Sei sulla pagina 1di 749

Presentazione

«Tra le popolazioni barbare e le civili non ci sono abissi ma trapassi: in


questi trapassi è l’essenza del folklore, che diventa scienza quando si
integra con l’etnologia». Prima che uno statuto disciplinare riuscisse a
catturare l’«indole» del folklore, ed etnologi e folkloristi insigni come
Giuseppe Cocchiara perimetrassero l’oggetto dei loro studi, dirimendone le
combattute relazioni con mitologia, storia delle religioni, letteratura e
filologia, dovettero trascorrere secoli di travaglio di pensiero e ricerche.
Irriducibile all’esotico o al pittoresco di maniera, il grande alveo delle
tradizioni popolari – fiabe, leggende, proverbi, canti, ma anche costumi, usi,
credenze – cominciò a svelare il segreto del suo «continuo morire per un
eterno rivivere», ossia della sua perenne rielaborazione, quando l’Europa
acquisì consapevolezza storico-critica di se stessa nel confronto
sconvolgente con il Nuovo Mondo appena scoperto. Da allora, l’identità
culturale europea si cimentò con quanto «di più intimo» potesse
racchiudere, ossia il «primitivo a casa propria». Cocchiara risale
instancabilmente lungo le infinite diramazioni che da Montaigne arrivano a
Tylor, da Vico a Frazer, dai romantici a Pitrè. Accorpa, distingue, illumina
genealogie, e soprattutto mette in rapporto la riflessione sul folklore con le
correnti filosofiche, scientifiche e letterarie che si sono susseguite. Un
lavoro immane, riconosciuto da autorità della statura di Propp ed Eliade e
divenuto fin da subito un classico, un’opera che nel Novecento non ha
uguali negli studi sul folklore.

Giuseppe Cocchiara (1904-1965), tra i maggiori etnologi del


Novecento, si perfezionò a Londra con Bronisław Malinowski e a Oxford
con Robert Ranulph Marrett, e insegnò presso l‘Università di Palermo
prima Letteratura delle tradizioni popolari (1934-43), poi Storia delle
tradizioni popolari (dal 1946) e Antropologia sociale (dal 1948). Continuò
gli studi inaugurati in Sicilia da Giuseppe Pitrè, curando il riordinamento
del Museo Etnografico palermitano da lui fondato. Grazie a Cocchiara,
Museo e Università fecero allora di Palermo il centro di riferimento
nazionale per le discipline folkloriche. Fu autore di un’opera vastissima, in
cui si segnalano Storia degli studi delle tradizioni popolari in Italia (1947),
Genesi di leggende (1949), Il paese di Cuccagna e altri studi di folklore
(1956) e Le origini della poesia popolare (1966). Tra le riedizioni più
recenti: L‘eterno selvaggio (2000) e Popolo e letteratura in Italia (2004). È
disponibile presso Bollati Boringhieri Il mondo alla rovescia (2015).
www.bollatiboringhieri.it

www.facebook.com/bollatiboringhierieditore

www.illibraio.it

© 1952, 1971 e 2016 Bollati Boringhieri editore


Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86
Gruppo editoriale Mauri Spagnol

ISBN 978-88-339-7450-7

Immagine di copertina: Ivan Bibilin, tavola per Vassilissa la bella (1899), fiaba raccolta da Aleksandr
N. Afanasev.

Prima edizione digitale gennaio 2016


Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata
Saggi

Storia
Storia del folklore in Europa
Prefazione alla nuova edizione (1971)

Giuseppe Bonomo*

Nell’attività di folklorista ed etnologo svolta da Giuseppe Cocchiara


durante l’arco non lungo della sua vita (nato a Mistretta nel 1904, morì a
Palermo nel 1965) è possibile distinguere due fasi, eguali rispetto
all’impegno dello studioso ma dissimili quanto a validità scientifica, delle
quali una coincide con i suoi anni più verdi, l’altra con quelli della
maturità.
Cocchiara fece i suoi studi a Palermo laureandosi in giurisprudenza,
tuttavia fin dagli anni universitari fu attratto da quel settore di ricerca al
quale poi avrebbe dedicato senza risparmio il suo lavoro fino agli ultimi
giorni. Nella scelta delle tradizioni popolari influirono la provenienza da
un paese ricco di folklore, l’ammirazione per i folkloristi siciliani
dell’Ottocento e segnatamente per Pitrè, che aveva operato e insegnato a
Palermo.
Nella cultura siciliana dei primi decenni di questo secolo il filone più
vivo era ancora costituito dalla ricerca folklorica, alla quale Giuseppe
Pitrè, tra il 1870 e il 1916, aveva dato un contributo di lavoro rilevante per
mole e importanza. Negli anni successivi alla morte di Pitrè, le ricerche di
tradizioni popolari in Sicilia non riuscivano a sollevarsi dal generico
dilettantismo; scarsa conoscenza dell’avanzamento degli studi folklorici e
malposto amore per la propria terra ostacolavano le indagini serie
nell’isola. I cultori del folklore regionale si ostinavano a vedere la poesia
popolare avvolta dalla suggestiva luce romantica, e da essa abbagliati non
cessavano di levare alle stelle presunti tesori di poesia tradizionale. Lo
stesso Pitrè da giovane aveva sbandierato «tesori di vergine poesia
tradizionale siciliana». Ma in seguito i suoi entusiasmi, confortati da
presupposti romantici del primo Ottocento, si erano affievoliti, ed egli, pur
non rinunciando a certe opinioni contraddette in modo irrefutabile da
puntuali ricerche filologiche e storiche di altri studiosi, aveva accantonato
gli studi di poesia popolare per indagini più proficue in altri settori
folklorici.
L’esperienza pitreiana non era stata raccolta in Sicilia, e Cocchiara
abbracciò anche lui le vecchie formule romantiche fatte proprie da Pitrè. E
non sembrandogli adeguate alla tradizione degli studi folklorici siciliani le
ricerche condotte in quegli anni, asseriva che «bisognava assolutamente
rientrare nella via tracciata da Pitrè». Infatti con la prima opera giovanile
di qualche impegno, Popolo e canti nella Sicilia d’oggi (1923), Cocchiara si
rifa a Pitrè degli anni ’870. Di poesia nel suo libro ce n’è poca e di
popolare ancora meno, e il discorso è incentrato su moduli romantico-
risorgimentali di ispirazione pitreiana: la «musa analfabeta», «l’arte del
popolo che è arte dell’anima» e via discorrendo. Il libro però è interessante
se guardato con una diversa angolazione. Cocchiara dà un saggio del suo
fervore di studioso, dell’amore per la sua terra e dell’ammirazione
profonda per Pitrè, alla cui memoria il lavoro è dedicato. Al maestro ideale
rivolgerà la sua attenzione in età più matura, sviluppando sull’uomo e lo
studioso un ampio discorso nel libro Pitrè, la Sicilia e il folklore (1951),
nella Storia del folklore in Europa (1952), e in Popolo e letteratura in Italia
(1959). La stessa abbondanza di cuore del volumetto del 1923 si ritrova nei
lavori su Tommaso Aversa e il teatro sacro in Sicilia, pure di quell’anno, e
nelle Vastasate (1926). Su un piano più prossimo al rigore scientifico si
pongono invece i lavori Folklore, Gli studi delle tradizioni popolari in
Sicilia, e L’anima del popolo italiano nei suoi canti, pubblicati nel 1927-28.
In quest’ultimo libro di largo respiro emergono la tendenza storiografica
dell’autore e il proposito di accostarsi responsabilmente alla problematica
folklorica. Negli Studi delle tradizioni popolari in Sicilia afferma che: «In
Italia si è pensato ad essere folkloristi, ma dai problemi del folklore e dalla
scienza siano stati sempre un po’ lontani. Ben altri metodi e ben altri
orizzonti si profilano per la scienza.»
Negli anni 1930-32 Cocchiara, sollecitato da Pettazzoni, si trasferisce in
Inghilterra per frequentare i corsi di Malinowski e di Marett nelle
Università di Londra e di Oxford. I primi frutti dei suoi studi inglesi si
colgono nelle ricerche sulla Leggenda di Re Lear, in un saggio sui canti
popolari The Lore of the Folk-Song, e nel volume Il linguaggio del gesto
(1932), nel quale cosi scrive: «Sarebbe assurdo se volessimo studiare il
gesto tenendo conto delle popolazioni civili e trascurando le società
primitive. La moderna etnologia, così intimamente legata alla storia, ci
insegna che tra le popolazioni barbare e le civili non ci sono abissi ma
trapassi: in questi trapassi è l’essenza del folklore, che diventa scienza
quando si integra con l’etnologia.» In questa lucida dichiarazione di
metodo si riflette l’influenza operata sull’autore dall’evoluzionismo e dal
comparativismo, che costituiscono i caratteri salienti dell’antropologismo
inglese, del quale Marett, pur accogliendo concezioni storicistiche, era
l’ultimo rappresentante di rilievo.
L’applicazione delle idee evoluzionistiche allo studio della poesia
popolare, porta Cocchiara a considerare il canto popolare soprattutto
espressione etnografica, cioè documento di vita e di costumi del popolo, e i
fatti culturali in esso contenuti come sopravvivenza di prodotti culturali di
civiltà arcalche o del mondo primitivo. La ferma convinzione che la poesia
popolare non è dissociabile dal contesto della cultura popolare induce
Cocchiara ad affiancare alla «lettura letteraria» dei testi poetici una
«lettura etnografica» (sono espressioni di Alberto Cirese) per poterli più
correttamente intendere e valutare. I risultati del suo lavoro in questa
direzione sono contenuti nel volume Il linguaggio della poesia popolare
(1942; 2a ed. 1951), rifatto, con ulteriori ampliamenti, col titolo Le origini
della poesia popolare e apparso nel 1966, dopo la sua morte. Lo stesso tipo
di analisi, con le stesse prospettive, è applicato da Cocchiara
all’illustrazione di temi narrativi della tradizione popolare (per esempio nel
volume Genesi di leggende, tre edizioni dal 1940 al 1949).
La fedeltà all’impostazione evoluzionistica degli studi folklorici e
l’impegno di stabilire legami sempre più stretti tra etnologia e folklore sono
preminenti nei suoi scritti fino alla seconda guerra mondiale. Nel
dopoguerra, le opere di Croce e il libro di De Martino, Naturalismo e
storicismo nell’etnologia, promuovono l’accostamento di Cocchiara allo
storicismo idealistico, come è documentato dalla sua produzione di quegli
anni, della quale fanno parte le opere più significative: Storia delle
tradizioni popolari in Italia (1947); Il mito del buon selvaggio (1948);
Storia del folklore in Europa (1952); Il paese di Cuccagna (1956); Popolo e
letteratura in Italia (1959); L’eterno selvaggio (1961); Il mondo alla
rovescia (1963).
Tra queste opere, tutte di notevole impegno, caratterizzate da
abbondanza di letture e di spogli e dalla viva partecipazione dell’autore ai
temi trattati, delle quali qui non è possibile discorrere (come non è
possibile dire del molto lavoro di Cocchiara come docente, preside di
facoltà, direttore del Museo etnografico Pitrè di Palermo e degli «Annali
del Museo Pitrè»), due soprattutto segnano una tappa sfavillante nel
cammino di Cocchiara: la Storia del folklore in Europa, e L’eterno
selvaggio. Nella traduzione russa della Storia, apparsa a Mosca nel 1960,
la nota introduttiva si apre con queste parole: «Il libro dello scienziato
italiano colma le lacune sostanziali esistenti nella letteratura del folklore
mondiale». E in una rivista sovietica di etnografia di quell’anno si coglie
questa esclamazione: «Ecco finalmente il libro di un occidentale che ha
qualcosa da insegnarci.» In effetti il libro è stato curato con l’impegno di
chi realizza un’opera guida. Cocchiara descrive minutamente il sorgere nei
vari centri di cultura europei di problemi e metodi che in seguito
costituirono la scienza del folklore, e proiettandole su un ampio sfondo
storico-culturale esamina le teorie etnologiche-folkloriche in connessione
con i presupposti filosofici dei vari studiosi. Egli è consapevole che non è
possibile scrivere la storia del folklore isolandola dalla storia dei principali
movimenti di idee e dalle correnti letterarie e scientifiche che hanno
caratterizzato il progresso del pensiero europeo negli ultimi quattro secoli,
e dentro queste grandi correnti riconosce e segue il filone specifico del
folklore, che spesso ha rappresentato uno dei tratti più significativi di
movimenti filosofici o letterari. La storia del folklore non si presenta quindi
come un susseguirsi meccanico di concezioni e di scuole, ma come
un’intensa lotta ideologica.
Se la Storia del folklore in Europa colloca Cocchiara tra i più illustri
folkloristi del dopoguerra, L’eterno selvaggio, che giustamente Antonino
Buttitta considera l’opera più matura e organica di Cocchiara etnologo, lo
fa annoverare tra i più avvertiti studiosi di etnologia. In questo lavoro, la
tesi che il selvaggio è «il protagonista della nostra cultura», svolta
dall’autore con suggestivi accostamenti, fa assumere all’etnologia, che
nella prassi della ricerca è storia delle civiltà primitive, la dimensione di
storia delle civiltà. «Sotto questo profilo – soggiunge Buttitta – vengono ad
essere identificate etnologia e scienza del folklore, risultandone anche
esteso topograficamente il concetto espresso nella Storia del folklore in
Europa a proposito della storicità delle tradizioni popolari.»
Nella ricerca senza verità precostituite, con la storia come riferimento
costante, consiste il senso più alto dell’insegnamento di Giuseppe
Cocchiara: «Una storia – egli ha scritto – che è la storia di tutti, di
dominatori e di dominati, di accademici e di contadini. E in questa storia,
che è la storia dell’uomo, l’esigenza della scoperta del primitivo e del
popolare non è un fatto esterno: è un dato stesso della nostra coscienza,
che in quella esigenza acquista esperienze nuove ed originali.»

1971
* Giuseppe Bonomo (1923-2006), etnologo, insegnò Storia delle tradizioni
popolari presso l’Università di Palermo.
Premessa

La scienza del folklore e il suo soggetto. Che cos’è il popolo dei folkloristi. La storia del folklore,
storia dei dominati. Il folklore come aspetto ineliminabile della storia della cultura e della civiltà. La
storiografia del folklore come parte integrante della storia della storiografia. L’Europa alla ricerca di
se stessa.

Nelle sue Lezioni di storia della filosofia lo Hegel ebbe a osservare che
non è possibile scrivere un’introduzione alla storia della filosofia senza
mettere prima in luce il concetto stesso di filosofia, tanto più che questa «ha
la caratteristica e, se si vuole, lo svantaggio di prestarsi sin da principio alle
più svariate opinioni circa il proprio concetto, ciò che essa possa e debba
fare». Non è possibile, allo stesso modo, esporre la storia del folklore, senza
prima vedere qual è il concetto che deve animare questa disciplina, le cui
definizioni sono spesso quanto mai contrastanti.
Nato allo scopo di raccogliere e di studiare le varie manifestazioni della
vita popolare quale essa si articola nelle civiltà storicamente formate, il
folklore appare infatti a molti suoi cultori come una scienza autonoma con
leggi e metodi propri. Appare ad altri invece come una scienza sussidiaria,
la quale prende le sue leggi e i suoi metodi dall’etnografia, dall’etnologia,
dalla psicologia o comunque dalla sociologia. Il che comporta spesso certe
interferenze naturalistiche fra il folklore e queste discipline che pur hanno
in comune molti problemi. Né infine mancano gli studiosi i quali ritengono
che il folklore si risolve in filologia quando raccoglie e interpreta i canti
popolari, le fiabe, le novelle, le leggende ecc.; in storia dell’arte, quando
studia l’architettura rustica, le ceramiche popolari, i manufatti ecc.; in storia
delle religioni quando studia gli spettacoli e le feste; in storia dell’etnografia
quando studia le costumanze, gli usi ecc. E così via.
Il folklore sarebbe insomma l’insieme di vari elementi, il cui studio si
risolverebbe nelle varie discipline menzionate. In effetti però ciò che pone
dei limiti a una disciplina altro non è che il proprio soggetto. Se si dovesse
considerare infatti il folklore come filologia, etnografia, sociologia,
psicologia, noi potremmo esporre soltanto la sua storia filologica, quella
etnografica o psicologica, non la storia del folklore, il quale invece, perché
si possa studiare come tale, deve porre un suo particolare problema. Ma
qual è, dobbiamo domandarci, tale problema?
Prima di rispondere a questa domanda, dobbiamo osservare che in realtà
la storia del folklore ci è stata spesso presentata sotto l’aspetto di un vero e
proprio mostro che vive in sé e per sé come certi protagonisti delle favole
nordiche. Ma non è questo il modo d’intendere il folklore e tanto meno la
scienza del folklore. Si sono create, altre volte, sul folklore delle facili
teorie, contro le quali è poi comodo battagliare, forse perché, in tal modo, si
crede anche di poter distruggere il soggetto stesso del folklore, che è quanto
dire il popolo. Questo, che è un modo peggiore del primo, non solo
disorienta gli studiosi, ma discredita una disciplina alla cui sistemazione
hanno lavorato generazioni di scienziati.
Si aggiunga ancora che la stessa disciplina del folklore si è svolta, in
mezzo a dubbi e a incertezze, su due linee che procedono l’una accanto
all’altra, spesso ignorandosi a vicenda, onde ecco da una parte le tradizioni
orali, esplorate con intenti filologici o estetici, e dall’altra le tradizioni
oggettive, le cui ricerche sono collegate a interessi storici o storico-
etnologici. La letteratura popolare ci dà, è vero, dei testi individui, i quali
come tali possono anche rivendicare la loro natura artistica. Ma quei testi,
così considerati, non sono che brani di letteratura, quando invece per il
popolo, da cui provengono, essi fanno parte inscindibile di quel retaggio
dove si riflettono istintivamente, ma unitariamente, i molteplici valori dello
spirito umano. Da qui l’unità fra la letteratura popolare e l’etnica
tradizionale, tanto più che le stesse produzioni popolari orali (canti,
leggende, proverbi ecc.) rimangono spesso organismi senza vita, quando
non vengono illuminate dal costume, dall’uso, dalla credenza che le
armonizza, le vivifica e spesso le spiega.
Così pertanto – per riattaccarci di nuovo allo Hegel – come non è
possibile scrivere la storia della filosofia se esistono intorno a essa diversi
concetti, perché, dati concetti fra loro diversi, si danno più filosofie, onde
quella dell’una escluderebbe quella dell’altra, allo stesso modo è
impossibile esporre una storia degli studi delle tradizioni popolari, se
intorno ad essa si hanno diversi concetti (ecco, dunque, perché si verrebbe
in questo caso a esporre la storia filologica o etnografica o sociologica degli
studi delle tradizioni popolari). In realtà la storia degli studi delle tradizioni
popolari, perché possa essere effettivamente scritta, deve essere guidata da
un problema, che gli altri assommi e accomuni, e la cui risoluzione dipenda
dal suo stesso soggetto, vale a dire dalle tradizioni popolari, le quali
presuppongono non solo una tradizione, ma una tradizione che sia popolare.
Si afferma, è vero, che l’unità del folklore si deve perciò ricercare
nell’unità del suo soggetto, che è quanto dire nel retaggio dei cosiddetti
volghi dei popoli civili (ravvisati, in genere, nelle classi strumentali). È un
errore però, a nostro avviso, rinchiudere il folklore, cioè la materia del
folklore, nel cerchio di quei volghi, cui a torto o a ragione i folkloristi
danno il nome di popolo. E ciò perché il concetto di popolo, anche se esso
possa e debba rispecchiarsi principalmente nel vulgus, non è
esclusivamente sociologico. Il termine popolo può assumere i significati più
diversi: il sociologo, lo storico, l’uomo politico parlano infatti di un popolo
che risponde sempre per essi a qualche cosa di particolare, a certi interessi
etici o spirituali che sono il fine del loro fare o del loro pensare. Lo studioso
delle tradizioni popolari si rivolge sì a determinate classi, ma per lui il
popolo non è soltanto l’insieme di queste classi. Il popolo è l’espressione di
una certa quale visione della vita, di certi atteggiamenti dello spirito, del
pensiero, della cultura, del costume, della civiltà che si presentano con
caratteri propri, specifici, determinati. E qui è la natura stessa del folklore, il
quale, come ben ammoniva il Gramsci, e tale ammonimento ha pur sempre
la sua validità, specialmente in Italia, «non va concepito come una bizzarria
o una stranezza o come un elemento pittoresco, ma come una cosa che è
molto seria e da prendere sul serio», tanto più che esso si risolve in una
«concezione del mondo e della vita».
Un popolo, del resto, è pur sempre quello che la sua storia l’ha fatto:
storia non soltanto politica, ma vita storica in tutte le sue manifestazioni,
dalla lingua all’economia, dal diritto alle costumanze. È vero che la storia
del folklore è viziata, a volte, da premesse che sono la negazione stessa
della storia e dell’estetica, onde si insiste, ad esempio, sugli assurdi concetti
di una storia minore rispetto a una storia maggiore, di una letteratura o di
un’arte minore rispetto a quella maggiore. Ma è pur vero che le tradizioni
popolari, quali esse siano, sono sempre delle formazioni storiche, né più né
meno come la lingua, l’economia, il diritto. Né è possibile che esse, fatti
spirituali, documenti di vita, di pensiero o di arte, vivano al di fuori (o al di
sopra) della storia, la quale non è fatta soltanto dai dominatori, ma anche e
soprattutto dai dominati. La storia è la loro vita e la loro anima.
Ma allora, se le tradizioni popolari vanno considerate come formazioni
storiche, il problema fondamentale che, data la loro natura, esse pongono, è
un problema di carattere storico. E il compito dello studioso delle tradizioni
popolari è quello di vedere come esse si sono formate, perché si
conservano, quali sono stati e quali sono i bisogni che ne determinano non
solo la conservazione, ma quella continua, e direi naturale, rielaborazione,
dov’è il segreto stesso della loro esistenza, che è un continuo morire per un
eterno rivivere.
È qui, d’altra parte, in questa continua rielaborazione, che il folklore si
distingue per un suo determinato atteggiamento espressivo che lo rende
inconfondibile. In realtà gli studiosi di folklore si sono spesso affannati a
favoleggiare, ad esempio, dei misteriosi nascimenti della letteratura
popolare. Ma il nascere non può essere qui qualcosa di distinto dall’essenza
stessa e dal peculiare carattere di quel dato storico, di quel particolare
fenomeno letterario, che come ogni altro sorge spontaneo in noi per
originalità e libertà dell’atto creativo, né può ripetere le sue cause fuori di
sé: il che però non toglie che le sue radici si affondino nella tradizione di un
ambiente di cultura caso per caso diverso.
In questo senso il problema del folklore è quello di definire quei
caratteri, di definire cioè quel che sia da dire popolare e quello che invece
non lo sia. Indubbiamente bisogna considerare popolare tutto ciò che dal
punto di vista creativo ci si presenta come qualcosa di elementare, di
ingenuo, come un’adesione diretta al reale, al sensibile, a quanto con
evidenza e immediatezza solleciti la nostra sensibilità ed emotività. Non è
possibile tuttavia considerare ciò che è popolare senza animarlo coi valori
che sono insiti nella tradizione, che è quanto dire nella continua vitalità e
presenza del passato. E perciò bisogna vedere nel concetto di popolare la
tendenza, il bisogno e l’esigenza dell’individuo che vive con gli altri, pensa,
per così dire, con un’anima che è la sua anima e quella degli altri, del
piccolo vasto mondo che lo circonda e in cui si concludono la sua realtà e la
sua storia.
Dal concetto di popolo e di popolare così inteso deriva un concetto più
chiaro di ciò che noi chiamiamo folklore, e quindi una comprensione più
precisa dei rapporti che intercorrono fra il folklore e la filologia in senso
lato, fra il folklore e la storia delle religioni e quindi della mitologia ecc. Né
diverso è il concetto che deve richiamarci il termine primitivo nel quale
spesso si converte il primo. È vero che il primitivo è stato inteso, a volte,
come un prima cronologico e come tale ravvisato fra i cosiddetti popoli
selvaggi, fra popoli diversi cioè da quelli delle civiltà occidentali. Ed è vero
altresì che il primitivo così inteso è stato quanto mai fecondo nella storia del
folklore. Ma di cos’altro si tratta anche qui, come del resto avevano ben
compreso gli storici del Settecento, e in particolare il Vico, se non di un
dato ideale della nostra coscienza e del nostro essere, un dato da cui noi
siamo passati o passiamo e che vive e rivive in noi?
L’etnologia, che è quanto dire lo studio dei popoli primitivi, non può non
avere tuttavia, così come li ha il folklore, i suoi confini empirici, dentro i
quali sono legittime le relative comparazioni. Sta di fatto, però, che tanto
l’etnologia che il folklore non sono altro, e non possono essere altro, che
uno specifico campo di possibili ricerche storiche, destinate a chiarirsi e
illuminarsi a vicenda, per chiarire e illuminare le nostre stesse civiltà. Si è
detto, e giustamente, che in caso contrario l’etnologia rimarrebbe un campo
ozioso. Ma è forse diversa la posizione del folklore? E possiamo noi
pertanto esporre la storia del folklore senza abbinarla a quella della
etnologia, anche se non sempre il folklore, per essere studiato, richiede il
suo ausilio?
Così stando le cose, a noi sembra dunque che il problema che investe il
folklore non è un problema filologico, sociologico, psicologico, etnografico
ecc., ma è un problema essenzialmente storico, che tutti gli altri assomma e
trasfigura. Non si vuol negare con ciò la validità che nel campo del folklore
assumono le varie discipline filologiche o naturalistiche di cui, ove e
quando sia il caso, il folklo-rista si deve avvalere con la consapevolezza di
non scambiare gli strumenti di lavoro col proprio lavoro. È compito del
folklorista infatti non isolare quelle ricerche, ma vivificarle l’una con
l’altra, tanto più che nel campo del folklore l’intrinseco interferire delle
varie discipline è pur sempre dominato dalla natura stessa del folklore, che
è quanto dire dal concetto di ciò che si dice popolare.
E questo compito del folklorista è e deve essere, a nostro avviso, il
compito dello storico del folklore, il quale, naturalmente, nella sua
narrazione non può non ricorrere a determinati limiti cronologici, per
quanto questi, in fondo, altro non siano che punti di riferimento per la
nostra mente, tanto più che, ove noi vogliamo effettivamente comprendere
l’indole di una disciplina, è necessario vedere qual è il momento particolare
in cui essa nasce come ricerca autonoma.
È noto ora, in proposito, che nel ricercare le radici da cui il folklore,
inteso come disciplina autonoma, trae il suo nascimento scientifico, gli
studiosi si sono quasi sempre dichiarati concordi nel ritenere che esso, per
quanto riguarda l’etnica tradizionale (usi, costumi, credenze ecc.), si
rifaccia al movimento filosofico dei secoli XVII e XVIII, mentre, per quanto
riguarda la letteratura popolare (canti, leggende, proverbi ecc.), si ricolleghi
al Romanticismo. E di recente anche Thomas Mann ebbe ad affermare che
lo stesso Romanticismo non solo trasse «dalla profondità del passato i tesori
delle fiabe e delle canzoni», ma anche «fu un grande protettore della
scienza del folklore che nella sua luminosità variegata ci appare come una
derivazione dell’esotismo».
Il momento in cui la scienza del folklore comincia ad acquistare
consapevolezza, critica e storica, di se stessa, non può però, a nostro avviso,
farsi risalire né al movimento filosofico dei secoli XVII e XVIII, e tanto meno
al Romanticismo, che da quel movimento trasse la linfa che in parte lo
alimenta. E di ciò si è accorto appunto un acuto folklorista francese, il
Saintyves, il quale è dell’avviso che le scoperte geografiche del secolo XVI,
e in particolar modo quelle del Nuovo Mondo, obbligarono gli studiosi del
tempo a riproporsi molti problemi inerenti alla storia delle istituzioni e
potenziarono un mezzo di indagine, quello della comparazione, onde
nacque così l’etnografia moderna, e con essa il folklore.
È dopo la scoperta dell’America, peraltro, che si fa sempre più viva nella
coscienza europea la lotta contro i vincoli e le eredità di una cultura che
sembra politicamente e socialmente come la negazione dello spirito e di
ogni originaria libertà. Ed è allora altresì che si viene formando e
sviluppando una letteratura etnografica, che se spazia nei confini
dell’esotico si insinua pure nella cultura europea come stimolo di ricerca.
L’Illuminismo, il Preromanticismo, il Romanticismo, il Positivismo,
l’Evoluzionismo ecc., non sono che le tappe di questa ricerca, la quale
subirà le varie modificazioni della storiografia, inserendosi in quella
evoluzione generale che si va compiendo nello stesso spirito europeo. Ed è
qui, in tale ricerca, che lo studio del folklore assume un suo aspetto
particolare, legato com’è, fra l’altro, a una fitta rete di miti e di messaggi, in
cui si inverano esperienze politico-sociali, filosofiche e artistiche.
Questi miti e questi messaggi finiscono, d’altra parte, con l’unire
l’Europa legandola in una ideale unità, mentre assumono una loro validità
nei loro stessi errori. In questo senso: che quegli errori sono, a loro volta,
uno stimolo necessario e costante per il progresso della nostra disciplina. Si
tratta, in fondo, di miti e di messaggi in cui ciascuna nazione dà o crede di
dare il meglio di se stessa e che coincidono con l’avvento della ragione, con
la teoria del contratto sociale, con l’idoleggiamento e la missione dei popoli
e delle nazioni, con la formazione della classe operaia. Non solo: ma anche
col rinnovamento della poesia, della letteratura, della musica che dalle
tradizioni dei popoli traggono nuovi impulsi.
Gli studi del folklore, che sarebbe ingenuo isolare da tutte queste
esperienze che danno loro vita, non vanno dunque considerati come tanti
tessuti ciascuno a sé stante, bensì come un unico tessuto nel quale i vari fili
s’intrecciano, è vero, ma non per darci altri fili, bensì il tessuto stesso. Lo
storico che vuole peraltro indagare l’origine e lo sviluppo degli studi del
folklore europeo deve convertire i cosiddetti metodi che li hanno a mano a
mano caratterizzati non in una serie di ricette a carattere magico – «fai
questo e avrai quest’altro» –, ma in una somma di esperienze e di
interpretazioni personali. È ovvio quindi concludere che la storia del
folklore non è, e non può essere, che la storia degli indirizzi di pensiero che
tali esperienze hanno promosso, nel loro vario concretarsi e individuarsi
nella personalità e nel mondo della cultura dei singoli studiosi, la cui opera
va giudicata non solo per quel che valse ma anche e soprattutto per quel che
vale.
È alla luce di questi criteri che io mi accingo a studiare come si sia
formata in Europa una coscienza del folklore e come da essa sia nata poi la
scienza del folklore. La mia indagine pertanto è, e vuole essere, una storia
interna, o meglio direi in senso vichiano, ideale di tutto un movimento di
studi che porta l’Europa alla ricerca di se stessa in ciò che essa ha di più
intimo. Come tale essa ha la sua unità e il suo centro vitale nella cultura
europea. E come tale deve necessariamente riguardare soltanto quegli
studiosi che vissero e pensarono nel clima storico di quella cultura e in
funzione di essa si posero i problemi di cui si occuparono.
Debbo dire infine che, come termine ad quem della mia narrazione, se
pur ho ritenuto opportuno esaminare la fase più recente degli studi
folkloristici, tuttavia ho limitato il mio esame a quelle figure la cui opera è o
può considerarsi conclusa. E ciò non perché dell’immediato passato non
possa farsi storia. È questo un luogo comune smentito da tutta la storia della
storiografia antica e nuova. Ma perché in particolare quando si tratta di
teorie e dottrine spesso, come è inevitabile, controverse, qualche volta di
ipotesi quanto si voglia acute e geniali, che però attendono una conferma
scientificamente fondata, di spunti interpretativi che potrebbero dare luogo
a un ulteriore svolgimento, di polemiche infine o accenni polemici che
offrono o potrebbero offrire ai singoli studiosi la possibilità di chiarire a se
stessi e al lettore, il proprio pensiero, l’opera tutta quanta di ciascuno di noi
è come un libro in cui non si è ancora pervenuti all’ultimo capitolo, al
capitolo conclusivo. Per il rispetto che dobbiamo all’intenso fervido lavoro
di coloro che oggi rappresentano la scienza del folklore ho preferito non
scrivere l’ultimo capitolo di questo libro.
Parte prima
Alle fonti di un nuovo umanesimo:
lo studio dei popoli
1. La «scoperta del selvaggio»

1. Una nuova provincia del sapere

La scoperta dell’America alimenta, in Europa, un nuovo umanesimo, il


quale aggiunge allo studio del mondo classico, lo studio dei popoli e delle
civiltà più lontane. Ed è l’epoca, soprattutto, dell’uomo primitivo il quale
non viene cercato, come nel Medioevo e nello stesso Rinascimento, nella
tradizione di Adamo e quindi collegato all’idea della colpa originaria, bensì
fra le foreste lontane dell’America dove il duro dominio europeo non
spegne il fondamentale carattere di colui che verrà, ormai, considerato
come il rappresentante della natura e che sarà chiamato, di volta in volta,
primitivo, barbaro, selvaggio.
Nella prefazione con cui si apre la seconda edizione del Golden Bough,
il Frazer osserva che «la scoperta delle antiche letterature fu per gli
umanisti una rivelazione, che schiuse davanti ai loro occhi abbagliati una
splendida visione del mondo antico, quale non era stata immaginata, nei
suoi sogni, dal monaco medievale, all’ombra taciturna del chiostro, sotto il
tintinnio solenne delle campane». Ebbene, la vita dei popoli primitivi, egli
aggiunge, «spiegherà davanti al nostro sguardo uno studio che tende a
familiarizzarci con la fede e con le pratiche, con le esperienze e con gli
ideali non soltanto di due razze particolarmente dotate, bensì dell’umanità
intera; che ci permette di seguire l’uomo nel suo lungo cammino, nella sua
lenta e audace ascesa. E così come l’eremita della Rinascenza trovava nei
manoscritti polverosi del passato, oltre che un alimento nuovo per il suo
pensiero, un campo di lavoro inesplorato; allo stesso modo, nella massa dei
materiali, che a noi provengono da tutto il mondo, bisogna ravvisare una
nuova provincia del sapere, la cui affermazione esige il lavoro di
innumerevoli generazioni di studiosi».
Nella gara – cui allude il Frazer –, la scoperta dell’America, se da una
parte pone i suoi cronisti e i suoi storici in una particolare posizione, in
quanto sugli Indiani dell’America nulla avevano potuto dire gli scrittori
dell’antichità, dall’altra crea e potenzia un mito che sarà quanto mai
fecondo nella storia della cultura europea: il mito del buon selvaggio. I più
acuti interpreti della vita indiana d’America, come, ad esempio, Pietro
Martire, Jean de Léry e Bartolomé de Las Casas, non solo difendono infatti
i primitivi americani, scagionandoli dalle accuse che, in genere, li avevano
avviliti, ma li esaltano per le loro particolari virtù, facendo coincidere – si
noti bene – la loro primitività con la loro bontà. Il che è la nota dominante
non solo delle innumerevoli Collezioni dei viaggiatori, edite in diverse
lingue e contenenti i dettagli più piccanti sulle credenze, sui miti e sui
costumi delle popolazioni americane, ma anche delle Relazioni della Nuova
Francia e delle Lettere edificanti, dovute ai missionari e dedicate, in gran
parte, allo studio dei popoli primitivi. Nasceva, così, un uomo-primitivo che
era l’ideale stesso dell’umanità, ma di un’umanità migliore di quella in
mezzo a cui si viveva. E nasceva, contemporaneamente, una nuova
provincia del sapere, dove lo studio dei popoli non era più una curiosità
erudita.

2. Il selvaggio come documento storico

In tal modo il primitivo diventa un documento. E, diciamolo pure, un


documento storico. Ma, come tale, egli sarà anche un motivo di polemica. I
viaggiatori, i missionari, gli storici degli Indiani di America, dotati come
sono quasi sempre di una cultura classica, che è poi uno dei legami che
forma l’unità stessa della civiltà occidentale, non solo idealizzano i popoli
lontani che descrivono o che studiano – nel che seguono la tendenza, così
viva nell’antichità greco-romana, di ricordare i popoli lontani non corrotti
dalla civiltà – ma nobilitano il loro eroe, il selvaggio, paragonandolo ai
Greci e ai Romani. Essi ci ricordano, inoltre, come è stato bene osservato,
«quei poeti dell’età augustea che avevano cantato le lodi della vita rustica e
sognato prossima l’età dell’oro». Con questa differenza: che per essi l’età
dell’oro non è un sogno, ma una realtà. Intendiamoci: non si vuol dire con
ciò che il mito dell’età dell’oro formulato dall’età classica coincida (come
crede, ad esempio, il Gottard) col mito del buon selvaggio. Si vuol soltanto
porre un termine di paragone. Il mito del buon selvaggio, quali che possano
essere i suoi antecedenti diretti o indiretti, nasce con la scoperta
dell’America, nasce con l’etnografia o meglio con quelle tendenze
geografico-politiche le quali si insinuano decisamente nella storia della
etnografia moderna.
Né va dimenticata, in proposito, l’opera che a favore di tali tendenze
svolse uno degli spiriti più acuti e penetranti che siano vissuti alla fine del
Cinquecento, il Montaigne, il quale, in maniera profonda, sente l’interesse
non solo per la vita popolare delle nazioni europee, ma anche per quella dei
selvaggi. Egli, ad esempio, intuisce il problema della poesia popolare che
per lui (evidentemente quando è poesia) è poesia d’arte:

«La poesia popolare ha tale grazia e ingenuità per cui si può paragonare a ciò che di più bello possa
darci la poesia d’arte; come si vede nelle villanelle di Guascogna e nelle canzoni importate dalle
nazioni che non hanno coscienza d’alcuna scienza e nemmeno di scrittura» (Essais, libro I, cap.
LIV).

Ma intuisce soprattutto il valore umano che assumono quelle nazioni le


quali, com’egli dice, non hanno né scienza né scrittura. «Io ho avuto, – egli
afferma, – presso di me un uomo, il quale era stato dieci o dodici anni in
quell’altro mondo che è stato scoperto nel secolo nostro e dove Villegagnon
prese terra che denominò Francia Antartica». E dopo avere notato che
dovrebbe essere compito di ciascun scrittore «scrivere quello che egli sa e
quanto egli ne sa», lancia i suoi strali contro la «boria delle nazioni civili».

«Ora io trovo che nulla c’è di barbaro e di selvaggio in questa nazione [cioè nel Brasile] a quanto me
ne fu riferito, se non che ognuno chiama barbaro ciò che è fuori della sua consuetudine. Come infatti
noi non abbiamo altra pietra di paragone della verità e della ragione che l’esempio e l’idea delle
opinioni o delle usanze del paese dove viviamo, che qui è per noi la perfetta religione, la perfetta
politica, il perfetto uso di tutte le cose. Essi [i Brasiliani] sono selvaggi alla stessa maniera che noi
chiamiamo selvaggi i frutti che la natura ha spontaneamente prodotto: mentre, a dire il vero, sono
quelli alterati da noi con il nostro artificio e sviati dall’ordine naturale che dovremmo chiamare
piuttosto selvaggi. In quelli sono vive e vigorose le vere e più utili naturali virtù e proprietà, le quali
noi nei nostri abbiamo imbastardite e accomodate al piacere del nostro gusto corrotto» (Essais, libro
I, cap. XXXI).

Suggestivo e poetico è, quindi, il quadro che il Montaigne traccia di quei


selvaggi, «Vi è qualcuno dei vecchi, – egli osserva, ad esempio, – che la
mattina prima che ci si metta a mangiare predica in comune nella capanna,
passeggiando da un capo all’altro, e dicendo una medesima sentenza più
volte, finché egli abbia finito il suo andare… Egli non raccomanda se non
due cose: il valore contro i nemici e l’amore verso le loro donne». Sembra
addirittura un quadro biblico. E commentando infine una loro canzone, egli,
se da una parte avvicina qualche immagine di essa a un’anacreontica,
dall’altra vi nota «un linguaggio dolce, che ha il suono grato e che tira alle
terminazioni greche. Questo è l’animo con cui il Montaigne si avvicina al
mondo dei primitivi. E quasi a riaggruppare le fila del suo discorso
aggiunge:

«Diceva Epicuro che nello stesso tempo in cui le cose sono qui come noi le vediamo, esse sono tutte
parallele e nella stessa maniera in parecchi altri mondi. E in quanti esempi noi, oggi, non vediamo
similitudini e rassomiglianze fra questo nuovo mondo delle Indie occidentali e il nostro?
In verità, considerando ciò che è venuto a nostra conoscenza del corso di questa civiltà, mi sono
spesso meravigliato di vedere a grande distanza di tempo l’incontro di un gran numero di opinioni
popolari mostruose e credenze selvagge. Lo spirito umano è un grande operatore di miracoli»
(Essais, libro II, cap. XII).

Il Montaigne, così, non solo dà vigore e risalto al metodo comparativo,


ma immette nel circolo della cultura europea un documento che era valido
allora soltanto nei libri dei viaggiatori o comunque nelle storie dei popoli
lontani. Si è detto che, in fondo, il Montaigne guarda il mondo dei primitivi
con una certa punta di umorismo. Ma quel suo umorismo non colpisce i
selvaggi del tempo tanto quanto i suoi contemporanei ? E quell’altro
mondo, com’egli lo chiama, non costituisce già per lui una nuova e raffinata
emozione?

3. I selvaggi negli Essais di Montaigne

Nell’avvicinarsi ai primitivi, a questi homines Dei recentes, il Montaigne


sentì soprattutto il fascino di un’opera che segna nel campo dell’etnografia
un passo decisivo: l’Histoire d’un voyage fait en la terre du Brésil,
autrement dite Amérique, narrata, nel 1568, da Jean de Léry. Il quale non si
contenta, come aveva fatto il Martire (cui dobbiamo le Decades de Orbe
Novo, pubblicate fra il 1511 e il 1530, che pur assumono un posto
preminente fra le esposizioni contemporanee della scoperta dell’America)
di osservare che gli Indiani d’America vivono contenti dei doni della
natura, ma va oltre: li scagiona da tutte le accuse che più cominciavano a
pesare su di loro, e, per quanto le sue ricerche siano limitate al Brasile, egli,
se da una parte riconosce che i suoi selvaggi non sono meno barbari di
quanto molte volte lo siamo noi, dall’altra non esita ad apostrofare, con
l’imprecazione stessa di un selvaggio, gli incivilitori europei:

«Voi siete dei grandi pazzi. Occorrono, dunque, tante ricchezze a voi e ai vostri figli o a quelli che
verranno dopo di voi? La terra che vi ha nutriti non sarà ugualmente sufficiente per nutrirli?»

C’è nel Léry lo stesso atteggiamento, impetuoso ed eroico, di un Las


Casas, il quale non è affatto un esacerbato che giustifica l’odio per il
prossimo (cioè per gli Spagnuoli) con l’amore verso gli stranieri (cioè gli
Indiani dell’America), ma un lottatore che non esita a mettere in subbuglio i
suoi contemporanei perché sappiano quale civiltà essi portano a dei popoli
che non ne hanno affatto bisogno. La sua Historia de las Indias, che uscì fra
il 1552 e il 1561, è l’opera di un anticonquistatore che non tralascia
occasione alcuna per elogiare la vita dei selvaggi americani che gli
appaiono, come al Léry, pazienti, astuti, obbedienti, industriosi, giusti, ecc.
I conquistatori spagnuoli, intenti a far degli Indiani d’America degli schiavi,
mal sopportavano, del resto, la stessa opera dei missionari. Dice fra
Bartolomé de Las Casas in una sua famosa lettera del 1555 che «gli
encomenderos giustificavano la loro tirannia con la scusa di insegnare
l’avemaria agli indiani encomendados». E aggiunge: «Figurarsi che dottrina
per gente che non sapeva se l’avemaria è legno o pietra o roba da mangiare
o da bere».
Il Montaigne comunque, pur utilizzando l’opera del Léry, è piuttosto
sulla linea di un Martire che difende, sì, i selvaggi, ma soltanto per quello
che essi possono insegnarci. La polemica relativa alla conquista e allo
sfruttamento dei selvaggi d’America si stempera tuttavia in lui in una serena
contemplazione, che è al tempo stesso un’evasione e una soluzione, l’una e
l’altra comunque poste sul terreno politico-sociale inerente al mondo
occidentale.

«Le leggi naturali, meno imbastardite delle nostre, comandano i selvaggi. Ma questa è una tal purità
che io sento qualche volta dispiacere che la conoscenza non ne sia venuta piuttosto in tempo quando
vi erano degli uomini che ne avrebbero saputo giudicare meglio di noi. E mi dispiace che Licurgo e
Platone non l’abbiano avuta, perché mi sembra che quello che noi vediamo per esperienza in codeste
nazioni [cioè fra i selvaggi d’America] sorpassi non solo tutte le pitture di cui la poesia ha abbellito
l’età dell’oro e tutte le invenzioni da essa fatte per rappresentare una felice condizione umana, ma
ancora la concezione e l’ispirazione stessa della filosofia: essi non hanno potuto immaginar
un’ingenuità così pura e semplice come noi la vediamo per esperienza; né hanno potuto credere che
la nostra società si possa mantenere con così poco d’artificio e di saldatura umana. C’è una nazione,
direi io a Platone, nella quale non c’è alcuna specie di traffico, nessuna conoscenza di lettere, nessuna
conoscenza di numeri, nessun nome di magistrato né di autorità politica, nessun uso di verità, di
ricchezza o di povertà, non contratti, non successioni, non divisioni, non occupazioni se non oziose,
non rispetto o parentela se non comuni, non vesti, non agricoltura, non metallo, non uso di vino o di
biade: ignote le parole stesse che significano menzogna, tradimento, dissimulazione, avarizia, invidia,
calunnia, perdono» (Essais, libro I, cap. XXXI).

Il mondo dei primitivi nel Montaigne è pur sempre quello dei viaggiatori
e dei missionari che si erano spinti fra gli Indiani di America. Bisogna,
tuttavia, osservare che la natura quale egli la concepisce non è più quella, ad
esempio, di un Marsilio Ficino. E di ciò si accorse un amico e discepolo del
Montaigne, lo Charron, quando nel suo libro De la Sagesse, che uscì nel
1601, e che non senza significato apre il secolo XVII, affermò decisamente
che l’uomo è naturalmente buono.

4. Un etnografo-folklorista: Lescarbot

Il Montaigne nella cui voce e nel cui spirito risuona ancora l’idea
classica – ma un’idea classica già travasata nell’altro mondo – chiude,
dunque, il Cinquecento. Ma la sua polemica, o meglio il suo messaggio
(dove, quali che siano le sue fonti, si compendia l’esperienza vissuta dai
missionari e dai viaggiatori che si erano spinti fra gli Indiani d’America)
sarà accolta in pieno dal secolo successivo, durante il quale, anzi, i
confronti fra noi, uomini civili, e i selvaggi, nuovo acquisto della cultura
europea, assumono sempre più il carattere di una rivolta politica e culturale.
Così, ad esempio, nel 1609 esce a Parigi una Histoire de la Nou-velle
France, narrata da Marc Lescarbot che è un estroso avvocato parigino oltre
che un buon poeta. Ebbene, egli si preoccupa, è vero, di darci un rapporto
sugli «usi della Nuova Francia, comparati con quelli degli antichi popoli»
ma questa comparazione è fine a se stessa? Nel descriverci il modo di
pensare dei selvaggi americani, quale esso si articola in tutta la loro vita,
nella maniera di vestirsi, nella vita familiare, nelle istituzioni cui si adagia,
nei riti e nelle cerimonie cui partecipa, il Lescarbot ricorre continuamente a
Erodoto, a Plinio o a Tertulliano. Stravaganti, tuttavia, le sue spiegazioni.
Una tribù ha l’uso di bruciare i mobili e le cose di colui che muore. Ecco
una lezione per gli avari europei. C’è di più: Lescarbot non si contenta di
paragonare gli usi dei primitivi con quelli dei Greci o dei Romani. Egli fissa
anche il suo sguardo sulle tradizioni popolari della Guascogna. E anche qui
i suoi confronti sono piuttosto mnemonici, vaghi. Non importa: è la sua una
delle prime opere dove lo studio dei popoli primitivi si incontra, sia pur
timidamente, con quello dei volghi dei popoli civili.
Il Lescarbot nelle sue comparazioni è, in fondo, sulla stessa via dei
Gesuiti. Egli compara i primitivi ai Greci e ai Romani per nobilitarli. E
anche lui, che pur non ha preoccupazioni teologiche da sostenere, insiste su
quella comunità di origine fra primitivi e Greci che era stata una delle tesi
sulla quale di più avevano dissertato gli stessi Gesuiti. Senonché, quando a
noi sembra che il Lescarbot voglia riportarci con la sua idealizzazione del
selvaggio in un’Arcadia di maniera, ecco che la sua comparazione investe
due mondi, il nostro e quello dei selvaggi. A discapito del primo,
naturalmente. Volete sapere, egli si domanda, perché i selvaggi sono felici e
vivono effettivamente nell’età dell’oro? Perché in essi non esiste né il mio
né il tuo. Noi Europei siamo sempre in disaccordo, tutti, su tutto. Nei
selvaggi, invece, la concordia è il fattore predominante della vita. Gli spiriti
europei sono tutti tormentati dalla vanità e dall’ambizione: i selvaggi non
conoscono questo tarlo, e sono felici.
La comparazione fra gli usi dei primitivi e i nostri si trasferiva pertanto,
nel Lescarbot, su un piano sociale. E su tale piano si porrà, quasi a
concludere un altro secolo di esperienze inerenti ai viaggi fra gli Indiani
d’America, il barone de La Hontan: un tipo violento come il Las Casas, ma
estroso come il Lescarbot.

5. Dialogo fra un Hurone e un Europeo, ovverossia la polemica politico-


sociale del barone de La Hontan

Vissuto a lungo fra gli Indiani d’America – spirito avventuroso, egli


combattè anche contro i buoni Irochesi – il barone de La Hontan, ritornato a
Parigi, sentì profondamente il fascino dei paesi lontani dove gli si era
maturata una nuova coscienza culturale. I suoi Voyages e i suoi Mémoires,
usciti nel 1708, sono il riflesso di questo stato d’animo. E i suoi selvaggi
sono quelli stessi dei missio-nari, del Léry, soprattutto del Lescarbot.
Aprite, ad esempio, il Nouveau voyage dans l’Amérique Septentrionale,
comprenant plusieurs relations de différents peuples qui l’habitent. Ecco
come vi vengono incontro i suoi selvaggi: «Vivono felici»; «Sono un
esempio per noi»; «Fra essi non vi è né mio né tuo»; «Vivono in una specie
di eguaglianza conforme ai sentimenti della natura». I suoi libri che tanto
appassionarono i contemporanei sono, comunque, inchieste lavorate, ricche
di dettagli, massicce. Ma qual è il loro succo? Ce lo dirà il Gueudeville nei
Dialogues de Monsieur de la Hontan et d’un Sauvage dans l’Amérique,
edito ad Amsterdam nel 1704. Il selvaggio che il Gueudeville mette in
iscena è un Hurone il quale ha visitato l’Europa e può, quindi, riviverla nei
colloqui che egli ha col barone. Personaggio immaginario quell’Hurone,
vero: ma egli non esce dai Voyages e dai Mémoires del suo interlocutore, di
cui accoglie, senz’altro, le immagini e i ragionamenti, gli impeti e il furore?
E il dialogo fra il selvaggio e il barone è vivo, mosso, drammatico. In
esso sono affrontati i problemi più vivi del tempo, a ciascuno dei quali se
non è data, certo, una soluzione, è data un’impostazione che è il messaggio
di nuove speranze. Sentite. L’Europa si vanta di possedere nella Bibbia una
pagina mirabile di umanità. Il selvaggio gli contrappone le sue religioni
naturali, dove non vi sono imposture, dove tutto è chiaro, luminoso.
L’Europeo si vanta di possedere la migliore legislazione del mondo. Basti,
in proposito, l’eredità di Roma. Bene: ma gli Europei hanno le leggi e non
le applicano. I selvaggi non hanno leggi, ma hanno in cambio una morale
naturale, la quale ha il valore di una legge. Ma di una legge che si osserva.
L’Europeo ha una civiltà? Quale? Vedetelo l’Europeo, vi dirà il selvaggio: è
una maschera carnevalesca con abito blu, cappello nero, piuma bianca,
nastri verdi. In cambio, il selvaggio è un efebo al sole. Vero: il selvaggio
non sa leggere. Ma, in cambio, egli evita un mare di guai. Morale: solo i
selvaggi possono aiutarci a ritrovare la libertà, la giustizia, l’eguaglianza.
Uomo della natura con le sue religioni e con le sue leggi naturali, il
selvaggio che conversa col barone de La Hontan par che esca dalla Sorbona
dove ha letto Montaigne. Non è un selvaggio, il suo. È un elegante filosofo,
il quale riassume e potenzia gli ideali che già vengono sempre più
affermandosi nella coscienza del tempo, la quale invoca disperatamente un
mondo migliore: quello stesso, cioè, che in fondo era stato immaginato
nelle utopie, dalla Repubblica di Platone (cui si era già rivolto il pensiero
del Montaigne) alla Utopia di Tommaso Moro, sul cui schema sono
impostati i Dialogues del Gueudeville. Questi, più tardi, nel 1714, tradusse
appunto quel libro che non è soltanto uno scherzo, ma anche un testo di
letteratura religiosa, in cui è dato rilievo alla forza e alla nobiltà della
religione naturale (anche se essa rimane subordinata alla Rivelazione). La
Repubblica di Platone, dopo aver prodotto, osserva a proposito il Salvemini,
«la Utopia di Tommaso Moro, la Città del Sole di Campanella, la Nuova
Atlantide di Bacone, aveva continuato a servir di modello a consimili scritti.
E anche la seconda metà del secolo XVII aveva avuto nella Storia dei
Sevarambi (1677) di Varaisse d’Alais, in alcune parti del Telemaco di
Fénelon e in altri romanzi dello stesso genere, le sue descrizioni
apologetiche di paesi debitori della loro felicità alla eguaglianza economica
e alla mancanza della proprietà individuale». Bene: il Gueudeville, con
l’aiuto del barone de La Hontan innesta, con violenza, il mito del buon
selvaggio di America su quel tronco.
6. La «lezione» del selvaggio

Così la scoperta dell’America dà una nuova visione del mondo in mezzo


a cui si vive. La comparazione fra noi civili e gli Indiani d’America ha
posto dei problemi, nella cultura e nella politica, che gli altri popoli
primitivi non avevano mai sollevato. Ecco: i missionari – insegni
soprattutto il caso di Padre Lejeune, autore delle notevoli Relations de ses
voyages de 1632 à 1661 – si erano preoccupati e si preoccupavano sempre
più di amare i selvaggi e di considerarli come figli di Dio e nostri fratelli, si
sforzavano di «sopportare la loro imperfezione senza dire parola» e di dare,
quindi, alla colonizzazione un carattere umano. Essi, in fondo, come ben
nota il Cerbi, si erano altresì preoccupati e si preoccupavano di elogiare la
mitezza evangelica dei selvaggi per sottrarli all’avidità dei mercanti e alla
tirannia dei governatori. Ma pensarono mai che le loro idealizzazioni
dovessero diventare argomenti quanto mai validi contro le istituzioni del
loro tempo? Contro quella stessa religione che era cara al loro cuore e per la
cui diffusione si erano spinti lontano affrontando sacrifici e patimenti?
I missionari non sempre erano stati cauti nel considerare la religione dei
popoli primitivi. Alcuni, armati di sacro furore, vedevano in essa un
ammasso di superstizioni pagane. Ma altri, e furono i più intelligenti, non
amavano trasferire negli Indiani dell’America gli stessi caratteri del
primitivo cristiano? Così, ad esempio, ecco quanto Padre Lallemand, in una
Relation des Jésuites del 1648, afferma a proposito dei selvaggi di quel
Canada, caro al cuore del barone de La Hontan:
«A dir vero, nessuna conoscenza di un dio è stata tramandata a questi popoli dai loro padri, sì che
prima che noi mettessimo piede nel loro paese, non possedevano altro che vane favole sull’origine
del mondo. Nondimeno, selvaggi come erano, albergava nel loro cuore il sentimento segreto di una
divinità, di un principio primo, autore di tutte le cose, che essi pur non conoscendo invocavano. Nelle
foreste, a caccia, sull’acqua, nei pericoli della tempesta, essi lo chiamavano in loro aiuto».

Ed era una presa di posizione chiara, netta, categorica. Senonché,


nonostante le caute osservazioni di un Martire o quelle, più decise, di un
Lallemand, la teoria dei popoli primitivi come popoli atei prendeva piede e
si affermava. L’aveva diffusa per gli Indiani d’America il Pigafetta il quale,
a proposito delle Isole Marianne, aveva annotato: «Non adorano nulla».
Ebbene, ci si domanda, come fece il Pigafetta a saper ciò, se egli, come
confessa, in quelle Isole si è fermato soltanto poche ore? Ma più tardi verrà
il Léry il quale, smentendo Cicerone, affermerà che, in questi ultimi tempi,
siamo nel 1609, si son scoperte delle nazioni in cui non si trova nessun
sentimento religioso. Egli si riferisce soprattutto al Brasile, dove, però
subito aggiunge, si crede nell’al di là (come se ciò non costituisse un
sentimento religioso).
Comunque stessero le cose, ci fosse o no una religione fra gli Indiani
d’America, sta di fatto che coi libri di viaggio dedicati ai popoli primitivi,
se pur si insinua sempre più nella coscienza del tempo il dubbio, vi si
insinua anche il concetto della natura come antidoto dei mali. In una sua
favola il La Fontaine ci parla dell’uomo che corre dietro la fortuna e dice di
lui:

… Les mers étaient lasses


de le porter: et tout le fruit
qu’il tira de ses longues voyages
ce fut cette leçon que donnent les sauvages;
«Demeure en ton pays par la nature instruit».

Così il dubbio e la natura si intrecciano fra di loro. Ma la lezione che i


selvaggi danno agli Europei è ormai chiara. E anche un poeta come La
Fontaine – l’aveva preceduto Montaigne – l’ha fatta sua.

7. Da Oroonoko a Robinson Crusoe

Il mito del buon selvaggio, intanto, dalla Francia (che in un certo senso
l’ha importato dalla Spagna e soprattutto dal Las Casas) passa in
Inghilterra. Ma qui assume un aspetto, direi, romantico. Le requisitorie del
Las Casas, del Léry, del Lescarbot in Inghilterra si sono stemperate in una
patetica storia uscita fin dal 1688: l’Oroonoko di Aphra Behn, dove si narra
di un giovane commerciante inglese che si imbarca a Londra per trafficare
nelle Indie Occidentali. I suoi compagni sono massacrati in un’isola. Ma
egli viene salvato da una selvaggia, Yoriko, per amore. Quando finalmente
il giovane commerciante può salire a bordo di un vascello, si porta Yoriko
che lo segue umile e sottomessa. Ma il giovane – finita la festa gabbato lo
Santo – sul suo vascello, che è quanto dire sulla sua terra, riflette meglio sul
tempo perduto e sugli affari andati a monte. E vende come schiava la sua
amante. Ecco l’Europeo: vile e infame. Ed ecco la selvaggia: anima nobile e
generosa.
Si tratta di una storia – l’amore di un europeo e di una selvaggia – che
l’Inghilterra conosceva fin dal 1624, quando, cioè, nella sua General
History of Virginia il capitano Smith, che ne era l’autore, narrò la famosa
avventura che aveva avuto con una indiana, Pacahoantos. Ma, nella Behn,
quella storia non è soltanto una pagina di letteratura, è anche un motivo di
polemica politico-sociale. Il che costituirà l’ossatura, salda e robusta, di
un’altra opera che si affaccerà sulla scena della vita letteraria dello stesso
paese: Robinson Crusoe. Il suo autore, Daniel Defoe, era vissuto in mezzo a
un ambiente dal quale non aveva saputo raccogliere che la disperazione. Era
andato avanti con dei libelli politici. Ma a sessant’anni egli sente la
nostalgia che era stata, e che era, nell’animo degli utopisti e dei viaggiatori.
E da buon inglese, visto il passivo delle sue azioni, punta su quella nuova
esperienza come a un probabile attivo.
Si parlava molto, allora, in Inghilterra, delle avventure capitate a un
marinaio scozzese, Alexander Selkirk, che, dal capitano della nave sulla
quale si trovava, era stato abbandonato in una isola deserta, dov’era
rimasto, solo, quattro anni. Questa storia fu narrata nella seconda edizione
di un libro del Rogers intitolato A Cruising Voyage round the World. Da
essa il Defoe trasse, appunto, l’ispirazione per scrivere, nel 1719, il volume
The Life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe, of York,
Mariner. Ma quel volume – che pur dette l’avvio a tutta una serie di
robinsonate, per quanto nessuna raggiungesse, poi, il colore e il calore della
prima – non era già, per suo conto, sulla stessa via già percorsa da tutta una
letteratura che aveva amato descrivere dei paesi felici, lontani nel tempo e
nello spazio, non ancora corrotti dalla civiltà? Pensate, per la Francia, alla
già citata Histoire des Sevarambes di Varaisse d’Alais, che è del 1677, e al
Télémaque del Fénelon, che è del 1698. Oppure ancor meglio, ai Voyages et
aventures de Jacques Massé, pubblicati nel 1710 dal Tyssot de Patot. Ma
qual era, ci si deve ora domandare, lo spirito di questi scritti? Quale quello
del Defoe? C’era indubbiamente nei Francesi una esigenza da far valere:
evadere verso un nuovo mondo, immaginario che fosse, dal quale vedere il
loro mondo. C’era già in essi, precursore o epigono, il barone de La Hontan,
e, insieme a lui, c’era l’ansia di voler vivere secondo natura, in mezzo alla
natura.
Il Robinson Crusoe codifica, potremmo dire, la stessa ansia. Ma è già
un’altra via. Gli utopisti-romanzieri francesi, descrivendo la vita
avventurosa del loro eroe, dogmatizzano contro tutti i dogmi; non solo, ma
fanno del suo naufragio – che è, in genere, la nota dominante delle loro
fantasie – il naufragio della civiltà occidentale. Il naufragio di Robinson è sì
liberazione dalla società, ma è al tempo stesso un avvicinarsi a Dio.
Robinson nell’isola dove è naufragato non è solo. È con la natura che pensa
a lui, lo salva e lo redime. Ma per lui, la natura è Dio.
Sarebbe suggestivo, forse, applicare l’interpretazione calvinistica del
mito di Adamo ed Eva al racconto del Defoe. Robinson è un Adamo senza
Eva. Anche lui alla conquista – pratica – del mondo. D’un mondo, cioè, da
costruire dal nulla. Ma, quali che possano essere gli echi che noi possiamo
oggi ravvisare nel Robinson Crusoe, sta di fatto che in esso il punto cruciale
è costituito dall’incontro di Robinson con Venerdì, ch’egli salva dai
cannibali. Venerdì, il selvaggio dai lineamenti da efebo, generoso e leale
come di rado sono gli Europei, è il ritorno stesso alla civiltà, quando questa
è stata conquistata non fuori di sé ma dentro di sé.
Questo è il messaggio di Robinson, il quale, nell’isola dove approda, non
incontra né re né pastori come avviene nel mito, diffuso un po’ dovunque,
dall’Italia alla Grecia, del fanciullo abbandonato sulla riva; e, tanto meno,
delle streghe come il protagonista della Tempesta; né, infine, quei savi che
predicano la morale agli occidentali lontani, insoddisfatti dei loro governi e
delle loro monarchie; bensì la sua coscienza d’uomo, quella coscienza che,
invano, egli aveva cercato nel seno della sua civiltà e del suo mondo.
Robinson, dopo ventotto anni, ritorna nella sua terra. Ma quando Defoe
ritorna alla sua civiltà, non saprà vedere che delinquenti e prostitute.

8. Di alcune mediazioni del mito del buon selvaggio nella coscienza


europea

La civiltà e il mondo del Defoe non sono, infatti, l’Eden – ormai rimasto
lontano –, ma sono l’Europa. La quale, come ben osserva il Dawson, dopo
il rapido progredire della evangelizzazione delle terre di oltre Atlantico,
cessa di essere un continente cristiano e perde una sua caratterizzazione
tipica ed esclusiva – anche se essa conserva ancora la sua fedeltà alla
tradizione classica e al suo umanesimo. È vero, aggiunge lo stesso Dawson,
che la società nel suo complesso rimane dominata dalle idee religiose, così
com’era stata nel Medioevo e che «ci si può persino domandare se la
religione abbia mai destato un interesse più appassionato che durante il
secolo che va dal 1560 al 1660, l’epoca dei puritani e dei Giansenisti, di
santa Teresa e di san Vincenzo di Paola». Ma in mezzo a questa società non
v’è già tutto un ribollire di idee, di anticipazioni, di intuizioni che sono
destinate a travolgere e a rinnovare la società futura e a cui certo non è né
sarà estraneo il mito del buon selvaggio? Questo mito medierà, è vero, nella
coscienza europea una problematica che cambia con le fasi storiche in cui si
verrà articolando. Si può senz’altro affermare però che esso fin dalla sua
formulazione, se da una parte ravvisa nel selvaggio l’autentico uomo di
natura (con le sue leggi e con la sua religione naturale), dall’altra potenzia
l’interesse per tutto ciò che appartiene all’uomo e che è umano.
Il selvaggio è ormai una pietra di paragone su cui si misura il mondo
classico e il mondo moderno – il che costituisce il germe della storia del
folklore soprattutto quand’essa si innesta sull’etnologia. Il suo mito
contiene peraltro l’affermazione di un nuovo valore da cui quella storia
trarrà un impulso vigoroso: l’affermazione, cioè, di tutto ciò che è semplice
ed elementare in opposizione a tutto ciò che è artificioso e voluto.
2. Il messaggio dell’Oriente

1. Gli Stranieri-Simboli

In Europa, dopo la scoperta dell’America, si ha indubbiamente


l’impressione di vivere in un mondo nuovo che è, al tempo stesso,
insoddisfatto e ribollente. Il mito del buon selvaggio è servito, fra l’altro, a
contrapporre gli stessi Europei agli Indiani d’America (come appunto ci
documentano il Las Casas, il Léry, il Montaigne e il barone de La Hontan).
Senonché, dobbiamo aggiungere, in tale contrapposizione, dove il metodo
comparativo ha la sua prima applicazione, sia pure ingenua ma generosa,
quanti altri miti non si uniscono a quello del selvaggio, e lo accompagnano,
lo completano, potremmo dire lo perfezionano? E tuttavia essi sono il
portato non più di una civiltà elementare, qual è quella degli Indiani
d’America, ma di civiltà raffinate, quali sono quelle orientali, che pur
ebbero uno svolgimento storico fin da quando l’Europa non possedeva
nemmeno una sua unità culturale.
Un acuto ed elegante pensatore francese, l’Hazard, ebbe già ad osservare
che insieme al mito del buon selvaggio arrivarono allora in Europa gli
Stranieri-Simboli. E aggiunge: «Arrivarono con le loro usanze, le loro leggi,
i loro valori originali: e s’imposero all’attenzione di un’Europa avida
d’interrogarli sulla loro storia e la loro origine. Diedero le risposte richieste:
ciascuno la propria». Il che dunque non era e non voleva essere soltanto
interesse erudito per le usanze, le leggi e per i valori spirituali, dove si
inverava la vita di quegli Stranieri-Simboli, ma anche, e soprattutto,
approfondimento della coscienza europea. È un errore, quindi, ritenere che
l’Europa, dal Cinque al Seicento, abbia considerato gli Stranieri-Simboli
come espressione di popoli inferiori, quali che essi fossero. È vero, anzi, il
contrario, in quanto, se da un lato quella contrapposizione pose l’interesse
non solo sui popoli primitivi ma anche sui popoli orientali, vale a dire su dei
popoli che nell’un caso o nell’altro erano lontani dall’Occidente, dall’altro
fece sentire agli stessi Europei una nuova coscienza etica.
È noto che fin dal Medioevo l’Europa aveva avuto una letteratura che
faceva suo oggetto l’Oriente; né questa fioritura venne interrotta durante il
Rinascimento; sicché, in tal modo, le civiltà dell’antico Oriente –
dell’Arabia soprattutto e dell’India – erano state più o meno presenti alla
coscienza europea. Ma dopo la scoperta dell’America l’Oriente si dispiega
non soltanto a coloro che alimentano i traffici e che, ritornando in patria, si
intrattengono, con interessi vari e molteplici, sui paesi visitati, ma anche ai
missionari la cui attenzione si rivolgerà ancora una volta all’Oriente,
stimolata dalla speranza di diffondervi il Cristianesimo. E i commentari
degli uni e degli altri non rimangono lettera morta, curiosità; ma, come già
avvenne per i popoli primitivi, si immettono nella cultura del tempo, di cui
rappresentano uno degli aspetti più inquietanti.
In questa nuova fase di rinnovata scoperta dell’Oriente non si tratta,
però, come ben osserva un nostro acuto arabista, il Gabrieli, «di un contatto
diretto e irriflesso come nel Medioevo, ma di un consapevole protendersi
dello spirito occidentale verso mondi lontani nel tempo e nello spazio: la
conoscenza ed esplorazione scientifica corrisponde ad esigenze intellettuali
e morali di tutta una società e un’epoca che non possono essere
adeguatamente studiate se non indagando tutto il fenomeno del
filorientalismo». Il quale dunque ci denunzia e ci rivela tutto un mondo che,
se pure è pieno di esotiche realtà, costituisce, come quello dei primitivi, un
altro acquisto della rinnovantesi cultura europea.

2. L’Oriente come vivaio di forze, di ideali e di religioni

L’Oriente, quale appare ai viaggiatori dopo la scoperta dell’America, non


è più dunque soltanto un rigido termine di paragone in base al quale, come
avvenne nel Medioevo, Oriente significa qualcosa di radicalmente diverso
dal costume e dalle credenze dell’Occidente. È qualcosa di più: un vivaio di
forze, di esperienze, di ideali, di religioni.
L’atteggiamento di coloro che si recano in Oriente, infatti, è in genere
quello di osservatori cauti che cercano di rendersi conto di quelle forze, far
tesoro di quelle esperienze, lumeggiare quegli ideali. Apriamo infatti le
relazioni Delle navigazioni et viaggi che raccolse un geografo, il Ramusio,
e che uscirono fra il 1550 e il 1606. Oppure: la raccolta di Richard
Hakluyit, Principal Navigations, Voyages and Descovers, edita nel 1589.
L’Oriente non è più il vago paese dell’utopia. Ma si scinde nei suoi popoli.
E ciascun popolo ha una sua fisonomia, la quale non è chiusa in se stessa,
lontana e impenetrabile, ma vicina allo spirito di chi l’osserva per
penetrarlo e capirlo.
C’è, indubbiamente, nelle relazioni dei viaggi raccolti dal Ramusio e
dallo Hakluyit un indomabile spirito di avventura. Ma c’è spesso, nei loro
autori, l’ansia di apprendere. L’Oriente si dischiude, quindi, a coloro che
l’hanno visitato con molteplici interessi, soprattutto con quello etnografico.
Il che, comunque, forse in nessun altro viaggiatore fu così penetrante come,
più tardi, nel Della Valle, i cui Viaggi descritti in 54 lettere familiari, editi
per la prima volta a Roma, fra il 1650 e 1658, furono tradotti in francese, in
tedesco, in inglese, in olandese e raggiunsero una popolarità non comune.
Il Della Valle non ha interessi commerciali da soddisfare, tranne quello
di acquistare una serie di manoscritti orientali, conservati ancor oggi alla
Vaticana. Egli è un pellegrino di amore, cui l’Oriente appare «come un
mondo favoloso, per molti aspetti ancora primitivo e selvaggio», che
tuttavia custodisce delle «vestigie ed echi delle più antiche e gloriose civiltà
europee». Da qui i suoi confronti fra le feste, ad esempio, che si svolgono in
Persia, in Turchia, in India e quelle europee. Ma, con le feste, è tutta la vita
orientale che egli mette in rapporto con quella occidentale. E le sue
osservazioni sono acute, giudiziose, animate da uno stile dove insieme al
dotto umanista si sente uno spirito moderno che ha vivo l’interesse
scientifico dell’etnografia.

3. «Di Dio è l’Oriente, di Dio è l’Occidente»


Lo stesso interesse fu sentito da un altro italiano, Daniello Bartoli, il
quale, a differenza del Della Valle, non fu mai in Oriente, ma di esso seppe
darci un quadro appassionato attraverso le relazioni e le lettere dei suoi
confratelli gesuiti. Avuto l’incarico di scrivere una Istoria della Compagnia
di Gesù, la divise in sezioni secondo il criterio consigliatogli dalla
ramificazione degli istituti di cui narrava le vicende e, per quanto egli parli
dei suoi confratelli «intenti a convertire idolatri» o di popoli «ancora
barbari» (come egli, in fondo, considera gli Indiani) fatto è che anch’egli si
ferma, con acume, sugli usi e sui costumi dei popoli che descrive. Il Bartoli
ha, è vero, i suoi pregiudizi, ma questi si trasformano in letteratura
edificante. E comunque fra quei pregiudizi, l’apostolato dei suoi confratelli
assume toni epici che ricordano i quadri dell’epoca. I suoi missionari non
domandano a volte che di spargere il loro sangue per la salute delle anime.
Ma il più delle volte sono dei pionieri che, ancora una volta, e sia pure con
interessi religiosi, collegano l’Oriente con l’Occidente.
Il Bartoli nella stesura delle sue opere sulla Cina e sul Giappone (che
seguirono quelle sull’Asia e che furono pubblicate fra il 1653 e il 1661) si
avvalse molto delle lettere e delle relazioni di Matteo Ricci, – soltanto in
questi ultimi tempi rese di pubblica ragione, come, del resto, molti altri
documenti di viaggiatori –. Ma egli seppe comprendere, in fondo,
l’apostolato di quel dotto missionario? Il Ricci aveva tollerato, insieme ai
suoi compagni di fede, le pratiche nazionali dei suoi neofiti, anche se egli le
riteneva esempi di superstizioni e di idolatria. E in ciò fu seguito, per
l’India, da Padre De Nobili, che non fu alieno dal fare certe concessioni ai
costumi e alle idee locali. Da qui le critiche più acerbe rivolte ai due
missionari che vennero accusati di praticare, addirittura, il paganesimo. Da
qui la polemica che suscitarono i cosiddetti riti cinesi e malabarici, e che
divampò tanto in Oriente quanto in Occidente. Con questo risultato: che
essa, se da una parte servì a stabilire il carattere superstizioso di quei riti
(rispetto al Cristianesimo), dall’altra rivelò lo spirito di civiltà cui si
informavano. Ma da qui, anche, e di ciò si sente un’eco lontana in alcune
pagine dello stesso Bartoli, la comprensione che i missionari (specialmente
i Gesuiti) sentirono per l’altezza morale, anche se di entità naturale, e non
soprannaturale, di alcune religioni, specialmente asiatiche, e quindi per il
problema della religione naturale, pur sempre degna di rispetto, anche se
incompleta di fronte alla Rivelazione. Ecco: l’orientale sarà stato, com’era
ritenuto da quei missionari, un idolatra e un superstizioso. Ma era un’anima
di Dio. «Di Dio – dirà più tardi Goethe, – è l’Oriente, di Dio è l’Occidente».
Buono, in fondo, come il selvaggio, quell’orientale!

4. Il Turco e il Persiano danno lezioni all’Europa

Né egli, l’orientale, era soltanto buono. Era saggio, pieno di freschezza


nonostante i millenni che portava sulle sue spalle, capace di insegnare
qualcosa agli Europei. I viaggiatori e i missionari avevano cercato di vedere
quanto dell’Occidente fosse in Oriente e quanto dell’Oriente fosse in
Occidente. Ma ecco che, a un certo punto, un orientale entra sulla scena
europea per criticare le bizzarrie e i pregiudizi dell’Europa. L’orientale
vuole, ormai, il sopravvento. E lo avrà.
Così, ad esempio, nel 1684, esce un interessante lavoro del genovese
Giovanni Paolo Marana, l’Espion du Grand Seigneur, dove si parla, è vero,
della Turchia ma ancor più dell’Europa. Né qui il Turco è quello che aveva
ritratto, per burla, il Routrou nella Sœur (1645). Egli, se mai, par che esca
da certe pagine del Rycaut di cui il Briot, nel 1671, aveva pubblicato
l’Histoire de l’État présent de l’Empire Ottoman (edito per la prima volta in
inglese nel 1666). Oppure dall’atmosfera che gli aveva creato il Tavernier, il
quale, nel 1676, aveva pubblicato un libro che costituì, appunto, una delle
più appassionanti letture dei francesi: i Six Voyages en Turquie, en Perse et
aux Indes.
Gli intenti del Marana non sono quelli che si erano prefissi il Rycaut e il
Tavernier. Il suo Turco, infatti, non è in Turchia ma è in Francia, a Parigi, da
dove invia delle relazioni segrete al Divano di Costantinopoli. Né è senza
significato che una delle numerose edizioni dell’Espion, quella del 1710,
porti l’aggiunta: dans les Cours des Princes Chrétiens. Le corti, soprattutto
quella di Parigi, sono il suo osservatorio. E le sue lettere sono brevi,
stringate, piene di fatti. Egli è un libero pensatore che giudica i cristiani
senza animosità. Si preoccupa comunque più della morale che del dogma.
Vorrebbe conciliare tutte le religioni, poiché in esse v’è sempre qualcosa di
buono. I costumi dell’Europa lo interessano. Ma dopo tutto la Turchia, con
le sue tradizioni più semplici, non è da preferire a questa complicatissima
Europa?
Due anni dopo la pubblicazione dell’Espion, nel 1686, appaiono in
Francia i Voyages de M. le Chevalier Chardin en Perse et autres lieux de
l’Orient. Lo Chardin, anch’egli indirizzato al commercio delle gemme
(come lo fu il Tavernier), è un tipo estroso. Non è cattolico. Protestante
pieno di fervore, sente come i suoi predecessori il fascino dei paesi lontani.
La patria del suo cuore comunque è la Persia, i cui abitanti non hanno nulla
da invidiare agli Europei, per quanto i loro costumi siano diversi. Egli si
propone nelle sue relazioni, qua e là prolisse, ma a volte piene di aria e di
luce, di istruire se stesso per istruire i suoi lettori «di tutto quello che poteva
meritare l’interesse della intera Europa, intorno a un paese che noi
possiamo chiamare un altro mondo sia per la distanza dei luoghi, sia per la
differenza dei costumi e delle massime». E aggiunge: «Il clima, il clima di
ogni popolo è sempre, mi sembra, la causa principale della inclinazione dei
costumi dei popoli». Egli pertanto, se da una parte giustifica la differenza
dei costumi fra gli Europei e i Persiani, dall’altra finisce col considerare la
Persia come un paese che non ha nulla da invidiare all’Europa.

5. L’Egitto, fonte di giovinezza

Ai Cinesi, ai Giapponesi, agli Indiani (dell’India storica), al Turco e al


Persiano, si aggiungono, intanto, altri protagonisti: l’Egiziano, il Siamese e
l’Arabo maomettano. Così, ad esempio, lo stesso Marana, l’inventore del
Turco, pubblica, nel 1696, un romanzo: gli Entretiens d’un philosophe avec
un solitaire sur plusieurs matières de moral et d’érudition, il cui
protagonista, un novantenne, è «più fresco e più roseo di una fanciulla»,
perché è vissuto in Egitto, un paese, questo, dove si impara la «vera
filosofia, che non ha nulla di cristiano». Ma l’Egitto era soltanto una fonte
di freschezza fisica? O non era anche una fonte di freschezza intellettuale?
In una antica opera edita nel 1551 e dedicata alla Mythologiae sive
explicationum fabularum un umanista italiano, Nicola Conti, aveva
sostenuto l’idea che le favole dell’antichità sono dei prodotti artificiali,
destinati a trasmettere gli insegnamenti della filosofia. Egli era convinto,
però, che le conoscenze dei patriarchi ebrei sarebbero passate in Egitto e
dall’Egitto in Grecia. È vero: molti studiosi, come, ad esempio, il celebre
gesuita Adam Kircker, il cui Oedipus Aegyptiacus fu edito a Roma nel
1652, ritenevano che l’idolatria, sotto l’influenza del demonio, venisse
dall’Egitto (tesi ripresa poi nel 1711 dal Banier, che nella sua Explication
des fables identificava quell’idolatria nel culto del sole). Ma ecco che nel
1670 un altro commerciante di gemme, il Bernier, nella sua Histoire de la
dernière révolution des États du Grand Mogol fa sua un’idea che era
comune ad altri viaggiatori: e che cioè in Egitto si debba ricercare l’origine
della musica e della geometria. E c’è di più. Nel 1681 esce il Discours sur
l’Histoire universelle del Bossuet, il quale, sulle orme di sant’Agostino,
segue il cammino dell’umanità immaginandola sotto la guida possente e
trionfale di Dio. Ebbene, fra i popoli che egli descrive, uno di quelli di cui
sente maggiormente il fascino è l’egiziano. Il Bossuet conosce,
naturalmente, Erodoto e Strabone, ma egli ha anche altri testi a sua
disposizione: i racconti dei missionari cappuccini. In base alle
testimonianze che gli offrono queste fonti, egli si rifiuta di credere che
l’Egitto possieda una filosofia antica (o nuova). Possiede, però,
un’architettura che può essere una fonte di ispirazione. E si augura che Tebe
risorga:

«Se i nostri viaggiatori si fossero spinti sino al luogo dove sorgeva quella città, avrebbero certamente
trovato ancora qualcosa d’incomparabile nelle sue rovine, perché le opere degli Egiziani erano fatte
per resistere al tempo… Oggi che il nome del Re si è diffuso sin nelle parti più sconosciute del
mondo e che questo sovrano spinge altrettanto lontano le ricerche delle più belle opere della natura e
dell’arte, non sarebbe un oggetto degno di questa nobile curiosità quello di scoprire le bellezze che la
Tebaide racchiude nei suoi deserti e di arricchire con le invenzioni dell’Egitto la nostra architettura?»

Si aggiunga a tutto ciò che nel 1685 un teologo anglicano, lo Spencer,


pubblica la sua vasta opera De legibus Hebraeorum ritualibus et earum
rationibus dove, se da una parte si afferma, di contro al Bossuet, che la
religione mosaica non era tutta fondata sulla Rivelazione, dall’altra si
sostiene l’influenza decisiva che gli Egiziani avevano avuto sulla legge, sui
precetti e sui riti. E si avrà, indubbiamente, un’idea di quel che allora
rappresentasse l’Egitto.
Il Marana non era né un erudito né un filosofo. È probabile che egli non
conoscesse tutte le opere che, prima di lui, erano state dedicate all’Egitto.
Sta di fatto, comunque, che egli ci dà un Egiziano che, se giudica l’Europa
quasi come l’ha giudicata il Turco, può farlo, «grazie a Dio» con «titolo di
nobiltà», egli figlio di una terra pagana e pur benedetta.
Le stesse pretese dell’Egiziano ha il Siamese, che scende in campo
accompagnato da un arguto spirito francese, il Dufresny, il quale, nel 1699,
nelle sue Amusements sérieux et comiques, un romanzetto che, in molte
pagine, ricorda gli Entretiens del Marana, si propone di allearsi con un
Siamese, pieno di freschezza e di saviezza, per criticare, un po’ alla maniera
del La Bruyère (cui dobbiamo le più belle pagine scritte sui contadini
francesi), i costumi del tempo. Il Siam era allora in onore. Pensate. Nel
1684 i Parigini videro arrivare i primi Mandarini. Nell’85, nell’86, nell’87
missioni francesi si erano recate nel Siam. Dal Siam erano quindi venute le
relazioni scritte soprattutto dagli studiosi ecclesiastici del tempo. In base a
queste relazioni si potè accertare che i Siamesi pur avendo una religione
ridicola hanno costumi puri ed austeri. E sono tolleranti, savi. Ebbene: il
Dufresny si impossessa di queste idee e le divulga abilmente, mentre egli,
già edotto dei segreti della corte francese, si ribella contro i rammolliti
costumi del suo tempo.
Né poteva mancare, in mezzo a questo fluire di interessi che di giorno in
giorno si moltiplicavano, la presenza dell’Arabo. Egli non persuade in un
primo momento. Ma poi si insinua violentemente nella coscienza del
mondo europeo. E più che il Corano lo terrà a battesimo un’opera destinata
a suscitare un’enorme impressione: i Contes Arabes tradotti da Antoine
Galland, discepolo e successore al Collegio Reale di Parigi dell’Herbelot,
che già tanto aveva contribuito a una maggiore conoscenza della civiltà
orientale, fondando, fra l’altro, nel 1697, la Bibliotheca Orientalis.

6. I conti di fata e l’Oriente

I Contes escono a Parigi dal 1704 al 1717. Escono, cioè, in un’epoca in


cui continuava, in Francia, l’ammirazione e la commozione per un genere, i
cui personaggi erano abituati a vivere in mezzo ai tuguri, fra la povera
gente, per la gioia dei bimbi che non hanno altri sogni. Madame d’Aulnoy
aveva dato inizio a quella moda che fu seguita non soltanto da
Mademoiselle Le Force, da Madame de Murat, dal cavaliere di Mailly, ma
soprattutto da Charles Perrault, il quale nel 1697 pubblicava appunto sotto il
nome di suo figlio, P. D’Armancour, che allora aveva dieci anni, le
Histoires ou Contes du temps passé. Per questi spiriti ecco dunque come
appare il passato: in un’atmosfera di sogno e di poesia.
Nell’introduzione, con la quale il figlio, o meglio il Perrault, dedica «a la
Grande Mademoiselle» le sue Histoires (che portano il sottotitolo di Contes
de ma mère l’Oye), egli dice: «On ne trouvera pas étrange qu’un enfant ait
pris plaisir à composer les contes de ce Recueil». E sembra leggere La
Fontaine:

… et moi-méme
si Peau d’âne m’était conté
j’y prendrais un plaisir extrême.

Il Perrault tuttavia riconosceva utile quella pubblicazione perché le sue


fiabe «renferment toute une morale très sensée». Ed egli le rievocava, in
prosa e in versi, con eleganza e finezza, animandole in mezzo a
un’atmosfera mattinale. I protagonisti delle sue fiabe appartengono a tutte le
categorie sociali; vivono, a volte, nella realtà, investendola, però, di un
meraviglioso significato soprannaturale; e la loro morale si invera nella
virtù, nella lotta contro il vizio e contro il male.
Il Perrault, come gli altri favolisti dell’epoca, attinge la sua materia dal
popolo. Le sue Histoires anzi, sotto questo aspetto, continuano quella
tradizione che, in Italia, era stata già in auge, nel Cinquecento, con lo
Straparola e un secolo dopo col Basile, dal cui Cunto di li Cunti la stessa
Madame d’Aulnoy aveva tratto una buona parte dei suoi Contes de fées,
usciti fra il 1682 e il 1690. Si è accennato a rapporti e derivazione fra i
favolisti italiani e i francesi. Il che è incontestabile. Il fatto, però, è che gli
uni e gli altri attingono in genere a una fonte, che era loro comune, e che
essi non sono certo folkloristi, ma scrittori o poeti, la cui opera, tuttavia,
interessa il folklorista, perché documenta in una determinata epoca e in un
determinato ambiente la diffusione di quei motivi novellistici che, fecondi e
vigorosi, respirano in mezzo al popolo.
È vero, d’altro lato, che i favolisti francesi vestirono qualche volta le fate
alla francese, facendole parlare come se fossero state addirittura delle dame
di Versailles. Ma che cosa erano queste favole? Da dove venivano? Nel
1668 il La Fontaine, che già aveva ascoltato con rapimento una favola come
Peau d’âne, pubblica la prima edizione delle sue Fables choisies mises en
verses (che, poi, diverranno i celebri Contes). Due anni dopo, – né è senza
significato che ricordiamo queste date – un erudito francese, il vescovo
Huet – il quale per tutta la sua vita cercò di dimostare che gli dèi dei Fenici,
degli Egiziani, dei Persiani, ecc., discendono da Mosè, convinto com’era
che sotto le più diverse affabulazioni si debba pur ricercare la figura unica
di Dio – in un suo curioso Traité de l’origine des Romans, edito per la
prima volta nel 1670, è dell’avviso che le fiabe sono il prodotto inventivo
dello spirito umano, ma che, tuttavia, comune a tutti i popoli e a tutti i tempi
è lo spirito di imitazione. Non v’è dubbio quindi, egli aggiunge, così stando
le cose, che molte fiabe abbiano avuto la loro origine in Oriente, «E quando
io dico Oriente, – egli conclude, – intendo gli Egiziani, i Persiani, gli
Indiani, i Siriaci, gli Arabi». Vero è che i tempi erano immaturi per
l’impostazione di un problema di quel genere. Ma già l’Huet lo vedeva. E lo
vedrà, qualche anno più tardi, lo stesso La Fontaine, il quale nella
prefazione del 1678 che precede una nuova edizione delle sue Fables,
afferma: «Io debbo una gran parte delle mie fiabe a Pilpay, saggio indiano».

7. Le Mille e una notte

In questa atmosfera, già creata da una parte dai libri di viaggio dedicati
all’Oriente e dall’altra dall’interesse per le fiabe che quei libri avevano
potenziato, si comprende e si giustifica il successo dei Contes del Galland.
Ma che cosa sono questi Contes? Sono i racconti delle Mille e una notte, un
libro, cioè, dove noi sentiamo parlare le civiltà dell’India, della Persia,
dell’Iraq, dell’Egitto, e che è il prodotto di un lento e laborioso processo di
formazione, inveratosi «in un’area di diffusione e di trasmigrazione che
valica di gran lunga l’ambiente di una vita umana e di un determinato
paese».
Il Galland, come ha notato il Gabrieli, «non fu né un traduttore
scientifico con scrupoli di letteralità e completezza, né dall’altra parte un
rifacitore e falsificatore dei suoi originali; ma un letterato ed erudito del
gran secolo che nei suoi viaggi in Oriente aveva osservato quel mondo con
l’obiettivo e lucido interesse di un Della Valle e che rivelava l’esotico
tesoro narrativo capitatogli fra le mani senza abbandoni romantici, con
vigile coscienza delle esigenze storiche e morali da salvaguardare per
rendere l’opera accetta ai suoi contemporanei». I quali, bisogna aggiungere,
s’interessarono subito di quei Contes, dove la vita popolare delle metropoli
orientali è vivificata dalle cose più straordinarie e incalcolabili. Ci si vuol
divertire, ma al tempo stesso si vuole imparare. Le Mille e una notte
s’aprono come un poema, con una invocazione a Maometto. Ma a quella
invocazione segue subito la premessa:

«Lode a Dio, Signore dei mondi, benedizione e salute al Principe dei Profeti, al nostro Signore e
Patrono Maometto, cui Dio doni benedizione e salute continue, incessanti, fino al giorno del giudizio.
Le gesta degli antichi servano da esempio alle generazioni seguenti, affinchè l’uomo vegga gli eventi
ammonitori capitati agli altri e ne tragga ammonimento, e leggendo la storia delle genti passate, ne
ricavi un freno salutare. Lode a Colui che delle storie degli antichi ha fatto un esempio ai posteri. Di
tali narrazioni esemplari sono i racconti detti Mille e una notte con le meravigliose avventure e gli
apologhi in esse contenuti».

Nessun’altra parola si trova, nelle Mille e una notte, prodigata quanto


quella di meraviglioso. Le storie sono tutte meravigliose, «Si meraviglia del
racconto» ogni ascoltatore. Le Mille e una notte sono il tempio delle
meraviglie. In quel tempio sfilano tutte le classi: i re, le regine, i principi, i
ministri, i cortigiani, i visir, i fachiri, i sarti, i mercanti. Tutti, per usare una
frase di quel libro, amano «la poesia e il parlar sentenzioso e ammonitore».
Le vicende, a volte, non hanno nulla di straordinario: sono vicende di tutti i
giorni e di tutti i tempi. Ma ecco che esse sono poi investite dal
soprannaturale, dal meraviglioso, onde accanto ai re troviamo gli uccelli
che leggono, accanto alle schiave i dèmoni che si cambiano in leoni ecc.
ecc. Volano geni e folletti. La magia, bianca o nera, sovrasta con la
religione, sulle vicende umane, in un innesto d’una potenza suggestiva.
Lo stile popolaresco in cui si articolano le vicende passate che pur
mantengono una loro realtà, – qui i re, infatti, hanno sempre un regno;
questa realtà che pur si delizia, dentro un’atmosfera allucinante, di prodigi e
di geni; lo sfondo in cui si animano le vicende, che è quanto dire
quell’Oriente che, poi, è anche un po’ Occidente; – tutto ciò fa delle Mille e
una notte un’opera prodigiosa.

8. Noi e gli Orientali: differenze e concordanze

Il filorientalismo in tal modo, se da una parte coi viaggi affermava dei


valori non cristiani, alimentando, con l’amore per l’esotico, l’idea che già
aveva proposto il mito del buon selvaggio, e cioè l’idea di una religione
naturale; dall’altra favoriva indubbiamente con lo studio delle lingue, la
formazione di una nuova coscienza filologica. La quale, peraltro, dava
anche l’avvio a una storia delle religioni, come appunto, ad esempio, ci
dimostrano le citate opere del Kircker e dello Spencer. Si pensi che il primo,
compiendo un’opera enciclopedica, collega le credenze della Cina e del
Giappone a quelle degli Indiani americani, mentre il secondo cerca, con
vigore di metodo, di stabilire i rapporti fra gli usi degli Ebrei e quelli degli
altri popoli semitici.
Si afferma in genere che l’etnografia teorica e, di conseguenza, il metodo
comparativo non siano stati influenzati dall’orientalismo. Ma in verità si
può accogliere questa tesi? L’orientalismo ha, a nostro avviso, tanto per
l’etnografia teorica quanto per il metodo comparativo che l’accompagna e
la guida, un’importanza notevole in quanto presenta le stesse istanze
suscitate dal mito del buon selvaggio. Se noi diamo uno sguardo
retrospettivo a tutti i libri di viaggi dedicati all’Oriente, ci accorgiamo, è
vero, che molti viaggiatori si fermano soltanto a tutto ciò che è bizzarro e
nuovo, alla maniera di Marco Polo; ma ci accorgiamo anche che altri vanno
ben oltre (come, ad esempio, un Della Valle o un Chardin), mostrando
chiaro il loro intento di valutare gli istituti dei paesi orientali. Il che
inevitabilmente promuove la ricerca tanto delle concordanze fra quegli
istituti e i nostri quanto delle differenze. Le concordanze a loro volta
suscitano indubbiamente quei principi di umanità e di fraternità che già
aveva posto il mito del buon selvaggio. Le differenze, invece, fanno
comprendere come le credenze e le pratiche ecc. debbano essere collocate
nel loro clima storico, perché possano svelarci la loro natura, che non è mai
spregevole o ridicola. Nell’un caso o nell’altro, comunque, in quel sentire le
voci altrui non più come curiosità ma con interessi contingenti e attuali, è la
forza del filorientalismo che mediò, nella coscienza del tempo, quegli
stimoli che daranno allo studio dei popoli una nuova organizzazione, nel
senso che ormai in quello studio saranno compresi gli usi, le credenze, le
superstizioni, tutto ciò insomma che, se non è tutta la tradizione dei popoli,
è una parte, e ineliminabile, di essa.
I popoli orientali, come i primitivi, saranno, insomma, anch’essi una
pietra di paragone con cui si potrà saggiare la vita popolare europea. Ma,
intanto, in mezzo a quale travaglio si svolgeva tale vita?
3. L’Europa fra religione e superstizione

1. La lotta contro l’errore

A mano a mano che in Europa si fa sempre più vivo l’amore per i libri di
viaggi, per i paesi lontani, per le civiltà e le culture più dissimili, assistiamo
a un fenomeno quanto mai interessante: all’esame, cioè, che la stessa
Europa fa di se stessa e quindi della sua tradizione, la quale viene in parte
ravvisata nella sopravvivenza di residui ingenui della vita medievale. A
mettere il dito su quelle piaghe erano già stati gl’Indiani d’America e i
popoli orientali (gli Stranieri-Simboli) per bocca dei viaggiatori, dei
missionari, degli osservatori-filosofi, dei romanzieri. Ma il loro era stato, in
fondo, un esame retrospettivo. Era necessario porre quell’esame su altre
basi. E ciò – strano a dirsi – verrà compiuto con fermezza non soltanto da
quegli spiriti ribelli che vedono nella Chiesa cattolica e nei suoi dogmi
l’arresto di ogni civiltà, ma anche da spiriti pii che, pur militando nella
Chiesa, la vogliono libera da quei pregiudizi che ne inceppano e ne
compromettono l’autorità. Gli uni e gli altri iniziano, così, una lotta alle
credenze tradizionali, o meglio a determinate credenze tradizionali – che è
fondata su principi e su scopi opposti eppure convergenti. Ma qual è,
dobbiamo anzitutto domandarci, l’origine stessa di tale lotta? Quali le
correnti spirituali che l’animano?
La scoperta dell’America, le conquiste scientifiche e la Riforma
costituiscono le tappe fondamentali che hanno dato impulso alla lotta contro
le credenze tradizionali in mezzo a cui viveva la coscienza europea. In
effetti, però, se noi vogliamo chiarire l’origine di quella lotta, o meglio il
suo svolgimento, dobbiamo anche tener conto della Controriforma e
soprattutto di quelle correnti che costituiscono l’avvento stesso del pensiero
moderno, sia che ci richiamino all’osservazione o all’esperienza (Bacone),
sia che prospettino l’autonomia della scienza rispetto alla fede (Galileo), sia
che siano animate dal dubbio metodico (Cartesio), sia che vogliano
conciliare la fede con la scienza identificando Dio con la natura (Spinoza),
sia che indichino un nuovo pensamento della religione (Locke).

2. La Riforma e la comparazione fra il meraviglioso cristiano e il


meraviglioso pagano

La Riforma era stata animata da quello spirito critico che, parallelamente


al movimento umanistico, voleva rifarsi alle fonti, alle origini prime, ai
documenti e alle testimonianze autentiche della fede. Così come gli
umanisti e in particolare la storiografia umanistica – e basterebbe qui
ricordare il Valla e il suo De falso credita Constantini donatione – cercano
di aprire gli occhi su tutto quanto era l’eredità di vecchie leggende o di
antiche tradizioni, ciecamente e passivamente accettate di generazione in
generazione; i riformatori del Cinquecento, i Lutero, i Calvino, gli Zuinglio,
ecc. si pongono innanzi i testi, per accettare solo ciò che, in materia di fede,
in essi sia esplicitamente contenuto. Tutto il resto viene decisamente
respinto. Non si tratta evidentemente di una razionalizzazione della
religione, il che sarà opera dei secoli seguenti. La Riforma accoglie i dogmi,
ma criticamente ne accoglie solo alcuni. In questo dobbiamo vedere la
fecondità di tale movimento nei riguardi di quello che sarà l’ulteriore
processo della cultura europea. Ma bisogna anche notare un altro aspetto
della Riforma, per il quale, però, piuttosto che al Luteranesimo dobbiamo
riferirci al Calvinismo: l’individualismo, il fatto che l’uomo viene a trovarsi
come solo dinanzi a Dio. Mentre, infatti, Lutero considera la religione come
di pertinenza dello Stato, né ammette che il suddito di un principe riformato
possa professare una religione diversa; per Calvino, le comunità politiche
(come le religiose) sono una libera espressione dell’individuo. E qui
appunto dobbiamo vedere le prime origini di quello che sarà, nella dottrina
e nella prassi politica, il liberalismo europeo.
È noto inoltre che se l’Umanesimo ci appare, almeno in certi aspetti,
come l’esaltazione della natura umana sotto l’ispirazione di un paganesimo
classicheggiante, la Riforma invece ravvisa nel paganesimo la corruzione
radicale dell’uomo. Da qui la lotta che essa intraprende contro l’idolatria
romana, impregnata appunto di paganesimo e ravvisata in una massa di riti,
di culti esteriori cui soprattutto si uniformava la vita popolare.
Accolta dal popolo, almeno in un primo momento, in quanto essa
significava non solo ribellione al clero ma anche all’autorità di Roma (è
noto poi invece come lo stesso Lutero si scagliasse contro il ladresco ed
assassino tumultuare del contadinume), la Riforma in fondo riprende una
polemica già iniziata dal Cristianesimo bizantino fin dal secolo VI contro gli
idoli, le immagini che muovono la testa, le cure miracolose ecc., di cui i
monaci erano stati i più zelanti assertori. Vi aggiunge il culto dei Santi e la
venerazione di Maria Vergine. Ma nel riprendere questa polemica, la quale
si fonde con quella dedicata al pagano-papismo e che è accompagnata dalla
critica della teologia papista, la Riforma che cosa fa se non un inventario di
quelle credenze?
Di questo atteggiamento critico il monumento più significativo saranno
gli atti dei famosi Centuriatores Magdeburgi, i quali riprendono in esame
tutta la vasta materia della martirologia cristiana, dei miracoli, delle
leggende ecc. Né bisogna, a questo riguardo, dimenticare gli intimi rapporti
tra Erasmismo e Riforma, poiché indubbiamente lo spregiudicato
umanesimo di Erasmo, se non è da confondere con la rigida teologia di
Lutero, apre la via alle nuove tendenze del secolo.
L’inventario, e con esso lo studio delle credenze tradizionali, non è,
peraltro, fine a se stesso, ove si pensi che gli scrittori protestanti hanno una
meta ben decisa: quella di ravvisare nelle filosofie e nelle religioni antiche
le superstizioni che compongono la liturgia romana e che il popolo
naturalmente accoglie e fa sue. Così la polemica contro l’idolatria romana,
se da una parte potenzia lo studio dei testi biblici, alimentando lo studio
delle lingue semitiche, dall’altra avvia la comparazione dei culti e, con essa,
lo studio della loro antichità, riprendendo quell’indagine già iniziata, con
curiosità di dilettanti, dagli umanisti (come, ad esempio, il Boccaccio, il
Pictorius, il Sardi e il Conti) i quali avevano rivolto le loro attenzioni alle
leggende, alle credenze e ai riti del mondo classico. Nascono, così, dalla
comparazione del meraviglioso cristiano con quello pagano tutta una serie
di summe dedicate alle religioni comparate, alle mitologie, ai riti ecc.,
anche se non di rado si tratti, come la definisce il Fueter, di una vera e
propria storiografia di partito.
Non minore importanza ebbe da questo punto di vista la Controriforma
cattolica. È noto infatti che il Concilio di Trento si scagliò, ad esempio,
contro le consuetudines non laudabiles, e in special modo contro le
credenze nel diavolo, contro la stregoneria ecc. Ma, a dire il vero, questa
lotta fu sostenuta tanto dalla Riforma quanto dalla Controriforma, che
continua a vedere nella stregoneria qualcosa che si avvicina all’eresia.

3. Il Malleus Maleficarum e la letteratura demonologica

La lotta contro la stregoneria trova una delle sue principali fonti nel
Malleus Maleficarum dello Sprenger e dello Institoris, che uscì per la prima
volta nel 1487 e costituì un vero e proprio vangelo per i tribunali
dell’Inquisizione. La mentalità dello Sprenger (sotto il cui nome va in
genere il Malleus) era identica in fondo a quella di Lutero. Eppure lo
Sprenger era un dotto domenicano il quale si muoveva fra la Bibbia e le
opere di san Tommaso come a casa sua. Egli è, contemporaneamente, come
lo ha ben definito il Michelet, «il buon senso e la negazione del buon
senso». Ma, prescindendo da queste sue qualità, c’è una ragione che ci
spinge a ricordare il suo Malleus: e cioè che esso è la più ricca enciclopedia,
che noi abbiamo intorno ai pregiudizi del secolo XV e non soltanto della
Germania. Si direbbe che lo Sprenger il quale, con eroico fervore, dispensò
il rogo a tante povere ammalate, abbia avuto una preoccupazione: quella del
folklorista che accoglie le superstizioni del suo tempo, le paragona tra di
loro, le immette nel passato da cui provengono e, infine (canonisti e
glossatori in mano), le considera come fenomeni ereticali contro cui lancia
la sua inesorabile condanna. Sotto questo aspetto il Malleus è un’opera che
interessa in maniera considerevole lo studioso delle tradizioni popolari. Ma
c’è di più: ove si pensi che in esso ci sono anche quegli elementi che poi
verranno presi non solo dalle cosiddette Fontes, Marteaux, Fourmuliers,
Fustigationes, Lanternae, ma anche dalle varie Disquisitiones (come, ad
esempio, quelle famosissime di Martino Del Rio), le quali costituiscono
tutta quella letteratura demonologica dove i pregiudizi sul diavolo, sulle
streghe, sulle tregende sono sottoposti a un esame sconcertante o meglio a
un concitato dialogo con il diavolo.
Né erano soltanto gli inquisitori i protagonisti principali di quel dialogo.
Il diavolo suggestiona un po’ tutti. E a proposito quanto mai istruttiva è
l’opera che il Bodin pubblicò nel 1580: la Demonomanie des sorciers.
Assertore di una religione naturale che egli considera innata nell’anima
umana e perciò anteriore a tutte le forme storiche, ammiratore della
religione giudaica perché in essa è la semplicità stessa della religione
primitiva, in antitesi con l’utopismo del tempo ove si pensi, come
giustamente nota lo Chauviré, che ogni sua concezione parte dalla famiglia
e dal rispetto del diritto naturale, il Bodin, quando si delineò in Francia la
lotta fra i cattolici e gli ugonotti, appartenne a quel partito dei politici che
volevano conciliare le esigenze degli uni e degli altri sostenendo, come
strumento di pacificazione, la tolleranza religiosa. Spirito aperto, dunque, il
suo. Ma di fronte alle streghe, di fronte ai pregiudizi che le riguardano (e di
cui egli si occupa con quella stessa serietà che mette negli argomenti
politico-dottrinali) non ha la minima tolleranza.
Nella sua Demonomanie – anteriore comunque all’Heptaplomeres, dove
egli si occupa appunto della religione e del diritto naturale – il Bodin non
solo afferma, come Lutero, che la persecuzione della stregoneria è sacra e
indispensabile – non dice le stesse cose, del resto, anche Bacone? – ma va
addirittura in collera contro coloro che a quella stregoneria non credono o
credono «fino a un certo punto». Convinto che per rendere tranquilla la
Francia si dovesse far piazza pulita di tutte le streghe che in essa vivevano,
il Bodin non vuol sentire ragioni. Anche Aristotele lo annoia. E con lui tutti
coloro che si appellano alle leggi della natura e della ragione:

«Ora non è quasi minore empietà dubitare se è possibile che vi siano dei sortilegi che revocare in
dubbio se c’è Iddio. Ma il cumulo di questi errori è provenuto perché coloro che hanno negato la
possanza degli spiriti e le azioni delle streghe hanno voluto disputare fisicamente delle cose
soprannaturali e metafisiche, che è una indecenza notabile».

4. Bodin e le streghe

Ma c’è di più. Tutta l’Europa era allora in balìa ai cosiddetti malefici,


tutta l’Europa era piena di streghe e di roghi. Bene: per il Bodin quei
malefici vengono dall’Italia, la quale, nemmeno a farlo apposta, in materia
di stregoneria, era stata la più scettica, ove si metta in raffronto con le altre
nazioni. La stregoneria, come è noto, è la parte deteriore della magia. Ora il
Rinascimento, come ci dimostrano i suoi maggiori rappresentanti, si
preoccupò molto poco della prima, mentre alla seconda cercò sempre di
dare un carattere scientifico. È vero che ciò non impedì a molti di credere,
ad esempio, agli auspici o agli auguri. Il che era il frutto stesso di una
tradizione classica (la greco-romana), rinvigorita dalla diffusione che lo
stesso Umanesimo aveva dato alle scienze caldaiche, ebraiche,
neoplatoniche ecc. Sta di fatto tuttavia (la tradizione deteriore della magia
sarà violentemente interrotta da Galileo) che il Rinascimento butta molta
cenere sulle infocate vampe del diavolo.
Ma che cosa importa tutto ciò al Bodin? Egli ha un bersaglio sicuro da
colpire: l’Alciato, il quale, se pur credeva alle streghe, chiedeva per esse un
po’ di buon senso di contro al cieco furore che le investiva di fiamme. E
poiché l’Alciato è italiano, ecco che l’Italia è responsabile anche di questo
delitto: di scagionare le streghe. Le quali, in verità, alcuni anni dopo
trovarono un abile difensore (è noto però che in Italia anche il Galateo, al
secolo Antonio De Ferraris, aveva relegato, nel suo De Situ Iapygiae, che è
del 1511, le credenze delle stregonerie nel campo delle allucinazioni) in un
dotto gesuita tedesco, lo Spee, la cui Cautio Criminalis, edita nel 1631 e
scritta in un latino agile e svelto, è il controaltare tanto del Malleus quanto
della Demonomanie: un controaltare, anzi, che nella storia della procedura
si può mettere accanto al libro del Beccaria Dei delitti e delle pene.
Lo Spee, che fu anche un delicato poeta, aveva assistito a molti processi
e non sopportava la spettacolosità che, tanto in Germania quanto in Ispagna,
avevano assunto le esecuzioni per stregoneria; s’era fatto un’idea precisa
delle credenze e dei pregiudizi collegati a quei processi. Si aggiunga che
egli aveva un temperamento di studioso, direi di folklorista; non gli dispiace
inoltre di interrompere la sua prosa per intercalarla di aneddoti: come quello
del frate e del principe che è il miglior commento alla sua Cautio. Un
principe tedesco, riferisce in esso lo Spee, chiede a un frate se una persona,
denunciata da dodici streghe e che aveva partecipato a una tregenda,
potesse essere arrestata. Risponde il frate: «Certamente». E il principe
allora ribatte: «Benissimo, reverendo, lei deve essere arrestato perché è
stato denunciato non da dodici ma da quindici streghe».

5. Anticipatori dell’Illuminismo: Browne

I tempi, comunque, non erano del tutto maturi perché la Cautio


criminalis spazzasse via l’infausta persecuzione alle streghe. Né quindi
deve fare meraviglia se uno spirito colto e raffinato come Thomas Browne,
uno dei maggiori saggisti che ci abbia dato l’Inghilterra, creda alle streghe.
Anche in Inghilterra la stregoneria, del resto, non era stata soltanto un
espediente letterario nelle mani di Shakespeare, tanto è vero che essa
cadeva sotto l’impero della common law. Elisabetta aveva fatto suoi i
capitoli degli statuti di Enrico VII inerenti alla condanna di chi pratica le
stregonerie. E, più tardi, Giacomo I nella sua Daemonology chiama
addirittura in causa il maggiore responsabile di quelle stregonerie, il
diavolo, onde non aveva esitato a legificare che:
«Chi userà, praticherà o eserciterà invocazione o scongiuro di uno spirito maligno o cattivo; o
consulterà, farà patto, avrà al servizio o impiegherà, darà salario o ricompensa a uno spirito maligno
o cattivo, per e a qualunque scopo e proposito; e trarrà qualche morto, uomo, donna o fanciulla, dal
suo o dal loro sepolcro o altro luogo in cui riposi il cadavere, o la pelle, le ossa o altra parte di un
morto, perché sia impiegato e usato in qualunque modo di stregamento, fattura, incanto o
incantesimo – tali trasgressori, debitamente o legalmente convinti e sentenziati per giuria, patiranno
la morte».

Il Browne, il quale appartenne alla Chiesa riformata, ha sotto i suoi piedi


un terreno molto fertile. È vero che, in Inghilterra, il periodo peggiore di
quell’orribile mania s’ebbe durante il regno di Giacomo I (1603-25); ma il
Browne non è meno credulo di Giacomo, prova ne sia che nella sua Religio
Medici non esita ad affermare:

«Per conto mio, io ho sempre creduto, e ora so di certo, che ci sono streghe: coloro che ne dubitano
non solo negano l’esistenza di quelle, ma anche l’esistenza degli spiriti, e di conseguenza, in modo
indiretto, sono una specie non di infedeli, bensì di atei. Coloro che perché la loro incredulità sia
confutata, desiderano di vedere apparizioni, senza dubbio non ne vedranno alcuna, né avran potere di
diventare sia pure della natura delle streghe; il diavolo li tiene già con una eresia altrettanto capitale
quanto la stregoneria; e il fatto di vedere apparizioni equivarrebbe per essi a una conversione».

Nel 1646 il Browne, in un suo volume intitolato Pseudoxia Epidemica,


non esita ad affrontare alla luce dell’esperienza quelli che egli chiama gli
errori comuni e volgari. Adopera più volte la parola ragione; ma purtroppo
osserva che, «per quanto la moltitudine venga talvolta adulata con
l’aforismo che voce di popolo è voce di Dio», nessuna verità essa può darci.
Il Browne è convinto che i libri non possono correggere il popolo. Egli
scrive infatti soltanto per coloro che «primeggiano nella via della
conoscenza e del sapere». Pagine estrose e curiose le sue, dettate con
finezza e con gusto. Ma il Browne, se pur ci dà un certo inventario degli
errori e dei luoghi comuni, cui crede il suo popolo, e con il popolo anche la
gente colta, in fondo non si impegna né sulla loro origine, né sul loro
carattere, che considera da un punto di vista esteriore. C’è in lui il moralista
più che lo storico. Ma c’è già un’esigenza, che è quella di rivolgersi, con la
sua morale, a un pubblico colto, direi a una classe specifica, quella a cui lui
appartiene. Il che non esclude che in materia di stregoneria egli sia popolo.
Né meno violenta è la lotta che in materia di errori compie qualche anno
dopo un teologo inglese, appartenente alla cosiddetta Chiesa alta, Thomas
Sprat, il quale era poi destinato a diventare vescovo di Rochester. Egli è più
vicino allo Spee anziché al Browne. Ma del Browne ha, tuttavia, l’amore
per l’esperienza e quindi per la scienza. La sua Storia della Società reale,
edita nel 1667, è il tentativo energico e coraggioso di conciliare la religione
con la scienza. Egli, nota il Trevelyan, «come faranno pochi anni di poi
Locke e Newton, concede agli antichi miracoli dei tempi biblici il
passaporto di fenomeni privilegiati, di insolite interferenze di Dio nel corso
della sua creazione», ma sta di fatto, egli subito aggiunge, che «miracoli
moderni non se ne dovevano invece più aspettare nel clima protestante e
anglicano». «Il corso delle cose, – afferma Sprat, – se ne va quieto,
scendendo per il suo chiaro letto di naturali cause ed effetti». Il mondo di
Shakespeare, aggiunge con santa ingenuità, quel mondo dove vivono le fate
e le streghe, i filtri e gli incantesimi, è passato. Ecco che cosa sono per lo
Sprat le fate e le streghe: false chimere. Di lui, certo, Lord Shaftesbury non
poteva scrivere quel che nel 1707 scriveva ancora a Lord Somers: «Potrei
ricordare a Vossignoria un prelato eminente, colto e vero cristiano, che vi
avrebbe potuto spiegare a puntino la sua credenza nelle fate». Ma in quanto
alle streghe bisogna aspettare fino al 1736 perché il Parlamento inglese
abolisca la legge (sia pure da tempo, ormai, lettera morta) che puniva le
streghe.

6. Bekker e Thomasius

Su una via molto diversa di quanto non siano i due Thomas, il Browne e
lo Sprat, sono invece due spiriti ribelli: l’olandese Bekker e il tedesco
Thomasius. Anch’essi lottano per l’errore. Anche essi sono contro l’errore.
Ma non hanno, né l’uno né l’altro, preoccupazioni teologiche da servire. Il
primo, sconfessato dalla sua Chiesa, rinnega, sì, Spinoza, il quale nel suo
Tractatus theologico-politicus, aveva messo sotto processo le credenze
tradizionali, ma è un cartesiano convinto, tanto che nel 1668 pubblicò una
sua Admonitio sincera et candida de philosophia cartesiana. Il secondo, pur
essendo stato educato nei rigidi canoni del protestantesimo luterano, non ha
né vuole avere legami che lo inceppino.
Il Bekker ha un avversario da colpire: il diavolo. E lo colpisce, senza
attenuanti, senza appelli, senza sottintesi, in un suo grosso libro pubblicato
nel 1691: De Betoovete Wered (tradotto in tutte le lingue europee). Il suo è,
potremmo dire, il primo tentativo scientifico in cui la storia del diavolo non
è condotta attraverso i testi della Bibbia, ma anche attraverso le tradizioni e
le credenze che i vari popoli hanno intorno al diavolo. In quanto alla prima
parte, egli è convinto che la Sacra Scrittura, cui si fa sempre appello per la
credenza del diavolo, «considerata nella sua sostanza e senza prevenzione,
non attribuisce al diavolo quella potenza e quelle operazioni che i pregiudizi
dei commentatori e dei traduttori gli attribuiscono». In quanto alla seconda,
egli ritiene che la credenza nel diavolo, che egli segue un po’ in tutti i paesi
europei, è di origine pagana e perciò ha inquinato il Cristianesimo. Anche il
suo è un continuo colloquio col diavolo: ma quel colloquio è un’indagine
attenta e scrupolosa contro tutti i pregiudizi, nei quali sono da ravvisare le
fandonie di gente corrotta, che non ha nessuna relazione col diavolo e che è,
quindi, inumano condannare per questa pretesa relazione.
Dello stesso parere sarà qualche anno dopo il Thomasius, il quale,
riattaccandosi allo Spee, combattè con violenza i processi alle streghe, l’uso
delle pene infamanti e della tortura. Una delle opere maggiori del
Thomasius, in cui si sentono gli echi del Bekker, è appunto il De Crimine
Magiae. Ma l’opera cui va legato il suo nome è, indubbiamente, quella
dedicata ai Fundamenta juris naturae et gentium, pubblicata nel 1705. In
quest’opera egli non solo considera il diritto come un fenomeno sociale;
ma, com’è stato ben osservato, di contro ai politici italiani (a cominciare da
san Tommaso) che avevano distinto il diritto dalla morale, distacca
nettamente la morale dal diritto. Egli si fa, così, assertore di quel diritto
naturale che già aveva combattuto nelle sue Institutiones jurisprudentiae e
che già aveva trovato, dopo il Bodin, i suoi rappresentanti più illustri
nell’Altusio, in Alberigo Gentile e in Ugo Grozio.
Colui che aveva avuto la prima cattedra di diritto naturale, Samuel
Pufendorf, rifacendosi a quei predecessori, aveva pubblicato nel 1673 il De
jure naturae et gentium, nel quale i suoi concetti non sono certo legati alla
monarchia imperante (Bodin) e all’intransigenza confessionale (Altusio) e
tanto meno alla convinzione che «il diritto naturale viene imposto e voluto
da Dio che è autore della natura» e che «nella Bibbia debba ricercarsi
l’unica fonte del diritto». Il Pufendorf, osserva l’Hazard, «non nega la
potenza divina, ma la relega in un altro piano: c’è il piano della ragione
pura e quello della Rivelazione; il piano del diritto naturale e quello della
teologia morale, il piano dei doveri che s’impongono a noi perché la retta
ragione naturale ce li fa giudicare necessari alla conservazione della società
umana in generale, e il piano dei doveri che si impongono a noi perché Dio
ce li ha prescritti nella Sacra Scrittura». Era la separazione netta fra il diritto
naturale e quello divino. Thomasius legge Pufendorf; la laicizzazione degli
studi lo attrae e lo seduce e le sue ricerche prendono così un’altra via:

«Mai più nessuna credenza accolta dogmaticamente; quando esaminerò una dottrina non mi
domanderò più di quale reputazione goda o quale sia l’autorità che la sostiene, ma quale grado di
evidenza presenti; studierò i vari argomenti pro e contro; e mi deciderò secondo i miei propri lumi.
Invece di restare il suddito obbediente dei dittatori del pensiero, sarò come quegli eroi dell’antichità
che impugnavano le armi contro il tiranno che prima aveva servito per il trionfo della libertà».

E come un eroe dell’antichità egli si arma di corazza ed elmo, pronto a


scendere in battaglia. I suoi nemici sono i pregiudizi, fonte di tutti i mali. La
ragione è la fede per cui combatte. E quella fede diventa in lui insaziabile
amore per la società e per l’umanità.

7. Il deismo e la religione naturale


Non meno vivo era, intanto, negli studiosi del tempo il desiderio di dare
una sistemazione alla religione naturale. Né, in proposito, si deve
dimenticare l’opera di Herbert of Cherbury, intitolata De Veritate, che è del
1624, e che è considerata come il manifesto di quella corrente di pensiero,
così viva fra il Sei e il Settecento, denominata deismo. Il Cherbury rigetta
nella maniera più viva il concetto della Rivelazione. Non esiste, egli dice,
che la religione naturale, la quale non ha bisogno di pratiche superstiziose.
Il Cherbury nega l’esistenza di un Dio, vale a dire del Dio di Abramo, di
Isacco, di Giacobbe. Ma crede in Dio. È assurdo, egli osserva, che l’uomo
per seguire una morale debba aver bisogno della Rivelazione. L’uomo si
può governare benissimo con la sola ragione. Ecco ciò che veramente
interessa a Dio: che noi seguiamo i sentimenti di religione e di morale che
egli ha impresso nella nostra anima. A che vale credere alla Rivelazione e
poi non seguire tali sentimenti?
Più cauto nei riguardi della Rivelazione è apparentemente il Toland, il
quale nel 1696 pubblica un libro, Christianity not mysterious, dove afferma
che il mistero non esiste e che la Rivelazione è, sì, indubbiamente «una
fonte di informazione», non però un «fondamento» che solo la ragione è
competente a darci e che la ragione è per sempre superiore alla Rivelazione
«nello stesso senso in cui una grammatica greca è superiore al Nuovo
Testamento, perché noi facciamo uso di essa per intendere il linguaggio,
come della ragione per comprendere il senso di quel libro».
Prescindendo, comunque, da queste discussioni di carattere più o meno
teologico, sta di fatto che il Cherbury e soprattutto il Toland, ci hanno
lasciato, sommersa nelle loro disquisizioni, la descrizione di usi, di costumi,
di modi di vivere che illuminano la vita popolare del tempo. Nelle Letters to
Serena, indirizzate alla regina Sofia di Prussia e che sono del 1704, il
Toland si occupa, infatti, della forza che hanno i pregiudizi e osserva:

«La levatrice che ci aiuta a venire al mondo compie sopra di noi cerimonie superstiziose, e le brave
donne che assistono al parto hanno un’infinità di sortilegi che credono atti a procurare al neonato la
buona ventura o a tener lontani da lui i guai. Hanno ridicoli presagi, in base ai quali pretendono di
conoscere la sorte futura. In alcuni paesi il prete è altrettanto svelto di quelle comari: s’impossessa
prontamente del bambino per renderlo schiavo, lo inizia ai suoi misteri pronunciando formule che
somigliano a degli incantesimi; applicando del sale, dell’olio o dell’acqua o anche, come in alcuni
paesi, applicandogli il ferro o il fuoco, dichiara che prende possesso di lui e gli fa portare i segni della
signoria che eserciterà su di lui».

Ma il Toland non fa soltanto un inventario dei pregiudizi o comunque


delle credenze in genere in mezzo a cui vive, nauseato dal fatto che anche
nelle scuole si parli di geni, di ninfe, di metamorfosi, responsabili i poeti e i
professori. Va oltre: cerca di vedere qual è l’origine di quelle credenze; e
qui il suo esame diventa acuto anche se le sue conclusioni offrono il fianco
a critiche troppo aperte. Valga un esempio. Nelle stesse Letters il Toland si
propone di spiegare l’origine dell’idea di una sopravvivenza individuale.
Questa credenza si è ormai incorporata nel patrimonio della gente rozza e
incolta. Essa, però, secondo il Toland, proviene dall’Oriente e più
precisamente dall’Egitto dove fu collegata coi culti funerari.
In queste ricerche, per quanto ancora ingenue, dobbiamo tuttavia vedere
il valore che assume il deismo, i cui rappresentanti in un modo o nell’altro
si preoccuparono soprattutto di liberare la religione da tutta l’impalcatura
dogmatica e dalle superstizioni che la accompagnano. Il Cherbury e il
Toland credono in fondo ai miracoli. Ma non li guardano già con occhio
critico? Essi sono convinti che i culti e i riti sono un’impostura dei preti.
Di contro al deismo non solo si appuntò la satira dello Swith, ma anche
la critica di numerosi eruditi (per quanto qualcuno lo abbia considerato
nient’altro che una deviazione). Né sono mancate le ricerche su di esso,
intese a determinarne i precedenti storici, i quali, di volta in volta, si sono
ravvisati in determinate correnti di pensiero (la filosofia religiosa del
Rinascimento italiano) oppure in opere di determinati autori (come, ad
esempio, nell’Utopia del Moro, nell’Heptaplomeres del Bodin, nella
Reasonableness of Christianity del Locke ecc.). Ma non è più esatto, come
già risulta dalle nostre indagini dedicate agl’Indiani d’America e ai popoli
orientali, ritenere che l’avvio alle soluzioni deistiche è stato sollevato dalle
indagini che i viaggiatori (direttamente) e gli stessi missionari
(indirettamente) condussero sulle religioni, primitive o orientali che fossero,
le quali avevano una loro morale, anche se di entità naturale?

8. Teologismo folkloristico

Non bisogna dimenticare d’altro lato che la superstizione, contro la quale


si lottava, era annidata soprattutto nelle case di campagna, nei villaggi, dove
i parroci erano d’accordo con i Gesuiti, i quali «accoglievano come buone
pratiche esteriori anche le superstizioni di sapore pagano», perché «le
consideravano utile base di vita religiosa». Da qui, del resto, la persistente
sostituzione dei riti pagani con quelli cristiani, anche se in tale sostituzione
cambiava lo spirito che aveva animato i precedenti protagonisti. E da qui
anche la reazione determinantesi in seno al movimento giansenistico e le
aspre critiche alla morale dei Gesuiti, che ebbero la più famosa espressione
nelle Lettres provinciales del Pascal.
Vi sono tuttavia, in Francia, due teologi, il Thiers e il Le Brun, che non
condividono affatto quelle opinioni. Essi, al contrario del Browne, vogliono
educare il popolo, liberandolo da tutti quei pregiudizi che ne inceppano la
vita dello spirito. Anche essi, come lo Sprenger, il Bodin e il Browne,
credono alle streghe. Il Thiers, infatti, nel 1679 pubblica un ampio Traité
des superstitions ed è dell’avviso: 1, che una cosa è superstizione e illecita
quando è accompagnata da certe circostanze che non hanno virtù naturali
per produrre gli effetti che si vorrebbero; 2, che la superstizione rovina la
fede della Chiesa e il culto della divinità; 3, che essa è il frutto di un patto
fra l’uomo e il demonio. Né da meno è il Le Brun, cui dobbiamo una
Histoire critique des pratiques superstitieuses qui ont séduit les peuples et
embarassé les savants edito per la prima volta nel 1702.
Il Thiers e il Le Brun non mancano nei loro lavori di accennare all’opera
svolta contro le superstizioni da parte dei concili, specialmente quello di
Trento. Si fermano – soprattutto il Thiers – sui concetti che i Santi Padri e
gli scrittori ecclesiastici ebbero nei riguardi della superstizione. Ma la loro
opera non si esaurisce qui, Essi vogliono scoprire le pratiche e le credenze,
le quali non sono altro che resti di paganesimo, eresie, deviazioni e
degenerazioni introdotte dal popolo (par les rustres, dice il Thiers) in seno
alla religione (meglio sarebbe stato dire: resti di religioni scomparse).
Relegano così le superstizioni e le credenze nel regno dell’errore. E l’errore
– lo avevano detto anche il Bodin e il Browne – non è forse figlio del
demonio?
Il Van Gennep ha recentemente osservato che le opere del Thiers e del
Le Brun si riattaccano, per il loro contenuto, alla letteratura demonologica.
Ma qui è meglio precisare. Non v’è dubbio che le opere del Thiers e del Le
Brun siano in fondo, per quanto riguarda il loro contenuto, sulla stessa linea
in cui sono lo Sprenger o il Bodin, i quali tuttavia ebbero il merito di porre
il problema degli errori popolari. Ma in quanto al loro metodo, vale a dire
con la raccolta sistematica delle tradizioni, essi non concludono e
perfezionano l’opera di un Browne, di uno Spee, di un Bekker, di un
Toland, i quali, se pur si debbono includere fra gli anticipatori e gli
iniziatori dell’Illuminismo, sono indubbiamente i veri precursori del
folklore europeo? Un Browne, un Bekker, un Toland non si contentano di
inventariare, di raccogliere i materiali inerenti ai culti, ai riti ecc.; ma, come
più tardi il Thiers e il Le Brun, vogliono rendersene conto. Ed è appunto per
questo che noi possiamo considerare le opere di questi due teologi francesi
come quelle che hanno soprattutto spianato la via, ad esempio, alle
Antiquitates vulgares, or the Antiquities of the common people del Bourne,
edite nel 1725 (e ristampate poi con molte aggiunte dal Brand nel 1776),
dove non solo noi vediamo formulato con chiarezza il concetto di antichità
per tutto ciò che è popolare (è noto, peraltro, che già Bacone aveva incluso
nelle Antiquitates le tradizioni popolari e le etimologie ecc.), ma dove sono
anche rievocate con accenti poetici le feste, le credenze del popolo inglese,
che ancor oggi costituiscono un punto di sicuro riferimento per gli studiosi
di folklore.
4. L’errore alla luce della ragione

1. Un precursore del folklore europeo: Bayle

La lotta che l’Europa, dopo la scoperta dell’America, aveva ingaggiato


contro le credenze tradizionali e che noi abbiamo seguito nelle sue
manifestazioni più tipiche, assume nel secolo XVIII un suo particolare
aspetto nella Francia cattolica, vale a dire nella Francia di un Thiers e di un
Le Brun, per opera dell’Illuminismo, il cui capo spirituale è Pierre Bayle.
Questi, se pur si muove fra Spinoza e Cartesio, ha vivo l’interesse per i
viaggiatori e per i missionari, e con essi per gli Indiani d’America e i popoli
orientali, oltreché per i deisti e di conseguenza per il loro naturalismo.
L’epoca in mezzo a cui il Bayle vive è piena ormai di deisti e di liberi
pensatori. E c’è, egli aggiunge subito nella sua opera contro la revoca
dell’editto di Nantes:

«… chi se ne meraviglia. Io invece mi meraviglio a maggior ragione che non ce ne siano di più, se
considero le devastazioni che la religione compie dovunque nel mondo e la distinzione di ogni
moralità che pare ne sia la conseguenza inevitabile in quanto per assicurare il proprio benessere
temporale la religione favorisce tutti i delitti immaginabili, l’assassinio, la rapina, l’esilio e ogni atto
violento; delitti che hanno per conseguenza un numero infinito di altri errori come l’ipocrisia,
l’esercizio eretico ecc.».
C’è un episodio, un trascurabile episodio se vogliamo, che spinge il
Bayle a scendere in lotta contro quelle devastazioni. Nel «Journal des
Savants» del 1° gennaio del 1681 si poteva leggere questo annunzio:

«Tutti parlano della cometa, la più importante novità del principio di quest’anno. Gli astronomi ne
osservano il corso e il popolo ne fa presagire mille calamità».

Passa appena un anno da quell’annunzio e il Bayle indirizza una Lettre à


M. L. A. D. C., docteur de Sorbonne. Où il est prouvé par plusieurs raisons
tirées de la Philosophie et de la Théologie que les comètes ne sont point le
présage d’aucun maleur. Ma non gli basta, e nel 1683 incalza con le
Pensées diverses écrites a un docteur de Sorbonne; nel ’94 con una
Addition aux Pensées; e infine nel 1705 con una Continuation alle stesse
Pensées. Né per lui la cometa è un argomento specifico di trattazione.
L’argomento della sua trattazione è più vasto; e se da una parte esso
coinvolge il concetto generale della credulità, dall’altra, ed è ciò che a noi
particolarmente interessa, investe quel concetto nel suo interno, ove si pensi
che la superstizione della cometa, legata com’era alle credenze pagane,
offriva già una felice occasione per affrontare lo studio dei pregiudizi, e con
essi quello della tradizione.
Ma che cos’è, si domanda anzitutto il Bayle, questa tradizione? Eccola:
«l’affermazione di due o tre persone ripetuta dalla folla innumerevole delle
persone credule». E aggiunge: «Volete collegare la tradizione all’astrologia?
Ebbene che cos’è, dopo tutto, l’astrologia, che pur è stata la causa e la fonte
di tanti pregiudizi, se non una cosa veramente risibile?» Volete ricorrere ad
altre fonti, quali sono i racconti dei poeti e le narrazioni degli storici? Bene:
eccovi subito dimostrato che tanto i poeti quanto gli storici sono dei
professionisti di menzogna. Egli ride di tutto. Ma la sua macchina ormai è
in movimento. L’interesse, direi scientifico, in nome del quale è sceso in
campo, gli si tramuta fra le mani. Non gli basta arrivare alla conclusione
che l’opinione sulle comete va relegata in quel vasto patrimonio di
superstizioni insinuatosi nel Cristianesimo (il che contemporaneamente era
oggetto di studio da parte di un Thiers e di un Le Brun); ma arriva oltre, più
oltre, ond’egli rivolge a se stesso una domanda: «Vogliamo ammettere che
la cometa sia veramente un presagio di sventura?» La risposta è precisa,
inequivocabile, dogmatica: «In questo caso Dio compierebbe dei miracoli
per confermare l’idolatria del mondo». E qui egli opera su un tavolo
anatomico, mentre la sua indagine si fa più minuta, intesa com’è a sezionare
pezzo a pezzo l’idolatria, che è ancora peggiore di quell’ateismo di cui lo si
accusa e che egli, anche qui coi libri dei viaggiatori del suo tempo in mano,
pone sul trono se non della glorificazione almeno della considerazione.

2. La superstizione come elemento di potere

Le Pensées del Bayle costituiscono un vasto e utile repertorio delle


credenze popolari del tempo. Spogliate dalla polemica, in mezzo alla quale
pur vibrano d’una loro vita, le Pensées ci offrono delle indagini acute intese
a penetrare il segreto stesso del pregiudizio. Ma, oltre che in questi lavori, è
nelle voci del Dictionnaire historique et critique, la forma più adatta forse
alla sua mentalità, che bisogna ricercare il Bayle folklorista, il quale anche
qui non esita a combattere l’errore con quella consapevolezza critica che
ormai la sua conoscenza dei pregiudizi gli permette. Il Bayle ritiene che la
menzogna rende sempre cattivi servizi alla verità. Ma leggete, ad esempio,
la voce Takiddin:

«La sorte dell’uomo è così disgraziata che le cognizioni che lo liberano da un male lo precipitano in
un altro. Distruggete l’ignoranza e la barbarie e distruggerete così la superstizione e la stolta
credulità del popolo tanto utile ai suoi capi, i quali abusano del loro potere per sprofondare nell’ozio
e nelle dissolutezze: ma, rivelando agli uomini tali disordini, ispirerete loro il desiderio di tutto
esaminare: essi indagano e sottilizzano talmente che non trovano più nulla che appaghi la loro
miserabile ragione».

Anche Plutarco, a dire il vero, aveva già concesso alla superstizione una
sola attenuante: che essa, ad esempio, nelle mani di un uomo di stato può
essere uno strumento di dominazione. Il Bayle non ha davanti ai suoi occhi
gli dèi di Plutarco. Egli sente in sé un Dio cui non si può imputare l’origine
di quelle religioni che hanno il germe delle guerre o delle stragi. Ma quel
Dio vive nella religione cattolica del suo tempo, nella Francia di Luigi il
Grande? O essa stessa, anzi, è fonte di errori? Nel suo Commentaire
philosophique sur ces paroles de l’Evangile: Contrains les d’entrer,
attaccando i dogmi della Chiesa, di alcuni dei quali tuttavia riconosce la
validità, afferma:

«Bisogna di necessità ammettere che qualsiasi dogma particolare – sia che venga presentato come
contenuto nella Scrittura, sia che venga presentato altrimenti – è falso, quand’è confutato dalle
nozioni chiare e distinte del lume naturale, principalmente della morale».

Ecco: la morale. Ma egli non sa forse quel che Spinoza, riprendendo


Plutarco, aveva affermato, e che cioè le superstizioni religiose sono utili ai
re per soffocare soprattutto il popolo? Le superstizioni tuttavia hanno pur
sempre un innegabile fascino. E l’uomo, questo «boccone più difficile da
digerire che si presenti a tutti i sistemi», come egli lo definisce nella sua
Réponse aux questions d’un provinciale non è forse, aggiunge, «uno scoglio
di vero e di falso»?

3. Fontenelle e la sua Histoire des oracles

La polemica del Bayle è continuata e ripresa, con grande abilità, da uno


degli spiriti più penetranti che ci abbia dato l’Illuminismo: dal Fontenelle, il
quale, a differenza del Bayle, era vissuto in un ambiente cattolico, educato
com’era stato dai Gesuiti.
Nel Discours preliminare che apre l’Encyclopédie si afferma che «senza
avere l’ambizione pericolosa di strappare le bende dagli occhi dei
contemporanei, il Fontenelle preparava, da lontano, nell’ombra e nel
silenzio, la luce da cui il mondo doveva essere rischiarato a poco a poco». Il
che è vero fino a un certo punto, poiché egli, se fu molto più cauto in
rapporto ai dogmi e alla religione rivelata di quanto non lo sia stato lo
stesso Bayle, in cambio seppe mascherare le sue distruzioni con un sorriso
mondano che andava diritto allo scopo. Né si può dire che la sua Histoire
des oracles, edita nel 1686, sia passata nell’ombra o nel silenzio, ove si
pensi che essa fu attaccata violentemente dai cattolici, e specialmente dai
Gesuiti. Si propose anzi che egli in seguito alla pubblicazione dell’Histoire
venisse rinchiuso nella Bastiglia. E nel 1707, per quanto il Fontenelle fosse
riinasto sempre appartato forse per far dimenticare quanto aveva scritto, il
Padre Baltus pubblicava una Réponse a l’histoire des oracles, dove
accusava l’Histoire del Fontenelle come un’opera detestabile ed empia che
andava considerata come una delle sorgenti più importanti
dell’anticlericalismo del secolo xviii (giudizio questo che poi un acuto
critico del Fontenelle, il Maigron, farà suo).
Nella prefazione con cui si apre l’Histoire des oracles, il Fontenelle ci
dice espressamente com’egli sia stato spinto a scrivere quell’opera:

«Tempo fa mi capitò fra le mani un libro latino sugli Oracoli dei pagani, scritto recentemente da Van
Dale, dottore in medicina e stampato in Olanda. Mi parve che l’Autore demolisse con un certo vigore
tutto ciò che comunemente si crede sugli oracoli resi dai demoni e sulla loro scomparsa totale con
l’avvento di Gesù Cristo, e tutta l’opera mi parve ricca d’una larga esperienza dell’antichità e di una
vasta erudizione. Pensai di tradurlo, affinchè le donne e anche quegli uomini che non leggono
agevolmente il latino non fossero privati di lettura tanto gradevole e utile. Ma poi riflettei che una
traduzione del libro non avrebbe avuto l’effetto che io volevo. Van Dale ha scritto soltanto per i
letterati e ha avuto ragione nel tralasciare quegli abbellimenti e quelle bellurie che per essi non
avrebbero grande importanza. Egli riporta un gran numero di brani e li cita assai fedelmente, in
versioni eccellenti, quando son tradotti dal greco; discute su molti brani di argomenti di critica e di
esegesi, talora poco necessari, ma sempre curiosi. Ecco quel che occorre ai dotti… Inoltre Van Dale
non si perita affatto di interrompere spesso il filo del discorso per introdurvi qualche altro argomento,
e in quella parentesi insinua un’altra parentesi che non sempre è l’ultima… Io ho dunque deposto il
pensiero di tradurlo e ho viceversa opinato che valesse meglio, conservando il contenuto e la materia
principale dell’opera, darle tutt’altra forma. Confesso che non si può spingere questa libertà più lungi
di quanto io abbia fatto; ho mutata tutta la disposizione del libro: ho tolto tutto ciò che mi è parso
poco utile in se stesso ovvero troppo poco elegante per compensare la scarsa utilità; ho aggiunto non
soltanto tutti gli ornamenti che mi sono parsi più opportuni, ma anche parecchie cose che rafforzano
o danno maggior rilievo al tema…».

L’opera del Van Dale, cui allude il Fontenelle, era uscita ad Amsterdam
nel 1683 e portava il seguente titolo: De oraculis ethnicorum dissertationes
duae, quarum prior de ipsorum duratione ac defectu, posterior de
eorundem auctoribus. Fu tradotta in inglese dal Behn nel 1699. Il
Fontenelle non si distacca molto da essa per quel che riguarda la trattazione
fondamentale dell’argomento. L’uno e l’altro, infatti, si preoccupano di
dimostrare che gli oracoli pagani non venivano resi dai demoni, ma erano
effetto della volontà dei potenti e dell’impostura dei preti. Continua così la
polemica dei riformatori e dei deisti. Ma laddove il Van Dale si ferma a
quella polemica, è chiaro invece che il Fontenelle investe criticamente il
problema tutto dell’errore o meglio della superstizione.

4. Carattere degli oracoli

Nella Histoire, dove si assommano le sue migliori qualità di letterato e di


volgarizzatore scientifico, il Fontenelle, come aveva già fatto il Van Dale,
non esita a trasferire il suo giudizio dal paganesimo al cristianesimo. Ma la
sua presa di posizione è più categorica:

«Di sua natura la questione degli oracoli, di carattere religioso per i pagani, lo è divenuta senza
necessità presso i cristiani: e da tutte le parti pregiudizi hanno reso oscure chiarissime verità».

E subito dopo aggiunge:

«Tuttavia questi pregiudizi che inficiano la vera religione, trovano, per così dire, modo di confondersi
con essa e di cattivarsi quella devozione che a sé ella sarebbe dovuta. Non si osa confutarli nel timore
di offendere qualche cosa di sacro. Non rimprovero punto questo eccesso di religiosità, anzi esso è
lodevole, ma, per lodevole che sia, non si può non convenire che non sia più ragionevole distinguere
l’errore dalla verità, piuttosto che rispettare l’errore confuso con la verità».

Il Fontanelle è preoccupato, egli dice: «di difendere gli interessi autentici


del Cristianesimo». Ma egli difende davvero questi interessi? Il Fontenelle
sa bene, come il Bayle, quale forza abbia la consuetudine. Essa, egli infatti
osserva, «ha su gli uomini una forza che non ha per niente bisogno di essere
appoggiata dalla ragione». Eppure afferma deciso:

«Consultando la ragione umana non si ha bisogno di demoni né per far pervenire l’azione di Dio sino
agli uomini, né per mettere fra Dio e noi qualche cosa che si approssimi a lui più di quanto noi lo
possiamo».

Così la Histoire des oracles si ricollega alle Pensées del Bayle, in quanto
essa non solo tende a eliminare il miracolo dalla storia, ma rende sospetta
una qualsiasi religione che creda nei miracoli, «Il pensiero del Fontenelle, –
osserva in proposito l’Hazard, – profondo sotto le sue apparenze
superficiali, raggiunge quello del Bayle sulle comete. È facile rilevarne la
parentela. È lo stesso appello a un pubblico più vasto di quello dei filosofi e
dei teologi, congiunto alla volontà di denunciare la debolezza della natura
umana, causa prima dell’errore, e la cecità della tradizione, la quale
raccoglie l’errore, lo rafforza e lo rende quasi invincibile». Le comete del
Bayle sono insomma gli oracoli del Fontenelle. Tutti e due credono ai
«miracoli», ma soltanto, per usare un’espressione di Leibniz, a quelli della
ragione.

5. L’Origine des fables: contributo alla storia degli errori degli antichi

Ma il Fontenelle non si fermò soltanto sugli oracoli. Uno dei suoi saggi
maggiori, anzi, è precisamente l’Origine des fables, che egli scrisse allo
scopo di dimostrare che anche le favole vanno considerate come una pagina
della storia degli errori degli antichi. C’è nel Fontenelle un atteggiamento
nettamente negativo rispetto alle favole che pur, con il loro fascino,
investirono nei popoli classici la poesia, il teatro, le arti plastiche. Le favole
di cui parla il Fontenelle non sono, in fondo, che i miti (da lui ampiamente
studiati tra i Gesuiti, soprattutto sulla celebre Mitologia del nostro Conti).
Vi sono tuttavia nel suo saggio dei brani, i quali ci dimostrano che il suo
sguardo è rivolto anche a quelle favole che già correvano in Francia. Così,
ad esempio, egli afferma che «ancor oggi gli arabi riempiono le loro storie
di prodigi e di miracoli per lo più ridicoli e grotteschi». Né, d’altro canto,
gli sono ignoti i cosiddetti racconti devoti del suo paese, come la storia
dell’albero a cui si impiccò Giuda (raccolti poi dal Luzel).
Di questi racconti egli sente, è vero, un certo fascino. Ma quale? Quello
che suscita in genere l’errore stesso. Nei suoi Dialogues des Morts antiques
et modernes. Omero aveva detto a Esopo:

«Che lo spirito umano non cerchi che il vero, disingannatevi. Lo spirito umano e l’errore
simpatizzano enormemente. Se volete dire la verità farete molto bene ad avvolgerla nelle favole e
piacerà molto di più. E se vorrete raccontare delle favole esse potranno piacere anche se non
contengono alcuna verità. Così il vero deve trasfigurarsi nell’errore per essere accolto gradevolmente
dallo spirito umano; ma l’errore vi entra invece così com’è, perché quello è il luogo della sua nascita
e della sua dimora abituale, mentre la verità vi è estranea».

E nell’Origine des fables riprende quel concetto, lo sviluppa e lo elabora


per concludere che il motivo che favorisce gli errori e quindi le favole, si
deve al rispetto che noi abbiamo verso l’antichità. I nostri padri l’hanno
creduto? Pretendiamo forse noi di essere più saggi di loro? Il Fontenelle è
convinto che, se ancor oggi si mette un popolo sulla terra, le sue prime
storie saranno delle favole, indipendentemente dal clima. Ma è convinto,
altresì, che anche col divenire dell’umanità – è noto che in lui il concetto di
progresso è molto più vivo che non nel Bayle – le storie vere si mescolano
con le antiche, e il meraviglioso sopraffa il vero, come ci dimostrano, egli
aggiunge, non solo i miti degli Egiziani, dei Fenici, dei Greci, ma anche i
fatti che gli storici ci hanno raccontato dei tempi di Augusto.
In ciò egli evidentemente è d’accordo con il Bayle, il quale nel suo
Dictionnaire (voce Pheron) non esitava a mettere in mora tanto le leggende
eroiche della Grecia quanto quelle dei primi re di Roma. Oppure col Saint-
Evremond, il più tipico rappresentante dei libertini francesi, il quale nelle
sue Réflexions sur les divers génies du peuple romain, dans les différents
temps de la République aveva annotato: «Io detesto le ammirazioni fondate
su favole o sorte per l’errore di giudizi falsi. Ci sono tante cose vere da
ammirare nei Romani, che favorirli con delle favole è un far loro torto». Ma
non lo è invece, ad esempio, con il suo compagno di lotta, il Perrault. L’uno
e l’altro si erano scagliati contro tutto ciò che è antico. Il Fontenelle nel
1688 aveva infatti pubblicato la Digression sur les Anciens et les Modernes,
quasi a rafforzare le idee che in proposito aveva manifestato in Italia il
Tassoni fin dal 1620. E il Perrault nel 1690 pubblica i Parallèles des
anciens et des modernes, dove sostiene che il mezzo migliore per
gareggiare con gli antichi è quello di ispirarsi ai costumi e alle usanze del
proprio tempo. Il Perrault sa bene, però, che anche l’antico può farsi
moderno, attuale. Il Fontenelle nella sua cieca confutazione del mondo
antico, dove vede dappertutto falsità, si mette su una falsa strada, non solo
perché egli è portato a vedere dell’ignoranza laddove invece c’è freschezza
ed ingenuità, ma perché confonde tutto ciò che oggi è superstizione con ciò
che alle sue origini superstizione non era. Senza poi dire che vedere soltanto
l’errore laddove è la vita, quale che essa sia e comunque si svolga, significa
annullare la vita stessa. Gli sfugge inoltre il valore etico delle favole, le
quali hanno una loro verità anche nei loro errori; ma gli sfugge soprattutto il
valore estetico che esse man mano assumono non solo nella letteratura dotta
ma anche in quella popolare.

6. L’Origine des fables: soprattutto incunabolo etnografico

Il valore dell’Origine des fables non va ricercato, comunque, in questo


atteggiamento negativo che il Fontenelle assume rispetto alle favole. Anche
a lui, come al Bayle, l’errore serve a scoprire delle verità, sia pure in altro
senso. E sotto questo aspetto, anzi, l’Origine des fables può considerarsi
come il primo tentativo in cui lo studio delle favole sia impostato come un
problema di carattere etnografico.
Il Fontenelle è convinto che le favole non sono soltanto fantasia. Esse, a
suo avviso, e qui è già in nuce il problema etnografico delle favole, sono il
risultato di tutto ciò che i padri narrano ai figli. E i padri che cosa narrano ai
figli se non ciò che essi stessi hanno fatto e hanno veduto? In questa
indagine bisogna stabilire, quindi, un punto di partenza. Bisogna cioè
ricorrere ai nostri primi antenati, ai primi uomini che popolarono la terra.
Ma qui, aggiunge subito il Fontenelle, è necessario precisare. I primi
uomini cui egli si rivolge non sono i Cafri, i Lapponi, gli Irochesi. È vero
che questi sono popoli antichi, ma, appunto perché tali, essi saranno
necessariamente pervenuti a qualche grado di civiltà che i primi uomini non
avevano. Il che è un’altra prova, fra l’altro, del suo concetto sul progresso.
Quando uscì il saggio del Fontenelle, erano in verità già uscite due
opere, nelle quali per la prima volta si erano sostenute, a proposito dei
selvaggi, delle teorie che pur passarono quasi inosservate. Così, ad esempio,
nel 1702 Padre Tournemine, che al Fontenelle fu legato da viva amicizia, in
un suo ampio e coraggioso Projet d’un ouvrage sur l’Origine des Fables,
edito nei Mémoires de Trévoux, affermava che, se noi vogliamo iniziare il
vero studio comparativo delle favole, dobbiamo ricorrere ai costumi dei
selvaggi d’America e alle Avventure dei mercanti che hanno scoperto i
nuovi popoli. Due anni dopo, invece, comparve, anonima, un’opera di
Padre La Créquinière, la Conformité des coutumes des Indiens orientaux
avec celles des Juifs et des autres peuples de l’antiquité, dove l’autore, se
pur aveva stranamente dichiarato che egli rinunziava a studiare le religioni
degli Indiani perché assurde, affermava che, se noi vogliamo trovare
qualche vestigia dell’antichità, dobbiamo ricorrere ai popoli non civili.
Ora noi sappiamo, è vero, che l’Origine des fables apparve per la prima
volta nel 1724. Ma non è facile accertare se essa fu effettivamente composta
nel 1680, come pensa il Carré (le cui pezze di appoggio peraltro non
persuadono molto), oppure fra il 1691 e il 1699, come pensava il Troublet.
Sta di fatto, però, che abbia o no conosciuto queste fonti, il Fontenelle andò
oltre quelle semplici enunciazioni, le quali, peraltro, furono da lui impostate
con consapevolezza critica.
7. Le fiabe sono soltanto fantasia?

La novità, infatti, su cui il Fontenelle insiste (e che poi sarà


immensamente feconda tanto nel campo dell’etnografia quanto in quello del
folklore) è che il grado di civiltà dei nostri primi antenati, cioè dei veri
creatori di favole, noi possiamo determinarlo a ritroso, immaginandoci cioè
un état d’esprit per cui sono passati tutti i popoli e che oggi non si è
interamente spento in mezzo a noi. Così egli, se da una parte da valore
scientifico ai rapporti fra noi e i selvaggi, dall’altra invece non da nessun
peso al mito del buon selvaggio. Il Fontenelle pone anzi alle nostre origini
un uomo rozzo il quale, al par dell’Indiano dell’America, non ha nemmeno
nel suo vocabolario le parole di giustizia e di libertà. E ciò, evidentemente,
è tutta una invenzione. Ma a quell’uomo egli attribuisce una sua filosofia,
anzi, com’egli dice, dei sistemi di filosofia, i quali si combinano con quei
fatti che le favole poi narrano. Il Fontenelle non nega che anche in quel
passato lontano sono gli uomini che hanno un po’ di genio coloro che
cercano la causa di tutto ciò che vedono (e che narrano). Ma sia a tutti ben
chiaro, egli afferma, che la nostra ricerca non deve essere condotta perché ci
si possa riempire la testa delle stravaganze dei Fenici o dei Greci. Si tratta
di ben altro: si tratta di vedere che cosa ha condotto i Greci o i Fenici a
queste stravaganze.
Ora, in quanto alla prima ipotesi, non v’è dubbio, egli osserva, che i
primi selvaggi che hanno abitato il mondo fermarono la loro attenzione
sulle cose che non potevano fare: lanciare i fulmini, scatenare i venti,
agitare i flutti del mare. Tutto ciò era al di sopra del loro potere, ed ecco che
essi allora immaginano degli esseri più potenti di loro, capaci di creare quei
fenomeni. Era necessario che quegli esseri agissero come se fossero degli
uomini. Quale altra figura essi potevano avere? Dal momento che essi
hanno una figura umana, l’immaginazione attribuisce loro tutto ciò che è
umano. Così, con le divinità nascono i prodigi; ma i prodigi non sono il
lievito stesso delle favole, le quali fin dalla loro origine accusano la loro
natura che è permeata di errori? O meglio di erronee credenze che sono il
fondamento di quella natura?
Qui, dunque, ciò che noi chiamiamo la filosofia dei primi secoli si trova
legata con la storia stessa dei fatti. Esempio. Un giovane è caduto in un
fiume e nessuno può ripescare il suo corpo. Che cosa è avvenuto? La
filosofia del tempo (ma leggi le credenze del tempo) insegna che vi sono
delle divinità (veramente il Fontenelle dice: des jeunes filles) che governano
quel fiume. Esse hanno preso il giovane. E ciò è naturale. Ma per portarlo
dove? Ecco: nel palazzo che è sotto il fiume e che di conseguenza è
inaccessibile.
Avviene quindi, e siamo poi alla seconda ipotesi, che l’immaginazione
umana, la quale non va mai d’accordo con la ragione, si accende davanti al
suo soggetto, lo ingrandisce, vi aggiunge ciò che gli manca per renderlo
ancora più meraviglioso, lusingati come siamo dall’ammirazione che
possiamo suscitare negli ascoltatori. La favola così si rinnova, ma conserva
i suoi segreti, che le epoche successive accolgono e tramandano. Da qui la
conformità veramente impressionante, ad esempio, tra le favole dei diversi
paesi, le quali però possono anche essere il frutto di uno stesso, com’egli lo
chiama, état d’esprit:

«Gli Americani inviavano le anime dei peccatori in certi laghi, così come i Greci le inviavano sulle
rive dello Stige e dell’Acheronte. Gli Americani credevano che la pioggia venisse prodotta da una
fanciulla che, giuocando fra le nuvole col suo fratellino, rompesse la sua brocca piena d’acqua. E non
somiglia a quelle Ninfe delle fontane che versano l’acqua delle loro anfore? Secondo le tradizioni del
Perù, l’Ynca Manco Guyna Capac, figlio del Sole, convinse con la sua eloquenza gli abitanti del
paese, che vivevano in maniera primitiva, a vivere sotto leggi ragionevoli. Ebbene: Orfeo, anch’egli
figlio del Sole, fece altrettanto con i Greci. Il che mostra che i Greci furono, durante un certo tempo,
dei selvaggi per lo meno tanto quanto lo furono gli Americani, e che essi uscirono dallo stato di
barbarie con i medesimi mezzi, e che le immaginazioni di questi due popoli così lontani si sono
incontrate nel credere figlio del Sole colui che aveva un talento straordinario. E poiché i Greci con
tutto il loro esprit, quando erano ancora un popolo giovane, non pensavano più ragionevolmente dei
barbari d’America (che erano secondo tutte le apparenze un popolo abbastanza giovane allorché
furono scoperti dagli Spagnuoli), vi è ragione di credere che gli Americani sarebbero pervenuti infine
a pensare altrettanto ragionevolmente che i Greci, se ne avessero avuto il tempo».

Il Fontenelle in questo modo da al mondo primitivo, anche s’egli lo


considera un prima cronologico, un valore universale ed eterno. E come tale
lo immette nel folklore, ove si pensi, egli aggiunge, che le vecchie idee
sono sempre latenti nella vita presente e un loro ritorno alla superstizione è
sempre possibile. Questo il suo grande merito. Ma c’è di più: perché è la
prima volta in un periodo in cui tutta la mitologia è piena di interpretazioni
allegoriche, che una interpretazione invece parta dai popoli primitivi e
venga collegata con le loro credenze. Il Lang, che pur riconosce al
Fontenelle questo pregio, avrebbe voluto che la sua indagine non si fosse
limitata soltanto alle credenze antropomorfiche, ma avesse anche investito
quelle zoomorfiche, e con esse le operazioni magiche. Vero: ma questo non
è un pretender troppo?
8. Storicismo e antistoricismo del Bayle e del Fontenelle

La ricerca della verità, che poi era la ricerca stessa della storia,
costituisce dunque per un Bayle e per un Fontenelle un programma di
lavoro, tanto è vero che la ricerca dell’errore diventa in essi la storia
dell’errore. L’uno e l’altro hanno infatti un concetto sacro della verità. Ma
hanno anche un concetto sacro della storia.
Nel suo Dictionnaire (voce Husson) il Bayle afferma in maniera
inoppugnabile:

«Chi conosce le leggi della storia sarà d’accordo con me nell’ammettere che uno storiografo fedele al
suo compito deve sbarazzarsi dello spirito di adulazione e di maldicenza. Egli deve, per quanto
possibile, mettersi nelle condizioni di chi non è agitato da nessuna passione. Insensibile a tutte le altre
cose, egli deve badare soltanto agli interessi della verità, e per amore di questa deve sacrificare la
sensibilità per un torto che gli sia fatto, la memoria di un beneficio ricevuto e persine l’amor di patria.
Deve dimenticare che appartiene a un dato paese, che fu educato a una data fede, che deve
riconoscenza a questo e a quello, che questi o quelli sono i suoi genitori, i suoi amici. Uno storico, in
quanto tale, è come un Melchisedech senza padre, senza madre e senza discendenza. Se gli si
domanda di dove viene, deve rispondere: non sono né francese, né tedesco, né inglese, né spagnuolo:
sono cosmopolita; non sono né al servizio dell’imperatore, né al servizio del re di Francia, ma
esclusivamente al servizio della verità: questa è la mia unica regina, alla quale ho prestato giuramento
di obbedienza».

E in questo senso il Bayle non solo, come osserva il Cassirer, anticipa


l’idea di una (ipotetica) storia universale dal punto di vista cosmopolitico,
ma in un secolo rigidamente razionalistico diventa il primo positivista
convinto e logico, il quale «non rivolge il dubbio contro il fatto storico, ma
se ne serve come di un organo per scoprire la verità stessa». E qui non v’è
soltanto un nuovo concetto storiografico, anche se poi la storia per lui si
risolve in un cumulo di macerie, di imposture, di falsità, ma c’è una nuova
presa di posizione: quella di considerare quelle macerie, quelle imposture,
quelle falsità in cui si articolano le credenze, i pregiudizi ecc. come pagine
vive e palpitanti della storia dello spirito umano, il quale è verità, si, ma
anche errore.
Né meno significativa in proposito è la lezione del Fontenelle. Anch’egli
è convinto che non è possibile ricercare la verità senza conoscere l’errore.
Anch’egli ha un concetto cosmopolitico della storia, che anzi fa iniziare in
un passato di solito trascurato e negletto qual è quello dei primitivi. Ma
quelle sue ansie non si placano, forse, nell’impostazione decisa di un
problema qual è quello dell’origine della religione e dei miti?
Bisogna pur dire, d’altra parte, che la ricerca della verità per il Bayle e
per il Fontenelle non è soltanto un programma di lavoro scientifico, ma è
anche, e soprattutto, un programma politico e sociale, tanto è vero che tutti
e due si propongono, in fondo, di rinnovare la società in modo che in essa si
inverino una nuova fede e una nuova volontà. Il che appunto li porta da un
lato ad attaccare in nome della libertà dello spirito l’errore, ma dall’altro ad
allargare il loro esame ai popoli tutti della terra, ciascuno dei quali,
positivamente o negativamente, ha qualcosa da insegnare ai riformatori
stessi della società. E c’è indubbiamente in tale atteggiamento una premessa
falsa: quella, cioè, di identificare indiscriminatamente la superstizione con
la tradizione, come se fosse possibile considerare il passato soltanto come
passato, e quindi la religione cattolica, contro cui si appuntano in gran parte
gli strali dell’Illuminismo, indipendentemente dall’influenza che essa ha
esercitato nelle varie epoche storiche. Ma nonostante questa premessa, si
può negare al Bayle e al Fontenelle quell’anelito di rinnovare la società,
l’anelito stesso di richiamare l’attenzione sugli usi e i costumi dei popoli?
5. Incontri di popoli e di civiltà

1. Un nuovo mondo che nasce: Montesquieu e Voltaire, storici


dell’umanità

L’idea di una storia universale condotta da un punto di vista


cosmopolitico, quale fu intuita da un Bayle e da un Fontenelle, fu attuata da
due spiriti liberi, il Montesquieu e il Voltaire, i quali ebbero indubbiamente
un concetto quanto mai alto della storia, anche se, come il Bayle e il
Fontenelle, di più il Voltaire, meno il Montesquieu, non seppero poi
inserirvi i valori della tradizione o meglio delle cosiddette credenze
tradizionali, che essi in gran parte ravvisavano in quelle provenienti dalla
religione cattolica. L’uno e l’altro, come il Bayle, hanno, è vero, l’amore per
i piccoli fatti, per le curiosità, per l’inedito; ma tutti e due fanno coincidere
lo spirito dei fatti con quello delle leggi o dei costumi.
Nella prefazione con cui si apre l’Esprit des lois, il Montesquieu come a
tracciare il programma del suo lavoro avverte:

«Io ho incominciato con l’esaminare gli uomini e ho creduto che nell’infinita varietà delle loro leggi
e delle loro costumanze non siano guidati soltanto dall’arbitrio o dal capriccio. Ho constatato i
principi e ho trovato che tutti i casi particolari vi si adattano quasi da sé, di maniera che la storia di
tutte le nazioni ne è soltanto la successione e ogni legge particolare è collegata con un’altra
universale e dipende da questa».
Il Voltaire, nel suo Essai sur les moeurs, protesta anzitutto contro il
concetto che si è avuto nel passato della storia, la quale è stata considerata
come un avvicendarsi di avvenimenti politici, di re, di battaglie e di
distruzioni. Le parole homo sum, aggiunge, avrebbero dovuto essere
l’insegna di ogni storiografo degno di questo nome. E continua, ormai sceso
nel fervore della mischia:

«Invece di ammucchiare un cumulo di fatti, dei quali gli uni sono sempre distrutti e annullati dagli
altri, si dovrebbe scegliere soltanto i più importanti e i più accertati per offrire al lettore un filo
direttivo e metterlo in grado di farsi un giudizio dell’estensione, della rinascita e dei progressi dello
spirito umano e per fargli vedere il carattere dei popoli e dei loro costumi».

Il Montesquieu e il Voltaire sono dunque convinti, come il Bayle e il


Fontenelle, che la ragione, la quale presiede allo studio della natura, deve
presiedere anche a quello della storia. Tutti e due hanno la massima fede in
quelle che sarebbero le leggi universali e pur sempre valide della ragione da
cui derivano il loro ottimismo. Questo ottimismo poi si spiega con la fede
del razionalismo in un progresso indefinito dell’umanità, il quale però non è
il processo dialettico della storia, ma il risultato quasi meccanico delle
cognizioni acquistate attraverso i secoli.
Eppure, osserva a proposito il Cassirer, mentre per il Montesquieu gli
eventi politici sono il centro del mondo storico e lo Stato è l’unico vero
oggetto della storia universale, onde lo spirito della storia coincide con lo
spirito delle leggi, per il Voltaire invece il concetto dello spirito acquista
un’estensione più vasta e comprende l’insieme dei mutamenti attraverso cui
deve passare l’umanità, prima che possa giungere a una vera coscienza di se
stessa. Il che non può essere dedotto dal divenire politico, ma dal divenire
della religione, dell’arte, della scienza, della filosofia, onde si designa in
questo modo un quadro totale di tutte le singole fasi che lo spirito umano
dovette percorrere e superare per giungere alla sua forma presente.
Senonché, potremmo obiettare al Cassirer, nel divenire politico il
Montesquieu non include anche quello della religione, dell’arte, della
scienza? E il Montesquieu e il Voltaire, se pur prediligono delle determinate
forme statali, tutti e due non vedono la storia in funzione di civiltà, e questa
come un accordo in cui si incontrano l’uomo e il progresso?

2. Le Lettres Persanes e la loro polemica

È in nome di questa civiltà infatti che Montesquieu, se da una parte


espelle, come il Bayle e il Fontenelle, ogni considerazione teologica della
storia, dall’altra dà risalto a quei popoli che già si erano imposti
all’attenzione europea per colpire l’assolutismo, i dogmi ecc., e nei quali di
volta in volta erano state ravvisate la natura e la ragione o meglio una vita
vissuta secondo leggi naturali. Si leggano le sue Lettres Persanes, edite nel
1721. In esse, è vero, egli par che voglia correggere il Marana, il barone de
La Hontan, lo stesso Dufresny. È troppo orgoglioso del suo paese, è troppo
orgoglioso di essere francese per non riconoscere che egli vive in un grande
secolo in cui l’arte, la filosofia, le scienze hanno raggiunto un posto
preminente. Ma poi come il Marana, come il barone de La Hontan, come il
Dufresny, egli, osserva bene il Sorel, «sente dissolversi intorno a sé le
istituzioni sociali vecchie di più secoli: le credenze, le consuetudini, i
costumi che avevano sostenuto la monarchia francese». E la sua polemica è
inesorabile, recisa, pungente.
Nelle Lettres egli immagina che due persiani Rica e Usbek, in viaggio
per l’Europa, si siano fermati a Parigi, da dove inviano ai loro amici le loro
impressioni. Così dopo il selvaggio dei missionari, dei viaggiatori e del
barone de La Hontan, dopo l’Egiziano del Marana, dopo il Siamese del
Dufresny, era la volta di quel Persiano che già era stato messo sugli altari da
un Bernier, da uno Chardin e da un Tavernier.
E il Persiano non è da meno dei suoi colleghi, tanto è vero che egli non
ha peli sulla lingua e colpisce diritto e a fondo, tutto e tutti. Sentite. Il re, a
Parigi, è un uomo che «fa pensare ai sudditi quel che vuole». Simile a lui è
il papa che sta a Roma e che è capace «di far credere che tre più tre non
fanno più d’uno» e che «il pane che si mangia non è pane». Non parliamo
poi dei preti: sono una «setta di avari che prendono sempre e non danno
mai». Oppure delle donne, la cui moda è tanto capricciosa che se una donna
lascia Parigi per passare qualche tempo in campagna, quando torna e vuole
indossare i suoi abiti, è già come se venisse da un altro mondo. Ora la
maniera di vivere dei Francesi è come la loro moda: cambiano i costumi
secondo l’età del loro sovrano, il quale potrebbe riuscire anche a rendere la
sua nazione più seria, se lo volesse. Ma che cosa volete da una nazione?
Così in una serie di quadri e di ritratti che ricordano l’arte di un La
Bruyère, ci sfila la vita di una società e di un popolo. E mentre le voci dei
salotti e dei cortigiani si uniscono alle voci e alle grida di Rue Quincapoix,
ecco di contro la vita idealizzata dei Persiani, le massime sul governo e
sulla politica, le dissertazioni più o meno ampie sulla popolazione della
terra, sull’origine delle repubbliche, sul governo dei Goti. Né mancano nelle
Lettres degli spunti vivi e mossi sulle tre forme di governo (dispotismo,
monarchia, democrazia), le quali costituiranno poi il perno stesso
dell’Esprit des lois.
Le Lettres vogliono colpire, nel suo intimo, l’anima stessa dei Francesi.
Vogliono distruggere una determinata società. L’Esprit si propone di
ricrearla. Ma così, come lo storico vagheggiato dal Bayle, egli non scrive
quell’opera soltanto per i Francesi, per quanto allora, per gli illuministi, la
Francia fosse l’Europa ed europeo tutto ciò che era francese (sul che c’era
una certa punta di malignità ma anche di verità, ove si pensi come la
Francia riusciva a penetrare in tutte le classi europee, con la moda, con
l’arte, con le sue causeries ecc. ecc.). La sua opera è, e vuole essere, una
preghiera universale rivolta agli uomini di buona volontà.

3. Del metodo comparativo in Montesquieu

Anche nell’Esprit des lois non mancano naturalmente i raffronti e i


confronti con i popoli lontani, compresi i primitivi. Un sociologo francese,
l’Hervé, il quale ha indagato le fonti etnografiche del Montesquieu, ebbe a
osservare che, ancor prima di estendere il piano dell’Esprit, il Montesquieu
si era deliziato alla lettura delle relazioni di viaggi, nonché a quella dei
cosiddetti viaggi immaginari. Sarebbe meglio però dire che egli, se mai,
continuò con passione quella lettura, poiché la documentazione etnografica
delle Lettres è tutt’altro che nulla, come sulle orme dell’Hervé crede lo
stesso Van Gennep. Si aggiunga che il Montesquieu dal 1728 al 1731 visitò
l’Austria, l’Ungheria, l’Italia, la Svizzera, l’Olanda e infine l’Inghilterra:
paesi tutti questi da cui trasse delle osservazioni personali quanto mai utili
per una sua documentazione etnografica.
Da queste letture e da questi viaggi rimasero al Montesquieu non solo i
termini di comparazione, quali appunto gli erano stati proposti dalle diverse
società, ma anche il concetto che le differenti società civili possono trovare
un punto di riferimento in quelle primitive. È vero infatti che il metodo
comparativo è dal Montesquieu applicato soprattutto a dei fatti appartenenti
alle grandi civiltà, come quelle della Persia, già cara al suo cuore, della
Cina, alla cui storia egli dedica pagine ancora attuali, del Messico e dei
Mongoli. Ma è anche vero, come dice l’Hervé, che se i fatti dei selvaggi
sono da lui raramente citati, quando lo sono, il mondo primitivo gli si
dispiega come un modello di saggezza e di virtù. I suoi primitivi, insomma,
sono quelli dei missionari e dei viaggiatori. Così, ad esempio, dopo avere
affermato che tutte le nazioni hanno un diritto delle genti, aggiunge: anche
gli Irochesi che pur mangiano i loro prigionieri. Né egli nasconde la sua
ammirazione per la colonia del Paraguay istituita dai Gesuiti. Il che, anzi,
gli suggerisce la seguente massima: «Sarà sempre bello governare gli
uomini rendendoli felici».
E questo, appunto, è il compito che egli assegna alle leggi. Si può dire e
dimostrare che le sue fonti non sono sempre esatte. Oppure che egli mette
sullo stesso piano tutte le descrizioni dei viaggi. Sta di fatto, ad ogni modo,
che la comparazione per il Montesquieu non è altro che un pretesto e uno
stimolo per approfondire meglio le istituzioni giuridiche dei vari popoli, che
egli considera come forme sociali, le quali hanno una norma che le guida e
le dirige, anche se poi quella norma sia in contrasto con quei casi singoli
dove si invera l’esistenza empirica delle leggi.

4. L’Esprit des lois

Convinto che le leggi non siano altro che dei rapporti necessari desunti
dalla natura delle cose, il Montesquieu è dell’avviso che esse siano in
rapporto soprattutto con la natura stessa degli uomini, influenzati dalla
natura del suolo e da quella del clima. Così, ad esempio, parlando in genere
dei popoli orientali, egli osserva:

«Se a quella debolezza d’organi che fa ricevere ai popoli orientali le impressioni più forti del mondo,
unite una certa pigrizia dello spirito, legata naturalmente con quella del corpo, la quale faccia si che
questo spirito non sia capace d’alcuna azione, d’alcuno sforzo, d’alcuna contesa, comprenderete
come l’anima, che ha ricevuto a volte delle impressioni, non possa più cambiarle. Per questo le leggi,
i costumi, le massime, anche quelle che sembrano indifferenti come la foggia del vestire, sono oggi
in Oriente come erano mille anni fa».

La sua ammirazione comunque va per i legislatori cinesi, i quali

«furono più sensati, quando, considerando gli uomini non più nello stato pacifico in cui saranno un
giorno o l’altro, ma nell’azione atta a far sì che adempiano ai doveri della vita, fecero la loro
religione, la loro filosofia, le loro leggi tutte pratiche».

Né mancano, nella sua indagine intenta a scoprire l’esprit delle leggi


punti di riferimento ancora più diretti alle credenze dei popoli: come, ad
esempio, quella relativa alla metempsicosi, che egli ritiene si addica al
clima degli Indiani:
«L’eccessivo calore brucia tutte le campagne; il bestiame costituisce una nutrizione molto relativa; si
è sempre in pericolo che esso manchi per la coltivazione della terra; i buoi non sono prolifici; sono
soggetti a molte malattie; e una legge religiosa che li conserva è molto conveniente alla salute del
paese. Durante il periodo che le praterie sono bruciate, il riso e i legumi vi crescono in abbondanza
per le acque che sono state conservate: e una legge religiosa la quale comanda questo nutrimento è
utile agli uomini che vivono in questo clima».

È chiaro pertanto che il Montesquieu non fa del clima un fattore


esclusivo, assoluto, statico; ma lo collega a delle cause spirituali, le quali
sono quelle appunto che reggono tanto le leggi quanto i costumi. Non ogni
terreno né ogni clima, egli anzi specifica, è adatto a una data norma statale
o a una determinata costituzione. Egli ammira infatti la costituzione inglese,
ma si guarda dal volerla applicata in tutto il mondo. È compito comunque
del legislatore non restare impigliato in mezzo a queste cause, poiché, egli
afferma decisamente, «se è vero che il carattere dello spirito e le passioni
del cuore sono diversi sotto diversi cieli, le leggi devono tener conto di
queste differenze di carattere e di passioni e adattarsi ad esse». Bisogna
aggiungere inoltre che per il Montesquieu le leggi si collegano ai costumi,
ma non sono i costumi. Egli, che pure voleva riformare i costumi del suo
tempo, non esita ad avvertire in maniera categorica:

«Quando si conquista un popolo, non è necessario lasciargli le sue leggi. Può essere necessario
invece lasciargli i costumi, perché un popolo conosce, ama e difende molto di più i suoi costumi
anziché le sue leggi».

Le leggi insomma per il Montesquieu, come i costumi, non sono il


portato di un arbitrio o di una convinzione, ma sono qualcosa di vivo e di
fecondo. Sono soggette, è vero, a delle condizioni esterne. Ma non sono
soltanto quelle condizioni esterne che le formano (come pensano alcuni
frettolosi lettori del Montesquieu). Egli in tal modo si appellava alla ragione
facendo del diritto un prodotto della ragione. Ma in quella ragione non si
inverava già l’esperienza, che è un dato fondamentale delle leggi? Ed egli, è
vero, era portato a generalizzare e a creare piuttosto una tipologia
sociologica; il grande pregio di questa tipologia non è quello di aver
favorito proprio quelle indagini che egli considerava accessorie, cioè le
indagini particolari, le quali così investono le leggi e i costumi?

5. Voltaire e il fanatismo

L’interesse vivo e profondo che il Montesquieu ebbe per le leggi e per i


costumi fu pienamente condiviso dal Voltaire, il quale nelle sue Lettres
écrites de Londres sur les Anglais et autres sujects, pubblicate nel 1774, se
da una parte idealizza l’Inghilterra del tempo, come Montesquieu aveva
idealizzato la Persia, dall’altra parte la ritrae nelle sue attività industriali,
nelle sue istituzioni, nei suoi costumi. È nelle Lettres che si trova già questa
affermazione: e cioè che la libertà coincide con i diritti dell’uomo. Ma le
Lettres non si ammirano ancor oggi per le massime di questo genere, ma
anche perché, come nelle Lettres Persanes, ogni capitolo è una polemica
contro la vita e i costumi della Francia.
La stessa polemica continua in Le siècle de Louis XIV, edito nel 1739,
dove già la storia del commercio, delle finanze, delle faccende
ecclesiastiche si integra con quella delle arti e soprattutto degli
abbigliamenti e dei costumi, anche se in ultima analisi in quest’opera, che
pur non è una delle solite compilazioni del tempo, il Voltaire si lasci sedurre
dalla stessa tipologia sociologica cara al Montesquieu.
Prescindendo dagli accenni diffusi nel suo Dictionnaire philosophique,
nei dialoghi, nelle tragedie e nelle operette cosiddette minori, che sono poi
le sue cose più vive, l’opera maggiore dove il Voltaire più particolarmente
rivolge la sua attenzione ai costumi, oltre che alle leggi e alle costituzioni, è
l’Essai sur les mœurs, di cui alcuni brani uscirono fra il 1745 e il 1748, e
che, edito nel 1758, apparve, né ciò è senza significato, col titolo di Essai
sur les mœurs et l’esprit des nations, et sur les principaux faits de l’histoire,
depuis Charlemagne jusqu’à Louis XIII.
Al Voltaire non tutti gli usi e i costumi si dispiegano in quella che è la
loro effettiva tradizione, tanto è vero che egli, preoccupato della sua
polemica, allarga la sua visione storica a tutti i popoli, e di questi si
preoccupa di descriverci le opinioni religiose e morali. Ma con uno scopo:
quello cioè, come ha notato un fine critico del Voltaire, il Craveri, di
mettere in luce la storia della religione e della morale naturale contro le
degenerazioni del fanatismo.
Convinto che sono gli uomini a formare la società, il Voltaire, a cui la
storia dell’uomo appare dunque in funzione della storia dell’umanità, ferma
la sua attenzione tanto sulla morale quanto sulla religione. Ma che cosa
sono l’una e l’altra? Il Voltaire ritiene che, così come il fondamento della
morale è identico presso tutti i popoli, vi sono anche degli usi civili comuni
a tutta la terra. Il che dipende da quella eguaglianza degli spiriti, il cui
teorico era stato l’Helvétius. Sta di fatto però, aggiunge, che, se tutto ciò
che dipende dalla natura si rassomiglia, lo stesso non può dirsi per tutto ciò
che dipende dal costume. Le rassomiglianze del costume, anzi egli
specifica, sono dovute al caso. Nel riassunto con cui si conclude il suo Essai
egli, che pur ha messo in luce con acume alcune di queste rassomiglianze
fra noi e i selvaggi, fra noi e i Giapponesi ecc., inerenti agli auguri di primo
d’anno o dei giudizi di Dio, alle arti ecc., afferma:

«Risulta da questo lavoro che tutto ciò che è intimamente legato alla natura umana si rassomiglia da
un capo all’altro dell’universo: che tutto ciò che può dipendere dal costume è differente e, se si
rassomiglia, è dovuto al caso. L’impero del costume è ben più vasto di quello della natura: esso si
estende su tutte le credenze, su tutti gli usi, diffonde la varietà sulla scena del mondo; la natura che
diffonde l’unità stabilisce dappertutto un piccolo numero di principi invariabili: così il fondo è
dappertutto lo stesso, mentre la cultura produce i fatti diversi».

Così come il Montesquieu distingueva i costumi dalle leggi, egli li


distingue dalla natura, riportandone le somiglianze al caso, dimenticando in
tal modo che allora nessuno può essere chiamato responsabile dei suoi
propri costumi. È anche al costume, d’altro lato, che il Voltaire attribuisce il
male che si diffonde nel mondo. E in quanto alla natura, è vero che per lui è
sempre la stessa, ma è pur vero che essa – e qui siamo nello stesso piano del
Montesquieu – è perfettibile. Ora è a questa perfezione che deve tendere la
morale. In quanto alla religione bisogna subito aggiungere, egli osserva, che
essa dovrebbe insegnare la stessa morale a tutti i popoli:

«Io dico solamente che non vi è nel mondo alcuna società religiosa, né alcun rito istituiti allo scopo
di incoraggiare gli uomini al vizio. Ci si è serviti in tutta la terra della religione per fare del male, ma
essa è stata istituita da tutti per far del bene. E se il dogma e il fanatismo portano alla guerra, la
morale ispira dappertutto alla concordia».
Conclusione: riducete la legge naturale in principi positivi, e avrete la
religione e la morale che si addicono a un popolo civile, il quale così non
crederà a quelle furberie di preti che sono gli oracoli, i sacrifici umani e i
miracoli, compresi quelli dei re di Francia, che facevano guarire gli
ammalati (credenze queste di cui il Voltaire si occupa specialmente nei
capitoli XVII, XXXII, XXXVI). Egli insomma sa di combattere contro tutti gli
errori, soprattutto, come ha già promesso ai suoi lettori, nel discorso
preliminare dell’Essai, contro una «folla di favole assurde che continuano a
infettare la gioventù». Questa irrisione delle favole, termine, com’è
evidente, adoperato qui in senso generico, non toglie che egli altrove non
mostri una viva nostalgia del felice tempo delle favole:

O l’heureux temps que celui de ces fables


Des bons démons, des esprits familiers
Des farfadets aux mortels secourables!
On écoutait tous ces faits admirables,
Dans un château, près d’un large foyer:
Le père et l’oncle, et la mère et la fille,
Et les voisins et toute la famille,
Ouvrait l’oreille a monsieur l’aumônier,
Qui leur faisait des contes de sorcier.
On a banni les démons et les fées;
Sous la raison les grâces étouffées
Livrent nos cœurs à l’insipidité;
Le raisonneur tristement s’accrédite.
On court, hélas! après la vérité
Ah! croyez-moi, l’erreur a son mérite!

Sembrano versi di Perrault, ma sono di Voltaire, e ci ricordano una


bellissima pagina di Alessandro Verri, il quale, commentando il Saggio
sugli errori popolari degli antichi che il Leopardi scrisse sotto l’influenza
diretta dell’Illuminismo, annotava: «Vantiamo tanto la ragione e dobbiamo
le più grandi cose all’errore. L’entusiasmo, le passioni sublimi sono per lo
più figlie di lui, e con questo si fanno le imprese grandi…».

6. Voltaire e i selvaggi

E figlie di lui, dell’errore, cioè della storia dell’errore, sono appunto le


indagini che il Voltaire veniva compiendo sugli usi e sui costumi di tutti i
popoli, allargando così il compito stesso della storiografia. Gli storici, fino
ad oggi, cioè fino ai suoi tempi, egli dice nel suo Essai sur les mœurs,
hanno dimenticato tre quarti della terra. Ed ecco che egli, nella sua
narrazione, accanto alla Francia, all’Inghilterra, alla Spagna, alla Svezia
ecc., di cui ci dà quadri rapidi e mossi, mette a cultura non solo gli Indiani
d’America ma anche i popoli orientali tutti, sfruttando e utilizzando le
ricerche che i missionari e i viaggiatori avevano compiuto e venivano
compiendo.
Così, ad esempio, nell’Essai gli Indiani d’America ci appaiono, sì, come
dei popoli che non hanno l’idea di un Dio unico. Ma, tuttavia, essi non sono
quali li aveva cantati nell’Alzire?

L’Américain farouche en sa simplicité


Nous égale en courage et nous passe en bonté.

Negli schizzi che precedono l’Essai (e che sotto forma di Advis des
éditeurs apparvero per la prima volta nell’edizione di Kiel), egli traccia
invece un quadro gustoso dei popoli primitivi in genere, soprattutto di quelli
dell’Africa e dell’Asia. Conclusione:

«Le popolazioni d’America e d’Africa sono libere, e noi non abbiamo nemmeno l’idea di libertà.
Esse conoscono l’onore, di cui i selvaggi d’Europa pare non abbiano inteso parlare. Esse hanno una
patria, la amano e la difendono; esse fanno dei trattati, si battono con coraggio e parlano spesso con
energia eroica. Vi è una risposta più bella di quella che un capo canadese diede al rappresentante di
una nazione europea, che gli proponeva di cedergli il suo patrimonio? Noi siamo nati su questa terra,
i nostri padri sono incivili. Diremo noi alle ossa dei nostri padri: Levatevi e venite con noi in una
terra straniera?»

Al Voltaire piacciono questi episodi gustosi. Egli qui unisce Montaigne


al barone de La Hontan. Ma da buon borghese, se pur ricorre ai selvaggi per
mettere in berlina gli Europei, questi Giudei senza prepuzio, com’egli altra
volta li chiama, è ben lontano però dal ritenere che nel patrimonio dei
primitivi non esista né il tuo né il mio. Anche la proprietà è un diritto
naturale. Lo aveva detto Locke, il quale, come Voltaire, pensava anche che
soltanto l’azione conforme alla legge può esprimere la libertà umana. Né in
proposito si può dimenticare quanto egli scrisse nel suo dialogo Un Sauvage
et un bachelier:

«Se qualcuno, quando i lotti sono già ripartiti, chiederà la sua parte di cinquanta iugeri sui
cinquantamila milioni da distribuire tra un miliardo di uomini, gli si risponderà che, da noi, le parti
sono già fatte e che egli può andare a farsi la sua tra gli Ottentotti. Ma anche tra quei popoli vi è chi
possiede e chi non possiede. Un baccelliere domanda al selvaggio: – Chi ha fatto le leggi nel vostro
paese? – Il selvaggio risponde: – L’interesse pubblico. Tutto ciò che ho visto nel mio paese mi
insegna che non vi è altro spirito delle leggi».

7. Voltaire e il mondo orientale


Identico è l’atteggiamento che il Voltaire assume nei riguardi dei popoli
orientali, ciascuno dei quali è invocato per la sua tolleranza religiosa, per i
suoi costumi e per le sue leggi naturali. Ecco la sua opinione, ad esempio,
sulle cerimonie asiatiche:

«Le cerimonie asiatiche sono bizzarre, le credenze assurde, ma i precetti giusti. Invano qualche
viaggiatore e qualche missionario ci ha rappresentato i preti di Oriente come dei predicatori della
iniquità. Non è possibile che ci sia una società religiosa costituita per inventare il delitto».

Quand’egli, prima di scrivere l’Essai, si era rivolto a quel mondo per


trarre spunti inventivi, si disse che i suoi personaggi orientali erano vestiti
secondo la moda francese. Era la stessa accusa che si era fatta al Galland
quando aveva tradotto le Mille e una notte. Ma, vestiti o no alla francese,
dell’Oriente che cosa interessava al Voltaire se non ciò che poteva appunto
potenziare la sua polemica contro il fanatismo religioso? E l’Oriente, anche
per lui, continuava così a essere il paese dell’utopia come lo era quello dei
selvaggi. L’Oriente insomma era per Voltaire un complesso di popoli che si
possono paragonare, in date epoche, alle nostre vicende storiche. Così egli
afferma che nel Medioevo noi Europei rassomigliavamo ai Cinesi e che
l’India del secolo XVIII fu governata come l’Europa nei grandi Stati feudali.
Ma era anche un complesso di civiltà, dove non esistevano privilegi feudali.
Era la benevolenza e la libertà. Ma soprattutto ecco quel che esso era nel
suo complesso, o meglio ecco quel che non era: non era Cristianesimo.
Anche Maometto diventa quindi un despota illuminato, come si conveniva
alla sua concezione politica. Senonché, come ben osserva il Gerbi, «quelle
deformazioni non sono errori, ma desideri, la cui realtà ed efficienza si
rividero molti anni dopo. Ogni ritocco alla realtà della Cina esprimeva la
volontà di un simile ritocco alla realtà dell’Europa». «In Oriente non vi
sono Bastiglie» voleva dire infatti: «Distruggiamo la Bastiglia».

8. Dalla ricerca dello spirito delle nazioni alla distinzione fra borghesia e
popolo

In tal modo il Voltaire continuava quella polemica politico-sociale che si


era tenuta viva dal Cinque al Seicento. Ma, al di là della polemica e dei
desideri che essa esponeva, sta di fatto che quell’incontro di popoli e di
civiltà, immesso nella storia, dimostrava, fra l’altro, che non è possibile
azzardare una teoria, quale che essa sia, limitandosi a una ristretta visione di
campanile. A ciò, e a nient’altro, tendeva per il Voltaire la ricerca dello
spirito delle nazioni, il quale, come per il Montesquieu lo spirito delle leggi,
rimane un concetto empirico se si guarda ai suoi fattori esterni e
naturalistici, ma che è quanto mai fecondo se di volta in volta esso viene
considerato in rapporto a quelle che sono le espressioni concrete della
storia, di cui tuttavia non sempre il Voltaire colse lo spirito che tutto
informa di sé la civiltà dei singoli popoli presi in esame.
È stato osservato che già nel 1665 il Saint-Evremond, che aveva letto il
Sarpi nel suo Discours sur les historiens français, dopo aver ricordato che
Cesare nei Commentarii non aveva perduto l’occasione di parlare degli usi,
dei costumi, della religione dei Galli, lodava Grozio «per essere penetrato
nelle cause più nascoste della guerra, nello spirito del governo degli
Spagnuoli, nella disposizione dei popoli della Fiandra», per «essere entrato
nel vero genio delle nazioni» e per «aver colto il giusto carattere della
società e delle persone principali e per avere spiegato i differenti stati della
religione». Il Montesquieu e il Voltaire, coi loro pregi e i loro difetti, sono
su quella linea. Ma, per loro, la nazione, che essi definiscono una
collettività di popolo caratterizzata da determinati tratti spirituali o morali,
comprende il cosiddetto popolo, il popolo minuto?
Il Bayle e il Fontenelle erano convinti che il popolo, e la loro allusione
era rivolta al popolo minuto, è la vittima di tutti. Il Montesquieu afferma
decisamente che «non è indifferente che il popolo sia illuminato». Ma il
Voltaire non è affatto di questo avviso, tanto è vero che nel Siècle de Louis
XIV aveva ammonito che «vi è nella nazione un popolo il quale è
inaccessibile alla ragione». Egli, nonostante ammetta l’universalità della
ragione, è ben lontano, del resto, dal reclamare l’eguaglianza di tutti i
cittadini. Il Browne aveva affermato che non vai la pena di illuminare il
popolo. Ma il Voltaire va oltre. Illuminate il popolo e avrete la rivoluzione.
E lui era troppo borghesemente pacifico per volere la rivoluzione. Il suo
Illuminismo si ferma sull’honnête homme, si ferma cioè sul borghese, il
quale in lui ha il ritratto ideale:

J’aime le luxe, et même la mollesse,


Tous les plaisirs, les arts de tonte espèce,
La propreté, le goût, les ornaments.
Tout honnête homme a de tels sentiments.
Siamo in un’epoca, d’altro lato, in cui la borghesia prende coscienza di
se stessa. E la borghesia vuol distinguersi nettamente da quei ceti che le
sono o che essa ritiene inferiori, dal popolo (come diceva Voltaire) il quale
credeva fermamente a tutto ciò che gli illuministi volevano cancellare. Ed è
stato di recente un acuto storico, il Groethuysen, a mettere in luce questo
dissidio, il quale alimenterà appunto la distinzione di quelle due classi.
Il Groethuysen si avvale nel suo esame soprattutto di un materiale che, di
rado, entra nelle ricerche storiche: delle prediche dei curati di campagna.
Attraverso queste prediche noi possiamo seguire il popolo, quello dei
borghi e della campagna, il popolo degli umili, il quale fa i suoi
pellegrinaggi e le sue feste, attaccato com’è alle sue credenze tradizionali. Il
borghese insomma, per affermare la sua personalità, sente il bisogno di farsi
incredulo. Tuttavia, come ben osserva il Groethuysen, «se la religione è
buona per il popolo, e magari necessaria, egli potrà farne a meno, pur
restando quel che è: un perfetto honnête homme. La distinzione fra le due
classi, borghesia e popolo, è un fatto acquisito: ed è l’atteggiamento di esse
di fronte alla religione che ha permesso di distinguerle». E aggiunge: «Ciò
non significa che ogni borghese sia necessariamente un incredulo. Significa
che, se il borghese ha conservato qualcosa della vecchia fede, ha fatto ciò
come individuo non già come borghese».
L’Illuminismo che aveva guadagnato allo studio della storia gli usi e i
costumi dei popoli, non aveva certo trascurato, sia pure per criticarli, quelli
appartenenti a una classe cui ora per un malinteso politico e polemico si
rivolgeva con disprezzo, perché in essa vive e non può vivere altro che
l’errore. Ma intanto in quella distinzione fra borghesia e popolo
l’Illuminismo pone la sua attenzione precisamente sul popolo, che non è più
la nazione, ma una parte della nazione. Questa si dispiega fra gli umili, fra
le cosiddette classi inferiori, che hanno un loro patrimonio morale e
intellettuale, che gli illuministi non intendono, ma di cui nel segreto del loro
cuore sentono un segreto fascino.
Parte seconda
La ricerca delle «origini» fra Illuminismo e Preromanticismo
6. L’uomo e la storia

1. Verso una nuova «scienza dei costumi»

Nello stesso periodo di tempo in cui l’Illuminismo formula i suoi dogmi


e li esalta, si vanno affermando nella storia del pensiero europeo alcune
tendenze spirituali, le quali si caricano di quelle forze irrazionali che gli
illuministi respingono o comunque ritengono dannose. Lo studio dei popoli
primitivi e di quelli orientali, la comparazione degli usi e dei costumi di tali
popoli con quelli occidentali, la lotta all’errore che finiva col diventare
l’indagine (critica) degli errori o meglio delle manifestazioni spirituali
ritenute tali; tutto ciò può considerarsi indubbiamente come l’avvio deciso
alla formazione di una scienza dei costumi. L’Illuminismo, quali che siano
state le sue preoccupazioni di carattere contingente, ha avuto il merito di
porre nel campo della storia i problemi delle origini delle idee, della società,
delle religioni, dello stato, molto spesso rifacendosi alla vita dei popoli
primitivi. Dal Bayle al Fontenelle, dal Montesquieu al Voltaire, gli
illuministi francesi si preoccupano di dare alla vita di quei popoli – i quali
considerati in blocco sono come una fornace dove è possibile fondere tutto
– un contenuto essenzialmente razionalistico.
Non tutti però erano stati o erano dello stesso avviso. Insegni, ad
esempio, l’opera di un dotto Gesuita, la quale si può considerare come il
primo documento dell’etnologia moderna: le Mœurs des Sauvages
Amériquains, comparées aux mœurs des premiers temps. Il Fontenelle non
cita mai, e si spiega, quest’opera. Né la cita lo stesso Montesquieu, che pur
amava ricercare nella letteratura etnografica del suo tempo gli stimoli per i
suoi pensamenti politico-sociali. Nell’Avant-Propos che fu poi aggiunto
all’Essai, il Voltaire non solo dimostra invece di conoscere Lafitau ma ne
traccia un estroso profilo:

«Lafitau fa venire gli Americani dagli antichi Greci ed ecco le sue ragioni. I Greci avevano le loro
favole e anche gli Americani le hanno. I primi Greci andavano a caccia e gli Americani fanno lo
stesso. I primi Greci avevano gli oracoli e gli Americani hanno i maghi. Si danzava durante le feste
della Grecia e si danza in America. Bisogna convenire che queste ragioni sono convincenti».

Senonché il Lafitau è davvero quel che il Voltaire dipinge? Non c’è


dubbio, diciamolo subito, che leggendo le Mœurs si scopre un etnografo
attento e scrupoloso cui il mondo dei primitivi si dispiega con interessi
molteplici. Il Lafitau sente quel mondo dal lato umano ed egli, perciò, vi
s’interna con la coscienza dello studioso, il quale, se pur accusa la sua
particolare preparazione di teologo cristiano, riesce a manifestare con
schiettezza le sue personali opinioni.
Il Lafitau era stato a lungo, come missionario, nel Canada, dove aveva
avuto la fortuna di essere guidato nello studio dei selvaggi da un vecchio
confratello, Padre Julien Garnier, che, dopo sessanta anni di permanenza in
quei posti, conosceva la lingua algonchina, la urona e i cinque dialetti
irochesi. Lontano dai suoi selvaggi, il Lafitau però non si contenta di
descriverli come avrebbe fatto un comune viaggiatore; la sua ambizione,
come egli dichiara, è quella di dare col suo esame un abbozzo a quella
«scienza degli usi e dei costumi dei diversi popoli», la quale ha «qualcosa
di così utile e così interessante che anche Omero ne fece oggetto di un
intero poema», vale a dire l’Odissea, che, secondo lui, si deve considerare
come la prima opera etnografica. E pertanto nulla gli sfugge su quanto è
stato scritto sui popoli primitivi. Il Martire, Las Casas, Gómara, Léry, de la
Vega: queste sono le fonti cui il Lafitau ricorre di buon grado. Ma sarebbe
erroneo pensare che egli si fermi soltanto su quelle personalità che hanno
un riconosciuto valore scientifico. Gli piace ricorrere anche, ove capiti, al
Lescarbot. Né trascura, sia pure con intento polemico, le amabili
disquisizioni del barone de La Hontan. Il Lafitau insomma ha già davanti a
sé un quadro preciso di quanto si era scritto nel campo dell’etnografia a
proposito della vita dei selvaggi. Ma egli ha anche la sua esperienza diretta.
E i suoi selvaggi par che escano da un affresco, il cui sfondo è animato ma
non sommerso dalla natura. Egli li segue passo passo: dalla nascita alla
morte, nelle loro occupazioni e nei loro svaghi, in tutti i particolari della
loro vita. E c’è un’ansia in lui, il bisogno continuo di internarsi in un mondo
che non è il nostro, ma che al nostro ci richiama. Il mondo dei selvaggi, o
meglio dei suoi selvaggi, per il Lafitau non è fatto di bizzarrie. È un mondo
come il nostro, dove vivono anime e non cose, uomini e non oggetti di
curiosità. Prima del Lafitau, il primitivo, il nobile selvaggio, non era stato
soltanto studiato, ma era stato anche inventato. Senonché, ove noi lo
studiamo, e per studiarlo è necessario conoscere le lingue in cui si articola il
suo pensiero, non ci accorgiamo forse, si domanda il Lafitau, che i suoi
fondamentali costumi, come i nostri, sono appunto la religione, il culto
degli spiriti e dei morti, l’organizzazione sociale?

2. Lafitau e le sue Mœurs des Sauvages Amériquains

Le Mœurs sono in sostanza l’indagine più attenta e acuta che all’inizio


dell’Illuminismo sia stata dedicata alla religione dei primitivi. Eravamo in
un’epoca in cui i deisti e gli atei avevano fatto del primitivo in genere, ma
soprattutto dell’Indiano d’America, un deista o un ateo. Il Lafitau è
convinto che l’ateo in fondo ha le sue buone pezze di appoggio, quando,
passando in rassegna quella letteratura etnografica che sosteneva resistenza
di popoli che non hanno religione, conclude che la religione è un artificio
dei legislatori, i quali «l’hanno inventata per condurre i popoli con la paura,
madre della superstizione». Ma dove sta, egli si domanda, la verità?
La verità sta proprio in mezzo ai suoi selvaggi, ai suoi Americani, che
egli ha studiato per anni e che invece tanto i deisti quanto gli atei
conoscevano spesso in base a informazioni affrettate. Il Lafitau infatti fin
dalle prime pagine delle Mœurs avverte:

«Io ho visto a malincuore come coloro che nelle loro relazioni si occupano dei selvaggi, li dipingono
come gente che non ha nessun sentimento di religione, nessuna conoscenza del divino, un qualche
oggetto cui si renda un culto; come gente che non ha né leggi, né disciplina esteriore, né forma di
governo, in una parola come uomini che hanno dell’uomo soltanto la figura. È questo un errore di cui
sono responsabili molte persone…» (1, 5).
E subito dopo, quasi a tracciare un quadro ideale:

«Essi [i selvaggi] hanno l’animo buono, l’immaginazione viva, il pensiero facile, la memoria
ammirevole. Tutti hanno più o meno delle tracce di una religione antica ed ereditaria e una forma di
governo… E hanno il cuore alto e fiero, un coraggio a tutta prova, un valore intrepido, una forza nei
tormenti che è eroica… un rispetto per i loro vecchi, una deferenza per i loro eguali, il che ha
veramente qualche cosa di sorprendente» (1, 97).

La religione viene quindi considerata dal Lafitau come un fenomeno


spirituale ma anche sociale, che lega assieme la vita dei suoi selvaggi,
accompagnandoli dalla nascita alla morte e consacrandone tutti i momenti
solenni della vita. In alcuni di essi non manca la stessa idea di un Grande
Spirito o meglio di un Essere Supremo (1, 111-17). Numeroso comunque
l’olimpo degli spiriti, che a loro volta collegano la mitologia con la
religione in una fitta rete di culti e di riti, i quali hanno per fondamento la
concezione del mondo e della vita. Gli spiriti dominano la natura. Ed è qui
in questo dominio, che va inserita la credenza di un’anima separabile dal
corpo.

«L’anima per gli Americani [egli osserva] è ben più indipendente dal loro corpo che non sia la nostra,
e gode maggior libertà. Essa si separa dal corpo per prendere l’avvio e fare delle escursioni dove
vuole. I grandi viaggi non l’impressionano; essa si trasferisce nell’aria, passa i mari, penetra nei
luoghi più incredibili. Essi [i selvaggi] si persuadono che effettivamente la loro anima, vedendo il
corpo immerso nel sonno, ne profitti per andare a passeggio, dopo di che ritorna nella sua dimora. Al
loro risveglio credono che l’anima ha vissuto realmente ciò che è passato nei loro sogni e agiscono di
conseguenza» (1, 132).

Si vede chiaramente in tal modo come nel Lafitau si trovino i germi che
costituiranno più tardi il travaglio dell’etnologia moderna. Il Lafitau dalle
sue osservazioni non trae però conseguenze di rigido carattere teorico. Per
lui infatti il primitivo d’America non è né un monoteista, né un animista
ecc. Ma è insieme, se mai, tanto un monoteista quanto un animista ecc., il
quale ha anche il culto per i morti, come, ad esempio, si può osservare
presso gli Irochesi che in onore del morto gettano una certa quantità di
frumento davanti alla porta della capanna.
Né manca infine al primitivo d’America una rigida organizzazione
sociale, dove in genere i capi più assoluti son considerati come padri dei
loro popoli e hanno quindi il diritto di applicare la più rigorosa giustizia.
Anche l’organizzazione sociale del resto non è che un aspetto della
religione. Insegni soprattutto la famiglia. «Va ricordato, – notava di recente
il de Jouvenel, – che sin dal 1724 il Padre Lafitau aveva osservato presso gli
Irochesi il fenomeno della filiazione uterina e rilevato che, in conseguenza
di ciò, la donna era il centro della famiglia del popolo. Egli aveva compiuto
il raccostamento con quel che Erodoto riferisce intorno ai Lici». Ma anche
qui il Lafitau è ben lontano dal teorizzare o, comunque, dal generalizzare
(come faranno poi Bachofen e Morgan). Apriamo infatti le Mœurs:

«Nei costumi degli Irochesi si trovano dei gradi di parentela un poco differenti in verità di quelli
degli Ebrei e dei Caldei ma a cui si collegano in questo punto: che essi sono causa di equivoci a
cagione dei loro termini… Bisogna sapere che presso gli Irochesi e gli Huroni, tutti i ragazzi di una
tribù considerano come loro madri tutte le sorelle delle loro madri e come loro zii tutti i fratelli delle
loro madri; per la stessa ragione essi danno il nome di padri a tutti i fratelli dei loro padri… Tutti i
ragazzi che discendono dalla madre e dalle sue sorelle, dal padre e dai suoi fratelli, si considerano fra
di loro come fratelli e sorelle; ma considerano cugini i figli dei loro zii e delle loro zie, vale a dire i
figli dei fratelli delle loro madri e delle sorelle dei loro padri, benché sia identico il grado della loro
parentela. Alla terza generazione tutto ciò cambia: e gli zii e le zie dei genitori diventano nonni e
nonne» (2, 243).
Il Lafitau esclude quindi che il matrimonio possa considerarsi soltanto
come un fenomeno naturale. Egli collega infatti il matrimonio con la
religione. E questa non è per lui, comunque si articoli nella vita dei
selvaggi, un peso morto, ma una trama i cui fili, sottili come l’aria ma duri
come l’acciaio, finiscono con l’avvolgere tutte le istituzioni sociali. Il
Lafitau non nasconde che anche fra i selvaggi vi siano delle forme inferiori
di pensiero come, ad esempio, la magia (così egli erroneamente la giudica).
Ed è, sì, dell’avviso che i selvaggi, come gli antichi, hanno errato a volte
nell’obietto della fede e del culto che hanno reso a Dio. Questa premessa
tuttavia non gli impedisce di giustificare quella religione, di spiegarla, di
intenderla. Il che sarà appunto uno dei risultati del suo comparativismo.

3. Etnografia e storia

Ci si accorge subito, leggendo le Mœurs, che ci troviamo di fronte a un


narratore piacevole e al tempo stesso robusto. La lettura delle Mœurs ci
richiama, appunto per questo, quella di un Martire, l’autore delle Decades
de Orbe Novo. Anche il Lafitau, come il Martire, è un umanista che sente il
mondo classico, il quale gli si schiude in tutte le sue istituzioni, nelle sue
pratiche, nelle sue credenze. Omero, Erodoto, Varrone, Diodoro Siculo,
Strabone, Plutarco, Plinio il Vecchio, Tacito, Cesare: queste sono le fonti
dalle quali egli trae le sue informazioni, che lo portano con sicurezza in
quel mondo la cui conoscenza fu sempre indispensabile alla preparazione e
alla formazione spirituale dei Gesuiti. E i Gesuiti, come già abbiamo visto,
vivendo in mezzo ai selvaggi e pieni di ammirazione com’erano per
l’antichità classica, si entusiasmavano per le analogie che i selvaggi
presentavano con i popoli della Grecia o di Roma. Né quei confronti o quei
richiami sono privi di significato, ove si pensi che essi tendevano a
dimostrare due tesi: l’una inerente allo stesso mondo classico e l’altra
inerente al mondo primitivo. In questo senso: che se da una parte i
riferimenti al mondo classico costituivano un titolo di nobiltà per i selvaggi,
dall’altra essi stabilivano fra i selvaggi e gli antichi Greci o gli antichi
Romani una presupposta comunità di origine, la quale demoliva, per usare
una frase del Van der Leeuw, il muro che li aveva separati.
Ma il Lafitau poneva quei rapporti in maniera del tutto esterna, come
avevano fatto i suoi predecessori, del che appunto lo accusa il Voltaire,
oppure c’erano in lui già altre esigenze? Il dotto Gesuita, a dire il vero, non
esita a dichiarare fin dall’inizio della sua opera:

«Io non mi contento di conoscere il carattere dei selvaggi e di rendermi conto dei loro costumi e delle
loro pratiche. Io ho cercato in queste pratiche e in questi costumi le vestigia delle antichità più
arretrate. Ho letto con particolare attenzione gli autori più antichi che hanno trattato dei costumi,
delle leggi e degli usi dei popoli di cui avevamo qualche conoscenza; ho fatto la comparazione fra
questi costumi e confesso che, se gli autori antichi mi hanno dato dei chiarimenti per suffragare
alcune facili congetture inerenti ai selvaggi, i costumi dei selvaggi m’hanno dato dei chiarimenti per
intendere più facilmente e per spiegare parecchie cose di cui parlano gli autori antichi» (1, 3).

In altri termini il selvaggio non è soltanto il presente da cui egli muove,


ma è anche, in un certo senso, il passato in cui si può avere la spiegazione
di molti riti, di molti usi, di molte istituzioni che non appartengono soltanto
al mondo dei selvaggi, ma a quello della civiltà classica e quindi anche al
nostro. Il Lafitau non si contenta d’altro lato di porre le sue indagini sui
Greci e sui Romani, ma le trasferisce anche sui popoli dell’antica Europa,
sui Galli, sui Traci, sugli Sciti. E tutti questi popoli, ai quali egli richiama il
nostro modo di intendere e di concepire, riferendosi anche, a volte, sia pure
sulle orme del Lescarbot, ai volghi dei popoli civili, specialmente ai
contadini della Francia (ch’egli ricorda a proposito della covata e dei
lamenti funebri ecc.), gli appaiono in fondo come riuniti sotto un comune
denominatore che li collega. Sicché egli, ad esempio, non esita ad affermare
che:

«… non solamente i popoli che si chiamano barbari hanno una religione, ma questa religione ha dei
rapporti di un’impressionante uniformità con quella dei primi tempi, con quelle che nell’antichità si
chiamavano le orgie di Bacco e della Madre degli Dèi, i misteri di Iside e di Osiride… In materia di
religione noi non abbiamo nulla di più antico, nell’antichità profana, di questi misteri e di queste
orgie che componevano tutta la religione dei Frigi, degli Egiziani, dei primi Cretesi, i quali si
considerarono essi stessi come i primi popoli del mondo e i primi autori di quel culto agli dèi che da
essi era passato a tutte le nazioni e si era diffuso in tutto il mondo» (1, 7).

Ne consegue che tanto le religioni dei barbari quanto quelle dei pagani
hanno lo stesso fondo e gli stessi principi. È noto che il Fontenelle, il quale
– ad ammettere che la sua Origine des fables sia anteriore alle Mœurs del
Lafitau – ammonisce che anche i Greci furono un tempo dei selvaggi,
ricercava questo fondo e questi principi nella natura umana o meglio nella
ragione. E ciò sarà ripetuto da tutti gli illuministi, ai quali gli stessi
missionari non poche volte avevano offerto i materiali, perché essi
potessero mettere a raffronto i dati della religione naturale con quella
rivelata. Ma anche qui per il Lafitau la verità è diversa. Quel fondo e quei
principi infatti, egli afferma, sono propri della religione cattolica. Ed essa
sarà chiamata a spiegarli.

4. La Scienza Nuova

La ricerca acuta e coscienziosa dedicata al mondo dei primitivi e a quello


delle antiche civiltà europee si trasferisce, così, nel Lafitau, sul piano
strettamente teologico. Anche su tale piano egli non dimentica però di
essere un etnografo, il quale sa bene che «la materia dei costumi è una
materia molto vasta», che «collega le cose più disparate». La sua opera è
tutta una serie di indagini e di ragguagli, intesa a dimostrare che non vi è un
solo esempio dei costumi dei selvaggi che non abbia il suo parallelo fra i
popoli dell’antichità. Ma anche qui è lontano dalla generalizzazione, tanto è
vero che i suoi studi lo portano a questa conclusione: che, cioè, nella vasta
materia degli usi, bisogna distinguere ciò che, conforme alla natura umana,
è tale perché si deve far risalire alla Rivelazione, da ciò invece che si deve
considerare come dovuto a un rapporto di contatti o di migrazioni fra i
popoli.
Il compito del Lafitau è quello, sì, di spiegarci la civiltà classica
mediante i paralleli con i selvaggi, ma è anche quello di spiegarci i selvaggi
con la Bibbia, con la Rivelazione, con la volontà di Dio. La polemica di
Bossuet si trasferisce nel campo dell’etnografia. E il Lafitau, da buon
teologo, inizia la storia dell’umanità con la Rivelazione, cui egli non solo
riattacca gli usi più generali (come, evidentemente, la stessa credenza
dell’Essere Supremo, i sacrifici, le iniziazioni ecc.), ma anche gli elementi
comuni che noi troviamo tanto nel Cristianesimo quanto nelle religioni
pagane. Il che, fra l’altro, significa far cominciare l’umanità non con
l’errore (come volevano gli illuministi) bensì con la verità, la quale fin dalle
sue prime origini si articola tanto nella religione quanto nella mitologia. Ma
c’è di più, ove si pensi che per il Lafitau la Rivelazione stessa non è quella
fatta da Dio a Mosè, bensì al primo uomo. «Lo studio che io ho fatto, – egli
pertanto afferma, – sulla mitologia pagana mi ha aperto il cammino a un
altro sistema e mi ha fatto risalire al di là dei tempi di Mosè, per far risalire
ai nostri primi Padri, Adamo ed Eva, ciò che si è fatto risalire a Dio». Né
egli esclude con ciò che i legislatori posteriori a Mosè si siano serviti
dell’ignoranza degli uomini per creare nuovi usi. Ma ove noi rimontiamo ad
Adamo ed Eva vediamo, egli aggiunge:

«una religione pura e santa in se stessa e nel suo principio, una religione voluta da Dio che la
trasmise ai nostri primi padri. Non può esservi infatti che una religione, e questa religione, essendo
per gli uomini, deve essere cominciata con loro e deve sopravvivere quanto loro. Ecco ciò che la fede
ci insegna e ciò che la ragione ci detta» (1, 13).

Alteratasi la religione col tempo e con gli uomini, è in questa


trasformazione che vanno ricercati molti usi, i quali, se sono errori, lo sono
tanto fra i selvaggi quanto fra i Greci e i Romani. Egli ammette infatti che a
volte fra i selvaggi non mancano le superstizioni rozze e criminali. Eppure,
subito dopo osserva:

«Sono forse più rozze e più criminali di quelle dei Greci e dei Romani, che avendo portato la scienza
e le arti alla più alta perfezione, non hanno tratto dai loro lumi e da tutta la loro filosofia altro frutto
che quello di avere guastato la religione con una moltitudine di favole quanto mai ridicole e
insipide?» (2, 157).
Ridicole e insipide che siano quelle favole, esse hanno avuto una
funzione storica, una loro natura e un loro ufficio. Compito dello storico è
quello di vedere appunto quali siano stati – nel tempo – questa natura e
questo ufficio. L’umanità può certo nel suo cammino avere dei momenti che
si identificano nell’errore e con l’errore; ma tuttavia anche le deviazioni
vanno studiate senza recriminazioni razionalistiche, perché, anche quando
sono forme viziate e mostruose della religione, quel che conta in esse è pur
sempre la ricerca della verità, anche se a noi possa sembrare ridicola e
disgustosa (il che anzi, lega quelle stesse deviazioni alla religione rivelata).
La fede religiosa da impulso, così, nell’opera del Lafitau, a una teoria
che potremmo chiamare storico-etnografica. E ciò che importa, come ben
osserva il Van Gennep, non è il fatto che il Lafitau abbia collegato, sia pure
con cautela e con prudenza, i suoi paralleli a una teoria ortodossa
tradizionale, contro cui si appuntavano gli strali degli illuministi, bensì
quello di avere intuito con maggiore chiarezza di quanto non avessero fatto
i suoi predecessori, un metodo di investigazione che gli appartiene in
proprio, proponendo, possiamo aggiungere, una comparazione chiamata a
chiarire nessi e processi che altrimenti resterebbero celati. Anche se poi in
tale comparazione non è ben determinato quando l’abbozzo di un’idea,
quale si possa trovare fra i selvaggi, diventi nel mondo classico un
consapevole svolgimento.
È merito comunque del Lafitau quello di avere studiato le religioni
pagane come segni della religione rivelata, onde a lui, come già al
Fontenelle in altro senso, si schiude il valore delle sopravvivenze. Merito
suo l’avere anche intuito i rapporti fra etnologia e folklore. Ma è merito suo
soprattutto quello di aver trasportato, in maniera decisa, e qui è la vera
importanza del suo metodo che poi passerà tanto negli studi di etnologia
quanto in quelli di folklore, l’etnografia nella storia e di aver concepito la
prima non solo come uno strumento di lavoro, ma anche come criterio per
una nuova interpretazione della storia. Il che sarà oggetto di meditazione da
parte di un pensatore italiano, G. B. Vico, il quale, un anno dopo che
uscirono le Mœurs, pubblicò a Napoli un’opera che portava il seguente
titolo: Principi di una Scienza Nuova.

5. Vico e il mondo primitivo

La Scienza Nuova, sotto questo aspetto, è anzi una vera e propria


macchina, la quale, anche se non è perfetta in tutti i suoi congegni, è un
potente strumento di assalto. Vico nella storia del pensiero europeo
rappresenta una voce nuova, come nuova vuole essere la sua scienza. Non
vi sono per lui confini nell’indagine. Egli ha lo stesso animo, lo stesso
fervore, direi la stessa voce degli illuministi, cui lo collegano innumerevoli
interessi. Ma di contro agli illuministi egli sente il valore della tradizione,
che è da lui considerata come un elemento vivo e fecondo della storia. Egli
aborre, e anche in ciò è vicino agli illuministi, l’idea di una storia
miracolistica. Ma di contro agli illuministi o comunque di contro a molti di
essi, rivendica alla storia i miti, le favole, i proverbi, gli aneddoti ecc., che
non vengono da lui certo considerati come già li aveva considerati il
Fontenelle, cioè errori dello spirito umano. Né egli ritiene che possano
esistere delle religioni nate dall’impostura altrui. Se esse sono nate, lo sono
per la stessa credulità degli uomini. E l’uomo in lui è il termine stesso della
storia, della storia che è storia degli uomini e quindi scienza dello spirito, il
quale studia i prodotti di quella spiritualità umana di cui soltanto esso è
artefice.
La scienza nuova, la scienza che servirà a porre il problema stesso delle
origini dell’umanità su un piano diverso da quanto fino allora non si fosse
fatto, ha nel Vico questo preciso compito: convertire il certo (che è prova
filologica) nel vero (che è prova filosofica). Nella Scienza Nuova il Vico
avverte:

«Infelice cagione di ciò ella è stata perché ci è mancata finora una scienza la quale fosse, insieme,
istoria e filosofia dell’umanità. Imperciocché i filosofi han meditato sulla natura umana incivilita già
dalle religioni e dalle leggi, dalle quali, e non d’altronde, erano essi provenuti filosofi, e non
meditarono sulla natura umana, dalla quale eran provenute le religioni e le leggi, in mezzo alle quali
provennero essi filosofi. I filologi, per lo comun fato dell’antichità, che, col troppo allontanarsi da
noi, si fa perdere di veduta, ne han tramandato le tradizioni volgari, così svisate, lacere e sparte che,
se non si ristituisce loro il proprio aspetto, non se ne ricompongono i brani e non si allogano a’ luoghi
loro, a chi vi mediti sopra con alquanto di serietà sembra essere stato affatto impossibile aver potuto
esse nascere tali, nonché nelle allegorie che loro sono state appiccate, ma negli stessi volgari
sentimenti co’ quali ben lunga età, per mano di genti rozze e ignoranti affatto di lettere, esse ci sono
pervenute» (Scienza Nuova prima, ed. Nicolini, § 23).

E da questo nuovo orizzonte che allarga e precisa sempre più nelle altre
redazioni della Scienza Nuova (la quale fu rielaborata prima nel 1730 e poi
nel 1744), il Vico vede la storia stessa dell’umanità, la storia delle nazioni e
degli uomini, del passato che gli si fa presente. Egli non ha davanti a sé né
il problema dell’etnologia, né quello del folklore. Dell’uno e dell’altro egli
avverte però in maniera decisa la presenza e le istanze. Senonché che cos’è
per il Vico il mondo dei primitivi, quel mondo cioè che il Lafitau aveva
posto decisamente nel campo della storia?
Lo storicismo del Vico rimane indubbiamente incomprensibile o
comunque non chiaro, se esso non viene alimentato da quel documento di
cui il Vico si servi per animarlo: il bestione, che è appunto l’uomo primitivo
con la sua corpulenta fantasia. Questo bestione, questo primitivo, per il
Vico non è però soltanto una determinazione cronologica; è una
determinazione ideale, tanto è vero che il mondo primitivo non solo può
essere in noi, ma anche continuamente ritornare in noi. Questa la sua
scoperta (avvertita peraltro dallo stesso Lafitau, ma svolta dal Vico su ben
altro piano).
Il Vico parla, più volte, nella sua opera, dello sforzo costante che ha
dovuto fare per internarsi in quel mondo, dato che a noi è «ora naturalmente
negato di potere entrare nella vasta immaginativa di quei primi uomini, le
menti dei quali di nulla erano spiritualizzate, perché erano tutte nei sensi,
tutte seppellite nei corpi», onde «appena intender si può come pensassero i
primi uomini sulla terra». Ma il mondo di cui egli parla, il mondo di cui egli
si interessa, il mondo che egli cerca di intendere e perciò di capire in tanto
ha, e può avere, una sua voce, in quanto esso è fatto di un primitivo che si
invera nel civile e che perciò si fa veramente storia nella concezione dello
svolgimento dello spirito universale, il quale accoglie nella sua umanità
tanto il civile quanto il selvaggio. I confronti fra noi e i primitivi, che man
mano dopo la formulazione del mito del buon selvaggio si erano riempiti di
polemiche sociali, si innalzano a una visione storica. È la nostra mente che
parte alla ricerca di quel mondo, che si interna in esso, che lo fa suo. Anche
egli, come il Lafitau, sente quale interesse offra lo studio della religione per
capire il mondo dei primitivi. Anch’egli, come il Lafitau, non crede che vi
possano essere popoli senza religione. La sua polemica contro il Bayle e i
libertini non è in proposito meno ferma di quanto non fosse quella del
Lafitau:

«Né ci accusino di falso in primo i moderni viaggiatori, i quali narrano che popoli del Brasile, di
Cafra e altre nazioni del mondo nuovo (e Antonio Arnaldo crede lo stesso degli abitatori dell’isole
chiamate Andile) vivano in società senza alcuna cognizione di Dio; da’ quali forse persuaso, Bayle
afferma nel Trattato delle comete che possano i popoli senza lume di Dio vivere con giustizia; che
tanto non osò affermare Polibio, al cui detto da taluni s’acclama; che, se fussero al mondo filosofi
che ’n forza della ragione non delle leggi vivessero con giustizia, al mondo non farebber uopo
religioni. Queste sono novelle di viaggiatori, che proccurano smaltimento a’ loro libri con mostruosi
ragguagli» (Scienza Nuova seconda, ed. Nicolini, § 334).

E in questo quadro il Vico si mostra, come si vede, ben informato di


alcune tendenze etnografiche del suo tempo. Ma che cos’è per lui la
religione primitiva se non una forma dello spirito umano o meglio della
fantasia? È la fantasia che crea, col mito, le religioni. E il bestione, il
primitivo, non diventa forse subito uomo quando con timore, ma si badi
bene anche con meraviglia, alza gli occhi e avverte il cielo, vale a dire
quando trasferisce in se stesso il mondo che lo circonda e ne fa parte della
sua vita mentale?
Le religioni in tal modo sono sempre presenti, e in maniera positiva,
nella storia dell’umanità e quindi nelle sue stesse forze organizzative, come,
ad esempio, il matrimonio. Ma le lingue, la cui etimologia gli serve per
scoprire i significati degli stessi miti che sono il momento ineliminabile di
ogni religione, le stesse lingue che cosa sono se non dei documenti, dei
frantumi, i quali ci svelano tutto ciò che ha colpito la fantasia stessa degli
uomini dando origine al nome delle cose?
La stessa natura delle religioni è riportata, peraltro, dal Vico a quella del
linguaggio (poetico). E ciò, osserva il Nicolini, serve «a mostrare che nel
sistema vichiano le religioni non possono avere se non quel carattere non
divino ma perfettamente umano che hanno le lingue». Ma il divino, tutto
ciò che è divino, non si cela, nel Vico, appunto nell’umanità o meglio
nell’umano che storicizza il divino?

6. Alle origini, la poesia

Riportato così il mondo dei bestioni, dei primitivi in un mondo che è


esso stesso opera della fantasia, cioè di una sapienza poetica, il Vico
considera il linguaggio poetico, cioè metaforico delle passioni e dei sensi,
come il linguaggio naturale del primitivo, l’espressione unica e propria di
quell’animo perturbato e commosso, che interpreta a suo modo l’oscuro
problema del mondo. E il mondo dell’umanità, che è quanto dire la storia,
non conosce prima la ragione (che egli non nega e a cui, anzi, fa spesso
appello), bensì la fantasia. In questo senso: che anche nella ragione la
fantasia costituisce un precedente che eternamente si rinnova. Quando
poeteggia, quando canta, lo stesso uomo razionale non torna fanciullo, e
perciò arazionale?
In queste premesse – sia pure erronee, in quanto non v’è uomo che non
sia insieme ragione e fantasia – è la formulazione netta di quel mito della
poesia primitiva e barbara che è indubbiamente una delle più geniali
intuizioni della Scienza Nuova. Vi era in tale formulazione, osserva
giustamente il Fubini, il riconoscimento della poesia come forma
primigenia, anteriore alla riflessione, onde la poesia stessa tanto più vicina è
alle origini e perciò meno minacciata dalla riflessione, tanto essa è più
poesia, poesia per eccellenza. Ma vi era anche un motivo polemico, ove si
pensi che il Vico non solo sovvertiva il concetto stesso della poesia classica,
ma considerava, ad esempio, Omero poeta barbaro che canta costumi rozzi
ma fieri, trasfigurando gli istinti più elementari della vita.
La poesia, che è la più valida opera della fantasia, per il Vico non solo si
pone quindi contro la ragione; non solo fiorisce e si spiega soprattutto nelle
età essenzialmente barbariche; ma ci spiega l’inizio stesso della storia, di
quella storia cioè che è stata alle origini narrata proprio dai poeti, le cui
allegorie devono contenere i significati storici dei primi tempi. Come il
Lafitau, Vico è contrario a una qualsiasi esegesi allegoristica. Ma di contro
al Lafitau, egli pone un rapporto preciso tra realtà e mito, e questo considera
come uno specchio dove si riflette intera la storia stessa dell’umanità. Si
potrebbe dire, in fondo, che nessuno aveva sentito la grandezza del mito
come la sentirà il Vico. E il mito, come la lingua e la poesia, è uno specchio
per lui: uno specchio dove si riflettono i popoli primitivi con le loro
religioni, coi loro costumi, con le loro tradizioni. Il mito diventa così
elemento di storia che lo storico deve interpretare.
Né egli, lo storico, può e deve trascurare quelle tradizioni volgari che gli
illuministi avevano respinto o comunque respingevano. A queste tradizioni
infatti egli ricorre con compiacimento come a «pubblici motivi di vero». E
gode dei cantastorie della sua città, che gli ricordano i rapsodi dei poeti
omerici; si bea di fronte a quelle favole che il suo concittadino Basile aveva
rielaborato letterariamente; la mitologia del focolare gli ricorda le
costumanze del ceppo dei tempi del Boccaccio. Gli uomini del popolo, i
volghi dei popoli civili, egli li vede ancora, è vero, stupiti (come vedeva i
suoi bestioni) dinanzi a un’eclissi o a una calamità; ma per lui non esistono
imposture o allegorie. O meglio non sono le imposture o le allegorie che
hanno fatto i linguaggi, le religioni, i costumi, le tradizioni. La fantasia è la
loro materia. Il che, dopo tutto, significa porre la creatività dell’uomo come
fondamento stesso di quella storia che è parte dell’umanità di ogni uomo.
È vero che il Vico, riportando la fantasia a un momento perenne
dell’attività umana, non solo, è stato osservato, confonde la poesia, che ha
un valore fantastico, col mito, che invece ha un carattere pratico; ma
confonde anche l’autonomia stessa della poesia con quella che potremmo
chiamare la sua attività mitologizzante. È noto infatti che egli chiama la
poesia a una funzione educatrice del volgo – quanto diverso in ciò dagli
illuministi? – poiché essa ha appunto questo fine:

«ritrovare favole sublimi confacenti all’intendimento popolaresco, e che perturbi all’eccesso, per
conseguir il fine, ch’ella si ha proposto, di insegnar il volgo a virtuosamente operare» (Scienza Nuova
seconda, ed. Nicolini, § 376).

Ma il Vico confonde veramente il mito con la poesia? Oppure la poesia


gli serve per intendere il mito, che (come la religione) nella sua fase
primigenia è assorbito dalla poesia, mentre a sua volta la formulazione del
mito-poesia gli serve a spiegare l’origine stessa della vita spirituale?
Prescindendo da queste distinzioni, sta di fatto che il Vico ha tenuto
presente nella sua opera tanto il mondo primitivo quanto le tradizioni
popolari. I paria della società (i primitivi da un lato e i volghi dei popoli
civili dall’altro) irrompono nella Scienza Nuova non come cose ma come
persone. Come persone cioè della storia. E la storia per lui non è un
procedere ad finitum, ma un avvicendarsi di corsi e di ricorsi, dove a volte
non ci si rifa barbari per ragionamento, ma perché la barbarie è quel
momento in cui lo spirito si riversa nel mondo e lo anima con una
indomabile potenza.

7. Vico, le nazioni barbare e le civili

È alla luce di questi concetti che il Vico vede le istituzioni umane, le


quali, appunto perché tali, vanno considerate senza pregiudizi tanto fra le
nazioni civili quanto fra quelle barbare. È alla luce di questi concetti che
egli riempie i fatti che già erano stati predominio dell’etnografia descrittiva
con idee, con principi, con corollari. E così animato sorge il mondo stesso
della storia, che è storia di nazioni barbare e civili:

«Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e
tempi tra loro lontane, divisamente fondate, custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno
qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; né tra
nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più
consagrate solennità che religioni, matrimoni e seppolture. Ché per la Degnità che “idee uniformi,
nate tra popoli sconosciuti tra loro, debbon aver un principio comune di vero”, dee essere stato
dettato a tutte: che da queste tre cose incominciò appo tutte l’umanità, e per ciò si debbano
santissimamente custodire da tutte perché ’l mondo non s’infierisca e si rinselvi di nuovo. Perciò
abbiamo presi questi tre costumi eterni e universali per tre primi principi di questa Scienza» (Scienza
Nuova seconda, ed. Nicolini, § 333).

Il Vico ammette pertanto che l’uniformità dei costumi debba essere


riportata a quelle che sono le tendenze universali dello spirito umano. Ma
abituato com’è a vedere di ogni medaglia il diritto e il rovescio, quando si
pone il quesito dell’origine delle lingue, che egli riattacca come la poesia e
il mito, alla fase eroica, cioè primitiva, dell’umanità, aggiunge che:

«pur rimane la grandissima difficultà: come, quanti sono i popoli, tante sono le lingue volgari
diverse? La qual per isciogliere, è qui da stabilirsi questa grande verità: che, come certamente i
popoli per la diversità de’ climi han sortito varie diverse nature, onde sono usciti tanti costumi
diversi; così dalle loro diverse nature e costumi sono nate altrettante diverse lingue: talché, per la
medesima diversità delle loro nature, siccome han guardato le stesse utilità o necessità della vita
umana con aspetti diversi, onde sono uscite tante per lo più diverse ed alle volte tra lor contrarie
costumanze di nazioni; così e non altrimente son uscite in tante lingue, quant’esse sono, diverse. Lo
che si conferma ad evidenza co’ proverbi, che sono massime di vita umana, le stesse in sostanza,
spiegate con tanti diversi aspetti quante sono state e sono le nazioni, come nelle Degnità si è
avvisato» (Scienza Nuova seconda, ed. Nicolini, § 445).

Il problema delle origini umane diventa in tal modo il problema stesso


del suo storicismo. Il Vico, come il Lafitau, sente vivo e profondo il senso
di tutto ciò che è umano. Sente il fascino che esercitano per la nostra
fantasia le epoche più remote. Ma esistono fatti come quelli che si erano
presentati agli etnografi? O esistono, invece, atti, cioè processi storici, i
quali vanno giudicati nel loro farsi che è insieme genesi e svolgimento? La
Scienza Nuova è un mirabile tempio il quale potrebbe portare questa
iscrizione, che è poi una delle più solenni e austere:
«Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre
che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose» (Scienza Nuova seconda, ed. Nicolini, § 147).

Il pensatore che è stato sempre circondato da un «oceano di dubbiezze»,


qui non ha «dubbiezze». In quella sua Degnità egli individua infatti quella
che è l’essenza stessa della storia, in quanto conoscere la natura delle cose
vuoi dire già percepirle nel loro nascimento e quindi storicizzarle. E qui è il
valore della Scienza Nuova, dove gli istituti umani trovano una loro
comprensione e una loro giustificazione.

8. Le Antiquitates del Muratori

Né è senza significato che quasi contemporaneamente il Muratori si


accingeva a dare agli Annali, dove è trattata soltanto la storia politica, un
completamento storico-culturale con le Antiquitates Medii Aevi. Edite fra il
1732 e il 1742, le Antiquitates costituiscono un’indagine dotta e acuta che
interessa anche, e soprattutto, il folklore. Avvalendosi delle pergamene,
delle cronache, delle legislazioni barbariche, il Muratori ama ricostruire le
fogge del vestire, le usanze nuziali, gli spettacoli, i giuochi, in altre parole le
tradizioni volgari del popolo italiano. Ma quale valore hanno queste sue
ricostruzioni?
In Italia il Vico aveva già affermato che per studiare le parole e le cose
era necessario conoscere le cose stesse, e che pertanto nella storia non
hanno valore soltanto le guerre e i commerci, ma anche i costumi sia
barbari che civili. Lo avevano seguito, in un certo senso, il Giannone e il
Troya. E ancor prima che il Voltaire rendesse popolare quel concetto (cui
peraltro si erano attenuti gli antichi storici da un Erodoto a un Cesare e a un
Tacito), ecco che il Muratori ricostruisce le costumanze del Medioevo
italiano.
Nelle Antiquitates comunque non v’è soltanto un sommo erudito e un
grande filologo, ma v’è anche uno storico che ripensa il passato. E quel
passato non è fatto soltanto di superstizioni, che egli giudica a volte soltanto
nel loro carattere esterno, considerandole come prodotto dell’ignoranza (il
che lo pone su un piano illuministico); non è fatto soltanto di vecchie
usanze, delle quali (come egli dirà nella Diss. LIX) «dura tuttavia il nome
ma non già il fatto» (il che dimostra come egli abbia anche intuito il
concetto di sopravvivenza); ma è il frutto stesso di un patrimonio collettivo,
di una mentalità umana, che i documenti ci ricostruiscono, ma che
esclusivamente il nostro pensiero deve mediare e giudicare. Le Antiquitates,
insomma, anche se vengono considerate come un portato dell’erudizione,
vogliono essere un ampliamento dei confini della storia, il completamento
stesso degli Annali d’Italia dove già il Medioevo gli si configura come
un’epoca non del tutto barbara. A proposito di Odoacre, osserva che «i
Latini e i Greci chiamavano barbaro chiunque non era della loro nazione»,
mentre bisogna riconoscere che «vi sono stati barbari più prudenti e puliti
che gli stessi Latini e Greci». Nelle Antiquitates (Diss. XXIX) egli finiva,
del resto, con identificare la barbarie con la semplicità. E qui evidentemente
egli è sullo stesso piano del Vico, insieme al quale comprende anche il
valore della poesia popolare, ove si pensi che egli riunisce i mimi e gli
histriones sotto il nome di poeti popolari.
7. Natura, civiltà e progresso

1. Rousseau e l’apologia del selvaggio

Le vicende esterne delle Mœurs del Lafitau e della Scienza Nuova del
Vico non furono tali, nel Settecento, da intaccare le costruzioni
dell’Illuminismo. Lo scisma, in quel secolo, è tuttavia rappresentato
soprattutto da J.-J. Rousseau, il quale non solo sentì il mito del primitivo,
del barbaro, dell’ingenuo, come lo avevano già sentito il Lafitau e il Vico –
nelle cui opere sia pure in maniera diversa si conclude il lavorio etnografico
dei secoli precedenti –, ma contribuì, forse come nessun altro, a diffonderlo,
a popolarizzarlo, a renderlo familiare in tutta l’Europa.
Nel «Journal Encyclopédique» del 1° gennaio 1768 (il quale un anno
prima aveva riportato sul Lafitau lo stesso giudizio che aveva dato Voltaire),
è detto in maniera decisa che G. B. Vico è stato il primo pensatore che ha
osato pretendere che «originariamente gli uomini vivevano esattamente
come bestie». E subito dopo: «L’uomo più fecondo in paradossi, l’eloquente
Rousseau di Ginevra, ha esteso questa idea nel suo Discours sur l’origine et
les fondements de l’inégalité parmi les hommes». È vero invece, e lo
abbiamo già visto, il contrario; il Vico al mondo della natura contrappone
quello della storia, la quale non conosce bestie, bensì uomini coi loro istituti
e coi loro costumi. Ma per il Rousseau – che pur ebbe tanto col Lafitau
quanto col Vico dei lati in comune – esistono davvero bestie in luogo di
uomini, o invece tutta la sua opera non è che un programma inteso a dare
dignità all’uomo, liberandolo dalle soprastrutture della società, per ridarlo
alla società stessa puro e incontaminato?
In questo suo programma il primitivo, il barbaro, l’ingenuo è innalzato
indubbiamente a un paradigma della scienza e della coscienza umana. Il
Rousseau trasporta la ragione – che gli illuministi avevano riempito di un
suo particolare contenuto razionale – in un mondo lontano che non è il
greco-romano, bensì quello dei popoli primitivi, dove egli trova appunto
uno stato di grazia che faceva uomo l’uomo, prima che fosse corrotto dalla
società, dal progresso delle scienze e delle arti.
Il selvaggio del Rousseau s’impone così alla nostra attenzione dentro una
cornice che sembra fatta per racchiudere un idillio del Gessner o meglio una
tela del Greuze. È un selvaggio il suo che è la perfezione stessa
dell’umanità, spogliato non solo da tutti i doni soprannaturali, ma anche da
quelle facoltà artificiali che egli ha potuto acquistare soltanto mediante un
lungo progresso. È l’uomo insomma, com’egli spesso afferma, quale è
uscito, o meglio quale è dovuto uscire dalle mani della natura. Ed egli lo
vede «che si riposa sotto una quercia, si disseta al primo ruscello, trova il
suo letto ai piedi dello stesso albero che gli ha fornito il pasto». Lo segue
nella sua vita che, esposta alle intemperie del clima e al rigore delle
stagioni, gli dà una costituzione robusta e quasi inalterabile. Né in questa
apologia del selvaggio, che in lui si fa sempre più aggressiva e incalzante,
mancano punti di riferimento precisi, come, ad esempio, quando ricorda i
Caraibi del Venezuela che vivono nella più assoluta tranquillità, oppure gli
Ottentotti di Buona Speranza che a occhio nudo scoprono dei bastimenti in
altomare tanto lontani che soltanto gli Olandesi riescono a scoprire con il
cannocchiale, o ancora i selvaggi d’America, così cari a tutta la letteratura
del suo tempo, che sentono gli Spagnuoli al fiuto come avrebbero potuto
fare i migliori segugi. Il Rousseau comunque ama risalire dai fatti
particolari a quelli generali. E il suo selvaggio, che è quanto di meglio vi sia
in tutti i selvaggi, è pur sempre l’uomo abbandonato dalla natura al suo
istinto e al suo sentimento. Di contro agli illuministi che ne avevano fatto
un filosofo il quale ragionava con la loro testa, il Rousseau vuole vederlo
com’è: «errabondo nelle foreste, senza industria, senza favella, senza
domicilio, senza guerre e senza amicizie, senza aver bisogno dei suoi propri
simili e senza avere alcun desiderio di nuocere loro, forse persino incapace
di riconoscerne individualmente qualcuno; soggetto a poche passioni e
bastante a se stesso, non aveva che i sentimenti e i lumi propri a questo
stato».
Più si riflette, del resto egli osserva:

«più si trova che questo stato era il meno soggetto a rivoluzioni, il migliore per l’uomo, il quale non
ne deve essere uscito che per qualche caso funesto il quale, per il bene comune, non sarebbe mai
dovuto accadere. L’esempio dei selvaggi che sono stati trovati quasi tutti a questo punto sembra
confermare che il genere umano fosse fatto per restarvi per sempre, che questo stato è la vera
giovinezza del mondo e che tutti i progressi ulteriori sono stati in apparenza altrettanti passi verso la
perfezione dell’individuo, ma in realtà verso la decrepitezza della specie».
E aggiunge, quasi compiaciuto e disperato al tempo stesso – da qui la sua
angoscia –, che, finché gli uomini si accontentarono delle loro rustiche
capanne e vissero senza quelle arti che avevano bisogno di parecchie mani,
essi vissero liberi, buoni, sani, felici. Ma, ahimè:

«dal momento che un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro, dal momento che era utile ad uno
solo di avere provviste per due – da quel momento l’eguaglianza disparve, si introdusse la proprietà,
il lavoro divenne necessario e le vaste foreste si cambiarono in ridenti campagne che bisognò
innaffiare col sudore degli uomini e nelle quali presto si videro germogliare e crescere con le messi la
schiavitù e la miseria».

Il mondo dei primitivi, dei selvaggi non era un mondo dove c’era, come
voleva il Voltaire, il tuo e il mio. Era invece lo stesso mondo del Las Casas,
del Léry, del barone de La Hontan. Ma in fondo che cosa era per lui questo
mondo primitivo che egli rievoca con accenti così commossi nel Discours
sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, che è del
1755 e che conclude o meglio documenta le conclusioni cui egli era
arrivato, quattro anni prima, nel primo Discours sur les Sciences et les Arts?

2. Noi e i primitivi

Nella prefazione del suo secondo Discours il Rousseau avverte che lo


stato di natura, quello stato, cioè, in cui egli aveva immobilizzato il suo
primitivo, «non esiste più», e «forse non è mai esistito». Di esso tuttavia,
egli aggiunge, «è necessario avere nozioni esatte per giudicare bene del
nostro presente». Dunque, è il presente, la civiltà in mezzo a cui vive e che
egli combatte in nome di un’altra civiltà, che spinge il Rousseau alla sua
indagine. Senonché è possibile avere nozioni esatte di uno stato di natura
che non è mai esistito e che forse non esisterà mai? La risposta ce la dà
apparentemente lo stesso Rousseau, quando osserva nel Discours sur
l’inégalité:

«O uomo, di qualunque paese tu sia, quali che siano le tue opinioni, ascolta: ecco la tua storia, quale
ho creduto di leggere non nei libri dei tuoi simili che sono menzognieri, ma nella natura che non
mente mai. I tempi di cui parlerò sono lontanissimi: quanto sei cambiato da com’eri! È, per così dire,
la vita della tua specie che sto per descriverti secondo le qualità che hai ricevuto e che la educazione
e le tue abitudini hanno potuto corrompere, ma non distruggere. C’è – lo sento – un’epoca nella quale
l’individuo vorrebbe fermarsi: cercherai l’epoca alla quale desidereresti che la tua specie si fosse
fermata».

Oppure quando, dopo aver delineato alcuni quadri sulla vita dei
primitivi, par che riprenda lo stesso discorso:

«Mi sono esteso così a lungo nella rappresentazione ipotetica di questo stato primitivo, perché,
dovendo distruggere dei vecchi errori e dei vecchi pregiudizi inveterati, ho creduto di dovere scavare
fino alle radici e mostrare nel quadro del vero stato di natura che la disuguaglianza, anche quella
naturale, è ben lontana dall’avere in tale stato la realtà e l’influenza che pretendono i nostri scrittori».

È chiaro comunque che il mondo dei primitivi o meglio il mondo


primitivo quale egli lo rappresenta, sia pure mescolando relazioni
etnografiche – è noto l’uso che egli fece, ad esempio, dell’Histoire générale
des voyages – con utopie di viaggi immaginari, non è per lui un dato
storico, come lo era stato per il Lafitau, bensì, come è stato bene osservato,
la ricostruzione razionale della condizione in cui gli uomini si sarebbero
trovati se la loro pura natura umana non fosse stata alterata. Come tale,
quindi, il mondo primitivo è per lui, come lo era stato per il Vico, un dato
ideale, una pietra di paragone su cui veniva misurata l’umanità stessa.
Il bestione del Vico, l’uomo primitivo tutto senso e fantasia, si anima
pertanto nel Rousseau non solo di quegli stessi elementi irrazionali che il
Vico aveva posto come fondamento della poesia, del mito, della religione,
ma anche di una libera individualità, che è il fondamento stesso dello stato
di natura. Il quale, a sua volta, è il presupposto del contratto sociale. Con
questa differenza, se mai: che mentre lo stato di natura è per il Rousseau la
ricerca di ciò che Kant chiamò il fondamento filosofico della libertà umana,
il contratto sociale è la ricerca del fondamento filosofico del diritto
pubblico. Ecco perché per lui lo stesso diritto naturale – che nel concetto
del divino trovava la sua purezza e il suo limite – non è più il dono che Dio
fa all’uomo appena nato, ma è «l’individuo stesso in potenza». Il che
significava rimuovere le vecchie idee giusnaturalistiche, le quali anche per
il Vico erano state quanto mai feconde.
La ricerca della libertà umana, che è quanto dire della nostra vita morale,
è il deus ex machina di tutta l’opera del Rousseau, quale essa ci si presenta
con tutti i suoi paradossi, che pur si illuminano e si risolvono nella sua
stessa opera. Il Rousseau insomma trova nella natura l’antidoto a tutti i
mali. Ma vi trova anche quell’ideale di libertà che è, o gli sembra, l’insegna
stessa della vita del selvaggio, il quale non è contrapposto, si noti bene, al
civile in quanto è dominato da una vita naturale, ma in quanto domina la
natura in forza al suo impulso genuino a operare e a vivere liberamente.
Questa, rispetto ai suoi predecessori, la grande innovazione del
Rousseau, il quale sulle esperienze dei due Discours si propose appunto di
compiere un’opera di restaurazione nei riguardi della società, ristabilendo i
rapporti fra lo Stato e gli individui (Le contrat social); nella famiglia,
potenziando l’amore e la fedeltà dei coniugi (La Nouvelle Héloïse);
nell’individuo, con una educazione che lo lasci sviluppare liberamente
secondo natura (Emile).
Ma in tale innovazione circola un’idea vichiana: che il mondo primitivo
vive pur sempre in noi o comunque può tornare in noi. Al Vico certo questo
mondo e i rapporti che esso stabiliva con l’uomo interessava su un piano
strettamente storico. Il Rousseau è su un’altra via. A lui non interessa la
storia. Ma quella stessa storia, che a lui non interessa, non gli dà tuttavia
l’idea vichiana del ricorso? Che cosa fa infatti il Rousseau, se non eleggere
il mondo primitivo, l’uomo naturale, corn’egli lo chiama con espressione
certo un po’ equivoca, a nostra guida? Non si tratta di aspettare che quel
mondo ritorni in noi. Si tratta invece di farlo ritornare in noi, riscoprendolo
e incrementandolo, onde gli uomini ritrovino – allo stesso modo di quel
Robinson Crusoe che egli predilige – la loro via. Né il Rousseau, quando
parla di uomini, esclude dal concetto, che quel termine implica, le plebi, gli
umili, i paria della società, tanto è vero che egli, di contro all’Illuminismo,
che era ben lontano dal reclamare un’eguaglianza per tutti gli uomini, mette
questa eguaglianza come fondamento della vita morale (e quindi anche
sociale) dei popoli. Così l’honnête homme è servito.
3. La tradizione popolare come fattore umano e nazionale

Le plebi sono del resto molto più care al cuore del Rousseau di quanto
non lo siano le altre classi. Il cittadino di Ginevra odia Parigi e la sua
società smidollata e corrotta, con quell’impeto istintivo che il selvaggio
aveva messo nei suoi lunghi colloqui con l’Europeo. Il Rousseau però non
ha bisogno di ricorrere alla finzione di un selvaggio che sappia vedere quel
che non vede Parigi e il vecchio mondo europeo. Si fa egli selvaggio. E il
selvaggio che gli è servito per conoscere l’uomo, che gli è servito come
stimolo per le sue teorie politiche e pedagogiche, ecco che egli lo sente vivo
e palpitante in mezzo alle campagne fra gli umili, nei quali non è morto né
il sentimento né la poesia.
Il Rousseau ci ha lasciato pagine commosse sui paesaggi che predilige:
le colline che fra i raggi del sole morente si specchiano sui laghi, i campi
con le ombre degli alberi e dei poggi, i boschi che invitano al sogno, al
sogno, si badi bene, che è un’evasione ma anche un ritrovare se stessi.
L’antitesi natura-civiltà, che era stata il motivo dominante della sua epoca,
diviene nella sua opera una forza-idea. Ma quell’idea si trasforma a volte in
poesia, che non è mai lirismo scomposto e tanto meno pastorelleria
arcadica, bensì affermazione e celebrazione di un sentimento
profondamente umano.
Vi sono, nel Rousseau, delle pagine dove la natura par che esca animata
così com’egli la vede, quasi gustandola in un lontano passato:
«Durante le prime età… gli astri, i venti, le montagne, i fiumi, gli alberi, i villaggi, le case stesse,
tutto aveva un’anima, il suo Dio, la sua vita. Le statuette grottesche di Laban, gli spiriti dei selvaggi, i
feticci dei Negri, tutte le opere della natura e degli uomini sono state le prime divinità dei mortali: il
politeismo è stata la loro prima religione» (Emile, libro IV).

La natura, resa quasi elemento di religione, è la misura dell’uomo


semplice, la fonte della sua energia morale, la fede che lo spinge a ben
operare. Il selvaggio rivive, così, nel contadino, nel pastore. E il Rousseau
non manca, a volte, di riunire l’uno con l’altro:

«Emilio, che è stato educato con tutta la libertà dei giovani contadini e dei giovani selvaggi,
crescendo, deve cambiare e formarsi come loro. Tutta la differenza è che, invece di agire solo per
giocare o per nutrirsi, egli nei suoi lavori e nei suoi giochi ha imparato a pensare» (Emile, libro IV).

Ma in questo imparare a pensare quale valore assumono, per il


Rousseau, quelle che Vico chiama le tradizioni volgari? Da Ginevra, dalla
sua piccola patria che non conosceva le corruzioni di Parigi e dove la vita
aveva ancora un suo agreste sapore, il Rousseau, come ben osserva il
Vossler, par quasi che ammonisca i suoi concittadini:

«Rimanete fedeli ai vostri usi patri, ai vostri costumi patri, allo spirito del vostro paese. Pensate al
vostro carattere ginevrino e non scimmiottate i Francesi. Siate orgogliosi di essere ginevrini.
Magnifichino pure i Francesi la loro tanto ammirata cultura, essi però non sono liberi, sono schiavi
dei loro signori, mentre noi ginevrini nel nostro piccolo e modesto Stato, nel nostro proprio Stato
siamo liberi e cittadini».

E Ginevra vuole essere – come già il mondo primitivo – un punto di


riferimento, anche se essa ci appare.– come, ad esempio, nelle Lettres sur
les spectacles – un vero e proprio paese di Cuccagna, una specie di
Bengodi. Al Rousseau interessa, si, Ginevra, ma interessano, dovunque essi
siano, gli usi patri, i costumi patri, la devozione verso il proprio paese. È
con lui anzi che queste forze entrano decisamente a far parte del patrimonio
politico di una nazione con quella dignità che in sede storica aveva già dato
loro il Vico, e che il Rousseau accentua come pensiero e volontà nazionali.
Il Rousseau è convinto – si veda il suo primo Discours – che le antiche
usanze, quelle usanze cui è collegato il nostro cuore e il nostro sentimento,
sono un vero e proprio tesoro che, una volta perduto, non si ritrova più. È
convinto altresì – ed è questo l’ammonimento che egli rivolge ai Polacchi
nelle sue Considérations sur le gouvernement de Pologne et sur sa
réformation projetée, uscite postume, che un popolo, per essere tale, deve
anzitutto avere un’educazione che gli permetta di apprezzare la forza che le
tradizioni hanno nella vita nazionale. Sono esse, infatti, che cementano la
vita e la fanno degna di essere vissuta. Il Rousseau ricorda quindi ai
Polacchi in qual misura i poemi omerici, le tragedie di Eschilo, di Sofocle
(ma leggendo quelle pagine il nostro ricordo va soprattutto alla Repubblica
di Platone) abbiano influito sull’educazione dei Greci, i quali in quelle
opere ritrovavano se stessi, con le loro credenze e con le credenze che erano
state dei loro padri, ad esse legati come l’albero alla terra. E si compiace
con loro, coi Polacchi, perché conservano il costume nazionale, che è il
simbolo stesso della loro patria.
Si può osservare al Rousseau, è vero, che le tradizioni popolari, 0
nazionali com’egli le chiama, in tanto hanno un valore in quanto sono
profondamente sentite; e che, se invece muoiono, bisogna la sciarle morire,
poiché non rispondono più a quello stato di necessità che ne fa una forma
sociale e al tempo stesso una determinata forma storica di pensiero. Sta di
fatto però che il Rousseau contava su queste forze sociali: il che era una
lezione data all’Illuminismo. Si vede anzi, come bene aggiunge in proposito
il Vossler, «da queste proposte, d’una modernità che sorprende, come il
Rousseau non sia prigioniero delle proprie astrazioni, ma possieda un
finissimo senso del modo onde svegliare e rafforzare nella realtà l’ideale
della comunità, la volontà nazionale, la volonté générale, ossia come ben
conosca i legami che uniscono la volontà morale dell’autonomia personale
con i beni culturali, diciamo popolari, di una nazione».
Così come Emilio doveva trovare in se stesso la forza della sua
educazione; un popolo, il popolo, può e deve trovare in sé quel suo Io
naturale che si riflette nei suoi usi e nei costumi. Il Vico aveva già
ammonito che la poesia ammaestra il volgo a virtuosamente operare. Il
Rousseau va oltre: quella poesia che egli sentiva nella natura tutta, nei
boschi e nelle colline, in un albero o in un lago, la trasfonde nel tesoro
tradizionale di un popolo. E il popolo, a differenza della borghesia che vive
nelle alte metropoli, abita soprattutto nelle campagne, nelle piccole città,
dove l’uomo è ancora natura, natura di Dio.

4. Goguet e l’origine dell’umanità

Preoccupato di studiare l’avvenire dell’uomo, il Rousseau guarda al


passato, e con esso alla tradizione, come a un elemento umano. Si afferma
che il Rousseau nega il progresso. Ma in verità in lui il progresso non è
sostituito dalla sua fede nella natura umana, dal senso stesso della
perfettibilità di quella natura? Il concetto del progresso che ebbero un
Bayle, un Fontenelle o un Voltaire non coincide certo con quello del
Rousseau. Con essi egli ha in comune, è vero, il senso ottimistico della vita.
Ma, di contro ad essi, crede che il progresso va ricercato dentro di noi,
mentre in fondo per l’Illuminismo il progresso risulta da una
sovrapposizione di acquisizioni successivamente accumulatesi e conservate
per il futuro. Senonché tale idea del Rousseau fu condivisa da quei suoi
contemporanei che affrontavano lo studio degli usi e dei costumi passati e
presenti? Oppure essi la elusero?
La sensazione esatta di quel che apparve subito l’idea del Rousseau può
darcela indubbiamente un’opera che uscì nel 1758, qualche anno dopo,
cioè, che videro la luce i due Discours. È dovuta ad Antoine-Yves Goguet e
s’intitola: De l’Origine des lois, des arts, des sciences et de leurs progrès
chez les anciens peuples. In essa sono convogliate le esperienze
dell’Encyclopédie, la quale aveva pur sempre cercato di penetrare
nell’esprit di quelle manifestazioni sulle orme di un Bayle, di un Fontenelle,
di un Montesquieu o di un Voltaire. Eppure, in mezzo a quelle esperienze le
quali si concludono nella fiducia in un progresso illimitato del genere
umano, il che è lo scopo stesso di una civiltà, circola nell’opera del Goguet
un’aria nuova. In questo senso: che egli non solo non mette in ridicolo il
passato, ma vi si avvicina trepidante, con quel senso di pietas che aveva
mosso un Lafitau, un Vico, un Rousseau a ricercare in esso la vita delle
nostre istituzioni. Né in proposito è senza significato che egli cita più volte
l’opera del Lafitau, anche se non ricorda il nome dell’autore. Il Goguet,
nell’indagare l’origine delle leggi, delle arti, e delle scienze, non solo ferma
la sua attenzione sui popoli primitivi, ma li considera inoltre come un dato
di fatto fondamentale, come un mondo a cui è necessario rivolgersi, se
vogliamo renderci conto della nostra civiltà. E ciò egli dice esplicitamente:

«Appena io mi son trovato quasi interamente privo di fonti, specialmente per le prime età, ho
consultato ciò che gli scrittori tanto antichi quanto moderni ci fanno conoscere sui popoli selvaggi. Io
credo che la condotta di queste nazioni ci possa dare dei lumi sicuri e giusti sullo stato in cui si
saranno trovati i primi popoli immediatamente dopo la confusione delle lingue e la dispersione delle
famiglie. Le relazioni sull’America mi sono state particolarmente utili» (1, pp. XXX-XXXI).

Sembra di sentire Lafitau, ma nel suo lavoro il Goguet è ben lontano da


considerare quel primo momento dell’umanità come lo considerano il
Lafitau, il Vico e il Rousseau. Ecco: quel mondo è stato semplice. Ma quel
semplice che cos’è per lui se non sinonimo di rozzezza e ignoranza, come
egli stesso specifica? Potremmo dire che in lui il Lafitau è corretto da
un’idea che gli illuministi, dal Bayle al Montesquieu, avevano già immesso
nella storia del pensiero: quella del progresso dal basso in alto, sicché tutto
ciò che è all’origine rappresenta uno stadio di inferiorità, anche se risponde
a un concetto della vita che bisogna guardare senza le prevenzioni
illuministiche. Anche i popoli classici, del resto, egli aggiunge, hanno
attraversato un periodo selvaggio ai tempi della loro prima esistenza. Ma
qui riappare Fontenelle. Né soltanto lui: anche Lafitau.
L’opera del Goguet, che trae luce da questi confronti e che questi
confronti pone a volte in termini suggestivi, si può considerare come uno
dei primi trattati di etnografia generale, un’amplificazione, la chiama
giustamente il Van Gennep, delle Mœurs del Lafitau. Ma le Mœurs di
un’Europa vista illuministicamente. Né mancano in essa delle indagini
acute e penetranti sui costumi, sulle credenze e sulle cerimonie collegate
alle diverse epoche storiche. È qui anzi il pregio dell’opera, di cui in
Francia si fecero parecchie edizioni e che fu tradotta anche in Inghilterra e
in Italia. Ma qui il suo difetto: che egli non sa vedere né costumi, né
credenze, né cerimonie senza collegarli all’idea di un progresso ascendente.
Rousseau, in lui, è passato come acqua sul mare. Vico non conta. Conta il
progresso: o meglio una determinata idea che egli si è fatta del progresso.
Bisogna tuttavia osservare che il Goguet condivide invece col Lafitau (e
in parte col Vico) l’opinione che il diluvio sia stato una realtà storica. E le
sue indagini sono in parte collegate a questa sua credenza. Ma il progresso
delle leggi, delle arti e delle scienze, quale egli può osservarlo nel suo
secolo illuminato, lo rende pensoso. Non vuole compromettersi in materia
religiosa, egli che si muove fra la Bibbia e Voltaire, fra Lafitau e
Montesquieu. E questa è una delle ragioni per cui nelle sue indagini
l’origine delle arti, dei costumi, delle credenze è vista soltanto nei suoi
caratteri esterni.

5. Una nuova fenomenologia religiosa: il feticismo

Le credenze religiose studiate dal Lafitau, dal Vico e dal Rousseau – i


quali avevano dimostrato come la religione è un momento essenziale dello
spirito umano – saranno invece riprese con grande ardimento da Charles de
Brosses nel suo saggio Du culte des dieux fétiches, ou parallèle de
l’ancienne religion de l’Egypte avec la religion actuelle de Nigritie, edito
per la prima volta nel 1760 (era stato presentato e respinto nel 1758
dall’Académie des Inscriptions. Il Brosses crede naturalmente, da buon
illuminista, al progresso. Ma non crede, come il Goguet, a un progresso
assolutamente uniforme. Il Goguet aveva affermato che i costumi di una
nazione non sono corrotti (come credeva Rousseau) dal progresso delle
scienze e delle arti, ma se mai perfezionati. Il Brosses invece nega quel
rapporto comunque posto. Col Goguet, e quindi col Lafitau, egli condivide
invece la credenza nel diluvio. Dopo il quale, afferma, i popoli dovettero
partire per quel loro viaggio che li condusse dalla barbarie alla civiltà. Il che
tuttavia, egli aggiunge, non esclude che in mezzo alle cosiddette nazioni
civili sia rimasto quello stato uniforme che si chiama barbarie. Non è
necessario insomma, per il Brosses, andare fra i barbari o meglio fra coloro
che noi chiamiamo barbari per trovare ciò che è primitivo. Si potrà cercare
in alcuni spiriti che son vissuti o che vivono nei secoli più illustri, fra le
nazioni più civili. Ed è questa un’idea feconda di quel concetto inerente alle
sopravvivenze già intuito dal Fontenelle. Il Brosses non manca inoltre di
collegare quella barbarie allo stato dell’infanzia. E questa era una ipotetica
teoria già sostenuta (oltre che dal Vico e dal Rousseau, i quali però ebbero
del barbaro un concetto tanto diverso da quello che ebbe il Fontenelle) dal
Locke, quando egli nel Saggio sull’intelletto umano paragona i selvaggi ai
bambini.
Lo stesso Brosses ricorda peraltro, procedendo nella sua indagine, che
«uno scrittore straniero», dal quale egli ha preso «parte delle sue
affermazioni», aveva osservato che l’uomo si eleva, sì, dal basso in alto,
dall’inferiore al superiore, ma che tuttavia può dar forma a idee perfette
procedendo da ciò che perfetto non è. E tale scrittore è l’Hume, il più
energico sostenitore della religione naturale, il quale nei suoi volumi, come,
ad esempio, nell’History of natural religion, amava fermarsi anche sui
costumi e sulle superstizioni popolari.
Pensatore libero e uomo di spirito – il suo saggio ha la stessa freschezza
delle Lettres sur l’Italie e della Correspondance, dove si può raccogliere
tutta una miniera di notizie inerenti agli usi e ai costumi dell’Italia, della
Francia ecc. –, il Brosses per il suo metodo d’indagine si collega in gran
parte al Lafitau, che egli più volte cita e critica. Bisogna tuttavia osservare
che egli irrigidisce quel metodo soltanto in una determinata fenomenologia
religiosa. Dal Lafitau il Brosses prende la massima che «il medesimo modo
di agire può corrispondere al medesimo modo di pensare». Dal Lafitau,
l’idea stessa che anima il suo libro: e cioè che «un’opinione la quale si trova
diffusa in tutti i climi barbari la si trovi anche in tutti i secoli della
barbarie». Laddove però il Lafitau è sempre cauto nell’illustrare tale idea,
egli la irrigidisce portandola alle estreme conseguenze.
Il Brosses ammette, è vero, la Rivelazione, alla quale non manca di
riattaccare molte assurdità dei tempi, ma, diversamente dal Lafitau,
l’ammette soltanto per il popolo ebraico, convinto com’è che le civiltà dei
popoli si debbono far risalire a una barbarie postdiluviana, che non aveva
ancora avuto la Rivelazione. A questa civiltà egli collega l’Egitto. E
nell’Egitto lo colpiscono i culti rivolti agli animali, i quali culti vanno
considerati come una specie di feticismo, vale a dire come una
fenomenologia che egli ritiene di carattere religioso e che ai suoi tempi egli
trovava viva e attuale fra gli indigeni delle colonie portoghesi dell’Africa.
Comunque la preoccupazione maggiore del Brosses è questa: ricercare
l’origine della religione, la quale è da lui ricondotta a quella sua supposta
fenomenologia, che non è un sistema organizzato di culti e di credenze,
bensì un’attitudine particolare dello spirito, manifestatasi mediante atti e
gesti particolari da per tutto uguali. A suo avviso, tutti i popoli sono passati
da quello stato di spirito, per usare un’espressione del Fontenelle, che va
ravvisato nell’uniformità costante che il selvaggio ha con se stesso, onde,
per paura, popola la natura di geni e di spiriti (tesi questa che alcuni anni
dopo verrà ripresa dal Bergier nella sua opera Les Dieux du paganisme).
Il feticismo sarebbe così, per il Brosses, la prima forma dell’idolatria e
perciò della religione, la quale non va ravvisata nei dogmi della fede
rivelata, ma in quegli elementi inferiori di carattere religioso che
costituiscono il fondo comune a tutte le religioni. Il che è una costruzione
del tutto arbitraria, se non altro perché il feticismo che il Brosses,
paragonando gli dèi egiziani coi feticci africani, estendeva, per rendere
valida la sua ipotesi, «a tutti i popoli rozzi dell’universo, a tutti i tempi e a
tutti i luoghi», non si ravvisa nemmeno in tutti i popoli primitivi.
Ad ogni modo, quali che siano o possano essere le osservazioni che
inficiano la fenomenologia creata dal Brosses, si deve osservare che il suo
parallelismo, pur essendo una deviazione dal metodo del Lafitau, ne è
anche, sotto alcuni aspetti, un perfezionamento, in quanto basa quel
parallelismo su un procedimento più sistematico. E quel suo metodo, quel
suo feticismo, sarà come un’insegna sotto la quale l’etnologia e il folklore
inizieranno il loro stesso travaglio alla ricerca del prima e del poi.

6. Boulanger e l’antichità svelata

Il feticismo non era servito al Brosses soltanto per ricercare la prima


forma del pensiero dell’umanità. Gli era servito anche per animare l’origine
delle arti, delle scienze e delle istituzioni. Le quali saranno invece riportate
al diluvio, vale a dire a un’emozione collettiva dell’umanità, da uno dei più
sottili ingegni che abbia avuto la Francia, N. A. Boulanger, la cui opera
principale, l’Antiquité dévoilée, fu pubblicata postuma in tre volumi nel
1766.
Illuminista – di lui abbiamo una gustosa biografia dedicatagli dal Diderot
–, egli fa in quest’opera il processo all’Illuminismo, ripensando da cima a
fondo il problema dell’origine della religione. E allora, come ben nota il
Venturi, che è il suo biografo più attento, «la superstizione che appariva già
a molti della sua generazione come un ostacolo immediato, atto ormai
unicamente a ritardare lo sviluppo dei lumi, assume di nuovo», in
quell’opera, «un’importanza centrale». Di contro al Goguet (e in ciò quanto
mai vicino tanto al Lafitau quanto al Vico e al Brosses), egli ritiene che
soltanto la religione ha modellato nei secoli tutte le istituzioni umane. Da
qui l’importanza che assegna non solo ai culti e ai riti, ma anche alla
mitologia, alle favole ecc.
In una sua opera precedente, nelle Recherches sur l’origine du
despotisme oriental il Boulanger aveva affermato che è assurdo ritenere le
favole antiche come ridicole, in quanto alla loro origine esse si basano su
dei principi che fanno onore all’umanità. E ora nell’Antiquité, che si può
considerare, come egli dice, una mitologia generale del genere umano,
specifica:

«La parte più utile della storia non è la conoscenza arida degli usi e dei fatti: è quella che ci mostra lo
spirito che ha dato nascita a questi usi e le cause che hanno determinato gli avvenimenti. Tutti gli usi
hanno dei motivi e questi motivi sono posti sopra le semplici opinioni o sopra dei fatti; queste
opinioni d’altro lato hanno avuto dei fatti per principio o per causa. Se pur sembra qualche volta che
vi siano degli usi senza motivi è perché questi motivi sono stati dimenticati e che gli usi si sono
talmente sfigurati che essi non hanno nulla conservato dei loro motivi… Ciascun uso ha dunque la
sua storia particolare, o almeno la sua favola; ciascun uso appartiene e rimonta a un fatto particolare:
può darsi che vi sia un legame segreto e comune che lega la massa generale di tutti gli usi con quella
di tutti i fatti. La storia degli usi e del loro spirito non è che un nuovo principio per fare la storia degli
uomini».

E sarà appunto questa l’idea dalla quale partirà, qualche anno più tardi,
nel 1776, un giovane indagatore, il Demeunier, il quale nel suo libro
L’esprit des usages et des coutumes des différents peuples non solo allarga
la sua indagine a molte manifestazioni della vita popolare del tempo, ma
insiste su un concetto: che i costumi vanno giudicati non solo per quel che
oggi rappresentano, ma anche e soprattutto per quel che essi
rappresentavano.

7. Forme e spirito delle feste


L’opera del Boulanger, soprattutto l’Antiquité dévoilée, suggerì ad alcuni
suoi contemporanei l’idea che egli abbia conosciuto la Scienza Nuova di G.
B. Vico. Il Francese, scriveva ad esempio l’Abate Galiani al Tanucci, «ha
rubato da G. B. Vico e non lo ha citato». Si potrà dire però (come già diceva
il Finetti) che l’uno e l’altro partono dallo stato ferino e che per tutt’e due è
oggetto di meditazione il diluvio. E si potrà aggiungere (come ben osserva
il Venturi) che le ricerche del Boulanger sullo spirito primitivo o sulla
logica dei miti o sull’origine religiosa delle forme politiche umane ecc.
andavano nello stesso senso verso cui tendevano quelle del Vico. Sta di
fatto però che il Boulanger non ha nulla in comune col Vico nella
formulazione dei problemi che quelle ricerche comportano.
Le ricerche del Boulanger, per quanto non si possano paragonare a
quelle del Vico (né a quelle del Rousseau), segnano comunque un progresso
rispetto a quelle del Goguet, e sono per la loro importanza etnografica sullo
stesso piano di quelle del Brosses. Anche il Boulanger, come i suoi
predecessori più immediati, è convinto che soltanto gli usi dei selvaggi
potranno «spiegarci quelli degli antichi in base alla conformità che noi
vediamo in essi». Da qui i suoi confronti fra i Messicani e i Greci, ad
esempio, oppure fra i Peruviani e i Cristiani. Ma che cosa sono i primitivi
per lui? Essi sono «i discendenti di quelle orde di uomini che scamparono al
diluvio, ma che furono incapaci di formarsi in nazioni e di dar nascita alla
civiltà». Il che però non esclude che quelle orde avessero avuto, germe e
frutto di una loro originaria purezza, la credenza in un dio onnipotente
(credenza questa in cui è il nucleo primitivo di ogni religione). Le società
primitive, anche se vinte dal diluvio, vissero insomma per il Boulanger con
gli occhi rivolti al cielo. Né è senza significato che tale modo di vivere si
ritrovi, egli aggiunge, tra gli ultimi selvaggi d’America. In essi, del resto,
non è da escludere nemmeno un’idea di progresso. Quando fra i selvaggi,
infatti, la fede cominciò ad affievolirsi, essi conservarono gli usi della loro
primitiva società ma non lo spirito. È allora anzi che nasce quello stato
selvaggio che si può ricercare tanto fra i selvaggi quanto fra noi civili.
Collegata a questa impostazione è, quindi, la classificazione che il
Boulanger fa delle feste e dei miti, i quali, in base al ricordo suscitato dal
diluvio, sono pervasi da un particolare esprit:

«Nel primo libro esamino le istituzioni create dai differenti popoli della terra per rintracciare la
memoria del diluvio: il che costituisce nella società ciò che si può chiamare il suo spirito
commemorativo. Nel secondo libro si proverà che tutte le feste e le istituzioni antiche hanno un
carattere lugubre di tristezza, il quale penetra anche nelle solennità più gaie e più dissolute: è ciò che
io chiamo lo spirito funebre. Nel terzo libro io mi proverò a esaminare i criteri più antichi e di
scoprire i veri motivi di questi enigmi nascosti ai popoli: è ciò che io chiamo lo spirito misterioso, e
io ritengo che questi misteri non hanno avuto altro oggetto che nascondere al volgo dei dogmi
pericolosi alla sua tranquillità. Nel quarto libro io considero i motivi che hanno causato
l’attaccamento dei popoli a certe idee particolari che si riferiscono a cambiamenti di secoli e di
periodi; ed è ciò che io chiamo lo spirito ciclico. Nel quinto libro esamino la natura delle feste, delle
cerimonie istituite in occasione degli anni, dei mesi e dei giorni, ed è ciò che io chiamo lo spirito
liturgico» (1, 39-40).

E in una nota, a chiarire ancor meglio la natura delle feste cicliche,


aggiunge:

«Io chiamo in quest’opera feste cicliche tutte quelle che erano attaccate alla fine o al rinnovamento
dei mesi, delle stagioni, degli anni, dei secoli, o di tutt’altro periodo. La parola ciclico sarà un epiteto
generale per indicare tutte le feste periodiche, soprattutto se il loro oggetto si riferisce a una fine o a
un rinnovamento di periodo. Se gli antichi non avessero portato nelle loro feste una così grande
confusione che ne ha corrotto lo spirito e i motivi, sarebbe facile fare questa distinzione. Una festa
che celebra la fine di un periodo è triste e funebre; quella di un rinnovamento è consacrata al piacere
e all’allegria; ma come la fine e il ritorno di un ciclo si toccano e come le feste che consacrano i due
estremi di un periodo si toccano anch’esse e si seguono, ciò ha originato questa confusione di cui noi
abbiamo mille esempi. Quando noi, d’altro lato, conoscendo lo spirito degli usi, potremo conoscere il
vero spirito di queste feste, allora chiameremo eno-ciclici quelle che hanno rapporto con i periodi
conclusivi e neocicli quelle che hanno rapporto con i periodi iniziali».

In queste classificazioni il Boulanger, che è stato indubbiamente


influenzato dal Lafitau per i problemi inerenti alla religione e alla
mitologia, si avvicina al Montesquieu che poneva la vertu, l’honneur et la
crainte alla base delle varie forme politiche. Ma, osservava il Venturi,
«come già nel Montesquieu (per cui il Boulanger dimostrò sempre rispetto e
ammirazione) una tale posizione sociologica è trasformata da un interesse
vivissimo per i fenomeni descritti, da una forza di simpatia che modifica
questi primi schemi di classificazione». I quali si concludono in un’ampia
visione, da cui risulta, e qui è evidente un certo influsso del Rousseau, che il
vero progresso non ha avuto inizio quando l’uomo ha posto l’azione in
cielo, ma in se stesso.

8. L’idea del progresso come elemento filosofico

Così, dunque, se nel Boulanger, come già nel Goguet e nel Brosses,
predomina come un elemento propriamente filosofico l’idea del progresso
(di contro a un Vico o a un Rousseau, nei quali questo principio va
ravvisato, per il primo nella mente umana e per il secondo nel sentimento
dell’Io naturale) fatto è che le sue ricerche gettano una luce viva non solo
sugli usi e sui costumi dei vari popoli, ma soprattutto sulle loro
sopravvivenze, anche se le testimonianze che le riguardano non sempre
sono esatte, tolte come sono dal loro contesto generale. Così, ad esempio,
quando il Boulanger nella sua Antiquité affermava che anche la diffamata
astrologia poneva, sia pure in modo che noi riteniamo superstizioso, l’uomo
a contatto con il cosmo, e aggiungeva che a lui interessava rintracciare le
origini delle credenze in un principio ragionevole e non certo nella follia o
nella stupidità degli uomini; egli faceva suo un orientamento che già si
opponeva all’Illuminismo, e che in pieno Illuminismo veniva dettato, come
nel Goguet e nel Brosses, da una nuova esigenza: l’esigenza etnografica
sentita non in funzione esclusiva della ragione, ma come emancipazione
dalla ragione. In questo senso: che ormai, per merito dell’etnografia, non si
dà importanza soltanto alla ragione, ma anche alla fantasia umana, la quale
non va considerata come un regresso rispetto al progresso, bensì come un
fatto eterno dello spirito. E questo era stato appunto l’insegnamento del
Lafitau, del Vico e del Rousseau.
8. Rivolta della poesia

1. Gusto del popolare e mediazione dell’Ossian

Nel 1760 – lo stesso anno cioè in cui uscivano a Parigi La Nouvelle


Héloïse del Rousseau e i Dieux fétiches del Brosses – apparvero in
Inghilterra i Fragments of Ancient Poetry collected in the Highlands of
Scotland and translated from the Gaelic or Erse language, i quali non erano
che dei saggi di poesia lirico-epica attribuiti a un antico bardo, tradotti da
un anonimo e provenienti da un gruppo di manoscritti che andavano dal
secolo XII al secolo XVI. Il loro successo spinse l’anonimo presentatore, vale
a dire James Macpherson, a pubblicare nel 1762, questa volta col suo nome,
un antico poema in sei libri, il Fingal, insieme al quale apparve, tra l’altro,
il principio di un altro poema intitolato Temora (edito per intero col nome
del traduttore, un anno dopo). Nel 1765 infine i Fragments, il Fingal e
Temora apparvero insieme, preceduti da alcune dissertazioni dovute in parte
allo stesso Macpherson (che già le aveva pubblicate nel Fingal, per stabilire
l’autenticità dei canti che presentava) e al dottor Blair che ne valorizzava i
pregi.
Nasceva così un nuovo poeta: Ossian. Siamo in un’epoca in cui l’Europa
è scossa da quel continuo e incessante travaglio mediante il quale si
vogliono chiarire i problemi inerenti alla origine delle idee, della poesia,
della società, della religione, dei costumi. L’Illuminismo è come una forza
che stimola, dirige e accompagna la impostazione di quei problemi. Il mito
del primitivo si collega ormai con quello della storia del genere umano. E
l’uomo è il centro stesso di una ricerca dove sembra rispecchiarsi e placarsi
l’inquietudine del tempo. E su questo sfondo, nell’ampiezza di questo
quadro europeo che ha le sue luci e le sue ombre, in un’Inghilterra dove la
borghesia si è venuta arricchendo coi suoi traffici e coi suoi commerci,
legata, sì, al mondo classico, ma anch’essa ansiosa del nuovo, di un nuovo
però che sia al tempo stesso antico, ecco che i canti di Ossian, di questo
vecchio bardo camuffato, risuonano come una voce che si innalza nel coro
inneggiante al primitivo. Il che non esclude che l’Ossian nel momento
stesso in cui pone tale ritorno non ne media ancora un altro, il ritorno, cioè,
al patrimonio nazionale.

2. Significato e valore di una «burla»

Nella sua dissertazione, premessa all’edizione dell’Ossian del 1765, il


Blair non esitava a paragonare questo nuovo bardo, che dalla Scozia si
affacciava sulla scena della poesia e della cultura europea, a Omero. Né, a
dire il vero, quel paragone mancava di avere un suo significato, ove si pensi
che il Macpherson con la sua raccolta non si proponeva soltanto di offrire ai
suoi connazionali una poesia antica, una poesia che poneva la Scozia nel
novero di quelle nazioni che in tempi lontani avevano avuto la loro poesia,
ma voleva anche metterli a contatto con una poesia fresca, vergine, fatta,
come avrebbe detto Vico, per necessità di natura e in cui la natura assumeva
la funzione di un personaggio poetico.
Il Macpherson sa bene che i suoi tempi non si prestano a riconoscere in
un nuovo poeta un poeta che possa paragonarsi a Omero. Bisogna dunque
inventarlo questo nuovo Omero, ponendolo decisamente contro un Pope, la
cui poesia, specchio della classe dominante, è perfetta, precisa, ben
martellata, come si conviene a una poesia classica che si ispira a determinati
modelli, ma che in quei modelli rimane chiusa e imprigionata. È vero che
allora, quasi a contrastare il severo dominio del Pope, si era alzata una voce
che sembrò veramente nuova, quella del Thomson, il quale nelle sue
Seasons canta con accenti commossi la vita umile e grandiosa dei contadini
scozzesi e inglesi. E c’è in lui indubbiamente l’ansia di liberarsi dalla solita
rievocazione di un mondo che ormai si era esaurito nell’opera del Pope e
dei suoi seguaci. Ma il Thomson, che pur sentì prima del Rousseau i valori
della natura sotto i suoi vari aspetti, non rimase anch’egli, per l’espressione,
legato alla poetic diction?
Contemporaneamente un altro poeta Thomas Gray, ribellandosi alla
poesia permeata di classicismo, immette nella poesia inglese i motivi di
quel mondo celtico che gli apparirà, come un mondo barbarico senza
artificio e senza convenzionalità. Questo il messaggio delle sue traduzioni
dall’antica poesia nordica (cara anche al cuore di William Temple). Questo
il messaggio della sua ode The Bard che è del 1755. Notate: è il bardo,
l’antico poeta, il vecchio rapsodo cantore del popolo, che torna. E torna
quando lo Young si rifugia nel regno della malinconia notturna, portandovi
un’espressione profonda di sentito dolore. Ma il bardo ha ora un suo nome
chiaro e squillante. Si chiama Ossian. E Ossian nasce dall’incontro di questi
aneliti, prodotto, sì, com’è stato chiamato, di una burla, ma di una burla
generosa, mediante la quale il Macpherson richiama l’attenzione
dell’Inghilterra, e con essa quella dell’Europa, su quei poemetti gaelici cui
egli si ispira per creare il suo Ossian, dal quale emerge come i popoli
nordici avessero una loro personalità e civiltà originali. È insomma la
valorizzazione della propria epopea nazionale.
Le lunghe polemiche fatte prò o contro la buona fede del traduttore nei
riguardi del Macpherson trascuravano un dato fondamentale: che l’Ossian
poteva essere una buona o cattiva opera tanto se creata dal Macpherson
quanto dall’antico bardo gaelico. Un altro dato fondamentale veniva
tuttavia trascurato: che quest’opera voleva costituire un’Iliade nazionale, a
portata di mano, un’Iliade che bisognava scoprire e non creare. Ossian
infatti voleva essere il cantastorie di un patrimonio che ha, sì, valore
poetico, ma anche e soprattutto nazionale, in quanto egli coi suoi canti
voleva riportare la Scozia e l’Inghilterra alle fonti della propria storia e
della propria tradizione. In tal modo il Medioevo, ritenuto dagli illuministi
come un’epoca di oscurantismo, ritornava, tramite l’Ossian, in un momento
in cui sorgeva, vivo, l’amore per le cattedrali gotiche. Il Medioevo che già
per il Vico costituiva un’età eroica diviene così l’età eroica degli Inglesi.
Ben torni Omero, dunque: ma un Omero come l’aveva immaginato Vico,
cioè primitivo e barbaro. O meglio, per rimanere a casa propria, un Omero i
cui eroi siano freschi ed elementari, come appunto l’aveva visto il
Blackwell in quel suo libro, dedicato appunto, nel 1735, a Omero, che il
Winckelmann definirà «uno dei più bei libri del mondo». Insomma torni,
per usare una felice espressione di Madame de Staël, un Omero del Nord. E
con lui – ecco quel che importa – una poesia che si rifaccia alle sagre e ai
canti gaelici. In altre parole: una poesia che ritorni alle fonti nazionali, alle
origini.

3. L’Ossian e la scoperta di un nuovo «mondo poetico»

L’Ossian è indubbiamente l’indice di una sensibilità raffinata la quale


attraverso il primitivo e la barbarie vuole imporre i valori istintivi dello
spirito umano. I suoi canti infatti sembrano tuffarci immediatamente in
quelle sorgenti irrazionali della vita in cui il Vico riponeva l’origine stessa
della poesia. E quando più violenta è la polemica per lo stato di natura, ecco
che l’Ossian (non si dimentichi che la Britannia era stata la patria del
deismo) ci riconduce ai sentimenti primitivi dell’uomo, ci fa sentire la
grandiosità dei fenomeni naturali, e con essi un vivo e profondo sentimento
religioso.
Uno dei più colti spiriti di Europa, che sentì il fascino dell’Ossian e che
tradusse in italiano questi canti, il Cesarotti, ebbe a dire:

«Ossian è il genio della natura selvaggia: i suoi poemi somigliano ai boschi sacri degli antichi suoi
Celti: spirano orrore, ma vi si sente ad ogni passo la divinità che vi abita» (Poesie di Ossian, 1, 10,
Pisa, 1801).

È la natura come la vedevano il Rousseau o il Brosses. Ma il Rousseau e


il Brosses, nei canti di Ossian, sembra che siano passati dalle brillanti
pagine del Burke, il quale già nel 1757 aveva pubblicato il suo breve
trattato, intitolato appunto Philosophical Enquiry into the Origin of our
Ideas of the Sublime and Beautiful.
Il sublime domina infatti nei canti di Ossian come la meraviglia nelle
Mille e una notte. È un mondo incantato il suo, dove il Thomson viene
ravvivato da una capacità creativa maggiore. E dentro quel mondo si
agitano, con malinconica purezza, i sogni dei guerrieri, le loro speranze, i
loro amori. Né certo si ingannava lo stesso Cesarotti (nei cui commenti ai
canti dell’Ossian è sempre richiamato Omero a torto e a ragione, ma più a
torto che a ragione), quando, in una lettera che nel 1763 inviò al
Macpherson, non solo individuava i caratteri di cui si riveste il sublime
dell’Ossian, ma ne tracciava, in un certo senso, il gusto e la sensibilità che
da esso derivavano:

«Permettetemi a nome dell’Italia che io mi feliciti della fortunata scoperta che voi avete fatto di un
nuovo mondo poetico e dei preziosi tesori di cui avete arricchito la letteratura. Morven è diventato il
mio Parnaso e Lora il mio Ippocrene… tutto questo spettacolo grandioso e fosco ha più fascino ai
miei occhi che non l’isola di Calipso e i giardini di Alcinoo. Si è disputato a lungo e forse con più
asprezza che buona fede sulla preferenza da accordare alla poesia antica o alla moderna. Ossian io
credo darà causa vinta alla prima, senza che i fautori degli antichi vi guadagnino molto. Bisogna
vedere dietro il suo esempio come la poesia di natura e di sentimento è al disopra della poesia di
riflessione e di esprit, che sembra essere il patrimonio dei moderni. Ma se si dimostra la superiorità
della poesia antica, bisognerà sentire i difetti degli antichi poeti meglio che tutte le critiche. La Scozia
ci ha mostrato un Omero che non sonnecchia, né balbetta, che non è mai volgare, né languido, bensì
sempre grande, semplice, rapido, preciso, eguale e variato» (trad. dal francese, Epistolario, 1, 7-8,
Firenze, 1811).
Commenta il Binni, che ha studiato con finezza la mediazione
dell’Ossian, tramite il Cesarotti, nella poesia italiana: «Il Cesarotti toccava
il punto giusto quando affermava che Ossian se veniva a dar ragione ai
partigiani degli antichi, faceva anche vedere i difetti degli antichi: cioè che,
se faceva accettare quelle qualità di sublime ritrovate negli antichi (e in
realtà nate dal travaglio di una disputa comune più che da una delle due
tesi), mostrava anche che quel sublime era ben diverso da quello realmente
isolabile nei classici». L’Ossian convogliava insomma i desideri di una
nuova età. E quei desideri si articolavano in un linguaggio che è quello di
un nuovo Omero, il quale ha sciacquato i panni fra i Celti. Un linguaggio
simile si poteva ancora ritrovare nella Bibbia. Ed infatti nel 1753 un dotto
professore di Oxford, Robert Lowth, in un suo lavoro intitolato De Sacra
poesia Hebraeorum aveva mostrato come la poesia degli Ebrei fosse fiorita
in singole individualità «su di un popolo di contadini e di pastori». Il che
significava storicizzare la Bibbia stessa. E ora ecco che da un popolo di
guerrieri-contadini-pastori viene Ossian, il cui linguaggio solenne fa
rivivere quello di Omero e quello della Bibbia.
In realtà non si può negare che il Macpherson ci abbia dato nell’Ossian
delle pagine vive e commosse. Ma l’enfasi di certi passaggi stride ai nostri
orecchi, anche se alcuni critici del suo tempo scambiarono questa enfasi per
vero impeto creativo. L’Ossian, comunque, non va giudicato soltanto per il
suo valore poetico (quale che esso sia), ma anche per tutto ciò che mediò
nella poesia del tempo, ove si pensi che esso non alimentò soltanto il gusto
di una nuova poesia, ma anche il gusto della poesia popolare.
4. Alla ricerca della poesia popolare

Non erano mancati, a dire il vero, prima che uscisse l’Ossian, voci che
avevano inneggiato a tale poesia. Questo era appunto già avvenuto in
Spagna. Fin dal 1511 Hernando del Castillo aveva pubblicato un
Cancionero general, in cui erano stati raccolti alcuni vecchi romances
tramandati dalla tradizione orale. La raccolta di questi romances fu
continuata, nel 1550, da Estéban de Nájera nella Silva de varios romances,
un anno dopo da Lorenzo Sepúlveda nei Romances sacados de historias
antiguas e nel 1655 da un Anonimo nel Cancionero des Romances. E tale
raccolta fu continuata man mano con ritmo crescente, finché nel 1700 uscì
il primo Romancero general a cura di Pedro Flores. Si trattava, come ben
osserva il De Lollis, di «una poesia di popolo, per quanto d’un popolo grave
e severo che per sette secoli non depose mai maglia e scudo». E aggiunge:
«Furono poeti dotti che rinnovarono il genere. Ma tutti dimenticarono di
essere poeti colti, perfino Góngora, l’autore delle Soledades delle quali
senza il commento non si capirebbe nulla». Ma quella epopea che risuonava
squillante fra le mura della vecchia Spagna che cos’era, per chi la
raccoglieva, se non una epopea senza Omero? Essa tuttavia rimaneva allora
legata al proprio paese, patrimonio di un popolo che in essa vedeva il suo
retaggio morale e spirituale.
Lo stesso avveniva per la Gran Bretagna, dove la vita della poesia
popolare si articolava soprattutto in una serie di poemetti composti su temi
diversissimi, alcuni dei quali potevano anche farsi risalire al secolo XI.
Ristretta all’alto ceto la poesia dotta, il ceto rurale e quello medio si erano
deliziati sempre a

le ballate affisse al muro


di Giovanna di Francia e di Moll l’inglese
di Rosmunda la Bella e di Robin Hood
e dei piccoli fanciulli del bosco.

Queste ballate, a cominciare dal secolo XVII, erano state in parte raccolte
dal Selden, dal Roxburghe e dal Wood. Ma il primo che pose una attenzione
critica su di esse fu indubbiamente l’Addison, il quale nel 1711 in due
numeri consecutivi del suo «Spectator», e precisamente nei numeri 70 e 71
(corrispondenti al 21 e al 25 maggio), non solo segnalava ai suoi lettori due
di quelle ballate, e precisamente Chevy Chase e The Children of the Wood,
le quali sono le preferite, come egli diceva, del common people of England,
ma ne paragonava alcuni passi con altrettanti di Omero e di Virgilio. Si
afferma: lo faceva per giustificare il suo gusto per quelle ballate. Ma la
ragione era diversa: ed era quella di dare cittadinanza a quella poesia, o
meglio a quel genere di old ballads. Non così la pensarono i suoi
contemporanei, tanto è vero che quelle sue comparazioni furono parodiate
in un opuscolo che ebbe allora grande successo: A Comment of the History
of Tom Tumb, apparso anonimo nel 1711. Il che fece meditare l’Addison, il
quale, quando pubblicò lo Spectator in volume, mitigò quelle sue
espressioni; ma rimase fermo, questo sì, nel sentire la profonda e intensa
poesia del contadino che torna dal lavoro e modula il suo canto naturale,
semplice ed efficace.
Le stesse considerazioni venivano fatte nella prefazione che precede la
Collection of the Old Ballads, edite in tre volumi fra il 1723 e il 1725.
L’anonimo raccoglitore non esitava a paragonare i suoi ignoti cantori a
Omero:

«E lo stesso principe dei poeti, il nostro Omero, non era altro che un cantastorie cieco che compose
qualche canto sull’assedio di Troia e le avventure di Ulisse… finché alla sua morte ci fu qualcuno
che ritenne opportuno di raccogliere le sue ballate e, messele un poco insieme, ci ha dato l’Iliade e
l’Odissea» (1, 3).

L’anonimo raccoglitore dava maggior rilievo alla tradizione orale


rispetto a quella scritta (opinione questa che sarà pienamente condivisa dal
Macpherson). Anch’egli vedeva nell’antichità e nella naturalezza di quelle
ballads il loro pregio e il loro valore. E in ciò lo seguiva
contemporaneamente un delicato poeta scozzese, Allan Ramsay, il quale in
una sua antologia (The Evergreen, 2 voll., Edimburgo, 1724) insieme ai
suoi e a quelli dei suoi contemporanei non manca di raccogliere gli antichi
cauti popolari inglesi e scozzesi: primo esempio di un’antologia dove la
poesia popolare non fa la figura di una parente povera. Anche il Ramsay
tira in ballo Omero. A queste ballate egli però toglie e aggiunge versi con la
pazienza di un orafo che si fa poeta laddove doveva rimanere soltanto
raccoglitore.
È merito comunque di queste prime raccolte l’averci dato la visione di
un Medioevo patrio che si rivelava in una rappresentazione poetica efficace
e ricca di immagini. Né va dimenticato il fine a cui tendevano i raccoglitori:
quello di contrapporre la freschezza ingenua di questa poesia popolare alla
poesia classicheggiante. In proposito l’Addison osservava che la poesia
popolare è, sì, una copia della natura, ma «priva di tutti gli ausili e
ornamenti dell’arte». Ecco pertanto che cosa significava per questi primi
raccoglitori lo studio della poesia popolare. Essi sono i veri precursori del
Macpherson, nel cui Ossian peraltro rivivono gli stessi miti delle ballate
care al cuore dell’Addison. Piaceva in queste ballate il tono rude e arcaico.
E se i loro autori non avevano un nome, come l’aveva Ossian, anch’essi
erano il prodotto di quei menestrelli che avevano cooperato a creare
l’Ossian. Bene: Ossian ricambia ora il dono ricevuto. E con lui ecco che in
Inghilterra la poesia popolare esce dallo «Spectator» dell’Addison e si fa
viva e attuale. Non è più una curiosità, sia pure piena di stimoli, ma
comincia a diventare un problema poetico e culturale.

5. Le Reliques del Percy

Si comprende, in questa atmosfera, il successo che dovevano avere le


Reliques of Ancient English Poetry di Thomas Percy, dove in tre volumi,
diviso ciascuno in tre parti, venivano raccolte ballate inglesi e scozzesi. Le
Reliques uscirono per la prima volta nel 1765 (quando cioè vedeva la luce
l’edizione completa dell’Ossian), precedute da una prefazione in cui il
raccoglitore insisteva sulla originalità di questa poesia popolare, che
considerava come il relitto dell’arte dimenticata degli antichi scaldi (da qui
l’importanza accordata alla tradizione orale). Nel primo volume, in un suo
excursus dove parla degli antichi menestrelli inglesi – ecco Ossian dietro le
spalle –, il Percy osserva:
«Le antiche ballate cantate dai menestrelli sono in dialetto settentrionale, abbondano di vocaboli e
locuzioni antiche, sono estremamente scorrette e presentano nella maggior parte le più grandi licenze
metriche; esse hanno un carattere ugualmente primitivo ed esprimono il vero spirito della cavalleria».

Il Percy non manca inoltre di notare, ove capiti, il carattere nazionale che
quelle ballate conservano. Agli eroi magniloquenti dell’Ossian si
antepongono ormai Chevy Chase e Robin Hood. Ma chi è Robin Hood,
come già aveva notato l’anonimo raccoglitore della Collection of Old
Ballads, se non un tipico eroe nazionale, a cui la fantasia popolare ha dato
un carattere ideale e leggendario di amore per il popolo stesso? Il Percy,
nella prefazione con la quale presentava le sue ballate, non esitava
naturalmente a riconoscere i pregi di quella poesia insieme vecchia e nuova:

«In un secolo illuminato come il nostro, io so che molte di queste reliquie dell’antichità hanno
bisogno di una grande indulgenza a loro favore. Esse presentano tuttavia, per lo più, una dolce
spontaneità, oltre che delle grazie senza artificio, le quali nell’opinione di critici di valore sono state
giudicate capaci di compensare la mancanza di bellezze d’ordine più elevato. Se esse non possono
abbagliare l’immaginazione, quasi sempre invece toccano il cuore».

Il Percy è convinto dunque che queste ballate, anche se estremamente


scorrette, sono piene di grazia. Quale metodo adotterà quindi perché risalti
il loro valore artistico?

6. Nasce la moda delle ballate

Le Reliques furono raccolte dal Percy soprattutto con lo scopo di


dimostrare quale fosse la genuina voce del popolo inglese dei secoli
precedenti. Da qui il titolo della sua raccolta. Non gli fu estranea la
polemica, allora in voga, sull’origine del romanzo cavalieresco. Reliques
erano le sue. Ed egli aveva cominciato anche col raccogliere le vecchie
broadsides, le quali in fondo erano venute a integrare la tradizione orale.
«Le prime stampe popolari», è stato giustamente osservato in proposito,
«fra gli ultimissimi del Quattrocento e i primi del Cinque, trascrivono
ballate popolari appena riadattate (per esempio, la Gest of Robin Hood); ma
il lavoro di rielaborazione si fa sempre più profondo e lo scrittore di ballate,
il ballad-writer, elisabettiano, riassumendo in sé gli echi delle due correnti,
di quella popolare quattrocentesca e di quella sua contemporanea della
nuova cultura, li riversa nella ballata di broadside». Le ballate delle
broadsides si possono paragonare in fondo a quelle nostre stampe popolari
e fogli volanti, dove però ben di rado brilla una luce di vera poesia. Era
logico quindi che il Percy si proponesse di ricorrere alle fonti, ai
manoscritti, che conservavano quelle ballate. Oppure alla tradizione orale,
dove la materia delle broadsides veniva trasformata, riadattata, resa
veramente popolare. Lo avevano aiutato in quella ricerca David Dalrymple
e Thomas Warton. Né certo egli risparmiò cure e fatiche per vedere le
vecchie raccolte di manoscritti esistenti nelle biblioteche del suo paese. Ma
un giorno ecco che nella casa di un suo amico, Humphrey Pitt, egli si
accorge che la fantesca incaricata di accendere il fuoco nel camino strappa
dei fogli da un vecchio manoscritto. Il Percy vuol vedere di che si tratta. È
un manoscritto che contiene quasi duecento ballate (inglesi e scozzesi),
dettate da un cantastorie del Lanchshire alla metà del Seicento. Non erano
soltanto ballate della più pura tradizione quattrocentesca, ma anche ballate
provenienti da broadsides del tempo (esse si accompagnavano ad altre
composizioni non popolari, ma giunte tuttavia alla tradizione orale).
Le Reliques non sono che una scelta di questi vari materiali, molti dei
quali guastati col volgere del tempo. Da qui l’intervento del Percy. Nella
prefazione con la quale si apre il primo volume della sua antologia (dove,
fra l’altro, non mancano qua e là accenni a poesie popolari di altri popoli), il
Percy osserva che ritiene suo dovere (di editore) correggere quei testi che
gli sembrano guasti. E non son pochi peraltro nella sua collezione i testi
preceduti da una avvertenza: given some corrections. Aneh’egli seguiva,
dunque, il Ramsay. Ma fino a qual punto egli aveva questo diritto?
Un acuto filologo del tempo, il Ritson, attaccò con violenza il Percy,
contestandogli persino l’esistenza del famoso manoscritto (fu pubblicato
poi invece dal Child) e denunciando l’improntitudine del contraffattore. Il
Ritson, preludiando e individuando quelle che sono le esigenze filologiche
della poesia popolare, era per l’assoluta fedeltà dei testi. Ma il Percy
rimarrà fedele alle sue premesse. E nell’avvertenza alla quarta edizione
delle Reliques osserva convinto:

«Adesso questi libri vengono presentati al pubblico con quelle correzioni e miglioramenti che sono
necessari: e il testo, in particolare, è stato emendato in molti punti con il ricorrere agli antichi
esemplari. I diversi tipi delle varianti, essendo spesso molto semplici, non sempre sono stati notati in
margine; ma l’alterazione non è stata fatta senza una giusta ragione: specialmente in quei passi che
sono derivati direttamente dall’in folio, così spesso menzionato nelle seguenti pagine… L’in folio è
un lungo e stretto volume contenente 195 tra sonetti, ballate, canzoni storiche e romanze in versi o
interamente o in parte, per il fatto che molte di esse sono molto mutilate e imperfette. Il primo e
l’ultimo foglio sono mancanti, e la metà di ogni pagina al principio è stracciata o deturpata alla fine;
e anche dove i fogli non presentano nessun danno, la trascrizione è talvolta molto scorretta, essendo
in tal caso probabilmente ricavata da esemplari difettosi o dalla difettosa imperfetta dizione dei
cantori illetterati».

Così presentate, le innovazioni del Percy non sono più tali. Il Percy, se
così fosse, si sarebbe attenuto alla ricostruzione (sia pure discutibile nel
campo della poesia popolare, dove ogni testo è pur sempre una creazione a
nuovo). Ma non si era egli scoperto, quando nella prima edizione delle
Reliques aveva scritto che la poesia delle ballate è «come una giovane
donna che viene dalla campagna coi capelli spettinati», la quale è da lui
però resa «adatta alla società inglese»? La verità è che nelle Reliques, se pur
vi sono delle ballate sottoposte a quel genere di raffinamento, ve ne sono
altre indubbiamente fedeli.

7. Della loro importanza nella storia del gusto poetico

Le Reliques, nonostante i loro difetti, ebbero un grande merito: quello di


richiamare decisamente l’attenzione degli studiosi sulla poesia popolare, su
quella poesia, cioè, che correva in mezzo al popolo e che del popolo era e
doveva essere considerata come un patrimonio veramente sacro. Non è
un’opera filologica quella del Percy. Ma, nella stessa Inghilterra, non avviò
egli quella ricerca, cui contribuirono in primo luogo David Herd con le sue
Ancient and Modern Scottish Songs, che furono pubblicate nel 1776, e
soprattutto lo stesso Ritson con le sue numerose raccolte che vanno dal
1783 al 1795? Né le Reliques furono di stimolo soltanto agli studiosi.
Grande infatti fu l’impressione che esse suscitarono fra i poeti del tempo. E
il Gosse ben a ragione potè dire che esse aprono addirittura un’era nuova
non solo nella letteratura inglese, ma anche in quella europea.
Le Reliques appunto per questo vanno considerate come l’espressione di
un gusto, il quale, se da una parte si rivolgeva verso la poesia popolare
come a una vera poesia, dall’altra tendeva ormai a valorizzare tutto ciò che
era creduto antico e popolare. La poesia popolare è una fonte cui possono
ricorrere i veri poeti. E l’insegnamento, prima che il Romanticismo lo
firmasse come canone, veniva allora anche da un grande poeta inglese, dal
Burns, la cui poesia si era, per così dire, abbeverata a quella fonte.
L’Eckermann, in uno dei suoi colloqui col Goethe, ha in proposito una
pagina bellissima:

«Prenda ora Burns. Perché egli riuscì grande se non perché le vecchie canzoni dei predecessori
vivevano nella bocca del popolo, e furono cantate, per così dire, presso la sua culla; se non perché da
ragazzo crebbe fra quelle canzoni e visse in sé quei modelli eccellenti, ed ebbe in esse un fondamento
dal quale potè muovere e progredire? E anche: perché riuscì egli grande se non perché le sue canzoni
trovarono, a loro volta, nel suo popolo orecchie parimente ricettive, e i falciatori e le mietitrici gliele
riecheggiavano dai campi, e fu salutato nelle osterie dai lieti compagni? Ciò dovette significare pure
qualcosa…» (Colloqui con Goethe, trad. T. Gnoli, 562, Firenze, 1947).

C’è insomma qualcosa di nuovo che viene ormai avvertito e sentito dagli
spiriti più sensibili dell’Inghilterra; e in questo qualcosa si annida, nella sua
primigenia formazione, quel che sarà più tardi il mito stesso della poesia
popolare. E la poesia popolare, a sua volta, ecco che è qui chiamata a
rinsanguare e a rinfrescare quella poesia che popolare non è. Il mutamento
degli spiriti inoltre si rivelava persino nella trasformazione del valore della
parola gotico, che, mentre fino alla prima metà del secolo era stata intesa
come sinonimo di barbaro in senso peggiorativo, veniva ora a rappresentare
quei tempi in cui si erano formate e affermate queste ballate, come a
esprimere un determinato indirizzo d’arte.

8. Il posto dell’Inghilterra nella storia del Preromanticismo

È stato ed è, a nostro avviso, un errore affermare che le esaltazioni della


primitività hanno creato in Inghilterra una moda dilettantesca. Né certo è
esatto affermare che l’Ossian e le Reliques suscitarono un interesse
esclusivamente estetico per la poesia popolare. V’è in tali opere, che quella
primitività affermarono, una polemica di carattere nazionale e sociale che
non bisogna dimenticare. E questo carattere non si addice certo a una moda,
se noi a questa parola diamo un significato ristretto nel tempo e che
cambierà col cambiare degli umori.
E seppure l’Illuminismo del tempo con la sua ferrea legge della ragione
sembra non partecipare a questo vivo e sentito movimento che irrompe dal
passato, tanto che noi vediamo e sentiamo uno dei suoi maggiori esponenti,
lo Hume, dichiarare che l’Inghilterra con l’Ossian ha fatto ridere l’Europa,
tuttavia si scorge l’Europa prendere conoscenza di tutto questo fervore del
passato, accettarlo, e trarne nuove e fresche energie. L’amore per le cose
lontane, ma lontane nello spazio, quell’amore da cui gli stessi illuministi
avevano tratto tante suggestioni, ecco che si fa in Inghilterra amore per le
cose lontane nel tempo, e specialmente per quelle leggende nordiche che
sanno creare un nuovo alone di poesia. Alla ragione filosofante si
contrappone il sentimento della tradizione.
«Il pieno diritto, – osserva il Meinecke, – di parlare di un movimento
preromantico non solo inglese ma europeo del secolo XVII lo dà soltanto il
fatto che dietro il giuoco e il trastullo si moveva talora qualcosa che può
valere realmente come preludio all’autentico romanticismo: la reazione
dell’irrazionale contro il razionalismo gelido e la civiltà affinata e raffinata
dell’epoca». E aggiunge: «In Francia, questi moti preromantici condussero
un’esistenza secondaria accanto all’Illuminismo imperante. In Inghilterra si
conquistarono, accanto a questo, dalla metà del secolo in poi, un’esistenza
quasi di pari diritto. Non produssero, è vero, come lo fece la storia
dell’Illuminismo, figure della grandezza di Hume e Gibbon, ma una serie di
bellissimi ingegni medi che si diedero ad approfondire con diletto e amore,
con fantasia e sensibilità, il già evidente vagheggiamento dei valori del
passato». Conclude: «L’Inghilterra fu comunque fino al 1765 guida e
pioniera del movimento preromantico europeo».
Di questo movimento i rappresentanti più energici sono, a dire il vero, il
Vico e il Rousseau (oltre a una serie di ingegni che come abbiamo visto
vanno dal Lafitau al Goguet, dal Brosses al Boulanger). Ma all’Inghilterra
spetta indubbiamente questo merito: che, laddove quegli studiosi avevano
posto la loro attenzione sulle ricerche speculative, gli Inglesi invece
mettono in luce i documenti stessi cui quelle ricerche, direttamente o
indirettamente, si appel lavano. La loro battaglia non è condotta infatti in
nome della etnografia o della filosofia. È condotta in nome della poesia, o
meglio in nome della poesia popolare.
L’Inghilterra pertanto, nel momento stesso in cui rivalutava quella
semplicità e quel sentimento che erano stati individuati dal Macpherson
nell’Ossian e dal Percy nelle Reliques, si faceva banditrice di un nuovo
credo, mediante il quale fra l’altro non solo rivalutava la tradizione quale
essa ci appare nei suoi aspetti più suggestivi, ma ammoniva i filosofi
illuministi, insegnando loro che il bello è un dato dello spirito e non del
progresso. E nell’apparente atmosfera dell’idillio, nell’apparente giuoco
della ricerca del proprio passato, essa preludiava allo Sturm und Drang.
9. Poesia e tradizione

1. Il «primitivo» a casa propria

All’esplosione dello Sturm und Drang, che dalle tranquille rive


dell’Inghilterra si spostava verso il cielo della Germania, contribuì
soprattutto una piccola nazione attorniata da culture diverse e che a quelle
culture partecipò con una sua ansia di rinnovamento: la Svizzera. Era stato
un inflessibile e austero cittadino di Berna, un discepolo del Saint-
Evremond, Béat-Louis de Muralt, non solo ad annunziare nelle sue celebri
Lettres sur les Anglois et les François (dalle quali poi prese in parte le
mosse il Voltaire nelle sue Lettres dedicate appunto agli Inglesi) la
grandezza nascente dell’Inghilterra, che egli opponeva alla crescente
decadenza della Francia, ma anche, e soprattutto, a indagare il carattere e
l’individualità del suo paese, di cui esaltò le origini.
In tal modo, se da una parte il Muralt si mette su quella via che già da
lungo tempo, e in special modo durante il Rinascimento, aveva portato i
filosofi e gli storici a considerare il carattere dei popoli – l’affermazione che
le sue Lettres si debbano considerare come il primo e il più famoso esempio
dedicato ai caratteri di vari popoli non ha alcun senso –, dall’altra egli si
pone sullo stesso piano di quegli aulori che, nella speranza di ravvisare quel
carattere, avevano messo a raffronto l’Europeo col selvaggio, il Francese
con l’Egiziano o col Persiano, come in quegli anni avevano fatto appunto il
barone de La Hontan, il Marana e lo stesso Montesquieu. Con questa
differenza: che nel Muralt lo studio dei caratteri dei popoli diviene già
coscienza dell’unità dei popoli, mentre il mito del buon selvaggio gli serve
per foggiare il mito delle origini del suo paese. Insomma laddove era
chiamato in sede polemica il selvaggio e l’Europeo, l’Egiziano e il Francese
ecc., ora, pur sempre di contro alla Francia, vengono chiamati gli Inglesi e
gli Svizzeri. Non è necessario percorrere i mari, internarsi fra gli Indiani
d’America o i selvaggi in genere, riscoprire l’Egitto o la Persia, per dare
una lezione alla Francia. E con essa ai suoi miti. Basta guardarsi attorno.

2. Muralt e Haller

Alle Lettres, che apparvero per la prima volta nel 1727, il Muralt
aggiunse una Lettre sur les voyages, che sembra sia stala scritta alcuni anni
prima. Bene, in quella Lettre (che è un po’ la chiave stessa delle Lettres),
egli non solo deplora l’influsso che la moda francese comincia a esercitare
sugli animi degli Svizzeri, ma pospone la raffinata civiltà francese alla
civiltà conladina del suo paese, a quella civiltà, cioè, in cui predomina una
mentalità che è rimasta fedele alle sue montagne, e quindi alle sue
tradizioni. La Svizzera, la sua Svizzera, non conosce i morbi della Francia:

«Sembra che la Provvidenza che governa il mondo abbia voluto che tra le nazioni ve ne fosse una
dritta e semplice. Essa ha voluto ricompensare in noi un resto d’ordine, conservato alla vista di tutta
la terra, un carattere perduto tra le nazioni opulente e voluttuose… Una felice oscurità, un genere di
vita lontano da ogni ostentazione e mollezza ci dovrebbe attaccare alle nostre montagne».

Il Muralt tuttavia non si contenta di anteporre all’Illuminismo nascente il


senso di una felice oscurità, che è quello delle tradizioni avite e delle
vecchie libertà, ma va oltre:

«Da quando l’uomo ha perduto la propria occupazione e la propria dignità, è andata perduta altresì la
conoscenza di quel che lo concerne; e nel disordine in cui ci troviamo, non sappiamo in che
consistano la nostra occupazione e la nostra dignità. Poiché soltanto l’ordine può procurarci tale
conoscenza, io penso che ci sia un solo mezzo di restare nell’ordine: seguire l’istinto che è in noi,
l’istinto divino che è forse quel che solo ci resta dello stato originario dell’uomo, e che ci è stato
lasciato per ricondurci a esso. Tutti gli esseri viventi a noi noti hanno ciascuno il proprio istinto, che
non li inganna. L’uomo, che è il più elevato tra tutti, non avrà il proprio, che si estenda su tutto il suo
carattere, e che sia altrettanto sicuro che esteso?»

Non era possibile, osserva in proposito l’Hazard, far risentire più


chiaramente, ancor prima che risuonasse la voce del Rousseau, il ritorno al
primitivo. Ma quel primitivo irrazionale che cosa è, che cosa vuol essere
per il Muralt, se non un anelito a sentire la propria nazione con tutto ciò che
ne forma o ne deve formare il suo carattere originale? Da qui il
collegamento che egli fa delle antiche tradizioni con le sue montagne. Da
qui il concetto stesso di tradizione collegato a quello di nazione. Né è senza
significato che tre anni dopo la pubblicazione di quelle Lettres sia uscito il
poemetto Die Alpen di un altro patrizio di Berna, Albrecht von Haller.
Commenta l’Antoni: «Che Haller fosse sotto l’influenza del Muralt è
indubbio. Egli aveva letto poco prima le Lettres… Però, a differenza del suo
maestro, egli scrive in tedesco, nella lingua che solamente da alcuni anni,
un altro Muralt, Johannes, aveva preso ad adoperare per modesti scopi
letterari ed insieme sociali. All’idea del «carattere» nazionale si aggiunge,
come elemento integrante, quella della lingua… L’appello del moralista al
ritorno alle prische virtù, alla sobria e felice vita dell’antica nazione, si
allarga nelle Alpi a principio universale: la civiltà corrompe gli uomini e
l’innocente vita dello stato di natura è la vera felicità. Ma il motivo idillico
provoca, nel clima del secolo filosofico, degli echi in profondità. L’idea del
felice stato di natura, della virtù impressa nei cuori dalla saggia e benefica
legislatrice, si rivela ben più essenziale della mera nostalgia di Arcadia. È la
negazione dei vecchi dogmi cristiani, della Caduta e della Grazia, la nuova
etica d’una virtù e d’una felicità terrene, sgorganti dalla stessa natura
umana». È il trionfo insomma, ancora una volta, del mito del buon
selvaggio (che è divenuto ormai uno stimolo poetico in Haller, così come
più tardi sarà stimolo filosofico-politico in Rousseau che era anch’egli uno
svizzero, attaccato, come abbiamo visto, alle sue montagne e alle sue
tradizioni).
Lo Haller, come il Muralt, ricerca dunque il primitivo a casa sua, fra i
contadini e i pastori, nei quali si rispecchia l’anima stessa della natura con
le sue albe e i suoi tramonti. Viaggiando tra gli alpigiani, egli aveva più
volte esclamato: «o popolo felice, che l’ignoranza preserva dai mali...» Ed
egli sente il fascino dei suoi luoghi con l’anima semplice di un contadino.
La sua mitologia è lì, fra quelle montagne casalinghe che sono i pilastri
stessi della natura, della libertà e della felicità:

«Oh! ciechi mortali che fino alla tomba l’avarizia, l’onore e la voluttà trattengono con vane lusinghe,
che avvelenate con sempre nuove cure e vane fatiche il dono esattamente contato dei brevi giorni,
che sdegnate la quieta felicità di una mezzana fortuna e più esigete dal destino che la natura non esige
da voi e che vi fate un bisogno delle brame della follia. Oh! credetelo, non è già il nastro di un ordine
che rende felici; nessun gioiello di perle fa ricchi! Mirate un popolo spregiato, tutto allegro nel lavoro
e nella povertà. La ragionevole natura soltanto può fare felice».

E lo Haller canta appunto questa mitologia, quasi interpretando il


pensiero del Muralt, che nella Lettre sur les voyages faceva appello a «un
genere di vita lontano da ogni mollezza», che «ci dovrebbe attaccare alle
nostre montagne». Il suo poemetto Die Alpen, comunque, non è soltanto il
canto rivolto all’ideale e felice stato di natura. È la glorificazione di un
popolo la cui natura è in parte una forma stessa del suo carattere. È l’inizio
di una nuova poesia. Ma quella poesia gli Svizzeri la cercavano anche
altrove. E la trovarono.

3. Bodmer e il folklore della Svizzera

Nel porre la sua attenzione alle vecchie libertà locali, il Muralt


s’incontrava ancora una volta con gli Inglesi in un comune desiderio: quello
di rivalutare il Medioevo, che anche per gli Svizzeri era l’età eroica. Il che
significava in fondo ravvivare quelle ricerche infondendo loro un ideale
storiografico. Ma questo carattere non è il centro da cui muove, ad esempio,
un altro grande Svizzero, Jakob Bodmer?
Ancor prima che uscissero le Lettres del Muralt, il Bodmer, in
collaborazione col Breitinger, aveva fondato un giornale, i «Discourse der
Mahlern», il quale si proponeva di seguire l’esempio che l’Addison aveva
dato all’Inghilterra col suo «Spectator». Nei «Discourse» (che poi come lo
«Spectator» furono raccolti in volume) i compilatori infatti volevano
intrattenersi soprattutto «sulle diverse specie di conversazioni, sui vestiti, su
ciò che i signori, i borghesi, i cittadini, le donne hanno per divertimenti,
sulle cerimonie di fidanzamenti e di nozze, sui riti che si osservano nelle
sepolture…» E man mano essi illustravano queste cose con un gusto del
particolare, dell’inedito, che ricorda Bayle o Fontenelle (per quanto diverse
fossero le loro mire).
I «Discourse» uscirono tra il 1721 e il 1723. Ma l’attività del Bodmer
assunse in seguito un respiro più largo. Nel 1727, due anni dopo cioè la
pubblicazione delle Lettres del Muralt, egli fondò a Zurigo una società di
storia patria, la Helvetische Gesellschaft, la quale, una delle prime se non la
prima del genere, pubblicò una serie di fonti, curando fra l’altro il
Thesaurus Historiae Helvetiae. Promosse più tardi, col fedele Breitinger, la
Helvetische Bibliothek. Nel 1739 uscirono i suoi quattro volumi di
Historische und kritische Beiträge zu der Historie der Eidgenossen. Ma a
che cosa mirano queste sue ricerche, le quali rievocano in piccoli quadri
quella civiltà contadina che era stata idealizzata dal Muralt e cantata dallo
Haller?
Convinto com’è che uno storico debba pensare anche alla vita e alla
storia dei contadini, «perché sono essi i soli, cui la natura confidi il suo
linguaggio», nei «Discourse» il Bodmer, parlando degli Svizzeri, esclama
con lo stesso impeto del Muralt e dello Haller: «Che maniere selvagge ma
naturali! Che contadini, ma quanto magnanimi! Che gloria, che
magnificenza!» E questa gloria, questa magnificenza il Bodmer la ricerca in
quelle che allora si chiamavano le Antiquitates locali e che venivano
studiate un po’ dappertutto.
Erano state illustrate, come abbiamo visto, in Inghilterra ad opera del
Browne e del Brand. Le avevano illustrate nella Francia il Thiers e il Le
Brun. Da qualche anno, prima cioè che uscissero i Beiträge del Bodmer, le
veniva illustrando in Italia il Muratori. Ma quale fu l’atteggiamento del
Bodmer rispetto alle sue Antiquitates? Da quale pietas egli era mosso nel
giudicarle e farne elemento e monumento di storia, o meglio di storia
nazionale? E fino a quale punto le sue ricerche possono veramente
interessare la storiografia del folklore? Le ricerche di un Browne, di un
Thiers, di un Le Brun non erano uscite in fondo dal campo dell’erudizione,
anche se, come quelle del Le Brun e del Thiers, erano animate da un
interesse religioso (cattolico). Più distaccato il Brand, il quale di fronte alle
tradizioni del suo popolo aveva assunto un atteggiamento, direi,
contemplativo. Di ben altra natura invece erano state le ricerche del
Muratori, anche se questi relegava le ricerche compiute nelle sue
Antiquitates nel campo di quell’erudiziene che egli animava del suo «buon
gusto» che molte volte, anzi il più delle volte, è gusto filologico-storico. Ed
è al Muratori che si attacca il Bodmer. Anche lui nelle ricerche intese a
illuminare il folklore del suo paese parte dai documenti archivistici. Anche
lui si avvale di vecchie cronache e di vecchie pergamene. Ma egli nei
riguardi di quelle Antiquitates ha un atteggiamento che non è quello
contemplativo del Bodmer o quello storico-erudito del Muratori. La
contemplazione dei vecchi costumi, delle vecchie usanze, delle vecchie
libertà del suo paese è e diviene in lui un principio politicamente attivo. Le
Antiquitates in genere, e le costumanze in ispecie, sono le colonne stesse su
cui si regge il passato del suo paese. Sono le colonne su cui deve reggersi il
suo avvenire. C’è qui, in lui, il futuro Rousseau delle Considérations sur le
gouvernement de Pologne. Ma ci sono soprattutto dietro le sue spalle
Muralt e Haller.

4. Poesia e sentimento nazionale

Non meno appassionanti sono le ricerche del Bodmer dedicate alla


poesia (che è poi la sua attività più apprezzata e conosciuta). È noto, ad
esempio, che il suo Von dem Einfluss und Gebrauche der Einbildungs-
Krafft, scritto nel 1727 in collaborazione del Breitinger, se da una parte
risente dei saggi che l’Addison aveva scritto sullo «Spectator» intorno ai
piaceri dell’immaginazione, dove egli sosteneva il ritorno alla natura che in
lui altro non voleva essere se non il ritorno alla sincerità poetica, dall’altra
si rifà all’insegnamento di un Muratori, di un Gravina e di un Calepio, i
quali avevano dissertato sui diritti di quella fantasia che gli illuministi
volevano regolata dalla ragione. Ma quel lavoro, il quale peraltro rivelava
una violenta polemica contro il Gottsched, fermo alle regole aristoteliche e
ai modelli francesi, che cosa rappresenta per il Bodmer se non un’evasione
nel campo dell’estetica (parola questa che qualche anno dopo sarà
adoperata per la prima volta dal Breitinger), per affermare i diritti di tutto
ciò che è «originale» e che è «caratteristico», di quell’originale, insomma, e
di quel caratteristico che egli aveva trovato nelle usanze paesane che sono il
modello stesso della semplicità e della natività?
Da qui evidentemente la idealizzazione che egli faceva di poeti come
Omero, come Dante ecc., in cui ravvisa, sì, una semplicità e una natività di
ispirazione, ma di cui faceva i rappresentanti di una età eroica. E quei poeti
egli non solo li immette nella storia del loro tempo, ma li considera come
forze operanti nella vita delle loro nazioni. Anche egli, così come Vico,
ritorna alla età della fiera e virtuosa barbarie. È qui anzi, su questo terreno,
che la sua concezione, la quale ha l’addentellato più diretto nel Blakwell, lo
porta, come è stato ben osservato, a capovolgere l’orgoglio illuministico. Il
Bodmer, così come aveva congiunto le usanze paesane con la storia di una
nazione, estende ora quel concetto alla poesia. Anche la poesia fa parte
integrante della storia di una nazione. E ogni nazione deve riconoscersi nei
suoi poeti. Ma Dante e Omero, così intesi, lo portano oltre. Nel ’32, infatti,
egli traduce Milton, di cui più tardi nella sua Kritische Geschichte des
Verlorenen Paradieses, che è del 1754, non esita a scrivere:

«Nei moti che la nazione inglese provocò contro Carlo I, Milton si dimostrò un avvocato di tutti i
generi di libertà, della libertà religiosa, della libertà domestica e della libertà civile, per mezzo di
molti scritti, che diede alla luce in loro difesa… Era in tutto un repubblicano, e pensava della cosa
pubblica come un greco o un romano, dei quali aveva perfetta conoscenza».

5. Le scoperte del Bodmer

Ma le sue grandi scoperte sono ben altre: sono il Parsifal, il Minnesang e


i Nibelunghi. È vero che egli si appassionò anche alle Reliques del Percy,
che tradusse, sia pure senza individuarne il carattere, e dove vedeva
riflettersi l’ideale di quel fiabesco che egli aveva messo a fondamento della
sua estetica. Ma egli era soprattutto portato all’epopea. In quella stessa
Svizzera dove il ginevrino Mallet elogiava il mondo nordico dell’Edda e
della mitologia scandinava, rievocandolo brillantemente nell’Introduction a
l’histoire de Dannemarc, che è del 1755, o nei Monuments de la mythologie
et de la poésie des Celtes, che sono del 1756 (e che nel 1770 furono tradotti
in Inghilterra dallo stesso Percy sotto il titolo di Northern Antiquities), il
Bodmer si rivolge al Parsifal, al Minnesang e ai Nibelunghi come ai testi di
una vera poesia, dove egli non solo trova una evasione dalle regole dettate
dal Gottsched, ma anche un senso austero e solenne della vita che fa
tutt’uno con la semplicità e la sincerità del dettato. Il Bodmer era convinto
inoltre di trovare in quei testi i documenti di una antica poesia che è il
riflesso della rivolta dei tedeschi, onde «scuotere il giogo di Roma, nel
pieno e illimitato sentimento della libertà, nell’autonomia dei piccoli Stati
di allora, nel violento spirito guerriero, per cui anche il linguaggio aveva
dovuto esprimere sentimenti forti e ardimentosi».
Il Bodmer sentì odore di falsità davanti all’Ossian; ma quando egli, quasi
concludendo la sua difesa sui rapporti fra poesia e nazione, affermava che i
Nibelunghi sono l’Iliade tedesca, non precorreva di alcuni anni lo stesso
Macpherson nel concepire come nazionale l’antica poesia del proprio
paese? La poesia per il Bodmer è insomma lo specchio stesso dei costumi.
Da qui il suo valore storico. Ma è anche il patrimonio sacro di una nazione.
Né diversa è in fondo l’opinione di Justus Möser, quando, esaltando la
poesia del Minnesang, lamenta che purtroppo in quell’epoca la Germania si
sia messa a imitare i poeti stranieri, dimenticando le sue stesse fonti. Né il
Möser è da meno nel sentire il fascino delle tradizioni popolari, anche se
egli non provi mai un abbandono, ad esempio, per la poesia e in genere per
la letteratura popolare. Egli fa sua la polemica degli Svizzeri. E la sua
Svizzera sarà però la Westfalia.

6. L’opera storiografica del Möser

L’opera cui è maggiormente collegato il nome di Justus Möser è


indubbiamente la sua Osnabrückische Geschichte, che è del 1768. In essa
l’autore non esalta il Medioevo cavalieresco, ma le autonomie locali
poggianti sulle comunità rurali, nelle quali la consuetudine ha valore di
legge. Anche il Möser, commenta in proposito l’Antoni, è come i suoi
predecessori svizzeri, «un patriota», anche lui vuole difesa l’originalità del
carattere nazionale dalla moda francese; anche lui è un campione delle
antiche libertà contro ogni dispotismo. L’advocatus patriae ha l’occhio
rivolto ai contadini della sua Westfalia, le cui condizioni «erano diverse da
quelle dei servi della gleba dei grandi latifondi delle regioni orientali»,
poiché essi «erano proprietari, semiproprietari, affittuari». E qui, fra questi
contadini, egli non solo vede la chiave della storia tedesca, che ravvisa
nell’istituto terriero fondamentale, nel mansus, e che gli si dispiega in modo
che l’homo œconomicus partecipa della «gloria della nazione», ma sente
l’umanità stessa, la quale deve essere preservata dal razionalismo invadente.
E quella umanità è il centro delle sue ricerche intese a far luce sulle
«antichità tedesche», finché essa gli appare nelle sue stesse fonti, vale a dire
nella sua purezza originaria, per quanto in tale costruzione non poche volte
la storia gli appaia come una continua decadenza.
Si spiega pertanto la difesa continua e appassionata che egli fece sempre
di quelle tradizioni dove ravvisava la purezza stessa della storia. Né questa
difesa, come del resto quella del Bodmer, era soltanto rivolta alla ricerca
dello spirito originale del suo popolo. Era anche difesa dell’arte tedesca.
Nei suoi saggi editi nel «Hannöverisches Wochenblatt» e poi riuniti in
volumi nel 1747 sotto il titolo Versuch einiger Gemälde der Sitten unserer
Zeit, vi sono già in nuce queste sue convinzioni, alimentate in parte dai
«Discourse» del Bodmer e Breitinger. Due anni dopo, nell’introduzione
dell’Arminius, egli non solo ci dà un vivace e colorito excursus sulla
Germania di Tacito, non solo deplora che siano stati i ceti più alti germanici
ad accogliere la moda romana, ma afferma che i rudi protagonisti di quel
libro non sono morti, perché essi rivivono nei contadini basso-sassoni, in
quei contadini, cioè, che i suoi predecessori avevano idealizzato e che egli
aveva imparato a conoscere e ad apprezzare giorno per giorno nella sua
città natale, a Osnabrück, dove faceva l’avvocato.
Vi sono nel Möser, come negli Svizzeri, dei forti interessi di carattere
estetico. Nei Gemälde egli confessa di aver prediletto la poesia di Haller, ed
esalta la nobile semplicità della vera e grande poesia. Nel suo Harlekin, che
è del 1761, rifiuta la semplicistica estetica dell’imitatio naturae. Nei
Gemälde è la prima presa di posizione contro le regole della poetica
francese. E l’Harlekin non è, e non vuole essere, appunto una risposta, oltre
che al Gottsched, a quel Voltaire cui egli anni prima aveva indirizzato una
Lettre sur le caractère du Dr. Luther et sa reformation? È noto che il
Gottsched voleva che le maschere fossero bandite dal popolo. È noto che il
Voltaire voleva che fossero bandite dalla tragedia. Il Möser parte invece da
questa premessa: «anche negli antichi usi popolari vi sono degli elementi
comici e grotteschi, onde non può essere ammesso, come volevano le regole
illuministiche, bandire il rozzo buffone dalle scene, dove peraltro aveva
avuto un posto di onore». Ma al di là di tale premessa c’è nel suo Harlekin
un’affermazione categorica, precisa, e cioè che salvando dal razionalismo,
quale esso sia e dovunque esso sia, la vita dei contadini, si salva con essi la
ricchezza stessa di tutto ciò che può essere una vita spontanea vissuta al
contatto della natura.
La difesa delle maschere è nel Möser la difesa stessa del popolo, al quale
(egli aggiunge in un altro suo Schreiben an dem Herrn Vicar in Savoyen,
indirizzato nel 1765 al Rousseau) bisogna avvicinarsi con lo scopo di
intenderlo e di comprenderlo, perché non v’è un solo uso che non abbia
ragione di essere. Il Möser riconosce che al popolo sia necessaria una
religione, tanto è vero, dice, che ogni fondatore di società ha dovuto
«prendere un Dio in aiuto, o fornicare con una dea; far ingravidare sua
madre da un Ercole e far cadere le sue leggi dal cielo; e abbattere a colpi di
fulmine gli insorti». E par quasi di sentire in lui la voce di Voltaire. Ma
subito dopo aggiunge: «La religione è una politica, la politica di Dio nel suo
regno tra gli uomini». E ancora, quel che più conta, osserva che, giudicando
così la religione, bisogna accettare le superstizioni popolari, i miracoli, gli
spettri. Egli non vuole essere, e lo dice espressamente, un teologo; vuole
essere un giurista che difende il suo popolo con le sue superstizioni, coi
suoi miracoli, coi suoi spettri. Il che a volte serve anche a portarlo lontano
fra gli usi degli altri paesi, onde egli, mettendo a profitto le relazioni dei
vecchi cronisti o dei viaggiatori, non esita a giustificare le pene più atroci,
come l’annegamento nel sacco, cui le infanticide erano condannate «dai
nostri antenati che non giudicavano secondo teorie, ma si facevano guidare
dall’esperienza».
Da qui la relatività stessa delle istituzioni. Nell’Harlekin il Möser
osserva che «la natura genera forme inesauribili con cui prodiga i suoi
incanti agli occhi bramosi; e i costumi e le passioni sono altrettanto
molteplici quanto i diversi volti degli uomini». E nelle Patriotische
Phantasien che uscirono prima nel 1766 negli «Intelligenz-blätter» della
sua città e che poi nel 1784 furono raccolte dalla figlia, aggiunge, quasi a
esemplificare, che «da quando Voltaire ha trovato ridicolo che un tale
avesse perduto un processo secondo il diritto di un villaggio, mentre lo
avrebbe guadagnato secondo quello di un vicino», d’allora fu data via libera
«al dispotismo che vuol tutto costringere secondo poche regole». Si
aggiunga che in queste Phantasien, ammiratissime da Goethe, vi è una
descrizione della casa dei contadini della Westfalia che è uno dei più
importanti documenti folkloristici del tempo.
È la difesa degli usi che sta a cuore al Möser, cui si potrebbe obiettare
tuttavia che egli, nel combattere il razionalismo, non si accorgeva che,
dando una ragione a tutte le forze irrazionali, ne limitava la loro funzione
nello svolgimento storico. Al Möser spetta tuttavia questo merito, che è poi
la novità stessa della sua opera di folklorista e di etnografo: di aver visto
nella variopinta varietà delle tradizioni popolari una loro unità.

7. Müller e il colore locale

Su un altro piano di quanto non siano il Bodmer e il Möser, i quali hanno


molti punti in contatto, anche se diverso è il loro concetto di nazione, è uno
storico svizzero: Johannes Müller. Egli sentirà infatti quel che il Bodmer e il
Möser non sentirono: e cioè il fascino della letteratura popolare. Si potrebbe
dire che tutto ciò che il Bodmer e il Möser videro in funzione di un’epica o
meglio di un’epopea, il Müller lo vide in funzione di una epico-lirica. Le
sue Geschichten der Schweizer, di cui la prima edizione uscì nel 1780
(mentre la seconda edizione completamente rifatta comparve in più volumi
dal 1786 al 1808), non solo sono la esaltazione della sua terra, ma
costituiscono una rievocazione pittoresca, un affresco paesano, dove ci sfila
la vita dei cavalieri e dei contadini dei secoli XIV e XV. Sembra davvero che
qui prenda corpo una acuta osservazione del Möser: e cioè che
nell’antichità medievale la Svizzera aveva fuso insieme il cavaliere e il
contadino. Ma siamo anche qui davanti a un contadino che è insieme
piccolo proprietario o artigiano, e vive nella libertà dei comuni proprietari-
fondiari. Senonché, mentre il Möser era e rimaneva un giurista anche nelle
sue rievocazioni pittoresche, onde egli finiva sempre col trattare con un
linguaggio giuridico le stesse questioni di carattere estetico, il Müller fu
virtualmente un poeta che rivisse, con senso commosso, le tradizioni del
suo paese.
Nel rievocare in modo pittoresco le libertà svizzere, nel porre la sua
attenzione sulla validità delle tradizioni popolari e sulla loro conservazione,
anche se il tempo possa cambiarle, il Müller adopera un linguaggio che
ricorda quello del Rousseau. Il Müller vede l’unità stessa della Svizzera
nello sviluppo dei singoli Cantoni. Con questa aggiunta forse: che essi sono
passati attraverso il mondo del suo Mallet, per ritornare ad essere quel che il
Muralt li immaginava: gli Svizzeri-selvaggi (ma selvaggi nel senso che a
questo termine avevano dato i missionari e i viaggiatori).
Dalle pagine del Müller, che ha fuso questi miti, escono intanto le
narrazioni più pittoresche e le leggende più avventurose. La sua storiografia
ha una base: la leggenda. Ma quella leggenda è vissuta in funzione di verità.
Ecco perché a volte noi dimentichiamo in lui lo storico e scopriamo uno
scrittore il quale, se pur arcaicizza la Svizzera, ce la presenta con quel suo
colore locale che ce la rende calda e appassionata. Qui è il segreto stesso
della sua «sublime poetica antiquaria», come ben la definì in un frammento
dell’«Athe-naeum» lo Schlegel.
Nelle sue Conversazioni con Goethe, l’Eckermann ricorda quel che gli
narrò Goethe, dopo aver visitato la Svizzera:

«Io visitai… i piccoli villaggi intorno al lago dei Quattro Cantoni: e quella natura piena di incanti, di
magnificenza e di grandiosità mi fece nuovamente una tale impressione, che mi sedusse l’idea di
rappresentare in un poema la verità e la ricchezza di quell’impareggiabile paese. Ma per conferire
alla mia rappresentazione più attrattiva, interesse e vita, giudicai bene di animare quello sfondo e
quel suolo altamente significativi con figure umane di altrettanto significato, e mi venne in mente la
leggenda di Guglielmo Tell come quella che appunto mi ci voleva. Io immaginai Tell come un eroe
umano di una forza originaria, tranquillo in sé e fanciullescamente inconsapevole, il quale, come
portatore di carichi, va da un cantone all’altro, dovunque conosciuto, dovunque amato e
soccorrevole, dovunque pieno di affetto per la moglie e per il figliuolo, senza badare affatto chi sia il
padrone e chi il servo» (Colloqui cit., 514-515).

Questa era la Svizzera del Müller, nel quale le Antiquitates si erano


colorite col gusto e col sapore di una leggenda, dove, come nella realtà, era
necessario «vivere e morire liberi con onore». È noto che il dramma
progettato dal Goethe fu compiuto dallo Schiller, il quale, come egli stesso
ricorda, si avvalse per il suo dramma dello stesso Müller. E quel dramma
cosa sia stato e cosa rappresenti, ce lo dice il De Sanctis, quasi ricordandoci
quel che il Goethe aveva detto della Svizzera, quando afferma che in esso
«tutto è Svizzera, tutto è colore locale», mentre «la congiura non è in uno
solo, ma è in tutti; e Tell non è semplice cospiratore ma espressione del
popolo», tanto è vero che «quel che vuole lui lo vogliono tutti». Bene: quel
che il De Sanctis dice del Guglielmo Tell dello Schiller noi potremmo dirlo
appunto delle Geschichten schweizerischer Eidgenossenschaft (cioè la
seconda edizione delle Geschichten der Schweizer), dove, com’è noto, la
scuola romantica trovò una serie di fatti patetici.

8. La mediazione della storiografia svizzera nella storia del folklore


europeo

Così, dunque, dal 1726 al 1780 assistiamo tanto nella Svizzera (francese
e tedesca) quanto in Germania a una presa di posizione, la quale ha
interesse non soltanto per i valori che media nella storia della storiografia,
ma anche, e soprattutto, per l’importanza che assume nella storia del
folklore. I miti che abbiamo visto prorompere dall’anima inglese trovano
infatti nel Muralt, nel Bodmer, nel Möser e nel Müller interpreti vivi e
appassionati. Con questa differenza: che essi, se pur sentono, come gli
Inglesi, il potere delle virtù nazionali, animano quei miti in nome dell’etnica
tradizionale, di cui cercano, in un modo o nell’altro, di fare la storia. È con
essi peraltro che dalle ricerche dedicate alla poesia popolare o consacrate
con gusto erudito alle Antiquitates passiamo a una vera e propria indagine
storica, che non è da meno di quella ingegnosissima di un Voltaire, di un
Hume, di un Robertson. Ecco perché la mediazione dell’Inghilterra non
serve soltanto alla Svizzera come elemento di contrasto. Gli Svizzeri e il
Möser si oppongono insomma a un’etica che era quella dello spirito
francese, di quello esprit che consisteva, come dice il Muralt, nell’arte di far
valere delle bagatelles; ma si oppongono anche a un’estetica, che era quella
del Boileau e del Gottsched, fatta appunto per valorizzare un mortificante
accademismo.
Nel 1739 il Gottsched scriveva al Bodmer: «Sembra che gli Inglesi
stiano per cacciare dalla Germania i Francesi. Potrebbe darsi purché non si
radichi per essi una stima così cieca quale domina per i primi presso tutta la
nostra gente di corte e i grandi signori». È noto infatti che nella placida
Germania settecentesca, nelle cui innumerevoli corti principesche impera la
moda di Versailles, le grida che provengono dalla Svizzera scuotono la
gioventù tedesca. È noto inoltre che il re di Prussia scrisse il celebre saggio,
edito nel 1780, De la littérature allemande, dove erano del tutto dimenticati
i nomi di un Klopstock e di un Lessing, che invece erano così cari al cuore
di Bodmer. Bene: scenderà in campo contro di lui il Möser in nome,
appunto, dell’arte tedesca. Era stato Goethe a salutare nello Haller il primo
poeta nazionale. Il Bodmer, quasi alla fine della sua vita, in una lettera
indirizzata al Gleim aveva scritto: «Nel fiore dei miei anni la poesia non
c’era! Poi essa nacque sull’istmo dell’età di Saturno! Hagedorn, Gleim,
Klopstock vennero, e con loro l’età dell’argento: poi la primavera di una età
dell’oro!». E ora ecco il Möser: «Un linguaggio poetico non l’avevamo
quasi affatto e non lo avremmo, se i valorosi Svizzeri non avessero vinto
Gottsched». Haller, continua, fu il primo poeta tedesco, e accanto a lui pone
Gleim, Klopstock, Wieland (vale a dire i discepoli del Bodmer).
Il Möser, più che a Milton come il Bodmer, guarda a Cervantes e a
Shakespeare, mentre Omero gli dà l’impressione di «scendere in bettola»,
come egli stesso aveva fatto a Londra. Ma, quali che siano le sue
preferenze, anche a lui, come al Bodmer, è il sentimento nazionale che sta a
cuore. Con lui la letteratura tedesca si fa nazionale. Né era solo la letteratura
a farsi nazionale. Con Muralt, con Bodmer, con Möser e con Müller si fa
nazionale anche il folklore, la tradizione popolare, la vita popolare,
ravvisata in quel che essa ha di suo, di caratteristico, di particolare.
In tal modo, mentre risuonano le voci nazionali di un Lessing, di un
Klopstock, di un Wieland e mentre la Germania si va unificando sul piano
linguistico, ecco che si vien facendo sempre più urgente e imperiosa la
formulazione del concetto di un’anima popolare coscientemente nazionale.
Contemporaneamente si sente sempre più viva l’aspirazione a vagliare (e a
salvaguardare) i costumi della propria patria. S’è detto che questa idea
sentimentale abbia in fondo rinsaldato il regionalismo tedesco. Ma si tratta
di una tesi insostenibile, ove si pensi che la tradizione popolare è un
elemento vivo e fecondo della storia, perché della storia è un fattore vivo e
valido. S’è detto inoltre che quel tradizionalismo, se pur giunge a
riconoscere il pregio delle tradizioni, lo fa, perché le trova già morte. Ma
anche questa tesi è insostenibile, perché tanto gli storici svizzeri quanto il
Möser, se pur guardano con nostalgia alle tradizioni del passato, in cui
pongono le loro origini, non dimenticano che esse hanno una loro vita dove
sono impegnati il cuore e il sentimento, l’immaginazione e l’umanità. Né
infine va accolta la tesi secondo la quale tanto gli storici svizzeri quanto il
Möser considerarono la civiltà contadina soltanto come una civiltà ricettiva.
Assai chiaro in proposito è anzi il pensiero del Möser, il quale non esita ad
affermare «che il contadino afferra abbastanza rapidamente le innovazioni
utili e che lo si accusa a torto, quando si afferma che egli preferisce lunghi
anni di esperienza a proposte mal sicure. Le utili patate si son diffuse più
rapidamente dei gelsi; e finché la coltivazione del lino gli darà buon pane,
non desidererà produrre seta per mangiar castagne».
Il fatto vero è questo: che in un’epoca in cui l’Illuminismo considerava
le tradizioni popolari come errori dello spirito umano, gli storici svizzeri e il
Möser le vedono come il farsi stesso dell’umanità, onde l’esigenza di
immetterle nella storia e di farne il fondamento stesso del carattere
originario e fondamentale di ogni nazione. Ma c’è di più, ove si pensi che,
mentre tra gli illuministi il popolo era in genere concepito come una
moltitudine condannata all’ignoranza e al fanatismo, gli Svizzeri e il Möser
non solo si oppongono, come gli Inglesi, alle regole e ai vincoli d’ogni
precettistica chiedendo ispirazione alla natura e alla vita, ma diffondono per
il popolo, che è insieme vita e natura, quell’amore che era stato già vivo in
pensatori come Vico e Rousseau.
Bisogna osservare tuttavia che tanto negli Svizzeri quanto nel Möser, il
popolo, l’anima popolare, si identifica nella nazione, in quanto questa
nazione si articola in una civiltà di contadini quale è quella in fondo della
Svizzera e della Westfalia. È noto invece, e lo ha notato egregiamente il
Meinecke, che già da tempo in Germania il concetto di nazione aveva un
significato di maggiore distinzione che la parola popolo usata di preferenza
per i più umili, per gli strati cosiddetti inferiori delle popolazioni (il che del
resto avveniva anche in Francia, in Inghilterra e in Italia). Ed è appunto da
questo contrasto, reso ancor più vivo e acuto dall’Illuminismo francese, che
partirà lo Herder non solo per riempire il concetto di Volk (di popolo, ceto
dei contadini ecc.) di una vita etico-sentimentale che si esprime nei canti,
nelle leggende, negli usi, ma anche, e soprattutto, come ha ben notato lo
stesso Meinecke, per fondere l’anima nazionale del suo popolo con
qualcosa che è semplice e originaria qual è appunto la vita stessa del Volk.
Ed ecco, nel ciclo della Germania, lo Sturm und Drang.
10. Herder o dell’umanità

1. Il mito dell’anima delle nazioni

È stato giustamente osservato che lo Sturm und Drang, se pur è


permeato dei precedenti motivi, è animato da un nuovo, possente,
soggettivo ardore di vita, sia pure esso nutrito da vecchie speranze come, ad
esempio, il pietismo. E il Meinecke, cui si deve questa osservazione,
aggiunge che appunto per questo in Germania si continuò a gettare lo
sguardo a epoche e popoli che parevano aver posseduto un’umanità tutta
fresca, naturale e indomita. Herder è al centro di questa nuova rivolta. E la
sua battaglia si svolge su due fronti, animata com’è da due ideali:
combattere da un lato l’Illuminismo, che vedeva nelle forze della tradizione
un simbolo di ignoranza o di fanatismo, e dall’altro la letteratura e l’arte del
suo tempo che invece di rinnovarsi andavano dietro a modelli stranieri,
soprattutto ai Francesi, che allora erano in Germania come a casa propria.
In quanto alla sua prima battaglia è ovvio osservare che dietro di lui c’erano
Vico e Rousseau, gli Inglesi dal Macpherson al Percy, dal Blackwell al
Wood, gli storici svizzeri dal Bodmer al Müller. Si aggiunga che egli ha di
contro nel suo paese una nuova grande forza che si veniva sempre più
affermando, il Winckelmann, il quale non concepiva e non vedeva nulla al
di là della Grecia. Senonché, gli obietterà lo Herder, per raggiungere i Greci
c’è una sola via: invece di imitarli – era il tempo in cui solevano
paragonarsi Klopstock con Omero e Gleim con Anacreonte –, essere
originali come loro. Si è detto che la battaglia dello Herder non è rivolta
soltanto contro il classicismo, ma in particolar modo contro Roma nemica
del genere umano, il cui impero estesosi in tutto il mondo allora conosciuto
aveva tutto bruciato e inaridito. Era in fondo, per quanto non più contenuta
ma gridata, la stessa battaglia che avevano combattuto gli Illuministi
francesi, gli Inglesi, un Bodmer e un Möser. Ma al di là di tale polemica
questo era il messaggio dello Herder: che i Tedeschi imparassero a non
essere né dei falsi Greci né dei falsi Romani, ritornando – ed ecco Bodmer e
Möser filtrati attraverso il pietismo – alle loro origini schiette e primitive. E
qui è lo spirito dei suoi Fragmente über die neuere deutsche Literatur, che
sono del 1767 e dove egli denuncia l’imitazione dei classici e dei Francesi
come un ostacolo allo sviluppo di una vera lingua e di una vera arte tedesca.
Nel Settecento, già da un pezzo, osserva acutamente l’Antoni, «si
parlava di spiriti e geni dei popoli, ma nessuno si era proposto il problema
della loro penetrabilità. Gli Svizzeri avevano proclamato il dovere della
fedeltà verso la maniera di pensare nazionale, ma avevano inteso tale
fedeltà in senso politico-moralistico, come fedeltà a una virtuosa e libera
umanità. Herder sente il dovere verso la nazione come dovere verso un dato
di fatto naturale, verso una particolarità, che, virtualmente, sovverte il
presupposto dell’etica stoica e cristiana e quindi della civiltà
dell’Occidente». Ma al di là della nazione è ansioso, com’egli stesso dirà, di
raccogliere nella sua anima lo spirito di ogni popolo. E così, conclude
l’Antoni, nasce in lui il mito dell’anima delle nazioni in opposizione alla
dottrina illuministica dei caratteri nazionali. In questo senso: che per lo
Herder i caratteri nazionali si riempiranno, appunto, soprattutto di quelle
forze che gli illuministi avevano inesorabilmente respinto. La sua opera,
audace ed esuberante, fatta di sfoghi e di scatti, è dedicata soprattutto a
determinare questi caratteri ch’egli considera da due punti di vista diversi:
uno nazionale e uno cosmopolitico. Ma quale sarà in lui il legame che li
unisce? Quale il procedere della sua stessa opera? Ed egli rimase sempre
fermo nei suoi atteggiamenti?

2. Sul «primitivismo» dello Herder

Si può indubbiamente dire dell’opera dello Herder quel che lo Hebbel


disse, con acume, di una delle più suggestive opere del Goethe, Dichtung
und Wahrheit: «In principio è un punto che adagio adagio fa un circolo, ma
crescendo finisce con l’abbracciare il mondo». E nella stessa Dichtung und
Wahrheit il Goethe, ricordando lo Herder di cui nella giovinezza subì il
fascino e con cui collaborò, dice: «Or ecco che ad un tratto attraverso lo
Herder venivo a conoscere tutto lo sforzo e il fermento moderno e tutti gli
indirizzi che esso sembrava prendere». Ed ecco quel che c’era appunto
nello Herder: lo sforzo e il fermento moderno intesi a tramutare per
palingenesi, come gli dirà lo stesso Goethe in una lettera a lui indirizzata
nel maggio 1775, la spazzatura della storia in una pianta viva, non
«estraendo semplicemente l’oro dall’immondizia, ma facendo nascere dalle
immondizie stesse un germoglio di vita».
In questa palingenesi il punto che adagio fa un circolo è costituito
anzitutto dal mondo dei primitivi, dei selvaggi, che gli si apre con il fascino
che egli sente, del resto, per tutto ciò cui si può applicare il prefisso Ur, e
che considera come un punto ideale (nel che è sullo stesso piano del
Rousseau e del Vico). Nel suo paese, il Winkelmann, il Lessing, lo stesso
Schiller non si erano mai interessati di quel mondo cui fa appello invece, fin
dal 1762, il suo amico e maestro Hamann, il quale era dell’avviso che
l’uomo originario, cioè il primitivo, possedeva soltanto i sensi, e che quindi
non poteva comprendere se non per immagini (tesi questa che concilia Vico
con Locke). Lo Herder è al corrente di tutto ciò che era stato fatto nel
campo dell’etnografia. Ammiratore di Montaigne, egli sa bene che i
cosiddetti popoli selvaggi vanno considerati con la stessa imparzialità degli
Europei. Ma quale significato egli dà al termine selvaggio, quando lo
applica ai fenomeni artistici?
Nel Journal meiner Reise im Jahre 1769 lo Herder afferma: «Dai piccoli
popoli selvaggi, quali furono un tempo i Greci, nascerà una nazione
civile…» E sembra di sentire i vecchi Padri Gesuiti con a capo Lafitau. Dirà
inoltre, nel 1773, nel suo saggio sull’Ossian (il quale insieme a quello su
Shakespeare uscì nella miscellanea Deutscher Art und Kunst con scritti di
Möser e di Goethe), che «quanto più selvaggio, cioè barbaro vivo e
liberamente operante, è un popolo tanto più selvaggi, cioè vivi e liberi,
debbono essere i suoi canti». E qui, ancora una volta, è il mito del buon
selvaggio che si fa mito della poesia popolare. In questo senso: che il
termine selvaggio verrà preso per animare un concetto estetico (già pure
esso sorto sul tronco dell’etnografia). Lo Herder parte da questa premessa:
che il carattere originario dell’arte si deve ravvisare nella barbarie. Ma
quella barbarie, per lui, non è soltanto un termine di riferimento etnologico,
in quanto egli, se da una parte ravvisa nel primitivo tutto ciò che è bello e
sincero, nel popolare ravvisa tutto ciò che è vergine e vero. Dice il Gerbi:
«Il mito di natura è ancora, palesemente, dietro quelle due equazioni». Ma
si tratta di due equazioni? O invece l’idoleggiamento della poesia non è
esso stesso un aspetto di quell’idoleggiamento del primitivo, insegni il
Muralt, che già si è cercato a casa propria?
Si sente, insomma, nello Herder l’eco del Rousseau; ma, come ha ben
osservato il Venturi, «il primitivismo di Herder non aveva il valore
rivoluzionario del selvaggio rousseauiano», tanto è vero che «esso tendeva
naturalmente, e man mano sempre più consciamente, a trasporsi su di un
piano che non era più sociale ma estetico», o meglio filosofico, essendo la
«sua ricerca dell’Ur non volontà di purezza sociale, ma anzi di una
emozione sentimentale o poetica». Il fatto è che Herder può rimanere
colpito dai Discours e soprattutto dalle Considérations. Ma il Rousseau del
Contrat non lo seduce. Anzi, lo spaventa. E di ciò è prova il concetto che
egli aveva della libertà, tanto è vero che fin dal 1765, nel suo scritto Haben
wir noch jetzt das Publikum und Vaterland der Alten?, egli si augurava
soltanto di «poter essere un uomo onesto e di possedere in pace all’ombra
del trono la propria capanna e la propria vigna e godere il frutto del proprio
sudore, di essere l’artefice della propria felicità e comodità».
Il potente dramma che viveva nell’animo del Rousseau si scioglie in lui
in un tenero idillio. Ma a quell’idillio, nel quale, di contro al celebrato
Sturm und Drang, affiora un’espressione piccolo-borghese, lo Herder dà
tuttavia uno sfondo potente: il popolo, il Volk, il quale non solo è
considerato come un concetto elementare e originario, ma è chiamato a
mediare l’arte e la storia, rivissute in funzione di loro elementi primitivi e
selvaggi, in funzione, cioè, di quegli elementi che egli ritiene come gli
strumenti stessi dell’arte e della storia, e in cui ravvisa i caratteri nazionali.
Da qui la grande importanza che in lui assumono le religioni, i costumi, i
canti. Ma soprattutto la lingua, mediante la quale egli collega la nazione e
l’umanità, e nelle cui manifestazioni vede l’attuarsi dell’una e dell’altra.

3. Lingua e nazione

Convinto pertanto che nel linguaggio è la chiave stessa della umanità, lo


Herder si pone anzitutto un problema: che cosa esso sia. Questo è il
problema che lo appassionerà per tutta la sua vita. Nel 1764, in un suo
scritto Über den Fleiss in mehreren gelehrten Sprachen c’è l’abbozzo di
una teoria della monogenesi linguistica. E, oltre tale abbozzo, c’è
l’intenzione di porre la lingua sul piano dei caratteri nazionali. Le sue idee,
comunque, sul problema della lingua troveranno una più concreta
sistemazione nell’Abhandlung über den Ursprung der Sprache, premiato
nel 1771 in un concorso su tale tema bandito dall’Accademia di Berlino. In
tale saggio lo Herder affronta il problema dell’origine della lingua, che egli
fa scaturire da tutto l’essere umano come una necessità della sua più intima
natura. Il linguaggio umano, infatti, com’egli stesso dirà:

«… non è effetto di organizzazione della bocca, perché anche colui che è muto per tutta la vita, se
riflette, ha in sé linguaggio; non è grido della sensazione, perché esso non fu trovato da una macchina
respirante, ma da una creatura riflettente; non è cosa d’imitazione, perché l’imitazione della natura è
un mezzo, e qui si tratta di spiegare il fine; molto meno è convenzione arbitraria: il selvaggio nella
solitudine del bosco avrebbe dovuto creare il linguaggio per se medesimo, quand’anche non lo
avesse parlato. Il linguaggio è l’intesa dell’anima con se stessa, altrettanto necessaria quanto che
l’uomo sia uomo».

Eravamo in un’epoca, in cui il problema del linguaggio costituiva, come


si è ben detto, un πολυθρύλητον della cultura europea. Erano state già
preparate delle grammatiche logiche e generali, dove predominava però
l’idea che il linguaggio fosse una cosa meccanica. Si era discusso sulla
formazione delle lingue (e avevano partecipato soprattutto alla discussione
il Vico e il Lafitau, il Rousseau e il Brosses). Si era ripreso il problema
inerente all’origine umana o divina del linguaggio (dallo stesso Rousseau al
Monboddo). E lo Herder, ritornando su quel problema, se da una parte dava
un avvio concreto alla filologia, dall’altra certo non si può dire che egli sia
riuscito a definire in modo nuovo il linguaggio. Si suole ricorrere al Vico,
per vedere com’egli, in fondo, sia sul suo stesso piano. Il vero è che mentre
il Vico considera il linguaggio umano come già formato, in quanto esso è
una creazione estetica, onde linguaggio e poesia nascono
contemporaneamente; per lo Herder invece il linguaggio nasce da un’intesa
dell’anima con se stessa, nasce cioè dal bisogno che ha l’uomo di
concretare in espressioni il suo pensiero. Lo Hamann, che di contro allo
Herder riteneva il linguaggio di origine divina, nella sua Aesthetica in nuce
non aveva esitato a collegare il linguaggio con la poesia (per quanto egli a
questa identità sia giunto attraverso il Goguet). Con le sue stesse parole:

«La poesia è la lingua madre del genere umano, come il giardinaggio è più antico della agricoltura, la
pittura della scrittura, il canto della declamazione, le parabole delle deduzioni e lo scambio del
commercio».

Nello Herder l’uomo crea però la poesia soltanto dopo aver creato il
linguaggio. La poesia, insomma, è per lui una manifestazione dell’uomo
che cresce su se stesso. Il che non gli impedisce, ed è qui se mai che egli si
avvicina al Vico (per quanto in ciò gli sia stato di guida il Blackwell), di
ritenere che il linguaggio nei popoli primitivi sia la forza poetica per
eccellenza, e che tale forza a sua volta si ritrovi tanto nella poesia quanto
nel canto (l’una e l’altro spesso collegati). Ma la poesia, per essere
veramente tale, non deve essere popolare nel senso che essa – espressione
completa dell’uomo che si fa io e al tempo stesso Popolo – rivela quel che
di primitivo e di selvaggio vi è nella natura umana? Ecco, dunque, per la
prima volta affacciarsi l’idea di un’anima collettiva, intesa a spiegare lo
stesso sviluppo letterario ed artistico. E di quell’anima collettiva ecco
l’espressione più genuina: la poesia popolare.

4. La poesia come poesia popolare


Nei suoi Fragmente, cioè fin dal 1767, lo Herder aveva sostenuto che la
poesia popolare rappresenta nel modo più preciso il carattere di un popolo,
di cui è la più alta espressione. Questa idea venne da lui ripresa nel suo
saggio sull’Ossian. Era il tempo in cui l’Ossian cominciava a conquistare il
mondo. E l’Ossian rappresentava per Herder l’espressione più tipica della
poesia popolare che si oppone alla poesia artificiosa. Era, cioè, una voce
della natura. Si trattava di un concetto che già gli Inglesi avevano intuito.
Ma nello Herder quella voce assume un valore apocalittico. Egli è convinto,
inoltre, che soltanto l’Ossian e i canti dei selvaggi, degli scaldi, le romanze
e i Lieder ecc. possano portare gli stessi poeti tedeschi «su una via
migliore». Né, certo, è senza significato che nello stesso anno esce la
Lenore del Bürger.
Allo Herder che auspicava una poesia nazionale, questa gli si
identificava in quella popolare in quanto, essendo «la parte più genuina e
intatta il popolo, questo doveva essere l’interprete autentico dell’anima
nazionale». Anche il Bürger è dello stesso avviso. Herder, inoltre, nel suo
Ossian concepisce Omero come un poeta di ballate, cioè un poeta popolare,
e seguendo l’abate d’Aubignac, che egli aveva letto, credeva che i canti
omerici fossero stati improvvisati. Bürger ritiene addirittura che tanto
l’Iliade quanto l’Odissea siano dei poemi popolari, formatisi con la raccolta
di vecchie ballate: tesi questa, com’è noto, che sarà ripresa dal Wolf nei
suoi Prolegomena ad Homerum e dal Lachmann nei suoi Über die
ursprünglische Gestalt des Gedichts von der Nibelungen Noth.
La Lenore vuole essere ora un avvio alla scoperta di un nuovo mondo
poetico nazionale – e al tempo stesso il primo esempio di una poesia
tedesca concepita come poesia popolare. La Lenore esce da una saga diffusa
tra i popoli germanici e slavi, di cui il Bürger aveva udito alcuni versi. Il
Lied originario, che era documento di vera poesia popolare, gli si tramuta in
epos. Ed ecco che la sua speranza è quella stessa dello Herder: e che cioè
dalle romanze e dalle ballate possa sorgere un’epopea nazionale. Il che
richiede delle ovvie precisazioni, ove si pensi che non sono gli argomenti
che fanno l’arte ma il modo come essi sono rivissuti, e che l’arte non sarà
mai popolare per i suoi argomenti. La poesia popolare, insomma, può essere
uno stimolo all’artista come ritenevano gli Inglesi. Ma quello stimolo è un
punto di partenza, non d’arrivo.
Nel Bürger come nello Herder si fondevano (e si confondevano) queste
varie proposizioni. In essi, è vero, il concetto di poesia si convertiva in
quello di poesia popolare, onde poeti popolari diventano, in quanto creatori
di una poesia fedele all’anima del popolo cui appartengono, Omero, Dante,
Shakespeare, ecc. Ma da questo concetto non nasceva l’esigenza di
rintracciare gli sparsi motivi delle letterature nazionali e popolari, il che era
un invito allo studio stesso di tali letterature, le quali così venivano
chiamate a spezzare quell’unità culturale che un tempo era stata tenuta dalla
tradizione classica? In base al concetto di poesia, intesa questa come poesia
popolare, non solo si veniva a distinguere la poesia dalla non poesia; ma la
poesia popolare, quella che cioè era vera poesia popolare, si veniva a porre
sullo stesso piano di quella di un Omero, di un Dante, di un Shakespeare
ecc. Cioè: se ne riconosceva la validità estetica. Ma c’è di più: ed è (lo disse
Goethe, e nessuno poteva dirlo meglio di lui) che in quel modo si concepì la
poesia come un patrimonio che appartiene al mondo e ai popoli e non come
un privilegio ereditario e privato di alcuni pochi raffinati e colti. La rivolta
della poesia si è trasformata in rivoluzione. E l’esempio di Percy e dei suoi
predecessori si trasforma in grido di battaglia.

5. Voci dei popoli

La raccolta dei Lieder diveniva, in tal modo, un dovere di carattere


nazionale. Il Bürger, che aveva cara la raccolta del Percy, aveva
raccomandato ai suoi connazionali l’impegno di salvare il patrimonio più
sincero che essi possedessero. Due anni dopo, egli in una raccolta dei suoi
poemi vi include, tradotte, alcune ballate inglesi pubblicate dal Percy. Il
Goethe, che nel Werther esalterà Ossian, il quale nel suo cuore ha preso il
posto di Omero, in una lettera che invia nel novembre del 1777 a Charlotte
von Stein, si entusiasma per la silenziosa virtù dei contadini dello Harz, di
«questa classe di uomini che si chiama inferiore, ma che invece per Dio è
certo la più alta». Né egli, più tardi, disdegnerà di raccogliere
personalmente i canti popolari dell’Alsazia.
Ma su queste e altrettali voci si fa sentire, potente, quella dello Herder.
Nessuno come lui sa l’importanza che ha il canto popolare, il Lied, il vero
canto popolare. E, in proposito, fresche e originali rimangono le
osservazioni che egli ci ha lasciato, ad esempio, nel suo saggio, edito nel
1777, Von Ähnlichkeit der mittlern englischen und deutschen Dichtkunst,
sulla natura e sull’ufficio della letteratura popolare:

«I canti popolari, le fiabe, le leggende… sono sotto un certo aspetto il risultato delle credenze di un
popolo, della sua sensibilità, delle sue facoltà, del suo sforzo: si crede poiché non si sa, si sogna
perché non si vede, ci si agita con la propria anima, intera, semplice, e non ancora sviluppata. Vi è
qui un grande argomento per lo storico dell’umanità, per il poeta, per il critico, per il filologo.
L’antica mitologia germanica nella misura in cui essa vive ancora nella tradizione e nei canti
popolari, accolta con semplicità e contemplata con animo sereno, sarà realmente un tesoro per il
poeta e per il difensore del proprio popolo, per il moralista e per il filosofo… Tutti i popoli non
civilizzati cantano ed agiscono; i loro canti sono gli archivi del popolo, il tesoro della sua scienza e
della sua religione, della sua teogonia e della cosmogonia, dei fatti dei suoi antenati e degli
avvenimenti della sua propria esistenza, il riflesso del suo cuore, l’immagine della sua vita
domestica, nel dolore e nella gioia, dalla culla alla bara. Una piccola raccolta di simili canti, tolti
dalle labbra di ciascun popolo e nel suo proprio linguaggio, ben compresi, ben esposti, accompagnati
dalla relativa musica: ecco che noi daremo delle conoscenze più precise di quei popoli del cicaleccio
dei viaggiatori».

E lo Herder, com’è noto, fece di tutto per dare alla Germania un’opera
che potesse stare accanto alle Reliques. Lo aiutarono Bürger, Goethe,
Lessing. Il suo piano fallì, perché i Lieder raccolti furono pochi e tali da
non legittimare l’opera che egli si proponeva di compiere. Ma in cambio lo
Herder ci diede, in due volumi, una raccolta di canti popolari provenienti da
nazioni e luoghi diversi. Le nazioni maggiormente rappresentate sono
l’Inghilterra con le Reliques raccolte dal Ramsay e dal Percy e la Spagna
con le romanze tratte soprattutto dal Cancionero de Romances. Non
mancano, però, poeti che certo non sono (per noi) popolari: come, ad
esempio, il Chiabrera e il Meli che rappresentano la poesia popolare italiana
insieme a un antico inno religioso. Né mancano con l’Ossian pagine
dell’Edda. I Volkslieder uscirono dal 1778 al 1779, e in essi lo Herder
rimane fermo al concetto di poesia popolare intesa come poesia nazionale.
Dice infatti Herder: «È fuor di dubbio che la poesia e specialmente il Lied
siano stati in principio di tono assolutamente popolare, vale a dire lievi,
semplici, tutte cose ed espressioni nella lingua della moltitudine comune
della ricca e a tutti sensibile natura». E tale natura gli si dispiega in quella
stessa poesia d’arte, quand’essa sa rendere con freschezza la maniera
popolare. Ecco dunque la poesia: vera e autentica voce del genere umano.
Nessuna voce gli è ignota, tutte entrano nel suo cuore e dal suo cuore
escono come una sinfonia. Si sa bene quel che sono le traduzioni:
commenti, pretesti, sfoghi; ma le traduzioni dello Herder sono bellissime,
perché quasi sempre egli trova il tono giusto. Anche Chevy Chase indossa
abiti stranieri. E li porta bene. I Volkslieder sono Stimmen der Völker, come
li chiamerà Jean de Müller (il quale, nel 1807, ne curò, con quest’ultimo
titolo, una buona edizione). Così, del resto, li aveva intesi lo Herder. Il che
significava che i canti, se da una parte avevano un fondo comune
all’umanità, dall’altra conservavano anche un loro carattere. E qui, nei
Volkslieder, sembravano acquetarsi le ansie stesse dello Herder, nel quale il
concetto della nazione e del cosmopolitismo in tanto accusa la stessa
origine, in quanto lo Herder vedeva le nazioni così come vedeva i canti
popolari: come patrie, cioè, unite nel sentimento stesso dell’umanità che
tutte le comprende. E qui è la chiave per comprendere l’opera dello Herder,
il quale, nel dare rilievo alla poesia popolare come a una voce che sia
universale (per il suo fondo) e nazionale (per le sue varie articolazioni),
metteva in moto la stessa idea che lo aveva guidato nello studio del
linguaggio, onde linguaggio, poesia e nazione vanno da lui considerati, per
usare un’espressione del Cassirer, come un’unità che si attua nella totalità
del molteplice.

6. Voci di Dio

Nella sua Romantische Schule, Heinrich Heine osserva che lo Herder


considerava l’intera umanità come una grande arpa nella mano del gran
Maestro (Dio), mentre ciascun popolo gli appariva come una corda, avente
una destinazione particolare, di quella arpa gigantesca. Il fatto è che noi, a
questo proposito, dobbiamo distinguere due Herder: il primo, quello delle
«selve» e dei «fogli volanti», che è quanto dire lo Herder il quale sostiene
l’origine umana del linguaggio; e l’altro, il secondo, il quale rifiuta, direi
quasi spaventato, quella idea che pure era stata al centro della sua
speculazione. Fin dal 1774, infatti, nel suo saggio Auch eine Philosophie
der Geschichte zur Bildung der Menscheit, sente che la sua teoria
sull’origine del linguaggio non è che un peccato di superbia. Ripiega quindi
su se stesso. E in quel ripiegamento incontra Dio.
Di grande importanza, in questa conversione, sono altri due suoi saggi. Il
primo è intitolato Briefe, das Studium der Theologie betreffend, ed è del
1780. L’altro, più ampio ma incompleto, porta il titolo Vom Geist der
Ebräischen Poesie, ed è del 1783. È noto che Madame de Staël considera
quest’ultimo lavoro come l’opera più felice e più appassionante dello
Herder, anche perché in esso si attua il tentativo di una storia letteraria
nazionale della poesia ebraica. Allo Herder, e qui siamo sempre però al
primo Herder, la Bibbia non appare come un poderoso trattato teologico, ma
come una raccolta di saghe dove si invera, intero, lo spirito religioso di un
popolo. Lo Herder conosce e apprezza Lowth, che in quelle saghe aveva
intuito il carattere di un sano primitivismo. Ma laddove il Lowth si atteneva
alla Sacra Scrittura nel senso più rigido, lo Herder non esita a vedere favole
immaginose, tanto è vero, ad esempio, che per lui le vicende di Adamo ed
Eva costituiscono «il più caro racconto per fanciulli sull’origine della specie
umana». Lo Herder aveva cercato di creare nello Studium der Theologie,
«un’archeologia dell’Oriente», analoga in fondo, com’è stato notato, alla
scienza dell’antichità classica, creata dal suo amico Christian Heyne, il
quale spingeva lo studio di quell’antichità tra i selvaggi di Padre Lafitau e
dei missionari, allo scopo di intendere la vita degli antichi Greci. Lo Herder
è appunto sullo stesso piano. Egli vuole che la Bibbia, questo libro divino,
venga studiato come un libro scritto da uomini per uomini. In altre parole:
della Bibbia egli, come ben nota l’Antoni, fa una storia poetica nazionale,
mentre, bisogna aggiungere, la religione gli si dispiega come un linguaggio
poetico. Ma affinché una tale riduzione non significasse una profanazione,
occorreva che la storia stessa delle nazioni acquistasse dignità di storia
sacra, si elevasse colma di contenuto divino sul piano della Rivelazione. La
nazione, nella sua chiusa individualità, doveva essere perciò inserita in un
ordine universale. E qui c’è già il secondo Herder. Gli era stato caro
Shaftesbury col suo panteismo. Ora egli è, se mai, vicino a un Bossuet. Ed è
con tale spirito che egli scriverà appunto le sue Ideen zur Philosophie der
Geschichte der Menscheit, che vogliono completare la costruzione già
iniziata nell’Auch eine Philosophie.

7. Le Ideen e il loro significato

Nelle Ideen, pertanto, quel che domina non è l’uomo artefice di se stesso
e della sua storia. All’uomo si è sostituito definitivamente Dio. Lo Herder
sente, con questa nuova sua opera, di dar fondamento a tutto il sapere
umano. E le Ideen, sotto questo aspetto, ci richiamano spesso l’Essai di
Voltaire. Ma il suo è un nuovo ampio Essai, dove le idee del Voltaire (e
degli illuministi) sono in gran parte capovolte, tanto è vero che per lo
Herder un popolo non è un agglomerato di individui separati, bensì un’unità
spirituale in base alla quale i suoi componenti esistono; mentre ciascuna
civiltà non è un’unità astratta, bensì «un bene particolare che è, dovunque,
qualcosa di organico, frutto del clima, della tradizione e degli usi». Il che
richiede una precisazione. Nelle Ideen, infatti, lo Herder non solo sostiene
che la religione è la tradizione più antica e la più santa della terra, non solo
sostiene che la civiltà e la scienza non sono in origine che delle tradizioni
religiose, ma sostiene altresì che il sentimento religioso è anteriore alla
stessa logica e alla stessa ragione. È vero, dunque, che egli vede la storia
dell’umanità come una «pura storia naturale» delle forze e delle tendenze
umane che operano secondo i luoghi e i tempi; ed è vero che, in tal modo,
egli dà il carattere di tradizione non solo alla religione ma anche alla lingua,
alla poesia, alle arti, ecc.; ma ove vogliamo comprendere il secondo Herder,
bisogna che noi vediamo di quale significato egli riempia la parola natura.
Nessuno, dice egli stesso, confonda l’uso che io faccio della parola natura.
La natura non è un essere per sé stante, ma è Dio tutto intero nelle sue
opere. E aggiunge che, se a qualcuno sembra che la parola natura sia stata
parafrasata e spogliata di ogni senso da molti scrittori contemporanei, la
sostituisca egli, nel suo pensiero, con quelle di onnipotenza, di bontà, di
saggezza, e dica dentro l’anima sua il nome dell’essere invisibile che
nessuna lingua terrestre riesce a esprimere.
Lo Herder vede dappertutto, in tutto il mondo, non soltanto degli uomini
che creano la loro civiltà e la loro storia, ma, come egli stesso dice, degli
Hommes de Dieu. Questa la ragione per cui egli considera la storia stessa
dell’umanità come un insegnamento cui deve ricorrere il genere umano.
Egli crede in uno sviluppo progressivo, cui, secondo luoghi e tempi, va
soggetta l’umanità; non si nasconde, sotto l’influsso del Montesquieu,
l’efficacia che il clima può avere sulla tradizione; ma il suo ideale non è
quello illuministico, tanto è vero che il suo concetto inerente allo sviluppo
progressivo non si riempie di una ragione matematica e astratta, ma di un
valore, comunque esso sia concepito, schiettamente storico (il che lo
avvicina al Lessing, il quale riteneva che la mèta cui tende il processo
storico è quella appunto dell’umanità).
Anche nelle Ideen lo Herder non ha idee preconcette sui cosiddetti
popoli di natura, che egli considererà né più né meno come tutti gli altri
popoli. È dell’avviso che il selvaggio, avendo una sua lingua e una sua
organizzazione, ha come noi una civiltà. La sua legislazione gli appare
addirittura un’opera d’arte. Né esita, inoltre, a porre il selvaggio «al di sopra
del moderno Europeo dal cuore fangoso e dal grugno cosmopolitico». E qui
c’è, ancora, la vecchia polemica sociale del selvaggio contrapposto al civile.
Non dà il minimo peso al colore degli uomini. Tutti i popoli sono da lui
affratellati in nome della tradizione, com’egli la concepisce. Il
cosmopolitismo degli illuministi si trasforma in lui in un sereno
umanitarismo. Nel sentimento dell’umanità anche egli cercherà l’umanità
stessa. E negli ampi quadri che dipinge, portandoci fra i popoli più
disparati, sempre preoccupato più a giustificare che a condannare, egli non
solo rivendica la forza della tradizione, la quale in tanto ha un suo valore in
quanto cambia col tempo e nel tempo, ma la immette nella storia e ne fa la
storia.
In un suo lavoro, che si proponeva di presentare a Caterina di Russia,
inteso a determinare gli elementi della civiltà di un popolo aveva scritto:
«Per l’amore del cielo, che tutto non divenga legge scritta, ma sia impulso
vivente, consuetudine, natura». C’era, in queste parole, l’eco
dell’insegnamento del Möser. Ma quell’insegnamento vibra nel corpo stesso
delle Ideen, dove, forse per la prima volta, le costumanze dei popoli sono
chiamate ad affratellare i popoli stessi. In lui la teologia si veniva
trasformando in una antropologia educativa. Ma il filosofo che non voleva
riconoscere nessuna superiorità di un popolo rispetto all’altro, cadrà
purtroppo nell’idoleggiamento di una missione tedesca. Le voci di popoli
son diventate voci di Dio. Ma Dio – ed è qui il limite dello Herder – si farà
tedesco, tanto è vero che fra i vari miti da lui creati c’è quello del
ringiovanimento del mondo antico ad opera dei popoli germanici, poiché in
essi si nascondevano non solamente delle forze intatte, ma anche dei
costumi «selvaggi, forti e buoni». Si giungeva, in tal modo, al
nazionalismo, parola che è stata foggiata da lui. E quel nazionalismo che
viveva nel proprio e del proprio passato si ammantava di un esotismo che lo
rendeva più affascinante e più selvaggio. L’arpa aveva lasciato cadere la sua
teutonica corda. E quella corda si era trasformata essa stessa in arpa, per
quanto lo Herder ammonisca decisamente che una patria, quale che essa sia,
debba vivere immacolata da ogni peccato di politica, perché la pace e non la
guerra è lo stato dell’umanità, la quale non può ammettere «lotte cruente di
patria contro patria».

8. L’umanità in rivolta

Le Ideen dello Herder uscirono fra il 1784 e il 1791. Nel frattempo


scoppia la Rivoluzione francese. Alcuni anni prima lo Herder aveva
predetto: «Germinano dovunque Libertà, Socialità, Uguaglianza, e gli
inferiori salgono al posto degli avvizziti, inutili e orgogliosi aristocratici».
Ma di fronte alla Rivoluzione che immette nella politica e nella storia i ceti
inferiori, cui era andata tutta la sua simpatia, rimane atterrito. E nel 1794,
anzi, nei Briefe zur Beförderung der Humanität non solo afferma che ormai
si è al margine di un abisso, ma impreca addirittura contro gli orrori di
quella Rivoluzione che invece era apparsa a un Kant, a un Hegel e a un
Goethe come l’avvento di una nuova èra.
Lo Herder così, dunque, come non aveva inteso lo spirito rivoluzionario
del Rousseau, non intende ora lo spirito della Rivoluzione. O meglio, ne
intende i lati negativi. L’importanza che assumeva nella storia della civiltà
europea la dichiarazione dei diritti dell’uomo gli sfugge. Né sa vedere
quello che è lo spirito nuovo della Rivoluzione nei riguardi di quelle «voci
dei popoli» che erano state care al suo cuore. È vero, infatti, che la
Rivoluzione francese è piena di infatuazioni contro la religione cattolica, il
che spaventa il teologo Herder; è vero che, davanti ai suoi altari, cadono i
paramenti stessi della Chiesa; ma qual è lo spirito di quella distruzione? In
un decreto del Comitato di Salute Pubblica è esplicitamente detto che il
popolo deve distruggere, ormai, le sue abitudini e i suoi pregiudizi. Ed ecco
che la Rivoluzione vuole distruggere appunto quelle abitudini e quei
pregiudizi che sono collegati a tutte le attività di carattere religioso. È
questo il momento in cui tutto il Cattolicismo fu posto in quella stessa
posizione in cui i teologi avevano posto le credenze, gli atti e i costumi
ritenuti come avanzi del paganesimo. La rivoluzione vuole però anch’essa
la sua religione, i suoi miti e i suoi simboli. Ma in quei miti e in quei
simboli non ritornano i culti e i miti stessi del popolo? Così, durante la
Rivoluzione, Guglielmo Tell diviene, ad esempio, il precursore degli
immortali principi dell’89. E a cominciare dall’anno dopo, l’albero della
libertà non sarà costituito, appunto, da quell’albero di Maggio attorno a cui
si muovono le allegre brigate primaverili?
Nello stesso anno, nel 1790 cioè, apparve, un giorno, davanti
all’Assemblea un bizzarro corteo dove si vedono i rappresentanti di tutte le
nazioni, un Cinese, uno Spagnuolo, un Inglese, un Austriaco, un Negro, e
perfino un Caldeo, con a capo il barone alsaziano Anacharsis Cloots. È stata
chiamata una mascherata. Ma quel corteo che cosa voleva essere se non il
simbolo stesso del genere umano, dell’umanità, che veniva in Francia per
poter partecipare alla festa della libertà e della fratellanza? Anche il
selvaggio, nato libero ma reso schiavo dalle conquiste coloniali, doveva
ritornare ormai quel che era stato. Si spezzino dunque, nel nome di
Rousseau, le catene. E la religione si temperi nei culti della Rivoluzione!
Bisogna tuttavia osservare che in un documento della Rivoluzione,
riportato dal Groethuysen, si legge: «Ecco come parlano ai loro
parrocchiani i degni pastori: – Ahimè, fratelli, dicon loro nell’amarezza del
loro animo, nelle città non vi è più fede né religione; sforziamoci dunque di
conservare nelle nostre campagne questo sacro deposito affidatoci da Dio».
Sicché la religione cattolica non appare più ormai come uno strumento di
dominio della classe feudale, in quanto tale classe è stata distrutta. Ritorni,
quindi, essa alle sue origini. E la Rivoluzione stessa del resto che cos’era
stata se non un’azione che, in nome di un principio umano, aveva adottato
gli insegnamenti morali della Chiesa, cancellando il diritto feudale e
creando il suffragio universale?
In tal modo la Rivoluzione francese aveva unito la borghesia e il popolo.
E in quella unione che comporta una comune eguaglianza civile e politica,
la borghesia non può più assumere verso il popolo l’atteggiamento di un
Voltaire. Il popolo, il ceto dei contadini e degli operai, aveva fatto con la
borghesia la Rivoluzione. Era stato lanciato in prima linea, dove aveva
dimostrato che le cosiddette forze irrazionali valgono tanto quanto quelle
della ragione, poiché nelle une e nelle altre è l’uomo intero, il quale può
dare alle sue tradizioni un nuovo significato, ma non mai cancellarle dal suo
spirito, dato che esse sono parte della sua stessa umanità. La ragione voleva
controllare gli impulsi di tutto ciò a cui si crede e che si sogna. La
Rivoluzione francese aveva dimostrato che bisogna credere anche ciò che si
sogna.
Nella Rivoluzione si erano acquietate le ansie e le aspirazioni di ceti fino
allora disprezzati. E qui è uno dei più grandi meriti di essa. La Rivoluzione
non convoglia soltanto i filoni dell’Illuminismo. In essa, sia pure
indirettamente, agiscono, prepotenti, i filoni stessi del Protoromanticismo.
Ed ecco allora una nuova epoca, nella quale, se da una parte il popolo
continuerà a essere un simbolo politico-sociale, dall’altra la sua vita sarà
oggetto di una nuova ed efficace problematica. È tempo ormai che ci si
avvicini al popolo non più come a una classe inferiore, il cui patrimonio è
da considerare soltanto un sottoprodotto. La via è aperta. E il bon sauvage è
diventato ormai il bon peuple.
Parte terza
Il folklore come strumento di politica e di dignità nazionale nel
Romanticismo
11. Umanità della Germania

1. Il «tesoro dell’umanità»

Destinato sempre più a trasformarsi in una forza culturale e politica il


mito del bon peuple, collegato a quello delle origini nazionali, assume un
aspetto particolare in Germania durante il Romanticismo. Si afferma che in
Germania la prima generazione dei romantici, la generazione di un Novalis,
di un Tieck, dei fratelli Schlegel ebbe meno importanza per la germinazione
del pensiero herderiano inerente al folklore, di quanto invece ne abbia avuto
la seconda inaugurata da Arnim e Brentano. Ma è questa una tesi che si
possa completamente accettare?
Bisogna anzitutto osservare che anche il Romanticismo tedesco si pone
per antitesi polemica contro l’Illuminismo. Nel formulare pertanto, di
recente, una netta distinzione tra i due movimenti, il Cassirer ebbe ad
affermare che fra essi v’è un profondo iato per quanto riguarda la storia. I
romantici, secondo il Cassirer, amano il passato per il passato, che per loro
non è un fatto ma uno degli ideali più alti, tanto è vero che per essi ogni
cosa diventa comprensibile non appena si possa far risalire alle proprie
origini, mentre questo atteggiamento era del tutto ignoto ai pensatori del
secolo XVIII, che, preoccupati com’erano dell’avvenire dell’umanità e
quindi della nascita di un ordine nuovo, consideravano lo studio della storia
come necessario, ma non come fine a se stesso.
È vero però che per i romantici la storia e l’arte si riempiono di quei
significati che l’Illuminismo aveva respinto; ed è vero altresì che i
romantici torneranno tanto sui luoghi (Oriente, Grecia) quanto sugli eventi
(Cristianesimo, Medioevo) su cui si era già rivolta l’indagine degli
illuministi; ma quali sono le effettive ragioni di questi loro interessi? I
romantici amano in fondo ciò che gli illuministi avevano odiato, almeno
prima che si giungesse alla Rivoluzione francese. Ma in questo loro amore,
se il passato è la cima del monte da cui essi guardano il mondo, il monte è
costituito dal proprio passato, a cui essi si rivolgono come a un ideale
rifugio che ha valore universale. Il passato, per i romantici, non è quindi
soltanto contemplazione di epoche lontane, ma insegnamento per
l’avvenire; e in quell’avvenire è impegnato tutto il senso della loro umanità,
la quale, ricercando le proprie origini, non può non incontrarsi con i miti
che si inverano nelle tradizioni popolari, di cui si erano già interessati, con
spiccata simpatia, i preromantici.
Erano stati i preromantici inglesi, scoperti e ammirati dallo Herder, dal
Goethe e dal Bürger, a porre la loro attenzione sulla poesia popolare dove
ritrovarono, in gran parte, il loro bel Medioevo. Ma i Märchen, si
domanderanno i romantici tedeschi, non sono anch’essi, come aveva
ammonito lo stesso Herder, poesia popolare? E quel concetto di poesia,
applicato in genere all’arte, non darà vita a una nuova e decisiva reazione
contro l’estetica classicistica, di cui l’ultimo esponente era il Nicolai?
La Volkspoesie, a dire il vero, è per i romantici tedeschi – e questo è un
passo avanti rispetto ai preromantici – la decisiva scoperta che essi
compiono dell’anima moderna, dove ravvisano quel senso di infinito che è
pervaso di mistero e che lo distingue dal mondo classico che è il mondo del
finito. E qui, in questa scoperta, si nasconde la rinnovata esigenza di
valorizzare il Lied e il Märchen, quali vivono in mezzo al popolo, che è la
genuina voce dell’umanità.
Nel nome di questa umanità i primi romantici auspicano appunto un
mondo migliore. E in ciò essi raccolgono le stesse istanze degli illuministi.
Ma in questo mondo quale parte verrà assumendo la Germania? E il
germanesimo, già in nuce nell’opera di un Lessing o di un Herder, non ha
nei primi romantici una formazione la quale, letteraria quanto si voglia,
accusa nel suo seno quello spirito nazionale che, come sosteneva la filosofia
idealista del tempo, (si pensi soprattutto ai lavori giovanili dello Hegel)
costituiva il tesoro di tutta l’umanità?

2. Novalis, il Medioevo tedesco, e il Märchen

Notevole è in proposito l’atteggiamento di uno dei primi romantici, il


Novalis, il quale era convinto che il germanesimo, come la grecità, la
romanità, l’anglicità, non è limitato a uno stato particolare, perché esso
comprende dei caratteri particolari universali. In una lettera che scrisse nel
1797 ad A. W. Schlegel egli osserva: «Germanesimo è cosmopolitismo
unito all’individualità più spiccata». E ciò evidentemente significava che il
Novalis, come lo Herder, riempiva del concetto di umanità tanto il
germanesimo quanto il cosmopolitismo. Il che era appunto l’opinione di
quel gruppo che si riuniva attorno allo Schiller e allo Humboldt: solo, come
osserva il Meinecke, che il Novalis seppe dare a questo concetto una nuova
colorazione romantica.
Né meno romantica è nel Novalis la colorazione che egli ci dà del
Medioevo, come appunto ci dimostra il suo saggio, edito nel 1799, Die
Christenheit oder Europa, dove troviamo un rapido ma incisivo abbozzo
della cultura cristiana dell’Europa, che era e voleva essere un programma
per l’avvenire. In tale programma, il Novalis, in opposizione alla riforma
luterana, ci parla con accenti commossi della religione cristiana o meglio
della cristianità; ne gusta, direi, i valori mitici ed estetici, ma si augura che
la cristianità prepari una nuova èra in cui ritorni un Medioevo cattolico
rinnovato nelle sue forme, foriero di quella pace perpetua che era stata
auspicata dallo Herder. Il Novalis non nasconde infine la passione per
l’Oriente e soprattutto per l’India. Ma che cosa è per lui il lontano Oriente
se non la luce che deve riscaldare il romantico?
L’amore per il passato, e nel caso specifico per la società cristiana
medievale, è tutt’altro, dunque, nel Novalis che fine a se stesso. La
posizione illuministica di fronte ai valori della tradizione cristiana è in lui
certo capovolta, e perciò la storia stessa del Cristianesimo assume una
nuova luce; ma nel rivalutare il Medioevo dandogli quei caratteri di nobiltà
che l’Illuminismo gli aveva negato, egli non è sulle orme dei preromantici?
Considerato il Medioevo come epoca di cristianità, anzi come l’epoca
ideale della cristianità che in Germania aveva acquistato il suo splendore, è
ovvio osservare che il Novalis aveva avuto l’intuizione romantica, per usare
una felice espressione del Walzel, non solo del Medioevo, ma anche del
Germanesimo. Nel concepire questa fusione, egli fu stimolato da una parte
dallo Schleiermacher e dall’altra dal Wackenroder. Il primo, soprattutto con
il suo lavoro Über die Religion, gli aveva insegnato che la religione è un
sentimento universale che l’uomo trova ed accoglie quando trova ed
accoglie in sé l’infinito; e ciò gli farà scoprire il lato simbolico di quel
Cristianesimo che, fra i protestanti, soltanto Jakob Böhme, cui il Novalis
rende omaggio, aveva compreso. Ma gli aveva anche insegnato, insieme
allo Schiller e al Fichte, che «dalla primitiva monotona Armonia si procede
alla Disarmonia per procedere infine a una Totalità». L’armonia era allora
ricercata nella Grecia. Il Novalis sostituirà alla Grecia il Medioevo tedesco,
la cui disgregazione per altro fu necessaria per lo sviluppo della civiltà. Il
Wackenroder invece lo aveva avvicinato non solo al gotico che in Germania
era stato scoperto dal Goethe, ma anche all’antica letteratura tedesca.
In base a questi insegnamenti il Novalis si preoccupa perciò di formulare
i principi di quella nuova arte e di quella nuova poesia cui deve dar vita il
romantico; ed ecco che tale arte, tale poesia, gli si dispiega come un
linguaggio fatto di simboli, di geroglifici, di riti. Di tale linguaggio
l’espressione più tipica è per lui il Märchen:

«… è come una visione nel sogno, priva di coerenza. Essa è un insieme di cose e di avvenimenti
straordinari, come, ad esempio, una fantasia musicale, gli accordi armonici di un’arpa eolia, la stessa
natura… Tutta la natura deve essere mescolata in un modo meraviglioso con lo spirito mondiale;
deve essere il tempo dell’anarchia generale, della mancanza di leggi, della libertà, dello stato naturale
della natura, del tempo anteriore al mondo… Il mondo della favola è il mondo completamente
opposto a quello della verità, e appunto perciò è ad essa tanto simile, quanto il caos alla creazione
perfetta» (Fragmente, nn. 414-415).

Né è senza significato che il Novalis abbia animato la trama dei suoi


romanzi, come, ad esempio, l’Heinrich von Ofterdingen e i Lehrlinge zu
Sais con dei Märchen, alcuni dei quali furono da lui isolatamente rielaborati
con finezza di gusto. Ricordate Fiorellin di rosa: «Viveva in tempi lontani,
verso Occidente, un giovane molto buono, ma pure molto stravagante». E il
mondo dei Märchen ritorna come un sogno veramente vissuto.

3. Tieck e l’antica letteratura tedesca

Gli stessi interessi del Novalis furono pienamente condivisi da altro


delicato poeta, Johann Ludwig Tieck, che aveva già fatto apprezzare al
Novalis il Wackenroder. Dal Wackenroder il Tieck trasse infatti l’amore per
l’antica letteratura tedesca che era già stata preminente nello Herder, di cui
è noto altresì l’amore per i Lieder e i Märchen.
«In una regione dell’Harz abitava un cavaliere comunemente chiamato il
biondo Erberto». Così comincia il Blonde Eckbert. E in Eckart invece, dopo
aver riportato un vecchio Lied che narra del nobil duca di Borgogna,
aggiunge: «La voce di un vecchio contadino che narrava questa cosa si
percoteva all’intorno fra le rocce». È il mondo incantato del Märchen e del
Lied che gli si dispiega in un’atmosfera di estasi e di sogno. E il Tieck
rielabora con gusto i vecchi motivi di quella letteratura popolare dove egli
trova le fonti stesse della poesia – come già avevano fatto, sia pure con altri
scopi, il Basile e il Perrault –, e in esse la stessa concezione romantica che
egli ha della vita.
Questa concezione, osserva il Walzel, può essere fissata in una formula
che rimane costante in lui: e cioè che «tra l’uomo e la natura non esiste
nessun muro divisorio che sia insuperabile: nella natura domina un’attività
sentimentale che è affine a quella dell’uomo, nell’uomo vive un pezzo di
natura». E il Märchen diventa poesia, anzi contemplazione della poesia.
Era intenzione del Tieck, appunto per soddisfare questo suo amore per la
poesia, pubblicare dei vecchi testi tedeschi, tanto è vero che egli pensava,
tra l’altro, di modernizzare i Nibelunghi. Ma di questi suoi progetti non ci
rimane che il lavoro sui Minnelieder aus dem schwäbischen Zeitalter, che
egli pubblicò nel 1803. Di essi ci avevano già dato un’edizione paleografica
il Bodmer e il Breitinger; ma quell’edizione non era maneggevole, destinata
come era agli studiosi. Il Tieck volle invece dare ai suoi contemporanei un
testo ammodernato. E la sua, pertanto, non è che una scelta dei Minnelieder,
i quali a suo modo di vedere rispecchiano «una delle epoche più serene,
delle più nobili e delle più luminose del Medioevo». Il che egli cerca di
dimostrare nella sua lunga prefazione dove è l’interesse vivo del libro, se si
pensa che in essa il Tieck non solo considera la poesia come la più alta
espressione dell’animo umano, ma considera altresì la poesia medievale
come la poesia romantica per eccellenza.

4. La poesia dei Minnelieder


Posta in questo quadro che egli illumina con la rapida trattazione di tutta
la letteratura del Medioevo, la poesia dei Minnelieder viene considerata
come una poesia congeniale alla vita collettiva, dove la nobiltà e il popolo
sono una sola cosa. I Minnelieder, egli aggiunge, hanno, è vero, dei modelli
provenzali; ma così come i preromantici hanno tratto dall’oblio poeti come
Shakespeare e Milton, riconsegnandoli al patrimonio dell’umanità, non
conviene ora fare lo stesso con le vecchie epopee alemanne, di cui, ad
esempio, i Nibelunghi sono un’espressione perfetta? Egli paragona i
Nibelunghi all’Odissea e all’Iliade. Ritiene – l’insegnamento del Wolf era
vivo – che tutti quei poemi non possono avere un autore unico. Confronta le
epopee eroiche coi poemi cavaliereschi di Artù; considera questi ultimi
come una forma tardiva adattata; ma le une e gli altri, egli conclude,
riposano su un medesimo fondo; ed è questo fondo che ha dato origine a un
grande organismo poetico che si è sparso per tutta l’Europa, unendo la
mitologia del Nord con le favole meravigliose dell’Oriente. La cavalleria,
egli infatti scrive:

«… univa allora tutte le nazioni d’Europa, i cavalieri andavano dai più lontani paesi del Settentrione
fino alla Spagna e all’Italia, le Crociate resero questa unione ancora più stretta e diedero origine a
mirabili rapporti fra l’Oriente e l’Occidente; dal Settentrione e dall’Oriente venivano leggende che si
confondevano con quelle locali, grandi avvenimenti di guerra, corti splendide, principi e imperatori
che avevano il gusto della poesia, una Chiesa trionfante che canonizzava gli eroi: tutte quelle
favorevoli circostanze si collegavano per creare alla libera nobiltà indipendente e alla ricca borghesia
una vita splendida, nella quale le ridestatesi aspirazioni spontaneamente si sposano con la Poesia, per
riconoscere con maggiore chiarezza e purità la realtà circostante che in essa si rispecchia. Credenti
cantavano della fede e dei suoi miracoli, amanti dell’amore, cavalieri descrivevano imprese e lotte
cavalieresche, e cavalieri pieni di amore e di fede erano i loro eletti uditori».
Il Tieck non solo rivalutava così l’epopea nazionale della sua Germania,
dove, a suo avviso, era la fonte della lingua nazionale, ma creava un suo
Medioevo. Il Medioevo tedesco, certo, è ben diverso da quel che egli
dipinge; ma è proprio dei romantici trasfigurare tutto ciò che è lontano nel
tempo. La prefazione dei Minnelieder, d’altro lato, non vuole essere
soltanto l’esaltazione del Medioevo tedesco; essa è la giustificazione della
stessa opera poetica del Tieck, che, non bisogna dimenticarlo, rivaluta con
la poesia i valori (Medioevo, Cristianesimo, folklore) della vecchia
Germania. La sua Genoveva, tratta da una leggenda popolare, è infatti
un’opera drammatica, dove egli sogna il ritorno alle pure fonti del
Cristianesimo, cui l’avevano condotto da una parte la meditazione delle
opere del Böhme e dello Schleiermacher e dall’altra la lettura dei
drammaturghi spagnuoli. Cristianesimo e Medioevo a loro volta sono per
lui quel che erano stati per il Novalis. E in tale apoteosi del Medioevo
tedesco, per quanto non ci sia l’ombra di un interesse politico, è implicito il
riconoscimento della grandezza della Germania.

5. Romanticismo e antichità classica

A differenza di quelli del Novalis e del Tieck i primi interessi di


Friedrich Schlegel furono rivolti all’antichità classica. Egli è, certo, più
filologo di quanto non siano stati il Novalis e il Tieck, ma, come loro, ha il
gusto della cultura. In alcune pagine che scrisse fra il 1795 e il 1798 lo
Schlegel si preoccupò anzitutto di addestrarsi nel campo della filologia. Zur
Philologie si intitolano quelle pagine. E in esse egli parla con ammirazione
dello Herder: «L’amore di Herder per gli antichi, è amore soprattutto per la
civiltà, sia essa progressiva o classica o anche barbarica e perfino
fanciullesca». Esalta F. A. Wolf che gli era stato maestro: «I Prolegomena
di Wolf sono unici nel loro genere grazie allo spirito storico». E animato
com’è da questo spirito osserva: «Insistere sulla filologia naturale». Il che
significava che egli aderiva in pieno al concetto che della filologia
diffondevano allora Christian Heyne e lo stesso Wolf, per merito dei quali la
filologia astratta era diventata la concreta scienza dell’antichità. Aggiunge:
«L’esistenza di una vera filologia è prova della civiltà di un popolo». E
conclude che «se il fine della filologia è la storia, lo storico deve
filosofare».
Questo è in fondo lo scopo della Geschichte der Poesie der Griechen
und Römer, che è del 1798, e dove egli, fra Paltro, sostiene che un popolo
arriva ad avere un suo carattere soltanto: «quando tende all’universalità e
completezza dei propri sviluppi, con senso cosmopolitico e senza rifiutarsi
di ammettere elementi esterni suscettibili di trasformarlo». La Grecia offre a
lui, appunto per questo, lo spettacolo di una vita nazionale. E in ciò egli
accetta l’ammo nimento dello Herder che già fin dai suoi Fragmente über
die neuere deutsche Literatur aveva osservato che così come la Grecia e
l’antica Roma avevano fondato la loro arte e il loro teatro sulle proprie
credenze e sulle proprie tradizioni, allo stesso modo queste dovevano
costituire l’essenza della nuova letteratura tedesca. I preromantici, e con
essi lo Herder, odiarono, si noti bene, il classicismo, ma non odiarono mai i
classici, di cui anzi accoglievano gli ideali. Né diverso era il concetto dello
Humboldt, il quale, anche egli, è portato dallo studio commosso della
Grecia all’intelligenza del fattore nazionale.
Lo Schlegel è sulla stessa via; e a lui, come già allo Herder e allo
Humboldt, è attraverso l’indagine del popolo greco che balenano i desideri
e gli ideali che coltiva per la sua nazione, cui augura uno stato individuale
pervaso di vita nazionale e insieme di universalismo politico, anche se
questo suo universalismo più che con il Medioevo teocratico del Novalis
vuoi conciliarsi con le idee cosmopolitiche della Rivoluzione francese. La
situazione politica degli anni dopo il 1801 lo porta, però, verso una
costruzione politica che concorda pienamente con la rigidezza ecclesiastica
del sistema cattolico; ed è allora che egli, ammiratore e studioso del Böhme
e dello Schleiermacher, farà sue le istanze del Novalis, onde, se pur si
adagia all’ideale romantico di un impero universale, nel seno di
quell’impero egli colloca naturalmente la Germania. In una delle sue Ideen
lo Schlegel afferma:

«Lo spirito degli antichi eroi dell’arte e della scienza tedesca deve restare il nostro, finché rimaniamo
tedeschi. L’artista tedesco o non ha alcun carattere o ha quello di un Albrecht Dürer, di un Keplero, di
un Hans Sachs, di un Lutero, di un Jakob Böhme. E questo carattere è diritto, aperto, solido, preciso e
profondo, e insieme ingenuo e un po’ sgraziato. Solo i Tedeschi hanno come caratteristica nazionale
quella di venerare come divine l’arte e la scienza solo per amore dell’arte e della scienza» (trad.
Santoli, 150).

Caratteristica nazionale, dunque, il rendere onore all’arte e alla scienza,


soprattutto quando sono tedesche. Ma in un frammento del Lyceum c’è di
più: «Nel modello della germanicità che alcuni grandi scopritori patri hanno
costruito non si può biasimare altro che la falsa posizione. Questa
germanicità non giace dietro di noi ma davanti a noi». Ed era come dire:
Germania risorgi con le tue epopee, coi tuoi canti, coi tuoi Lieder, coi tuoi
Märchen e fa’ si che essi diventino carne della tua carne! Né è senza
significato che egli, nel suo saggio su Goethe, considera i Lieder come il
più ricco patrimonio della poesia nazionale.

6. F. Schlegel, fra Oriente e Occidente

È noto inoltre che lo Schlegel fu tra i primi studiosi tedeschi che


affrontarono lo studio dell’Oriente che già era stato caro al cuore dello
Herder. Ma che cos’è per lui questo Oriente? Quali valori media nella
coscienza del suo paese? Nella Gespräch über die Poesie, edita per la prima
volta nell’«Athenaeum» del 1800, lo Schlegel aveva già parlato con accento
commosso dell’epica germanica e dell’influsso che essa ebbe dall’Oriente:

«Coi Germani un’incontaminata pura sorgente di una nuova epica eroica dilagò per l’Europa, e
quando la rude forza della poesia gotica s’incontrò, sotto l’influenza degli arabi, con un’eco delle
leggiadre fiabe orientali, sulla costa meridionale che dà sul Mediterraneo, fiorì una gaia arte di
trovatori di canti soavi e di storie strane; e, ora in quest’ora in quella forma, insieme alla leggenda
sacra latina si diffuse anche la romanza profana che cantava di amore e di armi» (trad. Santoli, 175).

È lo stesso concetto che verrà poi ripreso dal Tieck, ma lo Schlegel non
si ferma a quella constatazione. E convinto com’è che la poesia e la
mitologia siano tutt’una cosa, si augura l’avvento di una nuova mitologia
che colleghi l’antico col moderno:

«La nuova mitologia deve venire tratta dalla più remota profondità dello spirito; deve essere la più
artistica delle opere d’arte perché deve compendiare tutte le altre, un nuovo letto e un nuovo vaso per
la antica eterna primigenia sorgente della poesia… E che altro è la mitologia se non un’espressione
geroglifica della circostante natura in questa trasfigurazione di fantasia e di amore…? Perché non
volete sollevarvi a ravvivare queste splendide figure della grande antichità?… Ma anche le altre
mitologie devono venir ridestate secondo la misura del loro senso profondo, della loro bellezza e
della loro forma per affrettare la nascita della nuova mitologia. Ci fossero i tesori dell’Oriente così
accessibili come quelli dell’antichità! Quale nuova sorgente di poesia potrebbe sgorgarci dall’India,
se alcuni artisti tedeschi, coll’universalità e la profondità del sentire, col genio del tradurre che son
loro propri, possedessero l’occasione di cui una nazione che diviene sempre più ottusa e brutale poco
sa profittare. Nell’Oriente noi dobbiamo cercare ciò ch’è più altamente romantico; e quando potremo
attingere alla fonte, l’apparenza di meridionale ardore, che tanto ora ci attrae nella poesia spagnola, ci
sembrerà forse a sua volta occidentale e modesta» (trad. Santoli, 199).

Lo Schlegel, se ravvisa pertanto nella mitologia la rivelazione della


natura, guarda fin d’allora all’Oriente – e in ciò egli segue il Novalis –
come a un ideale romanticamente poetico. Bisogna tuttavia aspettare il
programma che premise alla sua rivista «Europa» per vedere come egli
considera l’Oriente e soprattutto l’India, cui egli dedicherà nel 1808 il
saggio Über die Sprache und Weisheit der Indier che non solo è un
manifesto di quell’orientalismo, cui già le ricerche del Sacy e dello Jones
avevano aperto nuove vie, ma anche un manifesto dove si annunzia, auspice
il sanscrito, la linguistica storica. Ma, prescindendo da questo saggio (il cui
studio coinvolge problemi di altra natura dei nostri), è nel programma della
rivista «Europa» che egli mette in rapporto l’antichità classica con la
moderna epoca romantica.
Gli Illuministi avevano considerato l’Oriente, e con esso l’India, come
un vivaio di forze da opporre al Cristianesimo. Ma quell’annullamento di se
medesimi che è nel Cristianesimo non si trova, osserverà lo Schlegel,
insieme al materialismo della religione greca nella stessa India? Così,
osserva il Walzel, egli respinge quella divisione tra classico e romantico,
che in un primo momento aveva invece accettata; pensa anzi che un’unione
del classico col romantico sia ben possibile; e conclude che soltanto la
religione cattolica ha fatto suoi lo splendore, la verità e la bellezza poetica
della mitologia e delle consuetudini greche. Ecco perché dall’Oriente
doveva venire una rivoluzione: «Noi non possiamo dimenticare donde c’è
giunta finora ogni religione e ogni mitologia, cioè i principi della vita, le
radici dei concetti». Senonché dove, se non già nel Medioevo tedesco, si
erano fusi – ed ecco di nuovo Novalis – l’eroismo germanico con la Chiesa
romana?

7. A. W. Schlegel e la poesia popolare

Le teorie del Novalis, del Tieck e di Friedrich furono riprese da August


Wilhelm Schlegel, cui si attribuisce, e non a torto, il merito di averle in
buona parte divulgate. Di qui l’importanza che hanno per noi le
Vorlesungen über schöne Literatur und Kunst, dove sono raccolte le lezioni
che tenne a Berlino tra il 1801 e il 1804 (e che bisogna integrare con le
Vorlesungen über dramatische Kunst und Literatur pronunziate a Vienna tra
il 1806 e il 1808).
Lo Schlegel sente anzitutto il valore della storia che gli si spiega come
un infinito progresso. La storia, come per lo Herder, è per lui la filosofia del
genere umano, dove l’individuale accusa sempre la presenza universale. Ed
egli, preoccupato com’è, soprattutto nelle prime Vorlesungen, di stabilire se
sia possibile una storia dell’arte, formula queste premesse: che «nella
creazione degli individui» si deve ravvisare «il segreto che la natura s’è
riservata», ma che tuttavia «in ciascun genio si riflette il genio
dell’umanità», e che in ciò risiede appunto la «magia stessa della storia». È
chiaro che egli fa sua la celebre teoria del genio, su cui tanto si era discusso
nel Settecento; ma è chiaro altrettanto che egli accusa una concezione
panteistica dove la consapevolezza dell’uomo genera la fiducia in se stesso
determinando uno slancio creativo.
Queste teorie gli servono comunque a dare lo sfondo a quella poesia
romantica che egli fin dalle prime Vorlesungen, e precisamente in una
lezione che tenne nel 1803, fa coincidere con lo spirito romantico del
Medioevo. E qui sono evidenti gli influssi del Novalis e del Tieck. Così –
ma questo concetto sarà ripreso e sviluppato nelle seconde Vorlesungen – la
poesia romantica gli appare nettamente distinta dalla classica, in quanto la
poesia romantica è nata, egli dice, nel Medioevo sotto l’influsso del
Cristianesimo, mentre la «qualità del romantico nasce dall’unione dello
spirito nordico con quello cristiano». Né egli tanto nelle prime quanto nelle
seconde Vorlesungen attenua, come si ritiene, il quadro che del Medioevo ci
avevano dato il Novalis e il Tieck. Il Medioevo tedesco anche a lui appare
come la più grande epoca della storia. Nega che le migrazioni germaniche
siano il frutto di un’invasione compiuta da barbari. E qui il termine barbari
assume un ben altro significato di quel che gli avevano dato la storiografia e
la critica dei suoi predecessori.
In questa poetica riabilitazione del Medioevo tedesco si inserisce il
concetto stesso che lo Schlegel manifesta sulla poesia popolare che limita
soltanto a «quei canti che sono stati espressamente creati per le classi
inferiori o nati fra esse». Omaggio al Tieck, commenta il Tonnelat. Ma i
Märchen del Tieck erano mai diventati popolari, o piuttosto non
costituivano l’esempio di una letteratura raffinatissima, tutt’altro che
popolare? È evidente comunque che a lui, almeno qui, non interessa dare
eccessivo peso alla sua intuizione, che stabilisce peraltro due punti
essenziali: che la poesia popolare possa essere fatta dal popolo o per il
popolo. A lui interessa constatare che la Germania non ha una letteratura, se
con questo termine si vuole intendere non un catalogo ma un insieme di
opere dove si riflette un’anima nazionale, e che invece una letteratura così
concepita la possiede soltanto il suo popolo. Basterà ora, egli conclude, che
i Lieder e i Märchen siano toccati da un vero poeta perché possano
riapparire nella loro magnificenza.
Né d’altro lato è senza significato che nelle sue seconde Vorlesungen egli
avverta la necessità di vivificare la poesia tedesca attingendo nuova forza
dalla poesia popolare così come in passato essa era stata rinverdita e
rinvigorita dalla civiltà orientale. Questo era stato il compito che alla nuova
poesia tedesca avevano affidato lo Herder, il Bürger, il Novalis e il Tieck.
Questo il compito che gli affida lo Schlegel, il quale partito alla ricerca di
una definizione da dare al Romanticismo, ci dà, sia pure indirettamente, una
brillante definizione del Germanesimo.

8. Romanticismo e Germanesimo

Ma quale valore ha questo germanesimo nella cultura del tempo e quali


sono i rapporti che esso ha col Romanticismo con cui in fondo coincide,
anche se il Romanticismo ha naturalmente un significato più vasto? In
realtà i primi romantici parlano sempre in nome dell’umanità e dell’Europa.
Ma la terra del loro vivere e del loro sognare è pur sempre implicitamente la
Germania, nella cui civiltà essi finiscono per scoprire gli elementi stessi del
Romanticismo.
È noto che nelle sue linee generali il Romanticismo esalta l’individuo,
l’individualità, la persona umana, il genio; ma non v’è al di sopra delle
singole personalità, ed ecco il germanesimo, la personalità della propria
stirpe, la quale ha la sua lingua, le sue tradizioni, i suoi costumi, che non
sono certo forme astratte, ma momenti dello spirito spontanei e creativi? Il
Romanticismo è inoltre un nuovo modo di intendere la vita in quel che essa
ha di più inquietante, di misterioso, di nostalgico, di assoluto; e fonde
insieme la scienza, la religione, la satira, l’arte, perché più netta risulti la
visione stessa della vita. Il germanesimo, in questa visione, include i valori
della vita tedesca, dell’Urmensch, e trae allora da questa fusione nuove
suggestioni e nuovi miraggi.
Il Romanticismo alimenta la passione e la nostalgia per l’Oriente, che è
la terra della magia, dei sogni, delle favole. Il germanesimo cercherà questa
magia, questi sogni e queste favole in quella sua antica letteratura che,
come la classica, si basa sulle proprie credenze e sulle proprie tradizioni, e
che appunto per questo ci dà la più pura visione di un Medioevo cristiano,
meraviglioso come una risplendente cattedrale gotica. Né diverso è il
significato di quell’amore che un Tieck o gli Schlegel ebbero per le
letterature romanze, dove essi vedono realizzarsi un sogno di poesia.
La poesia appare ai romantici quanto di più alto abbia prodotto lo spirito
umano, ed essi cercano di individuare qual è lo spirito stesso della poesia
romantica che (ove si escluda Friedrich Schlegel, il quale ne fa in un
secondo momento un eterno atteggiamento dello spirito) rintracciano nel
Medioevo cristiano. Il medievale romantico era per lo Herder il
contrapposto dell’antico chiamato a designare la Naturpoesie. I primi
romantici danno a quell’opposizione una corposità vigorosa. Ma intanto
quale poesia più romantica di quella popolare, della poesia che ancor oggi
vive nei Märchen, nei Lieder, nell’anima del popolo?
In tal modo, auspice il germanesimo, il Romanticismo pone in Germania
la sua attenzione in maniera definitiva non solo sulla letteratura del
Medioevo che si vuole risuscitare, ma anche sui Lieder, sui Märchen che ne
sono la diretta continuazione, onde lo studio delle proprie origini andrà
sempre di pari passo con quello delle tradizioni popolari viventi. E queste,
cui si era già rivolta la penetrante attenzione di un Vico, di un Rousseau, di
un Möser ecc., ecco che saranno considerate non soltanto come forme
storiche di arte o di pensiero, ma anche, e soprattutto, come fattori di
dignità nazionale. L’invasione napoleonica e la sconfitta di Jena le
trasformeranno in strumenti di lotta politica.
12. Dal cosmopolitismo al nazionalismo

1. La «nazione» politica

L’invasione napoleonica e la sconfitta di Jena non sono per la Germania


soltanto una vicenda politica, ma sono anche l’inizio di una nuova rinascita.
I primi romantici, o meglio i romantici che vissero fra il 1796 e il 1805,
erano lieti di innalzare la cultura sulle colonne degli ideali universali, per
quanto in questi ideali non venisse mai meno l’ansia di acquistare la
coscienza del proprio passato. Quando Napoleone, però, con la sua
invasione spegne i loro ideali e rende impossibile la convivenza di quei vari
nazionalismi che Herder aveva auspicato, i romantici sentono che è
necessario assumere un atteggiamento più deciso e più realistico di fronte
alla propria nazione. E i primi a passare da una cittadinanza universale
all’idea di una nazione politica sono gli stessi Schlegel, i quali si rifiutarono
di accettare quel livellamento culturale e politico che era implicito nel piano
dell’espansione napoleonica. Quale forza poteva e doveva pertanto opporsi
a quel livellamento se non il concetto di nazione? Ma questa nazione, a sua
volta, che cosa rappresentava nella coscienza dei romantici della seconda
generazione? E quali sono i fattori che la determinano?
In una delle sue Philosophische Vorlesungen, che tenne a Vienna fra il
1804 e il 1806, Friedrich Schlegel aveva ammonito che la grandezza di una
nazione si misura dall’attaccamento che essa dimostra nei riguardi della sua
lingua, della sua religione, dei suoi usi, dei suoi costumi, dei suoi modi di
pensare e di vivere, poiché, come egli stesso dice, «quanto più antico e puro
è il ceppo, tanto più lo sono i costumi; e quanto più lo sono i costumi, tanto
maggiore e più vero è l’attaccamento ad essi, tanto più grande sarà la
nazione» (ed. Windischmann, D, 385). Il concetto non era nuovo, tanto è
vero che l’attaccamento ai propri costumi – di cui il Vico aveva individuato
il carattere storico – era stato proclamato come simbolo di nazionalità dal
Rousseau, dagli storiografi svizzeri, dal Möser e dallo stesso Herder. Era
stato quest’ultimo anzi a osservare nelle Ideen che dall’idea
dell’individualità di un popolo ciascun popolo trae il proprio spirito
nazionale. Ma ora quel monito riecheggerà nella coscienza dei romantici
della nuova generazione addirittura come una presa di posizione culturale e
politica. Essi infatti, abbiano o no della nazione una concezione
folkloristica, sono concordi nel ritenere che la nazione, se è il sacrario dove
l’uomo può ritrovare quella libertà che presiede alla formazione stessa degli
individui, è anche il simbolo vivente delle costumanze di un popolo. Anzi,
sono quest’ultime – nel più largo significato del termine – che in essa
convergono e in essa si organizzano creandola. Ecco perché il temprarsi in
questa forza significa acquistare un’autocoscienza, che è la coscienza del
proprio passato e quindi di una concreta realtà storica.
L’esigenza di studiare in maniera sempre più dettagliata la vita popolare
in tutti i suoi aspetti accresce, così, quella Rettungsgedanke che avevano
auspicata il Lessing, lo Herder e gli stessi Schlegel: la sollecitudine, cioè, di
salvare il patrimonio popolare che sembrava sommergersi e sparire. Ed è a
questa sollecitudine che si deve la pubblicazione del Des Knaben
Wunderhorn dovuto a Ludwig Achim von Arnim e a Klemens Brentano.

2. Arnim, Brentano e il Wunderhorn

Non v’è dubbio che l’Arnim e il Brentano quando si accinsero a


compilare il Des Knaben Wunderhorn lo fecero per arrivare dove non era
arrivato lo stesso Herder. La loro raccolta di canti popolari aveva uno
scopo: mantenersi esclusivamente nel proprio ambiente linguistico e
culturale. Non i Volkslieder del mondo erano l’oggetto della loro ricerca, ma
i Volkslieder del loro paese.
Dei due, il Brentano aveva per la Volkspoesie gli stessi interessi che
avevano animato un Novalis o un Tieck. Anche egli pensava di utilizzare
per la sua opera artistica le vecchie favole e gli antichi Lieder. E già, fin dal
1802, nella seconda parte del Godwi aveva inserito dei Lieder, di cui era
riuscito a fare un’importante collezione. È probabile che August Wilhelm
Schlegel pensasse a lui quando, nelle Vorlesungen del 1803-1804, augurava
alla Germania un Percy. Ma il Brentano, a dire il vero, aspirava a ben altro
dall’essere un Percy. Aspirava cioè ad essere, e lo fu, un artista. È noto,
d’altra parte, che egli nella sua opera, non solo si ispirò ai Lieder e ai
Märchen del suo paese, ma anche – si pensi che egli era figlio di padre
italiano – al Pentamerone del Basile e alle Favole del Gozzi. E i suoi
Märchen, protagonisti spesso gli animali, esprimono i più delicati e raffinati
sentimenti umani, e sono fra le cose più belle che ci abbia dato il
Romanticismo. Commenta con acume il Maione: «Brentano è senza dubbio
il re dei favolisti romantici, nel canto del Märchen egli tocca l’animo del
fanciullo, si rifà fanciullo e questo gli rida un attimo di felicità. Il suo
romanticismo è in quel trasportarsi nel sogno e abbandonarsi come nel
proprio regno e farne un’atmosfera di vita come e più della realtà, unica sua
realtà».
Fu l’Arnim che lo spinse a utilizzare la sua raccolta di Lieder e
compilarne, insieme a lui, un’antologia con l’aggiunta di altri materiali, che
furono attinti un po’ da per tutto, dalla viva fonte della tradizione orale
come dalle antiche stampe. Può darsi che in un primo momento tanto
l’Arnim quanto il Brentano avessero pensato a un’opera di più largo respiro.
E di ciò è prova un annuncio che l’Arnim pubblicò nel 1805 e dove, nel
nome della comune patria, invitava «gli uomini di buona volontà» a
raccogliere «le vestigia letterarie del proprio passato» ancor prima che fosse
tardi. Diceva quell’annuncio:

«Che ciascuno si lasci guidare, nella scelta di tutto ciò che crede di comunicarci, dal suo gusto
personale; il mio mi porta, riordinando la mia pubblicazione, a comprendere e a servire tutti; io
divento sempre più avido, vedendo ogni giorno accrescersi le mie riserve; alle raccolte che
seguiranno saranno aggiunte melodie, disegni, particolarmente riproduzioni di vecchie incisioni in
legno e paesaggi, antiche leggende trasmesse oralmente e racconti; così noi potremo riannodare un
gran numero di fili nel vasto tessuto in cui la nostra storia è raffigurata e che è nostro dovere
continuare ad arricchire sempre più».
L’Arnim ha dunque la coscienza di compiere raccogliendo le tradizioni
popolari del suo paese un’opera storica e patriottica. Ma quando insieme al
Brentano egli mette in ordine la vasta materia del Des Knaben Wunderhorn,
che è limitata ai Lieder, si mantiene fedele ai testi raccolti? I due
collaboratori, e lo dichiareranno esplicitamente, non vogliono fare opera di
sapienti o di restauratori, bensì di vivificatori. Da qui i loro geniali
rifacimenti. Il primo volume del Des Knaben Wunderhorn uscì nel 1806.
Gli altri due nel 1808. E grande, com’è noto, fu il successo di quest’opera
che apparve a tutta una generazione come la fonte pura e fresca, cui
attingeranno, a piene mani, la loro ispirazione poeti (Eichendorff, Uhland,
Hoffmann von Fallersleben, Mörike, ecc.), musicisti (Schubert, Schumann e
Brahms) e pittori (si pensi soprattutto a Moritz von Schwind). Sembrava
che fosse stata dissotterrata una nuova fonte di giovinezza alla lirica e alla
musica.
Il Des Knaben Wunderhorn fu dedicato a Goethe come a colui che aveva
intuito il valore dei canti popolari, facendone poi fonte dei suoi Lieder; e il
Goethe fu uno dei primi a salutare quel libro con simpatia, «In questi
Lieder, – egli osservò, – dovrebbero i Tedeschi fuori della loro nebbia del
presente confortarsi per ciò che attinge la natura dal tempo in cui furono
composti, ma che è proprio di tutti i tempi». Né meno efficace, alcuni anni
dopo, fu il giudizio che ne diede Heinrich Heine, il quale non fu certo molto
tenero con i romantici del suo paese: «Io non posso fare abbastanza l’elogio
di questo libro. Esso contiene i più leggiadri fiori dello spirito tedesco, e chi
vuole imparare a conoscere il popolo tedesco da un lato assai amabile deve
leggere questi canti popolari. In questo momento io ho sul mio tavolo
questo libro e mi sembra di sentire il profumo dei tigli tedeschi… Il tiglio
rappresenta una parte principale di questi canti, alla sua ombra si carezzano
la sera gli amanti, è il loro albero prediletto, ed è forse per questa ragione
che la foglia del tiglio ha forma del cuore umano». Ma i tigli e gli amanti,
se pur interessavano il Brentano, per quanto anch’egli avesse vivo e
profondo il sentimento della patria, lasciavano indifferente l’Arnim, il quale
traeva il suo concetto di nazionalità tedesca dalla storia tedesca, da quella
storia, cioè, che egli cercava di ricomporre con i fili della tradizione orale e
popolare.

3. Fondamenti per una letteratura popolare educativa

L’interesse scientifico del Des Knaben Wunderhorn è ancor oggi


costituito tuttavia dalla dissertazione dell’Arnim che chiude il primo
volume della raccolta e che è intitolata: Von Volksliedern. È in essa, infatti,
che noi vediamo non solo ragionato il concetto di poesia popolare, ma
anche il concetto di popolo. È in essa che troviamo, forse per la prima volta,
il termine di Volkskunde (che più tardi il Riehl assumerà per indicare il
nome di Scienza delle antichità tedesche) e che poi prenderà in Germania il
posto che altrove avrà il termine folklore (per quanto l’uno e l’altro saranno
a volte riempiti di significati diversi). Ed è in essa, infine, che ci appare
quale valore l’Arnim abbia dato tanto alla poesia popolare quanto al popolo
come mediazione per una letteratura educativa.
L’Arnim non esita, raccogliendo le istanze dello Herder e dei primi
romantici, a opporre la poesia popolare a quella delle classi più alte. Il
popolo, a sua volta, gli appare come una forza sana e istintiva, di contro alle
classi borghesi infiacchite e modernizzate. Poeta, il popolo. Di cattivo gusto
e impoetica la borghesia. E il popolo per lui è già un concetto sociologico,
vale a dire una determinata classe, quella dei contadini e degli artigiani, i
quali, parte viva e integrante della nazione, hanno anch’essi il dono della
poesia, solo che la loro poesia, a differenza di quella delle classi colte, è
anonima. Ma anonima per lui, si badi bene, non significa impersonale. Anzi
egli va oltre, e aggiunge che anche il poeta popolare anonimo ha pur sempre
una sua coscienza artistica.
Questo però non è che uno degli aspetti del Volkslied, il quale, a suo
avviso, si impone, come tutto ciò che è popolare, per la sua forma e per la
sua beltà interiore. Era stato A. W. Schlegel a distinguere la poesia del
popolo dalla poesia fatta per il popolo. Ma l’Arnim, in proposito, vuole
essere più chiaro e più preciso. Egli infatti ritiene che una poesia adottata,
amata e cantata dal popolo, diviene popolare, chiunque sia l’autore, e che
pertanto diviene popolare tutto ciò che si è diffuso in mezzo al popolo, tutto
ciò che vive nel popolo, quale che sia la fonte da cui derivi. Ecco perché,
egli aggiunge, noi dobbiamo considerare come poesia popolare anche il
Fischer di Goethe che il popolo accoglie, ripete e canta ignorando però chi
sia l’autore. In altri termini un Lied diffuso fra il popolo è popolare ove
manchi nel popolo la coscienza dell’autore che l’ha creato. Era la sua
indubbiamente un’intuizione, la quale stabiliva che la poesia popolare va
ricercata non nella sua origine bensì nel suo carattere. Ma l’Arnim
considerava popolari anche Lutero e Lorenzo il Magnifico, nel che è
evidente l’influsso dello Herder e del Bürger. E in base a questo concetto
non si sentiva egli stesso uno di quei poeti le cui parole, ispirate dal popolo,
possono diventare la voce di tutto un popolo?
I rimaneggiamenti che egli ha fatto dei Lieder vogliono avere questo
specifico scopo: creare quella che è, o deve essere, la vera letteratura
popolare. Lo Herder aveva già ammonito: educa e forma il tuo spirito sullo
spirito del popolo, diventa l’imitatore del suo stesso spirito. E A. W.
Schlegel: che un poeta ritocchi con la sua fantasia la poesia del popolo e
sarà egli stesso il migliore poeta. Bene: l’impegno dell’Arnim sarà quello di
educare il suo spirito sul popolo per diventare egli stesso poeta del popolo.
E i canti del popolo sono chiamati a diventare i canti della nazione.
L’Arnim riteneva che un canto popolare, un Lied, è pur sempre qualcosa
di elastico, una forma che continuamente si rinnova. Il che è già una chiara
e netta intuizione del concetto che la poesia popolare in tanto è tale in
quanto è soggetta a una continua elaborazione. Ora se il popolo trasforma
continuamente i suoi canti, non tocca al raccoglitore fissarne la forma
definitiva e creare così una letteratura popolare?
Nello stesso anno in cui uscì il primo volume del Des Knaben
Wunderhorn, l’Arndt pubblicava il suo Geist der Zeit, dove concepiva lo
spirito segreto del popolo come una forza primigenia immutabile che, in
condizione di civiltà, appare soltanto in uomini eccezionali. Ma questa tesi,
in fondo, non coincide appunto con l’idea che, nel campo della letteratura,
avevano lo A. W. Schlegel e l’Arnim quando affidavano a uomini
eccezionali il potere di esprimere nei Lieder o meglio nei loro
rimaneggiamenti lo stesso spirito del popolo?
L’Arnim aveva ben chiara la coscienza di sacrificare la filologia allo
spirito popolare. Ma qui è in gran parte la differenza del Des Knaben
Wunderhorn con le opere di un Novalis, di un Tieck e dello stesso Brentano.
Nel rielaborare i Märchen della loro terra (o di altre terre) costoro si erano
serviti del popolo e della sua letteratura come di un medium per una buona
letteratura, ma per una buona letteratura che non poteva certo andare in
mezzo al popolo. E in ciò, nota il Vincenti, essi erano in fondo seguaci dei
preromantici inglesi, che, risalendo al passato, tendevano ad alimentare la
sorgente della poesia e della letteratura. Il Des Knaben Wunderhorn invece,
se pur vuole imporre il gusto per la poesia popolare, e con essa i suoi miti,
vuole soprattutto costituire un testo di letteratura popolare educativa.
Questo lo scopo dei geniali rimaneggiamenti dell’Arnim e del Brentano,
i quali, nel ricreare quella letteratura, pensavano che da essa il popolo, tutto
il popolo o meglio tutta la nazione, potesse trarre coscienza della propria
nazionalità. E di ciò ben si accorse il ministro prussiano von Stein quando
raccomandò «questo libro di poemi unico per la sua importanza» come
«atto a suscitare nel Volk il patriottismo per la liberazione dai francesi». Il
che, d’altro lato, costituì anche il programma della «Zeitung für Einsiedler»,
la quale, diretta dall’Arnim, si proponeva il compito di risvegliare l’amore
per tutto ciò che riguarda i rapporti fra l’individuo e il popolo.
4. Görres, o della poesia popolare

Collaboratore della «Zeitung» dell’Arnim fu Joseph Görres, il quale


condivise con l’Arnim e col Brentano il culto del Medioevo tedesco e della
sua letteratura. Il Görres, appunto per questo, si accinse a studiare quei
Deutsche Volksbücher che erano stati cari al Tieck e al Brentano. Ed è in
questo suo lavoro, edito nel 1807, che egli esalta la letteratura popolare
come strumento della nazionalità tedesca.
Il Görres, prima di accingersi a studiare la poesia popolare, si era
occupato soprattutto di studi mitologici, cui era pervenuto sotto l’influsso
delle teorie romantiche e orientalistiche. Ed è del 1805 uno suo arruffato,
ma acuto e geniale lavoro, Glauben und Wissen, dove egli, se da una parte
sostiene l’idea che i miti e le leggende si debbano far risalire a un unico
mito, dall’altra sostiene che per la prima volta questo mito fu rivelato ai
popoli dell’India, da dove si propagò come fuoco sacro a tutti i popoli,
compreso il germanico. Il che in fondo significava restringere soltanto
all’India le idee già manifestate in proposito dallo Huet fin dal 1700. È noto
peraltro che cinque anni dopo il Gorres ritornò sul problema delle origini
inerenti alla mitologia e alla religione nella sua ampia Mythengeschichte,
dove egli, dopo aver compiuto un vasto esame della storia delle religioni,
conclude che ciascuna religione è identica nei suoi tratti fondamentali a una
religione unica (in cui è predominante il culto della natura e le cui vestigia o
meglio le cui sopravvivenze si trovano in tutti i popoli moderni). Il Gorres
finiva quindi con l’ammettere che tutta l’attività intellettuale dell’uomo non
è che il rapporto stesso fra il divino e l’umano. E ciò era stato già
ampiamente affermato anche dal Kanne nel suo Pantheum der ältesten
Naturphilosophie, che è del 1809. Né su questo punto sarà diversa la
conclusione cui giunge un altro mitologo del tempo, il Creuzer, il quale
nella sua Symbolik, che uscì in quattro grossi volumi dal 1810 al 1812,
sostiene, riattaccandosi così al Lafitau, che anche la mitologia dei pagani
non è che la deformazione della rivelazione fatta da Dio al popolo.
Il lavoro del Gorres sui Deutsche Volksbücher uscì nel periodo di tempo
che corre fra la compilazione del Glauben e della Mythengeschichte. Ma
che cosa sono per lui questi Volksbücher se non uno dei migliori patrimoni
che possiede la Germania letteraria e che perciò bisogna mettere in luce e
studiare come simbolo delle sue aspirazioni? Nella prefazione dei
Volksbücher il Görres distingue come Herder la Naturpoesie dalla
Kunstpoesie, e non esita ad affermare che le canzoni popolari si debbono
considerare non come opere d’arte, bensì come opere della natura. Ma la
sua affermazione contrasta con tutto ciò che egli immediatamente sostiene
quando investe in pieno la problematica della poesia popolare.
Il Görres infatti, e in ciò è vicino tanto ad A. W. Schlegel quanto
all’Arnim, è dell’avviso che la poesia popolare, cui peraltro si riattaccano i
libretti popolari, vale a dire i Volksbücher, è composta dal popolo o per il
popolo; ma che tuttavia nell’un caso e nell’altro in tanto essa è popolare in
quanto è diffusa fra il popolo di cui testimonia le qualità. E il popolo – si
noti bene – per lui è formato da quegli individui che hanno il cuore puro e
lo spirito nobile.
Questa premessa lo porta ad affermare che anche i Volksbücher sono
opera di poeti e perciò di individui particolari. E per quanto, come afferma
il Tonnelat, le sue concezioni sulla poesia popolare, restino spesso fluttuanti
e contraddittorie, egli tuttavia rimane fermo su un punto: che la poesia
popolare ha carattere sacro. Né del resto la concezione che egli ha della
poesia popolare ha altro senso, aggiunge il Tonnelat, se non quello che i
romantici come Novalis e Tieck le avevano dato quando consideravano la
natura pur sempre come la suprema creatrice della poesia, dell’arte e della
bellezza.
Questa presa di posizione nei riguardi della poesia popolare fu sostenuta
dal Görres anche nei numerosi articoli che egli pubblicò nel «Rheinischer
Merkur», definito da Napoleone come la «quinta grande potenza dei suoi
nemici». Ma è nella prefazione e nelle note con cui commenta i
quarantanove Volksbücher, da lui presi in esame, che il Görres sostiene
energicamente l’interesse che la Germania ha, e deve avere, per la poesia
popolare, la quale, per quanto semplice e ingenua, non perciò è inferiore
alla Kunstpoesie. Né egli esita ad affermare che la stessa letteratura colta
acquista non solo un altro carattere, ma anche una maggiore vitalità, quando
dallo «stretto cerchio delle classi superiori discende nel popolo, diventando
tutt’una con esso»: il che da appunto un particolare carattere alla letteratura
popolare. Ecco, egli aggiunge, perché «la grande repubblica delle lettere
può avere anch’essa una Camera bassa, dove la nazione stessa è
direttamente rappresentata». Ed egli, come l’Arnim, non si nasconde quale
impulso da quella poesia può trarre la nuova letteratura, la quale in quel
tempo – ed ecco il legame fra la poesia e la politica – non poteva essere che
nazionale e patriottica, e quindi ancora una volta contraria a tutto ciò che
era e poteva essere francese. Così come il popolo basso – e qui il termine
basso è evidente che ha soltanto un carattere distintivo – è necessario alla
nazione, allo stesso modo per il Görres era necessaria alla nazione la
letteratura che esprimeva le aspirazioni di questo popolo. E la nazione,
allora, ecco che non è più l’insieme di classi, opposte l’una all’altra, bensì
un’unione di classi che si compenetrano e si completano creando un unico e
solo carattere nazionale.

5. Babbo Jahn, fra Rousseau e Fichte

Questo stesso concetto fu espresso allora, anzi per usare l’espressione


più esatta fu gridato, da Friedrich L. Jahn, il quale nel libro Das deutsche
Volkstum sostituisce addirittura i termini di Nation e Nationalität, di cui son
piene le pagine dell’Arnim e del Görres con quelle di Volk e di Volkstum.
Egli sostiene energicamente che il Volk è l’insieme di tutte le classi sociali,
mentre il Volkstum, parola da lui coniata per la prima volta, è in sostanza
quel pensiero e quel sentimento popolari che costituiscono la fede comune
di un popolo, che è quanto dire lo spirito popolare. Da qui, a sua volta,
l’altro termine di Volkstumskunde che sarebbe la scienza della nazionalità
cui lo Jahn voleva dare un fondamento ben saldo.
Das deutsche Volkstum uscì nel 1810. Dal 1807 al 1808 erano state
tenute dal Fichte le Reden an die deutsche Nation. Ma l’opera del Fichte,
osserva il Viereck, non poteva, data l’astruseria della sua metafisica,
rivolgersi che a un numero ristretto di persone, mentre il libro di Jahn
offriva un programma più pratico in uno stile così colorito e demagogico
che il generale Blücher, uno dei vincitori di Napoleone, lo chiamò
addirittura «il più tedesco cannone verbale». Senonché, quali sono in effetti
i rapporti fra i due libri che pur si propongono lo stesso fine?
Nelle Reden il Fichte si preoccupa anzitutto di formulare il concetto di
un’organizzazione statale. Ma questa organizzazione poteva ormai basarsi
su quel concetto dello stato nazionale, quale era stato preconizzato dalla
Rivoluzione francese e a cui egli in un primo momento aveva aderito?
Oppure essa doveva fondarsi sul concetto stesso del popolo tedesco, che è il
popolo primordiale per eccellenza (l’Urvolk) con una sua lingua aborigena
originale (l’Ursprache), onde, per esso, ricevere dal di fuori è corrompersi e
venir meno alla sua funzione sociale?
I romantici della prima generazione, e con essi il Görres, non erano stati
alieni dal riconoscere quanto si fosse avvantaggiata degli imprestiti la loro
letteratura delle origini. E ciò era stato uno dei loro meriti. Ma Fichte è su
un piano diverso, tanto è vero che a lui interessa il popolo originario, il
popolo che non ha attributi e in cui, tuttavia, si invera l’uomo che fonda la
sua fede su un determinato ordine di cose. Come egli stesso afferma:

«Un tale ordine è quella speciale natura spirituale dell’ambiente umano, che esiste realmente anche
se non può essere compresa in un concetto: quella natura, dico, da cui egli stesso discende con la sua
azione, col suo pensiero e con la sua fede nell’eternità, cioè il popolo dal quale ha origine, in mezzo
al quale egli fu educato e divenne ciò che è ora» (Reden, VIII).
Il Fichte sente per il Medioevo tedesco quello stesso amore, chiuso e
violento, che ebbero un Novalis, un Tieck, gli Schlegel, un Arnim e un
Görres. Di più egli, ispirandosi a quel gruppo di romantici che si
raccoglievano intorno a Schiller e a Humboldt, non solo auspica l’idea di
una missione universale della nazione tedesca, ma la esaspera portandola
alle più estreme e pericolose conseguenze. Ma il popolo, cui egli affida tale
missione, non deve appunto per questo sottoporsi a una educazione che lo
elevi nel regno della ragione e in quello della libertà del mondo?
Questa in effetti la tesi delle Reden del Fichte, dove il nazionalismo
assume gli stessi caratteri del cosmopolitismo e dove l’analisi stessa di quel
nazionalismo-cosmopolitismo, chiamato a reggere la nuova organizzazione
sociale, lo porta a riscoprire nello spirito dei popoli l’humus di una società
spirituale che da significato al nostro fare. E la tesi suggestiona certo lo
Jahn per quanto riguarda la missione del popolo tedesco, cui egli augura
non solo l’unione, ma la forza di espandersi, onde cristianizzare, fra l’altro,
gli Slavi. Ma lo Jahn non è un pensatore, è un agitatore; ed egli
dell’educazione di cui ha bisogno un popolo, perché in esso nasca il
sentimento della nazionalità, ha un concetto molto diverso da quello del
Fichte. Direi, ha un concetto esclusivamente folkloristico. Spirito ricettivo e
assimilatore ben di rado egli esprime opinioni sue, ma le esprime con la
convinzione che siano sue. E in fondo la sua stessa rozzezza non è, come
ben osserva il Treitschke, l’arte raffinata di chi sa ipnotizzare e convincere?
Nemico dichiarato della Francia e dei Francesi, lo Jahn è il
rappresentante tipico di un giacobinismo che si riveste di panni teutonici. E
il suo Deutsche Volkstum non è solo improntato, in un certo senso, agli
stessi ideali della Rivoluzione francese ma trova le sue pezze d’appoggio
più dirette nelle Considérations sur le gouvernement de Pologne del
Rousseau.
Giovane, ancora studente, lo Jahn si era ritirato a vivere in una grotta in
spregio alla società del suo tempo, «smidollata» e «franciosizzata». Ed egli,
è evidente, in ciò credeva di realizzare ingenuamente il mito del buon
selvaggio postulato dal Rousseau. Quando Napoleone invase il suo paese
andò subito però come volontario nelle crociate contro i Francesi. E tale,
crociato della libertà e della indipendenza tedesca, rimase nel periodo che
va dal 1806 al 1813, durante cui egli, nemico di ogni cosmopolitismo, si
fece banditore del più acceso nazionalismo prussiano e costituì delle società
ginnastiche, le quali altro non erano che, in maniera ridotta, delle adunanze
popolari. Ma queste non erano state nelle Considérations già auspicate dal
Rousseau? I ginnasti dello Jahn avevano inoltre un unico costume in modo
che essi apparissero e fossero tutti uguali. E a un costume nazionale, a un
costume tedesco, penserà più tardi lo Jahn come al più puro simbolo della
nazionalità tedesca.
Il credo dello Jahn risiede anzitutto nel popolo che crea tutta la sua
storia. Ma che cos’è, a sua volta, questo popolo se non l’artefice di quelle
caratteristiche manifestazioni che lo formano, onde egli ha il dovere di
essere puro, in quanto più puro è un popolo – ecco Friedrich Schlegel –
tanto è migliore? «Solamente l’unione delle masse con lo Stato, – proclama,
– può rivestire lo scheletro dello Stato con la calda carne e il sangue del
popolo». Ed ecco che egli, da buon giacobino tedesco, non esita a
proclamare l’abolizione delle classi feudali e dei loro privilegi, la libera
proprietà della terra, una pubblica istruzione elementare che accomuni i
bimbi di tutte le classi sociali: idee che lo Stein fece in parte sue e che
furono liberamente applicate nello Stato prussiano.
Per creare l’unità fra lo Stato e il popolo, lo Jahn non esita, quindi, a
proporre di nazionalizzare l’arte. Nelle adunate ginnastiche egli non aveva
esitato ad infiammare i giovani leggendo i Nibelunghi. Ed era e fu sempre
dell’avviso che le antologie dei giovani avrebbero dovuto contenere i
Lieder tedeschi, i Märchen, le leggende degli eroi tedeschi, i frutti della
sapienza popolare.
Un acuto folklorista tedesco, Adolf Spamer, ha recentemente affermato
che lo Jahn vide per primo negli usi e nei costumi popolari, nei canti, nella
lingua, nei giochi, nell’arte i mezzi più sicuri per «un rinnovamento,
approfondimento e rafforzamento della vita di un popolo». Ma la verità è
diversa, ove si pensi che l’Arnim e il Görres avevano già considerato la
letteratura popolare come uno strumento atto ad inculcare il sentimento
nazionale, e che lo Jahn, quando allarga quel concetto, estendendolo a tutte
le tradizioni, ritorna in fondo al Möser. In realtà, mentre per un Arnim o per
un Görres, come del resto per A. W. Schlegel, le produzioni popolari sono
individuali per la creazione e collettive per la loro diffusione, allo Jahn tali
produzioni interessano in quanto sono l’espressione di un’anima collettiva
con cui si può educare il Volk, cioè il popolo. È il popolo insomma che
educa sé con se stesso. Ma qui ecco che lo Jahn si pone nella stessa
posizione di un Arnim o di un Görres, in quanto è lui stesso a farsi tramite
di quella educazione, dove la tradizione non è delimitata dalla ragione come
nel Fichte, ma da se stessa, che è quanto dire dalle sue forze collettive e
istintive.

6. Savigny e la «fabbrica delle leggi»

Di ben altra natura è, qualche anno dopo, quando già la figura dello Jahn
cominciava a rappresentare la parte di una comparsa, il richiamo che nel
1814 Friedrich K. von Savigny fa a queste forze istintive e popolari. Il
Thibaut aveva allora avanzato la proposta di unificare la legislazione
tedesca e di creare un codice civile. E ciò, secondo lui, per salvare le
istituzioni liberali che Napoleone aveva introdotto nel suo paese. Senonché
creare un codice che potesse livellare tutte le regioni, senza tenere conto del
loro modo di vivere e di pensare, non significava, obietterà il Savigny,
riconoscere la validità di quel codice napoleonico che egli stesso
considerava come un monumento di orgoglio, frutto delle astruserie dei
filosofi e degli ideologi?
Era convincimento del Savigny invece, ed egli aveva già espresso questo
convincimento fin dal 1803 nel suo lavoro Das Recht des Besitzers, che il
diritto non dovesse restare immutabile, e che l’opera dei legislatori dovesse
essere non di creatori ma di scribi intelligenti, volti a comprendere lo spirito
dei tempi. Da qui il valore che egli, come già il Möser, attribuisce alle
consuetudini e quindi implicitamente a quel diritto popolare che, pur
convivendo nel seno delle consuetudini giuridiche, si invera in quelle
innumerevoli forme rituali o abitudinarie le quali sono espresse anche dai
gesti, dai proverbi, dalle sentenze, dai canti ecc., e che coinvolge il diritto
familiare, il possessivo, il contrattuale e il punitivo. Questo, egli ammoniva,
è il linguaggio delle istituzioni popolari, le quali localmente – ecco ancora
Möser contro Voltaire – sono rette da determinati usi, e perciò da fatti che
servono a determinare il diritto stesso. Anche un discepolo del Vico, il
Cuoco, aveva detto in Italia che ciò che va bene a Parigi non va bene a
Napoli. E si può pretendere, allo stesso modo, che ciò che giuridicamente
va bene per la Westfalia vada bene per l’Assia? Né in proposito erano
mancate in Germania delle ricerche particolari come quelle, ad esempio, del
Reitemer, del Biener e del Martens, i quali avevano appunto indagato le
varie consuetudini popolari tedesche: lavoro questo che sarà poi completato
e portato alla perfezione, anche per quanto riguarda il diritto popolare, da
un fedele discepolo del Savigny, il Puchta.
Studioso impareggiabile del diritto romano – è a tutti nota la sua
Geschichte des römischen Rechts im Mittelalter – il Savigny sapeva che
nell’antica Roma esisteva accanto a un jus scriptum un jus non scriptum,
che era quanto dire un diritto consuetudinario. Sapeva altresì quale valore
avesse avuto il diritto consuetudinario non solo fra gli antichi Germani, ma
anche, ad esempio, in Italia, dove gli statuti avevano codificato delle norme
consuetudinarie. Ed egli pertanto non solo si richiama a quella traduzione,
ma la romanticizza. Dallo Schelling il Savigny, cognato del Brentano, aveva
imparato che un’opera d’arte come un principio di diritto, è pur sempre
l’opera di una intelligenza incosciente e impersonale. E tale massima era
stata di guida, fra l’altro, al Niebuhr, il quale, pubblicando nel 1810 la sua
Römische Geschichte, considerava la vita della nazione romana come il
frutto del genio popolare (mentre, d’altro canto, si rifaceva al Möser e al
suo concetto delle comunità agrarie per dare fondamento alla primitiva
storia di Roma, sempre investita della luce di un epos nazionale, concepito
secondo gli schemi del Wolf).
Il Savigny, forte di queste istanze culturali, non solo, come osserva il
Meinecke, giustifica perciò e sanziona «tutti gli istituti e le forme
tradizionali di vita richiamandosi al genio del popolo, che crea
volontariamente, ma condanna di conseguenza ogni arbitraria ingerenza
nella vita degli stati in quanto è violazione di un ordine di cose creatosi
naturalmente». Ma questa condanna è veramente, come si crede, condanna
del presente, nel senso che il Savigny auspica soltanto un ritorno al vecchio
diritto germanico, oppure essa in tanto ha un valore in quanto non vuole
intaccare quella continuità di sviluppo che è insita nel diritto stesso?

7. Valore della scuola e del diritto consuetudinario

Nel suo celebre saggio edito nel 1814 Von Beruf unserer Zeit für
Gesetzgebung und Rechtswissenschaft, il Savigny ammonisce che «ogni
diritto nasce per opera di forze interiori che agiscono in silenzio e non per
l’arbitrio del legislatore». Né diverso è, qualche anno più tardi, il concetto
che egli esprime sul diritto nel tracciare il programma della «Zeitschrift für
geschichtliche Rechtswissenschaft», dove sostiene che la scuola storica
suppone che la materia del diritto sia data da tutto il passato della nazione.
Tale materia potrebbe essere questa o quella indifferentemente, sempre che
scaturisca dall’intimità stessa della nazione. Non esiste pertanto nessun
momento isolato dell’esistenza umana, in quanto ogni uomo è tale perché in
lui convergono la storia e l’umanità. Con le sue stesse parole:

«Se questo è vero, ogni tempo non trae fuori arbitrariamente il suo mondo, ma lo trae in indissolubile
connessione con tutto il passato. Allora ogni età deve riconoscere qualcosa di dato, che è insieme
necessario e libero; necessario in quanto non dipende dall’arbitrio del presente, libero perché non
procede da un estraneo arbitrio, ma dalla più elevata natura del popolo, come un tutto in via di
sviluppo. Di questo tutto, anche l’età presente è un membro che vuole e capisce in esso e con esso, in
modo che ciò che da quest’ultimo è dato, anche da quello può essere liberamente prodotto. La storia
è, in tal caso, non una raccolta di esempi, ma l’unica via della vera conoscenza della nostra
situazione».

L’appello al passato della nazione non è tale comunque da determinare


nel Savigny il culto esclusivo del passato. Dice il Sorel che nella scuola
storica non v’è posto per il diritto futuro. Ma contro questa tesi sta il
concetto stesso che il Savigny ebbe del diritto consuetudinario, il quale fu
da lui paragonato a tutti gli altri istituti che appunto perché tali, sono
sempre in una fase di continua trasformazione. La vita del diritto non è
differente, insomma, da quella dei Lieder come l’aveva visto l’Arnim.
Oppure, come afferma il Savigny, della lingua. Esso, il diritto, è perciò un
momento della storia ed è alla storia che bisogna chiedere la ragione delle
sue esigenze, tanto più che esso vive nella pratica, che è quanto dire nella
consuetudine, la quale è l’espressione immediata della coscienza giuridica
popolare.

«Correva allora [osserva lo Jhering nel commentare questa teoria del Savigny] per la nostra poesia il
periodo romantico. E chi non si spaventa di questa applicazione del concetto romantico alla
giurisprudenza e voglia prendersi la pena di paragonare fra loro gli indirizzi corrispondenti nei due
campi, forse non mi darà torto se affermo che la scuola storica potrebbe, con egual diritto, esser
chiamata romantica. In realtà, è una rappresentazione veramente romantica, cioè a dire, basata su una
falsa idealizzazione di passate cognizioni, quella, secondo la quale il diritto s’andrebbe formando
senza stento né sforzo e senza attività, proprio come il fungo del campo. La cruda realtà ci insegna
appunto il contrario».

Nessun insegnamento in effetti noi possiamo trarre dalla teoria del


Savigny, ove noi non la consideriamo su due piani ben distinti: uno inerente
alla nascita del diritto, l’altro alla sua applicazione. Ora in quanto alla
nascita del diritto, che è quanto dire alle sue fonti, quale valore ha la
coscienza popolare? E questa, si obietta, non è già qualcosa di misterioso e
di inafferrabile, onde, un diritto così concepito, un diritto cioè che deriva
dalla stessa coscienza giuridica di un popolo, pone se mai un problema di
carattere psicologico, non storico? Il fatto vero è che le origini del diritto si
risolvono nella vita stessa del diritto, e che la coscienza di un popolo non è
che la coscienza dei propri singoli. C’è, indubbiamente, una lotta per il
diritto, ma c’è anche una adesione al diritto che è frutto della propria
tradizione, la quale non è solo il nostro passato, ma anche, con tutte le sue
innovazioni, il nostro avvenire. E il merito del Savigny consiste in ciò:
nell’avere da una parte richiamato l’attenzione degli studiosi al
Gemeinsame Bewusstsein als gemeinsame Aberzeugung des Volks quale
sorgente del diritto – il che era una efficace protesta non solo contro ogni
arbitrio legislativo e quindi contro le posizioni statiche del giusnaturalismo
– ma soprattutto nell’aver postulato questo programma: che non è possibile
legiferare senza tener in conto le consuetudini popolari che sono la vita del
diritto. Il fatto di sapere qual è l’origine del diritto è una questione filosofica
come lo è il problema di tutte le origini. Ma v’era nella scuola storica, ed
ecco perché essa è storica oltre che romantica, l’esigenza di promuovere lo
studio del fatto storico del diritto, considerando il sorgere di esso in
relazione alle condizioni particolari di ciascun popolo.
Il problema del diritto consuetudinario si presenta infatti oggi come un
problema a sé, come un problema, cioè, inteso a scoprire il diritto stesso in
un’unità che è di volontà insieme universale e particolare. E perciò la
consuetudine, quando rimane ancora fluida, assume spesso il valore di un
fatto normativo cui lo stesso legislatore si rivolge e che ogni nazione ha il
dovere di conoscere. Ma di ciò non dobbiamo esser grati al Savigny?

8. Il Volk come organismo umano e umanitario

È chiaro dunque che i romantici della seconda generazione, cui si attacca


il Savigny, sentano il Volk, il popolo, tutto il popolo (di cui la classe umile è
parte viva) come un organismo dove a parità di diritti, si incontrano tutte le
classi e perciò tutte le culture. Capace di avvertire la stessa coscienza
nazionale, in quanto in esso si conservano, pure e intatte, le forme dello
spirito creatore che presiede alla propria stirpe, il Volk, vivaio di forze
conservatrici, sarà chiamato tuttavia a una funzione eminentemente
rivoluzionaria. Assumerà il carattere del bon sauvage del Rousseau. Ma con
questa notevole differenza che è stata acutamente sottolineata dal Walzel:
che il Romanticismo tedesco rinunzierà a voler ricondurre l’uomo a una
dubbia felicità di un mondo incolto, e cercherà di ridurlo invece a un’unica
superiore perfezione spirituale di cultura. Il Volk insomma darà vita al
concetto di nazione, e attraverso la nazione allo Stato, ma sarà anche
chiamato a meditare una educazione nazionale che sarà il frutto del suo
stesso patrimonio intellettuale. Né al raggiungimento di questa educazione
tenderanno soltanto la filosofia, la letteratura, il diritto, il folklore. Vi
tenderà anche la musica: insegni Weber, la cui opera, in gran parte, non è
che un’interpretazione della natura o meglio dell’anima tedesca, e la cui
influenza, sotto certi aspetti, arriverà fino a Wagner, almeno, come bene
osserva il Mila, fino al Tannhduser.
Il Volk, il popolo, appunto per questo non è soltanto un concetto
culturale, anche se la letteratura è il campo principale del suo essere e del
suo sentire; ma è contemporaneamente un concetto umano, tanto è vero che
le espressioni cui ricorrono gli stessi romantici della seconda generazione,
quali quelle di genio di un popolo o meglio di spirito di un popolo,
rimarrebbero senza significato, se si volessero restringere nei loro termini
naturalistici.
Quando lo Hegel cercò di chiarire a se stesso quelle espressioni o meglio
l’ultima (che già era stata adoperata dall’Arnim, dall’Arndt e dal Savigny)
non esitò infatti a considerare lo Stato come una forza intimamente
collegata con l’arte, la religione, la filosofia. Ed era a questa sostanza che
egli si appellava per definire il Volksgeist. Nello spirito di un popolo, egli
ammonisce, vive un principio unitario che si realizza uniformemente in
tutte le sue manifestazioni ed aspirazioni. È noto che lo Hegel considerava
lo spirito come un essere che è soltanto in quanto diviene, e che la sua storia
è tutto ciò che in esso si raccoglie in perfetta dignità. E bene, come egli dirà
nella sua Philosophie der Geschichte (IX, § 44):

«Lo Spirito agisce per sua essenza, egli si fa ciò che è in sé: propria azione, propria opera. Così
avviene anche per lo spirito di un popolo; il suo agire significa il suo divenire in un mondo esistente
che esiste anche nello spazio. La sua religione, il suo culto, la sua morale, i suoi usi, la sua arte, la sua
costituzione, le sue leggi politiche, tutto quanto abbraccia le sue istituzioni, le sue vicende e azioni,
tutto ciò è opera sua, e tutto ciò è questo popolo».

È vero che questo spirito, il quale peraltro trova la sua incarnazione nello
Stato prussiano, è affine, ma non identico, ritiene il Meinecke, a quello dei
romantici e del Savigny. Nell’uno e negli altri, i popoli sono comunque ciò
che sono le loro opere con la loro eredità spirituale. E fra queste opere
quelle prodotte dalla vita popolare, dal folklore, vanno considerate come il
frutto di una rinnovantesi eredità spirituale che produce appunto gli usi, i
culti, i Lieder, i Märchen, ecc., in una parola le tradizioni popolari, dove la
nazione riflette e rispecchia il meglio di se stessa. E in ciò i romantici
avranno magari esagerato: ma essi, o meglio anch’essi sulla via tracciata dai
preromantici, danno al folklore l’importanza di una idea-forza che, fra
l’altro, da un nuovo e pregnante impulso alla germanistica, la quale, ormai
intimamente collegata col mito del Volksgeist, avrà i suoi più attivi
rappresentanti nei fratelli Grimm.
13. I fratelli Grimm

1. La poesia popolare come miracolo

Si può senz’altro affermare che la germanistica dei fratelli Grimm si basa


soprattutto sul mito della poesia popolare; ma questo mito è quello che i
loro predecessori, sulle orme del preromanticismo, avevano forgiato, o
invece esso assume in loro un nuovo aspetto, una nuova funzione?
Convinti che la poesia popolare debba considerarsi come un fattore della
vita nazionale, i Grimm sono in ciò sulla stessa via di un Herder, di un
Brentano, di un Arnim, di un Görres, i quali però riconobbero sempre, pur
dando un legittimo riconoscimento al valore della collettività, che la poesia
popolare è il frutto di determinate individualità poetiche. Ben altra invece è
la tesi dei Grimm, i quali ritengono che la poesia popolare non solo è una
poesia anonima, impersonale e collettiva, ma che essa, come la lingua di cui
è espressione, e come la mitologia a cui si collega, è di origine
essenzialmente divina.
In un suo celebre saggio pubblicato nella rivista dell’Arnim, la «Zeitung
für Einsiedler», il fratello maggiore, Jacob, nel 1808, non solo sostiene
energicamente questa tesi che capovolge le precedenti conquiste romantiche
inerenti al mondo della poesia popolare, ma, nel porre in relazione la
Naturpoesie e la Kunstpoesie, osserva che quest’ultima è una poesia riflessa
e perciò di origine umana, dovuta a gente dotta. Non si vuol dire con ciò,
aggiunge, che, nei suoi ulteriori sviluppi, la poesia popolare non abbia
anch’essa i suoi autori. Ma questi si annullano pur sempre nell’anonimato, o
meglio nella collettività, di cui raccolgono le ansie e le aspirazioni; e ove
comparissero ci accorgeremmo che appartengono a una categoria di gente
semplice e comunque poco istruita.
«Noi vorremmo avere la prova di questi fatti», commentava l’Arnim in
una nota che accompagnava l’articolo di Jacob. L’Arnim infatti non si
sentiva affatto un ignorante, eppure nel Des Knaben Wunderhorn aveva
voluto dimostrare che anche un poeta dotto può fare della poesia popolare,
ove egli, appunto, si metta in quello stato di grazia che è proprio del poeta
popolare. Ma quel suo commento non si poteva a sua volta estendere alle
considerazioni che, nello stesso 1808, Wilhelm, a proposito dei Nibelunghi,
veniva facendo negli Studien, diretti dal Daub e dal Creuzer?
Meno dogmatico del fratello, ma anch’egli preoccupato del problema
delle origini, Wilhelm è dell’avviso che la poesia popolare nasce coi suoi
poeti, sicché egli sembra opporsi al fratello e riattaccarsi ai convincimenti
che in proposito avevano gli altri romantici: ma subito dopo ritorna sui suoi
passi e conclude che quei poeti sono tali involontariamente, e che la loro
opera non è stata né cosciente né riflessa.
Nel recensire, qualche anno dopo, nel 1811, un libro del Nyerup, lo
stesso Wilhelm, se da una parte afferma che il canto popolare nasce in
maniera incosciente, dall’altra identifica questa «maniera incosciente» in
una «forma mistica». In altri termini, la poesia popolare è una
manifestazione umana del divino. «Essa è nuda», egli dirà nel 1811 nella
acuta prefazione degli Altdänische Heldenlieder. O meglio: «È nuda, e
porta in se stessa l’immagine di Dio». Né egli immobilizza con ciò la
poesia, che, se pur ha un’unità fondamentale, ha tuttavia un proprio
carattere nazionale:

«Il divino, lo spirito della poesia è lo stesso presso tutti i popoli e non ha che una stessa sorgente; ed
ecco perché si vedono apparire dappertutto delle rassomiglianze, una corrispondenza anteriore, una
parentela segreta, di cui il principio generatore s’è perduto, ma che lascia pensare a un antenato
comune; infine vi è uno sviluppo analogo; ma le condizioni e le differenze esteriori sono differenti.
Ecco perché troviamo a fianco di questo accordo intimo una differenza nella conformazione
esteriore».

La poesia popolare appare pertanto ai due fratelli come il prodotto di


un’anima collettiva, il che spiega il suo anonimato. Né essi si preoccupano
di distinguere la creazione di quella poesia (che è pur sempre un fatto
individuale) dalla sua diffusione (che da l’anonimato alla poesia). Per loro
esiste soltanto il popolo poetante, che è il contrapposto stesso dell’artista e
che non è «somma o aggregato di individui», bensì «concrescimento e
compenetrazione del loro spirito». Il popolo, per i Grimm, acquista così
«caratteri fisici propri», e come tale esso è poeta, che è quanto dire creatore
della Naturpoesie.
«Io ho spesso supposto come definita la differenza tra la Naturpoesie e la
Kunstpoesie», dirà più tardi Jacob nella prefazione del suo lavoro Über den
altdeutschen Meistergesang, edito nel 1811. E ciò perché quella distinzione
è per lui, come per il fratello, un dato di fatto che è un’intuizione, una verità
che è un dogma. Alla giudiziosa osservazione dell’Arnim, il quale gli fa
notare che nessuna poesia può essere priva di un poeta e che anche il poeta
anonimo per essere tale deve avere nel suo cuore una scintilla d’arte, Jacob
non risponde. O meglio gli risponde capovolgendo le posizioni e facendogli
una predica. Jacob, infatti, nel rispondere a quelle lettere, riafferma la sua
simpatia per i vecchi poemi epici germanici, che egli ritiene di origine
sovrumana, e sostiene che soltanto l’antica poesia (di cui i Lieder e i
Märchen non sono che il passato vivente) è tutta innocenza e purezza, nata
com’è spontaneamente. Né gli dispiacciono, in tali rievocazioni, le
immagini prese dalla natura, tanto è vero, ad esempio, che il canto del
popolo egli lo paragona al canto di un uccello, mentre il mistero della
poesia collettiva gli ricorda il mistero delle acque che si riuniscono in un
fiume. Ma, poi, quando dovrebbe affrontare direttamente il problema che
l’Arnim gli sottopone, mette il suo interlocutore davanti alla sua stessa
coscienza. E in una sua lettera del giugno 1811 lo ammonisce:

«Se tu credi con me che la religione è nata d’una rivelazione divina, che il linguaggio ha un’origine
anch’essa del tutto meravigliosa e che esso non è stato creato dall’Invenzione umana, è necessario
che tu creda e senta che anche l’antica poesia e le sue forme, che la sorgente della rima e
dell’allitterazione, è apparsa verosimilmente tutta insieme…»

La poesia popolare assume così i caratteri del miracolo e il miracolo o si


respinge o si accetta, non si discute. È qui il limite della teoria dei Grimm
inerente alla poesia popolare, alla quale, del resto, non erano già mancati
onori e riconoscimenti. I Grimm la pongono sugli altari. Come i re
costituzionali, essa era investita dalla grazia divina.

2. Poesia, epopea e storia

Identica la loro posizione per quanto riguarda l’origine dell’epopea, la


quale in essi è tutt’uno col problema delle origini della poesia popolare (il
che, in parte, era stato sostenuto anche dallo Herder e dal Bürger). Ma quali
sono le ragioni cui essi si appellano per affermare che nelle origini l’epopea
di una nazione non è che la sua poesia popolare? Non si trattava più, ormai,
di affermare, come avevano fatto i preromantici, che la poesia popolare è
una forma dell’epopea nazionale; né si trattava di far diventare, alla maniera
di Herder, popolari gli stessi grandi poeti come Omero o Dante. I Grimm si
incontrano nella loro valutazione della Naturpoesie col concetto del Vico
che riteneva la poesia come la prima voce dell’umanità. Né essi si
discostano dallo Herder che aveva considerato la Naturpoesie come una
poesia che è tutta natura. Ma questa poesia che è fatta di natura, vale a dire
(essi aggiungono, quasi a integrare lo stesso Herder), di natura divina, come
si invera nell’epopea che in origine ciascun popolo esprime?
La teoria che i Grimm sostengono in proposito, si articola nelle seguenti
proposizioni: 1, che la forma primitiva di ciascuna poesia è l’epopea, la
quale canta le imprese degli dèi e degli eroi, esprimendo i pensieri e le
aspirazioni della collettività; 2, che l’epopea si identifica in gran parte con
la mitologia; 3, che l’una e l’altra sono forme della poesia popolare. È
difficile dire, anche per la comunità stessa del loro sodalizio, quale parte
abbiano avuto nella formulazione di tale teoria i due fratelli, per quanto
Jacob fosse portato molto più di Wilhelm a generalizzare. È vero infatti che
Wilhelm, fin dal 1808, occupandosi, nei citati Studien, dei Nibelunghi,
aveva sostenuto che anche l’epopea nasce spontaneamente non dall’uomo,
ma dall’anima collettiva del popolo. Ma è pur vero che egli allora si
preoccupava soprattutto di estendere ai Nibelunghi la teoria del Wolf (che,
più tardi, agli stessi Nibelunghi sarà applicata dal Lachmann). Più
dogmatico, anche qui, Jacob, il quale nella prefazione del suo
Meistergesang, riecheggiando quanto aveva scritto nella «Zeitung für
Einsiedler», sostiene con rinnovata energia che l’epopea è la più antica
storia del passato, e che questa storia, la quale si esprime spesso nel mito, si
identifica con la poesia stessa di quel passato.
I Grimm in sostanza non solo identificano la poesia con l’epopea che,
per loro, sgorga inizialmente in canti brevi e rapidi, ma in quelle
identificazioni vedono il rapporto fra la poesia e la storia. L’epopea viene
quindi da loro ricondotta a una forza interna e necessaria, il cui protagonista
è il popolo poetante, dove l’individuo si annulla. Ritorna in essi, vivo e
operoso, il genio della nazione, impersonato, diciamolo pure, nell’opera
della stirpe considerata come un solo individuo (concetto questo che sarà
poi svolto nella Philosophie der Kunst dello Schelling). Ma quel genio
ormai è vivificato dalla sua origine divina, e poiché è il popolo che crea
l’epopea, è ovvio per loro che l’epopea non solo sia tutta ingenuità e
purezza, ma anche l’espressione di una verità storica.
A questa teoria, che i Grimm colorarono di un particolar fascino, non
mancarono nemmeno allora delle critiche aspre. Così, ad esempio, A. W.
Schlegel, il quale aveva proclamato il valore individuale della poesia
popolare negli «Heidelbergische Jahrbücher» del 1815, respinge senz’altro
la tesi che un’epopea, sia pur essa collocata alle origini, possa nascere
spontaneamente, o meglio, come dirà poi il Renan con un’espressione
felice, ancor prima di esser fatta. È vero, egli osserva, che la vera origine di
molti poemi, nati da un semplice germe e poi sviluppatisi nel corso dei
secoli, si perde nell’oscurità dei tempi. Ma ciò significa che un poema epico
non abbia l’autore? Si ammetta pure, aggiunge, che la poesia e la leggenda
popolari, fondamento dell’epopea, siano stati la proprietà comune di secoli
e di popoli. Ma le opere dello spirito possono nascere da una creazione
comune, ove questa creazione non venga intesa come un portato di
determinate creazioni individuali? Né lo persuadeva, naturalmente, il
rapporto fra la storia e l’epopea, per quanto egli ammettesse che «la
tradizione orale, diventata tradizione poetica, può conservare dei tratti che
la verità storica tace».
Le osservazioni dello Schlegel, che completavano quelle dell’Arnim,
non persuasero naturalmente i Grimm per quanto riguarda l’origine
dell’epopea. Anche qui essi erano per il miracolo, che, d’altro lato, per loro
doveva avere necessariamente due facce, data l’identità che ponevano fra
poesia ed epopea. E qui è ancora una volta il loro limite. Lo Schlegel ebbe
comunque un merito: quello, come ben osserva il Tonnelat, di far sì che i
Grimm epurassero lo spirito stesso dei loro lavori, dove accanto alle
astruserie metafisiche (di cui è facile sgombrare, oggi, il terreno, ma che
ebbero, nella loro epoca, un loro mordente) si trovano delle prese di
posizioni in cui si manifesta una piena consapevolezza critica.

3. I Kinder- und Hausmärchen e il tono della letteratura popolare

Così, ad esempio, sono stati indubbiamente i Grimm a intuire con


chiarezza il carattere semplice ed elementare della poesia popolare o meglio
della Naturpoesie, la quale perciò si distingue dalla Kunstpoesie, che
permette al cuore umano di aprirsi fino in fondo e di effondersi con la piena
dei suoi sentimenti. E quell’idea non passò inosservata ai loro
contemporanei, tanto è vero che il Diez, nel 1826, nel suo saggio giovanile
Die Poesie der Troubadours ritiene che il carattere della poesia popolare si
debba ravvisare nella semplicità tanto della rappresentazione quanto della
forma metrica, mentre più tardi, nel 1838, lo Hegel nei suoi Vorlesungen
über Ästhetik riafferma, sì, il carattere individuale della poesia popolare
(che identifica a sua volta, col canto), ma sostiene che essa non ha bisogno
«di molto contenuto, di un’interiore grandezza e altezza, che al contrario
dignità, nobiltà, purità di pensieri sarebbero solo di ostacolo al piacere di
esprimersi immediatamente». È vero che per i Grimm l’esprimersi
immediatamente non era affatto in contrasto con l’interiore grandezza della
Naturpoesie. Ma da questa loro premessa non doveva scaturire un principio
metodologico, vale a dire la fedeltà assoluta del testo folkloristico?
Nel commentare invece di recente il valore che, sotto questo aspetto, ha
l’opera più celebre dei Grimm, Lutz Mackensen ebbe a fare queste
osservazioni: «Un caso felice ha riportato in luce poco tempo fa la
redazione primitiva dei Kinder- und Hausmärchen: il manoscritto di
Oelenberg, cosiddetto dal luogo dove è stato scoperto. Possiamo così seguir
bene l’origine e la formazione di questa importantissima raccolta. Iniziata in
principio da Jacob Grimm nell’intenzione di fornire nuovo materiale alla
storia e alla interpretazione del mito germanico, l’opera passò poi sempre
più esclusivamente nelle mani, artisticamente esperte, di Wilhelm. Mentre
Jacob si interessava al contenuto delle fiabe, Wilhelm vuol trarne anche
l’elemento poetico; in mancanza di modelli immediati, connettendo ciò che
ha udito e che ha scelto, egli dà alla sua opera un suo proprio stile fiabesco,
vale a dire rende le fiabe nella forma in cui, a suo parere, dovrebbero essere
raccontate. Per riottenere l’autentico contenuto egli combina spesso versioni
differenti della stessa fiaba, tratte sia dalla tradizione popolare sia da libri, sì
da formare un’unità nuova, servendosi, per raggiungere lo stile schietto,
delle più svariate formule ricavate dal passato e dal presente. Sorge così lo
stile fiabesco che dai Grimm in poi domina largamente i nostri libri di
fiaba». E i Kinder- und Hausmärchen infatti sono oggi universalmente
considerati come uno dei maggiori libri dell’infanzia. Ma i Grimm sono,
con quell’opera, sullo stesso piano di un Basile o di un Perrault? Oppure in
essi prevalgono le stesse considerazioni che avevano animato l’Arnim e il
Brentano nel rielaborare i materiali del Des Knaben Wunderhorn?
Il fatto è che non era necessaria la scoperta del cosiddetto manoscritto di
Oelenberg per determinare il metodo di lavoro seguito dai Grimm nella
raccolta e nella elaborazione dei loro materiali. Basta leggere le prefazioni o
le note che sono contenute nelle sette edizioni, da loro curate, di quei
volumi, per rendersene conto. E tale indagine, minuta e precisa, era stata
fatta, del resto, ancor prima che si scoprisse il manoscritto di Oelenberg, dal
Tonnelat, il quale era già venuto alle stesse conclusioni di Lutz Mackensen.
Il che però richiede alcune precisazioni.
È necessario osservare anzitutto che l’intento iniziale dei Grimm non fu
quello di darci un libro per l’infanzia. Né tanto meno un rimaneggiamento
che risentisse del Des Knaben Wunderhorn, per il quale Jacob aveva
raccolto, del resto, le prime novelle che vi furono escluse, data l’indole di
quel lavoro ristretto alla sola poesia popolare. I Grimm, con i Kinder- und
Hausmärchen, si proponevano, anzi, di dare alla luce una autentica e
genuina opera di letteratura popolare. E perciò, come espressamente
dichiarano, la loro preoccupazione nel raccogliere quelle fiabe era
l’esattezza e la verità. «Non abbiamo nulla aggiunto, – commentavano, –
non abbiamo abbellito alcun motivo, né alcun tratto del racconto». Ma
anche allora l’Arnim che pur si intendeva di rimaneggiamento, scriveva a
Jacob: «Voi non mi farete credere, Wilhelm e tu, anche se lo crediate voi
stessi, che i racconti sono stati trascritti da voi come li avete intesi». I
Grimm, in verità, avevano la coscienza di aver raccolto con fedeltà i loro
testi; ma – ecco il punto – che cosa essi intendevano per fedeltà del testo?

4. Un’opera d’arte nata da un errore metodologico

Nel raccogliere i Kinder- und Hausmärchen, i quali, nelle varie edizioni


si vennero sempre più accrescendo, i Grimm si avvalsero soprattutto della
tradizione orale, vale a dire dei novellatori e delle novellatrici del popolo.
Ed è con commozione, ad esempio, che essi ricordano una contadina di
Niederzwehren che contribuì ad arricchire i loro materiali:

«Noi abbiamo avuto la fortuna di conoscere, al villaggio di Niederzwehren, presso Cassel, una
contadina alla quale dobbiamo i più bei racconti del nostro secondo volume. Era la donna di un
piccolo allevatore di bestie: essa era ancora piena di vigore e non aveva più di cinquant’anni… Essa
conserva queste vecchie storie nella sua memoria e in ciò ella ha un dono che il mondo non accorda a
tutti. Essa racconta prendendo gioia al racconto e, se lo si desidera, in modo che si possa scrivere
sotto dettato».

E i Grimm, in effetti, fissarono le fiabe che andavano raccogliendo sotto


dettato. Ma quando essi ebbero davanti quei racconti cominciarono i loro
dubbi metodologici. In un programma-premessa, apparso negli stessi
Kinder- und Hausmärchen, i Grimm insistono sempre sulla loro pretesa
fedeltà, ma aggiungono subito:

«Abbiamo dato delle fiabe la sostanza così come l’abbiamo ricevuta. Si comprenderà, d’altro lato,
che la maniera di dire e di narrare i particolari è principalmente dovuta a noi. Ci siamo tuttavia
sforzati di riportare qualsiasi cosa che abbiamo ritenuta caratteristica, in modo che noi possiamo dare
questa collezione sotto il suo aspetto vero e naturale. Colui, del resto, che si interessa a un’opera di
questo genere, sa che non ci si può occupare di codeste cose con un metodo da collezionista
indifferente o senza senno, ma che, al contrario, si richiede una grande attenzione nel distinguere la
lezione del racconto più semplice, la più pura e la più completa, dalla lezione falsificata. Ovunque noi
abbiamo trovato che le varianti di un racconto si completano l’una con l’altra le abbiamo date come
una sola storia. Ma quando differiscono abbiamo dato la preferenza a quella che è la migliore e
abbiamo riportato le altre nelle note».

In tal modo sfuggiva ai Grimm non solo la personalità del novellatore


che rende popolare una favola, ma sfuggiva loro il carattere stesso delle
varianti ciascuna delle quali è pur sempre una creazione a nuovo. Ancora
una volta l’Arnim fa notare a Jacob che il racconto popolare è nella sua
perpetua trasformazione e che esso non solo si adatta in maniera lenta alle
epoche successive, ma che nella bocca di ciascun narratore subisce dei
cambiamenti, tanto è vero che anche il fanciullo non ripete mai allo stesso
modo il racconto che gli ha narrato la propria madre. E i Grimm non
negarono, è vero, questo apporto personale che al racconto dà il narratore;
ma sostenevano la tesi che, se pur un racconto subisce delle modificazioni,
in esso il fondo resta immutabile e che il valore delle varianti consiste in
ciò: che ciascuna di esse conserva alcuni elementi essenziali. Cambia
dunque nel racconto l’espressione letteraria di secolo in secolo (e meglio
sarebbe dire: di autore in autore). Ma non si ha il diritto di correggere,
varianti alla mano, questa espressione perché rimanga in ciascun racconto il
fondo primigenio?
I Grimm insomma ricercavano nel racconto popolare il fondo comune e
impersonale. Questa la sostanza che attribuivano al racconto. E da qui il
concetto dell’elaborazione che in loro era e voleva essere soltanto una
restaurazione di testi. Era certo un mistero come si potesse – questo il loro
scopo – fare un’opera impersonale con quella restaurazione. Ma la loro
opera personale ebbe questo risultato: narrare le fiabe tedesche con quella
ingenuità ed elementarità che corrisponde allo stesso linguaggio popolare. E
tale stile poteva non soddisfare il Brentano che lo definiva puerile; ma
piacque agli Schlegel e all’Arnim, e soprattutto piacque a Goethe che
raccomandava i Kinder- und Hausmärchen alla signora Stein come un libro
che faceva felici i bambini.
In tal modo, se da una parte l’interesse per il folklore ha dato alla
letteratura infantile, e non solo ad essa, uno dei più bei libri che la storia
della letteratura possegga, dall’altra è stato proprio l’impegno filologico
della restaurazione dei testi a creare quella elaborazione artistica che è
l’incanto dei Kinder- und Hausmärchen. I quali sono, sì, sullo stesso piano
del Wunderhorn, ma con questa differenza: che essi sono ancor più aderenti
all’anima popolare e conservano prodigiosamente quel tono che è proprio
della poesia popolare. I Grimm erano convinti di aver trovato il linguaggio
popolare. In verità avevano trovato il loro linguaggio. E da un impegno
filologico, che era un errore di metodo, era nata una opera d’arte.

5. I racconti popolari come epopea nazionale

I Kinder- und Hausmärchen non volevano essere tuttavia soltanto


un’opera d’arte. Nella prima edizione i due volumi, editi rispettivamente nel
1812 e nel 1815, contengono delle note in cui i Grimm accennano ai
rapporti fra il racconto popolare e la leggenda epica, fra il racconto e il
mito. Ma, man mano che le edizioni di quei volumi si susseguono, a
cominciare soprattutto dall’edizione del 1819, che è la seconda, i racconti si
presentano al lettore in una nuova stesura, la quale, ad opera di Wilhelm,
ma con il consenso di Jacob, si viene sempre affinando. E ciò si spiega col
successo incontrato dal loro lavoro che dal campo degli scienziati, cui era
destinato, era arrivato nelle mani dei bimbi.
I Grimm pensarono allora di dedicare ai primi un terzo volume che
accogliesse la bibliografia, le note, le osservazioni, ecc.; e questo volume,
affidato a Wilhelm, uscì nel 1822, quando essi avevano già curato la
raccolta delle Deutsche Sagen, edita in due volumi, il primo nel 1816 e il
secondo nel 1818. Anche in quest’altra raccolta i Grimm avevano seguito il
loro metodo: eliminare le invenzioni individuali, restituire alla leggenda il
testo primigenio, conservare il linguaggio popolare. «Le saghe che noi
abbiamo raccolto, – scriveva Jacob all’Arnim nel 1815, quando col fratello
stendeva le Deutsche Sagen, – contengono i frammenti della leggenda
eroica germanica». Ma questa leggenda non era in nuce nei Kinder- und
Hausmärchen?
Nelle varie note della prima edizione di quest’opera, e soprattutto nella
prefazione che precede la seconda, i Grimm avevano già sostenuto l’idea
che le fiabe non vanno considerate soltanto come opera della fantasia, ma
come documenti di alto valore storico. E per loro la storia non era – ecco la
risposta a A. W. Schlegel – soltanto quella che narra i fatti
cronologicamente avvenuti, ma tutto ciò che il popolo pensa e sogna,
comunque lo pensi e lo sogni. Le fiabe popolari ci parlano infatti di un’età
dell’oro, di un’età in cui la natura stessa è piena di vita. È l’età in cui gli
uccelli e le piante parlano, mentre nelle acque dormono le ninfe, e la luna e
le stelle frequentano gli uomini. È un mondo incantato che esprime, nei suoi
aspetti, un’anima universale, la quale però ha sentito il tocco magico del
paese che l’accoglie.
Ma ora, nel terzo volume dei Kinder- und Hausmärchen, queste
osservazioni verranno riprese e discusse. In esso Wilhelm traccia, anzitutto,
sia pure rapidamente, la storia di quel particolare genere che è la fiaba, la
quale non è altro che un racconto semplice ed elementare. E acute sono le
sue osservazioni sul Pentamerone (che i Grimm pensavano di tradurre, ma
che sarà tradotto più tardi nel 1846 dal Liebrecht), sul Perrault, sulla celebre
collezione Cabinet des Fées, ecc. Vasta la conoscenza che egli dimostra
della novellistica orientale, araba, germanica, indù, ecc. Ma non è in
quell’excursus il valore del suo libro. È soprattutto nell’aver determinato i
rapporti fra il mito e il racconto. E qui i suoi rapporti sono decisi, onde tutto
il mondo germanico, il mondo del mito, si sveglia, rifugiandosi nella favola
popolare. La bella addormentata nel bosco sarà, quindi, per lui, Brunilde.
Sigfrido eccolo invece, in molte favole, sotto forma di cacciatore il quale,
avendo mangiato il cuore di un uccello favoloso, possiede la facoltà di
comprendere il linguaggio degli animali. Cenerentola, a sua volta, è lo
stesso personaggio mitico che impersona Gudrun. E così via. In quel mondo
Wilhelm trova la fede dei suoi antenati, i loro miti che pur si credevano
obliati e dispersi, la loro religione, che è quanto dire un paganesimo vivo e
animato, fuso e confuso con il Cristianesimo.
I Kinder- und Hausmärchen avevano quindi questo valore: conservarci
le credenze degli antichi popoli germanici e ricomporle in poesia, onde
quelle fiabe appariranno come i frammenti di una poesia primitiva. In
questa indagine, che riprende il metodo delle sopravvivenze già intravedute
dal Fontenelle e dal Lafitau, Wilhelm si preoccupa di spiegare da erudito
quel che egli aveva intuito da artista. Ma in quella spiegazione egli, come il
fratello, dimostrava che la Naturpoesie non può essere considerata soltanto
da un punto di vista estetico, ma lo deve essere anche da un punto di vista
etnografico. Il racconto popolare, insomma, come il canto è (o meglio,
aggiungiamo noi, può essere) un’opera validamente estetica. Ma in essa si
racchiudono credenze, superstizioni che vanno indagate e studiate ove si
voglia considerare il racconto stesso nella sua intima struttura; il che non
solo non toglie nulla al valore estetico delle novelle, ma serve anzi a
spiegarci significati non sempre comprensibili.

6. Poesia, diritto e mitologia

Questa, del resto, fu la via su cui si era incamminato Jacob, cui


dobbiamo un’opera veramente imponente: le Deutsche Rechtsaltertümer,
edita nel 1828. I Grimm, in vari saggi, avevano considerato il diritto alla
stessa stregua del mito, e quest’ultimo alla stessa stregua del linguaggio. Il
popolo, a loro avviso, sente oscuramente il carattere della santità delle leggi
tradizionali, e questa è la ragione per cui nel diritto consuetudinario vi è
qualche cosa di irriducibile, che lo spirito è stato incapace di produrre e che
è l’apporto evidente di una volontà superiore, onde il diritto e la poesia
accusano la medesima origine. Lo studio dei frammenti giuridici, quali si
ritrovano nei documenti del diritto consuetudinario (nascosti, in genere, in
mezzo ai riti e agli usi), doveva pertanto rimettere in luce l’antica saggezza
germanica. Ed è su queste fondamenta che Jacob pone appunto la sua
Deutsche Rechtsaltertümer. In un suo saggio Poesie im Recht Jacob aveva
già osservato con compiacimento:

«È ormai da molto tempo che si è riconosciuto come uno dei tratti principali della nostra nazione
l’attaccamento agli usi dei nostri padri, nonché la ripugnanza a disfarsene; e se non fosse stato così,
noi non possederemmo, ancor oggi, una poesia che la sua antichità e il suo valore rendono
comparabile alla sola poesia greca; ancor oggi, i costumi, i modi di parlare e le abitudini dei
contadini non si sono interamente distaccati né dalla antica leggenda né dalla franca natura delle
leggi antiche».

E quel patrimonio ecco che avrà la sua più alta consacrazione in un’altra
opera di Jacob: la Deutsche Mythologie, edita nel 1835. I grandi poemi, cui
i due fratelli avevano dedicato le loro appassionate indagini, l’Edda e i
Nibelunghi, costituiscono, qui, i loro maggiori punti di riferimento. Ma
l’indagine non si ferma a quei poemi e quindi alle credenze che essi ci
tramandano a documentare il mito della vecchia Germania. Jacob si avvale
anche delle cronache del Medioevo e dell’agiografia, e partito dall’antichità
germanica arriva alle sopravvivenze che il folklore ci conserva in tutte le
sue manifestazioni (riti, usi, proverbi, modi di dire, canzoni, leggende,
ecc.). Qui il valore della sua Mythologie – e in ciò egli è sullo stesso piano
delle Deutsche Rechtsaltertümer – dove la problematica del folklore è
affrontata con larghezza di vedute, tanto più che Jacob non si ferma agli
accostamenti fra i miti e i riti, fra i racconti e le credenze, ecc., ma cerca
sempre di approfondire il valore di quelle manifestazioni, di vagliarle
criticamente e di interpretarle.
È ovvio oggi osservare che in queste opere il Grimm attribuisce a una
remota antichità manifestazioni a essa estranee, mentre si abbandona ad
accostamenti arditi e geniali, ma puramente casuali e fallaci, onde, come
ben osserva il Sokolov, egli confonde ciò che è identico con ciò che è
analogo. Ma prescindendo da questa osservazione, si può negare a Jacob il
merito di averci dato in queste sue opere una prima sistemazione scientifica
del folklore? E gli si può negare l’altro merito di averci dato una
rievocazione pittoresca di quel paganesimo – cristianesimo germanico, già
genialmente adombrato nei Kinder- und Hausmärchen e nelle Deutsche
Sagen? Si aggiunga che Jacob è uno scrittore massiccio, ma immaginoso, e
che il suo linguaggio sa creare delle atmosfere dentro cui il lettore finisce
col rimanere stordito e abbagliato. Ed eccoci allora giustificata la ragione
del suo successo. Piace a Jacob, come al fratello, vagare spesso fra le
nuvole come le protagoniste delle sue fiabe; e gli piace, altresì, recarsi alla
tregenda del passato germanico a cavallo di una scopa; ma dalle nuvole
quante volte egli non scende sulla terra, dove cammina con passo sicuro e
deciso?

7. La Grammatik

Camminare, d’altra parte, sul terreno che costituiva il suo campo


specifico di studio, significava per Jacob affrontare anche il problema della
lingua in cui si inverano i canti, le fiabe, le novelle, i miti, ecc. Nei citati
«Heidelbergische Jahrbücher», A. W. Schlegel aveva già invitato i Grimm
allo studio della grammatica tedesca per una più esatta interpretazione dei
testi folkloristici. E quel problema li aveva indubbiamente assillati man
mano che essi curavano anche le opere dell’antica letteratura alemanna.
L’opera maggiore comunque, anche in questo campo, fu assunta da
Jacob, che nel 1819 aveva già pubblicato la Deutsche Grammatik, dove egli
seguì la formazione e lo svolgimento della lingua tedesca, comparando fra
di loro gli idiomi dello stesso ceppo. Il Grimm nella sua Grammatik segue
da un lato gli insegnamenti del Savigny (cui la Grammatik è dedicata), il
quale era dell’avviso che le funzioni particolari dei popoli, attraverso cui
essi diventano individui, sono soprattutto la lingua e il diritto. E Jacob, se è
convinto, come lo erano stati lo Hamann e il secondo Herder, dell’origine
divina del linguaggio, è anche dell’avviso che fra lingua e diritto esiste una
profonda analogia, in quanto ambedue sono nella loro essenza vecchi e
giovani, e ambedue hanno una storia.
È noto che in un suo celebre saggio, edito nel 1812, lo Humboldt aveva
considerato l’umanità come una pianta mostruosa le cui ramificazioni si
estendono su tutta la terra. Era tempo perciò, egli ammoniva, di ricercare la
parentela multipla delle nazioni e delle loro influenze, tanto più che la
differenza delle nazioni si esprime nella lingua. In questo saggio mancano
dei principi per determinare i gradi di parentela delle lingue già intuite dallo
Jones e da Friedrich Schlegel. Li stabilirà con certezza qualche anno dopo il
Bopp, cui dobbiamo la celebre Über das Coniugationssystem der
Sanscritsprache in Vergleichung mit jenem der griechischen, lateinischen,
persichen und gotischen Sprache, dove è ampiamente dimostrata la
parentela del sanscrito col greco, col latino, ecc., che è quanto dire la
parentela degli idiomi indo-europei. Così nasceva la linguistica comparata,
e con essa la glottologia indo-europea. E questo era, a sua volta, il
battesimo stesso della Grammatik di Jacob, il quale, se da una parte
accoglie la teoria di un tronco comune di tutte le lingue indo-europee,
dall’altra vede scaturire dallo studio delle stesse varietà dialettali, in cui si
articola la lingua tedesca, l’esistenza di una lingua germanica primitiva,
«Nessun popolo sulla terra, – egli dirà allora, – ha una lingua la cui storia si
possa paragonare a quella dei Tedeschi».
Bisogna osservare d’altra parte che i Grimm erano rimasti sempre
affascinati dall’idea romantica di una civiltà in cui si invera l’originario e il
primitivo, sia pure nel senso che Herder dava a questi due termini. E quel
fascino essi videro, fin dai primi lavori, nel patrimonio folkloristico del loro
paese, che è quanto dire nel veicolo della propria tradizione nazionale.

8. Il patriottismo dei Grimm

E l’opera dei Grimm ha uno scopo preciso: illustrare questa tradizione,


onde essi continuano appunto quel moto nazionale che nel passato vedeva
la libertà del presente. Educati alla scuola storica del Savigny, di cui furono
discepoli, i Grimm condivisero col Maestro l’idea che «ogni processo
storico non nasce da un’intenzione cosciente e individuale, ma porta in sé
una propria vita organica che si svolge per effetto di forze inaccessibili alla
ragione».
Sensibili a tutte le correnti che le tendenze romantiche venivano
imponendo, amici degli Schlegel, dell’Arnim, del Brentano e del Görres, i
Grimm furono portati allo studio del folklore dall’amore del loro Medioevo,
che anche ad essi si era schiuso, fin dal loro noviziato filologico e letterario,
come l’epoca della libertà del loro paese, come la tappa essenziale della
loro civiltà, che è una civiltà originaria e primitiva, in cui si fondono popolo
e nazione. È noto, infatti, con quale trepidazione il maggiore dei fratelli,
Jacob, si sia avvicinato ancor giovane alla raccolta di Minnelieder del
Bodmer, che egli trovò nella ricca biblioteca del Savigny e che lesse venti
volte da cima a fondo. Ed è noto altresì quale impressione egli più tardi
ebbe dalla lettura della prefazione che il Tieck aveva premesso a una scelta
di quella raccolta. Né diversi furono i primi interessi di Wilhelm.
È naturale che i due fratelli abbiano sentito, perciò, il loro passato in
funzione nazionale e lo abbiano idealizzato, anzi addirittura divinizzato. E il
loro patriottismo è vivo, fervoroso, impaziente, come appunto ci dimostra,
fra l’altro, l’impegno con cui essi, animati da quella Rettungsgedanke che
nel loro paese diveniva sempre più attuale, si accinsero alla raccolta delle
fiabe, delle leggende, dei miti, dei proverbi, delle credenze, che venivano da
loro considerati come l’emanazione dell’anima germanica.
Il primo volume dei Kinder- und Hausmärchen uscì, come è noto, alla
vigilia della battaglia di Lipsia, quando essi si sentivano umiliati di avere
davanti, come dirà Jacob, un nemico orgoglioso e sarcastico. Né era senza
significato che Wilhelm, un anno prima, nel pubblicare il suo libro
Altdänische Heldenlieder, Balladen und Märchen avesse già osservato che:

«i racconti meritano una maggiore attenzione di quel che per ora abbiano avuto, non soltanto per la
loro forma poetica che ha un fascino particolare e che ha lasciato in ciascuno di coloro che li hanno
intesi nella loro infanzia un prezioso insegnamento insieme con un dolce ricordo, ma anche perché
fanno parte della nostra poesia nazionale».

La loro attività ebbe perciò, sia pure nella sua rigida compostezza, il
carattere di una sfida nazionale. E questo fu l’atteggiamento politico cui i
Grimm improntarono sempre la loro vita, tanto è vero che essi, spiriti aperti
e liberali, non esitarono nel 1837 a firmare la celebre protesta redatta dallo
storico Dahlman contro il governo di Hanno ver per aver violato la
costituzione. In cambio Jacob, che già da sette anni insegnava all’Università
di Gottinga, fu espulso. Ma ciò gli servì a dedicarsi maggiormente a
quell’attività che ormai più l’interessava fra tutte le altre che egli aveva pur
coltivato; la lingua e i dialetti della sua Germania. Imponente era già, fin dal
1837, la mole di lavoro che i Grimm avevano messo insieme. Ma ora ecco
che essi nel 1855 si accingeranno alla compilazione di un Wörterbuch der
deutschen Sprache, mentre già nel 1848 Jacob aveva pubblicato, appendice
alla sua grammatica, i due volumi della Geschichte der deutschen Sprache.
Queste opere erano in un certo senso il frutto della germinazione della
Deutsche Grammatik, la quale, come ben commenta il Terracini, composta
nel fervore della riscossa tedesca, è uno dei vangeli della glottologia,
mentre la Geschichte der deutschen Sprache, ricercando la preistoria
linguistica del germanesimo, esprime l’ansia e il sentimento nazionale del
’48 tedesco. Il che si può anche dire del Wörterbuch, che conclude
un’attività di ricerche e di studi maturati fra il 1812 e il 1848, e che è una
miniera di notizie folkloriche.
I Grimm, insomma, nulla trascurarono perché la Germania potesse
finalmente avere accanto ai Monumenta Germaniae Historica, dovuti
all’iniziativa dello Stein, un suo Corpus dove il passato si fondesse col
presente, e dove presente e passato potessero dare l’idea precisa e unitaria
del loro popolo. Era desiderio dei Grimm mettere o rimettere in luce,
convenientemente illustrati, i testi della vecchia letteratura germanica, che
già tanto entusiasmo avevano suscitato nei loro predecessori; ma era,
soprattutto, loro interesse ricostruire, per mezzo degli elementi che offriva
loro il folklore vivente, quel che di più sacro conservava la tradizione. E la
loro opera si svolge su due piani: da una parte le ricerche particolari con la
raccolta e la pubblicazione dei testi; dall’altra le ampie sintesi con le
costruzioni generali inerenti alla lingua, al diritto, alla novellistica, alla
mitologia, all’epopea, ecc. Non sempre, come abbiamo visto, i due fratelli
collaborarono insieme, per quanto, anche collaborando insieme, si
dividessero sempre il compito del loro lavoro. Ma unico fu, pur sempre, il
loro fine: elevare il mondo germanico a un organismo poetico e politico
concluso in se stesso, che assumesse ancor di più il valore eterno di un
simbolo per il popolo stesso cui si ispiravano. E il popolo – lo aveva
espressamente dichiarato Wilhelm – «è un concetto dove si riassumono
perfettamente le facoltà dello spirito».
L’opera dei Grimm, appunto per questo, aveva dominato in gran parte la
cultura germanica, infondendole con la ricerca scientifica una idea-forza di
carattere nazionale. Ma, nel frattempo, quale era stato e qual era
l’atteggiamento che nei confronti del folklore aveva assunto il
Romanticismo negli altri paesi d’Europa? E quale, in essi, l’influsso dei
Grimm e dei loro predecessori?
14. Ritorno alle origini

1. Aspetti del Romanticismo inglese: Wordsworth e Coleridge

Si ritiene in genere che il Romanticismo, quale si articola nei paesi


dell’Europa occidentale, abbia avuto i suoi principali documenti: per
l’Inghilterra nelle Lyrical Ballads, per la Francia nel-l’Allemagne, per
l’Italia nella Lettera semiseria di Grisostomo. Accettiamo pure questi dati.
Ma il Romanticismo, dobbiamo subito domandarci, nei paesi dell’Europa
occidentale si manifesta nello stesso modo e con gli stessi caratteri quali si
son visti in Germania?
Non v’è dubbio che il Romanticismo tedesco, quali che siano le
precedenti esperienze europee da cui ha tratto i suoi ideali, ha pur sempre il
suo fondamento in un suo particolare sostrato filosofico, e che quindi, come
tale, esso è un potente organismo in cui sono convogliate quelle precedenti
esperienze. E ciò si spiega date le condizioni in cui si trovava in quegli anni
la Germania. Negli altri paesi dell’Europa occidentale, il Romanticismo,
pur congeniale com’è a ciascun paese che lo esprime, è invece una
germinazione dei precedenti moti preromantici, su cui si innesta la
sistemazione stessa di quei valori che sono propri del Romanticismo
tedesco.
Ed è questo anzitutto il caso dell’Inghilterra, dove le Lyrical Ballads
vogliono riproporre, com’è espressamente dichiarato nel programma che le
precede, il ritorno a quelle tradizioni popolari già promosso dall’Ossian,
dalle Reliques e da altre opere preromantiche. Il che richiede una
precisazione. Dovute infatti al Wordsworth e al Coleridge – è noto che il
loro viaggio in Germania fu suscitatore per loro di rivelazioni e di fermenti
–, le Lyrical Ballads vogliono cantare, come gli stessi autori dichiarano,
«gli argomenti di ogni giorno in modo da dare impressione di cosa
romantica e soprannaturale» (Wordsworth) e «gli argomenti romantici
soprannaturali in modo da dare impressione di realtà» (Coleridge). Fatto è
però, sia pure con queste premesse, che le Lyrical Ballads riprendono in
fondo una tradizione nazionale che aveva dato i suoi frutti con il Thomson e
con il Gray. Il Coleridge e il Wordsworth cercano però anche un nuovo
linguaggio, il loro linguaggio, lontano dalle regole della poetic diction. E
questa è la ragione per cui il primo si abbandona agli arcaismi che gli
servono a creare la stessa atmosfera del passato, mentre il secondo usa allo
stesso scopo quelle espressioni che si ritrovano non solo nel linguaggio dei
bimbi, ma anche in quello del popolo.
Nella seconda edizione delle Lyrical Ballads il Wordsworth appunto per
questo ricorda l’insegnamento delle Reliques che egli oppone all’Ossian:

«Contrasta l’effetto della pubblicazione del Macpherson con quello delle Reliques del Percy; così
modesto questo, quanto pretenzioso l’altro. Io ho già constatato quanto la Germania debba al primo, e
per quel che riguarda il nostro paese l’opera del Macpherson è stata completamente riabilitata da
quella del Percy. Penso che non vi possa esser oggi nessun poeta che non sia fiero di mostrare il suo
riconoscimento alle Reliques. Ed io so che molti altri sono del mio parere, mentre per quanto riguarda
me sono felice di farne pubblico riconoscimento».

Il Wordsworth – si pensi al Prelude – predilige soprattutto le ballate del


Nord, che egli aveva sentito da piccolo; e tale predilezione si accompagna
con l’amore che egli mitre per la natura e in particolar modo per la vita
rustica, dove tutto è semplice e naturale e dove si sente la voce stessa di
Dio. Da ciò il suo stupore per i bambini, per i vagabondi, per le spigolatrici
ecc., dove il sentimento individuale si annulla nell’affermazione dei valori
collettivi. E questa è anche la ragione per cui mentre nel Coleridge, che pur
sente il fascino per le classi umili e per le ballate, il popolo non è, quando lo
è, che materia d’arte; nel Wordsworth invece esso è anche espressione di
quel desiderio di accomunamento di tutti gli uomini nell’abbraccio infinito
della natura.
«Questo accomunamento, – osserva tuttavia il Caudwell, – in
Wordsworth assume l’aspetto di ritorno all’uomo naturale proprio come
avviene in Shelley. Wordsworth, profondamente influenzato, come Shelley,
dalla corrente francese che parte da Rousseau, la libertà, la bellezza – tutto
quello che ora nell’uomo non c’è per via dei suoi rapporti sociali – le cerca
nella natura». In questo senso però: che il bambino e il contadino, l’uno e
l’altro vicini alla natura, gli richiamano il divino, da cui hanno tutti la loro
origine. Il Wordsworth, insomma, non pensa a una libertà che proviene da
una ribellione. La libertà per lui è il risultato dell’unione stessa della natura-
uomo-Dio.
L’idea di una umanità migliore d’altro lato non può essere disgiunta
dall’idea della libertà. Ma la libertà, poco dopo l’uscita delle Lyrical
Ballads, non si chiamerà, in Inghilterra, lotta contro Napoleone? Vero è che
Napoleone è fuori i confini della patria; ma è un pericolo; ed ecco che,
mentre evangelici e metodisti predicano che non è tempo di pensare a
livellamenti sociali, anche le idee del Wordsworth si andranno sempre più
placando in un moralismo didattico-sociale, impregnato sì di quel feroce
puritanesimo (contro cui combatterà invece il Byron), ma tuttavia sensibile
ai valori della vita emotiva e tradizionale in cui è la sorgente del proprio
essere e del proprio divenire.

2. Scott folklorista e romanziere

Né diverso sarà in fondo l’atteggiamento che verrà assumendo Walter


Scott, su cui, come sul Wordsworth, profonda fu l’impressione che
suscitarono le Reliques del Percy. Com’egli stesso ci attesta nella sua
Autobiography:

«… io feci allora, in primo luogo, la conoscenza con le Reliques del vescovo Percy. Ricordo bene il
luogo dove lessi questo volume per la prima volta. Stavo sotto un grande platano… Il giorno estivo
passò così presto che, nonostante il gagliardo appetito dei tredici anni, dimenticai l’ora del pranzo e
misi in pensiero i miei familiari, finché non venni trovato nel mio intellettuale boschetto. Leggere e
fantasticare era in quei momenti la stessa cosa, e da quel momento non lasciai in pace i miei
compagni e tutti coloro che avevano la forza di ascoltarmi con le drammatiche letture delle ballate
del Percy. Appena poi potei raggranellare un po’ di denaro, che mi si dava per i miei minuti bisogni,
io stesso comprai una copia di questi volumi che mi stavano tanto a cuore, e io non credo che abbia
mai letto un libro così spesso e con tanto entusiasmo».
E fu questo entusiasmo che lo portò, appena trentenne, alla compilazione
di una raccolta di ballate scozzesi, la quale, quattro anni dopo l’apparizione
delle Lyrical Ballads, uscì con il titolo di Min-strelsy of the Scottish Border.
Un suo biografo, il Lockhart, ci narra come, per sette anni di seguito, lo
Scott si aggirasse fra le rovine dei castelli delle regioni vicine al confine
scozzese e com’egli in quelle regioni si preoccupasse di studiare tutte le
manifestazioni inerenti alla vita popolare. Lo Scott guardava già al folklore
con l’interesse dell’antiquario e dello storico, ma anche dell’artista. E nel
Minstrelsy questi suoi interessi si avvicendano, tanto è vero che egli, se da
una parte raccoglie, pur a volte modificandole, le ballate storiche e
romantiche – contribuendo così a tener sempre più vivo l’amore per il
Medioevo e per le tradizioni popolari locali e nazionali –, dall’altra non
esita a comporne delle sue.
Non poche delle ballate raccolte furono utilizzate dallo Scott nei suoi
romanzi, dove egli rese popolare quella teoria del colore locale che era
implicita in tutto il Romanticismo e che già aveva avuto un caldo interprete
nel Müller. Romanzi storici, quelli dello Scott. Ma quale concezione della
storia vi si rivela? Lo Scott si preoccupa certamente della realtà storica e di
tutti i problemi connessi ad essa. E al riguardo un suo ammiratore, Maurice
de Guérin, afferma che «è in lui che si deve studiare la storia». E aggiunge:
«La insegnerà lui la storia meglio di tutti gli storici, perché costoro non
raccontano che i fatti generali e le azioni pubbliche, mentre lui entra nei
particolari della vita e nei suoi dialoghi così naturali e ingenui fa conoscere
tutte le classi della società e i costumi del tempo». Ma ad osservare bene
nella storia quale viene vista dallo Scott, tutto, i particolari, i dialoghi ecc.
sembrano dar vita a una immaginosa e romantica favola. Qui il segreto della
sua opera che non poche volte ci ricorda quei romantici tedeschi che egli
aveva amato e tradotto.
I romantici tedeschi – si metta a confronto un romanzo dello Scott con
quello di un Tieck – si preoccupavano però di vedere da quali bisogni erano
nate le varie condizioni di civiltà e quindi le varie forme del costume cui
essi si richiamavano come a una materia nazionale-educativa. Allo Scott
mancavano invece proprio tali interessi. E la stessa materia storico-
nazionale-educativa cui ricorreva si spegneva in lui in una pittoresca
contemplazione del passato, quando non si trasformava addirittura in una
costruzione sua ideale, che di storico aveva soltanto i caratteri esterni.
Si deve tuttavia riconoscere che lo Scott ci ha lasciato, nella sua vasta
opera, una pittoresca galleria di antichità popolari dove fra l’altro risplende
di una sua luce particolare la vita del popolo scozzese e che completa quelle
che già ci erano state presentate dal Brand, dal Bourne e dal Browne, quasi
a tracciare un folklore ideale di tutta la Gran Bretagna. Queste antichità
assumono in lui il colore di quegli stessi Tales of a Grand-Father che egli
narrava ai suoi nipoti. E Wilhelm Grimm non senza ragione nelle sue note
ai Kinder- und Hausmärchen segnalava lo Scott come colui che aveva
saputo raccogliere l’eredità dell’Ossian e delle Reliques.

3. Aspetti del Romanticismo francese: ritorno alla natura e all’uomo


naturale
Ma qual è invece l’eredità raccolta dal Romanticismo francese?
L’Inghilterra aveva avuto l’Ossian e le Reliques. La Francia invece aveva
avuto Rousseau. E Rousseau è indubbiamente il preannunciatore stesso del
Romanticismo francese, il quale tuttavia ha un chiaro documento nell’Essai
sur l’art dramatique di Sébastien Mercier, edito nel 1777.
In questo suo lavoro – che per molti aspetti si collega da una parte allo
Harlekin del Möser e dall’altra alle Lettres sur les spectacles del Rousseau
– il Mercier riferendosi in generale alla letteratura del suo tempo, ma in
particolare al teatro, rivolge a quest’ultimo l’accusa di non riprodurre la
vita, quale si svolge dinanzi ai nostri occhi, e ciò per un doppio ordine di
cause, perché non ci si è saputo allontanare dalla servile imitazione degli
antichi e perché si è creduto che solo i grandi della terra fossero degni di
essere portati sulle scene. La vita non è d’altro lato né tutta tragica né tutta
comica, così che se ne possa derivare la materia per una tragedia o una
commedia, in tutto riducibili entro gli schemi consueti. Da ciò la necessità
di una forma drammatica più conforme ai nuovi tempi, per l’appunto il
dramma, serio o tragico e comico a un tempo, libero da regole prestabilite,
libero ugualmente di attingere la sua ispirazione dal popolo e dalle classi
più umili.
Come si vede, in questo saggio, a torto dimenticato e trascurato, abbiamo
in germe, oltre che i motivi che erano stati comuni alla querelle degli
antichi e dei moderni, alcuni tra quelli che saranno i presupposti
fondamentali del programma romantico, e in primo luogo l’esigenza di
un’arte che non si rivolga alle fonti consuete e accademiche. Anche il
grottesco, in cui Victor Hugo vedrà, nella famosa prefazione del Cromwell,
l’aspetto essenziale della maggiore complessità dell’arte cristiana su quella
pagana, è implicitamente preannunziato dal Mercier. E anche il laido e
l’orrido, avrebbe invero affermato l’Hugo, hanno o possono avere la loro
propria bellezza. Ma non bisogna vedere qui l’esigenza di una letteratura
più vera e quindi più vicina al popolo? Di una letteratura, per altro verso, in
più intimo contatto con la natura?
Di questa natura, considerata e contemplata nel miracolo infinitamente
vario delle creature, dal fiore alla montagna, dagli organismi più semplici ai
più complessi e all’uomo stesso, abbiamo l’immagine entusiastica
nell’opera di un naturalista quale il Buffon e in quella di un poeta scienziato
quale Bernardin de Saint-Pierre delle Études e delle Harmonies de la
nature. È noto, d’altro lato, che Bernardin de Saint-Pierre si collega al
Rousseau – di cui fu ammiratore e discepolo e a cui dedicò un ampio saggio
– anche nell’esaltare lo stato naturale dell’uomo primitivo: questo lo sfondo
di Paul et Virginie. Ed è noto altresì che egli forma un punto di passaggio
fra lo stesso Rousseau e lo Chateaubriand.
Nell’Essai historique, politique et moral sur les révolutions, edito un
anno prima delle Lyrical Ballads, lo Chateaubriand, dopo avere esaltato
l’Ossian come una delle più potenti voci della poesia moderna, ricorda con
struggente nostalgia quegli Indiani d’America che erano stati così cari al
cuore dei Francesi. Ed esclama:

«Quando io provo la noia di vivere e mi sento il cuore rattristato a contatto degli uomini, piego la
testa e volgo uno sguardo di rimpianto. Meditazioni incantate! Fascino segreto e ineffabile d’una
anima contenta di se stessa! È in mezzo agli immensi deserti dell’America che vi gusto a lunghi
sorsi».

E più tardi, quando quelle meditazioni si sono trasformate in opere come


l’Atala, René e I Natchez aggiunge:

«Nel primo volume dei Natchez si troverà il meraviglioso, e il meraviglioso di tutte le specie, il
meraviglioso cristiano, il meraviglioso mitologico, il meraviglioso indiano: vi si incontreranno muse,
angeli, demoni, geni, combattimenti, personaggi: la Fama, il Tempo, la Notte, l’Amicizia. Questo
volume offre invocazioni, sacrifici, prodigi, comparazioni, le une brevi, le altre lunghe, alla maniera
di Omero…»

Sarebbe stato più esatto dire: alla maniera di un Omero travestito a guisa
di Ossian. I selvaggi americani dello Chateaubriand parlano e agiscono
infatti come gli eroi del bardo scozzese; onde a volte si ha proprio
l’impressione che Ossian e Fingal abbiano preso il nome di Sciactas e
d’Outougamiz. Ma quale che sia stato il suo stile, è certo che nello
Chateaubriand il fascino del lontano e dell’ignoto si tramuta non solo
nell’ansia di un mondo migliore, ma anche nel sentimento di una vita
semplice e ingenua. In altre parole: nel gusto di quell’eterno momento
primitivo che è dell’umanità. Ed è lo stesso gusto che egli sente per i culti
del Cristianesimo, da lui esaltato nei suoi valori sociali ed estetici; è lo
stesso gusto con cui egli rievoca le foreste dell’antica Gallia che avvicina
all’architettura gotica del suo paese; lo stesso che sente per le varie
manifestazioni della vita popolare in cui è, in gran parte, il passato stesso
della Francia.

4. Da Madame de Staël al Fauriel


La ricerca di questo passato, dopo i tentativi di un Thiers o di un Le
Brun, era stata patrocinata, a dire il vero, anche da Napoleone – fu un suo
ministro, il Cretet, a fare una prima circolare perché venissero salvati quei
documenti che conservavano gli idiomi popolari –. Ma, nello stesso periodo
di tempo, quanto mai feconda fu in proposito l’attività dell’Accademia
Celtica, fondata nel 1804 e trasformatasi poi in Società degli Antiquari. In
un suo discorso inaugurale il segretario generale, lo Johanneau, rilevava
l’importanza delle tradizioni popolari, in Francia «generalmente neglette», e
consigliava la raccolta dei canti e delle novelle. Raccomandava inoltre ai
soci di consultare il popolo, «di cui tutta la scienza è tradizionale e di cui le
stesse espressioni non sono che parole consacrate». Esse, le tradizioni,
possono far vedere ai Francesi quel che sopravvive in loro di antico e di
gallico. Ma – ecco quel che conta – possono insegnare agli stessi Francesi a
non essere né Greci né Romani.
L’appello non rimase lettera morta, tanto è vero che l’Accademia
Celtica, ad opera del Dulaure e del Mangourit, inviò qualche anno dopo un
questionario – il primo che sia stato compilato – ai suoi soci e ai prefetti di
provincia allo scopo di inventariare le feste, le cerimonie, le pratiche
superstiziose, i documenti tutti della vita materiale e spirituale del popolo. E
fra i quattro paragrafi del questionario il terzo comincia: «Quali sono i
giuochi particolari di ciascun paese, i canti, le arie? Sono essi tristi o gai?
Quali sono le danze e gli strumenti di musica? Vi sono dei canti che
sembrano appartenere a un’alta antichità?»
Il Dulaure, nel 1805, aveva pubblicato, avvalendosi delle esperienze del
Lafitau e soprattutto del Brosses, un suo volume Des divinités génératrices
ou du culle du phallus chez les anciens et les modernes, dove si trova già
una sistemazione dei fatti folkloristici (come, ad esempio, le testimonianze
sui riti fallici in uso nell’Italia moderna). Nessuno sapeva quindi meglio di
lui quel che significa raccogliere quel materiale. Ma nel 1810 uno studioso
che si affannava a cercare le etimologie delle parole inerenti agli usi della
Borgogna, Girault d’Auxonne, scriveva al segretario generale
dell’Accademia: «Io confesso che sono sorpreso di vedere come molti si
limitano alla semplice enumerazione degli usi senza penetrarne il senso
nascosto, senza cercarne le cause, senza tentare di risalire alle origini».
Nello stesso anno Napoleone faceva bruciare, perché ritenuto poco
francese, un bellissimo libro che Madame de Staël aveva dedicato
all’Allemagne o meglio al Romanticismo tedesco. Dieci anni prima in un
saggio De la littérature considérée dans ses rapports avec les institutions
sociales la stessa Madame de Staël aveva già annotato che bisogna studiare
la letteratura di una nazione in rapporto a quel che è la nazione stessa nei
suoi lati più intimi e segreti e che essa, la letteratura, è pur sempre
l’espressione di una determinata epoca storica. Il libro De l’Allemagne,
ripubblicato nel 1814, da maggior vigore a tale istanza, tanto è vero che la
Staël, se da una parte mette in risalto i caratteri nazionali della poesia
germanica, dall’altra la contrappone a quella francese che è la sola, pur
essendo la più classica di tutte le poesie moderne, a non essere diffusa tra il
popolo. E ciò, a suo avviso, appunto perché non è nazionale.
Nel rievocare la Lenore del Bürger, la Staël osserva quindi che «le
superstizioni popolari hanno sempre una analogia con la religione
dominante», onde «non si comprende perché si dovrebbe avere sdegno ad
adoperarle». Shakespeare, aggiunge, «ha conseguito effetti mirabili con gli
spettri e con la magia». E subito dopo: «L’arte non potrebbe essere
popolare, se disprezza ciò che signoreggia così gagliardamente la fantasia
della moltitudine». Ed era come dire: ritorniamo, noi Francesi, contro cui si
è combattuto in nome non solo di Napoleone ma anche della letteratura, a
quelle fonti spontanee e immediate cui già hanno ricorso e ricorrono i
Tedeschi e gli Inglesi, presso i quali il mito della poesia popolare è stato la
sorgente stessa di una nuova poetica e di una nuova poesia.
Si deve tuttavia osservare in proposito che il valore della poesia popolare
in Francia era stato già affermato dal Montaigne – che lo Herder aveva
citato in testa ai suoi Volkslieder – e dallo stesso Rousseau. Dobbiamo al
Fauriel però il merito di aver destato, in maniera decisa, quell’interesse con
la pubblicazione dei Chants populaires de la Grèce, che cominciarono
d’allora a offrire un vivo interesse agli studiosi del folklore. Il primo
volume di quest’opera fu pubblicato nel 1824, nello stesso anno, cioè, in cui
in nome della indipendenza greca, moriva Byron. E i Chants non solo
rappresentano la voce di quella nazione, ma sono anche la voce di una
nuova epopea oltre che di una nuova poetica (si pensi all’influsso che la
poesia popolare esercitò sull’iniziatore della poesia neo-ellenica, il
Solomos).
Nel presentare i Chants populaires de la Grèce, il Fauriel afferma che
essi costituiscono l’Iliade della Grecia moderna, frutto com’essi sono di
un’epopea in fermentazione. Il Fauriel è dell’avviso che quell’epopea sia
l’effusione diretta del genio popolare. E aggiunge subito che «il genio
incolto dell’uomo è uno dei fenomeni, uno dei prodotti della natura».
Tre anni dopo, traducendo le Ideen dello Herder, arrivava alle stesse
conclusioni il Quinet, il quale, dopo aver attribuito allo Herder il merito di
avere associato al «genio della storia», quei «monumenti» che vi erano
esclusi, rievocava con commozione i canti che «formano il legame del
popolo con il passato». L’uno e l’altro, il Fauriel e il Quinet, conoscevano in
gran parte le opere dei romantici tedeschi che già la Staël aveva diffuso. La
prefazione dei Chants è uno dei frutti di quella conoscenza. Ma il Fauriel va
oltre. In una sua serie di corsi – tenuti alla Sorbona e poi in parte riuniti
nella sua Histoire de la poésie provençale – egli applica le teorie del Wolf,
del Lachmann e dei Grimm alla poesia epico-eroica di tutti i popoli. Anche
il Ramayana e il Mahâbhârata entrano in questo suo esame. Vi entrano
pure i canti popolari delle diverse nazioni: tutti, piccole Iliadi.
Nel 1812, in Germania, un filologo-poeta, l’Uhland (cui dobbiamo fra
l’altro una fra le più belle sillogi di poesia popolare tedesca) aveva già
osservato che la vita eroica di Carlomagno ha dovuto pur ispirare la poesia,
e che leggende, romanzi, canti di guerra si andarono certamente formando a
poco a poco finché, amplificati, non furono riaggruppati dai chierici nelle
composizioni giunte fino a noi. E l’idea, naturalmente, seduce il Fauriel il
quale, dopo averla accennata nella prefazione dei Chants, la svolge con un
rigore che sembra davvero persuasivo.
Nel 1837 viene per la prima volta pubblicata integralmente da F. Michel
che l’ha tratta da un codice della Bodleiana di Oxford la più poetica di
quelle composizioni: la Chanson de Roland. La Francia, che aveva un’idea
vaga della sua epopea, sente tutto il valore della scoperta. Qualche anno
prima era venuta alla luce anche una cantilena: Le Chant des Escualdunacs,
cui lo stesso Michel diede poi il posto d’onore in testa alle appendici della
sua edizione principe della Chanson. Il Fauriel ha, o meglio par che abbia,
partita vinta. Anche la Chanson de Roland ha dunque alle sue basi i canti
brevi, le cantilene popolari, dove tutto è freschezza, ingenuità e purezza.

5. La Francia e il suo romancero

Nel clima che creano queste ricerche, i canti popolari assumono


un’importanza decisiva. Da qui il successo che ebbe allora una raccolta di
canti popolari brettoni che uscì nel 1839 e che, intitolata Barzaz-Breiz, era
dovuta alle ricerche di Hersart de La Villemarqué, il quale aveva raccolto,
dalla bocca di una cantante che mendicava, i canti di quei Derniers Bretons,
di cui tre anni prima, il Souvestre, per «caprice amoureux» aveva descritto
gli usi e i costumi. Ma il La Villemarqué ebbe un’altra ambizione. Egli
conosceva le opere del Wolf, dei Grimm, dello Scott e del Fauriel e volle
dare ai suoi connazionali i resti dell’epopea brettone. Nella prefazione, con
cui presenta la sua raccolta, non esita a dichiarare che i suoi testi sono in
gran parte il risultato di un suo personale rifacimento. In questo senso: che
laddove in un testo vi è una espressione impoetica egli la sostituisce con
l’espressione poetica trovata in altro testo. «Tale è stato il metodo di Walter
Scott: e io non potevo non seguire il metodo migliore». Avrebbe potuto
aggiungere: tale è stato il metodo dei Grimm nei Kinder- und
Hausmärchen. Ma egli non aveva il gusto dello Scott, tanto meno quello dei
Grimm, e gli mancava inoltre l’impeto di un Macpherson.
Non si può negare che il La Villemarqué, interpolando abilmente dei
versi, riesca a collegare i suoi canti con avvenimenti del tutto estranei ai
canti originali. Ma si vide subito in fondo che si trattava di una
mistificazione da stare a pari con quella che nel 1827 aveva fatto il
Mérimée, La Guzla, ou choix de poésies illyriques recueillies dans la
Dalmatie, la Bosnie, la Croatie et l’Herzégovine. Né aveva torto quindi un
delicato poeta del tempo, Gerard de Nerval, quando nel 1842 in un suo
commento a Les vieilles ballades françaises osservava:

«Prima di scrivere, ciascun popolo ha cantato: tutta la poesia si ispira a queste sorgenti native, e la
Spagna, l’Inghilterra, la Germania, ciascuna con orgoglio, hanno il loro romancero. Perché la Francia
non ha il suo?»

Un anno dopo però anche la Francia aveva il suo romancero, tanto è vero
che nel 1843 apparve una delle maggiori sillogi che siano state dedicate alla
poesia popolare francese: i tre volumi, con musiche, di Dumersan e Colet,
Chants et chansons populaires de la France (1858-593). Nel 1852, per
ordine del nuovo imperatore francese, Napoleone III, vengono diffuse
alcune intelligenti e preziose Instructions relatives aux poésies populaires
de la France, dovute a J.-J. Ampère. Ma quelle Instructions (di cui si
serviranno poi studiosi come Rolland, Tiersot, Doncieux, Coirault ecc.)
erano state in parte intuite dal Dumersan e dal Colet.
La poesia popolare appariva ormai anche ai Francesi così come era
apparsa allo Herder: la voce della propria nazionalità. Ma nel frattempo, fra
i due imperi, con questi nuovi e rinnovati interessi non erano andati di pari
passo la letteratura e la storiografia, l’una e l’altra investite appunto da una
nuova forza di rinnovamento? Scrittori reazionari, come un De Maistre o un
De Bonald – è noto come in quest’ultimo il mito del buon selvaggio si
divinizzi – avevano affermato durante la Restaurazione che la borghesia è
un’astrazione dell’Enciclopedismo, mentre il popolo è la storia viva (anche
se ciò, per loro, non escludeva il diritto divino del principe). Dirà più tardi
la Sand: «Il popolo è il solo storico, potremmo dire, che a noi rimane dei
tempi preistorici». E quel popolo entrava, sì, allora, quasi a convivere
idealmente con la borghesia – il che era stato l’auspicio di Saint-Simon –
nell’opera stessa della Sand; ma entrava, con maggiore irruenza, in quella di
un Victor Hugo. Le stesse opere di un Thierry, di un Michelet e di un
Guizot, edite in quel periodo, non si spiegano certo senza l’influsso dello
Chateaubriand e dello Scott. Ma non si spiegano senza il mito del
Volksgeist, quale era stato foggiato in Germania e che i Grimm, molto più
dello Hegel, avevano reso familiare agli studiosi francesi dai quali non poco
trassero i romantici italiani. Gli interessi per la vita popolare si affermarono
infatti in costoro mentre cercavano di risuscitare la coscienza nazionale.
6. Aspetti del Romanticismo in Italia: dalla Lettera semiseria di
Grisostomo alle Vecchie romanze spagnuole

L’Italia aveva cominciato il suo Romanticismo con Vico. Muratori aveva


insegnato agli Italiani come fosse necessario raccogliere le Antiquitates. E
in ciò lo avevano seguito il Carmeli e il Leopardi il primo dei quali aveva
compilato, sulle tracce del Thiers, una Storia di vari costumi sacri e profani
fino a noi pervenuti, edita nel 1750, mentre l’altro, sulle orme del Browne,
aveva scritto nel 1815 un Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Né
erano mancati sotto Napoleone dei tentativi di raccogliere, con una certa
organicità le manifestazioni del folklore vivente: come, ad esempio, gli Usi
e costumi dei contadini di Romagna del Placucci, che illustrano i risultati di
una inchiesta sui costumi e i dialetti italiani promossa appunto fra il 1809 e
il 1811 da Napoleone.
È merito del Berchet però l’aver promosso in Italia con la sua Lettera
semiseria di Grisostomo al suo figliuolo (1816) l’interesse per la poesia
popolare. Il Berchet si riferisce al Vico, (che però intende a suo modo), cita
anche il Platone in Italia del Cuoco, oltre che, fra gli stranieri, il Burke, il
Lessing, lo Schiller, il Bouterwek e Madame de Staël. E attraverso questa
filiazione ideale, che dal Vico va fino al Cuoco, noi possiamo dunque
vedere chiaro in lui ij processo di formazione del Romanticismo italiano.
In che senso si può parlare di una popolarità della poesia? Popolare è per
il Berchet ciò che è conforme a natura. Ma la definizione di natura e
naturale, piuttosto che da una particolare categoria di sentimenti, immagini,
stati d’animo, considerati più poetici di certi altri, perché più ingenui e più
rozzi, deriva dalla considerazione di ciò che sia comune alla maggior parte
degli uomini. Secondo il Berchet, è in tutti innata una facoltà poetica, che
nei più rimane passiva o ricettiva, mentre solo in pochissimi spiriti eletti,
nei poeti, si manifesta come attività creatrice di poesia. Ci sono bensì quelli
che egli chiama gli Ottentoti, incapaci per naturale ottusità di intendere la
poesia, ma c’è un’altra categoria di lettori, quella dei Parigini, di coloro cioè
che l’estrema raffinatezza e civiltà ha reso frigidi e frivoli. Il popolo
dunque, il vero popolo, sta tra gli uni e gli altri, tra i Parigini e gli Ottentoti,
venendo così a costituire come la categoria media e comune dei lettori.
È già evidente in queste istanze il carattere del Romanticismo italiano,
quale meglio andrà definendosi nel buon senso o nell’umorismo
manzoniano. In Italia non si possono accettare le esagerazioni dell’audace
scuola boreale. Perciò il Leopardi, in una lettera che avrebbe dovuto essere
pubblicata dalla «Biblioteca italiana», e poi nello Zibaldone e nel Discorso
di un italiano intorno alla poesia romantica, accusa i romantici di «sviare…
la poesia dal commercio dei sensi». «Naturale» è per il grande poeta ciò che
possa rappresentarsi sensibilmente. L’intelletto è il grande nemico della
poesia, avendo gli uomini «una irrepugnabile inclinazione al primitivo e al
naturale schietto e illibato». Cosicché sotto questo riguardo la frigidità dei
Parigini e l’intelletto del Leopardi coincidono.
Nella Lettera, d’altro lato, il Berchet sostiene che la nuova poesia
italiana dovrà rispecchiare i sentimenti e le credenze attuali, ove essa voglia
tuffarsi nella concretezza stessa della realtà. Né è senza significato che
proprio allora, in omaggio a quella realtà, entreranno nella storia della
letteratura italiana coloro che avevano rappresentato, se mai, una parte di
fianco nella commedia: gli umili, la gente del popolo. Così Renzo e Lucia,
come è stato ben osservato, irrompono romanticamente nel regno della
poesia, mentre la quotidianità dei loro casi «è riscattata dall’assunto
educativo che son chiamati a servire». Manzoni riabilita Walter Scott. E
intanto ecco che rifiorisce in Italia la poesia dialettale che non ha nulla in
comune, è vero, con la poesia popolare, trattandosi di una poesia riflessa,
ma che è la più adatta ad esprimere i sentimenti stessi del popolo.
Il concetto di poesia popolare, quale era stato formulato dai romantici
tedeschi, si tramuta pertanto nel Berchet in un altro concetto anch’esso
formulato da quei romantici, e in particolar modo dell’Arnim: che la poesia
popolare debba essere un mezzo di educazione per il popolo. In realtà
mentre per l’Arnim il popolo era il maestro, per il Berchet, come ben
osserva il Croce, esso sarà l’alunno. Ma con ciò il Berchet nega, come si
ritiene, il valore della poesia popolare?
A questa domanda risponde lo stesso Berchet nell’introduzione alle
Vecchie romanze spagnuole, edite nel 1841, quando egli, fuori d’Italia, a
contatto più diretto con certi ambienti romantici stranieri, aveva ormai
potuto sviluppare e chiarire il suo pensiero.

«La poesia popolare – e per tale intendo quella che è interamente prodotta, e non soltanto gradita dal
popolo – non mette fuora opere materialmente immobili come la poesia d’arte; non le raccomanda,
come questa alla scrittura; ma le affida al canto transitorio, alla parola fugace: cammina, cammina
libera e viva; e ad ogni passo che fa lascia un vezzo e ne piglia uno nuovo, senza per questo cessar
d’esser quello ch’ell’era, senza mutare la sembianza che da principio ella assumeva. Sorge uno e
trova una canzone: cento l’ascoltano e la ridicono. Le cantilene udite da’ suoi parenti, la madre le
ricanta a’ suoi figliuoli; questi le insegnano ai nipoti. Quando viene l’uomo letterato, e se le fa
ripetere, e le ferma in caratteri scritti, chi può dire per quante bocche sieno già passate quelle
cantilene? chi riconoscere tutte le modificazioncelle che vi possono avere apprestate?»

Nell’accingersi a tradurre queste romanze, il Berchet aveva avuto non


pochi precursori: il Perey, lo Herder, il Cesarotti, il Diez ecc. Ed è noto che
anche Jacob Grimm aveva raccolto una Silva de romances viejos. La
Spagna proprio in quegli anni, d’altra parte, dopo aver combattuto
l’imperialismo francese e napoleonico con le sue forze popolari, veniva
riscoprendo i suoi romances che più tardi, nel 1849, trovarono il loro
monumento nel Romancero general del Duran. I romances costituivano
anche per il Berchet l’ideale di quella poesia nazionale patriottico-popolare
cui egli, poeta con un linguaggio tutt’altro che popolare, voleva adeguarsi.
Ma nel presentarli, ora, ai lettori italiani – ai quali voleva offrire anche una
traduzione di poesie popolari danesi – egli, ancora una volta, è lontano
dell’accettare il concetto di poesia popolare che avevano i Grimm. È merito
suo infatti l’aver intravisto quel concetto di elaborazione popolare che già
era stato intuito da A. W. Schlegel e dall’Arnim, da cui peraltro si
allontanava nel considerare la poesia popolare soltanto come direttamente
prodotta dal popolo, cioè da un determinato ceto. È essa, la poesia popolare,
egli comunque aggiunge, una serra di semplici fiori che il lettore può
godere facendosi «pusillo». Ma in tal modo il Berchet non individuava
appunto nella poesia popolare quel carattere elementare che proprio i
romantici tedeschi avevano scoperto?
7. Tommaseo e il folklore italiano

«Poesia semplice», quella popolare; ma poesia nazionale. Otto anni


prima dell’uscita delle Vecchie ballate spagnuole, che il Berchet aveva
traducendole ricreato, un archeologo italiano, P. E. Visconti in un suo
Saggio de’ canti popolari della provincia di Marittima e Campagna (che è
la migliore raccolta fra quelle che allora, Italiani e stranieri, fecero della
nostra poesia popolare) osservava:

«I canti popolari, strettamente legati all’indole nazionale, alle condizioni de’ luoghi, allo stato del
costume, al grado di civiltà, meritano l’attenzione del filosofo. In essi sono i vecchi segreti del cuore
umano. Osservabili per quella espressione che viene spontanea a chi sia veramente commosso, danno
a vedere un misto sempre interessante di comune e di insolito, d’ordinario e di nuovo. Ispirati
interamente dal cuore, ne palesano i due potenti affetti, l’amore e lo sdegno. E li esprimono con
quella energia che fa uno il sentire e lo esprimere… Né infruttuosa inchiesta sarebbe quella di chi
tutti raccogliesse canti siffatti. Di cari e preziosi modi, e locuzioni, e parole; di bei versi tutti genuina
purità; di produzioni nate con la nostra favella, feconda riuscirebbe la sua ricerca. E forse questa
dolcissima madre nostra, privilegiata nutrice di ogni bellezza, ne apparirebbe coronata di un nuovo
serto non indegno ai venerato suo capo».

E il voto del Visconti non doveva restare inappagato. Nel 1841 il


Tommaseo pubblicò infatti una raccolta di Canti popolari toscani, che può
considerarsi non solo come uno dei documenti più schietti della poesia
popolare italiana, ma anche una delle sillogi più insigni che ci abbia dato la
filologia del tempo. Il Tommaseo ammira incondizionatamente quei canti,
dove egli è lieto di ritrovare «cari e preziosi modi e locuzioni» nati «con la
nostra favella». Non manca di considerarli come «fiori di serra», prodotti
però «di agresti e libere nienti». E ammonisce: «Chiunque non venera il
popolo come poeta e ispirator di poeti non ponga costui l’occhio su questa
raccolta». Anch’egli considera il popolo come sorgente di poesia. E la sua
raccolta, appunto per questo, non si ferma ai canti toscani. Un secondo
volume è dedicato ai Canti del popolo corso. E qui vivo è anche l’interesse
etnografico ch’egli dimostra per il popolo corso e per le sue abitudini. Un
terzo, sulle orme del Fauriel, è dedicato ai Canti del popolo greco. Un
quarto infine ai Canti popolari illirici. Miracolo di gusto, le sue traduzioni.
E anche con esse egli si rivolgeva ai poeti perché avessero a loro
disposizione «nuove sorgenti di poesia», mentre egli sapeva che i canti
popolari sono un aspetto della propria coscienza nazionale.

8. Nazionalismi, primati e missioni

Non v’è dubbio, dunque, che lo studio delle tradizioni popolari tragga
nell’Europa occidentale nuovi stimoli e nuove suggestioni dal
Romanticismo tedesco, il quale ha avuto il merito di porre, in maniera
decisa, quello studio su una base nazionale e storicistica. Quando la
Germania, senza rinnegare l’universalismo dell’ideale romantico, veniva
considerando la nazione come il mezzo che lo esprime, due grandi Stati
nazionali, l’Inghilterra e la Francia, erano in grado di manifestare un ideale
che si identificasse con la propria cultura e la propria civiltà, che è quanto
dire con la propria coscienza storica. Era logico, quindi, che in essi il
folklore fosse chiamato non a creare quella coscienza, ma a rafforzarla,
diremmo, a ricrearla.
La nazione nella sua forma moderna – si afferma peraltro – nacque in
Inghilterra fin dai Tudor. Ma l’Inghilterra riesce a individuare con maggiore
consapevolezza i suoi caratteri nazionali nell’Ossian e nelle Reliques. Ci si
riferisce invece per la Francia alla difesa della Rivoluzione contro il re. Ma,
a sua volta, non era stata la Francia a far del culto della nazione e della
patria quella religione laica che la stessa dominazione napoleonica fini col
creare e col risuscitare non solo in quei paesi che invase ma anche in quelli
che pretendeva di invadere? E tale religione non dominerà in Europa tutti i
susseguenti moti di indipendenza nazionale che esprimono, per quanto vari
e diversi, l’istanza della propria nazionalità, la quale affonda le radici nel
proprio passato?
Su questo passato, il Guizot innestava gli ideali di un nuovo primato
francese, il quale risultava dalla tradizione culturale per cui la Francia
sarebbe stata in ogni tempo maestra all’Europa. Ugualmente ai valori storici
del passato si riferisce in Italia il Gioberti, il quale però pone al centro della
sua concezione la missione civile e religiosa del papato. E potremmo in
proposito anche ricordare il Mazzini che si richiama alla grandezza della
civiltà italiana nei secoli, alle glorie dell’antica Roma, al Rinascimento ecc.
C’è un’aria nuova, insomma, che circola in tutti questi pensatori ai quali il
primato o la missione della propria patria si dispiega come una realtà
feconda e operosa. E la nazione, intanto, anche con essi e per essi – come
per i romantici tedeschi – non è più un dato naturalistico, ma un fattore
storico.
15. Insegnamenti del folklore

1. Aspetti del Romanticismo in Russia

Paesi di alta tradizione culturale, l’Inghilterra, la Francia, l’Italia e la


Spagna non mancano di smettere quella boria che durante il Romanticismo
ad alcuni dei loro rappresentanti faceva considerare il folklore come una
«scienza plebea». E in proposito le voci di uno Scott, di un Fauriel, di un
Tommaseo o di un Berchet sono certo quanto mai significative. Si deve
tuttavia osservare che in questi paesi il folklore, se pur contribuì a rinnovare
la letteratura e la cultura, non ebbe lo slancio politico-nazionale o meglio
nazionale-popolare che aveva assunto in Germania.
È significativo d’altra parte, come nota il Gramsci, che in Francia il
termine nazionale ha un significato in cui quello di popolare «è già
elaborato politicamente, perché legato al concetto di sovranità»; che in
Italia tale termine ha un significato molto ristretto ideologicamente, e che in
ogni caso non coincide con quello di popolare; e che invece completamente
diverso è il rapporto di questi due termini in russo e in genere nelle lingue
slave, dove nazionale e popolare sono sinonimi.
C’è un altro fattore però che sembra unire la Russia alla Germania, se si
pensa che in Russia, dove fin all’inizio del regno di Alessandro I non
esisteva una forma moderna di sentimento nazionale, questo sentimento fu
ridestato da Napoleone. «Napoleone fece irruzione in Russia», dirà uno dei
rivoluzionari del tempo, il Bestužev-Marlinskij, «e allora si destò in tutti i
cuori il senso dell’indipendenza». Lo stesso Alessandro I sembrò ai popoli
come il Messia della lotta contro il dominio napoleonico. E più tardi «le
fiamme di Mosca» appariranno a Benjamin Constant come «l’aurora della
libertà del mondo». Ma quelle fiamme intanto non illuminano il definitivo
ingresso della Russia nella compagine europea?
È vero che il folklore – a differenza di quel che avviene in Germania – in
Russia, vinto Napoleone, incontrerà difficoltà non lievi per affermarsi.
Tuttavia anche in Russia, quando esso si affermerà, sarà qualcosa di più che
una sporadica vicenda della cultura come in fondo era avvenuto in
Inghilterra, in Francia e anche in Italia. Gli Italiani, gli Inglesi e i Francesi
potevano vantare Dante, Petrarca, Boccaccio, Chaucer, Shakespeare,
Milton, Corneille, Racine ecc. Ma per i Russi, con un patrimonio letterario
ancora troppo modesto, la letteratura popolare costituiva invece un
ricchissimo patrimonio intellettuale, morale e sociale, che era insieme il
documento delle loro costumanze e il monumento della loro lingua.
Si spiega così la reazione che nel 1836 suscitarono le celebri Lettere
filosofiche del Čaadaev, il quale, se da una parte fa appello ai valori della
Chiesa cattolica, dentro il cui grembo dovrebbe entrare la Chiesa ortodossa
per un avvenire migliore del mondo slavo – il che potrebbe ricordare il
Novalis –, dall’altra sostiene decisamente che i Russi, rannicchiati
com’erano nelle loro «casupole di travi e di stoppie», così come non
avevano dato un solo pensiero al tesoro delle idee umane, nulla avevano nel
campo della letteratura che potesse parlare al loro cuore. Due slavisti di
grande valore, i fratelli Kireevskij, Pëtr e Ivàn, educati in Germania e
ammiratori entusiasti dei Grimm, scesero allora in campo, pronti a
dimostrare al Čaadaev che egli era completamente fuori strada, perché al
cuore dei Russi aveva parlato e parlava una grande letteratura: la letteratura
popolare. E ai fratelli Kireevskij non mancavano le pezze di appoggio, delle
quali le più valide erano proprio quelle inerenti alla poesia popolare, cui
alcuni anni prima aveva dato dignità uno studioso cosacco: Kirša Danilov.
È con lui infatti che la poesia popolare russa esce dal museo delle belle
curiosità dove era stata relegata.

2. La lezione di Danilov

È noto che in Russia molte testimonianze ci attestano la esistenza di


canti e di cantori popolari fin dal secolo XII. Ed è noto altresì che il celebre
Canto di Igor che si ritiene del secolo XII ma la cui scoperta coincide con la
pubblicazione dell’Ossian, è pieno di riecheggiamenti di poesia popolare.
Le prime trascrizioni di tale poesia – ove si escludano quelle di due inglesi,
lo James e il Collins, fatte nel Seicento – risalgono comunque alla seconda
metà del secolo XVIII e al primo decennio del secolo successivo. La poesia
popolare era rimasta fino ad allora su un piano di assoluta inferiorità
rispetto alla cultura, dominata in un primo tempo dalla tradizione
chiesastica e poi, ai tempi di Pietro il Grande, dal classicismo francese. Ora
invece essa, se pur rimane fedelmente custodita nel cuore dei contadini, dei
mercanti, dei pellegrini, non solo raggiunge, insieme alla musica che
l’accompagna, le sale aristocratiche, ma arriva addirittura nella reggia degli
zar. Da qui i canzonieri e le sillogi dovute al Čulkov (1770-1776), al Lvov
(1790), al Popov (1792), al Sacharov (1830), dove però i testi trascritti sono
epurati, corretti e rielaborati.
E a questo indirizzo si era assuefatto anche il Danilov in una raccolta di
canti russi pubblicata nel 1804. L’invasione napoleonica, più tardi, non
suscitò certo in lui le istanze che aveva suscitato in un Arnim o in un
Brentano. Il Danilov tuttavia vede il popolo cui appartenevano quei canti in
maniera diversa da come lo avevano visto i suoi predecessori. La stessa
lotta contro Napoleone aveva già avvicinato ufficiali e soldati, aristocrazia e
popolo. E nel momento stesso in cui viene scoperta l’anima del contadino e
il valore nazionale della sua personalità, il Danilov si rimette al lavoro;
comprende che ogni canto popolare è un soffio di quella personalità; e in
omaggio a questi principi da nel 1818 una raccolta di canti popolari russi
che è la migliore del tempo e che è la precisa documentazione di quel che
era, in parte, l’epica o meglio l’epopea stessa del popolo russo. I canti, che
il Danilov considerava come una pagina in cui si inverava lo sviluppo della
civiltà nazionale, avevano pertanto il diritto di porsi accanto alle epopee
delle altre nazioni, accanto all’Iliade e all’Odissea, ai Nibelunghi.
È vero che allora, in Russia, questa epopea fu riconosciuta a un solo
patto: che essa non dovesse intaccare la Chiesa ufficiale e la politica del
governo, contraria, dopo la vittoria su Napoleone, a qualsiasi riforma
interna. Così, ad esempio, quando il Puškin, attirato dai canti popolari che
rievocavano l’epica figura di Stenka Razin, pensò di farne una raccolta, il
conte Benkendorf, suo amico, lo sconsigliò scrivendogli: «Le canzoni su
Stenka Razin, quale che sia il loro valore poetico, hanno un contenuto che
le rende non adatte alla pubblicazione. La Chiesa maledice Razin». I motivi
che ispiravano questi canti erano la sofferenza dei contadini russi, le loro
lotte contro i feudatari, le angherie, i soprusi. Razin in lotta contro tutte le
ingiustizie era la voce stessa della ribellione contro i torti patiti, la fiducia
nella giustizia, l’appello alla vita. E, per la stessa ragione, nemmeno al Dal
fu permesso pubblicare, sotto Nicola II, quella raccolta di proverbi che
doveva aprire nuove vie allo studio della paremiografia.
Queste limitazioni, o meglio epurazioni, non impedirono che i valori
della vita popolare venissero giustamente apprezzati. E i fratelli Kireevskij
nulla tralasciarono per conseguire questo risultato. La stessa polemica col
Čaadaev, d’altro canto, fu di stimolo a uno dei fratelli, a Pëtr, per
intensificare quella raccolta di stariny (o meglio, come da allora
cominciavano a chiamarsi, di byliny), che verrà pubblicata, sì, dopo la sua
morte, dal 1862 al 1874, ma che, resa nota molto prima attraverso dei saggi
ch’egli era andato pubblicando qua e là, doveva costituire, insieme alla
raccolta del Danilov, il primo nucleo del Corpus delle canzoni di gesta del
popolo russo.
Al quale peraltro un grande scrittore del tempo aveva chiesto stimoli e
suggestioni soprattutto per il rinnovamento della lingua letteraria: N. M.
Karamzin. La Russia, già dal tempo di Caterina II, aveva mostrato un vivo
interesse per i problemi linguistici, ed è noto quale interesse la stessa
Caterina abbia mostrato per un’opera che fu così cara ai preromantici
francesi e in particolar modo al Senancour: Le monde primitif, analysé et
comparé avec le monde moderne di Court de Gebelin. D’allora si lavorò
molto sulle regole della lingua. Ma anche qui c’era un limite: la lingua dei
Russi, la lingua della letteratura russa, non poteva non essere che la slavo-
ecclesiastica. Le antologie dei canti popolari rivelavano però che accanto a
quella lingua ce n’era un’altra, più semplice e più immediata. E di ciò
s’accorse appunto il Karamzin, il quale, nel proporre la riforma della lingua,
l’accompagnò con uno studio attento, rivolto non solo alle antiche carte, ma
anche ai canti popolari. È in questi ultimi anzi, egli affermava, che noi
troviamo la lingua più adatta a esprimere la tenera semplicità, le voci del
cuore e della sensibilità.
E di questa lingua lo stesso Karamzin si avvalse nei romanzi, nelle
ballate, nei racconti, dove non poche volte esalta la vita dei contadini
insieme a quella che era la vita stessa dei padri:

«Chi di noi non ama quei tempi in cui i Russi erano Russi, quando si vestivano dei propri abiti,
camminavano a modo loro, vivevano secondo i loro usi, parlavano la loro lingua e secondo il loro
cuore, cioè parlavano come pensavano? Io, almeno, amo quei tempi. Amo sulle rapide ali
dell’immaginazione volare nella loro lontana oscurità, all’ombra degli olmi vecchissimi e cadenti,
cercare i miei barbuti antenati, conversare con loro intorno agli avvenimenti dell’antichità, intorno al
carattere del glorioso popolo russo» (Natalja, trad. Lo Gatto).

E a illustrare questo carattere, a chiarirlo, contribuirà anche uno dei


migliori favolisti che abbia avuto la Russia, il Krylov, il quale, amante come
il Karamzin del buon tempo dei vecchi padri, non esitò a ravvivare la sua
prosa con forme del linguaggio popolare, sicché i suoi animali, se pur sono
quelli di tutta la favolistica, il lupo, la cornacchia, la scimmia, l’aquila, ecc.,
sanno darci tuttavia quel che è, nella sua essenza, lo spirito popolare russo.
Il che significava, «parlare con la propria lingua e con il proprio cuore».
Le stesse esigenze furono, nel primo ventennio dell’Ottocento, presenti
anche nell’opera di un poeta che senti le aure fresche del Romanticismo
europeo, V. A. Žukovskij, il quale tradusse la Lenore del Bürger, ispirandosi
ad essa in due sue celebri ballate dove cercò di utilizzare al massimo la
lingua popolare. E ciò mentre egli, cantore come il Gray dei bardi, ma dei
bardi russi, traduceva frammenti del Mahâbhârata, episodi dell’Iliade,
brani dell’Odissea.

3. Da Puškin a Glinka

La riforma del Karamzin fu accolta da un poeta il quale seppe


interrogare la lingua popolare russa, e con essa il folklore, come nessun
altro aveva fatto: il Puškin. Non v’è, si può dire, grande esperienza poetica
occidentale (da Shakespeare al Macpherson e al Byron) che egli non abbia
fatto sua. O meglio, che non abbia fatto russa. E la soluzione, come osserva
il Lo Gatto, egli la trovò appunto «introducendo nella creazione poetica la
lingua popolare, alla quale nel secolo XVIII si era rivolta così poca
attenzione». E il Lo Gatto aggiunge: «Con la lingua entrarono nella sua arte
anche elementi riferentisi al popolo, che trasformarono e unificarono il
magistero dell’arte, come, dal punto di vista esteriore, la descrizione della
natura russa in contrapposizione con le descrizioni di maniera degli scrittori
pseudo-classici, sentimentalistici e romantici, e dal punto di vista intcriore,
la caratterizzazione dello spirito o più genericamente dell’anima russa».
Il Puškin si avvalse in molte sue opere di motivi e di spunti folkloristici.
Rifece in parte gli stessi rimaneggiamenti che il Merimée ci aveva dato dei
canti serbi, cui impresse la sua forte personalità di poeta. Laddove però egli
si fece veramente eco fedele del popolo fu nelle sue favole. E rievocando i
racconti che la sua nutrice Arina Rodionovna gli aveva fatto gustare fin da
bambino, esclama: «Quale incanto è in essi! Ciascuno di essi è un poema».
Di questi racconti esisteva già un’ampia raccolta del Čulkov (1766-83).
Nessuno era stato, però, registrato nella sua forma autentica. Vero: anche
l’Afanasev, più tardi, rielaborerà le novelle raccolte, spinto in ciò, come egli
stesso dichiarerà, dall’esempio dei Grimm (dei quali condivide l’idea che in
esse quel che conta sono le tracce dell’antica mitologia). Ma l’Afanasev, la
cui raccolta uscì fra il 1855 e il 1866, ha, se non come i Grimm, una finezza
di gusto non comune. Rielabora, cioè annulla la personalità degli autori di
cui raccoglie i testi, ma sa infondere a quelle nuove elaborazioni un calore
umano. Nulla invece aveva fatto di tutto ciò il Čulkov (seguito in ciò anche
dal Bronnitsyn e dal Sacharov). Il che, intendiamoci, non esclude il valore
di quelle collezioni, le quali ci documentano i temi e i motivi novellistici
che correvano allora in mezzo al popolo russo.
Era logico quindi che il Puškin ricordasse piuttosto la sua nutrice, essa
stessa secondo la sua ingenua fantasia rielaboratrice di favole, che il
Čulkov. In lui d’altro canto, ed è ovvio, non vi sono esigenze scientifiche da
soddisfare. A lui la fiaba si dischiude come già ai romantici tedeschi, a un
Novalis, a un Tieck, a un Brentano, ai Grimm. È materia d’arte. O meglio è
un sentimento che egli rivive, che fa suo, che gli diventa linguaggio. Ecco
perché le favole del Puškin, che pur si era servito in tutta la sua opera
precedente di motivi e di spunti folkloristi, creano fra l’artista e il popolo, o
meglio lo spirito del popolo, una fusione che poi troveremo, in parte, in
molti poeti e narratori russi: nel Lermontov, in Gogol, nel Turgenev, in
Tolstoj, in Dostoevskij ecc. Né d’altra parte è senza significato che qualche
anno dopo anche l’opera musicale si ispirerà alle sorgenti del popolo. In
questo campo sarà Glinka che darà l’avvio.
Ma c’è di più: che così come furono i primi folkloristi russi a indicare
vie nuove agli artisti, saranno ora gli artisti che agevoleranno il movimento
folkloristico. Il popolo esce culturalmente dal suo servaggio. Non è
l’alunno, l’essere inferiore, ma già il maestro (come per i romantici
tedeschi). Dirà Gogol, cui dobbiamo tra l’altro una squisita raccolta di
leggende ucraine da lui rivissute: «Mia vita, mia gioia, o vecchie canzoni,
come vi amo!» E quelle canzoni, come le favole, come i proverbi, saranno
il richiamo alla sincerità, alla spontaneità, al farsi popolo per diventare
artisti.
Anche un archeologo e un latinista come Snegirëv si era, nel frattempo,
dedicato alla raccolta di quei proverbi che il Puškin considerava come una
miniera d’oro per la lingua. E più tardi, nel 1838, egli ci darà un’ampia
sintesi dove descrive le feste del popolo russo. Abituato alla ricerca
scientifica, lo Snegirëv va oltre, però, la descrizione: e acute sono le sue
riflessioni sul paganesimo in cui è coinvolta la vita del contadino. Nel 1848
si avvia a queste ricerche un altro slavista: il Tereščenko. Ma imponente fu,
allora, soprattutto l’opera del Buslaev, il quale, da buon discepolo dei
Grimm, dopo aver studiato con larghezza di vedute la letteratura e l’arte
popolare russa, sostenne che il popolo, e soltanto il popolo, possiede i
fondamenti morali della sua nazionalità nella sua lingua e nella sua
mitologia, l’una e l’altra in intimo rapporto con la poesia, con il diritto e
con il costume, e che tutte le idee morali che un popolo possiede fin dalla
sua epoca primitiva, costituiscono una tradizione sacra, un’antichità
venerabile, la sublime eredità degli antenati.

4. Folkloristi cechi e polacchi

E a questa eredità si appelleranno i Cechi della Boemia e della Moravia


oltre agli Slovacchi, i quali furono i più tenaci assertori di quella missione
slava che il Mazzini profetizzerà fatale tanto per l’Austria quanto per la
Turchia. Nel 1781 i Cechi avevano ottenuto dall’Austria l’abolizione della
servitù della gleba. In compenso avevano avuto l’obbligo di considerare
come ufficiale la lingua tedesca. E ciò fu il primo segno di battaglia. La
lotta divampò cocente, quando il Romanticismo pose il problema
dell’anima nazionale. Ed ecco che noi assistiamo allora a un movimento
inteso a determinare le caratteristiche comuni dei popoli slavi, quali esse
vengono denunziate dall’archeologia e dall’etnografia, ma soprattutto dalla
linguistica. Anche i Cechi vogliono avere i loro Monumenti. E li avranno ad
opera del Dobrovsky, che in latino ci dà una impareggiabile ricostruzione
del mondo slavo primitivo; dello Joungmann, che in quel mondo inserisce
la storia della letteratura ceca; del Palatsky, che nel tracciare la storia della
Boemia lancia un manifesto di indipendenza nazionale. Con queste e
altrettali ricerche va di pari passo l’ansia di creare una poesia nazionale che
si rifaccia alle origini e che possa ridestare nel popolo la coscienza
nazionale. Il che fu appunto l’intento non solo dello stesso Joungmann, ma
anche di J. Kollár e di F. L. Čelakowsky. È a quest’ultimo anzi che
dobbiamo una silloge di canti popolari cechi, dove però l’impegno
filologico del raccoglitore è non poche volte sacrificato al gusto del poeta.
Vi è in questi canti la fonte stessa in cui viveva e riviveva la lingua dei
propri padri – quella lingua, cioè, contro cui si era voluto cospirare –; ma vi
è anche, la documentazione di quel passato leggendario sul cui sfondo era
stata animata la poesia dello Joungmann, del Kollár, e dello stesso
Čelakowsky. Ed ecco che, nel nome di questo passato leggendario, sarà
proprio il Kollár, uno slovacco, a formulare in un suo poema l’augurio che
la Russia possa formare una sola patria non solo coi Polacchi ma anche coi
Serbi e coi Croati. Senza dire che l’augurio del Kollár sarà accolto alcuni
anni dopo, nel 1848, dal Ciezkowski, il quale, nuovo Fichte slavizzato,
misticizza, si, l’idea di una missione slava, ma a un patto: che essi, gli Slavi,
siano guidati in quella missione dai Polacchi, i quali peraltro avevano
vissuto tutte le esperienze letterarie dell’Occidente ed erano in grado di
poter affratellare tutti i popoli slavi.
La realtà era però molto diversa, ove si pensi che la Polonia, dopo essere
stata incorporata in gran parte, dopo il congresso di Vienna, dalla Russia, fu
sempre mantenuta dai Russi in uno stato di soggezione. Le stesse
insurrezioni polacche, quella del 1830 o ancora più tardi quella del ’63,
ebbero soltanto l’effetto di far sì che gli zar russificassero sempre più le
province polacche, nonostante che in Russia non tutti approvassero la
politica zarista. In un suo celebre lavoro, la Russkaja Pravda, P. I. Pestel,
capo di quell’associazione meridionale che svolse una proficua attività
politica fra il 1821 e il 1825, si era dichiarato, è vero, contrario al diritto di
nazionalità di paesi troppo piccoli – come l’Estonia, la Finlandia, la
Lettonia ecc. –, ma era dell’avviso che bisognava riconoscere alla Polonia
una indipendenza nazionale.
Ed è questa auspicata indipendenza che investirà di sé la poesia polacca
del tempo. Basti pensare al Niemcewicz e al Lenartowicz. Ma è anche in
nome di essa che verranno fatte le prime raccolte di poesia popolare: quali,
ad esempio, quelle del Lipinski e del Muzzbach, ai cui testi ricorreranno
legioni di educatori per inculcare l’amore della patria. Toccherà al Kolberg
però studiare in una serie di volumi la vita popolare polacca. E sarà lui a
porre l’accento su un’arte di cui poco si era parlato: l’arte popolare,
quell’arte, cioè, che si esprime negli intagli, nei manufatti, nei ricami ecc., e
costituisce oltre tutto anche un modo di pensare. E ciò, mentre a Parigi un
patriota polacco, Chopin, faceva rivivere nelle sue mazurche e nelle sue
polacche la voce popolare e nazionale della patria lontana, alimentando un
nazionalismo musicale che è, come è stato ben osservato, la perfezione
stessa del Romanticismo.
5. Karadžić e la poesia serbo-croata

I Polacchi, la cui anima forse da nessuno è stata mai espressa e cantata


come da Chopin, non avevano, in fondo, una poesia epica che si potesse
paragonare a quella dei Russi, dei Cechi, degli Slovacchi. C’è nella loro
poesia un germe epico, ma l’epica manca. Il che invece non può dirsi degli
Slavi meridionali, i quali durante l’epoca del Romanticismo furono
travagliati da varie lotte. Assoggettati sino al 1830 all’impero turco, i Serbi
videro infatti in quel l’anno avverarsi il loro sogno: diventarono cioè un
principato sotto la protezione russa. Era stata la Croazia, specialmente
quando essa dal 1803 al 1813 soggiacque al dominio napoleonico, a iniziare
un movimento di rinascita slavo-nazionale. Ed è noto che fu proprio la
disfatta serba del 1813 a fare emigrare Vuk Stefanović Karadžić a Vienna
dove conobbe un dotto filologo sloveno, il Kopitar, il quale lo incitò a
pubblicare i canti serbo-croati.
E il Karadžić accolse quell’appello. La sua prima raccolta di canti serbo-
croati uscì fra il 1814 e il 1815, e suscitò subito fra l’altro l’ammirazione
dei Grimm, i quali vedevano in essa affermate e confermate le loro teorie
sulla poesia popolare. Lo stesso Karadžić non esitava a paragonare quei
canti all’Odissea e all’Ossian, e il suo atteggiamento di fronte ad essi era di
chi ama con devozione e incondizionatamente tutto ciò che il popolo canta.
Egli ha raccolto quei canti dai loro cantori. Ma questi ultimi – sulla cui
tradizione si eserciterà, invece, in avvenire l’impegno della filologia – non
suscitano in lui alcun particolare problema. Per lui, come per i Grimm, chi
dice poesia dice popolo. Ed è il popolo che crea.
Il Karadžić non si fermò, d’altra parte, a quella sua prima fatica, tanto è
vero che continuò sempre con la stessa cura a raccogliere i canti delle
popolazioni cui si sentiva strettamente legato. E se, fra il 1823 e il 1824,
egli ripubblica la sua raccolta con molte aggiunte, alcuni anni dopo, fra il
1841 e il 1846, le sue Srpske narodne pjesme comprenderanno ben sei
volumi (i quali, con le aggiunte, diverranno nove nell’edizione nazionale
edita fra il 1891 e il 1902).
Rimaneggiata e falsificata dal Mérimée (cui si rifecero non solo il
Puškin, ma anche l’inglese Bowring e il tedesco Gerhard), la raccolta trovò
una buona traduttrice in Elise Voiart, la quale nel 1834 pubblicò a Parigi, i
Chants populaires des Serviens recueillis par Vuk Stephanovitch et traduits
d’après Talvj. Né la Talvj (questo il suo pseudonimo) si contentò di tradurre
quei canti soltanto in francese, ma li tradusse anche in tedesco. Di ben altro
tono furono però le traduzioni che ne fece il Tommaseo nel suo volume
dedicato ai Canti illirici. In base a queste traduzioni i canti del popolo
serbo-croato apparvero a tutti gli studiosi come una voce schiettamente e
potentemente nazionale. E con gli occhi suoi, con gli occhi del Ka-radzic,
guardarono allora, osserva il Cronia, alla poesia popolare serbo-croata non
solo il Goethe, lo Herder, i Grimm, la Talvj e il Tommaseo, ma
l’Eckermann, l’Humboldt, la Staël, il Nodier, lo Scott. Quei canti
costituivano l’elemento più importante della letteratura nazionale serbo-
croata, l’unica forma moderna, anzi, di quella letteratura. E il Karadžić, nel
raccoglierli, sapeva qual era il compito che lo attendeva. Egli si
preoccupava infatti, è vero, di offrire agli studiosi testi di autentica poesia,
ma non dimenticava che quei testi gli servivano a mettere in onore una
nuova lingua nazionale. L’amore vivo e intenso che egli ebbe, comunque,
per i suoi testi, non gli impedì a volte di rifarli e di correggerli per portarli
alla perfezione metrica: arbitrio questo, che nel 1852 fu seguito, ad
esempio, in Romania, da un buon poeta, l’Alexandri, che nel rifare i canti
del suo paese perché fossero meglio accolti dai letterati del tempo e
servissero ad essi come una «fonte classica», si appellerà all’autorità del
Karadžić. Il quale, prescindendo da questi arbitri (quanto mai fecondi,
peraltro, nel campo letterario), ebbe il merito di non isolare i documenti
raccolti, ma di considerarli come un aspetto di quella che è la tradizione
poetica dell’Europa orientale. L’epica che il Karadžić aveva raccolto
costituiva ed era, sì, una voce nazionale, ma quella voce faceva parte di un
coro che non era possibile trascurare. Essa, si domandava infatti il
Karadžić, non illumina la stessa poesia popolare greca, oltre che la rumena,
la bulgara, l’albanese ecc.? I Greci gli risposero che era anche possibile
invertire quella proposizione. E il problema, è ovvio, in tal modo non era
posto nemmeno, perché noi possiamo determinare soltanto la tradizione di
un determinato gruppo di canti. Bisogna tuttavia riconoscere che il Karadžić
fu uno di quei folkloristi europei che ebbero vedute larghe e a cui la poesia
popolare apparve come un problema essenziale di vita e di cultura
nazionale.
6. Nasce il Kalevala

Lo stesso impegno che il Karadžić dimostrò per la poesia popolare


serbo-croata, alla cui raccolta egli attese con la fedeltà di un missionario e
di un apostolo, veniva contemporaneamente assunto per la poesia popolare
della Finlandia da un modesto medico: Elias Lönnrot. La Finlandia era
allora sotto il dominio russo. Nel 1809 le era stata garantita l’autonomia
dallo Zar divenuto granduca di Finlandia; ma in Finlandia, come già in
Polonia, quella garanzia si risolse in una politica energica di intensa
russificazione. Era legittimo quindi che la Finlandia, la quale peraltro non
aveva nulla in comune con gli Slavi, si rifugiasse sempre più con maggiore
accanimento nel mondo spirituale delle sue tradizioni. Dal 1776 al 1788,
sull’esempio del Macpherson, un dotto filologo finnico, E. G. Porthan,
aveva messo insieme i frammenti della antica poesia del suo popolo. Era
stato il Topelius però, padre del poeta dello stesso nome, a rivelare quale
tesoro possedesse il popolo finnico nei suoi vecchi runi. Nel 1831 fu
fondata intanto la Società di Letteratura finnica, la quale ebbe appunto il
merito di assecondare le ricerche di un giovane, che comprese in pieno il
valore del messaggio lasciato dal Topelius. Il Lönnrot, ancora studente,
aveva mostrato un grande interesse per la medicina popolare dei Finni, cui
dedicò poi un’ottima indagine. Quella medicina non era, in fondo, che un
ricettario di precetti magici. Ma quei precetti non vivevano, o meglio non
rivivevano, anche nei runi, in quei canti epico-lirici che il popolo finlandese
si tramandava di generazione in generazione?
Vestito da contadino, il Lönnrot cominciò a questo scopo la raccolta dei
runi. Nelle sue mani, i runi si moltiplicarono; ognuno di essi aveva le sue
varianti, e ogni variante era già come un canto a sé. Il Lönnrot, comunque,
non si accinse a pubblicare quel materiale come avevano fatto i suoi
predecessori. Che cosa erano infatti, egli si domandava, tutti quei runi, se
non l’epopea del popolo finnico? E allora egli pensa di dare ai Finni il loro
poema: il Kalevala. Il Lönnrot aveva cercato di ricostruire un poema
combinando insieme i runi e dando loro un’unità con l’aiuto delle varianti.
E in quel lavoro, com’egli affermava, nulla vi era di suo, perché tutto
apparteneva al popolo. Si è detto: è come chi voglia ricostruire dai cocci un
vaso. Ma non è immagine esatta, ove si pensi a dei cocci che già formavano
quel vaso. Qui si trattava di creare un vaso nuovo con i cocci di altri vasi.
Ecco perché i ventiduemila versi che compongono il poema sono ben
lontani dal costituire un’opera organica. Dice un runo:

Mi diceva versi il freddo


E la pioggia lunghi canti:
Mi portava strofe il vento,
Me ne dava il mar con l’onde;
Vi aggiungevan voci gli uccelli
E canzoni gli alberelli.
Un gomitolo ne feci…

Bene, il Kalevala è proprio il gomitolo cui accenna il cantore: e come


tale esso è l’opera di un dotto cui non manca un raffinato gusto poetico, di
un Wolf insomma che rifa il Macpherson, servendosi di un patrimonio
poetico popolare e fluttuante, il patrimonio cioè dei cantori finnici, dei
laulajat. Ma il Kalevala è soltanto il prodotto dell’amore per l’epica o
meglio delle teorie romantiche sull’epica? O non è anche amore per la
propria patria e per la propria letteratura, vale a dire per una letteratura
nazionale, che è insieme una nuova conquista e una nuova affermazione?
Abbandonati a se stessi, quei runi non avrebbero oltrepassato l’interesse
degli specialisti. Riuniti in un unico poema, essi conquistarono l’Europa. Il
Kalevala fu tradotto infatti in tutte le lingue europee; creò un nuovo e
rinnovato interesse per la poesia popolare; e i runi ebbero il merito di
offrirci una poesia fresca e ingenua, dove, come è stato ben notato, l’elegia
domestica si fonde con un commosso rispetto per tutto ciò che è mite e
gentile, e dove tutte le cose care al cuore dei poeti che le cantano, anche le
«terre tristi» e le «povere contrade», si trasfigurano per venirci riconsegnate
in una dolce atmosfera crepuscolare.
Qui è l’incanto inconfondibile del Kalevala. Dietro il suo esempio anche
gli Estoni si accinsero più tardi a creare un loro Kalevipoeg, che comprende
ben diciannovemila versi e che è opera di un altro medico, il Kreutzwald, il
quale aveva utilizzato più di ventimila canti raccolti non soltanto da lui, ma
anche dal Fahlmann e dal Neus. Ma è un’opera questa di altro tono, ben
lontana dalla freschezza del Kalevala.

7. Del folklore nei paesi scandinavi

Non meno intenso era intanto il lavoro che si veniva facendo per salvare
e valorizzare il patrimonio folkloristico nei paesi scandinavi, vicini
geograficamente ai paesi slavi, ma culturalmente legati in gran parte alla
Germania. La mitologia medievale scandinava – insieme alla letteratura in
cui si articola – era stata già ampiamente divulgata, in Europa, dal Mallet
nello stesso periodo di tempo in cui nascevano l’Ossian e le Reliques. È
però merito dei romantici tedeschi, e soprattutto dei Grimm, quello di
averne fatto oggetto di indagine storica e critica. In un articolo edito nel
1808 negli «Studien», Jacob Grimm aveva decisamente affermato che la
«poesia medievale dei popoli scandinavi non è né generatrice né dipendente
della poesia medievale tedesca» e che pertanto «tutte e due sono nate nello
stesso periodo di tempo sotto l’influsso degli stessi avvenimenti
sviluppandosi parallelamente senza agire l’una sull’altra». E in ciò egli, pur
riconoscendo che dalla Scandinavia venivano le più antiche popolazioni
della Germania, era coerente con la sua idea di quel fondo comune cui si
appellava in nome della poesia popolare. Né diverso era il concetto che in
proposito aveva Wilhelm, cui dobbiamo la traduzione di una raccolta di
canti eroici danesi, già editi in Danimarca sin dal 1591 e ripartiti in quattro
gruppi diversi. Nella sua opera Altdänische Heldenlieder, Balladen und
Märchen, che accoglie appunto tale traduzione, preceduta da una notevole
prefazione, il Grimm divide la materia in due gruppi: da una parte i canti
eroici e dall’altra i canti e le ballate. E ciò perché i primi, a suo avviso,
anteriori agli stessi Nibelunghi e resti autentici di antiche cantilene
primitive, appartengono all’epoca del paganesimo, mentre i canti e le
ballate sono impregnate delle idee del Cristianesimo. Gli uni e gli altri non
erano però (ed è questo quel che contava per lui) che poesia popolare.
Gli Altddnische Heldenlieder uscirono nel 1811. Tre anni dopo si
iniziava la pubblicazione di un’ampia silloge, intitolata Swenka Folkvesiror,
dovuta a E. I. Geijer ed A. A. Afzelius, che comprende quattro volumi. Il
Geijer, poeta e storico, aveva voluto affrontare questa fatica con lo stesso
impegno dei grandi folkloristi del tempo. E l’Afzelius lo aveva
impareggiabilmente coadiuvato. Di notevole interesse, in questa collezione,
i motivi musicali che accompagnano molti canti. Il Geijer era convinto che
quanti più poeti una lingua possiede, tanto meno il popolo canta. E per il
popolo svedese è noto, come ben osserva il Ker, che la ballata era la poesia
nazionale. Ma la tesi del Geijer, cui egli perveniva dato il posto che la
ballata occupava nel suo paese, non va corretta in altro senso: e cioè che in
un paese il quale ha molti poeti colti la poesia popolare finisce col passare
in seconda linea? Anche in Danimarca come nella Svezia, aggiunge il Ker,
«la vita immaginativa è tutta del genere che vien detto popolare». Ed è qui
che respirerà l’opera stessa dell’Andersen, il quale, dietro l’esempio dei
Grimm, se non raccolse delle fiabe popolari, si servì in gran parte di esse
per farne delle rielaborazioni di squisita fattura.
L’opera più imponente però, che nel campo del folklore ci venne allora
dai paesi scandinavi fu quella di Svend Grundtvig il quale dal 1853 al 1899,
in sette volumi, raccolse le Danmarks gamle Folkeviser. In Danimarca
esistevano già raccolte dello stesso genere dovute al Vedel (1591), al Syv
(1695), al Rahbech (1812-14). La raccolta dei canti popolari del Grundtvig
(completata da Axel Olrik) è però su un altro piano. Opera insigne per
sicurezza di metodo e per ricchezza di dottrina, è stata definita. E in effetti
bisogna pur dire che il Grundtvig iniziò con questa raccolta un metodo di
lavoro che sarà quanto mai fecondo nel campo della filologia folkloristica.
In lui operano, si può dire, le esperienze dei raccoglitori precedenti. I
romantici tedeschi avevano avuto indubbiamente il merito di individuare il
valore delle varianti. Ad essi avevano fatto appello il Karadžić e soprattutto
il Lönnrot. Ma per il Grundtvig – come, più tardi, per il Bugge che raccolse
con gli stessi criteri i canti popolari norvegesi (Gamle norske Folkeviser,
Cristiania 1858) –, quelle varianti non sono chiamate a determinare soltanto
la popolarità del canto, ma a dichiararne la tradizione. Si trattava di
disegnare le linee di svolgimento di un canto, di un gruppo di canti, di
vedere come rivive un patrimonio in cui la saga nordica si fonde con la
materia eroica germanica. E qui è indubbiamente il merito del Grundtvig,
cui dobbiamo inoltre le raccolte, filologicamente perfette, delle saghe, le
Danske Sagen (1854-61), e delle novelle popolari, le Danske Folkeaeventyr
(1876-84).

8. Insegnamento romantico del folklore: «pensare in europeo»

Concludendo, possiamo senz’altro affermare che anche nei paesi slavi


come nei paesi scandinavi, mentre si affermava il concetto moderno della
propria nazionalità, il contatto col popolo faceva scoprire nuovi tesori di
vita e di arte. La Germania offre certo le sue armi filologico-folkloristico-
nazionali anche alla Russia. E le offre – curiosa vicenda dei primati e delle
missioni – anche alla Polonia. È il pangermanesimo del resto che ha
suscitato e creato il panslavismo. In una sua lettera a Strauss, Renan
scriveva: «La filologia comparata che voi avete trasportato, e a torto, sul
terreno politico, vi giocherà forse dei malvagi tiri: gli slavi vi si
appassionano». Vero: ma se la filologia non si fosse appoggiata sul terreno
politico e sociale, ci avrebbe dato quei frutti fecondi che essa ci ha dato
appunto nel nome della patria, della indipendenza, delle proprie
rivendicazioni nazionali? Diceva il Burcke: chi non ama i propri antenati,
non ama i propri discendenti. E il folklore, lo studio delle sue varie
manifestazioni, la valutazione e la rivalutazione dei suoi valori, segnava
appunto il ponte di passaggio fra il passato e l’avvenire.
Non si può negare che lo studio del folklore portò sempre ad un
superamento dei confini spirituali e culturali di ogni singolo popolo per
raggiungere alla fine il riconoscimento di una comunanza più vasta: quella
cioè che unisce i popoli fra di loro. Sembrava davvero così che nel campo
del folklore si fosse realizzato l’augurio dello Herder, ripreso in Russia dal
Čaadaev: e cioè che ogni nazione dovesse vivere armoniosamente con le
altre in nome delle voci dei suoi popoli che sono le voci stesse della
umanità. I popoli insomma che la politica divideva, erano chiamati allo
studio della propria individualità (il che è il fattore preminente della stessa
intelligenza storica), ma erano chiamati a non soffocarsi in essa. La gara
generosa – di cui noi non abbiamo dato che un esempio –, intesa a salvare
quanto di più intimo ha ciascun popolo e ciascuna nazione, è promossa, sì,
da un sentimento nazionale; ma quel sentimento non era il prodotto stesso
di una comune missione nazionale ed europea? Il concetto stesso di Europa,
cioè il nuovo concetto di Europa, è vano e vuoto, ove esso non si inserisca
decisamente nel cerchio di quei fattori culturali e morali che il folklore ha
contribuito a creare. Il folklore infatti spingeva gli studiosi a pensare in
tedesco, in inglese, in francese, in russo o altrimenti, ma li spingeva anche
contemporaneamente, per usare un’espressione di Madame de Staël, a
«pensare in europeo».
Parte quarta
Il folklore tra filologia e storia durante il Positivismo
16. Nel «laboratorio» di Max Müller

1. Valore del mondo ariano

Il Romanticismo, a dire il vero, non aveva, auspice la filologia, insegnato


soltanto a pensare in europeo, ma anche in indo-europeo. È noto che lo
Hegel considerò la scoperta della parentela linguistica del sanscrito col
greco, col latino ecc., come la scoperta di un nuovo mondo. Ed è noto
altresì che tale scoperta fu di stimolo alla ricerca di una comune cultura
indo-europea. Dal problema grammaticale, il principio dell’unità delle
lingue ariane si volle insomma estendere al problema d’una mitologia
ariana, d’una religione ariana, comune a tutte le tribù ariane prima della
loro diffusione e riconoscibile nella letteratura dei loro discendenti.
L’eco di questo principio si trova già nella interessante prefazione che
nel 1834 Jacob Grimm premise al Reinhart Fuchs, dove, trasferendo le
istanze della linguistica nel campo della novellistica, sosteneva che la
comunanza di alcuni antichi Lieder tedeschi con le favole esopiche suppone
una comune origine indo-europea. Né va dimenticato che, più tardi,
Wilhelm nel terzo volume dei Kinder- und Hausmärchen, quasi riprendendo
il discorso del fratello, aggiungeva decisamente che «gli Ariani, emigrando
dalle sedi primitive in contrade dell’Asia e dell’Europa, dovettero portare
con sé i germi delle novelle e delle favole, che poi si schiusero e foggiarono
indipendentemente presso ciascun nuovo centro etnico». E questa, a suo
avviso, era la ragione per cui gli stessi Kinder- und Hausmärchen si
dovevano far risalire nei loro motivi all’epoca della diaspora di quei popoli
ariani che, nel frattempo, non solo erano stati chiamati a mediare una
(eventuale) comunanza fra lingue e folklore, ma anche una (ipotetica)
comunanza fra lingua e razza.
Era naturale perciò che, nel ricercare questa nuova unità genetica, la
quale in Germania trasformò il germanesimo nella più pura espressione
dell’arianesimo, il primitivo dell’etnologia, sul quale era stato foggiato il
mito del buon selvaggio, fosse sostituito non dall’Ariano dei linguisti, che
era un Ariano storico, ma da un Ariano primitivo, originario, sul quale
veniva adottato il mito stesso delle nostre origini. E ciò durante l’epoca
stessa del Positivismo, il quale, accogliendo le istanze preilluministiche,
illuministiche e romantiche, non disdegnò, insieme col vivo interesse per le
scienze sperimentali e i problemi sociali, la fenomenologia inerente ai
popoli primitivi.
Nel 1832 uno dei fondatori del Positivismo, Auguste Comte,
nell’iniziare la pubblicazione del Cours de philosophie positive, era
dell’avviso che la storia dell’umanità si possa individuare, nel suo svolgersi,
in tre stadi, il primo dei quali, il teologico, è dominato dall’intervento di
forze o di esseri soprannaturali. Il Comte, inoltre, nel tempo stesso in cui
sulle orme del Brosses riteneva che il feticismo si dovesse considerare come
il primo stadio della religione, era dell’avviso che il cammino dell’umanità
si dovesse far iniziare con quello dei popoli primitivi.
Ma i primitivi, i selvaggi, anzi, come allora venivano chiamati, sono
qualcosa di più di ciò che appartiene al mondo animale? Questa la domanda
che, qualche anno dopo, si rivolgeva, nella stessa Francia, Arthur de
Gobineau nel suo Essai sur l’inégalité des races humaines. Ed è evidente
che in tal modo egli, che pur si sentiva etnologo, dimostrava di non avere la
minima idea di ciò che fossero i popoli primitivi. Né, d’altro lato, il
Gobineau (pur facendo suoi alcuni insegnamenti che veniva divulgando la
Società di Etnologia, costituita a Parigi nel 1839 da W. Edwards) si sforzò
di comprendere quei popoli. A lui la storia dell’umanità gli si spiegava con
l’avvento stesso degli Ariani o, meglio, della primigenia razza ariana. Prima
erano le tenebre.
Dotata delle qualità migliori, questa ipotetica razza era ritenuta dal
Gobineau come il nucleo originario di tutte le successive civiltà, il lievito
stesso delle antiche civiltà classiche come la greca e la romana. Culla di
questa razza pura e incontaminata: l’Asia centrale. Gli Ariani, diramatisi da
questo unico ceppo, si sarebbero poi sparsi, acquistando nuovi caratteri,
nelle varie sedi, e dando origine non solo ai diversi linguaggi, ma anche alle
diverse civiltà (sedi e civiltà queste, che, qualche anno dopo, saranno
oggetto di acute ma affrettate indagini del Pictet).
Il Gobineau era quindi dell’avviso – ecco un altro aspetto di
quell’arianesimo che si fa germanesimo – che i più diretti e attuali
rappresentanti di quell’antico ceppo si dovessero considerare i Germani, la
cui razza, come quella dei loro padri, veniva considerata esente da ogni
mescolanza. Era il germanesimo che aveva così addirittura il suo battesimo
di sangue, mentre, attraverso una ridda di parentele e di linguaggi, la storia
veniva abbassata a un puro procedimento naturalistico. Ma in mezzo a quel
naturalismo rimaneva una luce: l’Ariano, o meglio l’Ariano primitivo.
Bene: questa luce illuminerà un campione di pura razza ariana che è ben
lontano però dal razzismo del Gobineau: Max Müller.

2. Positivismo del Müller

Allievo dello Schelling e del Bopp, il Müller si recò fin dal 1848 in
Inghilterra e precisamente a Oxford per attendere alla pubblicazione del più
antico monumento che ci abbiano conservato gli antichi padri ariani: i Veda
(già rivelati alla cultura europea da un amico dello Jones, A. de Polier). E
Oxford fu e rimase la rocca-forte, la cittadella, dalla quale egli annunzio le
sue teorie in una serie di saggi, in cui la vivacità dello stile si accoppiava a
una felice esposizione degli argomenti presi in esame.
Raccolti poi in volumi che ebbero facile voga, questi saggi comparvero
in parte sotto il titolo di Chips from a German Workshop. Schegge dunque
le sue, e per giunta di un laboratorio tedesco. Questo del resto il carattere
che hanno anche le sue varie Lectures e Contributions, dove egli,
procedendo sempre a scatti, affrontò i vari problemi inerenti alla «scienza
del linguaggio», alla «scienza del mito», alla «scienza delle religioni». Più
organica la sua History of Ancient Sanskrit Literature, edita nel 1859 e
seguita dalla collezione dei testi sacri dell’Oriente in traduzione inglese:
The Sacred Books of the East.
In questi volumi, che assunsero vari titoli nelle innumerevoli traduzioni
europee, il Müller dimostra di possedere le stesse conoscenze dei suoi
predecessori: linguistiche, religiose, folkloristiche. Inoltre egli fa sue anche
le contemporanee esperienze del Positivismo. È del Positivismo la pretesa,
pienamente accolta dal Müller, di ridurre i fatti a un sistema di
classificazioni, sicché la stessa storia viene assumendo le caratteristiche di
una scienza naturalistica. Ed è del Positivismo, come è del Müller,
procedere dall’osservazione del caso singolo alla considerazione del tutto.
Ma c’è di più, ove si pensi che anche nel Müller, come nel Positivismo, le
precedenti istanze illuministiche si fondono continuamente con quelle
romantiche. Senonché, qual è il concetto che ha il Müller intorno ai rapporti
fra il linguaggio e il mito? Quali le sopravvivenze che il mito stesso ha
lasciato nel folklore?

3. Interpretazioni linguistico-metodologiche del mito

Lo studio dei Veda aveva dato al Müller questo convincimento: che non
è possibile studiare il mito come un fenomeno isolato e che non è possibile
interpretare il mito stesso staccandolo dal linguaggio. Ma ancor prima che
venissero scoperti i Veda, questo parallelismo non era stato individuato, ad
esempio, dal Vico?
Il Vico non solo considerò il mito come un’espressione del linguaggio,
ma nel ricercare l’origine (teorica) della religione, la trovò nel cielo che
fulmina, nei bestioni che stupiscono e temono, onde in essi si forma la
prima idea di Dio. Il bestione, l’uomo primitivo dell’etnologia, che era il
primitivo del Lafitau e del Rousseau, è tutto assorto, inoltre, ritiene il Vico,
in un suo sogno interiore che egli proietta negli oggetti naturali: sicché nello
stormire delle foglie egli avvertirà un certo segno della volontà degli dèi;
nel fluire limpido e tranquillo del ruscello i rispecchiati profili di ninfe;
nella continua vicenda delle stagioni la pietosa storia di Proserpina e di
Cerere ecc. Quando la Scienza Nuova era uscita da alcuni anni, apparvero
due opere di un francese, il Dupuis: il Mémoire sur l’origine des
constellations et sur l’explication de la Fable par l’astronomie, che è del
1781, e l’Origine de tous les cultes, che è del 1795. Il Vico, pur non
avversando l’indirizzo evemeristico allora predominante, aveva affermato
in fondo che le favole, di cui si servono i miti, non sono alterazioni di storie
reali, ma intrinsecamente storie. In questo senso: che la loro pretesa
alterazione è la loro verità stessa. Bene: il Dupuis cercherà questa verità nel
culto della natura che egli considera come un comune bisogno da cui
nascono le lingue, le leggi, le arti. È questo culto che si deve porre, a suo
avviso, alla base della religione primitiva. E poiché, egli aggiungeva, gli
elementi fondamentali della natura sono due, la luce e le tenebre, ecco che il
fondo comune di tutti i miti va ravvisato nel sorgere e nel calare del sole,
onde, ad esempio, Cristo non può non rappresentare che il sole, mentre lo
stesso mito cristiano non è altro che un mito solare.
Il mito, anche per il Dupuis, veniva così considerato come la proiezione
della vita storica dei popoli. E questo, in Germania, fu il principio cui si
attenne il Creuzer, il quale, nella sua Symbolik, sostenne che la prima idea
religiosa è il prodotto dell’animazione della natura, la quale avrebbe dato
origine a un linguaggio tutto pieno di personificazioni simboliche. Né va
dimenticato che il Creuzer, per dimostrare questo assunto, si era avvalso
delle etimologie, sia pure in maniera del tutto arbitraria. Lo aveva seguito in
gran parte il Görres. Ma con più acume s’era messo sulla stessa via K. O.
Müller, il quale però, per quanto le sue ricerche rimanessero limitate alla
Grecia, aveva promosso quell’intelligenza storica del mito cui aveva fatto
appello soprattutto il Vico. I Grimm completarono in un certo senso questo
processo, ove si pensi che essi accolsero l’idea del Vico, e cioè che i miti
sono delle immagini poetiche che esprimono dei fenomeni naturali – per
quanto il loro concetto di poesia non coincidesse con quello del Vico –. Gli
stessi Grimm si possono considerare come i più agguerriti rappresentanti
della mitologia comparata, tanto è vero che in essi la comparazione tende
sempre a far coincidere il mito con il linguaggio, mentre, com’è stato ben
osservato, fu Jacob, nella seconda edizione della sua Mythologie, ad
esprimere l’idea che gli esseri divini della mitologia siano i prototipi di
un’unità originaria così come i suoni delle varie lingue i derivati da un
unicum. La differenza fra le diversità mitologiche corrisponderebbe alle
diversità dialettali. Ai Grimm, tuttavia, cui interessava soprattutto vedere
come i germi delle favole, che sono sopravvivenze di miti, si erano chiusi e
sviluppati in uno speciale centro etnico, qual era quello della Germania, era
mancata una preziosissima fonte: i Veda, dei quali invece si avvarrà
soprattutto un loro grande ammiratore, il Kuhn. Questi, unificando
anch’egli i suoi interessi linguistici con quelli della storia delle religioni,
non solo sostituì il primitivo dell’etnologia con quello della filologia, ma
affermò che il carattere elementare degli dèi, cioè degli dèi del mondo
ariano, si riattacca ai fenomeni passeggeri delle nuvole, delle tempeste ecc.
(indirizzo questo che fu seguito anche dallo Schwartz). E qui, su queste
basi, mentre i caratteri del bestione venivano trasferiti all’Ariano storico,
ecco costruite le sue opere principali come, ad esempio, Die Herabkunft des
Feuers und des Göttertranke, che è del 1859, e Über Entwicklungsstufen
der Mythenbildung, che è del 1873.
Nel saggio Comparative Mythology il Müller considera il Kuhn come
uno dei suoi più diretti ispiratori. E al Kuhn egli infatti si riattacca nel
ricondurre i nomi propri delle varie divinità ariane a una radice indo-
europea, ricostruendo così un loro valore primitivo ipotetico, e quindi il loro
significato originario. Il significato che il Müller dà a quelle divinità, ci
riporta però piuttosto al Dupuis o, meglio, a un Dupuis riveduto, corretto e
aggiornato dalla filologia tedesca. Al sole o, meglio, al sorgere e al
tramontare del sole come fonte ispiratrice della mitologia, il Kuhn aveva
sostituito il temporale, la tempesta, l’uragano. Il Müller rimetterà il sole al
suo posto. E nel far ciò, egli combina, sì, le vedute del Vico con quelle del
Dupuis, del Creuzer con quelle del Kuhn; ma, a differenza di quest’ultimo,
non si contenta di porre il suo esame sugli Ariani storici e lo estende agli
Ariani primitivi. Ai padri, insomma, che la diaspora doveva poi dividere.

4. Il linguaggio generatore dei miti


Nacque in tal modo la sua teoria filologico-linguistica intesa a chiarire il
problema dei rapporti fra linguaggio e mito. Il Müller fin dal suo saggio
Comparative Mythology afferma che la filologia comparata gli offre un
«telescopio di una tale potenza» che laddove prima si vedevano delle
nuvole confuse egli vedrà ora delle forme e dei contorni ben distinti. Essa,
la filologia comparata, lo riporterà in un’epoca in cui il sanscrito e il greco
non esistevano ancora, perché tutte e due, come le altre lingue ariane, erano
contenute in una lingua comune. Gli farà intendere, inoltre, le testimonianze
contemporanee che quell’epoca ci ha lasciato nel linguaggio, mentre, di pari
passo, gli darà modo di rievocare lo stato primigenio del pensiero, della
religione, della civiltà.
La filologia comparata, egli pertanto aggiunge, non ci fornirà solamente
la prova che questo periodo ariano primitivo è esistito, ma ci darà dei dati
sullo stato intellettuale della famiglia ariana avanti la sua dispersione.
Inoltre è alle stesse lingue romanze che egli domanderà la formula magica
che gli aprirà gli archivi della più antica storia della razza ariana. Così, ad
esempio, se noi troviamo in tutti i dialetti romanzi una parola come pont, in
italiano ponte, in spagnuolo puente, in valacco pod, noi abbiamo il diritto,
dopo aver tenuto conto delle particolarità nazionali, di dire che la parola
pont era conosciuta prima che le lingue si separassero.
Durante questo periodo anteriore alla formazione delle nazionalità
distinte ogni parola era, secondo il Müller, un mito. Ogni nome,
nell’originario linguaggio ariano, è pertanto, egli incalza, un’immagine;
ogni sostantivo una persona; ogni proposizione un piccolo dramma.
Senonché, aggiunge, per lo scadimento fonetico, quei nomi perdono la loro
primigenia vitalità e diventano nomi propri di persona, mentre a tali nomi-
persone verranno attribuite tutte quelle azioni drammatiche che riproducono
la vita, la morte e il rinnovamento giornaliero della natura. Questa la
ragione per cui molti dèi pagani, indiani, greci ecc., non sono che nomi
poetici, i quali assunsero una divina personalità, non mai contemplata dai
loro inventori. Nomina, numina. E questi nomina-numina ecco che a loro
volta saranno il soggetto stesso della mitologia nella quale predominano
questi elementi: il sorgere e il tramontare del sole, il combattimento tra la
luce e l’oscurità. Il che è, a sua volta, un vero e proprio dramma che con
tutti i suoi particolari si rappresenta ogni giorno, ogni mese, ogni anno.
Il Müller capovolge così il rapporto fra mito e linguaggio quale lo
avevano posto il Vico e gli stessi filologi tedeschi. Il mito non è più infatti
per il Müller una potente realtà del sentimento, ma è un inganno filologico.
Afferma in proposito il Cassirer: «Certo il Müller non vede più nel mito una
semplice invenzione arbitraria, la marioleria di un’astuta classe sociale. Ma
è d’accordo nel riconoscere che il mito, dopo tutto, altro non è che una
grande illusione, un inganno inconsapevole, ma inconscio». E il mito, la più
suggestiva e la più potente espressione del linguaggio, diventa addirittura
una malattia del linguaggio. Di quel linguaggio cioè che egli considera
come una scienza naturalistica e di cui vuoi rivendicare la natura, l’origine e
lo sviluppo. Né diversamente dal mito gli si presenterà la religione, almeno
in alcuni dei suoi aspetti.
5. Alle fonti della religione

Nel 1873, nella sua Introduction to the Science of Religion il Müller,


parafrasando la frase del Goethe «Chi conosce una sola lingua non ne
conosce nessuna», affermava che «Chi conosce una sola religione non ne
conosce nessuna». Le religioni, tuttavia, che egli predilige e a cui si rivolge
come termine di riferimento per far la storia delle religioni, o comunque di
altre religioni, sono le indiane. E i Veda, anche sotto questo aspetto, gli
saranno preziosissimi. In un suo saggio (poi accolto nelle Lectures on the
Science of Language, 2, 138, London, 1861-63) il Müller, nel chiarire a se
stesso il dramma con cui egli aveva animato la mitologia, ebbe a osservare:

«Penso che la stessa idea delle potenze divine ebbe origine dalla meraviglia, onde gli antenati della
gente ariana contemplavano le potenze luminose (deva) che nessuno poteva dire donde venissero e
dove andassero, che non appassivano né morivano, che erano chiamate immortali, cioè a dire che non
passavano, e ciò per distinguerle dalla debole e peritura progenie degli uomini. Questa loro
immortalità trova il suo stesso antecedente nel regolare ritorno dei fenomeni della natura, rivissuti
dalla magica psicologia mitologica».

Il Müller d’altro canto, se pur non ammette una originaria rivelazione


esterna, crede a una indeterminata rivelazione interna o, meglio, a
un’influenza dell’infinito sull’anima. Anzi, a suo avviso, è la percezione
stessa dell’infinito che dà in origine l’impulso al «pensiero», al
«linguaggio» della religione, tanto è vero che in origine gli uomini non
furono affascinati dagli oggetti del loro ambiente, ma dallo spettacolo della
natura preso nel suo insieme. Così il Müller nel tempo stesso in cui
attribuiva alle prime età le teorie dei romantici e dei simbolisti, respingeva
la teoria del feticismo, allora in auge presso il Positivismo. E ciò perché
quella teoria era in contraddizione con i Veda.
Nelle celebri Hibbert Lectures, iniziate a Oxford nel 1878, il Müller
distinse comunque tre tipi di oggetti religiosi: 1, gli afferra-bili, come le
pietre, le conchiglie; 2, i semiafferrabili, come gli alberi, i fiumi, i monti; 3,
gli inafferrabili, come il cielo, il sole, le stelle. E concluse che non al primo
tipo, ma agli altri due sarebbero stati dedicati gli inni dei più antichi poeti.
Questa la religione fisica. Le relazioni sociali dell’uomo avrebbero portato
alla religione antropologica che porta alla venerazione di Dio. Ma l’uomo
ha in sé la sua coscienza, il suo io. E questo io avrebbe portato l’uomo alla
religione naturale.
Convinto inoltre che linguaggio e pensiero sono inseparabili, onde una
malattia del linguaggio è anche una malattia del pensiero, il Müller
affermava che:

«… il Dio supremo come un essere che ordina ogni genere di delitti, che viene sconfitto dagli
uomini, che si arrabbia con la moglie e che maltratta i figli, è una prova sicura di una malattia, di una
particolare disposizione del pensiero, ossia, per parlare più chiaro, di vera e propria pazzia… Ed è un
caso di patologia mitologica. Il linguaggio antico era uno strumento difficile da maneggiare,
specialmente per scopi religiosi. Nel linguaggio umano è impossibile esprimere idee astratte se non
sotto metafora… Di qui una sorgente continua di equivoci, molti dei quali si sono conservati nella
mitologia e nella religione del mondo antico» (Contributions to the Science of Mythology, 1, 68,
London, 1897).

Ed ecco pertanto che anche il linguaggio, portandoci con i suoi errori al


culto degli oggetti concepiti come persone, faceva della religione un
equivoco. Il Romanticismo era spazzato via, e la costruzione del Müller
ritornava al punto da cui egli era partito per spiegare i rapporti fra
linguaggio e mito: vale a dire, al razionalismo e all’intellettualismo.

6. Nell’incantato mondo del folklore

Né questa costruzione rimase fuori del campo del folklore, da cui, anzi,
il Müller fu sempre attratto con particolare interesse. Quasi a integrare
quanto Wilhelm Grimm aveva scritto in proposito, egli infatti non solo era
convinto che la nazione resta attaccata con mirabile tenacia ai Märchen, e
che i germi onde essi sono usciti appartengono al periodo anteriore alla
dispersione della razza ariana, ma era dell’avviso che:

«…quei popoli i quali, emigrando verso il nord e verso il sud, portarono i nomi del sole e dell’aurora
così come le credenze nelle splendide divinità del cielo, possedevano già nella loro lingua stessa,
nella loro fraseologia mitologica e proverbiale, i semi, più o meno sviluppati, che dovevano
necessariamente far nascere le stesse piante o piante assai simili in qualunque secolo e sotto
qualunque cielo».

Nell’affrontare lo studio scientifico della novellistica popolare, il primo


compito da assolvere deve essere perciò, ritiene il Müller, di far rimontare
ciascun racconto moderno a una leggenda più antica e ciascuna leggenda a
un mito primitivo. Si deve rilevare, comunque, che, se pur in origine i nostri
racconti erano delle riproduzioni di leggende più antiche, nel corso del
tempo si è sviluppato un gusto per il meraviglioso, onde dei nuovi racconti
sono stati inventati dalle nostre nonne e dalle nostre nutrici. Nei racconti di
pura immaginazione si possono scoprire tuttavia delle analogie con dei
racconti più primitivi. E allora ecco, precisa, che bisogna per ciascun
racconto rimontare alla forma più primitiva o, meglio, più semplice;
esaminare e analizzare questa forma, osservando rigorosamente le regole
della filologia comparata; e infine, quando si scopre la concezione semplice
e originale del mito, vedere come la stessa concezione e lo stesso mito si
sono gradualmente sviluppati e come si sono rivestiti di forme differenti
sotto il cielo brillante dell’India e nelle foreste della Germania.
Ritenuti così gli attuali Märchen come un ammasso di detriti lasciatici
dalla primitiva mitologia, è ovvio che per il Müller i Veda diventino il deus
ex machina per la loro interpretazione. Commenta in proposito il De
Gubernatis, che del pensiero del Müller fu il più tenace divulgatore:

«Il Rigveda ci offre i soli miti: l’uomo nota, vede le vicende celesti e non le narra ancora; ma, se
pure io noi volessi, mettendo ora insieme questi vari miti appartenenti al ciclo dell’aurora, mi trovo
bella e fatta una intiera leggenda, anzi, meglio, una intiera serie di leggende, che riesce quindi
agevole il comparare con le altre epopee e con le altre leggende… Che cos’è l’aurora negli inni
vedici? È una fanciulla che appare sulla punta della montagna; ha la veste luminosa; ha il corpo
luminoso; è guardiana di vacche; ha una sorella, la nera, ossia la brutta, mentre essa è la splendida,
ossia la bella; è la migliore, ossia la sorella buona; disperde la tenebra della sorella, rimove indietro
la sorella; uccide il nero mostro; è figlia della nera… Leghiamo insieme questi miti e spieghiamoli;
ne uscirà fuori a un dipresso il seguente racconto: Una volta era una donna brutta e mostruosa, una
strega, aveva due figlie; l’una simile a lei, ossia brutta e cattiva; l’altra dissimile, ossia bella e buona.
La donna amava la brutta come propria figlia, odiava la bella, essendole matrigna. Essa mandava la
bella a pascere le vacche; ritornando questa sul far del giorno, in cima al monte, la circondò un
grande splendore; essa si adornò di una veste d’oro e le spuntò sul fronte una stella fulgentissima»
(Le novelline di S. Stefano, 6-7, Torino, 1869).

Con questo idolo ecco intanto che Psiche adombrerà l’aurora che si
nasconde quando il sole spunta; Cenerentola, l’aurora che sboccia tra le
nuvole; le Belle imprigionate e liberate da un principe, la primavera che si
libera dall’inverno; l’uccisore del mostro che libera la Principessa dai
capelli d’oro, l’eroe solare. E così via. Né ai Veda il Müller ricorre soltanto
per spiegare i Märchen. Anche i costumi dei popoli trovano in essi la loro
fonte:

«Se noi troviamo lo stesso costume nell’India e nella Grecia, noi siamo spinti a supporre che esso ha
una sorgente comune e siamo quindi portati ad attribuire la sua origine ai tempi che hanno preceduto
la separazione ariana… Uno dei principali incanti che noi troviamo nello studio dei costumi è il
piacere che proviamo a seguirne lo sviluppo, a notarne la loro straordinaria tenacità…».

E nei suoi saggi il Müller non mancò di seguire lo sviluppo di alcune


costumanze, di cui si interessò anche il suo maggiore interprete, il De
Gubernatis. Questi non solo affrontò lo studio della Zoological Mythology e
della Mythologie des Plantes, ma compì fra l’altro una serie di storie
comparate dedicate agli Usi funebri e agli Usi natalizi nell’intento di:

«Ricostruire quasi per intero, almeno per la razza indo-europea, la logica tradizionale, la quale, se
non è precisamente conforme alle logiche dei filosofi, offre all’osservatore un interesse maggiore di
quelle, ed è forse meno capricciosa e ribelle» (Storia comparata degli usi funebri indo-europei, 6, ed.
1875).

E però, nonostante quell’intento, i lavori del De Gubernatis altro non


sono che dei cataloghi passati al vaglio del Müller, il quale, nell’un campo e
nell’altro, in quello della mitologia e in quello dei costumi, ebbe un influsso
notevolissimo. Molti furono infatti i suoi seguaci nella sua patria di
adozione oltre che in quella di origine, in Italia, in Francia e soprattutto in
Russia. La filologia comparata emergeva dovunque, insomma, così come
può emergere il sole dalle nuvole. E col sole – quand’esso, ahimè!, non fu
sostituito dal fuoco o dall’acqua – accompagnava il cammino stesso del
folklore nei suoi vari aspetti; costumi, miti, racconti, leggende, fiabe,
Lieder, byline, eccetera.

7. Critiche e polemiche sul Müller

Ma la filologia non si fermò con il Müller e con i suoi più diretti seguaci.
Man mano che il Müller veniva costruendo il suo edificio, il mito indo-
europeo aveva subito spostamenti e adattamenti inerenti al suo stesso centro
di diffusione. Si pensi soprattutto all’opera del Geiger che poneva la culla
del primitivo mondo ariano nel centro della Germania. Oppure a quella del
Poesche che poneva come un dogma l’assimilazione dei biondi nordici con
gli Ariani pretendendo di trovare nell’ovest della Russia le condizioni
favorevoli alla nascita e allo sviluppo di questo tipo etnico. Ipotetica d’altro
lato, quali che fossero stati questi spostamenti e adattamenti, appariva
l’originaria civiltà ariana costruita e immaginata dal Müller, tanto più che la
geologia aveva ormai dimostrato che l’Europa era stata abitata fin da tempi
immemorabili. Gli stessi Feda, sui quali il Müller aveva trasferito il mito
della poesia popolare, quale lo avevano foggiato i Grimm, apparvero agli
studiosi quel che effettivamente erano: e cioè degli inni sacerdotali, i quali
nulla avevano a che fare con la poesia popolare. Ma c’è di più, ove si pensi
che non meno antichi dei racconti indiani contenuti nei Veda apparvero i
racconti egiziani o, ancor meglio, gli assiro-babilonesi. La filologia
comparata era costretta inoltre a riconoscere che la stessa derivazione della
mitologia dalle desinenze dei generi non può costituire un dogma, in quanto
la mitologia è espressa anche da popoli che non conoscono generi
grammaticali e che la stessa teoria del Müller inerente alle desinenze
(nomina-numina) poteva essere valida soltanto in qualche identificazione.
Accusato di non rendersi conto dei particolari dei miti, oltre che della
somiglianza dei miti fra linguaggi diversi, il Müller ebbe anche il torto di
basare il suo sistema sull’incertezza delle desinenze, senza dire poi che
dalla stessa unilateralità della spiegazione etimologica non poteva non
derivare che l’uniformità delle interpreta-zioni. Dirà il Dumézil: «Bisogna
riconoscere che la filologia comparata [del Müller] aveva cercato la sua
disgrazia». E nello stesso anno in cui il Müller moriva, nel 1900, uno dei
suoi maggiori critici, il De Visser dichiarava di non aver imparato nulla dai
mitologisti alla Müller, perché essi non comparavano nulla.
Il De Visser ebbe inoltre a osservare che ridurre la mitologia a una
semplice parafrasi lirica o epica di fenomeni celesti significa porre male il
problema stesso della religione, in quanto il dio è altra cosa o più cose che
la personificazione pura e semplice (insegni Vico, potremmo aggiungere)
d’un fenomeno celeste. Perché un nome, quale che sia, diventi nume, è
necessario, d’altro lato, che l’oggetto al quale prima era applicato, apparisse
già alla coscienza popolare come dotato di virtù divina, per cui, malgrado
l’accrescersi del suo primitivo concetto, rimanesse come segno confuso di
certe nozioni ideali, più o meno elevate, distinte e razionali. Senza questa
intuizione religiosa, osserva giustamente il Kerbaker, che pure fu in gran
parte favorevole alla scuola del Müller, non si può comprendere in qual
modo la semplice osservazione dei fenomeni naturali abbia potuto
trasformarsi in una storia poetica, ispirare l’entusiasmo dei cantori, eccitare
l’ammirazione popolare, tramandarsi alle successive generazioni come il
fine dell’umana sapienza.
Né bisogna dimenticare che queste e altrettali critiche furono precedute
dall’arma più terribile con cui si può colpire un sistema, una teoria, un
uomo: la satira. Al Müller toccò in Inghilterra la stessa sorte che in Francia
era toccata, un secolo prima, al Dupuis. Enorme infatti fu in Francia il
successo che, fra il 1836 e il 1840, ebbe un estroso libretto di cui si fecero
ben tredici edizioni: Comme quoi Napoléon n’a jamais existé, e in cui si
sosteneva, con le stesse teorie del Dupuis, una verità incontestabile: che
Napoleone non era mai esistito e ch’egli, Napoleone, altro non era che il
riflesso e la sopravvivenza di un mito solare. Bene: fin dal 1870, quando
cioè il Müller era in auge, gli studenti di Oxford pubblicavano un opuscolo,
dedicato a un suo seguace, G. A. Cox, dove, coi Veda alla mano,
dimostravano che anche Max Müller era un mito solare (tesi questa che,
alcuni anni dopo, nella stessa Inghilterra, verrà applicata a Cesare e a
Gladstone). Nel rievocare queste polemiche, il Gaidoz ricorda alcuni versi
di Victor Hugo:

O temps évanouis! O splendeurs éclipsées!


O soleil descendu derrière l’horizon!

E il sole anche per il Müller si era ecclissato; ma, critiche e polemiche a


parte, possiamo noi, in effetti, rinchiudere la sua opera in una formula e
giudicarla soltanto in base ad essa? Dice il Sokolov, e dice bene: «Sarebbe
ingiusto limitare con questo epiteto [cioè di solare dato alla sua mitologia] il
sistema scientifico elaborato dal Müller che è vasto, complesso e sorretto da
una formidabile eru-dizione». È vero che il Müller si abbandona, osserva il
Terracini, a «quella fantasia scientifica che complica fin dove è possibile la
portata dei risultati ottenuti», confondendo «la ipotesi di lavoro con ciò che
è realmente provato». Ma è vero altresì che le sue ipotesi di lavoro non
furono né vane né oziose, e che se pur la sua teoria solare altro non è che un
interessante episodio nella storia degli studi mitologici, non è certo un
episodio l’atteggiamento che egli assunse di fronte a molti problemi inerenti
alla mitologia, alla religione e al folklore. Vi sono, nella sua vasta opera,
delle pagine che ancor oggi si leggono con vivo interesse. Il teorico, in
quell’opera non conta più: in essa rimane l’impareggiabite orientalista di
larghe vedute, il ricercatore acuto, lo scrittore elegante.

8. Validità del suo insegnamento

È merito del Müller, d’altro lato, l’aver distribuito il suo lavoro secondo
un procedimento in cui le manifestazioni etniche venivano considerate in
rapporto a determinati gruppi di popoli. Merito suo l’aver dichiarato che il
mondo ariano non era per lui un sapere ozioso, ma un sapere dov’è lo
specchio «della nostra famiglia, o per meglio dire, di noi stessi». Merito
suo, infine, l’aver dichiarato, quando si era internato in quel mondo, che un
«etnologo il quale parlasse di razza ariana, di sangue ariano, di occhi e
capelli ariani commetterebbe lo stesso madornale errore di un linguista che
parlasse di vocabolario dolicocefalo o di grammatica brachicefala». E in
questo senso la sua filologia, che pur rimaneva impregnata di positivismo,
assumeva indubbiamente un orientamento storico fecondo di risultati.
Commenta in proposito il Pettazzoni: «Il fatto linguistico, con cui essa
[la scuola del Müller] spiegava il fatto mitico-religioso, era il più atto a far
risaltare per via delle comparazioni, le differenze spirituali fra popolo e
popolo, e quindi l’individualità delle singole genti e nazioni: fattore di
capitale importanza per l’intelligenza della storia (e quindi anche della
storia religiosa)… D’altra parte la filologia era pur qualche cosa di più che
la scienza del linguaggio e che la scienza del mito fondata sul linguaggio
(vergleichende Mythologie): al di là del dato fonetico e dell’astrazione
semasiologica era il testo, sia letterario sia comunque documentario, che si
imponeva per se stesso all’attenzione dello studioso, il testo nella sua
concretezza e dunque nella sua precisa determinatezza storica».
La immaginosa e poetica ricostruzione, in cui il Müller aveva avvolte le
varie manifestazioni del folklore, era stata peraltro un nuovo e potente
stimolo, perché quelle manifestazioni, a cui si riconosceva una preminente
dignità, venissero dovunque raccolte con maggiore fedeltà. In una lettera
che il Müller scrisse al Pitrè perché servisse come introduzione
all’«Archivio per lo studio delle tradizioni popolari» si leggono queste
parole:

«Mio caro signore, desidera che io Le dica le mie idee circa il giornale “Archivio per lo studio delle
tradizioni popolari” che Ella intende pubblicare insieme ad alcuni suoi amici: ed io sento delle
difficoltà a far questo. Lo studio delle tradizioni popolari d’Europa e di tutto il mondo ha fatto sì
giganteschi passi in quest’ultimo ventennio che io non possedendo per conto mio un paio dei famosi
stivali fatati non potrei se non stare a guardare da una ben rispettabile distanza. Anni addietro quando
questo studio era se non dispregiato per lo meno ignorato io mi dichiarai con tutte le mie forze contro
i suoi detrattori. Ora che comincio a sentirmi vecchio e stanco vedo gli alberi, che già concorsi a
piantare, crescere a sì gran foresta…».

E in quel fervore di ricerche, egli fissava i canoni con cui consigliava al


Pitrè il metodo per la raccolta delle novelle, che, fra i vari prodotti del
folklore, aveva di più amato e curato:

«Il raccogliere novelle popolari è un compito difficilissimo o facilissimo… Prima di tutto non ogni
novella che una vecchia può raccontare merita di venire scritta e stampata. Le novelle genuine nate in
casa o, se così mi posso esprimere, autoctone, mandano una peculiare fragranza terrestre… la quale
noi dobbiamo imparare a riconoscere prima di poter dire se una novella è antica o recente, genuina o
spuria, se viene dalla foresta o dalla serra. È tutta una questione di gusto… In secondo luogo la stessa
novella, tutte le volte che ciò è possibile, dovrebbe venire raccolta da sorgenti differenti e da
differenti località e gli elementi che sono comuni a tutte le versioni dovrebbero venire diligentemente
distinti da quelli che sono peculiari a una o più soltanto. In terzo luogo tutti i raccoglitori dovrebbero
informarsi dei risultati già ottenuti nella classificazione delle novelle, al fine di vedere e di dire a un
tempo a quale gruppo appartiene la novella raccolta… In quarto luogo, la novella dovrebbe darsi, per
quanto è possibile, con le ipsissima verba del narratore. Questa sarà una precauzione contro quella
immoralità di collezioni di novelle, della quale abbiamo tanto sofferto. Egli è fuor di dubbio che un
collettore, il quale ritocchi e abbellisca una novella, andrebbe frustato».

In tal modo il Müller non avrebbe esitato a frustare anche i Grimm, di


cui fu sempre fervente ammiratore; ma i Grimm, ed egli lo sapeva, avevano
fatto un’opera d’arte personale; mentre al Müller interessavano i testi di ciò
che è il vero, l’autentico folklore. Né d’altro canto era senza significato il
monito di raccogliere le novelle con le ipsissima verba del narratore, ove si
pensi che la novellistica soltanto così raccolta ci documenta anche il tesoro
dei dialetti:

«Questo studio dei dialetti, io ne sono pienamente sicuro, è ricco di promesse e io ritengo sempre con
la massima convinzione che, per conoscere che cosa e il linguaggio, noi dobbiamo studiare la reale
vita naturale del linguaggio».
E con tale augurio il maestro, vecchio e stanco, come egli si definiva,
lasciava agli studiosi delle tradizioni popolari il suo testamento spirituale,
mentre dal suo insegnamento, da tutta la sua opera, si veniva rafforzando
un’idea che era stata cara ai preromantici e ai romantici: e cioè che le
singole filologie in tanto hanno un valore in quanto mettono capo alle storie
rispettive dei singoli paesi.
17. Sulle orme del Benfey

1. L’India come dogma

Quando il Müller e i suoi seguaci accoppiavano il sole, l’aurora e il


crepuscolo con la grammatica comparata, un altro orientalista tedesco,
anch’egli educatosi alla scuola del Bopp, Theodor Benfey, dava allo studio
della novellistica popolare una sua particolare sistemazione, scendendo,
come egli stesso amava confessare, dalle nuvole sulla terra. Di contro al
Müller, il quale aveva cercato di spiegare il problema inerente all’origine
della mitologia e quindi della novellistica popolare, il Benfey prescinde da
tale problema, poiché per lui lo studio della novellistica popolare si basa
soprattutto sull’esame dei veicoli letterari o popolari, mediante i quali si
propaga una novella, una favola, un racconto ecc.
È vero d’altro lato che l’uno e l’altro, il Müller e il Benfey, hanno gli
occhi rivolti all’India. Ma l’India del Benfey non ha nulla in comune con
quella degli antichi padri Ari, sulle cui lontane migrazioni egli rimase
sempre scettico. L’India del Benfey è l’India storica, l’India che si può ben
collocare non solo nel tempo ma anche nello spazio. È noto che i Veda sono
per il Müller il deus ex machina, da cui egli parte per creare un idillico
mondo primitivo (ariano) che poi man mano gli si rivela nel mondo
contemporaneo. Il Benfey invece si appella a un altro testo indiano, al
Panciatantra, che egli considera come una delle principali fonti che abbia
alimentato la novellistica popolare europea. E questo è il nucleo attorno a
cui si svolge l’ampia introduzione o meglio l’ampio trattato – contiene
infatti ben seicento fitte pagine – che il Benfey premise, nel 1859, alla sua
traduzione in tedesco del Panciatantra.
In tale trattato, il quale nello studio della novellistica popolare ha lo
stesso mordente del terzo volume dei Kinder- und Hausmärchen, il Benfey
non solo ci dà la misura degli interessi che lo animano, ma ci dimostra
come il suo sia un temperamento completamente opposto a quello del
Müller. Brillante e geniale, quest’ultimo. Massiccio e rigido, il Benfey. Il
Müller è l’artista che sa infondere calore alle sue ricerche e alle sue sintesi,
quali che esse siano. Il Benfey non ha né lo stile né l’incanto del Müller. I
Veda sono la fucina dell’immaginazione del Müller. Il Panciatantra è per il
Benfey una fonte da cui scaturiscono teoremi, assiomi, equazioni. Chiaro il
Müller. Complicato il Benfey. E il Keller, che è stato uno dei suoi maggiori
critici, appunto per questo non esita ad affermare che manca nel Benfey un
principio decisamente espresso e poi sostenuto attraverso tutta l’opera. Il
che non esclude, osserva di rincalzo il Ribezzo, che se il Benfey «emette
qua e là giudizi e osservazioni isolate che non sempre sono d’accordo fra di
loro» tuttavia «spigolando i vari passi e passando sopra alle parziali
contraddizioni è possibile inquadrarli e congegnarli più organicamente».
2. Il Panciatantra e l’origine indiana delle favole

Nel tentare questo organizzamento è necessario rifarsi a uno studioso


francese, al Loiseleur Deslongchamps, il quale nel 1848 aveva pubblicato a
Parigi un Essai sur les fables indiennes et sur leur introduction en Europe.
Il Loiseleur Deslongchamps si era assunto il compito di allargare le ricerche
che il suo maestro, Silvestre de Sacy, aveva compiuto su una redazione
collaterale del Panciatantra, vale a dire il romanzo di Calila e Dimna. Edita
nel 1816, la memoria del Sacy portava questo titolo: Calila et Dimna, ou les
Fables de Bidpai en arabe. E il titolo stesso ci dice chiaramente che c’era
già nel Sacy il proposito di studiare la novellistica dal punto di vista della
sua stessa propagazione. Non si trattava di stabilire una comune e lontana
fonte ariana da cui, come Venere dal mare, fossero scaturite le novelle, i
racconti e le fiabe popolari. Il lavoro era diverso e consisteva nello stabilire,
con una presunta concretezza di dati, la loro propagazione. Né la ricerca del
Sacy si esauriva nello stabilire questo rapporto. Egli, nel rivolgere il suo
sguardo alla letteratura sacra buddistica, pensava alla enorme massa di
favole, di massime, di proverbi di cui si servivano i predicatori per giungere
all’anima del popolo. Dopo la caduta del buddismo i Bramini accolsero
questa eredità, uno dei cui frutti fu appunto il Panciatantra, composto allo
scopo di educare i tre figliuoli di un re di Mihiralopia, di nome Amarasacti,
dal Savio Visnusarma, come appunto è detto nel proemio:

Raccogliendo pel mondo tutto il succo


D’ogni moral dottrina, in cinque parti
Questo suo libro dottrinal che il core
Tocca e rapisce, Visnusarma fece.

Nulla sappiamo di questo Savio che intermezzò con rara abilità i suoi
precetti morali con racconti, novelle e apologhi di una finezza non comune.
Sappiamo però che la prima traduzione del suo libro fu fatta nel secolo VI

dell’era volgare da un dotto che viveva alla corte di Persia, Buzurcimihr, e


che su di essa, nel secolo VIII, un persiano recentemente convertito alla
religione di Maometto, cioè Abdallah Ibn ul-Muqaffa, adoperando la lingua
dei conquistatori, curò in arabo una sua traduzione nota sotto il nome di
Calila e Dimna.
Nel pubblicare il testo arabo di questo prodigioso libro della cui
traduzione in pehlevico, andata perduta, ci parla lo stesso Abdallah, il Sacy
iniziò lo studio della sua diffusione e delle sue ramificazioni. Il Sacy aveva
comunque limitato la sua ricerca al mondo orientale. Il Loiseleur
Deslongschamps l’estenderà al mondo occidentale. Ed è allora che a lui si
presentano le istanze di un Huet e di un La Fontaine inerenti alla diffusione
delle novelle indiane in Europa. Con questa differenza: che egli, testi alla
mano, pone con una composta ricerca filologica la questione dell’origine
indiana di ogni tipo di apologo.
Le ricerche di questo tipo furono continuate qualche anno dopo dal
Wagener, il quale in un suo Essai sur les rapports qui existent entre les
apologues de l’Inde et les apologues de la Grèce, edito nel 1852, formula
con maggiori dettagli il problema della propagazione storica delle favole, e
sostiene l’idea che la favola s’è diffusa non per attività individuale ma
collettiva. Da qui la sua persuasione che Esopo non era esistito e che la
tradizione la quale si riannoda a lui «come a un centro ideale» si spiega con
la propagazione stessa delle favole dall’interno dell’Asia nelle colonie
ioniche e in Grecia.
Il Wagener, dopo aver messo in raffronto alcune favole greche con altre
indiane, spigolate in parte nel Panciatantra, credette di scoprire questo dato
di fatto: e che cioè «man mano che nelle due favolistiche si risale dalle
versioni più tarde alle più primitive del mito, l’affinità dei particolari cresce
ancora», e che pertanto si deve ammettere che i Greci avevano ricevuto in
blocco le loro favole dagli Indiani. La tesi del Wagener riusciva all’intento
contrario di quel che voleva dimostrare, anche se «le stesse prove, da lui
addotte per mostrare che la favola non era di origine greca, contenevano
dati che non avevano fatto che dimostrarne comunque la remota antichità».
E su ciò basa le sue aspre critiche un altro dotto filologo del tempo, il
Weber, il quale in alcuni suoi saggi pubblicati negli «Indische Studien» del
1856, sostiene invece l’assoluta inverosimiglianza di una introduzione delle
favole indiane in Grecia.
Il Wagener, nel documentare la sua tesi si basava non solo sull’antichità
del Panciatantra, che egli faceva risalire al secolo IV, ma anche alla
localizzazione delle favole greche, le quali si riferiscono complessivamente
a direzioni tutte approdanti all’Oriente dell’Europa. È evidente che il Weber
abbia avuto buon gioco riguardo a questi dati di fatto, ove si pensi che, se
non rimaneva provata la supposta antichità del Panciatantra, restava
dimostrata quella delle favole esopiche, citate da autori vissuti in un periodo
anteriore a quello in cui egli suppone avvenuta la trasmissione di quel libro
(200-150 a. C.). Inoltre il riferimento a un determinato luogo, quale si
ritrova in una novella, poteva essere un espediente del suo creatore.
Senonché il Weber camminava forse su un terreno più solido di quello del
Wagener? E quali stimoli trarrà il Benfey da questi antecedenti?

3. La teoria storico-orientalista del Benfey

Non v’è dubbio che il Benfey, come del resto egli stesso dichiara, sia
rimasto suggestionato dalle ricerche sul Panciatantra del Sacy. A lui
interessano le traduzioni del Panciatantra, le sue ramificazioni e filiazioni.
Ma in tale indagine minuta e precisa, un capolavoro di filologia
orientalistica, egli può trascurare la diffusione che le novelle del
Panciatantra ebbero nella letteratura popolare? Ed è allora che il Benfey,
riprendendo la tesi del Loiseleur Deslongchamps sull’origine indiana
dell’apologo, formula una vasta teoria la quale non si limita a determinare
l’origine dell’apologo, ma abbraccia in parte le produzioni della narrativa
popolare (novelle, racconti, enigmi ecc.).
«Le mie ricerche, – dirà infatti lo stesso Benfey, – mi hanno portato alla
convinzione che un gran numero di Märchen e di altri racconti popolari si è
diffuso dall’India in tutto il mondo». Egli è dell’avviso che tale diffusione
abbia avuto inizio nel secolo X d. C. con le favole, gli apologhi, che vennero
conosciuti attraverso le redazioni e le traduzioni del Panciatantra, rese note
dai viaggiatori o mercanti che si spingevano in Oriente. Ed è evidente
quindi che per il Benfey il primo veicolo della propagazione delle novelle
dall’India in Europa sia rappresentato dalla tradizione orale. Ad essa seguì
però un’altra tradizione: quella letteraria. E il Benfey ecco come ne traccia
l’avvento:

«Col secolo X cominciò, con gli attacchi e le conquiste dei Musulmani in India, una sempre crescente
conoscenza dell’India. Da quel momento in poi la tradizione orale divenne meno importante di quella
scritta. I lavori narrativi dell’India vennero tradotti in persiano e in arabo e, in un tempo
relativamente breve, si diffusero – quando non si diffuse soltanto il loro contenuto, cioè la trama
narrativa – nelle terre occupate dai Musulmani in Asia, in Africa, in Europa, e, a causa delle frequenti
relazioni di questi popoli con i Cristiani, anche in tutto l’Occidente cristiano. In quest’ultimo campo i
punti principali di contatto furono l’impero bizantino, la Spagna e l’Italia».

Si deve tuttavia osservare, aggiunge subito dopo, che insieme alla


letteratura buddistica le favole, le parabole, le leggende si erano diffuse sin
dal secolo I d. C. in Cina e subito dopo nel Tibet. Né qui si era fermato il
loro viaggio:

«Dai Tibetani quelle composizioni [le favole, le parabole ecc.] giunsero, insieme al buddismo, tra i
Mongoli, e sappiamo con la massima certezza che costoro tradussero i racconti dell’India nella loro
lingua. È ovvio aggiungere: con molte modifiche e cambiamenti riguardanti i dettagli… I Mongoli,
com’è noto, dominarono l’Europa per duecento anni e anch’essi quindi contribuirono alla diffusione
delle novelle indiane in Europa».

Il Benfey documentava questa diffusione con le varie traduzioni e


riduzioni che si erano fatte del Panciatantra, il quale, dopo essere stato
tradotto dall’antico persiano in arabo (secolo XII), fu tradotto dall’arabo in
ebraico (secolo XII), dall’ebraico in latino (secolo XIII) e infine dal latino in
francese, in tedesco, in italiano ecc. E quasi a completare il quadro ammette
una reciproca interferenza della tradizione orale con quella letteraria o
comunque da lui ritenuta tale:
«Nella letteratura europea i racconti appaiono soprattutto in Boccaccio e i Märchen in Straparola.
Dalla letteratura furono presi dal popolo ed essendo stati cambiati da questo, essi di nuovo
rientrarono nella letteratura; poi di nuovo nel popolo. E così molti racconti assunsero, specialmente
mediante questa attività alternata di spirito nazionale e individuale, quel carattere di verità nazionale
e di unità individuale che imprime loro un grande valore poetico» (Panciatantra, 1, 150).

Il Benfey affermava decisamente dunque un dato di fatto: che il popolo


europeo ha riprodotto, sì, dei temi e dei motivi provenienti dall’India, ma
che al tempo stesso, mediante i suoi rielaboratori, esso ha saputo anche
creare dei nuovi racconti validamente artistici. E con questo dato di fatto
egli, pur preoccupato come era dallo studio della propagazione delle
novelle, intuiva, sia pur in maniera vaga, che al di là degli antecedenti o
precedenti letterari, il filologo deve anche tener d’occhio la genesi estetica
di un racconto, il momento creativo della rielaborazione di una novella in
una nuova novella.

4. Propagazione e creazione delle novelle popolari

Nel riprendere in discussione la ipotesi del Wagener e del Weber


sull’origine della novellistica, il Benfey del resto non aveva esitato a
riconoscere che, se molte favole si debbono al genio inventivo degli Indiani,
molte si debbono invece a quello dei Greci. E con ciò, è evidente, egli
conciliava il Wagener col Weber. Ma tale sua presa di posizione voleva
esprimere soltanto una tesi conciliativa? Dice lo stesso Benfey:

«È chiaro che in generale la maggior parte delle favole di animali ebbero origine in Occidente e sono,
in grado maggiore o minore, trasformazioni delle cosiddette favole di Esopo. Tuttavia alcune di esse
danno l’impressione di avere un’origine nell’India… La differenza fra le une e le altre consiste in
generale nel fatto che, mentre lo scrittore esopico faceva agire i suoi animali con le loro
caratteristiche, la favola indiana tratta gli animali senza riguardo alla loro speciale natura, come se
essi fossero veramente uomini mascherati in forma di animali» (Panciatantra, 1, 250).

È evidente pertanto che anche qui egli non si preoccupa soltanto della
propagazione delle novelle, ma anche della loro genesi artistica. Il Weber
era convinto in proposito che, ove di una produzione narrativa si voglia
cercare la versione originale, bisogna rintracciarla nella forma che ci si
presenta la più valida artisticamente. Ma a questo criterio estetico ecco che
il Benfey ne oppone un altro:

«La bellezza, la perfetta congruenza dell’idea e della forma si dimostra come il prodotto di una lunga,
continua, e, in certo modo, riflessiva e critica trasformazione, a cui il popolo prende parte più
giudicando che operando; e se si potesse seguire la storia di tutte le favole sino alla loro prima
origine, noi conosceremmo che le più belle creazioni che noi possediamo sono uscite da ben rozzi e
informi principi, che solo con lunga elaborazione nella corrente della vita popolare si sono tornite in
una forma omogenea e che sol per questo raggiunsero la loro più alta perfezione, perché alcune di
esse, espressioni viventi dello spirito popolare, vennero nelle mani di qualche personalità di genio e
furono improntate dallo stampo di un’alta individualità» (Panciatantra, 1, 325).

Nessuno potrà certo contestare al Benfey il principio che «nelle mani di


qualche personalità di genio» un racconto possa diventare un’opera d’arte.
Ma il problema del Weber era un altro. E se quest’ultimo aveva il torto di
considerare come forma originaria di racconto la sua migliore redazione, il
Benfey in fondo non fa che rovesciare quel postulato, ricollegandosi al
Wolf. Fatto è, ad ogni modo, che il Benfey, anche se si contraddice, anche
se non sempre il suo linguaggio è chiaro, riconosce, si, che l’India è stata
l’immenso serbatoio della novellistica europea, ma non esclude a priori che
tale novellistica possa essere d’altro lato influenzata dalla fantasia di chi
riprende quei temi e quei motivi.
5. Köhler, Landau e Cosquin

La teoria storico-orientalistica del Benfey sulla cosiddetta origine della


novellistica popolare è meno rigida pertanto di quanto in genere si voglia
fare apparire. O meglio di quanto l’hanno fatta apparire i suoi stessi
epigoni, fra i quali ebbe grande voga in Germania il Köhler. Nel suo ampio
saggio Über die europaischen Volksmärchen, edito nel 1865, quest’ultimo,
sulle orme del maestro, afferma che «il più grande numero dei racconti
popolari europei, come anche molte delle novelle che si sono diffuse verso
la fine del Medioevo nelle letterature occidentali, sono o direttamente
indiani oppure suggeriti dalla letteratura indiana». E subito dopo, senza che
per lui avesse nessuna importanza quel che significavano le ultime frasi di
ciò che veniva affermando, aggiunge:

«Il punto di vista del Benfey sull’origine e la propagazione dei racconti popolari europei è, come dice
egli stesso, una questione di fatto, che sarà completamente risolta soltanto il giorno in cui tutti i
racconti o quasi tutti saranno ricondotti al loro originale indiano».

Da qui le sue lunghe liste di riscontri – pazientemente ricavate sulle


raccolte di novelle popolari che si venivano allora pubblicando in Europa –
le quali pur portavano senza eccezione a un’unica fonte: l’India. Né sotto
questo aspetto, nella stessa Germania, sarà meno ortodosso Marcus Landau,
il quale nel 1869 pubblicò un ampio saggio intitolato Die Quellen des
Dekameron. Il Landau non si limita a dei riscontri puri e semplici, come in
gran parte faceva il Köhler, le cui ricerche non uscivano dalla forma del
catalogo ragionato. È, o meglio vuole essere, più agile. Sicché, ad esempio,
nell’esaminare la novella boccaccesca di Federigo degli Alberighi, dopo
aver menzionato una leggenda buddista in cui Budda si trasforma in
colombo e si lascia arrostire per sfamare la famiglia di un uccellatore,
ricorda un analogo racconto del Panciatantra dove un colombo si caccia nel
fuoco per servire da pasto a un cacciatore. Conclusione:

«In Boccaccio, Federico degli Alberighi non ha niente da offrire alla donna amata che viene a
visitarlo. Si trova dunque nella stessa condizione del colombo del Panciatantra. Egli sacrifica non il
proprio corpo, ma il suo tesoro più caro, il suo unico falcone e riceve in compenso il più grande dei
beni: l’amore di colei che egli ama».

Il Landau ebbe in Francia un fedele seguace nel Lévêque il quale, in un


suo lavoro edito nel 1880, ricercò Les mythes et les légendes de l’Inde et de
la Perse in Aristofane, Platone, Ovidio, Tito Livio, Dante, Boccaccio,
Ariosto, Rabelais, Perrault, La Fontaine. E ciò naturalmente con la massima
ingenuità. Ma in Francia lo studioso che maggiormente contribuì a irrigidire
la tesi orientalistica del Benfey fu Emmanuel Cosquin, benemerito
raccoglitore peraltro delle novelle popolari del suo paese. I suoi Contes
populaires de Lorraine, editi nel 1886, ciascuno dei quali è riportato a un
archetipo indiano, portano una lunga introduzione sull’origine e la
propagazione dei racconti popolari europei. E su questa origine-
propagazione sono imperniate le sue innumerevoli «piccole monografie»,
disseminate dal 1886 in poi in vari periodici e poi raccolte nel 1922 nei
Contes indiens et l’Occident e nelle Études Folkloriques.
Il Cosquin, per il quale l’India è davvero un indiscutibile dogma, ricorre
spesso alle stesse istituzioni o credenze indiane per spiegare l’origine delle
novelle popolari diffuse in Europa. Così, ad esempio, egli era convinto che
la fede nella metempsicosi abbia enormemente favorito il sorgere e il
diffondersi di favole e di novelle. Ma era convinto anche di un altro fatto:
che la metempsicosi fosse soltanto una caratteristica indiana. E di contro al
Benfey, ma sulla linea del Köhler e del Landau, egli non esitava ad
affermare che una novella era di origine indiana se in India era stata trovata
in epoca attuale una novella che narrava lo stesso tema.
Era logico che un altro studioso francese, il Gaidoz, gli facesse
osservare: che la credenza della metempsicosi è tanto indiana quanto è
contemporaneamente africana, americana od oceanica; e che una lezione
popolare raccolta ai nostri tempi non prova niente nei riguardi della sua
antichità. Senza dire che la somiglianza di un tema novellistico non è affatto
somiglianza di quel che più conta in una novella: la sua forma artistica. Il
Cosquin, incurante di queste e altrettali critiche, riproponendo il problema
dell’origine delle novelle europee, non solo lo poneva in maniera più
categorica di quanto avesse fatto il maestro, ma ammassava dei paralleli
isolandoli arbitrariamente, onde dimostrare che l’India era una specie di
eden, dove zampillava, fresca ed eterna, la fontana stessa delle fiabe.

6. Genesi della scuola storica russa: Miller e Veselovskij

Né soltanto delle fiabe, aggiungeranno altri studiosi, bensì di altre


produzioni popolari, come, ad esempio, le byline russe. È noto infatti che la
Russia, almeno in un primo momento, aveva accolto le istanze della teoria
orientalista con piena adesione, tanto più che il Benfey veniva a rafforzare
le ricerche che in proposito aveva già fatto il Pypin. Si aggiunga che, nello
stesso periodo di tempo in cui uscì il Panciatantra tradotto dal Benfey,
alcuni studiosi russi (lo Schiffner e il Radlov, ad esempio) venivano
pubblicando delle raccolte di produzioni popolari, provenienti dalla parte
orientale del paese, e rimanevano colpiti della perfetta somiglianzà fra i
canti mongolici e i turchi.
È nel 1868 però che un filologo di larga preparazione, V. V. Stasov,
pubblica un saggio sull’origine delle byline, dove egli, dopo aver respinto
tutte le teorie della scuola mitologica, – il che costituisce l’indispensabile
premessa dei seguaci della teoria orientalista, – dimostra, o crede di
dimostrare, che in Russia non c’è bylina la quale non sia di origine
schiettamente orientale. Così, ad esempio, egli non esita a riportare il
racconto russo dell’Uccello di fuoco alle recite indù su Somadeva e la
leggenda di Jeruslan Lazarevič a un episodio che si riscontra nel Libro dei
Re di Firdusi.
Ma è questa una tesi, si domanderà allora un altro grande filologo del
tempo, O. F. Miller, che si possa accettare? Il Miller in un suo lavoro,
dedicato a Iljà Múromec e pubblicato nel 1869, sosteneva già l’idea che il
valore di una produzione non si misura dal suo soggetto e che per lui
rimaneva pur sempre valida la teoria mitica sostenuta dai Grimm e dal
Müller, e cioè che non v’è imprestito senza rimaneggiamento e che questo
rimaneggiamento fa nazionale una letteratura, quali che siano le sue fonti.
Ecco, egli aggiunge, perché il poemetto di Iljà Múromec si deve considerare
nazionale così come si deve considerare nazionale tutta l’epopea russa.
Alla polemica suscitata dal saggio dello Stasov parteciparono altri
studiosi, preoccupati di scoprire nelle produzioni popolari il riflesso delle
idee del tempo. Notevole in proposito l’attività di un altro Miller, Vsevolod,
il quale da vigore e impulso a quella critica intesa a identificare nelle byline
i personaggi e le ragioni, onde cercare all’epopea una «base storica». Ed è a
lui infatti che si attribuisce in Russia la data di nascita di quella scuola
storica che sarà merito di A. Veselovskij ravvivare infondendole quel gusto
estetico che in genere ad essa mancava.
Slavofilo e occidentalista al tempo stesso, il Veselovskij è soprattutto un
umanista a cui si dispiegano con vivo interesse tanto le letterature nazionali
europee quanto le orientali, dove egli include, parte viva e vitale di esse, le
produzioni folkloristiche. Il Veselovskij unisce in sé la calda passione di un
Herder o dei Grimm con la dottrina di un Müller e di un Benfey. Studioso
infaticabile e geniale, aperto a tutte le correnti spirituali del suo tempo,
anch’egli in un primo momento è influenzato dal Benfey, di cui comunque è
ben lontano dall’accogliere la tesi orientalista così come l’avevano irrigidita
i suoi discepoli.
Nella sua tesi di dottorato, edita nel 1872 e dedicata ai rapporti fra i
racconti slavi di Salomone e Kitovras, il Veselovskij dimostra infatti che, se
l’Oriente aveva influenzato l’Occidente, anche l’Occidente a sua volta
aveva esercitato la stessa azione sull’Oriente (e non soltanto per le favole
greche o per qualche caso sporadico, come ammetteva il Benfey). È
convinto, d’altro lato, che Bisanzio ha avuto un’influenza sulla letteratura
popolare russa, ma che questa, dotata di una sua varietà e di una sua
inconfondibile caratteristica, era stata di legame tra lo stesso Oriente e
l’Occidente. E in tali indagini, minute e precise, non ridotte mai a schemi di
catalogo, il Veselovskij non solo porta una dottrina non comune, ma ci dà la
misura del suo equilibrio e del suo buon senso.
Alla sua tesi, che nelle edizioni successive divenne un vero e proprio
trattato sui rapporti fra l’Oriente e l’Occidente, l’uno aperto all’altro nelle
stesse proporzioni, il Veselovskij fece seguire tutta una serie di monografie
dedicate alla storia e allo sviluppo della leggenda cristiana, alle poesie
religiose russe, alle byline, ai racconti relativi a Ivàn il Terribile ecc. E in
esse, come in altri suoi innumerevoli saggi, egli, osserva il Sokolov, si
preoccupò di «ritrovare le sorgenti delle produzioni letterarie, sorgenti
nazionali o straniere, orali o scritte», onde «stabilire la relazione dei
fenomeni della cultura spirituale con le tendenze filosofiche, religiose e
sociali». Le tradizioni del benfeysmo si sposano insomma in lui coi principi
che allora in Francia veniva applicando alle sue opere il Taine.
Il Veselovskij non si ferma, comunque, su queste posizioni. E quasi a
tirare le somme delle sue ricerche, egli sostiene, si, l’utilità di questo lavoro,
il quale finiva col dargli la conoscenza dettagliata degli stessi generi poetici
(epopea, poesia, lirica, dramma) quali si articolano esternamente nelle loro
forme e nelle loro varietà; riconosce altresì che la storia letteraria di una
nazione, e quindi anche quella popolare, sono in continuo divenire; ma,
appunto per quest’ultima sua presa di posizione, egli finirà col sostenere in
maniera decisa che, ove si voglia giudicare un’opera d’arte, un grande
romanzo o una bylina, una novella d’autore o una novella popolare, il
filologo non deve fermarsi soltanto sui temi trattati, ma vedere quali idee
sociali essi esprimono e di quali forme artistiche si rivestono.
Studioso delle fonti, il Veselovskij dava alle fonti stesse un valore
puramente documentario. E in lui quel che già in Benfey era stata una
questione di dettaglio, vale a dire la creazione artistica, assumeva il
carattere di una problematica che era insieme di storia e di estetica. Si pensi,
d’altra parte, che già fin dal 1871 era avvenuta nel folklore russo una vera e
propria rivoluzione, quando lo Hilferding aveva pubblicato più di trecento
byline non più per generi ma per autori, inaugurando un metodo di ricerca
che tendeva a rivalutare la personalità del poeta-popolare (cantore, narratore
ecc.).
Il valore di una produzione popolare, come di una produzione artistica,
quale che essa sia, non si misura, osservava il Veselovskij, dal suo soggetto.
Esiste, del resto, un soggetto, un solo soggetto, che non sia stato ripetuto?
Ed è legittimo dare esclusiva importanza alla somiglianza dei temi quando
invece in una letteratura nazionale quello che conta è l’opera artistica già
formata?
Non si trattava insomma di negare l’importanza delle fonti. Si trattava di
attribuir loro un giusto valore. E data questa premessa il Veselovskij, se da
una parte considerava la poesia popolare come la prima fase di tutta
l’evoluzione letteraria, dall’altra, eliminata l’ipotesi d’una origine collettiva
dei canti popolari, riconosceva nelle byline, e non solo in esse, l’aspetto di
opere poetiche formate nell’ambiente stesso dei cantori. Egli, pertanto, era
dell’avviso che le tradizioni popolari possono irradiarsi, si, da un
determinato centro, ma che esse rappresentano pur sempre il lavoro
continuo dell’immaginazione in tutti i tempi e in tutti i luoghi.

7. La scuola finnica e il metodo storico-geografico

È da quest’ultima premessa, a sua volta, che partirà il fondatore della


scuola finnica, Julius Krohn, il cui metodo sarà perfezionato dal figlio
Kaarle. Poeta e novelliere, Julius Krohn affrontò con grande dottrina lo
studio del Kalevala. La composizione di quel poema nazionale lo attrasse
infatti fin dalla sua giovinezza. Né bisogna dimenticare che fin dal 1884
egli, in un suo interessante lavoro dedicato alla genesi del Kalevala,
osservava:

«Prima di venire a una qualsiasi conclusione (sulla genesi di un canto) io sistemo le redazioni in
ordine geografico e cronologico: soltanto in tal modo è possibile distinguere in esse quelli che sono
gli elementi originali da quelli che vi si sono aggiunti».

Questo è il metodo che il Krohn applicherà, con risultati eccellenti, nella


sua dotta pubblicazione Kalevalan Toisinnot, edita nel 1888, dove egli dà
rilievo al valore delle varianti che formano la popolarità di un testo
popolare. Il Krohn non dimentica inoltre di farci conoscere i poeti e i
cantori cui è affidata la rinnovantesi epopea del Kalevala. E le varianti di
quel poema egli le ordinerà, sì, secondo il loro contenuto, ma anche
secondo il luogo di provenienza. Spentosi immaturamente, egli lasciò dei
vasti materiali che pur servivano a dimostrare la bontà della sua tesi. E fu su
di essi che lavo il figlio pubblicando col nome del padre dei lavori che
rimangono fondamentali nello studio del folklore: come, ad esempio, i
volumi dedicati al culto pagano della stirpe finnica o quelli, ancor più
interessanti, rivolti al Kanteletar e quindi alla lirica popolare finnica.
Nell’applicare ai suoi lavori il metodo storico-geografico, Julius Krohn,
se da un lato si riattaccava alle ricerche del Grundtvig, dall’altro si
appellava a un’ipotesi di lavoro che era stata individuata in Germania fin
dal 1854 dal Riehl, quando poneva come fondamento della storia naturale
del popolo tedesco il binomio paese e abitanti, e che nel campo della
mitologia aveva trovato un assertore nello Schwartz, il quale nel 1877
aveva studiato, delineandone la diffusione storico-geografica, le tradizioni
che dell’epoca pagana sopravvivevano nelle campagne. Ma qual era, o
meglio, quale fu il suo atteggiamento nei riguardi del Benfey?
Il Krohn non esitava ad affermare che il suo metodo respingeva tutto ciò
che vi è di assoluto e di esclusivo nella teoria del Benfey e dei suoi seguaci,
in quanto, egli affermava, se è vero che molti racconti provengono in
Occidente dall’India, altri giungono dall’Occidente in India e che fra le
zone creatrici vanno annoverate anche, ad esempio, l’Asia minore e
l’Europa centrale. Insomma cum grano salis tutto per lui era possibile. Ma
secondo lui l’errore del Benfey, e in parte del primo Veselovskij, consisteva
nell’avere dato grande importanza alle redazioni di un testo letterario e un
valore del tutto secondario ai testi popolari più recenti. Essi, il Benfey e il
Veselovskij, erano stati concordi nel riconoscere il valore della tradizione
orale. Bisognava fare un passo avanti: metterla alla pari di quella letteraria.
È evidente del resto, egli aggiungeva, che le varianti di un canto,
espressione della fedele memoria conservatrice del popolo, mostrano spesso
forme antichissime. E quel che vale per i canti non vale anche per le
novelle? Senonché, nel ricercare quelle forme, il Krohn non si preoccupa
anch’egli del problema che assillava appunto il Benfey, quello cioè di
scoprire il testo primigenio di una determinata produzione poetica?
Sarà utile in proposito leggere quanto ebbe a dire il figlio Kaarle in una
seduta del Congresso Internazionale di Folklore che si tenne a Parigi nel
1889. In quel congresso il figlio richiamava anzitutto l’attenzione degli
ascoltatori sull’opera del padre:

«L’opera capitale di mio padre è lo studio comparativo del Kalevala che compone la prima parte
della sua storia della letteratura finnica… Le ricerche del Kalevala sono di un certo interesse per i
legami che si trovano fra i canti epici finnici da un lato, e dall’altro i vecchi canti scandinavi, russi,
lituani… Ma d’un interesse ancora più grande è probabilmente l’opera di mio padre che io ho seguito
con l’interpretazione dei canti finnici comparati con le tradizioni similari di tutti i paesi del mondo».

E dopo aver reso questo omaggio all’opera paterna, egli aggiunge: 1, che
il carattere internazionale di un racconto (come di un canto) consiste non
soltanto in una comune idea generale, bensì nella complicazione e nello
scioglimento dell’azione, nel tema tutto intero; 2, che questo tema si
articola in determinati motivi; 3, che per trovare la forma primitiva di
un’avventura è necessario riunire tutte le varianti; 4, che queste varianti
vanno ordinate secondo un criterio storico, se le fonti letterarie ce lo
permettono, o geografico, se invece sono raccolte dalla viva voce del
popolo; 5, che per poter intraprendere quest’ultimo lavoro, è necessario
avere le varianti di ciascun paese, di ciascuna provincia, di ciascun comune.
La conoscenza di queste varianti – la signorina Cox per prima ci diede nel
1893 ben trecentocinquanta versioni di Cinderella –, pubblicate o inedite, ci
porta ali’accertamento degli archetipi aventi ciascuno un proprio autore. Ma
chi può negare, ad esempio (ecco l’appunto al Benfey e al primo
Veselovskij), che nell’Europa settentrionale alcune varianti si sono
conservate in forma più antica che, mettiamo caso, la stessa leggenda di
Polifemo? Ed ecco, a sua volta, che il testo più antico verrà ravvisato in
quello più naturale. È l’idea della semplicità del Keller, osserva lo stesso
Krohn; ma sarebbe più esatto dire che è l’idea della nascita dell’epopea
come la concepivano i romantici e come il Weber l’aveva già applicata alla
novellistica. All’inizio, per i Krohn è la forma più semplice, si, ma la più
perfetta. Il Krohn figlio è dell’avviso tuttavia che la scoperta della forma
primitiva di una leggenda, di un racconto ecc. non è certo la «cosa più
interessante» che offre lo studio geografico-storico di quelle produzioni. È
importante invece vedere quali cambiamenti ha subito quella prima forma e
come essa attraverso le sue varianti si sia articolata nel tempo e nello
spazio. Il che, tuttavia, non gli impedirà – ecco l’errore – di considerare
quelle varianti tutte alla stessa stregua e con lo stesso criterio.
Rielaborati nei suoi vari lavori di novellistica comparata, e in particolar
modo nelle sue indagini sulle fiabe dell’uomo e della volpe, questi principi
furono applicati da Kaarle anche nei suoi studi sul Kalevala e sui canti
popolari estoni. Né è senza significato che il codice cui egli affidò il suo
credo o meglio il credo paterno da lui aggiornato, il Die folkloristische
Arbeitsmethode, edito nel 1926, altro non è che il ripensamento dei suoi
Kalevalan kysmyksiä, che sono del 1910. Altra sua opera magistrale: il
Kalevalan opas, edito nel 1932.

8. Strumenti di lavoro

Non sono mancate al metodo finnico critiche aspre e risolute. Così, ad


esempio, si è rimproverato ai Krohn che il loro metodo poteva pur dirsi
geografico, ma che non aveva nulla di storico, in quanto i loro
aggruppamenti risultavano in genere arbitrari o meccanici e statici. E, di
recente, anche uno studioso svedese, che pur aveva iniziato i suoi lavori
secondo quel metodo, C. W. von Sydow, ebbe a osservare che la scuola
finnica si basa spesso su delle premesse non controllate, quando esse non
sono addirittura false. Bisogna pur dire che la scuola finnica ha avuto
tuttavia un grande merito: quello di averci offerto una serie di strumenti di
lavoro che sono indispensabili a chi voglia affrontare lo studio della
novellistica popolare. Si pensi infatti all’opera di un discepolo dei Krohn,
Antti Aarne, il quale nel 1910 pubblicò il notevole volume Verzeichnis der
Märchentypen, dove per la prima volta ci vien dato un elenco dei temi e dei
motivi novellistici con la relativa bibliografia. Quel saggio è il terzo di una
collezione (Folklore Fellows Communications) che, nata nel 1907 sotto gli
auspici della Confederazione Internazionale dei Folkloristi, fu tenuta a
battesimo dal Krohn, dal Sydow e da Axel Olrik.
Alcuni anni prima un folklorista francese, il Gaidoz, aveva affermato che
se un giorno un erudito coraggioso avesse compilato un indice dei racconti
(comprendente i temi e i motivi), lo studio dei racconti avrebbe fatto un
rapido progresso. E la collezione sopra citata (nei suoi volumi che
contengono più di cento lavori) non accolse soltanto cataloghi-indici che,
sulle orme dello Aarne, vennero fatti per i vari paesi d’Europa; accolse
anche acute monografie inerenti allo studio di particolari problemi
novellistici dovuti, oltre che agli stessi fondatori della Società, a V. Tille, R.
Th. Christiansen, W. Anderson, A. N. Andreev ecc.; e servirono, quel che
più conta, a stabilire una collaborazione internazionale quanto mai feconda
per i folkloristi non solo d’Europa ma anche d’America.
Altro indispensabile strumento di lavoro, dovuto in gran parte
all’esempio del Köhler, ma anche e soprattutto alle suggestioni della scuola
finnica, è l’opera, edita fra il 1913 e il 1935 in cinque volumi, di J. Bolte e
G. Polivka, Anmerkungen zu den Kinder- und Haus- märchen der Brüder
Grimm. Il primo, uno dei più valorosi studiosi di folklore che abbia avuto la
Germania, fu direttore fra l’altro dopo il Weinhold della «Zeitschrift für
Volkskunde», cui diede notevole impulso. Il secondo, uno dei più agguerriti
folkloristi che la Russia abbia avuto nel campo della novellistica, seguì, sì,
le orme del Benfey, ma ritenne che nelle novelle popolari bisogna
distinguere le caratteristiche nazionali. E dalla loro collaborazione nacque
appunto questo Thesaurus della novellistica comparata, iniziato e compíto
nel nome del Grimm e dove ciascuna novella narrata dai Grimm respira nel
mondo.
La scuola finnica, preoccupata com’era di svolgere le sue indagini nel
campo specifico della letteratura popolare, fini però col limitare in quel
campo le ricerche stesse del folklore. È vero che i Krohn, quando
ricercarono nelle novelle o nei canti le vestigia del passato, le vestigia della
mitologia e della magia, si posero su un piano storico. La scuola che prende
il nome dalla loro patria rimase legata però in fondo a un lavoro che
potremmo chiamare geografico-cartografico. Ed è noto, ad esempio, che
essa escluse deliberatamente dal campo del folklore, il che era proprio un
controsenso, anche la musica popolare, di cui nei riguardi della stessa
Finlandia ci ha lasciato pagine notevolissime un altro figlio di Julius, Ilmari,
(mentre una delle figlie, Aino [Kallas], si avvalse del folklore finnico nella
sua opera di fine narratrice). Ma, quali che siano i suoi difetti, è merito della
scuola finnica d’aver rivendicato la bontà di un metodo che dentro i suoi
limiti ha il suo indiscusso valore e di aver considerato il problema della
letteratura popolare non come un problema minore di letteratura, ma come
un problema che interessa la storia della civiltà.
18. Nel mondo romanzo

1. Nasce la filologia romanza. Dal Diez al Paris

Il mito ario-europeo, quali che siano i suoi particolari sviluppi, suggerì


un’ampia concezione inerente alla comunanza storica non solo delle nostre
origini etniche, ma anche delle letterature. E queste ultime allora, in tanto
sembrarono veramente degne di essere studiate, in quanto si potevano
seguire fin dai loro inizi. In fondo però, anche se i confini della ricerca non
oltrepassavano mai il mondo ariano, tale comunanza continuava a
riproporre il mito del primitivo quale esso, in senso estetico, era stato
formulato dallo Herder. Anche per il Müller, come per il Benfey, l’India,
preistorica o storica che fosse, era pur sempre dotata di una sua potente
arcaicità che le conferiva un categorico attributo primitivo. E di tale
attributo si arricchirà appunto, come già era avvenuto alla germanistica e
alla slavistica, una nuova e giovane disciplina che si affaccia all’orizzonte
della cultura del secolo XIX: la filologia romanza.
Destinata a limitare e a caratterizzare uno specifico campo di studi, la
filologia romanza, – prescindendo dai suoi inizi che pur contano un Vico e
un Muratori –, si costituì infatti in un vero e proprio sistema scientifico per
merito di un tedesco, autore fra l’altro di due opere fondamentali: la
Grammatik der romanischen Sprachen che fu edita fra il 1836 e il 1844 e
l’Etymologisches Wörterbuch der romanischen Sprachen. È con queste
opere che Friedrich Diez inserisce il mondo romanzo nel più vasto mondo
ariano. Limitare le ricerche al mondo romanzo per lui tuttavia non significa
chiudere quel mondo in se stesso, facendone un mondo separato. Gli
imprestiti non lo allarmavano. Anzi gli erano di stimolo, perché egli sapeva
infonder loro un carattere nazionale. E come ai Grimm e al Müller un
problema gli era particolarmente caro: quello della poesia popolare, la quale
per lui, come per i romantici, comprendeva tutte le produzioni orali che
vivono in mezzo al popolo e che pertanto era necessario illustrare, anche
per vedere quali rapporti esse hanno con la poesia e la letteratura dotta.
In alcuni suoi lavori giovanili, e particolarmente nel Die Poesie der
Troubadours, il Diez aveva già formulato un principio che era insieme, o
voleva essere, di carattere storico ed estetico: e cioè che in Francia, o
meglio in Provenza, le origini della poesia lirica si debbono ricercare nei
poeti popolari anteriori a Guglielmo II e che un nuovo elemento, la
cavalleria, aveva fatto di quei poeti vaganti dei veri e propri trovatori.
Quando il giullare, che per il Diez è il vero artefice della poesia popolare,
non era più bastato ai nobili, era nata allora una poesia aristocratica, più
colta: la lirica cortese. E in tal modo ecco che venivano posti l’uno di fronte
all’altro due tipi di poesia, diciamolo pure, due generi: la poesia giullaresca
che era poesia popolare, e la poesia trovadorica che era poesia dotta e
costituiva un ingentilimento della prima. Si istituiva così dall’una all’altra
un processo ascendente. I romantici, in particolar modo i romantici
tedeschi, pur ammettendo una categorica distinzione fra Volkspoesie o
Naturpoesie e la Kunstpoesie non potevano ammettere che la prima potesse
ingentilirsi, perché essa stessa era la poesia per eccellenza. Coi romantici
tedeschi il Diez aveva però in comune due tesi: che, se la poesia popolare è
pur sempre fonte di poesia, in origine, anzi alle origini, la prima poesia che
fa sentire la sua voce è quella popolare.
Ed è da queste tesi che prenderà le mosse in Francia uno dei suoi primi
discepoli, Gaston Paris, nella cui vasta opera si ritrovano spesso delle
istanze che lo riattaccano al Romanticismo, per quanto, come è stato ben
notato, soltanto una critica superficiale ritrova in lui la ripetizione delle idee
ammesse dopo il Wolf dai Grimm e dal Fauriel. Ancor giovane, il Paris si
era opposto alla interpretazione mitica della Chanson de Roland, la quale
sarà per la filologia romanza quel che sono i Veda per il Müller e il
Panciatantra per il Benfey. Più che al Müller, di cui tuttavia condivise
l’idea che un racconto può anche essere la traduzione di un mito – questo il
nucleo del suo saggio su Le Petit Poucet et le Grand Ours, edito nel 1875 –,
le simpatie del Paris andarono però al Benfey, al suo metodo di ricerca, alla
sua teoria delle migrazioni. Ma quali che siano stati gli influssi che su di lui
esercitavano le correnti del tempo, fatto è che il Paris, romantico per la
predilezione dei temi scelti e trattati, seppe imprimere alle sue ricerche il
segno di una forte e inconfondibile personalità.

2. Nazionalità e letteratura francesi


In queste ricerche grande fu anzitutto l’interesse che il Paris ebbe per il
popolo, il quale fu da lui considerato come una fucina di interessi letterari e
culturali. Grande l’interesse per la poesia popolare, cui riattacca le canzoni
di gesta, per i fabliaux, per le Vite dei Santi, creati dai chierici per il popolo
ecc. La stessa letteratura francese delle origini rimaneva per lui monca, ove
non venisse arricchita da quei monumenti, il cui amore gli era stato
trasmesso dal padre, il quale gli aveva anche ispirato la gioia
dell’esplorazione che prende l’indagatore dei testi medievali. Ma, a
differenza del padre, l’interesse che egli ebbe per i vecchi monumenti
letterari della dulce France non fu soltanto un amore per le fonti nazionali
della propria letteratura, in quanto in essi egli vedrà svolgersi anche i fili di
una vita e di una storia che interessano l’umanità, «Noi Francesi non
abbiamo avuto dei Grimm», egli lamentava nei primi anni della sua attività.
Ed ecco che di Jacob egli avrà la diligenza e la sapienza, mentre di Wilhelm
avrà la finezza dell’esposizione, il gusto artistico. Leggete le sue pagine: il
Paris è veramente l’artista non dell’erudiziene ma del gusto dell’erudiziene.
Semplice, chiaro, lineare, c’è tutto un mondo che si agita nella sua prosa: il
mondo dei prodi cavalieri, di cui ogni fatto è atto di fede.
Né diverso è l’impegno che egli mette nella sua opera, atto e fatto di fede
anch’essa, dove l’artista si fa sapiente, mentre il nazionalista diviene
cosmopolita in nome della sua scienza. È noto che in una sua memorabile
lezione tenuta l’8 dicembre del ’70 alla Sorbona, quando Parigi era stretta in
un cerchio di ferro e di fuoco, egli aveva scelto per argomento la Chanson
de Roland. E in quella lezione, ricorda Ernesto Monaci, egli «volle mostrare
quanto in quell’argomento c’era di interesse nazionale e anche di attualità,
spiegando come lo studio di simili opere letterarie è quello che meglio ci
addentra nella storia di un popolo, ci fa penetrare nel suo spirito, ci svela i
suoi segreti e come tale studio è necessario, affinchè la coscienza della
nazione non s’offuschi e non s’estingua il suo valore, quando
sopravvengono prove mortali. Studiando quella vecchia epopea, i Francesi
potevano risalire alle origini della propria nazionalità, potevano scernerne i
vari coefficienti, riconoscerne la molta parte che la poesia ebbe in quella
formazione, vedere quel che distingue l’organismo vitale di una nazione dal
meccanismo inerte dell’impero, ritrovare ciò che la nazione ha di più
indistruttibile e che mette la vita sua al disopra degli avvenimenti e dei colpi
di fortuna, facendo riacquistare la patria anche quando la terra nativa fu
perduta».
Due anni dopo, quasi a riprendere quel discorso, il Paris insieme a Paul
Meyer, fondava una rivista, la «Romania», che era destinata a diventare il
vivaio stesso della filologia romanza. L’accompagnavano i versi dell’antico
troviero normanno:

Pur remebrerer des ancessurs


Les dits et les faiz et les murs.

E nel prospetto, pubblicato poco prima, il Paris avvertiva che l’idea di


quella rivista non era nuova e che non era stata messa in atto a causa dei
funesti avvenimenti della sua patria. La sua rivista voleva avere pertanto un
carattere nazionale. E ciò perché egli, col Meyer, aveva la ferma
convinzione che «la rottura troppo brusca e troppo radicale della Francia col
suo passato, l’ignoranza delle nostre vere tradizioni, l’indifferenza generale
del nostro paese debbono essere considerate come le cause del nostro
disastro». Ma subito dopo aggiunge che egli «non voleva fare opera
tendenziosa» e che lo scopo della sua rivista doveva essere innanzi tutto
scientifico. Conclusione: «Per i popoli come per gli individui, il primo
motto della saggezza, la prima condizione di tutta l’attività ragionata, la
base della vera dignità è ancora il vecchio detto: conosci te stesso».
Il Paris, come si vede, segnava qui il principio di quel legame che unirà
la sua stessa opera: il legame cioè fra la storia letteraria e la civile. Si è detto
che la filologia romanza, finché rimase chiusa in Germania, fu una statua
senz’anima, e che in terra latina, se vi fu uno studioso che animò quella
statua, fu appunto il Paris. E in realtà il Paris accoglie, si, nel suo petto il
grande amore della Francia, ma gli infonde quel carattere romantico che
aveva appunto diretto tanto la germanistica quanto la slavistica. Egli crede
insomma che le tradizioni di un popolo sono la vita più intima della sua
storia; non immobilizza però quella storia né la isola. Il Paris non esita, ad
esempio, ad affermare l’origine indiana di molte produzioni popolari
francesi medievali e in particolar modo dei fabliaux. Prendete tuttavia
alcuni fra i suoi saggi più suggestivi, raccolti poi in volumi sotto il titolo de
La poésie du Moyen Age e di Poèmes et légendes du Moyen Age. Oppure il
suo aureo manuale, La littérature française au Moyen Age. L’origine
indiana dei temi e dei motivi di alcune produzioni francesi non gli fa certo
dimenticare che una letteratura toccando un suolo diverso acquista i
caratteri di esso. E anche la nazionalità della letteratura francese sarà per lui
un atto di fede: la sua fede.

3. L’origine dell’epopea francese e la teoria delle cantilene

Alla luce di questo concetto si chiarisce la sua opera maggiore, l’Histoire


poétique de Charlemagne, edita per la prima volta nel 1865, e nella quale,
se pur non manca di internarsi nella letteratura germanica, scandinava,
spagnuola, italiana ecc., si preoccupa soprattutto di spiegarsi il problema
delle origini dell’epopea francese. Ed è per questa ragione che egli non si
contenta di riempire quelle origini con la vaga nozione delle età primitive,
ma vuol dare ad esse delle date precise e con esse, diciamolo pure, un’area
di diffusione.
Il Paris accoglie, sì, la teoria germanica inerente alle cantilene come
antecedenti delle canzoni di gesta, e rinverdita in Francia dal Fauriel. Per lui
però queste cantilene non sono affatto il prodotto dell’istinto creatore delle
folle, bensì il frutto di determinati autori, i quali poetarono dal secolo VII al
secolo X. È evidente quindi che il Paris – come del resto il Diez –, se pur fa
suo sotto tale aspetto il mito della poesia popolare, non ricalca il mito stesso
dei Grimm, bensì quello di un Görres, di un Arnim, degli Schlegel, i quali
erano convinti che dietro ciascuna poesia vi fosse un poeta.
È vero d’altro lato – tornando alla Francia – che nei Cahiers de jeunesse
(1845-46, p. 133 dell’ed. 1906) il Renan, il quale non esitava a considerare
il primitivismo come la più grande scoperta del secolo XIX, dopo avere
assistito a una lezione dell’Ozanam, affermava che nella Chanson de
Roland si deve ricercare lo spirito della nazione e del suo genio; ma egli, il
Renan, non aggiungeva subito dopo che il poeta è l’eco armoniosa che
scrive sotto il dettato del popolo e che ne racconta i sogni? Si aggiunga:
quei sogni che per il Vico e per i Grimm erano in parte la verità stessa della
storia.
E questo fu il concetto di coloro che per primi, in Francia, sterrarono il
campo della filologia romanza: l’Ampère, il Monin. Il popolo, per costoro,
come già per i romantici contrari ai Grimm, ha una voce in quanto si risolve
nell’individuo, nel poeta. E se quel poeta si chiamerà popolo, ciò vuol dire
che esso esprime i sentimenti di tutti, con la sua voce che è voce di tutti,
con il suo spirito che è spirito di tutti. Renan immolava Turoldo allo spirito
del popolo. E con questo? Si è voluto dare un senso reale a quelle parole
che ne hanno soltanto uno metaforico. Il Renan con quelle sue espressioni
non voleva affatto negare alla Chanson de Roland un poeta, il suo poeta, ma
voleva categoricamente affermare che dietro quel poeta c’è la nazione, la
famiglia, la vita civile della Francia. Né altro significato aveva l’espressione
del Paris, e che cioè l’autore della Chanson si chiama legione.
Un ignoto poeta per consolare i compagni di Orlando (chiarirà infatti lo
stesso Paris nel suo celebre saggio Roncevaux) celebrò in un canto il suo
coraggio. Bene, egli aggiunge:

«La Francia era allora in piena attività epica. Gli avvenimenti e i personaggi che colpivano la fantasia
degli appartenenti alla classe guerriera divenivano immediatamente l’argomento di canti che subito si
diffondevano grazie ai giullari – gli aedi dell’età media – dal loro punto d’origine a tutto quanto il
paese, adattandosi ai diversi dialetti, aumentando nel loro cammino come le onde prodotte da un urto
vanno allargandosi intorno al loro centro… I nuovi canti, che apparivano di continuo, non facevano
dimenticare gli antichi, quando questi per qualche particolare circostanza meritavano di sopravvivere:
le generazioni se li trasmettevano l’una all’altra, modificandoli e ampliandoli più o meno felicemente.
La canzone dedicata a Orlando… attraversò tutta l’età carolingia. Nel secolo XI esisteva sotto forme
diverse, tutte naturalmente parecchio lontane dalla prima» («Revue de Paris», 15 settembre 1901).

Nell’affermare che un testo poetico diffuso tra il popolo è sempre in


continua rielaborazione, il Paris intuiva quindi il problema di quella
elaborazione popolare che fa veramente popolare una produzione poetica. E
se egli d’altro lato riteneva che la poesia popolare è la sorgente di ogni vera
poesia, fu sempre dell’avviso che era assurdo stabilire un rapporto fra la
poesia popolare e quella dei chierici perché la prima non ha avuto alcuna
influenza su quella dei secondi che la disdegnavano.
Convinto altresì che il popolo un avvenimento storico o lo canta subito o
non lo canta più, e che la tradizione orale accoglie questo patrimonio, il
quale continuamente si trasforma per l’opera stessa dei poeti, il Paris
sostiene che le prime cantilene non possono essere che contemporanee agli
avvenimenti che narrano. Ed è allora che la sua indagine diventa sottile,
intesa com’è a determinare che, seppure le cantilene primitive su
Carlomagno erano state cantate dagli stessi guerrieri di Carlo fin dal secolo
VIII, avvenne poi che quei canti isolati furono aggruppati attorno a un’idea e
a un eroe.
La tesi del Paris riguardo alla poesia popolare, posta alle origini
dell’epopea, anch’essa da lui considerata come espressione di tale poesia, fu
applicata allora ad altri generi letterari. E così, ad esempio, lo Jeanroy
ricercò nel 1889 Les origines de la poésie lyrique en France au Moyen Age
sulla base dei refrains, mentre il Tiersot tracciò, nello stesso anno, una
Histoire de la Chanson populaire en France, dove sosteneva fra l’altro che
le lasse per assonanza delle canzoni di gesta furono cantate sul modello
delle odierne formule melodiche. Sulle stesse orme, il Cesareo compose nel
1894 quell’aureo libretto sulle Origini della poesia lirica in Italia, dove egli
affermerà l’esistenza di una poesia popolare siciliana anteriore alla scuola
poetica normanno-sveva e di cui quella scuola seguiva le tracce. E se dal
campo della poesia passiamo a quello della novellistica, ecco che nel 1904
quei principi vengono applicati dal Delehaye nel suo bel libro Les légendes
hagiographiques.
Il Paris, abituato com’era a dedicare alle novità librarie di qualche
importanza delle recensioni che poi si risolvevano in vere e proprie
monografie, prenderà nel «Journal des Savants» del 1891 lo spunto dalle
Origines dello Jeanroy per avanzare l’ipotesi di una ininterrotta tradizione
popolare latina, indipendente dalla tradizione letteraria, onde una poesia
popolare romana dei canti primaverili è posta da lui come antecedente
necessario della lirica cortese provenzale ed è fatta derivare dai canti
popolari di Calendimaggio.
I due mondi, quello dei giullari e quello dei chierici, vengono così
sempre più nettamente separati. Ma, nel frattempo, un altro filologo, un
italiano, Pio Rajna, scendeva nell’agone della filologia romanza e
riprendeva alcune delle maggiori tesi del Paris per illuminarle con la sua
critica e col suo acuto giudizio.

4. Rajna, indagatore di fonti


Anch’egli romantico nella predilezione dei suoi temi, Pio Rajna fece
dell’epopea francese il suo specifico campo di battaglia. Vi è fra la sua
scrittura e quella del Paris la stessa differenza che vi è fra quella del Müller
e quella del Benfey. Tutti e due, il Paris e il Rajna, hanno il culto per il
testo, per il documento, per i codici, E le loro edizioni critiche sono e
rimarranno modelli del genere. Ma i testi, i documenti, i codici non
esauriscono i loro interessi. Sono una premessa della loro opera, il loro
fondamento. È l’interpretazione di quei documenti che li attrae e li
suggestiona. Essi vivono in un tempo in cui la scienza è considerata una
vera e propria religione. In una sua bella pagina, preludendo nel 1870 al suo
saggio su Rinaldo di Montalbano, il Rajna afferma in maniera categorica:

«Il secolo XIX che tanto fece e ancor fa per il progresso delle scienze sperimentali seppe dare altresì
un novello e vigoroso impulso agli studi letterari e avviarli per vie non battute in addietro. A lui solo
si appartiene infatti la gloria di aver posto le fondamenta di una vera e propria scienza della
letteratura, la quale, spoglia, per quanto è possibile, da ogni pregiudizio di scuola, ricerchi e studi i
documenti del passato, allarghi lo sguardo ad ogni luogo e ad ogni tempo e riaccostando l’uno e
l’altro tutti i fenomeni simigliami, faccia che a vicenda si illustrino e si chiariscano. Essa si compiace
soprattutto di indagare le origini non tanto delle varie forme letterarie, quanto delle singole
invenzioni; e seguitandone pazientemente il corso attraverso a popoli e paesi ne osserva con occhio
sagace le differenze per iscoprire di poi le cagioni e le leggi della graduale loro trasformazione».

E questo è appunto il suo credo scientifico, in omaggio al quale egli


studia nel 1872 I Reali di Francia, dove indaga con rigore di metodo il
passaggio dell’epopea cavalieresca francese in Italia. Nella sua Histoire
poétique il Paris aveva ritenuto che I Reali di Francia fossero una raccolta,
tradotta in prosa toscana, di diversi poemi franco-italiani, nei quali la
materia cavalieresca doveva aver ricevuto quel carattere che egli considera
come principale innovamento portato dall’Italia in questo genere di
composizione. Ma di quali altri racconti, si domanda il Rajna, si
compongono i Reali? Queste le sue premesse:

«Mi reca meraviglia, se mi volgo addietro, il numero dei testi di cui l’Autore dovette far uso. Ben
intendo ora la forza di quelle parole che stanno in capo all’edizione principe modenese: Secondo
molte lezende che io ho attrovate e raccolte insieme. Se mai ad alcuno si conviene il nome di
compilatore egli è appunto, chi compose i Reali. I suoi fonti si possono distinguere in cinque
categorie: 1, canzoni di gesta venute dalla Francia; 2, cantari franco-italiani; 3, cantari veneti; 4,
romanzi in prosa italiani; 5, cantari in ottava rima. Fra queste categorie la terza e la quinta dovevano
essere le più numerose».

Non vi è dubbio, come aveva notato il Paris, che il compilatore dei Reali
si debba ravvisare in un solo autore, la cui compilazione aderisce
perfettamente all’animo popolare. E questi, secondo il Rajna, sarebbe
l’autore stesso dell’Aspromonte, il quale anche nei Reali degradò una
materia che in origine aveva ben altra attrattiva:

«Molte narrazioni assai belle per se stesse, le avventure di Fiorio e di Fioravante, le lunghe peripezie
di Drusiana e di Berta, gli amori di Mainetto, la fanciullezza di Orlando, perdono molte delle loro
attrattive nella nostra compilazione. Erano leggende altamente poetiche, frutto spontaneo della
fantasia popolare, e solo abbisognavano di una veste convenevole; il nostro autore le spogliò del
verso, le ridusse in una prosa snervata e prolissa, badò a comprimere ogni ardimento, a far sì che
potessero scambiarsi per istoria vera, e, affine di soddisfare alla ragione, violò i diritti santissimi della
fantasia».

Nel 1872, indagando Le fonti dell’Orlando Furioso il Rajna, che pur


aveva distinto le forme letterarie dalle singole invenzioni, dimentica tuttavia
i diritti santissimi della fantasia e afferma che, se «messer Ludovico avesse
inventato da se medesimo il moltissimo che ebbe da altri, alla corona della
sua gloria se ne aggiungerebbe più che una foglia di alloro». Era una
affermazione che soltanto il peggiore discepolo del Benfey avrebbe potuto
fare. Ecco infatti una affermazione che il Paris non avrebbe mai fatto,
convinto com’era che una cosa è la materia bruta di cui si serve l’artista e
un’altra cosa l’opera d’arte che egli ne ricava. Né è senza significato che
contro un tale assunto il primo a protestare sia stato proprio un indagatore di
origini: il Cesareo. Il Rajna era convinto invece che le fonti hanno un valore
artistico maggiore dell’opera derivata per l’idea sottintesa che la poesia
delle origini si viene spegnendo a poco a poco nelle opere successive. Al
principio, il testo migliore. Era la tesi del Wagener, che il Milá y Fontanals
aveva già applicato ai romances spagnuoli e che sarà condivisa dalla scuola
finnica. E questa è la ragione per cui egli nella sua opera maggiore sulle
Origini dell’epopea francese, edita nel 1884, pone a fondamento di tale
epopea delle vere e proprie canzoni germinali, perfette nel loro genere, già
vere e proprie canzoni di gesta insomma, presso a poco contemporanee agli
avvenimenti che narrano e per giunta in lingua tedesca.
L’idea, almeno nel suo nucleo essenziale, non era nuova. L’aveva in un
certo senso codificata l’Uhland, quando sulle orme di A. W. Schlegel aveva
affermato fin dal 1812 che l’epopea francese è lo spirito germanico in una
forma romanza. Ed è noto, ad esempio, che tale idea fu condivisa da uno dei
maggiori studiosi dell’epopea francese: il Gautier. Di contro, il Meyer era
dell’avviso che «la nostra epopea appartiene tutta alla nostra letteratura». E
se il Paris invece era disposto a concedere una certa influenza germanica
sull’epopea francese, egli non riusciva a spiegarsi come canti tedeschi
potessero essere divenuti canti romanzi. Il Rajna fa di tutto per
dimostrarglielo, immaginando un periodo di bilinguismo in cui i poeti che
cantavano alla corte dei principi e dei signori franchi si indirizzavano a due
diverse popolazioni, l’aristocrazia germanica e la popolazione romanza. In
quanto alle date egli riconosce poi che i temi che si ritrovano nelle
narrazioni di Gregorio di Tours sono identici a quelli delle canzoni di gesta;
che questi ultimi non hanno motivi comuni coi poemi eroici germanici; e
che le canzoni di gesta del secolo XII costituiscono la sopravvivenza
dell’epopea merovingia, ereditiera dell’epopea franca.
Così il Rajna, per quanto non condividesse molte ipotesi del Paris e per
quanto ammettesse che i guerrieri di Carlomagno avessero prima narrato le
loro avventure finché un poeta di mestiere non le mise in versi, riconosceva
tuttavia e riaffermava la preistoria delle canzoni di gesta. E il Paris, che pur
rimase fermo alla sua teoria delle cantilene, fini con l’accettare nel suo
insieme la ricca dimostrazione del Rajna, convinto in fondo, come lo era
stato l’Uhland, che l’origine germanica delle canzoni di gesta non
diminuisce per nulla l’originalità dei poemi francesi.

5. Bédier e la Francia del secolo XI

Di contro al Paris e al Rajna toccherà a un discepolo dello stesso Paris,


Joseph Bédier mettere lo studioso dell’epopea francese su altre vie.
Scrittore elegante come il suo maestro, ragionatore insinuante come il
Rajna, il Bédier affronta infatti lo studio di tale epopea nelle duemila pagine
delle sue Légendes épiques, edite dal 1907 al 1914, con lo scopo di
smantellare e distruggere quanto il Paris e il Rajna avevano pazientemente
costruito e a cui anch’egli in un primo momento aveva aderito. Si può dire
senz’altro che egli ha il gusto di rovesciare le affermazioni sostenute da
quei due insigni studiosi. È vero che più volte essi avevano dichiarato che la
loro ricostruzione dell’epopea francese era un tentativo onde rappresentare i
fatti dell’epopea come essi si erano svolti. Ma il Bédier non da, almeno in
teoria, diritto di cittadinanza a simili tentativi. Esistono effettivamente delle
cantilene brevi e brusche come le immaginava il Paris, contemporanee ai
fatti che narrano? Ed esistono delle canzoni di gesta come le immaginava il
Rajna? Nessun testo ci rimane delle une e delle altre.
Il Paris e il Rajna avevano pensato alla loro esistenza per animare di un
proprio passato le stesse canzoni di gesta del secolo XII. E con ciò essi
avevano dimostrato di amare il documento rimastoci per tutti i documenti
perduti, traendo dal primo le relative induzioni e illazioni. Ma per il Bédier
l’assenza di un documento è documento. E con tale premessa – che è per
sua natura una premessa antistorica – egli vuole distruggere i vincoli che
legano la rotta di Roncisvalle con le canzoni di gesta che la cantano e
distruggere quindi la tesi che l’epopea francese sia coeva degli avvenimenti
che narra.
Per avvalorare questa tesi, il Rajna e il Paris si erano basati soprattutto
sulla tradizione orale, la quale, riconosciuta valida da tutti i folkloristi del
tempo, era chiamata a conciliare la storia con la poesia. Il Bédier,
preoccupato com’è invece di togliere al disastro pirenaico l’impressione
immediata che esso ha potuto suscitare, e ciò perché nessuna fonte scritta
coeva ce lo attesta di tanta gravità, parte da un’altra premessa, non meno
antistorica di quella inerente all’assenza del documento: che la tradizione
orale non elabora mai avvenimenti storici.
Questo assunto circolava già nel suo lavoro sui Fabliaux, edito nel 1894,
dove egli affermava che le leggende storiche, create per un’epoca e per un
popolo, non interessavano le successive generazioni. E ora, di rincalzo,
nelle Légendes épiques (3, 127 sgg.) aggiunge che, se i popoli hanno delle
tradizioni storiche, ciò si deve alla scrittura che ce le conserva, tanto è vero
che quando il ricordo di un uomo o di un fatto si collega a un campo di
battaglia, a invasioni, cambiamenti di dinastia ecc., esso nella memoria
popolare diventa un residuo informe. Il folklore insomma per lui non ci
conserva che canti meravigliosi, canti di animali, favole cosmogo-niche
ecc. Mai delle tradizioni storiche.

6. I Fabliaux e le Légendes épiques

È difficile pensare a quali fonti si sia rivolto il Bédier. Egli si appellava


in realtà alle raccolte di tradizioni popolari compiute in tutti i paesi
nell’ultimo secolo; ma poiché quelle raccolte gli avrebbero detto il contrario
– si pensi ai romances della Spagna, ai canti epico-lirici dell’Europa
orientale, alle byline russe –, egli si guarda dal citarne soltanto una. Allo
stesso modo egli non tiene in nessun conto tutto ciò che a proposito della
memoria dei popoli collegata a guerre, a invasioni, a personaggi storici
avevano scritto i preromantici, i grandi folkloristi dell’epoca romantica e
tanto meno i folkloristi del suo tempo.
È sulla base di un folklore puramente immaginario che il Bédier nega
quindi ogni valore alla tradizione orale collegata agli avvenimenti storici. Si
potrebbe obiettare, è vero, che questi avvenimenti storici possono essere
tramandati dal popolo anche a distanza di tempo. Ma anche in tal caso
quella contemporaneità ideale non è sorretta dalla tradizione orale, dalla
memoria popolare?
C’è inoltre davanti al Bédier uno spettro: l’epopea francese contaminata
da influenze germaniche. Il Bédier, si è scritto, trasportando la nascita
dell’epopea francese nel secolo XII vuol affermare che la Francia non ha
avuto eroi nazionali e quanto meno un’epopea nazionale. Questo l’appunto
che gli fa il Fawtier, il quale, sulla via già tracciata dal Gabotto e dal Lot, ha
dimostrato ancora una volta quanto siano validi i rapporti tra la storia e le
canzoni di gesta. Ma la verità è diversa. Ed è, come ha ben osservato il
Foscolo-Benedetto, il quale di recente ha dato vigore e impulso ai vecchi
presupposti teorici ottocenteschi, che il Bédier si preoccupa di dimostrare
«che l’epica francese è un prodotto francese, che essa è nata quando già
c’era una Francia nel senso odierno della parola, non prima quindi del
secolo XI». Le sue ricerche, appunto per questo, «si assommano nel bel mito
– motivo melodico ritornante nella sua opera – del grande miracolo del
secolo XI: la Francia che si afferma d’improvviso creatrice geniale in tutti i
campi dello spirito e che si mette alla testa del mondo civile. Quel miracolo
deve restare puramente francese».
La tesi del Bédier, per quanto sorretta da una indagine poderosa, è, e
rimarrà pertanto, una tesi nazionalistica. Anche quella del Paris lo era. Ma
mentre il nazionalismo di quest’ultimo riposava su un concetto umano e
umanistico, quello del Bédier finisce col rimanere chiuso in se stesso, anche
se esso ci si presenta con due volti: uno di carattere estetico, l’altro storico-
culturale.

7. Esiste una «memoria popolare»?

Nei suoi Fabliaux – i quali uscirono nello stesso periodo in cui in Italia
vedevano la luce i primi lavori di estetica di Benedetto Croce – il Bédier
non aveva trascurato, e a ragione, di dare spicco e rilievo al concetto
dell’arte come rappresentazione dell’individuale. In questo lavoro egli
aveva cercato anzitutto di ridurre nei suoi giusti limiti la teoria benfeyana
sull’origine delle novelle. Su centoquarantasette Fabliaux solo undici
ammettevano possibilità comparative con l’India. Ma quelle somiglianze,
egli si domandava, non spettano soltanto alle linee costitutive e generiche
del racconto? E la patria dei racconti è quella dove essi sono nati o è quella
invece dove essi si trovano, nel senso che la loro vera realtà sta nell’atto in
cui sono ricreati o meglio creati?
Era ovvio che, considerata sotto questo aspetto, la monogenesi dei
racconti si risolvesse in una poligenesi e quindi in un legittimo problema
estetico. Ma al di là di quel problema non esiste una storia della cultura che
si rivela feconda, ove la migrazione dei racconti si consideri nei suoi
rapporti con la civiltà cui ha aderito? E il Bédier non sarà egli stesso
prigioniero della teoria inerente alle fonti nelle sue Légendes épiques?
Il Bédier non manca certo di studiare anche queste légendes secondo i
dettami dell’estetica. In uno dei passi più celebri delle Légendes (3, 149
sgg.) egli afferma, ad esempio, che «un’opera d’arte comincia col suo
autore e finisce con lui». E tale, in alcune sue pagine poetiche e brillanti,
egli considera appunto la Chanson de Roland. E questa è la ragione,
aggiunge subito, per cui è vano appellarsi «alle teorie che vogliono mettere
dappertutto delle forze collettive al posto dell’individuo».
Ma c’è di più. È inutile infatti, conclude lo stesso Bédier, supporre che
siano occorsi dei secoli alla formazione della leggenda orlandiana e che
cantori innumerevoli si siano susseguiti. È bastato un attimo, «l’attimo
sacro in cui il poeta, sfruttando forse qualche romanzo, abbozzo grossolano
del suo tema, ha concepito l’idea di un conflitto tra Oliviero e Orlando».
Vero: è bastato quell’attimo. Ma le ricerche del Bédier, tutte le sue ricerche,
non tendono a vedere come si formi quel romanzo, il che d’altro lato nulla
toglie alla validità estetica dell’opera, quale è stata formata dal poeta
individuo? A lui comunque interessa far coincidere quella formazione col
secolo XI. E allora, soltanto allora, egli che giucca con i suoi argomenti
come se fossero i pezzi di una scacchiera, è disposto a farci tutte le
concessioni possibili anche se poi pentito vi ritorna sopra per respingerle.
Non v’è dubbio comunque – per quanto sia difficile trovare nel Bédier
una linea direttiva –, che tanto i Fabliaux quanto le Légendes épiques vanno
considerate sotto due angoli visuali: il primo di estetica, il secondo di storia
della cultura. È vero che il Rajna aveva confuso l’uno con l’altro a
proposito dell’Ariosto. Ma è vero altresì che spesso li confonde anche il
Bédier, il quale tuttavia con la sua opera dimostrò che le ricerche di storia
della cultura – e quindi delle fonti – sono tanto legittime quanto quelle di
carattere estetico, dove quelle fonti possono avere anche il loro peso per
spiegare il testo poetico.

8. Bédier fra Romanticismo e Antiromanticismo

Dopo aver distrutto, o meglio dopo aver creduto di distruggere i legami


fra la storia e la leggenda, o meglio ancora dopo aver tolto alle origini
dell’epopea il suo valore romantico, il Bédier passa subito alla ricostruzione
della leggenda orlandiana formatasi, secondo lui, nel secolo XI. E poiché,
smantellata la tesi di un’epopea che sorge contemporanea ai fatti storici per
sublimarla nella poesia, rimanevano pur sempre nelle canzoni di gesta quei
fatti storici cui essi si ispiravano, il Bédier riprende una tesi che qualche
anno prima era stata ampiamente discussa dal Becker: e che cioè le canzoni
di gesta del secolo XII non si spiegano se non si ricorre alle strade dei
santuari e ai pellegrini quali veicoli di propagazione della materia epica e
quindi della leggenda orlandiana. Anche il Rajna aveva già ammesso a
proposito di tale propagazione che «lungo le vie dei pellegrinaggi l’epopea
oltre che lasciare prendeva». Ma questa tesi sarà svolta dal Bédier con tale
ricchezza di particolari e con tale sottigliezza di postulati da destare se non
altro l’ammirazione del lettore.
Il Bédier ritiene a proposito delle più belle e antiche leggende epiche che
alla loro formazione hanno contribuito «laici e chierici, mercanti, borghesi,
poeti di mestiere, gente di popolo e gente di chiesa». Però aggiunge subito:
«Nella chiesa, attorno la chiesa». In preparazione, è ovvio dirlo, delle
crociate d’Oriente, e «senza che sia possibile discernere l’apporto di
ciascuno».
Sembra in effetti un ritorno alle posizioni della critica tradizionale di un
Paris e di un Rajna. Ma mentre questi studiosi avevano considerato
l’epopea francese come un documento dovuto all’affermarsi di una
spiritualità laica e popolare che si era svolta al di fuori della tradizione
latina, il Bédier la considerava invece come il prodotto di una cultura, e
perciò di una collaborazione, se mai, clerico-popolare. Alle origini era la
poesia popolare, avevano affermato il Paris e il Rajna. Alle origini è la
strada disseminata di santuari, esclamerà il Bédier. Ed è allora che egli,
dopo avere accennato all’itinerantismo medievale, fa un inventario delle
strade più famose e più frequentate del secolo XI, dove si avvicendavano
mercanti, cavalieri, chierici e pellegrini. È su queste strade che c’erano dei
santuari celebri. E poiché tutte le canzoni di gesta «conoscono bene le
strade di pellegrinaggio e solo quelle», mentre, a loro volta, le chiese
disseminate in quelle strade conservano tombe e reliquie degli eroi
dell’epopea, ecco che si viene a chiarire il clima spirituale da cui e in cui
nacquero le canzoni di gesta del secolo XII.
In altri termini, secondo il Bédier, prima della canzone di gesta, si formò
la leggenda, la leggenda locale, la leggenda della chiesa. I monaci sarebbero
stati gli informatori dei giullari. E da queste informazioni – ecco chiarito il
miracolo – nacquero nel secolo XII le canzoni di gesta. Lo stesso Bédier
riconosce, quindi, che i poeti delle canzoni di gesta erano – si noti bene –
poco letterati, perché a stento era loro possibile desumere i loro temi dalle
fonti letterarie e latine, quali si trovavano nei santuari; ma è altresì
dell’avviso che essi erano venuti in possesso della tradizione letteraria e
scolastica col sussidio dei chierici. È ovvio quindi osservare che per lui,
senza questa distinzione, non si possono concepire i poeti delle canzoni di
gesta.
In un suo lavoro su Les plus anciennes danses françaises, che è del
1906, il Bédier affermava che il popolo non ha mai creato nulla; e che esso,
se mai, non fa che riprendere e imitare ciò che creano i centri di civiltà; e
che pertanto le canzoni popolari sono imitazioni più o meno alterate di
forme letterarie. In tal modo il Bédier dava vita a una costruzione non meno
artificiosa di quella dei suoi predecessori, ove si pensi, come gli
rimproverava il Lot, che è un assurdo pensare che alla genesi di una
canzone siano necessari un santuario, dei monaci e il trascorrere di lunghi
anni, né meno assurdo è il presupporre che le canzoni di gesta abbiano
avuto soltanto fonti clericali. Il Bédier, inoltre, non solo dimostrava di non
avere nemmeno quel gusto per la poesia popolare che, quali che siano i suoi
rapporti con le canzoni di gesta, era stato uno stimolo così fecondo nella
storia della poesia, ma negava agli umili il più grande dono che essi
posseggono: quello di poter creare anche loro una loro poesia.
19. Vita del folklore letterario

1. Dal Child al Nigra

Il problema della elaborazione popolare, intuito dall’Arnim e via via


affrontato dai folkloristi svedesi, russi, finnici ecc. non mancò di suscitare
un vivo interesse anche nel campo della filologia romanza, la quale,
preoccupata com’era di chiarire le origini dell’epica e della lirica, non solo
utilizzò le ricerche folkloristiche del tempo, ma contribuì al loro
arricchimento e approfondimento. Si aggiunga che la filologia romanza,
progredendo con il generale progresso filologico, mantenne vivo nei paesi
neolatini il fascino della letteratura popolare – anche se i suoi valori
verranno ora meglio determinati – e richiamò sempre più l’attenzione degli
stessi folkloristi sui problemi metodologici.
Di notevole interesse furono in tal senso le ricerche e i contributi dei
filologi-folkloristi italiani, fra i quali, in primo luogo, va ricordato
Costantino Nigra, la cui formazione culturale coincide appunto con la
formazione stessa della filologia romanza. Uomo veramente europeo, amico
e collaboratore del Cavour, il Nigra seppe, nonostante le altre sue
occupazioni politiche, avvicinarsi agli studi del folklore letterario con una
preparazione filologica che gli servì a illuminare e a chiarire i difficili
problemi da lui trattati. Egli infatti, se da un lato rinnovò in Italia il metodo
di raccolta dei canti popolari, dall’altro non limitò certo la sua attività a
questo solo compito. Da qui la validità dei suoi Canti popolari del
Piemonte, che uscirono in edizione completa nel 1888, ma di cui lo stesso
autore aveva pubblicato numerosi saggi fin dal 1854.
È stato osservato che il Nigra fu addirittura il primo a trarre delle
deduzioni storiche dall’area di diffusione dei canti popolari. E ciò è vero
limitatamente al campo romanzo, o meglio celto-romanzo, che fu quello da
lui preferito. Lo stesso Nigra nella breve prefazione con cui si aprono i suoi
Canti popolari del Piemonte, afferma: «Dacché i canti sono raccolti e
sinceramente raccolti è tempo che si cerchi di sapere come nacquero, donde
vengono, che cosa significano». Ma subito dopo aggiunge che «fuori del
dominio celto-romanzo, le indagini [sulla poesia popolare] si proseguirono
con incessante alacrità e non senza successo»; prova ne sia «che i lavori del
Grundtvig, di Bugge, di Child e di altri ancora, dimostrano che ormai le
ricerche sulla genesi della poesia popolare non soltanto sono possibili, ma
sono sempre proficue anche quando non sono fortunate».
Anche il Nigra (come del resto i Krohn o il Veselovskij) si riattacca
quindi alla tradizione dei Grundtvig e dei Bugge, da cui peraltro, nel campo
della filologia inglese, discende direttamente il Child, il quale, dal 1882 al
1898, aveva pubblicato quelle sue English and Scottish Popular Ballads
destinate a rimanere un modello nel campo degli studi sulla poesia
popolare.
Nel Child si concludeva, potremmo dire, tutto il lavorio filologico che
per quasi due secoli gli studiosi di tutta l’Europa avevano dedicato alla
poesia popolare. Si veda infatti nell’ultimo suo volume la bibliografia delle
ballate popolari. È difficile trovare una bibliografia così esatta e così
precisa. Anche l’indice dei titoli delle varie ballate europee dimostra la sua
assoluta padronanza in quel campo particolare di ricerche.
È con solerte preparazione che il Child affrontò lo studio delle ballate
inglesi e scozzesi, ciascuna delle quali fu da lui seguita in rapporto alla
tradizione che determinava. Il corpus childiano è in un certo senso il
complemento delle Reliques del Percy. È massimo merito del Child, nota
però giustamente il Baldi, «l’avere riunito e ordinato i documenti quasi
inaccessibili delle prime fonti manoscritte; di avere esplorato le vecchie
collezioni di broadsides (le stampe a foglio volante del Cinque e Seicento);
di avere pubblicato con esattezza filologica i manoscritti rimasti, da quello
famosissimo del Percy agli altri dello Herd, del Motherwell, del Buchan,
dello Scott, e così via;… e di avere scelto, coordinato e commentato il tutto
con una dottrina e con un amore che in questo studio non hanno ancora
avuto l’eguale».
La dottrina e l’amore del Child erano in realtà la dottrina e l’amore del
Grundtvig e del Bugge. E lo stesso può affermarsi del Nigra, il quale
ravvisò nello studio della poesia popolare non soltanto un problema
filologico oltre che estetico, ma anche un problema di storia civile.

2. I Canti popolari del Piemonte


La prima istanza, comunque, che si fa valere nei Canti popolari del
Piemonte è quella di determinare geograficamente l’area di diffusione che
hanno i canti popolari in Italia. E sotto questo aspetto è noto che il Nigra
divide l’Italia in due grandi zone: l’Italia settentrionale, il cui particolare
genere di poesia è costituito dai canti lirico-narrativi (le ballate del Child);
l’Italia media e inferiore, la cui poesia popolare è quella degli strambotti e
degli stornelli. Quando era già avanti nello studio comparativo dei Canti
popolari del Piemonte, vale a dire nel 1876, il Nigra scrisse per la
«Romania» del Paris un saggio su La poesia popolare italiana, «destinato»,
come poi fu, «a servire di introduzione ad una raccolta di canti popolari del
Piemonte». E in quel saggio egli, se da un lato riconosce che i canti lirico-
narrativi sono «in parte comuni a popolazioni romanze non italiche»,
dall’altro sostiene la tesi che gli strambotti e gli stornelli costituiscono «una
poesia originale schiettamente italica».
Per avvalorare questa tesi, il Nigra parte da un principio: che «nella
poesia popolare, come in ogni altra manifestazione dell’arte, la forma fa
parte, e parte principale, della cosa stessa». Con le sue stesse parole:

«Un dato tema poetico, una data materia poetica possono passare con facilità da un paese all’altro e
trasmettersi successivamente a popoli di lingua e di razza diversi… Così accadde, per esempio, d’una
serie considerevole di favole, d’apologhi, di racconti o di novelle, che dall’ultimo Oriente vennero in
Europa, o dall’Europa andarono in Oriente, fin da tempi molto remoti, sotto forme diverse. Ma
quando la materia poetica è fissata dal verso, dalla strofa, dalla composizione, quando essa fu
modellata in uno stampo determinato, foggiata in una forma più o meno precisa, il novum opus che
ne risulta non si trasmette più, di regola generale, in questa sua forma, se non a popolazioni
omoglotte, parlanti cioè idiomi identici o molto simili, e tali in sostanza da poter essere compresi
senza grande difficoltà da ognuna di esse».
Formulato questo principio di evidente ispirazione benfeyana, il Nigra
non manca di indagare l’epoca di formazione delle canzoni, le storiche
eccettuate:

«Il periodo genetico ha sempre qualcosa d’occulto, forse perché, fino a quando l’una e l’altra
manifestazione dello spirito umano non sono fissate dalla scrittura e dalla letteratura, v’è luogo ad
una genesi continua. [Ed è così] che molte canzoni nacquero e morirono e quelle che ci pervennero
subirono numerose, profonde e continue modificazioni...»

Le varianti sono chiamate quindi a tracciare le linee di questa tradizione,


attraverso la quale egli crede di ravvisare il testo migliore in quello che è
già il frutto di parecchie rielaborazioni:

«Quando dai nostri contadini si compone una canzone, si comincia a fissare la melodia, e questa è
tolta ordinariamente da una canzone anteriore. La melodia determina il metro. Intere frasi e interi
versi, e spesso il principio della composizione, sono mutuati a canzoni già esistenti. Ciò che si
aggiunge di nuovo è spesso scorretto, rozzo e talora confuso; a poco a poco, passando per molte
bocche, si modifica, si purifica, si compie; nuove idee si aggiungono; le espressioni scorrette sono
esclusivamente eliminate o sostituite da altre più corrette; queste a loro volta passando per altre
bocche, e trovandosi in ambienti meno propizi, si corrompono di nuovo, si oscurano, per rinnovarsi
di poi… Nel trasmettersi di bocca in bocca il proprio canto, il popolo lo rinnova e lo modifica
costantemente nelle forme dialettali e nel contenuto, e finalmente anche in parte nella melodia e nel
metro, e queste continue modificazioni costituiscono in realtà una perpetua creazione della poesia
popolare; creazione che passa per molte e varie fasi, e le di cui condizioni di vita e di perfezione o di
degenerazione e di oblio sono intimamente legate con quelle del popolo autore e conservatore».

C’è in questa pagina la falsa premessa che un canto per essere


validamente estetico debba via via perfezionarsi. Ma c’è un concetto quanto
mai preciso di ciò che è la rielaborazione popolare, la quale non soltanto
conserva e tramanda, ma anche crea. In base al concetto di tale elaborazione
il Nigra è convinto che molti canti epico-lirici sono esclusivamente
piemontesi, mentre altri sono comuni ai popoli cello-romanzi della Francia,
della Provenza e della Catalogna.
Quando uscirono i Canti popolari del Piemonte, dove questi rapporti
venivano maggiormente esemplificati, il Paris gli obiettò che il Portogallo
doveva essere staccato dal gruppo celto-romanzo per essere riunito alla
Castiglia, e avvicinò il tesoro epico-lirico della Francia, del Piemonte e
della Catalogna al tesoro epico-lirico della Spagna, dei paesi germanici,
della Grecia, delle genti slave e dell’Ungheria. Si trattava, insomma, di
determinare una tradizione di trame e di forme; in altre parole: la vitalilà
geografica e storica di un genere. E di contro al Nigra che non esitava ad
assegnare la canzone di Donna Lombarda al secolo VI, convinto com’era
che quasi sempre il canto fosse coevo al fatto narrato, lo stesso Paris, che
pur aveva sostenuto quella tesi per l’origine dell’epopea francese, gli faceva
osservare che le canzoni del lipo di Donna Lombarda erano identiche alle
canzoni narrative francesi, la cui origine non poteva farsi risalire che al
secolo XV. Ma, quali che fossero le linee di queste elaborate costruzioni che
allora si rivelarono ardite, sia di fatto che il Nigra fu il primo in Italia a
comprendere che la tradizione dei canti popolari ha anche un valore per se
stessa, intesa com’è a determinare le trame stesse della poesia, i suoi umori
e le sue diaspore.

3. Aree di diffusione e centri di irradiazione

Nel dividere l’Italia in due determinate zone poetiche, il Nigra partiva


d’altro lato da un assunto cui egli fu sempre fedele: e cioè che i canti epico-
lirici, gli strambotti e gli stornelli rispondessero «alla diversa indole dei
dialetti delle due parti d’Italia» e quindi al «substrato di due razze distinte».
In altri termini, com’egli stesso dichiara:

«Il fondo lessicale e le forme grammaticali dei dialetti dell’Italia superiore e dei dialetti dell’Italia
inferiore (come di tutti gli idiomi romanzi) procedono sostanzialmente dalla lingua latina ed hanno
quindi una base sostanzialmente identica. Ma se nei due rami dialettali della penisola, la parte
lessicale e la grammaticale sono sostanzialmente identiche, la parte fonologica e la sintassi offrono
invece notevoli differenze. La ragione di questo fatto deve cercarsi nella diversità originaria delle due
razze che prevalsero nelle due parti della penisola. Le popolazioni, che all’epoca del dominio romano
abitavano l’Italia inferiore, appartenevano, in proporzione prevalente, al gran ceppo italico, di cui i
Latini stessi erano il ramo più vigoroso. Per contro l’Italia superiore era popolata da Galli e da altre
razze celtiche, o strettamente affini alle celtiche, che, prima di subire il dominio romano, parlavano i
propri idiomi».

E, quasi a riallacciare le fila delle sue indagini, aggiunge:

«Ma la poesia popolare, al pari della lingua, è una creazione spontanea, essenzialmente etnica. Razza,
lingua e poesia popolare sono tre forme successive della medesima idea e seguono nella loro genesi
e nel loro sviluppo un procedimento analogo. Con ciò noi non vogliamo escludere la possibilità del
passaggio della poesia popolare da una nazione all’altra. Quello che accadde della lingua potè
accadere della poesia popolare. In tal caso sarà compito della storia il cercare le ragioni del fatto, e il
discernere in questa poesia mutuata la parte originaria e la parte che potè esservi aggiunta di proprio
dalla nazione che l’adottò e che seppe assimilarla. Però si può stabilire per principio generale, che la
poesia popolare è creazione spontanea della razza che la canta, risponde al sentimento poetico ed
estetico proprio di questa razza e costituisce un carattere etnico speciale della medesima. Applicando
questo principio all’Italia, siccome noi trovammo nelle due parti della penisola il substrato di due
razze distinte e due tronchi dialettali diversi, così noi dobbiamo trovarvi e vi troviamo, perfettamente
corrispondenti, due specie di poesia popolare nettamente separata».

Queste osservazioni sono in special modo applicabili alla poesia cantata


e profana, perché, a suo avviso, la recitata (giuochi, indovinelli, rime
infantili, ninne nanne, proverbi) e la religiosa (preghiere, giaculatorie,
leggende) hanno un carattere meno etnico e più generale, e seguono nella
loro origine uno sviluppo in parte distinto. Ecco pertanto il suo assunto:
dimostrare il carattere della poesia popolare e il carattere etnico di essa. Ora
non v’è dubbio che il Nigra si riattaccava in proposito al Cattaneo, il quale
credeva appunto che le lingue «possono farsi e disfarsi» e che «nessuna di
esse è necessaria», essendo esse tutte «opera umana e sociale come i
costumi, le leggi e la città». Nel collegare la poesia a un determinato
substrato, il Nigra tuttavia faceva suo un falso concetto naturalistico, che
era quello in fondo del Gobineau, ove si pensi che la distinzione di due zone
con particolari strati etnici presuppone appunto l’idea di due razze pure e
incontaminate.
Nel Nigra, però, quel concetto naturalistico finiva col riempirsi di una
sua natura storica. È vero infatti che egli collega il concetto di poesia a
quello di razza, ma è vero altresì che per lui il concetto stesso di razza
contempla esclusivamente quelle che sono le attitudini naturali, morali,
intellettuali ed artistiche di un popolo. E qui è la validità del suo assunto.
Ma c’è di più: ed è che, nonostante le sue premesse essenzialmente
naturalistiche, egli riconosceva – riattaccandosi allora a una tradizione di
studi che andava dai Grimm al Müller e che aveva trovato un’ampia eco
nella scuola storica russa e in quella finnica – che la poesia popolare, come
la novellistica, è pur sempre una creazione della popolazione che la canta e
di cui riflette il sentimento poetico ed estetico. C’è nel Nigra l’esigenza
della classificazione, ma c’è in lui il ricercatore attento e scrupoloso, il
quale intuisce con chiarezza il valore che può avere, e ha, nello studio della
poesia popolare, l’accertamento e culturalistico, che è quanto dire la
diffusione di un canto o di un gruppo di canti in una determinata area, da
cui può passare in altre aree, stabilendo un circolo di imprestiti, ma anche di
rielaborazioni. E quest’ultima è la ragione per cui un canto popolare deve
essere giudicato anche nella sua rinnovantesi forma di opus novum.

4. Rubieri e la Storia della poesia popolare italiana

Lo stesso Nigra non aveva esitato ad affermare nella prefazione ai suoi


Canti popolari del Piemonte che il suo studio sarebbe stato «meno
incompleto», se egli avesse potuto esaminare anche «il valore estetico e
morale dei due grandi rami della poesia popolare italiana». Eppure tale
esame in Italia era stato già fatto, o per meglio dire iniziato, da un altro
studioso risorgimentale: Ermolao Rubieri, autore di un’ampia Storia della
poesia popolare italiana, edita nel 1877. In essa il Rubieri metteva a frutto
le ampie raccolte che si erano fatte in Italia un po’ dappertutto in base alla
tradizione orale. Ma erano quelli i tempi in cui si proclamava che bisognava
entrare nelle biblioteche e negli archivi per respirare nuove aure. E da
quelle biblioteche e da quegli archivi non pochi canti popolari erano già
stati disseppelliti. Uno dei primi, se non il primo, a dare questo esempio era
stato un poeta, Giosue Carducci, il quale, se pur ebbe della poesia popolare
un concetto vago, ebbe il merito di pubblicare nel ’66 un manipolo Di
alcune poesie popolari bolognesi, mentre nel ’71 compilò una gustosa
antologia, Cantilene e ballate, strambotti e madrigali nei secoli XIII e XIV,

dove imponente era la raccolta dei canti popolari di antica provenienza.


Il Rubieri, nel riprendere in esame i canti popolari che erano stati già
raccolti e disseppelliti, si dimostra buon filologo; ma non è soltanto
filologico lo scopo con cui egli scrisse il suo libro, che voleva essere, e fu
soprattutto, un messaggio rivolto al popolo italiano che soltanto allora era
giunto alla sua unità. A differenza del Nigra, il Rubieri evita di appellarsi a
quei criteri razzistici che gli ricordavano, fra l’altro, il Gioberti da lui odiato
a morte. Per lui esisteva il popolo italiano, il quale in ciascuna sua regione
esprime nel canto i suoi caratteri, le sue tendenze, i suoi umori. Il Rubieri è
convinto che la poesia è fra le creazioni umane la «prima» e la
«elettissima»; ritiene, quindi, che la poesia popolare precedette la letteraria;
né egli dimentica di mettere in luce i rapporti fra quelle due forme di poesie.
Esempio:

«Nei secoli XV e XVI, la poesia letteraria, sulle orme di Dante che le aveva tracciata la via, cercò di
segregarsi dalla poesia popolare, ma non vi riuscì. La maggiore sorella esercitava sempre
un’invincibile attrattiva sulla minore; e la minore, non potendo staccarsene, prese a contraffarla.
Credeva di burlarsene, e la onorava. Infatti tutti i migliori poeti del secolo XV, il Medici, il Pulci, il
Poliziano, e alcuni del secolo XVI, il Machiavelli, il Bronzino, il Berni, non ne colsero che la parte
più comica e la esagerarono; alcuni, come il Poliziano, ne sfiorarono la parte più gentile e la
raffinarono; pochissimi, sovrano il Bronzino, la presero tal quale e la plasmarono. Ma fra tutti, o in
un modo o nell’altro, salvarono sufficienti materiali da servire alla ricostruzione di un bel
monumento».

Questo non significa però che il Rubieri rimane di fronte alla poesia
popolare in un atteggiamento di assoluta devozione, tanto è vero che egli
non poche volte rivela 1’inesistenza artistica di certi componimenti
popolari. Vero: ma nel campo stesso della letteratura popolare ciò che non è
poesia non è pur sempre, egli si domanda, un documento sociale,
psicologico, storico? Un popolo che canta, egli perciò afferma, è pur sempre
un popolo che si confessa. E di rincalzo:

«Chi lo segua nelle idee e ne’ sentimenti che più comunemente si rivelano nelle ritmiche sue parole,
e osserva se queste siano o caste o licenziose, o frivole o assennate, o ingenue o maligne, o miti o
feroci, o generose o codarde, o patriottiche o filautiche, difficilmente si ingannerà argomentandone
che l’indole o almeno lo stato di quel popolo è corrispondente o alle virtù o ai vizi che traspirano da’
canti suoi. È beato ma raro quel popolo, da’ cui canti traspirano virtù non solo domestiche, non solo
pubbliche, ma pubbliche e domestiche a un tempo…»

5. Poesia popolare e poesia tradizionale nel concetto del Rubieri

Il Rubieri ritiene inoltre che in Italia i canti popolari, pur rivelando i


caratteri delle varie regioni, si debbono considerare, in tanta varietà di
dialetti, come l’espressione di una unità linguistica. E non soltanto
linguistica: ma anche politica. Egli considera quindi la poesia popolare
italiana sotto tre aspetti diversi: ritmica, psicologica e morale. E tutti e tre
questi aspetti sono chiamati a inquadrare la vita nazionale di un popolo che
dalla sua unità dovrà trarre la forza stessa del suo avvenire.
È vero d’altra parte che il Rubieri, pur affrontando con perizia filologica
l’esame minuto e particolare di quegli aspetti – sul cui fondo si muove
anche la poesia popolare dei paesi stranieri –, non poche volte si impiglia in
formule naturalistiche (come, ad esempio, quando considera le qualità
meccaniche del metro come una naturale conseguenza delle qualità
fisiologiche). Ma bisogna anche riconoscere che egli ci da attraverso la
poesia popolare un quadro di quelli che erano appunto i valori ideali dello
spirito popolare italiano. In altri termini: i valori di ciò che il Nigra aveva
chiamato spirito etnico. E del Nigra che già fin d’allora si era imposto
all’attenzione degli studiosi italiani (e del resto, non soltanto italiani) il
Rubieri apprezza l’opera geniale, affermando senz’altro che questi:

«… distinse le canzoni della sua raccolta [della raccolta, cioè, di cui erano già usciti alcuni estratti
nella «Rivista Contemporanea»] in due serie, delle storiche e delle romanzesche, che rispondono con
una logica esattezza ai due generi di poesia popolare effettivamente più comuni nel popolo subalpino,
perché più confacenti alla seria e cavalleresca sua indole».

Il Rubieri è d’accordo con il Nigra nel ritenere che i Piemontesi hanno il


primato della poesia narrativa a differenza dei Siciliani che l’hanno invece
nella madrigalesca. Aggiunge però subito che il primato dei Piemontesi
«non è pieno e assoluto». E di ciò si rende conto, studiando con risultati
eccellenti la diffusione che ha in Italia il canto epico-lirico. Né diverso è il
problema inerente alla poesia degli strambotti e degli stornelli, la quale
prevale in Sicilia, ma che si diffonde dovunque. Il Rubieri insomma attenua
la tesi delle due zone sostenuta dal Nigra, ma, di contro al Nigra, egli ritiene
che l’elaborazione popolare ha un ufficio molto modesto anche in quella
poesia che egli considera come tradizionale:

«Col nome di tradizionale è da distinguersi quella specie di poesia popolare che tende a trasmettere
per lunghe età, di generazione in generazione e di secolo in secolo, con nissuna o poca alterazione,
qualunque popolare componimento… I prodotti di questa poesia in origine possono essere stati tanto
inventati pel popolo ma non dal popolo, quanto inventati e talora anche improvvisati da esso».

E la poesia tradizionale, si noti bene, per lui è quella poesia che


maggiormente si diffonde e si propaga, stabilendo emigrazioni e contatti fra
regioni e regioni. La poesia popolare, per il Rubieri, ha insomma carattere
di stabilità. E questo fu il suo limite dovuto in gran parte all’indole stessa
della sua indagine, dove il canto popolare è studiato in fondo soltanto come
documento di arte o di costume.

6. D’Ancona

Un anno dopo l’uscita della Storia della poesia popolare italiana videro
la luce alcuni studi di Alessandro D’Ancona, raccolti sotto il titolo: La
poesia popolare italiana. Il D’Ancona, anch’egli uomo risorgimentale,
aveva certo una preparazione del tutto differente da quella del Rubieri. Egli
era il filologo puro, lo storico della letteratura, il ricercatore di testi: preciso,
minuzioso, impareggiabile nelle sue ricerche. E queste doti l’attaccavano da
un lato alla tradizione erudita del Settecento italiano e dall’altro alla
tradizione a lui più vicina di un Benfey o meglio di un Veselovskij, di cui
peraltro fu amico e ammiratore.
Nei suoi studi sulla Poesia popolare italiana anche il D’Ancona sostiene
come il Rubieri che l’unità della poesia popolare italiana va ravvisata nella
sua varietà. Fatto è però che mentre il Rubieri vuoi delineare una storia tutta
interna della poesia popolare italiana, il D’Ancona invece cerca le origini
delle forme esterne, dei generi. Nel 1906, quando ripubblicò il suo lavoro
sulla Poesia popolare, egli stesso osservava:

«Alla prima edizione andava innanzi un Avvertimento, nel quale affermavo che i miei Studi nulla
dovevano alla Storia della poesia popolare italiana di Ermolao Rubieri, pubblicata quando già tutto
avevo scritto e consegnato all’editore e buona parte del mio lavoro era stampata, sicché non esisteva
plagio da parte mia là dove andavamo d’accordo, né coperta confutazione là dove discordavamo…
Ma ora, come potrà vedere il lettore, ho creduto di potermi valere dell’opera del defunto amico,
citandola ogni qual volta mi fosse dato confortarmi dell’autorità sua, o dovessi dissentirne».

Il D’Ancona nei suoi studi si propone soprattutto di indagare i rapporti


fra la poesia popolare e la dotta. Ed è allora che egli ravvisa «accanto alle
poesie imitate dai modelli dell’antichità o dai recenti esempi degli stranieri,
una maniera tutta popolare e ingenua», convinto com’è che, se non tutti i
monumenti da lui citati possono a «rigore dirsi nati fra il popolo, o dal
popolo fatti propri, certo è che debbono il lor nascimento a forme di sentire
ben diverse da quelle cui ispiravasi la poesia dei dotti e dei cortigiani…».
Egli non esita quindi a far sua la tesi del Nigra: vedere, cioè, dove i canti
nascono e si diffondono. E in proposito non ha esitazioni:

«Noi crediamo, e il lettore cortese e attento deve aver già più volte intraveduto quel che diremo, che
il Canto popolare italiano sia nativo di Sicilia. Né con questo intendiamo asserire che le plebi delle
altre provincie sieno prive di poetica facoltà, e che non vi sieno poesie popolari sorte in altre regioni
italiane, e ivi cresciute e di là anche diramate attorno. Ma crediamo che, nella maggior parte de’ casi,
il Canto abbia per patria d’origine l’Isola, e per patria di adozione la Toscana: che, nato con veste di
dialetto in Sicilia, in Toscana abbia assunto forma illustre e comune, e con siffatta veste novella sia
migrato nelle altre provincie. Però se questo è il caso generale, esso non esclude le eccezioni».

La teoria, come si vede, è malposta, in quanto il D’Ancona limita il


canto popolare italiano agli strambotti, agli stornelli e comunque alla poesia
lirica, di cui localizza la patria d’origine in Sicilia. E la poesia narrativa? È
presto detto:

«Venendo poi più su, s’incontrano volghi di maggior cultura, ne’ quali la forza poetica è quasi spenta
o si estrinseca ormai soltanto in improvvisazioni sgarbate, se non in semplici rimpasti dell’antico
tesoro di Canti… E chi salisse ancor più su, ai paesi di popolazioni cello-romana, troverebbe la strofa
sicula scarsa in numero… Ivi la poesia indigena e tradizionale ha relazione non col Mezzogiorno
d’Italia, ma con altre popolazioni e altri idiomi, stendendosi alla Provenza, alla Francia, alla
Catalogna, al Portogallo…»

È noto, però, che a proposito della distinzione posta dal Nigra, e cioè che
v’è una forma lirica consona all’indole dell’Italia inferiore e un’altra
narrativa consona all’Italia superiore, il D’Ancona rimane sempre fedele a
quanto aveva scritto nella sua recensione ai Canti popolari del Piemonte,
poi raccolta nei suoi Saggi di letteratura popolare, e cioè che si tratta «di
un’ipotesi ingegnosa che forse contiene del vero, ma che dovrebbe essere
fiancheggiata da più salde prove».
Il D’Ancona non ebbe comunque soltanto un vivo interesse per la poesia
popolare, cui egli riconobbe quel prestigio che in Italia le avevano già
riconosciuto un Berchet o un Tommaseo. Le sue attenzioni furono rivolte
anche alla letteratura popolareggiante o meglio alla letteratura a stampa. Da
qui i suoi Poemetti popolari italiani, che sono del ’98 e che costituiscono
un esempio di quella letteratura comparata da cui il folklore trae un suo
particolare fascino. In questo volume, la Storia di San Giovanni Boccadoro,
il Trattato della Superbia e morte di Senso, Attila Flagellimi Dei, la Storia
di Ottinello e Giulia sono indagate nelle loro diaspore. Anche a lui, a volte,
l’Oriente si rivela come la loro fonte. Ma in ciò egli è sempre cauto e
prudente. Né va dimenticata infine l’opera che il D’Ancona dedicò alle
Origini del teatro popolare, dove mette in rilievo i maggi, le befanate, le
zingaresche e tutte quelle produzioni popolari cui egli si era rivolto con
spirito di romantico, convinto che di tutti i poeti il popolo fosse pur sempre
il maggiore. Studioso della letteratura italiana, indagatore di fonti, artefice
anch’egli di ardite costruzioni, il D’Ancona con la sua opera e con la sua
attività vuole dimostrare che accanto alla cosiddetta letteratura dotta ne
esiste un’altra che merita di essere studiata e vagliata con la stessa serietà
della prima. E per quanto in Italia il culto della letteratura dotta fosse tale da
non agevolare la considerazione e l’avvento dell’altra, egli spianò in queste
ricerche la via a tutta una schiera di valenti e agguerriti discepoli, fra i quali
si deve soprattutto ricordare Francesco Novali, che approfondi, fra l’altro,
lo studio della poesia popolareggiante oltre che dell’iconografia ad essa
inerente, portando nelle sue ricerche una finezza di gusto non comune.

7. Comparetti

Nella stessa Pisa, e più precisamente nella Scuola Normale, il D’Ancona


intanto aveva trovato un grande collaboratore in un suo collega, Domenico
Comparetti, il quale, allievo del Weber, se pur coltivò con grande
preparazione le letterature classiche e le moderne, sentì vivo, come parte
integrante di esse, l’amore per tutto ciò che è popolare. Un suo biografo,
Giorgio Pasquali, dice infatti di lui a proposito del secondo volume su
Virgilio nel Medioevo, la cui prima edizione uscì nel 1872, che in esso si
sente l’influsso del D’Ancona, «col quale il Comparetti visse appunto in
strettissimo sodalizio». E aggiunge:

«Nei primi anni pisani cadono i lavori di filologia romanza, romantica e folkloristica, gli studi sui
dialetti neo-greci dell’Italia meridionale, il libretto su Edipo e la mitologia comparata, nel quale si
dimostra come la fantasia greca riversasse in motivi novellistici una sua idea morale; e molt’altro.
Già prima, nel 1862, nel suo più antico lavoro di epigrafia, greca, il Comparetti formula il problema
del sincretismo religioso greco-orientale. La collaborazione col D’Ancona è anche esternamente
evidente: con il D’Ancona egli si associa nella faticosa pubblicazione, durata tredici anni, di una
antica raccolta di rime italiane, contenuta in un codice vaticano. Il D’Ancona pubblica una redazione
italiana del libro di Sindibâd, il cosiddetto libro dei Sette Savi di Roma. Il Comparetti ne traccia la
tradizione; particolarmente… quella greca, ma stampa in appendice anche una redazione spagnola
antica. Ancora nel ’75 il Comparetti pubblica in una serie diretta dal D’Ancona una raccolta di
Novelline popolari italiane».

La serie del D’Ancona cui accenna il Pasquali è la collezione Canti e


racconti del popolo italiano, che il D’Ancona fondò e diresse con la
collaborazione dello stesso Comparetti allo scopo di compiere un’opera
nazionale che unificasse ed elevasse «il pensiero dei volghi delle diverse
provincie italiane». Ma oltre a questo scopo la collezione ne aveva un altro
più concreto: offrire agli studiosi del folklore italiano degli autentici
documenti. Il primo volume della collezione uscì nel 1871. Dieci anni dopo
si iniziarono a Parigi due collezioni: la Collection des chansons et des
contes populaires e Les littératures populaires de toutes les nations
(destinate ad accogliere un centinaio di volumi di grande interesse
documentario). Le Novelline popolari italiane, edite nella collezione che il
Comparetti dirigeva col D’Ancona, volevano essere un contributo alla
narrativa italiana. Ma come concepiva egli questa narrativa? In una lettera
del 24 aprile del 1870, il Comparetti scriveva a Giuseppe Pitrè:

«Come Ella sa bene la poesia popolare della nostra nazione varia assai in certe zone del nostro paese
e si mostra in queste per indole e per forme differenti. Quindi per quanto concerne i canti popolari
non v’ha dubbio che si possa, anzi si convenga, dare in volumi separati quelli di ciascuna provincia
od anche di più ristretta località. Non così per quanto concerne i racconti. Ormai è cosa di cui non si
può più dubitare che una quantità di quei racconti che i tedeschi chiamano Märchen ritrovasi diffusa
presso tutti i popoli d’Europa (senza dire di altri extraeuropei) e si ritrovano di certo o probabilmente
anche tutti ugualmente diffusi presso tutto il popolo italiano. Quindi, come Ella intende bene,
volendo pubblicare raccolte locali come per i canti, si corre il rischio, anzi si ha la certezza, di dare
molti volumi contenenti tutti un materiale narrativo nella massima parte identico… La meglio,
dunque, sarebbe di fare una raccolta generale intitolata Conti (o novelline) popolari italiani, dando
nel testo la versione migliore, più completa, di ciascun racconto tra quelle raccolte in varie parti
d’Italia da ciascun collaboratore e nelle note le varianti più degne di attenzione. Così hanno fatto i
Grimm per i racconti tedeschi e l’Afanasev per i russi».

E tre anni dopo, il 1° gennaio 1873, ribadiva in un’altra lettera al Pitrè


quella sua convinzione a proposito delle sue Novelline popolari italiane:

«La mia raccolta si comporrà di tre volumi dei quali il primo si comincerà a stampare fra un mese. Le
novelline saranno tutte ridotte in lingua comune salvo una o due per ciascuna provincia che saranno
pubblicate in dialetto. Darò le illustrazioni in fondo alla raccolta nell’ultimo volume e queste
conterranno le notizie su ciascuna novella e i confronti con le corrispondenti italiane e straniere. Darò
anche un saggio di bibliografia delle novelline di vari paesi pubblicate fin qui. Questa raccolta di
Novelline italiane è compiuta con uno scopo e con un metodo che deve distinguerla dalle raccolte
parziali di novelline lombarde, venete, sicule».

8. Poesia e novellistica popolare

Di questa progettata raccolta uscì soltanto il primo volume. Ma in esso il


Comparetti segue davvero il metodo dei Grimm e dell’Afanasev? Questi
ricostruivano il testo di una novella in base alle sue varianti. Il Comparetti
invece ci da delle varianti di un racconto quella che ritiene la migliore. Egli
è fedele al testo, insomma: ma, come il D’Ancona, il quale con candida
ingenuità rimproverava all’Imbriani (uno dei raccoglitori più seri e più
scrupolosi che abbia avuto in Italia il folklore poetico) di aver trascritto i
racconti della sua Novellata milanese stenograficamente, non comprende
che il materiale narrativo delle diverse regioni può essere identico nei suoi
temi, nei suoi motivi, non nella sua forma espressiva, anch’essa di volta in
volta opus novum. Il che, secondo lui, si noti bene, avviene invece nella
poesia popolare. Nel suo lavoro Il Kalevala e la poesia dei Finni, edito nel
1892, il Comparetti ecco infatti come caratterizza quella poesia, che è
poesia popolare per eccellenza:

«Il cantore, il laulaja ripete e crea ad un tempo; la massa dei canti che ha nella mente considera e
sente come cosa di tutti e sua; è quella il suo sapere, il suo esemplare, la sua maniera e ad un tempo il
suo ordigno nell’opera propria. Versi di un canto che noi diremmo lirico ei contesse con un canto che
diremmo epico o magico, e fa anche l’inverso: ei procede in ciò liberamente come chi impiega per
varie occasioni le parole, le frasi, le formule di un linguaggio che è proprietà di tutti e da tutti inteso.
Per questo diritto che i cantori sentono di avere, e assai usano, per la naturai vicenda pure che deve
subire una poesia commessa alla memoria e propagantesi solo oralmente, grandissimo è il numero
delle varianti che ciascun canto presenta, non solo differendo da cantore a cantore, ma anche un
cantore stesso non mai ripetendo due volte lo stesso canto in modo precisamente uguale, o anche
dando oggi legati assieme e combinati in uno canti che ieri dava separati e distinti. Così, l’assieme di
tutti i canti fin qui raccolti colle infinite loro varianti, appare come una massa di versi, di creazioni
poetico-fantastiche fluttuanti quasi e in istato perenne di trasformazione, di scomposizione e
ricomposizione. È questa la vera condizione naturale della poesia popolare di proprio nome…».

Ed è ovvio qui osservare che egli in gran parte faceva sue le idee di
Julius Krohn, cui fu legato da viva amicizia e di cui fu il primo in Italia a
far conoscere le opere. Ma la condizione naturale della poesia popolare non
è la stessa di quella della novellistica, che egli peraltro non fu alieno dallo
studiare secondo la teoria delle migrazioni e degli imprestiti?
Filologo preciso, scrittore raffinato, mente larga e aperta, anche il
Comparetti fu suggestionato dal fascino che si provava nel seguire di paese
in paese un racconto popolare, per trovarlo poi in un testo sanscrito, in una
redazione persiana, in una traduzione siriaca o greco-bizantina. E da questi
interessi nacquero le sue Ricerche intorno al libro di Sindibâd, edite nel
1870, dove egli traccia la tradizione di quel libro, indagandone oltre le
redazioni occidentali quelle orientali che sono da lui ricondotte a un testo
arabo del secolo X. In queste ricerche il Comparetti, pur riconoscendo
l’influenza che quelle redazioni ebbero sulla novellistica popolare, sostiene
però decisamente che la tradizione popolare può tramutare il contenuto di
qualsiasi libro. Né va dimenticato che in un altro saggio, Edipo e la
mitologia comparata, pubblicato qualche anno prima, aveva affermato,
opponendosi alle teorie mitiche di un discepolo del Müller, il Bréal:

«Il dire che per esprimer questi [concetti morali] la fantasia popolare siasi limitata a modificare,
rimodellandoli in senso morale, i miti originati dal mondo sensibile, e non abbia nulla espressamente
creato, è un assurdo che ha contro di sé il buon senso e i fatti. Le forze della fantasia umana,
particolarmente nelle epoche di minor cultura, sono ben lungi dall’essere condannate a quella
meschina parsimonia di produzione a cui taluni mitologi ridurrebbero quella mirabile facoltà
dell’uomo che Goethe ha giustamente chiamato mobile in sempiterno e sempre nuova».

Ma se queste furono le sue sagge premesse, il Comparetti nella prima


edizione del suo Virgilio nel Medioevo fu dell’avviso che l’Italia
scarseggiasse di produzione fantastica – tesi questa che fu poi condivisa dal
Graf nei suoi saggi folkloristici e in gran parte dal Di Francia nel suo libro
sulla Novellistica –, dimenticando così, come bene osservava il Neri, che
anche in quel libro egli aveva affermato che la leggenda di Virgilio «nacque
a Napoli» e di là «si era divulgata in ogni parte d’Europa». È vero, d’altro
lato, che tale indagine è viziata nel Comparetti da un difetto d’origine: dal
presupporre cioè napoletana una leggenda, la cui esistenza egli ritiene
documentata fin dal secolo XII, mentre sembra che essa invece sia
un’invenzione di chierici inglesi e tedeschi del secolo XIV, i quali hanno
trasportato a Napoli e a Roma dei motivi novellistici altrove diffusi.
Senonché, quali che siano le fonti, si può negare che tale leggenda,
comunque e dovunque inventata, appartiene anche al folklore napoletano?
Il Comparetti non esita in proposito ad affermare, con pieno convincimento,
che «il popolare si distingue dal letterario anzitutto per la natura e l’indole
sue e dei vari elementi suoi, sia qualsivoglia la condizione di chi lo riferisce
o vi crede o anche lo idea» e che pertanto una leggenda «sarà popolare,
quand’anche si riesca a provare che scaturì dalla fantasia di un chierico che
la scrisse». E allora non sarà popolare anche tutto ciò che il popolo
accoglie, purché lo accolga?
Vi saranno nel Comparetti, come vi sono, dubbi, incertezze, errori di
prospettiva. Ma fatto è che egli tanto nelle sue opere minori quanto in
quelle maggiori – il Virgilio e il Kalevala sono dei grandi affreschi, dove si
muovono nell’uno la vita popolare italiana e nell’altro, sullo sfondo delle
epopee, la vita popolare finnica – seppe avvicinarsi al folklore con lo
slancio di un grande maestro. Con questo risultato: che a lui, come del resto
al Nigra, al Rubieri e al D’Ancona, tocca il merito di avere affiatato la
cultura italiana con la cultura europea, realizzando quell’ideale che era stato
proprio dei romantici.
20. La lezione del Pitrè

1. Fede nel popolo

Nello stesso periodo in cui si svolgeva la fervida attività di un Nigra, di


un Rubieri, di un Comparetti, quando la problematica folkloristica era tutta
in fermento per il contributo che ad essa avevano recato e recavano un
Müller, un Benfey e un Paris, uno studioso italiano, di cui abbiamo già più
volte incontrato il nome, Giuseppe Pitrè, non solo partecipava a tale attività
di studi, ma ne diveniva il massimo artefice. In lui, uomo risorgimentale
come il Nigra, il Rubieri e il D’Ancona, si ritrovano la fede commossa di un
Percy, di un Herder e di un Arnim per le voci dei popoli; la consapevolezza
storica di un Bodiner e di un Möser nei confronti di quelle formazioni
spirituali cbe sono le tradizioni popolari; l’impeto patriottico e al tempo
stesso umanitario con cui, unendo alla fede commossa la consapevolezza
storica, i Grimm affrontarono lo studio del folklore del proprio paese. E
come i Grimm, anche il Pitrè, per quanto diverse siano state le condizioni
storiche dei rispettivi paesi, è dominato dalla medesima Rettungsgedanke,
di cui lo Herder aveva fatto un programma di lavoro per le generazioni
successive.
Frutto di tale Rettungsgedanke è l’opera principale del Pitrè, la
Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, la quale ci dimostra come
anche il Pitrè seppe essere siciliano e italiano, italiano ed europeo. Il che, si
noti bene, avveniva allora in altri campi, ove si pensi, ad esempio, che molti
scrittori e letterati a lui contemporanei fecero materia della loro arte le
regioni e il popolo, riuscendo ad essere contemporaneamente siciliani e
italiani, piemontesi e italiani, toscani e italiani, ma soprattutto italiani ed
europei.
Nel 1879, quando già erano state pubblicate le storie della poesia
popolare del Rubieri e del D’Ancona, in una sua conferenza su Zola e
l’Assommoir il De Sanctis ammoniva:

«Le lingue dotte, le lingue comuni, trattate dall’arte e quasi esaurite, sentono anch’esse il bisogno di
ritemprarsi nelle lingue del popolo più vicine alla natura, che ha passioni più vive, che ha impressioni
più immediate e che deriva il suo linguaggio non da regole, ma dalle sue impressioni. L’artista
cercherà e si approprierà tutto quel tesoro di immagini, di movenze, di proverbi, di sentenze, tutta
quella maniera accorciata, viva, spigliata, rapida, che è nei dialetti».

È questo, si è detto, in un certo senso, il manifesto letterario e la carta


profetica dell’arte di Verga e dei suoi epigoni. Ma in quel manifesto – le
stesse idee sono espresse dal De Sanctis in uno dei capitoli della sua
Giovinezza – che cosa c’è di diverso da quanto avevano affermato in
Germania lo Herder, in Francia Madame de Staël, in Russia il Karamzin,
nella stessa Italia il Berchet, e così via? Erano stati i romantici a immettere
nella poesia e nella narrativa il popolo, come protagonista di storia. Erano
stati i romantici, dai Grimm a Puškin, da Wordsworth a Glinka, a servirsi
del linguaggio, della letteratura o della musica popolare per ravvivare e
creare il loro linguaggio. E se in Italia tale letteratura – di cui allora
mancava peraltro una valida documentazione – non fu tenuta in
considerazione dal Manzoni, ecco invece, e le coincidenze non avvengono
mai per caso, che essa dominerà, dominata, la narrativa di un Verga: o
meglio la sua epopea, dove il popolo è, come nella Biblioteca delle
tradizioni popolari del Pitrè, il protagonista corale della sua fede e della sua
disperazione.
Lo stesso naturalismo dello Zola – cui a torto si riattacca il verismo di un
Verga – non si spiega se non alla luce stessa del Romanticismo, rinvigorito,
in alcuni dei suoi miti, dal Positivismo. I bassi centri della vita urbana – il
ventre delle grandi città – erano stati portati sulla ribalta dal secondo
Romanticismo. E lo Zola, preciso nella ricerca delle sue fonti quanto lo era
nel campo dell’antica letteratura il Paris, con la sua opera, se da un lato
aggiunge alla pagina gloriosa dell’epopea francese l’umile tragedia della
plebe abbrutita delle grandi città, dall’altro si propone di sollevare quella
plebe a dignità vera di popolo. Le fonti del Verga sono diverse. Eppure quei
due scrittori, così distanti l’uno dall’altro (medicale-prosastico, il primo,
come l’ha definito il Russo, epico-lirico il secondo), non hanno in comune
un’unica fede?
Non v’è dubbio, infatti, che così come il naturalismo di uno Zola e il
verismo di un Verga proseguono il culto del vero professato dei romantici,
egualmente i miti che si vanno affermando nel campo delle lotte politiche e
sociali riflettono la medesima esigenza di un radicale rinnovamento
dell’uomo, di una umanità migliore, la medesima fede nell’uomo e nella sua
perfettibilità, che può vedersi nei pili fervidi apostoli del periodo romantico.
E sotto questo aspetto che cosa si propone di darci il socialismo, il
socialismo anche del Marx – si pensi all’insistente motivo del denaro
nell’opera dello Zola e a quello della roba nell’opera del Verga – se non ciò
che deriva dai suoi presupposti scientifici?
La storiografia romantica produceva insomma i suoi frutti più saporosi in
tutti i campi. Anche in quello della musica. Si pensi infatti a Wagner, il
quale faceva musica, canto e poesia di quei miti che erano stati cari al cuore
degli Schlegel e dei Grirnm, del Müller e del Benfey. In una lettera a un suo
amico pittore, che è del giugno del ’75, il musicista russo Mussorgskij
esclamava: «Il popolo, ecco ciò che voglio rappresentare». E lo
rappresentava, lo cantava, con la fede commossa di un Puškin, rinnovando
il messaggio di Glinka, come Wagner rinnovava quello di Weber, di
Schubert e di Schumann. Né si deve dimenticare infine, per tacere degli
altri paesi, che in Italia nelle opere di un Bellini e di un Verdi si incontrano
spesso dei temi che, pur rilevando l’impronta tipicamente originale del loro
genio, accusano una origine schiettamente popolare.
Il mito del popolo continua ad essere una fede, insomma. Questa fede si
esprimeva ugualmente come continuazione, anche in questo campo, di
quella che era stata la fondamentale esigenza antiletteraria, e cioè
antiretorica, del Romanticismo. Perché il popolo era pur sempre, contro i
convenzionalismi vieti e abusati, il simbolo della verità e della virtù, del
lavoro e del progresso: anche del progresso, di questo mito che di sé
informa tutto il corso dei secoli XVIII e XIX. Ma nello stesso tempo deve
osservarsi che in tanto si rivalutava il mito del popolo e di ciò che è da
intendersi per popolare, in quanto in realtà tramontato e superato era nella
coscienza dei più, nella nuova cultura, intendiamo, e nelle diverse esigenze
sociali, politiche, economiche, quel mondo che era chiuso nei limiti della
provincia o nei più ristretti limiti di una tradizione remota o lontana. E così
a esso si guardava con nostalgia e con rimpianto e con l’accorato amore di
chi l’avrebbe voluto migliore, in quanto veramente lo si sentiva diverso e
lontano: diverso e lontano dalle diverse grandi correnti di una cultura e di
una vita che ormai procedeva e non poteva non procedere per altre vie, che
non fossero quelle del passato. Così il mito della provincia costituisce in un
certo modo il superamento della provincia. E questa è la ragione per cui un
Verga – come il Pitrè – non può non concepirsi se non in una cultura che
non è siciliana, bensì italiana ed europea.

2. Le opere maggiori del Pitrè: la Biblioteca, l’«Archivio», le Curiosità

La Biblioteca delle tradizioni popolari – atto di nostalgia e di fede –


comprende venticinque volumi e fu pubblicata dal 1871 al 1913. Mezzo
secolo di lavoro. Pitrè non era un letterato, anche s’egli, giovane, amò
scrivere una serie di Profili biografici dedicati a illustri personalità del
tempo. Non era un filologo, uscito da una severa disciplina accademica. Era
un medico. Come Zola. Eppure questo medico, il quale aveva iniziato la sua
professione nei quartieri popolari di Palermo mentre infuriava il colera,
seppe essere insieme letterato e filologo, tanto è vero, ad esempio, che
Giovanni Verga non esitava a esaltare le sue pagine che rievocavano la vita
popolare siciliana, mentre Ernesto Monaci lo poneva accanto ai maggiori
filologi italiani del tempo.
Nella sua Biblioteca, il Pitrè è fedelissimo nella raccolta dei materiali.
Oculata la sua classificazione. Ampio il suo campo di indagine. La
Biblioteca, cui spetta il merito di aver salvato uno fra i più ricchi patrimoni
tradizionali che un popolo possa possedere, è però qualcosa di più di una
raccolta: è il punto di incontro dove sono convogliate le esperienze e le
conquiste che si erano fatte nel campo del folklore europeo. Pitrè, iniziando
le sue raccolte, vuol conoscere anzitutto quanto si era fatto o si veniva
facendo in Europa su ogni argomento oggetto della sua stessa raccolta. Le
sue prefazioni non si limitano comunque a tracciare lo stato attuale degli
studi. Egli interviene nella discussione dei vari problemi che essi suscitano.
E le sue prefazioni, riunite insieme, costituiscono un vero e proprio trattato
in cui i molteplici problemi folkloristici sono passati al vaglio del suo
giudizio e direi anche del suo buon senso.
Ad affiancare l’opera della Biblioteca, il Pitrè, nel 1882, si accinse a
dirigere, insieme a Salvatore Salomone-Marino, l’«Archivio per lo studio
delle tradizioni popolari». Dice, fra l’altro, il programma:

«I recenti progressi della Mitologia comparata e della Demopsicologia, e l’interesse ogni dì crescente
per le tradizioni popolari, fanno ormai sentire il bisogno di una Rivista, nella quale gli studiosi delle
varie Nazioni si raccolgano ed abbiano un mezzo di comunicarsi e diffondere i loro studi e le loro
raccolte. Modesto nei suoi intendimenti, l’«Archivio» si propone di illustrare e mettere in evidenza le
svariate forme della letteratura popolare e le molteplici manifestazioni della vita fisica e morale de’
popoli in genere e dell’Italia in ispecie… Una rivista ed un bullettino bibliografico renderanno conto
delle nuove pubblicazioni sull’argomento; e nulla sarà trascurato perché i lettori abbiano piena
informazione del movimento contemporaneo degli studi delle tradizioni del popolo».

Ma l’«Archivio», a dire il vero, fu tutt’altro che modesto nella sua


realizzazione, ove si pensi che esso, mettendo in contatto gli studiosi per
l’approfondimento di un comune lavoro, costituì un’attiva palestra dove
furono dibattuti tutti i problemi del folklore. Si aggiunga che i bollettini
bibliografici del Pitrè, se da un lato venivano completando le prefazioni
della sua Biblioteca, dall’altro costituivano una vera e propria introduzione
alla storia del folklore europeo, criticamente vagliata.
Nel 1885 il Pitrè, ansioso di dare il massimo sviluppo ai suoi studi, fonda
inoltre, con la collaborazione di un altro folklorista siciliano, Gaetano Di
Giovanni, la collezione delle Curiosità popolari tradizionali, che
comprende sedici volumi, ciascuno dei quali reca un notevole contributo
allo studio delle tradizioni popolari. E la Biblioteca, l’«Archivio», le
Curiosità, prescindendo dalle sue molte altre opere (ad esempio: le Novelle
popolari toscane e l’esemplare Bibliografia delle tradizioni popolari
italiane), sono come le colonne di un tempio da cui il Pitrè profuse, con la
voce del popolo, il suo insegnamento inteso a darci una chiara visione
intorno alla natura del folklore.

3. Il folklore come storia nel concetto del Pitrè

Punto di partenza di tale insegnamento: la Sicilia e il suo folklore, ma


soprattutto il concetto che lo stesso Pitrè ebbe della storia. Ancor giovane,
fin dal 1864, quando aveva scritto i Profili biografici contemporanei, il
Pitrè aveva infatti osservato:

«La storia non dovrebbe essere un elenco di uomini, dove si registrano le date delle loro strepitose
azioni, ma la rivelazione delle idee, delle passioni, dei costumi e degli interessi civili, insomma della
vita di un popolo, di una nazione».

E qualche anno dopo, nel suo Studio critico sui canti popolari siciliani,
aggiungeva:

«La storia del popolo si è confusa con quella dei dominatori…; della sua storia è voluta farsene una
cosa stessa con la storia dei suoi governi, senza tener presente che egli ha memorie ben diverse di
quelle che così spesso gli si attribuiscono si dal lato delle sue istituzioni e sì da quello degli sforzi
prepotenti da lui durati a sostegno dei suoi diritti. Il tempo di ricercare quelle memorie, di studiarle
con pazienza, di fecondarle con amore è venuto anche per noi. Il filosofo, il legislatore, lo storico,
che cercano di conoscere intero questo popolo, sentono oggimai il bisogno di consultarlo nei suoi
canti, nei suoi proverbi, nelle sue fiabe, non meno che nelle frasi, nei motti, nelle parole. Accanto alla
parola sta sempre il suo significato, dietro il senso letterale viene il senso misto e l’allegorico: sotto la
strana e diversa veste della fiaba si troverà adombrata la storia e la religione dei popoli e delle
nazioni».

È evidente che qui il Pitrè si riattacca al concetto che della storia aveva
divulgato il Voltaire e che già nel campo specifico del folklore era passato
sui banchi di prova del Bodmer, del Möser, dello Herder, e soprattutto dei
Grimm. Ciascun volume della Biblioteca vive appunto alla luce di tale
concetto che ne rischiara il programma. Esaurito il quale, il Pitrè non esita a
rivendicare a sé il merito di storico che si era appunto imposto, tanto è vero
che nell’ultimo volume della Biblioteca, vale a dire ne La famiglia, la casa
e la vita del popolo siciliano, egli esclama commosso:
«Un paese che fino ad ieri visse in sé e per sé, sotto dominazioni straniere, a contatto solo di non
sempre gradita gente, ciascuna delle quali lasciò tracce vivissime del suo passaggio e delle sue
fermate; un paese, dove civiltà si sovrapposero a civiltà (se pure furono tutte degne di questo nome) e
dove si formarono come tanti strati di tradizioni, storia parlata e non mai scritta, questo paese offre
materia non ordinaria d’indagine e di critica. Chi avrà vaghezza di seguire, uno per uno, gli
argomenti qui trattati, potrà darsi ragione di certe forme che resterebbero, altrimenti, mute e isolate.
Sono, a chi ben guardi, tanti anelli di una catena di costumi, di pratiche, di credenze, onde spirito e
materia si esplicano insieme».

Nel compilare la sua Biblioteca il Pitrè aveva avuto dunque uno scopo:
cercare la storia della Sicilia dove nessuno l’aveva ancora cercata.
Bisognava salvare anche in Sicilia – ecco l’essenza stessa della sua
Rettungsgedanke – tutto un patrimonio che andava scomparendo, il
patrimonio del popolo. E ciò, in un momento in cui la Sicilia entrava in una
compagine più vasta, l’Italia, serviva a dimostrare l’individualità storica
della Sicilia stessa. Né v’è dubbio, sotto questo aspetto, che della Sicilia il
Pitrè fu l’appassionato filologo, ma soprattutto lo storico, il geniale
illustratore di tutto un mondo, nel quale si riflettono gli echi delle pili
antiche civiltà.
Può sembrare strano, tuttavia, che egli, quasi alla fine della sua carriera,
abbia finito col battezzare la sua disciplina con un termine che abbiamo già
incontrato nel programma dell’«Archivio»: quello di demopsicologia. Ma la
demopsicologia, come la concepì il Pitrè, fu in effetti qualcosa di diverso da
ciò che noi chiamiamo o possiamo chiamare storia delle tradizioni
popolari?

4. La poesia popolare come problema


Chiarita, d’altro lato, la natura storica del folklore siciliano – il che era e
voleva essere anche una presa di posizione per intendere la materia stessa
del folklore dovunque esso viva –, il Pitrè man mano che procedeva nel suo
lavoro, si assunse il compito di chiarire a se stesso la capacità creativa di
quegli individui che formano il popolo e che sono, insomma, i veri creatori
del folklore. Ed è qui che le sue ricerche, se pur si muovono
apparentemente su gli stessi binari di un Nigra, di un D’Ancona o di un
Comparetti, riescono tuttavia a illuminare più vivamente molti problemi
inerenti alla letteratura popolare.
Così, per quanto riguarda la nascita e la diffusione del canto popolare,
egli precisa:

«L’avviso più comune è che i canti popolari traggono nascimento da questo o quel poeta rustico, che
nei paesi e nei villaggi mancano di rado: ma né il loro nome, né il quando, il dove, né il perché del
canto ci si conserva. Questa oscurità che pare un difetto è la vera ragione per cui il canto diviene
popolare. Se il popolo conoscesse l’autore di una canzone, forse non l’imparerebbe, peggio se sa di
persona dotta. Il quando e il dove nasca un canto se non si deduce da qualche suo accenno non può
indovinarsi. Il canto di un solo diventa il canto di tutti, perché nascendo trovasi nelle condizioni più
favorevoli a lunga esistenza; vi rimane perché risponde agli affetti naturali, ai costumi, alle tradizioni
del popolo. Un bel giorno in mezzo ad una piazza, o nel fondo oscuro di un chiasso, o all’aperto dei
campi, si alza una bella canzone non mai fino allora udita. Chi l’ha fatta? Chi l’ha potuta fare?
Nessuno lo sa, nessuno cerca di saperlo; l’autore rinunzia volentieri alla compiacenza di essere
conosciuto come poeta; il popolo che ne rispetta la modestia, ne premia il merito col ritenere per sé,
col tramandare ad altri simili canti» (Studio sui canti popolari, 113).

Né impostato in tal modo il problema, il Pitrè si preoccupa di vedere


qual è la cosiddetta origine della poesia popolare come essa veniva
concepita da un D’Ancona. La teoria del D’Ancona sull’origine della poesia
popolare italiana gli sembra prematura. Egli non nega che effettivamente le
comunicazioni, le guerre, i pellegrinaggi e le feste abbiano potuto
determinare la diffusione di un notevole numero di canti. Opera utilissima,
perciò, egli afferma, quella di chiarire se un canto sia venuto in Sicilia dalla
Toscana o se abbia fatto il cammino inverso, ma ancor più utile vedere se
questo canto risponda al sentire dei siciliani o dei toscani. I canti popolari,
commenta poeticamente il Pitrè, «trapiantati fuor del suolo natale sono
degli ospiti che s’invitano al focolare della famiglia dopo di averli vestiti
d’altre vestimenta».
Allo stesso modo, e per le stesse ragioni, egli crede assai poco all’origine
letteraria dei canti popolari. Per lui, come dice nei suoi Studi di poesia
popolare:

«Canto popolare… è quello che, nato in mezzo al popolo, porta il marchio dell’assoluta ignoranza
dell’autore, quello che nella sua forma non ha concetto, non verso, non frase, non parola che esca
dalla mente, dalla metrica e dal vocabolario della bassa e indotta gente, quello che corre infine
anonimo e tradizionale».

E nello stesso volume, dopo avere compiuto un rapido raffronto fra la


poesia di Antonio Veneziano e alcuni strambotti siciliani, aggiunge:

«Secondo ci è dato raccogliere da ottocento e più ottave siciliane stampate, la poesia amorosa del
Veneziano si lascia a bella prima notare per la grandezza di stile, acutezza di concetto, dolce
espressione di affetti, nobiltà e novità di immagini. Di profondi pensieri filosofici non ha difetto, e
con rara felicità d’arte li associa alle vaghe e gentili grazie della immaginativa… Parrai poi di dir
tutto intorno alla forma estrinseca di lui, dicendo che essa è della elevatezza voluta dal concetto, non
avendo parole per quanto siciliane, che possano appuntarsi di comunale o di plebeo…»

È un mistero, egli perciò si domanda, come tale poesia possa essere


ritenuta fonte degli strambotti popolari siciliani. Nel suo Studio critico sui
canti popolari ecco invece come gli era apparsa l’autentica poesia popolare:

«Parto di vergine fantasia, cui le scuole non degnano d’uno sguardo, ma che le scuole non sanno fare,
essi [i canti popolari] racchiudono tanto tesoro di affetti, tanta copia di pensieri e di immagini che a
saperli parcamente imitare ogni studioso, dal men facile verseggiatore al più ispirato poeta, ne
ritrarrebbe bellezze inestimabili… Schietto linguaggio nell’amore, nella gelosia, nel dispetto, nella
gioia tra le pareti domestiche, sotto estraneo tetto, in mezzo a’ ceppi dell’ergastolo, e in qualunque
stadio di fortuna o stato dell’animo o condizione della vita: il canto è la più vera, la più sentita
espressione dell’indole del popolo…»

E in queste sue parole si risente certo l’eco di teorie preroman-tiche e


romantiche. C’è tuttavia nel Pitrè (come, del resto, c’è nel D’Ancona, nel
Rubieri e nel Comparetti) il tentativo di definire, con un criterio che
diremmo psicologico, la differenza, da lui ritenuta essenziale, fra le due
forme di poesia. E ciò perché, a suo avviso, la poesia popolare, quali che
siano le sue origini, costituisce una forma di letteratura in cui tutto acquista
e ha un carattere particolare.

5. Portatori e creatori del folklore

In tal modo il Pitrè sentiva il problema della poesia popolare come un


problema essenzialmente estetico. Né diverso è per lui il problema della
novellistica, in merito alla quale anzi si pone in netto contrasto tanto col
D’Ancona quanto col Comparetti. In una lettera, inviata a Ernesto Monaci
nel dicembre del 1873, par quasi che egli voglia rispondere in particolar
modo a quei suoi illustri compagni di lavoro. E le sue affermazioni non
lasciano dubbi:
«Ora mi trovo altri e non meno preziosi materiali di novelle siciliane… Che bellezza, amico mio!
Bisogna capire e sentire il dialetto siciliano per capire e sentire le squisitezze delle fiabe che son
riuscito a cogliere di bocca a una tra le varie mie narratrici. Questa è Agatuzza, una di quei tipi che
si incontrano di rado: io mi sento annichililo di fronte a lei. – Il suo fraseggio è il fraseggio siciliano
modello, e la sua parola così ricca e propria, che non v’è arte o mestiere o condizione di vita cui essa
non sappia trattare o ritrarre con voce adatta. Tutto questo poi mi fa ammirarla, ma mi pone in grande
imbarazzo incontrandomi a ogni pie sospinto in vocaboli e frasi nuove affatto a’ voca-bolari
nostri…»

E nella prefazione delle Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani


aggiunge, sempre in merito alla Messia (Agatuzza):

«Della mimica nelle narrazioni… è da tener molto conto, e si può esser certi, che a farne senza, la
narrazione perde metà della sua forza ed efficacia. Fortuna che il linguaggio resta qual è, pieno di
inspirazione naturale, a immagini tutte prese agli agenti esterni, per le quali diventano concrete le
cose astratte, corporee le soprasensibili, vive e parlanti quelle che non ebbero mai vita o l’ebbero solo
una volta».

L’apporto vivo ed efficace delle donne nella rielaborazione novellistica


veniva riconosciuto allora anche da un infaticabile studioso del folklore
francese, Paul Sébillot, il quale, nel 1892, in un suo saggio pubblicato nella
«Revue des traditions populaires», che egli dirigeva, affermava:

«La letteratura orale ha, passando sulle bocche delle donne, un fascino e una ingenuità, a volte una
forma felice, che gli uomini raggiungono più raramente. Quasi tutti i grandi raccoglitori di racconti
constatano che le migliori e le più helle versioni sono state trasmesse loro da donne: i fratelli Grimm,
F. Luzel riconoscono che i racconti più completi e più felici sono dovuti a delle popolane e che la
sicurezza della loro memoria, come la forma della loro narrazione, è superiore a quella degli uomini.
Una lunga esperienza fatta con le narratoci dell’alta Bretagna conferma quanto sopra».

La differenza fra i Grimm e il Pitrè consiste nel fatto che il Pitrè non si
limitava al riconoscimento di quell’apporto, ma seguendo il sistema già
inaugurato in Russia dallo Hilferding, trascriveva e quindi pubblicava il
testo con la massima esattezza. Nel caso specifico, il testo dialettale.
Sembrava, del resto, al Pitrè che, traducendo, come voleva il Comparetti, i
testi dialettali delle novelle, si annullava o comunque si trasformava la
personalità stessa dei narratori. Egli intuì con chiarezza che una novella, se
è popolare, lo è anzitutto perché, pur svolgendosi in una cornice
tradizionale, in mezzo a luoghi comuni, rivela la personalità (popolare) del
narratore, il quale trasforma le sue stesse fonti.

6. Sull’origine delle fiabe e degli indovinelli

Anche l’esame di queste fonti è affrontato, inoltre, dal Pitrè con la


massima serenità di giudizio. Nel Discorso che precede la raccolta delle
Fiabe egli osserva:

«Le nostre fiabe sono documenti della parentela tra le razze indo-europee e tra’ diversi rampolli di
codeste razze, documento che tanti secoli, tanti popoli e tante generazioni non hanno finora distrutto
od attenuato, ma che anzi il volgere dei tempi ha reso più solido e più duraturo. Fatto memorabile
codesto nella storia dell’Umanità, che mentre popoli e nazioni intere sono quasi scomparsi… e le
fredde ali del tempo hanno perduta persino la memoria delle gesta più clamorose, queste novelline
infantili vivono a testimoniare un’antichità fuori d’ogni calcolo remota».

Così ecco, anche davanti a lui, da una parte il Müller e dall’altra il


Benfey. È vero, egli però subito aggiunge, che in molte fiabe noi troviamo
avanzi di miti primitivi, ma questo non significa che in ogni racconto del
popolo vi debba essere la continuazione di un mito, ove si pensi che «il
voler riconoscere dappertutto ciò che coscienziose indagini potrebbero
provare solo per un numero di fiabe è un errore fatale agli studi, i quali
vogliono procedere senza preoccupazioni e senza preconcetti».
Il Pitrè non è alieno dal credere che un certo numero di fiabe possa avere
avuto un’origine orientale. In questo caso bisogna riconoscere che tanto i
maomettani quanto i buddisti propagarono le novelle indiane nell’Africa,
nell’Asia e nell’Europa: che la fonte di questa «propaganda» è dovuta non
solo ai libri, ma anche alla tradizione orale; e che le novelle, apparse nella
letteratura europea, passarono nel popolo e, da questo trasformate, di nuovo
nella letteratura, e quindi nel popolo, e così via, come una fiumana che
nessun argine potrà mai fermare nel loro corso violento e tempestoso. La
Sicilia, per la sua stessa posizione geografica, doveva aver accolto
indubbiamente racconti e leggende della Persia, della Grecia, e dell’Arabia
per trasmetterli anche al continente europeo; ma ciò – bisogna chiedersi –
esclude che in Sicilia, come altrove, questi racconti e queste leggende non
abbiano ricevuto qualcosa dalla fantasia dei narratori? E questo qualcosa –
ecco il concetto della rielaborazione popolare affacciarsi continuamente alla
mente del Pitrè – non è in fondo il loro stesso farsi, che è quanto dire la loro
effettiva concretezza storica?
Identico il problema per quanto riguarda i proverbi. Nell’introduzione al
primo volume dedicato ai Proverbi siciliani il Pitrè osserva anzitutto che i
caratteri esterni di tali componimenti sono: la brevità, la popolarità, il
metro, la rima, l’allitterazione. Nessuna indagine già compiuta è da lui
trascurata per stabilire quei caratteri che si ritrovano nelle civiltà classiche e
nelle odierne popolazioni civili. Ma la sua indagine assume un carattere
nuovo e originale quando egli esamina il metro e la rima dei proverbi:
indagine che lo conduce alle forme stesse del proverbio rese valide
esteticamente.
Dopo aver passato in rassegna la rima con la quale il proverbio si riveste,
il Pitrè osserva: «L’inclinazione verso la rima finisce talora in una semplice
assonanza, come nei proverbi portoghesi e spagnuoli». Così, ad esempio,
egli ammette, per quanto il suo linguaggio sia tutt’altro che preciso, «che
l’espressione poetica, caratteristica per le sue ellissi, per il suo laconismo, è
forma relativamente artistica, che lo spirito popolare, in certe occasioni
naturalmente innalzato, trovò e sostituì all’espressione ordinaria».
Nell’intuire queste forme, sempre più chiara appare al Pitrè l’origine
delle produzioni popolari; sicché egli osserva a proposito dei proverbi, che
«la locuzione primitiva» la quale «condusse al proverbio» fu individuale, e
«non già di quell’ente collettivo che si chiama popolo, il quale di sua
natura non è inventore». Ricordando un proverbio greco: La parola esce da
un sol labbro e arriva a mille, conclude: «Solo qualche individuo meglio
dotato degli altri è creatore, inventore, iniziatore»; ma «il nome di questi
autori di proverbi si è perduto, perché del fattore d’un proverbio il popolo
non tiene il conto che gli eruditi tengono del fattore di una sentenza».
Gli stessi concetti troviamo espressi o meglio ribaditi nel suo volume
sugli Indovinelli dubbi, scioglilingua del popolo siciliano. «L’origine di
certi enigmi», egli scrive in questo volume, «è un enigma esso stesso che
non ha, ma forse potrà avere, il suo Edipo; giacché le vie per le quali essi
poterono, per popoli e per razze diverse, per meati occulti e ignoti,
diffondersi, sono ancora di là da indagarsi, se pur indagate si riuscirà a
rintracciarle». Senonché, augurandosi questo nuovo lavoro, ammoniva:
«Qui non si tratta già di pura e semplice curiosità scientifica, e molto meno
di un passatempo da gente sfaccendata: si tratta di monumenti di
archeologia – mi si passi la parola – del pensiero del popolo; i quali sono
anche documenti di letteratura e di storia sociale contemporanea, perché
tradizione viva e palpitante».
Era la prima volta, in Italia, che i proverbi e gli indovinelli venivano
considerati come qualcosa di più che semplici documenti linguistici. Essi
sono, si, documenti di letteratura; ma non dimentichiamo, aggiunge subito il
Pitrè, che sono anche documenti di storia sociale. Come i canti, così le
favole. E in tal modo la letteratura popolare diventava parte integrante della
stessa etnica tradizionale.

7. Unità del folklore

Nello studiare i prodotti della letteratura popolare, il Pitrè senti subito


che questo studio non poteva essere fine a se stesso. L’opera che in quel
campo avevano svolto un Nigra, un Rubieri, un D’Ancona, così ricca di
insegnamenti e di conquiste, aveva un limite: cioè rimaneva circoscritta
dentro i confini di quella letteratura popolare che allora, in un modo o in un
altro, era indagata in funzione della mitologia, della letteratura comparata e
della filologia. È vero che un Nigra e un Rubieri avevano dato al folklore
letterario un ampio respiro che già ne rivendicava l’autonomia. Ed è vero
altresì che anche il D’Ancona e il Comparetti riconobbero, senza dubbi e
incertezze, gli ineliminabili valori che il folklore dichiara. In effetti però
essi, seguendo la stessa via percorsa da un Diez, da un Paris, da un Rajna, si
erano allontanati nel campo del folklore da quella tradizione di studi che
aveva già trovato i suoi massimi esponenti nei fratelli Grimm. Per costoro il
folklore s’era posto si come un problema di filologia che si risolveva nella
letteratura e nella storia del proprio paese, ma aveva anche rappresentato un
fenomeno unitario, in cui letteratura popolare ed etnica tradizionale si
integravano a vicenda per chiarirci molti aspetti di quella letteratura e per
darci un quadro completo di quella storia.
È a questa tradizione, invece, che in Italia si riattacca il Pitrè, il cui
merito non sta soltanto nell’avere rivendicato la natura storica e poetica dei
componimenti popolari, ma nell’aver compreso che canti, novelle, proverbi,
indovinelli rimangono organismi senza vita, pezzi filologici, rami stroncati
dall’albero, se non vengono inseriti nel costume che tutti li armonizza e li
vivifica. Lo stesso Pitrè nel suo Studio critico sui canti popolari aveva detto
esplicitamente:

«Io parto dal principio che ogni genere di poesia popolare debba andar preso qual rivelazione del
sentire speciale dell’individuo del popolo da una parte, e dall’altra dell’incivilimento dell’individuo e
del popolo che la rivela. I canti popolari, disse Herder, sono gli archivi del popolo, il tesoro della sua
scienza, della sua religione, della teogonia e cosmogonia sua, della vita dei suoi padri, dei fasti della
sua storia; l’espressione del suo cuore, l’immagine del suo interno, nella gioia e nel pianto, presso il
letto della sposa e accanto il sepolcro. Laonde non è a maravigliare se Diodoro Siculo e Plutarco
versi di poeti rapsodi avessero citato a testimonio di costumi-e di consuetudini antiche; e se Paolo
Diacono delle tradizioni dei suoi conterranei avesse fatto suo prò per la storia primitiva dei
Longobardi; né da biasimar poi coloro che nel dettar quindi innanzi la storia, ogni fatto, ogni
avvenimento cercano illustrare colla storia della vita del popolo, colle leggi, colle usanze, coi dialetti,
coi proverbi della nazione».
E nella seconda edizione (1891) dei Canti popolari precisava ancor
meglio:

«Nei canti…, osservandoli attentamente, vi si trovano ascosi tesori inestimabili. Il canto è altra
sorgente di tradizioni rivelando, nello stretto significato del vocabolo, costumi ed usanze
particolari».

E questo fu sempre il suo specifico metodo di lavoro: non considerare


mai la letteratura popolare in se stessa. Egli, del resto, e ciò lo testimonia la
sua Biblioteca, comprese che per narrare la storia e la civiltà del popolo
siciliano era necessario studiare non solo le produzioni poetico-letterarie,
ma abbracciare la vita tutta di esso. Il popolo insieme coi suoi canti, ha i
suoi costumi, insieme con le sue novelle le sue feste, insieme coi suoi
proverbi le sue credenze: anelli che reciprocamente si legano, foglie di un
albero che affonda le sue radici nel passato e dal passato trae la linfa del suo
avvenire.
La «storia parlata e non mai scritta» della sua Isola sarebbe rimasta però
«monca», così egli stesso scrive nell’avvertenza che precede il volume
Spettacoli e feste popolari siciliane, «se non corroborata e arricchita dalla
tradizione siciliana quale corse e fu raccolta ne’ secoli passati si possa
comprovarne la continuità per riportarla alla sua origine e ai tempi lontani».
In questo volume il Pitrè ci fa conoscere che le fonti alle quali egli ha
attinto per le sacre rappresentazioni sono la tradizione, i libri e i manoscritti,
mentre per le feste s’è servito, ancora una volta, delle tradizioni orali «in
tutta l’accezione del vocabolo: leggende, fole, canti, proverbi, usi, credenze,
superstizioni; elementi tutti, per chi li consideri, della vita popolare e
manifestazioni di essa».
Anche nello studio di tutti questi documenti il Pitrè è attento e
scrupoloso. Testi orali, ricerche di archivio: padronanza assoluta del metodo
storico-filologico. Ma si esaurisce in ciò tutto il suo lavoro? In realtà il
metodo storico-filologico in ogni ricerca del Pitrè fu un mezzo e non un
fine, tanto è vero, ad esempio, che mentre negli studi stessi del D’Ancona
sul teatro si stabiliscono schemi spesso a carattere evoluzionistico, il Pitrè
non si preoccupa affatto di tali schemi. A lui la rappresentazione sacra, oltre
che come documento poetico o comunque letterario, interessa come azione
spettacolare, che è quanto dire come tradizione oggettiva. Questa è la
ragione per cui egli fa della sacra rappresentazione un preludio delle feste e
degli spettacoli, attraverso i quali cerca di penetrare nell’anima del suo
popolo, di chiarirla e di approfondirla in tutti i suoi aspetti.
Il Pitrè vide chiaramente l’unità delle tradizioni popolari. Nel primo
volume degli Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano,
afferma:

«Una distinzione di usi e costumi, di credenze e pregiudizi non è facile quando si voglia illustrarsi,
come io mi son proposto, la vita fisica e morale del popolo. L’uso molte volte si confonde e si perde
nella credenza, e la superstizione spesso è il risultato ultimo di una costumanza. Provatevi a
descrivere gli usi nuziali, i natalizi, i funebri, e vi troverete di fronte ubbie che non potrete da quelli
staccare senza crederle monche e sfigurate».

Così lo studio delle tradizioni popolari si spogliava dei caratteri


particolari o comunque particolaristici dentro i quali era stato contenuto.
Ciascuna produzione popolare fino allora era stata studiata, in fondo, per
conto suo. Il Pitrè ne rileva l’errore. Ed è con lui, pertanto, che in Italia lo
studio delle tradizioni popolari, di tutte le tradizioni popolari, raggiunge una
sistemazione totale e organica.

8. Pitrè e il metodo comparativo

In questo studio, a cui è di base una metodologia storicistica che


rivendica la personalità dei portatori del folklore, il Pitrè non ci nasconde il
grande valore che assume la comparazione. Nelle sue pagine corre
insistente una premessa: che le tradizioni siciliane sono l’eco di antiche
civiltà, monumenti archeologici del pensiero, reliquie del passato. Ma
quando da queste affermazioni egli passa alla effettiva comparazione in
modo da vedere fino a qual punto le tradizioni popolari sono reliquie, qual è
il suo atteggiamento?
Nell’affrontare l’indagine della letteratura popolare siciliana, in special
modo della novellistica, dei proverbi e degli indovinelli il Pitrè mette spesso
in rilievo, sia pure con molta prudenza, quale valore ebbero nel mondo
antico le tradizioni popolari, istituendo così un cauto parallelismo tra la vita
popolare antica e quella contemporanea. Il mondo pagano gli si rivela
soprattutto quand’egli affronta le tradizioni oggettive. Senonché le
comparazioni istituite dal Pitrè sono veramente efficaci? Oppure esse
rimangono allo stato di abbozzo come lo sono, peraltro, nei volumi delle
Fiabe, dei Proverbi e degli Indovinelli?
In una sua lettera del luglio 1876 un illustre mitologo, l’Usener, aveva
scritto al Pitrè:

«Non saprei come abbastanza caldamente raccomandarle, data la particolare condizione nella quale
ella è incontrastato padrone di raccogliere tutto da ogni campo e di trarre lutto nel cerchio della sua
osservazione, anche quelle cose che lei facilmente potrebbe mettere da parte perché navigano alla
superficie del popolino come, per esempio, le diverse manifestazioni di superstizioni e le locali forme
del culto religioso. A tal riguardo si può comprendere che in quasi tutte le località si sono conservati
notevoli istruttivi riti di paganesimo».

Ed ecco che il Pitrè, il quale tutto aveva raccolto e veniva raccogliendo,


riprende quel discorso sugli Spettacoli e feste:

«Fu detto e ripetuto che la maggior parte delle credenze e degli usi popolari di oggi sono né più né
meno credenze e usi antichissimi venuti a noi con le teogonie di Grecia e di Roma… Vuoisi che la
festa della Circoncisione coincida con quella latina delle Ciurmali in onore di Giano, con cui si
apriva il mese di gennaio; che la Candelora ricordi i Lupercali, cerimonia romana de’ primi di
febbraio, di cui una parte di usi romani passò addirittura in quelli del Carnevale, benché siavi chi la
ritenga una continuazione della festa di Proserpina… Noi meniamo in giro la vecchia strega, la
vecchia Befana, la Carcavecchia, la vecchia di Natale, e la inseguiamo, e i romani nella vigilia degli
Idi menavano per Roma cacciandolo per fuori le mura Mamurio Veturio, il vecchio inverno, sotto
forma di un uomo coperto di pelli».

Le stesse considerazioni egli farà qualche anno più tardi nel volume sui
Giuochi fanciulleschi siciliani, «Non è da meravigliare», egli infatti
osserva, «che molti giuochi tradizionali dei nostri bimbi siano avanzi di riti,
di cerimonie e usanze antichissime perdute o scomparse dalla memoria dei
volghi, ma che in generale si rapportano ai tre fatti più grandi della vita: la
nascita, il matrimonio e la morte». Eppure «non è sempre agevole, anzi è
talvolta estremamente difficile, il saper leggere dentro a codesti fatti e
l’indovinare il senso recondito per riportarli al loro significato primitivo»,
poiché «vi si oppongono le modificazioni incontrate dalla tradizione
passando da popolo a popolo e le mistificazioni che le parole consacrate nel
giuoco hanno dovuto subire dopo tanti secoli».
Nel volume e nella prefazione con la quale si apre il libro sulla Medicina
popolare siciliana, aggiunge: «La medicina popolare è un complesso di fatti
curiosi e diversi, che nel loro tutto appariscono come un’aberrazione dello
spirito umano, e nei particolari sono reliquie di civiltà e di popoli
scomparsi. Tutto è rappresentato in essa, dalle sacre e misteriose pratiche di
sacerdoti antichissimi a quelle empie delle maliarde d’oggi, dalla medicina
teurgica dei Persiani, degli Assiri, degli Egiziani a quella iatro-fisica
dell’ultimo cinquantennio del secolo scorso». E conclude: «Avanzi di riti
scomparsi, di cerimonie dimenticate, di pratiche smesse. E quello che di
esse ti colpisce è la sopravvivenza simultanea di usi disparati, i quali per noi
equivalgono a strati geologici rivelatori delle varie epoche».
Il Pitrè, onde chiarire meglio il carattere di questi avanzi, non manca
inoltre di estendere il suo sguardo anche a quei popoli primitivi, cui invece
poca o nessuna importanza avevano dato i suoi predecessori italiani. E qui
egli però non va al di là di un Lescarbot, di un Lafitau, di un Voltaire. Così,
ad esempio, si rifà a un etnologo inglese, il Lubbok, autore di una
superficiale Origin of Civili-zation, secondo il quale «il selvaggio è
paragonabile al fanciullo». Per il Lubbok «la condizione primitiva
dell’individuo indica quella della razza, e la miglior prova dell’affinità di
una specie sono gli stadi per cui essa è passata; onde la vita di ciascun
individuo è un capitolo della storia della razza e il graduato sviluppo di un
fanciullo illustra quello della specie». Ma questa teoria, precisa il Pitrè, non
è da accettare senza grandi riserve e con le debite osservazioni di Max
Müller circa la somiglianza dei selvaggi coi fanciulli.
E ai selvaggi, o meglio ai primitivi, egli ritorna spesso nei suoi confronti.
È chiaro, però, che quei confronti, se pur non l’impegnano, gli indicano che
una nuova via si apre agli studi del folklore. Nell’ultimo volume della
Biblioteca afferma anzi che, per mettere in luce le analogie che offrono le
varie manifestazioni del folklore, si deve tener conto non solo dell’antichità
classica, ma anche «dei selvaggi moderni, nei quali il passato è rimasto
cristallizzato», sebbene «nessuno inferirà che nei popoli primitivi siano da
ricercarsi le origini e la provenienza di certe credenze e superstizioni
siciliane».
Lo studio di queste analogie, comunque e dovunque fatte, non chiudono
però il Pitrè dentro le maglie di un passato fine a se stesso, «Il passato non è
morto. Il passato vive in noi e con noi». E a lui interessa soprattutto mettere
in luce questo: che quel passato è, sotto molti aspetti, la stessa storia
contemporanea della Sicilia. Il Pitrè è dell’avviso, insomma, che le
tradizioni popolari sono il frutto del passato, ma vivono perché il presente,
rinnovandole, le ha fatte proprie. Egli è convinto, inoltre, che l’etnologia
deve ormai incontrarsi col folklore per dare al folklore stesso un più saldo
fondamento storico. Con vivo interesse aveva seguito nelle prefazioni della
sua Biblioteca e nei bollettini dell’«Archivio», l’opera che, in tal senso,
avevano svolto e venivano svolgendo il Tylor, il Frazer, il Lang, l’Hartland,
i Gomme. E ora, pur pago della sua parte, indicava ai suoi successori quel
nuovo metodo di lavoro, dal quale gli studi del folklore potevano trarre
nuovo vigore e nuovo impulso.
Parte quinta
La scuola antropologica inglese e il suo influsso negli studi delle
tradizioni popolari
21. Tylor e la Primitive Culture

1. L’antropologia come «discorso nell’uomo»

Nel 1871, quando cioè le teorie del Müller e del Benfey si contendevano
il campo nello studio del folklore, uscì in Inghilterra un libro rimasto
fondamentale anche in tale campo di studi: la Primitive Culture. È in questo
libro che il suo autore, Edward B. Tylor, ripropone i rapporti fra etnologia e
folklore in base ai quali egli da, potremmo dire, una nuova sistemazione
scientifica a tali discipline.
Non v’è dubbio che, nel legare il folklore all’etnologia, il Tylor si
riattacca a quella tradizione che aveva trovato nel mito del buon selvaggio
un’idea-forza. Nella sua opera ritornano, infatti, le istanze che già si erano
affacciate, sia pure in maniera diversa, nel Montaigne, nel Lescarbot, nel
barone de La Hontan, nel Fontenelle, nel Vico, nel Rousseau, nel Goguet,
nel Brosses, nel Boulanger. Con questa differenza: che nel Tylor il
comparativismo fra i popoli primitivi e i volghi dei popoli civili sarà
sorretto da una più robusta e scaltrita indagine filologica, la quale esclude
peraltro quella polemica politico-sociale cui aveva dato luogo lo stesso mito
del buon selvaggio.
Eravamo in un’epoca in cui tanto gli studi etnologici quanto quelli
folkloristici andavano sotto il nome generico di una disciplina,
l’antropologia, che pretendeva di affrontare lo «studio comprensivo di tutto
l’uomo» e che in realtà affondava le sue radici in un terreno naturalistico.
Lo stesso termine di antropologia, adoperato per la prima volta da
Aristotele nel senso letterale di discorso dell’uomo, serviva allora a indicare
la storia naturale dell’uomo: che era quanto dire una storia dove continuava
a inverarsi quella dannosa confusione fra nazione, razza e gruppo
linguistico in cui erano caduti il Gobineau e, in un primo momento, anche il
Müller.
È vero che il Tylor già fin dalle sue Researches into the Early History of
Mankind, che sono del 1865, era arrivato a questa conclusione: e che cioè
era necessario studiare l’homo sapiens non dal punto di vista zoologico,
bensì dal punto di vista mentale, onde sotto tale aspetto l’antropologia
assumerà l’aggettivo di culturale o sociale. Ma il Tylor, che fu appunto il
maggior pioniere di tale antropologia, rimase immune da quei procedimenti
naturalistici che i suoi predecessori avevano introdotto nello studio
dell’uomo e che la teoria dell’evoluzione porterà alle estreme conseguenze?
Oppure in lui c’è già una esigenza storica che riscatta quegli stessi
procedimenti? La scienza madre, insomma, dove affondano le radici
l’etnologia del folklore, è per il Tylor l’antropologia stessa? Oppure è la
storia senz’altri aggettivi?

2. Premesse della scuola antropologica inglese


Si deve anzitutto osservare che la cosiddetta scuola antropologica inglese
– la quale nella Primitive Culture ha il suo autentico certificato di nascita –
si basa su un metodo che già aveva avuto larga applicazione nella cultura
europea: il metodo comparativo. Il Tylor nell’applicare tale metodo si serve,
si, del mondo ariano come di una provincia del sapere, ma non come della
provincia del sapere. Si può affermare anzi, in proposito, che egli fu, in gran
parte, portato sulle vie maestre dell’etnologia dall’insoddisfazione che gli
studi del mondo ariano lasciavano a chi concepiva la storia dell’uomo come
storia dell’umanità, di tutta l’umanità, la quale comprende non solo il civile,
ma anche il selvaggio: quel selvaggio da cui in verità, per una rinnovantesi
boria nazionale, si erano allontanati i Grimm, il Müller e i loro seguaci.
Si aggiunga che un tedesco poteva ben tenere il suo sguardo rivolto alle
popolazioni ariane, alla loro religione, alla loro mitologia, al loro folklore;
non un inglese, il quale non poteva non essere particolarmente interessato
allo studio di quei selvaggi che popolano i vasti possedimenti coloniali. E la
Primitive Culture – nata anch’essa nella cittadella cara al cuore del Müller,
a Oxford, – appunto per questo, se da un lato si interna nel mondo dei
selvaggi per darci la loro presunta problematica, dall’altro vuoi farci vedere
come quel mondo non sia chiuso in se stesso, ma persiste nelle tradizioni
popolari, negli usi, nei costumi, in tutto ciò che costituisce il retaggio dei
popoli. In questo esame il Tylor non trascura, certo, né i popoli
dell’antichità classica né le civiltà orientali, antiche e moderne. La sua meta
comunque è precisa: identificare alcune leggi che a suo modo di vedere
regolano la storia dell’umanità e vedere in essa quali sono i legami che
uniscono il passato al presente.
Non v’è dubbio che il Tylor sia ansioso di porre le sue ricerche
etnologico-folkloristiche su un piano storico. Il fatto stesso che egli
considera come cultura primitiva quel complesso di manifestazioni della
vita materiale e spirituale dei popoli selvaggi e dei volghi dei popoli civili,
ci dice già chiaramente che in lui operano quelle stesse esigenze che già in
periodo illuministico avevano messo in primo piano, soprattutto per opera
del Montesquieu e del Vol-taire, i sentimenti, le credenze, gli istituti non
solo delle varie classi sociali (europee), ma anche dei popoli primitivi. Ma
c’è di più; ed è che per il Tylor il termine cultura ha lo stesso significato
che, ad esempio, per il Vico aveva il termine civiltà» Come egli stesso dice
nella Primitive Culture:

«La parola cultura o civiltà, presa nel senso etnografico, designa quel complesso che abbraccia le
scienze, le credenze, le arti, la morale, i costumi e le altre facoltà e abitudini acquistate dall’uomo nel
suo stato sociale».

È chiaro infatti che quel complesso sia dominio tanto della cultura
quanto della civiltà: termini questi che risalgono al Settecento e la cui
identificazione si deve nel Tylor alla stessa terminologia inglese, la quale,
come la tedesca, confonde i termini civilisation e culture, quando invece per
noi la cultura è un aspetto della civiltà che è la spiritualità totale di un’epoca
o dell’umanità intera (a differenza dell’incivilimento che è l’attuarsi della
civiltà).
Nella sua Primitive Culture il Tylor afferma inoltre che il miglior mezzo
per studiare le leggi del pensiero e dell’attività umana è quello di ricercare il
grado di civiltà dei diversi gruppi umani. E aggiunge:

«Si deve allora riconoscere, da una parte, una uniformità quasi costante che può essere guardata
come l’effetto uniforme di cause uniformi: dall’altra, la corrispondenza dei differenti gradi di civiltà e
dei periodi di sviluppo o di evoluzione, di cui ciascuno è il prodotto di un’epoca anteriore e ha il
compito di preparare l’epoca futura. Studiare queste due grandi leggi dell’etnografia è il compito di
quest’opera».

Ma in questo compito, che per lui si concludeva appunto nel comparare


la civiltà dei popoli inferiori con quella delle nazioni più avanzate, quali
erano le premesse del Tylor? E quale l’atteggiamento ch’egli assumeva
rispetto ai suoi stessi predecessori?

3. L’homo sapiens come natura

È stato giustamente osservato che il Tylor, se pur subì l’influenza del


razionalismo del secolo XVIII, si formò tuttavia alla disciplina delle scienze
della natura e dell’evoluzionismo, subendo le influenze del positivismo
comtiano. Nella prefazione, con cui si apre la Primitive Culture, egli stesso
ricorda due opere che, in un certo senso, lo aiutarono nelle sue ricerche:
l’una, l’Anthropologie der Naturvölker del Waitz, che è del 1859 e che si
può considerare come il primo trattato di etnologia dove è giudicata e
valutata nel suo complesso la mentalità primitiva; l’altra, il Mensch in der
Geschichte, che il Bastian pubblicò nello stesso anno e dove troviamo
rigorosamente applicata la teoria dell’evoluzione a quella mentalità. Il
Waitz gli offre una larga e minuta conoscenza di tutto ciò che si era fatto nel
campo etnografico non solo dal punto di vista filologico, che è quanto dire
della raccolta dei materiali, ma anche direi storico, che è quanto dire della
interpretazione di quei materiali. Il Bastian gli offrirà qualcosa di più: la
chiave con cui egli crede di aprire le porte del mondo primitivo perché esso
si faccia e diventi criterio di interpretazione per alcuni particolari aspetti che
ci conservano tuttora le civiltà occidentali.
Il secolo XVIII aveva caldeggiato (dal Fontenelle all’Helvétius, dal
Voltaire al Buffon) l’idea che lo spirito umano fosse identico dappertutto. Il
Bastian, nel riprendere tale idea, se da una parte sostenne che «i popoli
possiedono come fondo psicologico primitivo della loro cultura le stesse
idee elementari», dall’altra era dell’avviso che «in uno stadio ulteriore di
sviluppo si manifestano differenze, con l’apparizione di idee proprie ai
singoli popoli». Da queste premesse nasceva tuttavia una conseguenza che
fu pienamente accolta dal Tylor: e cioè che il selvaggio non è affatto un
essere diverso dall’uomo civile. Secondo il Tylor – come già per il Bastian
– non v’è, insomma, nessuna differenza essenziale tra la mente del
selvaggio e la mente dell’uomo civile, anche se i pensieri del primo
possono, a prima vista, sembrare alquanto strani. Da qui, pertanto, il
rapporto che esiste fra i volghi dei popoli selvaggi e i volghi dei popoli
civili. Da qui la possibilità stessa di comparare gli uni con gli altri.
La comparazione nel Tylor va oltre però quel legittimo assunto.
Riconosciuta infatti l’identità fra il pensiero dei selvaggi e quello dei popoli
attuali, egli si dimostra convinto che le rassomiglianze che esistono fra i
diversi costumi non vanno attribuite a contatti tra le varie civiltà, bensì alla
stessa identità della mente umana. Le istituzioni umane, scrive lo stesso
Tylor:

«… si sono stratificate tanto rigorosamente quanto la terra su cui l’uomo vive. Esse si succedono
l’una all’altra in una serie praticamente uniforme in tutto il globo, indipendentemente dalla diversità
più che altro superficiale della razza e della lingua, plasmate dall’identica natura umana che agisce,
in mezzo al variare delle circostanze, nella vita selvaggia, barbarica, civilizzata».

Nella storia di queste stratificazioni v’è però un prima cronologico


assoluto: il mondo primitivo. E in ciò il Tylor è sulla via del Lafitau, il
quale non solo aveva considerato i primitivi come i nostri antenati, ma
aveva anche affermato che nei popoli primitivi attuali si possono conservare
tuttora le fasi primordiali dello sviluppo della umanità. In realtà il Tylor,
come già avevano fatto il Brosses e il Comte, irrigidisce però quella tesi
allo scopo di vedere fino a qual punto le opinioni e gli atti delle nazioni
moderne riposano sul terreno solido delle conoscenze moderne ben
determinate, e fino a qual punto invece riposano su conoscenze imperfette,
le sole che esistono nelle fasi primitive della civiltà.
Il Tylor è quindi dell’avviso che «la storia nel suo dominio» insieme
all’«etnografia che ha un dominio più vasto», concorrono a mostrarci che le
istituzioni più solide del mondo hanno sostituito le meno durevoli e che il
risultato di questo conflitto incessante è il corso generale della civiltà. Egli
ammette inoltre che nel largo campo delle concezioni e delle abitudini
umane si vede che la civiltà, se pur è obbligata a combattere non solamente
la persistenza, con la quale si mantengono le vestigia d’uno stato inferiore,
ma le degenerazioni che si producono nel suo seno, finisce sempre col
trionfare. Senonché le vestigia dello stato inferiore appariranno sempre al
Tylor davvero come apparvero agli illuministi? E l’etnografia, termine
questo da lui adoperato per indicare quella disciplina che noi chiamiamo
oggi etnologia, non si risolverà, proprio in lui, in storia della civiltà?

4. La superstizione come sopravvivenza

Delineato, sia pure a rapidi tratti, il progresso della civiltà, il Tylor


affronta quindi un problema che già si era affacciato, ad esempio, al
Fontenelle: quello delle sopravvivenze. Come egli stesso afferma:

«Quando un uso, un’arte, un’opinione sono ben avviati nel mondo, le influenze perturbatrici possono
influenzarle così poco che essi possono tenersi in vita da una generazione all’altra, come un corso
d’acqua che una volta messo nel suo letto vi scorrerà per secoli. Questa non è che una semplice
permanenza culturale: e ciò che stupisce è che i cambiamenti e le rivoluzioni delle cose umane
abbiano lasciato andar tanto lontano i suoi deboli rivoletti. Nelle steppe tartare, sei secoli fa, era
un’offesa posare il piede sulla soglia o toccare le corde nell’entrare in una tenda, e così è tuttora.
Diciotto secoli fa Ovidio ricordava la popolare avversione romana per i matrimoni in maggio, che
non senza ragione attribuiva alla ricorrenza in quel mese dei riti funebri, detti Lemurie. Sopravvive
ancora in Inghilterra il detto che i matrimoni in maggio sono sfortunati; e questo è un esempio
sorprendente di come un’idea, il cui significato è perito con gli anni, può continuare a esistere
semplicemente perché è già esistita. Ora vi sono migliaia di casi simili che sono divenuti, per così
dire, punti di riferimento nel corso della civiltà. Quando nella storia di un popolo è avvenuto un
cambiamento generale, è usuale, tuttavia, trovare delle manifestazioni che non ebbero origine nel
nuovo stato di cose, ma che semplicemente sono durate in esso. In forza di queste sopravvivenze,
diviene possibile dichiarare che la civiltà del popolo, tra cui sono osservate, deve essere derivata da
uno stato più antico, nel quale tali sopravvivenze ebbero la vera patria e il significato più proprio: e
questa è la ragione per cui simili fatti vanno trattati come documenti di scienza storica».

Questa la premessa con cui si apre uno dei capitoli più discussi e
fondamentali, il secondo, della Primitive Culture. Né è senza significato che
in tale premessa il Tylor consideri le sopravvivenze come documenti di
scienza storica. Il che significa che esse non possono essere trattate che con
la stessa metodologia della storia. E la storia non può assolverle o
condannarle – come in parte voleva lo stesso Tylor –, ma considerarle in
quanto fenomeni in cui è imperniata la concezione della vita e del mondo. È
vero che il Tylor, nel considerare le sopravvivenze, ci da a volte
l’impressione di voler porre indiscriminatamente la teoria dell’origine
(selvaggia) della civiltà come base della scienza del folklore. Ed è vero
altresì che allora egli considera le sopravvivenze come dei fatti immobili
che rimangono in mezzo ai volghi dei popoli civili per forza di inerzia,
documentandoci le fasi primordiali della vita e del pensiero dei selvaggi:
monumenti, insomma, a cui la storia della civiltà deve chiedere se la civiltà
stessa di un popolo è derivata da uno stadio inferiore.
Dice il Tylor: molte superstizioni che vivono àncor oggi fra i volghi dei
popoli civili non sono altro che dei fatti trasportati da un ambiente a un
altro, sicché essi, in questa migrazione, hanno perduto il significato che
avevano, rimanendo come prova ed esempio di uno stato culturale più
antico, fuori del quale se ne è sviluppato uno nuovo. E qui è, a suo modo di
vedere, lo spirito della sopravvivenza, la quale molte volte non è che
superstizione. Senonché lo stesso Tylor, nel considerare le sopravvivenze in
un ambiente che non è più il loro, non ne riconosce la validità? E questa
validità quale importanza potrebbe avere, se quell’ambiente che le accoglie
lo fa soltanto con lo spirito del geologo che colleziona dei fossili? La verità
è che un fatto non è mai uguale a un altro che lo ha preceduto, perché di un
fatto quel che conta non è soltanto la nascita, ma anche l’adattamento.
Compito del folklorista perciò deve essere appunto quello di cercare non
solo le concordanze, ma le differenze: la diversità nell’apparente
uniformità.

5. Sopravvivenze e rinascite

Lo stesso Tylor, del resto, non esita ad affermare che spesso si vedono
delle vecchie idee e delle pratiche abbandonate raffiorare in una società che
le credeva morte: nel quale caso v’è, egli chiarisce, rinascita, non
sopravvivenza. Il che, sotto certi aspetti, può anche essere vero, ma a un
patto: che si guardi a quelle due espressioni – la cui terminologia può avere
una giustificazione soltanto empirica – come al risultato di una concreta vita
popolare piena di cambiamenti. I quali, in fondo, altro non sono che le
varianti della filologia folkloristica. Ed è qui, davanti a queste rinascite, che
il Tylor si domanda fino a qual punto noi siamo creatori o comunque
modificatoli dell’eredità dei secoli scorsi. Con le sue stesse parole:

«Come le menti degli uomini mutano col progredire della civiltà, così i vecchi costumi e le vecchie
opinioni svaniscono a poco a poco in un’atmosfera eterogenea e passano in stadi più adatti alla nuova
vita con cui si trovano a contatto. Ma ciò è così lungi dall’essere una legge senza eccezioni, che una
visione rigorosa della storia può spesso far sembrare non essere per nulla una legge. Poiché la
corrente della civiltà ritorna su se stessa, e quello che sembra una brillante corrente di progresso può
in un successivo ricorso girare in un turbine stridente o impelagarsi in una palude oscura e
pestilenziale. Studiando con larga visione il corso dell’opinione umana, possiamo individuare proprio
nel suo perno il passaggio della sopravvivenza passiva alla rinascita attiva».

L’evoluzionista, il quale pur crede alla storia della civiltà come a una
«marcia in avanti», si sente allora perplesso davanti a questi fenomeni. Ed
ecco che si sveglia in lui lo storico, preoccupato soltanto di vedere nei fatti
(sopravvivenze o rinascite che siano) la probabile catena genetica dei
fenomeni. L’impegno storico del Tylor, appunto per questo, si deve
ricercare proprio nell’esame con cui egli avvicina le credenze e le
costumanze dei popoli selvaggi con quelle dei popoli civili. Ma in questo
esame riappaiono quelli che sono i limiti stessi del Tylor sociologo, il quale
nelle sue ricerche, se pur è animato da una grande pietas storica, che lo fa
internare nel mondo dei primitivi con larghezza di vedute, si mantiene
tuttavia legato a degli aggruppameli psicologici ed empirici, i quali, come
tali, non possono costituire dei veri e propri criteri storici. È vero che egli si
preoccupa sempre di trasformare quegli schemi in concetti. Ma quando quei
concetti sono piegati a una tesi fondamentale che li sorregge, vale a dire alla
tesi che tutta l’umanità è sottomessa alle stesse leggi di sviluppo e che essa
è passata dappertutto per gli stessi stadi analoghi di evoluzione, è evidente
che il Tylor dimentica che l’uomo, ovunque viva, fra i primitivi o fra i
volghi dei popoli civili, non è mai il prodotto della natura, bensì della civiltà
che lo ha formato e lo forma.
Il Tylor, comunque, quali che siano le sue premesse, dopo averci dato un
quadro vivace e brillante dei corsi e dei ricorsi storici in cui si avvicendano
le varie civiltà, passa a delinearci, con maggiore precisione, quella che a lui
appare la primigenia: cioè quella dei popoli primitivi, o meglio, com’egli
ancora li chiama, dei selvaggi. La sua preoccupazione rimane anche allora
identica: legare la barbarie della civiltà, il mondo delle sopravvivenze e
delle rinascite, che era quanto dire il mondo del folklore, con la civiltà dei
barbari, che è un ineliminabile momento dello stesso attuarsi della civiltà. E
poiché non v’è civiltà senza religione, ecco che egli cercherà appunto di
vedere qual è la religione dei primitivi, senza la quale a suo avviso non si
spiegano né la mitologia, né gli usi, né i costumi.

6. Mitologia e religione

In uno dei capitoli più vivaci della Primitive Culture il Tylor afferma
senz’altro a proposito della mitologia che questa, di contro a quel che
riteneva il Müller, nacque quando l’uomo era allo stato selvaggio e che essa
pertanto appartiene, nei suoi primi sviluppi, allo stadio primordiale della
vita dell’uomo. Ed è allora che nella sua opera prende consistenza un
concetto destinato ad avere la stessa fortuna di quello che egli formulò in
merito alle sopravvivenze: vale a dire il concetto dell’animismo. Si può
dire, in un certo senso, che il Tylor trae dal Müller una massima che peraltro
era stata già affermata dal Fontanelle: e cioè che l’uomo narra quel che
vede. Ma, per il Tylor, quel che vede l’uomo, cioè l’uomo primitivo, è
completamente diverso da quel che vedeva l’antico ariano del Müller. I
miti, per il Tylor, sono infatti, si, la proiezione di determinate esperienze
giornaliere, in cui si invera la vita stessa del primitivo, del selvaggio. Ma –
si badi – del selvaggio il quale crede all’animazione dell’intera natura, così
com’essa si presenta a lui, preceduta dagli spiriti e dai geni. Ecco perché le
stesse analogie, le quali per noi possono rappresentare se mai dei semplici
prodotti dell’immaginazione, erano per i nostri antenati una realtà.
Per chiarire appunto questa realtà, il Tylor affronta allora un problema di
vasta portata e di grande interesse: l’origine stessa della religione. È noto
che il Comte, sulle orme del Brosses, aveva caratterizzato l’evoluzione
della storia delle religioni in tre gradi: il feticismo, il politeismo, il
monoteismo. Il Tylor accetta senz’altro questo schema. Con questa
differenza: che per lui il primo grado dell’evoluzione non doveva ricercarsi
nel feticismo, bensì nell’animismo, dove si invera appunto l’infanzia della
religione. Da qui la stessa definizione che egli ci da della religione.

«Quando si tratta di studiare le religioni delle razze inferiori, il punto essenziale preliminare da
chiarire e da precisare è ciò che s’intende per religione. Se si vuol fare rientrare in questa definizione
la credenza in una divinità suprema in un giudizio dopo la morte, o l’adorazione di idoli e la pratica
del sacrificio, o altri riti e dottrine diffuse qua e là, senza alcun dubbio un certo numero di tribù si
troverà allora escluso dal mondo religioso. Ma questa definizione troppo limitata ha il difetto di
identificare la religione con alcuni suoi sviluppi particolari, laddove è opportuno considerarla nel suo
movente iniziale e nel suo elemento essenziale. Meglio vale, per quel che sembra, risalire
direttamente alla fonte e porre semplicemente come definizione minima della religione la credenza in
esseri spirituali».

E subito dopo aggiunge, proponendo una definizione minima


dell’animismo:

«Sotto il nome di animismo io mi propongo di studiare la dottrina profondamente radicata degli


esseri spirituali, credenza che è l’essenza stessa della filosofia spiritualistica… Studiando nei suoi
particolari la dottrina dell’anima, noi vedremo quanto giustamente questo termine designi la prima
forma evolutiva delle idee teologiche dell’umanità… La parola spiritualismo, comunque possa essere
adoperata, ha per noi il difetto evidente di indicare oggi una ben determinata corrente moderna, le cui
teorie si appoggiano, è vero, sulle entità soprannaturali, ma che non possono essere peraltro prese
come tipo universale di questo genere di concezioni. La credenza a esseri spirituali: questo è, nella
sua più larga accezione, il senso della parola spiritualismo, è nello stesso senso che noi adoperiamo il
termine animismo».
Il Tylor è convinto, e questa anzi è la premessa da cui egli parte e su cui
fonda la sua costruzione, che il selvaggio, sin dalle sue origini, avrebbe
ricavato il concetto dell’anima dallo spettacolo mal compreso della vita,
quale questa gli appariva nello stato di veglia e durante il sonno. Quando
sogna di essere in un paese lontano, il selvaggio crede di essere già li. E ciò
perché in lui esistono due esseri: l’uno, fatto dal suo corpo, che è rimasto
coricato e che egli ritrova, svegliandosi, nello stesso posto; l’altro, che,
durante lo stesso periodo di tempo, s’è mosso attraverso lo spazio. I due
esseri hanno una certa differenza fra loro, poiché l’anima è più mobile,
tanto che può percorrere in un istante vaste distanze. Ma l’anima, si
domanda il Tylor, è uno spirito? Attaccata a un corpo, di cui non esce che
eccezionalmente, essa può diventare spirito a un patto: trasformandosi. La
semplice applicazione delle idee precedenti al fenomeno della morte
produce questa metamorfosi.
Per un’intelligenza rudimentale la morte non si distingue dal sonno
prolungato. Sembra anzi che la morte consista in una separazione
dell’anima dal corpo, simile a quella che si può produrre durante la notte.
Quando ci si accorge però che il corpo non si rianima più, nasce l’idea di
una separazione senza limiti di tempo. E quando il corpo è distrutto – e i riti
funebri hanno la funzione di accelerare questa distruzione – la separazione è
definitiva. Ecco dunque gli spiriti distaccati dal loro organismo e lasciati in
libertà attraverso lo spazio. Il loro numero aumenta col tempo, mentre si
forma nel seno stesso della popolazione vivente una popolazione di anime.
Le quali ultime, a loro volta, hanno bisogni e passioni umane. Esse infatti,
data la loro estrema fluidità, possono entrare in un corpo umano e causare
tutti i disordini possibili (possessioni, malattie) o al contrario riportargli la
vitalità.
L’anima, in tal modo, si è trasformata. Da semplice principio vitale,
animante un corpo umano, essa è diventata uno spirito, un genio buono o
malvagio, una divinità, secondo l’importanza degli effetti che le sono
attribuiti. Ma poiché è la morte che ha operato questa metamorfosi, è in
definitiva ai morti, alle anime degli antenati, che si è indirizzato il primo
culto dell’umanità, tanto è vero che i primi sacrifizi altro non sono che delle
offerte elementari destinate ai defunti.
Né qui si ferma la dogmatica costruzione del Tylor, ove si pensi che
l’idea così acquisita degli spiriti puri viene applicata alla natura, onde i
selvaggi, convinti che siano gli spiriti a ravvivare i singoli elementi della
natura, adorano i fiumi, gli alberi, i boschi ecc. Così in origine furono
attribuite alle cose, a tutte le cose, vita e sentimento. E se un fiume scorreva
e se una fonte sussurrava e se un albero stormiva ciò avveniva perché quei
fenomeni erano animati da esseri invisibili. E così avveniva anche per le
nubi, per la pioggia, per il vento ecc. Soltanto più tardi – e saremo allora
sulla via del monoteismo – i fenomeni della natura furono attribuiti a un dio
(della pioggia, dell’acqua, del vento ecc.). L’idea stessa della divinità, del
resto, per il Tylor, altro non è, nelle popolazioni primitive, che il risultato
chiaro e coerente dell’animismo e insieme anche un completamento
altrettanto chiaro e coerente della religione politeista.
Ma l’animismo, si domanda il Tylor, è soltanto una manifestazione
religiosa, la prima che si riscontra nel mondo primitivo? O tale
manifestazione invece domina tuttora, sia pure sotto forma di superstizione
e quindi di sopravvivenza, la vita stessa dei volghi dei popoli civili?
Pensate, ad esempio, alle innumerevoli superstizioni che tuttora si legano ai
geni, agli spiriti, ai fantasmi o comunque ai vari esseri che dalle varie
regioni dell’aria, dell’acqua, delle foreste e del sottosuolo si muovono a
favorire con la loro influenza il cielo, la terra, gli uomini, gli animali, le
piante; fissate il vostro sguardo nelle loro radici, ed ecco che in quelle radici
si annida precisamente l’animismo, il quale, religione dei popoli primitivi,
si è ormai fatto superstizione nei volghi dei popoli civili. Il legame fra i due
mondi è ormai saldo. E l’animismo non conterà quindi soltanto per quello
che è stato, ma anche per quello che è.

7. Animismo, infanzia della religione?

Questa costruzione – pur sorretta com’è da un’analisi profonda e acuta,


da una comparazione che ha indubbiamente il suo incanto, da una scrittura
ricca ed elegante – accusa una concezione intellettualistica che la infirma.
In tale concezione si fondano e si confondono il positivismo francese e
l’empirismo inglese. All’origine era l’uomo primitivo… Ma quell’uomo
non è un vero e proprio filosofo, un ragionatore perfetto, un pensatore che
sa trarre le debite conseguenze da tutte le premesse che la vita gli pone?
Non si vuol negare, intendiamoci, che nella teoria animistica del Tylor vi
siano dei lati di vero. L’animismo, sia pure nelle varie forme in cui esso si
articola, è indubbiamente una espressione della vita dei popoli primitivi. Lo
è anche fra i volghi dei popoli civili. Ma come possiamo noi sostenere che
esso apre veramente la storia della civiltà? E poi ha esso veramente fra gli
stessi primitivi quel carattere universale che il Tylor gli assegnava?
Si è affermato che il Tylor, cui interessavano i selvaggi quali sono e non
quali furono, si era preoccupato di scrivere la storia dell’umanità religiosa,
senza redigerne tuttavia la prefazione. La quale invece, qualche anno dopo
la pubblicazione della Primitive Culture, fu dettata dallo Spencer. È noto
infatti che questi postulò una teoria, in cui la radice della religione veniva
ricercata nella venerazione degli antenati, termine questo che egli userà nel
senso più lato in modo da comprendervi tutte le forme di venerazione di
defunti, siano essi consanguinei o meno. L’uno e l’altro, comunque, come
già prima di loro il Brosses e il Comte, partono da una premessa: cioè che,
come ben osserva lo Schmidt, la successione cronologica e la connessione
reciproca dei fatti si basa unicamente sulla ideata possibilità psicologica di
tale successione o connessione, onde questa plausibilità appare di regola
giustificata dall’assioma che le cose semplici hanno preceduto le cose
complicate. È vero che l’animismo è tutt’altro che una cosa semplice. Il che
può anche dirsi del manismo dello Spencer. Ma è vero altresì che tutti e
due, il Tylor e lo Spencer, se pur si preoccupano di definire
evoluzionisticamente la religione nel suo minimo, assumono questo minimo
come inizio. E in ciò è l’errore pili grave delle due teorie, alle quali sono
stati piegati gli stessi documenti etnologici.
Non si comprende d’altro lato, in base a tali documenti, per quale
ragione il Tylor abbia considerato come universale il fatto che l’idea
dell’anima sia scaturita dal sogno. Né si comprende come il Tylor possa
aver pensato che l’anima dopo la morte possa sempre cambiare la sua
natura. Rimane la terza tesi: la trasformazione degli spiriti in culto della
natura. Ma possiamo noi ammettere come universale questa trasformazione,
la quale, se non altro, presuppone la priorità stessa e assoluta del culto degli
spiriti su quello degli antenati (o viceversa per Spencer)?
Sta di fatto che l’etnologia ci ha dimostrato che il culto delle anime dei
morti non è tanto primitivo quanto ritenevano il Tylor e lo Spencer e che
tutt’altro che primitivo è l’antropomorfismo religioso. Ma c’è di più. Ed è
che l’animismo non ha affatto quella diffusione universale che il Tylor gli
attribuiva – il che può anche dirsi del manismo –, facendo dei selvaggi un
selvaggio, dei volghi dei popoli civili un unico volgo che pensa allo stesso
modo. L’animismo, appunto per questo, se va respinto nella sua architettura,
fatta di passaggi dogmatici da una forma all’altra, va accolto invece, ove
venga ristretto alla valutazione delle sue determinate forme, ciascuna delle
quali è pur sempre però il risultato non di un fenomeno biologico, bensì
spirituale. E come tale esso può effettivamente vivere fra i selvaggi come
fra i volghi dei popoli civili. Il che, ed è ovvio, non esclude che tanto nelle
tradizioni degli uni quanto in quelle degli altri gli spiriti della terra, del
mare, del vento e del fuoco possano anche essere stati direttamente
personificati, senza passare per le vie obbligate dell’animismo.
8. Naturalismo e storicismo del Tylor

Questo l’ampio affresco che il Tylor ci ha dato nella sua Primitive


Culture. E vi sono in tale opera, come abbiamo visto, inciampi naturalistici,
errori di prospettiva, procedimenti aprioristici. Il Tylor vuol costruire
un’antropologia nel senso aristocratico della parola: ma la sua antropologia
è spesso riferita all’essere e non al farsi dell’uomo. Gli si può perciò
obiettare che il suo determinismo causale è pur sempre fuori della storia,
dove è attrice soltanto la volontà dell’uomo. Gli si potrebbe obiettare inoltre
che non esiste, né può esistere, una storia universale, la quale come tale non
può individuare ciò che conta in un popolo: la sua individualità storica.
Oppure: che i suoi confronti sono fatti senza limiti di tempo e di spazio. È
noto infatti che per il Tylor la somiglianza è fine a se stessa. Ma se così
fosse essa non perderebbe il carattere che le assegnava lo stesso Tylor, il
quale, come già il Vico, era appunto convinto che ogni somiglianza deve
trovare il suo vero incontro nella nostra mente?
Il merito principale del Tylor, comunque, consiste in ciò: che egli,
nonostante tutte le sue premesse naturalistiche, nel legare il folklore
all’etnologia, fece di quest’ultima una storia contemporanea che immise
nella stessa storia del folklore. E questa è la ragione per cui in molte sue
pagine, quelle che rimangono tuttora più vive e che sembrano assumere un
sapore viehiano, egli si libera dagli stessi schemi che gli son serviti per
costruire la sua storia della civiltà (l’animismo come prima forma della
religione, quella religione come primo attuarsi del pensiero umano, il
pensiero dei primitivi come prima pagina della storia universale ecc.).
Leggete le sue minute analisi che egli dedica ai proverbi, ai giuochi
fanciulleschi, agli usi e alle credenze popolari. Osservate come egli lega il
canto all’uso, il proverbio alla costumanza, la novella alla credenza. Cioè:
osservate come egli da impulso e vigore allo studio del folklore considerato
nella sua unità. C’è in lui allora l’ansia e il respiro di un Herder, dei Grimm
o di un Pitrè che in quella natura vedevano argomenti profondi per il
filosofo. Ed ecco pertanto che il Tylor, filosofo egli stesso di tale materia,
ha una sola preoccupazione: vedere, indipendentemente dalle
determinazioni cronologiche, quanto in noi c’è e rimane di primitivo.
«Il buon storico, – è stato osservato, – somiglia all’orco della fiaba.
Ovunque fiuti carne umana, lì è la sua selvaggina». Si è aggiunto che,
quando nella storia sorge o si rinnova la coscienza dell’antico e del
primitivo, v’è ragione allora di credere che ciò è uno stimolo incessante per
l’intelligenza storica. È con questa coscienza che il Tylor si internò nel
mondo dei primitivi e in quello dei volghi dei popoli civili. Con questo
risultato: che egli, positivista-evoluzionista, trovò a volte
inconsapevolmente il suo riscatto in uno storicismo quale già lo aveva
concepito il Vico.
22. All’insegna dell’animismo

1. Filologia classica, etnologica e folklore

Accolta con successo nel campo specifico della storia delle religioni, la
teoria animistica del Tylor dominò quel campo quasi incontrastata per più di
un trentennio. L’animismo sembrò allora la vera «semente della religione»;
e come tale apparve nelle varie introduzioni alla «scienza delle religioni»
oltre che nelle innumerevoli «storie remote della civiltà». Il Tylor insieme a
quella teoria aveva proposto però anche una metodologia, nella quale la
stessa storia delle religioni, e quindi della mitologia, veniva collegata,
mediante lo studio delle sopravvivenze, alla storia del folklore, per il
principio già da lui sottinteso che la religione di una generazione è destinata
a diventare la superstizione-sopravvivenza di un’altra. E l’una e l’altra, la
sua teoria dell’animismo e la sua metodologia folkloristica, ecco che
troveranno il consenso più immediato e aperto in un paese, la Germania,
dove predominanti erano stati gli interessi per la mitologia della natura. È in
Germania, si può dire, che il Tylor ebbe ancor prima che negli altri paesi la
sua consacrazione ufficiale. È in Germania che la sua Primitive Culture fu
di stimolo agli stessi cultori di quella mitologia. Nota a proposito lo
Schmidt:

«Nella corrente sempre più forte dell’animismo del Tylor venne a incanalarsi, per strana coincidenza,
anche una corrente minore, sorta già tra i seguaci della teoria della mitologia della natura della
Germania e dei popoli indogermanici, la quale volle ora applicare i risultati delle ricerche linguistiche
relative ai popoli indogermanici anche alle scoperte fatte dagli etnologi per i popoli di natura».

Ma è davvero una corrente minore quella che in Germania utilizza la


teoria e la metodologia del Tylor per applicarle allo studio del folklore
germanico, immettendolo, ove e quando sia il caso, non soltanto nella storia
dell’etnologia, ma anche in quella delle civiltà classiche? E questa
utilizzazione è poi del tutto passiva?
L’opera del Tylor, in realtà, in Germania, non ha dato origine a una
corrente minore: né rispetto all’animismo, di cui anzi vuole essere un
completamento, né rispetto al folklore, di cui chiarisce nuovi aspetti e nuovi
problemi. Ma c’è di più: ed è che tale corrente non è affatto il frutto di una
strana coincidenza, bensì di una consapevolezza critica.
La prova di quanto diciamo ce l’offre infatti il mitologo che più di tutti
ebbe tale consapevolezza: Wilhelm Mannhardt. Le sue prime opere non
escono dai binari tracciati dai Grimm e dal Müller. E ciò è ovvio ove si
pensi, ad esempio, che i suoi Germanische Mythen sono del 1858, mentre il
suo lavoro Die Götterwelt der deutschen und nordischen Völker è del 1860.
Non v’è dubbio, e lo ammette lo stesso Mannhardt, che egli fu spinto a
cambiare le sue idee intorno alla mitologia quando questa gli si configurò
nelle concezioni stesse del popolo, vale a dire nelle tradizioni popolari e in
particolar modo negli usi, nelle credenze, nei giuochi fanciulleschi. Di
grande rilievo furono, in proposito, le inchieste che egli stesso aveva
compiuto a Danzica presso i prigionieri austriaci, danesi e francesi. Nei suoi
lavori Roggenwolf und Roggenhund e Die Korndämonen – che sono del ’65
e del ’67 – si avverte già che egli è sotto l’influsso dello Schwartz, il quale
credeva appunto di riconoscere gli elementi più stabili della mitologia nel
folklore. Nel 1875 esce però la sua ampia opera: Der Baumkultus der
Germanen. Due anni dopo: i Wald- und Feldkulte (di cui peraltro il Der
Baumkultus rappresenta la prima parte). Ebbene: è qui che il distacco del
Mannhardt dal Müller è chiaro, netto, decisivo. Lo sarà di più in un volume
che fu pubblicato quattro anni dopo la sua morte e che può considerarsi
come la terza parte dei Wald- und Feldkulte: le Mythologische Forschungen
(edite a cura del Patzig nel 1884 e precedute da due dotte prefazioni dovute
a K. Müllenhoff e W. Scherer). In queste opere, o meglio in questa opera, il
Mannhardt cita poche volte il Tylor. Ma egli è sotto la sua più diretta
influenza, tanto è vero che i Wald- und Feldkulte non solo ripropongono,
sotto molti aspetti integrandola, la stessa metodologia del Tylor, ma
applicano la teoria animistica a una serie di culti e di riti cui lo stesso Tylor
non aveva dato eccessivo peso: i culti e i riti della vegetazione.

2. Mannhardt e i Monumenta mythica Germaniae

Punto di partenza anche in queste indagini è per il Mannhardt il mito. Ma


in che modo vedrà ora egli questo mito, che nelle sue prime opere gli era
apparso soltanto come una proiezione e una spiegazione degli splendenti
fenomeni della natura? Nel Vorwort con cui si aprono i Wald- und
Feldkulte, il Mannhardt osserva anzitutto che le mitologie si presentano
come qualcosa di assai più complicato e irregolare che non i fenomeni
linguistici. La scuola mitologica del Müller, egli incalza, «voleva
costringere a forza i miti indo-europei entro un modello fabbricato sopra le
concezioni indiane, senza indagare i rapporti immediati con l’ambiente da
cui erano nati». Questa la ragione, egli aggiungerà subito, per cui la
mitologia deve farsi un suo metodo, il quale consiste anzitutto nel lavoro
naturalistico di classificazione e di raccolta di vari fenomeni. Il che serve
poi a stabilire i tipi.
Di questo lavoro naturalistico il Mannhardt aveva dato già prova nel
terzo volume della sua «Zeitschrift für deutsche Mythologie und
Sittenkunde», che egli pubblicò dal 1853 al 1859. Fu in quel volume che
apparvero infatti, per la prima volta, delle regolari inchieste demologiche.
Si aggiunga che era allora sua intenzione pubblicare una collana intitolata
Monumenta mythica Germaniae, la quale avrebbe dovuto raccogliere e
illustrare non solo i Lieder mitici e magici del suo paese, ma anche e
soprattutto le usanze popolari che si collegano al calendario delle feste, i
costumi e le superstizioni agricole, il cerimoniale nuziale ecc. È per questa
ragione, anzi, che nel 1854 egli fonda insieme a J. W. Wolf, una società per
l’incremento e lo studio delle tradizioni popolari. Ed è per questa ragione
che egli, fedele al suo assunto, vuole integrare le sue inchieste personali con
un questionario qual è quello, ad esempio, che egli, in centocinquantamila
copie, riuscì a far stampare alcuni anni dopo. Tale questionario, il quale
riguardava gli usi germanici della mietitura, era formato da quattro
paginette contenenti ventitré domande. Le domande, però, non si riferivano
soltanto agli usi germanici, ma anche a quelli corrispondenti degli altri
paesi. Ed ecco come lo stesso Mannhardt, in una sua conferenza tenuta nel
1865, vale a dire nello stesso anno in cui uscì il suo questionario, si
rivolgeva in proposito ai suoi collaboratori:

«Non resta che una via: quella di distribuire dei foglietti volanti che contengano un saggio delle
indicazioni richieste, e condensino tutta la materia presa in esame in un certo numero di domande ben
determinate, precise. Queste domande devono essere formulate con accorgimento e sicura
conoscenza della materia, in maniera che basti un cenno per richiamare senza indugio alla mente di
chi deve rispondere tutte quelle cose che si desiderano sapere da lui, e che si eviti, oltracciò, ch’egli,
rispondendo alle domande genericamente con un si o un no, si limiti a dare indicazioni vaghe e
superficiali, laddove importano invece distinzioni rigorose e ragguagli minuti sui particolari. Si
cercherà pertanto, progredendo il lavoro, di migliorare e modificare di tempo in tempo le domande
alla stregua delle esperienze psicologiche e delle osservazioni fatte circa l’effetto da esse prodotto su
chi deve rispondere, nonché in base alla più profonda conoscenza della materia acquisita con
l’aumento del materiale. Il contenuto delle domande ha da rimanere lo stesso per tutto lo spazio
geografico su cui si estende la raccolta; ma è necessario dare ad esso, per determinate zone, una
forma particolare».

Questo l’intento del Mannhardt: dare al suo futuro collaboratore delle


norme sicure. Chi domanda deve sapere anzitutto che cosa domandare. E il
Mannhardt, come ben osserva il Röhr, non solo voleva procurare al folklore
tedesco i materiali da lungo tempo desiderati per un lavoro più fruttuoso,
ma pensava anche di separare i fatti omogenei ed equivalenti da quelli
occasionali, perché si era fin d’allora capito che senza una tale
discriminazione si sarebbe stati impotenti di fronte allo stesso materiale
raccolto. Lo stesso Mannhardt nella sua conferenza, dove illustrava la bontà
dei que-stionari, aveva ammonito:
«Il materiale raccolto vien sistemato in serie etnograficamente e geograficamente distinte, mettendo
al primo posto, per ogni regione, l’aspetto prevalente e la forma principale della tradizione, con
l’indicazione dei luoghi dove è attestata. Sono poi registrate tutte le variazioni della tradizione
studiata, con l’indicazione precisa, anche per esse, dei luoghi dove sono state osservate».

I Monumenta mythica Germaniae rimasero nello stato di progetto,


nonostante le duemila risposte che al Mannhardt pervennero. Da quel
progetto nacquero però i Wald- und Feldkulte. Ed è qui che egli riprende le
tesi già avanzate nel 1865. Lo studio del folklore, osserverà ora il
Mannhardt, ove voglia penetrare nella loro essenza i materiali raccolti, deve
essere fondato sulla comparazione. Questa, – egli però subito aggiunge, –
non deve proceder mai secondo un metodo prestabilito – e qui l’allusione a
Tylor è evidente –, ma distinguere le semplici analogie dalle vere e proprie
congruenze. In altri termini, com’egli stesso dirà:

«Ogni tradizione è da spiegarsi primariamente da se stessa e dal suo ambiente più prossimo; solo
quando non risulta in questo campo, può essere ricercata progressivamente in uno stadio sempre più
lontano e più profondo… Dove si presenti una tradizione popolare si deve tendere, secondo la
possibilità, a una determinazione cronologica e a una ricostruzione della forma originaria da ragioni
interne per la via dell’analisi e con l’aiuto dell’analogia, che siano esaminate acutamente secondo il
contenuto e il valore».

È stato osservato che l’idea del Mannhardt, il quale cerca la spiegazione


di un determinato fenomeno folkloristico, riposa su un evoluzionismo
volgare. Ma l’ambiente, così come lo concepisce il Mannhardt, che altro è
se non la civiltà stessa in seno a cui una tradizione vive? E ove questa
tradizione con tutte le sue varianti – vale a dire con le varianti che la fanno
vivere – non sia collegata alla civiltà che la esprime, possiamo noi cogliere
il suo significato attuale?
In una sua lettera del 18 novembre 1876 inviata al Pitrè, lo stesso
Mannhardt affermava che nei Wald- und Feldkulte egli:

«… prendendo come base la tradizione popolare del Nord Europa ha cercato di dimostrare in
maniera evidente una serie di similitudini tra usanze e immagini del mondo antico e quelle dei popoli
del Nord Europa… Come lei vedrà dai miei recenti trattati, al centro delle mie aspirazioni sta
un’ampia raccolta e spiegazione delle usanze provenienti dal mito riguardante la cultura dei campi».

Ma – ecco il punto – come vede dunque il Mannhardt questa cultura dei


campi? E quale posto egli le assegna nella storia stessa della civiltà?

3. Culti e riti agrari

Nel primo volume dei Wald- und Feldkulte, vale a dire nel Der
Baumkultus der Germanen, il Mannhardt inizia anzitutto il suo esame
trattando il culto degli alberi quale si articola presso i Germani e i popoli
vicini. Ed è allora che egli si pone questo problema: vedere come
l’agricoltura riveli, attraverso i suoi riti e i suoi culti, il mistero stesso della
rigenerazione vegetale. Il Mannhardt non esita a porre come fondamento di
quei riti e di quei culti la credenza, tuttora viva nel folklore, secondo cui
l’uomo vive nella pianta (cui attribuisce, come alla natura, un’anima) unita
a lui da un legame simpatico e segreto. Da qui l’affinità di natura fra l’uomo
e la pianta, l’uno e l’altra dotati di un proprio spirito.
Il Mannhardt, quasi a chiarire questa affinità, passa quindi a illustrare la
concezione che i Germani avevano intorno all’anima dell’albero. E da qui,
da tale concezione, ecco che egli vede emergere gli spiriti della foresta e i
loro vari tipi, mentre l’anima stessa dell’albero gli si dispiega come lo
spirito della vegetazione. Particolare luce ricevono in proposito gli usi
comuni a tale credenza, quali, ad esempio, le processioni primaverili che si
svolgono nell’Europa moderna e dove lo spirito della vegetazione è spesso
rappresentato dal maggio e per di più da un uomo vestito di verdi foglie.
Come egli stesso osserva:

«È lo stesso spirito che anima l’albero e le piante inferiori… Con perfetta coerenza si suppone pure
che lo spirito manifesti la sua presenza nel primo fiore della primavera e si riveli tanto in una
fanciulla rappresentante la rosa canina, quanto, come dispensatore di messi, nella persona del Walber.
La processione di questi rappresentanti della divinità si supponeva che producesse sulle galline, sugli
alberi da frutto e sopra il raccolto, gli stessi benefici effetti della presenza della stessa divinità. In
altre parole la maschera era considerata non come l’immagine, ma come l’attuale rappresentante
dello spirito della vegetazione».

L’esistenza di uno spirito dell’albero, che è il nucleo essenziale attorno a


cui si svolge la costruzione animistica del Mannhardt, si basa su quattro
fattori che di recente l’Eliade ha così sintetizzato: 1, la tendenza generale
(del mito) di comparare il cosmo e l’uomo a un albero; 2, l’uso di legare il
destino di un uomo alla vita di un albero; 3, la credenza primitiva che
l’albero non è solamente la dimora dello spirito della foresta, ma anche
l’abitazione di altri geni, benigni o maligni, alcuni dei quali hanno la loro
vita organicamente unita alla vita dell’albero; 4, l’usanza di punire i
criminali su un albero.
Così in questa indagine il Mannhardt vede nettamente profilarsi di fronte
agli Dei alti – di cui si compiacevano soprattutto i suoi predecessori – le
figure di un’altra mitologia, di una mitologia, ch’egli, non senza ironia,
chiama «bassa», dove predominano le fate, i geni, gli spiriti. Ma questa
mitologia è davvero, egli si domanda, il detrito di una mitologia superiore,
come volevano i suoi predecessori? O è invece il nucleo stesso da cui si è
svolta la stessa mitologia superiore? Il Mannhardt propende per
quest’ultima ipotesi. All’origine è il popolo, dirà egli romanticamente. Ma
va oltre; e mentre la sua indagine si fa più incalzante, ecco che egli vede già
profilarsi l’idea che i miti e i culti della vegetazione, quali vivono
nell’Europa settentrionale e centrale, siano stati influenzati dall’Europa
meridionale. Tuttavia gli antichi popoli romani, offrendoci un’idea più
esatta dei tempi arcaici, si rivelano spesso come intermediari fra i due stadi
di civiltà. La bassa mitologia dei Germani potrebbe essere, insomma, se non
nella sua totalità almeno in parte, un prodotto di importazione. Da qui
l’utilità di comparare i miti e i culti agrari dell’Europa con quelli dei tempi
classici, onde essi reciprocamente si chiariscano, dimostrandoci la loro
genesi interna.
Questo il nucleo attorno a cui si svolge la continuazione del Baumkultus
der Germanen. Nei Wald- und Feldkulte, il Mannhardt estende infatti il suo
esame ai culti dell’antichità classica, comparandoli con le credenze e i culti
agrari del folklore nord-europeo. Driadi, Centauri, Ciclopi e Satiri vengono
allora paragonati con le corrispondenti figure tedesche, francesi,
scandinave, russe ecc. Il Mannhardt domina, da maestro, la mitologia
classica. E studiata la saga greco-romana, ecco che egli esaminerà poi le
feste classiche in rapporto con gli spiriti della vegetazione, gli spiriti
personali della vegetazione (Adone, Attis) quali si manifestano nelle feste
annuali e così via. Esame minuto, preciso, filologicamente attento; ma un
esame, il suo, nel quale i culti e i riti della vegetazione ricevono una loro
essenziale sistemazione, a cui fa da sfondo il potente dramma della
vegetazione e della fecondità, quale si articola nelle sue periodiche vicende,
«Annualmente la vegetazione muore; annualmente la sua morte è seguita da
un rinnovamento della vita feconda; mentre la periodica scomparsa e
riapparizione della vita vegetale sono per la religione agraria morte,
occultamento e resurrezione del dio agrario». Le piante, gli animali, l’uomo
vengono pertanto investiti da una medesima potenza fecondatrice e
vivificatrice. Si pensi, ad esempio, fra l’altro, all’azione stimolatrice che nei
riti degli sponsali assumono gli alberi. La potenza vegetativa passa così, o
meglio può passare, da una sede all’altra. E questa è la ragione per cui
l’animale sacrificato incarnerà il Dio, mentre le parti stesse dell’animale-
Dio, sparse nella campagna, saranno come una potenza, da cui trarrà
vantaggio la terra e i partecipanti stessi al rito. Ma il Dio risorge – così
come risorgono i mesi, le stagioni, gli anni ai quali è legato il ritmo stesso
dell’agricoltura.

4. Naturalismo e storicismo nel Mannhardt

È chiaro, dunque, che in questa sua ricostruzione della civiltà agraria,


intesa come una pagina della storia della civiltà, il Mannhardt risente spesso
dell’orientamento associativo dell’epoca. Il Mannhardt, inserendo nel culto
della natura, quale in fondo lo aveva ravvisato il Tylor, i riti agrari,
presuppone da una parte lo spirito dell’albero e dall’altra quello della
foresta. Nel Tylor il concetto dell’anima produce quello dello spirito. Allo
stesso modo per il Mannhardt lo spirito dell’albero da origine allo spirito
della foresta, il quale, a sua volta, da vita allo spirito generale della
vegetazione.
Nessun fatto, però, gli osserva giustamente il Liungmann, ci autorizza a
stabilire questa «totalizzazione degli spiriti individuali». Inoltre il
Mannhardt afferma, ad esempio, che il genio vegetale, inteso come demone
della vegetazione e incarnato in un albero, si trasforma in una
personificazione della Primavera e dell’Estate. Ma in realtà tutte queste
strutture si possono dedurre analiticamente l’una dall’altra o ciascuna di
esse dipende invece da un rituale specifico? Lo stesso Liungmann non esita
a proporre al posto di ciò che il Mannhardt chiama demone della
vegetazione una forza sacra insita nella stessa vegetazione. E in quanto ai
sacrifici compiuti per la vegetazione è possibile, egli si domanda, non
pensare all’Egitto, quando, invece, è proprio qui che si trovano in proposito
le testimonianze più antiche?
La costruzione del Mannhardt, appunto per questo, è spesso rigida,
mentre del tutto affrettate ci appaiono certe sue conclusioni. Rimane in lui,
tuttavia, un impegno, rimane in lui il desiderio di storicizzare una materia in
cui egli senti il senso della verità. In realtà il Mannhardt non manca, a volte,
com’egli stesso dichiara, di ricorrere ai «metodi di ricerca che aveva
richiesto l’indagine della natura del suo tempo». Ma non c’è in lui, come
c’era in Tylor, lo sforzo di ridurre il folklore a una pregnante storia della
civiltà, nella quale il materiale raccolto si fa giudizio, accusandoci i bisogni,
le affezioni e le illusioni degli uomini?
Era la prima volta, dopo i tentativi del Boulanger, del Dulaure e dei
Grimm, che i miti e i riti della vegetazione – il Mannhardt da anche un
notevole rilievo ai riti fallici – ricevevano una sistemazione storica, ove si
pensi che il Mannhardt non paragona i culti e i riti arbitrariamente,
affidando quei paragoni a una comune mentalità primitiva, ma vuoi rendersi
conto di come e dove un culto nasce, come e dove si diffonde, a quali
esperienze obbedisce. È vero che egli, a volte, fini nelle sue indagini col
perdere di vista quell’ambiente a cui in sede teorica si era appellato. Ma è
vero altresì che, altre volte, lo studio di questo ambiente gli si rivelò di una
grande importanza per comprendere la varietà e l’importanza delle
tradizioni agricole, le quali tuttavia non sempre si possono spiegare,
collegandole all’antico culto della fertilità.
Dice di lui lo Scherer: «Uno dei fenomeni più significativi e curiosi della
scienza contemporanea è che l’etnografia è sul punto di trasformare la
filologia classica. L’iniziatore di questa rivoluzione fu il Mannhardt, il quale
mori quasi sconosciuto nel 1880». A dire il vero, la rivoluzione cui accenna
lo Scherer era stata iniziata da tutta una schiera di studiosi che vanno dal
Lafitau al Tylor. Il Mannhardt le diede un impulso e un vigore fecondi di
risultati.

5. Dalla Cité antique a Psyche

Insegni, fra l’altro, l’esempio di Erwin Rohde, il quale nel suo volume
intitolato Psyche non solo si collega al Tylor, ma anche al Mannhardt. È
vero che egli cita le opere di questi due studiosi soltanto in qualche nota
marginale. Ma è vero altresì che, ove noi leggiamo attentamente la sua
opera, sentiamo subito che tanto le concezioni animistiche del Tylor quanto
i legami fra la terra e il sottoterra, quali li aveva intravisti il Mannhardt,
dominano lo scenario in cui si muovono le ricche e suggestive ricostruzioni
del Rohde.
Da qui il netto distacco di Psyche da un’altra opera che la precedette: La
cité antique di Fustel de Coulanges. Diceva questi nel 1865: «Anche negli
ultimi tempi della storia della Grecia e di Roma, si vede persistere nel volgo
un insieme di idee e di usi che rimontano certamente ad un’epoca molto
remota, per mezzo dei quali noi possiamo conoscere quale fosse l’opinione
primitiva dell’uomo sulla propria natura, sull’anima e sulla morte». E
aggiungeva, sotto l’influsso del Müller: «Per quanto si risalga nella storia
della razza indoeuropea, di cui le popolazioni greche e italiche sono due
rami, non si trova mai che essa abbia pensato che dopo la morte tutto fosse
finito per l’uomo». Ecco, dunque, predominare nelle ricerche storico-
filologiche non soltanto i grandi poeti e i grandi pensatori, bensì anche il
volgo con i suoi costumi, con le sue idee, col suo pensare.
E il Rohde, il cui libro uscì dal ’91 al ’94, par quasi che riprenda quel
discorso, quando appunto afferma che «le credenze popolari intorno al
perdurare delle anime dei defunti, credenze basate sul culto delle anime e
concresciute con alcune accezioni della dottrina omerica delle anime,
rimangono sostanzialmente immutate di forza in tutti i secoli della vita
greca».
Eppure, nonostante la comunità di questi interessi, il Rohde procede su
una via ben diversa da quella tracciata da Fustel de Coulanges. Lo stesso
Rohde in una sua nota avverte:

«Si dovrebbe qui menzionare un libro geniale e ricco di idee, La Cité antique di Fustel de Coulanges,
in cui si tenta di dimostrare che il culto degli antenati è la radice di tutte le più alte forme della
religione dei Greci. Non si viene però a disconoscere in nessun modo la fecondità della tesi del libro,
se si ammette che la sua idea fondamentale – per ciò che concerne la Grecia – non è potuta divenire
più che un’intuizione che potrebbe essere giusta e vera, ma che rimane indimostrabile».

È noto che Fustel de Coulanges, nel concepire il culto degli antenati


come elemento primigenio della religione e della società greca, aveva
precorso in un certo senso lo Spencer, che porrà quel culto all’origine della
civiltà. E il Rohde, a dire il vero, non manca di ricordare lo stesso Spencer a
proposito della dualità dell’uomo:

«Naturalmente riesce a noi assai singolare che si possa concepire un uomo vivente, pienamente
animato, in cui abiti un ospite straniero, un suo duplicato più debole, un altro io come sua psiche. Ma
questa è appunto la fede dei cosiddetti “popoli primitivi” di tutta la terra, come ha dimostrato molto
acutamente sovrattutto Herbert Spencer. Non sorprende affatto vedere che anche i Greci partecipino a
quel modo di concepire che è così naturale allo spirito della umanità primitiva».

E a questa umanità primitiva egli ricorre spesso come a una pietra di


paragone, tanto è vero, ad esempio, che altrove osserva:

«I popoli primitivi sogliono attribuire alle anime separate dai corpi una grandissima potenza, tanto
più terribile in quanto invisibile; anzi in un certo modo fanno derivare dalle anime tutte le forze
occulte e si adoperano ansiosamente e di continuo ad accattivarsi la benevolenza di questi spiriti».

Ma qui, dietro questa concezione, c’è davvero Spencer? O c’è invece,


come c’è, Tylor? Aggiunge del resto lo stesso Rohde che «Omero non
conosce invece nessuna influenza delle anime sul mondo visibile e perciò
nessun culto di esse». Senonché, egli si domanda, nella poesia di Omero
non abbiamo noi dei rudimenti che indirettamente possono testimoniarci
quella influenza? I dotti inglesi chiamano quei rudimenti, egli precisa,
survivals. Ed ecco un’altra volta Tylor.
Il Rohde è dell’avviso, è vero, che i popoli primitivi, se pur hanno un
passato, non hanno una storia. Ma quale che fosse il suo concetto, è certo
che, partendo dai primitivi, egli senti in modo nuovo l’antico mondo greco.
Con questo risultato: che il Rohde, pur muovendosi in un campo consacrato
a determinati metodi – è nota fra l’altro la polemica che egli ebbe col
Wilamowitz in difesa del Die Geburt der Tragödie del Nietzsche –, riuscì a
illuminare di una vita propria un mondo spirituale, che è indubbiamente il
meno appariscente nelle fonti letterarie, ma non perciò il meno degno di
studio. Si potrà rimproverare al Rohde di non aver tenuto conto, nello
studiare il folklore dell’antica Grecia, di quello della Grecia moderna (il che
sarà poi argomento di indagini da parte del Lawson). Sta di fatto che,
nonostante gli studi ulteriori dedicati all’argomento, il libro del Rohde
rimane un’opera fondamentale.

6. Usener

Né meno fondamentale – per ritornare ai problemi che più direttamente


interessano la mitologia – rimane un’opera che, edita nel 1896, cercò di
conciliare le esigenze della mitologia comparata con quelle della
metodologia folkloristico-etnologica: i Götternamen di Hermann Usener. In
questo suo libro, l’Usener si propone anzitutto di ricostruire la formazione e
l’evoluzione dei concetti religiosi espressi nei nomi degli dèi. Egli ritorna,
in sostanza, allo studio del linguaggio per indagare la formazione dei miti.
A differenza del Müller egli, com’è stato ben osservato, si giova del mito
unicamente in quanto esso è il solo mezzo che ci consente di introdurci nel
mondo culturale, a cui appartiene la mitologia di un dato popolo. Nel
mettere in rilievo il parallelismo tra linguaggio e mito, l’Usener arriva
infatti a questa conclusione: che da principio l’uomo crede a uno sterminato
numero di dèi spontanei o momentanei, nati per i singoli momenti e azioni
dell’esistenza quotidiana (gli Augenblicksgötter). Questi, a loro volta, non
sono che una classe speciale dei Sondergötter, i quali presiedono a
determinati fatti e fenomeni. È soltanto dopo la creazione di questi dèi che
si arriva infine alla concezione di dèi più generali e personali, mentre allora
gli stessi Sondergötter diventano appellativi.
L’uomo primitivo, insomma, per l’Usener riceve in un primo momento
delle sensazioni singole che si tramutano in rappresentazioni singole (non
l’idea dell’albero predomina, ad esempio, in queste rappresentazioni, ma
quella di un albero). Poi quella prima rappresentazione acquista valore
permanente, finché «con l’irrobustirsi del pensiero si procede verso concetti
più generali».
Grande rilievo hanno inoltre nella sua ingegnosa ricostruzione i culti e i
riti agrari, cui presiede una determinata divinità. Qui egli utilizza
Mannhardt. Ma, a differenza di Mannhardt, si fa spesso guidare da
etimologie che risultano del tutto arbitrarie. Come il Mannhardt, egli però si
interna nei misteri della mitologia classica. E qui è la parte più viva del suo
esame. Di notevole interesse sono inoltre le sue indagini sulla mitologia
degli Slavi meridionali. Né mancano in lui dei riferimenti al folklore
italiano. Esempio: «A Rocca Pia, negli Abruzzi, si pratica quest’uso:
quando il grano è secco, i coloni formano un fantoccio di paglia che è
collocato sopra un carro carico di sacchi di grano, e con grandi grida di
giubilo e canti questo fantoccio viene trasportato fino alla casa e posto nella
cucina dove si offrono cibo e bevande». Siamo in presenza, per adoperare il
termine del Mannhardt, del demone del grano. Ma questo demone è per
l’Usener il protettore di un determinato campo, non di tutti.
Commenta in proposito il Pettazzoni:

«Con la sua legge dello svolgimento dei nomi divini, che rappresentava una scoperta atta a fare della
mitologia la «scienza del mito», Usener veniva a incontrarsi, in sostanza, con la teoria
evoluzionistica, che, indipendentemente da ogni indagine linguistica, era giunta a concepire lo
svolgimento dell’idea di Dio attraverso tre gradi: l’animismo, il politeismo, il monoteismo. Infatti la
quantità sterminata dei numi istantanei (Augenblicksgötter) corrisponde al numero sterminato degli
spiriti della fede animistica; alla pluralità dei Sondergötter corrisponde un animismo più ridotto, o
polidemonismo, mentre la formazione degli dèi personali, con la implicita riduzione delle figure
divine, rappresenta il politeismo destinato a sboccare nel monoteismo».

E lo stesso Pettazzoni aggiunge che l’Usener, quando vuoi spiegare gli


dèi personali come antichi dèi di categoria, il cui nome è divenuto
eccezionalmente un nome proprio per ragioni puramente estrinseche, non
tiene conto del fattore spirituale che operò in questo senso, cioè dell’opera
della poesia. Ma più che nella sua ricostruzione delle origini della religione
è nei dettagli, nei suoi innumerevoli excursus dedicati alla vita popolare
degli antichi e dei moderni che va ricercata la vitalità stessa della sua opera.
Di notevole interesse sono inoltre una serie di saggi che egli, prendendo
quasi sempre lo spunto da un motivo mitico, venne scrivendo a varie riprese
e che in gran parte furono raccolti nei suoi Kleine Schriften. Molti di essi
potrebbero portare il titolo di un libro che allora ebbe in Germania un vivo
successo: gli Ethnographische Parallelen und Vergleiche di Richard
Andree. Né soltanto il titolo, tanto fra i due studiosi è identico il taglio e la
composizione del saggio. L’uno e l’altro, l’Usener e l’Andree, subirono
indirettamente e direttamente l’influsso del Tylor oltre che quello del
Mannhardt. E tutti e due rimasero sempre convinti che, se la storia delle
religioni e quindi della mitologia si deve estendere a tutti i popoli antichi,
essa tuttavia rimane monca, ove non venga integrata dai documenti che ci
offre il folklore attuale, il folklore vivente.

7. Dieterich

E in questo senso lavorò un altro filologo tedesco, Albert Dieterich, il


quale, nipote dell’Usener, ci ha dato una serie di opere dove i materiali
raccolti sono sottoposti a una critica serrata e penetrante. Lavoratore
infaticabile, egli ci ha lasciato, fra l’altro, due opere molto discusse: l’una
intitolata Eine Mithrasliturgie e l’altra Nekya. Di notevole interesse sono
anche gli Studien zur Religions-geschichte. L’opera che l’impegnò
maggiormente e che più interessa lo studio del folklore è la Mutter Erde,
edita nel 1905.
In quest’opera (di cui abbiamo una recente edizione curata e completata
da uno studioso tedesco, E. Fherle), il Dieterich studia le credenze e i riti
classici inerenti alla Terra concepita come Terra-Madre. A differenza
dell’Usener, egli non abbraccia quindi l’esame di tutte le divinità, bensì di
una sola. E qui egli, naturalmente, non può non essere che in vantaggio
rispetto al nonno Usener. Il Dieterich è anch’egli sulla via tracciata dal
Tylor e l’animismo è, si può dire, al centro stesso delle sue ricostruzioni. In
queste si sente, però, l’influsso anche del Mannhardt, tanto è vero che egli
nell’indagare la genesi e lo svolgimento della concezione secondo cui la
terra viene appunto concepita come Madre, o meglio come la Madre di tutti,
centra il suo esame sulle rappresentazioni concernenti la riproduzione delle
specie animali e la fertilità del suolo, considerate come parallele e analoghe
con la generazione umana.
Il Dieterich in tale esame si ferma anzitutto su tre costumi che erano in
uso nell’antichità classica: 1, la deposizione del fanciullo appena nato sulla
terra; 2, l’inumazione dei fanciulli; 3, il toccamento degli ammalati e degli
agonizzanti che, per guarire, vengono posti sulla nuda terra. Ne indaga,
quindi, le innumerevoli concordanze che esistono fra i popoli primitivi. E
da questi – per quanto il procedimento a volte sia inverso – si interna nella
vita del folklore germanico in particolare ed europeo in generale, e non
soltanto europeo, per animare con senso storico le sue ricostruzioni. Così,
ad esempio, dopo aver ricordato l’uso abruzzese di porre il bambino sulla
terra, ritiene che tale uso si debba considerare come la sopravvivenza di un
rito secondo il quale nell’antichità il figlio era consacrato alla Madre Terra.
Da qui a sua volta la credenza dei bambini venuti dalla terra (o comunque
dagli alberi o dalle rocce che sono pur sempre ad essa legati).
Il Dieterich considera insomma la terra come un essere vivente, come
un’anima piena di anime. Essa, la terra, è vivente perché è fertile. Da qui il
binomio homo-humus, cui si appellano le stesse credenze popolari. Da qui
la solidarietà esistente fra la fecondità dei campi e quella della donna, il che
ha dato origine a un’altra serie di credenze, le quali comportano anche
l’identificazione del lavoro agricolo con l’atto generatore (e quindi
l’identificazione del fallo con l’aratro).
In effetti molte tesi del Dieterich sono state attaccate non soltanto dal
Goldmann nel suo Cartam levare ma anche dal Nilson nella sua recente
Geschichte der griechischen Religion. Bisogna tuttavia riconoscere, come
ben nota l’Eliade, che la Mutter Erde rimane – con la Psyche del Rohde –
un libro veramente classico.

8. Il costume come culto religioso della vita

Uno studioso francese, il Pinard de la Boullaye, ha definito il gruppo di


questi scienziati che sulle orme del Tylor e del Mannhardt hanno ravvivato
gli stessi studi della filologia classica come i «filologi dell’etnologia» o
meglio, se si vuole, gli «etnologi della filologia». Essi, continua infatti il
Pinard, se da un lato collegano la scuola filologica intenta a valutare i valori
del mito con la scuola antropologica che, nello studiare quei valori, aveva
allargato la sua indagine, dall’altro utilizzano, a servizio di quest’ultima, un
nuovo metodo di lavoro. Da qui un ricambio di idee che fu quanto mai
benefico per l’una quanto per l’altra disciplina non solo, ma anche per il
folklore, il quale così veniva a godere di un più ampio e consapevole
respiro. Non era stato facile in realtà rimuovere un campo, così chiuso e
consacrato, direi canonico, qual era quello della filologia classica, con le
suggestioni vive e feconde che suscitarono tanto l’etnologia quanto il
folklore. Eppure alla luce di quelle nuove ricerche quante volte gli stessi
testi classici non acquistarono un nuovo senso che li illuminava?
Nel sottolineare la bontà di queste ricerche, una notevole importanza
ebbe allora l’«Archiv für Religionswissenschaft», la cui direzione, tenuta
prima dall’Hardy, fu assunta dallo stesso Dieterich, il quale, nel tracciare il
nuovo programma, affermò decisamente che, se gli etnologi possono molto
imparare dai filologi, questi a loro volta molto si possono avvalere
dell’aiuto dei primi. Poiché, egli aggiungeva, l’etnica tradizionale è il
terreno antichissimo, sì, ma anche eterno e contemporaneo di tutti gli
avvenimenti della storia.
È con questa consapevolezza che egli adoperò infatti il metodo
comparativo, raggiungendo quei risultati che pur già erano stati individuati
dal Mannhardt e in un certo senso anche dall’Usener e dal Rohde. Si pensi
che allora in Germania il metodo comparativo veniva usato senza nessuna
discriminazione nel campo di una nuova disciplina: l’etnologia giuridica, la
quale, soprattutto ad opera del Post, pretendeva, attraverso lo studio dei
popoli primitivi, di investigare l’origine ultima e profonda del diritto. Il che,
com’è stato giustamente osservato, non poteva non essere che un abbaglio
gnoseologico. Il metodo comparativo servi invece al Dieterich – né diverso
può essere il suo compito nell’etnologia giuridica – per approfondire la
conoscenza storica degli istituti, oggetto del suo esame. Si pensi inoltre che
anche il Wundt era nello stesso ordine di idee del Post. Nella sua opera
Mythus und Religion, i cui tre volumi apparvero dal 1905 al 1909, il Wundt
sottoponeva, è vero, l’animismo del Tylor a un radicale rinnovamento, dove
non era estranea l’influenza dello stesso Mannhardt, ove si pensi appunto
che per lui l’anima e lo spirito creano il demone, il quale possiede il potere
sovrumano di giovare o di nuocere. Incagliato nelle secche del naturalismo,
egli accumulava i fatti di tutte le civiltà senza vedere qual è il
concatenamento dei fatti stessi in ciascuna di queste civiltà. E dimenticava,
come ammoniva il Dieterich, che un fatto può essere spiegato diversamente
a seconda dell’ ambiente in cui si manifesta.
Questa la ragione per cui nell’«Archiv» diretto dal Dieterich si
formarono alcuni fra i migliori etnologi e folkloristi tedeschi. Nota infatti a
proposito lo Spamer:

«Quando, un quarto di secolo fa, Paolo Sartori diede alle stampe il suo grande trattato sugli usi e
costumi popolari tedeschi, era fatto un passo decisivo nella indagine delle usanze popolari. In tre
grandi sezioni che trattano della nascita, delle nozze e della morte, della vita e del lavoro a casa e
fuori, delle stagioni e delle feste dell’anno, precedute da osservazioni generali sulla terminologia, da
considerazioni sull’origine e lo sviluppo degli usi e costumi, e da tentativi di una loro interpretazione,
il Sartori raccoglieva e ordinava, con una anche troppo minuziosa citazione delle fonti, un materiale
di ricchezza sbalorditiva».

E lo Spamer subito dopo aggiunge:

«Nell’aver riconosciuto che la maggior parte delle usanze ha radice nella religione, il Sartori, che
chiama in un certo senso il costume culto religioso della vita quotidiana, mostra il forte influsso delle
indagini di storia comparata delle religioni che fin dal 1898 avevano trovato nell’“Archiv für
Religionswissenschaft” un centro di notevole importanza».
Ma c’è di più: ed è che quelle indagini si venivano incontrando ormai
con gli stessi risultati cui, dopo Tylor, perveniva la scuola antropologica
inglese. In Dieterich l’animismo è già sostituito a volte dalle istanze
magiche. E dietro quelle istanze ecco apparire la forte personalità di uno
studioso inglese: James G. Frazer, il quale nel suo Golden Bough non
mancò di tenere nella debita considerazione le teorie del Mannhardt.
23. Frazer, l’avvocato del diavolo

1. L’opera del Frazer

È stato più volte osservato che l’opera svolta da James George Frazer nel
campo della etnologia e del folklore si può paragonare a quella che nel
campo della storiografia svolse in Italia Ludovico Antonio Muratori. Al
Muratori il Frazer si avvicina infatti per la straordinaria capacità di lavoro,
per l’infaticabile alacrità di ricerche, per la ricchezza stessa della sua opera.
Con questa differenza, tuttavia: che mentre il campo della indagine
muratoriana rimane l’Italia, quello del Frazer è il mondo. E il mondo visto
nei suoi aspetti più misteriosi e inquietanti, quali sono appunto le credenze e
le superstizioni, alla cui natura si rifanno le istituzioni, i miti, le leggende.
Il metodo di indagine di cui il Frazer si serve per internarsi in quel
mondo è quello stesso del Tylor: il comparativo. Egli si muove in mezzo a
una cultura dominata e impregnata di positivismo. Vi si sente a suo agio. Ha
la passione di un Fontenelle, di un Lafitau, di un Tylor e di un Mannhardt
per le letterature classiche. Il mondo dei selvaggi – così, come il Tylor, egli
chiama i primitivi – gli si dispiega con molteplici interessi. E coi selvaggi,
sulle orme stesse del Tylor, lo interessa la vita spirituale, quale essa vive o
sopravvive fra i volghi dei popoli civili. Sotto questo aspetto, anzi, egli non
solo completa Tylor, di cui accoglie il concetto di sopravvivenza, ma dà al
folklore stesso, cioè alla sua materia, un organizzamento più metodico di
quanto non avesse fatto lo stesso Tylor. Gli sarà di esempio Mannhardt.
Così attraverso le credenze, le istituzioni e le superstizioni il Frazer
collega le civiltà classiche coi popoli primitivi e questi coi volghi dei popoli
civili, per quanto nei suoi collegamenti risulti poi una scala, il cui primo
gradino è costituito precisamente dai popoli primitivi, dalle civiltà classiche
il secondo, dal folklore l’ultimo. Né il Frazer si limita a raccogliere le varie
testimonianze. Che anzi questa è la sua preoccupazione: non imbalsamare
quelle testimonianze, ma renderle vive e suggestive perché le sue pagine si
possano articolare in una scrittura omogenea e compatta. Si direbbe,
leggendo le sue opere, che gli etnologi e i folkloristi d’Europa abbiano tutti
lavorato per lui. Ma lui ricambierà il dono ricevuto, tanto è vero che nelle
sue pagine anche gli etnologi e i folkloristi più rigidi e irsuti diventano
scrittori letterariamente apprezzabili e piacevoli. Il Frazer avvicenda quindi
tali testimonianze con le pagine più suggestive delle letterature classiche o
anche orientali. Riporta, con compiacimento, pagine di letterati, brani di
poeti. La sua cultura profondamente umanistica si innesta su una cultura
moderna, sensibilissima e raffinata. E le sue pagine, e di pagine egli ne ha
scritto migliaia, non affaticano né stancano, ma spingono il lettore a
seguirlo. Anche quando l’autore integra la sua analisi descrittiva con le
interpretazioni date ai vari elementi costitutivi di una tradizione, di un uso,
di un rito.
Si aggiunga che quasi tutte le sue opere sono il frutto di una elaborazione
continua, di un impegno ch’egli ritiene di avere assolto sempre a metà e nel
quale si sente la forza di un temperamento volitivo. Così, ad esempio, il
primo lavoro etnologico pubblicato dal Frazer si intitola Totemism ed è del
1884. Nel 1892 egli ritorna sull’argomento. Ma dobbiamo arrivare al 1912
per vedere quel tema svolto, con ricchezza di particolari, nei quattro volumi
dell’opera Totemism and Exogamy. Né meno laboriosa è stata la
compilazione del lavoro più popolare del Frazer: il Golden Bough.
Pubblicato in due volumi nel 1890, esso fu ristampato nel 1900 con un
volume in più. Ma le sue ricerche, già ben avviate in quelle prime edizioni,
si dirameranno in direzioni sempre più numerose finché dal 1911 al 1915 il
Golden Bough uscirà in dodici volumi.
È questa la più suggestiva opera nella quale gli interessi del Frazer si
sommano, illuminandosi gli uni con gli altri. Gli Inglesi l’hanno definita «la
Bibbia dei tempi moderni». In essa il letterato si accompagna all’etnologo,
l’etnologo al folklorista. E l’uno e l’altro, l’etnologo e il folklorista,
rimangono sempre più ammirati della cultura e della civiltà classica. Le
quali – ancor giovane, nel 1884, il Frazer aveva curato il Bellum
Jugurthinum di Sallustio – sono state affrontate dal Frazer ancora più
direttamente in quei mirabili monumenti che sono i sei volumi di
Pausanias’s Description of Greece e i cinque dei Fasti of Ovid, dove le
feste, le credenze, le istituzioni e le superstizioni dell’antica Grecia e
dell’antica Roma vengono spiegate, illuminate e chiarite col vivificante
contributo dell’etnologia e del folklore.
Sullo stesso piano di questi lavori che segnano il più deciso e decisivo
incontro tra l’etnologia, la filologia classica e il folklore, si articola l’opera
in tre volumi dedicata al Folklore in the Old Testament. Né qui si ferma
l’attività del Frazer, ove si pensi, senza tener conto dei suoi lavori di
carattere letterario, che egli dal 1913 al 1924 pubblicò i tre volumi, di
interesse prevalentemente etnologico, The Belief in Immortality and the
Worship of the Dead; nel 1926 i due volumi The Worship of Nature; nel
1930 l’ampio saggio Myths of the Origin of Fire; nel 1933, ormai
ottantenne, il volume The Fear of the Dead in Primitive Religion. Di
notevole interesse, per quanto si tratti di materiali non elaborati, i tre volumi
Anthologia Anthropologica, editi fra il 1938 e il 1939.
A riassumere alcune conclusioni, cui era giunto nella sua vasta opera, il
Frazer pubblicò fin dal 1908 una serie di saggi che allora presero il titolo di
Psyche’s Task. Nel 1927, nel ripubblicare tale volume – cui, nello stesso
anno, aggiungeva la vivace antologia tratta dalle sue opere, Man, God and
Immortality –, il Frazer volle cambiargli titolo. E lo chiamò, non senza
significato: The Devil’s Advocate.
Laureatosi in legge a Cambridge, il Frazer fu ammesso verso il ’75 al
foro di Londra. Era destino però che i suoi clienti dovessero essere ben
diversi da quelli che si incontravano in quel foro. Questa la ragione per cui
egli volle ribattezzare col titolo di Devil’s Advocate il suo libro Psyche’s
Task. E quell’avvocato, l’avvocato del diavolo, difenderà, sì, nel lungo
corso della sua vita, dei clienti, ma questi, come egli stesso afferma in quel
suo libro, saranno le credenze, le istituzioni, le leggende. E in particolar
modo – ecco il cliente più pericoloso – le superstizioni, nelle quali, se non
vi è tutta la storia dell’umanità, vi è indubbiamente una parte di quella
storia.

2. Sulle orme del Re del Bosco

Con questo intento il Frazer si accinse alla compilazione del Golden


Bough, nel quale egli si preoccupa anzitutto di vedere quale sia stato
effettivamente il primo stadio del pensiero umano. Convinto, come il Tylor,
che l’etnologia è un criterio di interprelazione per il folklore, egli è
dell’avviso che per applicare questo principio è anzitutto necessario
respingere il concetto che il Tylor aveva dell’animismo. Al principio era
l’animismo, aveva detto Tylor. Al principio era la magia, dirà invece il
Frazer. E lo stesso Golden Bough porta appunto per questo il sottotitolo:
Magic and Religion.
Partito, pellegrino e rapsodo per le vie del mondo, da Nemi, o meglio dal
Santuario di Diana Nemorensis, dove nell’antichità era stata osservata una
legge inesorabile, quella del Re del Bosco, che era stato al tempo stesso un
sacerdote e un assassino – in quanto poteva aspirare a quell’ufficio soltanto
chi avesse ucciso il suo predecessore – il Frazer, nell’indagare la genesi di
quell’usanza, si accorse subito che anche nelle società primitive il re è
spesso non solo un sacerdote, ma anche un mago, il quale ottiene il potere
per una supposta perizia nell’arte magica. Come il Re del Bosco di Nemi,
anche il re primitivo deve sottostare a tutta una serie di divieti da cui
dipende il suo ufficio e la sua vita. Il fatto che la legge del Re del Bosco non
trovava riscontro nell’antichità classica aveva spinto il Frazer a spingersi
assai lontano, fra i selvaggi. Senonché, com’egli stesso avverte:

«per comprendere l’evoluzione della regalità e il carattere sacro di cui quest’ufficio è stato
comunemente investito agli occhi dei popoli barbari e selvaggi è essenziale avere qualche
conoscenza dei principi della magia».

Così, come se compisse una sosta, il Frazer affronta uno dei problemi
più difficili cui sia collegata la storia del pensiero primitivo. Da questa sua
sosta dipenderà il suo orientamento. Ammiratore e discepolo del Tylor, il
Frazer avrebbe potuto trovare tale orientamento nell’animismo. Fin dal suo
piccolo libro sul Totemism, egli si era però trovato a tu per tu con le
credenze magiche che legano la vita del selvaggio dentro una catena di
ferro. Ma qual è, egli si domanderà, il carattere, la natura, l’ufficio di queste
credenze?
Nel 1890, nella prima edizione del Golden Bough, il Frazer si era
limitato a constatare che ai selvaggi il mondo appare dotato e diretto non
soltanto da esseri personali, ma anche da forze impersonali, che è quanto
dire da leggi naturali, nell’ambito delle quali si sarebbe svolta la magia.
Nella seconda, in quella del 1900, egli mette in maggior rilievo quelle
concezioni. Il che verrà poi ribadito, con maggior impegno oltre che con
una più scaltrita dialettica, nella terza edizione del Golden Bough, nel cui
primo volume egli cerca di determinare l’origine stessa della magia,
classificandone i principi e i mezzi.
Nell’intervallo intercorso, fra le varie edizioni del Golden Bough, nel
1892, era uscita intanto in Inghilterra un’opera dove venivano affrontate le
varie questioni inerenti alla magia dei primitivi. Dovuta a J. A. King,
quell’opera si intitolava The Supernatural, its Origin, Nature and Evolution.
Anche il King, in fondo, è sullo stesso piano del Frazer, quale questi ci
appare fin dalla prima edizione del Golden Bough. Il King però non solo si
mostra decisamente convinto che la magia non sia affatto il risultato di
determinate forze, le quali non hanno nulla a che fare con l’animismo, ma
va oltre. Le usanze magiche, egli avverte, si sono formate quando il corso
naturale delle cose venne interrotto da qualche fatto straordinario, che il
selvaggio identificò in una forza buona o cattiva che portava fortuna o
sfortuna e che perciò provocava desiderio o paura. Così per il King la magia
può effettivamente comprendersi e spiegarsi, ove si tenga presente che essa
nasce dalla visione di cose nuove e straordinarie-soprannaturali, messe in
rapporto con le altre cose conosciute. È proprio allora, secondo il King, che
subentra nel selvaggio uno stato di agitazione che provoca delle
associazioni di idee, le quali alla loro volta pongono l’oggetto in rapporto
con altre cose, sia come causa, sia come effetto, sia come causa ed effetto.
Ora è appunto su questa associazione di idee che il Frazer, fin dalla
seconda edizione del Golden Bough, fonda l’origine della magia – per
quanto noi non sappiamo s’egli conoscesse o no l’opera del King che ad
ogni modo non cita. Ecco quindi che cosa saranno, per lui, le credenze
magiche: dei giudizi ai quali fa da leva l’istinto casuale.
3. I principi della magia formulati dal Frazer

Considerata la magia come una falsa scienza che è insieme una falsa
arte, il Frazer illustra, quindi, i principi che la reggono. E questi, a suo
avviso, sono due: 1, che il simile produce il simile o che l’effetto
rassomiglia alla causa; 2, che le cose che siano state una volta a contatto
continuano ad agire l’una sull’altra, a distanza, dopo che il contatto fisico
sia finito. Il primo principio, egli aggiunge, può chiamarsi legge di
similarità. Il secondo, legge di contatto o di contagio. Questi principi a loro
volta, egli incalza, non sono che due cattive e diverse applicazioni delle
associazioni delle idee. La magia omeopatica (o imitativa) è fondata sulla
associazione di idee per similarità. La magia contagiosa sull’associazione
per contiguità. In pratica, però:

«… i due principi sono spesso combinati; o per essere più esatti, mentre la magia omeopatica o
imitativa può essere praticata da sola, si troverà che la magia contagiosa implica generalmente
un’applicazione del principio omeopatico o imitativo. Effettivamente queste forme di pensiero sono
ambedue estremamente semplici ed elementari. E difficilmente non potrebbe non esser così, dal
momento che sono familiari in concreto, sebbene non certo in astratto, alla rozza intelligenza non
solo del selvaggio, ma delle persone ignoranti e ottuse, dovunque. Tutti e due i rami della magia,
l’omeopatica e la contagiosa, si possono giustamente comprendere sotto il nome generale di Magia
Simpatica, perché ambedue affermano che le cose agiscono l’una sull’altra a distanza, per mezzo di
una segreta simpatia, mentre l’impulso è trasmesso dall’una all’altra per mezzo di quel che possiamo
concepire come una specie di etere invisibile, non troppo diverso da quello che è postulato dalla
scienza moderna per uno scopo del tutto simile, per spiegare cioè come mai le cose possono
influenzarsi fisicamente attraverso uno spazio che appare vuoto».

L’applicazione più familiare del primo principio – il simile produce il


simile – consiste, ad esempio, nel credere che si possa distruggere o
danneggiare un nemico, danneggiando o distruggendo la sua immagine; nel
guarire o prevenire le malattie trasferendole alla terra, a un albero, a una
pietra ecc.; nel ritenere che le cose della stessa specie si attraggono l’una
con l’altra per mezzo dei loro spiriti; nell’aiutare, o anzi meglio, nel far si
che, mediante le cerimonie che li riproducono, sia abbondante il raccolto, la
pesca, la caccia ecc. Il sistema della magia simpatica, tuttavia, non è
composto soltanto di precetti positivi, ma comprende un gran numero di
precetti negativi, cioè proibizioni. Insomma:

«… non vi dice soltanto quel che dovete fare, ma anche quel che non dovete. I precetti positivi sono
gli incantesimi, quelli negativi sono i tabu. Effettivamente tutta la dottrina del tabù, o in ogni caso la
maggior parte di essa, non sembra essere altro che un’applicazione speciale della magia simpatica
con le sue due grandi leggi della similarità e del contatto… La magia positiva, o incantesimo, dice: “
Fa’ questo perché possano accadere le tali cose”. La magia negativa, o tabù, dice: “Non far questo
affinchè non accadano le tali cose”. Lo scopo della magia positiva, o incantesimo, è di produrre un
evento desiderato; lo scopo della magia negativa, o tabù, è di evitarne uno cattivo. Ma tutte e due le
conseguenze, quella buona e quella cattiva, fono supposte accadere per leggi di similarità e
contatto… I due fenomeni [i tabù e gli incantesimi] sono semplicemente i due lati opposti o i poli di
una grande e disastrosa illusione, di una errata concezione dell’associazione delle idee. Di questa
illusione l’incantesimo è il polo positivo, il tabù quello negativo».

L’esempio più familiare invece della magia contagiosa, osserva il Frazer,


è la simpatia magica che si crede esista tra un uomo e le parti del suo corpo
separate, come, ad esempio, i capelli e le unghie, così che chiunque venga
in possesso di capelli e unghie può fare quel che vuole, a qualsiasi distanza,
sulla persona da cui furono tagliati. Altro esempio: la connessa simpatia che
può esistere tra l’uomo e Tarma che l’ha ferito. La magia contagiosa può
essere inoltre esercitata su un uomo anche per mezzo delle impronte lasciate
dal suo corpo sulla sabbia o sulla terra.
L’una e l’altra di queste forme, sia pure nel loro continuo intrecciarsi,
possono essere praticate a beneficio di un privato, ma anche a beneficio
della comunità. Ed è in quest’ultimo caso che il mago diventa un
funzionario pubblico, una personalità. Commenta il Frazer:

«Lo sviluppo di una tal classe di funzionari è di grande importanza per l’evoluzione tanto politica
quanto religiosa della società: poiché, quando si suppone che il benessere della tribù dipende
dall’esecuzione di certi riti magici, il mago si innalza a una posizione di grande influenza e
reputazione e può facilmente acquistare il grado e l’autorità di capo e di re. Il risultato generale è che
a questo stadio dell’evoluzione sociale il supremo potere tende a cadere nelle mani di uomini dalla
più acuta intelligenza».

Questa la sosta del Frazer, il quale nel primo volume del Golden Bough,
intitolato non senza ragione The Magic Art and the Evolution of Kings,
pone un netto distacco fra la magia, che, a suo modo di vedere, è una forma
elementare del pensiero (la più elementare anzi che esista e perciò secondo i
dettami dell’evoluzione la più antica) rispetto alla religione, che invece di
quel pensiero rappresenta una forma più complessa. Né soltanto per questo:
ma anche perché il dio del mago è una forza impersonale, mentre il dio
della religione è una forza personale, alla cui volontà il credente si
sottomette (a differenza del mago che invece impone la sua volontà). Nella
stessa Magic Art ecco come il Frazer sintetizza il suo pensiero:

«In primo luogo le nozioni fondamentali della magia e della religione ci fanno pensare che la magia è
più antica delle religioni nella storia dell’umanità. Abbiamo visto che la magia è un’errata
applicazione dei più semplici ed elementari processi mentali, cioè dell’associazione delle idee per
virtù di somiglianza e contiguità e che d’altra parte la religione ammette l’azione di agenti personali e
consci superiori all’uomo, al di là dello schermo visibile della natura. Evidentemente la concezione di
esseri soprannaturali è più complessa che una semplice intuizione della similarità e della contiguità
delle idee; e una teoria che ammette che il corso della natura sia determinato da agenti consci è più
astrusa e recondita e richiede per la sua comprensione un grado molto più alto di intelligenza e di
riflessione, che non l’idea che le cose si succedano l’una dopo l’altra semplicemente a causa della
loro contiguità e somiglianza».

Né il Frazer si allontanò mai da questi principi che divennero i veri


protagonisti delle sue opere. Lo stesso invece non può dirsi di un’altra
fenomenologia, il totemismo, in cui egli finisce col riconoscere i caratteri
stessi della magia.

4. Il totemismo come magia

Il primo studioso che si è occupato con criteri scientifici del totemismo è


indubbiamente Mac Lennan, cui spetta il merito di averci rivelato la
struttura dell’esogamia: cioè il divieto imposto ai membri dei clan, che
hanno lo stesso totem, di sposare fra loro. Il Mac Lennan aveva pubblicato
fin dal 1866 un saggio: Primitive Marriage, che poi insieme ad altri dello
stesso genere fu incluso negli Studies in Ancient History, che sono del 1876.
Ed è al Mac Lennan che si riferiva il Frazer fin dal suo piccolo lavoro sul
Totemism.
Il Mac Lennan in quegli Studies completava nel campo della religione
quelle ricerche che, iniziate in un campo speciale, e specificamente in
quello della famiglia, lo avevano portato appunto alla scoperta del
totemismo, di cui allora si avevano scarse e sporadiche notizie, ma che già
si presentava come un sistema di credenze che aveva influenzato la
formazione della parentela umana, in quanto quelle credenze consistevano
nell’attribuire una parentela tra le famiglie e determinate specie di animali,
piante ecc. L’aspetto sociale che il totemismo assume, non vieta al Mac
Lennan di vedere in esso una forma di religione, nella quale si invera il
culto degli antenati associato al culto degli animali e delle piante: una forma
di religione, ad ogni modo, cui egli fa risalire i culti zoolatrici e fito-latrici
esistenti tra i popoli dell’antichità classica.
Questa tesi era stata respinta dal Tylor, il quale, pur riconoscendo
l’importanza dei fatti totemici, riteneva che questi si dovessero collegare
all’animismo. Anche per il Tylor però il totemismo sarebbe una forma del
culto degli antenati, ma collegato alla dottrina della reincarnazione, la quale
costituirebbe il punto di passaggio tra il culto stesso degli antenati e il
totemismo. Il che non è accolto dallo Spencer, il quale fa del totemismo una
specifica forma del culto degli antenati. È evidente, in tal modo, che tanto il
Tylor quanto lo Spencer avevano inserito il totemismo nel loro sistema
religioso.
A sviluppare le vaghe ipotesi del Mac Lennan, ecco che interviene un
suo discepolo: W. Robertson Smith. Il quale, nel 1889, nelle sue ampie
Lectures on the Religion of Semites ritiene che il totemismo si debba
giudicare come il fondamento tanto della religione semita quanto di quella
araba. E ciò: 1, perché, presso i popoli i quali praticano quelle religioni,
certe tribù hanno il nome di un animale; 2, perché in essi si ritrova il culto
della natura (astri, pietre, fonti ecc.), oltre al divieto di determinati cibi e
all’uso delle immagini di animali poste sui vessilli di guerra. La prova,
però, a cui egli da maggior peso, e che è la leva su cui si reggono le sue
costruzioni, è il sacrificio, il quale, per lui, non è un’offerta fatta alla
divinità per placarla, bensì un atto di vita sociale, in cui si invera la
comunione fra i fedeli e il dio. Ora, per lo Smith, l’animale del sacrificio
sarebbe stato in origine l’animale totem.
Questo, a larghe linee, lo stato degli studi sul totemismo quando il Frazer
riprese quell’argomento nei suoi volumi Totemism and Exogamy. Nel suo
primo lavoro sul Totemism, egli si era mostrato dell’avviso che il totemismo
è un fenomeno in parte religioso (in quanto presuppone dei rapporti tra
l’uomo e il totem) e sociale (in quanto presuppone degli obblighi fra i
membri dello stesso clan). Ma questa definizione, che è del 1887, nel 1910
non lo soddisfa più, tanto è vero che egli considera allora il totemismo
soltanto come una forma di organizzazione sociale. In questa sua nuova
conclusione giocava la sua teoria – già formulata nella seconda edizione del
Golden Bough – sull’origine della magia, la quale cronologicamente
precede la religione.
E nel Golden Bough, nella stessa Magic Art chiarifica:

«In nessun luogo la teoria della magia simpatica è messa in pratica per mantener la riserva di cibo più
sistematicamente che nelle sterili regioni dell’Australia Centrale. Quivi le tribù sono divise in un
certo numero di clan totemici, ognuno dei quali è incaricato di moltiplicare i suoi totem per il bene
della comunità, per mezzo di cerimonie magiche. La maggior parte dei totem sono animali e piante
commestibili, ed il risultato generale che si suppone ottenuto da queste cerimonie è quello di
provvedere la tribù del cibo e delle altre cose necessarie. Spesso i riti consistono in un’imitazione
dell’effetto che il popolo vuoi produrre: in altre parole la loro magia è omeopatica o imitativa».

Osserviamo, del resto, le stesse cerimonie che il totemismo comporta. Si


ha in esse la rievocazione del passato, si rivive in esse la storia del clan, e
quel passato e quella storia sono lo spirito della famiglia. Ma questo passato
non si rivive in senso utilitario, e per di più con una serie di gesti che
riproducono gli atti dell’antenato stesso? Fai questo perché succeda
quest’altro: ecco la massima di quelle cerimonie. Le quali presuppongono la
presenza stessa del totem. Il che comporta nei suoi riguardi l’altro precetto
magico: non fare questo perché non succeda quest’altro. E non a te, uomo
singolo, ma a tutto il clan di cui fai parte. Osserviamo inoltre i miti o le
leggende che si legano al totemismo. Esse sono sempre la narrazione dei
rapporti che passano fra il clan e il totem stesso, i particolari dell’origine del
gruppo totemico, i prodigi della metamorfosi del totem in essere umano. In
altre parole l’uomo primitivo crede. E mentre i riti e i culti sono, come nella
magia, le forme operanti del suo pensiero, allo stesso modo i miti e le
leggende ne saranno le forme parlate. Ma fra quelle due forme non vi sono
né abissi né distacchi: soltanto trapassi.

5. Il folklore nel concetto del Frazer

Concepita dunque la magia, in cui rientra il totemismo, come un tessuto


di errori, essa viene assunta come criterio di interpreta-zione per chiarire e
illuminare i culti, i miti e i riti dell’antichità classica. A volte, in tal caso, le
sue note sono rapide, direi alla Lafitau. Così, ad esempio, parlando della
magia contagiosa osserva:

«Possiamo ora comprendere perché una massima di Pitagora diceva di toglier via l’impronta lasciata
dal corpo quando ci si alza dal letto. Il precetto non era che una precauzione contro la magia, facente
parte di un intero codice di massime superstiziose che l’antichità attribuiva a Pitagora, sebbene senza
alcun dubbio fossero familiari ai progenitori barbarici dei Greci, molto prima dei tempi di quel
filosofo».
Ma, altre volte invece, i suoi excursus sulle civiltà classiche sono vere e
proprie trattazioni in cui la magia fa da quadro generale. Insegni il caso
stesso del Re del Bosco, che è insieme il coro e la voce dominante del
Golden Bough. Ma insegni anche il Folklore in the Old Testament, oltre i
commentari di Ovidio e di Pausania. Sembra che il Frazer voglia dire come
Lafitau: i vostri Greci, i vostri Romani non erano poi tanto lontani dal
pensare come la pensavano i barbari. E i suoi quadri ecco, poi, quasi di
rincalzo, che si animano del folklore, vale a dire delle sopravvivenze che
tuttora rimangono nel seno delle nostre civiltà. È allora, si può dire, che il
folklore viene assunto come controprova stessa delle sue asserzioni. Con
questa differenza, rispetto al Tylor: che in quei quadri il folklore finirà col
diventarne l’anima. Il Frazer, nella sua immensa opera, così come non ha
trascurato un culto, un mito, una credenza dell’antichità classica, allo stesso
modo ha avuto presenti quasi tutte quelle espressioni che allo Herder
apparivano, ed erano davvero, voci dell’umanità. Il folklore europeo si
ricompone infatti nelle sue opere, dandoci appunto l’espressione
dell’umanità stessa: un’umanità ricca, immaginosa, viva, calda, che si
effonde nelle credenze, palpita nei suoi spettacoli, si esprime nei suoi
racconti e nelle sue leggende.
Nel Golden Bough il Frazer è costretto, tra l’altro, ad affrontare un
campo di indagini su cui aveva lungamente arato il Mannhardt: il culto
degli alberi. Si è detto che il Frazer popolarizzò in maniera suggestiva le
teorie esposte nei Wald- und Feldkulte (che pur era stato di stimolo a tanti
altri studiosi). Ed è vero. Ma il Frazer – che pur riconosce quanto deve al
Mannhardt – è veramente sulla stessa linea? Nella prefazione con cui egli
presenta l’edizione ridotta del Golden Bough avverte:

«Se nel presente lavoro ho indugiato alquanto sopra il culto degli alberi, ciò non dipende, confido,
perché io esageri la sua importanza nella storia delle religioni ed anche meno perché io ne voglia
dedurre un intero sistema di mitologia. È semplicemente perché non posso passare sotto silenzio
questo soggetto cercando di spiegare il significato di un sacerdote che porta il titolo del Re del Bosco
e di cui una delle funzioni era di strappare un ramo – il Ramo d’oro – da un albero sacro. Ma sono
talmente lontano dal considerare la venerazione degli alberi come cosa di suprema importanza nella
evoluzione delle religioni, che io la considero subordinata ad altri fattori».

Questa evidentemente è una messa a punto con la quale egli riduce a


giuste proporzioni la teoria del Mannhardt. Non v’è dubbio però che egli,
ove quel culto venga circoscritto, accoglie in fondo molte premesse dello
stesso Mannhardt. Si legga, ad esempio, il suo esame dedicato alle vestigia
del culto degli alberi nell’Europa moderna. Si tratta di vere e proprie
escursioni in cui lo stesso folklore ci si presenta sotto uno dei suoi aspetti
più poetici. Ebbene: è qui che egli senz’altro fa sue le opinioni del
Mannhardt, e cioè che nelle processioni primaverili lo spirito della
vegetazione è spesso rappresentato dall’albero. Oppure si leggano le sue
pagine dedicate all’uccisione dello spirito dell’albero. Anche qui egli chiede
l’alto appoggio del Mannhardt. E nel Golden Bough, in sostanza, il
Mannhardt è pur sempre presente. Con questa innovazione, però: che, s’egli
accetta il Mannhardt, lo piega pur sempre al suo sistema, in base a cui il
culto degli alberi non è che un aspetto della magia, la quale ancor oggi
domina incontrastata nella vita dei volghi dei popoli civili.
6. Magia e religione

Ogni tradizione che vive in questi volghi viene quindi ricondotta dal
Frazer a un rito, il rito a una credenza, la credenza a un sistema di idee. E il
folklore par quasi che assuma il corso di un fiume che nessuna civiltà può
arginare, perché in fondo anch’esso è un aspetto di quella civiltà. Questa la
conclusione del Frazer: ma qual è la via attraverso cui egli vi è giunto? E
attraverso quale travaglio?
Nel seguire le vie di questo corso, la prima via che si dischiude al Frazer
è quella dei popoli primitivi. Comte, allora, è sempre presente nella sua
opera. Anche lui, come Tylor, è convinto che i selvaggi di oggi sono tali in
senso relativo e non in senso assoluto. Eppure lì, fra i selvaggi, è il suo
prima cronologico. Nel chiarire i rapporti fra etnologia e folklore lo stesso
Frazer osserva che «i nostri predecessori furono una volta dei selvaggi i
quali avrebbero trasmesso ai loro discendenti le loro idee e le istituzioni». E
in proposito osserva:

«Il disprezzo, il ridicolo, la ripugnanza, il biasimo sono troppo spesso il solo riconoscimento
concesso al selvaggio e ai suoi costumi. Tuttavia, tra i benefattori che siamo tenuti a commemorare
con riconoscenza, molti, e forse i più, sono i selvaggi. Perché, in fin dei conti, le nostre somiglianze
con i selvaggi sono ben più numerose che le differenze: e quello che abbiamo in comune con loro, e
che riteniamo vero e utile, lo dobbiamo ai nostri progenitori selvaggi che acquistarono lentamente
con l’esperienza e ci tramandarono in eredità quelle idee apparentemente fondamentali che siamo
portati a considerare come originali e intuitive. Noi siamo come gli eredi di una fortuna tramandata
da tanti secoli che si è perduta la memoria di quelli che l’hanno costruita, sicché i possessori del
momento la considerano come un possesso originale e inalterabile della razza umana».

Il Frazer vuole evocare questa memoria. E il mondo dei selvaggi, quel


mondo che i teorici dell’Illuminismo avevano esaltato, diventa così lo
stesso mondo del Frazer, il quale in esso vede il passato. E nel passato
l’importanza assunta dalla magia, che pur di quel passato non è che un
aspetto particolare. Senonché come vede egli questa magia? Lo abbiamo
notato: come un tessuto di errori, di false associazioni di idee, frutto di
ignoranza. La sua è una conclusione induttiva, la quale convoglia in sé la
premessa che la magia sia una forma elementare rispetto alla religione, che
è una forma superiore. C’è in lui insomma l’illuminista che si è convcrtito
alla religione. Ma giudicando in quel modo la magia, egli non si mette nella
posizione di quei dotti che vorrebbe condannare?
È ovvio infatti osservare che la magia, se per noi può costituire un
errore, una superstizione, non lo è affatto per i selvaggi, per i quali essa è
una forma storica di pensiero nella quale si avvicendano idee, paure,
angoscie, fughe, patimenti ecc. Lo stesso Frazer considera la magia come
un tentativo inteso a estendere i confini della propria facoltà di fare o di
produrre qualcosa. Bene: ma allora come può egli conciliare quel tentativo,
che è appunto l’attività di un essere cosciente e intelligente, con la sua
medesima condanna, la quale sentenzia che il selvaggio sarebbe soggetto a
far uso soltanto della categoria di contiguità?
Il Frazer, ligio ai suoi principi evoluzionistici, secondo i quali ciò che è
semplice è prima nel tempo, colloca la magia all’inizio del pensiero umano.
Ma chi ci dirà mai se per l’uomo veramente primitivo non sia stata più
semplice la concezione di un Dio, anziché quella di un potere magico? E se
effettivamente nel passaggio dalla magia alla religione – quale lo suppone il
Frazer – avesse agito una causa psicologica, dovuta allo spirito dell’uomo,
esisterebbero oggi in mezzo alle nostre società tutte quelle credenze di
carattere squisitamente magico di cui è ricco non solo il folklore, ma tutta la
nostra vita?
Il fatto è che la magia non può porsi come un prima che porta ad
assumere arbitrariamente un momento o aspetto del corso storico, né come
la condizione necessaria (e la sola necessaria) del resto, e tanto meno, come
si è poi obbiettato al Frazer, come un dopo. Ammettiamo, senz’altro, che la
magia vada nettamente distinta dalla religione. Ma l’una e l’altra non sono,
né possono non esserlo, che due gradi di pensiero. E soltanto, come tali, del
pensiero storico. Pertanto è vano ricercare in essi una minore (magia) o
maggiore (religione) intelligenza, una maggiore o minore elementarità dello
spirito. Magia e religione sono in tali casi concetti empirici, classificazioni
che indicano un più o un meno rispetto al prevalere di una determinata
concezione del mondo e dei rapporti di esso con l’uomo. Religione è la
divinità concepita libera rispetto all’uomo. Magia è una forza assoggettabile
all’azione costruttiva dell’uomo. E magia e religione nascono e si
sviluppano dall’esperienza del primitivo, e cioè da un atteggiamento dello
spirito, il quale, secondo determinate condizioni storiche, si invera nell’una
o nell’altra, oppure prevale nell’una anziché nell’altra.
La verità può anche nascere da un errore. Ma a un patto: che l’errore
venga considerato come un atto logico. È vero che la storia può nascere
anche da un’illusione. Ma a un patto: che quell’illusione sia appunto il
portato di una esperienza umana. Del negativo, è evidente, non si fa storia.
7. «Domandare altri primi»

In realtà però il Frazer, pur considerando la magia come un tessuto di


errori, vuoi fare di essa non solo la storia, ma il comincia-mento della
storia. Un buon avvocato deve sapere accusare anche il suo cliente per
passar poi meglio, e con più credito, alla sua difesa. E la sua difesa consiste
in ciò. Egli ritiene, sì, che la magia è un tessuto di errori, di concezioni
assurde, una forma di superstizione; ma ritiene altresì che da quegli errori,
da quelle concezioni, da quella superstizione è derivata una grande utilità
alla vita umana.
Nel Devil’s Advocate il Frazer riprende infatti i concetti da lui sostenuti
nelle sue varie opere. E afferma: 1, che presso certi popoli e certe razze la
superstizione ha consolidato il rispetto del governo, contribuendo allo
stabilimento dell’ordine sociale; 2, che presso certe razze e in certe epoche
la superstizione ha consolidato il rispetto della proprietà privata,
contribuendo ad assicurarne il godimento; 3, che presso certe razze e in
certe epoche la superstizione ha consolidato il rispetto del matrimonio,
contribuendo anche a una maggiore osservanza delle regole della morale
sessuale; 4, che presso certe razze e certi popoli la superstizione ha
consolidato il rispetto della vita umana.
Queste istituzioni (governo, proprietà, matrimonio, rispetto della vita
umana) sono, aggiunge il Frazer, la vita stessa della società umana. Distrutti
quei pilastri, cade la società. E qui, almeno apparentemente, siamo sullo
stesso piano del Vico, il quale, come è noto, fondava la civiltà stessa su tre
umani costumi. Senonché, mentre nel Vico quelle istituzioni si collegano al
processo della storia, dove si avvicendano corsi e ricorsi, nel Frazer quel
processo si identifica col postulato della teoria dell’evoluzione organica, la
quale sostiene che per sapere che cosa sia l’uomo bisogna anzitutto
conoscere la sua origine. Come se l’origine dell’uomo non fosse insita nello
sviluppo stesso delle sue istituzioni. Il Vico ricercava la genesi dei fatti
nell’mtimo della loro stessa natura, la quale è la sola che ci da le «guise del
conoscimento». E ammoniva: «Quello che fece il mondo delle nazioni fu
per niente, perché il fecero gli uomini con intelligenza; non fu fatto perché
il fecero con elezione; non caso perché con perpetuità, sempre così facendo
meno le medesime cose». Ecco perché, conosciuta la natura eterna delle
cose, è «stolta curiosità domandare altri primi».
Il Frazer invece è alla ricerca disperata di questi primi, del prima e del
poi, l’uno e l’altro attribuiti, nel campo dei primitivi, a una mentalità
indifferenziata, alla quale si assimila l’anima stessa dei volghi dei popoli
civili. Così come egli crede al progresso illimitato, crede anche a una
comparazione dedotta esclusivamente dalla uniformità umana. E stabilite
queste premesse, ecco la sua ambizione: spalancare le porte a una storia
universale dell’umanità. Questa l’ambizione stessa della sua opera, la quale
rimane inficiata dal falso concetto di una filosofia della storia, che nel caso
specifico altro non era che quello dell’evoluzione; da quello di una
sociologia che collega Comte con Tylor attraverso Bastian; infine da quello
di una storia universale in cui si inverano tanto la filosofia della storia
quanto la sociologia.
8. Stimoli e suggestioni dell’opera frazeriana

Eppure, nonostante questi e altri difetti, può dirsi dell’opera del Frazer
quel che egli stesso pensava della magia, la quale dai suoi errori fa scaturire
tanta utilità. Distaccate i quadri che ci dipinge il Frazer dal contesto delle
sue teorie, dal prima e dal poi; considerate gli istituti che egli ci rappresenta,
animandoli di una propria vita nella loro natura, che è poi la loro effettiva
natura storica; esaminate i suoi excursus nell’impeto potente delle
atmosfere che si sanno creare: ed ecco che allora avrete un Frazer, il quale
non manca di darci delle pagine, egli naturalista, di interesse strettamente
storico. Si direbbe anzi che il Frazer diventa storico quando dimentica di
voler essere tale.
Non mancano infatti nella sua opera interpretazioni felici su vari
problemi etnologici, messe a punto penetranti, accostamenti che, pur posti
sul terreno dalla natura, rivelano di per se stessi una natura storica. Come
quelle del Tylor, come quelle del Mannhardt, le pagine del Frazer che hanno
un profondo interesse storico sono quelle in cui egli lega in senso ideale le
credenze dei volghi dei popoli civili con quelle dei popoli primitivi, onde
l’etnologia e il folklore si fanno allora veramente storia contemporanea. È
allora che quelle tradizioni si ravvivano e diventano vita stessa della storia.
Vero: egli è dell’avviso che le tradizioni popolari sono dei fossili per l’idea
primitiva che possono contenere. Ma poi con quale e con quanta cura egli
ne indaga la natura! Lo stesso Frazer del resto osserva quelle tradizioni
nelle loro varianti, nelle loro somiglianze, ma anche nelle loro differenze.
Ed ecco allora che egli si impone alla nostra attenzione per la finezza stessa
con la quale collega i materiali nell’ambito di determinate connessioni
culturali e soprattutto per la disposizione di animo, virtualmente poetica,
con cui egli lumeggia quelle connessioni. È qui che il Frazer porta non solo
una sensibilità più raffinata rispetto ai suoi predecessori, ma direi la
civetteria di una intelligenza che fa dello scienziato un poeta.
Partito, insomma, con la missione dello storico alla ricerca della storia
dell’umanità, il Frazer non sempre assolve felicemente questo compito, ma
in ogni caso rivela qualità eccezionali di letterato, di artista, di poeta. Egli
stesso, d’altro lato, negli ultimi anni della sua vita, e ciò sia detto a suo
onore, comprese che in cambio della storia dell’umanità ci aveva dato
piuttosto i documenti di essa:

«Se non ci inganniamo, i fatti da noi accumulati assumeranno col tempo un valore e un pregio che le
nostre teorie non conosceranno mai. Noi pensiamo dunque che, se le nostre opere troveranno posto
nelle biblioteche dei nostri posteri, ciò avverrà per le costumanze e le credenze strane che vi sono
descritte, anziché per le teorie da noi costruite per interpretarle».

Ma non è questa, a dire il vero, l’epigrafe che si addice al Frazer. Nella


sua opera in cui sono affrontati i problemi che affliggono l’umanità – e al
tempo stesso la illuminano, perché le danno uno scopo e una dignità, quali
che siano –, egli ha saputo darci non solo degli ammaestramenti tuttora
utili, sia per lo studio dell’etnologia sia per quello del folklore, ma è riuscito
a creare una fitta rete di interessi culturali, i quali coinvolgono tutte le
discipline storiche e morali. Il Frazer completa insomma Lafitau,
Fontenelle, Rousseau con Herder, coi Grimm e col Pitrè. E le sue teorie,
tutte, possono passare tramontare e morire, come è avvenuto di alcune di
esse, o per lo meno di quelle che egli stesso riteneva fondamentali. Ma
questo tramonto non le priva di una forza suggestiva che si irradia nel
pensiero di chi torna a meditarle. E l’avvocato, appunto per questo, ha vinto
la sua causa.
24. Il primitivo che è in noi

1. Lang e il metodo del folklore

La Primitive Culture e il Golden Bough si possono considerare come i


pilastri fondamentali su cui si regge la scuola antropologica inglese, la
quale ebbe indubbiamente il merito, anche per l’influsso che essa esercitò in
tutti i paesi europei, di promuovere in maniera ormai decisa e decisiva
l’allargamento e l’approfondimento della cultura, mediante la mediazione
dell’etnologia e del folklore. Si aggiunga che l’opera del Mannhardt aveva
dato a tale scuola un nuovo impulso. E così come il Frazer si era avvalso
della metodologia, se non della problematica del Tylor, rinverdendola con le
nuove idee del Mannhardt, allo stesso modo noi vediamo che questi studiosi
furono presenti nell’opera dei loro compagni di lavoro o dei loro successori,
i quali si accinsero, con fervore di intenti, a porre la loro fede e la loro
attività al servizio di quella disciplina che essi chiamavano antropologia
sociale, ma che altro non era se non un particolare campo di possibili
ricerche storiche.
È il caso, ad esempio, di Andrew Lang, il cui noviziato si svolse sotto
l’influsso del Tylor in netta opposizione al Müller. Poeta di una certa
raffinatezza, studioso e traduttore di Aristotele e di Omero, storico della sua
Scozia, il Lang, in quel suo noviziato, ebbe uno scopo precipuo: studiare la
mitologia. E la mitologia, coi vari problemi che essa comporta, sarà
appunto il nucleo attorno a cui convergeranno le sue ricerche, nelle quali
anch’egli collegherà gli interessi inerenti alle civiltà classiche con quelli che
nella sua mente susciteranno l’etnologia e il folklore.
Lo stesso Lang, del resto, parlando appunto del folklore, in un suo
saggio di notevole interesse The Method of Folklore (raccolto nel volume
Custom and Myth, che è del 1884) non mancò di esporre il suo credo. E il
suo credo è questo: 1, che, ove si voglia studiare il folklore, bisogna
applicare il metodo antropologico; 2, che il folklore non comprende soltanto
le credenze e i costumi, ma anche le leggende e i canti, ove si pensi che
tanto le leggende quanto i canti possono rivelarci delle sopravvivenze; 3,
che il folklore per studiare se stesso ha bisogno dell’etnologia; 4, che,
applicando allo studio del folklore le ricerche etnologiche, noi stabiliamo
dei confronti; 5, che da tali confronti risultano delle grandi somiglianze non
solo tra i volghi dei popoli civili e le civiltà classiche o comunque ariane,
ma con tutto il mondo, e quindi anche coi popoli primitivi (o selvaggi, come
anch’egli li chiama); 6, che per comprendere tali confronti e tali
somiglianze non è necessario che i popoli, fra cui le somiglianze vengono
constatate, siano della stessa origine o siano stati in rapporto con loro,
perché condizioni simili di mentalità producono credenze e pratiche simili;
il che non deve impedire al folklorista, prima di accogliere
indiscriminatamente tale spiegazione, di vedere se vi sia stata in un popolo
l’effettiva importazione di qualche tema etnico.
Convogliati i suoi interessi nello studio del mito e quindi della fiaba, il
Lang si preoccupò soprattutto di vedere quale fosse la natura etnologica di
queste produzioni. Esiste, egli si domanda col Tylor, una mentalità in cui i
miti sembrano davvero delle cose credibili e naturali? E come il Tylor
risponde: esiste, ma fra i selvaggi. Né quella risposta lo appaga. In un altro
suo saggio (raccolto poi nel primo volume della sua opera Myth, Ritual and
Religion, che è del 1887) il Lang non è infatti alieno dall’ammettere che il
selvaggio d’oggi, il selvaggio di cui noi abbiamo una documentazione
filologica e storica, sia tutt’altro che il vero primitivo. A lui non importa
comunque conoscere quale sia stata la vera condizione primitiva dell’uomo
– atteggiamento questo che ricorda Rousseau. Gli importa constatare una
legge: e cioè che tutti gli antenati delle razze attuali siano passati da uno
stato analogo a quello dei selvaggi. Ora lo stato selvaggio, aggiunge, è uno
stadio che tutte le società hanno attraversato, o almeno uno stato sociale da
cui tutte le società hanno avuto dei prestiti. È evidente perciò, egli incalza,
che nei selvaggi si debba trovare la chiave stessa per l’interpretazione dei
miti e di conseguenza la confutazione più evidente contro la teoria
mitologica del Müller. A distruggere tale teoria, d’altra parte, gli era bastato
il Mannhardt. A creare la sua gli bastava Tylor, per quanto sarebbe meglio
dire Fontenelle riveduto dal Tylor. In realtà, però, mentre nella trattazione
del Tylor il mito e la favola non erano che cornice, nel Lang diventano
quadro. Il Lang insomma raccoglie i fili dispersi, li vivifica, li ravviva, ne fa
un tessuto compatto e omogeneo. E dentro questo tessuto ecco il mito, il
quale, pertanto, non si spiega con se stesso e tanto meno con le sue parole o
con le radici di queste parole, bensì con lo studio comparato delle
istituzioni, delle leggi e dei costumi, quali si ritrovano oggi fra i selvaggi e
che hanno per fondamento determinate credenze. Ora per il selvaggio il
mito non è che la proiezione di queste credenze. Ecco perché esso è una
cosa credi bile e naturale. Ecco perché esso si riattacca a un pubblico
motivo di vero. Si potrebbe dire in tal senso che egli fa sua una massima del
Vico e cioè che idee uniformi nate tra popoli sconosciuti, tra loro debbono
aver un principio di vero. Senonché queste idee uniformi, che per il Vico
altro non sono se non le tendenze universali del nostro spirito, vengono
sostituite dal Lang con la uniformità della vita dei primitivi, onde in lui il
prima ideale del Vico si converte in un primo cronologico come appunto era
avvenuto nel Comte e dopo di lui nel Tylor e nel Frazer.

2. Fiabe, miti e costumi

Composto ad ogni modo il quadro, il Lang passa alla esemplificazione. E


qui è il contributo personale che egli porta allo studio del mito e della
favola. Punto di partenza anche qui: Tylor. O meglio, l’animismo del Tylor.
Accolta infatti la teoria della concezione degli spiriti, egli, come il Tylor,
ma ancora una volta aiutato dal Mannhardt, la estende alle fate, alle streghe,
agli animali che parlano. Il Lang sente, con tutto il suo fascino, il mondo
della fiaba. È noto che egli stesso nel 1888 iniziò la pubblicazione di quelle
strenne che ogni anno, per Natale, alimentava con nuove fairy tales e
romances. Ed è noto altresì con quanta cura egli attese alla traduzione dei
Contes di Perrault e dei Märchen dei Grimm. Contemporaneamente i
protagonisti di quelle fiabe, di quei Märchen, ch’egli faceva vivere nella
loro vita fantastica, nei saggi del suo Custom and Myth e in quelli più
numerosi di Myth, Ritual and Religion, vengono riportati lontani nel tempo
e nello spazio, anatomizzati nell’atto stesso del loro presunto nascimento.
Alla base di questo nascimento è il mondo dei primitivi, le loro credenze,
la loro fede, il loro sperare. Si era detto che Psiche, per riferirci a un
esempio classico, simboleggiava l’aurora che si nasconde all’apparire del
sole. Ma qual è il tema principale di quel racconto che sotto forme diverse
noi troviamo un po’ da per tutto? Eccolo: è il tema della sposa colpevole di
aver veduto nudo lo sposo. Bene: non è più logico ravvisare in esso la
proiezione di un tabù che è comune a molti popoli primitivi oltre che agli
Spartani e ai Malesi dell’antichità? Secondo tale tabù era proibito agli sposi
di vedersi nudi. Conseguenza: è in quel tabù il nascimento stesso di quel
tema. Le nostre favole, come i nostri miti, son pieni di oggetti che parlano.
Il che per noi è inspiegabile, tranne che non facciamo appello alla fantasia.
Ma i selvaggi, in base alle loro concezioni animistiche, non credono
davvero che gli oggetti parlano? Nelle nostre favole noi incontriamo uomini
che si trasformano in animali, animali che si trasformano in uomini. Anche
qui fantasia per noi. Ma fra i primitivi quelle trasformazioni non sono il
risultato stesso delle loro credenze totemiche? È pacifico, pertanto,
osservare in base a questi esempi che il fondo delle fiabe (i luoghi comuni,
diremmo noi) riposa in antiche usanze o credenze che noi più non
intendiamo, ma che intendono i primitivi. Anche nello studio della fiaba è
valido dunque il concetto di sopravvivenza. Frutto di una determinata fase
del pensiero, la fiaba è l’espressione stessa di quel pensiero. Ma,
emigrando, essa perde il significato che l’animava. Lo ha perduto, in gran
parte, nelle stesse civiltà classiche. Lo perderà a maggior ragione fra i
volghi dei popoli civili. Senonché – ecco il punto – l’Artemide dei popoli
selvaggi sarà quella dei popoli classici?
Non si può certo negare che nelle fiabe, come nei miti, si possono
effettivamente riscontrare dei temi e dei motivi che noi sotto forma di
credenze troviamo fra i selvaggi. E come tale la ricerca è pienamente
valida. Ma a un patto: che essa sia contenuta dentro i suoi legittimi confini,
i quali nulla tolgono o aggiungono al mito e alla fiaba in sede artistica. In
realtà nel ricercare fra i selvaggi l’origine dei miti, delle credenze ecc., il
Lang forzò un po’ la mano, nonostante l’ultimo articolo del suo credo
folkloristico. Si deve osservare tuttavia che egli stesso, nella prefazione con
cui presentava la Cinderella della Cox, ebbe ad affermare che la genealogia
delle fiabe popolari può essere così distinta: 1, fiaba o mito, di origine
probabilmente selvaggia; 2, fiaba degli odierni volghi dei popoli civili; 3,
mito eroico dell’antica letteratura; 4, versione di moderna letteratura.
Dunque: una fonte, non la fonte. Né con ciò il Lang, letterato e poeta,
intendeva minimamente intaccare l’apporto personale che ai temi o ai
motivi novellistici può portare il poeta che racconta i miti o il narratore che
rielabora le fiabe. A lui, ricercatore di fonti, come in altro senso lo erano
stati il Benfey, il Paris e il Rajna, interessa ravvisare nelle credenze, nei miti
o nei riti l’evoluzione delle idee dal barbaro al civile (quand’egli invece
avrebbe dovuto fermarsi, se mai, allo studio di quelle idee). Gli interessa
però affermare, e qui la validità delle sue ricerche, la poli-genesi del mito e
della fiaba. In fondo egli giungeva così in sede etnografica alle stesse
conclusioni cui il Bédier giungerà in sede estetica. Né è senza significato
che fu proprio lo stesso Bédier a concedere alla teoria antropologica della
novellistica popolare delle possibilità interpretative.

3. Alla ricerca della fede primitiva

È chiaro che queste possibilità rimanevano collegate all’interpre-tazione


stessa dei fatti etnologici. Ma questi fatti sono veramente dominati dal Lang
col suo pensiero? Nel presentare la traduzione francese di Myth, Ritual and
Religion, un noto storico delle religioni, il Marillier, ebbe a osservare che
tale opera «porta lo stampo del tempo in cui fu composta come quello del
temperamento dello stesso Lang». E aggiungeva:

«L’autore l’ha scritta non tanto per determinare a quali leggi siano soggetti nella loro genesi e nel
loro sviluppo le cerimonie e i miti, quanto per mostrare la fragilità dei fondamenti sui quali è stata
edificata una teoria ch’egli a buon diritto giudicava falsa. Non per esse e in esse egli studia le
credenze dei selvaggi, ma per le analogie che tale o tal’altra leggenda offre con qualcuno dei grandi
miti dell’antichità; e s’egli paragona tra loro queste due serie di fatti non è tanto per ridurli più
intelligibili, quanto per provare la vanità di un metodo di interpretazione».

Né si può negare che in questa osservazione vi sia del vero, per quanto in
effetti lo sforzo del Lang fu appunto inteso a rendere intelligibile tanto la
genesi quanto lo sviluppo delle novelle (anche se poi quella genesi e quello
sviluppo venivano contaminati da una polemica vivace, si, ma troppo
insistente). È certo però che egli si avvaleva allora delle credenze selvagge
così come le trovava nella descrizione dei viaggiatori o nelle speculazioni
degli etnologi. La prefazione del Marillier è del 1896. Non passeranno molti
anni, e il Lang scenderà invece in campo per studiare «le credenze dei
selvaggi in esse e per esse». Da qui i suoi volumi: The Making of Reli-gion,
che è del 1898; Magic and Religion, che è del 1901; Social Origins, che è
del 1903; The Secret of Totem, che è del 1905. Nei suoi primi volumi, nei
volumi vale a dire del suo noviziato, il Lang si era occupato dei miti non
ariani sulla origine del mondo e dell’uomo per vederne le origini. E gli dèi
occupano la maggior parte dei capitoli della sua opera Myth, Ritual and
Religion. Basta vedere i titoli stessi dei capitoli: Miti greci relativi
all’origine del mondo e dell’uomo; Miti cosmogonici greci; Miti dei
selvaggi relativi agli Dei; Gli Dei delle razze inferiori; I miti degli Dei
dell’America; e così via. Ma allora egli si appagava dell’idea che la
religione fosse nata dall’animismo. Ora invece, e questo è il nucleo della
sua opera The Making of Religion, egli sarà in netto contrasto con quella
teoria. Non già nella forma come lo era stato direttamente col Müller e
indirettamente col Benfey e col Cosquin. Tylor per lui era sempre il
Maestro; e la Primitive Culture il suo vangelo.
Ma in quel vangelo vi sono delle pagine che egli non esita a staccare e
distruggere. La Primitive Culture aveva un’anima: l’animismo. Egli sa bene
quale valore ha quella teoria. Ma come conciliare con essa le testimonianze,
sempre più numerose, raccolte dagli etnografi, secondo le quali anche fra i
primitivi veniva accertata l’idea di quegli esseri supremi che il Tylor aveva
considerato come il risultato di influenze missionarie?

4. Etnologia teologica

La teoria animista, osserverà pertanto il Lang nella sua opera The


Making of Religion, insegna che l’idea di spirito sia sorta dai fenomeni del
sonno, del sogno, della morte. Senonché nell’essere supremo, quale questi
appare fra i primitivi, si può veramente ravvisare uno spirito? O
semplicemente un essere? E di rincalzo aggiunge:

«Non appena l’uomo ebbe l’idea di cose che si possono fare, egli potè immaginare che qualcuno
doveva aver fatto quelle cose che egli non arerà fatto e non poteva fare. Questo fattore egli lo
immaginò quindi come un uomo grande, ma naturale… Concepita questa idea, divenne anche
possibile idearne la potenza, e la fantasia potè rivestire Colui che aveva fatto cose tanto utili di certi
altri attributi morali come quello della paternità, della bontà e della vigilanza sulla moralità dei propri
figli… In tutto ciò non vi è nulla di mistico e nulla che, a quanto io vedo, superi le limitate facoltà
mentali di esseri che meritano il nome di uomini».

Nessun sensus numinis, dunque, secondo il Lang, nessuna rivelazione


divina in quel concetto. Commenta però in proposito il Pettazzoni:

«La coincidenza con le dottrine teologiche c’era, ed era tale che doveva apparire ad evidenza; e fu
appunto essa il tratto che fu colto prima di ogni altro nella nuova ipotesi del Lang e ad ogni modo
quella da cui dipese la sua fortuna. Conviene dire che a farlo più appariscente, a dargli risalto, il Lang
stesso aveva deliberatamente contribuito; che cedendo forse alla tendenza letteraria e all’indole
romantica del suo spirito non si era peritato di applicare alle credenze selvagge una terminologia
evangelica, citando san Paolo e i Padri della Chiesa, e confrontando, per esempio, j. precetti tribali
praticati dalle società australiane, promulgate – secondo la credenza – dall’essere supremo, con i
comandamenti del Decalogo».
È vero, d’altra parte, che il Lang non volle mai dare una risposta
definitiva alla questione dell’origine della religione. A lui bastava
constatare il fatto – e ciò quando la teoria dell’evoluzione imperava – che
non era necessario elaborare un nuovo concetto sulla religione, come aveva
fatto il Tylor, per trovare fra i primitivi la religione. Gli bastava affermare,
quindi, il principio che la credenza in un Essere Supremo è presso i
primitivi tanto antica quanto l’animismo stesso. E ciò, a sua volta, lo
portava a respingere la precedenza della magia rispetto alla religione,
mentre egli non era alieno dal considerare nella magia stessa delle forze che
né il Tylor né il Frazer avevano valutato: le forze, cioè, extranormali.
Alla luce di queste nuove idee egli rivide in gran parte i suoi vecchi
lavori. Li sveltì, attenuò la parte polemica, diede loro un apparato
etnologico più imponente. È del 1901 la ristampa di Myth, Ritual and
Religion, mentre è del 1904 la ripubblicazione di Custom and Myth. La
nuova concezione che egli aveva manifestato intorno alla religione non
modificò tuttavia alcune sue vecchie affermazioni: e cioè che le favole della
mitologia erano nate in un determinato stadio della vita umana, attraversato
da tutti i popoli e vissuto tuttora in gran parte dai popoli primitivi: uno
stadio in cui le cose che a noi sembrano prodigi erano il prodotto di una
fede sincera e commossa.

5. Hartland e i suoi studi sulla novellistica

Né diverso sarà l’atteggiamento che assumerà nei riguardi di tale stadio


un altro rappresentante della scuola antropologica inglese, E. S. Hartland, i
cui interessi coincidono con quelli del Lang. Anche allo Hartland, infatti, il
mondo del folklore si dispiega col mito, con la favola. Anche per lo
Hartland il metodo valido per studiarne quelle produzioni è il comparativo.
Anche per lui tale metodo presuppone la conoscenza più dettagliata
dell’etnologia e quindi dei suoi problemi.
È vero, d’altra parte, che lo Hartland – il quale fin dal 1898 aveva
respinto l’idea dell’Esser Supremo, senza però approfondirla – finirà più
tardi, fra il 1905 e il 1908, col riconoscere che l’animismo non si regge
come teoria generale, in quanto è il sentimento di ammirazione che ha
soggiogato il primitivo, e che magia e religione sono le due facce di una
stessa medaglia. Si deve osservare però che le sue opere di largo respiro si
muovono tutte fra le maglie dell’animismo tyloriano e soprattutto della
magia, quale l’aveva concepito il Frazer.
E queste teorie, l’animismo e la magia, lo guidano nel mondo delle fiabe.
The Science of Fairy Tales si intitola un trattato, edito per la prima volta nel
1891, che si propone di dare un fondamento più saldo e più organico al
problema (etnologico) della novellistica popolare. Ma come imposta egli
questo problema? E come procede nel suo lavoro? Nella sua The Science of
Fairy Tales lo Hartland non solo si dimostra buon filologo ma abbraccia lo
studio della novellistica con una visione quanto mai ampia, anche se poi
non mancheranno in lui delle incertezze. Egli afferma infatti che il
problema della novellistica popolare interessa la tradizione e non la
letteratura. Irrigidisce cioè un principio per cui s’è detto, e a torto, che la
scuola antropologica inglese, così come ignora nello studio della
novellistica il problema della migrazione, allo stesso modo ignora
l’originalità fantastica e individuale. Si potrebbe obiettare che questo può
essere un aspetto della scuola antropologica inglese, ma non il solo suo
aspetto. Basta del resto continuare a leggere lo stesso Hartland: ed ecco che
egli ricorda subito l’apporto che alle fiabe siciliane aveva portato, ad
esempio, Agatuzza Messia. E ne traccia un commosso ritratto. Più avanti si
ferma sui vari modi di raccontare le storie di fate, che variano da popolo a
popolo, e ne esamina i temi e i motivi che riconduce alle credenze
animistiche, magiche o totemiche. Le fate diventano quindi i protagonisti
del suo colloquio. E in quel colloquio, condotto alla maniera del Lang e del
Frazer, noi vediamo comparirci le fate che donano, ma anche quelle che
rubano i bambini o li sostituiscono. La fata: uno spirito di volta in volta
benigno o maligno. L’animismo è il suo atto di nascita. La magia la sua
vita. E in mezzo a quella vita si riflettono le usanze più lontane, le credenze
dei nostri antenati, il nostro mondo stesso, non più vissuto, ma sognato.

6. La novellistica come tradizione

A completare il quadro stesso della novellistica popolare lo Hartland


scrisse altri due libri, il primo The Legend of Perseus, edito fra il 1894 e il
1890, e l’altro, edito nel 1909, Primitive Paternity, che illustra un altro
mito: The Myth of Supernatural Birth in Relation to the History of the
Family. È in queste opere che lo Hartland dimostra la sua competenza non
solo nel campo dell’etnologia e del folklore, ma anche in quello della
filologia classica. È in queste opere che i suoi stessi confronti assumono
un’evidenza più persuasiva, mentre c’è in lui l’impegno di dominare
criticamente la materia trattata. Nel presentare la prima opera, che contiene
tre ampi volumi, osserva:

«In questi volumi io ho voluto tentare un esame del mito con principi scientifici [cioè coi principi
della scuola antropologica]. I primi tre capitoli del seguente volume sono dedicati a una narrazione
come essa ci vien data dai poeti e dagli storici dell’antichità e come risulta dal folklore moderno.
Esaminerò dapprima i quattro motivi di quella narrazione. I capitoli successivi comprendono
un’inchiesta sulle forme analoghe della nascita miracolosa, quali esse ci vengono documentate nella
favola e nel costume in tutto il mondo. Seguiranno quindi altre inchieste sui motivi connessi alla
liberazione di Andromeda e alla ricerca della testa della Gorgone. Analizzati così i temi e
determinata, come meglio mi è stato consentito dai mezzi di cui posso disporre, qual è la loro base,
posta nella credenza e nel costume e perciò in gran parte nella concezione della vita dei selvaggi, io
tornerò alla narrazione nel suo insieme e, considerandola come opera d’arte, vedrò se mi sarà
possibile di accertare quale sia stata la sua forma primitiva, dove abbia avuto origine e come si sia
diffusa in Oriente».

Lo stesso metodo – che poi è quello del Golden Bough – lo Hartland


seguirà per l’altro suo volume. Nel primo egli ci da un’ampia illustrazione
intorno al concepimento, all’origine del concepito e quindi all’incarnazione.
E in ciò ancora una volta egli è sulla via del Frazer. Ma più tardi, in
Primitive Paternity ritorna su quell’argomento che lo impegna in una
ricerca complessa, dove egli, se da un lato esamina le leggende delle nascite
soprannaturali, dall’altro affronta le pratiche magiche dei primitivi intorno
alla concezione. Il quadro in tal modo gli si allarga, inteso com’esso è ad
illustrare i problemi stessi della famiglia, della paternità, della discendenza
quali essi nella loro complessità, si presentano nel mondo dei primitivi. Di
particolare interesse sono infatti, nei due volumi, le ampie indagini che
compie sui riti matrimoniali oltre che sulle differenti forme dell’unione
coniugale: argomenti questi che erano stati già affrontati fin dal 1891 dal
Westermarck nella sua History of Human Marriage e che verranno poi
ripresi, ma con ben altro impegno, dal Crawley nella sua suggestiva opera,
edita nel 1902, The Mystic Rose. Il primo, un finlandese maturatosi in seno
alla scuola antropologica inglese, finirà però col riportare a stati emozionali
tutti i concetti morali cui si adeguano le stesse istituzioni. E questo sarà il
nucleo della sua opera The Origin and Development of the Moral Ideas,
edita fra il 1906 e il 1908: opera ricchissima per i materiali raccolti, di
grande utilità per la loro classificazione, ma inficiata da un psicologismo
che va al di là dei fini che si proponeva la stessa scuola antropologica
inglese. Il che non può dirsi del Crawley, il quale in un altro suo lavoro, The
Idea of Soul, aveva ritenuto che l’animismo era un’idea troppo difficile per i
popoli primitivi.
La conoscenza dei riti matrimoniali, oltre che delle varie forme di unioni
coniugali (coi relativi tabù), quale si poteva desumere in base alla vita di
quei popoli, chiariva uno dei lati più caratteristici del cosiddetto diritto
popolare, il quale aveva avuto dei buoni trattatisti nel russo Bogišč e
soprattutto nello spagnolo Costa. È evidente però che nello Hartland gli usi
e i riti nuziali si risolveranno in tanti temi etnici da cui scaturivano
altrettanti temi novellistici. Sicché, anche per lui, il mito e la fiaba
diventano, come nei suoi predecessori, i veicoli che lo portano nel mondo
dei primitivi. E si dirà magari ch’egli, pur riconoscendo il valore dei
narratori, finisce per dimenticare qual è la vera natura (artistica) di un mito
o di una favola, i quali, intesi come opere d’arte, non hanno altra fonte se
non nell’animo di chi li ricrea. Ma quando limita le sue ricerche ai temi
come tali – che è quanto dire ai temi come riflesso di usi, di costumi ecc. –,
non rende veramente più salde quelle maglie già tese dal Lang e dal Frazer?
Vi saranno anche in lui, è vero, dei dommatismi. Il quadro della
novellistica popolare è comunque da lui delineato con caratteri netti,
precisi, persuasivi. Né si discosterà molto da quel quadro un suo compagno
di lavoro. J. A. Mac Culloch, cui dobbiamo una brillante e pittoresca
trattazione, The Childood of Fiction, edita nel 1905, dove vengono ordinati
in quindici gruppi (secondo i temi, come, ad esempio, quello dell’anima
separata dal corpo, del sacrificio del figlio minore ecc.) i tratti caratteristici
di quelle favole che possono porsi in relazione coi costumi e le credenze
primitive.

7. A. B. Gomme e i giuochi fanciulleschi

Nello studiare il mondo della favola, che è poi il mondo dei bimbi dove
si ritrovano i grandi, gli antropologi inglesi erano stati concordi
nell’affermare che l’uomo racconta di preferenza quel che vede. Né diverso
si presentava per loro il problema inerente ai giuochi fanciulleschi e alle
canzoncine che ai giuochi si riattaccano, anche se qui il raccontare è anche
un operare. L’uomo si affaccia appena all’alba della vita. Eppure i suoi
giochi non sembrano, a volte, riportarci in una società primitiva, mentre le
sue canzoncine ne documentano credenze e ideali? Lo stesso Tylor, che
nella Primitive Culture si era occupato della natura etnologica dei giuochi
fanciulleschi, aveva scritto nel 1879 un nutrito saggio The History of Games
(pubblicato in «The Fortnigthly Review») per chiarir meglio quella natura.
Lo avevano seguito il Lang e lo Hartland. Ma c’era di più. Nel 1869 Louis
Becq de Fouquières aveva scritto un’opera Les jeux des anciens, dove
dimostrava come molti giuochi fanciulleschi ancora viventi nel folklore (e
già illustrati, ad esempio, dal Claudius, dall’Arwidson ecc.), dovevano
risalire all’antichità classica. Alcuni anni dopo, nel 1889, un francese,
Edouard Fournier, aveva scritto una Histoire des jouets et des jeux
d’enfants, dove riaffermava che non sarebbe stato possibile scrivere una
storia completa della civiltà senza inserirvi un capitolo sui giuochi e sui
giocattoli.
È merito di Alice B. Gomme l’avere abbozzato questo capitolo, dove
ella, se da una parte si mostra filologa intelligente e precisa nella raccolta
dei testi, dall’altra rianima quei testi applicando al loro studio i principi
della scuola antropologica inglese. La sua opera intitolata Traditional
Games of British Children, edita fra il 1894 e il 1897, vuole essere anzitutto
una raccolta di testi. E come tale la raccolta ha una classificazione
razionale, la descrizione dei giuochi è chiara, imponente il numero delle
varianti di cui l’autrice comprende l’interesse, accurata la trascrizione dei
motivi musicali che accompagnano le cantilene dei bimbi o le filastrocche.
Le si può rimproverare, come fece il Pitrè, che essa limiti la sua raccolta
alle isole britanniche. Il che contrasta con il suo scopo, che è quello di
vedere nei giuochi la genesi, le parentele, le analogie, il senso recondito. E
ciò perché, aggiungeva il Pitrè, «la diagnosi di un giuoco, di una fiaba, di
un indovinello non può farsi definitiva col sussidio di soli due, tre popoli».
Ma alla Gomme interessa stabilire un panorama dove si possano poi inserire
delle visioni particolari. Di più le interessa vedere il giuoco in quella che è o
può essere la sua origine etnologica.
È allora che vediamo ricomporsi nel giuoco fanciullesco il dramma
stesso della vita, quale esso apparve non solo ai popoli delle antiche civiltà
classiche, ma anche e soprattutto ai popoli primitivi. Anche il giuoco nasce
dal culto. Anch’esso è la proiezione di particolari costumanze. Anch’esso
rievoca i misteri del matrimonio, della morte ecc. Ecco un bimbo che
giuoca, innocente, con la sua trottola. Dice un commentatore di
Shakespeare, Steevens, che questo giocattolo, un tempo di considerevole
dimensione, serviva nei villaggi «perché i contadini, quando faceva freddo,
si potessero riscaldare frustandolo, onde essere così sottratti agli stravizi
nelle ore d’ozio». Strumento di utilità pubblica, dunque. Ma non è possibile,
si domanda la Gomme, che nel lancio della trottola rivivano invece usi
religiosi o magici? Secondo la sua opinione, pertanto, «la trottola cui si
imprime il movimento, facendola girare fra le mani, sarebbe il prototipo di
tutte le trottole più complicate». E poiché «questo semplice trottolino è
ancora usato nei giuochi d’azzardo, nella roulette, per esempio, è probabile
che a somiglianza di molti altri giuochi abbia servito di strumento in
passato agli indovini e agli stregoni». In realtà la prima ipotesi non esclude
l’altra. Ma ecco che in un altro villaggio un gruppo di ragazzi giuoca a fare
il mulinello, vale a dire a far circolare un fiammifero acceso finché esso non
si spenga nelle mani di un giocatore che pagherà un pegno. Tylor aveva
creduto di ravvisare in quella pratica fanciullesca «un’atrocità dei
Manichei… i quali si divertivano a sgozzare un infante, che passava in
circolo di mano in mano, ricevendo una pugnalata da ogni membro finché
la piccola vita si spegneva sulle braccia di uno dei crudeli eretici». La
Gomme non esita invece a riferirsi «all’antico uso di mandare ai clan, come
segnale di guerra, una croce di fuoco che era ansiosamente sorvegliata da
ciascuno perché non si spegnesse nel proprio villaggio o nella propria
casa». Né è improbabile, ella aggiunge, che il pegno, in questo come in altri
giuochi, or risvegli l’idea di antiche cerimonie rituali, in cui ogni infrazione
al rito tradizionale fedelmente eseguito era punita».
L’indagine di questi raffronti fra gli usi antichi e i giuochi moderni non
mancò di suscitare un vivo interesse fra gli studiosi delle altre nazioni. Così,
ad esempio, è del 1897 un ampio trattato di F. Magnus Böhme, Deutsches
Kinderlied und Kinderspiel, dove le conclusioni della scuola antropologica
vengono temperate (per quanto il Böhme, anche nell’altro suo lavoro
Geschichte des Tanzes in Deutschland, inclini a riportare tutto al periodo
delle origini germaniche). Più persuasivo e più completo, il lavoro di uno
studioso svedese, Yrjö Hirn, autore appunto di un bel libro, Barnlek, edito
nel 1916 (e tradotto in italiano con il titolo: I giuochi dei bimbi), dove egli
cercò di allargare le indagini iniziate dalla Gomme con «alcuni capitoli
intorno a canzoni, danze e teatrini». Lo Hirn spirito più sottile della Gomme
(e anche più preparato, data la enorme letteratura di cui poteva disporre), è
molto più abile nel mettere in luce la derivazione di determinati giuochi da
forme antiche del culto. Egli segue però soltanto in parte la scuola
antropologica inglese, cui si rifa per il concetto pedagogico del giuoco. Lo
Hirn, senza diminuire infatti l’importanza dei giuochi pedagogici introdotti
negli asili e nei giardini d’infanzia, deplora che queste nuove creazioni
concorrano a far cadere in oblio gli antichi giuochi. Senonché in questi
giuochi non v’è appunto, come osserva la Gomme, quanto v’è di più
semplice nella natura umana? Anche i bambini in quei vecchi giuochi
sapevano rivivere quel che di primitivo è in noi. E questo fu lo scopo per
cui la Gomme pubblicò nel 1894 i due preziosi volumetti Children Singing
Games. Questo lo scopo per cui, alcuni anni più tardi, Edith Harwood trasse
dall’opera Traditional Games una serie di Old English Singing Games per
educare i bambini nordici.

8. L. B. Gomme, teorico del folklore

L’opera Traditional Games of British Children della Gomme forma i


primi due volumi di un progettato vocabolario del folklore britannico con
cui il marito, Laurence B. Gomme, volle coronare la sua attività di
organizzatore degli studi di folklore in Inghilterra. Né, a dire il vero,
soltanto di organizzatore. Ligio rappresentante della scuola antropologica
inglese, il Gomme fin dal 1878 era stato l’anima, potremmo dire, di quella
Folklore Society che insieme al Tylor, al Frazer, al Lang e allo Hartland
raccoglieva tutti gli innumerevoli studiosi che allora si erano rivolti, in
Inghilterra, allo studio del folklore (per quanto alcuni di essi, ad esempio, il
Clodd, il Nutt e il Ralston non oltrepassassero i limiti della divulgazione).
Organo di tale società il «Folklore Record», sostituito nel 1883 dal
«Folklore Journal» e nel 1890 dal «Folklore» (tuttora in vita). La società
compilò allora un manuale che lo stesso Gomme pubblicò nel 1887,
l’Handbook of Folklore, le cui linee furono rigidamente seguite anni dopo
dalla Bourne in un altro manuale che porta lo stesso titolo.
Il Gomme e la Bourne si rifanno in fondo al primo teorico inglese del
folklore, a William Thoms, il quale, quando nel 1847, ancora suggestionato
dalla lettura della seconda edizione della Mythologie del Grimm, coniò la
parola «folklore», aveva in mente la cultura tradizionale dei contadini
d’Europa. Con questa differenza: che il Gomme e la Bourne (e questo fu ed
è il programma di «Folklore») collegarono quella cultura col mondo dei
primitivi. Chiarirà il Gomme: «il folklore è la scienza che si occupa delle
sopravvivenze, delle credenze, dei costumi arcaici nei tempi moderni». E in
quella chiarificazione è il limite stesso della scuola antropologica inglese.
Era ovvio infatti, che secondo quella definizione non potevano fare parte
del folklore né una credenza formatasi ai tempi nostri, né un canto, né una
novella sgorgati spontanei dall’anima di un contadino di oggi. Il che era
come dire: esaminiamo un costume, vediamo se è una sopravvivenza e se lo
è possiamo dire che appartiene al folklore. Ma se non lo è, un costume
popolare cessa di essere tale? Il Gomme non si pose la domanda; a lui
interessava il passato del presente. E questo metodo egli illustrò non solo in
un vivace volumetto, Ethnology in Folklore, edito nel 1892, ma anche nel
suo libro più celebre, vale a dire nel Folklore as an Historical Science, edito
nel 1908.
In quest’ultimo libro, e qui è la sua parte vitale, il Gomme non ha, né
vuole avere, che un programma: dimostrare che il folklore è «una definitiva
sezione della disciplina storica»; tanto è vero, osserva, e qui egli è sulla
stessa linea che va da Voltaire a Pitrè, che «in molti punti la pura storia vive
intimamente legata al folklore». È vero che il Gomme da questa sua
premessa non trae tutte le conseguenze; ed è vero altresì che egli ha della
storia un concetto positivistico; fatto è, però, che il suo libro è, e vuoi
essere, un chiaro ammonimento. Folklore as an Historical Science. Ma non
si tratta, in realtà, di dire soltanto che il folklore è storia, bensì che esso va
studiato col metodo della storia.
25. Immortalità del folklore

1. L’Inghilterra e i suoi etnologi della filologia classica

A completare il quadro dentro cui si muove la scuola antropologica


inglese è necessario ora ricordare l’opera svolta da quegli studiosi i cui
interessi furono rivolti al campo specifico delle civiltà classiche. È loro
merito, infatti, l’aver portato a frutto le ricerche che in quel campo, auspice
l’etnologia e il folklore, avevano compiuto o venivano compiendo nella
stessa Inghilterra, il Tylor, il Frazer, il Lang, lo Hartland e i Gomme; e in
Germania il Mannhardt, il Rhode, l’Usener, il Dieterich.
Nel 1903 una studiosa vivace e brillante, J. E. Harrison, nei suoi
Prolegomena to the Study of Greek Religion affermava:

«La religione greca come è esposta nei manuali popolari, e persino in certi trattati di maggior pretesa,
è soprattutto una questione di mitologia, e per di più di mitologia così come la si può vedere
attraverso il mezzo della letteratura… Non si è fatto nessun tentativo serio per esaminare il rituale
greco. Eppure, è più facile accertare in modo definito i fatti del rituale; essi sono più permanenti, e
per lo meno altrettanto significativi. Ciò che un popolo fa in rapporto ai suoi dèi deve sempre
costituire una traccia, e forse la più sicura, per giungere a capire ciò che pensa. Il primo preliminare
per qualunque comprensione scientifica della religione greca deve essere costituito da un minuto
esame del suo rituale».
Questo lo scopo dei Prolegomena, oltre che degli altri libri della
Harrison come, ad esempio, Themis, che è del 1912, e Ancient Art and
Ritual, che è del 1913. Né diverso è lo scopo che assolvono E. T. Farnell e
A. B. Cook, al primo dei quali dobbiamo l’opera The Cultes of the Greek
States, edita fra il 1896 e il 1909, mentre al secondo dobbiamo l’opera Zeus,
edita fra il 1914 e il 1919. L’uno e l’altro, il Farnell e il Cook, affrontarono
l’esame dei culti e dei riti greci come dei fatti concreti prodottisi in una
determinata civiltà. Nel Farnell e nel Cook c’è l’impegno, però, di chiarire
culti e riti con l’apporto della comparazione. E questa ecco che s’inserisce
come metodo di lavoro non solo nel campo dell’etnologia, ma anche in
quello del folklore.
Altrettanto si può dire di un’altra opera, meno vasta ma più geniale delle
precedenti, la Origin of Tragedy di W. Ridgeway, edita nel 1910 (e seguita
da un’ampia appendice, che costituirà il volume, edito qualche anno dopo,
The Drams and Dramatic Dances of Non-european Races). Erano stati il
Rohde e il Dieterich ad avanzare l’ipotesi che la tragedia greca si dovesse
far risalire, contro il parere di Aristotele, ai misteri. Il Ridgeway andrà oltre.
Per lui infatti l’origine della tragedia si collega alle danze mimiche in onore
degli eroi (morti illustri, divinizzati). Il che ha le sue controprove: da una
parte le danze dello stesso tipo che si svolgono fra i popoli primitivi;
dall’altra le sopravvivenze che rimangono nel carnevale moderno della
Francia e della Tessaglia. È la celebrazione di un morto, di un eroe morto e
divinizzato, che ha creato, insomma, la tragedia, la quale soltanto più tardi
si sarebbe innestata sul culto di Dioniso. E la tesi del Ridgeway può essere
integrata in questo senso: che quel culto costituiva un aspetto dell’origine
della tragedia, non l’origine; ma è certo che essa fu, come riconosce il
Pickard-Canv bridge (autore di un’altra ben nota opera, Dithyramb, Tragedy
and Comedy, edita nel 1927) una pietra miliare posta nel campo della
filologia classica, la quale veniva, ancora una volta, a beneficiare del
contributo non solo dell’etnologia, ma anche del folklore, e in particolar
modo del folklore della Grecia moderna.
Ora è appunto in questa corrente di studi, che si inserisce l’opera di uno
studioso francese: Salomon Reinach. Con questa differenza: che mentre i
nuovi etnologi della filologia ricorsero ai totem e ai tabù con abilità, con
discrezione e sempre dentro i limiti di una comparazione chiamata a
illustrare gli istituti presi singolarmente in esame, il Reinach fece di tutto
ciò che toccava dei totem e dei tabù, trovandoli anche e soprattutto dove
essi non erano. Si aggiunga che mentre quei nuovi etnologi della filologia
richiamavano il passato non soltanto per sé, ma anche e soprattutto per quel
che aggiunge al presente, il Reinach lo richiamava quasi come se
proiettasse un’ombra paurosa e immobile.

2. Reinach e le religioni

Scrittore vivace e impulsivo, il Reinach venne pubblicando fin dal 1903


tutta una serie di saggi nella «Revue Archéologique» allo scopo di
dimostrare come il totemismo, il tabù e la magia siano i fenomeni costitutivi
di tutte le religioni. Raccolti in sei volumi che egli intitolò Cultes, Mythes et
Religions (lo stesso titolo con cui era stata tradotta in Francia l’opera del
Lang, Myth, Ritual and Religion) e che furono pubblicati fra il 1905 e il
1920, i saggi ebbero un’appendice nel volume Orpheus. Varia è in essi la
materia trattata, ottime le pagine dedicate ai grandi pionieri del folklore
quali il Tylor, il Mannhardt, il Frazer, il Lang; comprensivo il suo
atteggiamento nei riguardi della loro opera che ammira, che esalta e che
giudica con spirito sereno, sgombro da pregiudizi. Eppure nonostante ciò,
unica è la sua meta, anche se essa è in contrasto con quella dei suoi
predecessori ai quali egli non lesina lodi: porre, per richiamarci a una frase
del Frazer, nel disprezzo e nel ridicolo tutte le religioni, tutti i culti, tutte le
tradizioni, per quanto egli ne riconosca la validità in determinati periodi
storici.
Convinto che tutta la storia dell’umanità è la storia di una laicizzazione
progressiva, il Reinach si propone, in fondo, di ultimare questo progresso
laico, annunciando la buona novella delle religioni svelate. Scrive
nell’Orpheus:

«Io sento profondamente la responsabilità che mi assumo esponendo per la prima volta in un quadro
di insieme le religioni considerate puramente e semplicemente come fenomeni naturali. Se lo faccio,
è perché credo che i tempi siano ormai cambiati e che in questo, come negli altri campi, la religione
laica debba rivendicare i suoi diritti».

Il Reinach vuole dunque occuparsi di queste religioni da storico. Ma uno


storico può considerare le religioni come fenomeni naturali? Lo stesso
Reinach, d’altro lato, dopo aver definito la religione come un insieme di
scrupoli che impediscono il libero esercizio delle nostre facoltà, aggiunge:
«Ho cercato di stabilire che l’animismo da un lato e i tabù dall’altro possono essere considerati come
gli elementi principali della religione e della mitologia. Ma non sono i soli: ve ne sono degli altri, i
quali, pur essendo meno primitivi, non hanno per questo avuto una efficacia meno generale…
L’istinto sociale dell’uomo primitivo, come quello del fanciullo, valica volentieri i confini, oltre che
della specie, anche del mondo organico al quale egli appartiene. L’illusione dell’animismo lo riduce a
riconoscere dappertutto spiriti simili al suo: così egli annoda relazioni con loro, se ne fa degli amici e
degli alleati. Questa tendenza universale dello spirito umano si manifesta nel feticismo, che non è,
come credeva il Brosses, il culto di oggetti materiali, ma il commercio amichevole dell’uomo con gli
spiriti che crede vi abitino dentro. Ancor fanciullo, quando di feticismo io non avevo sentito parlare,
possedevo una conchiglia di colore azzurro chiaro, che era per me un feticcio vero e proprio, perché,
nel mio pensiero, vi credevo allogato uno spirito protettore… Appena l’uomo primitivo cede così alla
tendenza di allargare quasi indefinitamente la cerchia delle sue relazioni, siano esse vere o supposte,
è ben naturale che egli vi comprenda dentro certi animali e certi vegetali… Ben presto un medesimo
scrupolo protegge uomini e totem contro i suoi capricci e la sua violenza e sembra attestare, per gli
uni e gli altri, una comunanza di origine».

In tal modo tenta di conciliare Brosses con Tylor, mentre al Tylor


aggiunge Frazer. Ma si tratta di una conciliazione più apparente che reale,
ove si pensi, ad esempio, che lo stesso Frazer non solo aveva nettamente
distinto la magia dalla religione, ma aveva considerato il tabù come un
aspetto particolare della magia. Il Reinach parte inoltre da una premessa: il
tabù è uno scrupolo non motivato. Ma, come gli fece osservare il Loisy, il
tabù non è proprio il contrario? E poi con quale diritto si può considerare la
magia un fenomeno secondario rispetto al tabù stesso?
In realtà, come animismo, magia e tabù non bastano a spiegare le
religioni che sono il particolare campo di studio del Reinach, allo stesso
modo quei fenomeni – tutt’altro che universali – non sono nemmeno
sufficienti a spiegare il concetto superstizione-sopravvivenza. È vero,
d’altra parte, che egli nello stesso Orpheus ammette:
«Se la teoria dei tabù e quella dei totem spiegano molte cose nelle religioni e nelle mitologie tanto
antiche quanto moderne, bisogna guardarsi dal credere ch’esse spiegano tutto».

Ma se poi leggiamo i saggi raccolti nei Cultes, Mythes et Religions,


troviamo che egli vede dappertutto totem e tabù. Nella stessa Francia le
teorie della scuola antropologica inglese avevano trovato ampia
applicazione nei lavori del Gaidoz e in quelli del Bérenger-Féraud. Ed è a
quest’ultimo anzi che nel primo volume delle sue Superstitions et
survivances, edito a Parigi nel 1895, si deve questa definizione della
sopravvivenza:

«Quando una pratica, un’idea, una formula è introdotta nel numero delle conoscenze umane comuni,
subisce un modificarsi incessante ed infinito senza che perciò scompaia completamente».

Il Reinach è invece, e rimarrà sempre, in un atteggiamento mentale


completamente opposto. Le modificazioni, in fondo, per lui non contano. Vi
sono, ed è ovvio, in seno alle civiltà, delle usanze delittuose ed è il lavorio
stesso della civiltà che le fa scomparire. Ma ve ne sono altre che sono
soltanto una fonte di eterna giovinezza e di universale poesia. E ciò era
ormai pacifico. Lo avevano riconosciuto del resto gli stessi razionalisti a cui
il Reinach sembra attaccarsi, ma che non intende né apprezza, egli che vuoi
essere un Voltaire senza averne la statura. Per il Reinach tutto ciò che è
tradizione va collocato dentro lo stesso tempio. E in esso, in nome
dell’umanità, tutto va sacrificato: anche le tradizioni popolari, che egli in
fondo non esita a considerare un ciarpame ingombrante. Come il Bédier
aveva cancellato la letteratura popolare dicendo che non la conosceva, così
il Reinach vuoi cancellare l’etnica tradizionale dicendo che la conosceva
troppo bene. Ma in ciò egli non andava oltre i compiti stessi della scuola
antropologica inglese? E le sue stesse ricerche nel valutare le sopravvivenze
seguono i principi di quella scuola?

3. Reinach e la scuola antropologica inglese

Non v’è dubbio che il Reinach accoglie il rigido concetto di


sopravvivenza formulato dal Tylor. Con questa differenza però: che egli non
da in fondo nessun peso a ciò che il grande antropologo inglese chiamava
rinascita. Gli sono di guida inoltre, soprattutto nelle ricerche di mitologia, il
Frazer, il Lang e lo Hartland. Ma a differenza di questi studiosi, egli è
dogmatico; non discute, sentenzia. Così, ad esempio, in una pagina del suo
Orpheus afferma categoricamente:

«Il culto degli animali, come degli alberi, delle piante, si riscontra, allo stato di sopravvivenza, in
tutte le società antiche: anzi vi ha dato origine a quelle favole che si chiamano metamorfosi. Quando i
Greci ci raccontano che Giove-Zeus si è trasformato in aquila o in cigno, bisogna vedere nel racconto
un mito narrato a rovescio. Il dio aquila e il dio cigno cedettero il posto a Zeus, quando gli dèi dei
Greci furono adorati sotto la forma umana: per cui, senza contare che gli animali sacri sono restati gli
attributi o i compagni degli dèi, i quali talvolta riprendono la forma animale, le metamorfosi degli dèi
non sono se non un ritorno allo stato primitivo. Così il mito della trasformazione di Giove in cigno
per piacere a Leda, significa che in tempi remotissimi una tribù greca aveva per dio un cigno sacro e
che essa credeva aver questo cigno accesso presso i mortali. Più tardi il cigno venne sostituito da un
dio con forma umana, Giove; ma la favola non fu punto dimenticata e si fantasticò che questo Giove
si fosse trasformato in cigno per generare Elena, Castore, Polluce, i figli del cigno divino e di Leda».

Né diverso è l’atteggiamento che il Reinach assume nei saggi dei Cultes,


dove non esita a riconoscere vestigia totemiehe non solo nelle leggende di
Orfeo, di Atteone, di Ippolito, di Marsia, di Fetonte e di Adone, ma anche
nei culti, come, ad esempio, in quello di Dioniso. È vero che questi
collegamenti erano stati in uso nella stessa scuola antropologica inglese. Il
torto del Reinach è quello di ritenere le sopravvivenze prive di
modificazioni, che è quanto dire prive di vita. E con questo assunto egli
muove alla scoperta non solo dei Greci e dei Romani, ma anche dei Semiti,
degli Ebrei, dei Celti. Ultima tappa: il Cristianesimo, il quale per lui è un
insieme di totem e di tabù, tanto è vero che attribuisce a questi due
fenomeni l’origine dei sacramenti e dei misteri cristiani (come l’Eucarestia,
il Battesimo, la benedizione dell’acqua).
Ma erano questi gli assunti che doveva proporsi uno storico? La
questione non era di vedere se nelle religioni da lui esaminate vi sono o no
degli elementi totemici o magici. Si trattava piuttosto di caratterizzare il
rapporto fra l’elemento totemico o magico e la concezione complessiva
dell’universo. Si trattava di vedere se in quelle religioni l’elemento totemico
o magico resta o no in funzione secondaria di una concezione (non totemica
né magica) dell’universo. Il Reinach è ben lontano da questi problemi, i
quali invece in un modo o nell’altro avevano tormentato gli antropologi
inglesi.
Né sorte migliore hanno le tradizioni popolari, dove egli, e qui è vicino
al Gomme, vede soltanto totemismo, magia, tabù. Il Reinach non misura
mai i paragoni, non vede le esigenze di quei fenomeni e tanto meno la
ragione del loro perpetuarsi. Ed è vano cercare perciò un pensiero che guidi
le connessioni da lui stabilite. Queste, anche quando si risolvano soltanto in
paralleli etnografici, erano state animate nella scuola antropologica inglese
da due forti interessi: l’interesse del primordiale che è in noi e l’interesse
per tutto ciò che è umano, dovunque si trovi. È vano cercare nel Reinach
questi interessi. Vano cercare in lui lo sforzo di intendere perché il primitivo
che è in noi sia una materia ideale sempre viva.
È stato osservato che se il Reinach avesse fatto quel che facevano gli
antropologi inglesi, se si fosse cioè sforzato di intendere la mentalità
primitiva quale essa ci si presenta nella sua incessante ricerca protesa pur
sempre alla verità, alla sua verità, egli avrebbe visto nei totem e nei tabù la
disciplina intima di una volontà, una profonda ragione. Il Reinach è ben
lontano però anche dall’immaginare questa ricostruzione spirituale, che è la
sola a farci intendere la mentalità dei popoli primitivi in rapporto a quella
delle civiltà occidentali. Egli accumula fatti su fatti, curiosità, aneddoti. La
vasta bibliografia con cui li accompagna può ingannare. Ma in effetti la
scuola antropologica inglese non poteva avere un peggiore discepolo.

4. L’ultimo classico di tale scuola: Marett

E ciò ci verrà mostrato appunto da uno dei più acuti rappresentanti di


quella stessa scuola: R. R. Marett, la cui opera, se da un lato è la condanna
più aperta ai «castelli in aria» del Reinach, dall’altra è la legittima
conclusione di tutto un movimento di studi, il quale dalle maglie del
naturalismo tenta di sollevarsi a un proficuo e fecondo storicismo.
In una commossa commemorazione dedicata ad Andrew Lang, il Marett
ci fa conoscere quale e quanto interesse suscitò in lui la lettura del volume
Custom and Myth, il quale non era che una presa di posizione a favore di
quell’indirizzo antropologico che il Tylor aveva allora imposto al mondo
degli studiosi. E il Tylor, anche per il Marett, sarà una guida spirituale. Le
polemiche del Lang, la sua irruenza, il suo modo di concepire l’etnologia e
il folklore come protagonisti di un dramma che egli direttamente viveva,
quel farsi contemporaneo all’antico: ecco quel che del Lang piaceva al
Marett.
Queste sue prime simpatie gli aprirono le porte tanto dell’etnologia
quanto del folklore. Anzi i suoi primi interessi furono prevalentemente
etnologici. Quand’egli si avvicinò al folklore, era quindi già passato da quel
noviziato. Gli aveva giovato anche lo studio dei filosofi antichi, moderni e
contemporanei. E nelle sue opere scritte con la compostezza di un classico,
si risente appunto questa sua preparazione, animata anche da quel senso di
verità che gli avevano dato, come egli stesso diceva, le litterae humaniores.
Il Marett, a differenza dei suoi predecessori, non scrisse mai un’opera di
vasta mole. I suoi volumi – di libri nati come tali egli non scrisse che
l’Anthropology – non sono che raccolte di saggi. E come saggista,
vicinissimo in ciò al Lang, egli si riattacca a quella tradizione inglese da cui
era uscito Thomas Browne. Notevole, per lo studio dell’etnologia, il
volume, edito nel 1909, dove egli raccolse fra l’altro tre saggi ormai celebri:
il primo, Preanimistic Religion, pubblicato originariamente nel «Folklore»
del 1900; il secondo, From Spell to Prayer, nella stessa rivista il 1904; il
terzo, Is Taboo a Negative Magic?, negli Anthropological Essais presentati
a E. B. Tylor in onore del suo settantacinquesimo anno. Fondamentale per
lo studio del folklore il volume Psychology and Folklore, edito nel 1920,
dove è raccolto un saggio, scritto già nel 1914, che fa vivere tutto il libro:
The Interpretation of Survivals. Altre raccolte di saggi che interessano tanto
il folklore quanto l’etnologia: Faith, Hope and Charity in Primitive
Religion, edita nel 1932; Sacraments of simple Folk, edita nel 1933; Head,
Heart and Hands in Human Evolution, edita nel 1935.
In queste opere il Marett non si allontana, in realtà, da un concetto, direi,
tradizionale dell’antropologia sociale, quale è la «storia dell’uomo
infiammata e pervasa dall’idea dell’evoluzione», mentre, ed è ovvio,
l’intera storia dell’uomo non è evoluzione ma svolgimento di vita, e in ogni
suo attimo caduta e risorgimento. Egli tuttavia era convinto che
l’antropologia «è scienza allo stesso modo come è scienza la storia, che non
è filosofia, sebbene debba conformarsi alle sue esigenze». E questo è,
rispetto ai suoi predecessori, un notevole passo avanti, ove si pensi che il
Marett, influenzato dal concetto che della storia aveva già ragionato lo
Hegel, della storia cioè che è tutt’uno con la filosofia, non confonde la
filosofia con la storia evoluzionistica dell’uomo. La differenza fra il Marett
e i suoi predecessori consiste, infatti, appunto in questo: che la teoria
dell’evoluzione è per lui effettivamente e semplicemente un’ipotesi di
lavoro. Si aggiunga che per lui non esiste un genere di storia. Egli ritiene
pertanto che la storia delle religioni, l’etnologia e il folklore non debbono
avere altra mira se non la ricerca della verità. E afferma: l’antropologo deve
essere uno storico. Né inganni l’uso che egli fa della parola antropologo. In
mezzo al confluire di questi problemi, il Marett, ritornando sui rapporti fra
storia e scienza, rimane imprigionato, è vero, tra le maglie dell’ambiguità
del termine scienza. Era di moda allora discutere se la scienza fosse la base
della storia o se la storia fosse la base della scienza, e si dimenticava che
soltanto se la scienza si intende come filosofia, essa è la base della storia e
quindi della etnologia. E in questa dimenticanza è anche il difetto del
Marett almeno per quanto riguarda il campo specifico di studi che egli
predilesse: quello della storia delle religioni.

5. Concetto del preanimismo

Il nome del Marett è legato alla teoria del preanimismo, secondo la quale
nella mentalità primitiva v’è qualche cosa di più indeterminato e di
psicologicamente anteriore all’animismo consistente «in certi sentimenti e
nell’idea di forze misteriose, non ancora spiriti, ma piuttosto volontà e
personalità indeterminate indicate col nome generico di mana, di orenda
ecc.». E qui, è evidente, ci troviamo di fronte allo stesso atteggiamento
mentale del Tylor, del Frazer, del Lang. Anch’egli si preoccupa
dell’anteriorità di un fenomeno rispetto all’altro. E come il Tylor (ma si
potrebbe dire: come il Brosses, il Comte, lo Spencer), anch’egli è
preoccupato di dare una definizione minima della religione.
Questo è il motivo per cui egli, pur non negando la vitalità
dell’animismo, mette in rapporto il mana col tabù, il quale, a sua volta, non
si spiega col concetto meccanico di magia negativa, ma con quello stesso di
mana. Il che significa che la magia non è un tessuto illusorio e tanto meno
una pura e semplice associazione di idee, bensì una creazione dello spirito
in cui è impegnata la volontà di credere o di fare. Il colpo era diretto al
Frazer. Né egli era solo in questa battaglia, perché contemporaneamente
anche la scuola antropologica francese, fondata da Emile Durkheim, si era
impegnata da una parte a far crollare la teoria dell’animismo del Tylor e
dall’altra a distruggere la tesi, peraltro attenuata dallo stesso Frazer nel
corso della sua opera, che la mentalità primitiva sia imbevuta soltanto di
associazioni illusone.
Il Durkheim aveva iniziato la pubblicazione dell’«Année Soeio-logique»
fin dal 1892. È del 1912, però, la pubblicazione del suo ampio volume Les
formes élémentaires de la vie religieuse, dove egli, basandosi su ampie
informazioni etnografiche, formula un suo concetto sull’origine della
religione. La quale, egli dice, coincide nel suo primo attuarsi con il
totemismo. E il concetto, a dire il vero, non è nuovo. Né era nuovo quel
miscuglio totemismo-religione-magia, che fra l’altro si poneva sullo stesso
piano del preanimismo, considerato dal Marett come un misto di religione e
magia. Il Durkheim aveva riempito tuttavia di quel concetto la prima fase
sociale della storia dell’umanità.
E l’uno e l’altro, il Marett e il Durkheim, in tal modo, se da un lato non
avevano esitato a porre la magia e la religione su uno stesso piano spirituale
– abolendo rispetto all’una e all’altra il prima e il poi – dall’altro
concordavano nel ritenere che un istituto non poteva reggersi sulla
menzogna. Ma non era questo un altro colpo diretto al Frazer, il quale
tuttavia in quella menzogna aveva pur intuito elementi di verità?
È evidente però che tanto il Marett quanto il Durkheim, nel porsi il
problema dell’origine della religione, ricadono poi in quella ricerca del
prima e del poi, di cui si erano liberati nei riguardi della magia rispetto alla
religione e viceversa. La loro ricerca si conclude, appunto per questo, su un
piano astratto e classificatorio, non certo speculativo e storiografico come
era nelle loro intenzioni. All’uno e all’altro sfugge, in fondo, l’essenza
stessa della religione. Senza poi dire, come ammoniva Hegel, che chi
procede in cerca del minimo, e quindi verso il passato del genere umano,
finisce con l’abbandonare lo stesso mondo umano. Il Marett e il Durkheim
hanno il difetto di aver fatto assurgere la ricerca psicologica (il primo) e la
sociologica (il secondo) a fasi storiche. Il Durkheim era stato posto infatti
su falsa strada da una sociologia che escludeva il contributo, quale che
potesse essere, della psicologia. Il Marett parte invece dalla psicologia che
inclina inoltre a confondere con la filosofia. Eppure, se fu proprio la
psicologia – non certo la filosofia e quindi la storia – a fargli porre in
maniera antistorica il problema della religione, sarà proprio la psicologia a
essergli di stimolo per comprendere il concetto di sopravvivenza.

6. La sopravvivenza di fronte al giudizio storico

La scuola antropologica inglese aveva fatto di tale concetto un vero e


proprio strumento di lavoro. Non si deve dimenticare, è vero, che il Tylor,
quando aveva posto la rinascita, come egli la chiamava, accanto alla
sopravvivenza, voleva già sottolineare il carattere immortale del folklore. Il
Tylor e i suoi successori dimenticarono spesso di valutare però quel che è la
sopravvivenza nel suo odierno attuarsi. Non si vuole negare, intendiamoci,
che nel folklore vi siano molte sopravvivenze e che esse siano in effetti dei
residui o meglio, per usare un termine linguistico, dei detriti di un mondo
scomparso o comunque a noi lontano. Il fatto che le sopravvivenze siano
detriti di un mondo scomparso, toglie che siano la realtà dell’oggi che
viviamo? Sarebbe, in questo caso, come dire che la fantasia, la religione e la
morale degli uomini contemporanei non siano la loro fantasia, la loro
religione, la loro morale, ma quelle dei loro antenati.
È appunto per difendere questo concetto che scenderà in campo il
Marett. E la sua, nel campo dell’antropologia sociale, se pur non è una voce
nuova, ha indubbiamente una forza che s’impone. Gli stessi antropologi
inglesi muovevano, del resto, alla ricerca di fossili, di cose morte. E
cammin facendo ritrovavano cose piene di vita. Si aggiunga che fin dal
1900 due autorevoli rappresentanti della scuola sociologica francese,
l’Hubert e il Mauss, nella loro Etude sommaire de la représentation du
temps dans la magie et la religion avevano sostenuto la tesi che nel campo
del folklore, se pur vi sono delle tradizioni che muoiono, altre ve ne sono,
per usare il loro termine, che ringiovaniscono. Il che rende il folklore
immortale, come immortale è la vita di cui esso è espressione eterna e
universale.
I sociologi francesi, impegnati soprattutto nelle ricerche etnolo-giche,
non esitavano comunque a considerare il folklore come una appendice
dell’etnografia o meglio dell’etnologia. Ed è a questa idea che il Marett
anzitutto si ribella. In una pagina del suo volume Psycology and Folklore
egli osserva:
«Quando ci troviamo davanti a strani frammenti della cultura contemporanea che ci sembrano più o
meno fuori di luogo nel nostro mondo civile, cerchiamo di indagarne le origini riferendole a un
passato più o meno remoto, passato che noi ricostruiamo attraverso le supposte analogie con i più
rozzi popoli odierni, presso cui tali costumi o credenze si trovano in piena efficienza. Ma se il
folklore si limitasse a ciò non sarebbe che un’appendice dell’etnografia, mentre in realtà non è così;
potendo il folklore illuminare l’etnografia nella stessa proporzione con cui ne è illuminato».

Questa idea era stata già espressa dal Mannhardt e discussa anche dal
Frazer. Ma non è questa la ragione per cui il folklore non è un’appendice
dell’etnografia o meglio dell’etnologia. Il folklorista fa oggetto delle sue
indagini, che è quanto dire del suo giudizio, un determinato fatto
folkloristico. Da questo egli muove. Il che significa, in altri termini, che
muove da un interesse della vita presente, il quale può spingerlo a indagare
un fatto passato che tuttavia si fa presente nella sua stessa mente. Identico il
compito dell’etnologo, anche se egli parte da un fatto etnologico, il quale
poi rivivrà nella sua coscienza come parte di essa. Si potrà dire allora che
tanto il folklore quanto l’etnologia si debbono considerare appendici della
storia? Evidentemente no, ove si pensi che la storia è lo specchio, diciamo
così, di tutta la vita spirituale in cui non vi sono appendici, ma parti vive
che si integrano a vicenda. Il folklorista non studia che una parte di questa
vita. È necessario però che egli, affrontando lo studio di un costume, di una
credenza, di una superstizione veda anzitutto quale è la nuova vita che quel
costume, quella credenza e quella superstizione si sono creati.
Il compito del folklorista, aggiunge pertanto il Marett, non è soltanto
quello di vedere il vecchio, come volevano i suoi predecessori e come
avevano dogmatizzato il Gomme e la Bourne, bensì l’intrecciarsi del
vecchio col nuovo. La domanda che il folklorista deve porsi non è quella di
considerare la sopravvivenza in sé come passato – che tutto il presente
contiene il passato, mentre il presente di oggi tende anch’esso a farsi
passato –, ma vedere dove e come una sopravvivenza vive. Si aggiunga che
nessun giudizio storico può poggiare sul principio di identità. E ciò perché
la coscienza che accoglie un fatto attuale, lo vive nelle condizioni attuali, le
quali fanno si che ogni sopravvivenza sia in atto una rinascita. È vero che
un fatto può anche trovare i suoi precedenti nella coscienza antica che lo ha
vissuto. Ma è vero altresì che esso, per continuare a vivere, trova un
adattamento, e perciò una sua propria vita, nella coscienza di chi lo rivive.
È ovvio osservare, d’altra parte, che nel campo del folklore tutto ciò che
muore rivive sotto altra forma per poi a sua volta, compiuto il proprio ciclo,
dare vita a nuove forme. Ma c’è di più: che quando una superstizione (=
sopravvivenza) ha perduto il suo significato originario, essa assume un suo
nuovo significato, senza di che la sopravvivenza non vive. È vano illudersi,
come faceva soprattutto il Gomme, che un uomo compia un determinato
gesto per abitudine e che quell’abitudine costituisca sopravvivenza
(inconsapevole) di un culto totemico. Lo sarà, ripetiamolo pure, ma se
l’uomo crede in quel gesto vuoi dire che ha fede in esso. Ed è quella fede
che deve pur contare.

7. Valore dell’individuo nell’etnologia

Partito dalla psicologia, il Marett arriva così a uno dei più importanti
principi che regolano la vita del folklore e che il folklorista non può
trascurare interpretando e quindi giudicando il folklore stesso. Né, a dire il
vero, si ferma soltanto qui l’interesse storico che il Marett dimostra nei
riguardi del folklore. La scuola sociologica francese nel suo incessante
lavorio aveva posto il suo accento sulle forze collettive che governano la
società. Erano stati in Germania il Lazarus e lo Steinthal a sostenere
energicamente: 1, che a nulla vale affermare la dipendenza dell’individuo
dall’ambiente, se non si ha conoscenza di quell’ambiente; 2, che per far ciò
è necessario attingere le informazioni su tutti i campi della attività umana;
3, che pertanto è necessario, ove si vogliano comprendere l’arte, la
letteratura, il linguaggio, la religione, considerare queste manifestazioni
come collettive. È da queste premesse che partirà più tardi il Wundt, il
quale, se da una parte restringe il compito della Völkerpsychologie allo
studio del linguaggio, del mito e del costume, dall’altra collega il Bastian e
il Waitz col Lazarus e lo Steinthal per costruire una psicologia collettiva
destinata a chiarire gli sviluppi storici e sociali. Il Wundt esclude che
l’individuo possa essere causa veramente agente dell’evoluzione sociale.
Bene: il Durkheim andrà oltre, convinto com’è che l’induzione psicologica
sia insufficiente a spiegare i fatti sociali e quindi le arti e i costumi, i quali
hanno una loro caratteristica, tanto è vero che non risultano da una somma
di apporti della coscienza individuale, ma da una sintesi in cui è la somma
degli elementi stessi che la compongono. E su queste basi fu affrontato lo
studio della mentalità primitiva (Lévy-Bruhl) cui i sociologi francesi si
rifecero per studiare la religione e la magia (Hubert, Mauss, Hertz), il diritto
(Davy, Huvelin), l’arte (Guyau) ecc.
Di contro alle conclusioni cui giungevano i sociologi francesi, i quali in
gran parte rinnovavano e salvavano i resti della filosofia comtiana alla luce
di un rinnovato Volksgeist, la scuola antropologica inglese aveva lavorato in
fondo sugli schemi di una psicologia individuale, accogliendo
implicitamente quella tradizione in cui si inverava lo spirito individuale
della civiltà occidentale (cristiana e umanistica). Il Tylor e il Frazer non
avevano mai negato l’apporto che il selvaggio come individuo da alla sua
società con le sue invenzioni, con le sue creazioni, col suo prestigio. Lo
stesso Frazer aveva ammonito inoltre che non bisogna mai escludere a
priori la spiegazione che un contadino può darci di un uso, essendo essa pur
sempre il frutto di una interpretazione personale. Non si voleva negare,
insomma, il valore della società, tanto nel campo dell’etnologia quanto in
quello del folklore. Si tendeva però a riaffermare che la coscienza collettiva
e quella individuale sono immanenti l’una nell’altra.
È a questo principio che si riattacca il Marett. Nella sua Anthro-pology
egli scrive:

«L’uomo di alta individualità, l’uomo eccezionale, l’uomo di genio, sia egli l’uomo di pensiero,
l’uomo di sentimento, l’uomo di azione, non possono essere trascurati dalla storia. Al contrario,
quell’uomo è in gran parte il costruttore della storia e come tale dovrebbe essere trattato con il dovuto
rispetto dallo storico. Lo “scheletro” della storia, le sue medie, stanno tutti benissimo nel proprio
modo, ma corrispondono alla verità superficiale che la storia si ripete… Quindi l’antropologia non
deve disprezzare ciò che potrebbe chiamarsi il merito del racconto storico. Studiare l’intreccio senza
studiare i caratteri non darà mai l’idea del dramma della vita umana».

Il concetto che il Marett aveva formulato intorno alle sopravvivenze non


esclude la società, ma non esclude nemmeno l’individuo. Il suo
atteggiamento è qui parallelo a quello dei filologi che rivendicarono, e a
diritto, l’origine delle canzoni, delle fiabe, delle novelle ecc. a singoli
individui. Si aggiunga che per lui l’apporto individuale all’etnica
tradizionale dava ad essa un perenne senso di creatività. In ciò i contadini
europei sono sullo stesso piano dei primitivi. È questa, forse, una delle
ragioni che gli fece rifiutare le conclusioni cui allora giungeva il Lévy-
Bruhl, il quale, a differenza della scuola antropologica inglese e della scuola
sociologica francese, aveva rimesso in dubbio quel carattere unitario della
forma logica del pensiero, che è tanto dell’uomo colto quanto del primitivo.

8. Marett contro Reinach

Le conclusioni cui giunge il Marett costituiscono, dunque, i lati positivi


della scuola antropologica inglese. Così come quelle del Reinach ne
proiettano i lati negativi. Il che dimostra che, pur partendo dalle stesse
premesse, le teorie della scuola antropologica inglese e quelle dei suoi
epigoni non possono essere ricondotte a un comune denominatore.
Nel suo libro Naturalismo e storicismo nell’etnologia il De Martino ha
giustamente osservato:

«La vecchia etnologia, ispirandosi al lucreziano “Tantum religio potuit suadere malorum”,
nascondeva un sottinteso polemico, più o meno esplicito, contro le aberrazioni delle superstizioni, e
intendeva concorrere, per ciò che le spettava, a sgombrare le menti da tanta nebbia, e a far rifulgere la
luce della “science”. Talora è possibile sorprendere i nuovi illuminati del positivismo nel compiaciuto
atteggiamento del navigante dantesco che dalla riva sicura “guata l’acqua perigliosa”, cioè, fuor di
metafora, nell’atteggiamento di adoratori della “Raison” e di spregiatori di quel tessuto di illusioni e
di errori di quella vicenda di patologici atteggiamenti dello spirito che fu l’umanità primitiva».
E questo, come abbiamo visto, fu appunto l’atteggiamento di un
Reinach. Gli altri antropologi, il Tylor, il Frazer, il Lang, i Gomme, il
Marett, anche se partivano da quelle premesse, giunsero a risultati
completamente opposti. E ciò perché essi, pur considerando l’animismo, la
magia, il preanimismo ecc. come il fondamento della religione o come
l’attuarsi di determinati poteri, finivano col vedere nelle tradizioni dei
popoli la fonte stessa della moralità, del diritto, dell’arte. Si aggiunga, per
usare una frase del Vico, che a loro, nel frattempo, si dispiegava il processo
(storico) per cui i figli di Polifemo si erano fatti Scipioni Africani (i maghi,
re; la magia, scienza; il totemismo, arte; e così via).
Questa la ragione per la quale la scuola antropologica offri al folklore
stesso, considerato come storia, le carte più valide della sua navigazione. E
se è vero, come lo è in parte, che gli antropologi inglesi non valutarono la
natura poetica della letteratura popolare, è pur vero che essi videro con
chiarezza i problemi più inquietanti del folklore, con una visione larga e
ampia. Umanisti per educazione e illuministi per tendenza, essi, potremmo
dire, romanticizzarono, senza volerlo, i popoli primitivi, le civiltà classiche,
i volghi dei popoli civili. E nel loro slancio per abbracciare non più
l’Europa ma il mondo, non soltanto la civiltà ariana ma anche quella dei
popoli primitivi – e tutto ciò in nome della nostra stessa civiltà nel cui
avvenire ponevano tutta la loro fiducia –, essi, cittadini di un impero
coloniale, credevano di poter realizzare la formazione di un veritiero
internazionalismo al quale ciascun popolo, senza distinzione di razza e di
colore, era chiamato a partecipare in nome dell’umanità.
Parte sesta
Aspetti del folklore nell’ultimo cinquantennio
26. La lotta della storia

1. La scuola storico-culturale

Non v’è dubbio che la scuola antropologica inglese, quale che siano stati
i suoi schemi evoluzionistici, tentò (a volte riuscendovi) di storicizzare non
solo l’etnologia, ma anche il folklore. Questo compito fu assunto tuttavia,
con maggiore impegno, da un’altra scuola che ormai va sotto il nome di
storico-culturale.
Un nostro folklorista, il Vidossi, ebbe recentemente a notare:

«Questa scnola che riconosce quali suoi precursori e maestri Fr. Ratzel, L. Frobenius, W. Foy, e F.
Graebner, autore d’un molto apprezzato Trattato di metodologia etnologica, muove dal concetto
dell’origine unica e della successiva propagazione degli elementi culturali per effetto di rapporti di
cultura, deducendone la necessità di stabilire l’area geografica d’ogni elemento per riconoscere
obiettivamente la stratificazione cui appartiene, e ricercarne quindi la cronologia. Casi di poligenesi,
di conseguenze indipendenti da contatti culturali, sono possibili, qualche volta anche probabili. Ma
l’ipotesi d’una origine multipla dei fenomeni, a cui contrasta, nell’ambito storico, l’esperienza e
manca, di regola, la dimostrabilità non può mai essere assunta come principio metodologico o
esimere dall’obbligo di ricerche storico-geografiche in senso opposto. Quel che vale nel campo
etnologico vale tanto più nel campo demologico, dove elementi presunti primitivi s’intrecciano
variamente con altri di derivazione letteraria, sicché la ricerca sarebbe in ogni caso indispensabile, se
non altro, per districarli».

Il Vidossi si rifa qui alla prefazione che W. Foy fa precedere alla


Methode der Ethnologie del Graebner, edita nel 1911, e considerata come il
programma della stessa scuola storico-culturale. In questa prefazione-
programma il Foy avverte infatti che le norme della scuola storico-culturale
non sono valide soltanto per l’etnologo, ma anche per il folklorista. E su ciò
lo stesso Foy ebbe occasione di insistere recensendo un anno dopo il
volume Geburt, Hochzeit und Tod di E. Santer.
Convinto che la Kulturgeschichte, sul cui concetto allora tanto si
insisteva, ha per oggetto tutte le forme di vita spirituale e istituzionale dei
popoli, il Foy, pur rimanendo impigliato negli schemi di una storia
universale, faceva suoi in fondo gli insegnamenti di un Droysen. Era stato
merito di quest’ultimo l’aver affermato che nel suo lavoro sotterraneo lo
storico deve tener conto degli avanzi e che fra essi vanno collocati gli usi e i
costumi, i quali altro non sono che i prodotti della storia. E questo era il suo
ammonimento: studiare il folklore col metodo stesso dell’etnologia, che era
quanto dire con il metodo della storia. Senonché, ci si deve domandare, fino
a qual punto la scuola storico-culturale può essere utile al folklorista? E fino
a qual punto la scienza del folklore ha percorso o ha utilizzato le vie
tracciate da tale scuola?

2. Il suo precursore: Ratzel

La scuola storico-culturale si basa su due postulati essenziali: 1,


risoluzione della storia nell’ordinamento spaziale, temporale e casuale dei
fatti: 2, superamento della vecchia etnologia evoluzionistica, mercé la
elaborazione di un metodo di ricerca accurato in tutti i suoi particolari.
Il primo avvio alla formulazione di questi postulati fu dato da un
geografo umanista: Friedrich Ratzel. Il quale nella sua celebre
Anthropogeographie si era proposto di rinnovare l’indirizzo della etnografia
«conducendola a considerare i movimenti dell’uomo sulla superficie della
terra». In più egli sottolineava allora un fatto importante: e cioè che le
influenze dell’ambiente sull’uomo non debbono farci dimenticare che anche
l’uomo influenza l’ambiente.
Questo il nucleo attorno a cui si svolge uno dei suoi saggi più importanti,
intitolato Geschichte, Völkerkunde und historische Perspektive. Convinto
che l’uomo è pur sempre una parte della terra e che la geografia deve pur
sempre guidarci nelle ricerche etnografiche o folkloristiche, il Ratzel in
questo saggio non solo si ribella ai criteri della scuola antropologica
inglese, ma sostiene energicamente che anche nell’etnologia bisogna
cercare i collegamenti storici delle varie civiltà e che soltanto le aree di
propagazione spiegano le modificazioni. Con la scuola antropologica
inglese egli tuttavia concorda in un punto essenziale: cioè che è assurdo
considerare i primitivi al di fuori della storia, come avevano sostenuto non
solo il Bastian, ma anche lo Hegel.
Il Ratzel, ammesso questo principio, collega quindi la geografia con la
storia, in modo che la ricerca etnografica proceda su queste due linee
parallele. Era in fondo il metodo cui, attraverso il Riehl, erano già arrivati
nel campo della filologia folkloristica tanto lo Schwartz quanto i Krohn. Né
va dimenticato che, nel campo dell’etnica, a quel metodo si era già
avvicinato il Mannhardt nei suoi Wald- und Feldkulte.
In questo campo quel metodo trovò il suo più efficace sostenitore in
Wilhelm Pessler, il quale nel 1906 pubblicò un lavoro rimasto
fondamentale, Das altsächsische Bauernhaus im seiner geographischen
Verbreitung, dove egli nello studiare l’architettura rustica della Bassa
Germania, completò la ricerca geografica con l’appoggio di carte che ne
rilevavano nello spazio la diffusione. Il Pessler sostenne e applicò quel
metodo anche in una serie di interessanti volumi: come, ad esempio, i
Beiträge zur vergleischenden Volkskunde Niedersachsens, che sono del
1910, o il Plattdeutscher Wortatlas von Nordwestdeutschland, che è del
1928.
Ma con quali risultati? Dice di lui uno dei più autorevoli critici del
folklore tedesco, il Röhr:

«Il Pessler ha esposto le sue idee in un saggio sulla Deutsche Volkstumsgeographie; nel quale, però,
egli tratta piuttosto del profitto che si può trarre dalle carte per la conoscenza dei fatti che della
“vita”, se possiamo dire così, propria della rappresentazione cartografica di ampie raccolte di
materiali; mentre solo dalla conoscenza di tale “vita” è possibile ricavare i presupposti metodici e le
garanzie necessarie per una interpretazione integrale di carte demologiche».

In altri termini non si vuoi negare il valore della cartografia e quindi


delle aree di diffusione. Lo storico però deve andare oltre. Ritenere che
quello sia un campo di studi e non uno dei metodi di cui quello studio si
serve, significa dimenticare, come giustamente rileva il Rohr, che la
geografia non è, né potrà mai essere storia.

3. La Methode del Graebner


Lo stesso Ratzel, del resto, – sempre allo scopo di collegare la geografia
con la storia, – aveva già avvertito i limiti della teoria del Bastian, secondo
la quale presso tutti i popoli debbono ritrovarsi come fondo psicologico
primitivo della loro cultura le stesse idee elementari. È necessario, si
domandava il Ratzel, che si arrivi a uno stadio avanzato di sviluppo perché
si manifestino differenze e interferenze? Oppure tali differenze e
interferenze esistono anche presso i primitivi che il Bastian riteneva al di
fuori della storia? È vero, d’altra parte, che tra i primitivi non esistono fonti
scritte, ma esiste una cultura materiale. Interroghiamola. In un suo studio,
dedicato agli archi africani, il Ratzel nel 1887 era venuto a questa
conclusione: che oggetti della stessa natura, trovati in zone territoriali molto
discoste, presuppongono un rapporto storico-genetico.
Da qui il suo criterio della qualità, che un suo discepolo, il Frobenius,
indagando nel 1898 l’origine di quella civiltà africana che doveva poi
costituire il campo dei suoi studi, completò con quello della forma. Il Ratzel
si era infatti preoccupato di ricercare le dipendenze delle forme del pensiero
da una sorgente comune. Il Frobenius è dell’avviso che quella relazione si
estenda a un intero complesso di fenomeni culturali, quali questi si inverano
negli elementi materiali, sociali, mitologici ecc.
E da queste fonti partirà appunto il Graebner, il quale, da buon storico,
dopo aver considerato l’etnologia come una disciplina dello spirito, non
solo rivendica ad essa il valore dell’individuo, ma tenta,
contemporaneamente, di mantenere distinto il campo storico da quello delle
scienze naturali. Osserva in proposito lo Schmidt:
«Se l’etnologia è una scienza dello spirito, anche il suo metodo deve essere quello delle scienze dello
spirito, non quello delle scienze naturali. Essa deve avere l’efficacia di rendere e apprezzare persona,
individuo, volontà libera, elementi che nella massa appaiono tanto spesso come sommersi, mentre in
essa agiscono in realtà efficacemente i talenti e i geni nel contenuto, come altrettanto fanno i capi
nella forma. Questo metodo deve poter concepire insieme al collettivo anche il singolo, l’individuale,
e non fermarsi al tipico o al medio; deve essere ideografico, e pensato per questo e per questo
corredato, cioè per concepire e valorizzare il singolare».

Il Graebner respinge così in pieno la problematica che in proposito era


stata elaborata, in opposizione alla stessa scuola antropologica inglese, dalla
scuola sociologica francese. E l’individuo è a suo avviso non solo artefice
della società, nel caso specifico della società primitiva, ma anche della
storia. E ciò sarà in effetti l’insegna della scuola storico-culturale, la quale,
bisogna aggiungere, non mancò di porsi in aperto contrasto con la scuola
antropologica inglese o meglio con i suoi principi evoluzionistici.
È assurdo, nota peraltro lo stesso Graebner, affermare che lo sviluppo
dell’umanità vada, in tutti i campi, dall’inferiore al superiore; che lo
sviluppo umano si presenti sempre in linea ascendente; che i giudizi se
qualcosa sia inferiore o superiore siano in gran parte dei giudizi di valore,
tanto soggettivi da infirmare la coscienza dello storico. E qui vi è magari
confusione di termini, ma v’è indubbiamente l’anelito dello storico il quale
considera la storia l’unica forma di conoscenza.
In realtà la scuola antropologica inglese si era servita di quegli schemi, o
forse sarebbe meglio dire, di quella filosofia, per stabilire dei processi
ascendenti: il monoteismo che nasce dall’umanismo, la magia che precede
la religione ecc. Sarebbe assurdo, però, e lo abbiamo visto, immobilizzare la
scuola antropologica inglese dentro quegli schemi i quali, peraltro, furono
uno stimolo al suo fecondo lavoro.
È vero, d’altra parte, che la scuola antropologica, per quanto non le si
possano attribuire indiscriminatamente tutti i difetti che le attribuisce il
Graebner, aveva costruito i suoi sistemi basandosi su una mentalità
primitiva indifferenziata. Senonché, si domanda con insistenza il Graebner,
quell’umanità è poi veramente tale? O esistono anche fra i popoli primitivi,
che ancor oggi vivono sulla terra, strati diversi di civiltà (cicli) che
caratterizzano la cultura di quei popoli?

4. Filologia etnologica

Per potere determinare la varietà di questa vita, per poter cioè chiarire
ancor meglio il problema dei cicli culturali già posto dal Ratzel e dal
Frobenius, il Graebner pone tutta una precettistica, mediante la quale egli
offre all’etnologo gli strumenti di lavoro o meglio le ipotesi di lavoro per
internarsi nel mondo dei primitivi, onde stabilire i vari cicli culturali, le fasi
di sviluppo di un determinato elemento dentro quei cicli, le forme più
antiche di un oggetto o di una credenza rispetto ad altre.
Vasta e complessa non solo nella sua formulazione, ma anche nei suoi
dettagli è questa precettistica. Il Graebner, infatti, ci espone anzitutto i
criteri dell’accertamento delle aree culturali coesistenti nel tempo e nello
spazio:

«Quando due zone culturali di carattere diverso si incontrano, esse potranno sovrapporsi l’una
all’altra nelle zone di contatto e creare così delle forme miste, oppure potranno entrare soltanto in
rapporti marginali, creando dei fenomeni di contatto… Alle volte i singoli elementi culturali
formano, in una determinata zona particolare, una combinazione organica molto omogenea, rendendo
anche facilmente riconoscibili le somiglianze con altre zone particolari… Altre volte certi elementi
culturali, che non appaiono intimamente connessi, si presentano tuttavia costantemente, anche in
zone diverse, in unione più o meno intima. Si tratta allora di cicli culturali di data più antica».

Ed è con quest’ultimo criterio che si è potuto passare all’esame dei cicli


culturali coesistenti nello spazio. Il Graebner insomma tende a creare una
vera e propria filologia che sostituisca i documenti scritti della storia. C’è
una ragione, osserva giustamente il De Martino, per cui:

«la scuola storico-culturale ha ben meritato dell’etnologia, ed è la grande esattezza filologica che essa
ha instaurato in tali ricerche. Sebbene l’esattezza filologica non sia storia, tuttavia essa costituisce un
bene prezioso, una garanzia solida opposta ai giuochi dell’immaginazione e agli arbitri del
sentimento. Nessuno può contestare che, in tale ambito, l’esattezza delle informazioni etnologiche sia
ora di molto progredita rispetto al passato. Restituire l’esatta lezione di un lesto, dichiarare le
interpolazieni, fissare le attribuzioni e le provenienze, ricostruire le genealogie, distinguere le
redazioni successive di un’opera, determinare l’ordine cronologico di successione di una serie di
testi, in una parola esercitare con acribia una rigorosa critica testuale esterna è fatica indispensabile,
eurisi necessaria».

5. Interpretazioni etnologiche

Ora, la filologia folkloristica non ha nulla da imparare dal Graebner.


Anzi sotto molti aspetti la filologia etnologica ne è il prolungamento. Si
deve osservare inoltre che, a differenza dell’etnologo, il folklorista si muove
in ambienti storici già determinati. È vero che egli ha ben altri strumenti di
lavoro a sua disposizione. L’accertamento dei cicli, che è quanto dire delle
aree di diffusione, è servito a stabilire un fatto che già la scienza del
folklore viene illustrando: e cioè che un costume può assumere un carattere
animistico nel seno di una civiltà, totemico in un’altra, magico nel seno di
una terza, o nulla di tutto ciò in una quarta. Non è affatto giustificato,
ammonisce il Graebner, sostenere che «fenomeni eguali debbono avere
eguali significati». E in proposito egli sarà categorico nell’affermare che
compito dello storico (e quindi si può aggiungere col Foy: non solo
dell’etnologo, ma anche del folklorista) deve essere di interpretare i fatti
senza preconcetti di sorta. Cioè, come aveva detto Droisen, comprendere
indagando. E aggiunge:

«In ogni interpretazione si presenta in grande misura una prudente acuta critica. In primo luogo la
testimonianza, in base alla quale segue la spiegazione, dev’essere accertata in pieno criticamente.
Inoltre il fatto così provato deve essere tanto affine formalmente o idealmente a quello da
interpretarsi, che un passo in fallo non sia possibile o almeno non sia verosimile; soprattutto devono
essere chiari i punti di comparazione… Più dati raggiungono il più alto grado di capacità di
interpretazione soltanto quando appartengono alla stessa unità culturale di luogo e di tempo».

Anche qui il colpo è tirato alla scuola antropologica inglese. Lo stesso


Graebner, tuttavia, dopo aver battagliato contro il Frazer, riconosce
lealmente che «dove le sue spiegazioni si tengono, coscientemente o
incoscientemente, nell’ambito di determinate connessioni culturali, i
risultati possono avere diritto a maggiore o minore fiducia». Bene: ma quel
che egli dice per il Frazer non si può applicare, sia pure dentro certi limiti,
ai rappresentanti tutti della scuola antropologica inglese? E in realtà è poi
sempre necessario spiegare le analogie con i loro reciproci influssi, senza
ammettere che esse possono anche, per così dire, manifestarsi
spontaneamente?

6. Padre Schmidt, etnologo e storico del folklore


La rappresentazione del Graebner, scrittore massiccio ma difficile, fu
ripresa sia pure con minor senso speculativo da Wilhelm Schmidt, destinato
a diventare il maggiore rappresentante della scuola storico-culturale.
Etnologo, e fra i maggiori che abbia l’Europa, egli infatti affrontò con
rinnovata energia i problemi dei cicli culturali, il loro accertamento, la loro
validità storica secondo i criteri del tempo e dello spazio. Né in tale
indagine egli dimenticò la problematica folkloristica, come appunto ci
dimostrano il suo saggio Die kulturhistorische Methode in der Ethnologie,
che egli pubblicò nel 1911 in «Anthropos» – una rivista che ha dato
notevole impulso tanto agli studi di etnologia quanto a quelli di folklore –, e
in particolar modo il suo Handbuch der Methode der kulturhistorische
Ethnologie, edito nel 1937 (preceduto peraltro dall’opera scritta in
collaborazione con il Koppers, Völker und Kulturen, che è del 1924).
In questi lavori, di carattere teorico, lo Schmidt ha sempre dichiarato che
la scuola storico-culturale è sorella o meglio figlia della storia; che essa
come fine principale ha la certezza storica; che la sua metodologia è quella
della storia. Queste affermazioni categoriche non gli impediscono però di
porre delle distinzioni fra le fonti, le quali, a suo avviso, rispetto alle origini
possono essere immediate o derivate, mentre rispetto al loro valore
gnoseologico sono reali o parlanti. Né gli impediscono inoltre di affermare
che l’etnologia ha pur le sue caratteristiche:

«Poche scienze dispongono, come ha già rivelato Graebner, di un metodo così ben perfezionato come
la storia. Ora ciò naturalmente va a beneficio anche dell’etnologia, la quale però, come speciale ramo
della scienza storica totale, non manca in nessun modo di proprie caratteristiche che poi richiedono
in relazione al metodo la loro considerazione…»
Lo Schmidt è convinto inoltre che il metodo di conoscere della filosofia
è da distinguersi da quello della conoscenza storica. E sentiamo la ragione:
perché la filosofia procede, tra l’altro, anche dai fatti di esperienza, forniti
dalla natura e dalla storia, ma preferendo alle loro cause prossime e
concrete quelle remote e generali. Marett era andato oltre. E, forse prima di
lui, oltre erano andati gli stessi antropologi inglesi, ai quali la filosofia, che
era nel caso specifico la storia della filosofia e non quella evoluzionistica,
aveva insegnato che ogni teoria in tanto vale in quanto è pensata e che il
pensiero non può vivere al di fuori della filosofia.
Lo Schmidt, dopo aver battagliato con quella scuola – nel che, a dire il
vero, non va oltre il Graebner –, prende quindi di mira il Mannhardt. Uno
studioso austriaco, serio e ben preparato storicamente, A. Haberlandt, nel
suo volume Volkskunde und Völkerkunde, non aveva esitato ad affermare
che il Mannhardt aveva anticipato «una buona parte del fondamento
metodologico del folklore e dell’etnologia comparata, vale a dire del
metodo etnologico del Graebner». E lo Schmidt commenta indignato, egli
che in genere è così cavalieresco nel passare in rassegna le teorie altrui:
«Sarebbe stato straordinario se il folklore avesse conosciuto tanto presto il
metodo storico-culturale». Continuando le sue indagini in tal proposito, egli
accenna ai lavori dello Spamer, del Maurer e dello Schier, editi nell’ampia
raccolta curata dallo stesso Spamer e intitolata Die deutsche Volkskunde. E
aggiunge in una nota: «Il ramo geografico culturale con l’applicazione
eccellente della cartografia viene creato in modo speciale da W. Pessler». È
vero che l’attività di quest’ultimo si inizia nel 1906, quando cioè non era
ancora uscita la Methode del Graebner. Il saggio del Ratzel Geschichte,
Völkerkunde und historische Perspektive era stato pubblicato però nel 1893.
E il Pessler rientra quindi nei quadri.
Lo stesso Schmidt tuttavia non esita a riconoscere:

«L’indagine storica ha raggiunto ben presto una considerevole altezza specialmente a causa di
favorevoli condizioni. Questo frutto maturò nelle ricerche dei dotti finlandesi sull’origine della loro
epopea nazionale, il Kalevala. Mentre i ricercatori più antichi come Lönnrot, J. Krohn e altri
ricevettero l’eredità di un punto di vista evoluzionista-naturalistico nella spiegazione della medesima,
l’indagine si perfezionò già sotto J. Krohn e più ancora sotto K. Krohn in una indagine pienamente
storica, su una via di transizione da un modo di lavorare geografico-cartografico a uno puramente
storico. Essi poterono poi anche dimostrare che il Kalevala nella sua forma attuale non è nato nel
tempo preistorico pagano, ma in un periodo di transizione che sta fra il paganesimo e il
cristianesimo».

È strano che lo Schmidt non faccia per Julius Krohn quelle riserve che
aveva manifestato per il Mannhardt. Il che significa che allo Schmidt
sfugge un particolare: e cioè che, se la scuola storico-culturale ha per
metodo la storia, non era necessario che venisse fuori la scuola storico-
culturale, perché la storia si facesse criterio d’interpretazione per il folklore.
E questa infatti è la ragione per cui la storia, cioè il metodo della storia,
aveva dato vita e vigore alle opere dei Grimm, di un Pitrè, di un Mannhardt,
di un Dieterich.
Lo Schmidt è convinto infine che «gli strati inferiori del popolo
corrispondono in gran parte ai popoli primitivi». Da qui il principio da lui
sottinteso: cioè che essendo l’etnologia un criterio di interpretazione del
folklore, è legittimo che essa sia portata al suo grado di pensiero storico.
Insomma: se la metodologia del folklore è la storia e se l’etnologia è essa
pure storia, possiamo trascurare i risultati cui, nel campo specifico
dell’etnologia stessa, ci ha portato la scuola storico-culturale?

7. La credenza nell’Essere Supremo

Nessuno potrà ora negare che questa scuola coi suoi accertamenti
etnologici ci ha dato in effetti una nuova visione del mondo primitivo. Si
pensi alla grande opera dello stesso Schmidt, Der Ursprung der Gottesidee,
le vera Bibbia dei popoli primitivi. Ed eccoci ai suoi risultati. Esistono oggi,
egli afferma, dei popoli primitivi, la cui cultura ci documenta la più remota
antichità dell’uomo sulla terra. Cioè: dell’uomo veramente primitivo.
Ebbene, in questi popoli esiste la credenza dell’Essere Supremo. Quindi
abbiamo, alle origini, la credenza dell’Essere Supremo. Ed ecco dove
condurranno quelle caratteristiche dell’etnologia che lo Schmidt aveva
rilevato rispetto alla storia.
Si tratta, come si vede, di una teoria la quale, rovesciando le precedenti
costruzioni sull’origine della religione e collegandosi alle posizioni
teistiche, respinte dal Tylor, dal Frazer e dal Durkheim, pone in origine una
credenza puramente religiosa e religiosamente pura: quella dell’Essere
Supremo. Ma possiamo noi, in effetti, affermare che in origine esista una
credenza isolata dell’Essere Supremo? E l’Essere Supremo è davvero, come
lo immagina lo Schmidt, il prodotto di un pensiero logico casuale?
Lo Schmidt, sotto questo aspetto, completa il secondo Lang. Questi, a
dire il vero, aveva esitato a qualificare iddii gli Esseri Supremi. Lo farà lo
Schmidt il quale anzi osserva che l’Essere Supremo, fra i popoli
etnologicamente più antichi, è anche creatore, onnipotente, onniveggente.
Né va dimenticato che per lo Schmidt – come per il Lang – la religione in
questa sua forma arcaica, in questo suo inverarsi cioè nella credenza
dell’Essere Supremo, è una forma essenzialmente diversa dal mito, perché
essa è collegata alla sfera dell’attività razionale, in quanto l’Essere Supremo
degli ultraprimitivi risponde a una concezione razionale della causa. «Il
bisogno di una ragionevole causa», osserva lo Schmidt, «è soddisfatto dalla
certezza di un Essere Supremo creatore del mondo e dell’uomo».
Ora è merito indubbiamente dello Schmidt quello di aver accertato fra i
popoli primitivi la credenza dell’Essere Supremo. E in ciò lo ha seguito,
con risultati eccellenti, la scuola storico-culturale. Nessuno del resto potrà
mettere in dubbio che il momento religioso appare variamente atteggiato
nella coscienza dell’uomo di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Ma quale
aspetto abbia assunto in origine questo momento rimane e rimarrà
un’ipotesi. O comunque un atto di fede. E ciò perché non è possibile
assumere a giudizio storico la tesi del prima cronologico che porta ad
assumere arbitrariamente un momento od aspetto del corso storico come la
condizione necessaria (e la sola necessaria) del resto. Un fatto è stabilire
come una concezione si sia diffusa sulla terra; ma del tutto diverso è
affermare che quella determinata concezione stia proprio alla base
dell’istituto al quale va unita.
Nel porre la credenza dell’Essere Supremo alle origini della religione in
cambio del feticismo, dell’animismo, del preanimismo, lo Schmidt cade in
quegli stessi schemi evoluzionistici contro cui egli era sceso in campo. Ma
il suo in fondo è un evoluzionismo alla rovescia. Egli, per dare vigore a
quell’accertamento, parte dalla premessa che vi sono sulla terra delle
culture cronologicamente primitive. È ovvio invece osservare che la più
bassa e rudimentale civiltà, se noi vogliamo considerarla storicamente, non
può non apparirci che come un prodotto di successive trasformazioni.
Di fatto, la scuola storico-culturale ha studiato determinati cicli, li ha
messi in luce, così come si potrebbero mettere in luce la civiltà egiziana o
quella ebraica o quella maomettana. E qui è il suo merito. Ma poi è andata
oltre, assegnando loro una priorità cronologica e necessaria così come
potrebbe fare lo storico della civiltà egiziana, dell’ebraica, o maomettana
che volesse poi considerare una di quelle civiltà come la prima del mondo.
Nulla ci dice, d’altra parte, che una cultura etnologicamente più antica sia
quella cronologicamente più antica.

8. La scuola antropologica inglese e la scuola storico-culturale

È chiaro pertanto che un’etnologia così concepita rimane sullo stesso


piano di quella che precedentemente era servita agli antropologi per le loro
interpretazioni. Vale a dire: un’etnologia viziata dal prima e dal poi, dal
persistente concetto di storia universale, di una storia che si fa psicologia.
Che, in fondo, il risultato cui in gran parte giungono i cultori della scuola
storica quando si internano nel mondo del prima e del poi è questo: che essi
partono dallo storicismo per arrivare al più categorico naturalismo. Nessuno
vuol negare che essi hanno buone ragioni per criticare la scuola
antropologica inglese. Ma hanno un torto: quello di non riconoscere che ai
rappresentanti di questa scuola era successo in gran parte proprio l’opposto
di quel che era successo a loro: e cioè che, partendo dal più categorico
naturalismo, essi erano talora arrivati a uno storicismo che li riscattava e li
poneva come sentinelle avanzate nel campo degli studi.
Gli antropologi inglesi erano arrivati a un sano storicismo quando,
liberandosi dai loro schemi evoluzionistici, avevano finito per considerare il
mondo primitivo come una pagina di storia contemporanea in cui si
risolvevano le sopravvivenze; quando a quel mondo essi avevano assegnato
il compito di illuminare un aspetto della nostra civiltà occidentale e con
essa la consapevolezza del nostro essere. La scuola storico-culturale,
invece, è rimasta ferma fra i primitivi, onde fra i suoi studiosi sono venuti a
mancare appunto quegli stimoli. Ma c’è di più. È vero che la scuola
antropologica eludeva, a volte, non solo il tempo, ma anche lo spazio. Ed è
vero altresì, invece, che la scuola storica volle in proposito portare una
maggiore concretezza. Sta di fatto però che quest’ultima ha il torto, come
ha ben osservato il De Martino, di considerare lo spazio, il tempo, non
come schemi pratici aventi valore euristico, ma come categorie del
procedimento storico. In più essa, riducendo i fatti alle loro cause, ha
seguito il procedimento inverso della storiografia.
In cambio, è merito della scuola storico-culturale l’averci dato delle
norme precise per stabilire l’area di diffusione delle tradizioni identiche,
mentre ha rinvigorito negli studiosi dell’etnica tradizionale il senso
filologico. E se noi non diremo con Padre Schmidt che con tale scuola deve
ricominciare una novella storia del folklore; diremo invece che tocca a un
Ratzel, a un Graebner e a uno Schmidt il merito di aver riproposto, con
efficacia, la metodologia della storia come metodologia del folklore.
27. Fra storia e sociologia

1. L’opera del Van Gennep

A cavaliere della scuola antropologica inglese e della scuola storico-


culturale, quando la metodologia della storia tende sempre più a farsi
metodologia del folklore, c’è in Francia uno studioso, Arnald Van Gennep,
il quale, almeno in sede teorica, si oppone a quella metodologia, ch’egli
stesso, però, finirà col seguire dopo essersi accinto a studiare le tradizioni
popolari della Francia.
Educatosi alla scuola antropologica inglese, ingegno fervido e sottile,
lavoratore di tempra eccezionale – è stato chiamato, e non a torto, il Pitrè
della Francia – il Van Gennep inizia il suo noviziato con alcuni lavori di
carattere etnologico che lo rivelano studioso attento, scrupoloso, geniale:
Tabou et totémisme à Madagascar, che è del 1904; Mythes et légendes
d’Australie, che è del 1906; Les rites de passage, che è del 1909. A una sua
ampia dissertazione di filologia classica, La question d’Homère (1909),
segue l’anno dopo La formation des légendes, un lavoro divulgativo che
tuttavia rivela nel suo autore un notevole buon senso. Dal 1908 al 1914
escono i cinque volumi intitolati Religions, mœurs et légendes: studi,
recensioni, prese di posizioni, che interessano contemporaneamente tanto
l’etnografia quanto il folklore. E all’etnografia saranno dedicate le sue
Études d’ethnographie algérienne, edite fra il 1911 e il 1914 (che ebbero
una sintesi nel volumetto: En Algérie). Due anni dopo, nel 1916, esce un
suo volume di folklore francese: En Savoie: du berceau à la tombe. E
d’allora il folklore francese costituirà il suo prediletto campo di studi. Dal
1932 al 1936 egli pubblica infatti le seguenti opere: Le folklore du
Dauphiné; Le folklore de la Bourgogne; Le folklore de la Fiandre et du
Hainaut; Le folklore de l’Auvergne et du Velay. E a queste ne seguirà
un’altra, la più vasta che egli abbia compiuto, il Manuel de folklore français
contemporain, di cui sono già usciti parecchi volumi e che è una vera e
propria «biblioteca delle tradizioni popolari francesi».
Opera di etnologo, dunque, la sua, ma anche e soprattutto di folklorista.
E in ciò egli è sulla stessa linea degli antropologi inglesi coi quali condivide
l’interesse per le civiltà classiche. Si aggiunga che il Van Gennep passa agli
studi etnologici dalla storia medievale. Il che lo avvicina al Graebner. A
differenza degli antropologi inglesi e del Graebner, il Van Gennep vuol però
riportare la scienza del folklore nell’ambito della biologia. E valga come
punto di partenza, onde documentare questo suo assunto, il saggio dedicato
allo sviluppo storico dell’etnografia ed edito nel secondo volume di
Religions, mœurs et légendes.
In questo saggio egli distingue, anzitutto, il metodo storico da quello
comparativo, il primo dei quali, a suo avviso, considera i fenomeni nel loro
ordine cronologico e utilizza i documenti scritti e figurati, mentre il secondo
non solo fa astrazione dalle condizioni di tempo e di luogo, ma utilizza
anche i documenti orali. E aggiunge: il fatto che l’oggetto di studio non è lo
stesso nei due casi prova la legittimità dell’uno e dell’altro metodo. Ora,
egli incalza, non v’è dubbio che i fenomeni di cui si occupa il folklorista
sono fenomeni vivi, mentre quelli di cui si occupano gli storici sono morti.
Da qui l’appello che fa alla biologia come alla scienza che deve rinnovare
lo studio del folklore.
E noto, d’altro lato, che fu il Lamprecht, e sappiamo con quali risultati, a
sostenere l’idea che bisognava ridurre la storiografia a scienza esatta,
applicandovi le leggi biologiche. Il Van Gennep va oltre. E convinto com’è
che anche la maggior parte dei folkloristi non sono bravi osservatori, perché
si sono contentati d’imporre al folklore il metodo storico o comunque
quello psicologico, sostiene che tutta la scienza del folklore ha ormai
bisogno di un nuovo metodo: quello dell’ osservazione diretta.

2. Folklore e biologia

In un suo volumetto sul Folklore (1924) il Van Gennep cercherà di


chiarire queste idee. In fondo, però, egli rimane fermo al suo punto di
partenza:

«Il folklore utilizza in primo luogo il metodo d’osservazione, e ciò perché… esso si occupa di fatti
viventi e attuali. Inoltre, un fatto attuale ha i suoi antece denti, i quali non possono essere spiegati che
col metodo storico… Questa teoria è ben nota… Ma su un fatto bisogna insistere: che il folklore non
è unicamente storico e che non è una sezione della storia. È a poco a poco, del resto, che si comincia
a guarire dalla malattia del secolo XIX, malattia che si può chiamare mania storica, secondo la quale
tutto ciò che è attuale non conta che in rapporto al passato, onde, secondo il tema di un romanzo
celebre, i Viventi non contano che in rapporto ai Morti… Questa malattia psichica e metodologica s’è
così dif fusa che poche persone istruite evitano dinanzi a un oggetto o a un’azione di stimarne
solamente il valore archeologico-storico… Chiunque vuole interessarsi del folklore deve
abbandonare l’attitudine storica per adottare l’attitudine degli zoologi e dei botanici che studiano gli
animali e le piante nella loro vita e nel loro ambiente anch’esso vivente; dunque sostituire al metodo
storico il metodo biologico».

E nell’introduzione generale che precede il primo volume del Manuel de


folklore français contemporain, il Van Gennep non manca di trarre da
quella definizione la norma, cui, a suo avviso, ciascun folklorista deve
obbedire nella raccolta del materiale:

«Poiché il folklore è una scienza biologica, la raccolta dei documenti non può farsi che con un
impiego esatto e metodico della tecnica dell’osservazione come l’hanno elaborata le scienze
naturali… Questa tecnica è qui sottomessa a certi ampliamenti da una parte, a certe limitazioni
dall’altra. L’ampliamento consiste in questo: che nessun fatto può essere preso isolatamente poiché
fa parte di un tutto complesso e questo tutto e mutevole. Lo studioso si trova così forzato a notare
nello stesso tempo parecchi fatti di dettaglio raggruppati attorno ad un nucleo centrale; ma ciascuno
di questi dettagli può in altre condizioni servire a sua volta da nucleo centrale. Questa difficoltà
scoraggia all’inizio i principianti, i quali confessano volentieri che non sanno come raccapezzarsi e si
disperano di rimanere annegati nei fatti. La soluzione sarà che bisogna andare dal più facile al più
difficile, cioè dalle manifestazioni esteriori alle credenze… Nella pratica folkloristica non bisogna
sottomettere i testimoni a un interrogatorio metodico, come sarebbe quello di un giudice; ma bisogna
lasciarle prendere l’abbrivo e farli abbandonare ai ricordi».

I consigli che il Van Gennep dà, nelle sue varie opere, ai folkloristi sono
sempre utili. Ma è necessario ricorrere alla biologia per animarli? Nella
introduzione già citata, il Van Gennep non cambia il suo atteggiamento nei
riguardi della storia. Lo modifica, però, nei riguardi della biologia:

«Io non prendo qui il termine di biologia nel senso trasformista o evoluzionista come sembra lo abbia
compreso qualche critico, ma nel senso preciso di “ciò che concerne la vita”. Non è questa una
immagine per rappresentare lo stato o la società come un organismo vivente sottomesso alle leggi
naturali da cui dipendono tutti gli organismi: di crescita, di maturità, di vecchiaia e di morte. Io dico
solamente – e ciò mi sembra di una evidenza inconfutabile – che, dal momento che gli uomini sono
degli esseri viventi, parzialmente liberi di decidersi in un senso o nell’altro, di muoversi sulla
superficie della terra ed al giorno d’oggi anche nel ciclo e di abbandonarsi, ma solo in certi limiti che
essi stessi si sono imposti, ai loro sentimenti ed alle loro passioni, i loro rapporti debbono essere
esaminati e valutati come rapporti viventi biologici e non come rapporti di oggetti inanimati o
rapporti di esseri morti. Non si tratta qui d’una teoria né di un sistema ma di un angolo visuale che fa
vedere i fatti folkloristici ed etnografici in modo assolutamente diverso che se li si consideri da un
angolo visuale meccanicistico oppure storico e che permette di subordinare migliaia e migliaia di
dettagli apparenti, morfologici, allo studio degli agenti viventi e delle funzioni sociali».

3. Folklore senza storia

Da queste sue affermazioni si vede chiaramente come il Van Gennep


abbia della storia un concetto assolutamente erroneo. Basta a denunciarcelo
quell’infelice accoppiamento di termini «meccanicistico oppure storico». Il
Van Gennep è convinto che la storia non sia altro che erudiziene, qualcosa
di esterno insomma, la catalogaziene schematica e, si potrebbe dire,
anagrafica e cronologica di fatti. E convinto com’è di ciò, aggiunge
senz’altro:

«La migliore definizione del folklore, quella di cui, tutto considerato, ci si può contentare è: studio
metodico, quindi scienza, degli usi e costumi. È inutile aggiungere popolari, perché gli usi e i costumi
sono fenomeni collettivi generali, che si possono discernere indipendentemente dalla razza, dal tipo
di civiltà, dalla classe sociale o in certi paesi dalle caste professionali. Usi significa: modi di vivere
senza alcuna valutazione politica né etica. Costumi significa: modi di vivere conformemente a regole
non scritte o scritte, ammesse dal consenso generale dal basso in alto, spontaneamente e senza
coercizione statale o di governo, spesso anche, a seconda delle epoche o dei paesi, nonostante o
contro questa coercizione, essa stessa giustificata, non da principio ma dopo, da una o più leggi
necessariamente sempre in ritardo sull’evoluzione progressiva o regressiva dei costumi…»

Il Van Gennep, è evidente, si attarda qui in posizioni rigidamente


positivistiche. La biologia, sia pure assunta ad angolo visuale, dovrebbe
permettere al folklorista di formulare delle leggi generali in mezzo al caos
dei dettagli fra i quali si muove. E in nome di queste leggi, ecco il suo
concetto del folklore, il quale, così com’è da lui concepito, altro non
sarebbe che una catalogazione metodica dei fatti, ciascuno dei quali è
collegato a una legge. Il Van Gennep è ben lontano dall’escludere dal
folklore i canti, le novelle, le leggende, i proverbi ecc. – che anzi egli ha del
folklore un concetto unitario. La sua definizione del folklore è tale, però,
che essa esclude quelle produzioni. In più egli non esita a riconoscere un
folklore marinaro, un folklore rurale, un folklore operaio ecc. E allora
com’è possibile non precisare se gli usi stessi e le consuetudini siano o no
popolari?
Si aggiunga che il Van Gennep nel definire il folklore, e nel proporne
quindi la metodologia, parte, come abbiamo già detto, da una premessa: che
il folklore è lo studio di fatti attuali e viventi a differenza della storia che è
lo studio dei fatti morti. È ovvio, però, osservargli che i fatti attuali e viventi
fanno pure essi parte della storia e che non si può escludere dal campo di
indagini del folklorista quegli usi e quei costumi che appartengono a tempi
lontani senza continuarsi sino a noi. Ad esempio: lo studioso che si occupa,
poniamo, del folklore del periodo della Rinascenza non può per questo a
buon diritto chiamarsi folklorista?
Lo storico, inoltre, non valuta i fatti a seconda che siano scritti oppure
orali, ma soltanto perché sono pensati. Lo stesso metodo comparativo,
infine, che il Van Gennep antepone a quello storico, se pur accusa a volte un
procedimento naturalistico, va considerato come una ricerca euristica che lo
storico deve elevare a storia, rigenerandola in una compiuta qualificazione.
4. Individuo e collettività nel pensiero del Van Gennep

La formulazione di leggi generali non impedisce al Van Gennep di


riconoscere nelle tradizioni dei popoli, che è quanto dire nei fenomeni
collettivi come egli li chiama, l’apporto individuale. Come egli stesso
osserva nell’introduzione del suo Manuel:

«Ogni individuo ha dunque delle relazioni sociali multiple e gli è sempre lecito, nei limiti fissati dalla
tradizione, di reagire ai rapporti stabiliti: nella famiglia con la scelta della sposa e la limitazione delle
nascite dei figli; come soldato con un’azione di eroismo; come elettore col voto; e così via di seguito.
In altre parole, per comprendere il meccanismo della vita sociale globale, è dall’individuo che
bisogna partire e non dalla collettività; questa non è che un’astrazione o, tutt’al più, una prospettiva,
come una fotografia presa da un aereo».

Il Van Gennep, in tal modo, è sulla stessa linea di quei folklo-risti che
hanno messo in luce l’elemento individuo come la fonte stessa del folklore.
È evidente, però, che egli – mentre si collega in questo campo a un A. W.
Schlegel o a un Pitrè – si pone contemporaneamente contro se stesso. Il
riconoscimento che egli fa dell’individuo nella problematica folkloristica,
annulla infatti quelle leggi generali di cui egli si era fatto propugnatore. Vi
sono, del resto, com’egli stesso specifica, gli individui A e B che possono
anche sottostare a un determinato ambiente, ma vi è l’individuo C che vi si
ribella. Ed è allora che questo individuo può diventare modifi-catore o
inventore di determinati fatti folkloristici.

5. Riti e sequenze
Ancor prima, del resto, di valutare nel folklore il valore dell’individuo, il
Van Gennep aveva già tentato tale valutazione nel campo dell’etnologia.
Nell’introduzione dei Mythes et légendes d’Australie, riferendosi alle
modificazioni cui vanno soggette le tribù australiane, osserva:

«Gli agenti di queste modificazioni sono, nei casi conosciuti con precisione, un individuo o un
piccolissimo gruppo di individui. Questo elemento individuale, che il Durkheim trascura, sostiene
una parte importante nelle società australiane. Talora un individuo, dotato di immaginazione più
vivace, è favorito dagli esseri soprannaturali che gli indicano il cambiamento da introdurre».

E questo atteggiamento storicistico è alla base del suo volume su La


formation des légendes, dove egli, se pur accoglie la teoria antropologica
dell’origine delle fiabe, non si nasconde l’apporto che a ciascuna fiaba da
ciascun narratore. Nei Rites de passage, invece, egli, come il Boulanger cui
in proposito si riattacca, indugia sugli schemi, sulle leggi, sui valori della
collettività, mentre la vita individuale, qualunque essa sia, è biologicamente
ridotta al passaggio da un’età all’altra o da un’occupazione all’altra. Così,
com’egli osserva:

«Ogni cambiamento nella situazione di un individuo porta seco azioni e reazioni tra il profano e il
sacro, azioni e reazioni che debbono essere regolamentate e sorvegliate, affinchè alla società generale
non arrechino né molestia né danno. È il fatto stesso di vivere che comporta vari e successivi
passaggi da una società speciale ad un’altra e da una situazione sociale ad un’altra; di maniera che la
vita individuale consiste in una successione di tappe i cui fini e i cui principi formano però un
insieme da porre sullo stesso piano: nascita, pubertà sociale, matrimonio, paternità, avanzamento di
classe, specializzazione d’occupazione, morte, ecc. E a ciascuno di questi insiemi si riferiscono delle
cerimonie, il cui scopo è sempre uguale; fare passare l’individuo da una situazione determinata ad
un’altra situazione, anch’essa ben determinata; essendo uguale lo scopo, è anche necessario che i
mezzi per ottenerlo siano, se non identici nei dettagli, almeno analoghi, anche perché l’individuo si è
a mano a mano modificato poiché ha dietro di sé parecchie tappe e ha superato parecchie di queste
frontiere. Da ciò la rassomiglianza generale delle cerimonie della nascita, dell’infanzia, della pubertà
sociale, del fidanzamento, del matrimonio, della gravidanza, della paternità, della iniziazione alle
società religiose e dei funerali. Inoltre né l’individuo né la società sono indipendenti dalla natura e
dall’universo il quale è anch’esso sottomesso a dei riti che hanno il loro contraccolpo sulla vita
umana. Anche nell’universo vi sono tappe e momenti di passaggio, marcie in avanti e stati di arresto
relativo, di sosta. Così si devono riattaccare alle umane cerimonie di passaggio quelle che si
riferiscono ai passaggi cosmici: ad esempio i passaggi da un mese all’altro (cerimonie del
plenilunio), d’una stagione all’altra (solstizi, equinozi), da un anno all’altro (Capodanno ecc.). Mi
sembra dunque logico raggnippare insieme tutte queste cerimonie secondo uno schema la cui
elaborazione dettagliata però è ancora impossibile».

Si tratta, come si vede, di un aggruppamelo meccanico di cui lo stesso


Van Gennep sente il limite. Egli sa, del resto, che non è possibile porre
dentro un rigido schema ciò che per sua definizione è vivente e perciò
naturale. E questa, anzi, è la ragione per cui egli negli stessi Rites de
passage pone l’accento sulle sequenze:

«Le sequenze [dei riti di passaggio] non sono state quasi esaminate, mentre lo studio di certi rituali
moderni che sono conosciuti molto dettagliatamente (Australia, Indiani Pueblos)… prova che sempre
per le grandi linee e talvolta per i minimi dettagli l’ordine col quale i riti si susseguono e debbono
essere adempiti è di per se stesso di già un elemento magico religioso di portata essenziale. Lo scopo
principale di questo libro è precisamente di reagire contro il procedimento “folkloristico” o
“antropologico” che consiste nell’estrarre da una sequenza diversi riti – siano essi positivi o negativi
– considerandoli poi isolatamente, togliendo loro così la stessa ragione d’essere principale e la loro
situazione logica nell’insieme dei meccanismi».

Questa esigenza è sentita ed espressa dal Van Gennep nel primo volume
del suo Manuel, quando egli, esaminando, nel tomo primo, gli istituti
folkloristici, che raggruppa sotto il titolo Du berceau à la tombe, sente il
bisogno di ritornare sulla fenomenologia dei riti di passaggio. In questo
volume, però, come del resto negli altri che lo seguono, gli schemi
costituiscono soltanto uno strumento di lavoro o meglio un mezzo per
raggruppare dei fatti che sono poi esaminati da un punto di vista storico.
6. Van Gennep e il metodo cartografico

Dalle sue prime monografie dedicate al folklore francese fino al Manuel


– che di tutte quelle ricerche è la summa – il Van Gennep si dimostra
raccoglitore impareggiabile. I suoi questionari diramati per raccogliere quel
vasto materiale sono modelli del genere. E in base a tali questionari egli è
stato in grado di uscire dal vago e dall’approssimativo, e di documentarci in
quali comuni un determinato uso vive o è scomparso. Ecco perché egli ha
sempre insistito sulla grande utilità che il folklorista può trarre anche dalle
risposte negative. Né il Van Gennep inizia mai una raccolta senza prima
avere una documentazione bibliografica precisa sull’argomento che
affronta. Nel suo Manuel una parte considerevole (voll. 3 e 4) è dedicata
alla Bibliografia degli studi delle tradizioni popolari francesi. E tale
bibliografia – esemplare come quella che il Pitrè ha dedicato all’Italia – lo
accompagna man mano che egli classifica e presenta i nuovi fatti raccolti.
Il Van Gennep, allo scopo di presentare sempre più e meglio tali fatti, ha
sostenuto, fra l’altro, l’utilità del metodo cartografico. È del 1904, anzi, una
sua ampia recensione dedicata al primo volume Le folklore de France del
Sébillot, dove egli dice:

«Perché Sébillot non aggiunge delle carte indicanti le aree di questa o quell’altra credenza o
costumanza determinata per quei luoghi dove non sono state iniziate inchieste speciali?»

E quel che il Sébillot non fece – o fece soltanto in parte – fu e rimase la


preoccupazione principale del Van Gennep, il quale in un saggio
programmatico Contribution a la méthodologie du folklore (pubblicato
anche in Italia, in «Lares» del 1934), dopo aver delineato la storia del
metodo cartografico, dal Ratzel al Pessler, affermò categoricamente che tale
metodo, combinato con le altre sue idee direttrici chieste alla biologia, gli
aveva imposto una preparazione scientifica molto più accurata di quanto
non avessero richiesto i suoi studi storici, linguistici, economici, politici.
Il metodo cartografico, comunque, egli aggiunge, in tanto è valido in
quanto ci permette di tener conto di tutti gli elementi che determinano la
persistenza o la scomparsa del fenomeno studiato. E aggiunge che con esso
egli non si è mai proposto di fare sopravvivere delle superstizioni, ma di
definire i legami che determinano quella coesione delle collettività locali
che in definitiva formano la nazione. Il metodo cartografico è una ricerca
euristica. E come tale ha la sua utilità; ma che altro non sia, né possa essere,
ci è dimostrato dalla stessa opera del Van Gennep, nella quale egli ha
utilizzato, si, tutte le sue esperienze di folklorista, ma appunto perché dietro
quelle esperienze c’era lo studioso scaltrito dei fenomeni storici, linguistici,
politici, economici ecc.
Così, ad esempio, per ritornare al suo Manuel, è vero che in esso la
rappresentazione cartografica accompagna l’esposizione stessa della
materia e che le varietà regionali e locali, su cui egli si ferma con
particolare compiacimento, danno vivacità e colore ai suoi aggruppamenti.
Nel Van Gennep, però, la raccolta – e ciò non va detto soltanto per il suo
Manuel, ma anche per le altre sue opere dedicate al folklore francese – non
è mai fine a se stessa. Egli raccoglie, si, i fatti del folklore, ma per
interpretarli. Ed è qui che l’impacciato teorico del folklore si trasforma
quasi sempre in storico del folklore francese, preoccupato com’è allora di
un solo scopo, o meglio di una sola metodologia: quella di dispiegare i fatti
folklori ci in determinate forme storiche. Egli stesso afferma infatti che, se
si vuole studiare il folklore della Francia, è necessario avere davanti allo
spirito la complessità dei fattori che hanno dato vita alla formazione stessa
di questa nazione. E allora, si potrebbe aggiungere, qual è il compito del
folklorista se non quello di individuare le tradizioni stesse di un popolo le
quali, in quanto tali, seguono un processo che è il generarsi stesso della
storia?

7. Van Gennep storico del folklore francese

È appunto per questo, d’altro lato, che il Van Gennep non si contenta di
esaminare un fatto folkloristico così come egli lo scopre e lo fa oggetto
della sua attenzione, portandolo, per ripetere le sue parole, davanti al suo
spirito; ma va oltre: cerca di vedere questo fatto – quale che esso sia – nei
vari aspetti che ha assunto nel corso dei secoli. E con questa indagine egli
intende meglio il fatto, perché in esso distingue i nuovi motivi e i nuovi
significati che lo hanno arricchito o impoverito. In altri termini: egli supera
sul piano della ricerca quella che è la sua stessa definizione del folklore in
sede teorica. E la supera poiché davanti a lui non vi sono fatti biologici, ma
documenti dello spirito umano. Leggete le sue indagini sul battesimo o sul
matrimonio. Oppure, nella seconda parte che porta anch’essa il titolo Du
berceau à la tombe, i suoi saggi sul matrimonio e sui funerali. Ancora: le
altre parti del tomo primo dedicate alle Cérémonies périodiques cycliques e
quindi al Carnevale, alla Quaresima, alla Pasqua, alle feste di maggio, ai
fuochi di san Giovanni, alle cerimonie agricole e pastorali d’estate. Il
teorico finisce ancora una volta con lo scomparire. E davanti a noi ecco che
rimane lo storico, attento, acuto, sicuro, del folklore francese.
Valga un esempio. Nella prima parte del primo tomo il Van Gennep
esamina l’usanza dei padrini di battesimo, i quali, in molte zone della
Francia, vengono scelti fra i nonni. Ora, come egli aggiunge, si deve notare:

«… che questo insieme giuridico-folkloristico non può spiegarsi con la teoria delle sopravvivenze,
ma deve essere considerato come una invenzione autonoma che si è formata e a poco a poco
sviluppata a partire dall’alto Medioevo o più esattamente a partire dal momento in cui il battesimo
degli adulti fu sostituito da quello dei fanciulli, ciò che non ebbe luogo dappertutto nella stessa epoca
in Europa. Il cristianesimo non si stabilì in tutte le campagne della Francia che verso la fine del
periodo merovingio, più o meno rapidamente secondo la pressione dei missionari e dei vescovi.
Bisognò allora sostituire i padrini dei catecumeni adulti, le cui obbligazioni civili erano limitate, con
altri garanti di maggiore responsabilità e questo non solamente nella liturgia, ma anche nei costumi.
Proprio a tal punto cominciarono a entrare in gioco in una maniera sempre più generalizzata i
meccanismi degli onori e dei loro compensi, delle obbligazioni di consanguineità e di vicinanza e
sono state inventate una infinità di credenze connesse di carattere magico-religioso, il cui scopo
essenziale è sempre stato e resta ancora il conseguimento di un appoggio psichico, sociale ed
economico in favore di quell’essere debole per eccellenza che è il neonato».

E qui ancora una volta i fatti attuali hanno la loro spiegazione in base ai
fatti morti, i quali, in realtà, morti non si possono considerare in quanto si
sono soltanto modificati e adattati. Senza dire che, con quell’esame, il
biologo si è fatto storico. Né il Van Gennep, infine, può fare a meno di
ricorrere al concetto di sopravvivenza che nell’astratta formulazione del
folklore aveva esclusa.

8. Pregi e difetti della sua problematica


In tutta la sua opera assistiamo a una revisione totale di tutte le teorie
mediante le quali l’etnologia ha cercato di spiegare il folklore. Punto di
partenza: una determinata credenza, un particolare uso, un qualche rito che
egli ha precedentemente raccolto e classificato. Punto di arrivo: la revisione
di quella determinata teoria mediante la quale quel fatto si è spiegato.
Non mancano certo in lui dei preconcetti, i quali lo pongono su false
strade. «Io non ho il diritto, – egli scrive nella sua Contribu-tion à la
méthodologie du folklore, – di ricostruire il passato utilizzando delle teorie,
come quella della sopravvivenza, che si fondano sulla valutazione di ciò
che si chiama primitivo». E dimentica che non si tratta di ricostruire il
passato come egli l’intende, bensì di illuminare e spiegare il presente. In
più, è vero che egli nel Manuel eviterà di parlare di quei primitivi, cari al
suo cuore nella gioventù; ma è vero altresi che davanti a lui c’è tutta la
problematica suscitata appunto dal mondo dei primitivi.
Così, ad esempio, egli non nega l’utilizzazione magica dei falò. Ma
senza l’interpretazione etnologica dei falò saremmo noi arrivati al concetto
che essi implicano di utilizzazione magica? E la magia, quale essa fu
codificata dal Frazer, non lo guida nelle sue varie interpretazioni? È vero
che egli, a volte, si ribella alle teorie «belle e fatte». Ma quando afferma che
nelle cerimonie di maggio, quali si svolgono in Francia, convien vedere un
riflesso sessuale anziché una sopravvivenza del culto dell’albero o del culto
del grano, che cosa fa egli se non seguire il metodo stesso della scuola
antropologica inglese?
Anche in questa reazione, che reazione poi non è, non mancano
osservazioni persuasive. Spesso, però, egli è perentorio. E in proposito
acute sono le osservazioni fattegli dal Toschi:

«La reazione del Van Gennep è utile, è necessaria, ma si avverte più di una volta il pericolo ch’essa
esageri. Per il ciclo di maggio, se è difficile documentare il rapporto e il prolungamento delle feste
pagane nel folklore medievale e attuale, è ancor più difficile, almeno per l’Italia, ammettere che fra le
feste floreali e della dea Maja e i nostri calendimaggi documentati fin dal Medioevo ci sia una netta
separazione. Mutamenti, dovuti al naturale evolvere degli usi, al cambio della religione, alle
invasioni barbariche, si; ma vero e proprio distacco, no, tanto più che la dedicazione del mese di
maggio a Maria Vergine è di data relativamente recente. Così per il san Giovanni, l’esistenza (nelle
credenze di quel giorno) di personaggi più o meno mitici in Paesi dell’Europa settentrionale, come
Balder per la Norvegia, Ligo per la Lettonia, Kupalo per la Russia e le relative usanze, specie nelle
regioni, come quelle baltiche, ove il Cristianesimo arrivò tardi e non potè agire in profondità, ci
fanno pur pensare a una grande festa stagionale pre-cristiana. Occorre tener conto anche della vastita
dell’area in cui le principali di queste usanze ci si presentano. Insomma, guardiamoci dallo scambiare
la mancanza dei documenti con la mancanza dei fatti».

Il folklorista fa suo, in quei casi, il concetto della storia che è in fondo


quello da lui espresso in sede teorica. Ma si tratta di premesse, di
divagazioni, di spunti che nulla tolgono al suo Manuel, il quale, se pur
abbonda di pagine che hanno il loro limite in quello che è il limite stesso
della sociologia, nel suo insieme è un esempio di metodologia storicistica,
in cui noi ritroviamo proprio quello storico che egli voleva espellere da se
stesso. Il torto del Van Gennep è quello di ritenere che sia possibile
considerare il metodo biologico, e quindi l’osservazione, come qualcosa che
sia o possa essere fuori e prima del pensiero. Da qui, del resto, la raccolta
del materiale che precede la sua interpretazione, quando invece l’una e
l’altra avrebbero potuto convivere assieme. È merito suo, però, l’averci
dimostrato che in lui, e tale è il Van Gennep migliore, l’osservazione non è
che uno stimolo al suo pensiero. E quest’ultima è la ragione per cui egli si
può considerare come una delle figure più rappresentative della scienza
folkloristica europea.
28. Apologia del folklore

1. Dietro Saintyves, il Modernismo

Insieme al Van Gennep un’altra figura di studioso che in Francia ha


dominato, nell’ultimo cinquantennio, il campo della scienza del folklore, è
quella di Pierre Saintyves. Ligio ai canoni della scuola antropologica
inglese, egli affrontò con crescente padronanza, il problema etnologico del
folklore. I suoi interessi furono sempre rivolti direttamente o indirettamente
alle tradizioni di carattere magico-religioso. E dietro questi suoi interessi, a
dire il vero, non ci sono soltanto Tylor e Frazer, Lang e Hartland, ma ci
sono anche i maggiori rappresentanti di quella corrente di studi che,
battezzata col nome di Modernismo, cercò, tra la fine dell’Ottocento e gli
inizi del nostro secolo, di applicare i più rigidi principi del metodo storico
non solo alle istituzioni della Chiesa, ma anche alla sua dottrina
tradizionale.
Un modernista inglese, il Tyrrell, non si nascondeva i pericoli di questo
metodo:

«Riconosco senza esitazione che la coscienziosa indagine storica intorno alle origini cristiane e
intorno alla evoluzione ecclesiastica, vulnera in radice parecchi dei nostri principi fondamentali per
tutto ciò che concerne i dogmi e le istituzioni. Riconosco senza esitazione che il dominio del
miracolo si restringe ogni giorno di più, data la possibilità sempre più vasta di ridurne le proporzioni
a cause naturali constatatoli. Io so e sento sempre più il valore di queste obiezioni, il quale potrebbe
però cadere se potessimo in compenso appellare trionfalmente all’ethos cristiano della Chiesa, a un
incomparabile spirito religioso in essa e da essa alimentato, e se invece noi non trovassimo negli
scritti approvati dei suoi maestri di ascesi e di morale, nelle pratiche abituali dei suoi confessori e dei
direttori di coscienza, nelle biografie liturgicamente adoperate dei suoi santi canonizzati… molte
cose che ripugnano a quel nostro senso morale e religioso a cui essa dovrebbe invece innanzi tutto
rivolgersi…»

E tuttavia aggiungeva, con fede:

«Il cattolicesimo non è innanzi tutto una teologia e meno ancora un corpo sistematico di prescrizioni
pratiche, sostenuto da tale teologia. Il cattolicesimo è innanzi tutto vita, e la Chiesa è un organismo
spirituale, alla vitalità del quale noi partecipiamo».

Questo il nucleo attorno cui si impernia la sua Lettera (che, si noti bene,
era diretta) a un professore di antropologia. L’antropologia, che era quanto
dire la scuola antropologica inglese, fu uno stimolo per il Modernismo, o
meglio per alcuni dei suoi rappresentanti. Insegni per tutti il caso del Loisy,
il quale in molti suoi lavori si è avvalso non solo dell’etnologia, ma anche,
sia pure in minor misura, del folklore. E del Loisy il Saintyves fu seguace,
amico ed anche editore. Poiché Pierre Saintyves altri non era che Emile
Nourry, proprietario di quella Libreria Critica che a Parigi fu uno dei centri
più vivi del Modernismo.
Di questo movimento il Saintyves fu indubbiamente il rappresentante
laico più agguerrito. Egli, anzi, potrebbe definirsi il modernista del folklore.
O ancor meglio, il folklorista del Modernismo. E come folklorista si
avvalse, si, delle conquiste che il Modernismo veniva facendo anche nel
campo della etnologia, ma la sua mira fu sempre identica: internarsi nella
selva delle tradizioni popolari con quello spirito che aveva dominato le
ricerche di un Tyrrell e di un Loisy.
Nel 1887, appena diciassettenne, egli ebbe a notare in una pagina del suo
diario: «Spero di poter sempre praticare le seguenti regole: avere per guida
il cuore e l’amore nelle cose dello spirito; istruirmi affinchè possa essere
utile ed esserlo in maniera sempre più efficace; sforzarmi di produrre opere
utili alla scienza». E la sua scienza fu il folklore, al quale egli dedicò, per
usare la sua espressione giovanile, il suo cuore e il suo amore.
Scrittore abile, il Saintyves ebbe un’intelligenza curiosa e viva che gli
permise di affrontare i vari argomenti da lui trattati con immediatezza e con
simpatia. E questa è la ragione per cui i suoi libri si leggono sempre con
interesse, ancbe quando essi trattano argomenti tutt’altro che facili. Egli è in
ciò un po’ il Frazer della Francia. E, come quella del Frazer, vasta è la sua
produzione scientifica, alla quale fa da sfondo il concetto stesso che egli
ebbe della natura del folklore.

2. Il folklore fra naturalismo e storicismo

Convinto che il folklorista deve possedere le qualità del naturalista e


quelle dello storico, il Saintyves è ben lontano dal considerare il folklore
come una scienza biologica. In un suo ampio lavoro su L’astrologie
populaire, edito nel 1937, di contro al Van Gennep, egli ebbe infatti a
notare:

«Si è parlato di applicare al folklore il “metodo biologico”. I folkloristi dovrebbero, ci si è detto,


rivolgere tutta la loro attenzione al fatto vivente, al fatto attuale, come se l’analisi del fatto vivente
potesse, da sola, rivelarci le cue cause. Notiamo innanzi tutto che il folklore discende essenzialmente
dalla tradizione e che questa non è un fatto biologico, ma propriamente psicologico e sociale. Vi è
dunque qui un equivoco – e al tempo stesso una deprecabile confusione: l’intelligenza e le sue
manifestazioni per apparire nell’essere vivente non costituiscono per questo dei fatti che non si
saprebbe confondere con quelli biologici: essi appartengono essenzialmente alla psicologia generale
o a quella collettiva. L’introspezione e l’interrogazione non sono, che io sappia, di competenza della
biologia; ora il folklore riposa, quasi tutto, su delle inchieste che sono il frutto di interrogazioni
dirette o indirette… Il fatto vivente che noi eludiamo, essendo un fatto tradizionale, ha dietro di sé
altri cento fatti, da cui esso dipende strettamente e che non possono essere studiati se non coi metodi
della storia. Né con ciò si vuoi dire che la vita popolare non offre mai nulla di originale; si vuoi dire
invece che la vita intellettuale del popolo si evolve tutta intera nel quadro della tradizione. La natura
stessa del fatto folklorico – intendete tradizionale – non permette di dimenticare che esso è quasi
sempre profondamente radicato nel passato».

E questo è l’atteggiamento che egli conserva nel suo Manuel de


Folklore, di cui è uscito nel 1933 il primo volume, che è un po’ il suo
testamento spirituale, specialmente se si integra coi frammenti del secondo
(già in parte pubblicati nel primo fascicolo dei Cahiers Pierre Saintyves). Si
è detto che in questa opera ben di rado si trova quel che si cerca in un
manuale: e cioè idee chiare, sobriamente esposte e in modo accessibile a
tutti. Ed è vero che il Manuel – il cui titolo in effetti può ingannare il lettore
– fu scritto per i novizi. A tal fine le sue osservazioni, ad esempio, sui
questionari, intorno ai quali aveva dissertato, con ben altra esperienza, il
Van Gennep. In realtà però il Saintyves ci ha dato un trattato dove è
affrontata, con intenti scientifici, non certo divulgativi, la problematica del
folklore o, per meglio dire, quella problematica come egli l’intendeva.
Nel suo Manuel si rispecchia infatti la sua stessa opera e quindi i criteri
che l’hanno guidata. E così come nella sua opera anche nel Manuel, il
Saintyves riesce veramente un grande folklorista laddove si fa storico.
Anche in lui, tuttavia, come nel Van Gennep, non mancano abbandoni
sociologici. E nel Manuel de Folklore, come nella sua opera, ecco perché un
facile naturalismo si avvicenda a un consapevole storicismo.

3. I fatti folklorici e la comparazione

Dalla stessa definizione che egli da del folklore possiamo desumere che
il Saintyves è ancorato, come il Van Gennep, al concetto della causalità
della storia. E ciò lo porta a stabilire delle leggi, secondo le quali è
possibile, a suo avviso, spiegare la vita stessa delle tradizioni popolari.
Così, ad esempio, egli, pur ammettendo che la tradizione non è soltanto il
passato ma anche il presente, è dell’opinione che essa possa trasmettersi
senza un’azione volontaria. Né manca quindi di rilevare il valore che
assumono nella diffusione delle tradizioni popolari il contagio o la
suggestione. Queste leggi, a loro volta, lo inducono a considerare il folklore
come una scienza psicologica, e quindi come una storia naturale dell’uomo.
Da qui la confusione che egli fa della metodologia storica con quella
sociologica. Ma in effetti che cosa è per lui la psicologia se non un angolo
visuale come lo è la biologia per il Van Gennep? E anche quando egli, ad
esempio, riduce il folklore a sociologia, non c’è in lui il tentativo costante di
ridurre a storia la sociologia stessa?
Lo stesso Saintyves, d’altro lato, se pur da alle scienze storiche un
carattere che esse non possono avere, è persuaso che queste hanno in
comune con le scienze naturali il metodo comparativo. Compito del
folklorista, egli però incalza subito dopo, è soprattutto quello di spiegare la
natura dei fatti folkloristici. Ed ecco in tal senso quanto egli dirà in uno dei
frammenti del secondo volume del Manuel:

«Il confronto deve mettere in luce non solamente le somigliarne ma anche le differenze, non si deve
dimenticare che la chiave della spiegazione ci può essere offerta da qualche particolarità… La
comparazione non può farsi che stabilendo delle serie sistematiche, tenendo anche conto delle
circostanze essenziali di tempo e di luogo. Non si tratta di riunire in immensi repertori schede attinte
a tutte le fonti antiche e moderne…, ma di procedere a una raccolta metodica, atta a facilitare una
comparazione veramente scientifica».

E c’è anche qui, se si vuole, una certa imprecisione di termini, ma c’è la


consapevolezza storica di chi vuole affrontare le tradizioni popolari,
considerandole non come espressioni biologiche, bensì come fatti dello
spirito umano che la tradizione convoglia e rinnova. Com’egli stesso dice,
del resto, in un altro dei suoi frammenti, quasi a concludere la definizione
del folklore:

«Il folklore studia la tradizione e deve quindi, dopo aver raccolto e ordinato i fatti che la
compongono, fornire spiegazione della loro natura o della loro essenza tradizionale… La tradizione
popolare non si potrebbe comparare a un tesoro sepolto: è un flusso di ricchezze di ogni ordine, una
trasmissione senza fine di migliaia e migliaia di invenzioni umane di cui il popolo beneficia nelle
nazioni civili. La catena d’oro della tradizione non riposa immobile in uno scrigno sigillato, ma
realizza, come gli astri, il miracolo del movimento perpetuo».

È evidente ora che quella natura deve essere investigata colla


metodologia della storia. E il Saintyves ha un merito: quello di avere
individuato la ricerca storica nello studio delle differenze etniche. Ha un
torto però: quello di ritenere che gli schemi psicologici o sociologici
debbano servire allo storico per intendere la dialettica dello spirito, quando
essi invece gli servono soltanto a preparare la sua orientazione conoscitiva.
4. Paganitas

Né, in effetti, i primi lavori del Saintyves escono dai confini di questa
orientazione conoscitiva. È vero che anche fin dalla loro compilazione il
Saintyves ebbe chiaro questo concetto: cioè che una tradizione va studiata
anzitutto nel momento della sua formazione; poi nel corso della sua
esistenza; infine nel momento della sua scomparsa. Ma è vero altresì che i
momenti di questo studio rimangono allora in lui staccati l’uno dall’altro.
Dice di questi volumi il Van Gennep: «raccolte di materiali». E in fondo ha
ragione, per quanto in essi ci sia sempre un’idea centrale attorno a cui
questi materiali convergono.
Così nel volume Les Saints successeurs des dieux, edito nel 1907, il
Saintyves si propose di dimostrare che il culto dei Santi continua il culto
pagano dei morti. Questa la ragione, per cui molte leggende attribuite ai
Santi non sono che l’interpretazione di epitaffi e di iscrizioni. Ma c’è di più:
ed è che il calendario religioso va considerato, a suo avviso, non come una
semplice lista di feste, ma come una sistemazione rituale e ciclica delle
leggende essenziali di ciascun culto.
Si tratta di una tesi che integra quella del Delehaye, il quale nelle sue
Légendes agiographiques, edite tre anni prima, pur riconoscendo nel culto
dei Santi l’eco di sopravvivenze pagane (il che, del resto, era stato
ampiamente dimostrato dall’Usener, dal Frazer, dal Dieterich, dal Lang
ecc.), faceva nascere il culto dei Santi da quello dei martiri. In realtà, però,
l’indagine dello storico non può limitarsi a constatare che nel culto di un
Santo sopravvive quello di un dio pagano. Si tratta di vedere qual è, invece,
lo spirito che anima questi due culti, i quali non sono né possono essere
storicamente identici. E questa indagine manca nel Saintyves, il quale in
numerosi saggi ulteriori ha approfondito il carattere delle sopravvivenze
pagane nel culto dei Santi. Esemplare in proposito il suo saggio Saint-
Christophe successeur d’Anubis, d’Hermès et d’Héraclès, edito nel 1935 in
quella «Revue d’Anthropologie» dove egli pubblicò alcuni dei suoi saggi
più fini.
Più ampia di quanto non sia nel volume sui Saints successeurs des dieux
è la cornice dell’operetta Les Vierges Mères, la quale, edita nel 1909,
sembra un capitolo aggiunto all’opera The Legend of Perseus dello
Hartland. In essa il Saintyves si occupa del culto delle pietre fecondatrici,
delle teogmie acquatiche e del culto delle acque, dei totem vegetali, delle
nascite miracolose dovute all’azione simultanea nelle piante e delle acque
sacre, delle fecondazioni meteorologiche, delle teogonie solari. Cauti ed
efficaci i suoi confronti, dove, come negli antropologi inglesi, lo studio dei
primitivi si avvicenda con quello delle civiltà classiche e dei volghi dei
popoli civili. Né è senza significato che egli apra l’ultimo capitolo, dedicato
alla idealizzazione della nascita di Cristo, con due passi del Loisy.
E al Loisy egli si rifa in altre opere: come, ad esempio, Le Di-scernement
du Miracle, Les Reliques et les Images légendaires, La Simulation du
Merveilleux, edite fra il 1909 e il 1912. In queste opere il Saintyves,
esaminando le immagini che aprono e chiudono gli occhi, le reliquie
corporali di Cristo, i talismani e le reliquie cadute dal cielo, le guarigioni
miracolose ecc., si preoccupa di determinare la filiazione di quelle pratiche
o di quei culti dalle credenze più antiche dell’umanità. Inoltre egli si avvale
delle conquiste a cui contemporaneamente arrivavano l’etnologia e la critica
biblica.

5. La religione come magia

A dire il vero, nei suoi primi volumi il Saintyves ben di rado


approfondisce i fatti etnologici che gli servono nel suo lavoro comparativo.
Mano mano che i suoi scavi si fanno più profondi, egli sente però il bisogno
di riproporsi molti problemi che già erano stati lungamente esaminati dai
suoi predecessori. E di ciò sono prova alcuni suoi volumi: La guérison des
verrues, La force magique, Les origines de la médecine e L’éternuement et
le bâillement dans la magie, l’ethnographie et le folklore, editi tra il 1914 e
il 1915.
Il Saintyves in queste opere si preoccupa anzitutto di vedere come la
magia medica dei popoli primitivi abbia condotto l’umanità alla
psicoterapia e come nel concetto che tali popoli ebbero del mona ci sia già
un nucleo che prepara la scienza. Il Saintyves fa sua, in tal modo, la tesi del
Frazer: e cioè che la magia sia una falsa scienza dalla quale è nata poi la
vera. Egli, però, la completa e l’integra, considerando la magia qualcosa di
più di una falsa scienza.
Al Saintyves, comunque, oltre che i rapporti fra magia e scienza (sui
quali ha scritto pagine acutissime) interessa notare il carattere magico della
religione. Ed è qui ancora una volta che egli si incontra col Loisy. In una
sua nota pagina del volumetto A propos d’histoire des religions lo stesso
Loisy ebbe a scrivere:

«Noi possiamo congetturare uno stato sociale imperfettissimo in cui magia e religione sono ancora
confuse in qualche cosa che, a parlare con proprietà, non può dirsi né magia né religione, ma tiene il
posto dell’una e dell’altra… Ciò che fa nascere, possiamo dire simultaneamente, sebbene non d’un
solo tratto, la religione e la magia, è il progressivo differenziarsi che si opera nella massa primitiva in
conseguenza dello sviluppo sociale, intellettuale e morale dei primi gruppi umani… Il distinguersi
della magia e della religione, la scelta delle loro rispettive pratiche, il loro crescente conflitto
gravitano attorno ad un principio sociale: la religione è un culto ufficiale e pubblico; la magia è una
specie di rituale privato, spesso malvisto e anche proibito».

Il Loisy è quindi dell’avviso che mentre la magia opera in modo ingenuo


passando per le vie più brevi, la religione compie il suo cammino in modo
più scaltrito e raffinato. E questa, diciamolo pure, identificazione, la quale
riecheggiava la tesi del preanimismo, non era altro per il Loisy che una
congettura o meglio un’ipotesi di lavoro. Il Saintyves è sulla stessa linea. A
lui il mondo magico gli si schiude per intender meglio la religione, per
vedere come l’una e l’altra convivono nei culti, nelle pratiche tradizionali,
nell’etnica popolare. È qui che va ricercato il suo costante impegno di
chiarire a se stesso i problemi della magia e della religione, che gli sono di
guida costante nella sua opera di folklorista.

6. Il folklore biblico

In quest’opera il Saintyves si avvale anche di un altro strumento di


lavoro: la critica biblica, quale essa ormai si era imposta nel mondo degli
studiosi. Costante infatti in lui è l’esigenza di riferirsi al Vecchio o al Nuovo
Testamento. E tale esigenza dominerà in pieno nei suoi Essais de Folklore
biblique, i quali, editi nel 1922, vengono spesso considerati come
un’integrazione del Folklore in the Old Testament del Frazer. In realtà gli
Essais cominciarono ad uscire, prima di essere raccolti in volumi, fin dal
1909 (il Folklore in the Old Testament del Frazer è invece del 1918). Né si
deve dimenticare che essi segnano nella stessa attività del Saintyves un
punto di arrivo.
In questi saggi il Saintyves esamina tutta una serie di temi che già, in
parte, lo avevano attirato nei suoi precedenti volumi; il fuoco che discende
dal cielo, il bastone che rinverdisce, il miracolo dell’acqua cambiata in
vino, il miracolo della moltiplicazione dei pani, il cammino sulle acque.
Temi impegnativi come si vede. E a legarli, se da un lato c’è la Bibbia,
dall’altro vi sono le credenze e le pratiche popolari. Con questo risultato:
che la comparazione non è più, come a volte lo è nei suoi precedenti
volumi, fine a se stessa, ma è chiamata a illuminare il concreto fatto storico
da lui preso in esame. Gli Essais portano questo sottotitolo: magia, miti e
miracoli nell’Antico e nel Nuovo Testamento. E lo stesso Saintyves in una
nota preliminare avverte:

«Noi non abbiamo affrontato un tema del Nuovo Testamento senza ricercare con cura tutto ciò che lo
prepara nell’Antico, e inversamente non abbiamo trattato un tema della storia sacra di Israele senza
indicare le repliche o le applicazioni che ne fornisce il Nuovo Testamento. Reimarus presentiva di già
il compito della Tradizione, quando vedeva nel sogno di Daniele un’imitazione del sogno di
Giuseppe e nella stella dei Magi una specie di adattamento della colonna di fuoco e di nuvole del
racconto mosaico. Così anche questa specie di catena non è stata rotta passando dall’una all’altra
raccolta e noi non abbiamo creduto di potere trattare del cammino di Gesù sulle acque senza parlare
del passaggio del Mar Rosso. I due fatti sono legati non soltanto dalla confessione degli autori del
Nuovo Testamento e di Paolo in particolare ma evidentemente non sono che due varianti dello stesso
tema tradizionale tra i Giudei. Lo si ritrova in effetti non solo nelle vite di Giosuè, di Elia e di Eliseo
allo stato di miracolo, ma nei profeti e nei salmi sotto forma di tratto poetico».

E in quanto al suo metodo di lavoro, dopo avere notato che i temi biblici
si riattaccano a dei miti, osserva:

«Conoscere le origini di un tema folklorico costituisce certamente un prezioso contributo per


impadronirsi del senso primitivo che si può chiamare il significato magico. Ma questo non basta. Per
il fatto che un tema è utilizzato in un libro religioso è da presumere che si è dovuto includervelo più o
meno coscientemente per dar forza a un insegnamento spirituale e dargli conscguentemente uno o più
significati simbolici. La trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana prefigura o simbolizza
l’Eucaristia e quel canto dei salmi che ci mostra tutta la natura turbata all’avvicinarsi di Javeh tende
non soltanto a glorificare il suo potere ma a farlo concepire come un demiurgo o anche come l’anima
del mondo. La scuola di Creuzer… è oggi caduta in un totale discredito ed è una spiacevole
esagerazione. La mitologia simbolica era molto meno lontana dalla verità che il puro razionalismo
che ha disseccato e falsato certe parti della storia religiosa. Le magie e le religioni elementari sono
naturalmente cariche di simbolismo. Il principio della somiglianza che spiega il miracolo della
trasformazione dell’acqua in vino e il rito magico che deve procurare l’abbondanza dell’uva è
egualmente alla base delle trasmutazioni spirituali e conseguentemente delle loro spiegazioni
simboliche. Il dominio spirituale non è separato presso i primitivi dal dominio materiale e la stessa
operazione magica che deve assicurare la trasformazione della linfa della vigna assicurava per essi
quella dei sentimenti. L’iniziato partecipava alla vita cosmica ed è grazie a questa partecipazione che
si operava la sua trasformazione. Per loro l’influsso magico mal si distingue dall’influsso divino, esso
spiega insieme l’azione del sole sulle piante e quella dell’anima del mondo sui cuori. Si concepisce
bene che possa venire un tempo in cui non si crederà più all’azione del principio magico nel dominio
materiale e in cui si continuerà ad accettare l’azione di un principio analogo nel dominio spirituale».

E per quanto il Saintyves finisca col calcare la mano nell’identificazione


magia-religione, oltrepassando anche i confini dentro cui lo stesso Loisy
l’aveva posto, c’è in lui, si, l’ansia del modernista, ma c’è, come c’era del
resto negli stessi modernisti, l’ansia di avvalersi del metodo storico per
spiegare quei fatti folkloristici la cui linfa è già nella Bibbia. Gli si potrà
rimproverare la sua concezione simbolica del mito che spesso ha un
carattere esterno. Non v’è dubbio, però, che nel Saintyves è l’impegno
costante di collegare i miti ai riti, mettendoli in rapporto con le emozioni
che li fanno nascere, mentre mito e rito diventano contemporaneamente fatti
storici che lo storico è chiamato a interpretare. Negli Essais troviamo
appunto per questo un Saintyves più scaltrito nell’indagine storica, un
Saintyves insomma la cui ricerca è intesa a determinare la dialettica delle
tradizioni da lui prese in esame. E queste doti le ritroviamo in uno dei suoi
libri più celebri e discussi: Les Contes de Perrault.

7. Les Contes de Perrault: il libro più fascinoso del Saintyves

Nell’esaminare i temi dei racconti di Perrault – è evidente che il suo è


soltanto un punto di riferimento – il Saintyves completa le ricerche che in
quel campo avevano condotto il Lang, lo Hartland, il Mac Culloch. In più
egli, come già negli Essais, cerca di conciliare, pur rimanendo
nell’atmosfera della scuola antropologica inglese, la teoria simbolica e la
evemeristica, convinto com’è che i racconti popolari sono spesso compendi
e commentari di primitivi rituali, la cui eco si attarda anche nelle pratiche e
nelle credenze dei volghi dei popoli civili.
In un suo lavoro edito nel 1919, Rondes enfantines et quêtes
saisonnières, il Saintyves aveva già messo in rilievo l’importanza che
assumono le antiche liturgie popolari alle quali si collegano le danze
fanciullesche. E queste liturgie altro non erano, in gran parte, che le
cerimonie stagionali.
Queste, a loro volta, eccole come fondamento stesso di alcuni racconti
narrati dal Perrault: Le fate, La Bella addormentata nel bosco, Cenerentola,
Pelle d’asino, Cappuccetto rosso. Il primo racconto infatti, a suo avviso, è
la proiezione stessa di quella credenza secondo la quale era necessario
offrire bevande e cibi alle fate. Nel secondo domina l’interdizione del filare
che cade all’epoca del nuovo anno. Gli altri tre sono il commento di quei
costumi che precedono e preparano il nuovo anno, onde Cenerentola è la
Regina delle Ceneri; Pelle d’asino, la Regina del Carnevale; Cappuccetto
rosso, la Piccola Regina di maggio.
Alle cerimonie iniziatiche si riattaccano invece, a suo modo di vedere,
altri racconti narrati dal Perrault, come ad esempio, Pollicino, Barbablù,
Richetto, Il gatto con gli stivali. È vero che tali racconti, egli osserva,
richiedono una interpretazione più delicata e più sottile. Si può tuttavia
affermare che il racconto di Pollicino ci rivela il rito mediante il quale il
fanciullo veniva iniziato ai segreti dell’età adulta. La favola di Barbablù ci
darebbe un altro aspetto del rito: l’iniziazione della donna alla vita
coniugale. In Richetto avremmo la proiezione dell’apprendimento delle
leggi nuziali. E Il gatto con gli stivali ci darebbe la conclusione cui porta
quell’apprendimento: l’uomo che, ormai consapevole del suo stato, del suo
stato di uomo cioè, lo realizza col matrimonio.
Un terzo gruppo, infine, che egli chiama dei Fabliaux o Apologhi, sono
il riflesso di precetti religiosi il cui insegnamento fa parte delle cerimonie
sacre. E questo è il caso di Griselda. Né è senza significato che il Saintyves
concluda, nella premessa del suo libro, l’esame di questo gruppo,
affermando:
«Il senso del sacro che presiede alla nascita di tutte le nostre idee morali e religiose non può mancare
di costituire una sorgente di racconti e di fiabe, e noi, del resto, ne abbiamo una prova mirabile nelle
meravigliose parabole che illuminano e profumano con la loro freschezza tutto il Vangelo».

Il suo volume dedicato a Les contes de Perrault è sotto questo aspetto la


continuazione degli Essais. E nell’uno e nell’altro vi sono delle
generalizzazioni. È certo però che i paralleli etnografici sono da lui
ravvivati sempre con gusto e con finezza. Ed è certo altresì che, se molte
sue ipotesi sono ardite, altre ve ne sono invece persuasive. Un folklorista
russo, il Propp, che di recente ha messo in rilievo l’eco dei riti iniziatici
quale si rifrange in molti racconti popolari, si è servito dei Contes de
Perrault del Saintyves come di un costante punto di riferimento per le sue
ricerche. E lo stesso può dirsi di uno studioso belga, H. Jeanmaire, il quale
ha indagato i riti iniziatici in rapporto ad alcuni miti dell’antichità classica.

8. Il folklore e il dogma della fratellanza umana

L’opera complessiva del Saintyves ha, dunque, è vero, i suoi lati deboli.
E questa è una delle ragioni per cui è stata sottoposta a una critica spieiata
ma talvolta giusta. Essa, di contro, ha però i suoi pregi. E questa è la
ragione per cui è stata ed è suscitatrice di suggestioni nel campo del
folklore. È un’opera la sua che si impone d’altro lato alla nostra attenzione
non solo come quella di uno scrittore che sa incantarci anche per la scelta
dei suoi temi, sempre interessanti, ma anche per i risultati raggiunti nella
loro trattazione.
Coi suoi pregi e coi suoi difetti l’opera del Saintyves documenta la forte
personalità di uno studioso, il quale affronta i suoi temi con larghezza di
vedute, con profondità di intenti, con la coscienza di chi ricerca
esclusivamente la verità. Pare a volte di risentire in lui la voce di un Thiers
o di un Le Brun, l’uno e l’altro intenti alla ricerca delle sopravvivenze
pagane. Con questa differenza però: che il Saintyves, se, fedele ai canoni
del Modernismo, si propone di spogliare, poniamo, il culto dei Santi dalle
incrostazioni popolari, si avvicina a queste non per condannarle ma per
comprenderle e per spiegarle. Allo stesso modo egli da buon modernista
metterà in discussione la base storica del miracolo in omaggio alle scienze
naturali e fisiche o in omaggio ai risultati del progresso scientifico. Ma ciò
nulla toglierà alla validità del miracolo in sede religiosa etnografica: del
miracolo che riflette voti ed aspirazioni del popolo.
Ansioso, come lo erano i modernisti, di fare del dogma una cosa viva,
suscettibile di sviluppo e di adeguamento alle esigenze della mentalità
moderna, il Saintyves credette a un dogma: quello della fratellanza umana.
E credette altresì che di tale dogma fosse espressione la scienza del folklore,
«disciplina d’amore», la quale insegna che la «comprensione dell’anima
umana non è possibile senza l’amicizia delle anime».
In un suo saggio intitolato Apologie du Folklore il Saintyves ebbe a
scrivere che il metodo stesso del folklore obbliga i folkloristi a mettere in
prima luce il dogma della fratellanza umana. Questo dogma già formulato,
in nome del folklore, dallo Herder si era irrobustito in lui attraverso la
scuola antropologica inglese e il Modernismo. Ed esso è la nota
preponderante, umana e umanistica, della sua opera.
29. Crisi di una poetica

1. Il noviziato di Benedetto Croce

Nello stesso periodo di tempo in cui il problema etnologico del folklore


viene sempre più affermandosi e chiarendosi, anche le nuove correnti
estetiche e filologiche fanno sentire la loro rinnovata efficacia soprattutto
nel campo del folklore letterario. Con questo risultato: che anche in tale
campo di studi assistiamo a un alternarsi di istanze che ripropongono, in
termini più precisi, il dominio dell’estetica o quello della filologia o ancor
meglio la loro convivenza.
Di grande importanza, nel campo dell’estetica, è l’opera di Benedetto
Croce, il quale, com’è noto, ha sempre dimostrato un interesse vivo e
profondo per il popolo napoletano. Il futuro studioso del Vico – destinato a
partire da lui per le sue scoperte filosofiche ed estetiche – iniziò infatti la
sua attività storico-culturale collabo-rando alla rivista di un modesto
folklorista napoletano, il Molinaro Del Chiaro, cui dobbiamo fra l’altro una
raccolta di canti napoletani. È in questa rivista, intitolata a «Giambattista
Basile», che noi, dal 1883 al 1895, incontriamo spesso il nome del Croce, il
quale, se da una parte ci da dei proverbi e delle poesie popolareggianti che
egli viene scovando in vecchi codici, dall’altra ci dà la trascrizione di canti
e novelle ch’egli stesso viene raccogliendo dalla viva voce del popolo.
Pregevole è in proposito una raccoltina di canti popolari del Vomero, che
egli considera «affatto comuni, ovvero varianti e ripetizioni di canti
conosciuti», il che è «di un certo merito da non disprezzarsi». Ed è in essa
che egli alla fine di un canto il quale ha fra l’altro questi due versi:

Caru Cupidu fammi ’nu favuri


Caru Cupidu ca me lo può fari

commenta:

«Ora Cupido è diventato un personaggio del mondo popolare, e il trovarlo nominato nei canti non è
sempre indizio di origine letteraria. E perché? Perché il popolo crede in buona fede che Cupido sia
stato un valente compositore di canzoni. La popolana che mi dettava questo canto aggiungeva per
prova che quando lei, giovinetta, guastava le canzoni, la madre la sgridava col dirle: «Eh! Cupido ha
faticato tanto per farle e tu le sciupi».

È vero che la vita del canto popolare riposa appunto in quel rinnovarsi
che non sempre, come credeva la popolana del Vomero, è un guasto. Ma è
vero altresì che il Croce si preoccupava evidentemente di chiarire già i
rapporti fra il mondo letterario e il popolare. Gli piaceva vivere il mondo di
quelle popolane. «Raccolta da una popolana del Vomero», egli annota ai
margini della favola L’uorco e l’orca. E attraverso quel mondo egli sentirà,
vibrante, la vita stessa della sua Napoli. E quindi della sua storia, la quale,
com’egli poi dirà nell’introduzione alla sua Rivoluzione napoletana del
1799, non è soltanto quella dei dominatori, ma anche quella dei dominati
(anche se egli poi, nella sua opera specifica di storico, darà rilievo soltanto
alla prima).
Dalla raccolta di quei materiali che soddisfacevano in lui l’ansia del
ricercatore, il Croce passò subito allo studio delle varie manifestazioni
popolari. E sotto questo aspetto l’indagine che egli dedicò alla Leggenda di
Cola Pesce costituisce il suo primo tentativo di approfondire la ricerca
erudita. Al Graf che allora gli faceva notare com’egli fosse poco informato
di talune fonti inerenti a quella leggenda, rispondeva: «Per quanto il Graf
abbia sminuite le mie asserzioni, egli non ha potuto cogliermi in un fallo di
giudizi logici e di ragionamenti e io ho la debolezza di tenere moltissimo
alla logica e un po’ meno alla conoscenza di Gervasio di Tilbury». Ma in
effetti, nei suoi lavori dedicati non solo alla letteratura popolare, ma anche
alle varie manifestazioni popolari, egli mostrò di tenere tanto alla precisione
filologica quanto alla logica. Né è senza significato che lo stesso Croce
nello scritto che ha intitolato Contributo alla critica di me stesso abbia
osservato su quei lavori quanto segue:

«Io ora scorgo alcuni aspetti positivi; e in primo luogo nel compiacimento onde rievocavo quelle
immagini del passato, uno sfogo alla giovanile fantasia, bramosa di sogni poetici e di esercitazioni
letterarie; e in secondo luogo nelle assidue e faticose ricerche, una formale disciplina che mi venivo
dando alla laboriosità in servizio della scienza».

In tutta la sua opera quelle ricerche sono come un’oasi di pace, come un
riposo. Si potrebbe dire: l’otium del Croce. E il popolo, il popolo
napoletano con le sue leggende, coi suoi lazzari, con le sue maschere, coi
suoi giuochi, coi suoi briganti, coi suoi costumi, eccolo protagonista
principale o di fianco nei Teatri di Napoli, nelle Storie e leggende
napoletane, ne La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza; in
molte ricerche dei suoi Aneddoti di vita letteraria; in alcuni dei primi e dei
secondi Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, oltre che in alcune
dissertazioni di Uomini e cose della vecchia Italia.

2. Croce folklorista

Dobbiamo inoltre allo stesso Croce una bellissima traduzione del


Pentamerone del Basile, di cui egli pubblicò le prime due giornate nel 1892,
mentre la traduzione integrale uscì nel 1925. E l’una e l’altra edizione
portano delle prefazioni in cui egli ritorna, con compiacimento ma con
scetticismo, ai problemi della novellistica popolare. Così, ad esempio, nella
prefazione del 25, raccolta poi nella Storia dell’età barocca in Italia, il
Croce è dell’avviso che le fiabe tradizionali:

«così com’esse sono d’ordinario narrate dal popolo, hanno smarrito, quando pur l’ebbero, la loro vita
poetica originaria, l’afflato che potè dar loro chi prima immaginò e compose questa o quella di esse;
e somigliano agli scialbi e materiali riassunti, coi quali si espone il «fatto» di una novella o di un
romanzo. Da ciò l’insipidezza ordinaria delle fiabe stenograficamente raccolte dai folkloristi o
demopsicologi: documento bensì di dialetti, di costumi, e, se si vuole, di miti, ma ben di rado opera di
poesia; e, in effetto, quelle raccolte non sono diventate mai libri di lettura, salvo che non siano state
più o meno rielaborate o ritoccate con artistico sentimento».

In tal modo risuona evidentemente nel Croce, anche se attenuato, il


vecchio motivo di quegli epigoni del Benfey, i quali ritenevano che la fiaba
popolare non fosse che il raffazzonamento di un testo di origine dotta ormai
privo di interesse artistico; tesi questa che è stata successivamente sostenuta
dallo Jolles nel suo volume Einfache Formen, che è del 1929, e dal
Wesselski nel suo saggio Versuch einer Theorie des Märchens, che è del
1932: e alla quale si è opposto che anche nell’arte popolare, se vi sono
artisti buoni o meno buoni, ve ne sono anche di grandi. Il Croce d’altra
parte riconosce che la questione dell’origine delle fiabe è da convertire
ormai nella storia di esse. Bene: ma in tal caso l’afflato poetico non può
anche ritornare, come ritorna spesso, in chi non ha immaginato per primo la
fiaba?
Nel saggio premesso alla traduzione integrale del Pentamerone lo stesso
Croce avverte:

«Ho tralasciato, invece, affatto l’illustrazione comparativistica delle fiabe, quantunque mi sarebbe
stato agevole dar compimento per lo meno alla “tavola dei riscontri”, che aggiunsi alle prime due
giornate nella mia edizione del 1892. Con siffatta sorta di illustrazione si sarebbe trasferito
l’attenzione all’astratta materia del libro del Basile, trattandolo come documento di demopsicologia,
e non più nel suo intrinseco carattere di opera d’arte. Che cosa può importare al lettore al quale io
indirizzo questa traduzione, di sapere, per esempio, che la Mortella del Basile risponde alla
Rosmarino delle fiabe siciliane del Pitrè e alla Mela delle fiabe toscane dello stesso, e a Die Nelke
della raccolta dei Grimm?… Non solo non può importar nulla, ma servirebbe solo a infastidirlo».

Ma anche qui il fatto non era quello di misurare il Pentamerone con


l’inclinazione del suo lettore. Il fatto era un altro. Il Pentamerone è
indubbiamente un’opera d’arte. Ma non è nel tempo stesso un documento,
per usare la frase del Croce, di demopsicologia? Il Croce ha avuto il merito
di chiarire, con un’assoluta precisione di termini, come la genesi esterna di
un’opera d’arte non abbia nulla a che fare coll’opera già formata e come sia
assurdo mutare le ricerche delle fonti in giudizi estetici. Ma passando in
altro campo, che è quello della storia della cultura, lo stesso Croce non ha
ammesso che il metodo comparativo ci serve tuttavia a individuare lo
svolgimento dell’epos o del dramma sacro presso un dato popolo? E perché
non della novellistica, ove questa, prescindendo dalle creazioni a nuovo che
essa di volta in volta riesce a darci, si vuole individuare nella sua stessa
storia, che è fatta di temi e di motivi, è vero, ma anche, per usare le stesse
parole del Croce, di costume, se si vuole, di miti?
Queste incertezze che il Croce ha sempre avuto nel campo specifico
della novellistica popolare non hanno tuttavia infrenato in lui l’interesse per
tutto ciò che è popolare. E può bastare ad esempio una delle più belle
pagine che nel suo volume Poesia e non poesia egli dedica a Fernán
Caballero, la quale ecco – con le parole del Croce – come risponde alla
sfida che i novatori, i liberali e i libero-pensatori facevano al passato:

«Voi, illuminati nemici di superstizioni, voi che irridete le pratiche popolari, i santuari, le pitture
miracolose, gli ex-voto, i tatuaggi sacri e simili, avete mai penetrato lo spirito di siffatte pratiche, le
avete intese quali sono, simboli di vita morale, che infrenano, minacciano, consolano, e ispirano
gentilezza di sentimenti e azioni buone? Schernite le goffe chiese spagnuole, dove le immagini dei
santi sono incrostate di lamine d’argento e di altri ornamenti di cattivo gusto: ma forseché quelle
chiese sono musei per artisti e non case di Dio, nelle quali semplici devoti vanno per pregare?»

E tale risposta ai detrattori del folklore non è tanto quella della Caballero
quanto quella stessa del Croce, il quale ha pur sempre avuto un suo
particolare amore per tutto ciò che è popolare, ma soprattutto per ciò che in
stretto senso è poesia popolare, di cui egli ha sempre ammirato
«l’immediatezza con cui essa ricostruisce un ambiente, da carattere a una
località, anima le opere che rimangono come testimonianza del passato».
Frutto di questo amore – è proprio vero che nella maturità si ritorna a tutto
ciò che ci è stato caro nella giovinezza, – l’ampio saggio sulla Poesia
popolare e poesia d’arte, che uscì ne «La Critica» nel 1929 e fu pubblicato
in volume nel 1933.

3. Poesia popolare e poesia d’arte

In questo saggio il Croce parte da una premessa: il tono semplice ed


elementare della poesia popolare rispetto a quello mediato e riflesso della
poesia d’arte. Ed è questa, lo abbiamo visto, una premessa di carattere
romantico. Il Croce non ricorda quanto in proposito avevano detto i Grimm,
l’Arnim e il Diez, ma ricorda lo Hegel; e riattaccando il suo pensiero
appunto a quello di quest’ultimo, accolto del resto anche dal Paris e dal
Pitrè, precisa che la poesia popolare esprime moti dell’anima che non hanno
dietro di sé, come precedenti immediati, grandi travagli di pensiero. Per il
Croce insomma:

«… la poesia popolare non si allarga per così ampi giri e volute per giungere al segno, ma vi giunge
per via breve e spedita. Le parole e i ritmi in cui essa s’incarna sono affatto adeguati ai suoi motivi,
come adeguati ai motivi della poesia d’arte sono le parole e i ritmi a lei propri, di cui ciascuno è
grave di sottintesi che mancano nell’altra».

Ma il fatto che la poesia popolare venga individuata in un particolare


tono, che è quanto dire in un determinato atteggiamento espressivo, vuoi
dire che essa non sia una poesia d’arte? Il Croce ha avuto il merito di
lumeggiare il divario che passa tra la poesia d’arte e la poesia popolare. Ma
quel divario è da lui concepito su un piano del tutto diverso da quello su cui
l’avevano concepito gli stessi romantici, i quali non solo amavano
contrapporre la poesia popolare alla poesia d’arte, ma la ritenevano, anche e
soprattutto, la poesia per eccellenza. Il divario che esiste fra l’una e l’altra
invece, per il Croce non è di carattere estetico, bensì di carattere
psicologico. C’è, osserva il Croce:

«… una poesia popolare bella e una brutta (non-poesia), come ce n’è in quella d’arte; e non è detto
che le bruttezze, le goffaggini, le freddure, i prodotti meccanici siano minori nella cerchia della
prima, nella quale si trova anche, come nell’altra, molta e varia versificazione gnomica, parenetica,
aneddotica, giocosa, che non è, e non vuole essere, propriamente poesia. Ma, dove la poesia popolare
è poesia, non si distingue da quella d’arte, e, nei suoi modi, rapisce e delizia. La differenza, dunque,
da cercare, e la corrispettiva definizione, sarà soltanto… psicologica, ossia di tendenza o di
prevalenza e non già di essenza, e riuscirà utile, in questi limiti, ai fini della critica».

4. Ancora della elaborazione popolare

Ammessa quindi l’identità di ogni atto poetico, il Croce osserva che la


poesia popolare deve avere un’effettiva pietra di paragone la quale è o deve
essere estetica. Ed ecco perché, a suo avviso, conviene tradurre il termine
primitivo che in genere si da alla poesia popolare in schiettamente poetico.
Il Croce riconosce peraltro che lo stesso poeta d’arte può essere popolare
e che quindi la poesia popolare può fiorire dovunque. Con le sue stesse
parole:

«Sia pure che la poesia popolare fiorisca di solito nell’ambiente popolare, non perciò si rinchiude in
questo: il suo tono si fa udire per ogni dove sorgano animi così disposti, e perciò anche in ambienti
non popolari e da uomini non popolani… Comunque, perché quel tono risuoni, occorre soltanto che
alcuni uomini, ancorché colti, siano rimasti, verso la vita o certi aspetti della vita, in quella semplicità
o ingenuità di sentimento o vi ritornino in certi momenti».

Così il Croce, ammettendo che anche la poesia popolare può essere


poesia d’arte, restituisce alla prima la sua dignità. Egli non mira più, com’è
stato bene osservato, a illustrare come si formi o possa formarsi la poesia
popolare e per quali tramiti essa derivi dalla poesia letteraria o cólta; la sua
preoccupazione è quella di cogliere dall’intrinseco il particolarissimo
accento o tono della poesia popolare che permane sempre uguale, quale che
sia l’origine. E questo è appunto il suo merito, ove si pensi che con quel
tono si pongono ormai su ben altre basi i rapporti fra poesia d’arte o poesia
popolare.
Senonché, chiarito in sede estetica il concetto di poesia popolare,
possiamo poi dimenticare che essa in tanto è tale in quanto subisce una
continua elaborazione da parte del popolo? In realtà, nel riprendere la
celebre questione dell’origine della poesia popolare, il Croce afferma
quanto segue:

«Senza negare che nuovi canti popolari pur sorgono qua e là presso i volghi d’Italia, e senza negare
quelli che vennero per altre vie e gli altri che si composero dopo il Cinquecento e che rimasero nella
tradizione, e, soprattutto, senza negare che molti canti furono via via trasformati e molti altri si
composero per imitazione o seguendo gli antichi schemi – negar ciò varrebbe negare cose evidenti –
a me pare che risponda sostanzialmente al vero la teoria che riporta l’origine della grande massa
originale degli strambotti, delle ottave, dei rispetti raccolti nell’Ottocento, alla toscana del Tre e
Quattrocento, e, in buona parte, attraverso la Toscana, alla Sicilia, culla della nuova poesia volgare».

E con ciò indubbiamente il Croce si ricollega, sia pure con molta cautela,
al D’Ancona. Egli però nella sua indagine indubbiamente chiarificatrice ha
trascurato l’importanza che nella poesia popolare assume l’elaborazione.

5. Barbi folklorista
Era questo, come abbiamo già visto, un problema già affrontato dalla
filologia folkloristica dei paesi europei e a cui aveva portato, in Italia, un
deciso contributo Costantino Nigra. E dal Nigra prenderà le mosse uno dei
maggiori rappresentanti della filologia moderna: Michele Barbi, il quale,
discepolo del D’Ancona, visse, nella sua giovinezza, lo stesso clima storico
in cui si era maturato il Croce.
Il Barbi, fin dal 1895, in un suo saggio sulla Poesia popolare pistoiese,
pubblicato nell’«Archivio» del Pitrè, dopo aver passato in rassegna le
raccolte della regione, proponeva di sostituire a quelle sillogi:

«… per un rispetto o per un altro imperfette, una raccolta fatta con maggior larghezza di criteri e con
più continuata pazienza di ricerche per procurarsi tanto le varie lezioni di una stessa canzone,
necessarie a ristabilirne, fra le alterazioni dovute alle trasmissioni orali, il testo primitivo nelle sue
linee sostanziali, quanto i dati di fatto che servano a illustrare i canti nella loro origine, nel loro
contenuto e nella loro forma, in relazione a quella con quelli delle altre regioni d’Italia e, occorrendo,
delle nazioni vicine».

Nel 1911, in un altro suo lavoro programmatico Per la storia della


poesia popolare italiana, pubblicato nella miscellanea dedicata a Pio Rajna,
il Barbi ritorna però su quell’argomento con una maggiore consapevolezza
critica:

«La poesia popolare è sempre in vita: accetta, trasforma, lascia cadere; ci sono forme che si trovano a
certi momenti, e non più a certi altri; alcune rimangono locali, altre trasmigrano da una regione
all’altra, e spesso, dovendo adattarsi ad usi diversi, ricevono notevoli modificazioni. Sta al nostro
studio riconoscere, fra tante varietà, le forme vere, notarne i caratteri, le relazioni, l’estensione sia nel
tempo che nello spazio; ma son tutte forme ugualmente legittime. Si può ricercare la forma primitiva
di un dato canto, ma non la forma primitiva e genuina della poesia popolare che, nel suo complesso,
va considerata come un essere in perpetuo stato di trasmutazione».
Per lui pertanto:

«la storia della poesia popolare non è la storia della canzone epico-lirica e dello strambotto villeresco
soltanto: è popolare tutto ciò che il popolo fa suo nelle forme da lui via via accettate e preferite. Ci
sono forme più o meno popolari, ci sono canti che rimangono più a lungo e canti che rimangono
meno a lungo nella tradizione, ma ciascuna di quelle forme, e ciascuno di quei canti, per quel grado
di popolarità che ha avuto, ha diritto di entrare in una storia della poesia popolare».

E in una nota chiarificatrice aggiunge:

«Che lo strambotto, con lo stornello, e la canzone epico-lirica, le filastrocche, le canzoni iterative ed


enumerative, siano la poesia popolare per eccellenza, questo sì che si può dire; perché essendo da un
pezzo affidata quasi esclusivamente alla memoria, ed essendo abbastanza facile, o per la brevità del
canto, o per la sua stessa composizione, introdur varianti, più ha avuto luogo di manifestarsi la
elaborazione, lenta ma continua, della massa. Ma come ogni canto in se stesso, e anche le varietà più
notevoli, hanno, pur in questi generi, sempre il loro autore, sia esso un poeta letterario o un poeta
rustico; così in ogni altro canto divenuto popolare si hanno varianti, e tanto più notevoli quanto
maggiore è stata la diffusione».

Nel concepire come popolare ciò che ha ottenuto un grado di popolarità,


il Barbi si riattacca al concetto che in proposito aveva espresso A. W.
Schlegel. A lui, al Barbi, interessa però documentare questo grado di
popolarità. E se il Nigra, come ben osserva il Santoli, «aveva appuntato lo
sguardo a intendere la diversità delle forme principali dei canti neolatini e la
loro varia distribuzione», ecco che dal Barbi «i canti popolari furono
studiati dal punto di vista della più rigorosa filologia formale, per la quale,
naturalmente, esistono soltanto testi singoli e tradizioni da ricostruire col
sussidio del più ampio possibile numero di versioni». Più che la ricerca del
testo primigenio, al Barbi interessa la popolarità del canto, la
documentazione delle cui varianti è la documentazione stessa di quella
popolarità.
È chiaro quindi, si può desumere, che un canto sia veramente popolare
quando abbia in effetti questi due elementi: il tono, di cui parla il Croce,
oltre le varianti, cui si appella il Barbi. Eppure, il Barbi fu ben lontano dal
trarre questa conseguenza. Anzi, in uno dei saggi che compongono il suo
volumetto intitolato Poesia popolare italiana, edito nel 1939, ammoni:

«Occorre diffondere un concetto più esatto della poesia popolare e un’idea più rispondente al vero
della sua storia. Non si tratta di fissare un nuovo e più appropriato concetto teorico di quella poesia
come si provò a fare alcuni anni fa Benedetto Croce; ormai è prevalso nell’uso un dato concetto
empirico, e non si può di punto in bianco mutar nome alle cose».

E in quell’ammonimento è il limite stesso, anche se voluto, del Barbi, il


quale dimentica che i concetti empirici rimangono sempre tali, cioè pseudo-
concetti, senza poi dire che il «mutar nome alle cose» è proprio del lavoro
scientifico e del suo progresso.

6. Filologia senza estetica

Nel suo volume su La nuova filologia e l’edizione dei nostri scrittori, da


Dante al Manzoni, il Barbi, d’altro lato, osserva:

«Troppo oggi si parla di critica allotria; e invece, non tra critica allotria e critica estetica sarebbe da
far distinzione, ma tra critica vana e critica buona, fra improvvisazioni d’ignoranti e ricerche meditate
e nuove, quale che sia il loro genere… Innanzi alla critica estetica e alla critica filologica vien fatto di
ripetere le parole del Manzoni: «Che bisogno c’è di scegliere? L’una e l’altra alla buon’ora… son due
cose come le gambe, che due vanno meglio che una sola».
Né v’è dubbio che sia così come appunto ci ha dato prova, almeno in
parte, lo stesso Barbi nella sua opera di critico letterario. Si aggiunga
ch’egli riconosce che il canto popolare italiano fa parte «dell’arte nostra e
dell’anima nazionale». Questa l’esplicita dichiarazione che egli fa nella
prefazione del suo volumetto Poesia popolare italiana. È questa,
indubbiamente, la ragione per cui si accinse a una monumentale raccolta di
canti popolari toscani, e non solo toscani, di cui si attende ancora l’edizione
critica.
Il Barbi valuta in pieno, inoltre, l’importanza che la musica ha per lo
studio della stessa poesia popolare:

«Grave danno per lo studio e la valutazione della poesia popolare è stato l’averla sempre considerata
disunita dalla melodia. Non esiste poesia propriamente popolare senza canto; e le stesse questioni più
strettamente filologiche, come la struttura delle strofe, spesso non si risolvono senza tener conto della
parte musicale. È uno studio, quello della musica, che presenta gravissime difficoltà… La triste
condizione in cui si trova questa parte dei nostri studi lamentano con accorate parole due maestri che
in questi ultimi tempi hanno atteso alla musica popolare: Giulio Fara con L’anima musicale d’Italia,
e Francesco Ballila Pratella col suo Saggio di gridi, canzoni, cori e danze del popolo italiano».

In più egli sottolinea il valore etnografico della poesia popolare:

«Tutti abbiamo cantato nella nostra infanzia:

– Ecco gli ambasciatori…


– Che cosa volete?…
– Vogliamo una figlia…
– Che cosa li darete?…

Ma quanti sanno che il giuoco e il canto infantile ci conservano la testimonianza di una vera
cerimonia per richiesta di nozze in uso in certe regioni della Francia (e là soltanto?) della quale è una
minuta descrizione anche nella Mare au diable di Georges Sand? La canzone oltre che nel Berry è
diffusa in tutto il Nevernese, e il Triersot ce ne da anche la melodia».
È con questo procedimento rapido, ma che sa rievocare e collegare, che
il Barbi ci da anche le linee programmatiche della storia della poesia
popolare italiana. Ed egli, sia pure di sfuggita, nulla trascura di quanto
possa essere utile e fecondo in questo campo di studi. Ma allora, ci si
domanda, perché il Barbi, pur non avendo preconcetti sulla critica estetica,
convinto com’era anzi che anche la poesia popolare potesse essere arte, non
diede poi nessun peso a questa sua convinzione?
La prevalenza, anzi il dominio assoluto che il Barbi volle dare al
problema filologico della poesia popolare rispetto a quello estetico, è, a
nostro avviso, di carattere essenzialmente polemico. In questo senso: che
alla contemplazione della poesia popolare egli vuole anteporre la fredda
indagine sul canto. Il che gli fa dimenticare che nello studio della poesia
popolare il problema filologico non esclude quello estetico. È vero, infatti, a
sua volta, che il problema estetico non può né deve essere isolato – ecco
l’effettiva obiezione al Croce – dalla tradizione dei canti. Ma è vero altresì –
e qui eccoci al Croce – che la loro vita non è soltanto una vita meccanica, di
luoghi comuni, di formule comuni, di aree ecc., ma è anche, o meglio può
essere, una vita poetica.

7. Menéndez Pidal

Questo, infatti, è l’assunto che si è imposto uno studioso spa-gnuolo in


cui par quasi che convergano gli interessi del Croce e quelli del Barbi:
Ramón Menéndez Pidal. Così come Croce e Barbi discendono in fondo
dalla tradizione del Nigra, del D’Ancona, del Comparetti, il Menéndez
Pidal discende da quella del Paris, del Rajna e del Bédier.
Il Menéndez Pidal, però, nella sua opera, non solo imposta con maggiore
precisione di termini la simbiosi popolo-poesia popolare, ma sa anche
riproporsi i vari problemi inerenti all’epopea con uno slancio in cui
l’erudito si fa poeta. Per lui esiste anzitutto il popolo spagnuolo quale lo
aveva rappresentato, ad esempio, una Fernán Caballero: cattolico e
guerriero, saggio e realista. E un popolo per il Menéndez Pidal, come per la
Fernán Caballero, in tanto è tale in quanto ha delle sue determinate
caratteristiche che lo distinguono.
Da qui quell’entusiasmo nazionale che è la nota fondamentale di tutta
l’opera del Menéndez Pidal, il quale dalla Leyenda de los Infantes de Lara,
che è del 1896, alla España del Cid, che è del 1930, se da un lato si propone
di dimostrare che la poesia epica spagnuola è una poesia essenzialmente
storica di carattere realistico, dall’altra vuoi porre l’accento sulle speciali
condizioni storiche del popolo spagnuolo. Egli non nega gli imprestiti o i
residui. Ma limita l’influsso arabo sull’epopea spagnuola soltanto ai riflessi
delle costumanze; riduce l’azione francese nel formarsi di quell’epopea; e,
se accoglie in proposito la tesi dell’azione germanica, lo fa con molta
cautela, convinto com’è che ogni natura poetica sia sempre diversa dalle
altre.
Si accusa il Menéndez Pidal che egli pensi soltanto per categorie
nazionali. Ma non è questo suo pensare che lo porta alle grandi costruzioni,
le quali allo Spitzer, cui dobbiamo tali accuse, ricordano quelle dei Grimm?
O meglio, si potrebbe aggiungere, quelle del Bédier, se si pensa che la
España del Cid è, come le Légendes épiques, un’opera verso cui converge
tutta la storia nazionale di un popolo e in cui il Cid diventa, appunto per
questo, l’eroe esemplare di un popolo?
Il Menéndez collaziona cronache e romances. Ma le une e gli altri sono
per lui documenti vivi di vita nazionale. Egli riconduce cronache e
romances ad una comune fonte di interessi e di ispirazioni, convinto com’è
che i romances non sono antichissimi canti epico-lirici, anteriori ai
cantares, ma frutti di questi, nati, quando, modificandosi le condizioni
storiche della Spagna, all’antica poesia cavalieresca, cantata nei castelli e
pervasa di spirito guerriero, segui una poesia più agile che «nella battuta di
pochi versi fosse capace di riassumere vecchie leggende». E il Menéndez
Pidal non nega che questi romances abbiano avuto dei poeti colti, ma
afferma che anche in tal caso furono adoperati le forme e i ritmi in cui si
esprimevano recitadores e contadini.
È stato giustamente affermato che non c’è anima più disposta della sua
ad accogliere e far rivivere l’intima forza di quella poesia. Si veda infatti la
sua antologia Flor nueva de romances viejos, dove egli ha fuso antichi
romances con i romances che ci conserva la tradizione orale. E ciò non per
fare il Villemarqué della Spagna, ma per il desiderio di diventare lui stesso
uno dei recitadores del suo popolo, i quali in quanto tali «accettano,
rifanno, ricompongono». I romances, del resto, egli prima di trovarli nei
codici, prima di approntarne quelle edizioni critiche che sono dei miracoli
filologici, li aveva sentiti in mezzo al popolo, dalla bocca dei contadini, dai
recitadores. E allo stesso modo egli aveva sentito le altre forme della lirica
popolare che, in una sua conferenza sulla Poesia araba y poesia europea,
letta nel 1937, rievocò con animo commosso:

«Le moderne danzatrici andaluse, che, al suono squillante delle castagnette, lanciano ai quattro venti
della popolarità le strofette delle sevillanas, o delle malagueñas, o delle rondeñas, o delle peteneras o
di non so quante altre, ci appaiono come una discendenza etnico-culturale di quelle fanciulle di
Cadice – puellae gaditanae – che, come le descrive Giovenale, agitando i fianchi lascivi e scuotendo
i crotali di bronzo, diffondevano molto lontano, nella Roma di Tito e di Traiano, le graziose strofe di
Cadice – cantica gaditana –, che i giovani Romani alla moda non si stancavano di ripetere».

E in questo quadro, che potrebbe anche sembrare un po’ oleografico, è


tutto l’amore del Menéndez Pidal per il suo popolo: amore che è stato la
leva della sua stessa opera. Il Menéndez Pidal si è preoccupato di chiarire il
concetto della poesia popolare considerando quest’ultima come il prodotto
di una rielaborazione. Questa è la ragione per cui egli distingue la poesia
popolare dalla tradizionale, la prima delle quali accoglie quelle creazioni
che incontrano il grande favore del pubblico, ma che il pubblico ripete
senza alterarle, mentre la seconda vive per mezzo delle sue varianti. In altri
termini egli, di contro a quanto aveva scritto in proposito il Rubieri,
propone di chiamare tradizionale la poesia popolare. E in tal caso ecco, ad
esempio, quanto scrive a proposito di alcune canzoni giullaresche nel suo
limpido saggio La primitiva poesìa lirica espanola, che rimonta al 1919:

«Queste canzoni sono popolari, senza dubbio, ma non tradizionali. La maggior parte sono opera di
poeti colti, ben conosciuti; e nonostante la loro fondamentale semplicità, hanno sapore di artificio, né
rivelano un’elaborazione veramente popolare. Qualcuna tuttavia giunge a noi in varianti che ci
attestano quel lavorio di elaborazione, per il quale appunto un argomento di poesia vive la sua vita
tradizionale sulla bocca del popolo».
8. Poesia popolare e poesia tradizionale nel concetto del Menéndez Pidal

Il Menéndez Pidal non esita, d’altra parte, per lo studio di tale poesia, a
riproporre l’applicazione di quel metodo storico-geografico che già tanti
eccellenti risultati aveva conseguito non solo nel campo del folklore
letterario e dell’etnica tradizionale, ma anche e particolarmente in quello
della linguistica: esempio l’Atlas linguistique de la France del Gilliéron e
dell’Edmont, edito fra il 1902 e il 1910. Da qui il suo saggio Sobre
geografía folklorica, che egli pubblicò nel 1920 nella sua «Revista de
Filologia Espanola» (che è, fra l’altro, una miniera di contributi folklorici)
col sottotitolo di Ensayo de un método. E il metodo consiste appunto nel
determinare le varietà regionali e le particolarità stilistiche di un canto
popolare o di un gruppo di canti, quali si rilevano nella tradizione orale
d’oggi; nel tracciare le aree geografiche dove tale tradizione attraverso le
sue varianti si è mantenuta salda o invece si è venuta dissolvendo; nello
stabilire quindi quali sono i centri di irradiazione e le correnti di espansione;
nel darci infine l’idea precisa dell’evoluzione storica che ha condotto alla
differenziazione attuale. È stato notato che, nel precisare filologicamente il
termine «popolare», il Menéndez Pidal dimette la questione del «popolare»
come «originato dal popolo» per intendere quell’aggettivo come «elaborato
dal popolo». Vero: ma in quel concetto di «rielaborato» non è implicito in
senso estetico quello di «creato» o meglio, se si vuole, di «ricreato»? Lo
stesso Menéndez Pidal riconosce che anche nella poesia tradizionale il
popolo riproduce, ma, in tal caso, egli incalza: quante volte quei rifacimenti
sono veri e propri atti di creazione, nei quali si inverano la immaginazione e
la commozione dei poeti individui? Nel Romancero, dove egli nel 1927
raccolse alcuni dei suoi più importanti lavori di carattere teorico, lo stesso
Menéndez Pidal, del resto, è quanto mai chiaro ed esplicito a proposito
della elaborazione popolare:

«Di fronte alla moderna affermazione che una poesia tradizionale è anonima, semplicemente perché
si è dimenticato il nome del suo autore, si deve riconoscere che è anonima perché è il risultato di
molteplici creazioni individuali che si sommano e si incrociano: il suo autore non può avere un nome
determinato, il suo nome è legione. Ma in questa poetica creazione collettiva non vi è nulla di
abituale, di insormontabile e misterioso. Il miracolo della poetizzazione in comune si spiega
pianamente e semplicemente col solo riconoscere che le varianti non sono accidente inutile per l’arte.
Sono parte dell’invenzione poetica: la cima più alta di bellezza, di valore estetico, può essere toccata
non solo dal primo cantore, ma da qualsiasi altro recitatore del canto».

E con queste affermazioni, – mentre egli conciliava le teorie che sul


valore del testo primigenio avevano avuto il Wagener, il Benfey e i Krohn,
– il Menéndez Pidal, spirito romantico come il suo popolo, si collegava al
Paris, il quale nello studio dell’epopea s’era appunto appellato alla
elaborazione popolare. Si è rimproverato, è vero, al maestro spagnolo di
considerare questa elaborazione come un processo meccanico. E in qualche
sua indagine particolare ciò è indubbiamente avvenuto. Ma quand’egli
afferma esplicitamente che la bellezza più alta di un canto può essere
conquistata non solo dal primo, ma anche dal suo ultimo recitatore, è ovvio
che per lui il processo imitativo non si esaurisce in un atto di antologista,
ma in una creazione poetica. E ciò, è ovvio, toglie alla poesia stessa il
mistero della sua nascita per trovarla, eterna, in una particolare forma di
vita sempre rinnovantesi.
Il Menéndez Pidal – e in ciò egli è sulla stessa linea del Croce –
contribuì così a mettere in crisi quella poetica del primitivismo che negli
studi della poesia popolare si era accoppiata a una feconda inclinazione
estetico-sentimentale. Ma in quella crisi, ecco il rinnovamento stesso degli
studi delle letterature popolari.
30. Poetica di un mito

1. Meier e la sua Rezeptiontheorie

La tesi del Croce sul concetto di poesia popolare fu formulata in un


periodo in cui, in tutta l’Europa, si veniva riproponendo con insistenza non
solo il problema dei rapporti fra poesia popolare e poesia d’arte, ma anche
quello dei caratteri principali della elaborazione popolare. Insegni il caso di
Menéndez Pidal. Ma al Menéndez Pidal si può aggiungere una schiera di
studiosi, i quali, per vie opposte, non solo si avvicinano al concetto del
Croce, ma direi lo completano.
Viene primo, in questa schiera, John Meier, uno dei più acuti studiosi che
abbia avuto in questi ultimi tempi il folklore tedesco e a cui dobbiamo fra
l’altro due notevoli opere: la prima, Kunstlied und Volkslied in Deutschland,
che è del 1898; la seconda, Kunstlieder im Volksmunde, che è del 1906. In
questi saggi – e negli altri che egli dopo il 1928 venne pubblicando nello
«Jahrbuch für Volksliedforschung» – il Meier si propose di illustrare il
processo discendente della poesia popolare o meglio la cosiddetta tradizione
letteraria della poesia popolare. Da qui la sua indagine, minuta e particolare,
dedicata a più di un migliaio di Lieder, che egli ha compiuto con una
erudiziene non comune. In lui, di temperamento antiromantico, il metodo
benfeyano inerente alla ricerca delle fonti, viene rinverdito con le istanze
che ormai poneva la filologia del Bédier. Il Meier, però, di contro al Bédier,
non sottovaluta l’importanza della poesia popolare, alla quale anzi
riconosce un notevole peso non solo nella storia della cultura, ma anche
della storia civile. E ciò era logico, dato il diverso ambiente da cui
provenivano i due studiosi.
Il Meier in quei suoi saggi arriva comunque a questa conclusione: e cioè
che nella massima parte i canti popolari discendono dalla poesia colta di cui
conservano i temi specifici. E tale è appunto il nucleo della sua teoria,
ormai celebre sotto il nome di Rezeptiontheorie, in base alla quale egli
mette a raffronto dei temi piuttosto che dei canti, cadendo spesso negli
stessi errori in cui erano caduti il Benfey e soprattutto i suoi epigoni. Con
questa attenuante, però, almeno rispetto a quegli epigoni: che egli
riconosceva alle forze popolari, che è quanto dire a determinati individui,
non soltanto capacità ricettive, ma anche facoltà creatrici.
Nei suoi più recenti lavori, e soprattutto nella sua ampia opera Das
Deutsche Volkslied, edita fra il ’35 e il ’36, lo stesso Meier del resto ha
cercato di chiarire meglio come si manifestano nel popolo queste facoltà,
mentre i rapporti fra poesia d’arte e poesia popolare venivano assumendo
nella sua visione un altro valore. Le conclusioni, cui era giunto in
quest’opera, sono riassunte e completate in un suo ampio saggio intitolato
L’organizzazione, i compiti, i mezzi, gli scopi degli studi sul canto popolare,
scritto per un numero speciale, dedicato al folklore tedesco, del periodico
«Lares» (1939). Ed è qui che egli, dopo aver passato in rassegna il lavorio
filologico e critico cui erano state sottoposte, in Germania, le varie raccolte
di canti popolari, pone anzitutto l’accento sulla individualità della poesia
popolare. In questo senso: che egli, come il Croce, attribuisce i canti
popolari a singole personalità poetiche. Autore del canto è, insomma, per
lui, un individuo, non una collettività come ritenevano i Grimm. Né a lui
importa – ecco un altro motivo che lo avvicina al Croce – indagare a quale
strato sociale l’autore appartenga o s’egli sia o no poeta o compositore
popolaresco oppure poeta e musicista educato all’arte. Com’egli stesso dirà:

«Essenziale è soltanto che il canto da individuale si muti in collettivo e che prenda così radice tra il
popolo, ossia che diventi (per usare il termine tedesco) volkläufig; del che è segno l’apparire, così nel
testo come nella melodia, di certe forme stilistiche proprie del canto popolare e provenienti dallo
«stile orale».

2. Essenza della poesia popolare

Ma qui, è evidente, il Meier va oltre il Croce. In altri termini, per il


Meier, perché un canto popolare sia veramente tale deve arrivare alla
collettività. Ma questa collettività egli come la intende? E di quali attributi
la riveste?
Nel suo lavoro Kunstlied und Volkslied in Deutschland, il Meier, nel
riproporsi il problema della poesia e della poesia d’arte, aveva già ammesso
che, se una contadina intende recitare il Lied «In einem kühlen Grunde»,
con la consapevolezza che si tratti di un Lied dell’Eichendorff, allora quel
Lied è da considerare poesia d’arte; e che, se invece in essa manca quella
coscienza, lo stesso Lied è da considerare opera di poesia popolare. E in ciò
egli non faceva che ripetere l’Arnim, il quale, come abbiamo visto, si era
posto appunto quel problema a proposito di un Lied del Goethe. Ma il Lied
del Goethe o quello dell’Eichendorff, appena arrivati al popolo, appena
arrivati alla bocca della contadina, conservano il loro testo – così com’è
d’uso nella poesia d’arte – oppure subiranno quei mutamenti, quegli
adattamenti, o diciamolo pure, quei guasti che sono caratteristici della
poesia popolare? È chiaro che il tono popolare, proposto dal Croce come
criterio di distinzione psicologica fra la poesia popolare e la poesia d’arte,
colga maggiormente nel segno di quanto non faccia la tesi del Meier. Si
deve tuttavia osservare in proposito che anche il Croce, ammesso quel tono,
dimentica però ciò che veramente conta nella poesia popolare e a cui invece
si appella il Meier: la circolazione popolare. Il Croce infatti considera come
poeta popolare il Berchet. Ma prescindendo dal fatto che egli sia o non sia
tale, la poesia del Berchet rimase in mezzo al popolo come vi rimane un
vero e proprio componimento popolare? Oppure quella poesia ebbe soltanto
una determinata popolarità come può averla un qualsiasi altro testo dotto
orecchiabile o comunque di tono popolaresco?
Lo stesso Meier peraltro non manca, e in ciò è in vantaggio rispetto al
Croce, di mettere in rilievo la elaborazione popolare che non è da
confondersi, come fa il Croce, con la semplice trasmissione che è ben altra
cosa di quel «ritoccare o rifare» che si riscontra nella poesia d’arte. A
questa elaborazione partecipa appunto, secondo il Meier, il popolo con i
suoi poeti. Anzi com’egli stesso osserva:
«… quando noi riusciamo a scoprire la versione originale di un canto popolare, ci rendiamo conto di
avere scoperto non il “canto popolare”, bensì il “canto individuale”, da cui quello si è svolto. In
chiusa alle canzoni del secolo XV e XVI si trovano spesso accenni ai loro autori (“un giovane e baldo
cavalleggero, il figlio di un ricco contadino, un giovane minatore, due bravi lanzichenecchi, l’uno
giovane e l’altro vecchio”); ma si tratta generalmente di finzioni senza fondamento di verità. Quasi
sempre questi presunti autori non hanno fatto altro che “ricantare nuovamente” la canzone di cui si
attribuiscono la paternità».

È allora, quindi, che i temi, i quali possono avere caratteri internazionali,


si trasformano continuamente in canti. Ed è allora che, quali che possano
essere le migrazioni di quei temi, il canto popolare, opera individuale,
diventa opera collettiva:

«Così ogni qualvolta si prende a cantare una canzone, essa risente di atteggiamenti nuovi, ed è per
questo che la stessa canzone, come nel campo linguistico la stessa frase, non verrà mai, per quanto
breve sia l’intervallo, cantata o parlata in modo uguale anche se manca l’intenzione di mutare. Stato
d’animo, freschezza o stanchezza, influssi che emanano da una compagnia allegra e dal modo
com’essa è composta (di uomini soli, oppure di ragazze e di giovanotti, o solo di ragazze), il luogo
stesso dove si canta (casa privata oppure osteria): tutto influisce sul testo; sulla forma melodica e
ritmica del canto, e sulla sua esecuzione…»

La poesia popolare ricorda insomma al Meier quei sottili fili di ragnatela


che il popolo chiama della Madonna e che in autunno portati nell’aria dal
vento si posano qua e là e poi si staccano senza difficoltà per andarsi a
posare altrove e formare sempre nuovi e diversi intrecciamenti. Il Meier, nel
caratterizzare questi intreccia-menti, si appella quindi a un determinato
stile, le cui forme rispondono a un bisogno dell’aedo e mirano a facilitargli
il suo compito. Ma queste forme, quali risultano dal suo esame, sono del
tutto esterne? Egli è dell’avviso che esiste sempre un canto «che si dovrà
dire popolare per l’intima sua essenza e per il modo di vivere». Traducete
quell’essenza in tono popolare. Traducete quel modo di vivere in
elaborazione popolare. Ed ecco che l’ultimo Meier ci appare sulla stessa
linea del Croce riveduto da Menéndez Pidal.

3. Naumann e i valori culturali abbassati

La Rezeptiontheorie del Meier fu irrigidita e trasportata dal campo


specifico dei Lieder a tutte le produzioni popolari da un altro studioso
tedesco: Hans Naumann, cui dobbiamo, per ricordare soltanto le sue opere
maggiori, la Primitive Gemeinschaftskultur, edita nel ’21, e la Grundzüge
der deutschen Volkskunde, che è del ’22.
Nel riproporsi i problemi inerenti alle origini del folklore, il Naumann
stabilisce anzitutto tre fasi attraverso cui sarebbe passata l’umanità: la
prima, ch’egli chiama primordiale, in cui l’uomo è un «frammento»
inconsapevole della natura; la seconda collettiva, in cui l’uomo partecipa
alla vita sociale; la terza, individuale, in cui l’uomo ha già una sua
personalità. E su questa base sociologica, che gli fa immaginare un
anthropos a compartimenti stagni – il Naumann è ben lontano infatti dal
dare all’uomo primordiale quella natura che gli dava il Vico, mentre la sua
distinzione fra individuo e collettività è del tutto fragile, se si pensa che
nell’uomo si rispecchia pur sempre la collettività come nella collettività si
rispecchia l’individuo – egli formula due principi, che sono, a suo modo di
vedere, i principi stessi che danno fondamento al folklore. Primo principio:
quello della cosiddetta cultura primitiva che è propria delle società agricole
e delle società contadinesche, le quali, prive come sono di vere e proprie
differenziazioni, hanno un proprio patrimonio, dove ciascuna
manifestazione parte da un qualsiasi singolo individuo. Secondo principio:
quello dei valori culturali abbassati o meglio della materia colta decaduta,
secondo il quale il Naumann fa del popolo una potente forza recettiva, cui
giungono tutte le produzioni nate fra le classi dirigenti. Compito del
folklorista pertanto è quello di vedere come questi due mondi confluiscono
l’uno nell’altro, onde distinguere poi nel popolo gli elementi importati, gli
imprestiti, dagli elementi originari.
Il Naumann in questa sua costruzione si avvaleva di un concetto che già
era stato ragionato da un folklorista svizzero: E. Hoffmann-Krayer, alla cui
iniziativa si deve non solo la pubblicazione del periodico «Schweizerisches
Archiv für Volkskunde»; la fondazione della «Volkskundliche
Bibliographie» (continuata dal Geiger, che gli successe anche nella
direzione della rivista); l’organizzazione dell’Handwörterbuch des
deutschen Aberglaubens, che è ormai un indispensabile strumento di lavoro
nel campo dell’etnica tradizionale e che egli diresse con l’aiuto di H.
Bächtold-Stäubli. Ora fin dal 1932, Hoffmann-Krayer aveva tratto le più
rigide conseguenze su quello spirito popolare come già lo aveva concepito
W. H. Riehl. Nel suo lavoro Die Volkskunde als Wissenschaft Hoffmann-
Krayer aveva infatti sostenuto l’idea a cui, del resto, rimarrà in parte sempre
legato; che il cosiddetto strato inferiore dell’organismo popolare è meno
differenziato di quanto non sia lo strato superiore. Da qui quell’uniformità
che è nelle stesse personalità popolari. Da qui a sua volta il principio stesso
del Naumann, per il quale nel folklore collettivo, nel folklore genuino, ciò
che è di uno può anche essere dell’altro. Il che in fondo non è che ciò che
gli altri folkloristi chiamano spirito comune. O ancor meglio: i luoghi
comuni della tradizione. Senonché la tradizione vive soltanto di questi
luoghi comuni? E negli scambi sono questi che determinano i vari processi
della poesia popolare?

4. Fonti del suo «sistema»

A questa domanda – divenuta quanto mai impellente dopo le ricerche del


Naumann – rispose lo Hoffmann-Krayer nel saggio, Individuelle Triebkräfte
im Volksleben, edito nel 1930 in «Archives Suisses des Traditions
Populaires», rivista da lui diretta e a cui si affianca un’interessante
collezione di studi folkloristici. In questo saggio Hoffmann-Krayer, che
pure aveva nei suoi primi lavori sostenuto l’idea che il popolo più che
creare riproduce, non solo allarga la sua concezione del folklore – ristretta
in un primo momento alla formula vulgus in populo, – ma esamina anche
con larghezza di vedute come si debba intendere la stessa individualità
popolare. In quanto alla concezione del folklore egli par quasi che si adegui
al Barbi sostenendo: 1, che è popolare tutto ciò che coscientemente o
incoscientemente circola in mezzo al popolo; 2, che il fatto essenziale da
vedere nel folklore non è solo tutto ciò che esso accoglie, ma soprattutto
quel che utilizza. Ed ecco qui allora il rinnovarsi stesso del folklore in cui,
egli afferma, è difficile discriminare gli elementi superiori da quelli
inferiori, appellandosi agli impulsi individuali che dovrebbero caratterizzare
i primi e agli impulsi collettivi che dovrebbero caratterizzare i secondi. È
ovvio, egli dice, con uno spiccato senso estetico e storiografico,
controbattere che nelle une come nelle altre manifestazioni l’attore
principale non è il popolo, ma il singolo più dotato. Commenta, anzi, in
proposito il Vidossi, delineando la posizione di Hoffmann-Krayer rispetto al
Croce:

«Quando il Croce, parlando di poesia popolare, scrive: “nessuna poesia è collettiva nell’origine,
richiedendosi nel suo sorgere la persona di un poeta, e ogni poesia si diffonde o può diffondersi più o
meno largamente nella società in cui nasce”, sorvola appunto sul fatto di questa diffusione, che può
sembrare estraneo all’assunto estetico, ma che per lo studioso di tradizioni popolari non è stato forse
mai d’interesse così capitale come oggi. Per il Hoffmann-Krayer la diffusione avviene per
assimilazione, che è per lui il principio regolatore d’ogni formazione di gruppi. E centro di questa
assimilazione… è sempre l’individuo più forte, che da il tono ai più deboli».

5. Confutazioni

La materia assimilata, secondo Hoffmann-Krayer, non rimane insomma


mai tale, ma si modifica e si adatta al gusto prevalente. E se è vero che allo
Hoffmann-Krayer mancò il criterio di interpreta-zione di quei due mondi,
letteratura dotta e letteratura popolare, quale lo aveva già concepito il
Croce, egli certo si faceva garante di un’esperienza che peraltro maturava
contemporaneamente anche nella coscienza di molti altri studiosi, i quali si
preoccupavano di riproporsi il problema dei rapporti fra la poesia popolare
e la poesia d’arte.
Così, ad esempio, per rimanere nel campo particolare della poesia
popolare, non mancarono degli studiosi che cercarono di conciliare le prime
posizioni del Meier con le teorie del Naumann. E fra questi meritano di
essere ricordati il Dessauer, cui dobbiamo una interessante monografia che
uscf nel 1929, intitolata Das Zersingen, e la Funk, autrice di un saggio, Die
Rolle des künstlichen Bearbeitung in der Textgeschichte der alten deutschen
Volksballaden, edito nel 1931. In queste opere viene esaminato lo
sfaldamento di alcuni canti popolari tedeschi. E non v’è dubbio che gli
autori riescono a dimostrarci come molti canti letterari si degradino
passando in mezzo al popolo. Legittime ricerche queste. Ma possiamo noi
trarre delle conseguenze generali da determinati casi speciali?
È chiaro quindi che in proposito abbia avuto buon giuoco un geniale
folklorista francese, Patrice Coirault, il quale nelle Recherches sur notre
ancienne chanson populaire traditionnelle, edite fra il 1927 e il 1932, aveva
appunto dimostrato: 1, che è assurdo porre il problema dei rapporti fra la
poesia popolare e la poesia d’arte in una serie di discese e di degradazioni;
2, che fra i due gradi di cultura vi sono anche gradi assolutamente
intermedi, senza soluzione di continuità; 3, che la creazione popolare è pur
sempre legata alla elaborazione popolare.
Di particolare importanza è inoltre l’analisi che il Coirault dedica alla
creazione e alla elaborazione commesse vanno intese non solo nella poesia
popolare, ma anche nella poesia d’arte. E la sua tesi, come ben la riassunse
il Toschi, è questa: che i due termini non sono poi così distanti come
apparirebbero nella estetica crociana, perché, così come nella letteratura
dotta esiste una creazione dentro la tradizione stilistica, non ci è possibile
spiegare la poesia popolare se non dentro una sua particolare tradizione.
Convinto che la caratteristica essenziale della poesia popolare sia
«l’inimitabile semplicità di mezzi, dell’espressione del fondo» – il che per
lui è erroneamente assenza di individualità, – il Coirault ritiene che tale
caratteristica in molti casi potrebbe costituire non un carattere innato, bensì
acquisito. E con ciò, se egli mette sulla via giusta i rapporti fra poesia
popolare e poesia d’arte, riduce la prima a un genere in cui l’inimitabile
semplicità è assenza di individualità. C’è, comunque, nel Coirault, conclude
il Toschi, l’esigenza d’una poetica accanto a una poesia. Il Coirault
s’incontra anche in molti punti col Croce. Con questa differenza: che il
concetto di elaborazione popolare gli offre un criterio più largo per
interpretare il problema stesso della poesia popolare.
Nel campo della danza, invece, un allievo del Naumann, Paul J. Bloch,
ha cercato di dimostrare nel suo ampio lavoro Der deutsche Volkstanz, che è
del 1926, che a prescindere da quelle danze che derivano dagli antichi culti
«non esiste alcuna vera danza popolare» ma soltanto «forme derivate dalle
danze del palcoscenico e di salotto». Gli ha risposto, però, il Wolfram, il
quale in un suo saggio, Lo studio della danza popolare in Germania,
pubblicato nel citato fascicolo di «Lares», afferma:

«Nel mio lavoro Volkstanz nur gesunkenes Kulturgut? io ho confutato questi errori… Ho cercato di
chiarire, colFaiuto delle ricerche sulle “isole linguistiche” il caso tipico delle nostre danze amorose:
Ländler, Steirischer e Schuhplattler, che il Bloch voleva far derivare dalle danze di palcoscenico
dell’Ottocento. Tra gli emigranti, che già avevano lasciato la Patria da un secolo e da allora erano
senza collegamento con il loro territorio d’origine, io trovai infatti anche i Ländler che essi dovevano
aver portato seco loro fin dal 1730. Il legame con le danze “saltate” dal Medioevo, come pure la
“gagliarda”, prova la notevole antichità, come anche l’origine popolare delle nostre danze amorose».

E in quanto all’arte popolare, la quale nel campo del folklore è stata fino
ad oggi la meno studiata (per quanto i musei etnografici sorti da per tutto in
Europa possano costituire, in proposito, dei veri laboratori di studio),
notevoli sono le osservazioni di Kon-rad Hahm nella sua ampia monografia
Deutsche Volkskunde, edita nel 1932. Lo stesso Hahm nel suo saggio
Indagine dell’arte popolare in Germania, pubblicato pure in «Lares»,
osserva:

«Per la loro importanza generale sono da menzionare [sull’arte popolare] i lavori e le ricerche di
Michael e Arthur Haberlandt, Otto Lehmann e Adolf Spamer. L’opera di Karl Spiess, Bauernkunst,
ihre Art und ihr Sinn... contiene importanti pensieri cui si può attribuire il valore di guida di tali
studi».

Fatto è che questi autori sono concordi nel respingere la tesi del
Nauniann, anche se qualcuno di essi (lo Spamer, ad esempio) in un primo
momento l’abbia accolta. E ciò perché l’arte popolare, per essere tale, deve
aver appunto quel tono semplice ed elementare che modifica e trasforma le
sue stesse fonti. In altri termini: quel che vale per la poesia popolare vale
per l’arte figurativa popolare.

6. La preghiera del Gorkij

Di contro al Naumann si pose inoltre un folklorista che è un vero e


proprio maestro delle nuove generazioni russe: Jurij Sokolov, il quale,
educatosi alla scuola storica del Veselovskij, sentì, come il suo maestro,
l’interesse vivo e profondo per i vari problemi che in Europa si venivano
dibattendo intorno alla metodica e alla problematica folkloristica.
In un primo momento anch’egli, come il Meier e lo Hoffmann-Krayer
nei loro primi lavori, accolse la tesi del popolo che riceve dall’alto il
proprio patrimonio: il che in Russia, ancora prima che uscissero i lavori del
Naumann, era stato sostenuto dal Keltuyala e dal Miller, i quali sentirono e
subirono l’influsso del Bédier. E questa fu la tesi che lo stesso Sokolov
sostenne nel suo saggio sulle byline, che pubblicò nel 1929 nella Grande
Enciclopedia Russa. Alcuni anni dopo egli, però, a proposito della
novellistica impostava in maniera molto diversa il problema dei cosiddetti
valori decaduti. E in un suo saggio, dedicato al folklore narrativo, osserva:

«Le favole che si usa chiamare magiche, ad esempio sul principe Ivàn che conquista la Car-devica
[reginetta], l’uccello di fuoco o qualche altra meraviglia, sono evidentemente nate nell’epoca del
feudalismo e, dobbiamo pensare, non nell’ambiente contadino, bensì in quello dei boiardi e dei
principi, oppure in quello dei mercanti. Soltanto in un secondo momento esse furono elaborate dai
contadini secondo i loro gusti e rappresentazioni di classe».

Si veniva a creare così quell’ala sinistra – come giustamente la chiamano


L. Hippius e V. Čičerov – della scuola storica, la quale è la più agguerrita
nel combattere le teorie del Naumann, dei suoi predecessori e dei suoi
epigoni. E di quest’ala il maggiore rappresentante sarà appunto il Sokolov,
il quale troverà un collaboratore tenace nel fratello Borís. I Sokolov sono
oggi i Grimm della Russia. Ed è in gran parte per loro merito se il problema
della creazione individuale-popolare è stato sottoposto ad una più serrata
critica intesa a discriminare il folklore che non riesce a farsi arte da da
quello invece che è arte. Era stato il Veselovskij a dimostrare come la fonte
viene assorbita dai nuovi creatori del folklore. E i Sokolov esemplificarono
questo concetto. Era stato Hilferding, in Russia, a valutare l’individualità
creativa dei portatori del folklore. E ad Hilferding si riattaccarono, nel
seguire quel sistema, i Sokolov quando nel 1915 pubblicavano un’ampia
silloge di fiabe e canzoni della regione del Lago Bianco.
È su queste basi che lavoreranno inoltre con rinnovata energia i
folkloristi russi dopo la Rivoluzione. Ed è allora che da quell’anonimato, in
cui in genere si teneva il folklore, usciranno delle vere e proprie
individualità poetiche, le quali appartengono alle file del popolo e alle quali
sono state dedicate delle monografie accurate.
Alla scoperta di queste individualità contribuirono soprattutto le ampie
ricerche folkloristiche cui, dopo la Rivoluzione, presiedette Maksim Gorkij,
il quale fu in ciò aiutato da Jurij Sokolov. Il Gorkij, conoscitore profondo
del folklore letterario russo, ch’egli rievoca in parecchie sue opere,
specialmente quelle dedicate alla sua vita, nel 1934 al congresso degli
scrittori russi, dopo aver messo in luce come il folklore concilii
armoniosamente la ragione e l’intuizione, il pensiero e il sentimento, aveva
ammonito:

«Permettetemi di dare un consiglio amichevole, che potrebbe essere considerato come una preghiera,
ai rappresentanti delle nazionalità del Caucaso e dell’Asia Centrale. Un’impressione immensa ha
suscitato in me e non soltanto in me l’“asciug” Sulejman Stalkij: io ho visto come questo vegliardo
analfabeta ma saggio, seduto alla presidenza del congresso, veniva creando i propri versi e com’egli,
Omero del secolo XX, li ha poi recitati meravigliosamente. Abbiate cura di uomini, capaci di creare
tesori poetici come quelli di Sulejman. Ripeto: Vinizio dell’arte della parola si trova nel folklore,
raccogliete il vostro folklore, studiatelo, elaboratelo. Esso offre vasto materiale sia a noi che a voi,
poeti e scrittori dell’Unione Sovietica».

Allo stesso Gorkij si deve inoltre l’iniziativa della pubblicazione di


un’opera che porta un titolo significativo: La creazione dei popoli
dell’U.R.S.S. Con questo metodo: che in quelle ricerche, cui contribuirono
anche i Sokolov, non si tenne conto soltanto delle campagne ma anche dei
cantieri, delle fabbriche ecc. Il che dimostrò la vitalità di un folklore
operaio, ma soprattutto la fallacia di quella teoria, avanzata del resto anche
dallo Herder e peraltro così feconda di risultati, che il folklore muore e che
quindi bisogna subito raccoglierlo e salvarlo. Era stato il Gorkij a porre già
l’accento sulla tesi che il folklore non muore, ma che anzi esso è in via di
continuo sviluppo. Il che del resto nella stessa Russia era stato già
pienamente intuito da un Puškin e da un Dobroljubov. È merito comunque
di Jurij Sokolov d’aver dato un fondamento scientifico a quel concetto che
egli sintetizzò in una forma piana, ma decisa e decisiva. E la formula è
questa: che il folklore è, si, la voce del passato, ma è anche la voce potente
del presente.
È la coscienza contemporanea, insomma, che illumina il folklore. E
questa contemporaneità del folklore (studiata anche con molto acume da M.
K. Azadovskij, il quale ne indagò i precedenti mettendo in luce l’opera di
Hilferding, di Puškin, di Dobroljubov) costituisce la nuova concezione del
folklore russo secondo cui il problema centrale non è più quello di ricercare
le origini dei generi tradizionali, ma di vedere come questi generi vivano
oggi, com’essi, cioè, si facciano poesia attuale e come in tale poesia lo
stesso popolo trovi la sua propria letteratura educativa. È un ritorno al
Romanticismo in fondo: ma questo nuovo Romanticismo non tende soltanto
a mettere in luce i valori nazionali, bensì a riempirli di un contenuto sociale.

7. Il folklore poetico nel concetto del Sokolov


Nel riproporre la validità delle ricerche folkloristiche, gli studiosi russi
della nuova generazione non si sono preoccupati, ad ogni modo, soltanto di
vedere a quale funzione sociale obbediscono gli stessi portatori del folklore,
ma anche e soprattutto hanno voluto indagare la «personalità artistica». E,
in proposito, di notevole interesse sono le conclusioni cui giunge Jurij
Sokolov nel suo libro dedicato al folklore letterario russo, edito a
Leningrado nel 1938.
In questo libro il Sokolov mette anzitutto in rilievo quanto sia meccanica
la distinzione tra poesia d’arte e poesia popolare (o meglio, per adoperare i
suoi termini, fra la «poesia naturale» e quella «artificiale»), in quanto tanto
l’una quanto l’altra sono, o meglio possono essere, delle «manifestazioni
autentiche dell’arte letteraria». E qui il Sokolov è pienamente d’accordo con
il Croce che egli non cita e probabilmente non conosce. Di contro al Croce
– e questa è la conseguenza delle ricerche russe dedicate al folklore intese a
determinare le personalità che lo creano – il Sokolov da però rilievo e
spicco proprio ai popolani e agli operai. Aveva scritto il Croce che la poesia
popolare è dovuta in gran parte a letterati o semiletterati e assai poco a
popolani ignoranti, di un’ignoranza circa la quale ci sarebbe molto da
distinguere e da ridire. Dirà invece il Sokolov che i popolani o gli operai
acquistano una capacità creativa dopo una conoscenza varia e approfondita
del folklore poetico, narrativo ecc. della propria nazione. Il che costituisce
la loro cultura. L’ignoranza dei popolani o degli operai non è in fondo che
la nostra ignoranza, ove appunto si pensi che noi siamo abituati a misurare
tutto esclusivamente in base alle nostre conoscenze, disprezzando ciò che
non riteniamo nostro o della nostra classe.
Si aggiunga, conclude il Sokolov, che anche fra i poeti e i narratori ecc.
noi abbiamo delle vere e proprie scuole, le quali si distinguono per il loro
repertorio, per il loro stile, per l’esecuzione stessa delle loro opere – tesi
questa che è pienamente condivisa dal von Sydow e in un certo senso anche
da un nostro studioso, il Baldi, per quanto l’uno e gli altri siano arrivati
indipendentemente alle stesse conclusioni. Fatto è ad ogni modo che i
migliori componimenti popolari rivelano una vera e propria «maestria
artistica» e che – ecco un altro punto in cui il Sokolov concorda col Croce –
il processo della creazione è nel folklore poetico e narrativo identico a
quello che è nella letteratura dotta.
Lo stesso Sokolov, dopo aver riconosciuto a ciascuna variante la validità
di una produzione a nuovo – ciascuna variante, egli dice, deve essere
considerata un fatto artistico, – non si nasconde la potenza stessa della
tradizione in cui va ravvisato il lavoro stesso della collettività. Dirà
concordando pienamente col Coirault:

«Qui interviene un elemento, la tradizione, che alcuni studiosi considerano come il tratto essenziale
che distingue il folklore dalla letteratura. Ripetiamo ancora una volta che la distinzione fra i due
domini è più quantitativa che qualitativa. Senza tradizione, in effetti, lo sviluppo della letteratura non
si potrebbe concepire e, se la potenza della tradizione è più forte nel folklore, ciò è dovuto al fatto
che la produzione poetica, non fissata dalla scrittura, ha dovuto, per una pratica secolare, elaborare
dei mezzi mnemotecnici che ne assicurano la trasmissione orale. Lo studio minuzioso della poetica
popolare mostrerà a qual punto i procedimenti di stile e di composizione, stabiliti da una lunga
tradizione, contribuiscono a mantenere i testi nella memoria degli esecutori e, d’altra parte, a
permettere a questi ultimi di modificarli e di improvvisarne dei nuovi… Non si potrebbe ridurre il
folklore alla sola tradizione, sarebbe vedere in esso soltanto pratica, ristagno, conservatorismo».
Non si vuol negare, insomma, il valore della tradizione che ci attesta la
popolarità di un canto; ma quando un canto riesce a realizzarsi
esteticamente, non è bene che noi lo stacchiamo dalle lezioni che lo hanno
potuto generare e da quelle che potrà generare per contemplarle
esclusivamente come un fatto artistico?

8. Popolo e chiericato

Così, dunque, la filologia si è venuta sempre più animando con l’aiuto


dell’estetica e quindi con la formulazione stessa dei suoi principi, mentre la
stessa simbiosi poesia-popolo ha avuto in base a tali principi una
formulazione più chiara è soprattutto più persuasiva. Si era creduto che il
mito della poesia popolare fosse morto. In realtà esso è più vivo di prima.
Nel porre i rapporti fra la poesia popolare e la poesia d’arte il
Romanticismo era già stato chiaro, conseguente e categorico, ove si pensi
appunto che esso aveva attribuito al popolo i temi lirici, le invenzioni
narrative, i miti ecc., dai quali era poi partita la letteratura dotta. Più tardi, a
mano a mano che la filologia positivistica aveva proceduto nelle sue
ricerche, nei suoi scandagli, nei suoi scavi, si era ammesso fra le due forme
un conto corrente che si risolveva non solo nel dare – e in ciò è il
Romanticismo stesso che continua il suo prodigioso lavorio –, ma anche
nell’ avere. E nell’avere, non nel senso in cui questo termine era stato
adoperato dai Grimm o dal Müller e che sarà meglio chiarito dal Menéndez
Pidal – nel senso, cioè, di imprestiti completamente rinnovati e ricreati –,
ma nel senso che gli aveva dato il Benfey, il quale, pur facendo convivere
insieme una letteratura dotta con una popolare, riteneva che quest’ultima
spesso non fosse che la trascrizione della prima. O ancor meglio il Bédier, il
quale, impostando dei rapporti sotto forma di popolo e chiericato, aveva
fatto del popolo un’astrazione che era non meno arbitraria di quella del
chiericato. Ma di contro al Benfey – e quando il Bédier non aveva ancora
formulato la sua tesi –, il Paris poneva invece fra le due forme, la letteratura
popolare e la dotta, un netto distacco. E questo distacco era accentuato dal
D’Ancona, dal Comparetti e dal Pitrè, i quali erano e rimasero sempre
convinti che quelle due forme rispondessero a due particolari modi di
sentire.
Si trattava appunto ormai di chiarire con la massima decisione di termini
questi due modi, di vedere quale fosse la loro natura, la loro essenza. Il
Menéndez Pidal converti lo spirito nazionale dei romantici in un sentire
comune, attribuendo quel sentire comune alla poesia popolare o meglio,
come egli dirà, tradizionale. È evidente: di contro alla poesia dotta che
rimaneva in un’altra sfera. Il Bédier, nel porre la sua antitesi popolo-
chiericato, aveva eluso quel problema, perché così come i romantici
avevano attribuito tutto al popolo, il Bédier attribuiva tutto al chiericato. E
il colloquio rimaneva ancora aperto e sembrava a volte risolversi in una
vera lotta di classe: o col popolo, o contro il popolo.
Il Croce, quasi a rispondere a questo colloquio, staccherà, è vero, la
poesia popolare da quella d’arte, ma senza intaccarne la sua natura artistica.
Il concetto di elaborazione popolare, quale esso è stato sempre più e meglio
approfondito, ci dirà però che quel tono è veramente vivo in mezzo al
popolo, col popolo e nel popolo. Fatta da letterati, difficilmente una poesia,
per quanto elementare, raggiunge il popolo, che ha, per adoperare una frase
del Sokolov, le sue scuole da cui e in cui si istruisce. E se vi giunge ecco
che essa non rimarrà mai come è partita. Le opere dei poeti, delle
personalità poetiche, dei cantori come dei narratori, non vanno tuttavia,
aggiungerà il Sokolov, studiate soltanto per tracciare una tradizione, ma
anche come fatti artistici.
Non si vuoi negare d’altro lato, e sarebbe assurdo negarlo – da qui la
validità delle ricerche del Meier – che la letteratura popolare possa essere
come la vita sotterranea di tanta letteratura dotta. O viceversa. È un errore
infatti considerare il popolo come una parte chiusa in se stessa. Quando la
letteratura dotta è divenuta popolare – cioè, quando i motivi della prima
rivivono nella seconda –, essa, come aveva del resto ben intuito, primo fra
tutti, il Görres, dimentica la sua fonte e fa parte di una specifica letteratura
che deve essere rivendicata a se stessa. Così come la poesia d’arte non va
ricercata in un presupposto ingentilirsi della poesia popolare, né questa in
un degradamento della prima, allo stesso modo quindi la poesia popolare,
quando si fa poesia dotta, aulica, cioè riflessa, non è più tale. E viceversa.
Non si tratta perciò di negare l’una forma rispetto all’altra, ma di dare vita
concreta all’una e all’altra. La poesia popolare e la poesia d’arte, o meglio
riflessa, – dato, ripetiamo, che anche la poesia popolare può essere poesia
d’arte – si possono considerare come due linee parallele, le quali anche
quando sembrano convergere l’una verso l’altra finiscono sempre per
restare staccate.
Il Bédier aveva tolto agli umili, ai poeti popolari, il dono della poesia. La
filologia e la critica estetica sono, ormai, concordi nel riconsegnarglielo. E
mentre ciò avviene, a noi sembra di sentire riecheggiare la preghiera di
Maksím Gorkij: «Raccogliete il folklore, studiatelo, elaboratelo». È vero
che il folklore, parte insein-dibile della storia della civiltà e della cultura,
non sempre viene ancora oggi considerato in tale storia (nonostante
l’esempio che oggi ci viene da un Huizinga o da un Bloch). Ed è vero
altresì che la storia del folklore è quasi del tutto trascurata dalla storia della
storiografia europea cui appartiene. Ma queste e altrettali diffidenze,
chiamiamole pure così, se sono destinate sempre più a sparire, non sono, e
non possono non essere, per chi coltiva questi studi, che un incitamento a
continuare l’opera dei suoi predecessori, cui va il merito di aver spianato le
vie e di averle costruite, aprendo a noi un nuovo cammino.
Note e notizie bibliografiche

Le note che seguono non pretendono di essere una compiuta bibliografia della nostra Storia. Le
bibliografie o comprendono indistintamente tutto ciò che è stato scritto su un argomento o seguono
un criterio di scelta conforme al metodo che l’autore ha seguito nella sua opera. È a quest’ultimo
criterio che abbiamo voluto attenerci per quei lettori che vogliono in qualche modo approfondire i
singoli capitoli da noi trattati.
Premessa

Dobbiamo a uno studioso spagnuolo, A. Guicot y Sierra, un’ampia Historia


del folklore. Orígines en todos los países hasta 1890. Desarrollo en España
hasta 1921 (Madrid, 1922). Si tratta però di un catalogo di antiquariato
privo di qual-siasi interesse storico e critico. Di ben altra natura è invece il
saggio dedicato alla storiografia folkloristica europea da J. M. Sokolov,
Russian Folklore, 3-156 (New York, 1950) [ed. in russo, Leningrado, 1938:
esiste di questo lavoro una ridotta traduzione francese, priva fra l’altro
anche delle note bibliografiche]. Per le bibliografie di carattere
internazionale inerenti al folklore, per i manuali e i trattati generali, per le
raccolte comparative, ecc. si veda A. Van Gennep, Manuel de folklore
français contemporain, 3, 98-113, e 4, 559-60, 596-97, 621-23, 655-60,
717-62, 769-805, 815-18, 853-91, 893-94, 939-49, 1012-16 (Paris, 1937-
38). Avremo agio di citare alcuni di questi trattati. Intanto per altre notizie
bibliografiche dello stesso tipo si vedano: A. H. Krappe, The Science of
Folklore, (London, 1930) (utilissimo per la bibliografia con cui si chiude
ciascun capitolo); G. Jungebauer, Geschichte der deutschen Volkskunde
(Praga, 1931); A. Haberlandt, Die deutsche Volkskunde (Halle, 1935); R.
Corso, Folklore (Napoli, 19432); e P. Toschi, Guida allo studio delle
tradizioni popolari (Roma, 19482). Sulla natura storica del folklore e sui
problemi che essa comporta si veda G. Cocchiara, Storia degli studi delle
tradizioni popolari in Italia (Palermo, 1947). Da integrare, per quanto
riguarda i rapporti fra folklore ed etnologia, con E. De Martino,
Naturalismo e storicismo nell’etnologia (Bari, 1941). Rimandi: P.
Saintyves, Les origines de la méthode comparative et la naissance du
folklore, «Revue de l’Histoire des Religions», 45 sgg. (1932); e A. Gramsci,
Letteratura e vita nazionale, 140 sgg. (Torino, 1951).

PARTE PRIMA
Capitolo primo

1. Sulla origine e sulla formazione del mito del buon selvaggio esiste ormai
tutta un’ampia letteratura, la quale di recente è stata passata in rassegna da
G. Cocchiara, Il mito del buon selvaggio (Messina, 1948). Si aggiungono:
N. H. Fairchild, The Noble Savage (New York, 1928), e A. Gerbi, Viejas
polemicas sobre el Nuevo Mundo (Lima, 1946). È merito del Fueter, Storia
della storiografia moderna, trad. Spinelli, 1, 350 (Napoli, 1944), l’aver
messo in risalto l’opera del Martire. Sul de Léry si veda invece R. Allier, Le
non-civilisé et nous (Paris, 1927 sgg.). Discordanti ancor oggi i pareri
intorno alla attività di Bartolomé de Las Casas. Sul quale si vedano, ad
esempio, E. B. Teran, La nascita dell’America, trad. Doria (Bari, 1939) (che
gli è favorevole) e R. Menéndez Pidal, Poesia araba e poesia europea, trad.
Ruggero (Bari, 1949) (che gli è stranamente contrario). Rimandi: J. G.
Frazer, The Golden Bough, 1: The Magic Art and the Evolution of Kings, p.
XXV (London, 1911).

2-4. L’opinione che il mito del buon selvaggio coincida con quello dell’età
dell’oro è stata formulata dal Gonnard, La legende du bon sauvage (Paris,
1946). Il Clerc, Le voyage de Jean de Léry et la découverte du «bon
sauvage», «Revue de l’Institut de Sociologie» (Bruxelles, 1927), se da una
parte mette in rilievo i rapporti fra Léry e Montaigne, dall’altra ritiene che il
mito del buon selvaggio sia stato formulato dallo stesso Léry. Ma si tratta di
una pretesa senza fondamento, poiché se i selvaggi americani sono ritenuti
buoni e pacifici dallo stesso Colombo o soprattutto dal Gonneville (1503-
1505), il loro mito è già formulato chiaramente in pensatori come il Martire
e il Las Casas. Si veda in proposito il bel libro Les François en Amérique
pendant le première moitié du XVI e siècle, a cura di C. A. Julien, R. Herval,
T. Beauchesne (Paris, 1946). Sul concetto che il Montaigne ebbe intorno ai
selvaggi si vedano: G. Chinard, L’exotisme américain dans la littérature
française au XVI e siècle (Paris, 1911), e L’Amérique et le rêve exotique
(Paris, 1934); G. Atkinson, Les nouveaux horizons de la Renaissance
Française (Paris, 1935); G. Toffanin, Montaigne e l’idea classica (Bologna,
1942); e G. Lawson, Les «Essais» de Montaigne, 150 sgg. (Paris, 1948). Al
Lescarbot dedica pagine un po’ aspre A. Bros, L’ethnologie religieuse, 129
sgg. (Paris, 19382).

5. Sul barone de La Hontan si vedano le gustose pagine di P. Hazard, La


crisi della coscienza europea, trad. Serini, 13 sgg. (Torino, 1946), e La
pensée européenne au XVIII e siècle, 2, 126 sgg. (Paris, 1946). Sulle utopie
esiste tutta una letteratura che di recente è stata passata in rassegna da C.
curcio, Utopisti italiani del Cinquecento, scelti ed annotati, 30-32 (Roma,
1944). Sulla Utopia di Tommaso Moro ritenuto come testo religioso ha
buone osservazioni M. Petrocchi, L’uomo e la Storia, 7 sgg. (Bologna,
1944). Si veda anche F. Battaglia, Saggi sull’Utopia di Tommaso Moro, 43
sgg. (Bologna, 1949). Da tenere presente infine le acute pagine di A.
Gramsci, Il Risorgimento, 217 sgg. (Torino, 1949). Il Gramsci è dell’avviso
che «dalle utopie sarebbe derivata la moda di attribuire a popoli stranieri le
istituzioni che si desidererebbero nel proprio paese», e ritiene inoltre che
«tutta questa letteratura ha avuto non piccola importanza nella storia della
diffusione delle opinioni politiche e sociali fra determinate masse, e quindi
nella storia della cultura». Rimandi: G. Salvemini, La Rivoluzione francese,
58 (Milano, 19473).

6-7. Sull’atteggiamento dei primi missionari in rapporto alla religione dei


primitivi si cfr., per tutti, A. bros, op. cit., 27 sgg., e G. Koppers, La
religione dell’uomo primitivo, 20 sgg. (Milano, 1947). Su Pigafetta si veda
C. Manfroni, in Pigafetta, Il primo viaggio intorno al mondo, 117 sgg.
(Milano, 1939). Da tenere presente l’opera di F. Mazzei, Recherches
historiques et politiques sur les Etats-Unis de l’Amérique, 3 (Paris, 1788),
dove è riportato un interessantissimo opuscolo del condorcet, Influence de
la Révolution de l’Amérique sur l’Europe, in cui si discorre con acume dei
vantaggi e degli svantaggi che la scoperta dell’America arrecò all’Europa.
Rimandi: A. Gerbi, La politica del Settecento, 50 (Bari, 1934).

8. Sul concetto di Europa inteso come individualità storica chiari e


penetranti i saggi di F. Chabod, L’idea di Europa, «La Rassegna d’Italia», 4,
4 sgg. (1947), e di C. Morandi, L’idea dell’unità politica d’Europa nel XIX e
XX secolo (Milano, 1948). È nota la tesi dell’Eliot, Notes towards the
definition of Culture, 123-24 (London, 1948), il quale ritiene che le basi
della cultura europea vanno cercate, oltre che nel mondo classico e nei testi
dell’antica Rivelazione, nella moderna idea dell’uomo. Rimandi: C.
Dawson, La formazione dell’unità di Europa dal secolo V al secolo XI, trad.
Pavese, 3 sgg. (Torino, 1939); e Progresso e religione, trad. Foà, 193
(Milano, 1948).
Capitolo secondo

1. Per conoscere quale importanza abbiano assunto, nell’Europa del Cinque


e Seicento, i viaggi compiuti in Oriente, si cfr. G. Dugat, Histoire des
Orienta-listes de l’Europe du XII e au XIX e siècle (Paris, 1868-1870).
Sempre utilissimo: P. Martino, L’Orient dans la littérature française au XVII
e et au XVIII e siècle (Paris, 1906). Si aggiunga, per qualche utile richiamo:
W. Schubart, L’Europa e l’anima dell’Oriente, trad. Gentilli (Roma, 1947),
e G. Tucci, Italia e Oriente (Milano, 1949). Rimandi: P. Hazard, La crisi
della coscienza europea, trad. Serini, 13 sgg. (Torino, 1946); e F. Gabrieli,
Storia e civiltà musulmana, 73 sgg. (Napoli, 1947).

2. Esiste su Pietro della Valle una interessante Vita premessa da G. B.


Bellori all’ed. 1658-1663 dei Viaggi. Buone osservazioni sulle sue attitudini
di etnografo in G. Pennisi, P. della V. e i suoi viaggi in Turchia, Persia e
India, «Boll. Soc. Geogr. It.» (nov.-dic. 1890); e in L. Bianconi, che ha
curato P. della Valle, Viaggio in Levante (Firenze, 1942). Dei numerosi
manoscritti che il Della Valle portò dall’Oriente alcuni furono conosciuti
dal Kirker (come, ad esempio, la prima grammatica e il primo dizionario
copto) che ne fece tesoro nel suo Prodromus Coptus sive Aegyptiacus
(Roma, 1636).

3. Il Bartoli fino ad oggi è stato soprattutto considerato come un prosatore,


mai come un etnografo da tavolino. Su di lui si veda G. Marzot, Premessa a
D. Bartoli, La missione al gran Mogor (Milano, 1946). Si veda pure L.
Anceschi, La poetica di una «certa beatitudine del gusto», nel suo libro
Civiltà delle lettere (Milano, 1945). Sul Ricci: H. Cordier, Histoire générale
de la Chine, 3, 318 sgg. (Paris, 1920); Opere storiche di P. Matteo Ricci, a
cura del P. Tacchi Venturi (Macerata, 1911-13). Sul De Nobili è sempre
utile l’opera del Bertrand, Mém. hist. sur les missions des ordres relig., 286
sgg. (Paris, 18622). Per la polemica dei riti malabarici e cinesi si vedano i
lavori di H. Pinard de la Boullaye, L’étude comparée des religions, 1, 184
(Paris, 1922), e di V. Pinot, La Chine et la formation de l’esprit
philosophique en France, 1640-1740 (Paris, 1932).
4. Al Marana ha dedicato pagine vive P. Toldo, «Giornale Storico della
Letteratura Italiana», 46 sgg. (1897). Sul Chinard si veda, invece, il recente
lavoro di G. L. von Roosbroeck, Persian Letters before Montesquieu (New
York, 1932). Altre notizie nel saggio del Dodds, Les récits de voyages.
Sources de l’Esprit des Lois de Montesquieu (Paris, 1929).

5. L’importanza che l’Egitto assume nel campo dell’etnografia è stata messa


in luce dal Pinard de la Boullaye, op. cit., 1, 232 sgg. Altre notizie in J.
Reville, Les phases successives de l’histoire des religions (Paris, 1909).

6. Alla moda francese dei conti di fata e ai suoi precedenti storici ha


dedicato un bel libro M. E. Storer, La mode des contes des fées (Paris,
1928). Sull’Huet si veda, invece, A. Dupront, P.-D. Huet et l’exégèse
comparatiste au XVII e siècle (Paris, 1931). Sui novellisti italiani (Straparola,
Basile ecc.) si veda G. Cocchiara, Genesi di leggende, 10 sgg. (Palermo,
19493).

7. Uno dei saggi più limpidi che siano stati dedicati alle Mille e una notte è
quello di F. Gabrieli, Storia e civiltà musulmana, 99 sgg. (rielaborato e
ripubblicato nella prima trad. italiana delle Mille e una notte, a cura dello
stesso Gabrieli, Torino, 1949).

8. Sulle varie storie delle religioni, nate dall’incontro degli studi orientali
con quelli primitivi e comunque dovute all’affinamento degli stessi studi
orientali, si veda Pinard de la Boullaye, op. cit., 1, 170 sgg. Lo Spencer è
stato considerato come il fondatore della storia comparata della religione da
Robertson Smith, Lectures on the Religion of Semites (London, 18942).
Contro: G. Schmidt, Manuale di storia comparata delle religioni, trad.
Bugatto, 42 (Brescia, 1934). Rimandi: A. Van Gennep, L’exotisme dans la
littérature française du XVI e au XVIII e siècle, in Religions, Mœurs et
Légendes, 5, 100 (Paris, 1914).
Capitolo terzo

1. Sulla lotta contro gli errori, quale venne affrontata dopo la conquista del
l’America, è sempre utile consultare il lavoro di J. L. Castilhon, Essai sur
les erreurs et les superstitions (Paris, 1765). Il problema è trattato con ben
altro criterio da P. Hazard, La crisi della coscienza europea, trad. Serini,
125-229 (Torino, 1946).

2. In genere non si da molta importanza all’influsso che la Riforma ha


esercitato nel campo del folklore. Ad ogni modo chi voglia dare il
necessario sfondo a tale ricerca può ricorrere al lavoro di E. Troeltsch, Il
protestantesimo nella formazione del mondo moderno, trad. it. (Firenze,
1929). Da integrare coi saggi di F. Battaglia, Lo spirito politico della
Riforma, «La Cultura» (1928), e di C. Morandi, Problemi storici della
Riforma, «Civiltà Moderna», 1, 668 sgg. (1929) (dove è citata la bibl.
essenziale dell’argomento). Sui rapporti fra la Riforma e gli studi di storia
delle religioni, si veda Pinard de la Boullaye, L’étude comparée des
religions, 1, 151 sgg. (Paris, 1922); e G. Schmidt, Manuale di storia
comparata delle religioni, trad. Bugatto, 42 sgg. (Brescia, 1934) (dove si
hanno cenni anche dell’opera degli umanisti citati). Sul Vossio si veda A.
Bros, L’ethnologie religieuse, 23-24 (Paris, 19382). È da notare che la teoria
naturistà del Vossio fu seguita da un celebre avversario del Bossuet, Jurieu,
autore di una bizzarra Histoire critique des dogmes et des cultes de l’Eglise
depuis Adam jusqu’à Jésus-Christ (Amsterdam, 1704).

3. Sulla Controriforma si veda G. Gothein, L’età della controriforma, trad.


Thiel (Venezia, 1928). Da integrare con B. Croce, Storia dell’età barocca in
Italia (Bari, 19413), e per quanto riguarda la credenza nelle streghe con S.
A. Nulli, I processi delle streghe (Torino, 1939). Del Malleus ci ha dato
recente mente una buona traduzione inglese, purtroppo in pochi esemplari,
un dotto folklorista inglese, il Montague-Summers (London, 1928). Altre
notizie sul Malleus in G. Bonomo, Il Malleus Maleficarum, «Annali del
Museo Pitrè», 1 (Palermo, 1950). Rimandi: J. Michelet, La sorcière, 31
(Paris, 18782).

4-5. Una delle più penetranti ricerche dedicate al Bodin è quella di A.


Garosci, J. Bodin (Milano, 1934). Di particolare interesse sono comunque
per il concetto che il B. ebbe intorno al diritto e alla religione naturale: G.
del Vecchio, Il concetto di natura e il principio del diritto (Bologna, 19222);
e G. Radetti, Il problema della religione nel pensiero di G. Bodin, «G.
critico della filosofia italiana», 19, 267-268 (1938). Il Bodin, come può
immaginarsi, compare in tutti i trattati di demonologia che uscirono dopo la
sua Démonomanie des sorciers. Altre notizie in G. Santonastaso, La
sovranità del Bodin, in Le Dottrine politiche da Lutero a Suarez, 3 (Milano,
1946). Sullo Spee si veda S. A. Nulli, op. cit., 20 sgg. Sul Browne si veda,
per tutti, M. Praz, Studi e svaghi inglesi, 3 sgg. (Firenze, 1937). Sullo Sprat:
G. M. Trevelyan, Storia della società inglese, trad. Morra, 329 sgg. (Torino,
1948). Curiose e interessanti notizie sulla credenza nelle fate si trovano nel
vecchio libro del Maury, Les fées du moyen âge (Paris, 1843).

6. Al Bekker e al Thomas dedica pagine vivaci P. Hazard, op. cit., 179 sgg.
Per maggiori particolari si vedano l’agile monografia di W. P. C. Knuttel,
Balthasar Bekker (den Haag, 1906); e il vivace studio di F. Battaglia, C.
Thomas, filosofo e giurista (Roma, 1935). Sui precedenti del diritto naturale
può essere sempre utile G. Montemayor, Storia del diritto naturale
(Palermo, 1911). Con maggiore impegno: E. Restivo, La filosofia del diritto
di natura (Palermo, 1902); e O. Gierke, G. Althusius e lo sviluppo storico
delle teorie politiche giusnaturalistiche, a cura di A. Giolitti (Torino, 1943);
e G. Corsano, Ugo Grozio (Bari, 1948).

7. Sul Cherbury si veda A. Carlini, Herbert di Cherbury e la scuola di


Cambridge, «Rend. Accademia Lincei» (1917); e G. de Ruggiero, Storia
della filosofia, parte III: Rinascimento, riforma e controriforma, 2, 260 sgg.
(Bari, 19372). Sul deismo si vedano L. Stephen, History of English Thought
in the 18th Century, 1, 200 sgg. (London, 19022); E. Troeltsch, Deismus, in
Ges. Schrif., 4, 429 sgg.; E. Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo, trad.
Pocar, 246 sgg. (Firenze, 19452); e C. Dentice D’Accadia, Il
preilluminismo, «G. critico della filosofia italiana» (1928). Sull’antideismo
è opportuno consultare la nota monografia del Butler, The Analogy of
Religion, Natural and Revealed, to the Constitution and Course of Nature
(London, 1736). M. Petrocchi, «Riv. Storica It.», 61, 142 (1949), è
dell’avviso che bisogna ravvisare l’avvio delle soluzioni deistiche nel
rispetto che hanno avuto molti missionari, specialmente i gesuiti, per alcune
religioni naturali (il che gli fa ricordare la questione dei riti malabarici).

8. Sul Thiers e su Le Brun si vedano A. Van Gennep, Folklore, 13 sgg.


(Paris, 1924) e Manuel de folklore français contemporain, 1, 6 sgg. (Paris,
1937-38). Sui precursori inglesi si veda T. Davidson, Le folklore en
Angleterre, «La Tradition», 4, 5-8, 33-36 (1890).
Capitolo quarto

1. Esiste del Bayle tutta una vasta letteratura, la quale però molto di rado ha
messo in luce quanto debbono a lui gli studi del folklore. Fra i saggi più
interessanti si vedano L. Lévy-Bruhl, Les tendences générales de Bayle et
de Fontenelle, «Revue d’Histoire de la Philosophie» (gennaio-marzo 1927);
H. E. Haxo, Pierre Bayle et Voltaire avant les lettres philosophiques
(pubblicazione della Modern Languages Association of America, New
York, 1931); e B. Magnino, Lo scetticismo di P. Bayle, «Giornale critico
della filosofia italiana» (1941) (ripreso in parte nel libro della stessa A., Alle
origini della crisi contemporanea, Roma, 1946). Sull’atteggiamento che il
Bayle ha assunto nei rignardi dei popoli primitivi ha belle pagine il devolvè,
Essai sur P. B., religion, critique et philosophie positive, 395 sgg. (Paris,
1906). A titolo di curiosità si veda H. Robinson, The Great Comet of 1860.
An Episode in the History of Rationalism (Northfield, 1916).

2. Sul concetto di superstizione come elemento di potere si veda G.


Cocchiara, Sul concetto di superstizione, 20 sgg. (Palermo, 1945).
L’argomento è trattato anche dal Robinson, Bayle the Sceptic, 50 sgg.
(London, 1931).

3-4. Al Fontenelle ha dedicato un lavoro dotto e vivace ma unilaterale J.-R.


Carré, La philosophie de Fontenelle (Paris, 1931) (dove è citata la vasta
bibliografia dell’argomento). La migliore ediz. critica dell’Histoire des
Oracles è quella di L. Maigron (Paris, 1908). Dell’Histoire abbiamo una
trad., di cui ci siamo avvalsi, a cura di G. Falco (Milano, 1947). Rimandi: L.
Maigron, Fontenelle, l’homme, l’œuvre, l’influence, 42, 287 (Paris, 1906); e
P. Hazard, La crisi della coscienza europea, trad. Serini, 175 (Torino,
1946).

5-7. Dobbiamo al Carré una recente edizione critica del De l’origine des
fables (Paris, 1932), troppo imbottita e irsuta forse, ma quanto mai utile per
i vasti riferimenti che l’accompagnano. Il Carré nelle sue note si sforza di
dimostrare che le idee manifestate in questo saggio si erano venute
formando nel Fontenelle fin dal 1680. Il che gli permette di considerare il
Fontenelle come il primo precursore del comparativismo, avendo egli così
preceduto il Bayle, il Tournemine ecc. Fatto è però che il comparativismo
aveva già avuto tutta una schiera di anticipatoli (dal Léry al Vossio). Sulle
fonti che hanno portato il Fontenelle a darci un’interprelazione falsa del
mondo primitivo, convincenti le considerazioni del Carré alle pp. 52-54.
Rimandi: A. Lang, Myth, Ritual and Religion, 2, 321 sgg. (London, 1887).

8. È stato primo il Dilthey, in Gesammelte Schriften, 2 e 3 (Tübingen, 1921


e 1927), a dichiarare faible convenne l’antistoricismo del «secolo dei lumi».
Più cauti il Fueter, Storia della storiografia moderna, trad. Spinelli, 2, 1
sgg. (Napoli, 1944); e B. Croce, Teoria e storia della storiografia, 50 sgg.
(Bari, 1925).
Capitolo quinto

1. Ai lavori citati nell’ultimo paragrafo si aggiunga: M. Roustan, Les


philosophes et la société française au XVIII e siècle (Paris, 1911); e C.
Seignobos, Essai d’une histoire comparée des peuples d’Europe (Paris,
1925). Rimandi: E. Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo, trad. Pocar, 294
sgg. (Firenze, 19452).

2. Per le Lettres Persanes vedi l’acuta introd. di E. Carcassonne, nell’ed.


critica da lui curata (Paris, 1929). Nelle pp. XXXV-XXXVI il Carcassonne
ricorda tutta una serie di lettere che, per bocca di uno straniero, avevano già
tracciato un quadro dei costumi europei. Lo straniero a volte era un
selvaggio, ma spesso era un Turco, un Cinese, un Indiano ecc.

3-4. Sull’Esprit des lois si veda soprattutto il lavoro di Faguet, La politique


comparée de Montesquieu, Rousseau et Voltaire (Paris, 1902). Uno dei libri
più suggestivi dedicati al Montesquieu rimane però quello del Sorel,
Montesquieu (Paris, 1887). Vi è molto di più di quanto il titolo non
prometta in E. Carcassonne, Montesquieu et le problème de la constitution
française (Paris, 1927). È noto come il Montesquieu costituisca un punto di
riferimento indispensabile per tutti coloro che si occupano dell’origine del
diritto o delle dottrine politiche. Si vedano comunque per tutti: G. Solari, La
scuola del diritto naturale nelle dottrine etico-giuridiche dei secoli XVII e
XVIII (Torino, 1904); e G. Mosca, Storia delle dottrine politiche, 150 sgg.
(Bari, 1942). Si aggiunga l’opera recente e tanto utile di L. M. Leroy,
Histoire des idées sociales en France. 1: De Montesquieu à Robespierre
(Paris, 1946). Rimandi: G. Hervé, «Revue de l’Ecole d’Anthropologie»,
337 (1907) (riassunto da A. Van Gennep, La méthode ethnographique en
France au XVIIIe siècle, in Religions, Mœurs et Légen-des, 5, 135-39 (Paris,
1914); e A. Gerbi, La politica del Settecento, 150 (Bari, 1934).

5. È sempre utile per i nostri riferimenti ricorrere ancor oggi all’opera di G.


Desnoiresterres, Voltaire et la société au XXVIII e siècle (Paris, 1867-76).
Altre monografie di rilievo: G. Lanson, Voltaire (Paris, 1906); e R.
Aldington, Voltaire (London, 1926). Rimandi: R. Craveri, Voltaire politico
dell’Illuminismo, 163 (Torino, 1936) (dove è citata la più ampia bibliografia
sul Voltaire, comprese le opere generali sull’Illuminismo). Il passo cit. del
Verri è tolto dal contesto di un Commentariolo di un galantuomo di
malumore che ha ragione, sulla massima l’uomo è un animale ragionevole,
edito originariamente nel «Caffè» e rip. negli Scritti vari, a cura di G.
Carcano, 1, 100 sgg. (Firenze, 1854).

6-7. Sulle tendenze etnografiche del Voltaire imprecise e monche le notizie


dell’Hervé, loc. cit., 225 sgg. Cenni: in E. Fueter, Storia della storiografia
moderna, trad. Spinelli, 2, 28 sgg. (Napoli, 1944); e in G. Cocchiara, Il mito
del buon selvaggio, 17 sgg. (Messina, 1948). Rimandi: A. Gerbi, op. cit.,
134 (dove a pp. 121 sgg. è un rapido quadro, di quel che rappresentò
l’Oriente per l’Illuminismo; da integrare, soprattutto per il concetto che
dell’Oriente aveva lo Hegel, con l’opera di K. Löwith, Da Hegel a
Nietzsche, 63 sgg., Torino, 1949).

8. Sul concetto dello spirito delle nazioni si veda per tutti il bel libro di F.
Meinecke, Cosmopolitismo e Stato nazionale, trad. Oberdorfer (Firenze,
1930). Rimandi: (a proposito della citaz. di Saint-Evremond) C. Antoni, La
lotta contro la ragione, 8 (Firenze, 1942); e B. Groethuysen, Origini dello
spirito borghese in Francia, trad. Forti, 52 (Torino, 1949).

PARTE SECONDA

Capitolo sesto

1-4. Nel Fueter, Storia della storiografia moderna, trad. Spinelli (Napoli,
1944), manca un qualsiasi accenno all’opera del Lafitau, alla quale invece
ha dedicato la sua attenzione il Meinecke, Die Entstehung des Historismus
(Ber-lin, 1936). Il M. mette soprattutto in rilievo l’impressione suscitata in
Europa dalle notizie del Lafitau inerenti al mondo primitivo. Ma non è qui
che va ricercata la validità dell’opera del Lafitau, ampiamente illustrata da
Padre G. Schmidt, Semaine de l’Ethnologie religieuse (Paris, 1913) (il
quale però immobilizza il Lafitau in quella che è la sua opinione più
discutibile, e che cioè i selvaggi sono ancor oggi quel che erano ieri); dal
Bros, L’ethnologie religieuse, 120 sgg. (Paris, 19382); dal Saintyves, Les
origines de la méthode comparative, et la naissance du folklore, «Revue de
l’Histoire des Religions», 57 sgg. (1932); e dal Pinard de la Boullaye,
L’étude comparée des religions, 1, 182 sgg. (Paris, 1922). Rimandi: B. de
Juvenel, Il potere, trad. Serini, 7 (Milano, 1947); G. Van der Leuw, La
religion dans son essence et ses manifestations, trad. Marty, 672 (Paris,
1948); e A. Van Gennep, Religions, Mœurs et Légendes, 5, 130 sgg. (Paris,
1914).

5-7. La bibliografia vichiana è stata passata recentemente in rassegna dal


Croce e dal Nicolini nei due voll. Bibliografia vichiana (Napoli, 1948). In
essa sono anche citati i contributi sull’apporto che il Vico ha dato tanto
all’etnologia quanto al folklore. Il lettore che vuole approfondire questo
contributo vichiano può comunque vedere: B. Croce, La Filosofia di G. B.
Vico (Bari, 1922); A. Corsano, Umanesimo e religione in G. B. Vico (Bari,
1935); E. Paci, Sylva ingens (Milano, 1949); e G. Villa, La filosofia del mito
secondo G. B. Vico (Milano, 1949). In quest’ultimo lavoro (sul quale si
vedano i rilievi di N. Badaloni, «Società», 5, 561-62 (1949)), v’è un saggio,
Il Problema filosofico dell’arte popolare con particolare riferimento alla
Romania, 81-107, dove l’A. sulle orme dello Jorga, distingue nettamente la
poesia popolare dal folklore: il che è un’opinione gratuita. Il Villa ritiene
inoltre, ad esempio, che l’arte popolare viva al di fuori della storia: il che
significa non avere un concetto né della storia né dell’arte. Rimandi: M.
Fubini, Stile e umanità di G. B. Vico, 203 sgg. (Bari, 1946) (rec. di R.
Spongano, La prosa di Galileo e altri scritti, 117 sgg., Messina, 1949) e F.
Nicolini, La religiosità di G. B. Vico, 170 sgg. (Bari, 1949).

8. Sull’ampio apporto dato agli studi delle tradizioni popolari dal Muratori
si veda G. Cocchiara, Storia degli studi delle tradizioni popolari in Italia,
34-41 (Palermo, 1947). Si aggiunga: B. Brunello, Il pensiero politico del
Settecento, 100 sgg. (Milano, 1942); L. salvatorelli, Il pensiero politico
italiano dal 1700 al 1870, 90 sgg. (Torino, 19492); e G. Bonomo, Il
contributo di L. A. Muratori allo studio delle tradizioni popolari, in
Miscellanea di studi muratoriani (Modena, 1951).
Capitolo settimo

1-3. Manca uno studio completo che illustri e documenti l’interesse del
Rousseau tanto per l’etnologia quanto per il folklore. Si vedano comunque
su di lui i recenti lavori dello Schinz, La Pensée de J.-J. Rousseau, 50 sgg.
(Paris, 1929); del Wrighter, The Meaning of Rousseau (Oxford, 1929). Sul
Rousseau etnologo: G. Cocchiara, Il mito del buon selvaggio, 15 sgg.
(Messina, 1948). Buone pagine, sempre sullo stesso argomento, in G.
Ferretti, L’uomo nell’infanzia (Città di Castello, s. d.); L. Grosso, Leopardi,
Stendhal e Nietzsche, 151 sgg. (Napoli, 1933); e C. Dawson, Progresso e
Religione, trad. Foà (Milano, 1948). Per le fonti etnografiche: A. Van
Gennep, Religions, Mœurs et Légendes, 5, 141-47 (Paris, 1914). Rimandi:
E. Cassirer, Das problem J.-J. Rousseau, «Arch. f. Gesch. der Philosophie»,
42 (1930); e O. Vossler, L’idea di Nazione dal Rousseau al Ranke, trad.
Federici Airoldi, 13-39 (Firenze, 1949).

4. Del Goguet traccia un brillante profilo il Van Gennep, op. cit., 5, 154-
156. R. Schmidt, L’anima dei primitivi, trad. it., 12 (Roma, 1931), avvicina,
e non senza ragione, il Condorcet dell’Esquisse al Goguet. Il Sébillot, Le
Paganisme contemporain chez les peuples celto-latins, 50 (Paris, 1908),
ebbe già ad osservare che gli enciclopedisti non fecero entrare nel ciclo
dello loro ricerche lo studio delle superstizioni e della «mitologia rustica».
Sul che si veda anche A. Van Gennep, Manuel de folklore français
contemporain, 1, 12-13 (Paris, 1937-38). Un esame attento rivela infondata
l’osservazione del Sébillot. Si veda, ad esempio, in proposito: F. Venturi, Le
origini dell’Enciclopedia, 103 sgg. (Firenze, 1946).

5. Ampia invece la bibl. su Charles de Brosses il cui nome è ricordato in


tutte le storie degli studi di religione. Si veda, ad esempio, G. Schmidt,
Manuale di storia comparata delle religioni, trad. Bugatto, 85-91 (Brescia,
1934). Inesatta la notizia del Bros, L’ethnologie religieuse, 149 (Paris,
19382), il quale ritiene che il Brosses non conosca Lafitau.

6-8. Sul Boulanger si veda, per tutti, il bel libro di F. Venturi, L’antichità
svelata e l’idea del progresso in N. A. Boulanger (Bari, 1947) (in particolar
modo le pp. 124-140, dove è ricordata tutta la bibl. dell’argomento). Si
aggiunga A. Van Gennep, op. cit., 5, 179-201. Ivi 3, 21-32, un saggio sul
Demounier. Rimandi: G. F. Finetti, Difesa dell’autorità della Sacra
Scrittura contro G. B. Vico, dissertazione del 1768, con intr. di B. Croce, 21
(Bari, 1936); e Lettere inedite di B. Tanucci a F. Galiani, a cura di F.
Nicolini, «Arch. storico per le provincie napoletane», 30, 233 sgg.
Capitolo ottavo

1-3. Sul movimento preromantico in genere quale esso ci si presenta


soprattutto nei suoi caratteri letterari si vedano i tre volumi di P. Van
Tieghem, Le Préromantisme. Etudes d’histoire litt. européenne (Paris,
1948). Da integrare con il libro di H. A. Beers, A History of English
Romanticism in the Eigtheenth Century (London, 1926) (dove il lettore
troverà, fino a quell’anno, la più completa bibliografia inerente all’Ossian e
alle Reliques). Fra la vasta bibliografia cui ha dato luogo l’opera del
Macpherson fondamentali i lavori di R. tombo, Ossian in Germany (New
York, 1902); e del Van Tieghem, Ossian en France (Paris, 1917) (dello
stesso A. si veda, però, l’importante saggio – ora incluso con il titolo
modificato nel cit. Préromantisme, 1, 197-277 – Ossian et l’Ossianisme
dans la littérature européenne au XVIII e siècle (den Haag, 1920). Da
consultare anche, ma con molta cautela, A. Farinelli, Il romanticismo nel
mondo latino (Torino, 1927). Sull’influsso che l’Ossian ha esercitato sulla
poesia inglese, si veda inoltre il recente e acuto saggio di J. Lindsay, The
Modern Quarterly Miscellany No. 1 (London, 1948). Per l’influsso che
l’Ossian esercitò in Italia, oltre il Marzot, Il gran Cesarotti (Firenze, 1949),
si veda l’acuto volume di W. Binni, Preromanticismo italiano, 40 sgg.
(Napoli, 1948).

4. Le prime raccolte di poesia popolare fatte in Inghilterra sono passate in


rassegna dal Child, English and Scottish Popular Ballads (Boston, 1882-
98). Lavori critici, fra i più importanti: S. B. Hustvedt, Ballad Criticism in
Scandinavia and Great Britain during the 18th Century (New York, 1916);
E. B. Reed, Addison and the Old English Ballads, «Modera Philology», 6,
186 sgg. (1908-09); e E. A. H. Broadus, Addison’s Influence on the
Development of Interest in Folk-poetry of the 18th Century, «Modern
Philology», 8, 50 sgg. (1910). Per le raccolte di poesia popolare spagmiola
si veda invece, per tutti, A. Duran, Romancero General, 1, p. LXVII
(Madrid, 1849). Rimandi: C. de Lollis, Saggi sulla forma poetica
dell’Ottocento, a cura di B. Croce, 52 (Torino, 1929).

5-8. Alle Reliques sono stati dedicati ampi studi. Fra i più importanti: M.
Willinski, Bishof Percy’s Bearbeitung des Volksballaden und Kunstgedichte
seines Folio-Manuscriptes (Leipzig, 1932); e C. V. H. Marwell, Thomas
Percy, Diss. Gottingen (1934). Per maggiori dettagli si veda, però, la ricca
bibl. che in proposito ci da il Baldi, Studi sulla poesia popolare
d’Inghilterra e di Scozia (Roma, 1949). Rimandi: S. Baldi, ibidem, 42-58,
67; e F. Meinecke, Senso storico e significato della storia, trad. Mandalari,
158 (Napoli, 1948). La frase del Wordsworth è tolta dalla appendice che
segue la prefazione delle Lyrical Ballads quali apparvero nella seconda
ediz. L’immagine della poesia popolare che viene chiamata a rinsanguare e
a rinfrescare la poesia senza aggettivi è del De Sanctis, il quale nella sua
Giovinezza (cap. XXV) ha questa pagina quanto mai significativa: «Parlai
della poesia solenne e della poesia popolare. Mostrai che il cammino delle
forme poetiche è determinato dalla civiltà, e si va sempre verso la maggiore
libertà di congegno e verso la maggiore popolarità. A quel modo che la
lingua, arricchendosi, va sempre più rompendo i suoi nativi confini, e si va
sempre più accostando alle forme popolari del dialetto; a quello stesso
modo la poesia produce con più libertà nelle sue forme, e si rinfresca e si
rinsangua dell’immaginazione popolare».
Capitolo nono
1. Sull’azione mediatrice della Svizzera, oltre ai citati lavori del Van
Tieghem, si veda l’acuto saggio di F. Ernst, La tradition médiatrice de la
Suisse au XVIII e siècle et au XIX e siècle, «Revue de Liner. Comp.», 6, 549-
60 (1926). Su B. de M.: F. Meinecke, Die Entstehung des Historismus, 1, 2
sgg. (Berlin, 1936); e C. Antoni, La lotta contro la ragione, 7-12 (Firenze,
1942). La tesi che B. de M. ci abbia dato il primo e famoso esempio di
esegesi inerente al carattere dei popoli è di M. Fubini, Stile e umanità di G.
B. Vico, 171 (Bari, 1946).

2. Allo Haller ha dedicato un ampio saggio il Farinelli, A. v. H., in L’opera


di un maestro, 224-25 (Torino, 1920). Altre notizie in C. Antoni, op. cit.,
16-19 (dove si trova una ampia bibliografia sull’argomento). Si aggiunga
per il fascino che le Alpi hanno esercitato sui poeti e sugli scrittori: J.
Grand-Carteret, La montagne à travers les âges (Grenoble, 1903-04).
Rimandi: P. Hazard, La crisi della coscienza europea, trad. Serini, 438
(Torino, 1946).

3-5. Il Bodmer è noto da noi soprattutto come precursore dell’estetica


moderna. Si vedano, per tutti, B. Croce, L’efficacia dell’estetica italiana
sulle origini dell’estetica tedesca, in Problemi di estetica, 374-93 (Bari,
19232), e La poesia di Dante, 177 (Bari, 1929). Al Bodmer storico ha
dedicato di recente un buon saggio l’Antoni, op. cit., 19-33 (cui rimando
per la bibl.). Altre notizie in R. Feller, Die schweizerische
Geschichtschreibung im 19. Jahrhundert, mit Beiträgen von G. Zoppi e J.
R. Salis (Ziirich, 1938) (dove si trova anche un’ampia trattazione del
Mallet). Cenni vaghi in R. Weiss, Volkskunde der Schweiz, 395 (Zürich,
1946). Il Weiss considera come fondatore del folklore svizzero R. Cysat
(1545-1614).

6. La più recente monografia dedicata al Möser è quella di P. Klassen,


Justus Möser (Frankfurt a. M., 1936), recensita in Italia dall’Antoni,
Considerazioni su Hegel e Marx, 285 sgg. (Napoli, 1946). Allo stesso
Klassen dobbiamo un’accurata antologia degli scritti del Möser, Deutsche
Staatskunst und Nationalerziehung (Leipzig, 1939), recensita da A.
Omodeo, Il senso della storia, 464 sgg. (Torino, 1949). Altre notizie in A.
Gerbi, La politica del romanticismo, 20 sgg. (Bari, 1932). Da integrare con
C. Antoni, op. cit., 64-97.

7. Sul Müller, oltre al Feller, op. cit. (che lo mette in rapporto col Mallet e
col Sismondi), si veda soprattutto E. Fueter, Storia della storiografia
moderna, trad. Spinelli, 2, 47 (Napoli, 1944). Il giudizio del De Sanctis
sullo Schiller è nei Saggi critici, e precisamente nel saggio dedicato a
Giambattista Niccolini.

8. Sulla distinzione fra popolo e nazione si veda, per tutti, J. Meinecke,


Cosmopolitismo e Stato nazionale, trad. Oberdorfer, 1, 22 sgg. (Firenze,
1930). Sul «genio dei popoli» si veda E. Restivo, Il genio dei popoli e il
fattore predominante nella loro storia (Trani, 1910).
Capitolo decimo

1. Esiste sullo Sturm und Drang una vasta letteratura che nel 1923 è stata
passata in rassegna da V. Santoli in appendice alla sua traduzione di O.
Walzel, Il Romanticismo tedesco (Firenze, 1923). Si integri però con la
bibliografia più recente che ci da L. Bäte, J. G. Herder (Stuttgart, 1948).
Dello Herder si vedano Sämtliche Werke, a cura di B. Suphan (Berlin, 1877-
1910, 32 Bd.). Opere principali sullo Herder, di cui abbiamo tenuto conto:
C. Joret, H. et la Renaissance littéraire de l’Allemagne (Paris, 1875); K.
Stadelmann, Der historische Sinn bei Herder (Halle, 1928); W.
Kohlschmidt, Herder-Studien (Berlin, 1929); A. Gillies, Herder und Ossian
(Berlin, 1933). Riferimenti: F. Meinecke, Senso storico e significato della
storia, a cura di Mandalori, 60 (Napoli, 1948); e C. Antoni, La lotta contro
la ragione, 152 (Firenze, 1942).

2. Sul primitivismo dello Herder si veda G. Cocchiara, Il mito del buon


selvaggio, 15 sgg. (Messina, 1948). Riferimenti: A. Gerbi, La politica del
romanticismo, 158 sgg. (Bari, 1932); F. Venturi, L’antichità svelata e l’idea
del progresso in N. A. Boulanger, 146 (Bari, 1947) (dove si trova anche un
acuto ragguaglio fra lo Herder e il Boulanger). Sui rapporti fra Herder e
Goethe si vedano, oltre il lavoro dello stesso Goethe, Poesia e verità, in
Opere, a cura di L. Mazzucchetti, 1, 967-72 (Firenze, 1943); i Colloqui con
Goethe dello Eckermann, s. v. Herder. La citata lettera del Goethe a Herder
è in Goethe, Briefe, 2, 262 (ed. Weimar) (cit. in parte dal Cassirer, La
filosofia dell’Illuminismo, trad. Pocar, 187, Firenze, 19452).

3. Sullo Herder studioso della lingua si vedano B. Croce, Estetica (Bari,


1941); e A. Pagliaro, Sommario di linguistica ario-europea, 1, 35 sgg.
(Roma, 1930). Sui rapporti fra Herder e Vico si veda K. Vossler, Lingua e
Nazione in Italia e in Germania, 21 sgg. (Firenze, 1936). Il de Ruggiero
nella sua Storia della filosofia, parte IV: La filosofia moderna, 4: L’età del
Romanticismo, 83 (Bari, 1943), non esita ad anteporre lo stesso Herder a
Humboldt, che è dai più considerato come il fondatore della linguistica
moderna». Di contro il lupi (in J. G. Hamann, Scritti e frammenti d’estetica,
intr., vers. e note, Firenze, 1938), rivendica tale merito allo Hamann. Sta di
fatto, però, che il problema sul l’origine della lingua posto tanto dallo
Herder quanto dallo Hamann era un problema quanto mai vivo nella loro
epoca. Non si può negare tuttavia che lo Hamann l’abbia posto su un piano
diverso di quanto non abbiano fatto i suoi predecessori, tanto è vero che egli
fu il primo non solo a classificare i linguaggi del mondo ma a ridurli ad
alcune classi fondamentali. Not. bibl.: si veda, per tutti, E. Cassirer, Saggio
sull’uomo, trad. Pavolini, 179 sgg. (Milano, 1949).

4-5. Sul concetto che lo Herder ebbe della poesia popolare e sulle raccolte
che precedono i suoi Volkslieder, si veda la importantissima introduzione di
E. Meyer in Herder, Stimmen der Völker, a cura dello stesso Meyer
(Stuttgart, 1887). Si aggiunga: B. Croce, La forma primitiva della poesia
secondo Hamann e Herder, in Conversazioni critiche, 1, 53-58 (Bari,
19242). Dello stesso Croce (anche per i riferimenti al Bürger) si veda pure
Poesia popolare e poesia d’arte, 14 sgg. (Bari, 1938). Sui rapporti fra
Herder e Wolf, si vedano le acute considerazioni di M. Bréal, Pour mieux
connaître Homère (Paris, 1906), e di P. Levy, Geschichte des Begriffes
Volkslied (Berlin, 1911). Da integrare con B. Croce, Il Vico e la critica
omerica, in Saggio sullo Hegel, 263, 76 (Bari, 19273). Per altre notizie: la
prefazione di A. Galletti a G. Berchet, Lettera semiseria di Grisostomo
(Lanciano, 1913). Riferimenti: E. Cassirer, Philosophie der symbolischen
Formen, 1: Die Sprache, 123 sgg. (Berlin, 1923).

6-7. Sul concetto che lo Herder ha intorno alla tradizione, intesa questa in
senso religioso, si veda, per tutti, G. Van der Leeuw, La religion dans son
essence et ses manifestations, trad. Marty, 676 sgg. (Paris, 1948). Sulla
metamorfosi herderiana ha ottime pagine C. Antoni, op. cit., 171 sgg. Sui
rapporti fra nazione e umanità quali furono intesi dallo Herder si veda A.
Farinelli, Herder e il concetto della razza nella storia dello spirito, in
Franche parole alla mia nazione (Torino, 1949). Sulla missione del popolo
tedesco: R. Mondolfo, Il primo assertore della missione germanica, «Riv. d.
nazioni latine» (giugno 1918). Da integrare con H. O. Ziegler, Die Moderne
Nation, 50 sgg. (Tübingen, 1931); e P. Viereck, Dai romantici a Hitler, trad.
Astrologo e Pintor, 67 sgg. (Torino, 1948). Il Viereck è convinto che senza
lo Herder «il culto nazista e wagneriano del popolo organico e istintivo non
avrebbe potuto esistere», ma aggiunge che «nella Germania di Hitler lo
Herder sarebbe stato imprigionato come un pacifista e un internazionalista»
(p. 69). Il fatto è che questi rapporti sono sempre vaghi e superficiali in
quanto non tengono conto di un principio: cioè che gli ideali di un’epoca
possono degenerare in un’altra. Si vedano in, proposito le considerazioni di
G. Barbagallo, Come si generò il nazismo, «Nuova Rivista Storica», 2 sgg.
(1944-1945). Riferimenti: la Romantische Schule di H. Heyne fu pubblicata
nel 1836; trad. it., 41 sgg. (Roma, 1927). Su Christian Heyne si veda, per
tutti, A. Bernardini e G. Righi, Il concetto di filologia e di cultura classica
nel pensiero moderno, 233 sgg. (Bari, 1947). È noto per altro che fin dal
1765 lo Heyne, in De studii historici ad omnes disciplinas utilitate,
necessitate ac praestantia, ammoniva che una disciplina, la quale viva
appartata non può essere illuminata da quella luce né vista in quelle feconde
attinenze che le vengono dall’affinità con le altre. Sui rapporti fra Herder e
Lessing si veda N. Černyševskij, Lessing nella storia del popolo tedesco,
«Società», 4, 40 (1948).

8. Sui rapporti fra la Rivoluzione francese e il nuovo atteggiamento che la


borghesia assume nei riguardi del folklore, si vedano i lavori del Mathiez,
Les origines des cultes révolutionnaires (Paris, 1904); del Tiersot, Les fétes
et les chants de la Révolution française (Paris, 1904); e del Dror,
L’Allemagne et la Révolution française (Paris, 1944). Rimandi: B.
Groethuysen, Origini dello spirito borghese in Francia, 1: La Chiesa e la
borghesia, trad. Forti, 47 (Torino, 1949).

PARTE TERZA

Capitolo undicesimo

1. Una vasta bibliografia sul Romanticismo tedesco è in A. Farinelli, Il


Romanticismo in Germania, 93-185 (Bari, 19232). Fondamentale la
bibliografia del Santoli in appendice alla trad. di O. Walzel, Il
Romanticismo tedesco (Firenze, 1923). Le più recenti pubblicazioni in
materia (Spirito, Vinciguerra, Croce ecc.) sono passate in rassegna da G. de
Ruggiero, Storia della filosofia, parte IV: La filosofia moderna, 4: L’età del
Romanticismo, 413-36 (Bari, 1933). Da integrare con le numerose e
aggiornate notizie bibliografiche che ci dà il Viereck, Dai romantici a
Hitler, trad. Astrologo e Pintor, 34 nota 1, 56 (Torino, 1948). Rimandi: H.
Heine, Die Romantische Schule, 52 (Roma, 1927); E. Cassirer, Il mito dello
Stato, trad. Pellizzi, 270-73 (Milano, 1950).

2. Sul Novalis bibl. cit. in Walzel-Santoli, 203. Monografie: E. Spenlé,


Novalis. Essai sur l’idéalisme romantique en Allemagne (Paris, 1904); e H.
Simon, Der magische Idealismus (Heidelberg, 1906). Sui rapporti fra il
Novalis, lo Schleiermacher e il Wackenroder, fondamentali le pagine del
Dilthey, Das Erlebnis u. d. Dichtung, 120 sgg. (Leipzig, 19203). Altre
notizie in S. Lupi, Il Romanticismo tedesco (Firenze, 1936); e in A. Van
Tieghem, L’ère romantique. L’influence romantique sur les littératures
européennes (Paris, 1948). Rimandi: F. Meinecke, Cosmopolitismo e Stato
nazionale, trad. Oberdorfer, 1, 49 sgg. (Firenze, 1930).

3. Sul Tieck si vedano B. Steiner, L. T. und die Volksbücher (Berlin, 1893);


e W. Steinert, L. T. und das Farben empfinden der romantischen Dichtung
(Dortmund, 1910). Sui rapporti fra Wackenroder e Tieck si veda L. Mittner,
Wackenroder e Tieck (Venezia, 1942). Sugli influssi esercitati sul T. dal
Bohme e dei drammaturghi spagnuoli, si vedano E. Edertheimer, J. Böhme
und die Romantiker (Heidelberg, 1904); e soprattutto E. Tonnelat, Les frères
Grimm, 23 sgg. (Paris, 1923). Rimandi: O. Walzel, op. cit., 137-53.
4. È noto che le opere della maturità di F. Schlegel non hanno più l’interesse
di quelle giovanili. Si veda a proposito, ma con cautela, G. de Ruggiero, op.
cit., 494-502. Altre notizie per gli interessi folkloristici di F. Schlegel in F.
Tonnelat, op. cit., s. v. Le citazioni da noi riportate sono state prese da F.
Schlegel, Frammenti critici e scritti di estetica, introd. e versione di V.
Santoli (Firenze, 1937). Dello stesso Santoli, Filologia, storia e filosofia nel
pensiero di F. Schlegel, «Civiltà moderna», 2, 18 sgg. (1930). Si vedano
pure in proposito G. Pasquali, Filologia e storia (Firenze, 1920); e A.
Bernardini e G. Righi, Il concetto di filologia e di cultura classica nel
pensiero moderno, 234 sgg. (Bari, 1947). Rimandi: O. Walzel, op. cit., 128.

5. Delle Vorlesungen über schöne Literatur und Kunst abbiamo una ottima
ediz. a cura del Minor (Heilbronn, 1884) (in 3, 18, l’elogio alla poesia
popolare). Sul contributo che G. A. Schlegel ha dato agli studi del folklore
si veda E. Tonnelat, op. cit., 34-35.

6. Sull’atteggiamento dei romantici per il mondo classico ha una pagina


brillantissima G. Berchet, Lettera semiseria, a cura di A. Galletti, 30 sgg.
(Lanciano, 1913). Fondamentale: W. Jaeger nella Einführung della sua
rivista «Die Antike», 1, (1925). Rimandi: H. Heine, op. cit., 91 sgg.

7. Sull’orientalismo dei primi romantici si veda, per tutti, P. T. Haffmann,


Der indische und deutsche Geist von Herder bis zur Romantischer, 50 sgg.
(Tübingen, 1915). Altre notizie, soprattutto per gli studi mitologici, in A.
Pinard de la Boullaye, L’étude comparée des religions, 1, 260 (Paris, 1922)
(dove è cit. la nota bibl. dell’argomento). Per gli studi linguistici si vedano
A. Pagliaro, Sommario di linguistica aria-europea, 1 sgg. (Roma, 1930); G.
Nencioni, Idea lismo nella scienza del linguaggio, 108 sgg. (Firenze, 1946);
B. Terracini, Guida allo studio della linguistica storica, 1: Profilo storico-
critico, 14 sgg. (Roma, 1949).

8. Il problema dei rapporti fra romanticismo e germanesimo è stato


affrontato da G. A. Borgese, Italia e Germania (Milano, 19292); da G.
Manacorda, La selva e il tempo (Firenze, 19332); e soprattutto da L.
Mittner, Romanticismo e germanesimo (Venezia, 1946). Sul patriottismo dei
primi romantici si vedano F. Meinecke, op. cit., 50 sgg., e con prudenza, P.
Viereck, op. cit., 56 sgg. Sul concetto di romantico-medievale e
sull’evoluzione della parola «romantico» in genere si veda M. Praz, La
carne, la morte e il diavolo, 12 sgg. (Torino, 19422).
Capitolo dodicesimo

1. Il trapasso dal cosmopolitismo al nazionalismo nel periodo romantico è


stato ampiamente delineato dal Meinecke, Cosmopolitismo e Stato
nazionale, trad. Oberdorfer, 1, 79-263 (Firenze, 1930). Molte conclusioni
del Meinecke sono state respinte dal binder, La fondazione della filosofia
del diritto, trad. Giolitti, 51-52 (Torino, 1934). Altre indicazioni in G. de
Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, 223-42 (Bari, 19452) (dove nelle
pp. 487-88 è cit. una vasta bibl. sull’argomento); in O. Vossler, L’idea di
Nazione dal Rousseau al Ranke, trad. Federici-Airoldi, 70 sgg. (Firenze,
1949); e in B. Russell, Storia delle idee del secolo XIX, trad. Maturi-Egidi,
397 sgg. (Torino, 1950).
2-3. Fondamentale: R. Steig, Achim von Arnini und Clemens Brentano
(Stuttgart, 1894). Sul Des Knaben si vedano: H. Lohre, Von Percy zum
Wunderhorn (Berlin, 1902); F. Riese, Des Knaben Wunderhorn und seine
Quellen (Dortmund, 1908); K. Bode, Die Bearbeitung der Vorlagen in Des
Knaben Wunderhorn (Berlin, 1909); H. Schewe, Neue Wege zu den Quellen
des Wunderhorns, «Jahrbuch für Volksliedforschung», 3, 120-30 (1932); e
I. Maione, Profili della Germania romantica, 100 sgg. (Padova, 1939).
Rimandi: Tieck, Novalis, Brentano, Fiabe romantiche, a cura di I. Maione
(Torino, 1945) (dove, p. IX, è il giudizio sui Märchen del Brentano) e L.
Vincenti, I Brentano, 121 sgg. (Torino, 1932). Altri rimandi: F. Tonnelat,
Les frères Grimm, 90 (Paris, 1923); e H. Heine, Die romantische Schule,
164 (Roma, 1927). L’avviso dell’Arnim è in R. Steig, op. cit., 224 sgg.

4. Sul Görres si veda l’ottima monografia di F. Schultz, Jos. Görres als


Herausgeber, Literarhistoriker, Kritiker, im Zusammenhange mit der
jüngerem Romantik (Berlin, 1902). Altre preziose indicazioni in F.
Tonnelat, op. cit., s. v.

5. Vastissima la bibl. cui ha dato luogo il credo di Babbo Jahn (che i nazisti
hanno rimesso a nuovo e rispolverato, sappiamo bene con quali conse
guenze). Di essa da un ampio ragguaglio il Viereck, Dai romantici a Hitler,
trad. Astrologo e Pintor, 79-104 (Torino, 1948). È interessante vedere come
le idee dello Jahn furono poi riprese dallo hauer, Deutsche Gottschau
(Stuttgart, 1934). Ma su ciò si veda E. De Martino, Intorno a una storia del
mondo popolare subalterno, «Società», 5, 417-18 (1949). Rimandi: H. von
Treitschke, Deutsche Geschichte im 19. Jahrhundert, 3, 7 (Berlin, 1886-
95); e A. Spamer, Usi e credenze popolari, «Lares», 10, 289-90 (1939).

6-7. Fondamentale, per i precedenti della scuola storica, il lavoro del lands-
berg, Geschichte der deutschen Rechtswissenschaft (Berlin, 1910).
Monografie di notevole interesse: S. Ennecerus, Fr. K. von Savigny und die
Richtung der neueren Rechtswissenschaft (Marburg, 1879); e A. Stoll, Fr.
K. von Savignys sächsische Studienreise 1799 und 1800 (Cassel, 1890). Per
la bibl. it., anch’essa vastissima, si veda B. Brugi, Introduzione
enciclopedica alle scienze giuridiche e sociali nel sistema della
giurisprudenza, 55 sgg. (Milano, 19074); e G. del Vecchio, Lezioni di
filosofia del diritto, 101 sgg. (Milano, 19465). Sul valore del diritto
popolare si veda il recente libro di E. Sauer, Grundlehre des Völker-rechts
(Köln, 19482). Sul valore della consuetudine come fatto normativo (cui si
appella la nostra legislazione) si veda per tutti: N. Bobbio, La consuetudine
come fatto normativo (Padova, 1942). Rimandi: G. Sorel, Les illusions du
progrès, 33 sgg., (Paris, 1908); R. Jhering, La lotta per il diritto, trad.
Mariano, 24 sgg. (Bari, 1935); e F. Meinecke, op. cit., 265.

8. Sul concetto di Volksgeist si veda per tutti la chiara monografia di V.


Fazio-Allmayer, Il concetto di «Missione dei popoli» nell’interprelazione
filosofica della storia, «G. critico d. filosofia italiana», 22, 121-29 (1941).
Rimandi: M. Mila, Breve storia della musica, 187 (Milano, 1948) (lavoro
questo dove i rapporti fra musica e folklore sono studiati con sensibilità e
senza pregiudizi).
Capitolo tredicesimo

1-2. Sull’opera dei Grimm esistono diverse monografie. Ricordiamo: W.


Scherer, Jacob Grimm (Berlin, 18852); A. Duncker, Die Brüder Grimm
(Kassel, 1884), e soprattutto F. Tonnelat, Les frères Grimm (Paris, 1923)
(opera, quest’ultima, limitata all’esame dell’opera giovanile dei due
fratelli). Opere di carattere generale: si veda, in particolar modo, H. Paul,
Grundriss der Germanischen Philologie, 1, 56 sgg. (Strassburg, 1891). Per
il concetto che i Grimm ebbero della poesia popolare, giudizi e notizie in P.
Levy, Geschichte des Begriffes Volkslied, 97 sgg. (Berlin, 1911); e in J.
Meyer, L’organizzazione degli studi sul canto popolare tedesco, «Lares»,
10, 307 sgg. (1939) (e la bibl. ivi citata). Per il concetto, invece, che ebbero
sull’epopea si veda J. Bédier, Les légendes épiques, 3, 217 sgg. (Paris,
1921). Sui rapporti fra i Grimm e l’Arnim si veda R. Steig, Achim von
Arnim und J. und W. Grimm (Stuttgart, 1904). Sui rapporti fra i Grimm e G.
A. Schlegel si veda F. Tonnelat, op. cit., 233 sgg. Sul concetto del Croce
inerente alla poesia popolare, da lui espresso nel vol. Poesia popolare e
poesia d’arte (Bari, 1927), si veda G. Cocchiara, Il linguaggio della poesia
popolare, 7-20 (Palermo, 19512).

3-5. L’edizione più recente dei Kinder- und Hausmärchen è stata curata nel
1936 da Otto Ubbelohde. In Italia: trad. integrale (dei primi due volumi) a
cura di Giara Bovero (Torino, 1951). Monografie notevoli: R. Steig, Zur
Entstehungsgeschichte der Märchen und Sagen der Brüder Grimm, «Arch.
f. das Studium der neueren Sprachen», 107, 277 sgg. Dello stesso: Zu
Grimms Märchen, ibidem, 118, 17 sgg. Altre notizie e giudizi in F.
Tonnelat, Les contes des frères Grimm; études sur la composition et le style
du recueil des Kinder- und Hausmärchen (Paris, 1912); in I. Lefftz,
Märchen der Brüder Grimm (Heidelberg, 1927); e in S. Thomson, The
Folktale, 367 sgg. (New York, 1946) (dove è ricordata la più recente bibl.
dell’argomento). La lista dei riscontri iniziata da W. Grimm è stata
continuata, con risultati eccellenti, da J. Bolte e G. Polivka, Anmerkungen
zu den Kinder-Hausmärchen der Brüder Grimm (5 Bd., Leipzig, 1913-32).
Si aggiunga: L. Mackensen, Handworterbuch des deutschen Märchens
unter besonderer Mitwirkung von J. Bolte (Leipzig, 1930-36). Rimandi: L.
Mackensen, Gli studi sul patrimonio narrativo, «Lares», 10, 364 (1939)
(utilissimo anche per la bibliografia citata). Sulle saghe si veda S. Aschner,
Die deutschen Sagen der Brüder Grimm (Berlin, 1909),

6. Sull’apporto dato da J. Grimm allo studio del diritto si vedano H.


Hübner, J. Grimm und das deutsche Recht (Göttingen, 1895); e E.
Landsberg, Geschichte der deutschen Rechtswissenschaft (Berlin, 1910).
Per i suoi studi di mitologia si veda: F. Strich, Die Mythologie in der
deutschen Literatur von Klopstock bis Wagner (Halle, 1910).

7. Sulla teoria di J. Grimm inerente alla lingua e dei suoi rapporti col Bopp
e il Rask, si veda per tutti il lavoro di B. Terracini, Guida allo studio della
linguistica storica, 1: Profilo storico-critico, 71-72 (Roma, 1949). La teoria
indo-europeista che servì di base anche allo studio della novellistica, è
illustrata, con ricchezza di particolari, da J. W. Spargo, Linguistic Science in
the Nineteenth Century (Cambridge, Mass., 1931). Altre notizie e giudizi in
Pagliaro, Sommario di linguistica ario-europea, 1, s. v. Bopp, Grimm ecc.
(Roma, 1930).

8. Sul patriottismo dei Grimm si vedano i volumi citati nelle bibl. del § 1. Si
veda, pure, il penetrante saggio di J. Huizinga, Sviluppo e forme della
coscienza nazionale in Europa sino alla fine del secolo decimonono, in
Civiltà e storia, trad. Chiaruttini, 255-56 (Modena, 1946) (dove è esaminato
il discorso di J. Grimm, De desiderio patriae). Rimandi: B. Terracini, op.
cit., 1, 72.
Capitolo quattordicesimo

1. Sul cosiddetto periodo etico del Romanticismo è molto utile confrontare


D. Busk, Mythology and the Romantic Tradition in English Poetry (Oxford,
1926); e B. I. Evans, Tradition and Romanticism in English Poetry from
Chaucher to Yeats (London, 1940). Rimandi: C. Caudwell, Illusione e
realtà, trad. Puccini, 119 sgg. (Torino, 1950).

2. Sullo Scott folklorista si veda A. Lang, Sir Walter Scott and the Border
Minstrelsy (London, 1910). Sulla validità delle sue antiquitates: B. Croce,
Poesia e non poesia, 59-70 (Bari, 1916). Sullo Scott storico: E. Fueter,
Storia della storiografia moderna, trad. Spinelli, 2, 131 sgg. (Napoli, 1944)
(di cui però non condivido l’idea che il primo a formulare la teoria locale
sia stato lo Chateaubriand e che lo Scott abbia sviluppato sistematicamente
le suggestioni del romantico francese). Rimandi: J. G. Lockhart, Memoirs of
the Life of Sir W. Scott, 1, 50 sgg. (London, 1837-38).
3. Sul preromanticismo francese note e notizie bibliografiche in G.
Cocchiara, Il mito del buon selvaggio, 20 sgg. (Messina, 1948). Si
aggiunga: A. Pizzorusso, Senancour (Messina, 1950). Sarà utile consultare,
sia pure a scopo polemico, L. Reynaud, Le Romantisme. Les origines anglo-
germaniques (Paris, 1929), che considera il Romanticismo francese
addirittura come un’infezione. Sugli inizi del folklore francese si veda il
saggio di H. Tronchon, Quelques notes sur le premier mouvement
folkloriste en France, Mélanges Baldensperger No. 2, 296 sgg. (Paris,
1930). Ma soprattutto: A. Van Gennep, Manuel de folklore français
contemporain, 1, 32 sgg. (Paris, 1937-38) (in 3, 12 sgg. è riprodotto il
questionario Dulaure-Mangourit). Nel Recueil Centenaire Soc. nationale
Antiquaires France, 1804-1904, vi è un notevole articolo del Gaidoz, De
l’influence de l’Académie celtique sur les études de folklore, dove è
segnalato l’influsso che le ricerche dell’Accademia ebbero su J. Grimm
quando si recò a Parigi nel 1804. Altre notizie in M.-J. Durry, L’Académie
celtique et la chanson populaire, «Revue de Littérature Comparée», 9, 62-
73 (1929). Sui vari contributi pubblicati nelle varie annate dei «Mémoires
de l’Académie Celtique» (poi «Mém. Soc. Antiquaires France») si veda A.
Van Gennep, op. cit., 3, 4, s. v. Bourquelot, Maury ecc.

4. Note e giudizi su Fauriel in J. Bédier, Les légendes épiques, 3, 201 sgg.


(Paris, 1912).

5. Sul La Villemarqué si veda F. M. Luzel, De l’authenticité des chants du


Barzaz Breiz (Paris, 1872). Utilissimo perché ricerca i canti, le melodie, le
usanze popolari ecc., quali si ritrovano nei romanzieri e poeti francesi: J.
Tiersot, La Chanson populaire et les écrivains romantiques (Paris, 1931).
Da integrare con J. Marsan, La bataille romantique, II sèrie, 125 sgg. (Paris,
s. a.). Sulla storiografia romantica francese si veda, per tutti, il Fueter, op.
cit., sotto le voci corrispondenti. Riferimenti: G. de Nerval, Les vieilles
ballades françaises, «La Sylphide», 6 (1842), rist. a cura di A. Loquin sotto
il titolo: Chansons et ballades populaires du Valois (Paris, 1885).

6-7. Sul Berchet e sul Tommaseo notizie e giudizi in G. Cocchiara, Storia


degli studi delle tradizioni popolari in Italia, s. v. (Palermo, 1947).
Riferimenti: U. Bosco, Preromanticismo e romanticismo, in Questioni e
correnti di storia letteraria, 597-657 (Milano, 1949); B. Croce, Poesia
popolare e poesia d’arte, 27 (Bari, 1938). Sull’atteggiamento del Manzoni
nei riguardi degli umili si veda anche A. Gramsci, Letteratura e vita
nazionale, 72 sgg. (Torino, 1951).

8. Si veda, per tutti, il saggio di C. Morandi, L’idea dell’unità politica


d’Europa nel XIX e XX secolo (Milano, 1948), dove è ampiamente citata la
bibl. dell’argomento, cui si aggiunga B. Russell, Storia delle idee del secolo
XIX, trad. Maturi-Egidi, 393-423 (Torino, 1950). Sfugge completamente al
Morandi e al Russell il valore che ha assunto per la formazione della
coscienza nazionale il mito della poesia popolare. Il che non può dirsi del
Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, 134 sgg. (Bari, 1932).
Capitolo quindicesimo
1. Sulla partecipazione della Russia alla compagine europea si vedano le
belle pagine di C. Morandi, L’idea dell’unità politica d’Europa nel XIX e XX
secolo, 42 sgg. (Milano, 1948); e F. Chabod, L’idea di Europa, «La
Rassegna d’Italia» 4, 28 sgg. (1947). Le Lettere filosofiche del Čaadaev
sono state recentemente tradotte da A. Tomborra (Bari, 1950), precedute da
una introduzione dello stesso traduttore. Bibl.: 79-80. Rimandi: A. Gramsci,
Letteratura e vita nazionale, 105 (Torino, 1951).

2-3. Sui primi folkloristi russi e sugli autori russi che si sono ispirati al
folklore si veda l’interessantissima opera di A. Pypin, Istorija russkoj
etnografii (4 T., Petersburg, 1890-91). Notizie bibl. più aggiornate in J. M.
Sokolov, Russian Folklore, 20-21, 30-31 (New York, 1950). Da integrare
con D. Zelenin, Russische Volkskunde, 15-50 (Berlin, 1927), e per la parte
letteraria con E. Lo Gatto, Storia della letteratura russa, 1, 44 sgg.
(Firenze, 19443). Rimandi: M. Mila, Breve storia della musica, 264
(Milano, 1948).

4. Sul panslavismo dei Cechi si vedano, per tutti, L. Dumont-Wilden,


L’évolution de l’esprit européen, 101-04 (Paris, 1937); e W. Giusti, Due
secoli di pensiero politico russo (Firenze, 1943) (specialmente per quanto
riguarda il Pèstel). Per il folklore: J. Horach, Les études ethnographiques en
Tchécoslovaquie, «Revue des Études Slaves», 1 (1921). Per inquadrare il
movimento folkloristico polacco è utile: G. Maver, Alle fonti del
romanticismo polacco (Roma, 1928). Altre notizie in M. de Smircrodki, Le
folklore en Pologne, «La Tradition», 3, 265 sgg. (1889); ma soprattutto in
A. Ficher, Etnografia slowiánska (Lwow, 1934). Su Chopin si consulti, per
tutti, M. Mila, op. cit., 202 sgg.

5. Sulla poesia popolare serbo-croata si vedano, particolarmente M. Murko,


La poésie populaire épique en Yougoslavie au début du XXe siècle (Paris,
1929); e A. Cronia, Poesia popolare serbo-croata (Padova, 1949) (dove è
ricordata l’ampia bibliografia inerente al Karadžić). Sullo Alexandri si veda
O. Densusianu, Il folklore come deve intendersi, trad. dal rumeno e saggio
introduttivo di I. Onciulescu, «Folklore», 3, nn. 3-4, 6 dell’estratto (Napoli,
1949).

6. Sui primi folkloristi finlandesi si veda K. Krohn, Histoire du


traditionnisme en Finlande, «La Tradition», 4, 45-49, 72-73, 103-07
(1890). In Italia il Kalevala fu tradotto da P. E. Pavolini (Palermo, 1909).
Avremo agio di ricordare gli studi dedicati a questo poema. Da notare la
messa a punto che a proposito della trad. del Pavolini fece G. A. Borgese,
La Vita e il libro, serie Il, 175-178 (Bologna, 1928).

7. Sull’antica poesia e mitologia dei paesi scandinavi si veda P. van


Tiechem. Le Préromantisme. Etudes d’histoire litt. européenne, 1, 77-193
(Paris, 1948). Sui primi folkloristi dei paesi scandinavi si veda l’ottimo
lavoro del Paul, Grundriss der germanischen Philologie, 2 (Strassburg,
1893); e in particolar modo H. Schuck, Histoire de la littérature suédoise
(Paris, 1923). Rimandi: W. P. Ker, cit. da V. Santoli, I canti popolari
italiani, 40 (Firenze, 1940) (dove pure a pag. 84 è un giudizio sul
Grundtvig).
8. Sul panslavismo si vedano i lavori citati nel § 4. Rimandi: la lettera di
Renan è riportata in L. Dumont-Wilden, op. cit., 102.

PARTE QUARTA

Capitolo sedicesimo

1. La più ricca bibliografia del Müller e sul Müller è in H. Pinard de la


Boullaye, L’étude comparée des religions, 1, 341-50 (Paris, 1922). Si
aggiungano per altre notizie i seguenti lavori: L. Garello, La morte di Fan
(Torino, 1908); L. Salvatorelli, Introduzione bibliografica alla scienza delle
religioni (Roma, 1914); e M. Eliade, Traité d’histoire des religions, s. v.
(Paris, 1948).

2. Sul problema degli ariani si veda, oltre il Pinard de la Boullaye, op. cit.,
1, 342, 352, il recente volume di G. Poisson, Les Aryens (Paris, 1934) (dove
è citata la vasta bibliografia dell’argomento). Al Gobineau e al suo recente e
nefasto influsso hanno dedicato di recente notevoli pagine il Cassirer, Il
mito dello Stato, trad. Pellizzi, 327 sgg. (Milano, 1950); e P. Viereck, Dai
romantici a Hitler, trad. Astrologo e Pintor, 108 sgg. (Torino, 1948).

3-4. Sulla interpretazione meteorologica del mito e sugli influssi che sul
Müller esercitarono i suoi predecessori si vedano, per tutti, il vecchio ma
pur sempre utile lavoro del Sayce, The Principles of Comparative Philology
(Lon-don, 1875); e R. Pettazzoni, Nozioni di mitologia (Roma, 1949). Altre
notizie in L. Spence, An Introduction to Mythology (London, 1921); e in A.
K. Krappe, La genèse des mythes, s. v. (Paris, 1938). Riferimenti: E.
Cassirer, op. cit., 44.
5. Sul posto che al Müller spetta nella storia delle religioni si veda R.
Pettazzoni, Svolgimento e carattere della storia delle religioni (Bari, 1934).
Altre notizie in J. Reville, Les phases successives de l’histoire des religions,
s. v. (Paris, 1909); A. Bros, L’ethnologie religieuse, 48 sgg. (Paris, 19382); e
G. Schmidt, Manuale di storia comparata delle religioni, trad. Bugatto, 59-
65 (Brescia, 1934).

6. In Inghilterra i più operosi seguaci del Müller furono: G. W. Cox, S.


Baring-Gould. In Germania: W. Schwartz, W. H. Roescher, E. H. Meyer. In
Italia, oltre il De Gubernatis, S. Prato e G. Ferrare. In Francia: M. Bréal,
Ch. Ploix, H. D’Arbois de Joubainville. In Russia: A. N. Afanasev, O. F.
Miller, A. A. Kotljarevskij. Per la bibl. e per altre notizie si vedano: W. A.
Clouston, Popular Tales and Fictions, I (Edinburgh, 1887); J. Bédier, Les
Fabliaux, 23-30 (Paris, 1893); A. Van Gennep, Manuel de folklore français
contemporain, 4, 656-58 (Paris, 1937-38); G. Cocchiara, Storia degli studi
delle tradizioni popolari in Italia, 167-83 (Palermo, 1947); e J. M. Sokolov,
Russian folklore, 56-75 (New York, 1950).

7. Sulle varie critiche dedicate al Müller si veda il bel saggio di P.


Ehrenreich, Die allgemeine Mythologie (Leipzig, 1910). Altre notizie,
anche per il ritorno di certi atteggiamenti mulleriani, in R. Grossens, Notes
de mythologie indo-européenne, «La nouvelle Clio», 1, 1-22 (Bruxelles,
1949). Sulle satire contro il Depuis e il Müller si veda J. Gaidoz, Comme
quoi M. Müller n’a jamais existé, «Mélusine», 2, col. 73 sgg. (1884-85).
Dello stesso A., Comme quoi Napoléon n’a jamais existé, ibidem, col. 145
sgg. Riferimenti: G. Dumézil, Le festin d’immortalité, 5 (Paris, 1892); M.
W. De Visser, De Graecorum diis non referentibus speciem humanam, 22
sgg. (Lugduni Batavorum, 1900); M. Kerbaker, Savìtri ed Alcesti, «G. Nap.
di Filosofia e Lettere», 1, 1 sgg. (1871); J. M. Sokolov, op. cit., 50; B.
Terracini, Guida allo studio della linguistica storica, 1: Profilo storico-
critico, 77 (Roma, 1949).

8. Sui rapporti fra il Müller e il Pitrè si veda G. Cocchiara, Pitrè, la Sicilia e


il folklore, 70-74 (Messina, 1951). Riferimenti: R. Pettazzoni, Svolgimento
e carattere cit., 12-13.
Capitolo diciassettesimo

1-4. Sui rapporti fra il Benfey e il Müller si veda il saggio dello stesso
Müller sulla migrazione delle favole, pubblicato per la prima volta nella
«Contemporary Review» del luglio 1870. Sulla teoria orientalista si vedano,
anche per i numerosi richiami bibliografici ivi contenuti, i lavori del Bédier,
Les Fabliaux, 40-44 (Paris, 1893); di A. H. Krappe, The Science of
Folklore, 10 sgg. (London, 1930); e S. Thomson, The Folktale, 376 sgg.
(New York, 1946). Sulle grandi raccolte orientali – è noto che il
Panciatantra in Italia fu tradotto dal Pizzi (Torino, 1896) – da un
ragguaglio rapido ma preciso S. Battaglia, Contributi alla storia della
novellistica (Napoli, 1947). Rimandi: V. Keller, Über die Geschichte der
Griechen Fabeln, 333 (Leipzig, 1870); e F. Ribezzo, Nuovi studi sulla
origine e sulla propagazione delle favole indo-elleniche, 10-20 (Napoli,
1901) (dove sono discusse le teorie del Benfey e dei suoi avversari).
5. Gli innumerevoli saggi del Köhler nei quali egli dimostrava di conoscere
davvero l’intero patrimonio novellistico europeo sono stati adunati da un
suo fedele discepolo, J. Bolte, e pubblicati con il titolo: Kleinere Schriften
(3 Bd., Weimar, 1898-1900). Lo stesso Bolte, in collaborazione con E.
Schmidt, curò anche il lavoro del Köhler, Über Märchen und Volkslieder
(Berlin, 1894). Bibl. sul Cosquin in A. Van Gennep, Manuel de Folklore
français contemporain, 4 s. v. (Paris, 1937-38).

6. Sull’apporto dei folklorisli russi alla problematica del folklore si vedano


le chiare pagine del Sokolov, Russian Folklore, 78-90, 100-123 (New York,
1950). Altre notizie in E. Lo Gatto, Storia della letteratura russa, 1, 46-92
(Firenze, 19443).

7-8. Sulla scuola finnica si vedano soprattutto Krappe, op. cit., 10, 42 sgg.;
e Thomson, op. cit., 394 sgg. Sulle origini del melode sierico geografico si
veda F. Kruger, Geographie des traditions populaires en France, 4 sgg.
(Mendoza,1950). Su Kaarle Krohn si veda il commosso saggio di P. E.
Pavolini, «Lares», 4, 3 sgg. (1933). Il calalogo dell’Aarne è slalo
perfezionato da uno dei più grandi folkloristi che abbia l’America, Stith
Thompson (cfr. The Types of The Folktale di A. Aarne, trad. e ampl., da
Stith Thompson, Folklore Fellows Communications No. 74, Helsinki,
1928). Allo stesso Thompson dobbiamo oggi inoltre il più ricco repertorio
dei temi e dei motivi novellistici, Motif-Index of Folk-Literature. A
Classification of Narrative Elements in Folktales, Ballads, Myths, Fables,
Medieval Romances, Exempla, Fabliaux, Jestbooks and Local Legends (6
voll., FF. C. Nos. 106, 109, 116, 117, Helsinki, 1932-36). Per le critiche
rivolte a tale scuola si veda J. M. Sokolov, op. cit., 90 sgg.; e A. Van
Gennep, op. cit., 1, 28 sgg. Riferimenti: K. Krohn, La méthode de M. Jules
Krohn, Congr. Internat. des Traditions Populaires - Paris 1889, 64-68 (Paris,
1891); e E. Morote Best, Elementos de folklore, 245 sgg. (Cuzco, 1950). Si
veda pure l’acuta comunicazione di C. W. von Sydow, Circulations des
contes populaires, Trav. Ier Congr. Inlernal. de Folklore, 132 sgg. (Tours,
1938).
Capitolo diciottesimo

1-3. Sulle origini della filologia romanza è sempre utile il vecchio lavoro di
G. Grober, Grundriss der romanischen Philologie, 1 (Strassburg, 1904-062).
Allre nolizie in A. Monteverdi, Introduzione allo studio della filologia
romanza (Roma, 1943). Dello stesso A. si veda il saggio Neolatine, in Saggi
neolatini, 3-22 (Roma, 1945). Si vedano anche L. Sorrento, Medievalia
(Brescia, 1944); e G. Tagliavini, Le origini delle lingue neo-latine
(Bologna, 1949). Sull’apporto dei romantici ledeschi allo sludio della
filologia romanza si veda G. Bertoni, Le origini della letteratura romanza
nel pensiero dei romantici tedeschi (Leipzig, 1928). Per una puntuale
bibliografia inerente alle varie questioni dell’epopea francese si vedano J.
Bédier, Les légendes épiques, 3, 200-88 (Paris, 1912); A. Viscardi, Le
origini (Milano, 1939); e I. Siciliano, Le origini delle canzoni di gesta
(Padova, 1940). Dello stesso Viscardi, Posizioni vecchie e nuove della
storia letteraria romanza (Milano, 1944) e Storia della letteratura d’oc e
d’oil (Milano, 1952). Di notevole interesse sul Paris rimangono i saggi di F.
Novati, «Emporium» (1903), e di P. Rajna, «Atti R. Accad. della Crusca»
(1904). Si veda pure, nonostante i dissensi, J. Bédier, Hommage a G. Paris
(Paris, 1904). Riferimenti: E. Monaci, G. Paris, «Nuova Antologia» (1°
aprile 1903). Sull’origine della lirica romanza si veda per la vasta bibl.
dell’argomento G. Errante, La lirica romanza delle origini (New York,
1943). Dello stesso: Marcabru e le fonti sacre dell’antica lirica romanza
(Firenze, 1946).

4. Sul Rajna si vedano gli ottimi saggi di M. Casella, «Marzocco» (7


dicembre 1930); e di G. Vandelli, «Atti Accad. degli Arcadi», 7, 8 (Firenze,
1931). Preciso, A. Schiaffini, Pio Rajna ricercatore di origini, «Ulisse» (1°
maggio 1947). Altre notizie per la sua attività di folklorista: G. Cocchiara,
Storia degli studi delle tradizioni popolari in Italia, 185-89 (Palermo,
1947).

5-8. Bibl. degli scritti dedicati all’epopea francese, in A Critical


Bibliography of French Literature, I: The Medieval Period, a cura di U. T.
Holmes jr., nn. 548-83 (Syracuse, 1947); e nel recente R. Bossuat, Manuel
bibliographique de la litt. franç. du Moyen Age (Melun, 1951). Sulla
memoria popolare, che è una fonte storica in quanto un documento non è
tale perché è scritto od orale ma perché pensato, si vedano, per tutte, le
pagine di M. Bloch, La società feudale, trad. Cremonesi, 420 sgg. (Torino,
1949). Sul Bédier e sul suo atteggiamento nei riguardi dell’origine
germanica dell’epopea francese si veda G. Bertoni, La «Chanson de
Roland», 93-95 (Firenze, 1936). Dice il Bertoni: «L’epopea di Francia è
certamente francese (come vuole il Bédier), ma è espressione artistica e
poetica dello spirito germanico». Sul Bédier si veda il bel saggio di G.
Contini, Ricordo di Bédier, in Un anno di letteratura, 114 sgg. (Firenze,
1942). Il Contini accetta incondizionatamente le posizioni del Bédier.
Rimandi: R. Fawtier, La Chanson de Roland, 50 sgg. (Paris, 1933); e L.
Foscolo-Benedetto, L’epopea di Roncisvalle, 124, 144, 200 (Firenze, 1941)
(dove le teorie del Bédier sono invece ridotte alle loro giuste proporzioni).
Capitolo diciannovesimo

1-2. Not. e bibl. sul Child in S. Baldi, Studi sulla poesia popolare
d’Inghilterra e di Scozia, 21-37 (Roma, 1949). Il Santoli, I canti popolari
italiani, 90 (Firenze, 1940), osserva giustamente che «il passaggio
dell’antico modo di raccogliere e di pubblicare canti popolari alla nuova
maniera iniziata dai Grundtvig e dai Nigra è in certa guisa paragonabile al
passaggio dalla grammatica empirica o astratta o puristica alla linguistica
comparata e storica». Sul Nigra si veda G. Cocchiara, Storia degli studi
delle tradizioni popolari in Italia, s. v. (Palermo, 1947). Alla bibl. ivi citata
si aggiunga ora V. Santoli, Gli studi di letteratura popolare, estr. da
Cinquant’anni di vita intellettuale italiana 1896-1946. Scritti in onore di B.
Croce, 2 (Napoli, 1950). Riferimenti: S. Baldi, op. cit., 14.

3-8. Notizie bibliografiche sui vari autori trattati: G. Cocchiara, op. cit., s. v.
e V. Santoli, Gli studi di letteratura popolare cit., s. v. Per lo studio delle
norme areali e della loro applicazione negli atlanti linguistici note
bibliografiche in V. Santoli, I canti popolari cit., 54. Riferimenti: G.
Pasquali, in D. Comparetti, Virgilio nel Medio Evo, a cura di G. P., 1, p.
XXI (Firenze, 1937); e F. Neri, Storia e poesia, 15 sgg. (Torino, 1936).
Capitolo ventesimo

1-8. Sull’opera di G. Pitrè si veda G. Cocchiara, Pitrè, la Sicilia e il


folklore, (Messina, 1951) (dove il lettore troverà un’ampia bibliografia
sull’argomento). Sulle riviste di folklore che allora sorsero un po’ dovunque
in Europa e che affiancarono o completarono l’opera svolta nell’«Archivio»
si veda R. Corso, Folklore, 175-179 (Napoli, 19432). Rimandi: L. Russo,
Giovanni Verga, 90 sgg. (Bari, 19504).

PARTE QUINTA

Capitolo ventunesimo

1-8. Note e notizie bibliografiche sul Tylor in G. Cocchiara, Il mito del buon
selvaggio, 61-92 (Messina, 1948). Di particolare interesse: P. Radin,
Primitive Man as Philosopher (London, 1927); e R. H. Lowie, The History
of Ethnological Theory (London, 1937).
Capitolo ventiduesimo

1-4. La lettera che il Mannhardt inviò al Pitrè è tuttora inedita e si trova


presso la Biblioteca Pitrè (Museo Etnografico Siciliano, Palermo).
Dell’opera Wald- und Feldkulte esiste una nuova edizione curata da W.
Heuschkel (Berlin, 1904-05). Altre notizie bio-bibliografiche in M. Eliade,
Traité d’histoire des religions, 309-13 (Paris, 1948) (anche per la vasta bibl.
ivi ricordata). Del Liungman si veda l’interessante volume Traditions-
Wanderungen: Euphrat-Rhein, 1, 336 sgg. (Helsinki, 1937). Da integrare
con A. W. Ratansalo, Der Ackerbau im Volksaberglauben der Finnen und
Esten mit entsprechenden Gebräuchen der Germanen verglichen (FF. C.
Nos. 30, 31, 32, 55, 62, Helsinki, 1919-25). Si aggiunga: J. J. Meyer,
Trilogie altindischer Mächte und Feste der Vegetation (Leipzig, 1937). Di
notevole interesse è il saggio di C. W. von Sydow dedicato alle teorie del
Mannhardt e raccolto nei suoi Selected Papers on Folklore (Copenhagen,
1948). Rimandi: G. Schmidt, Manuale di storia comparata delle religioni,
trad. Bugatto, 205 (Brescia, 1934). Dello stesso: Manuale di metodologia
etnologica, trad. Vannucelli, 270 (Milano, 1949). Utilissimo il saggio di E.
Rohr, Geografia demologica tedesca, «Lares», 10, 269-288 (1939).

5. Sul Rohde si veda l’utile monografia di O. Crusius, E. Rohde (Tübingen,


1902). Sugli studi posteriori cui hanno dato luogo le sue ricerche si vedano
le note di R. Mondolfo in E. Zeller, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo
storico, trad. e aggiornamento di R. M., 1, 141 sgg. (Firenze, 1932). Il libro
del Lawson è intitolato Modern Greek Folklore and Ancient Greek Religion
(Cambridge, 1910). Per le altre notizie si veda la nota al cap. 25, § 1.

6. Sull’Usener si vedano i saggi del Farnell, del Wissowa e del Kroll cit. da
H. Pinard de la Boullaye, L’étude comparée des religions, 1, 356 (Paris,
1922). Rimandi: R. Pettazzoni, Nozioni di mitologia, 37 sgg. (Roma, 1949).

7. Sul Dieterich si veda M. Eliade, op. cit., s. v. Sugli scopi e i confini del
l’etnologia giuridica acute le osservazioni di F. Battaglia, Diritto e filosofia
della pratica, 20 sgg. (Firenze, 1932). Alla bibl. ivi citata si aggiunga
l’aureo lavoro del Vinogradov, Outlines of Historical Jurisprudence
(Oxford, 1920).

8. L’opera del sartori è intitolata Sitte und Brauch (Leipzig, 1910-14) (e fa


parte della collana «Handbücher zur Volkskunde» dell’editore Heims, il
quale nella stessa collezione fra il 1908 e il 1909 pubblicò i seguenti
volumi: 1. K. Wehrhan, Die Sage; 2. A. Thimme, Das Märchen; 3. O.
Schell, Das Volkslied; 4. K. Wehrhan, Kinderlied und Kinderspiel. I voll.
del Sartori corrispondono ai nn. 5, 6, 7, 8). L’opera del Sartori fu integrata
da P. Geiger, Deutsches Volkstum im Sitte und Brauch (Berlin, 1936).
Rimandi: H. Pinard de la Boullaye, op. cit., 1, 356; e A. Spamer, Usi e
credenze popolari, «Lares», 10, 294 (1939). Lo Spamer passa inoltre in
rassegna le ricerche di Lily Weiser, di Otto Höfler, di R. Wolfram, di L.
Rütimeyer e di Karl Meuli, dove si sente l’influsso della corrente di studi
che abbiamo esaminato.
Capitolo ventitreesimo

1-2. Nella sua ultima edizione il Golden Bough comprende i seguenti


volumi: parte I, The Magic Art and the Evolution of Kings, 2 voll.; parte II,
Taboo and the Perils of the Soul, 1 vol.; parte III, The Dying God, 1 vol.;
parte IV, Adonis, Attis, Osiris, 2 voll. pubblicati per la prima volta come
lavoro a sé nel 1903; parte V, Spirits of the Corn and the Wild, 2 voll.; parte
VI, The Scapegoat, 1 vol.; parte VII, Balder the Beautiful: The Fire-
Festivals of Europe and the Doctrine of the External Soul, 2 voll.; vol. XII,
Bibliography and General Index. Ancor prima che il Frazer traesse da
quest’opera l’editio minor: The Golden Bough, a Study in Magic and
Religion (London, 1925), fu pubblicata un’antologia, Leaves from the
«Golden Bough», curata da Lady Frazer. Dell’edito minor esiste
un’accurata traduzione di De Bosis, con prefazione di G. Cocchiara (Torino,
1950). Si veda pure: J. G. Frazer, Introduzione all’antropologia sociale.
Saggi scelti, tradotti e annotati da G. Cocchiara (Palermo, 1945). Nel 1934,
quando il Frazer compì ottant’anni, fu pubblicata una bibl. completa dei
suoi scritti che comprende 266 nn. Fra questi non va dimenticato il volume
The Gorgon’s Head and Other Literary Pieces, with a preface by A. France
(London, 1927), dove accanto a dei saggi di vivo interesse umanistico,
come, ad esempio, quello sulla vita romana nel tempo di Plinio il Giovane
oppure quello gustosissimo della vita londinese nel tempo di Addison, si
trovano alcune sue delicate poesie insieme ad alcune traduzioni da poeti
francesi.

3-8. Sulle teorie del Frazer si vedano, per tutti: G. Davy, Sociologues d’hier
et d’aujourd’hui (Paris, 1931); R. H. Lowie, The History of Ethnological
Theory (London, 1937), e G. Cocchiara, Il mito del buon selvaggio
(Messina, 1948). Si aggiunga, specialmente per il concetto sulla magia, E.
De Martino, Il mondo magico (Torino, 1948). Un’ampia rassegna critica
che in fondo comprende quanto di più notevole si sia pubblicato nel campo
della storia delle religioni pro e contro Frazer si trova in G. Schmidt, Der
Ursprung der Gottesidee, 1, s. v. (Münster, 1926). Dello stesso autore:
Manuale di storia comparata delle religioni, trad. Bugatto, 165-280
(Brescia, 1934). Altre notizie in Pinard de la Boullaye, L’étude comparée
des religions, 1, 352-89 (Paris, 1922); e in C. Dawson, Progresso e
religione, trad. Foà, 58 sgg. (Milano, 1948). Buona la monografia di R. H.
Downie, James George Frazer, a Portrait of a Scholar (London, 1940).
Sugli interessi che l’opera del Frazer ha suscitato non solo nel campo della
psicologia, ma anche in quello della filosofia (dal Delacroix al Brunschvieg,
dal Freud al Róhein, dallo Jung all’Aldrich, dal Bergson al Boutroux e
soprattutto al Cassirer) si vedano C. Delacroix, La mentalité primitive
(Paris, 1926), e R. Cantoni, I primitivi (Milano, 1941). Si aggiunga che non
sarebbe possibile capire l’atmosfera che creano certe poesie dello Eliot o
alcune pagine del Mann e del Lawrence senza conoscere il Golden Bough.
Né ha torto, quindi, lo stesso Eliot, quando afferma che il Golden Bough ha
esercitato un’influenza notevolissima sulla sua generazione. Si veda in
proposito T. S. Eliot, Collected Poems 1909-1935 note a The Waste Land
(London, 1936).
Capitolo ventiquattresimo

1-4. Sul Lang si veda il bel saggio di R. R. Marett, Andrew Lang,


«Folklore», 23 (1912). Si aggiunga Salvatorelli, Andrew Lang, «Lares» 1
(1912). Dello stesso Salvatorelli, Introduzione bibliografica della scienza
delle religioni, s. v. (Roma, 1914). Sul Lang, studioso della novellistica
popolare, si veda R. Corso, Folklore, 80 sgg. (Napoli, 19432). Sul Lang,
storico delle religioni è sempre utile il lavoro di S. Reinach, Andrew Lang et
l’histoire des religions, in Cultes, Mythes et Religions, 5, 13 sgg. (Paris,
1923). Da integrare con G. Schmidt, Manuale di storia comparata delle
religioni, trad. Bugatto, s. v. (Brescia, 1934); e, per quanto riguarda lo
studio della magia, E. De Martino, Il mondo magico, 207 sgg. (Torino,
1948). Rimandi: J. Bédier, Les Fabliaux, 20 sgg. (Paris, 1893), e R.
Pettazzoni, Dio. Formazione e sviluppo del monoteismo nella storia delle
religioni, 42 (Roma, 1922).

5-6. Sul Pensiero del Mac Culloch, uno dei più acuti interpreti di quel
mondo celtico cui allora dedicava ampie ricerche anche il Rhys, si consulti
l’ampia opera di O. Dähnhardt, Natursagen. Eine Sammlung
naturdeutender Sagen, Märchen, Fabeln und Legenden (Leipzig, 1907
sgg.). Il D. non solo ci ha dato un’ampia classificazione di temi novellistici
(fra i soggetti: la natura, gli animali, le piante), ma ci ha mostrato anche
come la favola, se è un’interpretazione di esperienze passate, lo è anche di
esperienze presenti. Il che, del resto, qualche anno dopo verrà riaffermato
dal von der Leyen nel suo bel libro Das Märchen (Leipzig, 19253). Si
collega direttamente al Mac Culloch e attraverso lui al Lang e all’Hartland
la Weston, cui dobbiamo due ottimi lavori: The Legend of Sir Perceval
(London, 1909), e From Ritual to Romance (Cambridge, 1920). Non è altro
che un riassunto del Mac Culloch il libro di Macleod Yearsley, The Folklore
of Fairy-Tale (London, 1924) (manchevole anche nella parte bibliografica).
Per quanto riguarda gli usi nuziali, si tengano presenti i lavori di H.
Baechtold, Die Gebräuche bei Verlobung und Hochzeit (Basel, 1942); e di
R. Corso, Patti di amore e pegni di promessa (S. Maria Capua Vetere,
1925).
7. Sulla Gomme e sul lavorio critico intorno al problema etnologico dei
giuochi fanciulleschi di notevole interesse sono le note, gli escursi e le
citazioni che accompagnano il libro dello Hirn, I giuochi dei bimbi, trad.
Faggioli, 227 sgg. (Venezia, 1929). Dello stesso Hirn merita di essere
ricordato il volume The Origins of Art (London, 1902). Per lo studio delle
relazioni fra canto, danza e giucco ha bellissime pagine F. B. gummere, The
Beginning of Poetry, 337-46 (New York, 1901). Riferimenti: G. Pitrè,
«Archivio per lo studio delle tradi zioni popolari», 18, 143 (1899).

8. Sulla teoria del Gomme inerente alla natura del folklore, si vedano: W.
Crooke, Scientific Aspects of Folklore, «Folklore», 23, 14 sgg. (1912); oltre
i vari indirizzi presidenziali pubblicati in «Folklore» (1895 sgg.). Contro: si
vedano C. Knortz, Was ist Volkskunde und wie studiert man dieselbe?, 212
sgg. (Jena, 1900); G. Pitrè, Per l’inaugurazione del Corso di
Demopsicologia nella R. Università di Palermo, «Atti R. Accad. Se. Leu.
ed Arti», 7 sgg. del l’estratto (1911); R. Corso, op. cit., 35 sgg. (dove il
lettore potrà trovare altri rimandi). Sulla Folklore Society notizie bibl. in A.
Guichot y Sierra, Historia del folklore, 35 sgg. (Madrid, 1922).
Capitolo venticinquesimo

1. Sull’apporto che gli studi di etnologia e di folklore hanno dato agli studi
di filologia classica è assai utile il saggio di H. J. Rose, Modern Methods in
Classical Mythology (London, 1930). Note e notizie nelle opere A.
Gudeman, Grundriss zur Geschichte der Klassischen Philologie (Leipzig,
19092); e di J. E. Sandys, History of Classical Scholarship (Cambridge,
19213). Si deve tuttavia osservare che questo apporto è spesso dimenticato o
misconosciuto dagli storici della filologia classica. Così, ad esempio, in G.
Funaioli, Lineamenti d’una storia della filologia attraverso i secoli, in Studi
di letteratura antica, 1, 185-365 (Bologna, 1946), i nomi di Mannhardt,
Tylor, Frazer ecc. non sono nemmeno ricordati. Il che ci fa ricordare una
celebre recensione del Toutain dedicata al Wissowa e pubblicata nella
«Revue de l’Histoire des Religions», 25, 273 (Paris, 1904), dove si
denunziava il partito preso di quei filologi che, chiusi nelle loro torri, non
volevano vedere o fingevano di non vedere quel che si muoveva intorno a
loro. Anche oggi, del resto, sconcertante è, a volte, l’accoglienza che
ricevono le ricerche degli studiosi di filologia classica che sanno bene quale
sia il valore dell’etnologia e del folklore: due discipline che, in realtà, non
tutti i filologi vogliono studiare e che, dopo tutto, è molto comodo ignorare.

2-3. Sul Reinach storico delle religioni si vedano G. Schmidt, Manuale di


storia comparata delle religioni, trad. Bugatto, s. v. (Brescia, 1934); e A.
Bros, L’ethnologie religieuse, s. v. (Paris, 19382). Particolarmente
contrastata la tesi del Reinach sulla sopravvivenza di un totemismo
preistorico agli albori della civiltà greca. Si veda, in proposito, il lavoro di
O. Kern, Die Religion der Griechen, 1, 11 sgg. (Berlin, 1926). Altre notizie
bibliografiche in O. Falsirol, Il totemismo (Napoli, 1941); e in G. Thomson,
Eschilo e Atene, trad. Fuà (Torino, 1950).

4-8. Sull’attività del Marett si veda la collezione di saggi, Custom is King,


presentatagli dai suoi amici nel 1936 per il suo settantesimo anno. Ve in
questa raccolta un’accurata bibliografia di tutti gli scritti del Marett,
comprese le innumerevoli recensioni. Per altre indicazioni si vedano G.
Cocchiara, in R. R. Marett, Introduzione allo studio dell’uomo, trad. G.
Cocchiara (Palermo, 1944); H. Hubert e M. Mauss, L’étude sommaire de la
représentation du temps dans la magie et la religion, in Mélanges d’histoire
des religions (Paris, 19122), trad. A. De Martino nel vol. Durkheim, Hubert,
Mauss, Le origini dei poteri magici (Torino, 1951).

PARTE SESTA

Capitolo ventiseiesimo

1-8. Note e notizie sulla scuola storico-culturale in H. Pinard de la


Boullaye, L’étude comparée des religions, 1, 397 sgg.; 2, 254 sgg. (Paris,
1922). Da aggiungere E. De Martino, Naturalismo e storicismo
nell’etnologia, 125-28, 207-23 (Bari, 1941). Si veda pure E. Morote Best,
Elementos de folklore, 247 sgg. (Cuzco, 1950). Rimandi: G. Vidossi, Nuovi
orientamenti nello studio delle tradizioni popolari., Atti III Congr. Arti e
Tradizioni popolari, 172-73 (Roma, 1936).
Capitolo ventisettesimo

1-8. Sul Van Gennep e sul suo sistema si veda R. Corso, Folklore, 97-180
(Napoli, 19432) e la bibliografia ivi citata. Contro le sue pretese biologiche
si veda anche quanto scrive A. Varagnac, Définition du folklore, 18 nota 1
(Paris, 1938). Lo stesso Varagnac si ferma anche sulla insufficienza del
metodo psicoanalitico col quale qualche studioso (ad esempio il Rhoeim) ha
cercato di svelarci il mistero delle tradizioni popolari. Le posizioni del Van
Gennep sono state irrigidite da uno studioso belga, A. Marinus, il quale nel
volumetto La causalité folklorique (Bruxelles, 1942), ha affermato che il
folklore è una disciplina essenzialmente sociologica, la quale deve essere
studiata coi metodi della psicologia e non con quelli della storia. La scienza
del folklore, egli aggiunge, si deve disimpegnare dalla «concezione
puramente storica dei fatti» chiamata com’è ad affrontare l’analisi degli
«strati psicologici» ecc. Il Corso, op. cit., 100, giudica l’opera del Marinus,
di cui ci dà una compiuta bibl., come quella di un animoso che è
all’avanguardia del movimento nel Belgio e che ha fatto meritare alla sua
dottrina il nome di neo-folklore. In realtà, il Marinus è uno studioso
completamente sprovveduto di una qualsiasi preparazione storica e
filosofica, e le sue conclusioni sul folklore dimostrano soltanto questo: che
egli non solo non distingue quali sono i confini della psicologia e quelli
della storia, ma è fermo a quella che potrebbe chiamarsi l’archeologia della
storia. Ben diversa la preparazione di S. Erixon, Ethnologie régionale ou
folklore, «Laos», 1, 9 sgg. (Stockholm, 1951), il quale pur affermando che il
folklore deve tener conto di certi aspetti etnologici e psicologici, è
dell’avviso che esso presuppone un’indagine storica e comparativo-storica
della cultura tradizionale. La recensione del Van Gennep al Folklore
français del Sébillot è nella «Revue de l’Histoire des Religions», 25, 407
(1904). Rimandi: P. Toschi, rec. in «Lares», 16, 129-330 (1950).
Capitolo ventottesimo

1-8. Sulla storia del Modernismo si veda in particolar modo A. Houtin,


Histoire du Modernisme catholique (Paris, 1913); ed E. Bonaiuti, Storia del
Cristianesimo, 3, 651 sgg. (Milano,1943). Si aggiunga, soprattutto, per le
pagine dedicate al Loisy, G. Martini, Storicismo e modernismo (Napoli,
1951). Bibliografia del Saintyves: nel vol. dello stesso A., L’astrologie
populaire, 452-57 (Paris, 1937). Da integrare con A. Van Gennep, Manuel
de folklore français contemporain, s. v. (Paris, 1937-38) (in 4, 663, sono
ricordati i dissensi manifestati contro i Contes de Perrault). Non
condividiamo il parere che del Saintyves esprime il Thomson, The Folktale,
386 (New York, 1916). Sul Saintyves si vedano i giudizi di R. Maunier, di
J. Menand, di A. Marinus, di P. Rivet ecc. nel vol. miscellaneo Les Cahiers
Pierre Saintyves (Paris, 1940).
Capitolo ventinovesimo

1-4. Not. bibliografiche dell’attività folkloristica del Croce in G. Cocchiara,


Storia degli studi delle tradizioni popolari in Italia, s. v. (Palermo, 1947). Si
aggiungano i saggi del corsi, Il pensiero giovanile di B. Croce «Ann. Scuola
Normale di Pisa», (2) 17 (1948); e del Navacco, Appunti su Benedetto
Croce, studioso delle tradizioni popolari napoletane, «Belfagor», 5, n. 5
(1950). Sul concetto del Croce sulla poesia popolare si vedano P. Toschi,
Fenomenologia del canto popolare, 65 sgg. (Roma, 1951); L. Russo, La
critica letteraria contemporanea, 1, 227 sgg. (Bari, 1942).

5-6. Sul Barbi folklorista si veda G. Cocchiara, op. cit., s. v. (e la


bibliografia ivi citata). Sulla sua raccolta inedita di canti popolari si veda V.
Santoli, I canti popolari italiani, 177-200 (Firenze, 1940). Rimandi: V.
Santoli, Gli studi di letteratura popolare, nella miscellanea Cinquant’anni
di vita intellettuale italiana 1896-1946, 2, 7 dell’estratto (Napoli, 1950).

7-8. Bibliografia degli scritti del Menéndez Pidal in H. Seris e G. Arteta,


Bibliografica Hispanica (New York, 1935). Si ha pure la miscellanea
Homenaje a Menéndez Pidal (Madrid, 1925). Il lettore che voglia avere un
quadro preciso delle teorie del Menéndez Pidal può vedere l’introduzione
premessa all’Historia general de las literaturas hispanicas, pubblicata sotto
la dir. di G. Díaz Plaja (Barcellona, 1949). Contro alcune di queste teorie si
veda E. R. Curtius, Europäische Literatur und Lateinisches Mittelalter, 173
e passim (Bern, 1948). Il Baldi, Studi di poesia popolare d’Inghilterra e di
Scozia, 51 (Roma, 1949), ritiene che il Menéndez Pidal, Romancero, 28
sgg. (Madrid, 1927), pur illustrando «un bellissimo caso di rielaborazione
per contaminazione», sembrerebbe «voler far supporre che la rielaborazione
stesse tutta in quella inconscia selezione». Altre notizie in S. Battaglia,
Poema del mio Cid (Roma, 1943); G. Guerrieri-Crocetti, L’epopea
spagnuola (Milano, 1944); E. Li Gotti, El cantar de mio Cid, cantar del
buen vassallo, estr. da «Letterature moderne» (Milano, 1951) (ricchissima
la bibl.). Riferimenti: L. Spitzer, «Modern Language», 4, 420-21 (1943).
Capitolo trentesimo

1-2. Sul Meier e sullo sviluppo degli studi dedicati in Germania alla poesia
popolare nell’ultimo cinquantennio si veda A. Haberlandt, Die deutsche
Volkskunde (Halle, 1935). Altre notizie in P. Toschi, Nuovi orientamenti
nello studio della poesia popolare, «Lares», 16, 2 sgg. (1950).
3-4. Sul neofolklorismo del Naumann esiste una vastissima bibliografia. Si
vedano per tutti: A. H. Krappe, The Science of Folklore, 105, 189 (London,
1930); S. Thomson, The Folktale, 40, 87 (New York, 1946); R. Corso,
Folklore, 104-07 (Napoli, 19432); G. Vidossi, Nuovi orientamenti nello
studio delle tradizioni popolari, Atti III Congr. Arti e Tradizioni popolari,
175 (Roma, 1936). Numerose le critiche al suo sistema: si vedano, ad
esempio, J. M. Sokolov, Russian Folklore, s. v. (New York, 1950); R.
Wolfram, Lo studio della danza popolare in Germania e C. Hahm,
L’indagine sull’arte popolare in Germania, «Lares» 10, rispettivamente 341
sgg., 384 sgg. (1939).

5. Dell’Hoffman-Krayer, autore fra l’altro di dotti lavori sul folklore


svizzero, si veda soprattutto il vol. Kleine Schriften zur Volkskunde a cura di
P. Geiger (Basel, 1946). La formula vulgus in populo è in Die Volkskunde
als Wissenschaft (Zürich, 1902). Per altre notizie sulla sua attività cfr. R.
Weiss, Volkskunde der Schweiz, 1 sgg. (Zürich, 1946). Rimandi: G. Vidossi,
op. cit., 169.

6-8. Sugli sviluppi del folklore russo si cfr. soprattutto J. M. Sokolov, op.
cit., 30-92. Altre notizie in M. Azadovskij, Elude du folklore en URSS
(1918-32), «V.O.K.S.» [Organo della Società per le relazioni culturali tra
l’URSS e l’estero], 40-65 (1933); e in A. Marinus, Ethnographie, folklore et
archéologie en Russie soviétique, «Bull. Soc. Roy. Belge d’Anthropologie
et Préhistoire», 49, 177-86 (1934). Informatissimo e preciso il saggio di L.
Hippius e V. Čičerov, Trent’anni di studi sovietici sul folklore, «Rassegna
della Stampa Sovietica», nn. 4-5 (1949). Da integrare con E. De Martino,
Etnologia e folklore nella Unione Sovietica, in Scienza e cultura nell’URSS
(Roma, 1950). Riferimenti: P. Toschi, rec. alla trad. francese del cit. libro
del Sokolov in «Lares», 15, 105 (1949); C. W. von Sydow, Circulation des
contes populaires, Trav. Ier Congr. Internat. de Folklore, 132 sgg. (Tours,
1938); S. Baldi, Studi sulla poesia popolare d’Inghilterra e di Scozia, 55
sgg. (Roma, 1949).
Indice dei nomi

Aarne A.
Abdallah Ibn ul-Muqaffa
Addison J.
Afanasev A.
Afzelius A. A.
Alais (d’) V.
Alciato A.
Alexandri V.
Altusio
Ampère J.-J.
Anacreonte
Andersen H. C.
Anderson W.
Andree R.
Andreev A. N.
Antoni C.
Ariosto L.
Aristofane
Aristotele
Arnaldo A.
Arndt E. M.
Arnim (von) L. A.
Arwidson A. J.
Aulnoy (de) M.-G.
Azadovskij M. K.

Bachofen J. J.
Bächtold-Stäubli H.
Bacone F.
Baldi S.
Baltus (Padre)
Banier A.
Barbi M.
Bartoli D.
Basile G. B.
Bastian A.
Bayle P.
Becker Ph.-A.
Becq de Fouquières L.
Bédier J.
Behn A.
Bekker B.
Bellini G.
Benfey T.
Berchet G.
Bérenger-Féraud L.-J.-B.
Bernier F.
Bestužev-Marlinskij A. A.
Binni W.
Blackwell F. T.
Blair R.
Bloch M.
Bloch P. J.
Blücher G. L.
Boccaccio G.
Bodin J.
Bodmer J.
Böhme F. M.
Böhme J.
Boileau N.
Bolte J.
Bonald (de) L.-G.-A.
Bopp F.
Bossuet J.-B.
Boulanger N.-A.
Bourne H.
Bouterwek F.
Bowring J.
Brahms J.
Brand J.
Bréal M.
Breitinger J. J.
Brentano K.
Bronnitsyn B.
Bronzino
Brosses (de) C.
Browne T.
Buchan G.
Buffon (de) G.-L.-L.
Bugge S.
Bürger G. A.
Burke E.
Burns R.
Byron G.

Čaadaev P. Ja.
Caballero F.
Calepio
Calvino
Campanella T.
Carducci G.
Carmeli M.
Carré J.-R.
Cartesio
Cassirer E.
Castillo (del) H.
Cattaneo C.
Caudwell C.
Čelakowsky F. L.
Cervantes M.
Cesare
Cesareo G. A.
Cesarotti M.
Chardin
Charron P.
Chateaubriand (de) F.-R.
Chaucer G.
Chauviré R.
Cherbury (of) H.
Chiabrera G.
Child J. J.
Chopin F.
Christiansen R. T.
Cicerone
Čičerov V.
Ciezkowski A.
Claudius M.
Clodd E.
Cloots A.
Coirault P.
Coleridge S. T.
Colet H.-R.
Collins W.
Comparetti D.
Comte A.
Constant B.
Conti N.
Cook A. B.
Corneille P.
Cosquin E.
Costa G.
Cox G. A.
Craveri R.
Crawley E.
Cretet E.
Creuzer F.
Croce B.
Cronia A.
Čulkov M. P.
Cuoco V.

Dahlman F. C.
Dalrymple D.
D’Ancona A.
Danilov K.
Dante
D’Armancour P.
Daub K.
Davy G.
Dawson C.
De Ferraris A. (Galateo)
Defoe D.
De Gubernatis A.
Delehaye H.
Della Valle P.
De Lollis C.
Del Rio M.
De Martino E.
Demeunier J.-N.
De Nobili R.
De Sanctis F.
Dessauer R.
De Visser M. W.
Diderot D.
Dieterich A.
Diez F.
Di Francia L.
Di Giovanni G.
Diodoro Siculo
Dobroljubov N. A.
Dobrovsky V. N.
Doncieux G.
Dostoevskij F.
Droysen T.
Dufresny Ch.
Dulaure J.-A.
Dumersan Th. M.
Dumézil G.
Dupuis C.-F.
Duran A.
Durkheim E.

Eckermann J. P.
Edmont E.
Edwards W.
Eichendorff J.
Eliade M.
Epicuro
Erodoto
Esopo

Fara G.
Farnell E. T.
Fauriel C.
Fawtier R.
Fénelon
Fherle E.
Fichte G.
Ficino M.
Finetti G. F.
Flores P.
Fontenelle (de) B.
Foscolo-Benedetto L.
Fournier E.
Foy W.
Frazer J. G.
Frobenius L.
Fubini M.
Fueter E.
Fustel de Coulanges N.-D.

Gabotto F.
Gabrieli F.
Gaidoz H.
Galateo (vedi De Ferraris A.)
Galiani F.
Galileo
Galland A.
Garnier J.
Gautier L.
Gebelin (de) C.
Geiger P.
Geijer E. I.
Gentile A.
Gerbi A.
Gerhard E.
Giannone P.
Gibbon E.
Gilliéron J.
Gioberti V.
Gladstone W. E.
Gleim J. W. L.
Glinka M. I.
Gobineau (de) A.
Goethe W.
Gogol N.
Goguet A.-Y.
Gomme A. B.
Gomme L. B.
Góngora (de) L.
Gorkij M.
Görres J.
Gottsched J. C.
Gozzi G.
Graebner F.
Graf A.
Gramsci A.
Gravina G. V.
Gray T.
Gregorio di Tours
Grimm J.
Grimm W.
Groethuysen B.
Grozio U.
Grundtvig S.
Guérin (de) M.
Guizot F.

Haberlandt A.
Haberlandt M.
Hagedorn F.
Hahm K.
Hakluyit R.
Haller (von) A.
Hamann J. B.
Hardy T.
Harrison J. E.
Hartland S. E.
Harwood E.
Hazard P.
Hegel G.
Heine H.
Helvétius C.-A.
Herd D.
Herder J. G.
Heyne C. G.
Hilferding A. F.
Hippius L.
Hirn J.
Hoffmann-Krayer E.
Hubert H.
Huet P. D.
Hugo V.
Huizinga J.
Humboldt W.
Hume D.
Huvelin P.

Imbriani V.
Institoris H.

Jahn F. L.
Jeanmaire H.
Jeanroy A.
Jhering C.
Jolles A.
Jones W.
Jouvenel (de) B.

Kallas (Krohn) A.
Kant I.
Karadžič V. S.
Karamzin N. M.
Keller A.
Keltuyala V. S.
Ker W. P.
Kerbaker M.
King J. A.
Kircker A.
Kireevskij I.
Kireevskij P.
Klopstock F. S.
Köhler R.
Kolberg O.
Kollár J.
Kopitar J.
Koppers W.
Krohn I.
Krohn J.
Krohn K.
Krylov I. A.
Kuhn A.

La Bruyère (de) J.
Lachmann K.
La Créquinière (Padre)
Lafitau J.-F.
La Fontaine (de) J.
La Hontan (de) A.-L.
Lallemand C.
Lamprecht K.
Landau M.
Lang A.
Las Casas B.
La Villemarqué H.
Lawson J. C.
Lazarus M.
Le Brun (Padre)
Le Force (M.lle)
Lehmann O.
Leibniz G. W.
Lejeune (Padre)
Lenartowicz I.
Leopardi G.
Lermontov M. J.
Léry (de) J.
Lescarbot M.
Lessing H. E.
Lévy-Bruhl L.
Licurgo
Liebrecht F.
Liungmann W.
Livio
Locke G.
Lo Gatto E.
Loiseleur-Deslongchamps A.
Loisy A.
Lönnrot E.
Lopez de Gómara F.
Lorenzo il Magnifico
Lot F.
Lowth R.
Lubbok J.
Lutero
Luzel F.

Machiavelli N.
Mac Culloch J. A.
Mackensen L.
Mac Lennan J. F.
Macpherson J.
Maione I.
Maistre (de) X.
Mangourit M.
Mann T.
Mannhardt W.
Manzoni A.
Maometto
Marana G. P.
Marett R. R.
Marillier L.
Martens F. F.
Martire P.
Marx K.
Mauss M.
Mazzini G.
Meier J.
Meinecke F.
Meli G.
Menéndez Pidal R.
Mercier S.
Mérimée P.
Messia A.
Meyer P.
Michel F.
Michelet J.
Mila M.
Milá y Fontanals M.
Miller O. F.
Milton J.
Molinaro del Chiaro L.
Monaci E.
Monboddo J. B.
Montaigne (de) M.
Montesquieu (de) C.-L.
Morgan L. H.
Mörike E.
Moro T.
Mosè
Möser J.
Müllenhoff K.
Müller J.
Müller (de) J.
Müller M.
Muralt (von) B. L.
Muralt J.
Murat (M.me de)
Muratori L. A.
Mussorgskij M. P.

Nájera (de) E.
Napoleone
Naumann H.
Neri F.
Nerval (de) G.
Newton I.
Nicolai F.
Niebuhr B. G.
Niemcewicz J. U.
Nietzsche F.
Nigra C.
Nilson M. P.
Nodier C.
Novalis H. F.
Novali F.
Nutt A.
Nyerup C.

Olrik A.
Omero
Ovidio
Ozanam A. F.

Paolo Diacono
Paris G.
Pascal B.
Pasquali G.
Percy T.
Perrault C.
Pessler W.
Pestel P. I.
Pettazzoni R.
Petrarca F.
Pickard-Cambridge A.
Pictet A.
Pictorius L.
Pigafetta M.
Pinard de la Boullaye H.
Pitagora
Pypin A. N.
Pitrè, G.
Pitt H.
Placucci M.
Platone
Plinio il Vecchio
Plutarco
Polier (de) A.
Polivka G.
Poliziano A.
Polo M.
Pope A.
Propp V. Ja.
Puchta G. F.
Pufendorf S.
Pulci L.
Puškin A. S.

Quinet E.

Rabelais F.
Racine J.-B.
Rajna P.
Ralston W. R. S.
Ramsay A.
Ramusio
Ratzel F.
Razin S.
Reinach S.
Renan E.
Ribezzo F.
Ricci M.
Ridgeway W.
Riehl W. H.
Robertson Smith W.
Rodionovna A.
Rohde E.
Röhr E.
Rolland R.
Rousseau J.-J.
Rubieri E.
Russo L.

Sacy (de) S.
Sacharov I. P.
Saint-Pierre (de) B.
Saint-Simon (de) L.
Saintyves E. (E. Nourry)
Salomone-Marino E.
Salvemini G.
Sand G.
Santer E.
Santoli V.
Sarpi P.
Sartori P.
Savigny (von) F. K.
Schelling F. W.
Scherer W.
Schiller F.
Schlegel A. W.
Schlegel F. W.
Schleiermacher F.
Schmidt W.
Schubert F.
Schumann R.
Schwartz W.
Schwind (von) M.
Scott W.
Sébillot P.
Sénancour E.-P.
Sepulveda L.
Shaftesbury A. A. C.
Shakespeare W.
Shelley P. B.
Sokolov B.
Sokolov J. M.
Sorel G.
Souvestre E.
Spamer A.
Spee F.
Spencer H.
Spiess K.
Spinoza B.
Spitzer L.
Sprat T.
Sprenger J.
Staël (de) A.-L.-G.
Stasov V. V.
Stein (von) H. F. K.
Steinthal H.
Strabone
Straparola G. F.
Sydow (von) C. W.

Tacito
Taine H.
Talvi (vedi Voiart E.).
Tassoni A.
Tavernier J.-B.
Temple W.
Tereščenko A.
Terracini B.
Tertulliano
Thibaut A. F. J.
Thierry A.
Thiers J.-B.
Thomasius
Thoms W.
Thomson J.
Tieck J. L.
Tiersot J.
Tille V.
Toland J.
Tolstoj L.
Tommaseo N.
Tommaso d’Aquino
Tonnelat E.
Topelius Z.
Toschi P.
Tournemine (Padre)
Treitschke (von) H.
Trevelyan G. M.
Troya C.
Turgenev I. S.
Tylor E. B.
Tyrrel G.
Tyssot de Patot

Uhland L.
Usener H.

Valla L.
Van der Leeuw G.
Van Gennep A.
Varrone
Vega (de la) G.
Veneziano A.
Venturi F.
Verdi G.
Verga G.
Verri A.
Veselovskij A.
Vico G. B.
Vidossi G.
Viereck P.
Vincenti L.
Virgilio
Visconti P. E.
Voiart E.
Voltaire
Vossler C.

Wackenroder E.
Wagener A.
Wagner R.
Waitz T.
Walzel A.
Warton T.
Weber A.
Weinhold F. A.
Westermarck E.
Wieland C. M.
Wilamowitz (von) U.
Winckelmann J. J.
Wolf F. A.
Wolf J. W.
Wolfram R.
Wood R.
Wordsworth W.
Wundt G.

Young E.

Zola E.
Zuinglio
Žukovskij V. A.
Indice

Storia del folklore in Europa


Prefazione alla nuova edizione (1971) di Giuseppe Bonomo

Premessa

Parte prima. Alle fonti di un nuovo umanesimo: lo studio dei popoli

1. La «scoperta del selvaggio»


1. Una nuova provincia del sapere
2. Il selvaggio come documento storico
3. I selvaggi negli Essais di Montaigne
4. Un etnografo-folklorista: Lescarbot
5. Dialogo fra un Hurone e un Europeo, ovverossia la polemica politico-sociale del barone de La
Hontan
6. La «lezione» del selvaggio
7. Da Oroonoko a Robinson Crusoe
8. Di alcune mediazioni del mito del buon selvaggio nella coscienza europea

2. Il messaggio dell’Oriente
1. Gli Stranieri-Simboli
2. L’Oriente come vivaio di forze, di ideali e di religioni
3. «Di Dio è l’Oriente, di Dio è l’Occidente»
4. Il Turco e il Persiano danno lezioni all’Europa
5. L’Egitto, fonte di giovinezza
6. I conti di fata e l’Oriente
7. Le Mille e una notte
8. Noi e gli Orientali: differenze e concordanze
3. L’Europa fra religione e superstizione
1. La lotta contro l’errore
2. La Riforma e la comparazione fra il meraviglioso cristiano e il meraviglioso pagano
3. Il Malleus Maleficarum e la letteratura demonologica
4. Bodin e le streghe
5. Anticipatori dell’Illuminismo: Browne
6. Bekker e Thomasius
7. Il deismo e la religione naturale
8. Teologismo folkloristico

4. L’errore alla luce della ragione


1. Un precursore del folklore europeo: Bayle
2. La superstizione come elemento di potere
3. Fontenelle e la sua Histoire des oracles
4. Carattere degli oracoli
5. L’Origine des fables: contributo alla storia degli errori degli antichi
6. L’Origine des fables: soprattutto incunabolo etnografico
7. Le fiabe sono soltanto fantasia?
8. Storicismo e antistoricismo del Bayle e del Fontenelle

5. Incontri di popoli e di civiltà


1. Un nuovo mondo che nasce: Montesquieu e Voltaire, storici dell’umanità
2. Le Lettres Persanes e la loro polemica
3. Del metodo comparativo in Montesquieu
4. L’Esprit des lois
5. Voltaire e il fanatismo
6. Voltaire e i selvaggi
7. Voltaire e il mondo orientale
8. Dalla ricerca dello spirito delle nazioni alla distinzione fra borghesia e popolo

Parte seconda. La ricerca delle «origini» fra Illuminismo e


Preromanticismo

6. L’uomo e la storia
1. Verso una nuova «scienza dei costumi»
2. Lafitau e le sue Mœurs des Sauvages Amériquains
3. Etnografia e storia
4. La Scienza Nuova
5. Vico e il mondo primitivo
6. Alle origini, la poesia
7. Vico, le nazioni barbare e le civili
8. Le Antiquitates del Muratori

7. Natura, civiltà e progresso


1. Rousseau e l’apologia del selvaggio
2. Noi e i primitivi
3. La tradizione popolare come fattore umano e nazionale
4. Goguet e l’origine dell’umanità
5. Una nuova fenomenologia religiosa: il feticismo
6. Boulanger e l’antichità svelata
7. Forme e spirito delle feste
8. L’idea del progresso come elemento filosofico

8. Rivolta della poesia


1. Gusto del popolare e mediazione dell’Ossian
2. Significato e valore di una «burla»
3. L’Ossian e la scoperta di un nuovo «mondo poetico»
4. Alla ricerca della poesia popolare
5. Le Reliques del Percy
6. Nasce la moda delle ballate
7. Della loro importanza nella storia del gusto poetico
8. Il posto dell’Inghilterra nella storia del Preromanticismo

9. Poesia e tradizione
1. Il «primitivo» a casa propria
2. Muralt e Haller
3. Bodmer e il folklore della Svizzera
4. Poesia e sentimento nazionale
5. Le scoperte del Bodmer
6. L’opera storiografica del Möser
7. Müller e il colore locale
8. La mediazione della storiografia svizzera nella storia del folklore europeo

10. Herder o dell’umanità


1. Il mito dell’anima delle nazioni
2. Sul «primitivismo» dello Herder
3. Lingua e nazione
4. La poesia come poesia popolare
5. Voci dei popoli
6. Voci di Dio
7. Le Ideen e il loro significato
8. L’umanità in rivolta

Parte terza. II folklore come strumento di politica e di dignità nazionale nel


Romanticismo

11. Umanità della Germania


1. Il «tesoro dell’umanità»
2. Novalis, il Medioevo tedesco, e il Märchen
3. Tieck e l’antica letteratura tedesca
4. La poesia dei Minnelieder
5. Romanticismo e antichità classica
6. F. Schlegel, fra Oriente e Occidente
7. A. W. Schlegel e la poesia popolare
8. Romanticismo e Germanesimo

12. Dal cosmopolitismo al nazionalismo


1. La «nazione» politica
2. Arnim, Brentano e il Wunderhorn
3. Fondamenti per una letteratura popolare educativa
4. Görres, o della poesia popolare
5. Babbo Jahn, fra Rousseau e Fichte
6. Savigny e la «fabbrica delle leggi»
7. Valore della scuola e del diritto consuetudinario
8. Il Volk come organismo umano e umanitario

13. I fratelli Grimm


1. La poesia popolare come miracolo
2. Poesia, epopea e storia
3. I Kinder- und Hausmärchen e il tono della letteratura popolare
4. Un’opera d’arte nata da un errore metodologico
5. I racconti popolari come epopea nazionale
6. Poesia, diritto e mitologia
7. La Grammatik
8. Il patriottismo dei Grimm

14. Ritorno alle origini


1. Aspetti del Romanticismo inglese: Wordsworth e Coleridge
2. Scott folklorista e romanziere
3. Aspetti del Romanticismo francese: ritorno alla natura e all’uomo naturale
4. Da Madame de Staël al Fauriel
5. La Francia e il suo romancero
6. Aspetti del Romanticismo in Italia: dalla Lettera semiseria di Grisostomo alle Vecchie romanze
spagnuole
7. Tommaseo e il folklore italiano
8. Nazionalismi, primati e missioni

15. Insegnamenti del folklore


1. Aspetti del Romanticismo in Russia
2. La lezione di Danilov
3. Da Puškin a Glinka
4. Folkloristi cechi e polacchi
5. Karadžić e la poesia serbo-croata
6. Nasce il Kalevala
7. Del folklore nei paesi scandinavi
8. Insegnamento romantico del folklore: «pensare in europeo»

Parte quarta. II folklore tra filologia e storia durante il Positivismo

16. Nel «laboratorio» di Max Müller


1. Valore del mondo ariano
2. Positivismo del Müller
3. Interpretazioni linguistico-metodologiche del mito
4. Il linguaggio generatore dei miti
5. Alle fonti della religione
6. Nell’incantato mondo del folklore
7. Critiche e polemiche sul Müller
8. Validità del suo insegnamento
17. Sulle orme del Benfey
1. L’India come dogma
2. Il Panciatantra e l’origine indiana delle favole
3. La teoria storico-orientalista del Benfey
4. Propagazione e creazione delle novelle popolari
5. Köhler, Landau e Cosquin
6. Genesi della scuola storica russa: Miller e Veselovskij
7. La scuola finnica e il metodo storico-geografico
8. Strumenti di lavoro

18. Nel mondo romanzo


1. Nasce la filologia romanza. Dal Diez al Paris
2. Nazionalità e letteratura francesi
3. L’origine dell’epopea francese e la teoria delle cantilene
4. Rajna, indagatore di fonti
5. Bédier e la Francia del secolo XI
6. I Fabliaux e le Légendes épiques
7. Esiste una «memoria popolare»?
8. Bédier fra Romanticismo e Antiromanticismo

19. Vita del folklore letterario


1. Dal Child al Nigra
2. I Canti popolari del Piemonte
3. Aree di diffusione e centri di irradiazione
4. Rubieri e la Storia della poesia popolare italiana
5. Poesia popolare e poesia tradizionale nel concetto del Rubieri
6. D’Ancona
7. Comparetti
8. Poesia e novellistica popolare

20. La lezione del Pitrè


1. Fede nel popolo
2. Le opere maggiori del Pitrè: la Biblioteca, l’«Archivio», le Curiosità
3. Il folklore come storia nel concetto del Pitrè
4. La poesia popolare come problema
5. Portatori e creatori del folklore
6. Sull’origine delle fiabe e degli indovinelli
7. Unità del folklore
8. Pitrè e il metodo comparativo

Parte quinta. La scuola antropologica inglese e il suo influsso negli studi


delle tradizioni popolari

21. Tylor e la Primitive Culture


1. L’antropologia come «discorso nell’uomo»
2. Premesse della scuola antropologica inglese
3. L’homo sapiens come natura
4. La superstizione come sopravvivenza
5. Sopravvivenze e rinascite
6. Mitologia e religione
7. Animismo, infanzia della religione?
8. Naturalismo e storicismo del Tylor

22. All’insegna dell’animismo


1. Filologia classica, etnologica e folklore
2. Mannhardt e i Monumenta mythica Germaniae
3. Culti e riti agrari
4. Naturalismo e storicismo nel Mannhardt
5. Dalla Cité antique a Psyche
6. Usener
7. Dieterich
8. Il costume come culto religioso della vita

23. Frazer, l’avvocato del diavolo


1. L’opera del Frazer
2. Sulle orme del Re del Bosco
3. I principi della magia formulati dal Frazer
4. Il totemismo come magia
5. Il folklore nel concetto del Frazer
6. Magia e religione
7. «Domandare altri primi»
8. Stimoli e suggestioni dell’opera frazeriana

24. Il primitivo che è in noi


1. Lang e il metodo del folklore
2. Fiabe, miti e costumi
3. Alla ricerca della fede primitiva
4. Etnologia teologica
5. Hartland e i suoi studi sulla novellistica
6. La novellistica come tradizione
7. A. B. Gomme e i giuochi fanciulleschi
8. L. B. Gomme, teorico del folklore

25. Immortalità del folklore


1. L’Inghilterra e i suoi etnologi della filologia classica
2. Reinach e le religioni
3. Reinach e la scuola antropologica inglese
4. L’ultimo classico di tale scuola: Marett
5. Concetto del preanimismo
6. La sopravvivenza di fronte al giudizio storico
7. Valore dell’individuo nell’etnologia
8. Marett contro Reinach, 445

Parte sesta. Aspetti del folklore nell’ultimo cinquantennio

26. La lotta della storia


1. La scuola storico-culturale
2. Il suo precursore: Ratzel
3. La Methode del Graebner
4. Filologia etnologica
5. Interpretazioni etnologiche
6. Padre Schmidt, etnologo e storico del folklore
7. La credenza nell’Essere Supremo
8. La scuola antropologica inglese e la scuola storico-culturale

27. Fra storia e sociologia


1. L’opera del Van Gennep
2. Folklore e biologia
3. Folklore senza storia
4. Individuo e collettività nel pensiero del Van Gennep
5. Riti e sequenze
6. Van Gennep e il metodo cartografico
7. Van Gennep storico del folklore francese
8. Pregi e difetti della sua problematica

28. Apologia del folklore


1. Dietro Saintyves, il Modernismo
2. Il folklore fra naturalismo e storicismo
3. I fatti folklorici e la comparazione
4. Paganitas
5. La religione come magia
6. Il folklore biblico
7. Les Contes de Perrault: il libro più fascinoso del Saintyves
8. Il folklore e il dogma della fratellanza umana

29. Crisi di una poetica


1. Il noviziato di Benedetto Croce
2. Croce folklorista
3. Poesia popolare e poesia d’arte
4. Ancora della elaborazione popolare
5. Barbi folklorista
6. Filologia senza estetica
7. Menéndez Pidal
8. Poesia popolare e poesia tradizionale nel concetto del Menéndez Pidal

30. Poetica di un mito


1. Meier e la sua Rezeptiontheorie
2. Essenza della poesia popolare
3. Naumann e i valori culturali abbassati
4. Fonti del suo «sistema»
5. Confutazioni
6. La preghiera del Gorkij
7. Il folklore poetico nel concetto del Sokolov
8. Popolo e chiericato

Note e notizie bibliografiche


Premessa
PARTE PRIMA
1. La «scoperta del selvaggio»
2. Il messaggio dell’Oriente
3. L’Europa fra religione e superstizione
4. L’errore alla luce della ragione
5. Incontri di popoli e di civiltà
PARTE SECONDA
6. L’uomo e la storia
7. Natura, civiltà e progresso
8. Rivolta della poesia
9. Poesia e tradizione
10. Herder o dell’umanità
PARTE TERZA
11. Umanità della Germania
12. Dal cosmopolitismo al nazionalismo
13. I fratelli Grimm
14. Ritorno alle origini
15. Insegnamenti del folklore
PARTE QUARTA
16. Nel «laboratorio» di Max Müller
17. Sulle orme del Benfey
18. Nel mondo romanzo
19. Vita del folklore letterario
20. La lezione del Pitrè
PARTE QUINTA
21. Tylor e la Primitive Culture
22. All’insegna dell’animismo
23. Frazer, l’avvocato del diavolo
24. Il primitivo che è in noi
25. Immortalità del folklore
PARTE SESTA
26. La lotta della storia
27. Fra storia e sociologia
28. Apologia del folklore
29. Crisi di una poetica
30. Poetica di un mito

Indice dei nomi


www.illibraio.it

Il sito di chi ama leggere

Ti è piaciuto questo libro?


Vuoi scoprire nuovi autori?

Vieni a trovarci su IlLibraio.it, dove potrai:


scoprire le novità editoriali e sfogliare le prime pagine in
anteprima
seguire i generi letterari che preferisci
accedere a contenuti gratuiti: racconti, articoli, interviste e
approfondimenti
leggere la trama dei libri, conoscere i dietro le quinte dei casi
editoriali, guardare i booktrailer
iscriverti alla nostra newsletter settimanale
unirti a migliaia di appassionati lettori sui nostri account
facebook, twitter, google+

« La vita di un libro non finisce con l’ultima pagina »

Potrebbero piacerti anche