Canzoni e mandolini: l’origine popular dell’italianità musicale In Italia nel ‘900 la “canzone” si è quasi sempre identificata col repertorio più disimpegnato, al contrario della “chanson” francese. Si canta in italiano ed esistono canzoni italiane almeno da quando esiste la lingua, ma non è semplice decidere da quando si può parlare di una comunità nazionale che si autopercepisce come tale. Già prima dell’Unità i copisti e il mercato della stampa garantivano la distribuzione nel mondo di canzoni in italiano e dialetto: venivano diffuse in forma di raccolte o di fogli volanti, spartiti economici a uso domestico o di formazioni professionali e amatoriali. A questi repertori veniva attribuita una come identità italiana probabilmente fuori dai confini nazionali. In questo momento circolava nel circuito globale come musica italiana la canzone napoletana e in misura minore altre tradizioni regionali e il repertorio operistico. Il successo globale della canzone napoletana è riconoscibile prima dell’800, arriva a toccare vette di popolarità impensabili oggi, con praticanti in tutto il mondo e compagnie di musicisti impegnati a diffonderla ovunque. Il corredo ideologico, musicale e iconografico che ne supporta il successo insiste su immagini di una napoletanità convenzionale, che spesso si sovrappone e si identifica con l’italianità: il mandolino, il mare, il golfo; associazioni semantiche che cominciano a riguardare l’identità italiana tutta e non solo una componente regionale. Un discorso simile riguarda la diffusione del repertorio operistico: nella seconda metà dell’800 l’Italia raggiunge il picco nella propria autorappresentazione come paese della melodia, soprattutto grazie al successo internazionale. Caratteri musicali e paramusicali italiani vengono meglio definiti a livello globale nel medesimo contesto socioculturale e negli stessi anni in cui si costituisce uno stile popular. La circolazione internazionale di arie d’opera in forma di riduzioni e di canzoni napoletane è un aspetto decisivo nella costruzione di un repertorio di musiche d’intrattenimento condiviso a livello mondiale. Nei primi anni del ‘900 “Vesti la giubba” nella versione di Caruso è il primo “million-seller” della storia della discografia. Se nella seconda metà dell’800 e nei primi decenni del ‘900 è difficile riconoscere una canzone italiana come la intendiamo oggi, il legame fra italianità e idea di una musica leggera è saldamente istituito. La stessa espressione musica leggera si afferma nell’uso linguistico in corrispondenza della diffusione globale di repertori di intrattenimento di cui l’Italia è protagonista sin da subito: la canzone che proviene dall’Italia in questi anni è la canzone popular per eccellenza, soprattutto all’estero. Già nell’800 esiste un repertorio di canzoni condiviso a livello nazionale da certe comunità, come alcuni canti risorgimentali o gli inni anarchici. È la diffusione di canzoni napoletane tradotte o scritte direttamente in italiano a essere decisiva nella costruzione di un genere nazionale di canzone: la fisionomia della canzone partenopea muta e si rivolge a un mercato borghese che sta ridefinendo in maniera profonda il legame col popolo. Gianni Borgna ha identificato in “Santa Lucia” del 1848 (Cossovich, Cottrau) l’inizio della storia della canzone italiana. Le prime “vere canzoni italiane” sarebbero però alcuni brani di inizio ‘900, come “Fili d’oro”, “Come le rose”, “Come pioveva” e “Cara piccina”: tutti brani inseriti nella tradizione musicale napoletana ma accomunati da un nuovo modo di usare l’italiano, depurato dagli arcaicismi, colloquiale, intriso di spirito quotidiano. In Italia la diffusione di un repertorio di canzoni d’intrattenimento nel contesto dell’industria del tempo libero avviene più tardi che in altri paesi europei. È solo nel corso del primo trentennio del ‘900 che la canzone italiana giunge a un’importante sintesi che porterà alla nascita di un repertorio nazionale di canzoni in dialetto e italiano. La Grande Guerra e il successo di canti patriottici come “La leggenda del Piave” di E.A. Mario impongono una svolta. Un ruolo fondamentale spetta di nuovi agli autori napoletani, che si dedicano più metodicamente alla composizione di brani in italiano. Da questi anni comincia a esistere un repertorio in italiano comune a tutta la nazione, che non è però identificato con una tradizione di canzone italiana nel senso odierno. La situazione geopolitica della penisola e il peso della tradizione napoletana favoriscono la frammentazione in tradizioni urbane o regionali piuttosto che la costituzione di un genere nazionale.
Radio, dischi, cinema e canzonieri: lo sviluppo di un pubblico nazionale
Il punto di svolta per la nascita di un pubblico nazionale è la radio: la trasmissione costante di musica cantata in italiano ha un ruolo determinante nell’affermare un repertorio di canzoni condiviso da tutta la comunità nazionale. Nel ’24 l’Ente radiofonico nazionale (URI) comincia a trasmettere con regolarità e in regime di monopolio in tutto il paese. Per i primi anni gli apparecchi radiofonici rimangono un bene di lusso per pochi; divenuto EIAR nel ’27, l’ente supera i 400mila abbonati nel ’34. Il regime facilita l’installazione di apparecchi in scuole e sedi di varie organizzazioni. Lo spazio che l’Eiar dedica ai programmi d’intrattenimento con canzoni cresce progressivamente nei primi anni della sua storia, dopo un inizio in cui quello stesso repertorio era sacrificato a vantaggio dell’opera e dell’operetta. La crescita della radio accelera il declino dei luoghi di ritrovo fino ad allora codificati per la canzone (tabarin e café chantant) e diventa la fonte principale di diffusione di una canzone in italiano La radio è un mezzo di comunicazione a carattere accentuatamente nazionale, e le politiche del fascismo hanno un ruolo nell’imporre uno standard linguistico quanto uno standard di canzone, cristallizzandone le convenzioni e uniformizzando l’offerta. Il mercato del disco è in crescita durante il fascismo: i 78 giri sono prodotti pensati soprattutto per un pubblico colto e abbiente e offrono perlopiù incisioni di lirica e sinfonica. Nel ’33 viene creata la divisione discografica Cetra, gestita dall’Eiar. Le canzoni vengono incise se e quando raggiungono una certa popolarità in radio, al cinema o nella versione a stampa. Dal pdv economico, sia la nasceste industria del disco, sia la radiofonia non fanno altro che consolidare il mercato esistente, con l’editoria che rafforza la sua posizione di potere. In questi anni la canzone arriva agli ascoltatori della radio soprattutto dal vivo e in misura decisamente minore da disco: nel ’30 un accordo permette la riproduzione di musica registrata per due ore al giorno. La canzone comincia a essere identificata con una particolare voce o sound: con il medium radiofonico poi col disco e col cinema l’oggetto-canzone diventa un oggetto sonoro la cui funzione passa da canzone da cantare a canzone da ascoltare. L’introduzione del cinema sonoro in Italia nel ’30 fa intravedere nuovi sviluppi commerciali: l’industria del cinema si trova a fare sistema con quella musicale e soprattutto con la radio. Il primo film sonoro italiano si intitola “La canzone dell’amore” e costruisce la sua fortuna sul brano omonimo, che viene ripetuto più volte nel film. La sinergia tra media genera molti futuri classici della tradizione italiana: “Parlami d’amore Mariù”, “Mille lire al mese”. A partire dagli anni della radio, la canzone si impone come dispositivo intermediale, il cui processo produttivo, la cui diffusione e la cui fruizione riguardano necessariamente media differenti. Pur nel quadro di un sistema di media inedito fino a quel momento, è soprattutto la particolar natura del medium radiofonico a rivelarsi fondamentale nella codificazione della canzone italiana. Il medium radiofonico contribuisce anche a stilizzare alcune convenzioni tecniche e formali della canzone italiana, alcune delle quali riconoscibili ancora oggi: uno stile di canto basato sul modello operistico o degli stornellatori, una certa monotonia nelle soluzioni liriche e nei soggetti dei testi, che insistono su vicende e personaggi stereotipati. Gli stessi cliché sono già riconoscibili nel periodo precedente al ventennio e sopravviveranno dopo: la donna crudele di “Vipera” o le storie lacrimevoli alla “Balocchi e profumi”. La mamma, gli amori lontani, la giovinezza e la vocazione a rivolgersi a tutti caratterizzano la canzone di questo periodo; l’uso obbligato del microfono, ancora poco versatile, tende a uniformare le impostazioni vocali su criteri un po’ artificiosi di discrezione e morbidezza. Il fascismo e la popular music Nel processo di codificazione di alcuni elementi musicali come “italiani”, gli orientamenti ideologici e il più ampio contesto in cui agisce il regime hanno giocato un ruolo importante. La canzone è anche strumento di propaganda e funzionale alle politiche del fascismo. La costruzione di un’italianità in concomitanza con la definizione di un pubblico nazionale raccolto intorno alla radio va ricercata nelle politiche culturali e nei rapporti col crescente afflusso di musiche di origine straniera. Negli anni dopo la WW1 si assiste alla diffusione globale di diverse musiche di origine afroamericana, sono gli anni del successo del jazz. L’atteggiamento del regime verso queste musiche non è univoco, il tasso di tolleranza nei confronti del jazz è abbastanza alto, specie nella pratica. Fino al ’42 (ingresso in guerra degli USA) non ci sono divieti. Dal ’28 i giornalisti fascisti cominciano ad attaccare il jazz opponendogli un’italianità musicale di qualche tipo. Tuttavia, non è tanto col razzismo che si spiega l’atteggiamento del fascismo in queste musiche; le ragioni vanno cercate nei due temi chiave dell’ideologia: autarchia produttiva e spirito nazionale. La programmazione della radio cerca di limitare la musica d’importazione: già dal ’24 una circolare imporrebbe la traduzione in italiano dei testi stranieri. La musica italiana di influenza afroamericana riesce però a trovare i suoi spazi: musiche di influenza afroamericana e latinoamericana sono ampiamente diffuse e ben metabolizzate all’interno dell’industria musicale italiana, necessarie al suo funzionamento. Nella pratica si può riconoscere una ricca compresenza di elementi italiani e americani: l’influenza latinoamericana per certi periodi è esplicitata, costituisce un elemento di interesse per il pubblico. “Fiorin fiorello” è accompagnata dalla dicitura “stornello jazz” accanto a quella “prodotto italiano autarchico”. Il MinCulPop accetta esplicitamente le influenze straniere: l’italianità della canzone non può imporsi nei gusti dei combattenti senza assecondarli, senza appoggiarsi al successo della musica afroamericana. Il pubblico dev’essere educato progressivamente a qualcosa di “meno pervertito”. L’ascolto di buona parte dei brani prodotti in Italia durante il fascismo può smentire l’idea che una canzone italiana fondata su una purezza etnica possa esistere se non nei desideri del MinCulPop. Elementi di italianità musicale sono identificabili nel repertorio della musica leggera del ventennio, ma altrettanto lo sono elementi diversi, di derivazione soprattutto afroamericana. Nel dopoguerra, le politiche della Rai promuovono una valorizzazione della canzone italiana usando come termine di paragone il suo glorioso passato, un passato che già in epoca fascista sembra assumere contorni idealizzati. Il lungo trentennio È un dato di fatto che tra fascismo e repubblica esistano continuità significative nella proprietà, nella struttura e nel personale di industrie culturali chiave come nelle forme di regolamento statale e nei modelli di consumo. Una figura chiave di questa continuità è Mauro Ruccione, autore di “Faccetta nera”. Negli anni ’50 è a capo di un Fronte nazionale per la difesa della canzone italiana e si schiera pubblicamente a favore delle più belle tradizioni canore del nostro paese. Rimane in attività come uno degli autori di maggiore successo e fra i più tipici della canzone italiana dei primi anni di Sanremo (E la barca tornò sola! Buongiorno tristezza). Invariati restano anche i dirigenti della radio come giulio Razzi, direttore dei programmi Eiar e poi estensore del regolamento del primo Sanremo. La nuova Rai nasce dal compromesso fra la necessità di mantenere la struttura amministrativa e tecnica del fascismo e la subordinazione diretta al potere esecutivo. Dal ’49 si insedia un la Commissione di lettura per la musica leggera, poi Commissione d’ascolto, che esprime pareri vincolanti su cosa può o non può essere trasmesso, esercitando delle vere e proprie forme di censura. Le politiche dell’Eiar poi della Rai dettano la linea al settore editoriale, omologando l’offerta di questi anni. Quasi da subito la Rai democristiana diviene protagonista di una politica di restaurazione che emargina il repertorio più moderno e americano a vantaggio di un ritorno alla melodia. SANREMO E L’ITALIANITÀ DELLA CANZONE Sanremo, “specchio della nazione” Le interpretazioni al festival disegnano una traiettoria coerente con le tendenze del dibattito culturale italiano. Nella percezione della critica di sinistra, Sanremo è stato in parte l’emblema delle miserie della società italiana, sineddoche non solo di tutta la musica leggera, ma anche di quello che rappresenterebbe: l’alienazione dell’individuo, il dominio del mercato, le politiche conservatrici degli enti pubblici e dell’industria culturale, la mentalità retrograda della nazione. Sanremo ha cristallizzato gli elementi formali e tematici della “canzone italiana” e l’ha associata a una rete di significati, come l’idea che la canzone possa contenere lo spirito nazionale e che possa rispecchiare qualcosa che succede nella società. La costruzione della canzone italiana così come la conosciamo, la sua invenzione avviene nel corso di processi culturali più complessi, di cui Sanremo è uno dei più significativi snodi simbolici e dei quali la Rai e l’editoria musicale sono i principali attori. La Rai e Sanremo Il primo articolo che Radiocorriere dedica alla nuova manifestazione parla di una nuova iniziativa, volta a valorizzare la canzone italiana, con l’intento di promuovere un elevamento nel campo della musica leggera italiana compatibilmente con i presupposti popolari propri del genere. Non è difficile riconoscere, nella critica alla musica popolare afro-americana e ispano-americana” e nel richiamo al carattere originale e al substrato etnico, lessico e ambizioni simili a quelli dell’epoca fascista. Quello che la Rai propone è una restaurazione, un revival della canzone italiana: ma quale? Il passato a cui i burocrati guardano come modello sembra non essere mai esistito. La promozione di manifestazioni come Sanremo dal pdv della Rai è un modo per soddisfare la propria domanda di canzoni e per rinforzare il controllo sull’offerta. Dopo cinque edizioni di Sanremo si parla addirittura già di una tradizione del Festival, per alcuni da rifondare per altri da salvaguardare. La formula festival e il tifo per la canzone Sanremo non inventa la formula Festival ma la rilancia e la popolarizza. Dopo il suo successo, i Festival sbocciano ovunque, tutti incentrati sulla canzone italiana. La loro moltiplicazione risponde anche alla crescente domanda di canzoni dalla Rai, tuttavia sono anche eventi pubblici da seguire nei teatri e nelle piazze, in radio e in tv. Il loro successo è legato alle esigenze dell’industria editoriale e della Rai quanto ai nuovi bisogni del pubblico. Il contesto è quello di una nuova organizzazione del tempo libro degli italiani, in crescita e liberalizzato, anche dall’opposizione fra associazionismo cattolico e comunista. I programmi di questi ultimi differiscono, non si può dire così per quelli musicali, che in entrambi i casi mettono al centro la musica leggera senza particolari differenze di repertorio. La competizione introduce un elemento di valutazione che plasma i discorsi intorno alla canzone. Il riconoscimento di un’italianità della canzone diviene da allora, a partire da Sanremo, un elemento discriminante di validazione, tanto positivo quanto negativo. In questi anni i discorsi sulla canzone sono possibili perché esistono i concorsi, perché le canzoni o i cantanti possono essere comparati fra loro. Sanremo e i suoi emuli rendono possibile tutto questo per la prima volta e a livello nazionale. L’identità nazionale e i media I nuovi festival e i concorsi si affermano in stretta connessione con un allargamento quantitativo e qualitativo degli spazi di diffusione mediatica per le canzoni, in conseguenza di una crescita di domanda. Il settore della stampa popolare fiorisce a partire da questi anni e Sorrisi e Canzoni d’Italia si aggiudica l’esclusiva di riproduzione dei testi in gara a Sanremo. Oltre a testi e programmi radio la nuova rivista propone anche interviste con servizi fotografici ai divi, gossip. I mercati e le reti nazionali creati dai mass media in questi anni contribuiscono alla creazione a livello di massa di una società italiana quale comunità geografica percepita, diffondendo immagini e suoni da tutta la nazione. In questi spazi prende piede il tifo per la canzone, in parallelo all’emergere di un nuovo divismo che riguarda i cantanti. È soprattutto grazie a queste reti di discorsi che si afferma l’idea che la canzone sia qualcosa di tipicamente italiano, inscritto nel carattere del popolo. Nel giro di un paio d’anni Sanremo diventa una componente fondamentale di come la nazione immagina sé stessa, nel bene e nel male, in un momento in cui i caratteri identitari italiani sono oggetto di una generale ridefinizione per azione dei media. Alla codificazione della canzone italiana e del suo carattere nazionale contribuisce anche un riconoscimento dall’esterno: le pagine dei rotocalchi riservano grande spazio ai tour degli artisti italiani nel mondo e ai loro successi in URSS e USA. Nel ’53 si tiene a Parigi un primo Festival della Canzone italiana e le canzoni dovranno “avere un carattere tipicamente italiano”. Nel ’56 viene promosso un festival itinerante intitolato Melodie italiane in Europa, con interpreti di rilievo della canzone italiana di quel periodo e che verrà accolto anche in Vaticano dal papa. Nel ’56 debutta anche l’Eurofestival. Le aspettative che in molti paesi stranieri accompagnano la musica italiana si delineano a partire da questi anni.
Buone cose di pessimo gusto: nostalgia, tradizione, autenticità
Il richiamo a un carattere nazionale della canzone idealizzato nel passato si inscrive in un atteggiamento nostalgico nei confronti della musica del tempo che fu. Quello della canzone all’italiana degli anni ’50 è un mondo popolato da canzoni di un tempo, che avevano tanto sentimento. Il tema della nostalgia attraversa numerosi generi e repertori della popular music da Napoli agli USA. Le prime narrazioni della storia della canzone italiana si sviluppano proprio in chiave nostalgica. Le strategie retoriche che attraversano i discorsi sulla canzone italiana di questi anni insistono sul valore delle canzonette in quanto strumento di ricordo, capaci di trattenere in sé immagini del tempo che fu attraverso una individualizzazione del passato collettivo: quella per la canzone è una nostalgia mediale, generata a partire da oggetti di produzione di massa. Questo modo di salvare la canzone attraverso il suo carattere nostalgico è coerente con la formazione degli intellettuali italiani a cavallo della guerra, di qualunque colore politico. È qualcosa di ben radicato nella cultura letteraria, di ispirazione crepuscolare. Esempi di questo atteggiamento si ritrovano tanto prima quanto dopo la guerra e l’idea delle canzoni come buone cose di pessimo gusto sembra percorrere l’intero trentennio. Il modo diminutivo di considerare il repertorio leggero come qualcosa che non è arte, non ha valore storico, concorre alla costruzione dell’ideologia della canzone italiana a partire dal primo momento in cui ne vengono codificate le convenzioni. In generale, il riferimento al passato è l minimo comune denominatore dei discorsi sulla canzone italiana nel lungo trentennio; in piena coerenza con le politiche Rai, questo genere di discorsi emerge in maniera chiara a partire dalla crescita degli spazi per la canzone sui media, negli anni che seguono la nascita di Sanremo. Un’altra conseguenza di questa crescita esponenziale dei discorsi nostalgici sulla canzone è che si comincia a riflettere sulla sua storia. Quasi da subito Sorrisi e canzoni comincia a proporre profili di autori di epoca prebellica ripubblicandone i testi. Nel ’58 con la rubrica fissa “Mezzo secolo di canzoni” la rivista comincia a presentare un canone di evergreen, che incorpora progressivamente gli stessi brani di Sanremo, riproposti da un anno all’altro e, poco a poco, storicizzati come classici. Anche il cinema alimenta la costruzione di una tradizione di canzone nazionale: attraverso la diffusione intermediale dei discorsi nostalgici sulla canzone viene costruito un suo primo canone, con Sanremo nel ruolo di fulcro simbolico, punto di arrivo e rilancio di una sua tradizione. Se l’idea di canzone che si forma nei primi anni di Sanremo è passatista e nostalgica, il suo carattere italiano viene a coincidere col riferimento costante ad alcuni elementi presentati come originari e autentici, ora canonizzati come parte integrante della storia della canzone italiana Una qualche ideologia dell’autenticità è spesso al centro del rapporto fra una comunità musicale e la sua musica, e il suo riconoscimento di un carattere vero è uno dei meccanismi attraverso cui viene costruito il valore estetico della popular music. In generale, i discorsi sulla canzone di questi anni si risolvono spesso in un’opposizione ideale fra tradizione e modernità, che si esprime anche in altre coppie concettuali come vecchio contro giovane. Il carattere italiano, da elemento di discorsi nazionalistici e protezionistici, diviene anche uno degli argomenti centrali per autenticare una canzone, per attribuirle o negarle un valore estetico. COME SUONA UNA CANZONE ITALIANA? IDENTITÀ NAZIONALE E STEREOTIPI MUSICALI Canzoni italiane, americane, europee Come suggerisce Ruccione in una lettera a Sorrisi e Canzoni, nel ’55 esisterebbero almeno due versioni di canzoni italiana: una melodica più tipica e una ritmica. L’autore critica la Rai dicendo che sacrifica la canzone italiana in favore di un genere anonimamente melodico definito europeo. La centralità della melodia nelle pratiche orchestrali è teorizzata da Barzizza nel ’52 e non è difficile riconoscere nelle incisioni di questo periodo una tendenza ad abbellire la melodia vocale con melismi e a cantare con voce impostata. Al contrario, la presenza di ritmi d’importazione sarebbe sineddoche d’americanità e di gusto moderno. Canzoni tradizionali di Ruccione e più moderne di Rossi all’orecchio moderno non paiono così diverse, sembrano riconducibili a un generico filone di canzone italiana anni ’50. I profili melodici di due brani come “Buongiorno tristezza” e “Avventura a Casablanca” hanno numerosi punti in comune: l’hook che contiene il titolo è basato su una melodia ascendente; entrambe le canzoni terminano con l’acuto finale; la diatassi di entrambe le canzoni è basata su una struttura (verse)-chorus-bridge da song americano, tipica di molte canzoni divenute poi “tipicamente italiane”. Si possono sicuramente trovare elementi che spieghino perché nel ’55 Buongiorno tristezza fosse più italiana di Avventura a Casablanca, non da ultimo il fatto che i loro autori fossero identificati ideologicamente con la corrente tradizionalista e modernista. Se si guarda però al materiale musicale è difficile riconoscere nell’una o nell’altra un chiaro carattere tradizionale o moderno, italiano o europeo. È necessario guardare oltre il suono: le marche musicali d’italianità esistono unicamente in relazione a una rete di altri significati di italianità, di stereotipi nazionali, di ideologie, di cliché. Contraddizioni e metacanzoni I significati musicali nazionali vengono costruiti in quelle canzoni che affrontano il tema dell’italianità musicale direttamente nel testo. In generale, nella canzone italiana e in particolar modo negli anni ’50, esiste un ricco filone di metacanzoni, canzoni che parlano di canzoni. Ci sono quelle che contengono al loro interno citazioni esplicite di un altro brano o tema. In secondo luogo, ci sono quelle canzoni che tematizzano un genere musicale nel testo, nella musica o in entrambi. In tutte e due le tipologie, la citazione ha una funzione nostalgica. Un esempio è “Valzer di nonna Speranza” cantata da Nilla Pizzi e il Duo Fasano a Sanremo ’52. Il soggetto del brano è il valzer stesso, usato come rimando al passato: la melodia nostalgica viene vocalizzata dalla Pizzi, come a evocarla. La canzone però mantiene una struttura americana e arrangiamento da big band. In altri casi il genere citato è invece la moda del momento da pubblicizzare: è il caso di molte canzoni dedicate ai ritmi d’importazione, assenti dai primi Festival di Sanremo. In modo più esplicito, alcune canzoni a cavallo della guerra tematizzano proprio la canzone italiana o l’italianità musicale. Del ’35 è “Canta all’italiana” di Carlo Buti, col testo che prende in giro con leggerezza le mode musicali americane e sudamericane, ma col ritmo che asseconda i gusti del pubblico proponendo un ballo in quel momento popolare. “Cantando all’italiana” del’ 47 e incisa da Oscar Carboni, racconta il rimpianto del paese lontano da parte di un emigrante e si inserisce nel ricco filone di canzoni che trattano questo argomento. A voce può essere fatta rientrare in una tradizione nazionale di canto, l’arrangiamento è però da jazz bianco e la struttura è americana. Appartiene allo stesso filone “Un disco dall’Italia” cantata da Gino Latilla a Sanremo nel ’52, col protagonista che ringrazia l’amata lontana per avergli inviato un disco all’italiana, in cui compaiono nell’ordine: Napoli, i mandolini e i vicoli, Mergellina, le serenate e la mamma, il tutto cantato con una voce tipica all’italiana. Quello che accomuna queste canzoni è un evidente contrasto fra testi che esaltano l’italianità musicale e ne espongono gli stereotipi e arrangiamenti, strutture e ritmi inscrivibili nel gusto internazionale dell’epoca. La habanera e la beguine Un caso emblematico di elementi esotici col tempo stilizzati e non più avvertiti come altri è quello di due ritmi da ballo l’habanera e la beguine. L’habanera, originaria di Cuba, si diffonde nel mondo dalla seconda metà dell’800 grazie al successo internazionale del brano “La paloma”, entra nel repertorio eurocolto grazie alla Carmen di Bizet e la Rapsodie espagnole di Ravel. In barba alle origini afrocubane, il ritmo diventa in breve lo stemma sonoro di un ispanismo convenzionale. L’esotismo introdotto dalle novità ritmiche, se inizialmente rappresenta lo scarto da una norma, poco a poco viene ricodificato e assorbito nel campo del normale. Nel caso della canzone napoletana e italiana, i ritmi di habanera compaiono in numerose canzoni, probabilmente grazie al successo di “O sole mio”. Fra i classici del fascismo costruiti su quel ritmo ci sono “Miniera” e “Balocchi e profumi”. La beguine, come l’habanera e altri ritmi e balli di successo, è originaria dei Caraibi. Il suo arrivo in Europa risale ai primi anni ’30 in concomitanza con l’Esposizione coloniale del ’31 a Parigi. Il successo globale coincide col classico di Cole Porter “Begin the beguine” del ’35. Le beguine nelle incisioni italiane del dopoguerra hanno poco in comune con quelle; quello che viene detto “beguine” assomiglia spesso a una versione rallentata del ritmo di rumba. Un numero notevole di canzoni italiane degli anni ’50 si basa su questo pattern e riporta la dicitura “beguine” sullo spartito o sul disco. Fra queste ci sono molte canzoni vincitrici o finaliste a Sanremo come Grazie dei Fiori, Una donna prega, Viale d’autunno, Buongiorno tristezza e Avventura a Casablanca. La beguine italiana si codifica anche su alcune caratteristiche peculiari, che ritornano quasi sempre: il tempo lento, una particolare condotta sinuosa della linea di basso. Lo stesso ritmo ritorna in molte canzoni degli anni successivi ed è associato a stereotipi testuali d’italianità. Alcuni esempi più recenti sono “Vacanze romane” dei Matia Bazar o il tema musicale de La vita è bella. Nostalgia e popolaresco Brani che tematizzano un elemento provinciale nel testo, nella musica o in entrambi sono una costante nei primi anni di Sanremo. La centralità di questi elementi, stereotipati, si inscrive in quella generale tendenza nostalgica a tematizzare il passato. In alcune di queste canzoni è un passato popolare provinciale a essere al centro del discorso: è il caso di “Al mercato di Pizzighettone” in cui gli elementi musicali richiamo con diverse strategie qualcosa che è nel DNA musicale italiano almeno dal ‘700. In altri casi l’elemento popolare si riduce al cliché alpino, come “Vecchio scarpone”. Queste sineddochi del popolare, si associano a significati musicali spesso in contraddizione fra loro. Anche in questo caso, sono la musica e l’arrangiamento a smentire il contenuto del testo e i significati connessi con la vocalità all’italiana, come “Canzone da due soldi” del ’54. Il testo procede su un mood nostalgico, descrivendo il successo di un semplice motivo musicale che dalla strada arriva al successo. Alla fine, però la semplice canzone tornerà dove è nata. La canzone mette in scena una delle tipiche narrazioni su Sanremo o sulla canzone napoletana. La copertina dello spartito a stampa conferma le strategie di autenticazione, ma la musica è lontana dalla pratica dei cantastorie o degli interpreti popolari. La struttura è la consueta, il brano è un foxtrot. Una tipica canzone all’italiana: Vola colomba È difficile riconoscere una univoca italianità musicale nei repertori italiani degli anni ’50: la compresenza di elementi apparentemente ambigui caratterizza anche le canzoni più tipiche. Uno dei brani considerati come la quintessenza del gusto sanremese nel suo senso deteriore è “Vola colomba” portata da Nilla Pizzi alla vittoria nel ’52. Il testo è riconducibili al filone regionale-nostalgico: allude all’irredentismo triestino, evocato indirettamente dal dialetto e dal riferimento al cantiere con tono lacrimevole. Nella sua tipicità, a livello linguistico non abusa di quelle figure retoriche considerate kitsch, la sintassi è piuttosto lineare ed imita la lingua parlata più che ricercare una lingua poetica. Il profilo melodico tende spesso a seguire il ritmo naturale del parlato, senza forzature: già in questo non è la tipica canzone italiana. L’orchestrazione impiega numerose strategie tipiche delle big band di gusto americano e il ritmo che sostiene il brano è uno swing a temo moderato. La struttura accordale e il profilo melodico sembrerebbero suggerire un accompagnamento piuttosto tipico e popolaresco, col basso alternato sui movimenti forti e l’accordo sui deboli. Tuttavia, la sezione ritmica lo interpreta leggermente swingato: un elemento italiano e tradizionale nella melodia e nel canto e uno americano e moderno nell’arrangiamento, nel quale vivono però elementi contraddittori. La canzone italiana come tradizione inventata Una tipica canzone italiana non sembra esistere se non come costruzione ideologica né prima né dopo il 1951; immaginandone la restaurazione la stessa Rai guarda a un passato indefinito e immaginario. L’ideologia tipica della canzone italiana che si codifica definitivamente a partire da Sanremo finisce col mascherare il fatto che i brani di quegli anni sono piuttosto perfettamente inseriti nelle dinamiche globali di circolazione delle musiche popular: canzoni di gusto cosmopolita, fatte per soddisfare i desideri del pubblico. Con Sanremo si forma anche il primo canone della canzone italiana. Se la radio aveva affermato una canzone da ascoltare e da ballare più che da cantare, Sanremo avvia un processo destinato ad allargare sempre di più il cuneo fra l’ascolto e il ballo. Indipendentemente dai discorsi sul gusto e dagli snobismi della critica, non c’è dubbio che la funzione primaria della canzone italiana promossa dal Festival sia estetica e risieda nell’ascolto. Se nei primi anni la scenografia è quella di un night club, col pubblico seduto ai tavolini che consuma e ascolta; la dimensione diventa teatrale, col pubblico seduto frontalmente che ascolta e basta. È difficile non riconoscere il ruolo centrale delle politiche della Rai nel definire questa nuova ideologia della canzone italiana e il suo legame con un carattere nazionale. Se un’italianità musicale era riconosciuta ben prima di Sanremo, il Festival e la Rai se ne appropriano: fanno della canzone il suo medium privilegiato, la cristallizzano in una tradizione che sia adatta al nuovo pubblico che si sta costruendo attorno alla radio e alla tv, che soddisfi gli interessi dell’editoria musicale. Questa canzone italiana nasce da subito con connotazioni di popolarità, letta come deteriore e fasulla dagli intellettuali e che innescherà negli anni una serie di riflessioni sul ruolo della canzone stessa. È la codificazione di alcune innovazioni all’interno dell’industria culturale degli anni ’50 a inventare la tradizione della canzone italiana, compresa la contemplazione di un suo passato imprecisato e immaginario, nostalgico e melodico. Canzoni come Vola colomba, Papaveri e papere, Buongiorno tristezza, costituiscono il primo vero canone della canzone all’italiana: brani nuovi ma che nascono nella percezione del pubblico già vecchi oggetti nostalgici e di gusto passatista. 2 - L’ERA DEI RITMI I caratteri costruiti e interpretati come italiani sono tali perché contrapposti a caratteri non italiani, spesso identificati col gusto moderno e con la preponderanza della componente ritmica su quella melodica. Le musiche straniere che circolano in Italia negli anni del boom della canzone italiana sono quasi esclusivamente musiche da ballo, importate come insieme di pratiche coreutiche. Si tratta in grandissima parte di musiche provenienti dal continente americano: USA, Caraibi, Argentina. L’opposizione fra tradizione e modernità è anche un’opposizione fra musiche da ascoltare e da ballare. Il dualismo ballo/ascolto riguarda anche i processi attraverso cui alcune comunità attribuiscono valore alla musica, è decisivo nel ricostruire una storia delle estetiche della canzone. Più che canzone, la parola chiave della popular music del trentennio è ritmi, termine usato per indicare diverse cosa ma legate fra loro: sono i generi musicali da ballo che provengono dal continente americano. Musiche perlopiù su tempi binari (foxtrot, swing, rumba, samba) e più raramente ternari (boston). I singoli nomi indicano sia il ritmo sia i balli a esso associati. I ritmi sono anche le composizioni basate su questi ritmi, inoltre nell’orchestra sono la sezione ritmica. La diffusione dei nuovi balli Se la neonata canzone italiana tradizionale si opponeva ideologicamente alle nuove musiche anche in quanto non ballabile, nei fatti la maggior parte delle canzoni prodotte in Italia nel corso degli anni ’50 è finalizzata al ballo o adattabile allo scopo. La quasi totalità degli spartiti e delle etichette dei dischi riporta l’indicazione del ritmo. I ritmi sono un simbolo di modernità e mondanità, la musica della città, dell’America e industrializzata. Il cinema, in particolare quello popolare, può decretare il successo di un ritmo già diffuso nelle sale da ballo affermandolo o rilanciandolo o lanciare una moda ex novo. Per quanto capillarmente diffuse siano le sale e per quanto la passione per la danza riguardi gran parte della popolazione, non esiste un unico circuito. I diversi luoghi in cui si balla sono ben distinti per ceto sociale, anche grazie alle musiche proposte. I diversi balli sono una forma di distinzione sociale, tanto quanto il medium grazie al quale li si balla: disco, orchestra da ballo professionista o amatoriale, il piccolo gruppo, la fisarmonica. Ai luoghi pubblici si deve aggiungere in ambito borghese un circuito informale di feste casalinghe. Dall’habanera allo shake La massiccia diffusione in Italia di balli dal continente americano risale almeno all’ultimo quarto del’800 con l’habanera, con un percorso replicato nei decenni da altre musiche. Tra fine ‘800 e inizio ‘900 arrivano in Europa il tango, il maxime, il cakewalk, il foxtrot e altre ragtime dances in tempo sincopato di 4/4. Negli anni che seguono la WW1 si diffonde il jazz e arrivano in Italia lo shimmy e il charleston, il blues, il black bottom, la rumba e la samba: molte di queste danze sopravvivono e ritornano in auge nel secondo dopoguerra. Dopo la liberazione si balla il boogie woogie. Il ’53 è l’anno del mambo, che si afferma assieme al bajon. Nel ’55 il ballo del momento è il cha cha cha, che compare in molte canzoni ritmiche di questi anni, spesso anche nel titolo. Molti dei maggiori successi della musica da ballo del trentennio sono parodie, che insieme negano le connotazioni trasgressive dei ritmi originali e ne ripropongono in versione edulcorata gli elementi innovativi salienti a beneficio del pubblico. Nel periodo che va da metà anni ’50 ai primi ’60 si codificano a livello nazionale le convenzioni della musica da ballo romagnola, diventando il liscio. Nel ’56 fa la sua comparsa in Italia il rock and roll, di poco successiva è la canzone Banana Boat, che popolarizza il calypso, il quale arriva da subito come musica profondamente sessualizzata grazie a Harry Belafonte. Anche in questo caso l’industria musicale italiana si appropria rapidamente del ritmo e ne attenua i significati più controversi, con Tipitipitipso cantata da Claudio Villa che associa il tipico canto all’italiana col ritmo caraibico. Nel ’59 non ha fortuna l’hula hopp, fra ’59 e ’60 sbarca il madison, poi il twist e nel ’63 esplodono bossa nova, hully gully e surf. Nel ’65 uno dei maggiori successi è il sirtaki. L’afflusso di nuovi balli dopo un picco di novità fra ’65 e ’66 rallenta, con l’arrivo dello shake che segna la fine di queste modalità di diffusione. Ballare fa male: i ritmi e il panico morale Costante dell’intera era dei ritmi, da ‘800 a anni ’60: reazioni id condanna delle autorità e della chiesa, cicliche ondate di panico morale che accompagnano l’emergere delle diverse mode. Ciò che accomuna buona parte dei nuovi balli è una trasgressione dei codici prossemici dei balli tradizionali e più in generale di quelli della stagione passata, in una continua corsa alla novità. Come conseguenza le reazioni si polarizzano ancora fra modernisti e tradizionalisti, fra entusiasmo e censura. In Italia l’industria editoriale e discografica e i media agiscono come agenti di normalizzazione dei nuovi ritmi, promuovendone interpretazioni meno sessualizzate e trasgressive, il che significa rimozione o depotenziamento dell’elemento corporeo o delle connotazioni etniche a esso connesse. Le strategie di depotenziamento si spiegano soprattutto in relazione alla censura sociale che accompagna la pratica del ballo in Italia. È la Chiesa a svolgere il ruolo di oppositore principale nei confronti dei balli come fonte di corruzione morale. Anche i maestri di ballo si oppongono alle novità. I giornali italiani mettono sovente in guardia sui rischi fisici connessi con il ballo: l’associazione fra rischio per la salute e immoralità accosta anche altre forme di devianza ai nuovi balli, spesso stigmatizzando le pratiche musicali delle classi giovanili: consumo di alcolici, disagio adolescenziale, delinquenza. I ritmi come tassonomia La storia della musica da ballo in Italia offre un fondamentale spunto per approcciare le tassonomie musicali da una prospettiva pragmatica, fondata sull’uso di categorie reali da parte di comunità musicali. La proliferazione di generi musicali si sviluppa sempre in relazione allo scopo che queste categorie assolvono, e il dettaglio di un sistema dei generi è diretta funzione di chi lo usa e perché. Prima degli anni ’60 questo sistema è piuttosto povero: esiste una musica leggera opposta ai repertori colti, alla quale appartiene anche il repertorio da ballo. Alla povertà del sistema dei generi della canzone corrisponde un raffinato sistema dei ritmi, usati spesso con funzione di genere: servono a parlare di musica, alludono a convenzioni formali o stilistiche e comportamentali-prossemiche. La funzione dei ritmi è quella di organizzare la pratica musicale, per i musicisti e per il pubblico. È un meccanismo indipendente dal medium di diffusione della musica: le indicazioni di ritmo sono utilizzate tanto negli spartiti a stampa quanto sulle etichette dei dischi. Usare correttamente i ritmi esige che i membri delle comunità musicali possano contare su un certo tipo di competenza. Le nuove mode stagionali dei ritmi arrivano come insiemi di competenze specializzate, nel contesto di una diffusa competenza musicale e coreutica che è specifica dell’era dei ritmi. Il successo delle diverse danze alla moda è possibile anche perché buona parte da il pubblico ha il know-how necessario e l’interesse per ballarle. Imparare a ballare Il cinema, la radio, la stampa popolare e la tv non alimentano solo il gusto del pubblico popolare per l’esotico e il piccante, sono parte attiva nella trasmissione di competenze coreutiche: insegnano al pubblico come ballare le nuove musiche. La radio contribuisce mandando in onda la trasmissione Ballate con noi, fondamentale porta d’accesso alle nuove musiche per le famiglie italiane. Le riviste popolari dedicano ampio spazio agli ultimi balli, li descrivono con ricchezza di particolari tecnici. La frequenza con cui questo tipo di informazioni circola fra i diversi media italiani nel dopoguerra, anche su riviste popolari per un pubblico scarsamente scolarizzato, conferma l’importanza che il ballo ricopre fra le pratiche legate alla musica e in generale nel tempo libero di gran parte della popolazione. La comprensione di istruzioni e schemi non è facile da tradurre nella pratica se non si ha la conoscenza delle regole dei balli moderni e dei relativi passi, conoscenza che non fa parte delle competenze comuni; ma durante l’era dei ritmi si tratta invece di una competenza diffusa in larghi strati della popolazione, soprattutto fra i giovani. Imparare a suonare L’impatto del jazz band nel nostro paese è inedito, innanzitutto per il volume e i nuovi strumenti introdotti, ma soprattutto per la condotta ritmica non tradizionale, sincopata. Da questo momento in poi imparare la syncopation è condizione necessaria per un ingaggio in un’orchestra di musica da ballo. Le prime formazioni di musica sincopata in Italia sono composte sia da autodidatti che da musicisti con formazione classica. La conoscenza della musica, il saper leggere uno spartito è una competenza necessaria anche nelle orchestre leggere. Gran parte della popular music dell’era dei ritmi italiana è una musica scritta, arrangiata per orchestre o organici più ridotti. Da un certo momento ai musicisti è richiesta una doppia competenza: saper leggere la musica e conoscere il sistema dei ritmi sincopati che si codifica in parallele col crescente afflusso di nuovi balli dall’America. L’arrivo del rock and roll in Italia Spesso riconosciuto come l’inizio di una nuova era, ha cambiato radicalmente il corso e i significati della popular music, facendone la musica giovanile per eccellenza. Musica urbana e a carattere urbano, connessa coi giovani e la loro crescente disponibilità di tempo libero, portatrice di un rinnovamento dei consumi, strumento di trasgressione. Anche in Italia è una delle poche musiche che ha trovato un posto stabile nella storiografia sugli anni del boom, grazie ai fenomeni sociali comunemente associati con esso, come il jukebox, il ballo, la trasgressione e i nuovi costumi. L’arrivo del r&r si spiega in relazione al contesto del miracolo economico, come simbolo della parabola della modernizzazione e dell’ascesa del nuovo soggetto- giovani. Nel ricostruire il suo arrivo in Italia, si possono riconoscere nelle fonti dell’epoca due discorsi principali. Il primo è quello del r&r come ritmo, come una delle nuove musiche da ballo americane e trattato come tale. Il secondo è quello che lo spiega in rapporto ai giovani e alla devianza giovanile, col discorso del panico morale. Una nuova musica da ballo americana Il termine compare da fine anni ’40 in molte canzoni americane e brani riconducibili a quel ritmo e sound erano già diffusi, ma la convenzione della nascita è nel ’54: Elvis registra i suoi primi singoli per la Sun; Bill Haley & his Comets incidono “Rock around the clock” e “Shake, rattle and roll”. Alla diffusione del genere contribuisce il cinema col film del ’55 Blackboard jungle, primo film ad usare un brano r&r nel trailer e all’inizio del film. Non parla di musica ma si inserisce in un filone di pellicole che parlano di devianza giovanile e la sua novità sta appunto nella scelta musicale. Elvis dopo il passaggio alla RCA partecipa al Milton Berle Show dove canta Hound Dog e la sua sessualità dirompente, l’uso di una vocalità nera e gli espliciti movimenti del bacino gli costeranno la censura. Fra ’54 e ’56, quando il genere si diffonde nel mondo, in Italia si assiste a una nuova fase della discografia, di decollo industriale. Il sistema dei media tuttavia è ancora arretrato e il jukebox, veicolo di diffusione del genere, arriva solo nel ’56. Blackboard Jungle pianta i semi del successo in Europa ma da noi incappa nella censura, arriverà solo nel ’57. Per tutto il ’55 e il ’56 il r&r in Italia è appannaggio di un’élite urbana che può permettersi un grammofono e il costo dei dischi d’importazione. Il primo pubblico del r&r in Italia è quello degli appassionati di jazz. In piena coerenza, è descritto su riviste specializzate come l’ultima di una serie di filiazioni della musica nera. Parallelamente alla diffusione dei primi dischi d’importazione, comincia ad affermarsi come da prassi anche nel circuito delle orchestre da ballo. Nel ’56 è documentabile per opera di Dossena una prima volta del ballo in Italia. Il primo film in Italia col r&r come colonna sonora è Rock around the clock, con fra gli altri Bill Haley e i Platters. È il primo teenpic prodotto negli USA e dedicato alla nuova moda e dovrebbe raccontarne la nascita e le vicende dei protagonisti. Panico morale preventivo L’arrivo del r&r in Italia segue il medesimo percorso dei balli nei decenni precedenti e l’associazione coi significati trasgressivi non fa eccezione. Il caso presenta però delle novità. La censura, parte della strategia che prelude al suo lancio, raggiunge una diffusione inedita e si associa per la prima volta con la categoria dei giovani. Nella ricezione è anche decisivo un disallineamento tra i suoi diversi canali di diffusione e significati trasgressivi che gli sono attribuiti. Nell’autunno del ’56 la maggior parte degli italiani non ha sentito ancora una nota né tantomeno ha potuto vederne gli interpreti, eppure ha già ricevuto informazioni circa la minaccia sociale che rappresenta. Alla base delle strategie di marketing che accompagnano la prima spinta promozionale c’è proprio il panico morale. Il ballo, in assenza di filmati, è descritto come una danza diabolica, frenetica e pericolosa. Ritornano anche i richiami ai pericoli per la salute, a loro volta legati al tema della decenza e dell’ordine pubblico. Su giornali e riviste attorno al ’56-’57 è interessante come molti giornalisti si premurino di specificare che la nuova moda riguarda sia i giovani che le ragazze. Questi articoli instaurano per la prima volta in Italia una connessione diretta fra r&r e teenager, codificata da subito nel segno della devianza. La paradossale ondata di panico tocca il suo vertice con le prime proiezioni di Rock around the clock. Il r&r esplode definitivamente nel maggio ’57 in occasione del primo festival nazionale organizzato a Milano da Dossena, con esibizioni tra gli altri di Celentano. L’afflusso è oltre le aspettative, vengono bloccate le entrate. Il festival milanese è importante perché vi partecipano alcuni dei futuri protagonisti della musica italiana come Celentano, Jannacci, Gaber. Già a fine ’56 negli USA è attivo un processo di sterilizzazione del genere, per opera di un crescente numero di interpreti bianchi meno trasgressivi e ripuliti rispetto ai primi idoli giovanili. Tradurre il r&r: cover e nuovi significati Quello delle cover è un fenomeno che caratterizza la storia della canzone italiana fino a tutti gli anni ’60, alimentato dalla necessità di rendere più vendibili sul mercato nazionale i successi stranieri, quanto dalla favorevole legislazione sui diritti d’autore, concepita per premiare i traduttori. L’orologio matto, parodia di Rock around the clock, da un pdv musicale contiene diverse sineddochi di genere che alludono con effetto comico ad altre musiche. Le tipiche armonie vocali in stile barbershop del Quartetto Cetra contrastano col carattere di novità del genere, collocando il brano in un rassicurante passato. L’elemento modiaiolo del nuovo ritmo è anche alluso nell’introduzioni su un pattern ritmico di habanera. Il testo ha per tema il ritmo stesso, è una metacanzone. Dal pdv sonoro le prime cover tendono a tradurre gli originali americani in un paesaggio sonoro più familiare, rinunciando alla vocalità r&b e alla voce solista a vantaggio di armonie in stile Cetra. È soprattutto il comparto editoriale più che quello discografico a sfruttare la nuova moda. Esattamente come incidevano mambi e cha cha cha, i divi della canzone italiana si prestano anche al r&r. L’esperienza del genere per un adolescente italiano è significativamente diversa da quella di un suo coetaneo americano: quella che ascoltano i giovani italiani è una musica i cui significati socioculturali e razziali non sono così decisivi, né spesso sono percepiti. Il rock è diluito, con tutta la fascia più hard completamente rimossa. In Italia la categoria rock & roll tende a sciogliersi in un più ampio calderone che comprende artisti americani popolari in quegli anni come Paul Anka o Neil Sedaka. Non musicisti rock per il pubblico statunitense né per la sensibilità odierna, ma che in quel momento sono percepiti come tali in quanto giovani e americani. Il rock and roll come musica giovanile L’elemento relativamente inedito riguarda l’associazione del nuovo ritmo e della sua pericolosità con un soggetto sociale che si sta definendo in quegli anni, i giovani. In Italia il genere viene importato senza che quei rapporti sociali espressi dal rock and roll americano potessero essere veramente tradotti nella società italiana. Quando viene lanciato sul mercato, il rock è già la musica giovanile per antonomasia, presentata e confezionata come tale. Per i primi anni il suo carattere giovane è più convenzionale che reale. Le cose iniziano a cambiare dal ’57 e dal ’57, dopo il festival milanese che coinvolge un gran numero di giovani di provenienza diversa. NUOVI GENERI, NUOVE ESTETICHE: URLATORI, CANTAUTORI E ALTRI Dischi, jukebox, riviste, tv: la musica nel boom economico Per quanto riguarda la produzione musicale, negli anni a cavallo del salto di decennio si assiste a un’accelerazione, impressa da alcune nuove tecnologie e nell’esplosione quantitativa di settori già in fase di crescita, come discografia, produzione di strumenti, stampa popolare. Per l’industria discografica l’anno di svolta è il ’58: i dischi prodotti passano da 3 milioni del ’51 ai 9 del ’56, 12 nel ’57 e 17 nel ’58. Si assiste a un triplicarsi delle vendite del 45 giri, più piccolo, leggero, resistente ed economico del 78 giri, si afferma tra i giovani. L’oggetto disco diventa una parte importante dei nuovi consumi dei teenager, contribuisce a rivoluzionarne le pratiche connesse con la fruizione della musica. Il disco è ora un oggetto che radio e tv promuovono e che esiste prima della canzone che riproduce. Il jukebox viene lanciato in Italia a partire da fine ’55 e il 45 giri ne facilita l’espansione, rendendo possibile l’aumento della quantità di dischi gettonabili. Il sistema di conteggio delle riproduzioni permette di disporre di classifiche di gradimento effettive e non solo basate su vendita nei negozi e passaggi in radio. Si afferma per la prima volta un mercato estivo della canzone italiana, che segue le nuove geografie del tempo libero degli italiani. I jukebox favoriscono anche un nuovo tipo di ascolto grazie alla dimensione degli altoparlanti e all’elettrificazione che aggiungono le cavità del corpo come organi percettivi. Questi modi di fruire la musica si sviluppano da subito come pratiche eminentemente giovanili, profondamente connesse con le forme della socialità degli adolescenti. Cresce anche l’acquisto privato dei 45 giri: grazie alla diffusione di apparecchi di riproduzione economici si rompe il monopolio del salotto e della radio di casa nell’ascolto domestico di musica e le camere diventano luoghi dove poter fruire la propria musica. La centralità dell’oggetto disco nelle pratiche degli adolescenti e la sua carica simbolica ed emozionale è documentata anche nelle canzoni di questi anni. All’inizio del nuovo decennio Sorrisi e Canzoni dichiara 3 milioni e mezzo di lettori e sulla scia del suo successo aprono nuove riviste a tema musicale. Nascono “Il disco” e “Discoteca”, quest’ultima mira a un pubblico più colto ma ha comunque una sezione dedicata alla musica legger. “Musica e dischi” aumenta tiratura e foliazione, spazi per la canzone compaiono con frequenza crescente anche sui maggiori rotocalchi di approfondimento. La stessa pratica della recensione o della segnalazione delle novità discografiche si afferma in ambito popular a partire da questi anni. In parallelo alla crescita delle riviste musicali compaiono anche le prime pubblicazioni dedicate alla canzone italiana, che ne ricostruiscono la storia e ne consolidano il canone. Del ’60 è un fascicolo speciale della rivista “Mezzo secolo” intitolato “L’italiano cantato”; nel ’62 esce il primo libro dedicato alla canzone. Nascono nuove trasmissioni dedicate alla musica o che ospitano regolarmente numeri musicali: Canzonissima prende il via nel ’58. Tassonomie della canzone intorno al passaggio di decennio Nei primi anni del boom economico, in parallelo al moltiplicarsi dei discorsi intorno alla musica, si aggiorna anche l’intero sistema dei generi della canzone italiana. Nel gennaio ’55 Sorrisi e canzoni aveva lanciato il primo dei suoi referendum sulla canzone per eleggere i migliori cantanti dell’anno precedente. In quella prima edizione e nella seconda del ’56 si ritrovano due sole categorie per organizzare gli interpreti: maschili e femminili. Nel ’58 qualcosa cambia, si indicono due referendum: uno per i cantati e uno per le orchestre. Nel presentarne i risultati finali i redattori scelgono di raggruppare i nomi in 5 categorie, per dare significato ai risultati: sono i germi di un nuovo sistema dei generi, che articola l’opposizione fra tradizione e modernità, ma con un dettaglio allora inedito. Nel ’60 le categorie sono 10, date fin dalla prima fase del voto e non a posteriori dalla redazione. Sono definite in funzione di una scena musicale più varia e di uno spazio ancora maggiore per i discorsi sulla canzone. Per la prima volta suggeriscono come in quel momento siano riconoscibili diverse comunità di ascoltatori che si rifanno a estetiche differenti. Le elezioni per un parlamento che Sorrisi e canzoni propone nel ’60 nascono con uno spirito nuovo. Ora le diverse correnti e i diversi cantanti possono essere collocati in un emiciclo parlamentare e definiti in base a connotazioni ideologiche, prima che estetiche. DX CENTRO SX Restaurazione melodica (Pizzi, Villa) Napoletani Modernisti (gusto moderno) Azione lirica (repertorio classico) Musical moderati Cantanti compositori (Bindi, Paoli) Movimento jukeboxista Urlatori Modugno e i cantanti-chitarristi Nel blu dipinto di blu è identificato col momento in cui la canzone italiana cambia di segno, la nascita di una canzone italiana moderna, se non della canzone d’autore italiana: per la particolare voce di Modugno, per la rottura prossemica della sua performance sul palco di Sanremo, col celebre abbraccio al pubblico; per il tema onirico del testo; per l’innovazione del linguaggio e altro ancora. Modugno innescò il cambiamento anche nella ricostruzione di uno dei protagonisti di quella rivoluzione, Nanni Ricordi. Nel blu dipinto di blu può essere ricondotta a un filone tradizionale quanto a uno più moderno della canzone. Sul primo fronte si può notare il profilo melodico cantabile, un testo che per quanto innovativo impiega numerose soluzioni tipiche del periodo precedente (apocopi, tronche a fine verso). Sul versante moderno invece si può notare la costruzione (verse)-chorus-bridge e alcune soluzioni dell’arrangiamento. Altri elementi innovativi sono la chiusura senza acuto, la vocalità di Modugno, la sua gestualità, ma la canzone finisce per essere il brano che traghetta e perpetua la tradizione anni ’50 nel decennio successivo, una delle più grandi hit della canzone italiana. Il successo della canzone è immediato e il suo impatto è intergenerazionale. La consacrazione sanremese di Modugno ha fra le prime conseguenze il proliferare di discorsi sul rinnovamento della canzone, sia in sedi popolari che specializzate. Parte del merito va anche al credito di cui gode in virtù del suo repertorio precedente di autore negli anni ’50. L’idea che un cambiamento sia nell’aria e che sia portato da Nel blu dipinto di blu è anche nella stampa popolare: Sorrisi e canzoni afferma che i gusti del pubblico si stiano orientando verso un genere più moderno e rivoluzionario. La canzone di Modugno è percepita come innovativa perché è interpretata dal suo autore. È un’eccezionalità che viene riconosciuta subito dai commentatori ed è fra i motivi che permettono al brano di arrivare già molto atteso al Festival. A Modugno vengono attribuite le etichette di cantante-compositore, cantante-autore, chansonnier, cantante-chitarrista. Quest’ultima connotazione, oltre a suggerire appunto che il cantante si accompagna con la chitarra, implica anche una nuova prossemica che lo differenzia dal cantante che non si accompagna ma si esibisce in piedi. L’idea che il cantante si accompagni con la chitarra non è inconsueta, la sovrapposizione dei ruoli è quasi scontata nella canzone napoletana. La dicitura “e la sua chitarra” si associa al titolare dell’incisione sull’etichetta di molti dischi di questi anni. Nessuno nel ’56 avrebbe definito Claudio Villa o Luciano Tajoli o Nilla Pizzi come dei musicisti. Modugno invece è chitarrista e musicista e come tale può essere oggetto di un’attenzione estetica secondo parametri colti. Chansonniers: ispirazione e influenza francese Il termine cantante-chitarrista è usato spesso per gli stessi musicisti in alternativa a chansonnier, con rimandi alla tradizione della chanson francese. La parola è diffusa in Italia già a inizio ‘900, fa parte di uno dei francesismi associati con l’intrattenimento come cabaret etc. Dopo la guerra compare per indicare in generale il cantante di varietà oltre che i cantanti-chitarristi. Negli anni ’50 il termine passa da un più generico riferimento all’intrattenitore da cabaret a colui che scrive i testi delle canzoni che interpreta. In Francia il termine era associato a trovatori e poeti medievali. La diffusione in Italia del termine in quest’accezione mostra come una suggestione francese fosse collegata alla somma di ruoli fra autore e cantante, e a una certa ideologia dell’autorialità. Nel ’55 in Italia si parla di Trenet come chansonnier che compone le sue canzoni ispirandosi agli avvenimenti quotidiani, è raro che in questo periodo in Italia si parli di una canzone nei termini di ispirazione poetica, ma Trenet fa eccezione. Volare è probabilmente la prima canzone italiana di ampio successo popolare a essere discussa nei termini di ispirazione poetica e il cui testo viene preso sul serio e dissezionato a più riprese. Negli anni ’50 la canzone francese e la figura dello chansonnier forniscono un importante orizzonte estetico e ideologico per le ambizioni della canzone italiana. La francesità musicale è una sineddoche che sta per raffinato, colto, poetico, opera come una forma di distinzione. I ragazzi del jukebox Mentre Modugno trionfa a Sanremo, altri fenomeni ed etichette di genere contribuiscono a ridisegnare le traiettorie della canzone italiana. I ragazzi del jukebox, Urlatori alla sbarra e altri compongono quella parte della storia dei musicarelli italiani che oggi viene definita come cinema degli urlatori. Sono oggetti dei nuovi consumi, nel rinnovato contesto del tempo libero di una classe giovanile che va formandosi in quegli anni, ma sono anche messe in scena della nuova situazione giovanile e delle modalità di diffusione della musica negli anni del jukebox. “I ragazzi del jukebox” fornisce informazioni utili sulle tassonomie e i valori associati ai diversi tipi di musica alla fine degli anni ’50. L’intero soggetto si fonda sulla netta polarizzazione del campo musicale in due correnti di gusto inconciliabili. Il contrasto fra tradizione e modernità è riconoscibile: si contrappongono una musica dei giovani e una musica degli adulti. L’arrivo degli urlatori ne ’58-’59 rivoluziona anche il come si parla di musica: permette che i giovani abbiano una propria voce sui media, con i nuovi teen idols come rappresentanti. Il che spiega perché Modugno finisca a poco a poco a incarnare la tradizione della canzone all’italiana. Fra i maggiori protagonisti della canzone italiana nei primi anni del boom ci sono i ragazzi del jukebox, da un lato e dall’altro del microfono. Il rifiuto della tradizione codificata fino a quel momento diventa una delle principali strategie di autenticazione estetica per la comunità giovanile. Tanto Modugno quanto gli urlatori segnano una rivoluzione nei discorsi sulla canzone, introducendo la possibilità di formulare giudizi estetici sulla musica leggera. Gli urlatori La leggenda vuole che il lancio del primo brano urlato si debba a Walter Gurtler, editore che nel ’48 aveva fondato a Milano la Celson e che aveva fatto incidere al suo fattorino Antonio Lardera “Come prima” La prima tiratura inizialmente snobbata viene regalata al circuito dei jukebox, che ne sanciscono il successo. In realtà Tony Dallara non debutta con Come prima ma con “Ti dirò”. La rapidità del successo dei Platters, la consacrazione del terzinato e del cantare singhiozzato come elementi tipici del nuovo filone giovanile della canzone italiana vengono confermati dalla parodia che ne dà il Quartetto Cetra col brano “Un disco dei platters”. Gli stessi elementi presi in giro vengono codificati come convenzioni centrali del genere degli urlatori in seguito al successo di “Come prima”. Il lancio di Dallara cerca di sfruttare il successo dei Platters: i primi dischi non sono intitolati al solista ma ai Campioni (canta Tony Dallara), definiti come i Platters italiani. In questi dischi è innovativa la presenza di una copertina vera e propria, visto che fino ad allora la maggioranza dei 45 giri veniva venduta in buste anonime e perché l’immagine non è quella del gruppo o del solista, ma una grafica non connessa al contenuto del disco. La diffusione del neologismo urlatore si può datare a inizio ’59 e il termine diventa di uso comune sui giornali qualche mese dopo. In estate col lancio di nuovi assi sulla scia del successo di Dallara e Curtis il genere è già definito con confini piuttosto precisi. Con l’apertura agli urlatori nel ’59 Sanremo mostra per la prima volta un’attenzione alle novità musicali e a pubblici diversi da quello della canzone italiana. Il termine urlatore indica quel cantante che anche senza rifarsi a tradizioni popolari, grida le sue interpretazioni, distaccandosi sia dallo stile dei cantanti confidenziali, sia da quello degli stornellatori e degli imitatori di tenorini di grazia. Tuttavia, se l’ispirazione può essere ricondotta ai Blues shouters, è certo che tale collegamento non fosse evidente al pubblico italiano del ’59. È difficile dire che Dallara, Betty Curtis o Mina urlassero il riferimento allude a uno stile moderno di cantare opposto alla vocalità tipica della canzone all’italiana: la rottura delle convenzioni della canzone italiana passa soprattutto dalla rottura delle convenzioni connesse con la vocalità, urlare significa non cantare all’italiana. Al contempo il termine mantiene un significato vagamente dispregiativo, con rimandi al mondo popolare, al repertorio dialettale. Il termine viene scelto probabilmente anche per lanciare un filone italiano di musica giovanile che fosse altro dal rock and roll, se quest’ultimo arriva in Italia con connotazioni sessuali e di gioventù bruciata, il termine urlatore è bonario e paternalista, quasi ironico. Gli urlatori in fondo sono bravi ragazzi, come lo sono quelli che li ascoltano. È difficile non riconoscere un intento politico nella scelta e nell’adozione del termine urlatore, dettato dalla volontà di sgombrare il campo da ogni possibile associazione con teppisti e teddy boy, e di ricondurre al consentito le innovazioni musicali imposte dai nuovi consumi giovanili. I cantautori I cantautori godono di uno status speciale nelle storie della canzone italiana, a differenza di altri generi appaiono più facilmente riconducibili a paradigmi letterari e d’arte. L’origine della figura è solitamente ricondotta a Modugno o a figure importanti della canzone del ‘900. Tuttavia, il processo per cui i cantautori assumono lo status di intellettuali e poeti è comprensibile solo se se ne osservano le origini tra fine anni ’50 e inizio anni ’60. Giorgio Gaber: attivo sulla scena milanese come chitarrista rock, viene lanciato da Ricordi come urlatore. Dalla seconda metà del ’59 qualcosa cambia, pubblica “Geneviève” guadagnandosi l’appello di urlatore sentimentale. Un anno dopo, con l’introduzione del termine cantautore, può affermare di non ritenersi un urlatore e dichiarare di far parte di una neonata tradizione di canzone moderna italiana. Geneviève e altre canzoni rappresentano il primo momento di svolta nella sua lunga carriera, segnando l’avvio di un possibile riposizionamento estetico nelle percezioni del pubblico. Gianni Meccia: Esordisce nel ’59 per la Rca italia, con uno stile e un personaggio diversi da Gaber. Lo fa con un brano particolare per il mercato italiano, anomalo per il testo, la musica e la struttura. Il testo satirico di “Odio tutte le vecchie signore” la inscrive in un repertorio da cabaret di gusto adulto e nella stessa direzione vanno gli inserti parlati e l’arrangiamento per sola chitarra classica. Lo stile di accompagnamento, il soggetto e lo stile di narrazione rimandano a Brassens. Il disco esce come “Gianni Meccia e la sua chitarra” e viene descritto come cantante-chitarrista. Quella di Meccia è una voce da attore, impostata nella dizione ma naturale nel canto e in special modo nella transizione da parlato a cantato. Il tema del brano “anti- matusa” fa parte del gusto giovanile dell’epoca e la registrazione della voce, molto riverberata, rimanda di più alla produzione USA che a quella italiana o di Brassens. Le canzoni con cui raggiunge il successo nel ’60 – Il barattolo e Il pullover – rappresentano nell’impostazione vocale la sintesi di uno stile da urlatore con uno da cantante-chitarrista. Umberto Bindi: nel ’59 scrive Arrivederci, che arriva al successo nell’interpretazione di Don Marino Barreto Jr. e viene consacrato come autore e che traina anche il successo della sua versione. La voce riprende qualcosa da Modugno ma senza l’impostazione attoriale, il modello può essere quello da ballad confidenziale alla Nat King Cole. Ci sono similitudini anche con lo stile di canto alla Platters e quindi Dallara, anche se Bindi non singhiozza in modo così evidente il modo di stare sul tempo e scandire le parole è quello. Da subito comincia a essere interpretato in modo diverso: dato che non suona la chitarra non può essere cantante-chitarrista, quindi viene messo in risalto il suo accompagnarsi al pianoforte. Le sue foto dell’epoca sembrano suggerire il suo essere un musicista e compositore serio, a contrario di altri. Gino Paoli: debutta su disco nel ’59 e viene definito autore e interprete, cantante e compositore, come Bindi, anche se il gruppo che suona nei suoi primi dischi è lo stesso di Gaber. Il giro armonico di La tua mano sarà reso popolare da altri suoi successi come La gatta e il Cielo in una stanza. Lo stile vocale è più naturale di quello del primo Bindi, senza grandi singhiozzi e con una dizione quasi da parlato, ma l’intonazione è imprecisa. La tua mano può comunque essere ricondotta a uno stile da urlatore: il terzinato, il giro armonico e il tema la inseriscono nella corrente più sentimentale del genere. L’ambizione francese di Paoli emerge dalla crescente importanza attribuita ai testi, riconosciuta già dai commentatori dell’epoca. Il caso più emblematico è La gatta, brano che più di ogni altro contribuisce a creare l’immagine di Paoli e dei primi cantautori a lui associati. Per quanto “intellettuale” nel ’60 è un personaggio popolarissimo, che compare sui rotocalchi anche grazie a look e modi eccentrici. L’introduzione del neologismo cantautore Nell’Italia di fine anni ’50 continua a non essere comune che un cantante sia autore e interprete dei suoi brani. La prima attestazione documentata con certezza della parola cantautore è dell’inizio agosto ’60, in un trafiletto su Sorrisi e canzoni. Non viene usato con riferimento a un cantante, ma come titolo di uno spettacolo itinerante, per giunta al plurale: Il cantautori. Negli stessi giorni in cui Gaber parla del progetto Cantautori su Sorrisi e canzoni, sulle pagine del Musichiere l’articolo “Chi sono i cantautori?” annuncia che una nuova parola si è aggiunta al vocabolario della musica leggera, dove si parla ancora di un progetto itinerante. Le prime attestazioni documentate sembrano suggerire che la parola non sia stata inventata per sostituire la locuzione cantante-autore, ma per battezzare un progetto o uno spettacolo collettivo. Nel ’61 il termine comincia ad apparire con frequenza anche su giornali non musicali e dà il titolo a uno speciale televisivo di buona fortuna, in cui si esibiscono alcuni dei cantautori più importanti del momento. L’ideologia del genere e la formazione del canone L’articolo “Chi sono i cantautori” del ’60 contiene già le linee guida dell’ideologia dell’autorialità che caratterizza i cantautori ancora oggi quanto un primo abbozzo di canone. Secondo l’autore possono considerarsi tali solo colo i quali hanno sempre cantato proprie canzoni o che hanno debuttato come cantanti dopo il successo come autori. Il cantautore è da subito un costrutto culturale, un’interpretazione e giustificazione di un certo modello di divisione del lavoro, che nasce per soddisfare una domanda di autenticità. Non si riferisce tanto all’autorialità effettiva di un pezzo, piuttosto a un certo modo di scrivere canzoni e di cantarle La connotazione di intelligenza e autenticità che aleggia intorno ai primi cantautori è in apparente contraddizione con l’adozione di un neologismo che nel ’60 doveva suonare buffo. La scelta del termine da parte della discografia è una scelta politica, finalizzata soprattutto a evitare un termine potenzialmente engagé come chansonnier. La parola viene adottata per dare coerenza a una serie di fatti musicali già parzialmente autenticabili in quanto alternativi alla tradizione e viene scelta per depotenziare la possibile interpretazione in chiave politica di alcuni dei primi cantanti-autori. A livello di convenzioni tecniche, l’ideologia del genere si ricollega a una serie di strategie che possono essere riconosciute come tipiche dei primi esponenti. A livello dei testi un’attenzione più realista e disincantata per le tematiche amorose, soggetto più battuto. Dal pdv delle interpretazioni, si affermano nel mainstream della canzone italiana una dizione più naturale e una voce tendenzialmente non impostata o che evita vocalità tenorili o da stornellatori. La stonatura e l’intonazione imprecisa entrano nel campo del consentito. Le scelte linguistiche del primo repertorio guardano a un italiano standard, quotidiano, che evita gli arcaismi e le forme poetiche. Per il ritmo del testo e le scelte lessicali, il modello di alcune delle canzoni sembra essere la prosa più che la poesia. Dal pdv della diatassi, Il cielo in una stanza asseconda il flusso del testo rinunciando a una struttura canonica, non ci sono strofe o ritornelli. Esempi di strutture anomale sono rintracciabili nel repertorio dei primi cantautori, come Viva Maddalena di Endrigo. Il successo dei primi cantautori si associa anche a un’inedita attenzione all’aspetto dell’arrangiamento e delle tecniche di studio, con orchestrazioni che superano le routine della canzone italiana classica e la nuova strumentazione r&r. Spesso si incontrano arrangiamenti di gusto più moderno, che fanno dell’orchestrazione un elemento di interesse e non un semplice supporto. La costruzione di un primo canone dei cantautori procede in parallelo con la definizione delle convenzioni del genere. Il festival di Sanremo del ’61 è annunciato come Il Festival dei Cantautori e atteso da molti come momento di ricambio generazionale. Vi prendono parte Paoli, Bindi, Gaber, Meccia, Maria Monti, Edoardo Vianello e Tony Renis. Il modello principale è Paoli, quello che gode di maggior successo in quel momento. Quella del cantautore diventa un’etichetta alla moda e viene adoperata con maggior libertà col passare del tempo. Le maglie di chi può essere considerato tale si allargano, andando a ridisegnare il passato della canzone italiana. Le cantautrici fuori dal canone Lo scarso successo delle cantautrici e la loro rapida sparizione dai radar offre una prova dei significati estetici associati con l’etichetta cantautore, significati cui non sono estranei posizionamenti di genere sessuale e che vengono costruiti incorporando un certo immaginario romantico associato con l’autore-genio, inevitabilmente maschio. Maria Monti all’inizio è parte attiva e integrante del gruppo dei cantautori e probabilmente la diretta ispiratrice dei primi spettacoli collettivi. Daisy Lumini debutta nel ’59 come urlatrice. Pubblica alcuni singoli in linea col gusto più intimista dei cantautori. Maria Monti nel ’59 è interprete e attrice nota sulla scena milanese. Il suo primo pezzo con buona diffusione è Zitella cha cha cha del ’60, un brano leggero assimilabile allo stile di Meccia, con un testo scherzoso ma potenzialmente scandaloso. Lo stile interpretativo non è diverso da quello delle urlatrici, ma per quanto il tono beffardo e il soggetto siano compatibili col repertorio degli urlatori, la Monti interpreta un personaggio, non sta cantando in prima persona una canzone con tema giovanilista. L’immagine della Monti che emerge dalle sue canzoni è quello della ragazza moderna e anticonformista. Il passaggio della Monti e della Lumini da un target giovanilista a uno più maturo e il progressivo abbandono del filone dell’urlo trova riscontro con quello avvenute nelle categorie di Bindi, Gaber e Meccia, ma nonostante ciò, la storia di Maria Monti e Daisy Lumini come cantautrici finisce nel giro di pochi anni. A differenza dei colleghi maschi le due continuano la carriera come interpreti di brani altrui o della tradizione popolare, raramente sono ricordate come autrici nelle storie della canzone. Le nuove estetiche della canzone negli anni del miracolo economico I nuovi divi nel contesto della discografia Fra ’58 e ’60 diversi nuovi personaggi, futuri divi della canzone italiana, arrivano al successo supportati da un’industria musicale in rapida espansione e in coincidenza con l’emergere di nuovi ascoltatori, della tv e del jukebox. Dallara, Bindi, Paoli, Mina sono giovani e sono presentati come tali, mentre per Villa o Pizzi non si rimarcava l’età. Gli urlatori e i cantautori sono divi in senso nuovo e diverso: se ne conosce l’immagine, il corpo oltre che la voce. Il successo non è da ammirare o da invidiare, ma favorisce un meccanismo di identificazione per i giovani. I cantautori che registrano brani da loro stessi composti riassumono in sé una parte importante del flusso produttivo e risultano efficaci per rompere il monopolio dei vecchi editori e autori di professione. È l’unicità dei nuovi divi della canzone a fornire alla discografia il suo asso nella manica: la consacrazione del disco come oggetto di consumo in Italia si deve proprio a urlatori e cantautori. Se prima, in molti casi, non ci si curava di chi fosse l’autore, ora chi ha scritto il pezzo diviene un elemento determinante. Autenticità e ascolto Nicholas Cook: “La musica dev’essere autentica, perché altrimenti sarebbe a malapena musica”. Convenzione che una canzone scritta da chi la canta sia meglio di una scritta da un autore professionista è strettamente collegata con questa ideologia dell’autenticità. L’apparizione di ideologie di autenticità è legata allo spostamento di parte di quel repertorio dal campo dell’intrattenimento a quello dell’arte. È con l’apparizione di Modugno o Bindi che si documenta per la prima volta in Italia il ricorso sistematico al lessico artistico nei discorsi sulla canzone italiana, con giudizi che sarebbero stati impensabili fino a un paio di anni prima. Con l’istituzionalizzazione della figura del cantautore, il valore estetico comincia a riguardare quel modo di intendere la canzone, quel personaggio e si lega al doppio filo dell’autenticità che gli è richiesta. Si può dunque affermare l’idea che una canzone possa essere espressione diretta dell’intimo di chi la canta. Nel contesto della canzone d’autore siamo spesso naturalmente portati a interpretare quello che ascoltiamo come parte del privato del cantante, a considerare l’io del cantante come l’io dell’uomo. Il cantautore da un certo punto in poi non è pensato come un professionista della musica che interpreta le sue canzoni, ma come un genio romantico alle prese con i suoi personali demoni, che rende pubblico il suo sé privato. Le canzoni dei cantautori sono da ascoltare facendo attenzione, addirittura da leggere, da analizzare, da citare. GLI INTELLETTUALI E LA CANZONE Gli intellettuali e la canzone dal dopoguerra ai primi ‘60 Fra Gramsci e Adorno Anche il successo dei primi cantautori, ora artisti esteticamente validati con strategie di cultura alta, si delinea all’interno di un gusto popolare e dell’industria d’intrattenimento. Se pure gli intellettuali ascoltano le canzonette, quasi sempre non lo ammettono o sono restii farlo, o semplicemente non ne lasciano traccia scritta. Sono soprattutto i lavori di alcuni pensatori a dettare l’agenda dei pochi intellettuali interessati alla canzone del dopoguerra: Gramsci, de Martino e Adorno. I loro scritti non si dedicano direttamente alla popular music. La riflessione sulla canzone si sviluppa come campo secondario dei discorsi sulla cultura popolare e sul folklore prima, sulla cultura di massa poi. Quando compaiono interventi sulla musica leggera, è additata come termine negativo in una inevitabile opposizione con altri e migliori repertori più autentici, colti. Il pensiero gramsciano risulta di particolare influenza per la rivoluzionaria definizione di folklore che propone: non più elemento pittoresco, ma concezione del mondo e della vita in contrapposizione con le concezioni del mondo ufficiali. Gli sviluppi di questa intuizione sono la base della sintesi del concetto di cultura popolare come subalterna a quella dominante. La svolta più importante nell’approccio degli intellettuali alla popular music è conseguenza del profondo impatto delle opere di Adorno nel nostro paese dalla seconda metà degli anni ’50. Negli scritti del filosofo tedesco che coprono un periodo che va dal ’33 al ’53 circa, la popular music e il jazz perlopiù coincidono. Non tanto il jazz americano a lui coevo, ma la resa che ne davano le orchestrine tedesche e fonda il suo pensiero su una porzione musicalmente e geograficamente limitata della popular music a lui contemporanea. Grazie a lui però la critica italiana si dota rapidamente di nuovi strumenti teorici, di un nuovo lessico e di un nuovo quadro interpretativo. La riflessione degli intellettuali sulla popular music da un lato si basa su Adorno e una linea di stampo storico-filosofico; dall’altro su una vena antropologica che ha in Bartok, Lomax e nella concezione del mondo popolare di Gramsci e De Martino i padri spirituali. La canzone non è arte: snobismo e guilty pleasures Gli scritti sulla canzone sono piuttosto rari per tutti gli anni ’50; il primo Sanremo passa nell’indifferenza degli intellettuali, tanto in positivo quanto in negativo: appena sei critici musicali presenti e quasi tutti per motivi diversi dal solo Festival. La seconda edizione risveglia i primi interessi anche nella stampa, ma gli intellettuali rimangono poco interessati. La canzone rimane esclusa dai discorsi seri sulla musica, sulla letteratura o sulla società. Per tutti gli anni ’50 la canzone in Italia non è né può essere arte, è relegata in blocco al dominio dell’intrattenimento indipendentemente dai suoi esiti. I comunisti e la canzone Lo studio dei documenti ha confermato che non esiste traccia di una riflessione sulla popolarità della musica leggera, nonostante nella Commissione culturale del Partito vi fosse una sezione dedicata alla cultura di massa. Sul Contemporaneo e su Rinascita non appaiono praticamente articoli sulla popular music, mentre quelli che si trovano sull’Unità e su Vie Nuove sono spesso di segni polemico. L’unica eccezione è rappresentata da articoli che difendono i cantanti quando sono fatti bersaglio di censura o di attacchi moralizzatori. Altrove le argomentazioni contro la canzone cominciano a riguardare la sua natura non autenticamente popolare: si oppone un’idea di popolare come espressione della cultura delle classi subalterne, al popolare effettivamente gradito al popolo, il gusto popolare. Le programmazioni delle Feste dell’Unità sfruttano abbondantemente i cantanti di successo e quegli stessi artisti deprecati dai giornali di sx sono una presenza fissa di numerosi raduni e comizi di questi anni. La prassi per cui il PCI si serve dei big della canzone per attrarre pubblico è comune anche nei decenni successivi. È solo con la riflessione interna al Cantacronache e poi al NCI che si denunciano per la prima volta le contraddizioni del partito. Da metà anni ’60 si apre alla possibilità di attribuire un valore formativo alla popular music e di riconoscerne la funzione politica. Nel frattempo, tuttavia, altri intellettuali sono intervenuti sul tema e il sistema della canzone è già profondamente diverso da quello degli anni ’50. Diego Carpitella e la musica di consumo Nella scarsità di scritti specialistici sulla popular music negli anni ’50 Carpitella rappresenta un’eccezione, con un interesse sporadico ma costante, se pure in pubblicazioni non accademiche. I contributi più vecchi sono per la rubrica Musica che tiene dal ’53 su Noi Donne, rivista settimanale dell’Unione donne italiane. Torna spesso il richiamo alla canzone napoletana classica come termine positivo di paragone rispetto alla canzone italiana di quegli anni. Una costante del pensiero degli intellettuali sulla canzone è quello della canzone sospesa a mezz’aria, senza un suo pubblico, italiana ma slegata dalla cultura e dalla vita nazionale. Carpitella parla di musica di consumo, una musica da consumarsi, che fa da sfondo alla nostra esistenza; agisce a livello più emotivo che non razionale e il suo ascolto ci è più o meno coscientemente e volontariamente inflitto dai mass media. La usa come controparte di quella che è al centro del suo interesse: la musica popolare, propriamente detta. La musica popolare per lui è quella dei contadini, dei braccianti, dei pastori. La musica di consumo non ha legami con la musica popolare se non come imitazione. Massimo Mila Fra i più influenti musicologi negli anni ’50 in Italia, con rubriche fisse sull’Unità e sull’Espresso. Incontra la canzone dal pdv de conoscitore di musica colta e della quotidiana pratica professionale della critica musicale. Mila afferma che la canzone in Italia non ha un suo pubblico reale, perché le canzonette per la radio soffrono di anemia, perché la radio non è un pubblico, cui Mila oppone una canzone che deve invece trovare il suo spazio nella realtà, che lui identifica col Modugno dilettale, il blues, la chanson e poi il Cantacronache e le canzonidi Brecht. Per chi suona la canzone? Con argomenti diversi, con ragionamenti non del tutto convincenti o senza argomentare del tutto, si nega che la canzone italiana abbia un suo pubblico reale. Quando il pubblico è evocato è passivo e abbindolato dai media, sembra ascoltare musica contro la sua volontà. Il popolo ascolta quello che passa in radio, ma non la spegne. Se quello delle canzonette imposte della Rai è un regime, è un regime con un solido consenso. La canzone e le estetiche della realtà Zavattini e la canzone neorealista Le estetiche neorealiste sono al centro del dibattito culturale italiano già da prima della WW2 e vengono formalizzate nell’immediato dopoguerra nel cinema e nella letteratura. Questo genere di riflessioni, tuttavia, non tocca il campo della canzone fino alla fine degli anni ’50. La canzone non trova posto nell’agenda intellettuale neorealista perché in quel momento non è una forma d’arte. Il ritardo comporta anche che le estetiche del neorealismo comincino a riguardare la canzone in un momento in cui esse stesse appaiono in crisi nel cinema e nella letteratura. Zavattini parla in diverse occasioni di una canzone neorealista, descrivendone il tipo di realismo che dovrebbe perseguire: un realismo del quotidiano, della classe popolare, senza accondiscendenza e senza la ricerca a tutti i costi della miseria. Il Cantacronache Nasce come gruppo di lavoro e come rivista a Torino intorno al ’58. Vi prendono parte da subito figure di intellettuali diversi, fra i 20 e i 30 anni: Sergio Liberovici, Michele Straniero, Fausto Amodei, Margot, Emilio Jona, Giorgio de Maria. Dopo i primi concerti nei salotti buoni torinesi, cominciano le prime attività pubbliche: viene presentato un disco a 78 giri e vengono distribuiti fogli coi testi. Negli stessi giorni debutta lo spettacolo 13 canzoni 13 seguito da diversi concerti in circoli culturali. Esce poi il disco d’esordio sul mercato, l’EP a 45 giri Cantacronache sperimentale per l’etichetta Italia Canta del PCI. Le cronache di quelle prime uscite documentano come costante il riferimento al realismo. Nei racconti iniziali dei membri l’ispirazione iniziale non sembra rifarsi direttamente all’esperienza del neorealismo. Liberovici fa risalire la definizione del progetto a un viaggio in Germania in cui ebbe occasione di sentire le canzoni di Brecht. Il riferimento obbligato alla realtà è uno degli elementi di maggiore discontinuità delle canzoni del gruppo rispetto alla tradizione precedente, ed è il punto su cui il cantacronache insiste maggiormente nella formalizzazione di una sua poetica a partire dallo slogan “Evadere dall’evasione”. Per il Cantacronache la canzone è un mezzo più che un fine. L’elemento di maggior novità rispetto al passato è l’interesse politico per l’oggetto canzone, più che una qualche ambizione estetica al rinnovamento dello stesso. I testi di Cantacronache rivelano le diverse mani e i diversi stili personali dei molti autori, e il contributo a un’innovazione della lingua della canzone italiana è facilmente dimostrabile. Nella musica confluiscono idee e atteggiamenti molto diversi, portati avanti soprattutto da Liberovici e Amodei, unici due compositori di musica all’inizio. Le strategie per quanto diverse sono accomunate da uno sguardo critico ed ironico, come dimostrano alcuni brani, parodia dei cliché della canzone coeva (l’uso del giro di do). Il primo elemento innovativo è la scelta delle voci: l’interprete ideale non dev’essere solo un cantante, ma un personaggio. In una prima fase la scelta del gruppo ricade su interpreti dalla forte impostazione attoriale, in coerenza con l’ispirazione Brechtiana: il canto non è impostato, ma la dizione è teatrale. Dal ’59 il gruppo canta da sé le proprie canzoni, con le voci più caratterizzate di Liberovici e Amodei, in linea con la contemporanea tendenza dei cantautori. In direzione di un’estetica del realismo, un’altra rottura è quella nei confronti dell’arrangiamento. Nonostante ci siano alcune affinità fra Cantacronache e i cantautori loro coevi, non sembrano incrociare le proprie strade. L’appartenenza dei cantautori alla musica d’evasione e il movente politico che guida il gruppo torinese impediscono di scorgere i punti comuni fra i rispettivi risultati. Le canzoni del gruppo, con la parziale eccezione di Per i morti di Reggio Emilia, non raggiungono il grande pubblico: la loro distribuzione fuori dal mainstream non rende impossibile un vero successo. Se si esclude l’interesse suscitato in alcuni intellettuali, i riscontri ottenuti confermano come la diffidenza verso la canzone non fosse ancora superata. Anche sulla stampa di sx non brillano gli interventi relativi all’attività musicale del gruppo. Le canzoni della cattiva coscienza La parola fine all’attività del gruppo la mette un libro, Le canzoni della cattiva coscienza, firmato da Straniero, Liberovici e altri e uscito nel ’64. Il libro è la sistematizzazione e la radicalizzazione di pregiudizi diffusi negli anni precedenti. La canzone è ridotta a merce, inevitabilmente standardizzata nella produzione. Non deve mai proporre qualcosa pensare o da capire. In un contesto in cui la canzone è screditata, l’unico riconoscimento estetico può arrivare da una funzione politica, ma la musica di consumo non può avere un valore politico finché è nel dominio del mercato. È il primo libro sulla canzone scritto da intellettuali per intellettuali. La duratura influenza che ha avuto sul dibattito sulla canzone è ancora più singolare se si considera come alcuni commentatori dell’epoca avessero già rilevato i suoi numerosi elementi critici. Le canzoni della cattiva chiude un periodo: il ’64 è l’ultimo anno del miracolo economico, un anno di ripensamento delle tassonomie musicali in Italia. Lo chiude però contribuendo a cristallizzare nel linguaggio della critica colta e di sinistra alcune espressioni: canzone di consumo, canzone gastronomica e il concetto di evasione sopravvivono nell’uso dei critici per tutto il decennio successivo. Le canzoni dell’intellettuale e la canzone milanese A inizio anni ’60, stimolati dalle riflessioni degli intellettuali, dal Cantacronache e dal mercato discografico, alcuni compositori colti cominciano a interessarsi alle canzoni. Pasolini si interessa per la canzone da metà anni ’50, lanciando un appello dalla rivista Avanguardia auspicando un intervento di un poeta colto e magari raffinato per il miglioramento delle canzonette. Già nel ’55 aveva dato alle stampe il suo Canzoniere italiano, mostrando un interesse per i repertori del canto e della poesia popolare. Il repertorio teatrale che gravita intorno a Laura Betti, a Ornella Vanoni o a un certo modo di recuperare le canzoni di una volta verrà in seguito a costituirsi come un genere a sé, con convenzioni ben riconoscibili: la canzone milanese. Il luogo simbolico intorno a cui si articolano significati sia di milanesità, sia di novità musicale intellettuale è il nuovo Teatro Gerolamo. La scena teatrale milanese e il Gerolamo in particolare sono emblematici di alcune contiguità fra le diverse esperienze che concorrono in quegli anni a riprogettare la canzone italiana. Negli stessi anni del boom della canzone milanese il Gerolamo ospita i recital di Modugno e di Bindi. Vi si esibisce anche Maria Monti, che vi farà ritorno con Gaber e Jannacci. Molte delle canzoni nuove, neorealistiche e urbane che possono essere ricondotte al filone della canzone degli intellettuali o della canzone milanese hanno almeno due elementi in comune: l’essere concepite per il palcoscenico, per essere interpretare da un performer ben preciso in un contesto teatrale, non per essere incise o interpretate da altri. Se non provengono direttamente dalla raccolta sul campo, molte alludono in chiave intellettualistica a una qualche dimensione popolare, sia come stile sia come orizzonte ideologico. Si tratta sempre e comunque di un popolare interpretato dal pdv della borghesia intellettuale, una forma di distinzione cui non è ignota la ricerca del brivido della trasgressione. Anche la vocalità dei protagonisti della canzone milanese, che opera una rottura con la tradizione precedete e che è enormemente influente negli sviluppi successivi, si può forse spiegare in rapporto agli spazi teatrali da un lato e a una suggestione popolare dall’altro. È soprattutto intorno agli spazi teatrali milanesi e agli intellettuali che li animano che si sintetizza per la prima volta una nuova linea colta di canzone, una canzone nuova: popolare di ispirazione ma borghese nel gusto e teatrale nella realizzazione. Umberto Eco e la canzone diversa Interesse critico di Eco per la canzone intorno al ’63, con articoli su Rinascita e Sipario. Nel primo, critica i limiti delle politiche culturali comuniste, che mancano di un’analisi antropologica positiva dell’uomo in una società di massa. Occorre chiedersi quali esigenze profonde delle masse soddisfano questi prodotti e se è possibile soddisfarli in altro modo. Eco parla della necessità di comprendere le ragioni dell’esistenza e del successo della canzone di consumo: serve a evadere, dunque l’evasione deve avere una sua ragione d’essere. La canzone diversa può essere un prodotto di massa e per la massa, non necessariamente deve essere operazione colta di intellettuali per intellettuali. La massa non è qualcosa di astratto e indistinto, l’intellettuale non deve odiare la massa perché ognuno di noi bene o male ne fa parte. La musica popolare e il Nuovo Canzoniere Italiano I confini della “vera” musica popolare non esistono fino a prima degli anni ’50. Prendono forma in parallelo alle prime campagne di registrazione di musicisti e cantori in contesti rurali che si avviano per opera di De Martino, Lomax e Carpitella. È la scoperta della ricchezza e della varietà dei materiali musicali e coreutici del mondo contadini a cambiare la prospettiva dei ricercatori e degli intellettuali che si interessano al tema e a ridefinire le aspettative e le estetiche connesse col popolare. Non si tratta solo di scoprire musiche o pratiche musicali di cui si ignorava l’esistenza: si tratta anche di che cosa si cerca e di come lo si cerca. La musica popolare diventa non solo altro, ma altro antagonista della musica delle classi dominanti e della musica di consumo. In questo periodo si avvia un interesse sistematico nei confronti della musica del mondo popolare. Questo movimento, che dai primi ’60 sarà organizzato intorno all’attività del NCI, è andato sotto il nome di folk music revival. Il termine in Italia è venuto a indicare quell’esperienza, storicamente delimitata e saldamente ancorata a una precisa sequenza di eventi e a un canone di nomi. Nasce nel ’62 il NCI ed esce il primo numero della rivista omonima e il cui titolo vorrebbe richiamare i vecchi canzonieri sociali a stampa. Il progetto, destinato a essere il principale protagonista e il detentore delle narrazioni egemoni su di esso, scaturisce dall’azione combinata di alcuni intellettuali già protagonisti sulla scena musicale milanese e torinese. Gianni Bosio: socialista, organizzatore di cultura, fondatore della rivista Movimento operaio e poi Avanti! Roberto Leydi: critico di jazz su Avanti! È in contatto con Lomax e pubblica il volumetto Ascolta, Mr. Bilbo che raccoglie alcuni testi di canzoni di protesta del popolo americano. Intorno a Bosio, Leydi e il NCI si radunano numerosi studiosi, musicisti e ricercatori interessati al canto popolare. Nello stesso ’62 debutta anche un primo spettacolo, L’altra Italia. Canti del popolo italiano, con le voci di Amodei, Straniero. La frattura col Cantacronache è però immediata: Liberovici e altri lasciano quasi subito. Al NCI partecipano figure professionali e intellettuali diverse, musicisti interessati alla riproposta, ricercatori, organizzatori di cultura. Per quanto si possa riconoscerne una linea, lo studio dei molti prodotti restituisce un dibattito articolato, talvolta inasprito da questioni private. Il primo numero di NCI contiene senza soluzione di continuità canzoni politiche portoghesi, spagnole, un profilo di Amodei e alcune sue composizioni, un brano di Liberovici, un canto di mondine e brani su temi di attualità. Il denominatore comune va riconosciuto nel filone del documento politico e nelle intenzioni di esplicita provocazione che questi brani esprimono. La ricerca della rottura col repertorio di consumo avviata dal cantacronache e portata avanti dagli intellettuali appare funzionale. Nel ’64 il successo polemico di Bella Ciao al Festival dei due Mondi di Spoleto conferma come la via della provocazione sia quella giusta. Anche qui la selezione dei materiali a cura di Leydi è piuttosto eterogenea: incisioni di Lomax canti di lavoro e protesta, brani della WW1 e alcuni falsi popolari. Contestualizzano il tutto due diverse versioni di Bella ciao, una dei partigiani e una delle mondine, a lungo ritenuta l’originale. Lo spettacolo è un manifesto dell’ideologia della musica popolare portata avanti dal NCI e una summa di quanto era stato fatto fino a quel momento. L’idea forte dietro allo spettacolo è la provocazione nella messa in scena di questi materiali, proposti come la vera musica popolare e interpretati con voci autentiche, soprattutto in un contesto alto-borghese. La polemica garantisce allo spettacolo una visibilità altrimenti irraggiungibile e conferma qual è la strada giusta da seguire. Lo spettacolo si guadagna una lunga serie di repliche in tutta Italia, il disco ottiene un ottimo riscontro di vendite, contribuendo ad affermare questo repertorio in un pubblico non intellettuale e non interessato al dibattito sulla cultura popolare. Il folk revival passa in un primo momento soprattutto attraverso una mediazione teatrale. Il folk revival si sviluppa in parallelo alla crescita di interesse per quel tipo di musica da parte di un certo tipo di pubblico urbano. Il buon successo dei dischi e degli spettacoli impone uno standard sonoro e un duraturo modello vocale. La produzione die Dischi del Sole sembra continuare sulla linea già tracciata dal Cantacronache: diffidenza verso le tecniche di studio, rifiuto dell’arrangiamento. A partire da Bella Ciao si impone uno standard di arrangiamento voci-chitarra. Definire una nuova canzone Il denominatore comune della provocazione contribuisce a tenere insieme per i primi anni le diverse anime e i diversi esiti del NCI. Se nella pratica degli spettacoli sembra funzionare, pone tuttavia qualche dubbio teorico, in particolare nel rapporto che il materiale popolare riscoperto deve intrattenere con le esperienze intellettualistiche e borghesi delle canzoni di nuova composizione. I primi anni sono anche quelli in cui si cerca di arrivare alla sintesi ideologica della nuova canzone e alla progettazione delle linee guida di come deve essere composta e suonata. L’eterogeneità dei materiali è un imbarazzo per le ambizioni di scientificità e rigore metodologico che il NCI si pone dall’inizio: uno specifico italiano del folk revival si delinea anche per la necessità di superarlo. L’espressione nuova canzone comincia a comparire dal ’64. A differenza di Eco, la nuova canzone che auspica Leydi non è definita in negativo ma in positivo, come realista, impegnata e politica. Questa nuova canzone deve fondarsi sul collegamento organico fra volontà di innovare formalmente la canzone e il movimento scientifico-culturale impegnato nella ricerca e nello studio del mondo popolare. La nuova canzone di Leydi è controparte urbana e operaia del repertorio contadino riscoperto. Rappresenta la continuazione della ricerca sul campo. Leydi abbandonerà il NCI dopo questo contributo. Il dibattito prosegue nei mesi successivi. Bosio propone di rompere il rapporto autore-canzone affidando le nuove canzoni a interpreti diversi, anche promuovendo delle formazioni che possano verificare la loro efficacia sul campo. Le ambizioni utopiche di una nuova canzone popolare e politica in questi termini si scontreranno con la realtà del gusto del pubblico. Quella teorizzata dal NCI è una canzone che evita con metodo ogni tentazione d’evasione, che cerca di superare le modalità intellettualistiche precedenti e allo stesso tempo che è delimitata da poetiche ed estetiche diverse da quelle della popular music coeva. MUSICA NOSTRA, BEAT E FOLK: GENERI E GIOVANI Media e comunità giovanile Nel giro di un paio di estati fra ’63 e ’64 vengono meno l’ondata di crescita economica e gli auspici per il riformismo del centro-sx; nell’ambito delle pratiche musicali si assiste a una sorta di lunga onda delle innovazioni tecnologiche, di consumo ed estetiche avviate negli anni precedenti. Sono anni che sembrano essere una sorta di preparazione a quello che arriverà dopo, ma sono anche anni di continuità col periodo precedente, ad esempio con le stagioni musicali scandite dall’arrivo dei nuovi balli. Sanremo è il principale riferimento dell’industria musicale; i jukebox e i45 giri impazzano; il successo dei Beatles e di altri gruppi inglesi modifica le geografie della popular music globale, mettendo al centro l’Inghilterra e trasforma il rapporto dei giovani con la musica. Poco successivo è il boom italiano del folk e di Bob Dylan: la figura del cantautore ne esce rivoluzionata e così le aspettative a essa connesse. Su questo nuovo sfondo, i caratteri più italiani della canzone sanremese appaiono ancora più retrò. Il rinnovamento delle categorie con cui si classifica e valuta la musica a metà anni ’60 si consuma per intero nel campo delle musiche giovanili. È il primo momento in cui si può parlare di una comunità giovanile italiana dotata di un’autocoscienza di sé. La prima ondata di r&r aveva lambito soprattutto i ceti medio alti e i grandi centri urbani; l’ondata successiva instaura un collegamento ampiamente condiviso a livello generazionale fra un genere e una generazione. È solo nei primi anni ’60 che si assiste alla prima epifania del giovane come nuovo soggetto sociale. Questo inedito protagonismo giovanile è strettamente connesso con la rappresentazione del fenomeno che gli strumenti di comunicazione diedero di questi comportamenti. La costruzione sociale di una classe giovanile è un fenomeno mediale. Se l’industria cinematografica e discografica immettono sul mercato prodotti per i giovani, la tv e la radio arrivano con un po’ di ritardo a causa della loro vocazione ecumenica e rassicurante, ma ancora più in ritardo arrivano le riviste per adolescenti e giovani a carattere popolare e leggero, che arrivano solo nel ’63. Fino ad allora Sorrisi e canzoni o Il musichiere ospitavano articoli sui giovani, ma erano riviste pensate per tutta la famiglia. Le riviste per i giovani si affermano con grande rapidità, a dimostrazione di una domanda già esistente. Il loro sviluppo si può spiegare anche in parallelo alla crescita del livello di scolarizzazione e alle innovazioni nella scuola. L’inizio della scolarizzazione di massa promette agli imprenditori del settore culturale di poter disporre di un numero maggiore di giovani alfabetizzati nel giro di pochi anni. La prima rivista del settore, Ciao amici, comincia le pubblicazioni a fine ’63. Viene lanciata come mensile ma nel giro di un paio d’anni diventa settimanale. Nel ’65 debutta Big con un target leggermente più maturo e un tono più spregiudicato. Nel ’67 l’assorbimento di Ciao amici da parte della Balsamo unisce le due testate: Ciao Big poi Ciao 2001, diventando una delle riviste di musica più popolari degli anni ’70. La differenza di queste riviste rispetto a quelle degli anni precedenti è netta e riguarda: il target, lo stile di scrittura, l’organizzazione dei contenuti. Ciao amici, Big e Giovani sono riviste interattive, che aprono spazi fino ad allora impensabili alla collaborazione dei lettori. La rubrica delle lettere non era una novità, ma lo è l’ampio spazio che queste riviste vi dedicano; si compilano classifiche discografiche basate sulle preferenze, si ospitano inserzioni per scambiare dischi e per trovare amici di penna e anche rubriche di consigli sentimentali. L’interattività riguarda spesso anche il lavoro dei giornalisti: spesso le redazioni accolgono in sede ospiti famosi, ritratti in foto. È in questi contesti che nasce la professione del critico pop in Italia. Se le firme di Sorrisi e canzoni erano poco più che nomi ricorrenti, quelle di Big e Ciao Amici diventano personaggi da seguire, talvolta anche in radio, ognuno con un proprio stile, gusto e specializzazione. Oltre allo spazio virtuale, le riviste costruiscono il proprio seguito anche nel mondo reale, organizzando club di supporter e favorendo appositi meeting. Anche in conseguenza del successo di queste testate e in collaborazione con esse, la Rai decide di varare le prime trasmissioni dedicate ai giovani: Bandiera Gialla, condotta da Arbore e Boncompagni debutta nel ’65; dal ’66 debutta anche Per voi giovani mentre il cantautore Herbert Pagani trasmette su Radio Montecarlo uno show in italiano con target analogo, Fumorama, ritrasmesso anche da Radio Capodistria. Per fidelizzare la propria audience, queste trasmissioni mettono in atto strategie interattive analoghe a quelle delle riviste. Che la popular music abbia un ruolo centrale nel nuovo protagonismo dei giovani italiani è da subito riconosciuto anche da alcuni intellettuali. Nel gennaio ’64 L’Europeo aveva avviato una serie di articoli su gusti e stili di vita dei giovani italiani. Anche Leydi rivela subito il legame speciale che si sta instaurando fra giovani e le loro canzoni e notando un dettaglio importante: i giovani in quel momento si immaginano come una comunità, sono una generazione nuova e diversa. Un elemento fondamentale di questa autorappresentazione è quello che Leydi definisce orgoglio, l’appartenenza a una comunità giovanile. Un indizio di questo sentimento è l’espressione molto in voga di “musica nostra”. La musica nostra È un’etichetta di genere che compare con frequenza nelle pubblicazioni per giovani, l’idea si basa sull’assunto che esista una musica loro, degli adulti. La musica nostra è definita in modo esclusivo: è musica rigorosamente riservata ai giovanissimi. Il mondo adulto si sovrappone da subito col sistema dei media e coi luoghi tradizionali della promozione musicale, accusati di non tener conto del gusto dei giovani (Rai, festival, discografia). Una delle strategie di validazione più diffuse riguarda la popolarità di un’artista o di un brano: è valutato positivamente quello che ha successo e quello che ha successo è quello che piace ai giovani. Questo modo di pensare la musica ha conseguenze dirette anche sulle strategie di marketing: le pubblicità dei dischi insistono costantemente sul successo acquisiti. Nel ’64 viene lanciato il Festivalbar e a differenza di altre manifestazioni estive, premia direttamente i brani più gettonati sui jukebox. In assenza di altri parametri critici per valutare la popular music, le riviste valutano positivamente la musica che piace ai giovani, contribuendo a loro a volta a definirne il campo. La costruzione di un’estetica della musica giovanile avviene anche attraverso strategie linguistiche e retoriche originali, ben riconoscibili tanto sulla radio e in tv quanto sulle riviste musicali. L’uso della categoria musica nostra sulle riviste è accompagnato quasi sempre da un noi retorico. La riproduzione della lingua parlata è un’altra caratteristica ricorrente dello stile giornalistico in quanto strategia per suggerire la verità del discorso. I modelli ideologici della musica nostra L’associazionismo cattolico nel dopoguerra riguadagna una posizione di egemonia nella gestione del tempo libero, forte di una diffusione capillare nei piccoli centri e soprattutto per la fascia d’età dell’infanzia e dell’adolescenza. L’interesse riguarda anche la musica, tuttavia negli anni in cui si avvia la costruzione di una comunità giovanile in Italia, si assiste alla lenta erosione dell’influenza della Chiesa su di essa. In questi anni si crea una nuova forma di associazionismo giovanile autogestito, che attecchisce soprattutto in provincia, lontano dai grandi centri di cultura. L’associazionismo giovanile basato sulla condivisione di ascolti musicali, sul ballo o sul fare musica insieme diventa una costante a partire da questi anni, grazie anche al contributo delle riviste, che tuttavia hanno punto di contatto col mondo cattolico. La medesima compresenza di elementi giovanilisti e cattolici è facilmente riconoscibili in alcune canzoni dell’epoca, come nel caso di Celentano. Nel ’62 esce Pregherò, cover di Stand by me. Esce poi un seguito, Tu vedrai, altra cover di Ben E. King. Ciao ragazzi, uscita nel ’65, esprime l’idea del collettivo nel testo e nella costruzione musicale. A testimonianza ulteriore di come esista un punto d’incontro fra musica giovanile e contenuti religiosi, si può riconoscere in questi anni un filone di brani a tema nel repertorio di gruppi beat, come I Giganti o I Nomadi. I gruppi e l’immagine del gruppo L’idea solidaristiche che attraversa e struttura la musica giovanile si associa alla crescita dei gruppi a scapito dei solisti. La ricezione in Italia delle innovazioni impresse dai Beatles alla popular music globale è strettamente collegata con la retorica del collettivo promossa dai media a target giovanile. I Beatles scrivono e cantano la loro musica senza l’ausilio di turnisti: un’innovazione ideologia oltre che tecnica e che contribuisce all’adozione di questo modello anche in Italia. Il successo dei Beatles segna anche l’inizio della fine del modo di pensare la musica come “ritmi” e contribuisce alla crisi definitiva delle grandi orchestre da ballo. Dal ’65-’66 si assiste a una rapida ascesa dei complessi beat sulla scena italiana: Equipe 84, Rokes, Camaleonti, Dik Dik, Giganti, Pooh, New Trolls. Molti di questi complessi eseguono cover di brani di successo inglesi o americani, perpetuando una prassi consolidata già negli anni ’50: si percepisce una parte degli introiti del brano originale. Nelle città la moda dei complessi si afferma quasi subito e facilita l’emergere di un ricco movimento sotterraneo di gruppi, mentre nei piccoli centri si afferma più lentamente. Il successo dei gruppi coincide anche col declino dei cantautori. Il loro appeal è già in calo nel ’63: non sono più l’ultima moda e sembrano essere diventati un fenomeno nostalgico e di retroguardia. Fino a quel momento in Italia non era comune scrivere testi in prima persona plurale, cosa che diventa comune invece per i gruppi beat. Un’altra novità è l’uso dei cori: a Sanremo non si armonizza quasi mai, se ci sono altre voci non competono col solista. Il coro nei gruppi non serve solo ad abbellire la melodia, ha piuttosto la funzione di rinforzarla, di sottolineare l’hook del pezzo. Tema dei Giganti è addirittura costruita su 4 strofe ognuna affidata a un membro diverso del gruppo, ognuno con la propria voce, personalità. I significati comunitari sono veicolati anche dall’apparato iconografico: i complessi sono spesso fotografati vestiti tutti uguali, con gli strumenti. Fra beat e folk L’etichetta in uso oggi per definire la musica italiana di metà anni ’60 è beat, anche se all’epoca erano comuni espressioni come musica dei complessi, apparsa già su Big e Ciao amici intorno al ’65-’66. La scelta del termine sovrappone due riferimenti estetici lontani fra loro: la musica della British invasion e la beat generation. Beat come etichetta di genere ha anche un riferimento tecnico-formale: la centralità della componente ritmica, distintiva della musica proveniente dal Regno Unito in questi anni. Il folk italiano: Leydi contro Dylan La complessità dei significati associati col concetto di beat è complicata dalla sua sovrapposizione con un’etichetta in voga nello stesso periodo e con significato simile: folk. A inizio decennio il folk in Italia è monopolio d’élite politicizzata che fa capo al NCI. Intorno al ’65-’66 il termine è in tutt’altro contesto, su riviste per adolescenti e sui rotocalchi a grande tiratura come omologo di beat e musica nostra. Il folk festival di Torino del ’65 è un momento importante nel folk italiano: oltre a due serate in teatro è prevista una giornata all’aperto, con una dimensione da festival inedita in Italia; inoltre permette di documentare la penetrazione del folk presso un pubblico non specializzato, non intellettuale e non borghese. L’organizzazione è curata dall’Università di Torino e il NCI vi partecipa, ma in generale sono diverse le ambizioni come è diverso il pubblico. Intorno al ’65 si assiste a una rapida crescita di interesse per il folk fino a quel momento rimasto relegato a contesti teatrali e borghesi. La copertura della stampa permette anche di dare la circolazione al termine folk in contesti generalisti. Per gli studenti che organizzano il festival il significato di folk di deve situare in un triangolo i cui vertici sono i 3 filoni che compaiono nel nuovo programma: nuova canzone (autori più aggressivi e provocatori), revivalisti (NCI) e informatori (esponenti del mondo popolare). C’è una diversa idea di folk che si sta affermando: in quegli stessi anni arrivano in Italia il folk di Dylan, dei Byrds o di Donovan. Musicisti che condividono radici e ispirazione col folk politico del NCI, ma difficilmente compatibili nel ’65-’66. Il pubblico giovanile fruisce le musiche dell’ambito del folk revival, anche del NCI, come musiche popular, indipendentemente dal discorso metodologico che ne informa la riproposta. Da subito uno degli obiettivi del NCI è rivendicare l’originalità dei caratteri del movimento revivalistico italiano, contro il rischio della sua mondanizzazione e riduzione a fenomeno commerciale. Dal canto loro i giovani italiani ascoltano, apprezzano e catalogano come folk anche alte musiche, con aspettative moto differenti. Ancora una volta, il ritardo con cui le novità musicali americane vengono diffuse in Italia si traduce in differenze nella ricezione: Dylan comincia a essere noto solo dopo la svolta elettrica del ’65, viene confezionato come icona rock. La moda del folk Nell’autunno ’66 cominciano ad apparire con frequenza in Italia brani di ispirazione dylaniana e americana. Il successo maggiore è C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones, che cita i due gruppi inglesi elevandoli a simbolo dell’identità giovanile. Il fatto che un teen idol come Morandi registri un brano con riferimenti al Vietnam e alla morte di unsoldato americano segna l’ingresso di canzoni a tema impegnato nel mainstream italiano. Brani come questo o Brennero ’66, Chitarre contro la guerra sono in linea con l’ideologia apartitica, pacifista e di ispirazione cattolica tipica delle riviste giovanili di quegli anni. Allo stesso tempo queste canzoni sono criticate da sx perché non autentiche, un folk venduto al capitale. Insieme allo sdoganamento di tematiche vagamente impegnate, si stilizza come folk un sound basato su ritmica di basso e batteria e chitarra, spesso a 12 corde. Linee verdi, rosse, gialle Manca ancora una riflessione su questa tendenza e la innesca quasi subito Mogol, seguito da musicisti, critici e intellettuali. È una riflessione che avviene nel segno di un bricolage ingenuo di ideologia cattolica, pacifismo, solidarismo. Era uno dei parolieri più richiesti e quello di riferimento per il mondo beat. Forte di questa posizione nel ’66 può promuovere una specie di poetica, teorizzando una Linea verde della canzone italiana con l’obiettivo di superare la pars destruens della denuncia e della protesta, esaltando i valori della fratellanza non violenta e di un solidarismo pacifista. I campioni di questa controprotesta sono Rokes, Patty Pravo, Battisti, Dik Dik e Celentano. Nel giro di pochi mesi nasce una Linea rossa, formalizzata in esplicita opposizione dal NCI contro il pacifismo generico e il solidarismo apartitico. Esce anche una serie di 45 giri oltre a un bollettino dallo stesso titolo. La linea rossa è coerente proseguimento di quel filone di nuove composizioni politiche promosse dal NCI fin dai suoi primi anni. Viene rivalutata l’idea di opporsi alla musica di consumo usando le sue stesse armi: il 45 giri, con grafiche pop. Il tentativo di rivolgersi a un target giovanile è confermato dalle scelte musicali: tutti i dischi contengono almeno un brano arrangiato in uno stile simile al beat. Le incisioni suonano tecnicamente povere, di bassa qualità e con arrangiamenti di scarsa inventiva, ma per seguire la via di quello che si presume essere il gusto giovanile, questi musicisti- intellettuali cedono in parte alla pratica dell’arrangiamento. L’INVENZIONE DELLA CANZONE D’AUTORE Il festival di Sanremo del ‘67 Ricordato per il suicidio di Tenco, poche ore dopo l’esclusione della sua Ciamo amore ciao dalla fase finale del concorso, lasciando un biglietto che accusa il pubblico italiano e la direzione del Festival. Gli anni fra il ’67 e la fine del decennio sono uno snodo fondamentale della canzone italiana e il Festival del ’67 è il momento chiave di questo passaggio. Quelli dal ’64 al ’67 sono gli anni di internazionalizzazione del Festival, l’età più bassa dei partecipanti e il sostanziale ricambio generazionale a cui si assiste confermano il legame fra i cambiamenti nella canzone italiana post Modugno e il crescere del peso del pubblico giovanile. È il momento in cui si sviluppa l’idea della canzone da Sanremo, la canzone che si discosta dal normale repertorio di un musicista per andare nella direzione di un gusto sanremese codificato, distinto soprattutto da quello giovanile.
Luigi Tenco, ex cantautore
Fra i “nostri” del Sanremo ’67 di cui si parla su Big c’è anche Luigi Tenco, che ha esordito anni prima pubblicando meno dei suoi compagni alla Ricordi e che non ha avuto il successo di pubblico di Gaber, Paoli, Bindi e Endrigo. Per quanto sia un cantautore, non è identificato con quel gusto un po’ retrò e individualista. L’arrivo di Tenco in Rca nel ’66 coincide con il primo successo italiano di Dylan e con la nascente moda del folk. È allora ragionevole che più come cantautore la casa pensi a lui come a un potenziale investimento nel nasceste settore di mercato del folk italiano. Tenco vede nel contratto la possibilità di un successo commerciale che gli è sempre sfuggito. Nel ’66 si prende sulle riviste giovanili tutti gli spazi che non gli erano stati concessi prima. L’immagine che di lui viene proposta è diversa dai primi cantautori, è più vicino a un cantante beat, un potenziale idolo dei giovani. Per Big è l’unico cantautore a essere rimasto in linea coi tempi e lui stesso definisce i suoi colleghi dei decadenti. Le innovazioni di linguaggio nelle canzoni di Tenco si manifestano con una rimozione degli elementi più poetici dai testi e in questa direzione sembrano andare anche il ricorso alla seconda persona singolare e la costruzione della canzone come rivolta a un destinatario immaginario (Ragazzo mio, Io lo so già). È facile ricollegare queste scelte retoriche alle coeve tendenze della musica giovanile e dei complessi: molte strategie ricordano il filone ecumenico-cattolico del beat. Dal pdv musicale c’è un momento di discontinuità nella produzione attorno al ’64-’65. Alcune delle canzoni più esemplificative degli anni alla Ricordi sono costruite al piano, su schemi accordali di ispirazione jazz, da crooner. Brani del periodo Rca sono composti alla chitarra su loop di accordi più in linea col coevo gusto folk. Il tema di Ciao amore ciao è quello dell’emigrazione, mascherato all’interno di una canzone d’amore con un hook di facile presa. Per quanto i commentatori abbiano rimarcato l’elemento di rottura nel presentare a Sanremo un brano del genere, in realtà il soggetto è profondamente radicato nella tradizione della canzone all’italiana. Diverso e innovativo è il modo in cui Tenco svolge il tema: con un linguaggio asciutto, supportato da uno stile di canto altrettanto asciutto e distaccato. La struttura è ibrida e sembra coniugare una formula da song americano con una da ballata. Anche l’arrangiamento sembra tenere insieme mondi diversi. Dopo il ’67: la fine della musica nostra Secondo alcune versioni (tra cui quella del Festival) Tenco è un individuo fragile, un falluto in crisi. A dx viene visto come epitome della crisi dei valori della nuova generazione. Per una parte della stampa di sx è un martire della società di massa. Il suo gesto viene interpretato come atto di accusa al sistema. Sul suo caso si registra un sostanziale silenzio da parte di molte firme che in quegli anni si occupano di canzone. Fra le conseguenze della sua morte c’è l’attivazione di un certo tipo di attenzione verso la canzone in ambienti di sx altri da quelli che fino a quel momento se ne erano occupati. L’impatto sulla comunità giovanile è immediato, profondo. Il frame della vittima del sistema viene adottato quasi subito dalle riviste per giovani. Su Big e Ciao amici la sua morte è descritta come la morte di un amico: Tenco era veramente amico di numerosi operatori e musicisti, ma è anche un amico nel senso che quel termine ha nel contesto delle riviste per giovani. Più che quotidiani e altri media sono le riviste per giovani a attribuire alla morte di Tenco una valenza simbolica, già all’indomani della fine del Festival. Il campo della musica leggera si è di colpo fatto serio, e le categorie e le estetiche disponibili appaiono inadeguato a descriverlo e comprenderlo. Il club Tenco di Venezia Se la crisi giovanile post ’67 è soprattutto una crisi di estetiche e categorie, il club Tenco di Venezia e poi quelli di Sanremo e altre esperienze simili sono una delle risposte a questa crisi. La loro iniziale ispirazione e lo stile in cui immaginano la loro comunità di riferimento possono coerentemente essere fatte risalire anche alle pagine delle riviste per giovani che forniscono un primo e fondamentale modello di stile e parametri di un’estetica. Il Club Tenco di Venezia nasce nel maggio ’67 e la fondatrice Ornella Benedetti scrive una lettera a Big proponendosi di raccogliere le poesie dedicate a Tenco che la rivista sta ricevendo. Una delle prime iniziative è proprio la stampa del libretto collettivo In ricordo di Luigi Tenco. La sensazione è quella di trovarsi davanti all’elaborazione del lutto per la scomparsa di un amico più che di un cantante di successo. L’omogeneità di stile che caratterizza il libro è sorprendente, se si pensa che gli autori provengono da tutta Italia. È la conferma di un’uniformità del sentire da parte dei giovani italiani, di un sentimento comunitario, ma anche dell’esistenza di una lingua comune. La canzone d’autore prima di “canzone d’autore” Gli intellettuali non hanno mai veramente ritenuto il Festival un possibile spazio per una canzone di qualità e la morte di Tenco e il mutato contesto culturale e politico hanno definitivamente squalificato Sanremo anche agli occhi della comunità giovanile. Le nuove estetiche della canzone post ’67 devono essere costruite in uno spazio altro dal Festival, lontane dal mercato che rappresenta. La costruzione di una canzone diversa a fine anni ’60, ideologicamente altra dal sistema di mercato e dalla tradizione della canzone italiana e con determinate caratteristiche di autenticità e poeticità passa attraverso una crisi d’identità, ben rappresentata dalla compresenza di diverse etichette di genere in competizione fra loro. Cantautore rimane in auge nel significato di autore delle proprie canzoni ma anche con connotazioni di intelligenza. L’opera di Tenco può ora venir ricondotta a questa esperienza, cosa che avveniva meno negli anni precedenti. Nasce in questo periodo l’idea di una scuola di Genova con poetiche coerenti. Nel dicembre ’69 Enrico de Angelis scrive su L’Arena di Verona un articolo su Tenco e nell’occhiello del testo usa l’inedita dicitura canzone d’autore. Il termine ritorna anche una decina di giorni dopo nel seguito del pezzo, dedicato a De Andrè. Tuttavia la locuzione non comparirà più per qualche anno, sarà ripescata poi dal Club Tenco di Sanremo dal ’72 e si affermerà nel ’74. Una nuova leva di cantautori, fra arte e commercio Fra il ’67 e metà anni ’70 emerge in Italia una seconda generazione di cantautori, destinata a costruire il primo canone della nuova canzone d’autore: Guccini, De Gregori, Venditti, Vecchioni, Bennato, Gaetano, Graziani, Branduardi. Il disco a 33 giri comincia ad affermarsi in questi anni prima come raccolta di singoli poi come opera più o meno organica, permette ai musicisti lo sviluppo di un discorso musicale più ampio o di progettare concept album. Il grande formato, la grafica, la foto di copertina influenzano le pratiche di ascolto legate a questi nuovi oggetti, ora rivolti anche ai giovani. Un ascolto silenzioso, spesso associato a vario materiale paratestuale: testi, commenti, interviste, note di copertina. L’importanza del nuovo formato rende ancora più palese come i luoghi canonici del circuito discografico (Sanremo su tutti) siano inadeguati per questo tipo di offerta musicale. De Andrè costruisce il suo successo e la sua fama grazie agli lp ed è il primo cantautore a farlo. L’immagine del cantautore che merge è quella del vero artista, alternativo e colto. Anche Gaber ridefinisce la propria figura, virando verso una forma di spettacolo teatrale ben calato nella linea del cabaret milanese in quegli anni, spostandosi in un ambito culturalmente accreditato, rompendo col suo passato leggero. Altri cantautori esordiscono in contesti alternativi, su tutti il Folkstudio a Roma, dove cominciano la carriera De Gregori e Venditti. Un elemento in particolare sembra accomunare i protagonisti di questa seconda generazione di cantautori: nessuno si presenta come un professionista: Vecchioni è un professore, Guccini è già un autore di successo, De Gregori e Venditti sono studenti universitari, Bennato è un architetto, Jannacci è un chirurgo. Un’insistenza su questi elementi di non professionismo è presente anche nelle strategie di marketing delle case discografiche. Non essere professionisti è indice di autenticità, libera dal dipendere economicamente dall’industria musicale. È la prova più evidente della propria distanza dal mercato. Il problema da affrontare riguarda come e dove questi nuovi cantautori possono agire senza perdere quell’autenticità necessaria alla loro definizione. Il Club Tenco nasce proprio per offrire una soluzione a questo problema: costruire uno spazio spettacolare con regole diverse, un luogo simbolico per una tradizione che non può riconoscersi e ritrovarsi in Sanremo e negli spazi canonici del mercato. Il Club Tenco di Sanremo Si costituisce ufficialmente nel ’72 ma molte delle riflessioni alla base sono già in corso negli anni precedenti. L’idea iniziale si delinea senza contatti con l’esperienza veneziana, di cui il fondatore Rambaldi viene a conoscenza solo a inizio ’72. I due Club si gemellano. Rambaldi è ben calato nel dibattito lui contemporaneo, che tuttavia gli arriva filtrato e che lui stesso filtra secondo il suo gusto personale. Non è un intellettuale, si occupa di canzone per diletto. È a lui che si deve la scelta della locuzione “canzone d’autore” per definire l’area di interesse della sua Rassegna. Il termine sanziona una serie di convenzioni già ampiamente condivise, che specificano il campo semantico di cantautore e lo separano definitivamente da quello della musica leggera. Il primo canone della canzone d’autore Rimbaldi e i suoi stanno cercando di definire l’oggetto di una manifestazione dedicata a quella che non è ancora univocamente definita come canzone d’autore e lo fanno a partire dai contenuti. L’idea che al centro debbano esserci i cantautori è fuori dubbio. Tutto sta in che interpretazione si dà del concetto: nei primi ’60 i primi esponenti erano stati definiti con connotazioni di intelligenza e non solo come autori delle proprie canzoni. Il problema dell’autorialità effettiva non è così un problema: si parla di Dalla, Bindi o De Andrè che vantano numerose collaborazioni, ma viene escluso Battisti perché troppo commerciale, per i suoi rapporti con Mogol. Le convenzioni di genere della nuova canzone d’autore vengono strutturate a partire da una riproposta dell’ideologia dell’autorialità che aveva contribuito alla costruzione del concetto di cantautore nel ’60, che però ora implica un rapporto oppositivo nei confronti del mercato, un certo impegno civile e politico e persino un certo sound. La soluzione del Tenco: un nuovo spazio, nuove regole Da un fronte si propone un festival con tempi televisivi, dall’altro si rifiuta in blocco la dimensione dell’intrattenimento e si avanza la proposta di un formato di esibizione diverso, con 10-15 minuti di spettacolo. L’accordo c’è sulla dimensione non competitiva della gara, che deve rompere coi cani del pop e di Sanremo a favore di una autenticità esplicitata, che metta in risalto il testo a scapito di soluzioni musicali e arrangiamento. Fallita l’ipotesi di tenere la Rassegna nel ’72, il dibattito rimane congelato e quando il Festival torna in agenda nel ’74 la situazione è in parte diversa. Alcuni cantautori esordienti hanno debuttato su lp o inciso altri album, diventando potenziali nomi di richiamo e la Rai si è defilata. La rassegna può così essere messa in cantiere con caratteri più compatibili con quelle ambizioni di purezza richieste dai veneziani. Il cast del ’74 punta di più su cantautori di nuova generazione: Branduardi, Graziani, Guccini, Vecchioni, Venditti. I premiati sono Gaber, Modugno ed Endrigo (assenti) e Paoli. La prima edizione è criticata perché troppo commerciale: l’Ariston, i cantautori alternativi, i biglietti a prezzi popolari, le vallette, i presentatori, l’essere a Sanremo, trasmettono immagini contraddittorie. Alcuni le interpretano come una simbolica occupazione del tempio, altri come un compromesso col sistema. Buona parte della copertura stampa favorisce la prima, la Rassegna viene descritta come uno spazio nuovo, basato su valori di amicizia e condivisione, com’era nell’idea di Tenco. Una delle chiavi del successo della Rassegna e il maggior elemento di discontinuità col Festival è la dimensione non competitiva, compatibile con l’idea di non professionismo e l’individualismo dell’ispirazione dei cantautori. I premi sono attribuiti in anticipo da una commissione di organizzatori e critici e vanno a persone già riconosciute e validate: sono di fatto premi alla carriera. Un’altra novità a livello organizzativo è rappresentata dalla gratuità delle partecipazioni dei musicisti invitati, anche se è un mito sfatato, vista la presenza effettiva di cachet e rimborsi spese. Tanto la non competitività quanto la gratuità sono ricollegabili alla retorica del collettivo che era della musica nostra. Il Club sin dalla prima edizione sostituisce ai rapporti professionali dei rapporti di amicizia e porta avanti l’idea di un’intimità fra cantautore e pubblico. Lo spazio che il Tenco istituzionalizza e che diventa quello privilegiato della canzone d’autore fino ad oggi, ha un impatto profondo sull’estetica della popular music in Italia. Permette la formazione di un canone della canzone d’autore, ne codifica le convenzioni e conferma che è sul piano dell’autenticità che la canzone italiana può trovare sanzione estetica. La novità introdotta dal Tenco, col suo spazio democratico e la sua comunità di amici e pari è che a essere autenticato è anche il pubblico. Partecipare al Tenco qualifica i cantautori ma distingue anche la comunità che li ascolta dalla massa che ascolta musica leggera.
La tradizione della canzone d’autore come poesia
L’idea che la canzone d’autore sia una forma di poesia in musica prende forza a partire da metà anni ’70. È un processo parallelo a quello della formazione di un canone. Quello che il Club Tenco promuove nei suoi primi anni di vita è l’invenzione di una tradizione. Fra i musicisti che partecipano alle prime 2,3 edizioni e soprattutto fra quelli che ricevono il premio ci sono tutti nomi che oggi vengono associati al genere. I premiati della prima edizione (Modugno, Gaber, Endrigo, Paoli) canonizzano che una filiazione storica. Nella seconda edizione si completa il quadro col premio a Bindi, Jannacci e De Andrè. Il punto di arrivo del percorso avviato dai primi cantautori è identificato con Guccini, premiato nel ’75 coi suoi maestri. È lui che segnerebbe il passaggio dall’influenza francese a quella anglosassone. Se il punto d’arrivo è lui, ora quello di partenza può essere ricondotto a Omero passando per trovatori e giullari fino all’era contemporanea. L’immagine dei nuovi cantautori allude spesso all’immaginario trobadorico o del cantastorie, ben compatibile con la francesità quanto con l’idea di convivialità da osteria. De Andrè in particolare veniva presentato come l’Ultimo Trovatore già dai primi singoli anni ’60 e raffigurate come tale in molte immagini promozionali. Le rare dichiarazioni alla stampa insistono spesso sul medesimo immaginario. L’idea che la canzone d’autore sia poesia si afferma definitivamente anche grazie alla costruzione del mito del cantautore come nuovo trovatore. La poesia che si ha in mente è soprattutto quella popolare. L’idea della canzone d’autore come poesia popolare è in parte compatibile con l’ideologia della nuova canzone politica e col tema dell’impegno, anche in virtù della saldatura tra tradizione dei cantautori e la linea del Cantacronache. Fra le aspettative che accompagnano il nuovo cantautore anni ’70 c’è una performance asciutta, voce e chitarra: una scelta in controtendenza rispetto ai coevi sviluppi del pop italiano, ma che soprattutto è in contraddizione con quello che fanno molti cantautori in quel momento, come De Andrè con gli arrangiamenti di album come Non al denaro, non all’amore né al cielo o Storia di un impiegato. Ma anche nei primi album di Bennato, Vecchioni o De Gregori ci sono arrangiamenti spesso variegati, con archi e a volte un gusto sanremese Le nuove cantautrici fuori dal canone Un’analisi sui partecipanti alla Rassegna fra il ’74 e il 2018 mostra una schiacciante prevalenza di uomini: le donne sono meno del 16%. Al momento del dibattito sull’organizzazione della prima Rassegna della canzone d’autore, le cantautrici attive sembrano essere poche. Maria Monti in quegli anni firma alcuni album interpretando brani scritti da altri o affiancandosi a musicisti d’avanguardia. Daisy Lumini si dedica già da qualche anno al repertorio folk toscano. Proprio nei primi anni del Premio Tenco si può osservare l’emergere di un nuovo filone di cantautrici nella discografia italiana, ad esempio Antonietta Laterza, le cui canzoni trattano temi come violenza di genere, identità femminile, aborto e omosessualità. In generale, soggetti con simili connotazioni si ritrovano anche nei dischi di cantautrici prodotti dalle grandi case discografiche. Gianna Nannini è l’unica cantautrice negli anni ’70 a poter vantare una lunga carriera, tuttavia a posteriori non viene inclusa nel canone. Bisogna aspettare gli anni ’90 per incontrare un filone continuativo di cantautrici in Italian. IL POP ITALIANO: PROGRESSIVE, UNDERGROUND E ITALIANITA’ Verso il pop come arte Negli stessi anni dell’affermazione della canzone d’autore si può riconoscere la fine dell’era del beat e l’inizio di un’era del prog. Esiste una continuità fra gruppi beat e progressive: lo sviluppo del prog deve sicuramente molto all’apporto di musicisti più giovani con una formazione musicale più ricca, tuttavia se si confrontano le date di nascita dei protagonisti dei due periodi non c’è un salto netto fra le due generazioni e molti musicisti prog hanno esordito in complessi beat. Tuttavia, i gruppi beat di maggior successo non sono diventati progressive, come Rokes, Giganti, Equipe 84. Storia di un minuto esce a inizio ’72 e qualche mese dopo arriva l’omonimo esordio del Banco. Il passaggio da beat a prog coincide anche col passaggio da 45 a 33 giri. La maggior durata, la qualità, la copertina di gran formato che sono elementi chiave per i cantautori, lo sono anche per i gruppi prog. Fra gli elementi caratterizzanti del genere si citano l’attenzione verso composizioni più lunghe, che superano l’abituale forma canzone; l’inserimento in un contesto rock di nuovi strumenti elettrici, elettronici o della tradizione colta; la difficoltà tecnica e il virtuosismo di gruppo. Le connotazioni estetiche connesse col concetto di progressive non si fermano in effetti ai collegamenti con la musica d’arte, sono ben riassumibili nel doppio significato inglese di progressista in senso politico. Non esiste alcun salto da beat a progressive ma piuttosto esistono continuità e discontinuità di discorsi, stili, strategie, estetiche. Soprattutto, non si parla di progressive in Italia. Le nuove riviste musicali La transizione di fine anni ’60 trova riscontro anche nei cambiamenti che attraversano i media che si occupano di popular music e nello specifico le riviste musicali. Nel ’68 Ciao amici e Big si fondono in Ciao Big poi Ciao 2001. Le molte pubblicazioni che nascono nella prima metà degli anni ’70 raccontano di un momento di buona diffusione della stampa musicale e dell’inedita attenzione critica verso la popular music. In molti casi è possibile riconoscere una continuità nelle strategie retoriche che si appoggiano al modello di giornalismo musicale sviluppato per la prima volta dalla stampa per giovani degli anni ’60, in particolare per quanto riguarda Ciao 2001, il cui taglio giovanilista consente grande spazio al dialogo coi lettori e alle rubriche di consigli. Sebbene il livello dei discorsi si adegui al rinnovato contesto dei costumi post ’68, i meccanismi e lo stile rimangono gli stessi. La continuità fra i due periodi riguarda anche i lettori. Secondo le inchieste il 70% dei lettori di Ciao 2001, Muzak e Gong è un target leggermente più maturo di quello di Ciao amici o Big, suggerendo che in parte i lettori sono gli stessi. Ciao 2001 è una rivista di musica in tutto e per tutto: l’elemento di maggior novità è proprio la presenza stabile di spazi di critica musicale vera e propria. Pop, rock, underground Pop italiano è l’etichetta che in maniera costante dal ’72 viene usata dai media specializzati e non per parlare dei gruppi prog italiani. Progressive rock o musica progressiva compaiono qua e là in quegli anni, il primo nello specifico per indicare gruppi americani o inglesi del periodo subito precedente. Per quanto riguarda il termine underground invece, la rubrica su Ciao 2001 in cui vengono presentate per la prima volta novità straniere e italiane si chiama Underground & Pop. Il termine diventa comune in Italia a partire dal ’69-’70 quando viene usato come etichetta commerciale per lanciare alcuni nuovi gruppi. Prima di questo momento il termine non è particolarmente comune in Italia e non è usato per parlare di musica italiana, ma piuttosto dell’ambiente controculturale americano. Nel momento in cui entra nell’uso linguistico in Italia e in relazione alla musica italiana, il termine underground è già inevitabilmente associato con la commercializzazione della musica giovanile, né in Italia la critica musicale si definisce da principio in netta opposizione al mercato. Una contrapposizione fra underground e pop esiste ma appare in buona parte svuotata di significato. Vi è un parallelismo nel lancio dell’underground nel ’71 e nel folk italiano nel ’66, la differenza sta nel diverso contesto culturale e nella diversa diffusione dei discorsi sulla musica. Se l’uso commerciale del folk era stato oggetto di critiche immediate da sx e dagli studiosi, quelle stesse critiche erano rimaste una minoranza. Ora la critica alla commercializzazione dell’underground è diffusa sulle riviste musicali. Da questo periodo si diffonde l’idea secondo cui ciò che è lontano dal gusto generalista per alcuni è più bello di ciò che ha successo e che piace alla massa. Un’estetica dell’autenticità, della verità alla base di un grande paradosso: il successo può addirittura significare perdita di valore. Ex beat: il caso dei New Trolls Esordiscono nel ’67 con un 45 giri riconducibile a un’estetica beat e psichedelica, per quanto anticipi già elementi progressive e in linea con la produzione internazionale coeva. Nel ’68 esce il 33 giri Senza orario senza bandiera, con testi basati su poesia, la partecipazione di de Andrè: i testi d’autore, il fatto che il disco contenga brani non editi su singolo precedentemente, che tenti un discorso per legare i pezzi chiariscono l’obiettivo del gruppo e mostrano come il 33 giri sia il formato adatto alle nuove ambizioni artistiche. Tuttavia, la promozione è ancora quella canonica: Disco per l’estate, Sanremo e altre manifestazioni. La loro associazione a posteriori col progressive italiano è legata soprattutto all’album del ’71 Concerto grosso. All’uscita sono descritti all’avanguardia del pop italiano, gli iniziatori di una nuova corrente musicale n Italiana. Il lancio del disco tuttavia è ancora esemplare della compresenza di diverse strategie commerciali, tipiche di questa fase di transizione. Concerto grosso viene promosso come i lavori precedenti: esce in 33 giri sia col 45 giri. Questo movimento dai motivi commerciali all’underground più autentico anche con l’emergere di nuovi modi di scrivere musica, con l’apertura alla prosa artistica. La possibilità di scrivere musica pop in questo modo conferma che un passaggio verso strategie discorsive nuove è pienamente in atto. Nemmeno 3 anni prima questo stile, questi contenuti non erano riscontrabili né possibili. Nel giro di pochi anni si passa dal beat al pop, si reinventa la professione di giornalista musicale: ora consiste nella formulazione e nell’argomentazione di giudizi di valore, spesso espressi con gli strumenti della critica musicale e letteraria colta. Il pop italiano come arte e l’italianità musicale In questi anni le maggiori firme di Ciao 2001 mostrano un supporto costante alla musica di produzione nazionale, contribuendo alla codificazione delle convenzioni del pop italiano e alla sua autenticazione come arte. In un primo momento il riconoscimento del valore tecnico e strumentale avviene anche a scapito dell’originalità: l’obiettivo primario è quello di colmare il gap con l’avanguardia delle produzioni internazionali, il saper imitare sonorità e accordi percepiti come inauditi. Emerge una fascinazione verso nuovi strumenti come moog, mellotron o hammond. Da un certo momento, in maniera graduale, a queste considerazioni si sostituisce un altro tipo di strategia di validazione. Assodato che anche in Italia si comincia a suonare bene, il parametro dell’originalità e della novità diventa quello su cui misurare i nuovi gruppi. La parola d’ordine è superare le influenze, non essere la brutta copia di qualcuno. Nel ’72 avviene la consacrazione della PFM come gruppi di punta del movimento, grazie al successo di Storia di un minuto, primo posto nella classifica dei 33 giri. I musicisti rivendicano sempre più spesso la dimensione artistica del lavoro musicale, un’aspirazione ben riconoscibile nella musica del periodo: riferimenti classici, linguaggi mutuati dal jazz, superamento della forma canzone e ricorso a strutture da concerto o suite in più movimenti. Il pop italiano viene codificato anche a partire da modelli ideologici di italianità musicale, modelli già noti, che rendevano italiana la canzone negli anni ’50: tradizione operistica, l’idea di melodia. Il progressive e la canzone d’autore La diffusione di singoli prog non contraddice la centralità del 33 giri nella definizione delle nuove estetiche il genere porta con sé. È piuttosto facile verificare come questi gruppi ottengono risultati di vendita migliori con gli LP, come i cantautori negli stessi anni. Il fatto comunque che escano dei 45 dimostra come questa non sia una musica di nicchia ma mainstream. LA CANZONE POLITICA: GLI INTELLETTUALI, LA MUSICA POPOLARE, IL FOLK E IL POP La canzone politica dopo il ‘68 La canzone italiana entra nella prima metà degli anni ’70 in un sistema di generi profondamente diverso da quello in uso fino a pochi anni prima. Il minimo comune denominatore delle diverse esperienze può essere riconosciuto nel nuovo status artistico che è ora attribuito per queste musiche. In maniera più evidente intorno a metà decennio i diversi generi della canzone italiana sembrano convergere verso una sintesi politica. Da un lato, la canzone d’autore si celebra in quanto nuova canzone sociale e impegnata, reinventando il proprio passato in continuità con le esperienze più consapevoli e radicali del canto sociale e proponendosi come tradizione nazionalpopolare di canzone, d’arte ma con finalità civili. I discorsi sulla musica pop attecchiscono sempre di più in ambienti alternativi e radicali, spesso legati alla sx. In contemporanea si osserva l’ingresso nel mainstream mediatico del folk revival. Già negli anni precedenti l’ingresso nell’uso della locuzione canzone d’autore, i nuovi cantautori avevano avviato la loro carriera in stretta prossimità con il contemporaneo filone della canzone di protesta, con quella nuova canzone urbana teorizzata da Leydi, portata avanti da musicisti vicini al NCI e ripensata in chiave populista dalla prima produzione della Linea rossa. Per quanto i contatti fra le diverse linee siano ben documentabili, gli spazi della canzone politica e quelli dell’avanguardia politicizzata della musica leggera non erano mai stati gli stessi. L’esperienza della Linea rossa, avviata nel ’67, non sembra aver avuto in una prima fase risposte adeguate all’investimento. È un momento di profondo ripensamento delle finalità del Nci. Leydi si è ormai allontanato definitivamente. Una nuova scissione vede di Ivan della Mea e altri; chi rimane sembra occuparsi meno di canzone e più di ricerca. Il NCI muore perché il modo di attaccare la città capitalistica non è quello di creare nuove canzoni, ma in realtà è il concetto stesso di nuova canzone a passare attraverso una profonda ridefinizione in questi anni. Durante la mobilitazione studentesca e operaia la diffusione delle nuove canzoni politiche è la parte più visibile dell’attività dei musicisti cresciuti artisticamente nei salotti milanesi. Sebbene di limitato riscontro commerciali, brani come Contessa o Cara moglie entrano nell’immaginario delle proteste. Gli anni successivi la mobilitazione sono vivaci per molti protagonisti del folk revival: l’onda lunga del ’68 garantisce una domanda elevata di canzoni di protesta e un contesto appropriato per eseguirle e un nuovo circuito alternativo della rete Arci oltre che Feste dell’Unità e altri. Il Nuovo canzoniere, rallentato dalla morte di Bosio nel ’71 si ricostituisce un paio di anni dopo e la media degli spettacoli sale a 500 l’anno, il 70% dei quali organizzati dal Pci. Negli stessi anni si sviluppa per la prima volta una reale concorrenza alla proposta di canto sociale portata avanti dal Nci. Nascono, soprattutto a Milano, nuovi gruppi musicali il cui repertorio comprende canzoni della Resistenza e una selezione di canti di protesta da tutto il mondo, con le diverse formazioni in competizione fra loro. Cominciano a essere composte anche nuove canzoni politiche nate per celebrare i martiri e i momenti delle manifestazioni di piazza, sul modello di Per i morti di Reggio Emilia. Il Movimento studentesco milanese comincia presto a pubblicare dischi e promuovere spettacoli e concerti, è una novità per organizzazioni di questo tipo. Compagni di viaggio: la nuova canzone al Folkstudio Il Folkstudio di Roma a Trastevere è un importante luogo di sintesi delle diverse linee di folk e di canzone politica, Vi debuttano fra gli altri De Gregori e Venditti, affiancati da cantautori, revivalisti, ricercatori, jazzisti d’avanguardia. Il programma ben racconta della prossimità di esperienze spesso pensate e descritte all’epoca come distinte, ma che in realtà spesso si sono intersecate. È nel segno di una sintesi fra questi mondi, di una nuova canzone, che debuttano alcuni dei cantautori di seconda generazione destinati al maggior successo negli anni successivi. Il termine nuova canzone si può ricondurre proprio al folkstudio, dove intorno al ’74 era usato in opposizione a musica popolare per indicare i nuovi cantautori impegnati, sul modello d’uso che aveva nel ’65 l’ambiente del Nci. Una figura centrale è Ernesto Bassignano: cantautore, operatore culturale, nel ’72 Ernesto Bassignano e i giovani del folk studio propongono uno spettacolo Ipotesi per una nuova canzone politica. Spettacoli simili sono annunciati sulle pagine dell’Unità negli anni successivi. A Bassignano si deve anche un Manifesto della nuova canzone intorno al ’72, documento utile per verificare continuità e novità nella canzone politica dopo il ’68. Si riconosce forte l’influenza di un corpus di teorie sulal canzone e un repertorio lessicale a cui non è possibile sottrarsi: Il Cantacronache, gli scritti di Leydi e il Nci. Al centro di questa nuova canzone c’è la figura del cantautore, al quale si chiede uno sforzo in senso politico, educativo e civile. Il modello più vicino a queste idee è probabilmente Ivan Della Mea, che tuttavia non voleva essere considerato un cantautore. Il modello cileno e l’Orchestra L’idea di una nuova canzone di matrice politica trae forza anche da modelli stranieri: dalla canzone cubana e soprattutto dalla Nueva Cancion chilena. Musicisti e gruppi cileni circolano in Italia nei primi anni ’70. Dopo il golpe di Pinochet alcuni si trovano bloccati in Europa e beneficiano di un’inedita visibilità sull’onda dell’indignazione popolare e della solidarietà politica. Gli Inti Illimani si stabiliscono in Italia e diventano fra i maggiori protagonisti delle Feste dell’Unità. Il repertorio di questi gruppi contiene canzoni esplicitamente di protesta oppure che rileggono il folklore cileno attraverso lenti politiche e di lotta sociale. Il successo non passa inosservato nel mainstream: le riviste musicali se ne occupano e il riscontro di pubblico ha un certo ruolo nell’affermare un nuovo modello di sound per la canzone politica italiana. In parallelo si sta cominciando a diffondere una musica acustica dove la scelta degli strumenti è anche sineddoche di popolare e autentico, ma che è concepita con criteri e gusto diversi dal Nci e dal Club Tenco. È il caso di alcuni gruppi associati alla Cooperativa l’Orchestra o dei nuovi protagonisti del Folk revival come la Nuova Compagnia di Canto Popolare e il Canzoniere del Lazio. Nel caso de l’Orchestra, che nasce a Milano nel ’75, il perseguimento di una dimensione politica alternativa viene esplicitato anche nella ricerca di un’alterità musicale. All’origine del collettivo c’è precisamente la volontà di creare una canzone politica che rifiuti lo slogan facile e porti anche nella musica un significato politico. Questa esplicita presa di posizione è una novità nel campo della canzone politica in Italia e si riallaccia anche all’influenza di Brecht e Eisler. Ha come corollario alcuni punti fermi importanti: la rivendicazione della necessità di una qualità d’ascolto adeguata; la rivendicazione del professionismo dei musicisti; il ripensamento del lavoro in studio e dell’arrangiamento. Il primo lp (Un biglietto del tram) segna un momento di rottura nella storia della canzone politica italiana. La band può permettersi un moderno banco di mix a 16 piste, una copertina costosa e il cutting del disco a Londra: il sound è quello di un disco prodotto, di studio, avvicinabile agli esiti del coevo pop italiano. L’Orchestra si fa anche promotrice di un pioneristico tentativo di autoproduzione discografica e distribuzione alternativa, appoggiandosi alla Ariston poi a Ricordi per far arrivare i dischi nei negozi, ma tenendo per sé la vendita ai concerti e alle manifestazioni e la distribuzione nelle librerie, soprattutto rimanendo proprietaria delle incisioni. Il club Tenco e il congresso della nuova canzone L’etichetta nuova canzone comincia a diffondersi parallelamente alla canzone d’autore, ma a sua differenza il termine mantiene una connotazione di impegno politico. Il processo attraverso cui il Club Tenco costruisce un canone della canzone d’autore e ne reinventa la tradizione nei suoi primi anni riguarda anche la nuova canzone. La scelta di impostare la manifestazione come spazio alternativo e non commerciale non impedisce di aprire a sx l’elenco degli invitati, nonostante il Club si dichiari apolitico. La seconda edizione tra gli altri premia anche Amodei e Straniero e ospita altri nomi associati alla nuova canzone. Il Club Tenco e la sua idea di canzone d’autore rendono compatibili fatti musicali fino a quel momento ideologicamente lontani, nel segno di un ripensamento dell’elemento politico della canzone. Il Club si fa promotore di un congresso della nuova canzone, ma i Congressi istituiti dal ’76 finiscono con l’esporre le contraddizioni della stessa definizione di canzone d’autore proposta dal Club, segnando il definitivo fallimento dell’etichetta nuova canzone e precorrono la crisi politica ed estetica. Lo spazio del Club, qualificato come alternativo dalla presenza di Straniero e altri intellettuali protagonisti della canzone politica, è squalificato da sx come inadatto alla nuova canzone La canzone d’autore come canzone politica: ermetismo ed entrismo Il momento che meglio simboleggia la crisi ideologica della nuova canzone è l’uscita di Rimmel nel ’75. Contro ogni aspettativa della casa discografica, il disco registra un successo inaudito, restando in classifica per 55 settimane e finendo per essere il titolo più venduto dell’anno. Il disco contiene brani più leggeri come Buonanotte fiorellino ma anche canzoni come possono essere ricondotte a temi più impegnati come Pablo o Storie di ieri. Tuttavia, il solo fatto che queste canzoni siano scritte in stile ermetico ne mette in dubbio l’efficacia come strumento di lotta di classe sia l’appartenenza a una cultura di sinistra. La critica all’ermetismo è un problema politico ed estetico perché le due dimensioni non sono scindibili. La domanda sull’impegno, sul ruolo del cantautore e del musicista nella società, sull’opportunità di fare concerti gratis è un topos di tutte le interviste di questi anni; è un tema centrale per attribuire valore ai musicisti e un elemento di stile giornalistico diffuso anche fuori dagli ambienti più esplicitamente politicizzati. La codificazione della canzone d’autore e del pop come generi politici è qualcosa che va al di là della comunità intellettuale, ma che interessa il più ampio pubblico giovanile che si accosta alla nuova canzone con aspettative diverse da quelle dei militanti. La politicizzazione della canzone d’autore porta al centro del dibattito la questione del professionismo, sollevata anche dall’Orchestra negli stessi anni: è lecito fare profitti con la canzone politica? Nel caso di cantautori ormai di ampio successo popolare e divenuti figure di riferimento, ci si chiede se sia o meno lecito che il musicista impegnato agisca nel sistema di mercato. Il folk diventa veramente popolare Canzoniere del Lazio, Nuova Compagnia di Canto Popolare e altri musicisti formatisi negli anni ’60 a corte del NCI ottengono un notevole riscontro di pubblico e critica, compaiono spesso a fianco di cantautori e gruppi pop sulle riviste musicali, talvolta addirittura in tv. La novità maggiore è l’ingresso di queste musiche nel mainstream. Nel contesto post ’68 l’interesse del pubblico giovanile si va rivolgendo verso prodotti musicali alternativi, autenticati e validati grazie alla loro alterità da un qualche mainstream nazionale o internazionale, come la canzone d’autore e l’underground e il folk revival non fa eccezione. Se ne accorge anche l’industria discografica che rilancia il folk, con la differenza che ora è la vera musica italiana di tradizione a fornire i modelli e il repertorio. Lo sfruttamento del nuovo interesse per il folk in uno spazio ambiguo tra impegno politico e spettacolo riguarda anche etichette discografiche come la Cetra Folk, lanciata dalla Fonit Cetra e di proprietà della Rai, che garantisce ai suoi artisti spazi prima impensabili in tv. A conferma dell’interesse della Rai per il folk cominciano a comparire programmi dedicati al genere. Alla definizione di questo nuovo stile di divulgazione musicale contribuiscono anche le radio libere, diffuse da questi anni e che puntano a un pubblico più giovanile. La critica più diffusa riguarda la compresenza di diversi folk senza che al pubblico sia spiegata la differenza tra vero folk e falso folk. Nei primi anni ’70 è soprattutto la Nuova Compagnia di Canto Popolare di Roberto De Simone a proporre un nuovo approccio alla materia, rompendo le convenzioni portate avanti dal Nci. Nel ’72 partecipano al Festival dei due mondi e si consacrano presso un pubblico colto; cominciano ad apparire anche in tv ed allargano il loro pubblico, tuttavia sollevando critiche soprattutto dal Nci. Tuttavia, a differenza del falso folk della Cinquetti l’azione di De Simone avviene con la ricerca sul campo e come progetto culturale e politico. Anche il Canzoniere del Lazio viene disconosciuto, perché sul modello di altri esperimenti di quegli anni, la strumentazione si allarga e il lavoro musicale va oltre la riproposta puntando verso il jazz-rock. La scelta di convertirsi a questo tipo di sonorità viene vista come un tradimento. Il folk a Canzonissima Il casus belli che collassare le diverse posizioni sul folk le fornisce la Rai: nell’autunno ’74 a Canzonissima viene introdotto un girone folk. Vi partecipano alcuni musicisti vicini al revival, su tutti il Canzoniere Internazionale. Il dibattito che ne segue va avanti per un anno e vi prendono parte pressoché tutti gli intellettuali interessati al folk. Nel girone folk vengono inclusi 12 concorrenti, due per puntata nelle 6 eliminatorie. Sono selezionati secondo vaghi criteri geopolitici che mescolano musicisti di estrazione diversa e materiali musicali distanti, accomunati dalla sola affiliazione alla Cetra folk. La miccia dello scandalo è l’esibizione del Canzoniere Internazionale, unico progetto esplicitamente politico e per giunta condotto da un intellettuale collegato al Nci. Si era formato a metà anni ’60 a Roma, in un primo momento si affilia al Nci poi se ne separa. La partecipazione a Canzonissima è parte della promozione del loro disco e il loro sound riprende molte delle strategie riconosciute per il Canzoniere del Lazio o per gli Inti Illimani, compresa una vena quasi prog negli arrangiamenti. La loro presenza sembra rendere perplesso lo stesso pubblico, si presentano con le barbe lunghe le camicie sbottonate, in contrasto con l’ambiente e gli abiti di presentatori e concorrenti. Nei mesi giustificano la loro partecipazione come una scelta necessaria per arrivare a un vasto pubblico.
Discorsi antagonisti fra pop, controcultura e politica
Il pop come cultura: nuova sinistra e nuova critica Il panorama di etichette che accompagnano il passaggio da beat a prog, l’invenzione della canzone d’autore e il dibattito sul folk sono aspetti legati all’ingresso della popular music fra le possibili pratiche artistiche. È l’idea stessa di poter pensare la canzone come arte a tutti gli effetti a mergere in parallelo allo sviluppo della critica musicale sulle riviste. Le sedi privilegiate delle riflessioni sono alcune nuove riviste, spazi concepiti come alternativi alla cultura dominante e al mainstream dell’informazione, spesso riconducibili alla galassia della sx o della nuova sx extraparlamentare. Non è più così inusuale per una pubblicazione di sx avere rubriche fisse di musica leggera e la stessa Unità si occupa occasionalmente di pop e di canzone con toni interessati e competenti. La stessa definizione di stampa di sx può ora includere anche testate musicali, per quanto non direttamente legate a partiti o a movimenti extraparlamentari: Gong e Muzak. Alcune sentenze della Corte costituzionale mettono fine al monopolio della Rai e permettono la nascita della radiofonia privata, che attraversa nel ’75 un vero boom. Le nuove stazioni, più o meno libere trasmettono musica: pop, canzone d’autore, folk, fino a riempire in alcuni casi il 70% del palinsesto. La possibilità di trasmettere in stereofonia permette una qualità migliore dell’ascolto e di passare dischi che non trovavano spazio in Rai. Cambia il modo in cui si parla di musica: come le riviste, la galassia delle radio moltiplica voci e pdv, promuovendo un nuovo gusto musicale, una grammatica espressiva alternativa. Milano si conferma fonte principale della produzione di nuovi discorsi sulla musica come mezzo di comunicazione politica. Sono soprattutto gli ambienti giovani, colti, cittadini a riempire gli spazi lasciati liberi dall’attività del Nci. Anche i piccoli editori di sx cambiano passo, allargando il proprio bacino di lettori e rinnovando l’offerta. Per tutti gli anni ’70 i libri sulla musica pop rimangono, salvo rare eccezioni, una faccenda underground, lontana dai grandi gruppi editoriali, pur occupandosi nella maggior parte dei casi di musica prodotta e diffusa da multinazionali del disco. È in generale la nuova sx a interessarsi di musica pop e a impegnarsi in una sua teorizzazione in chiave politica. Protagonista di questa rete di discorsi è una nuova generazione di critici e professionisti della musica. In questi anni sta maturando professionalmente e ideologicamente una generazione di intellettuali di sx che rimane in larga parte egemone nel nuovo millennio e i cui scritti costituiscono il primo nucleo di lavori scientifici sula popular music in Italia. L’elemento che accomuna questa generazione e che li distingue da quella precedente è l’aver cominciato a occuparsi di musica con una tradizione di rock già più che decennale e canonizzata. Le contraddizioni della nuova critica pop La compresenza di modelli di pensiero distanti fra loro rispecchia la formazione onnivora dei militanti post ’68 e la convivenza di icone e modelli lontani riguarda anche gli ascolti musicali e la loro razionalizzazione da parte dei giovani militanti. Si ripropone una dicotomia fra canti che piacciono per indulgenza ideologica e quelli che si ascoltano in privato, ma con la differenza che ora i nuovi critici e militanti lavorano per sanare tale contraddizione. Il problema che questi intellettuali si ritrovano più o meno coscientemente ad affrontare è quello di giustificare ascolti e coinvolgimenti emotivi ideologicamente incompatibili con le istanze politiche post ’68. La costruzione del pop in Italia come campo controculturale e alternativo alla cultura ufficiale è un primo passo verso lo sdoganamento degli ascolti privati, nell’ottica del personale come politico. Il pop come musica popolare Il libro bianco sul pop in Italia (linguaggio e cliché politici per parlare del pop nel nostro paese), riviste come Suono, Muzak e Gong sembrano proporre il valore culturale del pop in Italia, che per non essere prodotto nuovo deve saper rispecchiare costantemente le esigenze delle masse. La musica pop deve farsi cultura per il popolo. L’idea di fare musica popolare torna a più riprese nei discorsi della nuova generazione di musicisti pop di sinistra. Si sta affermando un uso di musica popolare più inclusivo, con forti connotazioni ideologiche: musica popolare è la musica di cui si appropria il popolo, è una musica diversa dalla musica della borghesia o delle classi dominanti, ma anche dall’idea che la borghesia e le classi dominanti hanno della musica popolare. La nueva cancion chilena fornisce un modello di musica popolare e popular insieme, politicizzata, contemporanea, al centro della lotta politica, aliena dal mainstream globalizzato eppure musicalmente interessante. L’interesse per il popolare non riguarda solo gli ambienti politici più radicali, ma anche sedi più mainstream. Il pop in quanto popolare diventa una musica popolare contemporanea, che ottiene una sua sanzione in opposizione al mercato, ma anche alla cultura dominante, e che deve trovare i suoi naturali spalleggiatori fra le classi subordinate. Il proletariato giovanile e i padroni della musica Un aspetto inedito delle pratiche musicali negli anni ’70 è l’affermazione del concerto come spazio privilegiato della comunità giovanile e insieme di scontro politico. Le due visioni sono nel post ’68 coerenti l’una con l’altra. Lungo il periodo in cui emerge un pop italiano e si discute sulla sua reale popolarità i concerti pop arrivano sulle pagine dei quotidiani soprattutto per episodi di violenza. Le cronache riportano di incidenti fin dai primi anni ’60, solitamente orchestrati da gruppi autonomi allo slogan di La musica si sente, il biglietto non si paga. Il copione prevede una distribuzione di volantini e una trattativa con l’organizzazione per cancellare o ridurre il biglietto. In alcuni casi la polizia carica e lancia lacrimogeni, una circostanza che gli organizzatori cercheranno di evitare successivamente, finendo spesso per assecondare le richieste dopo aver fatto entrare la maggior parte di spettatori paganti. I bersagli privilegiati dei contestatori sono i tour delle star internazionali del pop e soprattutto i promoter che li portano in Italia, accusati di speculare sulla musica dei giovani se non direttamente sulla musica del popolo. Nelle teorizzazioni dell’epoca le contestazioni ai concerti sono lette come un passaggio decisivo verso la definizione di una nuova idea di musica, il passaggio dal movimento pop generico a un movimento nuovo, che si pone come obiettivo non lo svecchiamento-continuazione, ma il cambiamento-riconsiderazione di tutta l’esperienza pop. SI denuncia la necessità che il movimento giovanile esprima sempre di più una linea di lotta che colpendo i padroni della musica e i parassiti dei concerti sia nello stesso tempo in grado di unire su di un programma il proletariato giovanile. L’insistenza sulla dimensione comunitaria della festa e la teorizzazione del proletariato giovanile sono legate all’attività dei gruppi extraparlamentari, anche con finalità politiche di informazione e propaganda. A partire dai primi eventi gratuiti si afferma l’idea che il festival debba essere uno spazio nuovo di socialità, un sogno in cui non entrano biglietti, recinti o polizia. La costruzione del pop in Italia come controcultura passa anche attraverso la ridefinizione dei suoi spazi e del ruolo del suo pubblico, che ambisce a essere attivo e non passivo. Il coinvolgimento degli spettatori può contribuire a rompere il diaframma tra pubblico e artista e a recuperare quel rapporto tra pubblico e musicista alla base della musica popolare. Il ballo è momento di sfogo e celebrazione collettiva: un ballo libero, senza regole. Il momento in cui il pubblico sale sul palco o abbandona le sedie e comincia a ballare diventa una costante. Le contraddizioni vengono a galla quasi subito però. È facile dimostrare l’inconsistenza e l’infattibilità di un sistema musicale basato sulla prestazione gratuita all’interno della società capitalistica e conservatrice che i contestatori vogliono abbattere. CRISI E RIFLUSSO: VERSO GLI ANNI ‘80 La crisi dei nuovi cantautori Dopo il ’76 si avverte un cambio di fase in atto per le forze progressiste, il declinare di un’epoca iniziata col ’68. Fra ’76 e fine decennio la canzone d’autore e la canzone politica, così come il pop italiano e il folk, attraversano ciascuno la sua personale crisi. In alcuni casi l’aumento dei prezzi del petrolio e la crisi energetica del ’79 danno il colpo di grazia alla precaria autosufficienza delle etichette discografiche, degli editori indipendenti e del circuito alternativo. Quella della popular music italiana a fine anni ’70 è soprattutto una crisi ideologica. In un contesto di politicizzazione costante dei significati musicali, il collasso politico della sx è anche il collasso della canzone com’era stata pensata fino a quel momento. L’evento che simboleggia il fallimento della comunione di intenti fra canzone politica e d’autore è il concerto al Palalido di Milano di De Gregori nell’aprile ’76, dove viene processato dal pubblico. Quando raggiunge il successo, è la perfetta incarnazione delle contraddizioni che attraversano la figura del cantautore di sx a metà anni ’70: è un musicista sotto contratto per una multinazionale che come militante si esibisce sui palchi del circuito alternativo; è un professionista ben pagato costretto a conciliare il proprio impegno politico e la propria credibilità di artista impegnato con l’attività promozionale di una grande casa discografica. Alla fine del concerto del Palalido circa 200 militanti richiamano il musicista sul palco per processarlo: le accuse rivolte sono compatibili con l’ideologia del riprendiamoci la musica e simili. Anche prima del ’76 i cantautori avevano riflettuto sul proprio ruolo di intellettuali nel contesto della cultura di sx degli anni ’70, spesso cogliendo i limiti e le contraddizioni del cantautore impegnato. Nel ’75 Guccini inizia a portare in giro una nuova canzone, definita come la canzone del cantautore incazzato, destinata a diventare un suo classico. L’avvelenata è un tassello fondamentale del processo di ri-codificazione della canzone d’autore nella seconda metà degli anni ’70: il testo è un’invettiva contro diversi personaggi; è un’autocritica autoironica, ma è soprattutto un manifesto di poetica della seconda generazione dei cantautori italiani. C’è la rivendicazione di appartenenza a un milieu sociale proletario; la necessità del cantare; l’autenticità; il rifiuto della contemporaneità; il rigetto della dimensione dell’impegno e un ritrattare dalle responsabilità politiche ed estetiche attribuite ai cantautori. È solo la prima di un fertile filone di canzoni autocritiche, autoreferenziali, un altro esempio è Cantautore di Bennato, un elenco iperbolico delle doti del nuovo cantautore declamato con voce beffarda su un accompagnamento volutamente minimale. Il cantautore è buono, vero, onesto, semplice, valoro; più da dx un altro esempio è Io canterò politico di Bruno Lauzi; altri esempi sono Festival di De Gregori o Vaudeville di Vecchioni. La crisi di vocazione dei cantautori si consuma sullo sfondo della presa di coscienza del fallimento degli ideali emersi nel post ’68. Un libro uscito nel ’68 per i Quaderni di Cultura e Classe dell’editore Mazzotta documenta i processi in atto, storicizzando per la prima volta la figura del nuovo cantautore dal suo percorso verso l’egemonizzazione fino al fallimento della nuova canzone e spingendosi all’autopsia del cantautore politico. Non sparate sul cantautore è firmato da Bernieri e il libro è una raccolta di interviste in cui i protagonisti della canzone degli anni ’70 parlano senza filtri, mettendo in luce le contraddizioni del cantautorato. La crisi del folk revival e della canzone politica La riflessione sul proprio ruolo tocca anche i colleghi della nuova canzone più esplicitamente politica. Nel ’74 Ivan della Mea compone un brano che anticipa questi temi: Ballata dell’organizzatore di cultura, una specie di Avvelenata dalla prospettiva di uno dei militanti severi bersagli di Guccini. Il suo obiettivo polemico sono gli operatori culturali del Pci e i musicisti che si prestavano a sfruttare i nuovi spazi per il folk sui media. Quella a cui Della Mea ambisce è una canzone che sia un messaggio ma che non ceda alla necessità di farsi artistica, perché nell’operaio in lotta col padrone non c’è arte. Il brano riassume le contraddizioni con cui devono confrontarsi gli interpreti della canzone politica alla metà del decennio. Il Nci ha sempre accusato i cantautori e hanno sempre rifiutato di essere definiti come tali, ora quegli stessi musicisti si trovano a dividere il palco. La diffidenza verso i cantautori non riguarda solo un pregiudizio politico verso la canzone di consumo, ma è anche poco compatibile con l’idea di musica popolare, per il peso che ha il genio individuale. Il canto sociale al contrario aveva sempre ambito a una anonimizzazione, all’ingresso delle proprie produzioni nel repertorio di lotta senza il peso di una marca d’autorialità. Eppure contro la volontà, gli interpreti della canzone politica stanno infine diventando dei cantautori. Verso fine anni ’70 il Nci si disintegra, la Vedette che distribuisce i Dischi del sole fallisce e l’attività dal vivo si affloscia. La Cetra folk cessa le pubblicazioni. L’ipotesi di costruire una distribuzione discografica indipendente si affossa quasi subito e molte radio libere cominciano il processo di trasformazione in emittenti private sostenute dalle pubblicità. Fine della festa: la crisi del pop italiano Nel giungo ’76 all’indomani della sconfitta elettorale delle sx a Milano al Parco Lambro si tiene il raduno della rivista Re Nudo e vi partecipano fra gli altri Canzoniere del Lazio, Finardi, Area. Partita come celebrazione del collettivo, utopia non violenta e pacifista, la festa si fa ricordare per contestazioni ed episodi di violenza. Si danneggiano strutture, si contestano i prezzi troppo alti; i commenti dei giorni seguenti parlano di una voglia di liberazione che diventa collera arrabbiata e di crisi di un mito. La rivista ammette il proprio fallimento. Quell’estate anche il Festival della Fgci a Ravenna viene letto come la chiusura di una stagione politica e culturale ed è ugualmente turbato da contestazioni. Vi partecipano Area, Dalla, Banco, Rino Gaetano, Jannacci, Paoli, Guccini, Finardi, Joan Baez, De Andrè. Il riflusso Gli anni a cavallo tra fine ’70 e inizio ’80 vengono definiti reflusso. Sono gli anni in cui si assiste alla prima fase della vittoria mediatica del privato sul pubblico, del ripiegamento delle ideologie del collettivo e delle utopie degli anni ’60 e ’70 a favore dell’individualismo. Il salto da anni ’70 a ’80 riguarda anche e soprattutto la dimensione dell’immaginario. Dal pdv della storia culturale, si tratta di un passaggio epocale nel modo di pensare la canzone. Nell’arco di un paio di stagioni si sviluppano nuove letture e nuove strategie per superare l’impasse generata dalla crisi dei valori su cui si era costruita l’estetica della canzone dopo la svolta della fine degli anni ’60. Nuovi concerti, nuova critica Lo stop dei grandi eventi live imposto per motivi di ordine pubblico ha come effetto quello di tagliare fuori il nostro paese dalla mappa dei tour internazionali. Sono i cantautori a colmare il vuoto dei gruppi inglesi e americani, nel giro di un paio d’anni i principali diventano pop star. De Andrè unisce le forze con la Pfm per una tournée; Dalla e De Gregori mettono in piedi un tour negli stadi, Banana Republic; Branduardi dà vita al progetto Carovana del Mediterraneo insieme al Banco. Negli stessi anni arriva al successo Pino Daniele, che si afferma anche grazie a un’immagine e un sound molto diversi da quelli dei cantautori degli anni ’70. Fra gli eventi simbolo di questa fase c’è il Concerto per Demetrio Stratos, tributo per la morte del cantante degli Area, a cui partecipano i maggiori protagonisti della stagione del pop italiano e della canzone d’autore. Dal ’79 tornano i grandi tour internazionali, che portano in Italia gli idoli della musica che sta soppiantando il vecchio prog in tutto il mondo: Iggy Pop, Ramones, Clash, Bob Marley e Patti Smith. Il passaggio di epoca in corso trova riscontro anche in un cambio di panorama nell’offerta di riviste musicali. Nasce Laboratorio musica, in ambienti vicini all’Arci. Nel ’80 cominciano le pubblicazioni di Musica/Realtà e cambiano linea anche le riviste più pop: Ciao 2001 continua a uscire per tutti gli anni ’80, ma Gong e Muzak non sopravvivono. Attraverso una rete sotterranea di fanzine si affaccia alla professione una nuova generazione di critici musicali, per la quale le nuove musiche di riferimento sono il punk, il post punk e la new wave. Nuove strategie per la canzone d’autore Il Club Tenco registra il mutamento che sta attraversando il suo campo d’interesse. La categoria canzone d’autore sopravvive alla crisi dei nuovi cantautori del ’76, alla loro depoliticizzazione, allo spostamento di alcuni di essi verso le convenzioni e i riti del rock e lo fa rinegoziando le sue strategie di autenticazione. Il cantautore è ora un intellettuale pubblico svincolato da ogni progetto politico. Sotto l’ombrello di canzone d’autore convivono fatti musicali molto diversi, accomunati da un qualche valore riconosciuto in capo all’autore. Paolo Conte diviene nel giro di pochi anni un’artista di culto, agisce ai margini del mainstream e lontano dal dibattito di metà anni ’70. Una costante nella sua poetica è lo sguardo verso il passato nei temi e nelle canzoni, che evocano soggetti demodé e modelli musicali molto riconoscibili come la canzone americana, la tradizione italiana di gusto popolaresco. Dal ’75 in poi Jannacci pubblica album per l’etichetta Ultima spiaggia, dischi pieni di rimandi, citazioni, prese in giro in cui gioca con gli stereotipi musicali e di costume. Battiato è il personaggio che più di ogni altro traghetta la canzone italiana negli anni ’80, raggiunge il grande pubblico con 3 album: L’era del cinghiale bianco, Patriots e La voce del padrone. I testi sono spesso pastiche di immagini, vecchie canzoni; qui e là appaiono brani di musica classica, voci registrate. È il perfetto manifesto della nuova canzone d’autore: disimpegnata, ironica, in linea coi tempi. La musica è aggiornata con un sound da new wave, grazie all’utilizzo di strumenti elettronici, synth, drum machines. Altri musicisti negli stessi anni fanno piazza pulita dell’icona del cantautore serio con la chitarra, come Rino Gaetano. Le nuove tendenze nella canzone d’autore tra anni ’70 e ’80 possono essere ricondotte a due poli ideali: quello nostalgico-ironico alla Conte e quello del pastiche alla Battiato, con Jannacci in una posizione intermedia. L’elemento che li accomuna è un nuovo sguardo sulla canzone: autoreferenziale, nostalgico, ironico. L’arrivo del punk in Italia La svolta estetica innescata dal punk tocca anche l’Italia. Come nel caso di altre mode musicali, il ritardo è fonte di importanti spostamenti di significato, che risaltano in particolar modo nel quadro storico-politico dei tardi anni ’70. Il periodo che vede il boom del punk si sovrappone con quello del riflusso; per di più nel nostro paese non sembra esserci un vero passaggio da punk a post-punk. È facile riconoscere nei mass media quelle stesse narrazioni di panico morale che sono una costante della storia della popular music e anche nel caso del punk anticipano la creazione di una scena nazionale e in parte la stessa diffusione della nuova musica presso un pubblico di massa. In concomitanza col lancio sul mercato italiano del punk si registrano anche i primi tentativi di tradurlo, di scarsa fortuna e poco seguito. Nel ’77 l’unico disco italiano a rifarsi al punk è il singolo Fratelli d’Italia degli Aedi, incisione di una versione alternativa dell’inno ricalcando quanto fatto dai Sex Pistols. Tuttavia, la distanza è abissale: per quanto la canzone si costruisca intorno a riff di chitarra elettrica distorta e una linea vocale arrochita, suona più come un brano hard rock. Fa scalpore al Sanremo di quell’anno la prima apparizione di una 16enne Anna Oxa con un look che riprende un po’ Siouxsie and the Banshees e Il Duca bianco e che viene subito interpretato come punk, anche se la canzone non ha nulla a che vedere col punk. Questa falsa partenza del punk ne condizione l’evoluzione. Anche in opposizione a questi modelli confezionati per il mercato si sviluppa negli anni ’80 un vivace sottobosco alternativo che si ritrova attorno agli spazi autogestiti o occupati, spesso di matrice anarchica.