione
affettiva con un compagno della sua età e diventa il protetto di un pedagogo
del posto (alcuni sottolineano che a quell’epoca la comunità pedagogica del
collegio praticava l’amore socratico. Non ci sono prove...). Il quale lo
mantiene nella sua finzione e gli consiglia Virgilio, Ovidio, Orazio e gli
Elegiaci, Terenzio e Plauto, e le commedie italiane - sane letture per un
bambino tra sei e tredici anni! Regime severo, orari rigidi, vacanze rare: è
lontano il tempo benedetto delle ore vissute sotto il segno di Erasmo!
Come i risvegli del fanciullo al suono della spinetta al castello non
trasformano Montaigne in appassionato di musica, ancor meno in praticante
di uno strumento, così la sua educazione romana non ne fa un individuo
adatto alla sua epoca: in pieno XVI secolo cerca continuamente Roma, e
nella sua amicizia con La Boétie, nella sua biblioteca, nella sua scrittura, nei
suoi costumi, nella sua etica, nella sua vita quotidiana, nella sua torre
costruita come una città latina, mira alla compagnia di Plutarco o di Seneca,
non potendo conversare con i suoi contemporanei.
 
 
4. La conversione edonista
 
Montaigne, obbedendo al padre, inizia gli studi di diritto e diventa
magistrato. Dai suoi anni di formazione (1549-53) - Parigi? Tolosa? - alla
vendita della sua carica di consigliere al Parlamento di Bordeaux (1570),
consacra più di vent’anni a questa disciplina. Lo si è detto giurista esperto e
magistrato coscienzioso. Il colpo di fortuna arriva con la morte del padre,
tanto amato, esaltato, venerato nei Saggi che mi chiedo se Montaigne così
facendo non compensi un po’ la sua gioia nel constatare che la morte del
padre lo dispensa da un lavoro che avrebbe dovuto compiere con i propri
mezzi e anni prima per essere in pace con se stesso.
Colpo di fortuna, perché morendo il padre lo libera dalla necessità di
guadagnarsi il pane quotidiano, e può ormai vivere di rendita. Certo,
bisogna impugnare un secondo testamento per accedere alla fortuna che un
primo testamento di un padre tanto buono lascia in eredità alla moglie
passando sopra la testa del figliolo, ma comunque... Davanti a questa
piccola fortuna, Montaigne lascia il lavoro all’età di trentotto anni, il 28
febbraio 1571 - giorno del suo compleanno: Montaigne ama questi numeri.
Fa incidere nella sua torre una citazione - in latino come è d’obbligo... - in
cui in sostanza proclama: che liberazione ormai, mi dedico a me stesso.
Alcuni mesi più tardi comincia la redazione dei Saggi. Il piccolo uomo
sgraziato e non viziato dalla natura, il Romano di Guascogna dappertutto
esiliato e mai a casa propria, l’erede orfano ormai pronto a regolare i conti
con la figura del Padre, ha un appuntamento con se stesso. Ma non sa
ancora chi è questo essere col quale ha fissato un appuntamento. Egli lo
chiede ai Saggi.
 
 
5. Un libro per chi?
 
Per tutti e per nessuno, dice Nietzsche del suo Zarathustra... E i Saggi di
Michel de Montaigne - e non I Saggi - a chi sono destinati? Del resto, esiste
mai altro pubblico che se stesso? La scrittura può tendere ad altro se non a
una messa a punto con sé, a una catarsi, una purificazione aristotelica?
Quando è viscerale, sincera, autentica, la stesura di un libro obbedisce alle
leggi della psicologia del profondo. Montaigne non è vittima del
funzionamento dell’essere: zone d’ombre, pieghe della prima infanzia,
forze oscure e determinanti, necessità psicologiche, dunque fisiologiche.
Numerosi incisi nella sua opera testimoniano della sua lucidità sul motore
inconscio della coscienza.
L’avvertenza al lettore in apertura del primo libro dà la versione incisa
sul marmo, per il pubblico: Montaigne scrive per gli amici, la famiglia, i
parenti, a scopo domestico e privato, senza preoccuparsi della gloria e della
reputazione. Spera di lasciare dopo la morte una traccia utile per conoscerlo
con più sicurezza. Malgrado tutto invita il lettore a consacrare il suo tempo
ad altro che a leggerlo! Esibisce il suo desiderio di essere apprezzato post
mortem più di quanto si crede amato al momento in cui scrive.
Giustificazione e legittimazione di sé dopo di sé: l’impresa deriva da una
reale preoccupazione di rivelare un essere che ha deciso di descrivere.
Bisogna vedere, in questa dichiarazione di destinare ai parenti la sua
opera, la ragione di una serie singolare di silenzi? Per un uomo che pone la
sua impresa sotto il segno della verità assoluta, radicale - almeno per quanto
lo consentono le convenienze... -, l’assenza della madre, della moglie, delle
sorelle, dei figli, salvo alcune menzioni di sfuggita: gioca a carte con la
moglie e la figlia; assiste a una lezione della precettrice a Léonor sull’uso
della parola “fouteau”2 ; confessa di non aver mai picchiato suo figlio -, le
donne del castello non esistono nei Saggi, mentre il padre vi compare
incessantemente sotto il suo aspetto migliore.
Oltre a questi silenzi, il libro contiene anche menzogne accertate. Come
la pretesa nobiltà di Montaigne. Numerose pagine fustigano la passione per
gli onori, la vanità del lignaggio che dispensano dal valore personale, le
ridicole onorificenze della società. Nondimeno, Montaigne proclama forte e
chiaro, e a più riprese, una nobiltà che risale solo a quattordici anni prima
della sua nascita! Non c’è di che pavoneggiarsi quando scrive - una volta
nei Saggi, un’altra nell’Effemeride a cui consegna fatti e gesta familiari —
che la terra di Montaigne è quella dei suoi antenati, quella in cui hanno
ormai riposto il loro affetto e il loro nome. Il padre come unico antenato?
Suvvia... La famiglia discende da commercianti bordolesi e tolosani che
avevano fatto fortuna nel commercio del pesce affumicato, probabilmente
con un'ascendenza ebraica portoghese, ma senza niente di sicuro.
Tuttavia, durante il suo viaggio in Italia, esibisce ben volentieri il suo
blasone come prestigioso biglietto da visita. Alla sua morte, non avendo
eredi maschi, siccome rimpiange la mancanza di un genero al quale
trasmettere le sue terre, il nome, il sapere, lascia in eredità la sua arme a
Charron. A Roma infine, Montaigne chiede di diventare cittadino della Città
eterna, non senza aver già domandato, e ottenuto anni prima - giusto dopo
la morte del padre... -, di essere elevato al rango di cavaliere dell’ordine di
Saint-Michel e gentiluomo ordinario della Camera del Re.
Subito dopo la scomparsa di Pierre Eyquem, fa cancellare dai documenti
ufficiali tutto ciò che tradisce una nobiltà troppo recente. Sopprime il nome
del padre - Eyquem - per conservare solo quello della sua terra: de
Montaigne... Non c’è bisogno di essere molto esperti in psicoanalisi per
notare queste coincidenze: morte fisica del padre, assassinio simbolico del
cadavere con l’annientamento del suo nome, ricusazione- del lignaggio
effettivo, rivendicazione infine di una filiazione simbolica più antica
attraverso la nobiltà. Proprio lui, che afferma forte e chiaro che questa si
acquista col solo valore personale, deve ancora effettuare il lavoro che gli
permetterà di non ricorrere inutilmente a questi artifici per costruire un
essere che sta in piedi.
 
 
6. Una parola messa per iscritto
 
I Saggi non sono dunque un libro per la sua famiglia, gli amici, ma un
libro per se stesso, nello spirito dei Pensieri (a se stesso) di Marco Aurelio -
stranamente assenti dai Saggi!, è l’autore preferito del padre - anche, e
soprattutto, nella prospettiva di ciò che Freud chiama il romanzo familiare.
Poiché Montaigne distorce i fatti, passa sotto silenzio, esagera, mente non
appena si tratta dei membri della sua famiglia. Inventa un lignaggio allo
scopo di costruirsi un’identità - in psicoanalisi sintomo delle nevrosi alla
base del complesso di Edipo - dice la teoria analitica - l’umiliazione e
l’esaltazione dei genitori, il desiderio di grandezza, l’aspirazione ad
aggirare le pulsioni incestuose, l’espressione della rivalità tra fratelli, - ah!
quel fratello morto in un incidente di pelota, probabilmente amante della
moglie di Montaigne! Non si può scartare tanto facilmente l’ipotesi dal
romanzo familiare. Merita da sola un’analisi accurata.
Né per i suoi, né per la memoria dell’amico defunto al quale Montaigne
non dedica l’annunciato tombeau (rinuncia infatti a pubblicare il Contro
uno nella sua opera, e testimonia così di un comportamento per lo meno...
non amichevole!), i Saggi non sembrano mai ciò che il suo autore pretende
che siano. I tre volumi pubblicati rientrano invece in un progetto di
autoanalisi - anche in questo caso in senso freudiano - con il lettore come
terzo, ma assolutamente non di un testamento per i parenti.
Del resto, mi stupisco di non aver mai letto che Montaigne non ha scritto
i Saggi. Da nessuna parte si legge questa informazione, ancor meno,
dunque, la sua analisi. Tuttavia il filosofo precisa ben quattro volte nel testo
che egli non scrive, ma detta. Parla, parla camminando nella sua torre, parla
a un terzo che annota. Terzo assente, di cui si ignora tutto. Un servo, un
amico? Non lo sappiamo. Ma per quattro volte possiamo constatarlo:
Montaigne dice persino che uno di questi scribi disonesto un giorno se ne
andato portandosi via un fascio di fogli dettati senza far più ritorno. Forse
esistono da qualche parte dei capitoli sconosciuti del manoscritto principe.
Montaigne lo afferma: dispone di una buona vista, certo, ma non può
leggere troppo a lungo e deve farsi aiutare da un altro. Probabilmente lo
stesso individuo al quale confida le sue improvvisazioni passeggiando
davanti ai mille libri della sua biblioteca, tra cui quelli lasciatigli da La
Boétie alla sua morte. Proviamo dunque a immaginare il metodo:
verosimilmente, un individuo legge ad alta voce passi di libri forse scelti - o
presi a caso. ..-da Montaigne, il quale ricama, lascia andare i suoi pensieri,
le sue idee, la sua meditazione a partire da questo supporto. Una specie di
associazione libera, di gioco intellettuale.
 
 
7. Odio per i libri dell’autore di libri
 
Il nostro eroe legge poco, come lui stesso dice. Solo quando incombe la
noia, o si aggira la malinconia. Non per passione travolgente o pulsione
morbosa. Né per desiderio di scrivere libri con quelli degli altri, mania che
egli disprezza per intere pagine e trova in opera presso coloro che egli
massacra nel capitolo intitolato Della pedagogia... La glossa e la glossa alla
glossa? Molto poco per lui... Ricordi della sua educazione erasmiana: il
libro, sì, certo, ma meglio la vita!
Dunque, gli vengono letti dei libri. Non dice in che proporzione si
avvicina a un testo attraverso un terzo oppure direttamente. Se il volume gli
resiste, se l’analisi gli sembra troppo complessa, insiste una volta, ma non
due. E lascia il libro ermetico senza insistere e senza complessi. Non ama
infatti la filosofia dura e pura. Preferisce le opere gradevoli, facili e
divertenti, con cui impara a essere migliore, a vivere come si deve e a ben
morire. Annota all’interno della copertina alcune parole di sintesi, le date
del completamento della lettura, e firma. Infine precisa che dopo i
quarant'anni non ha più letto interamente un solo libro.
In tutti questi casi, confessa che il tempo passato a contatto coi libri gli
sembra dannoso per l’esercizio del corpo. Ma camminare nella biblioteca,
dettare i commenti che gli vengono alla mente leggendo o ascoltando un
terzo leggergli libri scelti, brani precisi, o presi a caso, è un’attività a cui
dedica tuttavia un’ampia parte della sua vita, e alla quale alla fine confessa
di essere debitore di veri piaceri, come quelli che procura la conversazione
con uomini intelligenti o la frequentazione di donne belle e oneste.
Rifiuta che materia del suo libro sia quella di altri libri. Le letture, le
citazioni non costituiscono la struttura e l’armatura del suo pensiero, ma
occasioni, spunti, pretesti. Alle biblioteche preferisce la vita, ai libri
l’esistenza - le passeggiate in campagna, le cavalcate nella natura, la visita
delle sue terre e della sua gente. Nella sua biblioteca non si trovano le opere
complete di Guglielmo di Occam. Se difende posizioni nominaliste, non le
deve alla frequentazione della Somma di ogni logica, ma a quella delle sue
vigne, dei suoi vicini, anzi ai suoi viaggi nelle province francesi o in
Europa.
 
 
8. Il corpo aereo della voce
 
L’espressione è dello stesso Montaigne e caratterizza i Saggi! Attenzione:
essa spiega tutto. Il libro deriva dunque da cose dette. Quando ci si
interroga sulla struttura interna, nascosta, velata, segreta, quando si cercano
palindromi strutturali, non appena ci si comporta da numerologi, contando
il numero di Saggi, cercando quale posto occupa questo rispetto a quello, si
proietta una preoccupazione estranea a quella del suo autore - pessimo nel
calcolo, non portato per i numeri, ancor meno per le architetture insidiose.
Man mano che Montaigne detta i Saggi, il terzo annota alla velocità della
voce del narratore. Il filosofo cammina, parla, si ferma, riflette, riprende,
continua e lascia andare la sua immaginazione, improvvisa. Niente
composizione -il fantasma assai di moda in un’epoca ossessionata dalla
struttura fa danni negli anni 1570... -, niente piano alla maniera degli
scolastici: l’opera irradia come un immenso scoppio di risa lanciato contro
le macchine da guerra medievali ingualdrappate di retorica aristotelica:
questione, articolo, obiezione, risposta, soluzione, numerazione, tutti artifici
ai quali Montaigne non crede neanche un istante.
A questa chincaglieria concettuale, egli oppone la pagina libera, gioiosa,
sciolta. Se la ride degli apparati pseudoscientifici medievali. Salti e capriole
piuttosto che chiusure e forme dotte. Il flusso eracliteo gli si addice, ricama,
cuce, aggiunge, non taglia mai. Leggere Montaigne rendendogli giustizia
significa ascoltarlo, seduti su una poltrona, vicino al caminetto, pronti a
mettersi a disposizione di quella parola conservata per iscritto, ma costruita
oralmente. Non dimentichiamolo: l’invenzione di Gutenberg risale al 1455
e il libro, oggetto in voga, non ha ancora cancellato la tradizione orale, che
occupa una posizione di rilievo prima di questa data.
I Saggi propongono parole gelate, come quelle di Pantagruel nel Quarto
libro - le parole gelate di un uomo che si cerca, si parla, parla e cerca così di
trovarsi. Parole pronunciate nella calma della torre del castello, con un
testimone che le annota, certo, ma soprattutto parole pronunciate da un
uomo che parla a se stesso per scoprire la propria identità. Il famoso “Che
cosa so?” può essere letto anche: su di me che cosa posso sapere di
affidabile, di sicuro e di certo, che mi permetta di arrivare alla certezza del
mio essere? Una specie di “chi sono io?”. La parola montaignana domina, i
Saggi restano, ma accidentalmente, accessoriamente, come un promemoria,
una specie di effemeride più corposa del Beuther con cui conserva traccia
dei fatti e delle imprese della famiglia. I Saggi sono l’effemeride arruffata
del suo cammino verso se stesso. Infatti non cercherebbe se non avesse già
trovato.
 
 
9. Avere sulle labbra una lingua morta
 
L’oralità dipende dunque dal tropismo di un’epoca che si sta convertendo
al libro, all’edizione, alla pubblicazione. Ma anche da un movimento
specifico di Montaigne. Occorre infatti ricordare che questo ragazzo ha
sulle labbra una lingua morta, dono singolare ma avvelenato del padre, sin
dai primi momenti della sua presenza agli altri. L’immagine del mondo
passa attraverso la lingua che lo veicola, lo racconta, lo trasporta e lo
decifra. I segni cinesi e giapponesi creano un’intelligenza orientale - e
anche l’inverso.
Il latino va bene per uno spirito, un’anima, un carattere romani. E allora,
che fare di questa schizofrenia? Una lingua antica e romana appresa
all’epoca del Rinascimento, per di più su una terra guascona... Montaigne
ha come lingua materna una lingua... paterna e fantasticata! Invece di parole
calde, vive, eredita parole fredde come cadaveri. Come venire a patti con
questo destino funesto?
Montaigne parla in francese per disfarsi del latino. Ma non smette di
vivere come un Romano, con in testa fatti e gesta di questo popolo che lo
affascina. Il castello di Montaigne costituisce una Roma in miniatura a
causa del padre? Con la sua famosa torre crea il suo castello nel castello - la
cittadella interiore di Marco Aurelio. E qui, in compagnia degli Antichi,
con uno scriba come testimone, parla, si parla, non arresta quel flusso di
parole annotate dallo scriba sconosciuto di un capolavoro universale.
Scrivere non gli piace. Durante il suo viaggio in Italia, percorre l’Europa
con un gruppo di amici in cui si trova un uomo del quale ignoriamo tutto,
ma che tiene il dettagliato giornale di bordo del viaggio. Non sappiamo per
quali motivi Montaigne si separa da lui, ma quando eredita il manoscritto
scopre l’interesse di questo lavoro. Prende pertanto lui stesso la penna per
continuare, ma confessa la sua mancanza di entusiasmo. Ha mai dettato
brani, sensazioni, impressioni a questo compagno di viaggio? Lo si
potrebbe credere, vista l’armonia delle due parti dell’opera.
Nei Saggi utilizza numerose metafore che confermano il suo approccio
orale all’impresa: parla alla carta; non insegna ma racconta; confida che il
suo lavoro ha molti punti in comune con una libera conversazione. Certo,
avrebbe preferito un interlocutore capace di ricevere quelle lettere, un
Lucilio come pretesto per organizzare il suo pensiero. Poiché manca, parla a
se stesso e, verbalizzando, formula; cercando, trova. La voce genera
un’euristica; la biblioteca diventa il gabinetto; la deambulazione in quello
spazio chiuso e limitato crea una logica ipnotica; i libri letti e le citazioni
tratte nella biblioteca somigliano a una tecnica di associazione libera: i
Saggi diventano una traccia, un giornale di bordo di questa autoanalisi. La
traccia, il giornale di bordo.
 
 
10. Vie d’accesso ai Saggi di sé
 
Quando gioca al gioco che tutti hanno praticato qualche volta - quale dei
cinque sensi sacrificheresti se fosse necessario? -, Montaigne risponde: la
vista e l’udito. Non vuole proprio vedere, sentire - una confessione! - ciò
che avviene del mondo, ma per nulla al mondo sacrificherebbe la parola. Lo
comprendiamo: cieco, non vedrebbe i furtarelli della sua servitù o le
scappatelle della moglie col proprio fratello; sordo, non sentirebbe le
recriminazioni o gli ancor più dolorosi silenzi della madre, e le osservazioni
del padre; ma muto! Muto, non avrebbe potuto scrivere i Saggi!
Ama le discussioni, le gare oratorie che permettono lo sfregamento dei
cervelli e il germogliare delle scoperte. Ma chi può essere in grado di
rispondere a tono a un pensatore così famoso? La Boétie, idealmente, tanto
più che non è presente, è un partner emblematico - ma è morto... Pierre de
Brach o Charron, più tardi Marie de Gournay? Certo, ma Montaigne guarda
più in alto: mira ai grandi Antichi che parlano - per di più - la lingua della
sua infanzia!
Aiutato da questo orecchio assente e da questa ombra scomparsa,
Montaigne detta dunque i suoi Saggi. Se conosciamo la sua scrittura, non è
affatto quella dei manoscritti, ma quella delle aggiunte, addizioni e
commentari della sua stessa parola, che egli traccia sulla carta dell’edizione
dei suoi tre libri. Così, dal 1588 al 1592, Montaigne annota con tremila
commenti il solo primo libro, al quale aggiunge un secondo (1580), poi un
terzo (1588): tra le prime edizioni del primo libro e l’ultima preparata da lui
- e amputata di un terzo da un rilegatore maldestro -, Montaigne commenta
le proprie parole trascritte, aggiunge un commento scritto alla sua voce
fissata sulla carta. Non sopprime mai: del resto, ciò che è stato detto come
potrebbe non esserlo più?
 
 
11. Escrementi, affastellamento e cibreo
 
Scorrendo il testo, si scopre che Montaigne talora ha un’alta
considerazione di ciò che fa, talaltra no. Per qualificare il suo lavoro utilizza
una serie di metafore: un intarsio mal connesso, un affastellamento, un
cibreo scarabocchiato, gli escrementi di un vecchio spirito, altrove parla
della cannella di una fontana che perde. Effettivamente, il flusso di un
corso d’acqua, quello del fiume di Eraclito, si adatta assai bene: come non
ci si bagna mai due volte nello stesso fiume, e non si evita di avervi un
giorno immerso il corpo, non si può impedire ciò che è avvenuto!
Perciò dipinge più il passaggio che l’essere, si preoccupa più della
dinamica che di ciò che è statico. I tre libri si muovono, stormiscono,
tremano, fremono, si distendono, si contraggono, lunghi o lenti, tranquilli o
focosi, oscuri o illuminanti, precisi su un argomento, vaghi su un altro,
concentrandosi sulla questione annunciata in testa al capitolo oppure
abbandonandosi francamente alla digressione - quando talora la digressione
non ha come tema... la digressione! -, dedicandosi a tematiche serie - la
morte, l’amicizia - oppure apparentemente futili - le pulci, le carrozze!
I Saggi saggiano. Saggiano toni, stili, pensieri, ma anche opinioni, idee,
testano, ficcano il naso, scavano perché si tratta di trovare e scovare la perla
- diventata spesso sfortunatamente, nel corso dei secoli, la formula in cui il
pensiero si fissa: “filosofare è imparare a morire”; “un vero amico è una
dolce cosa”; “la meta della nostra corsa è la morte”; “il nostro grande e
glorioso capolavoro è vivere come si deve”; “la natura è una dolce guida”
ecc. Con parole vive si fabbricano pensieri morti.
Questo oratore, all’ascolto, da ascoltare passa per uno scrittore agli occhi
dei filosofi, e viceversa. Tutte occasioni per eliminare questa verità: egli
riunisce le due potenze: uno stile e un pensiero, un tono e una visione del
mondo. Montaigne non inventa, non se ne curava: creare un neologismo, a
che scopo? Occupazione da pensatore seduto! Egli preferisce parlare il
linguaggio dei suoi contadini, quello dei mercati generali - dice - e delle
persone modeste: in francese, in guascone se occorre. Creare un
personaggio concettuale? E poi che altro ancora... La filosofia non consiste
nell’inventare barbarismi, fumi o un linguaggio astruso, ma abita nella
parola che guarisce, salva e aiuta a vivere, dunque a morire - così come
l’inverso. E Montaigne si dice pronto a utilizzare tutte le risorse di ciò che
egli ...ascolta!
Un filosofo? Un creatore di finzioni, un individuo che mette a punto una
poesia sofisticata, dicono i Saggi. Il diario di questa messa a punto, ecco
cos’è il libro di filosofia. Perché dei Saggi? Perché Montaigne saggia finché
non trova. Saggiare significa cercare, darsi al bricolage, tentare, osare,
avanzare e indietreggiare, esporre i propri dubbi, scoprire certezze mirabili
o finire in vicoli ciechi. Questa forma corrisponde bene alla parola in
movimento, mai ferma, artificialmente ed erroneamente irrigidita. La voce
va, essa sola importa. La traccia di questa voce è già un’altra cosa...
Ancora una precisazione sull’oralità di Michel de Montaigne; sulla sua
inclinazione per la parola libera, il verbo tirato via, capriccioso e gioioso;
sulla sua passione per questa musica creata lì per lì, talvolta annotata, ma
nel momento stesso dell’improvvisazione, senza spartito a priori; solo una
parola sulla sua fine, la sua morte - lui che sapeva quanto gli ultimi giorni,
le ultime ore, danno senso a ciò che ha preceduto. Quest’uomo che aveva
sulle labbra una lingua morta ha sofferto di un edema alla gola, che gli ha
impedito di parlare per tre giorni. Secondo la lettera che Pierre de Brach
invia a Giusto Lipsio, Montaigne ha rimpianto durante quelle settantadue
ore di non aver avuto accanto qualcuno per dettargli il suo stato d’animo.
 
 
12. Saccheggiare gli Antichi...
 
Montaigne utilizza una simpatica metafora quando afferma che egli
saccheggia i fiori come le api per fare il miele... Poiché effettivamente egli
bottina, va, viene, passa  dall’uno all’altro, ma frequenta sempre gli stessi
pascoli. Ai fiori moderni o contemporanei, preferisce gli antichi. Per uno o
due riferimenti a Tasso, Machiavelli, Buchanan, Lutero o Montluc, tanti gli
attori del florilegio pagano! Sulle sue travi, del resto, come in una specie di
cielo costellato di lettere sopra la sua testa, fa incidere cinquantasette
citazioni che, a parte una frase di Michel de l’Hôpital, sono tutte tratte dal
corpus dell’Antichità.
Nella sua torre, in quella stanza piena di libri, sotto le travi che in cielo
collocano non Dio, ma gli dèi della letteratura e del pensiero antico,
Montaigne crea un mondo a portata di mano, popolato di figure antiche, sue
contemporanee. Là egli parla latino, almeno pensa in romano, poi formula
in francese le sue osservazioni in un mondo che non ama: decadente,
cattivo, corrotto, perverso, mentitore, barbaro, crudele, sanguinario, non ha
parole abbastanza dure per fustigare la sua epoca. Perciò si rifugia nella
geografia di un gabinetto di filosofia e nella storia di un mondo di ieri,
dell’altro ieri.
La tradizione, in cerca di periodi e di strati nei Saggi, propone un triplice
Montaigne: stoico, scettico, epicureo. Quando ci si accorge di quanto il
libro stesso si costruisce per aggiunte e stratificazioni sovrapposte, diventa
difficile progredire orizzontalmente nell’opera se si cerca di penetrarla
verticalmente, cercando le profondità e i basamenti.
Il pensiero di Montaigne non è segnato successivamente da questa o
quella impronta, esso è continuamente tormentato dall’intera Antichità, di
cui il più delle volte si dimentica che essa non si limita a questi tre momenti
classici. Che ne è in effetti di Platone e di Aristotele? O dei cinici e dei
cirenaici? Così come di Eraclito... I Saggi, più che un cantiere di scavo per
archeologi, sono come una centrale atomica continuamente in tensione -
alimentata non solo dall’energia che deriva da Epicuro, Seneca e Sesto
Empirico, ma da tutte le forze che compongono il mondo antico.
Il nostro non legge per fare una glossa supplementare o dare la sua lettura
criticando le ipotesi degli autori che l’hanno preceduto. Non scrive una tesi,
una memoria, un libro, come tutti quei pedanti che mettono disordine in
un’opera, trasferiscono i blocchi, spostano i mobili, risistemano la stanza e
credono di pensare, mentre invece effettuano solo un lavoro di sgombero.
La sua biblioteca non è la materia del libro, ritrovata in mille pezzi dentro
frammenti più o meno allegati e citati, ma una riserva di immagini, di
pensieri, di aneddoti utilizzati per abbozzare la parola che porta con sé il
pensiero. E libera l’autoritratto di un filosofo inquieto di se stesso e
preoccupato di provare la validità del suo essere.
Montaigne ama la filosofia per la gente comune e della strada, gli
interlocutori del mondo antico. Agli antipodi di un pensiero destinato ai
professionisti, ai filosofi di mestiere, ai funzionari del pensiero - i quali per
questa ragione non lo riconoscono come uno dei loro, e hanno davvero
ragione -, mira anzitutto all’edificazione di sé. Se il suo libro può poi servire
al lettore, tanto meglio, ma esso non esiste anzitutto per gli altri. Da qui la
sua arte di rubacchiare tutto ciò che è utile al suo progetto. Ciò che preleva
nelle opere della sua biblioteca serve anzitutto al suo disegno: elaborare un
miele impareggiabile.
 
 
13. Giocare Socrate contro Platone
 
I Greci non sono i suoi preferiti. Anzitutto perché egli impara la lingua di
Omero più tardi del latino, e poi perché la ricorda male. Inoltre il tropismo
ontologico e metafisico dei filosofi dell’Ellade mal corrisponde al suo
desiderio di pensare la vita, l’amore, la morte, l’amicizia, il mondo di qua.
Il cielo delle Idee di Platone? Troppo poco per lui... Il Numero di Pitagora?
Non ci crede più di quanto non ere-da agli Atomi di Epicuro... Finzioni...
Idiozie... Arriva persino a dubitare che quei tre abbiano potuto credere a
sciocchezze simili! Montaigne rifiuta il pensiero speculativo, la teoretica e
l’idealismo in tutte le sue forme. Come trovare allora la sua felicità presso i
Greci?
Nell’Apologià di Raymond Sebond si burla delle opzioni pitagoriche
concernenti la metempsicosi e la metemsomatosi. Dunque di quelle di
Platone, che copia esattamente queste tesi... Ma che idea è questa
dell’anima immateriale separata dal corpo - accostata dai Saggi a quella dei
musulmani, altrettanto errata - e destinata al paradiso o all’inferno a
seconda della vita vissuta dal suo antico ospite!
Senza negare chiaramente l’esistenza dell’anima immateriale, ma pur
associando potentemente la sua esistenza a un corpo inseparabile,
Montaigne scarta questi deliri relativi a una vita dopo la morte, a un mondo
al di là del mondo, a un qualunque destino post mortem. Se qualcosa esiste,
non somiglia sicuramente alla vita che c’è prima della morte - con
godimenti, beatitudini, gioia ecc. Di che far piacere al Vaticano!
Neanche per quanto riguarda la forma, ama l’autore del Fedone: è troppo
alambiccato, non va mai direttamente al sodo, si impiglia nella logica dei
suoi dialoghi, eccessivamente denso, con un ritmo ai suoi occhi troppo
lento. Le concatenazioni dialettiche, la retorica speciosa, le chiacchiere
inutili, le costruzioni, non gli piacciono anche per gli effetti che hanno sulla
Storia. Montaigne vede bene il lignaggio, la filiazione che porta da Platone
all’odio di sé e del corpo dei cristiani. E non è un sostenitore, lui, dell’ideale
ascetico. I Saggi non cessano di fustigare chiunque consideri il corpo come
un nemico. Platone non poteva essere un amico.
La sua lucidità - che ancora oggi non ha fatto abbastanza discepoli su tale
questione - gli fa ben distinguere Socrate e Platone. Egli vede giusto nel
separare nettamente la creatura del filosofo costruita come una finzione per i
suoi dialoghi e la realtà storica del Sileno della cicuta. Quanto Platone gli
importa poco, tanto Socrate è il suo eroe: coraggioso, determinato, virtuoso,
dotato di un’immensa capacità di persuadere, onesto, retto, l’eroe dell’agorà
che invita ognuno a conoscersi non poteva che sedurre il solitario che mira
allo stesso obiettivo nella sua torre.
E poi apprezza il pensatore che afferma la sua ignoranza: Socrate sa una
cosa e sa di non sapere niente. Il famoso scetticismo sempre supposto in
Montaigne nella storia tradizionale delle idee dimentica che il filosofo, più
che per Sesto Empirico, il quale arriva alla sospensione del giudizio, opta
per Socrate, convinto che il sapere non è di grande utilità, all’infuori
dell’obbligo di cercare ancora e sempre, dunque di preferire la ricerca alla
scoperta.
Se fosse davvero discepolo dei pirroniani, Montaigne fermerebbe la sua
ricerca, giudicandola vana quanto il resto. Ugualmente, sospenderebbe il
suo giudizio, trovando impossibile distinguere il bene dal male, il buono dal
cattivo: perciò, come potrebbe scrivere tra le pagine più belle contro la
distruzione delle civiltà al momento della scoperta del Nuovo Mondo,
contro l’impiego della tortura, contro la persecuzione delle streghe, contro il
disprezzo dei cannibali, se non avesse saputo dove si trovavano verità
altrimenti preferibili: il rispetto delle differenze di cultura, di colore, di
pensiero... Alla maniera di un Socrate che dubita molto, ma non di tutto,
Montaigne non si limita alla rinuncia apatica dei discepoli di Pirrone.
Platone, no: Socrate, sì, ma deplatonizzato; Pirrone, certamente no;
Aristotele assolutamente no. I Saggi gli riservano uno spazio quasi nullo.
Certo, egli conosce l'Etica nicomachea, ma non la utilizza molto. Eppure
sull’amicizia, o sulla moderazione, avrebbe potuto trovare materia da
saccheggiare per il proprio miele, ma no... L’ombra dello Stagirita gli
dispiace perché in Aristotele vede - a ragione - l’autorità della Scolastica, e
per questo motivo non lo ama molto.
 
 
14. Diogene & Co.
 
Il suo amore per un Socrate dissociato dalla sua caricatura platonica gli fa
amare le figure di Diogene e di Aristippo, essenzialmente interessati a una
saggezza pratica, qui e ora, alla ricerca di un’ascesi utile per costruire se
stessi come individualità sovrane, autonome e libere. Quando convoca
Aristippo di Cirene, Montaigne ne sottolinea l’ardente passione per
l’indipendenza, per una vita vissuta senza dover rendere conto a nessuno -
salvo che a se stessi.
Montaigne, con queste due eccezioni antiche, spesso nascoste,
dissimulate, dimenticate - gli si preferiscono le macchine da guerra
platoniche e aristoteliche, utili per scavare il letto cristiano... -, condivide un
nominalismo radicale. Ora il nominalismo è una delle componenti
essenziali di ogni edonismo: se le Idee esistono, risiedono in un Cielo in cui
esse minacciano alla maniera di dèi cattivi. La lettura verticale del mondo
trasforma sempre la terra in valle di lacrime, al contrario delle letture
orizzontali, che rendono possibili vagabondaggi gioiosi.
A Platone che crede alle Idee, Diogene risponde col gesto, lo humour,
l’ironia: contro l’idea di Uomo definito come «bipede senza piume», egli
non propina una diatriba in tre punti, ma spiuma un pollo e lo lancia tra le
gambe del filosofo idealista costretto perciò, sotto i lazzi, ad aggiungere alla
sua definizione: «e dalle unghie piatte». La lanterna di Montaigne illumina
il mondo reale, la realtà frammentata, varia, molteplice, ondeggiante,
mutevole, illuminaci flusso come verità del mondo. Ma mai le Idee.
A questo nominalismo, aggiungiamo anche una fiducia assoluta nella
natura: i cinici e Montaigne amano gli animali e danno, ognuno col suo
bestiario, lezioni agli uomini invitandoli a preferire la via dell’imitazione
della natura alle sirene della cultura e dell’artifizio. Il pesce masturbatore, il
topo che mangia briciole, l’aringa trascinata al guinzaglio, la rana
nell’acqua gelida, insegnano agli uomini l’autonomia, la frugalità, la
determinazione, la resistenza; la gatta al castello,  il saccheggiare delle
mosche sul miele, il. volo delle rondini, la balena e il suo piccolo pesce
offrono altrettante occasioni per meditare sulla vicinanza degli animali e
degli uomini, la determinazione e la necessità che operano nel vivente -
compresi gli umani -, la complementarità armoniosa di tutto ciò che
compone il mondo. Senza parlare dell’alcione e del pidocchio che migrano
nella storia della filosofia!
Dai cirenaici, la cui opera è scomparsa in misura maggiore di quella dei
cinici, Montaigne riprende la passione del suo araldo, Aristippo di Cirene,
per la libertà assoluta e l’identificazione del bene supremo e della voluttà,
non epicurea e negativa - l’assenza di turbamento -, ma in movimento,
attiva, dinamica. Il fuoco d’artificio degli ultimi capitoli del terzo libro
deriva da questa sensibilità edonista: la fiducia data al corpo, alla carne, ai
sensi, al piacere, un’aspirazione alla vita felice, gioiosa, a una gaia scienza,
a una cultura del corpo senza falsi pudori, tutte idee riprese dal corpus
dell’uomo di Cirene, anche lui feroce oppositore di Platone e dei
platonismi.
 
 
15. Uno stoicismo epicureo!
 
L’opposizione tra lo stoicismo e l’epicureismo molto spesso sembra
artificiosa, soprattutto in Seneca, l’autore prediletto di Montaigne. Per
ragioni di strategia politica - e di politica platonica -, Cicerone critica
entrambe le scuole, che si somigliano in più di un punto. Le Lettere a
Lucilio lo mostrano molto spesso. Seneca stesso, onesto, non disdegna di
utilizzare questa o quella idea di Epicuro se la trovai giusta. Sulla questione
della morte, del suicidio, della sobrietà, per esempio, Giardino e Portico
professano opinioni identiche.
Montaigne ripensa questo pregiudizio andando oltre. Né stoico in un
periodo, né epicureo in un altro, saccheggia in un mondo da cui preleva la
sua decima. Dagli stoici riprende l’idea che non esiste un’oggettività del
dolore, ma una percezione soggettiva e costruita. Così il reale implica
anzitutto una rappresentazione su cui abbiamo un certo potere. Non i pieni
poteri, certo - non disponiamo dei mezzi per annullare con il nostro solo
volere una crisi dovuta al mal della pietra... -, ma abbastanza per ottenere
risultati tangibili e aumentare la nostra serenità. Idea utile in una prospettiva
edonista.
Da Epitteto riprende la distinzione tra ciò su cui abbiamo potere e ciò su
cui non ne abbiamo. Non serve a nulla eccitarsi, irritarsi, corrucciarsi per
ciò che sfugge alla nostra volontà: in casi simili è meglio imparare a subire,
sopportare e astenersi. Anche la distinzione tra il campo su cui è possibile
agire e la parte immodificabile con cui occorre venire a patti apre vie
interessanti per costruire una morale edonista. Una crisi di renella si capisce
senza problemi con le categorie elaborate dai filosofi dell’età imperiale.
Certo, con dei limiti, in quanto Montaigne non difende quelli che
legittimano il dolore pretendendo che esso permetta di esercitare e misurare
le proprie forze.
A più riprese i Saggi affrontano la questione del suicidio. In
un’esposizione disordinata dove si possono leggere le tesi antiche, gli
aneddoti degli eroi della morte volontaria, la posizione ufficiale della
Chiesa, si svelano finalmente le simpatie di Montaigne per l’opzione stoica:
decidere della propria fine è una buona cosa, poiché si tratta di vivere non
quanto si può, ma quanto si deve. Per evitare la sofferenza, una morte
peggiore o un disonore, questo espediente pagano offre un vero cordiale.
Gli epicurei avanzano la stessa idea. Epicuro anzitutto, e Lucrezio.
Montaigne conosce molto bene questi due autori, quanto i poeti elegiaci del
secondo epicureismo, romano, meno austero di quello delle origini. Molto
prima di Gassendi, ma un secolo dopo Lorenzo Valla, e dopo Erasmo, egli
riabilita la memoria di Epicuro, di cui ricorda la morale austera, i rigidi
principi, la vita esemplare e virtuosa. Contro le calunnie, Montaigne opera
un’autentica riabilitazione francese; la prima nel pensiero.    -
Dal padre del Giardino, egli riprende un numero maggiore di idee che
dagli stoici. Alla rinfusa: vivere secondo la necessità non è una buona cosa,
ma non c’è nessuna necessità di vivere secondo la necessità; la morte non ci
riguarda né da vivi né da morti: vivi, non c’è lei, morti, non ci siamo più
noi; è sempre l’ora e il momento di filosofare, per questa attività nessuno è
mai né troppo vecchio né troppo giovane; tra i desideri, alcuni sono naturali
e necessari, altri no; il benessere è identificabile con l’assenza di
turbamento, che definisce in parte la felicità; il dolore è sopportabile,
perché, se non lo è, si muore; da Lucrezio infine prende in prestito l’idea
che se il desiderio ci tormenta troppo, basta il primo corpo che capita per
sbarazzarci della sua tirannia troppo insistente.
Questa sintesi tra i principi etici del Portico e del Giardino elimina la
fisica, per non parlare della metafisica delle due scuole. Ai primi Montaigne
lascia la cosmogonia panteistica, il materialismo energetico; ai secondi il
radicalismo della teoria atomista. La morale, sì, i principi etici, pure, la
saggezza pratica, indiscutibilmente, gli esercizi spirituali, le massime a uso
dei comportamenti effettivi, evidentemente, ma niente di più. Niente
monismo, niente materialismo, niente politeismo, poiché Montaigne è...
cristiano.
 
 
16. Recuperi bigotti    
 
Sulla religione di Montaigne è stato scritto tutto, e il contrario di tutto.
Alcuni parlano del suo ateismo, ma ciò significa prestare poca attenzione
alla sua franca e netta condanna delle posizioni ateistiche, alla sua
opposizione a ogni irreligiosità e alla sua affermazione esplicita di essere
nato nella religione cattolica, apostolica e romana, e di aspirare a morire in
questa fede; all’altra estremità, alcuni sottolineano le sue simpatie per la
Riforma: che cosa significa allora la rinuncia di Montaigne a pubblicare il
libro di La Boétie nei suoi Saggi, col pretesto che favorisce quel partito la
cui esistenza rappresenta un progresso verso la negazione di Dio? Come
leggere i passi dove le novità di Lutero sono presentate come malattie
suscettibili di uccidere il corpo cattolico?
Del resto, un’etnologa ebraica pretende assolutamente che Montaigne sia
marrano e difende questa posizione ritenendo ebraica l’etimologia di
Eyquem. Perciò, siccome lo è anche Montaigne, e pure La Boétie - da qui la
ragione della loro amicizia -, i Saggi rientrano nella tradizione ermeneutica
ebraica, e lo humour del filosofo non può che essere ebraico (anche se
l’ebraicità si trasmette attraverso la madre, e questa era cattolica! ); e se il
Perigordino deve pur nascondere la sua religione ebraica per evitare le
persecuzioni, passa però la sua vita intima a vivere da ebreo, come quando
dice di ricorrere tutti i giorni al Padre Nostro, preghiera esplicitamente
ebraica... Come volevasi dimostrare!
Montaigne aveva previsto la disonestà dei glossatori, abili a tirare dalla
propria parte le posizioni complesse di un pensatore, semplificarne le
affermazioni, farne la caricatura e fargli dire ciò che egli non ha detto.
Esempi: se il pensatore non conferma mai di essere ebreo, significa che lo è;
se afferma l’esistenza di Dio, significa che non ci crede; se confessa la sua
simpatia per la Chiesa cattolica, significa che nasconde un odio sincero per
essa; se tace sulla notte di San Bartolomeo nei suoi Saggi e le pagine della
sua Effemeride sono strappate alla data dei massacri di ottobre, significa che
egli è un seguace di Lutero e Calvino. Montaigne chiede udienza al papa?
E' la prova che si tratta appunto di un libertino.
Ora esistono dei testi espliciti, pagine chiare, frasi che non tollerano una
falsa interpretazione; e poi la biografia testimonia: non si può far dire al
libro e alla vita ciò che francamente essi non dicono! Lasciamo da parte le
opzioni atee, protestanti ed ebraiche, che derivano da una lettura rozza e
deontologicamente più indifendibile. La probità costringe a leggere con
finezza, a individuare e confrontare le affermazioni che non si
contraddicono mai: la religione di Montaigne è sottile, personale. Alla sua
portata, di suo gradimento. E' la religione di un uomo libero non ostacolato
dal cielo più di quanto sia necessario.
 
 
17. L’ex voto del filosofo
 
Montaigne rivendica un cattolicesimo moderato. Anche se l’espressione
può far sorridere. Come si può parlare di cattolicesimo moderato quando
per trentacinque anni imperversano le guerre di religione, il massacro di
San Bartolomeo fa tremila vittime in una sola notte, quando si succedono le
scomuniche decretate dalla Chiesa, e con esse le torture e i supplizi? Come
è possibile allora, in questo clima, pensare e comportarsi da moderato?
Appunto: se questo cattolicesimo non è moderato, allora esso non fa che
accrescere la violenza da una parte e dall’altra. Sul soffitto della sua
biblioteca, una sola citazione -come ho detto - proviene da un
contemporaneo: Michel de l’Hôpital. Uomo di pace, diplomatico, amico dei
poeti, si devono a lui non solo l’editto di Ramorantin (1560), con cui aveva
già impedito l’introduzione dell’inquisizione in Francia, ma anche l’editto
del gennaio 1562 sulla libertà di coscienza e di culto, pubblico e privato.
Verosimilmente, questa posizione corrisponde a quella di Montaigne, il
cui fratello - ricordiamolo - e due sorelle aderiscono alla religione di Lutero.
Come non essere tolleranti in questi casi, quando le famiglie sono così
travagliate dalle guerre di religione? Posizione che solo la moderazione
rende possibile. Essa richiede infatti dei compromessi, una flessibilità, una
libertà che rifiuta l’obbedienza assoluta sia alla Lega che ai seguaci della
Riforma. Né guelfo né ghibellino. Dunque altrove.
La vita di Montaigne è cattolica: per esempio, sin dall’età di ventinove
anni, quando niente e nessuno lo costringevano, presta giuramento di
fedeltà alla religione cattolica al Parlamento di Parigi; a trentotto anni,
quando rinuncia alla vita pubblica, si sistema nel castello, si ritira nella sua
torre, e qui fa allestire una cappella dedicata a san Michele benché nel
castello, a pochi metri di distanza, esista già un luogo di culto. Nella sua
stanza fa ricavare un’apertura per seguire la messa celebrata a pianterreno,
quando la renella lo costringe a letto. A quarantaquattro anni compie un
pellegrinaggio a Notre-Dame-de-Lorette: festeggia la Pasqua, fa la
comunione, acquista un ex voto d’argento che lo raffigura in ginocchio con
la moglie e la figlia, sotto la protezione della Vergine. A cinquantanove
anni, quando muore, riceve da un prete l’estrema unzione, che si era
premurato di chiedere; si spegne del resto, dice la leggenda, durante
l’elevazione...
Difficile leggere i Saggi come se quest’uomo non fosse vissuto così:
difficile anche considerare questi fatti come se Montaigne non avesse mai
scritto una sola riga. Il cattolicesimo del filosofo implica l’accettazione
delle regole del gioco, l’obbedienza alla legge comune del paese in cui vive.
In terra musulmana Montaigne avrebbe verosimilmente mostrato la sua
fedeltà alla religione di Maometto; a Persepoli sarebbe stato mazdeo; a
Ginevra, un secolo dopo, calvinista; al Polo Nord chamanista, e buddista a
Lhasa.
Montaigne non ama la sua epoca. Conservatore, teme più di tutto il
cambiamento che causa sconvolgimenti, dunque intolleranza, spargimento
di sangue, guerre. La Francia è cattolica? Lui è cattolico. Niente di più.
Mostra segni di appartenenza e pratica la religione del suo re e della nutrice
- per dirla con le parole di Descartes -, senza millanteria. Né bigotto o
bacchettone, né ateo o anticlericale, ma laico, ossia consapevole che la
religione agisce da cemento sociale, da occasione comunitaria utile al
funzionamento di ogni società. La sua religione cattolica è una stanza del
suo edificio politico conservatore.
 
 
18. Un epicureismo cristiano
 
Vada dunque per il cattolicesimo, ma certo non in modo cieco, abdicando
completamente allo spirito critico. Si può quindi essere d’accordo con
l’opzione più generalmente ammessa dalla critica: Montaigne fideista.
Certo, il fideismo afferma la necessità di accontentarsi della fede e di
rifiutare ogni giustificazione razionale dei dogmi. Non c’è bisogno di
chiedere alla ragione prove dell’esistenza di Dio o dell’eccellenza della
religione cattolica. E' sufficiente credere. Il fideismo rifiuta ogni possibilità
di teologia. E ogni alienazione della filosofia al suo servizio. Perciò la
disciplina va a collocarsi sul solo terreno che le si addice: l’immanenza.
Ma questo fideismo è adatto solo per pensare, affrontare e comprendere
l'Apologia di Raymond Sebond. Benché anche in queste pagine Montaigne
non indietreggi davanti all’uso di alcuni argomenti per dimostrare
l’esistenza di Dio è dedurre l’architetto a partire dall’architettura, o a fare
appello all’ordine del mondo per supporre ad esempio un grande ordinatore,
tutte picconate all’ortodossia fideista.
Nel resto del suo grande libro, Montaigne non rinuncia al tentativo di
razionalizzare un certo numero di questioni religiose. I miracoli ad esempio,
che denotano ciò che sfugge al nostro pensiero e alla nostra intelligenza
della situazione. O la forma di Dio, dedotta a partire dalle categorie e
costrizioni del razionalismo umano: molto prima di Feuerbach, Montaigne
afferma che l’uomo si rappresenta Dio a propria immagine, impotente a
pensare altrimenti che a partire da se stesso.
Io propendo piuttosto per un epicureismo cristiano in Montaigne.
Ossimoro molto utile per qualificare questo cattolicesimo moderato:
cristiano perché cattolico, e moderato grazie all’opzione epicurea. Poiché
Montaigne non accetta l’ideale ascetico della religione. Vuole sì recitare il
suo Padre Nostro, assistere alla messa, deporre ex voto, sollecitare un
sacerdote per l’estrema unzione, ma non morire da vivo, né rinunciare
all’uso del corpo. Poiché, volendo trasformare l’uomo in angelo, il
cristianesimo ufficiale ne fa una bestia, dice esplicitamente Montaigne -
cosa di cui Pascal si ricorderà.
Contro l’insegnamento della Chiesa, l’autore dei Saggi fustiga coloro che
praticano una religione della verginità e compiange le donne perché si esige
da loro l’impossibile su questo terreno; chiede che non si renda desiderabile
il divorzio complicandone inutilmente l’accesso; giustifica il suicidio
ritenendo che un’esistenza diventata dolorosa non appartiene a Dio, ma
prioritariamente a colui che soffre; respinge radicalmente ogni dolorismo
proveniente dalla chiesa di San Pietro che invita all’imitazione della
passione eristica e legittima il dolore come prova salvifica.
A questa critica del disprezzo del corpo presso i cristiani, egli aggiunge
una critica metafisica confutando il teismo: Dio non desidera ciò che
avviene nei minimi particolari, come credono i seguaci del Vaticano.
Pensando in questo modo, Montaigne evita di seguire un Dio
antropomorfizzato che vedrebbe tutto, sentirebbe tutto, saprebbe tutto e
vorrebbe tutto, fin nei più minuti aspetti della vita degli uomini. Il suo Dio
appartiene nettamente al pantheon dei filosofi - assai lontano da quello di
Abramo e di Giacobbe.
Rifiutando questa concezione di un volere di Dio confuso coi movimenti
del mondo, Montaigne non è lontano dall’entrare in relazione con gli adepti
del deismo (il termine nasce del resto nel 1564 nell'Instruction chrétienne,
sotto la penna di Pierre Viret). Per essi Dio esiste, certo, ma assolutamente
non in un rapporto di causalità col quotidiano. Come l’orologiaio di
Voltaire, crea l’orologio, ma non è responsabile del suo possibile ritardo.
Difendendo idee simili, Montaigne illustra una forma singolare e inedita di
rapporto col cielo: una specie di deismo francese! Chi non vede qui una
reminiscenza degli dèi epicurei, indifferenti al destino del mondo e degli
uomini?
 
 
19. Dispiacere al papa
 
Critico nei confronti della teoria cristiana del corpo e della metafisica
teista, Montaigne attacca anche la cosmogonia celeste sostenuta dalla
Chiesa ufficiale: come aveva avuto modo di constatare su se stesso in
occasione di un incidente a cavallo, l’anima e il corpo sono legati
intimamente. Ciò che tocca l’uno colpisce l’altro. Nel terzo libro, parla
anche di «mosche e atomi che portano a spasso la (sua) volontà» - o del
cervello come sede dell’anima. Da qui a concludere con un’opzione
francamente materialistica, e una concezione del corpo composto
essenzialmente di materia, non c’è che un passo.
Allo stesso modo, Montaigne critica il paradiso dei cristiani, un errore
netto quanto quello dei musulmani sullo stesso tema. Si ride assai volentieri
del paradiso tappezzato, ornato d’oro e di gioielli, popolato di garces3 -
come si diceva allora - bellissime, dove il vino scorre a fiumi, e il cibo
pure? Certo, è giusto, perché si tratta di storie e di finzioni destinate a
incantare quegli ingenui degli uomini. Ma come non vedervi anche una
critica del paradiso dei cristiani, popolato di promesse altrettanto fittizie?
Come se ciò non bastasse, Montaigne traccia un quadro critico delle
posizioni della Chiesa nella Storia e di fronte a essa: ad esempio, verso
Giuliano l’Apostata. In realtà, l’imperatore non può essere apostata, perché
non è mai stato cristiano. Come si può apostatare da una religione mai
professata? Montaigne fa un ritratto assai elogiativo di quell’uomo di Stato
che, nel momento in cui la Chiesa diventa ufficiale e ne approfitta, si sforza
di restaurare i culti pagani e la religione politeista - tollerante e sincretista.
Giuliano? Un uomo casto, filosofo dilettante, virtuoso, non sanguinario,
sobrio, austero, colto, eccellente soldato, valoroso e coraggioso che crede
nell’esistenza di un’anima immortale, veramente pio: come non amare un
tale modello di virtù antica? Bisognerebbe forse preferirgli Costantino, che
convertì insieme se stesso e l’impero, e al quale si devono - Montaigne è
l’unico filosofo di tutti i tempi ad averlo mai affermato - autodafé, roghi,
crimini, assassini, violenze, la distruzione della maggior parte del sapere e
della saggezza antica? Poiché, come affermano i Saggi, la distruzione
cristiana di tutte quelle biblioteche ha nociuto alle lettere più di tutte le
fiamme dei barbari...
Alla riabilitazione di Giuliano Montaigne aggiunge, di sfuggita, un elogio
di Copernico, sostenitore dell’eliocentrismo e della rivoluzione dei pianeti
su se stessi e - cosa che avrebbe riempito di gioia Giuliano, seguace del
Sole invitto - attorno al sole. Ma la Chiesa sostiene ufficialmente il
geocentrismo: Dio ha creato la terra perfetta, che perciò non può muoversi
alla periferia dell’universo. Per difendere le stesse idee, Giordano Bruno,
condannato dalla Chiesa, sale sul rogo nel 1600, rogo a cui Galileo sfugge
per un pelo, grazie a una ritrattazione in piena regola.
Essere cristiano, dice Montaigne, significa essere «giusto, caritatevole e
buono». Appunto. All’infuori di ciò, non c’è bisogno di credere che il corpo
è detestabile, che le donne devono preservare la verginità come un tesoro,
che Dio si occupa del destino di ciascuno in particolare, che l’anima è
immortale, che esiste il Paradiso, e dunque anche l’inferno, che Giuliano è
detestabile e Copernico da perseguitare.
Strano Montaigne! Sollecita un’udienza papale durante  il suo viaggio a
Roma... Evidentemente la ottiene. Gregorio XIII solleva la sua pantofola
affinché il filosofo possa baciarla chinandosi un po’ meno degli altri. I
particolari hanno la loro importanza, esprimono i gradi dell’amore per il
prossimo. Il filosofo sottopone i suoi Saggi alla censura del Vaticano. Tra il
dicembre 1580, quando assiste alla messa di Natale, e il 20 marzo 1581,
data in cui gli viene restituito il suo libro, Montaigne visita Roma, la patria
mentale -e la parte mentale - della sua infanzia.
I censori ufficiali hanno letto. Non bene, a giudicare dalla loro incapacità
a rilevare tutto ciò che poteva dispiacere alla Chiesa. Gli viene chiesto di
utilizzare un po’ meno la parola Fortuna. Al suo posto, Dio starebbe
meglio, gli viene detto. Inoltre cita autori eretici: ad esempio Teodoro di
Bèze. Infine, fa l’elogio di Giuliano! Più alcune bazzecole. Ascolta le
osservazioni, e non ne fa nulla. Tutto Montaigne è qui: cattolico, sottopone
la sua opera alla Chiesa, perché vuole essere fedele, ma quando si tratta di
scegliere tra essere fedele a se stesso o esserlo alla Chiesa, non tergiversa un
secondo. Cristiano sì, ma anzitutto epicureo: ossia geloso della sua libertà di
pensare, scrivere, leggere. Vivere.
 
 
20. Una lepre senza pelo e senz’ossa
 
Montaigne si muove chiaramente nel campo nominalista, come tutti gli
antiplatonici, anzitutto Diogene il Cinico e Aristippo il Cirenaico.
L’esistenza di un reale irreale, al di là del reale, gli sembra stravagante.
Niente cielo delle Idee, niente Paradiso, la sua formula religiosa, e niente
trascendenza, niente lettura verticale del mondo con al vertice una finzione
venerata e generatrice di alienazione. Un’idea? «Come parlare di una lepre
senza pelo e senz’ossa», scrive Montaigne.
L’uomo non esiste. Molto prima di Foucault, insegna la morte dell’uomo,
come prima di lui Diogene e il suo gallo spennato. Ma questa morte
dell’idea d’uomo non esiste senza l’affermazione dell’esistenza di una
pluralità, di una molteplicità, di una diversità degli uomini. Montaigne
rigetta il modello, il tipo ideale, ma per meglio invocare attenzione verso le
realtà terrestri, concrete, immanenti, incarnate. I Saggi più che l’Uomo -
con la maiuscola - cercano ciò che caratterizza Michel de Montaigne nella
sua infinita complessità. E paradossalmente, cercando un uomo particolare,
lui, Montaigne, trova l’uomo in generale, poiché ai suoi occhi ogni
individuo riassume la condizione umana.
“Che cosa so?” significa: che cosa possono sapere gli uomini? “Chi
sono?” vuol dire: che cosa sono gli uomini? Queste domande fondano
un’antropologia moderna perché sbarazzata dai legami col divino, la
divinità, Dio, gli dèi o la trascendenza in tutte le sue forme. Il Rinascimento
è caratterizzato dall’immenso sforzo di lasciare Dio al suo posto, e anche la
religione; dopo si apre agli uomini un ampio viale per l’esercizio della loro
libertà.
Progredendo verso la conoscenza di sé, il filosofo avanza verso la
conoscenza degli uomini in generale: l’analisi di sé passa attraverso
considerazioni sui cannibali del Brasile incontrati a Rouen, le stre he
bruciate sui roghi dell'Inqui sizione, la follia del Tasso visitato nella sua
prigione di Ferrara; implica considerazioni sul processo di Martin Guerre a
Tolosa al quale assiste, o ancora l’assassinio di Coligny, l’esecuzione di
Maria Stuart, o gli assedi, le guerre e le altre peripezie di cui discorre nei tre
libri della grande opera.
 
 
21. Un pensiero del fiume
 
I sostenitori dell’idea difendono Parmenide e la sua immobilità, la sua
lettura del mondo fuori dal tempo e dallo spazio, la sua inclinazione per
l’eternità, l’immensità, meglio l’infinito. La sua indifferenza radicale nei
confronti della Storia. I partigiani del reale onorano Eraclito e la sua
mobilità, la sua iscrizione di ogni realtà nel flusso, nel movimento, dunque
nel tempo e nello spazio. L’Oscuro non ha nessun rapporto con le Idee, sa
che il Fuoco e la Folgore governano il mondo. Alla coppia Democrito che
ride ed Eraclito che piange, Montaigne preferisce colui che ride. Ma se si
deve scegliere tra Eraclito l’immanente e Parmenide il trascendente, egli
opta per il primo. Difensore del riso e dell’immanenza, Montaigne rifiuta il
cristianesimo che piange, ama il dolore e fa del cielo un orizzonte
insuperabile.
Seguace del fiume, poiché sa di non dovervisi mai bagnare due volte,
Montaigne volta risolutamente le spalle a Platone e consorti. Il reale?
Qualcosa di inafferrabile, movimento, flusso, acqua che scorre, sabbia tra le
dita. Ciò che è passa, non si incarna mai definitivamente, non dura, appare,
e subito sparisce. La verità? Una forma visibile in un dato momento, in un
dato luogo, in un dato tempo. Passata l’epoca, niente dice che si tratta
ancora di una verità.
Montaigne fa sue le opzioni dei sofisti, nemici emblematici di Platone,
per i quali l’uomo è la misura di ogni cosa. L’opinione presentata come una
certezza definitiva cristallizza una condizione dei luoghi puntuale, ma del
resto caduca. Relativismo, prospettivismo: non si può muovere meglio una
macchina da guerra contro le pretese di verità eterne. Quelle di Platone,
evidentemente, ma anche e soprattutto quelle della Chiesa.
Si comprende come possa parlare della «grossolana impostura delle
religioni» - una frase passata inosservata presso i censori del Vaticano! -:
esse non sono che occasioni errate, perché iscritte nella Storia, di sfruttare
la debolezza degli uomini, di giocare con le loro paure, le loro angosce, la
loro miseria, quando sono sprovvisti di punti di riferimento e di certezze. Il
nominalismo muove guerra contro gli idealismi, agisce da cavallo di Troia
nella storia della filosofia ufficiale.
Definendo la verità come un momento in un movimento, attirando
l’attenzione sul flusso che dura a lungo e non sul punto dell’istante che
acceca, Montaigne inventa a modo suo la dialettica moderna. Al tempo
stesso segna una data per un uso edonista del tempo, un invito a vivere
l’istante e a riempirlo densamente. Si afferma erroneamente che in
Montaigne non esiste il tempo: c’è, ma la definizione del suo essere è il
passaggio, il movimento, il branle per dirla con le sue parole.
 
 
22. I sensi e la parola
 
Il reale passa. Bene. Ma questo passaggio si vede, si nota, si sente, basta
ascoltare ogni musica. L’essenza delle cose è sì impenetrabile, ma per la
pura e semplice ragione che non esiste l’essenza. Perché correre dietro a ciò
che non esiste? La teologia e il novanta per cento della filosofia - tutta la
filosofia ufficiale - si ingannano con finzioni, vento, fantasmi, flatus vocis.
Il mondo si coglie esclusivamente con i cinque sensi. E' troppo poco per
arrivare a Dio. I cinque sensi, più che ingannatori, sono limitati nelle loro
possibilità. Su un tavolo, tra le torri di Notre-Dame, si sperimentano i poteri
dell’immaginazione. Cessiamo dunque di credere che con questo piccolo
bagaglio sensoriale e sensista si può partire alla conquista del mondo e
scoprirne i meccanismi nascosti, le leggi segrete. Montaigne semplicemente
si pronuncia per l’impossibilità della scienza.
La precellenza del flusso sull’immobilità non impedisce di considerare la
verità come la forma assunta in un dato momento da una percezione, da una
affermazione relativa: è vero ciò che momentaneamente sembra tale, prima
di un superamento possibile e probabile. Il preteso pirronismo di Montaigne
dissimula il suo relativismo e il suo prospettivismo sofista - nel senso
filosofico del termine: Protagora e Gorgia, relativisti e prospettivisti,
insegnano anch’essi delle verità! In primo luogo: l’uomo è misura di tutte le
cose.
E quando i Saggi mettono sotto accusa i cristiani che distruggono le
civiltà del Nuovo Mondo, si constata l’errore di affermare che Montaigne è
scettico, che manifesta un autentico pirronismo, che distrugge l’idea di
verità, che si muove verso una confusione di valori che annuncia il
nichilismo. Pur sapendo che questa idea più tardi sarà caduca, col passare
del tempo. Poiché la verità delle verità è il tempo che passa.
In questo mondo dove tutto si muove, dove non si sa ciò che distingue la
veglia dal sogno - Descartes se ne ricorderà -, dove le nostre percezioni
sono falsate dai nostri stati d’animo mutevoli come l’argento vivo, su che
cosa fare assegnamento per costruire? Come fare per non vivere chiusi nel
solipsismo mentale, nell’autismo intellettuale? In che modo prendere posto
nel mondo? Risposta: come esseri di linguaggio. Come individui che
credono nel potere del verbo.
Montaigne nominalista sa che la parola non significa altro che un mezzo,
una tecnica per comunicare. Il significato si modifica a parte,
indipendentemente dal significante, ma le due istanze dipendono dalla
stessa lettura immanente del mondo. Uomo della parola e dell’oralità, del
verbo e del dialogo, della conversazione e delle parole, egli si appassiona
sempre nella difesa della verità tradita, dimenticata, contrariata; nulla gli è
più insopportabile della menzogna. Per uno scettico che non crede a nulla,
la determinazione feroce nel difendere la verità equivale a una professione
di fede nominalista: anti-idealista, contrario all’esistenza di entità universali
oltre la parola, crede solo alle realtà singolari, riduce le parole a una
convenzione utile e necessaria per spezzare la solitudine ontologica,
Montaigne dà appuntamento alla filosofia contemporanea preoccupata di
rovesciare il platonismo.
 
 
23. Autobiografia del mondo
 
Da qui una religione dell’immanenza. Tutta la filosofia di Montaigne si
riassume in un elogio del mondo reale, concreto, terrestre. Essa ama ed
esalta la terra, il qui-e-ora, l’incarnazione, la carne. Essa si esprime col
lardo e le cipolle, i contadini e le vigne, il sapore dei baci che si attacca ai
baffi, il chiaretto e le ostriche, i viaggi e le letture, i cannibali e i cavalieri,
la tecnica delle salse e la scienza della gola, gli odori di Venezia, i cani e i
gatti, le cure termali e la dietetica, le carrozze e le prostitute, Roma e la
peste, le streghe e i medici, gli incendi della canna fumaria - con ciò che
egli chiama con un’espressione diventata celebre dopo Nicolas Bouvier:
l’esperienza del mondo.
Montaigne non pensa a nessuna idea senza l’esperienza autobiografica
che la susciti e la solleciti, mai da teorico, sempre da pratico del mondo:
mentre tutti i filosofi si comportano da autobiografi - le idee non cadono dal
cielo! -, egli usa al lettore la cortesia di raccontare da dove vengono le sue
idee, da quali esperienze derivano. La parola sale dalla carne, l’idea nasce
dal reale, il dettato della sua visione del mondo si effettua dopo la sua
esperienza del mondo.
Racconta i dettagli della propria vita sessuale? E' per teorizzare su questo
tema e produrre idee utili a tutti; racconta un incontro con briganti nella
foresta o con ladri venuti a rubare nel suo castello? Lo fa allo scopo di
dissertare sull’eccellenza del sangue freddo e della determinazione;
confessa il suo stato d’animo per la sua bassa statura? Sì, ma allo scopo di
pensare la differenza o lo sguardo altrui costitutivo dell’essere di ciascuno;
parla della sua gatta? Certo, con l’obiettivo di meditare sulla definizione
dell’intelligenza animale e, perciò, su quella degli uomini; racconta i
particolari della sua malattia della pietra, tiene il conto dei giorni di
ritenzione della sua urina? Evidentemente, ma così vuole pensare la
malattia in generale, il corpo, il legame tra l’anima e la carne, e anche la
morte. L’autobiografia non è un fine in sé, ma il mezzo per arrivare alle idee
- un’epistemologia. Cercando si trova; trova persino qualcosa di più e di
meglio che se stesso: una visione del mondo e delle cose.
Gli idealisti parlano dell’anima? Montaigne del suo corpo. Essi si
eccitano su Dio, il Cielo, le Idee? Montaigne sulla Natura, la Terra, il Reale.
Si basano sulla Religione, mettono avanti Cristo, la Chiesa? Montaigne
crede piuttosto alla Filosofia, a Socrate, alla sua Biblioteca. Esaltano l’Uno
e l’Eternità? Montaigne il Diverso, il Molteplice, ciò che è esploso, il
Frammentato e il Tempo presente. Fanno libri con libri? Montaigne con la
sua vita. Pensano ma non vivono? Montaigne pensa e vive. Idealisti contro
nominalisti, la lotta resta ancora attuale.
 
 
24. Un hapax esistenziale
 
In questo ordine di idee, la conversione edonista di Montaigne si coglie
in relazione a un evento autobiografico. Lascia il mondo mondano per
ritrovare il mondo della sua torre - i libri da leggere, il libro da scrivere, i
suoi veri antenati: i Romani, suoi contemporanei; perché ha sperimentato
sulla sua pelle un’esperienza unica - l’hapax: una sola volta... -
traumatizzante, nel senso originario del termine, come tutte le situazioni
limite in cui si sfiora la morte, liberatrice di forze architettoniche. Infatti
Montaigne filosofo nasce realmente il giorno in cui rischia di morire in un
incidente di cavallo, che dà luogo a una delle più belle pagine della
letteratura di tutti i tempi.
Siamo nel 1568. La Boétie è scomparso da un lustro, Montaigne è
sposato da tre anni, il padre è scomparso poche settimane prima; sappiamo
da alcune confidenze che egli attraversa un periodo cupo, depressivo,
malinconico. La storia della sua conversione viene raccontata quattro anni
più tardi nel capitolo VI del secondo libro intitolato Dell’esercizio. Un
capolavoro.
Recatosi a passeggiare nella foresta non lontano da casa con un piccolo
cavallo, Montaigne sta rientrando tranquillamente quando uno del suo
seguito, grande e forte, montato su un cavallo robusto, arriva al galoppo e
piomba su di lui, «piccolo uomo e piccolo cavallo», dice Montaigne... e lo
sbalza totalmente tramortito, la spada lontano, la cintura a pezzi, il viso
coperto di sangue. La sua gente lo riporta al castello. Vomita diverse volte
spaventose quantità di sangue. Ma a poco a poco ritorna in sé. All’inizio
non distingue nulla, solo un po’ di luce. Poi scopre il suo vestito macchiato
di sangue. Inizialmente immagina di essere stato colpito dal proiettile di un
archibugio. Chiude gli occhi, crede di essere moribondo e, cosa
straordinaria, sperimenta la dolcezza del passaggio dalla vita alla morte.
Arriva persino a desiderare di morire, chiude gli occhi come per facilitare il
trapasso e prova piacere in questa condizione. Poi delira, sperimenta
impressioni, sensazioni e discorsi che sfuggono alla sua volontà. Ritornato
in sé, avverte dolori acuti. Due o tre notti più tardi la sofferenza è tale che si
crede in punto di morte, ma in un altro stato d’animo - senza gioia. La fine è
nota: Montaigne sopravvive.
La lezione di questa storia? La morte non è da temere. Morire sembra
facile; in compenso, dover morire sembra molto più difficile. E questo
compito è da portare a buon fine in vita. Verità lapalissiana. Da qui la
costruzione della sua esistenza come una preparazione alla morte, certo, ma
anche e soprattutto come la più gradevole maniera di profittare della vita.
L’autobiografia nasce da questa storia: le righe che seguono la narrazione di
questo incidente fondano l’impresa dei Saggi. Da nominalista perfetto,
Montaigne propone di leggere il mondo e di dirlo - per fare ciò comincia a
decifrare e, insieme, a costruire se stesso.
 
 
25. Dietetica della carne
 
Quali scoperte fa Montaigne lavorando alla sua introspezione? Congeda
Dio con garbo, mette da parte il cristianesimo, si concentra su se stesso, si
racconta, parte alla ricerca di sé, si analizza, si ascolta, si guarda, si sente, si
tocca, impara a conoscersi dal punto di vista corporeo, si guarda vivere,
racconta i particolari della sua vita quotidiana, commenta i grandi momenti
della storia presente, disserta sulle imprese dei grandi uomini dell’Antichità,
e che cosa trova?
Un uomo con un corpo, e in questa materia di carne, pieghe con zone
d’ombra. Montaigne non rivendica un franco materialismo. L’anima di cui
parla è sì immateriale, ma talmente unita alla materia del corpo che ci si
chiede se essa si adatti davvero a una definizione pneumatica, spirituale,
eterea. Il suo incidente di cavallo testimonia di un corpo che passa dall’altra
parte, non di un’anima che s’invola, riconquista la sua libertà e raggiunge il
cielo dei cristiani.
In questo corpo, egli crede a causalità meccaniche. Nelle parole che detta
non mancano gli attacchi contro la medicina: ciarlatani, scolastici, retori
verbosi che usano artifici linguistici per nascondere la loro incompetenza,
personaggi inutili, incapaci di diagnosi coerenti. Essi «rendono malata la
salute», dice. Le popolazioni che ignorano questa genia stanno benissimo.
Le medicine non servono. I medici nemmeno: quando non guariscono,
giustificano il loro fallimento pretendendo che senza di loro il male avrebbe
imperato (ascoltate, psicoanalisti di oggi...); se il malato va meglio perché la
natura fa il suo lavoro, essi rivendicano senza vergogna la paternità del
miglioramento. Perché questi ciarlatani dispongano di potere - Montaigne
ha letto La Boétie -, bisogna che i malati glielo accordino: siate risoluti a
non dare più credito ai Diafoirus, e non si sentirà mai più parlare di questa
setta malefica!
Si comprende che quindici anni di renella non curata, un padre che muore
di questa stessa malattia, le conseguenze di un incidente di cavallo
gravissimo contro cui gli specialisti del clistere sono impotenti, la morte di
cinque dei suoi figli in tenera età, quella di La Boétie in piena giovinezza,
quella del fratello per un incidente di pelota, le decine di migliaia di vittime
della peste nella sua regione -tutto ciò basta a non far tenere in grande stima
una professione che sembra inutile!
Montaigne non ama il medico ippocratico, una specie di scolastico nel
suo campo. In compenso parla molto bene dei chirurghi: perché sono
materialisti, meccanicisti, razionalisti e non possono giocare con le parole.
In silenzio, essi operano, tagliano, asportano il male: producono effetti. Il
filosofo ha frequentato abbastanza i campi di battaglia per assistere alla
dimostrazione dei loro talenti: estrarre schegge, proiettili d’archibugio,
riparare carni danneggiate da palle di cannone, dai colpi di spada o dalla
punta delle lance. Il medico getta fumo negli occhi; il chirurgo agisce e
guarisce veramente ciò che può essere guarito.
Nell’eziologia delle malattie, Montaigne elimina l’irrazionale - punizione
degli dèi, malefici, sortilegi di streghe.. . - e analizza da materialista:
apertura di passaggi, canalizzazione di materie, flussi limpidi, aggregazioni
dannose, canali stretti, ristagni che fermano il normale funzionamento della
macchina. Quando analizza la sua renella, pensa come potrebbe farlo un
discepolo di Epicuro ricorrendo alla logica degli atomi - ai quali fa ricorso
una volta, quando si interroga su ciò che sfugge alla sua coscienza e  lo
determina.
Da qui una fiducia maggiore accordata alla dietetica rispetto alla
medicina: ciò che entra nel corpo produce effetti. Ciò che viene fatto al
corpo, ciò che gli viene dato o meno, anche. Particelle si staccano, si
accumulano, producono effetti nell’organismo. Mangiare, bere, dormire,
viaggiare, camminare, fare il bagno, digerire contribuiscono a uno stato
d’animo che è il solo ad avere importanza: in ogni caso, una purga dello
spirito sembra di gran lunga preferibile a quella dello stomaco.
 
 
26. Un oscuro epicentro
 
Da qui una prescienza straordinaria della psicologia del profondo, anzi,
talora, franche intuizioni di ciò che teorizza Sigmund Freud quattro secoli
dopo i Saggi. In questa materia che egli non riduce a meccanismi sommari -
ingranaggi, pulegge e trazioni... -, Montaigne individua l’esistenza di ciò
che la modernità chiama inconscio: una forza che sfugge alla ragione, una
energia che agita il corpo indipendentemente dalla coscienza, una potenza
che ci determina senza che possiamo proferir parola, un volere che ci
modella come una necessità determinante.
Montaigne lo constata analizzando la sua caduta da cavallo: in noi si
verificano movimenti che non dipendono da una nostra volontà - e alcune
righe più avanti, segnala movimenti riflessi, ma anche movimenti del corpo
(tra cui l’erezione...) constatabili in superficie, ma che dipendono da un
epicentro sottratto alla luce della ragione. Egli qualifica queste dinamiche
inconsce come stranezze - forze venute da un continente straniero a noi
stessi.
Ciò che noi viviamo fuori dalla coscienza è nostro all’aspetto,
all’apparenza, ma non è realmente nostro. Lo stesso avviene durante il
sonno. Nello stato di semicoscienza - o di semincoscienza - in cui
Montaigne si trova dopo l’incidente, egli assiste a questi movimenti
involontari che si verificano in lui. Sono tutte prove che in noi giace una
forza oscura, sconosciuta, misteriosa, ma reale. Le parole pronunciate in
quello stato escono dalla nostra bocca, ma chi le pronuncia in noi? Che cosa
significa per esempio la richiesta di Montaigne, durante il suo delirio, di
portare un cavallo per la moglie che egli vede faticare su una strada
malagevole?
Stando all’ascolto di se stesso, egli scopre anche il lavoro del lutto, il
diniego, i movimenti della rimozione di quest’episodio doloroso: non si
ricorda più del luogo, dell’ora, delle circostanze. Gli ritorna in mente il
momento in cui credeva di morire. Poi un lampo che scuote l’anima, e il
ritorno al vero mondo. La prossimità della morte ha scosso il corpo e in
particolare la sua parte meno conosciuta, l’anima, la cui consistenza
immateriale sembra sempre meno probabile.
 
 
27. Una goccia di liquido
 
Il figlio che soffre di gotta non può non chiedersi che cosa passa dal
genitore al figlio quando si soffre della stessa malattia! Non c’è bisogno di
incrociare i piselli, come più tardi farà Mendel, per riflettere su ciò che
ognuno deve all’ereditarietà - non ancora così chiamata. Il padre sale i
gradini a quattro a quattro, è abile, sportivo, salta sul cavallo con la sua
veste imbottita malgrado i suoi sessantanni, fa il giro della tavola
appoggiandosi solo sul pollice; il figlio confessa di avere un corpo
impacciato, lento, pesante, intorpidito. Quale strana perdita dal padre al
figlio!
Montaigne sa che l’essere deriva da una mescolanza di genetica, eredità
ed educazione. Una fisiologia, una goccia di liquido seminale, e si dà in
eredità la propria malattia della pietra. Al tempo stesso, non si trasmette la
propria destrezza, agilità, ardore sportivo. Peggio, si fabbrica persino un
fanciullo esattamente agli antipodi. Strane logiche! Due capitoli del
secondo libro annunciano la trattazione della questione: l’ottavo,
Dell’affetto dei padri per i figli, e il trentasettesimo, Della rassomiglianza
dei figli ai padri.
Elogiando lo stato sterile, in prima battuta consiglia di non essere padre!
Poi aggiunge tuttavia alcune considerazioni sul tema: è difficile non amare
un bambino alla sua nascita; difficile conservarsi libero quando si è scelto di
generare; difficile vivere la propria vita, senza stare lontani dalla propria
progenie; difficile per un padre trasmettere i suoi poteri e i suoi beni al
momento buono; difficile farsi amare... Conclusione: è meglio lasciare
dietro di sé un’opera di carta che un’opera di carne.    -
Al che Montaigne aggiunge nondimeno considerazioni sulla
trasmissione, l’eredità, le doti, i castighi corporali, l’età ideale per il
matrimonio, la relazione affettiva col proprio lignaggio, tutte teorie che
rimandano a momenti autobiografici dolorosi: il conflitto necessario, alla
morte del padre, per entrare nel pieno godimento della propria eredità; il
denaro ottenuto dal suo matrimonio con Antoinette de Louppes; i due
schiaffi ricevuti dal padre e la sua dolcezza con Léonor; la tarda età del
matrimonio del padre, e del proprio; le difficoltà affettive nella propria
famiglia... Chi ha detto che si riflette bene solo sui propri problemi
esistenziali?
L’altro capitolo si stupisce - tra mille argomenti senza relazioni col tema
propriamente detto... - che lo sperma potenzialmente porta sì la forma del
corpo, ma anche modi di pensare, tropismi intellettuali che ci vengono dai
nostri genitori. .. (ricordiamo che lo spermatozoo e il suo ruolo verranno
scoperti nel XIX secolo). Montaigne afferma che l’essenziale di ciò che
viene trasmesso, più che tramite la genetica - contro gli strilli delle moderne
Alcesti di fronte alla questione della clonazione -, lo è attraverso
l’educazione, la trasmissione... orale. La natura di ognuno dipende
dall’eredità di una misteriosa mescolanza di corpo e di anima, contro cui si
può far poco.
 
 
28. Il divano dei Saggi
 
Sul divano dei Saggi, Montaigne si avvicina molto a un certo numero di
concetti-chiave della psicoanalisi moderna. Oltre a intuire l’esistenza di un
inconscio attivo in un corpo di carne e sangue, egli rileva un istinto verso
l’inumanità che somiglia assai da vicino alla pulsione di morte freudiana.
Certo, Montaigne vede attorno a sé massacri, guerre, persecuzioni,
impiccagioni, torture, roghi, violenze cattoliche e protestanti, violenze
laiche e religiose, ma da qui a concludere per una forma istintiva, cioè a
dire visceralmente radicata nella carne e nell’animo umano, di una forza
oscura, di una potenza mortifera! Bravo.
Altrove egli parla di un padrone interno, che somiglia tanto all’ideale
freudiano dell’io, a partire dal quale si organizza la ricerca di ogni
soggettività in attesa di una strutturazione di sé, del proprio carattere e del
proprio temperamento. Per un individuo che cerca la propria identità, che ha
rotto col super-io della sua professione di magistrato per andare alla ricerca
di sé, questa intuizione, che significa anche il nome del padre, la figura
dell’ordine e dell’autorità, svolge un ruolo importante: essa individua un
punto di tensione indispensabile per organizzare la ricerca dell’io.
Stessa osservazione: quando dedica un intero capitolo al diversivo -
concetto importante, perché riguardo alla condizione di essere mortale di
ognuno esso spiega, legittima e giustifica, in Montaigne, ma anche in
assoluto, la posizione e la collocazione edoniste -, come non pensare
all’elaborazione psicoanalitica del concetto di sublimazione?
Il diversivo - Pascal se ne ricorderà scrivendo sul divertissement - è utile,
scrive Montaigne, per evitare le malattie dell’anima.
Un affetto ci rode dolorosamente? Lavoriamo a dirottare, a canalizzare su
altri oggetti questa energia che altrimenti può essere distruttiva, mentre può
essere trasformata in forza costruttiva. I Saggi come sublimazione, cioè
come diversione dell’evidenza di dover morire; l’edonismo anch’esso come
diversione: ecco alcune piste importanti e di temibile modernità. Si legga o
si rilegga L’Io e l’Es, in cui Freud mostra come un’energia mortifera può
trovarsi riciclata in pulsione costruttiva.
In un altro punto delle sue meditazioni filosofiche, Montaigne invita alla
purga del cervello come rimedio a malattie erroneamente considerate di
origine fisiologica - in particolare le affezioni gastriche. Contro i medici
ciarlatani che si affidano a invocazioni e a rimedi della nonna, egli riabilita
una specie di contratto di fiducia tra il terapeuta e il malato. Poiché solo
questo credito è in grado di produrre reali effetti fisiologici: non si ha
l’impressione di ascoltare  un elogio della cura psicoanalitica? Dell’analisi
moderna?
Da buon lettore della Psicopatologia della vita quotidiana come non può
essere, Montaigne intuisce ciò che avviene «alle soglie dell’anima» e
dipende dalla «cascaggine del sonno», dai «movimenti che non dipendono
dalla nostra volontà», da «impulso naturale», da «scatti indipendenti dal
nostro ragionamento», da «pensieri che non vengono da noi» - tutte
espressioni che seguono l’autoanalisi del famoso incidente di cavallo.
Questi movimenti involontari (la lingua che si paralizza; la voce che
viene meno - a un orale come Montaigne...) diventano sotto la penna del
Viennese lapsus, atti mancati, dimenticanze e altre vie d’accesso che
portano all’inconscio.
E ancora? Il diniego freudiano - ciò che Jules de Gaultier chiama
bovarismo, e che indica la facoltà degli uomini di credersi diversi da ciò che
sono - lo si trova anche nei Saggi: come individua Montaigne questo
difetto? Nel capitolo diciassette del secondo libro intitolato Della
presunzione, egli parla esplicitamente: dell’«attaccamento sconsiderato, col
quale ci lusinghiamo, che ci rappresenta a noi stessi diversi da quelli che
siamo». Si può dire meglio? Freud definisce il diniego come un
meccanismo di autodifesa che permette al soggetto di non prendere in piena
faccia una verità impossibile da accettare - una debolezza, un’umiliazione,
una tara in grado di generare un trauma. Montaigne scopre questo difetto
quattro secoli prima della formula terapeutica quasi definitiva.
Precisiamo: Montaigne non inventa la psicoanalisi, non ne è il
precursore. Non si trova nei Saggi la psicoanalisi in germe, in potenza,
prima di passare all’atto con Sigmund Freud. Montaigne non è tra i modelli
e le fonti di Freud. Ma le intuizioni di Montaigne sulla psicologia del
profondo non cessano di stupire: l’inconscio, la pulsione di morte, l’ideale
dell’io, la sublimazione, la catarsi, gli atti mancati, il diniego - quali che
siano le parole da usare -, mostrano un filosofo, un pensatore, ma anche uno
psicologo, un antropologo perfetto.
 
 
29. L'essere per la morte
 
Il corpo è dunque la grande ragione. Il corpo, ovvero una cosa diversa da
un assemblaggio sommario di anima immateriale e di carne concepita come
la prigione di questo spirito. La concezione che Montaigne si fa del corpo è
più raffinata, più radicalmente postcristiana di quanto si possa immaginare:
una materia corporea percorsa da flussi, da forze, da energie, una materialità
segnata da determinismi che sfuggono alla coscienza, alla ragione, ma che
tuttavia non obbediscono a Dio.
Questo corpo non è portatore di immortalità. L’anima, se esiste, indica
ciò che sfugge alla ragione ragionante e ragionevole. Nulla nei Saggi
permette di immaginare uno spirito etereo destinato al paradiso o
all’inferno. L’anima di cui discorre Montaigne è situata nel cervello - ma
quando si vuole essere più attenti all’ortodossia la si definisce in termini
meno materiali e meno localizzati! In più, questo corpo si trasforma nel
tempo, sottomesso all’entropia, soggetto come tutto al mondo a esistere
solo per un istante. L’essere per la morte e la coscienza di non essere che
per la morte, ecco ciò che definisce l’uomo.
Io non ritengo che l’esperienza dell’incidente di cavallo sia una
riconciliazione con la morte - altrimenti, che bisogno c’era di dedicarsi ai
Saggi, che altro non sono se non un tentativo di risolvere questo problema:
come vivere dal momento che bisogna morire? Meglio: come posso e devo
vivere dal momento che sto per morire, io, Michel de Montaigne - e ne sono
consapevole, visto che ho sperimentato da vicino al massimo questa verità,
la quale, da allora, più  che rasserenare, fa sentire di più la sua vicinanza.
L’incidente non è una riconciliazione, ma una rivelazione; non una pace
raggiunta, ma una dichiarazione di guerra aperta.
Sin dai suoi vent’anni, Montaigne dice di sperimentare direttamente sul
proprio corpo il lavoro della morte: inizio del declino, annuncio della fine.
Mai questo problema è risolto in vita. Sicuramente non nel momento in cui
sfiora più da vicino la morte, come affermano la maggior parte dei biografi.
Certo, la morte gli è sembrata dolce, facile, piacevole, ma una replica non
garantisce mai l’eccellenza della prima prova: è stata un saggio, non la vera
ora, quella che permette di giudicare, di concludere, di terminare una vita e
di illuminare ciò che precede. Questa deve ancora venire. Noi lo sappiamo:
ventiquattro anni separano questo hapax esistenziale (1568) dall’ultimo
respiro di Montaigne (1592). Ventiquattro anni, di cui ventitré consacrati a
dettare la sua opera.
 
 
30. Filosofare è imparare a vivere
 
La vulgata lo insegna da quattro secoli: Montaigne afferma che
«filosofare è imparare a morire». Certo... Anzitutto l’idea, la frase,
l’espressione si trovano in Cicerone. Inoltre, bisogna intendere esattamente
l’inverso: «filosofare è imparare a vivere». Meglio: è imparare a ben vivere
per non temere la morte e integrarla nella vita come una cosa naturale.
Infatti non si impara a morire. Avvicinarvisi? Sì, e allora? Montaigne
afferma di esserci andato vicinissimo in occasione di quell’incidente. Ma
allora, se avesse davvero risolto il problema durante questa prossimità
massima, per quali motivi consacrare tutta la sua vita di adulto ai Saggi nei
quali, appunto, cerca di sapere come occupare meglio il suo tempo in attesa
dell'ultima ora?
Essere per la morte obbliga anzitutto a essere per la vita. Solo una vita
buona e bella, riempita bene, piena, non fallita, permette di affrontare
serenamente la morte. Ogni vita deve essere vissuta in modo da non
rimpiangere nulla di ciò che avremo scelto e che ci piacerebbe vedersi
riprodurre se potessimo scegliere di riviverne un’altra. Questa lezione
funziona come una ricetta, un principio selettivo quando si esita, si trema e
non si sa che cosa scegliere o volere.
Solo pensare la morte insegna a vivere; la qual cosa si legge anche
all’inverso: solo pensare la vita insegna à morire. Di modo che la frase di
Cicerone popolarizzata da Montaigne si comprende anche invertendo i
termini: vivere e morire costituiscono le due facce della stessa medaglia.
Non si vive l’una senza l’altra; non si separano; vivere bene e morire male
si escludono come vivere male e morire bene; l’esistenza e la morte si
leggono come recto e verso di uno stesso foglio; fallire con l’una e aver
successo con l’altra? Impensabile.
 
 
31. Morire e dover morire
 
La lezione dell’incidente sposta il problema: Montaigne scopre che
morire non è difficile. Un addormentarsi, uno scivolare, un passaggio dolce,
anzi gradevole. La coscienza non è più là per dare al dolore il suo spessore,
la sua acutezza, la sua forza. La morte - su questo tema egli differisce da La
Boétie - sembra una cosa facile: non si è più là. Soffrono solo gli spettatori,
la famiglia, gli amici, che proiettano finzioni e immaginano dolori
scomparsi perché la coscienza e la ragione non sono più là a dar loro
consistenza.
In compenso, dover morire, sapere che si sta per scomparire, vivere con
questo pensiero, questo è il problema. Da buon allievo degli stoici, il nostro
filosofo ritiene che,  pur non potendo agire sulla materia stessa del reale -
inaccessibile -, possiamo intervenire sulle sue rappresentazioni - le sole
modalità del reale. Dover morire, ecco una rappresentazione. Ma io posso
immaginarmi solo morente; da morto non lo posso più, perché per
immaginarmi defunto ho bisogno di tutto l’arsenale del vivente: i cinque
sensi, una coscienza chiara e distinta e una ragione in buono stato. Ma
quando sono morto, tutto ciò è scomparso. Anche quando sto morendo,
perché gli strumenti utili alle mie rappresentazioni non sono più abbastanza
efficienti per costruire lucidamente un dolore, una sofferenza.
Pensiamo dunque la morte quando siamo in vita, quando c’è ancora
tempo; non dobbiamo vivere come se non dovessimo mai morire; evitiamo
di credere che essa riguardi solo gli altri, più tardi, non noi, o in maniera
lontana; affrontiamola in piena forma, in piena salute, volontariamente, e
non costretti dalla malattia, dall’età, dalla vecchiaia, dall’agonia; smettiamo
di credere che sia pensabile con gli argomenti della religione e della
teologia, e affrontiamola con le armi della filosofia.
Da qui un riciclaggio delle antiche idee precristiane su questo tema: la
morte non è un male, ma vivere male sì; non è da temere: se ci sono io, essa
non c’è, se essa c’è, non ci sono io; piangere ciò che non si vivrà è
altrettanto ridicolo che piangere ciò che non abbiamo vissuto; se essa è
breve, noi non la vediamo; se dura, siamo ancora vivi; rispetto all’eternità
tutte le vite sono brevi, perché volere un supplemento? La morte riguarda
tutti, milioni di persone prima di noi, milioni dopo di noi, quale vanità voler
fare eccezione! Se abbiamo ben vissuto, non abbiamo nulla da temere,
perché voler prolungare il compito? Che cosa sarebbe il mondo se non
lasciassimo il posto a quelli che vengono dopo, così come è stato lasciato a
noi? Una vita immortale sarebbe una punizione; e altre ricette filosofiche.
Niente di veramente nuovo, un catalogo di idee stoiche ed epicuree. Vero è
che, siccome il problema non è cambiato, non si capisce per quali motivi
sarebbero cambiate le soluzioni!
Nell’attesa, non si tratta di morire subito, abbiamo tempo, ma di vivere
consapevoli di ciò. Filosofia tragica, sì, ma non pessimista. Poiché
Montaigne non vede dappertutto il peggio - né il meglio, cosa che ne
farebbe un ottimista. Ma vede il reale così com’è: agitato dall’entropia,
fluido, passeggero, instabile e diretto verso la morte. Per tutto e per tutti.
Questa verità evidente libera un’altra certezza e un altro problema: più che
morire da vivi - come chiedono le religioni - credendo erroneamente di
addomesticare la morte, si tratta di vivere pienamente la propria vita. Il
tragico costituisce un primo passo nel pensiero di Montaigne: una via
d’accesso che porta al secondo momento, la verità della sua filosofia, il suo
sbocco, il suo coronamento: l’edonismo.
 
 
32. Odio del dolore
 
Montaigne lo dice quasi in ogni pagina dei Saggi: il desiderio è
dappertutto. Spesso aggiunge: e continuamente ci viene chiesto di
rinunciare, di non trasformarlo in piacere. Senza buone ragioni, precisa.
Montaigne non difende il godimento sfrenato, senza limiti, smodato,
permanente e ossessivo. Egli lo trova conveniente quando è misurato, come
dire quando non pregiudica la libertà, l’autonomia e l’indipendenza. I suoi
beni più cari - come per Epicuro.
La misura permette di evitare la sazietà che genera il disgusto. Avere
troppo, avere tutto non permette un soddisfacimento semplice, né sereno.
Due tensioni definiscono l’edonismo: odio del dolore, amore della voluttà.
Un calcolo dei piaceri permette di evitare la negatività e di ricercare la
positività utile per sfuggire alle afflizioni, e per an-dare verso il
soddisfacimento, i due movimenti alla base di ogni piacere.    
All’origine dell’invito a non godere, Montaigne pone chiaramente la
religione - le religioni. Per uno strano paradosso, queste finzioni
aggiungono miserie a quelle che esse pretendono di guarire! Il cristianesimo
parla di colpa, racconta la storia di Adamo ed Èva, insiste sul peccato
originale, sulla sua trasmissione di generazione in generazione, insegna la
genealogia della negatività a partire da quel momento fatale: faticare
penando, soffrire e morire, generare nel dolore, tutte maledizioni
conseguenti al volere funesto della prima donna.
Niente di tutto ciò in Montaigne: non una parola su questa mitologia
generatrice di catastrofi millenarie. Tremila pagine dei Saggi e non una sola
menzione, franca e netta, a sostegno di questa visione del mondo. Se Gesù,
Cristo e Dio compaiono con discrezione, con molta discrezione, in questo
mondo popolato di Greci, Romani e cannibali, all’appello manca Adamo.
Ed Èva. Il filosofo non condivide questa finzione generatrice dell’ideale
ascetico occidentale.
Mentre il cristianesimo esalta la morte come occasione per liberare
l’anima dal corpo, la sofferenza come una possibilità per imitare il
Crocefisso e guadagnare così la salvezza sotto forma di anticorpo celeste,
Montaigne insegna la gioia, la voluttà, il piacere, la vita, la felicità. Di
trasformare il nostro passaggio sulla terra in espiazione, o giustificare le
sevizie che ci si infligge, neanche a parlarne: a che pro? per quale scopo?
Vivere richiede una gaia saggezza -nient’altro.
Montaigne si chiede continuamente come è possibile detestare la salute e
l’allegria, maledire la nascita e benedire la morte, detestare il sole e adorare
le tenebre. Il suo stupore è senza limiti di fronte all’ingegnosità dispiegata
dagli uomini per infliggersi dispiaceri, sofferenze, dolore. A che pro
aggiungere negatività a quella che esiste già in dose massima? Che cosa
giustifica questo comportamento mostruoso - l'Heautontimorumenos del
suo caro Terenzio?
Tanto più che la natura non insegna questo: né gli animali, così spesso
presenti nell' Apologia di Raymond Sebond, né i selvaggi venuti dal Brasile
e visitati a Rouen mostrano un simile talento per l’odio di sé! Immaginiamo
l’istrice, il pidocchio, l’elefante, il polipo, le api che inventano torture da
infliggersi? E questi cannibali, da nessuna parte li vediamo fomentare
attentati contro se stessi, i loro corpi, le loro vite.
Gli animali uccidono, certo, ma per nutrirsi, mai gratuitamente; gli
uomini assassinano, rendono la faccenda persino più raffinata praticando
torture, massacrano - all’epoca è sufficiente affacciarsi alla finestra per
vedere imperversare le guerre di religione. Ma solo gli uomini godono della
pulsione di morte - questo istinto verso l’inumanità, ricordate -, che essi
infliggono e si infliggono. Dalle prime alle ultime pagine dei Saggi,
Montaigne dichiara guerra al dolore. Nessun dolore è buono, non ne difende
e non ne giustifica nessuno. Esso è ciò che di peggio può capitare, dice.
Volere il dolore, come se non bastasse quello che esiste già in quantità!
Pagare quaggiù con sofferenze un piacere assai improbabile - il paradiso - è
un errore funesto. Come non pensare al cristianesimo?
 
 
33. Godimento di cannibali
 
L’odio per il dolore va di pari passo con un desiderio di piacere, un invito
a fare il necessario per crearlo, suscitarlo, sollecitarlo. Si ritrovano qui i due
momenti tipici di ogni pensiero edonista: eliminazione del negativo, il
dolore; scelta del positivo, il piacere. Il male non guarisce il male, solo il
bene agisce come cordiale efficace. Il rimedio non deve  essere peggiore
della malattia: preferiamo dunque il godimento, anche se tutto e tutti fanno
lega contro questa idea.
Questo piacere non è soltanto cerebrale, spirituale: il godimento del
monaco nella sua cella, quello dell’asceta che rinuncia... ai piaceri, ecco un
paradosso che non si trova nei Saggi! Il godimento non riguarda l’anima
separata dal corpo, ma la carne tutta intera con la sua parte spirituale - se ci
ricorda dell’intima sutura e legame tra le due istanze. La voluttà concerne i
cinque sensi: bere e mangiare, sentire e gustare, toccare il mondo, chiedere
al corpo di sperimentare pienamente tutte queste possibilità.
Come non difendere il piacere carnale? Dio darebbe un corpo, una carne,
organi sessuali, doterebbe gli uomini e le donne di libido perché vi
rinuncino? E secondo quale logica? Per quali motivi? Che strana idea!
Questi doni di Dio costituiscono altrettanti inviti a trarne profitto, senza
complessi e senza sensi di colpa. Dio non avrebbe offerto queste
potenzialità agli uomini e alle donne se condannasse il passaggio all’atto. Il
corpo può servire? Dunque deve servire. Non è né peccatore, né cattivo, né
dannato. Poiché può dare gioia, approfittiamone. L’opera di Montaigne e la
sua vita ne sono testimoni.
La prova dell’eccellenza del piacere è la sua origine naturale. Per
persuadersene, guardiamo come vivono i cannibali - Diderot se ne ricorda
nel suo Supplemento al viaggio di Bougainvitte -: essi ignorano l’errore, il
peccato, il senso di colpa, praticano una sessualità semplice, senza porsi
domande, non si sovraccaricano di proibizioni, non creano leggi stravaganti
per giustificare il fatto di infliggersi sofferenze e godere nel dolore - che essi
non amano. Sono sani, perciò obbediscono a ciò che la natura insegna:
evitarlo, fuggirlo... Essi cedono alle proprie inclinazioni e non godono nella
negazione del piacere, paradosso funesto!
Montaigne non crede molto al diritto naturale, ma constata che, se due
fatti possono farlo dubitare su questo tema, sono la conservazione di sé, che
invita a fuggire ciò che può nuocerci, e l’affetto verso la prole. Gli animali e
gli uomini, dunque, quando obbediscono a ciò che la natura comanda loro,
voltano le spalle al dolore e cercano il piacere. Secondo un movimento
naturale, prima di ogni avvelenamento culturale.
Solo lo snaturamento porta all’inverso: l’odio di sé, il gusto per la
negatività, la passione mortifera per la sofferenza, tutti questi vizi
trasformati in virtù derivano da una perversione - nel caso specifico
culturale. Ricusare la natura, fuggirla, detestarla, volersi strappare al suo
regno, alla sua legge, crederci migliori e superiori agli animali -quando
invece si fa peggio di loro - ecco l’errore: poiché nessun animale dimostra
così tanta follia da amare ciò che rischia di causare la sua rovina!
Se la filosofia ha un senso, se essa cerca una verità, la deve trovare nella
natura: ritrovare la sua via, il suo senso, le sue lezioni, il suo insegnamento
(il contrario di una posizione ebraica...). La cultura è pervertita al punto che
alla questione del bene supremo, essa dà un sacco di risposte, tutte opposte
a questa verità di buon senso. Montaigne si diverte persino a citare Varrone,
l’autore di una singolare contabilità: alla domanda - che cosa si deve
ricercare come scopo supremo? - i filosofi offrono sì soluzioni, ma ne
offrono troppe, perché l’autore delle Satire menippee ne conta
duecentottantotto - tante quante sono le sette filosofiche!
Ora, sin dalle prime linee del famoso capitolo intitolato Filosofare è
imparare a morire, Montaigne offre la sua - che gli sembra la sola: il
piacere è il nostro scopo... Checché ne pensino i preti, i filosofi in loro
compagnia, la gente comune, gli uni, gli altri, il papa, il re, gli uomini, le
donne, i cortigiani raffinati o i rustici contadini, i lettori di Platone e gli
appassionati di Agostino, i turiferari della Chiesa e i glossatori della Somma
teologica, gli accorti, gli eruditi e i lettori che possiedono biblioteche, i
boscaioli analfabeti in fondo alle loro foreste, gli uomini devono mirare
nella vita a ciò, che la natura indica loro: la voluttà. Senza contare che
anche la ricerca del piacere è un piacere.
 
 
34. Voluttà e compagno sposi
 
Forse Montaigne ha in testa il suo incidente di cavallo quando difende il
leitmotiv del libro: piacere e dolore vanno insieme. Eros e Thanatos - per
dirla in termini contemporanei - implicano un’intima mescolanza. Per
dimostrarlo, afferma che la gioia estrema sembra più severa che gaia. Stessa
osservazione per l’estrema contentezza. Da fine analista della psicologia del
profondo, il nostro rileva persino che spesso alcuni provano un vero piacere
nella malinconia. Come sperimenta decine di volte su se stesso: dopo una
malattia, dolori, una sofferenza - si pensi al numero incalcolabile di crisi di
gotta e alla sua malattia della pietra - il piacere sembra più intenso. Pulsione
di vita e pulsione di morte sembrano dipendere dall’intreccio delle stesse
logiche. Il dolore sembra esistere per dare tutto il suo valore alla voluttà.
Così la peste: davanti a quei corpi che cadono come mosche, che
imputridiscono sul posto dove si accasciano mortalmente, dappertutto
decomposti nei villaggi, mangiati dai corvi, fatti a pezzi dai cani randagi,
gonfiati dal sole dell’estate, davanti allo spettacolo delle colonne di poveri
diavoli che errano sulla strada con i loro carretti e le loro famiglie, tutti
toccati da vicino dalla morte di parenti e di amici, essi stessi in preda alla
paura di contrarre la malattia e di morirne, si dà alla vita un valore massimo
e al piacere una funzione cardinale. Poiché stiamo per morire, godiamo: la
lezione vale da tutta l’eternità e fino alla fine dei tempi.
Tutto il senso dell’edonismo di Montaigne si trova in questa logica: il
tempo che scorre invita all’eternità di un presente intensificato dal giubilo;
l’instabilità di tutto ciò che passa invoca l’immobilità in tutto ciò che
permette la voluttà; la morte all’opera in noi sin dall’inizio della nostra
nascita spinge alla costruzione di resistenze gioiose; la filosofia tragica,
segnata dalla verità dell’entropia, giustifica la formulazione di una gaia
scienza espansiva; l’incidente di cavallo dimostra la precarietà di ogni
esistenza e converte alla pratica di una vita dedita alla felicità; la malattia -
quella pietra impossibile da espellere - implica che fuori dal dolore, e a
causa sua, si rida, si goda, si mangi, si beva, ci si prenda delle libertà. In una
parola: il morire si cura con un solo rimedio: vivere. E per ben morire, nel
frattempo non c’è niente di meglio che vivere bene!
 
 
35. In cammino con Epicuro
 
La pratica edonista richiede una teoria. Uno dei momenti importanti di
essa consiste nell’aritmetica dei piaceri, già presente in Epicuro. Il filosofo
del Giardino invitava sì al piacere, ma non a uno qualunque, e in nessun
modo se lo si doveva pagare con un qualunque dispiacere. Godere, sì, ma
non se si deve soffrirne. Da qui un elogio dell’astinenza se il godimento
genera una sofferenza, un dolore, anche minimi.
In questa logica, il dolore può trovare una giustificazione: se esso è il
prezzo da pagare per un giubilo futuro. Esempio: privarsi di un cibo
piacevole ma pericoloso per il proprio equilibrio quando si soffre di una
malattia della pietra. Fare una dieta, dunque; ecco un dispiacere
desiderabile perché ne evita uno più grande, e con questa rinuncia subentra
un beneficio giubilatorio a vantaggio di colui che ha calcolato i suoi piaceri
e giocato il numero buono edonista.
Evitare il dolore è un piacere notevole. Spesso si fa la caricatura
dell’edonismo come di una filosofia che cercherebbe il piacere a ogni costo
- fosse anche al prezzo di dispiaceri per sé o per gli altri. Si ignora che il più
delle volte funziona anzitutto sul terreno della prevenzione dei dolori, il che
implica una preferenza per le situazioni che ci fanno evitare le difficoltà
future. Costruire il piacere equivale molto spesso a mettersi nella situazione
di non dover subire dispiaceri facilmente identificabili: il matrimonio, la
paternità, le responsabilità pubbliche e private, la ricchezza, gli onori, la
gloria, tutte trappole da evitare se si vuole conservare la propria serenità.
Montaigne aderisce a questo elenco di inviti profilattici.
Non mettersi nella situazione di una persona che si accinge a dover
fronteggiare delle difficoltà, problemi, dunque dolori, non basta comunque
a evitare le afflizioni! Troppo semplice. Poiché la morte, la malattia e altri
colpi della sorte non dipendono solo dal nostro buon volere. La «sabbia nei
reni» del filosofo - sono parole sue - non dipende dalla sua decisione. In
compenso, la potenza del suo volere sulla rappresentazione, in cui consiste
ogni malattia, dipende dalla sua decisione. Montaigne non può impedire il
male fisiologico, ma può lavorare su di esso e non consentire che il dolore
ottenga più di quanto già ottiene. Poiché il dolore è anche - e soprattutto,
dicono i seguaci del Portico - una costruzione mentale. Ora il governo su
una parte malata del corpo (i famosi reni) di quell’altra parte che si chiama
anima dipende da un esercizio spirituale, mentale, cognitivo, in una parola:
filosofico. Lezione nella più pura tradizione stoica.
Il lavoro presenta limiti evidenti, certo, e Montaigne per primo, non
sciocco, ha sofferto troppo per non sapere che durante una crisi violenta la
lettura delle Lettere a Lucilio produce un effetto assai limitato... Tanto più
che in questi momenti uno ha voglia d’altro che di andare a cercare nella
propria biblioteca il volume in questione. Nondimeno, anche con i suoi
limiti, questo cordiale del volere educato e addestrato dalla volontà non
manca di produrre una diminuzione del dolore. E vale la pena di tentare
ogni diminuzione, anche infima, della negatività.
Col tempo e con l’aumento delle crisi, dei dolori e della loro intensità,
Montaigne corregge il suo elogio dell’eroismo stoico. Finché resta libresco,
produce i migliori effetti; nella realtà, è tutt’altra cosa. Poiché il problema in
questione dipende dalla saldatura tra il lavoro filosofico nella sua biblioteca
e la produzione di effetti visibili, costatabili, come si notano progressi in
filosofia. Quando si tenta, nessuno è tenuto a riuscire: l’obbligo sta nel
provare - non nel risultato.
 
 
36. Tre scimmìette filosofiche
 
Ognuno conosce quelle figure che rappresentano tre scimmiette, di cui
una si mette le mani davanti agli occhi, l’altra sulla bocca, l’ultima sulle
orecchie, e che insegnano una saggezza orientale ben presto divenuta una
saggezza popolare: non vedere, non dire, non sentire. Almeno: vedere, ma
non dire ciò che si è visto; sentire, ma non rilevare ciò che si è sentito. Non
notare nulla della bassezza del mondo, della cattiveria degli uomini,
dell’ipocrisia e della doppiezza delle persone, ma sempre guardarsi bene dal
farne parte.
Montaigne ha praticato questa saggezza e, a quanto sembra, si è trovato
bene. Nei Saggi confida di aver visto che sulle sue terre e nel suo castello la
servitù rubacchiava, metteva da parte verdure del suo orto e grano del suo
granaio, portava a casa questo o quello dei suoi beni. Ma preferisce non dire
nulla per non andare incontro a fastidi. Niente di tutto ciò ha davvero
importanza: un po’ di roba in meno, e allora?
L’essenziale non sta in ciò, ma nella propria tranquillità e serenità che
vengono intaccate se ci si avventura a chiedere conti, giustizia o
riparazione. Montaigne si vanta di non aver mai fatto ricorso alla giustizia.
Avendo frequentato il mondo dei tribunali per tredici anni, non ignora che
la giustizia non è granché giusta e che è meglio evitare di averci a che fare.
Dice di avere spesso visto delle condanne più criminali dei crimini... Già!
Una banale storia di corna mostra come si comportava Montaigne:
vedere, ascoltare, non dire nulla, certo, ma -metodo supremo - far sapere
che sappiamo, e non dire nulla. Così, quando il fratello muore per un
incidente di pelota, si cerca dappertutto la sua catena d’oro per inserirla
nell’eredità. Senza trovarla... In quanto primogenito, Montaigne presiede
alla divisione. Chiede che si vada a vedere nella cassapanca della moglie.
Difatti, il gioiello viene trovato. Antoinette, la madre del filosofo, salva la
nuora rivendicando la collocazione inopportuna. Montaigne vi acconsente,
ma ottiene che questa versione venga registrata da un notaio, in presenza
dei tre fratelli.
Perciò non c’è bisogno di andare a cercare lontano i brani dei Saggi in
cui Montaigne teorizza l'esser cornuti, precisando che tutti lo sono stati, lo
sono o lo saranno, oppure che tutti hanno messo, mettono o metteranno
corna. Non c’è di che formalizzarsi per così poco! Anzitutto, l’onestà non è
la cosa del mondo meglio distribuita; inoltre, una donna è virtuosa finché
non le è stata data l’occasione di non esserlo più. Stessa cosa per gli uomini.
L’essenziale, aggiunge il saggio ben informato - per aver portato e fatto
portare corna! -, è la discrezione. Ecco il segreto. In una delle formule in cui
eccelle, egli aggiunge che un buon matrimonio implica «una moglie cieca e
un marito sordo». Di che fare compagnia alle scimmie. Ma anche illustrare
in concreto le implicazioni della teoria edonista: non costruire la negatività
dandole l’occasione di sorgere. Impedire sul nascere tutto ciò che,
immancabilmente, genera passioni tristi, dolori, sofferenze. Lasciar fare,
lasciar dire, non essere sciocchi, e saper preservare ciò che conta più di
tutto: la propria serenità.
 
 
37. Allontanare una passione oscura
 
Infine, ultima tecnica per evitare il dolore, non prendere punti di
riferimento al di sopra delle proprie possibilità. Guardare piuttosto in basso.
Confrontare il proprio godimento con quello di persone più fortunate e
meglio dotate offre occasione di sofferenza: mettersi a confronto con
sfortunati, ecco un metodo utile. In confronto a Creso, l’umanità intera può
dirsi e credersi povera, anzi poverissima!
Saggezza vuole che noi voltiamo lo sguardo quando il raffronto è
doloroso. Montaigne ha già dissertato sul padrone interno e sul diniego; sa
quanto misurare se stessi con modelli impossibili da raggiungere genera
sofferenze. A questo gioco, ognuno si perde e non si trova. Imprecare
contro il proprio dolore perché il vicino viene risparmiato ci fa soffrire
ancora di più e ci impedisce di attaccare il nostro male là dove si trova!
Prendendo come unità di misura la gente da poco, i modesti, i piccoli, gli
umili, i subordinati, non si soffre di non essere più ricchi; pensando ai
malati che soffrono da più tempo di noi, in modo disperato, senza speranza,
si allevia un po’ il proprio dolore. Montaigne ha letto Lucrezio, spesso
evocato - a torto - per rallegrarsi della spaventosa constatazione che
nell’uomo esiste una strana facoltà di rallegrarsi della sventura del
prossimo, di provare una gioia malvagia nel vederlo in un dolore dal quale
egli viene risparmiato.    
A partire da questa oscura passione - il piacere che si trae dal dispiacere
di un altro -, che occorre rimuovere imperativamente, costruiamo una
tecnica luminosa: bisogna essere soddisfatti di ciò che si ha quando
potrebbe es-sere peggio. Saggezza che alcuni ritengono sommaria, popolare
o trasformano in formula di buon senso, certo, ma tentiamo: in fatto di
etica, solo le ricette inefficaci meritano disprezzo.
 
 
38. Una cultura del corpo
 
Il corpo in cui noi crediamo di vivere in modo innocente è cristiano: la
carne è fabbricata dai discorsi isterici di Paolo di Tarso, formattata dalla
Chiesa cattolica, apostolica e romana, intrisa di acqua benedetta, tormentata
dalle grandi paure e angosce distillate da un catechismo basato sull’errore,
sul senso di colpa, sul peccato originale. Inconsciamente, noi subiamo la
Legge ebraico-cristiana. Nel nostro rapporto con l’altro sesso, col desiderio
e col nostro piacere, noi agiamo da cristiani - anche se ci crediamo atei,
agnostici o miscredenti.
Montaigne crea un corpo ateo - prima della comparsa dell’epiteto, un
secolo più tardi. Ateo non perché nega Dio con la volontà feroce di coloro
che ne affermano l’esistenza, ma alla maniera epicurea: con una relativa
indifferenza. Che Dio o gli dèi esistano o no, è cosa che non presenta
nessuna importanza. Se esistono, non si curano affatto degli uomini, del
loro destino, dei particolari della loro vita quotidiana; se non esistono, la
questione è risolta. E' in questa atmosfera che si prepara il congedo degli
dèi e di Dio.
Un corpo ateo definisce anzitutto un corpo che rifiuta il. dolore in tutte le
sue forme: nulla giustifica la sofferenza, nessuna logica di salvezza. Il corpo
non ha nulla a che vedere con l’aldilà, concerne essenzialmente il mondo di
qua. Il cielo? Una finzione. Il reale? La morte, la vita, la finitudine,
l’entropia e il corpo di cui disponiamo. Nient’altro. La voluttà, è questa la
finalità di ogni esistenza. Montaigne propone di andarla a cercare nel
mondo della sua infanzia -  quel mondo che parla latino. I suoi anni
giovanili al castello non ci sono più? Poco importa: resta la biblioteca, la
stanza dove detta e parla, trasformata in ventre materno dove ricostruisce il
paradiso perduto.
Tormentato e roso dalla morte, parte alla ricerca di una saggezza che
implica la conoscenza di sé per adattare la sua filosofia al suo temperamento
- «dedurre la sua metafisica dalla sua fisica», per riprendere le sue parole.
La costruzione dei Saggi implica questa deviazione, in fondo alla quale può
rispondere alla duplice domanda: chi sono? E sulla scia: che cosa posso
sperare? Per fare ciò, la meditazione degli Antichi gli fornisce l’occasione
della sua impresa esistenziale.
Dal “Micheau” che parla in latino con i suoi genitori convertiti alla
lingua di Cicerone nel loro castello, al Michel che firma questo unico libro -
millecinquecento pagine in venti anni, tutto sommato è poco - è stato
necessario passare per una biblioteca e ricorrere alla mediazione dei saggi,
grandi antichi, scrittori, pensatori, filosofi e figure cardinali dell’Antichità.
Per arrivare dove? All’elogio delle persone umili, dei contadini semplici,
gente del luogo illetterata ma saggia senza aver mai letto un solo rigo di
Seneca o di Plutarco.
Questi uomini senza qualità, questi anonimi apparsi discretamente e poi
scomparsi con ancor meno rumore, ecco il modello di questo singolare
personaggio che non si dice filosofo ma, così facendo, definisce la filosofia
come l’attività che appunto si prende gioco della filosofia. Perché meditare
sulle Vite dei filosofi, se poi si arriva a riconoscere l’eccellenza della vita
degli uomini modesti, discreti, immersi nella natura? Quella delle sue
nutrici durante i primi due anni della sua esistenza...
Montaigne ama la sobrietà, la semplicità, l’austerità, il rigore. Invano si
cercherebbero elogi di Atene nei Saggi. In compenso, il filosofo non perde
occasione per vantare i meriti di Sparta, che insegna ai suoi sudditi
l’autonomia e l’autosufficienza. La storia del ragazzo spartano, che
preferisce morire col ventre addentato piuttosto che confessare di
nascondere una volpe sotto la tunica, è emblematica per esaltare il coraggio,
l’ardimento, l’eroismo nella vita di tutti i giorni - virtù austere che
definiscono lo zoccolo dell’etica esigente di Montaigne.
Questa morale della rettitudine non esclude una regola del gioco
epicurea. Al contrario. Il Portico e il Giardino non sono mai distanti dalla
Torre, come costruzioni vicine di uno stesso castello esistenziale. In uno dei
capitoli del terzo libro, Montaigne rivendica tre tipi di rapporti che gli
hanno consentito di vivere una vita felice. Vi si trova un elogio
dell’amicizia, un’esaltazione delle donne e una difesa dei libri. Tre momenti
in grado di generare esercizi spirituali. Tre usi del corpo che giubila.
 
 
39. Il falso marmo dell’amicizia
 
Le pagine di Montaigne sull’amicizia sono una specie di monumento
nazionale. Anzi internazionale. Spesso le si considera tali senza interrogarsi
sul ruolo della finzione, della riscrittura della Storia e della costruzione di
una mitologia - consapevolmente o meno - di cui Montaigne può rendersi
colpevole. Montaigne e La Boétie riciclano Achille e Patroclo, Oreste e
Pilade! Ecco una medaglia coniata per sempre, un sepolcro di marmo, un
soffitto dipinto come una Cappella Sistina perigordina.
Mai Montaigne appare più platonico come nelle pagine in cui gioca con i
grandi classici: si ritrova, in quel famoso capitolo ventotto del primo libro,
un’abile combinazione tra una storia personale e un vademecum delle
grandi pagine, dei grandi testi, delle grandi idee sull’amicizia difese da
Platone nel Liside, da Epicuro nelle Massime, da Cicerone nel Lelio, da
Seneca nel Lucilio. Un brano su La Boétie, un altro che riprende il discorso
antico sull’amicizia, e ritorno. L’insieme confeziona sapientemente un
esercizio di stile che attraversa i secoli col successo che sappiamo.
Ma l’amicizia non esiste come idea pura, concetto, cosa in sé; come
sappiamo da Aristotele in poi, non esiste l’Amicizia, ma soltanto le prove di
amicizia. Perché era lui! Ci conoscevamo prima di incontrarci! Quel sacro
legame che esiste solo una volta ogni tre secoli! Così integro e così perfetto!
Fidarsi più dell’altro che di se stessi! Un’anima in due corpi! Il vero amico,
che dolce cosa! Conosciamo la canzone canticchiata in Lagarde e Michard,
e nei licei da così tanto tempo...
Tuttavia... Tuttavia, quando si tratta di essere veramente amici, dare
realmente una prova d’amicizia, provare effettivamente che ci si muove
nell’eccezione, essere all’altezza del marmo scolpito, perché tirarsi
indietro? Montaigne infatti afferma di scrivere i Saggi perché gli manca La
Boé-tie (non solo, dunque, per i suoi parenti e gli amici che gli
sopravvivranno come annuncia all’inizio; egli non rinuncia tuttavia a
pubblicazioni che vanno oltre la cerchia dei lettori annunciati). Dice di
comporre questo libro impareggiabile per collocarvi, come in un
tabernacolo, il libro di La Boétie - quel sublime Discorso sulla servitù
volontaria.
Cosa che egli non fa, dopo aver denigrato l’opera: esercizio di stile,
lavoro di gioventù, cosuccia senza pretese, lavoro di compilazione - dice!
La vera ragione? In piena guerra di religione, quel magnifico brulotto serve
agli appassionati di libertà, di novità, di rivoluzioni politiche. Un’idea che
non piace a Montaigne. Di conseguenza, rinuncia e colloca in quel sepolcro
vuoto un mazzo di fiori secchi - ventinove sonetti di gioventù scialbi e
artefatti. Tradimento dell’amico morto. Meglio la tranquillità del suo paese
e l’ordine, che la memoria onorata dell’amico perduto.
 
 
40. Il plurale della parola amico
 
Quando non utilizza la retorica per riscrivere una storia immaginaria - sei
anni di esistenza di cui due di separazione, una morte che ferma una storia
altrimenti destinata a cambiare, come tutto ciò che subisce la legge
dell’entropia -, Montaigne vive senza grande eleganza le sue storie di
amicizia al di fuori del campo occupato da La Boétie, Come se volesse
cancellare la realtà: ossia l’esistenza di altri amici dopo la morte del
Commendatore trasformato in monumento.
Che ne è di Pierre de Brach - autore di una superba lettera sulla morte del
filosofo? E di Charron, il prete libertino al quale Montaigne offre un libro
proibito - il Catechismo di Bernardo Ochino, un’opera che attacca il papa e
che il suo futuro ex proprietario firma dopo aver scritto all’interno: liber
prohibitus...? Lo stesso al quale dopo la sua morte lascia in eredità i suoi
armadi e la sua biblioteca -quella di La Boétie, quindi... ? E Florimond de
Raemond, in favore del quale si dimette dalla carica al Parlamento di
Bordeaux?
Sarebbe vano cercare i nomi di questi tre amici nei Saggi. Tuttavia
sembra che Montaigne sia stato loro debitore di molte ore gioiose, allegre,
felici nelle sue terre perigordine. E momenti più reali che fittizi, più
montaignani che platonici! Conversando di caccia e di politica, di religione
e di donne, di filosofia e di indiscrezioni, di letteratura e di cavalli. Ma per
non gettare ombra sul marmo, tace scientemente i nomi di questi amici
reali, incarnati, terrestri! Meglio lasciar credere che la parola amico ignori il
plurale.
Scrivendo su La Boétie, Montaigne mostra la parte meno montaignana di
sé: lui così attento al reale, al concreto, così lucido, così severo come
moralista consapevole dei difetti e dei meccanismi dell’animo umano,
inventa una storia platonica - di tipo platonico? - e, mettendo l’asticella così
in alto, rende impossibile l’esercizio di un’amicizia reale, vitale e meno
ideale. Su questo tema, egli platonizza, crea un mito, idealizza, getta fumo,
pratica esattamente il contrario di ciò in cui eccelle solitamente, la
demistificazione.
Ingiusto con gli altri amici, refrigerato all’ombra del morto di Sarlat,
Montaigne confessa il piacere delle sue conversazioni con gli uomini di
spirito. E' difficile immaginarlo senza che conversi della sua epoca, del suo
tempo, della sua famiglia, della sua vita privata, della sua intimità e di tutto
ciò che nutre gli scambi complici con gli amici. La materia di queste
conversazioni costituisce ciò che manca nei Saggi. Il loro silenzio.
 
 
41. Baci sui baffi
 
Neanche delle donne, Montaigne ha lasciato nomi. Sono numerose quelle
che meritano le dediche di alcuni capitoli nei Saggi. In compenso nessun
uomo. Egli non infrange mai davvero: il matrimonio non lo priva compieta-
mente della sua libertà; non si può fare come se non avesse mai confessato
la sua natura voluttuosa, libidica e attiva. Se proviamo a colmare gli spazi
bianchi del libro in cui pretende di dire tutto, possiamo immaginare a che
cosa poteva somigliare la sua vita amorosa, affettiva e sessuale. Come
testimonia il «sapore dei baci rimasto sui baffi», la voluttà per lui non fu un
concetto vago, ma una realtà tangibile, sensuale.
Ha baciato ingordamente Marie de Gournay, che nell’opera appare come
la sua figlia elettiva - parole probabilmente scritte dalla signora in questione
allo scopo di scolpire la sua immagine nel marmo dell’edizione definitiva?
Non lo sappiamo. Tutto fu molto casto, dice; possiamo credergli ricordando
lo stato della sua forma sessuale quando la incontra; lei ha ventidue anni, lui
ne ha cinquantacinque.
Ma Montaigne afferma anche che si prova piacere ad accarezzare tutta la
notte una donna quando non si può far di meglio. La sua resistenza sarebbe
stata eroica! E lui non ha mai raccomandato l’eroismo in questo campo...
 
 
42. Con le donne, per le donne
 
Montaigne parla delle donne come la sua epoca. Fuori dal contesto, si
trovano evidentemente giudizi classici sulla loro vanità, ingenuità,
ostinazione, carattere collerico, sulla loro natura gelosa, insaziabilità,
incapacità di resistere all’adulazione, passività, debolezza. Ma anche degli
uomini parla con la stessa fredda lucidità. Per non essere misogino non
basta eccellere nell’ostentare apprezzamento, un’altra forma di disprezzo
verso le donne. Basta l’uguaglianza - né la disuguaglianza dei fallocrati, né
quella degli adulatori del bel sesso. Montaigne analizza le passioni umane.
E' vero che le donne non ne escono pure e senza macchia, ma neanche i
maschi.
In compenso, Montaigne manifesta una vera grandezza -come sulla
questione della tortura, del colonialismo, della stregoneria - quando afferma
senza ambagi che non esiste differenza di natura tra gli uomini e le donne,
ma solo disuguaglianze prodotte dalla società. Egli afferma che la società è
costruita dagli uomini, per loro, con le loro mani. E che le donne pagano un
alto prezzo. Afferma che sono l’istruzione, l’istituzione e l’usanza a
generare misoginia. Nient’altro. Non occorre cercare nei geni la finzione di
un eterno femminino o di tare irremissibili: quando le donne sono mediocri,
esse lo devono a ciò che gli uomini fanno di esse. Pensare così in pieno
XVI secolo... Complimenti.
Dal momento che gli uomini costruiscono il mondo secondo le proprie
esigenze, le donne possono anche disobbedire a leggi che non le riguardano.
Montaigne qui si fa lettore avvertito ed efficace di... La Boétie. In un certo
modo, egli riprende l’idea maestra del giovane e geniale filosofo
precocemente scomparso: siate risoluti a non più servire, ed eccovi liberi.
Non siate acquiescenti a ciò che gli uomini fanno pesare su di voi,
liberatevi. In sostanza è questo che viene detto; quanto alla forma, leggiamo
attentamente: questo invito femminista esige un occhio scaltro.
Esempi: Montaigne trova ridicolo l’obbligo imposto alle donne di
conservare la verginità fino al matrimonio; si scaglia contro i rapporti
sessuali imposti dai mariti alle mogli senza il loro consenso; stima che esse
hanno sessualmente diritto al piacere, altrettanto quanto i partner; pensa
anche che le corna non devono restare privilegio dei maschi, basta che gli
sposi restino discreti; infine, esalta la dolcezza nei rapporti sessuali. E'
possibile esprimersi meglio? Soprattutto in quell’epoca in cui il
cristianesimo manda le donne al rogo col falso pretesto di rapporti col
diavolo.
Ciò che Montaigne teme nelle donne - ma anche in ogni relazione - è la
loro facoltà di intaccare il potere degli uomini, la loro minaccia per la
libertà, l’autonomia, l’indipendenza, i beni più preziosi del filosofo. Egli sa
che il matrimonio - a cui si rassegna, ma in forme singolari - sfocia il più
delle volte nella paternità e che l’ozio, così prezioso per il lavoro filosofico,
si trova in un colpo solo volatilizzato. La paura della vagina dentata, della
castrazione - diciamolo in termini freudiani - anima questo appassionato di
libertà. Chi può dargli torto?
 
 
43.I rapporti con le donne
 
Su questo tema, egli pensa da epicureo convinto: nei Saggi afferma di
non aver mai frequentato le prostitute più del giusto. Crediamo di sapere
che durante il suo lungo viaggio - due anni passati lontano dalla famiglia -
vi ha fatto ricorso regolarmente. In questo senso, si fa discepolo di Lucrezio
e pensa che se la libido minaccia e ostacola il lavoro su di sé, la saggezza, la
riflessione, la prima che capita va bene. Il bordello è quindi un eccellente
rimedio straordinario e un aiuto filosofico.
Del resto, non c’è nulla di proibito sul terreno filosofico, salvo ciò che
può mettere in pericolo l’equilibrio raggiunto con lavoro e pazienza. Non è
proprio il caso di mandare in pezzi una quiete conquistata a caro prezzo a
causa di una gonnella che passa. Montaigne preferisce una sessualità
accompagnata da affetto, certo, ma niente impedisce sentimenti per la
donna venale ritrovata con piacere.
Discepolo di Lucrezio, egli lo è anche quando esalta ciò che ho chiamato
la coppia atarassica: agli antipodi del matrimonio d’amore (ossimoro
altrettanto dannoso per il matrimonio di quanto lo è per l’amore), egli vanta
i meriti del matrimonio di convenienza. Quale filosofo potrebbe
rimproverarglielo? Associare la coabitazione e la passione mette in pericolo
l’una e l’altra: bisogna coabitare con un essere verso il quale si provano
sentimenti, certo, ma sicuramente non un amore appassionato, torrido,
sessuale, libidico; allo stesso modo, bisogna stare attenti a non condividere
mai lo stesso tetto con la donna amata in maniera incandescente. Pena
l’estinzione rapida dell’incendio.
La coppia ideale nel matrimonio - verosimilmente non il suo - implica la
dolcezza, il piacere di essere e di vivere insieme. La sessualità vi svolge un
ruolo igienico. Né troppo né troppo poco, giusto il necessario per evitare la
carenza. La dissociazione dell’amore e della sessualità sembra una vecchia
idea - in realtà, romana. Leggere o rileggere Ovidio e L’arte di amare. In
realtà, è un’idea d’avanguardia.
 
 
44. Il glorioso capolavoro
 
L’intersoggettività edonista di Montaigne mira alla costruzione di un
piacere non alienante. Con l’amicizia vissuta, e non solo ricostituita
nell’ideale del ricordo dell’amico morto; nel rapporto con le donne, grazie
alle gioie del corpo facili e puntuali, ma senza conseguenze nefaste per
l’autonomia; in una storia destinata a durare una vita, ma senza voluttà
deliranti; nella frequentazione degli eletti che permettono di costruire la
propria libertà e la propria gioia, si trova materia in grado di riempire
un’intera esistenza.
A tutto ciò, aggiungiamo il rapporto con i libri. Poiché la sola
frequentazione degli uomini non basta alla felicità di un uomo. I libri non si
frequentano da pedanti, ma per costruire quella che Marco Aurelio chiama
la cittadella interiore - di cui la Torre offre la metafora migliore. Questa
Torre che conteneva i libri compulsati da Montaigne, ma anche il libro detto
e dettato per cercarsi e trovarsi. Le biblioteche non servono che a questo: a
offrire occasioni per meditare, pensare, riflettere sulla propria vita,
l’esistenza. Altrimenti, non meritano un attimo di fatica.
I Saggi sono saggi di se stesso; e infine scoperta. Cosa di cui l’intero libro
testimonia, anche mentre continua incessantemente a rielaborarlo, fino alla
morte - solo limite possibile. Poiché in queste pagine sublimi, Montaigne
offre disordinatamente materiali per costruire un’etica, ossia di che
regolare, con finezza e precisione, la migliore distanza tra sé e sé, tra sé e
gli altri, tra sé e il mondo. E ciò nei dettagli del quotidiano.
Trovato questo equilibrio, realizzata questa eumetria -metriopatia dicono
gli Antichi -, la vita può diventare gioiosa, felice, voluttuosa, magnifica,
superba, desiderabile. Una vita di saggio, di filosofo, di pace, di serenità. Di
atarassia, certo, ma anche oltre: una vita di dolce piacere. Il segno che si è
avuto successo? Il desiderio di rivivere ciò che si è scelto, se si dovesse
vivere di nuovo. Si costruisce questo grande e glorioso capolavoro di una
vita ben vissuta. Il compito della filosofia edonista è questo: costruirsi come
una potenza che vorremmo che si ripetesse così com’è, così come fu, per
non dover godere né meno né meglio.
 
 
45. La morte del saggio
 
Molto presto Montaigne capisce che la morte è il grande problema, il
solo, forse l’unico. Che tutti gli altri sono soltanto variazioni con questo
perpetuo basso continuo. Molto presto nel suo libro egli ne fa l’occasione
architettonica di ogni esistenza: dà il senso al resto, colora l’insieme, finisce
di fissare ciò che la vita abbozza a grandi linee. Il momento ultimo dà
coerenza a tutti quelli che lo precedono. Da qui l’interesse per il filosofo di
morire... da filosofo, come si suol dire di coloro che accettano l’ultimo
colpo della sorte senza mugugnare, senza lagnarsi, sereni.
Come muore Montaigne, lui che è conosciuto per quel motto filosofico,
secondo il quale filosofare è imparare a morire? Venti anni dedicati a questo
argomento, ore di lettura e di meditazione, pensieri ininterrotti, riflessioni
sul proprio corpo malato che lo abbandona pezzo a pezzo -dalla malattia
della pietra all’impotenza, passando per l’incidente a cavallo -: l’eccellenza
di una prova generale garantisce forse la perfezione della prima? Poiché
questo momento unico non ammette l’improvvisazione o la mano che
trema.
Gli amici testimoniano. Pierre de Brach, per esempio, racconta in una
superba lettera a Giusto Lipsio - così come Montaigne aveva raccontato al
padre la morte del suo amico Etienne de La Boétie - in che modo muore
Michel de Montaigne il 13 settembre 1592. Racconto in seguito ripreso
dall’iconografia: una tela del XIX secolo, per esempio, coglie l’attimo in cui
Montaigne lascia il mondo. E tutto converge: il filosofo cristiano e romano
muore da cattolico discepolo di Catone. Tutto è bene di fronte alla Storia - e
alla Mitologia.
La sua morte non lo sorprende: né un lampo che lo folgori senza che egli
se ne accorga - arresto cardiaco, aneurisma -, né un incidente del tipo
cavalcata fantastica nella foresta, o ancora un assassinio al quale, a dargli
credito, sfugge per due volte - in un bosco, dove era stato intercettato da
alcuni briganti, e a casa sua, dove il suo ardimento e la sua determinazione
avevano scoraggiato i ladri, dice... No. Muore sapendo che l’ora è giunta:
gli resta del tempo per vederla avvicinarsi, fissarla diritto negli occhi.
Epaminonda era il suo eroe? Lo raggiunge in una stessa fraternità virile.
Se prestiamo fede al suo amico Pierre de Brach, il passare del tempo
aveva logorato il suo corpo. La malattia gli rendeva davvero la vita
impossibile. Il padre era morto della stessa malattia che l’aveva fatto
soffrire per anni. All’epoca, non si opera e non si guarisce: l’aggravamento
è in agguato, senza possibilità di guarigione. A cinquantanove anni, quindi,
egli si vede vecchio ma al momento della morte lavora ancora. Solo la
morte poteva porre contemporaneamente termine sia al corpo del filosofo
che ai Saggi, l’altro corpo filosofico. Incompiuto mentre era ancora in vita il
suo autore, sua stessa ragione d’essere, il libro si chiude dopo l’ultimo
respiro di Montaigne.
I suoi amici sono là: Florimond de Raemond, storico che gli succede
nella carica al Parlamento, Pierre de Brach, poeta e avvocato a Bordeaux,
Anthony Bacon, fratello del futuro cancelliere, Pierre Charron,
ecclesiastico, campione della Lega al suo tempo, erede dell’arme di
Montaigne, autore del De la sagesse che, a partire dai Saggi, farà molto per
e contro la reputazione del filosofo. Chiama vicino a sé la gente dei
dintorni. Ad alcuni paga salari, debiti e pensioni varie per evitare i fastidi
della riscossione, che riteneva inevitabili dopo la sua morte. Così si mostra
gran signore e fine moralista nel senso che La Rochefoucauld e La Bruyère,
suoi lettori appassionati, danno a questo termine.
La diagnosi della sua ultima malattia non è precisa: una forma di
infiammazione alla gola. L’etimologia fa ricorso al greco: rimanda a
un’angina violenta che fa tirar fuori la lingua come a un cane che ansima.
Per un filosofo del quale ho detto che ha, sin dall’infanzia, e a causa
dell’educazione bizzarra del padre che lo aveva iniziato alla lingua latina
prima del francese, una lingua morta sulle labbra, una lingua materna che è
anzitutto patema, un idioma che non è più parlato da nessuna persona
vivente, ma solo dai grandi morti che ossessionano la vita di Montaigne, la
morte sembra coerente con la vita di questo grande parlatore che -
ripetiamolo ancora una volta - ha dettato, dunque parlato e raccontato i
Saggi.
In termini di eziologia contemporanea, si può formulare l’ipotesi di
un’angina difterica che caratterizza la formazione, in fondo alla gola, di
membrane che ostruiscono la cavità faringea e rendono la respirazione
dapprima difficile, poi impossibile, fino al soffocamento. Nelle diatribe che
Montaigne dedica alla medicina, nel corso delle quali riserva un trattamento
di favore ai chirurghi, il filosofo avrebbe visto confermate le sue tesi. Ivi
compresa la superiorità del gesto operatorio: delle pinze avrebbero in effetti
potuto ipoteticamente liberare la gola aspettando un possibile
miglioramento della condizione del malato, se non addirittura della sua
salute. Ma, comunque...
Gli ultimi tre giorni non è più in grado di parlare. Pierre de Brach
racconta che Montaigne ha temuto di morire solo, o senza avere nessuno a
cui confidare - dettare - lo stato presente dei suoi pensieri. Nel suo libro,
parla della necessità di chiamare il prete per l’amministrazione del
sacramento dell’estrema unzione: il filosofo e l’uomo, coe-renti, si ritrovano
nel morente che mette in pratica ciò che insegna. Quando il curato compie
l’elevazione, Montaigne rende l’anima. Bella immagine oleografica: il
filosofo lascia il mondo senza rinnegare né la saggezza antica né la fede
cristiana.
Tra parentesi: che violenza e brutalità in Pascal, quando nei suoi appunti
rimprovera a Montaigne di aver desiderato tutta la vita solo «una morte vile
e molle» secondo le sue espressioni. A parte il fatto che, senza essere
codardi, si può preferire di affrontare questo momento senza accorgersene -
chi potrebbe andare incontro al dolore, alla sofferenza e al dispiacere, se
non un cristiano affascinato dalla sofferenza? I Saggi infatti non rifiutano di
affrontare il problema della morte: non fanno che questo! Il desiderio
morboso di godere della propria agonia è effettivamente agli antipodi di un
cervello sano come quello di Montaigne. Lui non ha bisogno delle finzioni
di una vita post mortem per guardare serenamente alla propria morte.
 
 
46.I due corpi di Montaigne
 
Da una parte, il primo corpo di Montaigne: la sua carne, il suo cadavere,
la sua spoglia mortale e le sue molteplici peripezie tra vicende di cronaca e
serenità recuperata; d’altra parte, quel corpo quasi glorioso, quel doppio
incorruttibile, eterno, vivente, destinato a sopravvivergli nel tempo e nella
Storia - forse persino a un punto che egli neanche immaginava, lui che
partiva col desiderio di informare soltanto i congiunti e gli amici dopo la
sua scomparsa e che, col susseguirsi degli anni e delle edizioni, scopre i
lettori, prima di conquistare se stesso con l’aiuto di questo libro.
Il primo corpo subisce le pratiche correnti della sua epoca: gli viene
aperta la gabbia toracica per estrarre il cuore e affidarlo a una sepoltura
separata. I visceri sono posti nella cappella Saint-Michel di Montaigne; il
corpo amputato raggiunge la chiesa dei Feuillants a Bordeaux dove
l’aspetta una tomba, ordinata dalla sua vedova. L’anno successivo la bara
viene trasferita in una chiesa di recente costruzione. Trentun anni dopo, il
cuore della figlia Léonor lo raggiunge. Poi, cinque anni più tardi, la moglie,
Françoise de la ; Chassaigne (che probabilmente non aveva letto il libro del
marito) ritrova la spoglia a ottantatré anni passati.
Nel 1793, durante la Rivoluzione francese, la Fraternità si arresta davanti
alle tombe degli aristocratici. I sanculotti violano alcune sepolture. A
Bordeaux, l’ottava sezione dei Patrioti ha preso il nome di... Michel de
Montaigne. Questo nobile di fresca data, che ha sempre cancellato le tracce
del suo accesso recente alla particella nobiliare, questo conservatore in
politica, questo nemico di tutte le novità, questo cattolico monarchico non
avrebbe sicuramente apprezzato molto il suo arruolamento tra le file
repubblicane. Ma è un dirottamento che procura la pace alle sue ceneri. I
due corpi restano ai Feuillants: la spoglia e il manoscritto detto “di
Bordeaux”, amputato delle note a margine da un rilegatore dalla taglierina
insicura.
Sotto il Consolato, nel 1800, su ordine del prefetto Thibaudeau, le ceneri
del filosofo vengono portate in pompa magna nella sala del Museo
dell’Accademia di Bordeaux. Prima che le autorità scoprano gli altarini: il
beneficiario di questo dispiegamento di fasti era la nipote acquisita di
Montaigne. Ritorno della signora nella sua tomba originaria. L’ex sindaco
di Bordeaux resta ai Feuillants, chiesa nuova. La quale brucia nel 1871.
Per una decina d’anni, l’edificio fu lasciato in stato di abbandono. Né
ricostruito, né abbattuto: in rovina. La cassa di piombo ha sofferto le
fiamme. Dicembre 1880, ciò che resta della spoglia viene posto in una bara
trasferita e inumata nella certosa. L’11 marzo 1886 Montaigne trova infine
sistemazione nel vestibolo della Facoltà di Bordeaux - Musée d’Aquitaine
dove si trova ancora oggi. Riposo ben meritato.
Il sarcofago è sormontato da una statua distesa del filosofo che fu anche
soldato del re. Le metafore polemologiche, strategiche e guerresche
infiorano del resto numerosi capitoli del primo libro dei Saggi. Elmo e
guanti di ferro posti vicino alla sua spoglia, le mani giunte in una preghiera
eterna - confessava di recitare il Padre Nostro non appena se ne presentava
un’occasione, eccone una definitiva - un leone sdraiato ai suoi piedi, dicono
gli specialisti in araldica, i turiferari si piegano anche a questa versione: in
realtà, questo leone ricciuto è di un formato così piccolo che somiglia in
modo impressionante a un cagnolino inoffensivo, sdraiato ai piedi del suo
padrone. Montaigne che spesso ha detto quanto soffrisse della sua bassa
statura.
Ultima peripezia di questo primo corpo, decisamente abbonato alle
cronache: durante l’occupazione tedesca a Bordeaux, il sarcofago è servito
da cassetta delle lettere per una rete di resistenti. Non sappiamo che cosa
avrebbe pensato Montaigne di simili sollecitudini; ma non c’è dubbio che la
vicenda avrebbe divertito La Boétie. Da allora, una storia senza infamia e
senza lode, solo l’indifferenza dei passanti che si recano alle mostre del
museo trascurando la tomba di uno dei più grandi filosofi di tutti i tempi.
 
 
47. La fortuna dei Saggi
 
Da vivo, Montaigne pensa a nuove edizioni, alla stesura di un testo più
affidabile in grado di attraversare il tempo, che egli sa essere un potenziale
nemico. Non volendo eliminare nulla - in realtà, di tanto in tanto tuttavia... -
ma soltanto aggiungere, detta a Marie de Gournay, lavora assieme a lei. Dal
1588, data dell’incontro tra i due piccioncini, fino al 1669, data dell’uscita
dei tre volumi, vedono la luce non meno di trentaquattro edizioni. Nove
sotto la direzione di Marie de Gournay, alcune delle quali con prefazioni,
aggiunte e tagli di sua mano.
1590: Montaigne viene a conoscenza di una traduzione italiana. E'
firmata dall’ambasciatore del duca di Ferrara, Girolamo Naselli. Che si
sappia non produce effetti sulla letteratura dell’epoca. Il Libro del
Cortegiano di Castiglione o II Principe di Machiavelli sono anteriori:
Montaigne dispone del resto di questi due autori nella sua biblioteca. Né
Giordano Bruno né Tommaso Campanella né Giulio Cesare Vanini
sembrano aver subito la sua influenza.
1603: esce una traduzione inglese, a opera di Florio. Essa permette
probabilmente a Shakespeare di prendere conoscenza del testo e,
verosimilmente, di apprezzare l’opera. Gli esegeti litigano ancora sui limiti
e sul contenuto di questa relazione... Seguono altre traduzioni: quella di
Cotton nel 1685 e nel 1693. L’influenza su Locke è notevole: le opinioni
sensiste ed empiristiche di Montaigne producono il migliore effetto presso
l’autore della Lettera sulla tolleranza e del Saggio sull’intelletto umano. Più
tardi, il passaggio del testimone avviene con Hume, l’autore dimenticato dei
Saggi morali, politici e letterari - di spirito molto montaignano e non solo
del Trattato sulla natura umana.
1753, in Germania... Prima Titius, poi Bode assicurano il successo del
filosofo d’oltre-Reno. Kant cita poco Montaigne nella sua opera - due volte
- ma nella sua corrispondenza il padre del criticismo mostra passione per
l’autore dei Saggi: ne conosce numerosi brani a memoria e lo considera un
immenso osservatore dell’io, un maestro in capacità di introspezione.
Raccomanda ai suoi amici di leggere l’opera come libro prediletto. Ma non
c’è da stupirsi se il Principe dell’analitica trascendentale storce il naso
davanti allo zibaldone del Re dei salti e capriole.
In Francia, la fortuna dei Saggi prende, grosso modo, due strade, due
facce della stessa medaglia: da una parte, il Gran Secolo e il solito canale -
Descartes, Pascal, Malebranche, ma anche i moralisti, Molière o La
Fontaine; dall’altra, una straordinaria stirpe libertina, meno conosciuta,
l’esatto rovescio del Gran Secolo: tramite Marie de Gournay, anello
fondamentale per l’emergere di questa linea di forza dimenticata, François
La Mothe Le Vayer, l’erede di una parte dei libri della Biblioteca, autore dei
Petits traités dans l’esprit du Maître, composti quasi sul modello dei
capitoli dei Saggi', il voluttuoso Charles de Saint-Evremond, autore di
gioiellini di filosofia edonista, tra cui Sur les plaisirs e Sur la morale
d’Epicure, un omaggio alla sua amica Ninon de Lenclos: ma anche Pierre
Gassendi, figura dimenticata ma importante, senza il quale non si capisce
Descartes, autore di una riabilitazione in piena regola del filosofo del
Giardino: De vita et moribus Epicuri; o ancora Cyrano de Bergerac, i cui
fondamenti filosofici dell’Altro mondo derivano esplicitamente da
Montaigne; infine l’abate Meslier, e il suo Testamento, il primo ateo, anche
lui grande consumatore di idee, di pensieri e di citazioni provenienti dai tre
grandi Libri. Di che fornire, solo nel secolo successivo alla sua scomparsa,
un’impressionante genealogia di pensieri alternativi...
 
 
48. Descartes montaignano?
 
La pura e semplice lettura del Discorso sul metodo mostra
abbondantemente quanto interi pezzi della sua filosofia, e non dei minori,
derivano da Montaigne, senza contare le innumerevoli citazioni, i prestiti, le
metafore, le immagini di cui Descartes è debitore nei confronti dei Saggi.
Per esempio, la redazione del libro in francese -che non è il primo in
filosofia, come talora si legge, altrimenti dove mettere i Saggi? - e non in
latino, la lingua dei dotti europei, certo, ma non dei connazionali, della
gente comune al cui buon senso Descartes si indirizza prioritariamente.
Inoltre, come Montaigne, Descartes parla in prima persona, un peccato
mortale per la casta filosofeggiante o professorale: la sua infanzia, le sue
letture, la sua tendenza a poltrire il mattino a letto, i suoi maestri, i suoi
studi al collegio di La Flèche, più tardi la stanza riscaldata da una stufa in
Germania durante la guerra, dove, chiuso tutto il giorno, pensa e medita il
suo metodo. In Olympica, oggi perduta, racconta tre sogni descritti con
precisione. Partendo da se stesso, cerca la natura del suo Io o del suo Me. I
due filosofi hanno in comune la ricerca dell’identità. Nelle pagine
introduttive del suo grande libro Descartes si prende persino cura di dire
che egli propone il suo metodo personale, e non il metodo assoluto.
Da qui la rivendicazione di una storia, di una favola, di un quadro - una
metafora utilizzata anche da Montaigne. L’odissea di una coscienza che
parte alla ricerca di una prima verità, senza essere a priori certa di nulla a
proposito di sé, e, indipendentemente da ogni cielo e senza preoccuparsi
della trascendenza, scopre una genealogia solida, immanente: la certezza di
sé, di un io che, siccome pensa, e dunque riflette su se stesso, non può
dubitare che almeno egli è. Nella Torre e nella Stanza con la stufa, si
costruiscono due soggettività, unicamente preoccupate della loro pura
presenza materiale al mondo.
In francese, in prima persona, i due pensatori affrontano la filosofia allo
stesso modo: voltando le spalle alla scolastica, alle categorie aristoteliche,
alla tradizione, dunque alla teologia come matrice di ogni verità, curandosi
poco di ottenere i favori dei professionisti della disciplina, né l’imprimatur
delle autorità in materia, non vogliono essere assimilati alla tradizione.
L’uno e l’altro filosofano prendendosi gioco della filosofia dominante -
Pascal se ne ricorderà... - e, così facendo, aprono una strada importante per
una rivoluzione nel pensiero occidentale.
Montaigne e Descartes non si accontentano neanche delle loro
biblioteche per pensare il reale, costruire una visione del mondo a partire da
un ufficio dal quale si cogita l’universo. Entrambi rivalutano il viaggio
come occasione per apprendere, scoprire, «leggere nel gran libro del
mondo», secondo l’espressione del Discorso sul metodo. Come giudicare
correttamente i nostri costumi, la verità, l’errore, se si ignorano i valori di
altri popoli, i famosi cannibali, comuni alle due opere, o i cinesi, anch’essi
chiamati in causa per le stesse ragioni?
Come afferma l' Apologia di Raymond Sebond, e come ritiene anche il
Discorso sul metodo: le verità religiose sono inaccessibili alla ragione e
all’intelligenza. Ciò detto, non c’è bisogno di utilizzare queste due facoltà
per provare l’esistenza di ciò che deve restare articolo di fede. Quando più
tardi Kant oppone fenomeni, accessibili alla percezione, e noumeni,
unicamente concepibili mentalmente, che cosa dice di più? Si apre un viale
per una filosofìa sbarazzata dall’obbligo di porsi al servizio della religione.
Essa si laicizza pienamente.
I due si assomigliano persino nei difetti: la loro prudenza, la loro
immensa prudenza per esempio. Scettico sul principio pirroniano l’uno, su
quello metodico l’altro, evitano di inglobare nel loro dubbio le questioni
politiche e religiose. Si dubita di tutto, ma al castello di Montaigne, come
nei Paesi Bassi di Descartes, viene risparmiata la religione del proprio re e
della propria nutrice, stessa cosa per l’idea monarchica.
E poi, al di là dell’autobiografia filosofica francese, della ricerca di una
prima verità assimilabile all’io, del modo dialettico di realizzare la filosofia
andando oltre quella dell’epoca e del momento, di una preoccupazione di
immanenza agli antipodi della mania libresca, di un gusto per la prosa del
mondo, di una secolarizzazione della ragion pura o di una prudenza tutta
francese, il famoso cogito cartesiano - quarta parte del Discorso sul metodo,
articolo dieci dei Principi della filosofia e seconda Meditazione - ha rapporti
con questa citazione di Montaigne: «facilmente sogno di sognare». Certo,
Agostino, nella Trinità, sviluppa già una riflessione da inserire tra le
geneaologie di Descartes su questo tema, ma la congruenza dei
procedimenti sembra accertata. Partire da sé e scoprire che almeno questo
zoccolo su cui ci si appoggia costituisce realmente un solido basamento.
Con ogni evidenza, sarebbe sbagliato ridurre Descartes a un commento di
Montaigne. È un atteggiamento che eccita gli storici della filosofia e i
cercatori di note a pie’ di pagina. Ma Descartes cita poco gli autori che
critica e analizza, o su cui si basa per affrontare questo o quel tema nella sua
opera. Ragione di più per gratificare Montaigne, dappertutto presente in
filigrana, del titolo di inventore della filosofia francese, tante sono le
ramificazioni che il cartesianesimo produce in seguito in Europa: senza
parlare del tronco libertino, di un ramo spinozista, di un germoglio
leibniziano, di un pollone malebranchiano, di una talea lamettriana ecc.
 
 
49. Pascal’ inutile e incerto
 
Pascal non amava Montaigne, ma ciò non gli impedisce di saccheggiarlo,
idee e metafore comprese. Evidentemente, da buon cristiano che trova
odioso l’Io - ma non l’impresa di consacrare la propria vita alla sua
meschina salvezza eterna -, il giansenista fustiga il progetto montaignano di
descriversi e di fare un autoritratto dettagliato (meno cieco sul possibile
ruolo della ricerca di sé e del proprio possibile legame con l’apologetica
cristiana, san Francesco di Sales, l’interlocutore di Marie de Gournay, la
“figlia elettiva” del filosofo, ha spesso detto tutto il bene che pensava di
Montaigne e dei suoi Saggi). «Stolto proposito», scrive nei Pensieri...
Lo stesso filosofo cristiano non può nemmeno amare la difesa della morte
volontaria fatta dall’amico degli stoici e degli epicurei. L’elogio del suicidio
quando la vita è diventata insopportabile, quando la somma dei dispiaceri
supera quella dei piaceri, la possibilità di uscire liberamente dall’esistenza
come si esce da una stanza piena di fumo, non raccoglie l’approvazione di
colui che, portando cilici e praticando macerazioni, ama e predilige il dolore
come occasione per vivere facilmente in rapida sintesi eroica la Passione
del suo eroe cristico.
Infine, a infastidire davvero Pascal è l’approccio immanente alla vita, il
fatto che, benché Dio per il gentiluomo bordolese esista, non sta però
all’epicentro del reale. Il ritratto della condizione umana, tramite quello
della propria condizione, corrisponde spesso al ritratto della miseria
dell’uomo senza Dio trovato nelle carte lasciate dall’autore delle
Provinciali. Il pirronismo, lo scetticismo, anche se risparmia Dio e la
religione cattolica, sono troppo in contraddizione con l’apologetica
cattolica.
Nei Pensieri non c’è nulla a proposito dell’affermazione dell’esistenza di
Dio che nondimeno nei Saggi è presente, nulla sulla difesa e illustrazione
della religione cattolica, apostolica e romana, nulla sulle considerazioni
concernenti i poteri della ragione, limitati, e quelli della fede - tuttavia, lo
spirito di geometria razionale e lo spirito di finezza intuitiva... Il processo a
Montaigne è tutto un atto d’accusa, del resto partendo spesso da ciò che
Charron scrive nel De la sagesse: una specie di cristiano scettico, secondo
lui, cosa che il filosofo non è mai stato.
Tuttavia, Pascal saccheggia abbondantemente i Saggi: immagini,
metafore, bestiario - il pidocchio... -, non solo citando diciassette volte il
nome di Montaigne, ma a ogni passaggio dei Pensieri si trovano Montaigne
e Charron: i poteri ingannatori dei sensi, i limiti della ragione che inciampa
sul terreno della religione, l’incapacità degli uomini di guardare in faccia il
loro destino, il determinismo geografico in materia di leggi e di costumi, la
necessità di conoscersi.
Le tesi pascaliane sul divertissement si capiscono meglio quando
vengono collegate al capitolo intitolato Del diversivo (libro III, cap. IV) in
cui Montaigne insegna il lavoro sulle rappresentazioni e l’arte sapiente di
distogliere lo sguardo dallo spettacolo della sofferenza, dell’infelicità, della
miseria, della fatica e della tristezza di una condizione umana che sfocia
ineluttabilmente nella morte. Evidentemente, Pascal deplora la strategia
edonista consistente nell’evitare il dolore e preferisce una soluzione che
considera più coraggiosa (!): il postulato sulla base della scommessa di un
Dio che, cordiale assoluto, finzione soporifera, dispensa dal guardare la
realtà in faccia. Stessa soluzione: uno da filosofo smaliziato, l’altro come un
appassiona-, to di racconti infantili. Filosofia contro religione.
 
 
50. Genealogia di un pensiero alternativo
 
Montaigne offre dunque ai credenti, ai cristiani, ai cattolici, ai deisti, agli
spiritualisti, materiale per pensare. Eredità fissata in forma classica,
attraverso la via regia del Gran Secolo così come appare nelle storie
letterarie, nelle enciclopedie filosofiche e nella storiografia conservatrice
delle idee. Giansenisti e gesuiti, cartesianesimo e fideismo, apologetica e
quietismo, tragedia e commedia classiche: una tradizione francese in cui
l’ordine, la misura, l’armonia, ma anche Dio e la religione, malgrado le loro
differenze di dettaglio, si dividono l’essenziale del mercato visibile del
pensiero. Ma, invisibile, sotterraneo, più discreto, meno esposto per evitare
le persecuzioni, le noie con l’ordine morale, esiste anche un continente
libertino: anch’esso si richiama a Montaigne. Evidentemente non al
medesimo.
La piattaforma girevole di un uso libertino di Montaigne nasce con Marie
de Gournay, nel suo Salotto parigino, rue de l’Arbre-Sec, dopo la morte del
filosofo. Siamo nei primi anni del XVII secolo. La relazione tra Michel de
Montaigne e Marie de Gournay (6 ottobre 1565-13 luglio 1645) fa scorrere
molto inchiostro. Figlia elettiva, dicono entrambi per qualificare la loro
relazione e inserirla in una cornice familiare che, escludendo l’incesto,
implica un rapporto filiale, paterno, affettuoso, sì, ma platonico.
Marie scopre i primi due libri dei Saggi verso i diciotto anni. Colpo di
fulmine intellettuale. Il libro li unisce, ma essi non si conoscono, e lei non
scrive all’autore perché pensa che sia morto. Cinque anni più tardi viene a
sapere che l’autore della famosa opera è a Parigi, per questioni editoriali.
Manda un messaggio a Montaigne, il quale, sedotto dal tenore del biglietto,
la riceve il giorno dopo: non si lasceranno più. Il Bordolese ha
cinquantacinque anni, la giovinetta ventitré.
Chiaramente, se Michel e Marie intrattengono una relazione amorosa,
persino sessuale, non vanno a esibire sulla pubblica piazza i particolari della
loro storia: Montaigne è sposato, padre di famiglia, libero di costumi, certo,
ma nei suoi scritti fa l’elogio della discrezione in caso di infedeltà
coniugale. Ricordiamo che si deve a lui l’idea che per un buon matrimonio
occorre «una moglie cieca e un marito sordo». La cosa migliore è non
offrire alla moglie motivo di complicazioni.
Cinque anni prima della sua morte, la condizione sessuale di Montaigne
non è al meglio della forma. Le considerazioni sul calo della sua libido, sul
corpo che lo abbandona in presenza di un desiderio che invece è sempre
intenso come durante i suoi verdi e giovani anni, l’elogio delle carezze e di
ogni sessualità sostitutiva quando viene meno l’erezione, tutto lascia
credere che il filosofo fece forse di necessità virtù, e che con Marie non ci
furono perciò rapporti sessuali, non tanto per inclinazione teorica alla
castità, quanto per incapacità pragmatica di comportarsi diversamente! Il
suo temperamento non ne fa un rinunciatario militante.
Tanto più che le tergiversazioni e i rimaneggiamenti del testo nei Saggi
segnalano dei ripensamenti! Nell’edizione del 1595, Montaigne utilizza un
registro che non inganna: ama Marie, dice, «molto più che di affetto
paterno»... Che cosa significa questo «molto più» quando si parla di una
figlia elettiva, a chi vuole bene intendere? Del resto egli parla del suo affetto
«più che sovrabbondante». Anche in questo caso è chiaro, ma quanto di
più? Non è difficile immaginare. Altrove segnala «lo straordinario ardore
con cui mi amò e mi desiderò a lungo per la sola stima che aveva concepito
di me»: che vuol dire, anche in questo caso, l’ardore? Il termine è forte.
Certo, egli vanta anche le sue promettenti qualità intellettuali. Ma il
corpo e lo spirito possono andare d’accordo. Nel 1635, Marie de Gournay
stranamente sopprime tutte queste parole. Perché? Del resto il passo relativo
a Marie non esiste nell’esemplare di Bordeaux. Alcuni concludono che
dunque è di mano della signora. Infine, un frego - non di mano di
Montaigne - ha cancellato alcune righe, dove egli diceva di non riuscire a
rinunciare a La Boétie: è stata Marie de Gournay, pensando che la sua
relazione con Montaigne invalidasse questa affermazione? Congetture... Ma
l’andirivieni delle versioni segnala meno una verità assoluta che questa
verità relativa: qualcuno aveva interesse a tenere nascoste alcune cose.
Che cosa fa Montaigne nel castello di famiglia a Gournay-sur-Aronde,
dove va due o tre volte a passare in totale tre mesi? In compagnia della
madre e della figlia. Essi lavorano, sicuro, leggono, parlano, discutono.
Fedele al suo metodo, Montaigne detta persino alcune aggiunte. L’uno e
l’altra preparano una nuova edizione. Essa racconta una delle loro
conversazioni su Plutarco e l’amore in un Proumenoir de Monsieur de
Montaigne.
Non viene a sapere subito della morte di Montaigne. Prova che i loro
scambi epistolari non dovevano essere così frequenti. Lo apprende quindici
mesi più tardi da una lettera di Giusto Lipsio. Assieme a Françoise de
Chassai-gne, Pierre de Brach sceglie alcune carte tra gli effetti personali del
defunto e le manda del materiale per una nuova edizione. Nel 1595, Marie
de Gournay viene al castello e fa conoscenza della vedova e della figlia del
filosofo. Vi resta per quindici mesi, e sembra intendersi bene con le due
donne.
 
 
51. Temperamento di Marie de Gournay
 
La natura della relazione del filosofo e di Marie resta definitivamente
nascosta. Amore platonico, amicizia amorosa, affetto filiale, erotismo
sublimato, relazione carnale, o un po’ di tutto questo? Non lo sapremo... Ma
la tradizione è ingiusta con questa donna. Il primo che parla e lancia basse
accuse spesso dà il tono a quelli che seguono: Marie de Gournay è stata
molto calunniata, detestata, odiata, le sono state attribuite intenzioni che
non erano le sue - travisamento, strumentalizzazione del pensiero di
Montaigne, captazione, interpretazioni tendenziose ecc. In realtà è fedele,
affettuosa, al servizio di un uomo e di un’opera che essa ama e ammira. La
lista degli attacchi ad hominem -ad feminam, si dovrebbe dire - scredita gli
autori di questo disprezzo: zitellona, racchia, virago, vergine, strega,
spendacciona, rimbambita ecc.
Perché tanto odio? È nella prima rivendicazione femminista della storia
delle idee - Uguaglianza degli uomini e delle donne, e poi Grief des dames -
che dobbiamo vedere la ragione dell’odio dei maschi nei confronti di una
donna che pensa, bene del resto, ed enuncia una tesi rivoluzionaria non solo
in pieno XVII secolo, ma anche oggi, e in particolare agli occhi dei
professori interessati al suo caso - l’infame Paul Bonnefon nel 1898, il
penoso Mario Schiff nel 1910, il povero Pierre Villey nel 1935, il sinistro
Maurice Rat nel 1962, il furbo Constant Venesoen nel 1993 ecc. uomini e
donne sono uguali, nessuna superiorità dei maschi sulle femmine. Ma
anche, e questa opzione è premonitoria e veramente postmoderna,
inesistenza di una superiorità delle mogli e delle madri sui mariti e sui figli.
Uguaglianza perfetta. Poiché la disuguaglianza è il prodotto dell’istruzione
e dell’istituzione - idea di Montaigne.
Marie de Gournay pensa e vive così: si critica il suo celibato, ci si prende
gioco del fatto che non aveva marito? Lei non è mai stata a carico di un
marito poco o male amato ma in grado di assicurarle prestigio e posizione
sociale. Preferisce Donzelle e Minette, i suoi gatti, e alcuni testi d’occasione
e di circostanza scritti per ottenere presso i potenti pensioni con cui essa
conduce un alto tenore di vita: una carrozza, una dama di compagnia che
suona per lei il liuto, due lacchè - cosa che allora nessun uomo
contesterebbe a un nobile maschio.
Le si rimprovera di essersi sistemata all’ombra di Montaigne e di essere
vissuta da parassita? Significa ignorare che, pur disponendo di un’opera
corposa, non pubblica mai nulla prendendo in ostaggio il filosofo di
Bordeaux; traduce dal latino che ha imparato da sola, Virgilio, Ovidio,
Sallustio, Tacito; improvvisa poemi sui suoi gatti, Giovanna d’Arco, Léonor
la figlia di Montaigne; intrattiene una corrispondenza con un numero
considerevole di persone, fra cui Giusto Lipsio, Francesco di Sales, ma
anche Richelieu, Anna d’Austria, Maria de’ Medici; critica le précieuses e
il loro platonismo scadente; difende Ronsard che essa adatta per renderne la
poesia comprensibile ai lettori dell’epoca; difende vecchie parole, prende
posizione nella querelle sul linguaggio; si occupa di politica - come un
uomo! - e scrive sull'Istitution du Prince, poi difende i gesuiti dall’accusa di
coinvolgimento nella morte di Enrico IV che ben gli si adatta. Troppe idee
per una donna, troppi centri di interesse, troppe posizioni nette: e, quando
non si può attaccarne il pensiero, bisogna pur screditare ciò che si suppone
esso sia.
E poi, molto prima che i montaignofili o i montaignola-tri arrivassero
dalle loro università a infarcire l’opera di note e di equilibrismi, essa si
schiera per un reale approccio filologico: stabilire il testo e metterlo a
disposizione dei più, perché, per suo tramite, il numero dei lettori possa
aumentare. Perciò traduce le citazioni greche e latine, le attribuisce ai loro
autori, elimina le parole che ostacolano la comprensione. Già durante la sua
vita la lingua si trasforma molto rapidamente, e Montaigne si chiedeva se il
suo lavoro sarebbe stato ancora compreso qualche decennio dopo la sua
morte. Marie de Gournay lavora alla diffusione massima di un’opera che
ama e alla quale crede.
Prima della follia di suddividere i Saggi in strati, di vedervi e individuare
periodi, zone, momenti di influenze -stoicismo, pirronismo, epicureismo!
quanti guasti... per non parlare del recente smembramento sotto la spinta
dello strutturalismo -, essa difende l’unità del libro. A che pro erigere
impalcature, mettere in luce giunture, sottolineare le date in cui si
inseriscono dei pezzi, le celebri aggiunte? Per quali motivi affrontare un
capolavoro con il pennello e il raschietto degli archeologi che cercano la
morte, quando giusto accanto la vita continua nel testo? Marie de Gournay
sa che i Saggi terminano e sono definitivamente ciò che dovevano essere
con l’ultima volontà del suo autore: lei le  conosce queste famose ultime
volontà, le ha onorate per vent’anni, ha vegliato a eseguire i desideri e la
volontà del suo compagno. Se non è amore questo!
 
 
52. La fortuna libertina di Montaigne
 
Marie de Gournay non è atea. Diverse volte nella sua esistenza ha dato
prova della sua fedeltà alla religione cattolica, apostolica e romana. Nella
sua opera, essa si occupa di teologia, si cura della conversione dei fedeli,
intrattiene -come ho già detto - una corrispondenza con un Francesco di
Sales che diventerà santo, fa l’elogio della confessione auricolare, milita per
la castità e la continenza dei preti.
Inoltre, celebra i meriti del colonialismo cristiano e della missione
civilizzatrice dei conquistatori: Montaigne non avrebbe sicuramente
apprezzato molto questa idea agli antipodi del suo pensiero - si veda il
capitolo intitolato Delle carrozze. Si può credere che, siccome il messaggio
in cui difende questa idea era destinato alla Regina, Marie de Gournay
cercasse favori per ottenere una pensione. La qual cosa non giustifica
comunque la sua tesi.
Nello spirito del suo maestro, essa pensa che la fede in Dio implica due
cose: praticare l’antica religione e mirare all’equità nella vita. Ciò permette
di ridurre il messaggio cristiano a poca cosa - Montaigne da parte sua prima
di lei aveva inserito la religione del proprio Re e della propria nutrice tra i
beni comuni, quindi non di proprietà del singolo, affermando nell 'Apologia
di Raymond Sebond che essere cristiano significa essere giusto, caritatevole
e buono. Affermazioni sufficienti a prendere le distanze dalla teologia, e
tappa importante della secolarizzazione della morale evangelica.
Del resto, questa stessa Marie de Gournay anima a Parigi un cenacolo
presso il proprio domicilio, dove si incontra il fior fiore del libertinaggio
francese! Colei che legge, medita e redige lettere a Francesco di Sales,
frequenta anche Théophile de Viau che sa di zolfo, imprigionato per dei
versi licenziosi e la cui opera ed effigie sono bruciate in place de Grève. A
casa sua si vede anche Gabriel Naudé, medico, fondatore della biblioteca
Mazarine, teorico del colpo di Stato, membro della Tetrade con Gassendi e
La Mothe Le Vayer - anche lui amico di Marie de Gournay.
La Tetrade praticava l’esegesi biblica razionale e criticava i miracoli.
Non un franco ateismo, negazione di Dio, critica aperta del cristianesimo,
certo, ma uno scetticismo che deriva da Montaigne, grazie al quale la
questione della religione cattolica può essere affrontata filosoficamente con
l’obiettivo di farla finita con le scorie. Tutto questo bel mondo rientra
nettamente nella corrente detta dei “Libertini eruditi”, e tra il 1620 e il 1630
i Saggi rappresentano per questo cenacolo un’opera importante.
 
 
53. L'odissea di una biblioteca
 
Quando Marie de Gournay muore, lascia in eredità alcune vecchie carte,
note e testamenti sulla destinazione delle proprie opere - in particolare il
suo Avis ou les présents de la Demoiselle de Gournay - e la sua biblioteca a
François La Mothe Le Vayer, suo amico fedele e leale da anni. La sua
biblioteca? In parte quella di Montaigne... Infatti, oltre a opere distribuite
qua e là da Léonor, la figlia del filosofo, e Françoise de la Chasseigne, la
moglie, al curato di Auch che si affretta a venderli, i mille libri di
Montaigne, che contengono già le opere lasciate da La Boétie alla sua
morte, arrivano in parte a Marie.
Un conteggio permette di sapere che ottanta libri provengono dalla
biblioteca di Montaigne, ossia un quinto delle fonti di La Mothe Le Vayer.
Ma sono le più importanti, perché vi si trovano la storia, la teologia, la
filosofia e la poesia - quindi senza i viaggi, il diritto, la giurisprudenza, la
varia. La Boétie, Montaigne, Marie de Gournay, La Mothe Le Vayer: il
tragitto di questa biblioteca è impressionante.
La frequentazione libertina del cenacolo dell'Arbre-Sec, le qualità
anch’esse libertine del personaggio designato da Marie de Gournay come
legatario universale, la filiazione di bibliofili e la trasmissione della
biblioteca per un secolo nell’orbita di questo pensiero radicale, fanno della
figlia elettiva di Montaigne una cosa diversa da una sciocca, una virago,
sprovvista di intelligenza e di pensiero proprio, ma, al contrario, un anello
essenziale nella fortuna libertina e nell’uso libertino stesso dei Saggi del
Maestro.
Per andare in questa direzione, nella prefazione dell’edizione del 1635
scrive che, contrariamente alle sue abitudini di tradurre le citazioni antiche
in francese allo scopo di rendere il testo più accessibile al maggior numero
di persone, ha lasciato nella forma scelta da Montaigne i passi. .. libertini.
Come confessare meglio allora che i Saggi ne contengono? E lasciando ai
lettori del greco e del latino la cura di effettuare personalmente il lavoro
nella discrezione e tranquillità erudita.
 
 
54. Teoria del prelievo
 
Pertanto si comprende meglio come, pur non essendo libertino - del resto
non lo è nemmeno Pierre Charron... -, Montaigne può servire a questa
corrente critica che a lui si appella grazie al principio del prelievo - del
saccheggio, per dirla con un termine del filosofo stesso. Leggere i Saggi
nella loro economia propria e intrinseca obbliga a una coerenza: dal primo
all’ultimo capitolo, il pensiero di Montaigne appare sì complesso, contorto,
barocco, sinuoso, ma mai  contraddittorio se si fa attenzione a collegare
l’insieme dei passi relativi a una stessa questione.
Il grande libro utilizzato come una cava, dalla quale si può liberamente
estrarre dal contesto e senza necessariamente tener conto del pensiero
proprio del suo autore, permette, a seconda della scelta dei testi, prelevando
tesi, temi e citazioni, di fare di Montaigne un ateo - «la grossolana
impostura delle religioni» (libro I, cap. XXIII), - o un cattolico - «la Chiesa
cattolica, apostolica e romana, nella quale morirò e nella quale sono nato»
(libro I, cap. LVI)... In politica, un conservatore, un nemico dei
cambiamenti - «il solo cambiamento dà forma all’ingiustizia e alla tirannia»
(libro III, cap. IX) -, ma una sola citazione - «in tutte le cose, salvo soltanto
nelle cattive, si deve temere il cambiamento» (libro I, cap. XLIII) -
autorizza i rivoluzionari dell’89 a creare una sezione che porta il suo nome!
Sulla questione delle donne, una volta sembra misogino - «nate per un ruolo
passivo» -, un’altra francamente femminista - «i maschi e le femmine sono
modellati nello stesso stampo; a parte l’educazione e il costume, la
differenza non è grande» (libro III, cap. v).
Saccheggiando qua e là in questo modo, un cristiano, ma anche un
epicureo, trova quello che gli serve: normale, Montaigne è entrambe le
cose. Un asceta, ma anche un edonista - perché egli è l’uno e l’altro. Uno
scettico, ma anche un dogmatico che afferma e difende tesi precise, al di là
del dubbio: questo pirroniano sfronda, certo, ma per ottenere bei tagli netti
in cui vero e falso si distinguano in modo chiaro. Una volta dubita che
Epicuro possa credere ai suoi atomi, un’altra riconosce che quelle pretese
finzioni hanno su di lui un certo potere. Montaigne è eracliteo, dinamico,
dialettico: se lo si immobilizza, se lo si irrigidisce e lo si fissa, si ottiene
un’immagine, ma i Saggi si capiscono meglio sul modello cinematografico.
I libertini hanno buon gioco, quindi, a prelevare qui un passo in cui si
dice che si è cristiani come si è perigordini o tedeschi, là un altro in cui si
dice che lo si è praticando giustizia, carità e bontà; per rafforzare le loro
tesi, essi mettono in evidenza che la religione genera la virtù, ma
aggiungono subito che essa nasconde anche molti vizi, che la bellezza della
creazione prova sì l’esistenza di un creatore, ma sottolineando l’idea della
bellezza intrinseca della natura; l’umanizzazione degli animali - la gatta che
si trastulla con Montaigne - o l’animalizzazione degli uomini - i torturatori,
i conquistadores, gli inquisitori... - servono a superare la posizione cristiana
che considera l’uomo il coronamento e il vertice della creazione, mentre gli
animali vengono molto indietro; accorti, essi preleveranno anzitutto l’idea
che non si deifica ciò che non si comprende, oppure la critica del Paradiso...
dei musulmani; qui citano Montaigne che pensa impossibile la
sopravvivenza dopo la morte in una forma che ricorda quella vivente; da
un’altra parte leggono che gli dèi sono stati creati dagli uomini e per essi;
qui mettono in evidenza la critica di Aristotele e della Scolastica, insistono
sulla localizzazione dell’anima nel cervello, o sull’inesistenza di prove della
sua immortalità; in un’occasione essi ritengono che la verità di oggi si
trasforma domani in errore, in un’altra sostengono la relatività storica e
geografica delle certezze del momento; come non rallegrarsi del filosofo
che insegna che la conoscenza avviene tramite i sensi e che, dunque, pone
le basi di una teoria sensistica ed empirica? Per un uomo spesso considerato
uno scettico emblematico, sono tante le verità esplosive in un XVI secolo in
cui si bruciano le streghe, ma anche i filosofi che praticano il loro mestiere
altrove che all’ombra delle chiese.
Con Montaigne e Charron trasformati in mine libertine, il pensiero
prende uno slancio considerevole: emancipazione definitiva nei confronti
della teologia e della Scolastica, esaltazione dei poteri e della potenza della
ragione, della deduzione e di altre operazioni riflessive, preoccupazione
prioritaria della laicità, volontà di un’etica e di una politica fatta dagli
uomini, per gli uomini, non più sotto lo sguardo di Dio, ma sotto quello
della meccanica immanente. Quanti cantieri aperti!
I figli di Montaigne portano felicemente avanti l’impresa; il voluttuoso
Saint-Evremond, l’ironico Cyrano de Bergerac, il saggio Gassendi, ma
anche, tramite Saint-Evremond, e più inatteso, il geniale Spinoza, e infine,
sbocco singolare di questa stirpe straordinaria, il primo ateo degno di questo
nome nella storia delle idee: il collerico Jean Meslier, l’abate Jean Meslier.
Tutti cultori appassionati di Montaigne. E di Epicuro... Bisogna allora
stupirsi che nel 1676 i Saggi siano messi all’Indice dalla Chiesa cattolica,
apostolica e romana? E che si veda Epicuro tornare alla ribalta?
Note del traduttore

 
 
 
 
 
1.    Il riferimento è alle Favole di La Fontaine.
2.       ‘Faggio’: «Tale parola richiama come suono il verbo foutre,
‘fottere’», nota di F. Garavini all’edizione italiana dei Saggi, p. 1137.
3.    Nel XVI secolo ‘ragazze’, oggi ‘puttane’.
Bibliografia

 
 
 
 
 
Mangiatori di sperma & Co.
 
La bibliografia degli gnostici sta in una pagina. Per l’atmosfera, l’epoca,
l’odio cristiano del corpo: Peter Brown, Il corpo e la società: uomini, donne
e astinenza sessuale nel primo cristianesimo, trad. di I. Legati, Torino,
Einaudi, 1992. Un capitolo, il quinto, è dedicato a Valentino. Si veda, di
Jean Doresse, Les Livres secrets des gnostiques d'Egypte, Parigi, Plon,
1958, sulle circostanze della scoperta dei manoscritti, e anche sul loro
contenuto. Robert M. Grant esamina la questione dello Gnosticism and
Early Christianity, New York, Columbia University Press, 1959. Il testo più
chiaro, più sintetico, più vivace, che dispensa da tonnellate di glosse
indigeste su questo tema, è di Jacques Lacarrière, Les Gnostiques, Parigi,
Gallimard, 1973.
Per trovare le fonti, scoprire le idee, imbattersi in citazioni che possono
essere sfruttate, bisogna leggere i Padri della Chiesa, i quali presentano le
tesi eretiche per criticarle e condannarle. Da prendere con precauzione,
dunque, Ireneo di Lione, Contro le eresie e gli altri scritti, a cura di E.
Bellini, Milano, Jaca book, 1997: più di 700 pagine indigeste in cui si
trovano alcune pepite guadagnate duramente... Si veda anche Ippolito di
Roma, Philosophumena, ovvero Confutazione di tutte le eresie. E Clemente
d’Alessandria, Gli Stremati: note di vera filosofia, trad. di G. Pini, Milano,
Edizioni Paoline, 2006.
 
 
Il contrario dei Lumi
 
Il Medioevo non è considerato né divertente né piacevole... Chi voglia
rendersene conto, legga Georges Duby, Féodalité, Parigi, Gallimard, 1996
[I peccati delle donne nel Medioevo, trad. di G. Viano  Marogna, Roma-
Bari, Laterza, 2005]. Si può aggiungere Dames du XII siècle, in particolare
il volume III, Eve et les Prêtres, Parigi, Gallimard, 1995. Su questo stesso
tema, di Jacques Le Goff, Un autre Moyen Age, Parigi, Gallimard, 1999. Si
legga in particolare “L’imaginaire médiéval” e ancora meglio la terza parte,
dedicata al corpo: sul suo rapporto con l’anima, lo spazio, il peccato, il
piacere, la sessualità - vi si impara ad esempio che la sessualità
peccaminosa è la causa della lebbra... Dello stesso autore, Saint François
d’Assise, Parigi, Gallimard, 1999 [San Francesco d‘Assisi, trad. di A. De
Vincentiis e L. Baruffi, Roma-Bari, Laterza, 2000], per cogliere il fascino
esercitato a quell’epoca dalla povertà. Si legga anche Jean Delumeau, Le
Péché et la Peur. La culpabilisation en Occident, Parigi, Fayard, 1983 Il
peccato e la paura: l’idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo,
Bologna, il Mulino, 1987]. Quasi mille pagine spaventose.
Il cristianesimo, come sappiamo, ama il prossimo, soprattutto se il
prossimo la pensa allo stesso modo. Per gli altri, si verificheranno i limiti di
questa professione di fede leggendo Nicolau Eymerich e Francisco Pena, Il
manuale degli inquisitori, a cura di L. Sala-Molins, Roma, Fanucci, 2000.
E, dalla stessa botte, Bernard Gui, Il manuale dell’inquisitore, trad. di N.
Pinotti, Milano, C. Gallone, 1988. Nel primo libro si trova una definizione
dell’eresia: essa designa tutto ciò che si allontana, anche in maniera infima,
dal dogma... Raoul Vaneigem ha sintetizzato La Résistance au
christianisme. Les hérésies des origines au XVIIIe siècle, Parigi, Fayard,
1993, in un “Que sais-je?” intitolato Les Hérésies, Parigi, PUF, 1994.
Per avere una visione d’insieme di che cosa è la filosofia a quest’epoca,
un’ottima sintesi di Benoît Patar, Dictionnaire des philosophes médiévaux,
Longueuil, Les Presses Philosophiques, 2000. E una scelta di autori nei
Philosophes médiévaux des XIIe et XIVe siècles, Parigi, 10/18, 1986. Vi si
leggerà Giovanni de La Rochelle, Tommaso d’Aquino, Bonaventura,
Ruggero Bacone, Boezio di Dacia, Duns Scoto, Raimondo Lullo, Dante,
Mastro Eckart, Guglielmo di Occam, Gersonide, Bertoldo di Moosburg e
Gregorio da Rimini.
 
 
Orge filosofiche
 
Quando si pensa che il Medioevo non è frivolo, non si prende
adeguatamente in considerazione la corrente del Libero Spirito. Tutto ciò
che ho potuto saperne proviene da Raoul Vaneigem nell’indispensabile Le
Mouvement du Libre-Esprit. Généralités et témoignages sur les
affleurements de la vie à la surface du Moyen Age, de la Renaissance et,
incidemment, de notre époque, Parigi, Ramsay, 1986 [Il movimento del
Libero Spirito: indicazioni generali e testimonianze sugli affioramenti della
vita alla superficie del Medioevo, del Rinascimento e incidentalmente della
nostra epoca, Torino, Nautilus, 1995]. Riedita con una prefazione
dell’autore per L’Or des fous. Una sintesi, breve, nelle due opere di
quest’autore citate in precedenza. Non tutti i protagonisti di questo
movimento sono dei festaioli e dei goz-zovigliatori - come Marguerite
Porète, che non penso possa essere sottratta dal misticismo isterico e
classificata tra le Sorelle del Libero Spirito versione libertina... ma quel che
si può sapere di questi panteisti che, per molti aspetti, fanno pensare a dei
precursori del nietzscheanesimo - o di Sade -, si trova in quest’opera. Con
una bibliografia completa.
I nemici del Libero Spirito: Lutero, Ai cristiani di Anversa, e Calvino,
Contro la setta fantastica e furiosa dei Libertini che si chiamano spirituali,
hanno contribuito - come i Padri della Chiesa, che attaccavano gli epicurei,
o padre Garasse i libertini... - a salvare queste correnti nella storia offrendo
loro la tribuna editoriale e perennità nel tempo... Nietzsche avrebbe potuto
accedere al Libero Spirito tramite i due apostoli del protestantesimo!
L’ambiente sinistro del Medioevo è talora illuminato da squarci luminosi
al di fuori della filosofia edonista. In particolare con i goliardi, cantori da
taverna, poeti e saltimbanchi, epicurei innamorati, gente mordace che non
ama né i potenti del clero né quelli del potere politico, e neanche dei
monaci. A volte conosciuti per aver firmato i loro testi, altre volte
sconosciuti, essi hanno scritto canzoni raccolte sotto il titolo di Carmina
Burana [ed. it. a cura di P. Rossi, Milano, Bompiani, 2002].
 
 
Il cristianesimo epicureo
 
La storiografia classica è sopraffatta dal concetto. Manca l’abitudine
all’innovazione! Si è cristiani o epicurei. Bisogna scegliere... Il possibile
accostamento tra queste due visioni del mondo (nondimeno accertato per
due secoli...) non è mai stato oggetto di un libro capace di fare il punto sulla
questione. Lorenzo Valla è conosciuto soprattutto per La falsa donazione di
Costantino, trad. di O. Pugliese, Milano, Bur, 1994 e per IIllibero arbitrio,
in Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1952.
Non è mai esistita nessuna traduzione francese del De voluptate [Del
vero e del falso bene (De voluptate), in Id. Scritti filosofici e religiosi, trad.
di G. Radetti, Firenze, Sansoni, 1953] prima di quella di Laure Chauvel, che
ha tradotto il testo perché potessi averlo a disposizione. La traduzione è
ormai disponibile presso le edizioni Encre Marine, 2004. Che il dio
dell’edonismo possa santificarla... Complimenti agli accademici e agli
stipendiati del CNRS! L’edizione americana - On Pleasure, New York,
Abaris, 1977 - mette l’originale testo latino a fronte della versione inglese,
ma è esaurita. Per la biografia, si veda G. Mancini, Vita di Lorenzo Valla,
Firenze, Sansoni, 1891.
Due articoli essenziali: Alain Michel, “Epicurisme et christianisme au
temps de la Renaissance”, alcuni aspetti dell’influenza ciceroniana in
«Revue d’Etudes latines», 52, 1974, pp. 356-383. Vi si parla di Lorenzo
Valla, di Marsilio Ficino e di Erasmo. Si veda anche Paul Oskar Kristeller,
Otto pensatori del Rinascimento italiano, trad. di R. Federici, Milano-
Napoli, Ricciardi, 1970. Il secondo capitolo è interamente dedicato a
Lorenzo Valla.
Evidentemente, Marsilio Ficino, epicureo, non è trattato meglio.. .
Neanche il suo De voluptate [Il libro del piacere, a cura di P. Cigada,
Milano, Philobyblon, 1990] è mai stato tradotto in francese. Vi ho potuto
accedere grazie alla stessa Laure Chauvel, già traduttrice di Lorenzo Valla.
In compenso, e senza sorpresa, la sua Théologie platonicienne de
l’immortalité des âmes [Teologia platonica, trad. parziale di M. Schiavone,
Bologna, Zanichelli, 1965], tre volumi tradotti da Paul Laurens, e il suo
Commentaire du banquet de Platon [Sopra lo amore ovvero Convito di
Platone, a cura di G. Rensi, Milano, ES, 1998], politicamente e
intellettualmente corretti, si leggono presso Les Belles Lettres, traduzione di
Raymond Marcel.
Per Erasmo, leggere l’eccellente biografia di Léon E. Halkin, Erasme
parmi nous, edito da Fayard. I Colloques [Colloquia, a cura di C. Asso,
Einaudi, Torino, 2002] sono stati editi presso l'Imprimerie nationale in due
volumi. Da leggere presso Encre Marine, L’Epicurien et autres banquets del
2004. L'Epicurien [L'Epicureo, in Id., Colloquia, cit.] si trova nel secondo
volume. Per l'Elogio della follia si veda l’edizione italiana a cura di E.
Garin, Milano, Mondadori, 1992. In Aspects du libertinisme au XVIe siècle,
Vrin, si può leggere di Charles Béné: Erasme et le libertinisme, pp. 37-49,
che... non conclude! Erasmo, critico nei confronti del cristianesimo, certo,
ma libertino? Certamente non nel senso in cui si parla del libertinismo
erudito nel secolo successivo. Si vedano anche gli articoli “Epicurisme” e
“Lorenzo Valla” nell’eccellente Dictionnaire, dell’edizione di opere
importanti - tra cui i Colloqui, l’Elogio, gli Adagi, la corrispondenza, testi
sull’arte, la religione, la pace, l’educazione ecc. - di Erasmo nella collana
Bouquins presso Robert Laffont. Infine si veda R. Bultot, Erasme et
Epicure, Scrinium Erasmianum, voi. 2, pp. 224225. Sul Giardino,
Alexandre Vanautgaerden, Un jardin philosophique, con fotografie di André
Jasinski, edito da La Lettre volée. Il libro si compone di lettere scambiate
tra l’architetto, l’autore e i tecnici sulla questione di questo giardino
filosofico in particolare e del giardino filosofico in generale.
 
 
Leggere i Saggi
 
Quale edizione preferire quando si ha intenzione di leggere Montaigne
integralmente? Il testo infatti non è di facile accesso e il pensiero di
Montaigne si manifesta con arabeschi e volute, raramente in modo lineare,
salvo in formule che sono come aforismi in una nebbia barocca - o
addirittura manierista. La grammatica, la sintassi pongono problemi. Perché
aggiungere difficoltà conservando l’ortografia dell’epoca?
Quali ragioni possono giustificare un espic de bled piuttosto che un épi
de blé ? Con questa traduzione, versione in francese contemporaneo, il
senso non è alterato, la comprensione ne viene estremamente semplificata e
ci si può concentrare sul senso scendendo a patti con la sintassi spesso
problematica. Ricordiamoci che i Saggi sono dettati, e nella lingua del XVI
secolo.
L’edizione della Pléiade preferisce je me suis envielly de sept ou huict
ans depuis que je commençay, che ci fa sentire tutta la sua musica su
strumenti d’epoca - bene. Siamo avvertiti. Vantaggi di questa edizione -
Albert Thibaudet e Maurice Rat: tutto Montaigne, compresi il Journal de
voyage en Italie (che ha toccato anche la Francia, la Svizzera e la
Germania!), le Lettres e le Notes sur les «Ephémérides» de Beuther, in un
unico bel volume rilegato in cuoio dorato con oro fino ! Senza dimenticare
le sentenze dipinte o incise sulle travi della torre. Da leggere su una
poltrona da club, con un armagnac e un sigaro, in un angolo del camino
acceso...
Gli stessi testi si trovano in francese modernizzato nell’integrale presso
Seuil, col titolo Œuvres complètes. L’edizione è di Robert Barrai in
collaborazione con Pierre Michel. Inconveniente: tutto in un solo volume,
dunque un numero incredibile di caratteri per pagina -il testo è distribuito su
due colonne. Vantaggio: citazioni latine tradotte e note a pie’ di pagina
(nella Pléiade - ed è un inconveniente -sono alla fine del volume). Da
portare su un’isola deserta.
La mia prima lettura integrale l’ho fatta con l’edizione di Claude
Piganaud: Michel de Montaigne, Les Essais, Arléa. Ricordiamo all’editore
che il titolo non è Les Essais, ma Essais. Non si dice L’Ulisse, ma Ulisse...
Vantaggio: tutto in un volume maneggevole, in francese modernizzato, le
citazioni latine sono tradotte, le citazioni sono immediatamente seguite dai
relativi riferimenti, le parole difficili sono subito tradotte e poste tra
parentesi quadre. Esempio: rengrener son deuil? raviver sa douleur.
Eccellente edizione. Da portare dappertutto - dall’angolo del caminetto
all’isola deserta passando per tutte le altre occasioni.
Ho riletto l’opera integralmente una seconda volta facendo ricorso
all’edizione dell'Imprimerie nationale stabilita da André Tournon.
Vantaggio: elegante, carta superba, accessibile dal punto di vista finanziario
(sovvenzionata dallo Stato...), tre versioni possibili (brossura, tela, cuoio...),
pochi caratteri per pagina, facilità di lettura. Inconvenienti-, traduzione
delle citazioni e note spostate alla fine del volume; il glossario pure; e una
punteggiatura sicuramente giustificata dal punto di vista scientifico -
Montaigne stesso sulla questione era vago e impreciso (e a giusta ragione,
dal momento che dettava!) e lasciava che fossero i suoi stampatori a fare il
lavoro -, ma un’altra opzione, quella di Arléa per esempio, non tradisce il
testo di più, ma, meglio, lo rende maggiormente disponibile dal punto di
vista intellettuale. Da leggere a tavolino, difilato, matita in mano. La
versione in cuoio può giustificare il famoso angolo del caminetto, il sigaro...
Il lavoro di riferimento di Pierre Villey è stato ripreso in tre volumi
presso PUF. Edizione dotta e a buon mercato in cofanetto. In antico
francese, ma le parole problematiche sono tradotte a pie’ di pagina (in
misura maggiore rispetto all’edizione Arléa). Prezioso: vita e opera di
Montaigne seguite da una sintesi cronologica dettagliata e ben fornita:
alcune pagine riportano il catalogo dei libri appartenuti al filosofo; infine le
sentenze dipinte sotto le travi sono presentate in lingua originale, tradotte e
con i loro riferimenti. Ogni saggio è preceduto da un mini... saggio che fa il
punto sulle datazioni, sulle condizioni di scrittura, i contenuti, i piani, i
possibili collegamenti con gli altri capitoli. Apparato critico e note
eccellenti. Indice dei nomi esauriente, indice tematico prezioso. Da
utilizzare senza moderazione - dappertutto, in ogni luogo, in ogni tempo.
Un’edizione in facsimile, commentata, elegante, il Livre de raison de
Montaigne sur l’Ephemeris historica de Beuther, Compagnie française des
arts graphiques. Vi si trovano, in un facsimile della redazione di Montaigne,
i particolari della sua vita quotidiana: nascite, morti in famiglia, visite reali,
elezione a sindaco di Bourdeaus (sic), fatti storici. È da questo libro che
sono state strappate le pagine corrispondenti alla data della strage di San
Bartolomeo. Perché? Per quali motivi? A chi spiacevano? Cattolici o
protestanti della sua famiglia? O agli uni e agli altri molto dopo la sua
morte? [Per l’edizione italiana sono stati consultati i Saggi, a cura di F.
Garavini, Milano, Adelphi, 19%].
Il Journal de voyage è pubblicato, con una prefazione e un eccellente
commento, da Fausta Garavini presso Folio [Viaggio in Italia, pref. di
Guido Piovene, Roma-Bari, Laterza, 1991]. Sul domestico che ne ha scritto
la prima parte, sulle ragioni misteriose della sua partenza, sulla stupefacente
somiglianza e sull’intrecciarsi delle due penne, si scopre tutto ciò che può
essere detto su questo argomento. Il testo è in francese modernizzato.
 
 
Ebreo, a cavallo, ecc.
 
Per la questione biografica, si rimanda a Madeleine Lazard, Michel de
Montaigne, Fayard: è scritto molto bene, documentato, senza partito preso,
fa il punto su ciò che è stato detto e scritto prima. Per l’intreccio con
l’epoca e la dimostrazione che, contrariamente all’idea convenzionale, i
Saggi commentano abbondantemente l'attualità e non sono solo un
autoritratto narcisistico allo specchio, Géral-de Nakam, Montaigne et son
temps, Gallimard- Sono d’accordo con lei sull’incidente di cavallo come
hapax esistenziale, ma assolutamente non sull’idea che il problema è con
ciò risolto per il filosofo. Al contrario, posto più crudamente da questo fatto
di cronaca, il libro è un tentativo di risoluzione del problema. Altrimenti,
perché tutte quelle pagine?
Un ritratto rapido, ma abbozzato con talento è quello di Stefan Zweig,
Montaigne, Francoforte sul Meno, Fischer, 1995. Il libro al quale lavorava
quando si è suicidato in Brasile. Un Montaigne cosmopolita, umanista,
tollerante - dunque ebreo. Tesi spinta all’estremo, fino al ridicolo, da Sophie
Jama, L’Histoire juive de Montaigne, Parigi, Flammarion, 2001, per la
quale Montaigne è ebreo, senza alcun dubbio (la qual cosa resta da
dimostrare: l’equivalenza posta tra Louppes e Lopez, dunque la causa della
sua ebraicità, non poggia su nient’altro che una supposizione di Malvezin
nel 1875...), cosa che giustifica tutto il suo genio !
Eyquem, patronimico ebraico (p. 76); Montaigne ebreo (tutta la tesi del
libro, anche se a p. 60 l’autore scrive: «a rigore, i figli di Antoinette non
dovrebbero affatto essere compresi nella stretta comunità degli ebrei» -
perché Antoinette è cattolica e secondo la logica razziale della comunità,
solo la madre trasmette l’ebraicità, non il padre (con gli uomini, non si è
mai sicuri della purezza del sangue! Con le donne, si hanno nove mesi per
accorgersene...); La Boétie, forse ebreo! (p. 133), donde la ragione della
loro amicizia!; i Saggi? Una ermeneutica ebraica! (p. 159); lo humour di
Montaigne? Uno humour ebraico! (p. 210). Non c’è niente di grave
nell’essere ebrei, che gli antisemiti si mettano bene in testa quest’idea; ma
non c’è nulla di grave neanche nel non esserlo.
Rapidamente: Montaigne, “Que sais-je?”, Jean-Yves Pouilloux,
Découvertes, Gallimard. Per l’iconografia. Si deve a questo autore un Lire
les «Essais» de Montaigne, presso Maspéro molto... Maspéro! Lettura
imbevuta di Althusser... Era l’epoca! Michel Butor, Essai sur les Essais,
Parigi, Gallimard, 1968 (!) ha fatto molto per accreditare la tesi, sbagliata,
dei Saggi scritti per colmare il vuoto lasciato da La Boétie. Il centro del
libro avrebbe dovuto servire da epitaffio per la tomba dell’amico perduto.
Certo, non viene mai detto che questa tomba è rimasta vuota. Un cenotafio
non è una tomba.
Jean Lacouture nel suo Montaigne à cheval non apporta nulla di più di
quanto si sappia, se non una scrittura fluida e da grande pubblico. Utile
come primo contatto. Roger Stéphane, Autour de Montaigne, Stock,
propone una lettura personale, soggettiva, montaigna-na... Mescolanza di
biografia e di analisi del pensiero: Pierre Leschemelle, Montaigne ou le mal
à l’âme, seguito da Montaigne le badin de la farce. De la joie tragique à la
sagesse gaie, e Montaigne ou la mort paradoxe, tutti e tre presso Imago.
Una buona e lunga introduzione per chi non avesse letto Montaigne
personalmente.
 
 
«Io non sono filosofo»
 
È una celebre frase di Montaigne che testimonia di quel modo
interessante di filosofare che consiste nel prendersi gioco della filosofia: il
modo di Luciano di Samosata, ma anche quello dei pensatori che non si
riconoscono nella filosofia ufficiale e che i filosofi ufficiali non riconoscono
come uno dei loro. Si cercherebbe invano menzione di Montaigne nella
filosofia francese del XX secolo... Sartre? Jankélé-vitch? Althusser?
Deleuze? Foucault? (L’«uso dei piaceri» è una formula di Montaigne...)
Derrida? Nessuno... Solo Merleau-Ponty consacra un breve testo - una
prefazione probabilmente intitolata “Lecture de Montaigne” - ripresa in
Eloge de la philosophie, Gallimard [Elogio della filosofìa, a cura di C. Sini,
Roma, Editori Riuniti, 1999].
Tuttavia, Montaigne inventa la filosofia francese: che cosa sarebbero i
libertini eruditi senza di lui? O Pascal, che saccheggia un numero
considerevole delle sue idee. Si veda su questo punto Descartes et Pascal
lecteurs de Montaigne, di Brunschvig, Neuchâtel. E Bossuet, Malebranche?
E Rousseau: la sua teoria della natura, le sue tesi sul buon selvaggio o
sull’educazione? E Voltaire, Diderot e la filosofia dei Lumi? Il debito nei
confronti dei Saggi è notevole... Per un rapido, panorama delle influenze di
Montaigne attraverso i secoli, si veda Pierre Michel, Montaigne, Ducros.
Affascinati dal tropismo tedesco, i filosofi francesi non hanno avuto che
disprezzo per Montaigne il quale, ironicamente, regola i conti con loro con
quattro secoli d’anticipo nel capitolo intitolato Della pedagogia (libro I,
cap. XXV). Di straordinaria attualità! I pedanti si somigliano in tutte le
epoche! Singolarmente, il miglior omaggio reso a Montaigne viene dai
tedeschi! Nietzsche, come sappiamo, nella sua terza Considerazione
inattuale ha scritto: «Veramente il fatto che un tal uomo abbia scritto, il
piacere di vivere su questa terra è stato aumentato». L’anima «più libera e
più vigorosa» che gli sia stato dato di conoscere... E Hugo Friedrich il
quale, nel suo Montaigne, mostra la densità, la profondità, la complessità e
l’estensione del pensiero di Montaigne.
Un altro grande montaignano ha lavorato molto all’elogio di Montaigne.
Non c’è da stupirsi che si sia anche dato da fare per far entrare, poco tempo
fa, Epicuro nell’università... Si tratta di Marcel Conche, autore di un
Montaigne et la philosophie e di un Montaigne ou la conscience heureuse,
PUF. Nel primo, si legga in particolare una dimostrazione dell’edonismo di
Montaigne nel capitolo V, “Plaisir et communication ”,pp.79-109.
Infine, libro capitale e montaignano nella sua fattura: Dictionnaire de
Michel Montaigne, a cura di Philippe Desan, Honoré Champion. Mille
pagine preziose, voci in ordine alfabetico: un Giardino alla francese in
compagnia del filosofo.
 
 
Per i fannulloni
 
O piuttosto: per rivelare il segreto di numerosi ricercatori che non hanno
mai letto Montaigne interamente - una catastrofe, la certezza di dire delle
assurdità -, esistono due opere importanti a partire dalle quali ogni lavoro
tematico è reso possibile: Montaigne e le donne; Montaigne e la verità;
Montaigne e il matrimonio; Montaigne e la sessualità; Montaigne e la
malattia della pietra; ecc. Si tratta di Roy E. Leake, Concordance des Essais
de Montaigne, Droz, 1444 pagine! Ed Eva Marcu, Répertoire des idées de
Montaigne, 1430 pagine, stesso editore: due mastodonti che presentano
frasi, idee, concetti, pensieri del filosofo in un ordine alfabetico o tematico a
partire dal quale gli studiosi possono costruire il loro disordine.
Gli “Etudes montaignistes” pubblicano opere presso Honoré Champion,
tutte dedicate a Montaigne: quasi una quarantina di libri in catalogo.
Erudizione permalosa, ma anche contributi interessanti. In questa collana, il
libro di James J. Supple, Les Essais de Montaigne. Méthode(s) et
méthodologie, critica numerose letture del filosofo, evitando di farle tanto
egli espone dettagliatamente e in abbondanza la tesi degli altri per dare la
propria. Prototipo di ciò che Montaigne chiamava l' entreglose (“commento
al commento”).
Infine: Michel Piccoli permette di comprendere il testo di Montaigne. Un
buon modo di conoscere come è nato! Una scelta soltanto delle pagine
migliori del libro I è uscita presso le edizioni Frémeaux e associati. Due
CD, un libretto. Il seguito deve uscire.
Cronologia

 
 
 
 
 
LA COSTELLAZIONE EDONISTA
 
0: nascita di un ipotetico Gesù
 
1-18 Ovidio, L’arte di amare
I sec. d.C: Simon Mago
120 circa: Diogene di Enoanda e il suo muro di pietra
Gnostici licenziosi del II secolo: Basilide, Valentino, Carpocrate, Marco,
Cerinto, Epifanio, Nicola, Prodico. Barbelognostici, fetofagi,
spermatofagi... Naasseni, ofiti... 
Carpocrate, Della giustizia
203: Diogene Laerzio, Vite dei filosofi
Celso, Contro i cristiani
448: Porfirio, Contro i cristiani (distrutto da Teodosio II)
VIII sec.
comunità di euchiti
(gnostiche) in Egitto
XI-XII secc.
Carmina Burana
Fratelli e Sorelle del Libero Spirito:
Beghini e beghine belgi e olandesi, Alumbrados spagnoli, Piceardi e
Adamiti di Boemia, Nuovo Spirito svevo
XIII sec.
Amalrico di Bène (morto nel 1207)
Willem Cornelisz d’Anvers (morto nel 1253)
XIII-XIV secc.
Bentivenga da Gubbio (morto nel 1322)
XIV sec.
Walter d’Olanda, De novem rupibus spiritualibus
Giovanni di Brno Heildwige di Bratislava
XV sec.
Giovanni Hartmann di Amtmanstett Willem van Hildervissem di Malines
1407: nascita di Lorenzo Valla
1431: De voluptate di Valla
1433: nascita di Marsilio Ficino
1440: La falsa donazione di Costantino di Valla
1443: Il libero arbitrio di Valla
1457: morte di Lorenzo Valla
1457: lettere di ispirazione epicurea di Ficino
1457 : De voluptate di Ficino
1469: nascita di Erasmo da Rotterdam
1499: morte di Marsilio Ficino
XVI sec.
Quintin Thierry
Eloi di Pruystinck (morto nel 1544)
1518: II banchetto profano di Erasmo
1533: nascita di Montaigne
1533 : Dialogo L’Epicureo di Erasmo
1565: nascita di Marie de Gournay
1568 (?): incidente a cavallo di Montaigne
1571: conversione edonista di Montaigne che si ritira nella sua Torre
1572: Montaigne comincia a dettare i Saggi
1580: Saggi, libri I e II 1588: Incontro di Marie de Gournay e
Montaigne
1592: morte di Montaigne
1594: Proumenoir de Monsieur de Montaigne di Marie de Gournay
Dal 1588 al 1669: 34 edizioni dei Saggi
1600: Giordano Bruno è mandato al rogo dalla Chiesa a Roma
1601: De la sagesse di Pierre Charron
1622: Uguaglianza degli uomini e delle donne di Marie de Gournay
1644: Marie de Gournay lascia in eredità le sue carte e la sua biblioteca,
in parte quella di Montaigne, al libertino erudito François La Mothe Le
Vayer
1645: morte di Marie de Gournay
1676: i Saggi messi all’indice
 
 
LA COSTELLAZIONE IDEALISTA
 
0: nascita di un ipotetico Gesù
 
5-15 circa: nascita di Paolo di Tarso, detto san Paolo
30: conversione di Paolo di Tarso Estate
44: primo viaggio missionario di Paolo
50 circa: nascita di Epitteto
Tra il 50 e il 57: Epistola ai Corinzi di Paolo di Tarso e altri scritti
60 circa: Vangelo di Marco
62 circa: inizio della corrispondenza tra Seneca e Lucilio 19 aprile
65: morte di Seneca
67-68 circa: morte di san Paolo
120 circa: primi apologisti cristiani: Giustino, Atenagora, Teofilo
d’Antiochia, per i quali il cristianesimo è «la vera filosofia»
160 circa: nascita di Tertulliano
177 circa: Ireneo di Lione, Contro le eresie, Denuncia e confutazione
della gnosi dal nome bugiardo
185 circa: nascita di Origene
197: Tertulliano, Apologetica
212 circa: Tertulliano, Esortazione alla castità e Matrimonio unico
220 circa: morte di Tertulliano
Tra il 225 e il 234: Ippolito di Roma, Philosophumena, ovvero
Confutazione di tutte le eresie
Origene, Contro Celso
Dopo il 251: morte di Origene
301 circa: Porfirio pubblica Le Enneadi di Plotino
306: Costantino imperatore
312: conversione di Costantino 337: morte di Costantino
354: nascita di Agostino
380: sotto Teodosio, il cattolicesimo diventa religione di Stato
387: visione di Agostino nel giardino di Ostia (!)
392: Teodosio proibisce il culto pagano
Persecuzioni, vandalismo, martiri dei pagani
396: Agostino, vescovo di Ippona
397-401: Confessioni
401 circa: La felicità coniugale e La verginità consacrata
412-427: La Città di Dio
430: morte di Agostino
524 circa: Consolazione della filosofia di Boezio
622: Egira
630: Maometto conquista La Mecca
632: morte di Maometto
980: nascita di Avicenna 1037 : morte di Avicenna
1126: nascita di Averroè
1190: Maimonide, La guida dei perplessi
1191: Autodistruzione dell’autodistruzione di Averroè
1198: morte di Averroè
1225: nascita di Tommaso d’Aquino
1252: insegnamento di Tommaso d’Aquino
1258-64: Somma contro i gentili di Tommaso d’Aquino
1266-73: Somma teologica di Tommaso d’Aquino
1276 circa: Somma teologico di Alberto Magno
1307 Dante inizia la Divina Commedia
1323: canonizzazione di Tommaso d’Aquino
Guglielmo di Occam, Trattato sul sacramento dell’altare
G. Duns Scoto, Trattato dell’anima
1453: Nicola Cusano, La pace della fede
1483: nascita di Lutero
1509: nascita di Calvino
1517: tesi di Lutero
1525: Lutero, Trattato sul servo arbitrio
1529: Lutero, Dio è la nostra fortezza
1536: Calvino, Istituzioni della religione cristiana
1543 : Calvino, Trattato delle reliquie e Contro la setta fantastica e
furiosa dei Libertini che si chiamano spirituali
1572: San Bartolomeo
1608: Introduzione alla vita devota, di François de Sales
1632: Garasse, La Doctrine curieuse
Indice analitico

 
 
 
 
 
AMORE
adulterio, 95, 132 coppia atarassica, 157,234 del prossimo, 19, 34, 35, 36,
47, 75, 76, 103, 115, 122, 135, 158,195 sessualità in Erasmo, 146
gnostici, 15, 18, 24, 36, 40, 41, 47,51,54 goliardi, 111 incesto, 44,' 132
Libero Spirito, 68, 75, 76, 78, 87, 95,97,263 ludica, 15, 111
in Montaigne, 165, 218, 233, 234,235,249,250,270 in Valla, 132
verginità, 95, 114, 132, 192, 195,233 stima di sé, 160
ASCETISMO
ideale ascetico, 6, 30, 36, 46, 102,182, 192,216 mezzo per la perfezione,
91, 92
il piacere contro l’, 97, 131 e piacere, 95, 143, 159
BESTIARIO
alcione, 185 aringa, 185 asino, 45 balena, 185 cane, 47 capro,47 gallo,
196
gatto, 185,201,258
mosca, 185,193
pesce masturbatore, 185
pidocchio, 185
porcello, 109, 117,131, 143
porco, 45,47
rana, 185
rondine, 185
scimmia, 222, 224
serpente, 13
tafano, 16
topo, 185
CONTROSTORIA
errori
su Epicuro, 109,110 sugli gnostici, 25 su Montaigne, 188,189, 199 sul
termine di epicureo, 109 su Valla, 117, 118
CORPO
affermazione, 17    -
amato, 75,185 amico, 97 ateo, 226 che cosa è, 211 che cosa non è, 211
che pensa, 163
compagno dell’anima, 156,201, 218
e coscienza, 211 cristiano, 226 detestato, 5, 7,25, 91 e Dio, 211 glorioso,
134 e gnosticismo, 15, 30 grande ragione, 211 degli ilici, 18,19 negazione,
17 e salvezza, 132 strumento di liberazione, 17 e tempo, 211
anima assente, 19 distinta dal corpo, 25 dualismo, 26 eccellenza dell’, 43
immateriale, 15, 25,156, 203 immortale, 25,100,156 legata al corpo, 156,
193, 201, 204,218 metempsicosi, 26 mortale, 110 perfetta, 40 posto dell’,
193,211 prigioniera della carne, 31 degli psichici, 12 purificazione, 45,46 e
salvezza, 17
trasmigrazione dell’, 16, 25, 45 bevanda, 44, 51, 86, 91, 132, 147
cibo, 15, 44, 51, 86, 91, 132, 139,147,155,156 malattia, 201, 204, 207,
214, 220,221,222,236,237,238 riso, 73,142,197 salute, 150,156,157
sensi, 132,149,185,198,199,218 nobili e ignobili, 138,152
DONNE
in comune, 35, 47, 49, 57, 103, 132
erotica femminile, 97 Montaigne e le, 195, 231, 232, 233,234 odiate, 5
prima tesi femminista, 252 rapporti con le, 24, 55, 85, 86, 103
ruolo importante delle, 52, 86, 91,98 uguali agli uomini, 52
EDONISMO
atarassia
bene supremo, 143 cristiana, 145 epicurea, 131,158,235 vero piacere,
130,143 contratto edonista, 86, 101 cristiano, 130 desideri detestati, 5,17,
25,26 naturali e necessari, 143,153 soddisfatti, 17, 26, 95, 111 e
dietromondo, 28, 134 felicità e ascesi, 142, 143 e atarassia, 187 cristiana,
145 e dietromondo, 29 in Erasmo, 141, 142 in Montaigne, 187, 216, 221,
235
e saggezza, 216 e sessualità, 95
della vicinanza a Dio, 133,134 gioia, 90,131,139,142,216 godimento e
sofferenza, 91
senza sofferenza, 101,217, 218 medievale, 63
piacere
in accordo con la natura, 131 nell’aldilà, 143 dell’anima, 131 aritmetica
del, 215,216, 221 e ascesi, 91, 92,142,143 bene supremo, 131,135,145
carnale, 218 celeste, 133,134 del corpo, 131,147,155, 185 e costruzione di
sé, 157,158 cristiano, 130,145 di Dio, 133 e dispiacere, 146 e dolore, 220,
221,222,223 elusione del dispiacere, 133 elusione del dolore, 221, 222, 225,
226 di esistere, 133 eterno, 146
finalità dell’esistenza, 227 e follia, 142,143 gerarchia, 138 guida delle
virtù, 131 infinito, 134,135 e libertà, 215 come mezzo, 133 moderato,
138,147 origine naturale del, 218,219 e religione, 19 ricercato, 132 e
salvezza, 25, 26 come scopo, 220 dello spirito, 147 terreno, 134    '
e utilitarismo, 133
EPICUREISMO
atarassia, 131, 133, 143, 145,  158,235 cristiano,
116,117,128,129,136,  145,159,191,192,193,195 Giardino acqua del,
149,150 e ascesi, 153 dell’Eden, 149 di Epicuro, 109,110,131, 145, 149,158
e iniziazione, 150 paradiso, 134
personaggio concettuale, 148 e pittura, 151,152 trascendentale, 149, 150,
151, 155,265 gioia, 131,134 goliardi e l’amicizia, 111 e i desideri, 111 e le
donne, 111 perseguitati, 111, 102 e la povertà, 111, 112 e la sessualità, 111,
263 opposto al cristianesimo, 108, 112,113 persistenza, 11, 111 piacere in
accordo con la natura, 131 come bene supremo, 131,145 guida delle virtù,
131
ERESIE
bibliografìa, 262 docetismo, 39 edonistiche, 7,13 e fede, 62
testi conservati, 14,15
ESTETICA
architettura, 148,152,153 musica, 108,134, 167 pittura, 149, 151,152
poesia Carmina Burana, 111 Catullo, 111 Properzio, 111 Ronsard, 253
“sofisticata”, 179 Tibullo, 111
FILOSOFI
I) Antichi
Antistene, 108
Aristippo di Cirene, 108, 113, 138.184.185.196 Aristotele, 11, 25, 55, 62,
114,  138,180,183,184,229,258 Cicerone, 7, 109, 124, 131, 153,
166,185,212,227 i cinici, 6,15,25,108,180,185 opera bruciata, 5 i cirenaici,
108,180,185 Democrito analizzato da Ficino, 138 opera bruciata, 6 riso,
73,197 Diogene di Enoanda, 5,108 Diogene Laerzio, 109,110 Diogene di
Sinope, 16, 34, 108, 113.132.184.196 Empedocle, 25 Epicuro
associato al cristianesimo, 116, 138,142,143 associato agli gnostici, 15,
16, 25,26
associato al Libero Spirito, 76 cristico, 158
ed Erasmo, 145,148,149,159 influenza di Ficino, 136, 137, 138,139 e
Montaigne, 187, 205, 215, 221,228,257 opera bruciata, 6, 108 opposto al
cristianesimo, 108, 112,116,159 salvato dalla critica, 109 screditato, 15,
108,109,110 scritti, 108,109 teoria edonista, 132, 133, 140,  145,221
Epitteto, 38,186 Eraclito lacrime, 73, 197 movimento, 178,180, 197
Filodemo di Gadara, 108,148 Lucrezio coppia atarassica, 157, 234
e il desiderio, 187,234 e Ficino, 137,139 e Montaigne, 225 scoperta
dell’opera di, 109,119 Marco Aurelio, 11,171 Metrodoro, 108 Parmenide
immobilità, 197 Pitagora, 24, 25, 26, 33, 45,181 Platone e l’anima, 30,
31,33,45,182 e il corpo, 25,26, 31, 33 insegnamento, 6 Plotino e l’ascesi,
30,31, 43, 44 e il corpo, 30,31 e la materia, 30 tradotto da Ficino, 136
Plutarco, 11,109,153,158,167, 227,251 Porfirio, 30
Seneca, 11, 131, 167, 180, 185, 186,227,229 Socrate,
156,182,183,184,201 Varrone, 219
Filosofi gnostici licenziosi vedi
GNOSTICISMO
II) Medioevo
Abelardo, 62 Averroè, 62 Bacone, 63, 84,263 Boezio, 63,263
Bonaventura, san, 64, 84, 263 Dante, 63,130, 155 ed Epicuro, 112 Duns
Scoto, 84,263 Guglielmo di Occam, 173 Lille de, Alain, 62, 95 Lombardo,
Pietro, 62 Maimonide, 62 Marsilio da Padova, 62 Scoto Eriugena, 70,71,76
Fratelli e Sorelle del Libero Spirito vedi Libero Spirito
III) Rinascimento
Bruno, Giordano, 243
bruciato, 115, 195 Calvino, 65,103,159,189 Lutero, 65 , 99, 100, 102,
123, 143,159,180,189 e Erasmo, 143 Vanini, Giulio, 242 perseguitato, 115
filosofi cristiani epicurei Erasmo da Rotterdam
e l’anima, 145 anticlericale, 142,144 e i banchetti, 147, 148 bibliografia,
265 e il corpo, 145, 150 cristiano, 141,142,143,145 e Cristo, 142,143 date,
141 e il denaro, 150 e i desideri, 146,153 e le donne, 157 editore di Valla,
141 epicureo, 143, 145,158,159 e la follia, 141,142,143 e il Giardino, 148,
149, 150, 151,152 influenzato da Valla, 141 e l’insegnamento del latino,
144
e l’ironia, 141 e la morale, 144 e il riso, 142 e la sessualità, 147 Ficino,
Marsilio aristippeo, 137 e il cibo, 139,140 concilia Platone ed Epicuro, 138
cristiano, 140 epicureo, 137,140
e la filosofia antica, 137,138 e la gioia cristiana, 139 e Lucrezio, 137,139
e la musica, 139 e Platone, 136,137 platonico, 136 traduttore, 136,137
Montaigne e l’amicizia, 228, 229, 230, 231,237 e l’anima, 182,
193,201,203, 204, 218 e i suoi anni giovanili, 165,166 e gli Antichi, 179,
180, 181, 182,227,228 anti-idealista, 200,201 e l’antropologia, 195,196 e
Aristippo, 184,185 e Aristotele, 183, 184 autoanalisi, 171 e l’autobiografia,
200,201, 202, 244,245 avvento, 159
bibliografia, 265 , 266, 267, 268,269,270
e La Boétie, 167, 171, 172, 213, 228, 229, 230, 233, 236, 241.256
e Pierre de Brach, 230, 236, 237,238,251 cattolicesimo moderato, 189,
190,195 e Charron, 170, 230,237,247, 248.256
e la Chiesa, 194 e la composizione dei Saggi,  173,174,237,238
conservatore, 190, 191 e Copernico, 194 e la coppia atarassica, 234 e il
corpo, 185, 192, 201, 203, 204,205,211,212,218, 226, 249
corpo che pensa, 163 e Costantino, 194 costruzione di sé, 161 cristiano,
187,188 e il deismo, 193 e Democrito, 197 eil denaro, 163,164 e il
desiderio, 215,216 che detta, 172,173,177 e i dietromondi, 182,193,194 e
Diogene di Sinope, 184,196 e il dolore, 216, 217, 220, 221,
222,223,224,225,226 e il dolorismo, 192 e le donne, 231,232, 233,
234,  235,270 e le donne della sua famiglia, 169, 240 eccentrico, 164,166
edizioni dei Saggi, 177, 242, 243,250 la sua educazione, 166,167 emotivo,
164,165 e l’epicureismo campano, 187 e l’epicureismo cristiano,
191,  192,193,195 epicureo, 187 ed Epicuro, 187 ed Epitteto, 186 ed
Eraclito, 197 e l’ereditarietà, 208 errori su Montaigne, 188,189 e l’eumetria,
235 e la sua famiglia, 171,207,208, 224
e la felicità, 187,216 e il fideismo, 191 e la sua fortuna libertina,
215, 216,249,254,256,258,259 e Giuliano l’Apostata, 194 e la giustizia, 224
e l’hapax esistenziale, 202,203,  211,212,213,221 e l’ideale dell’io,
208,209,210 e l’immanenza, 200, 201 incidente a cavallo vedi e l’ha-pax
esistenziale e l’inconscio, 200, 201, 205, 206 all’indice, 259
e la sua influenza, 242,243,244, 245,246 introspezione, 203,206,227 le
sue intuizioni sulla psicologia, 210,211 e il latino, 166,175 e il suo lavoro,
177,178 e la lettura, 172,173 e la libertà, 185, 215,233 e i libri, 235 e
Lucrezio, 187,234 magistrato, 164
e la malattia, 201, 204, 205, 206,207, 220, 221,236, 237, 238
malinconico, 164 e Marie de Gournay, 231, 241,
242,243,249,250,251,252 e la biblioteca di Montaigne, 255,256 calunniata,
251 e il colonialismo, 254 e i libertini eruditi, 255 prima tesi femminista,
252 e la religione, 254 e i Saggi, 251,253 traduttrice, 252,253 e il
materialismo, 203 e la medicina, 204, 205 la sua memoria, 163 e la morte,
178, 187, 201, 202, 203,211,212,213,214,215, 216,227,236,239 e la sua
morte, 236, 237, 238, 239
e la natura, 185,218,219 e il nominalismo, 184, 185,
196,198,199,200,201,203 e il padre, 166, 167, 168, 169, 170,207,208 eia
parola, 173,174, 175, 176,  177,178,179,199,200,238 e il piacere, 185,215,
216,217, 218,219, 220, 221,222,226 e Platone, 182,183,228
la sua pretesa nobiltà, 169,170 e la procreazione, 207 e il prospettivismo,
199 e la pulsione di morte, 208 e il re, 164 e il reale, 243 e il relativismo,
199 ritratto fisico, 161,162, 163 a Roma, 195 
saccheggiato, 256,257, 258 eia scrittura, 169, 176 e Seneca, 185,186 e i
sensi, 176, 177, 185, 198,  199,218 e la sessualità, 162, 218, 231,
232,234,235 sindaco, 164 e Socrate, 182, 183 e i sofisti, 197 e il solipsismo,
166 , e la sua spoglia, 239,240,241 stima di sé, 160,161 stoico, 185,18 6 e la
sublimazione, 208 e il suicidio, 162,186, 192 e il teismo, 192,193 il suo
temperamento, 161 e il tempo, 198,199 tradotto, 242 e il tragico, 214, 215 e
Varrone, 219 e la verità, 197,198,199,200 e le violenze cristiane, 194,195
Valla, Lorenzo anticlericale, 122,123 carattere, 118,119 coraggio, 119, 120
cristianesimo edonista, 130 cristiano, 118,119 date, 116
e la dialettica, 129,130 errori sulla sua opera, 117,118 fideista, 124,127
filologo, 116,120,121,123,124 fuga, 122
e il libero arbitrio, 126,127 e la libertà, 125, 126
e il piacere, 132,133 polemista, 120,132 e la prescienza divina, 125,126 e
la prima formulazione di cristianesimo epicureo, 116, 117,128,133,134 e il
suicidio, 130 e il Vaticano, 121,122
IV)    Filosofi classici
Cyrano de Bergerac, 243, 259 Descartes, René, 199, 243,
244,  245.246.269 Diderot, Denis, 218, 269 Garasse, François, 263
Gassendi, Pierre, 136,187, 243, 255.259 Hume, David, 242
Kant, Immanuel, 127,243,245 Leibniz, Gottfried Wilhelm, 24 Locke,
John, 242 Malebranche, Nicolas, 28, 160, 243.269
Meslier, Jean, 243,259 La Mothe Le Vayer, François de,  243,255,256
Pascal, Blaise critico di Montaigne, 239, 247 e Dio, 247, 248 e il
divertissement, 248 errore su Montaigne, 160 saccheggia Montaigne, 246,
247,269 e la sofferenza, 248 e il suicidio, 247 Rousseau, Jean-Jacques, 269
Sade, marchese de, 84, 85, 88, 94,263
Saint-Evremond, Charles de, 243.259
Spinoza, Baruch, 24,71,88,259
V) Filosofi moderni
Deleuze, Gilles, 28 Foucault, Michel, 196, 269
Freud, Sigmund, 171, 205, 209, 210,233 Kierkegaard, Soren, 28 Lacan,
Jacques, 53 Merleau-Ponty, Maurice, 269 Nietzsche, Friedrich, 7, 65, 93,
100,168,263,269
VI) Opere citate
Ai cristiani di Anversa, Lutero, 65
Anfiteatro dell’Eterna Providenza, Vanini, 115 Annotazioni al Nuovo
Testamento, Valla, 141 Apologia, san Giustino, 14 Apologia di Raymond
Sebond, Montaigne (Saggi, II, 12), 182, 191,217,245,254 L'Altro mondo,
Cyrano de Bergerac, 243 L'arte di amare, Ovidio, 234 Avis ou les présents
de la Démoi-selle de Gournay, Marie de Gournay, 255 Banchetti di Erasmo
Banchetto di favole, Erasmo, 148 Banchetto laico, Erasmo, 147 Banchetto
di poeti, Erasmo, 147 Banchetto sobrio, Erasmo, 148 Pranzo religioso,
Erasmo, 148 Ricevimento complicato, Erasmo, 148 Del benessere,
Democrito, 108 Bibbia
Apocalisse, san Giovanni, 27, 54
Atti degli Apostoli, 14, 27 Enoch, 27
Epistole, san Paolo, 27, 35, 157
Genesi, 27, 99,149 Proverbi, 35,157 Vangeli sinottici, 15 Del cammino
verso la saggezza, Metrodoro, 108
Catechismo, Ochino, 230 La Città di Dio, sant’Agostino, 134
Codice di Giustiniano, 5 Codice di Teodosio, 5 Colloqui, Erasmo,
123,144 Commento ai salmi, sant’Agostino, 7
Confessioni, sant’Agostino, 7 Contro le eresie, san’Ireneo, 14 Contro la
setta fantastica e furiosa dei Libertini che si chiamano spirituali, Calvino,
65 Così parlò Zarathustra, Nietzsche, 168 Discorso sul metodo, Descartes,
243
Discorso sulla servitù volontaria, La Boétie, 163,229 Dispute dialettiche,
Valla, 116, 123
La Divina Commedia, Dante, 112 La falsa donazione di Costantino,
Valla, 116,120,122 Le eleganze della lingua latina, Valla, 116,124,141
Elogio della follia, Erasmo 141 Enneadi, Plotino, 30,136, 154 L’Epicureo,
Erasmo, 136,143,145 Etica nicomachea, Aristotele, 63, 138, 183 Fedone,
Platone, 45,182 Della giustizia, Epifanio, 48
Il Grande sistema del mondo, Democrito, 108 Griefs des dames, Marie
de Gournay, 252
Heautontimoroumenos, Terenzio, 217
Instruction chrétienne, Viret, P., 193
Lelio, Cicerone, 229 Lettera a Erodoto, Epicuro, 109, 138
Lettere a Lucilio, Seneca, 176, 186,222
Lettera sulla tolleranza, Locke, 242
Il libero arbitrio, Valla, 118 Della libertà del cristiano, Lutero, 99
Il Libro del Cortegiano, Castiglione, 242 Liside, Platone, 228
Massime capitali, Epicuro, 109 Il matrimonio unico, Tertulliano, 111
Meditazioni metafisiche, Descartes, 246 Metafisica, Aristotele, 62 Dei
misteri di Giamblico, Ficino, 140
Sur la morale d'Epicure, Saint-Évremond, 243 De novem rupibus
spiritualibus, Walter d’Olanda, 65 Olympica, Descartes, 244 Degli ordini
religiosi, Valla, 123 Panarion, sant’Epifanio, 14,48,55 Pensieri, Marco
Aurelio, 171 Pensieri, Pascal, 247 Petits traités dans l’esprit du Maître, La
Mothe Le Vayer, 243 Philosophoumena, sant’Ippolito, 14,25
Sul piacere, Antistene, 108 Sur les plaisirs, Saint-Evremond, 243
Politica, Aristotele, 63 Della predestinazione, Scoto Eriugena, 70
Il Principe, Machiavelli, 242 I principi della filosofia, Descartes, 246
Proumenoir de Monsieur de Montaigne, Marie de Gournay, 251 Le
provinciali, Pascal, 247 Psicopatologia della vita quotidiana, Freud, 210
Quarto libro, Rabelais, 174 La Repubblica, Cicerone, 7 La Repubblica,
Platone, 47,132
De rerum natura, Lucrezio, 137, 138
Rivelazione della grande potenza, Simone Mago, 36 De la sagesse,
Charron, 237 Saggi, Montaigne vedi il capitolo su Montaigne Saggi morali,
politici e letterari, Hume, 242 Saggio sull’intelletto umano, Locke, 242
Saggio sul libero arbitrio, Erasmo, 141
Satire menippee, Varrone, 219 Sermoni, Giovanni il Teutonico, 76
Somma teologica, Tommaso d’Aquino, 113 Sopra lo amore ovvero
Convito di Platone, Ficino, 136 Stromati, Clemente d’Alessandria, 14,47
Supplemento al viaggio di Bou-gainville, Diderot, 218 Syntagma
philosophiae Epicuri, Gassendi, 136 Telle était soeur Katrei, Eckhart, 65
Teologia platonica, Ficino, 136 Tesi sulle indulgenze, Lutero, 99 Timeo,
Platone, 22,138 Testamento, Meslier, 243 Trattato di etica, Diogene di
Sinope, 108 Trattato sulla natura umana, Hume, 242 La Trinità,
sant’Agostino, 246 Uguaglianza degli uomini e delle donne, Marie de
Gournay, 252 Umano, troppo umano, Nietzsche, 7 Vangelo di Filippo, 15
Vangelo di Mattia, 15 Vangelo di Tommaso, 15 Del vero e del falso bene,
Valla, 128 vedi anche De voluptate, Valla
De vita et moribus Epicurt, Gassendi, 136,243 Della virtù, Aristippo di
Cirene, 108
Sulla vita, Ficino, 139 Vita di Plotino, Porfirio, 30 La vita solitaria,
Petrarca, 139 Vite dei filosofi, Diogene Laerzio, 109,227 De voluptate,
Ficino, 136, 137, 140
De voluptate, Valla, 117, 118, 128, 129, 130,131, 132, 133, 134,135
FILOSOFIA
apprendistato, 212,213 detestata, 5 e dietromondi, 28 fine in sè greca, 112
laicizzazione, 63 pagana, 5 ricomparsa, 62 tragica, 215,221 si veda anche
EPICUREISMO, EDONISMO, GNOSTICISMO, LIBERO SPIRITO, PLATONISMO,
PSICOANALISI, STOICISMO
GNOSTICISMO
arcipelago, 13, 16 e aritmetica, 23, 24 ascetico vedi encratico e
atomismo, 15 bibliografia, 261 cancellazione, 56, 57 comunità,
13,15,17,18,57 contratto, 20 e corpo, 15, 30,54 corpus, 18,20 e
cristianesimo, 14, 26, 27 date, 14,15,16 e dietromondo, 28, 29,30
dossografia, 14
encratico, 17 ermetismo, 18 esoterismo, 18, 20, 21,22 come filosofia, 12,
28 e grazia, 27,42,54 ilico, 18,19,42,43 influenze, 25,26, 27 iniziazione, 20,
21 Lampezio, 15 legge del gruppo, 20 lessico, 20,21,22 e libero arbitrio, 42
e libertà, 42,57 licenzioso, 17 luoghi, 16 e male, 28, 29 Marco, 16
e materialismo, 15, 16,18, 19, 25
e metafisica, 24 e morale, 54 perseguitato, 19 e platonismo, 15,22,25
pneumatico, 18,19,43 e procreazione, 56 psichico, 18,19, 43 come
religione, 28 e riconoscimento tra membri, 18,45,66 e salvezza, 19, 25, 26,
30, 44, 50
e scoperta dei manoscritti, 15 e sessualità, 17, 18,51,54, 55
filosofi gnostici licenziosi
Basilide
e l’anima perfetta, 40 e il docetismo, 22, 39 e l’insegnamento, 38 eia
morale, 40,41 e la morte di Gesù, 27,39 e la sessualità, 13, 31, 41 e Simone,
39 .
Carpocrate e l’amore, 47 e il corpo, 47
e le donne, 47 platonico, 46, 47 e la salvezza, 46 e la sessualità, 13,31,47
screditato, 110 Cerinto e i dietromondi, 50 e la salvezza terrestre, 50
Epifanio e il desiderio, 49 e le donne, 49 e la proprietà, 48,49 e la sessualità,
13, 31 Marco e le donne, 27,52,53 e la magia, 52,53 e la sessualità, 52
Nicola diacono, 54 e la sessualità, 13 Simon Mago e Basilide, 38 e il corpo,
37 e le donne, 35 e Elena, 33 e la grazia, 36 e l’ideale edonista, 36 e la
morale, 35,36,37 la morte, 33, 34 e Paolo, 14,32,35 e il piacere, 37 e Pietro,
32,34 la reputazione di, 32, 33 screditato, 110 gli scritti di, 36 la teoria di,
35,36 Valentino e il corpo, 31, 43 e l’elezione, 43 e la materia, 44 e la
metafisica, 43
sette gnostiche
Barbeliti, 24
Barbelognostici, 13, 24,55 Borboriti, 24
Coddiani, 24 Euchiti, 57, 67 Fibioniti, 13,24 Levitici, 24 Nicolaiti, 24
Ofiti, 13 Stratiotici, 24 Zacchei, 24
INQUISIZIONE
inquisitori, 62, 66,262
tortura, 56, 61, 66, 101, 115, 183,189,208,217,232
LIBERO SPIRITO
e clandestinità, 64 coerenza del, 64, 65 e corpo, 65 ed edonismo, 63, 102
fonti indirette, 66 fonti scomparse, 66 Fratelli e Sorelle del, 64, 68 e
Gioacchino da Fiore, 68 e gnosticismo, 16 e la grazia, 69,74, 100 influenze,
65 metamorfosi, 102 e morale, 65,79, 80, 85, 94, 95 suoi nemici Calvino,
102,103,263 Lutero, 99,100,263 e panteismo, 64, 71,72, 80, 85, 93
e il peccato, 70, 94 pensiero scomparso, 63 perseguitato, 115 e piacere,
65 ' significato del termine, 66, 67
filosofi
Amalrico di Bène
e le allegorie, 73 e il clero, 71, 72 e Democrito, 73 e i discepoli, 76
dottore anarchico, 84
e la grazia, 74 influenze, 70 morte, 76 e panteismo, 71,72 e il piacere, 75
e la procreazione, 75 e i sacramenti, 71,75 e la sessualità, 75 Bentivenga da
Gubbio dottore apatico, 84 francescano, 79 e l’inferno, 79 e il panteismo,
80 tradito, 81 Eloi di Pruystinck e l’anima, 100 e il contratto edonista, 101 e
l’esegesi, 99 e la grazia, 100 e l’inferno, 100 e Lutero, 99,100 morte, 101
Giovanni di Brno e l’abiura, 84 contratto edonista, 86 domenicano, 84 e le
donne, 86 dottore sadico, 84 e il furto, 87 e la libertà, 86, 87, 88 e il
panteismo, 84, 87, 88 persecutore, 85 e la povertà volontaria, 85 e la
procreazione, 87 e la sessualità, 86, 87 Giovanni Hartmann d’Amtmanstett
(Giovanni il Tessitore) e i desideri, 95 e la morale, 94, 95 morte, 93 e il
peccato, 93, 94 e la sessualità, 95 Heilwige di Bratislava e il denaro, 90 e la
gioia, 90
e la povertà volontaria, 89
Quintin Thierry
e Calvino, 102, 103 e le donne, 103 insegnante, 102 morte, 103 Walter
d’Olanda e i banchetti, 82 dottore innocente, 84 morte, 83 scritti perduti, 82
e la sessualità, 82 Willem Cornelisz d’Anversa dottore anarchico, 84 morte,
78
e la povertà volontaria, 77, 78 e la salvezza, 78 eia sessualità, 78 Willem
van Hildervissem di Malines abiura, 96 carmelitano, 96 e il corpo, 97 e le
donne, 97, 98 e l’eròtica femminile, 97 e il paradiso terrestre, 97 e la
sessualità, 97, 98
MONDO ANTICO Atene
crollo, 5,11 Bisanzio ascesa, 11 Gerusalemme
ascesa, 11 Roma crollo, 5,11
MORALE
amicizia
Erasmo, 142,145,147,153 goliardi, 111
Montaigne, 167,178,181,183, 188, 228,229, 230, 231,235, 251,268 Valla,
119,131
dolcezza
Erasmo, 143
Montaigne, 216,233,234 Valla, 131 eumetria, 235 male
e cristianesimo, 28, 29 e gnosticismo, 26,29, 30 proveniente da Dio, 29 e
senso di colpa, 29 trionfante, 29 dell’uomo, 29 misura Erasmo, 147
gnostici, 44 Libero Spirito, 91 Montaigne, 183,215,248 virtù
come bene supremo, 130,131 dissociata da ogni trascendenza, 130 e
gioia, 131 inattingibile, 130 motivata dal piacere, 133 virtù teologali, 75,
135, 143, 145,150,153
PLATONISMO
e gnosticismo, 22,25 propedeutico al cristianesimo, 6
POLITICA
cittadinanza pagana, 5 colpi di Stato, 5, 12,121 Costantino
colpo di Stato, 5, 27,56 conversione, 19,194 e Eusebio di Cesarea, 56
democrazia ateniese, 11 Giustiniano codice, 5 giustizia, 224 Impero
conversione, 12,19,62,63,194 e La falsa donazione di Costantino,
120,121 religione dell’, 5, 49,56 legge di Dio, 68 naturale, 132,219 degli
uomini, 68 Teodosio codice, 5 totalitarismo, 11 violenze autodafé, 5, 6, 13,
56, 61, 107, 194
persecuzioni, 5, 6, 7, 19, 56, 62,65,66,85,107,115,194 scomparsa di opere
corpus cinico, 6 , corpus cirenaico, 185 Democrito, 6, 108 Epicuro, 6
PSICOANALISI
atti mancati, 210,211 diniego freudiano, 210,211 ideale dell’io, 209, 210
inconscio, 205, 206 introspezione, 207 lapsus, 210
pulsione di morte, 96, 101, 102,108,159, 208,210,217, 220
sublimazione, 209,210
Religione apostoli Matteo, 40 Pietro, 27,32,34,151 clero dominatore, 71
inutile, 72 conversioni, 40, 57 cristianesimo e amicizia, 147
cattolicesimo moderino, 189, 190,195 e cibo, 147 comunità, 21
conquiste, 15), 154
edonista, 130,147 epicureo, 116, 133, 134, 141,  145,147,148,155,158
prima formulazione, 128 e la Riforma, 158,159 sopravvivenza, 136 e
gnosticismo, 14,26,27 e male, 29, 30 e morte, 216 Orto degli Ulivi, 158
purificato, 144 religione dell’impero, 5 e sofferenza, 146, 216,217
trionfante, 16 unificazione, 56 violenze, 62,194,208 dèi
Venere, 138,139 deismo, 118,193 e denaro, 90, 94, 99,142 dietromondi
inferno, 72, 73, 100,182 paradiso celeste, 73,134,135,182 terrestre, 97 Dio
accesso per mezzo del piacere, 133
come bene supremo, 145 e la Chiesa, 80 esistente, 23 inesistente, 23 e il
male, 29 e il peccato, 80,127 uguale agli uomini, 72 volontà di, 80 divinità
dell’uomo, 64, 72 ed edonismo, 19 ed epicureismo, 146 esegesi, 68, 99
fideismo, 124,127 Gesù (Cristo) edonista, 50 epicureo, 158,159 epoca, 28
filosofo, 148
inventato, 5 Messia, 27
morto e resuscitato, 27 regno terreno, 50,51 scritti, 15 Giuliano
l’Apostata, 194 islam conquiste, 61, 62 emergenza, 61 magia, 32 miracoli,
27, 32 Padri della Chiesa sant’Agostino, 6, 7, 27, 28, 93 bibliografia, 261
Cipriano, 7
Clemente Alessandrino, 14, 47, 48,49,262 diffusione dei loro scritti, 7
sant’Epifanio, 14, 18, 48, 55, 56
Evagrio Pontico, 7 san Giovanni Crisostomo, 7 san Giustino, 14 san
Gregorio Nazianzeno, 7 san Gregorio di Nissa, 7 sant’Ippolito, 14, 25, 50
sant’Ireneo, 15, 25, 33, 35, 45, 52, 110,261 Origene, 7 platonici e stoici, 6
salvatori di testi, 14 Tertulliano, 7 paganesimo, 5,7,11,19, 25, 44, 56, 107,
113, 151, 158, 180,  187,194 panteismo, 65, 71, 72, 75, 80, 84,85, 87,88,
93,94,131 san Paolo, 5, 7, 14, 17, 27, 32, 35,40, 68,100,102,110 peccato
abolito, 70,71 indulgenze, 77, 78, 99,145 mortale, 80,128 originale, 29,
92,108, 216,226 penitenza, 70, 71, 73, 75, 145 e piacere, 135
preghiera, 94,143,153,188,241 resurrezione, 50,73, 110 Sacramenti, 71,
75, 76,156,238 salvezza cristiana, 158,216 per gli gnostici, 19 Libero
Spirito, 73 per mezzo della povertà, 77 terrena, 19, 73 teismo, 192,193
Tommaso d’Aquino, 28,263
STOICISMO
e cristianesimo, 6,158 epicureo, 185 e panteismo, 131 persistenza, 11 nei
Saggi, 253 Valla, 130, 131
STORIOGRAFIA
dominante, 13,14,18,107,136 intaccata, 5 subalterna, 13,14
TRASMISSIONE
copia dei manoscritti, 6, 7, 13, 109 diretta, 114
edizione, 5, 6,13,14, 62, 63 libri di carta commercio, 235 comparsa, 7
promemoria, 12 opere perdute, 6,108,185 orale, 6,17 papiro fragilità, 6,13
numero di esemplari, 6 scoperte Nag Hammadi, 15 scritta, 6, 7 stampa, 109,
113,114
VITA FILOSOFICA
come un capolavoro, 154 conversazione, 131, 154, 158, 173,176,200,231
costruzione di sé, 144,156,157, 160
denaro, 86, 87, 146, 150, 163, 208
meditazione, 131, 138, 153, 156, 172,209,227,236 povertà, 65, 68, 77,
78, 79, 85, 87, 89, 90, 91, 111, 144, 146, 262 vita sana, 139
Indice

 
 
 
 
 
IL CRISTIANESIMO EDONISTA
 
Introduzione. La cancellazione dell’Antichità
 
Primo tempo. La COMUNIONE DEI SANTI ERETICI
1. Il cafarnao settario, p. 11 - 2. La logica dei vincitori, p. 13 -       3.
Encratici e licenziosi, p. 15 - 4. La gioia dello pneumatico, p. 17  5. Zucche,
meloni e cetrioli, p. 20 - 6. Cifre libidinose e numeri attivi, p. 23 - 7. La
gnosi taglia e incolla, p. 25 -    8. La caduta nel tempo, p. 28
 
1.    Simon Mago e «la grazia»
1. Il filosofo volante, p. 32 - 2. Amare il prossimo, ma a letto, p. 35
 
2.    Basilide e «la dissolutezza»
1. Il riso sardonico di Gesù, p. 38 - 2. Certezza dell’indifferenza, p. 40
 
3.    Valentino e «i semi di elezione»
1. Elogio degli pneumatici, p. 42 - 2.1 semi di elezione, p. 43
 
4.    Carpocrate e «l’amore»
1. Reincarnazioni libidiche, p. 45 -2. Orge filosofiche, p. 47
 
5.    Epifanio e «il desiderio imperioso»
Un Rimbaud gnostico, p. 48
 
6.    Cerinto e «il soddisfacimento del ventre»
Gesù edonista..p. 50
 
7.    Marco e «le donne eleganti»
La coppa alle labbra, p. 52
 
8.    Nicola e «la vita senza ritegno»
1. Il gusto degli altri, p. 54 - 2. Il pàté di feti, p. 55 - 3. Cancellazione
dello gnosticismo, p. 56
 
 
Secondo tempo. UNA LUCE MEDIEVALE
1. Il terzo flagello, p. 61 - 2. Una luce medievale, p. 63 - 3. Radici
introvabili, p. 65 - 4. Lo spirito di libertà, p. 66
 
9.    Almarico di Bène e «la santificazione della vita ordinaria»
1. Già redenti..., p. 70 -2. L’Uomo è Dio, p. 71 - 3. Decodificare le
allegorie, p. 72 - 4. Una gnosi medievale, p. 74 - 5. L’odio cristiano, p. 75
 
10.    Willem Cornelisz d’Anversa e «il peccato contro natura»
1. La salvezza per mezzo della povertà, p. 77 - 2. Proprietario del proprio
sesso, p. 78
 
11.    Bentivenga da Gubbio e «l’occupazione infame» 
1. La santa e l’eresiarca, p. 79 - 2. L’impeccabile apatico, p. 80
 
12.    Walter d’Olanda e «la libertà suprema»
I costumi di Adamo, p. 82
 
13.    Giovanni di Brno e «il nichilismo integrale»
1. Un Sade medievale, p. 84 - 2. Tradizione del Libero Spirito, p. 85 - 3.
L’assassinio, una delle belle arti..., p. 87
 
14.    Heilwige di Bratislava e «lo spirito sottile»
1. Beghine libertine, p. 89 - 2. Lo spirito sottile dopo l’ascesi, p. 90
 
15.    Giovanni Hartmann d’Amtmanstett e «la vera beatitudine»
1. L’innocenza del divenire, p. 93 - 2. Nuovi sadiani, p. 95
 
16.    Willem van Hildervissem di Malines e «il piacere del paradiso»
1. Eros e Thanatos nel corso del secolo, p. 96 - 2. Un tantrismo belga, p.
97
 
17.    Eloi di Pruystinck e «la maniera epicurea»
1. Riforma contro Rivoluzione, p. 99 - 2. L’imperativo categorico
edonista, p. 100
 
18.    Quintin Thierry e «la libertà della carne»
Lo spirito contro la lettera, p. 102
 
 
Terzo tempo. Il CRISTIANESIMO EPICUREO
1. Ma dove sono andati gli epicurei?, p. 107 -2. L’epiteto infamante, p.
109 - 3. Vie verso la luce, p. 112
 
19.    Lorenzo Valla e «la voluttà»
1. Finalmente venne Valla, p. 116 - 2. Temperamento, foga e carattere, p.
118 - 3. Falsi e uso dei falsi, p. 120 - 4. Contro la Chiesa, per la verità, p.
121 - 5. L’impegno cristiano, p. 123 - 6. Esistenza di Dio contro libertà
degli uomini, p. 125 - 7. Un edonismo cristiano..., p. 128 - 8. Onestà della
volontà, e ritorno, p. 130 - 9. Dunque, un cristianesimo epicureo..., p. 133 -
10. Un giardino straordinario, p. 134
 
20.    Marsilio Ficino e «le voluttà contemplative»
1. Marsilio Ficino brucia (per) Lucrezio, p. 136 - 2. Le voluttà
contemplative, p. 137 -3. Elogio del rosso d’uovo, p. 139
 
21.    Erasmo e «il piacere onesto»
1. La saggia follia di Erasmo, p. 141 - 2. Ironico e insolente, ma
cristiano..., p. 142-3. Epicuro cristiano!, p. 143 -4. Cristo nel Giardino, p.
145 - 5. Un’orticoltura trascendentale, p. 147 - 6. Il linguaggio silenzioso
delle cose, p. 149 - 7. La natura e l’artifizio, p. 151 - 8. Un’architettura
simbolica, p. 152 - 9. Una convivialità edonistica, p. 154 - 10. Il verbo e la
carne, p. 156 - 11. Diventare l’amico di se stessi, p. 157 - 12. Epicuro
cristico e Cristo epicureo, p. 158
 
22. Montaigne e «l’uso dei piaceri»
1. Fisica della sua metafisica, p. 160 - 2. Ricordi di un uomo senza
memoria, p. 163-3. Essere stranieri a se stessi, p. 165 -4. La conversione
edonista, p. 167 - 5. Un libro per chi?, p. 168 - 6. Una parola messa per
iscritto, p. 171 - 7. Odio per i libri dell’autore di libri, p. 172 - 8. Il corpo
aereo della voce, p. 173 - 9. Avere sulle labbra una lingua morta, p. 175 -
10. Vie d’accesso ai Saggi di sé, p. 176 - 11. Escrementi, affastellamento e
cibreo, p. 177 - 12. Saccheggiare gli Antichi..., p. 179 -13. Giocare Socrate
contro Platone, p. 181 - 14. Diogene &  Co., p. 184 - 15. Uno stoicismo
epicureo!, p. 185 - 16. Recuperi bigotti, p. 188-17. L’ex voto del filosofo, p.
189 - 18. Un epicureismo cristiano, p. 191 - 19. Dispiacere al papa, p. 193
-20. Una lepre senza pelo e senz’ossa, p. 196 - 21. Un pensiero del fiume, p.
197 - 22.1 sensi e la parola, p. 198-23. Autobiografia del mondo, p. 200 -
24. Un hapax esistenziale, p. 202 -25. Dietetica della carne, p. 203 - 26. Un
oscuro epicentro, p. 205 - 27. Una goccia di liquido, p. 207 - 28. Il divano
dei Saggi, p. 208 - 29. L’essere per la morte, p. 211 - 30. Filosofare è
imparare a vivere, p. 212 - 31. Morire e dover morire, p. 213 -32. Odio del
dolore, p. 215 -33. Godimento di cannibali, p. 217 - 34. Voluttà e compagno
sposi, p. 220 - 35. In cammino con Epicuro, p. 221 - 36. Tre scimmiette
filosofiche, p. 223 -37. Allontanare una passione oscura, p. 225 - 38. Una
cultura del corpo, p. 226 - 39. Il falso marmo dell’amicizia, p. 228 -40. Il
plurale della parola amico, p. 230 - 41. Baci sui baffi, p. 231 - 42. Con le
donne, per le donne, p. 232 - 43. I rapporti con le donne, p. 233 - 44. Il
glorioso capolavoro, p. 235 - 45. La morte del saggio, p. 236 - 46.1 due
corpi di Montaigne, p. 239 - 47. La fortuna dei Saggi, p. 241 - 48. Descartes
montaigniano?, p. 243 - 49. Pascal, inutile e incerto, p. 246 - 50. Genealogia
di un pensiero alternativo, p. 248 - 51. Temperamento di Marie de Gournay,
p. 251 -52. La fortuna libertina di Montaigne, p. 254 - 53. L’odissea di una
biblioteca, p. 255 -54, Teoria del prelievo, p. 256
 
 
Note del traduttore
 
Bibliografia
 
Cronologia
 
Indice analitico

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