Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
www.facebook.com/bollatiboringhierieditore
www.illibraio.it
ISBN 978-88-339-7450-7
Immagine di copertina: Ivan Bibilin, tavola per Vassilissa la bella (1899), fiaba raccolta da Aleksandr
N. Afanasev.
Storia
Storia del folklore in Europa
Prefazione alla nuova edizione (1971)
Giuseppe Bonomo*
1971
* Giuseppe Bonomo (1923-2006), etnologo, insegnò Storia delle tradizioni
popolari presso l’Università di Palermo.
Premessa
La scienza del folklore e il suo soggetto. Che cos’è il popolo dei folkloristi. La storia del folklore,
storia dei dominati. Il folklore come aspetto ineliminabile della storia della cultura e della civiltà. La
storiografia del folklore come parte integrante della storia della storiografia. L’Europa alla ricerca di
se stessa.
Nelle sue Lezioni di storia della filosofia lo Hegel ebbe a osservare che
non è possibile scrivere un’introduzione alla storia della filosofia senza
mettere prima in luce il concetto stesso di filosofia, tanto più che questa «ha
la caratteristica e, se si vuole, lo svantaggio di prestarsi sin da principio alle
più svariate opinioni circa il proprio concetto, ciò che essa possa e debba
fare». Non è possibile, allo stesso modo, esporre la storia del folklore, senza
prima vedere qual è il concetto che deve animare questa disciplina, le cui
definizioni sono spesso quanto mai contrastanti.
Nato allo scopo di raccogliere e di studiare le varie manifestazioni della
vita popolare quale essa si articola nelle civiltà storicamente formate, il
folklore appare infatti a molti suoi cultori come una scienza autonoma con
leggi e metodi propri. Appare ad altri invece come una scienza sussidiaria,
la quale prende le sue leggi e i suoi metodi dall’etnografia, dall’etnologia,
dalla psicologia o comunque dalla sociologia. Il che comporta spesso certe
interferenze naturalistiche fra il folklore e queste discipline che pur hanno
in comune molti problemi. Né infine mancano gli studiosi i quali ritengono
che il folklore si risolve in filologia quando raccoglie e interpreta i canti
popolari, le fiabe, le novelle, le leggende ecc.; in storia dell’arte, quando
studia l’architettura rustica, le ceramiche popolari, i manufatti ecc.; in storia
delle religioni quando studia gli spettacoli e le feste; in storia dell’etnografia
quando studia le costumanze, gli usi ecc. E così via.
Il folklore sarebbe insomma l’insieme di vari elementi, il cui studio si
risolverebbe nelle varie discipline menzionate. In effetti però ciò che pone
dei limiti a una disciplina altro non è che il proprio soggetto. Se si dovesse
considerare infatti il folklore come filologia, etnografia, sociologia,
psicologia, noi potremmo esporre soltanto la sua storia filologica, quella
etnografica o psicologica, non la storia del folklore, il quale invece, perché
si possa studiare come tale, deve porre un suo particolare problema. Ma
qual è, dobbiamo domandarci, tale problema?
Prima di rispondere a questa domanda, dobbiamo osservare che in realtà
la storia del folklore ci è stata spesso presentata sotto l’aspetto di un vero e
proprio mostro che vive in sé e per sé come certi protagonisti delle favole
nordiche. Ma non è questo il modo d’intendere il folklore e tanto meno la
scienza del folklore. Si sono create, altre volte, sul folklore delle facili
teorie, contro le quali è poi comodo battagliare, forse perché, in tal modo, si
crede anche di poter distruggere il soggetto stesso del folklore, che è quanto
dire il popolo. Questo, che è un modo peggiore del primo, non solo
disorienta gli studiosi, ma discredita una disciplina alla cui sistemazione
hanno lavorato generazioni di scienziati.
Si aggiunga ancora che la stessa disciplina del folklore si è svolta, in
mezzo a dubbi e a incertezze, su due linee che procedono l’una accanto
all’altra, spesso ignorandosi a vicenda, onde ecco da una parte le tradizioni
orali, esplorate con intenti filologici o estetici, e dall’altra le tradizioni
oggettive, le cui ricerche sono collegate a interessi storici o storico-
etnologici. La letteratura popolare ci dà, è vero, dei testi individui, i quali
come tali possono anche rivendicare la loro natura artistica. Ma quei testi,
così considerati, non sono che brani di letteratura, quando invece per il
popolo, da cui provengono, essi fanno parte inscindibile di quel retaggio
dove si riflettono istintivamente, ma unitariamente, i molteplici valori dello
spirito umano. Da qui l’unità fra la letteratura popolare e l’etnica
tradizionale, tanto più che le stesse produzioni popolari orali (canti,
leggende, proverbi ecc.) rimangono spesso organismi senza vita, quando
non vengono illuminate dal costume, dall’uso, dalla credenza che le
armonizza, le vivifica e spesso le spiega.
Così pertanto – per riattaccarci di nuovo allo Hegel – come non è
possibile scrivere la storia della filosofia se esistono intorno a essa diversi
concetti, perché, dati concetti fra loro diversi, si danno più filosofie, onde
quella dell’una escluderebbe quella dell’altra, allo stesso modo è
impossibile esporre una storia degli studi delle tradizioni popolari, se
intorno ad essa si hanno diversi concetti (ecco, dunque, perché si verrebbe
in questo caso a esporre la storia filologica o etnografica o sociologica degli
studi delle tradizioni popolari). In realtà la storia degli studi delle tradizioni
popolari, perché possa essere effettivamente scritta, deve essere guidata da
un problema, che gli altri assommi e accomuni, e la cui risoluzione dipenda
dal suo stesso soggetto, vale a dire dalle tradizioni popolari, le quali
presuppongono non solo una tradizione, ma una tradizione che sia popolare.
Si afferma, è vero, che l’unità del folklore si deve perciò ricercare
nell’unità del suo soggetto, che è quanto dire nel retaggio dei cosiddetti
volghi dei popoli civili (ravvisati, in genere, nelle classi strumentali). È un
errore però, a nostro avviso, rinchiudere il folklore, cioè la materia del
folklore, nel cerchio di quei volghi, cui a torto o a ragione i folkloristi
danno il nome di popolo. E ciò perché il concetto di popolo, anche se esso
possa e debba rispecchiarsi principalmente nel vulgus, non è
esclusivamente sociologico. Il termine popolo può assumere i significati più
diversi: il sociologo, lo storico, l’uomo politico parlano infatti di un popolo
che risponde sempre per essi a qualche cosa di particolare, a certi interessi
etici o spirituali che sono il fine del loro fare o del loro pensare. Lo studioso
delle tradizioni popolari si rivolge sì a determinate classi, ma per lui il
popolo non è soltanto l’insieme di queste classi. Il popolo è l’espressione di
una certa quale visione della vita, di certi atteggiamenti dello spirito, del
pensiero, della cultura, del costume, della civiltà che si presentano con
caratteri propri, specifici, determinati. E qui è la natura stessa del folklore, il
quale, come ben ammoniva il Gramsci, e tale ammonimento ha pur sempre
la sua validità, specialmente in Italia, «non va concepito come una bizzarria
o una stranezza o come un elemento pittoresco, ma come una cosa che è
molto seria e da prendere sul serio», tanto più che esso si risolve in una
«concezione del mondo e della vita».
Un popolo, del resto, è pur sempre quello che la sua storia l’ha fatto:
storia non soltanto politica, ma vita storica in tutte le sue manifestazioni,
dalla lingua all’economia, dal diritto alle costumanze. È vero che la storia
del folklore è viziata, a volte, da premesse che sono la negazione stessa
della storia e dell’estetica, onde si insiste, ad esempio, sugli assurdi concetti
di una storia minore rispetto a una storia maggiore, di una letteratura o di
un’arte minore rispetto a quella maggiore. Ma è pur vero che le tradizioni
popolari, quali esse siano, sono sempre delle formazioni storiche, né più né
meno come la lingua, l’economia, il diritto. Né è possibile che esse, fatti
spirituali, documenti di vita, di pensiero o di arte, vivano al di fuori (o al di
sopra) della storia, la quale non è fatta soltanto dai dominatori, ma anche e
soprattutto dai dominati. La storia è la loro vita e la loro anima.
Ma allora, se le tradizioni popolari vanno considerate come formazioni
storiche, il problema fondamentale che, data la loro natura, esse pongono, è
un problema di carattere storico. E il compito dello studioso delle tradizioni
popolari è quello di vedere come esse si sono formate, perché si
conservano, quali sono stati e quali sono i bisogni che ne determinano non
solo la conservazione, ma quella continua, e direi naturale, rielaborazione,
dov’è il segreto stesso della loro esistenza, che è un continuo morire per un
eterno rivivere.
È qui, d’altra parte, in questa continua rielaborazione, che il folklore si
distingue per un suo determinato atteggiamento espressivo che lo rende
inconfondibile. In realtà gli studiosi di folklore si sono spesso affannati a
favoleggiare, ad esempio, dei misteriosi nascimenti della letteratura
popolare. Ma il nascere non può essere qui qualcosa di distinto dall’essenza
stessa e dal peculiare carattere di quel dato storico, di quel particolare
fenomeno letterario, che come ogni altro sorge spontaneo in noi per
originalità e libertà dell’atto creativo, né può ripetere le sue cause fuori di
sé: il che però non toglie che le sue radici si affondino nella tradizione di un
ambiente di cultura caso per caso diverso.
In questo senso il problema del folklore è quello di definire quei
caratteri, di definire cioè quel che sia da dire popolare e quello che invece
non lo sia. Indubbiamente bisogna considerare popolare tutto ciò che dal
punto di vista creativo ci si presenta come qualcosa di elementare, di
ingenuo, come un’adesione diretta al reale, al sensibile, a quanto con
evidenza e immediatezza solleciti la nostra sensibilità ed emotività. Non è
possibile tuttavia considerare ciò che è popolare senza animarlo coi valori
che sono insiti nella tradizione, che è quanto dire nella continua vitalità e
presenza del passato. E perciò bisogna vedere nel concetto di popolare la
tendenza, il bisogno e l’esigenza dell’individuo che vive con gli altri, pensa,
per così dire, con un’anima che è la sua anima e quella degli altri, del
piccolo vasto mondo che lo circonda e in cui si concludono la sua realtà e la
sua storia.
Dal concetto di popolo e di popolare così inteso deriva un concetto più
chiaro di ciò che noi chiamiamo folklore, e quindi una comprensione più
precisa dei rapporti che intercorrono fra il folklore e la filologia in senso
lato, fra il folklore e la storia delle religioni e quindi della mitologia ecc. Né
diverso è il concetto che deve richiamarci il termine primitivo nel quale
spesso si converte il primo. È vero che il primitivo è stato inteso, a volte,
come un prima cronologico e come tale ravvisato fra i cosiddetti popoli
selvaggi, fra popoli diversi cioè da quelli delle civiltà occidentali. Ed è vero
altresì che il primitivo così inteso è stato quanto mai fecondo nella storia del
folklore. Ma di cos’altro si tratta anche qui, come del resto avevano ben
compreso gli storici del Settecento, e in particolare il Vico, se non di un
dato ideale della nostra coscienza e del nostro essere, un dato da cui noi
siamo passati o passiamo e che vive e rivive in noi?
L’etnologia, che è quanto dire lo studio dei popoli primitivi, non può non
avere tuttavia, così come li ha il folklore, i suoi confini empirici, dentro i
quali sono legittime le relative comparazioni. Sta di fatto, però, che tanto
l’etnologia che il folklore non sono altro, e non possono essere altro, che
uno specifico campo di possibili ricerche storiche, destinate a chiarirsi e
illuminarsi a vicenda, per chiarire e illuminare le nostre stesse civiltà. Si è
detto, e giustamente, che in caso contrario l’etnologia rimarrebbe un campo
ozioso. Ma è forse diversa la posizione del folklore? E possiamo noi
pertanto esporre la storia del folklore senza abbinarla a quella della
etnologia, anche se non sempre il folklore, per essere studiato, richiede il
suo ausilio?
Così stando le cose, a noi sembra dunque che il problema che investe il
folklore non è un problema filologico, sociologico, psicologico, etnografico
ecc., ma è un problema essenzialmente storico, che tutti gli altri assomma e
trasfigura. Non si vuol negare con ciò la validità che nel campo del folklore
assumono le varie discipline filologiche o naturalistiche di cui, ove e
quando sia il caso, il folklo-rista si deve avvalere con la consapevolezza di
non scambiare gli strumenti di lavoro col proprio lavoro. È compito del
folklorista infatti non isolare quelle ricerche, ma vivificarle l’una con
l’altra, tanto più che nel campo del folklore l’intrinseco interferire delle
varie discipline è pur sempre dominato dalla natura stessa del folklore, che
è quanto dire dal concetto di ciò che si dice popolare.
E questo compito del folklorista è e deve essere, a nostro avviso, il
compito dello storico del folklore, il quale, naturalmente, nella sua
narrazione non può non ricorrere a determinati limiti cronologici, per
quanto questi, in fondo, altro non siano che punti di riferimento per la
nostra mente, tanto più che, ove noi vogliamo effettivamente comprendere
l’indole di una disciplina, è necessario vedere qual è il momento particolare
in cui essa nasce come ricerca autonoma.
È noto ora, in proposito, che nel ricercare le radici da cui il folklore,
inteso come disciplina autonoma, trae il suo nascimento scientifico, gli
studiosi si sono quasi sempre dichiarati concordi nel ritenere che esso, per
quanto riguarda l’etnica tradizionale (usi, costumi, credenze ecc.), si
rifaccia al movimento filosofico dei secoli XVII e XVIII, mentre, per quanto
riguarda la letteratura popolare (canti, leggende, proverbi ecc.), si ricolleghi
al Romanticismo. E di recente anche Thomas Mann ebbe ad affermare che
lo stesso Romanticismo non solo trasse «dalla profondità del passato i tesori
delle fiabe e delle canzoni», ma anche «fu un grande protettore della
scienza del folklore che nella sua luminosità variegata ci appare come una
derivazione dell’esotismo».
Il momento in cui la scienza del folklore comincia ad acquistare
consapevolezza, critica e storica, di se stessa, non può però, a nostro avviso,
farsi risalire né al movimento filosofico dei secoli XVII e XVIII, e tanto meno
al Romanticismo, che da quel movimento trasse la linfa che in parte lo
alimenta. E di ciò si è accorto appunto un acuto folklorista francese, il
Saintyves, il quale è dell’avviso che le scoperte geografiche del secolo XVI,
e in particolar modo quelle del Nuovo Mondo, obbligarono gli studiosi del
tempo a riproporsi molti problemi inerenti alla storia delle istituzioni e
potenziarono un mezzo di indagine, quello della comparazione, onde
nacque così l’etnografia moderna, e con essa il folklore.
È dopo la scoperta dell’America, peraltro, che si fa sempre più viva nella
coscienza europea la lotta contro i vincoli e le eredità di una cultura che
sembra politicamente e socialmente come la negazione dello spirito e di
ogni originaria libertà. Ed è allora altresì che si viene formando e
sviluppando una letteratura etnografica, che se spazia nei confini
dell’esotico si insinua pure nella cultura europea come stimolo di ricerca.
L’Illuminismo, il Preromanticismo, il Romanticismo, il Positivismo,
l’Evoluzionismo ecc., non sono che le tappe di questa ricerca, la quale
subirà le varie modificazioni della storiografia, inserendosi in quella
evoluzione generale che si va compiendo nello stesso spirito europeo. Ed è
qui, in tale ricerca, che lo studio del folklore assume un suo aspetto
particolare, legato com’è, fra l’altro, a una fitta rete di miti e di messaggi, in
cui si inverano esperienze politico-sociali, filosofiche e artistiche.
Questi miti e questi messaggi finiscono, d’altra parte, con l’unire
l’Europa legandola in una ideale unità, mentre assumono una loro validità
nei loro stessi errori. In questo senso: che quegli errori sono, a loro volta,
uno stimolo necessario e costante per il progresso della nostra disciplina. Si
tratta, in fondo, di miti e di messaggi in cui ciascuna nazione dà o crede di
dare il meglio di se stessa e che coincidono con l’avvento della ragione, con
la teoria del contratto sociale, con l’idoleggiamento e la missione dei popoli
e delle nazioni, con la formazione della classe operaia. Non solo: ma anche
col rinnovamento della poesia, della letteratura, della musica che dalle
tradizioni dei popoli traggono nuovi impulsi.
Gli studi del folklore, che sarebbe ingenuo isolare da tutte queste
esperienze che danno loro vita, non vanno dunque considerati come tanti
tessuti ciascuno a sé stante, bensì come un unico tessuto nel quale i vari fili
s’intrecciano, è vero, ma non per darci altri fili, bensì il tessuto stesso. Lo
storico che vuole peraltro indagare l’origine e lo sviluppo degli studi del
folklore europeo deve convertire i cosiddetti metodi che li hanno a mano a
mano caratterizzati non in una serie di ricette a carattere magico – «fai
questo e avrai quest’altro» –, ma in una somma di esperienze e di
interpretazioni personali. È ovvio quindi concludere che la storia del
folklore non è, e non può essere, che la storia degli indirizzi di pensiero che
tali esperienze hanno promosso, nel loro vario concretarsi e individuarsi
nella personalità e nel mondo della cultura dei singoli studiosi, la cui opera
va giudicata non solo per quel che valse ma anche e soprattutto per quel che
vale.
È alla luce di questi criteri che io mi accingo a studiare come si sia
formata in Europa una coscienza del folklore e come da essa sia nata poi la
scienza del folklore. La mia indagine pertanto è, e vuole essere, una storia
interna, o meglio direi in senso vichiano, ideale di tutto un movimento di
studi che porta l’Europa alla ricerca di se stessa in ciò che essa ha di più
intimo. Come tale essa ha la sua unità e il suo centro vitale nella cultura
europea. E come tale deve necessariamente riguardare soltanto quegli
studiosi che vissero e pensarono nel clima storico di quella cultura e in
funzione di essa si posero i problemi di cui si occuparono.
Debbo dire infine che, come termine ad quem della mia narrazione, se
pur ho ritenuto opportuno esaminare la fase più recente degli studi
folkloristici, tuttavia ho limitato il mio esame a quelle figure la cui opera è o
può considerarsi conclusa. E ciò non perché dell’immediato passato non
possa farsi storia. È questo un luogo comune smentito da tutta la storia della
storiografia antica e nuova. Ma perché in particolare quando si tratta di
teorie e dottrine spesso, come è inevitabile, controverse, qualche volta di
ipotesi quanto si voglia acute e geniali, che però attendono una conferma
scientificamente fondata, di spunti interpretativi che potrebbero dare luogo
a un ulteriore svolgimento, di polemiche infine o accenni polemici che
offrono o potrebbero offrire ai singoli studiosi la possibilità di chiarire a se
stessi e al lettore, il proprio pensiero, l’opera tutta quanta di ciascuno di noi
è come un libro in cui non si è ancora pervenuti all’ultimo capitolo, al
capitolo conclusivo. Per il rispetto che dobbiamo all’intenso fervido lavoro
di coloro che oggi rappresentano la scienza del folklore ho preferito non
scrivere l’ultimo capitolo di questo libro.
Parte prima
Alle fonti di un nuovo umanesimo:
lo studio dei popoli
1. La «scoperta del selvaggio»
«La poesia popolare ha tale grazia e ingenuità per cui si può paragonare a ciò che di più bello possa
darci la poesia d’arte; come si vede nelle villanelle di Guascogna e nelle canzoni importate dalle
nazioni che non hanno coscienza d’alcuna scienza e nemmeno di scrittura» (Essais, libro I, cap.
LIV).
«Ora io trovo che nulla c’è di barbaro e di selvaggio in questa nazione [cioè nel Brasile] a quanto me
ne fu riferito, se non che ognuno chiama barbaro ciò che è fuori della sua consuetudine. Come infatti
noi non abbiamo altra pietra di paragone della verità e della ragione che l’esempio e l’idea delle
opinioni o delle usanze del paese dove viviamo, che qui è per noi la perfetta religione, la perfetta
politica, il perfetto uso di tutte le cose. Essi [i Brasiliani] sono selvaggi alla stessa maniera che noi
chiamiamo selvaggi i frutti che la natura ha spontaneamente prodotto: mentre, a dire il vero, sono
quelli alterati da noi con il nostro artificio e sviati dall’ordine naturale che dovremmo chiamare
piuttosto selvaggi. In quelli sono vive e vigorose le vere e più utili naturali virtù e proprietà, le quali
noi nei nostri abbiamo imbastardite e accomodate al piacere del nostro gusto corrotto» (Essais, libro
I, cap. XXXI).
«Diceva Epicuro che nello stesso tempo in cui le cose sono qui come noi le vediamo, esse sono tutte
parallele e nella stessa maniera in parecchi altri mondi. E in quanti esempi noi, oggi, non vediamo
similitudini e rassomiglianze fra questo nuovo mondo delle Indie occidentali e il nostro?
In verità, considerando ciò che è venuto a nostra conoscenza del corso di questa civiltà, mi sono
spesso meravigliato di vedere a grande distanza di tempo l’incontro di un gran numero di opinioni
popolari mostruose e credenze selvagge. Lo spirito umano è un grande operatore di miracoli»
(Essais, libro II, cap. XII).
«Voi siete dei grandi pazzi. Occorrono, dunque, tante ricchezze a voi e ai vostri figli o a quelli che
verranno dopo di voi? La terra che vi ha nutriti non sarà ugualmente sufficiente per nutrirli?»
«Le leggi naturali, meno imbastardite delle nostre, comandano i selvaggi. Ma questa è una tal purità
che io sento qualche volta dispiacere che la conoscenza non ne sia venuta piuttosto in tempo quando
vi erano degli uomini che ne avrebbero saputo giudicare meglio di noi. E mi dispiace che Licurgo e
Platone non l’abbiano avuta, perché mi sembra che quello che noi vediamo per esperienza in codeste
nazioni [cioè fra i selvaggi d’America] sorpassi non solo tutte le pitture di cui la poesia ha abbellito
l’età dell’oro e tutte le invenzioni da essa fatte per rappresentare una felice condizione umana, ma
ancora la concezione e l’ispirazione stessa della filosofia: essi non hanno potuto immaginar
un’ingenuità così pura e semplice come noi la vediamo per esperienza; né hanno potuto credere che
la nostra società si possa mantenere con così poco d’artificio e di saldatura umana. C’è una nazione,
direi io a Platone, nella quale non c’è alcuna specie di traffico, nessuna conoscenza di lettere, nessuna
conoscenza di numeri, nessun nome di magistrato né di autorità politica, nessun uso di verità, di
ricchezza o di povertà, non contratti, non successioni, non divisioni, non occupazioni se non oziose,
non rispetto o parentela se non comuni, non vesti, non agricoltura, non metallo, non uso di vino o di
biade: ignote le parole stesse che significano menzogna, tradimento, dissimulazione, avarizia, invidia,
calunnia, perdono» (Essais, libro I, cap. XXXI).
Il mondo dei primitivi nel Montaigne è pur sempre quello dei viaggiatori
e dei missionari che si erano spinti fra gli Indiani di America. Bisogna,
tuttavia, osservare che la natura quale egli la concepisce non è più quella, ad
esempio, di un Marsilio Ficino. E di ciò si accorse un amico e discepolo del
Montaigne, lo Charron, quando nel suo libro De la Sagesse, che uscì nel
1601, e che non senza significato apre il secolo XVII, affermò decisamente
che l’uomo è naturalmente buono.
4. Un etnografo-folklorista: Lescarbot
Il Montaigne nella cui voce e nel cui spirito risuona ancora l’idea
classica – ma un’idea classica già travasata nell’altro mondo – chiude,
dunque, il Cinquecento. Ma la sua polemica, o meglio il suo messaggio
(dove, quali che siano le sue fonti, si compendia l’esperienza vissuta dai
missionari e dai viaggiatori che si erano spinti fra gli Indiani d’America)
sarà accolta in pieno dal secolo successivo, durante il quale, anzi, i
confronti fra noi, uomini civili, e i selvaggi, nuovo acquisto della cultura
europea, assumono sempre più il carattere di una rivolta politica e culturale.
Così, ad esempio, nel 1609 esce a Parigi una Histoire de la Nou-velle
France, narrata da Marc Lescarbot che è un estroso avvocato parigino oltre
che un buon poeta. Ebbene, egli si preoccupa, è vero, di darci un rapporto
sugli «usi della Nuova Francia, comparati con quelli degli antichi popoli»
ma questa comparazione è fine a se stessa? Nel descriverci il modo di
pensare dei selvaggi americani, quale esso si articola in tutta la loro vita,
nella maniera di vestirsi, nella vita familiare, nelle istituzioni cui si adagia,
nei riti e nelle cerimonie cui partecipa, il Lescarbot ricorre continuamente a
Erodoto, a Plinio o a Tertulliano. Stravaganti, tuttavia, le sue spiegazioni.
Una tribù ha l’uso di bruciare i mobili e le cose di colui che muore. Ecco
una lezione per gli avari europei. C’è di più: Lescarbot non si contenta di
paragonare gli usi dei primitivi con quelli dei Greci o dei Romani. Egli fissa
anche il suo sguardo sulle tradizioni popolari della Guascogna. E anche qui
i suoi confronti sono piuttosto mnemonici, vaghi. Non importa: è la sua una
delle prime opere dove lo studio dei popoli primitivi si incontra, sia pur
timidamente, con quello dei volghi dei popoli civili.
Il Lescarbot nelle sue comparazioni è, in fondo, sulla stessa via dei
Gesuiti. Egli compara i primitivi ai Greci e ai Romani per nobilitarli. E
anche lui, che pur non ha preoccupazioni teologiche da sostenere, insiste su
quella comunità di origine fra primitivi e Greci che era stata una delle tesi
sulla quale di più avevano dissertato gli stessi Gesuiti. Senonché, quando a
noi sembra che il Lescarbot voglia riportarci con la sua idealizzazione del
selvaggio in un’Arcadia di maniera, ecco che la sua comparazione investe
due mondi, il nostro e quello dei selvaggi. A discapito del primo,
naturalmente. Volete sapere, egli si domanda, perché i selvaggi sono felici e
vivono effettivamente nell’età dell’oro? Perché in essi non esiste né il mio
né il tuo. Noi Europei siamo sempre in disaccordo, tutti, su tutto. Nei
selvaggi, invece, la concordia è il fattore predominante della vita. Gli spiriti
europei sono tutti tormentati dalla vanità e dall’ambizione: i selvaggi non
conoscono questo tarlo, e sono felici.
La comparazione fra gli usi dei primitivi e i nostri si trasferiva pertanto,
nel Lescarbot, su un piano sociale. E su tale piano si porrà, quasi a
concludere un altro secolo di esperienze inerenti ai viaggi fra gli Indiani
d’America, il barone de La Hontan: un tipo violento come il Las Casas, ma
estroso come il Lescarbot.
Il mito del buon selvaggio, intanto, dalla Francia (che in un certo senso
l’ha importato dalla Spagna e soprattutto dal Las Casas) passa in
Inghilterra. Ma qui assume un aspetto, direi, romantico. Le requisitorie del
Las Casas, del Léry, del Lescarbot in Inghilterra si sono stemperate in una
patetica storia uscita fin dal 1688: l’Oroonoko di Aphra Behn, dove si narra
di un giovane commerciante inglese che si imbarca a Londra per trafficare
nelle Indie Occidentali. I suoi compagni sono massacrati in un’isola. Ma
egli viene salvato da una selvaggia, Yoriko, per amore. Quando finalmente
il giovane commerciante può salire a bordo di un vascello, si porta Yoriko
che lo segue umile e sottomessa. Ma il giovane – finita la festa gabbato lo
Santo – sul suo vascello, che è quanto dire sulla sua terra, riflette meglio sul
tempo perduto e sugli affari andati a monte. E vende come schiava la sua
amante. Ecco l’Europeo: vile e infame. Ed ecco la selvaggia: anima nobile e
generosa.
Si tratta di una storia – l’amore di un europeo e di una selvaggia – che
l’Inghilterra conosceva fin dal 1624, quando, cioè, nella sua General
History of Virginia il capitano Smith, che ne era l’autore, narrò la famosa
avventura che aveva avuto con una indiana, Pacahoantos. Ma, nella Behn,
quella storia non è soltanto una pagina di letteratura, è anche un motivo di
polemica politico-sociale. Il che costituirà l’ossatura, salda e robusta, di
un’altra opera che si affaccerà sulla scena della vita letteraria dello stesso
paese: Robinson Crusoe. Il suo autore, Daniel Defoe, era vissuto in mezzo a
un ambiente dal quale non aveva saputo raccogliere che la disperazione. Era
andato avanti con dei libelli politici. Ma a sessant’anni egli sente la
nostalgia che era stata, e che era, nell’animo degli utopisti e dei viaggiatori.
E da buon inglese, visto il passivo delle sue azioni, punta su quella nuova
esperienza come a un probabile attivo.
Si parlava molto, allora, in Inghilterra, delle avventure capitate a un
marinaio scozzese, Alexander Selkirk, che, dal capitano della nave sulla
quale si trovava, era stato abbandonato in una isola deserta, dov’era
rimasto, solo, quattro anni. Questa storia fu narrata nella seconda edizione
di un libro del Rogers intitolato A Cruising Voyage round the World. Da
essa il Defoe trasse, appunto, l’ispirazione per scrivere, nel 1719, il volume
The Life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe, of York,
Mariner. Ma quel volume – che pur dette l’avvio a tutta una serie di
robinsonate, per quanto nessuna raggiungesse, poi, il colore e il calore della
prima – non era già, per suo conto, sulla stessa via già percorsa da tutta una
letteratura che aveva amato descrivere dei paesi felici, lontani nel tempo e
nello spazio, non ancora corrotti dalla civiltà? Pensate, per la Francia, alla
già citata Histoire des Sevarambes di Varaisse d’Alais, che è del 1677, e al
Télémaque del Fénelon, che è del 1698. Oppure ancor meglio, ai Voyages et
aventures de Jacques Massé, pubblicati nel 1710 dal Tyssot de Patot. Ma
qual era, ci si deve ora domandare, lo spirito di questi scritti? Quale quello
del Defoe? C’era indubbiamente nei Francesi una esigenza da far valere:
evadere verso un nuovo mondo, immaginario che fosse, dal quale vedere il
loro mondo. C’era già in essi, precursore o epigono, il barone de La Hontan,
e, insieme a lui, c’era l’ansia di voler vivere secondo natura, in mezzo alla
natura.
Il Robinson Crusoe codifica, potremmo dire, la stessa ansia. Ma è già
un’altra via. Gli utopisti-romanzieri francesi, descrivendo la vita
avventurosa del loro eroe, dogmatizzano contro tutti i dogmi; non solo, ma
fanno del suo naufragio – che è, in genere, la nota dominante delle loro
fantasie – il naufragio della civiltà occidentale. Il naufragio di Robinson è sì
liberazione dalla società, ma è al tempo stesso un avvicinarsi a Dio.
Robinson nell’isola dove è naufragato non è solo. È con la natura che pensa
a lui, lo salva e lo redime. Ma per lui, la natura è Dio.
Sarebbe suggestivo, forse, applicare l’interpretazione calvinistica del
mito di Adamo ed Eva al racconto del Defoe. Robinson è un Adamo senza
Eva. Anche lui alla conquista – pratica – del mondo. D’un mondo, cioè, da
costruire dal nulla. Ma, quali che possano essere gli echi che noi possiamo
oggi ravvisare nel Robinson Crusoe, sta di fatto che in esso il punto cruciale
è costituito dall’incontro di Robinson con Venerdì, ch’egli salva dai
cannibali. Venerdì, il selvaggio dai lineamenti da efebo, generoso e leale
come di rado sono gli Europei, è il ritorno stesso alla civiltà, quando questa
è stata conquistata non fuori di sé ma dentro di sé.
Questo è il messaggio di Robinson, il quale, nell’isola dove approda, non
incontra né re né pastori come avviene nel mito, diffuso un po’ dovunque,
dall’Italia alla Grecia, del fanciullo abbandonato sulla riva; e, tanto meno,
delle streghe come il protagonista della Tempesta; né, infine, quei savi che
predicano la morale agli occidentali lontani, insoddisfatti dei loro governi e
delle loro monarchie; bensì la sua coscienza d’uomo, quella coscienza che,
invano, egli aveva cercato nel seno della sua civiltà e del suo mondo.
Robinson, dopo ventotto anni, ritorna nella sua terra. Ma quando Defoe
ritorna alla sua civiltà, non saprà vedere che delinquenti e prostitute.
La civiltà e il mondo del Defoe non sono, infatti, l’Eden – ormai rimasto
lontano –, ma sono l’Europa. La quale, come ben osserva il Dawson, dopo
il rapido progredire della evangelizzazione delle terre di oltre Atlantico,
cessa di essere un continente cristiano e perde una sua caratterizzazione
tipica ed esclusiva – anche se essa conserva ancora la sua fedeltà alla
tradizione classica e al suo umanesimo. È vero, aggiunge lo stesso Dawson,
che la società nel suo complesso rimane dominata dalle idee religiose, così
com’era stata nel Medioevo e che «ci si può persino domandare se la
religione abbia mai destato un interesse più appassionato che durante il
secolo che va dal 1560 al 1660, l’epoca dei puritani e dei Giansenisti, di
santa Teresa e di san Vincenzo di Paola». Ma in mezzo a questa società non
v’è già tutto un ribollire di idee, di anticipazioni, di intuizioni che sono
destinate a travolgere e a rinnovare la società futura e a cui certo non è né
sarà estraneo il mito del buon selvaggio? Questo mito medierà, è vero, nella
coscienza europea una problematica che cambia con le fasi storiche in cui si
verrà articolando. Si può senz’altro affermare però che esso fin dalla sua
formulazione, se da una parte ravvisa nel selvaggio l’autentico uomo di
natura (con le sue leggi e con la sua religione naturale), dall’altra potenzia
l’interesse per tutto ciò che appartiene all’uomo e che è umano.
Il selvaggio è ormai una pietra di paragone su cui si misura il mondo
classico e il mondo moderno – il che costituisce il germe della storia del
folklore soprattutto quand’essa si innesta sull’etnologia. Il suo mito
contiene peraltro l’affermazione di un nuovo valore da cui quella storia
trarrà un impulso vigoroso: l’affermazione, cioè, di tutto ciò che è semplice
ed elementare in opposizione a tutto ciò che è artificioso e voluto.
2. Il messaggio dell’Oriente
1. Gli Stranieri-Simboli
«Se i nostri viaggiatori si fossero spinti sino al luogo dove sorgeva quella città, avrebbero certamente
trovato ancora qualcosa d’incomparabile nelle sue rovine, perché le opere degli Egiziani erano fatte
per resistere al tempo… Oggi che il nome del Re si è diffuso sin nelle parti più sconosciute del
mondo e che questo sovrano spinge altrettanto lontano le ricerche delle più belle opere della natura e
dell’arte, non sarebbe un oggetto degno di questa nobile curiosità quello di scoprire le bellezze che la
Tebaide racchiude nei suoi deserti e di arricchire con le invenzioni dell’Egitto la nostra architettura?»
… et moi-méme
si Peau d’âne m’était conté
j’y prendrais un plaisir extrême.
In questa atmosfera, già creata da una parte dai libri di viaggio dedicati
all’Oriente e dall’altra dall’interesse per le fiabe che quei libri avevano
potenziato, si comprende e si giustifica il successo dei Contes del Galland.
Ma che cosa sono questi Contes? Sono i racconti delle Mille e una notte, un
libro, cioè, dove noi sentiamo parlare le civiltà dell’India, della Persia,
dell’Iraq, dell’Egitto, e che è il prodotto di un lento e laborioso processo di
formazione, inveratosi «in un’area di diffusione e di trasmigrazione che
valica di gran lunga l’ambiente di una vita umana e di un determinato
paese».
Il Galland, come ha notato il Gabrieli, «non fu né un traduttore
scientifico con scrupoli di letteralità e completezza, né dall’altra parte un
rifacitore e falsificatore dei suoi originali; ma un letterato ed erudito del
gran secolo che nei suoi viaggi in Oriente aveva osservato quel mondo con
l’obiettivo e lucido interesse di un Della Valle e che rivelava l’esotico
tesoro narrativo capitatogli fra le mani senza abbandoni romantici, con
vigile coscienza delle esigenze storiche e morali da salvaguardare per
rendere l’opera accetta ai suoi contemporanei». I quali, bisogna aggiungere,
s’interessarono subito di quei Contes, dove la vita popolare delle metropoli
orientali è vivificata dalle cose più straordinarie e incalcolabili. Ci si vuol
divertire, ma al tempo stesso si vuole imparare. Le Mille e una notte
s’aprono come un poema, con una invocazione a Maometto. Ma a quella
invocazione segue subito la premessa:
«Lode a Dio, Signore dei mondi, benedizione e salute al Principe dei Profeti, al nostro Signore e
Patrono Maometto, cui Dio doni benedizione e salute continue, incessanti, fino al giorno del giudizio.
Le gesta degli antichi servano da esempio alle generazioni seguenti, affinchè l’uomo vegga gli eventi
ammonitori capitati agli altri e ne tragga ammonimento, e leggendo la storia delle genti passate, ne
ricavi un freno salutare. Lode a Colui che delle storie degli antichi ha fatto un esempio ai posteri. Di
tali narrazioni esemplari sono i racconti detti Mille e una notte con le meravigliose avventure e gli
apologhi in esse contenuti».
A mano a mano che in Europa si fa sempre più vivo l’amore per i libri di
viaggi, per i paesi lontani, per le civiltà e le culture più dissimili, assistiamo
a un fenomeno quanto mai interessante: all’esame, cioè, che la stessa
Europa fa di se stessa e quindi della sua tradizione, la quale viene in parte
ravvisata nella sopravvivenza di residui ingenui della vita medievale. A
mettere il dito su quelle piaghe erano già stati gl’Indiani d’America e i
popoli orientali (gli Stranieri-Simboli) per bocca dei viaggiatori, dei
missionari, degli osservatori-filosofi, dei romanzieri. Ma il loro era stato, in
fondo, un esame retrospettivo. Era necessario porre quell’esame su altre
basi. E ciò – strano a dirsi – verrà compiuto con fermezza non soltanto da
quegli spiriti ribelli che vedono nella Chiesa cattolica e nei suoi dogmi
l’arresto di ogni civiltà, ma anche da spiriti pii che, pur militando nella
Chiesa, la vogliono libera da quei pregiudizi che ne inceppano e ne
compromettono l’autorità. Gli uni e gli altri iniziano, così, una lotta alle
credenze tradizionali, o meglio a determinate credenze tradizionali – che è
fondata su principi e su scopi opposti eppure convergenti. Ma qual è,
dobbiamo anzitutto domandarci, l’origine stessa di tale lotta? Quali le
correnti spirituali che l’animano?
La scoperta dell’America, le conquiste scientifiche e la Riforma
costituiscono le tappe fondamentali che hanno dato impulso alla lotta contro
le credenze tradizionali in mezzo a cui viveva la coscienza europea. In
effetti, però, se noi vogliamo chiarire l’origine di quella lotta, o meglio il
suo svolgimento, dobbiamo anche tener conto della Controriforma e
soprattutto di quelle correnti che costituiscono l’avvento stesso del pensiero
moderno, sia che ci richiamino all’osservazione o all’esperienza (Bacone),
sia che prospettino l’autonomia della scienza rispetto alla fede (Galileo), sia
che siano animate dal dubbio metodico (Cartesio), sia che vogliano
conciliare la fede con la scienza identificando Dio con la natura (Spinoza),
sia che indichino un nuovo pensamento della religione (Locke).
La lotta contro la stregoneria trova una delle sue principali fonti nel
Malleus Maleficarum dello Sprenger e dello Institoris, che uscì per la prima
volta nel 1487 e costituì un vero e proprio vangelo per i tribunali
dell’Inquisizione. La mentalità dello Sprenger (sotto il cui nome va in
genere il Malleus) era identica in fondo a quella di Lutero. Eppure lo
Sprenger era un dotto domenicano il quale si muoveva fra la Bibbia e le
opere di san Tommaso come a casa sua. Egli è, contemporaneamente, come
lo ha ben definito il Michelet, «il buon senso e la negazione del buon
senso». Ma, prescindendo da queste sue qualità, c’è una ragione che ci
spinge a ricordare il suo Malleus: e cioè che esso è la più ricca enciclopedia,
che noi abbiamo intorno ai pregiudizi del secolo XV e non soltanto della
Germania. Si direbbe che lo Sprenger il quale, con eroico fervore, dispensò
il rogo a tante povere ammalate, abbia avuto una preoccupazione: quella del
folklorista che accoglie le superstizioni del suo tempo, le paragona tra di
loro, le immette nel passato da cui provengono e, infine (canonisti e
glossatori in mano), le considera come fenomeni ereticali contro cui lancia
la sua inesorabile condanna. Sotto questo aspetto il Malleus è un’opera che
interessa in maniera considerevole lo studioso delle tradizioni popolari. Ma
c’è di più: ove si pensi che in esso ci sono anche quegli elementi che poi
verranno presi non solo dalle cosiddette Fontes, Marteaux, Fourmuliers,
Fustigationes, Lanternae, ma anche dalle varie Disquisitiones (come, ad
esempio, quelle famosissime di Martino Del Rio), le quali costituiscono
tutta quella letteratura demonologica dove i pregiudizi sul diavolo, sulle
streghe, sulle tregende sono sottoposti a un esame sconcertante o meglio a
un concitato dialogo con il diavolo.
Né erano soltanto gli inquisitori i protagonisti principali di quel dialogo.
Il diavolo suggestiona un po’ tutti. E a proposito quanto mai istruttiva è
l’opera che il Bodin pubblicò nel 1580: la Demonomanie des sorciers.
Assertore di una religione naturale che egli considera innata nell’anima
umana e perciò anteriore a tutte le forme storiche, ammiratore della
religione giudaica perché in essa è la semplicità stessa della religione
primitiva, in antitesi con l’utopismo del tempo ove si pensi, come
giustamente nota lo Chauviré, che ogni sua concezione parte dalla famiglia
e dal rispetto del diritto naturale, il Bodin, quando si delineò in Francia la
lotta fra i cattolici e gli ugonotti, appartenne a quel partito dei politici che
volevano conciliare le esigenze degli uni e degli altri sostenendo, come
strumento di pacificazione, la tolleranza religiosa. Spirito aperto, dunque, il
suo. Ma di fronte alle streghe, di fronte ai pregiudizi che le riguardano (e di
cui egli si occupa con quella stessa serietà che mette negli argomenti
politico-dottrinali) non ha la minima tolleranza.
Nella sua Demonomanie – anteriore comunque all’Heptaplomeres, dove
egli si occupa appunto della religione e del diritto naturale – il Bodin non
solo afferma, come Lutero, che la persecuzione della stregoneria è sacra e
indispensabile – non dice le stesse cose, del resto, anche Bacone? – ma va
addirittura in collera contro coloro che a quella stregoneria non credono o
credono «fino a un certo punto». Convinto che per rendere tranquilla la
Francia si dovesse far piazza pulita di tutte le streghe che in essa vivevano,
il Bodin non vuol sentire ragioni. Anche Aristotele lo annoia. E con lui tutti
coloro che si appellano alle leggi della natura e della ragione:
«Ora non è quasi minore empietà dubitare se è possibile che vi siano dei sortilegi che revocare in
dubbio se c’è Iddio. Ma il cumulo di questi errori è provenuto perché coloro che hanno negato la
possanza degli spiriti e le azioni delle streghe hanno voluto disputare fisicamente delle cose
soprannaturali e metafisiche, che è una indecenza notabile».
4. Bodin e le streghe
«Per conto mio, io ho sempre creduto, e ora so di certo, che ci sono streghe: coloro che ne dubitano
non solo negano l’esistenza di quelle, ma anche l’esistenza degli spiriti, e di conseguenza, in modo
indiretto, sono una specie non di infedeli, bensì di atei. Coloro che perché la loro incredulità sia
confutata, desiderano di vedere apparizioni, senza dubbio non ne vedranno alcuna, né avran potere di
diventare sia pure della natura delle streghe; il diavolo li tiene già con una eresia altrettanto capitale
quanto la stregoneria; e il fatto di vedere apparizioni equivarrebbe per essi a una conversione».
6. Bekker e Thomasius
Su una via molto diversa di quanto non siano i due Thomas, il Browne e
lo Sprat, sono invece due spiriti ribelli: l’olandese Bekker e il tedesco
Thomasius. Anch’essi lottano per l’errore. Anche essi sono contro l’errore.
Ma non hanno, né l’uno né l’altro, preoccupazioni teologiche da servire. Il
primo, sconfessato dalla sua Chiesa, rinnega, sì, Spinoza, il quale nel suo
Tractatus theologico-politicus, aveva messo sotto processo le credenze
tradizionali, ma è un cartesiano convinto, tanto che nel 1668 pubblicò una
sua Admonitio sincera et candida de philosophia cartesiana. Il secondo, pur
essendo stato educato nei rigidi canoni del protestantesimo luterano, non ha
né vuole avere legami che lo inceppino.
Il Bekker ha un avversario da colpire: il diavolo. E lo colpisce, senza
attenuanti, senza appelli, senza sottintesi, in un suo grosso libro pubblicato
nel 1691: De Betoovete Wered (tradotto in tutte le lingue europee). Il suo è,
potremmo dire, il primo tentativo scientifico in cui la storia del diavolo non
è condotta attraverso i testi della Bibbia, ma anche attraverso le tradizioni e
le credenze che i vari popoli hanno intorno al diavolo. In quanto alla prima
parte, egli è convinto che la Sacra Scrittura, cui si fa sempre appello per la
credenza del diavolo, «considerata nella sua sostanza e senza prevenzione,
non attribuisce al diavolo quella potenza e quelle operazioni che i pregiudizi
dei commentatori e dei traduttori gli attribuiscono». In quanto alla seconda,
egli ritiene che la credenza nel diavolo, che egli segue un po’ in tutti i paesi
europei, è di origine pagana e perciò ha inquinato il Cristianesimo. Anche il
suo è un continuo colloquio col diavolo: ma quel colloquio è un’indagine
attenta e scrupolosa contro tutti i pregiudizi, nei quali sono da ravvisare le
fandonie di gente corrotta, che non ha nessuna relazione col diavolo e che è,
quindi, inumano condannare per questa pretesa relazione.
Dello stesso parere sarà qualche anno dopo il Thomasius, il quale,
riattaccandosi allo Spee, combattè con violenza i processi alle streghe, l’uso
delle pene infamanti e della tortura. Una delle opere maggiori del
Thomasius, in cui si sentono gli echi del Bekker, è appunto il De Crimine
Magiae. Ma l’opera cui va legato il suo nome è, indubbiamente, quella
dedicata ai Fundamenta juris naturae et gentium, pubblicata nel 1705. In
quest’opera egli non solo considera il diritto come un fenomeno sociale;
ma, com’è stato ben osservato, di contro ai politici italiani (a cominciare da
san Tommaso) che avevano distinto il diritto dalla morale, distacca
nettamente la morale dal diritto. Egli si fa, così, assertore di quel diritto
naturale che già aveva combattuto nelle sue Institutiones jurisprudentiae e
che già aveva trovato, dopo il Bodin, i suoi rappresentanti più illustri
nell’Altusio, in Alberigo Gentile e in Ugo Grozio.
Colui che aveva avuto la prima cattedra di diritto naturale, Samuel
Pufendorf, rifacendosi a quei predecessori, aveva pubblicato nel 1673 il De
jure naturae et gentium, nel quale i suoi concetti non sono certo legati alla
monarchia imperante (Bodin) e all’intransigenza confessionale (Altusio) e
tanto meno alla convinzione che «il diritto naturale viene imposto e voluto
da Dio che è autore della natura» e che «nella Bibbia debba ricercarsi
l’unica fonte del diritto». Il Pufendorf, osserva l’Hazard, «non nega la
potenza divina, ma la relega in un altro piano: c’è il piano della ragione
pura e quello della Rivelazione; il piano del diritto naturale e quello della
teologia morale, il piano dei doveri che s’impongono a noi perché la retta
ragione naturale ce li fa giudicare necessari alla conservazione della società
umana in generale, e il piano dei doveri che si impongono a noi perché Dio
ce li ha prescritti nella Sacra Scrittura». Era la separazione netta fra il diritto
naturale e quello divino. Thomasius legge Pufendorf; la laicizzazione degli
studi lo attrae e lo seduce e le sue ricerche prendono così un’altra via:
«Mai più nessuna credenza accolta dogmaticamente; quando esaminerò una dottrina non mi
domanderò più di quale reputazione goda o quale sia l’autorità che la sostiene, ma quale grado di
evidenza presenti; studierò i vari argomenti pro e contro; e mi deciderò secondo i miei propri lumi.
Invece di restare il suddito obbediente dei dittatori del pensiero, sarò come quegli eroi dell’antichità
che impugnavano le armi contro il tiranno che prima aveva servito per il trionfo della libertà».
«La levatrice che ci aiuta a venire al mondo compie sopra di noi cerimonie superstiziose, e le brave
donne che assistono al parto hanno un’infinità di sortilegi che credono atti a procurare al neonato la
buona ventura o a tener lontani da lui i guai. Hanno ridicoli presagi, in base ai quali pretendono di
conoscere la sorte futura. In alcuni paesi il prete è altrettanto svelto di quelle comari: s’impossessa
prontamente del bambino per renderlo schiavo, lo inizia ai suoi misteri pronunciando formule che
somigliano a degli incantesimi; applicando del sale, dell’olio o dell’acqua o anche, come in alcuni
paesi, applicandogli il ferro o il fuoco, dichiara che prende possesso di lui e gli fa portare i segni della
signoria che eserciterà su di lui».
8. Teologismo folkloristico
«… chi se ne meraviglia. Io invece mi meraviglio a maggior ragione che non ce ne siano di più, se
considero le devastazioni che la religione compie dovunque nel mondo e la distinzione di ogni
moralità che pare ne sia la conseguenza inevitabile in quanto per assicurare il proprio benessere
temporale la religione favorisce tutti i delitti immaginabili, l’assassinio, la rapina, l’esilio e ogni atto
violento; delitti che hanno per conseguenza un numero infinito di altri errori come l’ipocrisia,
l’esercizio eretico ecc.».
C’è un episodio, un trascurabile episodio se vogliamo, che spinge il
Bayle a scendere in lotta contro quelle devastazioni. Nel «Journal des
Savants» del 1° gennaio del 1681 si poteva leggere questo annunzio:
«Tutti parlano della cometa, la più importante novità del principio di quest’anno. Gli astronomi ne
osservano il corso e il popolo ne fa presagire mille calamità».
«La sorte dell’uomo è così disgraziata che le cognizioni che lo liberano da un male lo precipitano in
un altro. Distruggete l’ignoranza e la barbarie e distruggerete così la superstizione e la stolta
credulità del popolo tanto utile ai suoi capi, i quali abusano del loro potere per sprofondare nell’ozio
e nelle dissolutezze: ma, rivelando agli uomini tali disordini, ispirerete loro il desiderio di tutto
esaminare: essi indagano e sottilizzano talmente che non trovano più nulla che appaghi la loro
miserabile ragione».
Anche Plutarco, a dire il vero, aveva già concesso alla superstizione una
sola attenuante: che essa, ad esempio, nelle mani di un uomo di stato può
essere uno strumento di dominazione. Il Bayle non ha davanti ai suoi occhi
gli dèi di Plutarco. Egli sente in sé un Dio cui non si può imputare l’origine
di quelle religioni che hanno il germe delle guerre o delle stragi. Ma quel
Dio vive nella religione cattolica del suo tempo, nella Francia di Luigi il
Grande? O essa stessa, anzi, è fonte di errori? Nel suo Commentaire
philosophique sur ces paroles de l’Evangile: Contrains les d’entrer,
attaccando i dogmi della Chiesa, di alcuni dei quali tuttavia riconosce la
validità, afferma:
«Bisogna di necessità ammettere che qualsiasi dogma particolare – sia che venga presentato come
contenuto nella Scrittura, sia che venga presentato altrimenti – è falso, quand’è confutato dalle
nozioni chiare e distinte del lume naturale, principalmente della morale».
«Tempo fa mi capitò fra le mani un libro latino sugli Oracoli dei pagani, scritto recentemente da Van
Dale, dottore in medicina e stampato in Olanda. Mi parve che l’Autore demolisse con un certo vigore
tutto ciò che comunemente si crede sugli oracoli resi dai demoni e sulla loro scomparsa totale con
l’avvento di Gesù Cristo, e tutta l’opera mi parve ricca d’una larga esperienza dell’antichità e di una
vasta erudizione. Pensai di tradurlo, affinchè le donne e anche quegli uomini che non leggono
agevolmente il latino non fossero privati di lettura tanto gradevole e utile. Ma poi riflettei che una
traduzione del libro non avrebbe avuto l’effetto che io volevo. Van Dale ha scritto soltanto per i
letterati e ha avuto ragione nel tralasciare quegli abbellimenti e quelle bellurie che per essi non
avrebbero grande importanza. Egli riporta un gran numero di brani e li cita assai fedelmente, in
versioni eccellenti, quando son tradotti dal greco; discute su molti brani di argomenti di critica e di
esegesi, talora poco necessari, ma sempre curiosi. Ecco quel che occorre ai dotti… Inoltre Van Dale
non si perita affatto di interrompere spesso il filo del discorso per introdurvi qualche altro argomento,
e in quella parentesi insinua un’altra parentesi che non sempre è l’ultima… Io ho dunque deposto il
pensiero di tradurlo e ho viceversa opinato che valesse meglio, conservando il contenuto e la materia
principale dell’opera, darle tutt’altra forma. Confesso che non si può spingere questa libertà più lungi
di quanto io abbia fatto; ho mutata tutta la disposizione del libro: ho tolto tutto ciò che mi è parso
poco utile in se stesso ovvero troppo poco elegante per compensare la scarsa utilità; ho aggiunto non
soltanto tutti gli ornamenti che mi sono parsi più opportuni, ma anche parecchie cose che rafforzano
o danno maggior rilievo al tema…».
L’opera del Van Dale, cui allude il Fontenelle, era uscita ad Amsterdam
nel 1683 e portava il seguente titolo: De oraculis ethnicorum dissertationes
duae, quarum prior de ipsorum duratione ac defectu, posterior de
eorundem auctoribus. Fu tradotta in inglese dal Behn nel 1699. Il
Fontenelle non si distacca molto da essa per quel che riguarda la trattazione
fondamentale dell’argomento. L’uno e l’altro, infatti, si preoccupano di
dimostrare che gli oracoli pagani non venivano resi dai demoni, ma erano
effetto della volontà dei potenti e dell’impostura dei preti. Continua così la
polemica dei riformatori e dei deisti. Ma laddove il Van Dale si ferma a
quella polemica, è chiaro invece che il Fontenelle investe criticamente il
problema tutto dell’errore o meglio della superstizione.
«Di sua natura la questione degli oracoli, di carattere religioso per i pagani, lo è divenuta senza
necessità presso i cristiani: e da tutte le parti pregiudizi hanno reso oscure chiarissime verità».
«Tuttavia questi pregiudizi che inficiano la vera religione, trovano, per così dire, modo di confondersi
con essa e di cattivarsi quella devozione che a sé ella sarebbe dovuta. Non si osa confutarli nel timore
di offendere qualche cosa di sacro. Non rimprovero punto questo eccesso di religiosità, anzi esso è
lodevole, ma, per lodevole che sia, non si può non convenire che non sia più ragionevole distinguere
l’errore dalla verità, piuttosto che rispettare l’errore confuso con la verità».
«Consultando la ragione umana non si ha bisogno di demoni né per far pervenire l’azione di Dio sino
agli uomini, né per mettere fra Dio e noi qualche cosa che si approssimi a lui più di quanto noi lo
possiamo».
Così la Histoire des oracles si ricollega alle Pensées del Bayle, in quanto
essa non solo tende a eliminare il miracolo dalla storia, ma rende sospetta
una qualsiasi religione che creda nei miracoli, «Il pensiero del Fontenelle, –
osserva in proposito l’Hazard, – profondo sotto le sue apparenze
superficiali, raggiunge quello del Bayle sulle comete. È facile rilevarne la
parentela. È lo stesso appello a un pubblico più vasto di quello dei filosofi e
dei teologi, congiunto alla volontà di denunciare la debolezza della natura
umana, causa prima dell’errore, e la cecità della tradizione, la quale
raccoglie l’errore, lo rafforza e lo rende quasi invincibile». Le comete del
Bayle sono insomma gli oracoli del Fontenelle. Tutti e due credono ai
«miracoli», ma soltanto, per usare un’espressione di Leibniz, a quelli della
ragione.
5. L’Origine des fables: contributo alla storia degli errori degli antichi
Ma il Fontenelle non si fermò soltanto sugli oracoli. Uno dei suoi saggi
maggiori, anzi, è precisamente l’Origine des fables, che egli scrisse allo
scopo di dimostrare che anche le favole vanno considerate come una pagina
della storia degli errori degli antichi. C’è nel Fontenelle un atteggiamento
nettamente negativo rispetto alle favole che pur, con il loro fascino,
investirono nei popoli classici la poesia, il teatro, le arti plastiche. Le favole
di cui parla il Fontenelle non sono, in fondo, che i miti (da lui ampiamente
studiati tra i Gesuiti, soprattutto sulla celebre Mitologia del nostro Conti).
Vi sono tuttavia nel suo saggio dei brani, i quali ci dimostrano che il suo
sguardo è rivolto anche a quelle favole che già correvano in Francia. Così,
ad esempio, egli afferma che «ancor oggi gli arabi riempiono le loro storie
di prodigi e di miracoli per lo più ridicoli e grotteschi». Né, d’altro canto,
gli sono ignoti i cosiddetti racconti devoti del suo paese, come la storia
dell’albero a cui si impiccò Giuda (raccolti poi dal Luzel).
Di questi racconti egli sente, è vero, un certo fascino. Ma quale? Quello
che suscita in genere l’errore stesso. Nei suoi Dialogues des Morts antiques
et modernes. Omero aveva detto a Esopo:
«Che lo spirito umano non cerchi che il vero, disingannatevi. Lo spirito umano e l’errore
simpatizzano enormemente. Se volete dire la verità farete molto bene ad avvolgerla nelle favole e
piacerà molto di più. E se vorrete raccontare delle favole esse potranno piacere anche se non
contengono alcuna verità. Così il vero deve trasfigurarsi nell’errore per essere accolto gradevolmente
dallo spirito umano; ma l’errore vi entra invece così com’è, perché quello è il luogo della sua nascita
e della sua dimora abituale, mentre la verità vi è estranea».
«Gli Americani inviavano le anime dei peccatori in certi laghi, così come i Greci le inviavano sulle
rive dello Stige e dell’Acheronte. Gli Americani credevano che la pioggia venisse prodotta da una
fanciulla che, giuocando fra le nuvole col suo fratellino, rompesse la sua brocca piena d’acqua. E non
somiglia a quelle Ninfe delle fontane che versano l’acqua delle loro anfore? Secondo le tradizioni del
Perù, l’Ynca Manco Guyna Capac, figlio del Sole, convinse con la sua eloquenza gli abitanti del
paese, che vivevano in maniera primitiva, a vivere sotto leggi ragionevoli. Ebbene: Orfeo, anch’egli
figlio del Sole, fece altrettanto con i Greci. Il che mostra che i Greci furono, durante un certo tempo,
dei selvaggi per lo meno tanto quanto lo furono gli Americani, e che essi uscirono dallo stato di
barbarie con i medesimi mezzi, e che le immaginazioni di questi due popoli così lontani si sono
incontrate nel credere figlio del Sole colui che aveva un talento straordinario. E poiché i Greci con
tutto il loro esprit, quando erano ancora un popolo giovane, non pensavano più ragionevolmente dei
barbari d’America (che erano secondo tutte le apparenze un popolo abbastanza giovane allorché
furono scoperti dagli Spagnuoli), vi è ragione di credere che gli Americani sarebbero pervenuti infine
a pensare altrettanto ragionevolmente che i Greci, se ne avessero avuto il tempo».
La ricerca della verità, che poi era la ricerca stessa della storia,
costituisce dunque per un Bayle e per un Fontenelle un programma di
lavoro, tanto è vero che la ricerca dell’errore diventa in essi la storia
dell’errore. L’uno e l’altro hanno infatti un concetto sacro della verità. Ma
hanno anche un concetto sacro della storia.
Nel suo Dictionnaire (voce Husson) il Bayle afferma in maniera
inoppugnabile:
«Chi conosce le leggi della storia sarà d’accordo con me nell’ammettere che uno storiografo fedele al
suo compito deve sbarazzarsi dello spirito di adulazione e di maldicenza. Egli deve, per quanto
possibile, mettersi nelle condizioni di chi non è agitato da nessuna passione. Insensibile a tutte le altre
cose, egli deve badare soltanto agli interessi della verità, e per amore di questa deve sacrificare la
sensibilità per un torto che gli sia fatto, la memoria di un beneficio ricevuto e persine l’amor di patria.
Deve dimenticare che appartiene a un dato paese, che fu educato a una data fede, che deve
riconoscenza a questo e a quello, che questi o quelli sono i suoi genitori, i suoi amici. Uno storico, in
quanto tale, è come un Melchisedech senza padre, senza madre e senza discendenza. Se gli si
domanda di dove viene, deve rispondere: non sono né francese, né tedesco, né inglese, né spagnuolo:
sono cosmopolita; non sono né al servizio dell’imperatore, né al servizio del re di Francia, ma
esclusivamente al servizio della verità: questa è la mia unica regina, alla quale ho prestato giuramento
di obbedienza».
«Io ho incominciato con l’esaminare gli uomini e ho creduto che nell’infinita varietà delle loro leggi
e delle loro costumanze non siano guidati soltanto dall’arbitrio o dal capriccio. Ho constatato i
principi e ho trovato che tutti i casi particolari vi si adattano quasi da sé, di maniera che la storia di
tutte le nazioni ne è soltanto la successione e ogni legge particolare è collegata con un’altra
universale e dipende da questa».
Il Voltaire, nel suo Essai sur les moeurs, protesta anzitutto contro il
concetto che si è avuto nel passato della storia, la quale è stata considerata
come un avvicendarsi di avvenimenti politici, di re, di battaglie e di
distruzioni. Le parole homo sum, aggiunge, avrebbero dovuto essere
l’insegna di ogni storiografo degno di questo nome. E continua, ormai sceso
nel fervore della mischia:
«Invece di ammucchiare un cumulo di fatti, dei quali gli uni sono sempre distrutti e annullati dagli
altri, si dovrebbe scegliere soltanto i più importanti e i più accertati per offrire al lettore un filo
direttivo e metterlo in grado di farsi un giudizio dell’estensione, della rinascita e dei progressi dello
spirito umano e per fargli vedere il carattere dei popoli e dei loro costumi».
Convinto che le leggi non siano altro che dei rapporti necessari desunti
dalla natura delle cose, il Montesquieu è dell’avviso che esse siano in
rapporto soprattutto con la natura stessa degli uomini, influenzati dalla
natura del suolo e da quella del clima. Così, ad esempio, parlando in genere
dei popoli orientali, egli osserva:
«Se a quella debolezza d’organi che fa ricevere ai popoli orientali le impressioni più forti del mondo,
unite una certa pigrizia dello spirito, legata naturalmente con quella del corpo, la quale faccia si che
questo spirito non sia capace d’alcuna azione, d’alcuno sforzo, d’alcuna contesa, comprenderete
come l’anima, che ha ricevuto a volte delle impressioni, non possa più cambiarle. Per questo le leggi,
i costumi, le massime, anche quelle che sembrano indifferenti come la foggia del vestire, sono oggi
in Oriente come erano mille anni fa».
«furono più sensati, quando, considerando gli uomini non più nello stato pacifico in cui saranno un
giorno o l’altro, ma nell’azione atta a far sì che adempiano ai doveri della vita, fecero la loro
religione, la loro filosofia, le loro leggi tutte pratiche».
«Quando si conquista un popolo, non è necessario lasciargli le sue leggi. Può essere necessario
invece lasciargli i costumi, perché un popolo conosce, ama e difende molto di più i suoi costumi
anziché le sue leggi».
5. Voltaire e il fanatismo
«Risulta da questo lavoro che tutto ciò che è intimamente legato alla natura umana si rassomiglia da
un capo all’altro dell’universo: che tutto ciò che può dipendere dal costume è differente e, se si
rassomiglia, è dovuto al caso. L’impero del costume è ben più vasto di quello della natura: esso si
estende su tutte le credenze, su tutti gli usi, diffonde la varietà sulla scena del mondo; la natura che
diffonde l’unità stabilisce dappertutto un piccolo numero di principi invariabili: così il fondo è
dappertutto lo stesso, mentre la cultura produce i fatti diversi».
«Io dico solamente che non vi è nel mondo alcuna società religiosa, né alcun rito istituiti allo scopo
di incoraggiare gli uomini al vizio. Ci si è serviti in tutta la terra della religione per fare del male, ma
essa è stata istituita da tutti per far del bene. E se il dogma e il fanatismo portano alla guerra, la
morale ispira dappertutto alla concordia».
Conclusione: riducete la legge naturale in principi positivi, e avrete la
religione e la morale che si addicono a un popolo civile, il quale così non
crederà a quelle furberie di preti che sono gli oracoli, i sacrifici umani e i
miracoli, compresi quelli dei re di Francia, che facevano guarire gli
ammalati (credenze queste di cui il Voltaire si occupa specialmente nei
capitoli XVII, XXXII, XXXVI). Egli insomma sa di combattere contro tutti gli
errori, soprattutto, come ha già promesso ai suoi lettori, nel discorso
preliminare dell’Essai, contro una «folla di favole assurde che continuano a
infettare la gioventù». Questa irrisione delle favole, termine, com’è
evidente, adoperato qui in senso generico, non toglie che egli altrove non
mostri una viva nostalgia del felice tempo delle favole:
6. Voltaire e i selvaggi
Negli schizzi che precedono l’Essai (e che sotto forma di Advis des
éditeurs apparvero per la prima volta nell’edizione di Kiel), egli traccia
invece un quadro gustoso dei popoli primitivi in genere, soprattutto di quelli
dell’Africa e dell’Asia. Conclusione:
«Le popolazioni d’America e d’Africa sono libere, e noi non abbiamo nemmeno l’idea di libertà.
Esse conoscono l’onore, di cui i selvaggi d’Europa pare non abbiano inteso parlare. Esse hanno una
patria, la amano e la difendono; esse fanno dei trattati, si battono con coraggio e parlano spesso con
energia eroica. Vi è una risposta più bella di quella che un capo canadese diede al rappresentante di
una nazione europea, che gli proponeva di cedergli il suo patrimonio? Noi siamo nati su questa terra,
i nostri padri sono incivili. Diremo noi alle ossa dei nostri padri: Levatevi e venite con noi in una
terra straniera?»
«Se qualcuno, quando i lotti sono già ripartiti, chiederà la sua parte di cinquanta iugeri sui
cinquantamila milioni da distribuire tra un miliardo di uomini, gli si risponderà che, da noi, le parti
sono già fatte e che egli può andare a farsi la sua tra gli Ottentotti. Ma anche tra quei popoli vi è chi
possiede e chi non possiede. Un baccelliere domanda al selvaggio: – Chi ha fatto le leggi nel vostro
paese? – Il selvaggio risponde: – L’interesse pubblico. Tutto ciò che ho visto nel mio paese mi
insegna che non vi è altro spirito delle leggi».
«Le cerimonie asiatiche sono bizzarre, le credenze assurde, ma i precetti giusti. Invano qualche
viaggiatore e qualche missionario ci ha rappresentato i preti di Oriente come dei predicatori della
iniquità. Non è possibile che ci sia una società religiosa costituita per inventare il delitto».
8. Dalla ricerca dello spirito delle nazioni alla distinzione fra borghesia e
popolo
«Lafitau fa venire gli Americani dagli antichi Greci ed ecco le sue ragioni. I Greci avevano le loro
favole e anche gli Americani le hanno. I primi Greci andavano a caccia e gli Americani fanno lo
stesso. I primi Greci avevano gli oracoli e gli Americani hanno i maghi. Si danzava durante le feste
della Grecia e si danza in America. Bisogna convenire che queste ragioni sono convincenti».
«Io ho visto a malincuore come coloro che nelle loro relazioni si occupano dei selvaggi, li dipingono
come gente che non ha nessun sentimento di religione, nessuna conoscenza del divino, un qualche
oggetto cui si renda un culto; come gente che non ha né leggi, né disciplina esteriore, né forma di
governo, in una parola come uomini che hanno dell’uomo soltanto la figura. È questo un errore di cui
sono responsabili molte persone…» (1, 5).
E subito dopo, quasi a tracciare un quadro ideale:
«Essi [i selvaggi] hanno l’animo buono, l’immaginazione viva, il pensiero facile, la memoria
ammirevole. Tutti hanno più o meno delle tracce di una religione antica ed ereditaria e una forma di
governo… E hanno il cuore alto e fiero, un coraggio a tutta prova, un valore intrepido, una forza nei
tormenti che è eroica… un rispetto per i loro vecchi, una deferenza per i loro eguali, il che ha
veramente qualche cosa di sorprendente» (1, 97).
«L’anima per gli Americani [egli osserva] è ben più indipendente dal loro corpo che non sia la nostra,
e gode maggior libertà. Essa si separa dal corpo per prendere l’avvio e fare delle escursioni dove
vuole. I grandi viaggi non l’impressionano; essa si trasferisce nell’aria, passa i mari, penetra nei
luoghi più incredibili. Essi [i selvaggi] si persuadono che effettivamente la loro anima, vedendo il
corpo immerso nel sonno, ne profitti per andare a passeggio, dopo di che ritorna nella sua dimora. Al
loro risveglio credono che l’anima ha vissuto realmente ciò che è passato nei loro sogni e agiscono di
conseguenza» (1, 132).
Si vede chiaramente in tal modo come nel Lafitau si trovino i germi che
costituiranno più tardi il travaglio dell’etnologia moderna. Il Lafitau dalle
sue osservazioni non trae però conseguenze di rigido carattere teorico. Per
lui infatti il primitivo d’America non è né un monoteista, né un animista
ecc. Ma è insieme, se mai, tanto un monoteista quanto un animista ecc., il
quale ha anche il culto per i morti, come, ad esempio, si può osservare
presso gli Irochesi che in onore del morto gettano una certa quantità di
frumento davanti alla porta della capanna.
Né manca infine al primitivo d’America una rigida organizzazione
sociale, dove in genere i capi più assoluti son considerati come padri dei
loro popoli e hanno quindi il diritto di applicare la più rigorosa giustizia.
Anche l’organizzazione sociale del resto non è che un aspetto della
religione. Insegni soprattutto la famiglia. «Va ricordato, – notava di recente
il de Jouvenel, – che sin dal 1724 il Padre Lafitau aveva osservato presso gli
Irochesi il fenomeno della filiazione uterina e rilevato che, in conseguenza
di ciò, la donna era il centro della famiglia del popolo. Egli aveva compiuto
il raccostamento con quel che Erodoto riferisce intorno ai Lici». Ma anche
qui il Lafitau è ben lontano dal teorizzare o, comunque, dal generalizzare
(come faranno poi Bachofen e Morgan). Apriamo infatti le Mœurs:
«Nei costumi degli Irochesi si trovano dei gradi di parentela un poco differenti in verità di quelli
degli Ebrei e dei Caldei ma a cui si collegano in questo punto: che essi sono causa di equivoci a
cagione dei loro termini… Bisogna sapere che presso gli Irochesi e gli Huroni, tutti i ragazzi di una
tribù considerano come loro madri tutte le sorelle delle loro madri e come loro zii tutti i fratelli delle
loro madri; per la stessa ragione essi danno il nome di padri a tutti i fratelli dei loro padri… Tutti i
ragazzi che discendono dalla madre e dalle sue sorelle, dal padre e dai suoi fratelli, si considerano fra
di loro come fratelli e sorelle; ma considerano cugini i figli dei loro zii e delle loro zie, vale a dire i
figli dei fratelli delle loro madri e delle sorelle dei loro padri, benché sia identico il grado della loro
parentela. Alla terza generazione tutto ciò cambia: e gli zii e le zie dei genitori diventano nonni e
nonne» (2, 243).
Il Lafitau esclude quindi che il matrimonio possa considerarsi soltanto
come un fenomeno naturale. Egli collega infatti il matrimonio con la
religione. E questa non è per lui, comunque si articoli nella vita dei
selvaggi, un peso morto, ma una trama i cui fili, sottili come l’aria ma duri
come l’acciaio, finiscono con l’avvolgere tutte le istituzioni sociali. Il
Lafitau non nasconde che anche fra i selvaggi vi siano delle forme inferiori
di pensiero come, ad esempio, la magia (così egli erroneamente la giudica).
Ed è, sì, dell’avviso che i selvaggi, come gli antichi, hanno errato a volte
nell’obietto della fede e del culto che hanno reso a Dio. Questa premessa
tuttavia non gli impedisce di giustificare quella religione, di spiegarla, di
intenderla. Il che sarà appunto uno dei risultati del suo comparativismo.
3. Etnografia e storia
«Io non mi contento di conoscere il carattere dei selvaggi e di rendermi conto dei loro costumi e delle
loro pratiche. Io ho cercato in queste pratiche e in questi costumi le vestigia delle antichità più
arretrate. Ho letto con particolare attenzione gli autori più antichi che hanno trattato dei costumi,
delle leggi e degli usi dei popoli di cui avevamo qualche conoscenza; ho fatto la comparazione fra
questi costumi e confesso che, se gli autori antichi mi hanno dato dei chiarimenti per suffragare
alcune facili congetture inerenti ai selvaggi, i costumi dei selvaggi m’hanno dato dei chiarimenti per
intendere più facilmente e per spiegare parecchie cose di cui parlano gli autori antichi» (1, 3).
«… non solamente i popoli che si chiamano barbari hanno una religione, ma questa religione ha dei
rapporti di un’impressionante uniformità con quella dei primi tempi, con quelle che nell’antichità si
chiamavano le orgie di Bacco e della Madre degli Dèi, i misteri di Iside e di Osiride… In materia di
religione noi non abbiamo nulla di più antico, nell’antichità profana, di questi misteri e di queste
orgie che componevano tutta la religione dei Frigi, degli Egiziani, dei primi Cretesi, i quali si
considerarono essi stessi come i primi popoli del mondo e i primi autori di quel culto agli dèi che da
essi era passato a tutte le nazioni e si era diffuso in tutto il mondo» (1, 7).
Ne consegue che tanto le religioni dei barbari quanto quelle dei pagani
hanno lo stesso fondo e gli stessi principi. È noto che il Fontenelle, il quale
– ad ammettere che la sua Origine des fables sia anteriore alle Mœurs del
Lafitau – ammonisce che anche i Greci furono un tempo dei selvaggi,
ricercava questo fondo e questi principi nella natura umana o meglio nella
ragione. E ciò sarà ripetuto da tutti gli illuministi, ai quali gli stessi
missionari non poche volte avevano offerto i materiali, perché essi
potessero mettere a raffronto i dati della religione naturale con quella
rivelata. Ma anche qui per il Lafitau la verità è diversa. Quel fondo e quei
principi infatti, egli afferma, sono propri della religione cattolica. Ed essa
sarà chiamata a spiegarli.
4. La Scienza Nuova
«una religione pura e santa in se stessa e nel suo principio, una religione voluta da Dio che la
trasmise ai nostri primi padri. Non può esservi infatti che una religione, e questa religione, essendo
per gli uomini, deve essere cominciata con loro e deve sopravvivere quanto loro. Ecco ciò che la fede
ci insegna e ciò che la ragione ci detta» (1, 13).
«Sono forse più rozze e più criminali di quelle dei Greci e dei Romani, che avendo portato la scienza
e le arti alla più alta perfezione, non hanno tratto dai loro lumi e da tutta la loro filosofia altro frutto
che quello di avere guastato la religione con una moltitudine di favole quanto mai ridicole e
insipide?» (2, 157).
Ridicole e insipide che siano quelle favole, esse hanno avuto una
funzione storica, una loro natura e un loro ufficio. Compito dello storico è
quello di vedere appunto quali siano stati – nel tempo – questa natura e
questo ufficio. L’umanità può certo nel suo cammino avere dei momenti che
si identificano nell’errore e con l’errore; ma tuttavia anche le deviazioni
vanno studiate senza recriminazioni razionalistiche, perché, anche quando
sono forme viziate e mostruose della religione, quel che conta in esse è pur
sempre la ricerca della verità, anche se a noi possa sembrare ridicola e
disgustosa (il che anzi, lega quelle stesse deviazioni alla religione rivelata).
La fede religiosa da impulso, così, nell’opera del Lafitau, a una teoria
che potremmo chiamare storico-etnografica. E ciò che importa, come ben
osserva il Van Gennep, non è il fatto che il Lafitau abbia collegato, sia pure
con cautela e con prudenza, i suoi paralleli a una teoria ortodossa
tradizionale, contro cui si appuntavano gli strali degli illuministi, bensì
quello di avere intuito con maggiore chiarezza di quanto non avessero fatto
i suoi predecessori, un metodo di investigazione che gli appartiene in
proprio, proponendo, possiamo aggiungere, una comparazione chiamata a
chiarire nessi e processi che altrimenti resterebbero celati. Anche se poi in
tale comparazione non è ben determinato quando l’abbozzo di un’idea,
quale si possa trovare fra i selvaggi, diventi nel mondo classico un
consapevole svolgimento.
È merito comunque del Lafitau quello di avere studiato le religioni
pagane come segni della religione rivelata, onde a lui, come già al
Fontenelle in altro senso, si schiude il valore delle sopravvivenze. Merito
suo l’avere anche intuito i rapporti fra etnologia e folklore. Ma è merito suo
soprattutto quello di aver trasportato, in maniera decisa, e qui è la vera
importanza del suo metodo che poi passerà tanto negli studi di etnologia
quanto in quelli di folklore, l’etnografia nella storia e di aver concepito la
prima non solo come uno strumento di lavoro, ma anche come criterio per
una nuova interpretazione della storia. Il che sarà oggetto di meditazione da
parte di un pensatore italiano, G. B. Vico, il quale, un anno dopo che
uscirono le Mœurs, pubblicò a Napoli un’opera che portava il seguente
titolo: Principi di una Scienza Nuova.
«Infelice cagione di ciò ella è stata perché ci è mancata finora una scienza la quale fosse, insieme,
istoria e filosofia dell’umanità. Imperciocché i filosofi han meditato sulla natura umana incivilita già
dalle religioni e dalle leggi, dalle quali, e non d’altronde, erano essi provenuti filosofi, e non
meditarono sulla natura umana, dalla quale eran provenute le religioni e le leggi, in mezzo alle quali
provennero essi filosofi. I filologi, per lo comun fato dell’antichità, che, col troppo allontanarsi da
noi, si fa perdere di veduta, ne han tramandato le tradizioni volgari, così svisate, lacere e sparte che,
se non si ristituisce loro il proprio aspetto, non se ne ricompongono i brani e non si allogano a’ luoghi
loro, a chi vi mediti sopra con alquanto di serietà sembra essere stato affatto impossibile aver potuto
esse nascere tali, nonché nelle allegorie che loro sono state appiccate, ma negli stessi volgari
sentimenti co’ quali ben lunga età, per mano di genti rozze e ignoranti affatto di lettere, esse ci sono
pervenute» (Scienza Nuova prima, ed. Nicolini, § 23).
E da questo nuovo orizzonte che allarga e precisa sempre più nelle altre
redazioni della Scienza Nuova (la quale fu rielaborata prima nel 1730 e poi
nel 1744), il Vico vede la storia stessa dell’umanità, la storia delle nazioni e
degli uomini, del passato che gli si fa presente. Egli non ha davanti a sé né
il problema dell’etnologia, né quello del folklore. Dell’uno e dell’altro egli
avverte però in maniera decisa la presenza e le istanze. Senonché che cos’è
per il Vico il mondo dei primitivi, quel mondo cioè che il Lafitau aveva
posto decisamente nel campo della storia?
Lo storicismo del Vico rimane indubbiamente incomprensibile o
comunque non chiaro, se esso non viene alimentato da quel documento di
cui il Vico si servi per animarlo: il bestione, che è appunto l’uomo primitivo
con la sua corpulenta fantasia. Questo bestione, questo primitivo, per il
Vico non è però soltanto una determinazione cronologica; è una
determinazione ideale, tanto è vero che il mondo primitivo non solo può
essere in noi, ma anche continuamente ritornare in noi. Questa la sua
scoperta (avvertita peraltro dallo stesso Lafitau, ma svolta dal Vico su ben
altro piano).
Il Vico parla, più volte, nella sua opera, dello sforzo costante che ha
dovuto fare per internarsi in quel mondo, dato che a noi è «ora naturalmente
negato di potere entrare nella vasta immaginativa di quei primi uomini, le
menti dei quali di nulla erano spiritualizzate, perché erano tutte nei sensi,
tutte seppellite nei corpi», onde «appena intender si può come pensassero i
primi uomini sulla terra». Ma il mondo di cui egli parla, il mondo di cui egli
si interessa, il mondo che egli cerca di intendere e perciò di capire in tanto
ha, e può avere, una sua voce, in quanto esso è fatto di un primitivo che si
invera nel civile e che perciò si fa veramente storia nella concezione dello
svolgimento dello spirito universale, il quale accoglie nella sua umanità
tanto il civile quanto il selvaggio. I confronti fra noi e i primitivi, che man
mano dopo la formulazione del mito del buon selvaggio si erano riempiti di
polemiche sociali, si innalzano a una visione storica. È la nostra mente che
parte alla ricerca di quel mondo, che si interna in esso, che lo fa suo. Anche
egli, come il Lafitau, sente quale interesse offra lo studio della religione per
capire il mondo dei primitivi. Anch’egli, come il Lafitau, non crede che vi
possano essere popoli senza religione. La sua polemica contro il Bayle e i
libertini non è in proposito meno ferma di quanto non fosse quella del
Lafitau:
«Né ci accusino di falso in primo i moderni viaggiatori, i quali narrano che popoli del Brasile, di
Cafra e altre nazioni del mondo nuovo (e Antonio Arnaldo crede lo stesso degli abitatori dell’isole
chiamate Andile) vivano in società senza alcuna cognizione di Dio; da’ quali forse persuaso, Bayle
afferma nel Trattato delle comete che possano i popoli senza lume di Dio vivere con giustizia; che
tanto non osò affermare Polibio, al cui detto da taluni s’acclama; che, se fussero al mondo filosofi
che ’n forza della ragione non delle leggi vivessero con giustizia, al mondo non farebber uopo
religioni. Queste sono novelle di viaggiatori, che proccurano smaltimento a’ loro libri con mostruosi
ragguagli» (Scienza Nuova seconda, ed. Nicolini, § 334).
«ritrovare favole sublimi confacenti all’intendimento popolaresco, e che perturbi all’eccesso, per
conseguir il fine, ch’ella si ha proposto, di insegnar il volgo a virtuosamente operare» (Scienza Nuova
seconda, ed. Nicolini, § 376).
«Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e
tempi tra loro lontane, divisamente fondate, custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno
qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; né tra
nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più
consagrate solennità che religioni, matrimoni e seppolture. Ché per la Degnità che “idee uniformi,
nate tra popoli sconosciuti tra loro, debbon aver un principio comune di vero”, dee essere stato
dettato a tutte: che da queste tre cose incominciò appo tutte l’umanità, e per ciò si debbano
santissimamente custodire da tutte perché ’l mondo non s’infierisca e si rinselvi di nuovo. Perciò
abbiamo presi questi tre costumi eterni e universali per tre primi principi di questa Scienza» (Scienza
Nuova seconda, ed. Nicolini, § 333).
«pur rimane la grandissima difficultà: come, quanti sono i popoli, tante sono le lingue volgari
diverse? La qual per isciogliere, è qui da stabilirsi questa grande verità: che, come certamente i
popoli per la diversità de’ climi han sortito varie diverse nature, onde sono usciti tanti costumi
diversi; così dalle loro diverse nature e costumi sono nate altrettante diverse lingue: talché, per la
medesima diversità delle loro nature, siccome han guardato le stesse utilità o necessità della vita
umana con aspetti diversi, onde sono uscite tante per lo più diverse ed alle volte tra lor contrarie
costumanze di nazioni; così e non altrimente son uscite in tante lingue, quant’esse sono, diverse. Lo
che si conferma ad evidenza co’ proverbi, che sono massime di vita umana, le stesse in sostanza,
spiegate con tanti diversi aspetti quante sono state e sono le nazioni, come nelle Degnità si è
avvisato» (Scienza Nuova seconda, ed. Nicolini, § 445).
Le vicende esterne delle Mœurs del Lafitau e della Scienza Nuova del
Vico non furono tali, nel Settecento, da intaccare le costruzioni
dell’Illuminismo. Lo scisma, in quel secolo, è tuttavia rappresentato
soprattutto da J.-J. Rousseau, il quale non solo sentì il mito del primitivo,
del barbaro, dell’ingenuo, come lo avevano già sentito il Lafitau e il Vico –
nelle cui opere sia pure in maniera diversa si conclude il lavorio etnografico
dei secoli precedenti –, ma contribuì, forse come nessun altro, a diffonderlo,
a popolarizzarlo, a renderlo familiare in tutta l’Europa.
Nel «Journal Encyclopédique» del 1° gennaio 1768 (il quale un anno
prima aveva riportato sul Lafitau lo stesso giudizio che aveva dato Voltaire),
è detto in maniera decisa che G. B. Vico è stato il primo pensatore che ha
osato pretendere che «originariamente gli uomini vivevano esattamente
come bestie». E subito dopo: «L’uomo più fecondo in paradossi, l’eloquente
Rousseau di Ginevra, ha esteso questa idea nel suo Discours sur l’origine et
les fondements de l’inégalité parmi les hommes». È vero invece, e lo
abbiamo già visto, il contrario; il Vico al mondo della natura contrappone
quello della storia, la quale non conosce bestie, bensì uomini coi loro istituti
e coi loro costumi. Ma per il Rousseau – che pur ebbe tanto col Lafitau
quanto col Vico dei lati in comune – esistono davvero bestie in luogo di
uomini, o invece tutta la sua opera non è che un programma inteso a dare
dignità all’uomo, liberandolo dalle soprastrutture della società, per ridarlo
alla società stessa puro e incontaminato?
In questo suo programma il primitivo, il barbaro, l’ingenuo è innalzato
indubbiamente a un paradigma della scienza e della coscienza umana. Il
Rousseau trasporta la ragione – che gli illuministi avevano riempito di un
suo particolare contenuto razionale – in un mondo lontano che non è il
greco-romano, bensì quello dei popoli primitivi, dove egli trova appunto
uno stato di grazia che faceva uomo l’uomo, prima che fosse corrotto dalla
società, dal progresso delle scienze e delle arti.
Il selvaggio del Rousseau s’impone così alla nostra attenzione dentro una
cornice che sembra fatta per racchiudere un idillio del Gessner o meglio una
tela del Greuze. È un selvaggio il suo che è la perfezione stessa
dell’umanità, spogliato non solo da tutti i doni soprannaturali, ma anche da
quelle facoltà artificiali che egli ha potuto acquistare soltanto mediante un
lungo progresso. È l’uomo insomma, com’egli spesso afferma, quale è
uscito, o meglio quale è dovuto uscire dalle mani della natura. Ed egli lo
vede «che si riposa sotto una quercia, si disseta al primo ruscello, trova il
suo letto ai piedi dello stesso albero che gli ha fornito il pasto». Lo segue
nella sua vita che, esposta alle intemperie del clima e al rigore delle
stagioni, gli dà una costituzione robusta e quasi inalterabile. Né in questa
apologia del selvaggio, che in lui si fa sempre più aggressiva e incalzante,
mancano punti di riferimento precisi, come, ad esempio, quando ricorda i
Caraibi del Venezuela che vivono nella più assoluta tranquillità, oppure gli
Ottentotti di Buona Speranza che a occhio nudo scoprono dei bastimenti in
altomare tanto lontani che soltanto gli Olandesi riescono a scoprire con il
cannocchiale, o ancora i selvaggi d’America, così cari a tutta la letteratura
del suo tempo, che sentono gli Spagnuoli al fiuto come avrebbero potuto
fare i migliori segugi. Il Rousseau comunque ama risalire dai fatti
particolari a quelli generali. E il suo selvaggio, che è quanto di meglio vi sia
in tutti i selvaggi, è pur sempre l’uomo abbandonato dalla natura al suo
istinto e al suo sentimento. Di contro agli illuministi che ne avevano fatto
un filosofo il quale ragionava con la loro testa, il Rousseau vuole vederlo
com’è: «errabondo nelle foreste, senza industria, senza favella, senza
domicilio, senza guerre e senza amicizie, senza aver bisogno dei suoi propri
simili e senza avere alcun desiderio di nuocere loro, forse persino incapace
di riconoscerne individualmente qualcuno; soggetto a poche passioni e
bastante a se stesso, non aveva che i sentimenti e i lumi propri a questo
stato».
Più si riflette, del resto egli osserva:
«più si trova che questo stato era il meno soggetto a rivoluzioni, il migliore per l’uomo, il quale non
ne deve essere uscito che per qualche caso funesto il quale, per il bene comune, non sarebbe mai
dovuto accadere. L’esempio dei selvaggi che sono stati trovati quasi tutti a questo punto sembra
confermare che il genere umano fosse fatto per restarvi per sempre, che questo stato è la vera
giovinezza del mondo e che tutti i progressi ulteriori sono stati in apparenza altrettanti passi verso la
perfezione dell’individuo, ma in realtà verso la decrepitezza della specie».
E aggiunge, quasi compiaciuto e disperato al tempo stesso – da qui la sua
angoscia –, che, finché gli uomini si accontentarono delle loro rustiche
capanne e vissero senza quelle arti che avevano bisogno di parecchie mani,
essi vissero liberi, buoni, sani, felici. Ma, ahimè:
«dal momento che un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro, dal momento che era utile ad uno
solo di avere provviste per due – da quel momento l’eguaglianza disparve, si introdusse la proprietà,
il lavoro divenne necessario e le vaste foreste si cambiarono in ridenti campagne che bisognò
innaffiare col sudore degli uomini e nelle quali presto si videro germogliare e crescere con le messi la
schiavitù e la miseria».
Il mondo dei primitivi, dei selvaggi non era un mondo dove c’era, come
voleva il Voltaire, il tuo e il mio. Era invece lo stesso mondo del Las Casas,
del Léry, del barone de La Hontan. Ma in fondo che cosa era per lui questo
mondo primitivo che egli rievoca con accenti così commossi nel Discours
sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, che è del
1755 e che conclude o meglio documenta le conclusioni cui egli era
arrivato, quattro anni prima, nel primo Discours sur les Sciences et les Arts?
2. Noi e i primitivi
«O uomo, di qualunque paese tu sia, quali che siano le tue opinioni, ascolta: ecco la tua storia, quale
ho creduto di leggere non nei libri dei tuoi simili che sono menzognieri, ma nella natura che non
mente mai. I tempi di cui parlerò sono lontanissimi: quanto sei cambiato da com’eri! È, per così dire,
la vita della tua specie che sto per descriverti secondo le qualità che hai ricevuto e che la educazione
e le tue abitudini hanno potuto corrompere, ma non distruggere. C’è – lo sento – un’epoca nella quale
l’individuo vorrebbe fermarsi: cercherai l’epoca alla quale desidereresti che la tua specie si fosse
fermata».
Oppure quando, dopo aver delineato alcuni quadri sulla vita dei
primitivi, par che riprenda lo stesso discorso:
«Mi sono esteso così a lungo nella rappresentazione ipotetica di questo stato primitivo, perché,
dovendo distruggere dei vecchi errori e dei vecchi pregiudizi inveterati, ho creduto di dovere scavare
fino alle radici e mostrare nel quadro del vero stato di natura che la disuguaglianza, anche quella
naturale, è ben lontana dall’avere in tale stato la realtà e l’influenza che pretendono i nostri scrittori».
Le plebi sono del resto molto più care al cuore del Rousseau di quanto
non lo siano le altre classi. Il cittadino di Ginevra odia Parigi e la sua
società smidollata e corrotta, con quell’impeto istintivo che il selvaggio
aveva messo nei suoi lunghi colloqui con l’Europeo. Il Rousseau però non
ha bisogno di ricorrere alla finzione di un selvaggio che sappia vedere quel
che non vede Parigi e il vecchio mondo europeo. Si fa egli selvaggio. E il
selvaggio che gli è servito per conoscere l’uomo, che gli è servito come
stimolo per le sue teorie politiche e pedagogiche, ecco che egli lo sente vivo
e palpitante in mezzo alle campagne fra gli umili, nei quali non è morto né
il sentimento né la poesia.
Il Rousseau ci ha lasciato pagine commosse sui paesaggi che predilige:
le colline che fra i raggi del sole morente si specchiano sui laghi, i campi
con le ombre degli alberi e dei poggi, i boschi che invitano al sogno, al
sogno, si badi bene, che è un’evasione ma anche un ritrovare se stessi.
L’antitesi natura-civiltà, che era stata il motivo dominante della sua epoca,
diviene nella sua opera una forza-idea. Ma quell’idea si trasforma a volte in
poesia, che non è mai lirismo scomposto e tanto meno pastorelleria
arcadica, bensì affermazione e celebrazione di un sentimento
profondamente umano.
Vi sono, nel Rousseau, delle pagine dove la natura par che esca animata
così com’egli la vede, quasi gustandola in un lontano passato:
«Durante le prime età… gli astri, i venti, le montagne, i fiumi, gli alberi, i villaggi, le case stesse,
tutto aveva un’anima, il suo Dio, la sua vita. Le statuette grottesche di Laban, gli spiriti dei selvaggi, i
feticci dei Negri, tutte le opere della natura e degli uomini sono state le prime divinità dei mortali: il
politeismo è stata la loro prima religione» (Emile, libro IV).
«Emilio, che è stato educato con tutta la libertà dei giovani contadini e dei giovani selvaggi,
crescendo, deve cambiare e formarsi come loro. Tutta la differenza è che, invece di agire solo per
giocare o per nutrirsi, egli nei suoi lavori e nei suoi giochi ha imparato a pensare» (Emile, libro IV).
«Rimanete fedeli ai vostri usi patri, ai vostri costumi patri, allo spirito del vostro paese. Pensate al
vostro carattere ginevrino e non scimmiottate i Francesi. Siate orgogliosi di essere ginevrini.
Magnifichino pure i Francesi la loro tanto ammirata cultura, essi però non sono liberi, sono schiavi
dei loro signori, mentre noi ginevrini nel nostro piccolo e modesto Stato, nel nostro proprio Stato
siamo liberi e cittadini».
«Appena io mi son trovato quasi interamente privo di fonti, specialmente per le prime età, ho
consultato ciò che gli scrittori tanto antichi quanto moderni ci fanno conoscere sui popoli selvaggi. Io
credo che la condotta di queste nazioni ci possa dare dei lumi sicuri e giusti sullo stato in cui si
saranno trovati i primi popoli immediatamente dopo la confusione delle lingue e la dispersione delle
famiglie. Le relazioni sull’America mi sono state particolarmente utili» (1, pp. XXX-XXXI).
«La parte più utile della storia non è la conoscenza arida degli usi e dei fatti: è quella che ci mostra lo
spirito che ha dato nascita a questi usi e le cause che hanno determinato gli avvenimenti. Tutti gli usi
hanno dei motivi e questi motivi sono posti sopra le semplici opinioni o sopra dei fatti; queste
opinioni d’altro lato hanno avuto dei fatti per principio o per causa. Se pur sembra qualche volta che
vi siano degli usi senza motivi è perché questi motivi sono stati dimenticati e che gli usi si sono
talmente sfigurati che essi non hanno nulla conservato dei loro motivi… Ciascun uso ha dunque la
sua storia particolare, o almeno la sua favola; ciascun uso appartiene e rimonta a un fatto particolare:
può darsi che vi sia un legame segreto e comune che lega la massa generale di tutti gli usi con quella
di tutti i fatti. La storia degli usi e del loro spirito non è che un nuovo principio per fare la storia degli
uomini».
E sarà appunto questa l’idea dalla quale partirà, qualche anno più tardi,
nel 1776, un giovane indagatore, il Demeunier, il quale nel suo libro
L’esprit des usages et des coutumes des différents peuples non solo allarga
la sua indagine a molte manifestazioni della vita popolare del tempo, ma
insiste su un concetto: che i costumi vanno giudicati non solo per quel che
oggi rappresentano, ma anche e soprattutto per quel che essi
rappresentavano.
«Nel primo libro esamino le istituzioni create dai differenti popoli della terra per rintracciare la
memoria del diluvio: il che costituisce nella società ciò che si può chiamare il suo spirito
commemorativo. Nel secondo libro si proverà che tutte le feste e le istituzioni antiche hanno un
carattere lugubre di tristezza, il quale penetra anche nelle solennità più gaie e più dissolute: è ciò che
io chiamo lo spirito funebre. Nel terzo libro io mi proverò a esaminare i criteri più antichi e di
scoprire i veri motivi di questi enigmi nascosti ai popoli: è ciò che io chiamo lo spirito misterioso, e
io ritengo che questi misteri non hanno avuto altro oggetto che nascondere al volgo dei dogmi
pericolosi alla sua tranquillità. Nel quarto libro io considero i motivi che hanno causato
l’attaccamento dei popoli a certe idee particolari che si riferiscono a cambiamenti di secoli e di
periodi; ed è ciò che io chiamo lo spirito ciclico. Nel quinto libro esamino la natura delle feste, delle
cerimonie istituite in occasione degli anni, dei mesi e dei giorni, ed è ciò che io chiamo lo spirito
liturgico» (1, 39-40).
«Io chiamo in quest’opera feste cicliche tutte quelle che erano attaccate alla fine o al rinnovamento
dei mesi, delle stagioni, degli anni, dei secoli, o di tutt’altro periodo. La parola ciclico sarà un epiteto
generale per indicare tutte le feste periodiche, soprattutto se il loro oggetto si riferisce a una fine o a
un rinnovamento di periodo. Se gli antichi non avessero portato nelle loro feste una così grande
confusione che ne ha corrotto lo spirito e i motivi, sarebbe facile fare questa distinzione. Una festa
che celebra la fine di un periodo è triste e funebre; quella di un rinnovamento è consacrata al piacere
e all’allegria; ma come la fine e il ritorno di un ciclo si toccano e come le feste che consacrano i due
estremi di un periodo si toccano anch’esse e si seguono, ciò ha originato questa confusione di cui noi
abbiamo mille esempi. Quando noi, d’altro lato, conoscendo lo spirito degli usi, potremo conoscere il
vero spirito di queste feste, allora chiameremo eno-ciclici quelle che hanno rapporto con i periodi
conclusivi e neocicli quelle che hanno rapporto con i periodi iniziali».
Così, dunque, se nel Boulanger, come già nel Goguet e nel Brosses,
predomina come un elemento propriamente filosofico l’idea del progresso
(di contro a un Vico o a un Rousseau, nei quali questo principio va
ravvisato, per il primo nella mente umana e per il secondo nel sentimento
dell’Io naturale) fatto è che le sue ricerche gettano una luce viva non solo
sugli usi e sui costumi dei vari popoli, ma soprattutto sulle loro
sopravvivenze, anche se le testimonianze che le riguardano non sempre
sono esatte, tolte come sono dal loro contesto generale. Così, ad esempio,
quando il Boulanger nella sua Antiquité affermava che anche la diffamata
astrologia poneva, sia pure in modo che noi riteniamo superstizioso, l’uomo
a contatto con il cosmo, e aggiungeva che a lui interessava rintracciare le
origini delle credenze in un principio ragionevole e non certo nella follia o
nella stupidità degli uomini; egli faceva suo un orientamento che già si
opponeva all’Illuminismo, e che in pieno Illuminismo veniva dettato, come
nel Goguet e nel Brosses, da una nuova esigenza: l’esigenza etnografica
sentita non in funzione esclusiva della ragione, ma come emancipazione
dalla ragione. In questo senso: che ormai, per merito dell’etnografia, non si
dà importanza soltanto alla ragione, ma anche alla fantasia umana, la quale
non va considerata come un regresso rispetto al progresso, bensì come un
fatto eterno dello spirito. E questo era stato appunto l’insegnamento del
Lafitau, del Vico e del Rousseau.
8. Rivolta della poesia
«Ossian è il genio della natura selvaggia: i suoi poemi somigliano ai boschi sacri degli antichi suoi
Celti: spirano orrore, ma vi si sente ad ogni passo la divinità che vi abita» (Poesie di Ossian, 1, 10,
Pisa, 1801).
«Permettetemi a nome dell’Italia che io mi feliciti della fortunata scoperta che voi avete fatto di un
nuovo mondo poetico e dei preziosi tesori di cui avete arricchito la letteratura. Morven è diventato il
mio Parnaso e Lora il mio Ippocrene… tutto questo spettacolo grandioso e fosco ha più fascino ai
miei occhi che non l’isola di Calipso e i giardini di Alcinoo. Si è disputato a lungo e forse con più
asprezza che buona fede sulla preferenza da accordare alla poesia antica o alla moderna. Ossian io
credo darà causa vinta alla prima, senza che i fautori degli antichi vi guadagnino molto. Bisogna
vedere dietro il suo esempio come la poesia di natura e di sentimento è al disopra della poesia di
riflessione e di esprit, che sembra essere il patrimonio dei moderni. Ma se si dimostra la superiorità
della poesia antica, bisognerà sentire i difetti degli antichi poeti meglio che tutte le critiche. La Scozia
ci ha mostrato un Omero che non sonnecchia, né balbetta, che non è mai volgare, né languido, bensì
sempre grande, semplice, rapido, preciso, eguale e variato» (trad. dal francese, Epistolario, 1, 7-8,
Firenze, 1811).
Commenta il Binni, che ha studiato con finezza la mediazione
dell’Ossian, tramite il Cesarotti, nella poesia italiana: «Il Cesarotti toccava
il punto giusto quando affermava che Ossian se veniva a dar ragione ai
partigiani degli antichi, faceva anche vedere i difetti degli antichi: cioè che,
se faceva accettare quelle qualità di sublime ritrovate negli antichi (e in
realtà nate dal travaglio di una disputa comune più che da una delle due
tesi), mostrava anche che quel sublime era ben diverso da quello realmente
isolabile nei classici». L’Ossian convogliava insomma i desideri di una
nuova età. E quei desideri si articolavano in un linguaggio che è quello di
un nuovo Omero, il quale ha sciacquato i panni fra i Celti. Un linguaggio
simile si poteva ancora ritrovare nella Bibbia. Ed infatti nel 1753 un dotto
professore di Oxford, Robert Lowth, in un suo lavoro intitolato De Sacra
poesia Hebraeorum aveva mostrato come la poesia degli Ebrei fosse fiorita
in singole individualità «su di un popolo di contadini e di pastori». Il che
significava storicizzare la Bibbia stessa. E ora ecco che da un popolo di
guerrieri-contadini-pastori viene Ossian, il cui linguaggio solenne fa
rivivere quello di Omero e quello della Bibbia.
In realtà non si può negare che il Macpherson ci abbia dato nell’Ossian
delle pagine vive e commosse. Ma l’enfasi di certi passaggi stride ai nostri
orecchi, anche se alcuni critici del suo tempo scambiarono questa enfasi per
vero impeto creativo. L’Ossian, comunque, non va giudicato soltanto per il
suo valore poetico (quale che esso sia), ma anche per tutto ciò che mediò
nella poesia del tempo, ove si pensi che esso non alimentò soltanto il gusto
di una nuova poesia, ma anche il gusto della poesia popolare.
4. Alla ricerca della poesia popolare
Non erano mancati, a dire il vero, prima che uscisse l’Ossian, voci che
avevano inneggiato a tale poesia. Questo era appunto già avvenuto in
Spagna. Fin dal 1511 Hernando del Castillo aveva pubblicato un
Cancionero general, in cui erano stati raccolti alcuni vecchi romances
tramandati dalla tradizione orale. La raccolta di questi romances fu
continuata, nel 1550, da Estéban de Nájera nella Silva de varios romances,
un anno dopo da Lorenzo Sepúlveda nei Romances sacados de historias
antiguas e nel 1655 da un Anonimo nel Cancionero des Romances. E tale
raccolta fu continuata man mano con ritmo crescente, finché nel 1700 uscì
il primo Romancero general a cura di Pedro Flores. Si trattava, come ben
osserva il De Lollis, di «una poesia di popolo, per quanto d’un popolo grave
e severo che per sette secoli non depose mai maglia e scudo». E aggiunge:
«Furono poeti dotti che rinnovarono il genere. Ma tutti dimenticarono di
essere poeti colti, perfino Góngora, l’autore delle Soledades delle quali
senza il commento non si capirebbe nulla». Ma quella epopea che risuonava
squillante fra le mura della vecchia Spagna che cos’era, per chi la
raccoglieva, se non una epopea senza Omero? Essa tuttavia rimaneva allora
legata al proprio paese, patrimonio di un popolo che in essa vedeva il suo
retaggio morale e spirituale.
Lo stesso avveniva per la Gran Bretagna, dove la vita della poesia
popolare si articolava soprattutto in una serie di poemetti composti su temi
diversissimi, alcuni dei quali potevano anche farsi risalire al secolo XI.
Ristretta all’alto ceto la poesia dotta, il ceto rurale e quello medio si erano
deliziati sempre a
Queste ballate, a cominciare dal secolo XVII, erano state in parte raccolte
dal Selden, dal Roxburghe e dal Wood. Ma il primo che pose una attenzione
critica su di esse fu indubbiamente l’Addison, il quale nel 1711 in due
numeri consecutivi del suo «Spectator», e precisamente nei numeri 70 e 71
(corrispondenti al 21 e al 25 maggio), non solo segnalava ai suoi lettori due
di quelle ballate, e precisamente Chevy Chase e The Children of the Wood,
le quali sono le preferite, come egli diceva, del common people of England,
ma ne paragonava alcuni passi con altrettanti di Omero e di Virgilio. Si
afferma: lo faceva per giustificare il suo gusto per quelle ballate. Ma la
ragione era diversa: ed era quella di dare cittadinanza a quella poesia, o
meglio a quel genere di old ballads. Non così la pensarono i suoi
contemporanei, tanto è vero che quelle sue comparazioni furono parodiate
in un opuscolo che ebbe allora grande successo: A Comment of the History
of Tom Tumb, apparso anonimo nel 1711. Il che fece meditare l’Addison, il
quale, quando pubblicò lo Spectator in volume, mitigò quelle sue
espressioni; ma rimase fermo, questo sì, nel sentire la profonda e intensa
poesia del contadino che torna dal lavoro e modula il suo canto naturale,
semplice ed efficace.
Le stesse considerazioni venivano fatte nella prefazione che precede la
Collection of the Old Ballads, edite in tre volumi fra il 1723 e il 1725.
L’anonimo raccoglitore non esitava a paragonare i suoi ignoti cantori a
Omero:
«E lo stesso principe dei poeti, il nostro Omero, non era altro che un cantastorie cieco che compose
qualche canto sull’assedio di Troia e le avventure di Ulisse… finché alla sua morte ci fu qualcuno
che ritenne opportuno di raccogliere le sue ballate e, messele un poco insieme, ci ha dato l’Iliade e
l’Odissea» (1, 3).
Il Percy non manca inoltre di notare, ove capiti, il carattere nazionale che
quelle ballate conservano. Agli eroi magniloquenti dell’Ossian si
antepongono ormai Chevy Chase e Robin Hood. Ma chi è Robin Hood,
come già aveva notato l’anonimo raccoglitore della Collection of Old
Ballads, se non un tipico eroe nazionale, a cui la fantasia popolare ha dato
un carattere ideale e leggendario di amore per il popolo stesso? Il Percy,
nella prefazione con la quale presentava le sue ballate, non esitava
naturalmente a riconoscere i pregi di quella poesia insieme vecchia e nuova:
«In un secolo illuminato come il nostro, io so che molte di queste reliquie dell’antichità hanno
bisogno di una grande indulgenza a loro favore. Esse presentano tuttavia, per lo più, una dolce
spontaneità, oltre che delle grazie senza artificio, le quali nell’opinione di critici di valore sono state
giudicate capaci di compensare la mancanza di bellezze d’ordine più elevato. Se esse non possono
abbagliare l’immaginazione, quasi sempre invece toccano il cuore».
«Adesso questi libri vengono presentati al pubblico con quelle correzioni e miglioramenti che sono
necessari: e il testo, in particolare, è stato emendato in molti punti con il ricorrere agli antichi
esemplari. I diversi tipi delle varianti, essendo spesso molto semplici, non sempre sono stati notati in
margine; ma l’alterazione non è stata fatta senza una giusta ragione: specialmente in quei passi che
sono derivati direttamente dall’in folio, così spesso menzionato nelle seguenti pagine… L’in folio è
un lungo e stretto volume contenente 195 tra sonetti, ballate, canzoni storiche e romanze in versi o
interamente o in parte, per il fatto che molte di esse sono molto mutilate e imperfette. Il primo e
l’ultimo foglio sono mancanti, e la metà di ogni pagina al principio è stracciata o deturpata alla fine;
e anche dove i fogli non presentano nessun danno, la trascrizione è talvolta molto scorretta, essendo
in tal caso probabilmente ricavata da esemplari difettosi o dalla difettosa imperfetta dizione dei
cantori illetterati».
Così presentate, le innovazioni del Percy non sono più tali. Il Percy, se
così fosse, si sarebbe attenuto alla ricostruzione (sia pure discutibile nel
campo della poesia popolare, dove ogni testo è pur sempre una creazione a
nuovo). Ma non si era egli scoperto, quando nella prima edizione delle
Reliques aveva scritto che la poesia delle ballate è «come una giovane
donna che viene dalla campagna coi capelli spettinati», la quale è da lui
però resa «adatta alla società inglese»? La verità è che nelle Reliques, se pur
vi sono delle ballate sottoposte a quel genere di raffinamento, ve ne sono
altre indubbiamente fedeli.
«Prenda ora Burns. Perché egli riuscì grande se non perché le vecchie canzoni dei predecessori
vivevano nella bocca del popolo, e furono cantate, per così dire, presso la sua culla; se non perché da
ragazzo crebbe fra quelle canzoni e visse in sé quei modelli eccellenti, ed ebbe in esse un fondamento
dal quale potè muovere e progredire? E anche: perché riuscì egli grande se non perché le sue canzoni
trovarono, a loro volta, nel suo popolo orecchie parimente ricettive, e i falciatori e le mietitrici gliele
riecheggiavano dai campi, e fu salutato nelle osterie dai lieti compagni? Ciò dovette significare pure
qualcosa…» (Colloqui con Goethe, trad. T. Gnoli, 562, Firenze, 1947).
C’è insomma qualcosa di nuovo che viene ormai avvertito e sentito dagli
spiriti più sensibili dell’Inghilterra; e in questo qualcosa si annida, nella sua
primigenia formazione, quel che sarà più tardi il mito stesso della poesia
popolare. E la poesia popolare, a sua volta, ecco che è qui chiamata a
rinsanguare e a rinfrescare quella poesia che popolare non è. Il mutamento
degli spiriti inoltre si rivelava persino nella trasformazione del valore della
parola gotico, che, mentre fino alla prima metà del secolo era stata intesa
come sinonimo di barbaro in senso peggiorativo, veniva ora a rappresentare
quei tempi in cui si erano formate e affermate queste ballate, come a
esprimere un determinato indirizzo d’arte.
2. Muralt e Haller
Alle Lettres, che apparvero per la prima volta nel 1727, il Muralt
aggiunse una Lettre sur les voyages, che sembra sia stala scritta alcuni anni
prima. Bene, in quella Lettre (che è un po’ la chiave stessa delle Lettres),
egli non solo deplora l’influsso che la moda francese comincia a esercitare
sugli animi degli Svizzeri, ma pospone la raffinata civiltà francese alla
civiltà conladina del suo paese, a quella civiltà, cioè, in cui predomina una
mentalità che è rimasta fedele alle sue montagne, e quindi alle sue
tradizioni. La Svizzera, la sua Svizzera, non conosce i morbi della Francia:
«Sembra che la Provvidenza che governa il mondo abbia voluto che tra le nazioni ve ne fosse una
dritta e semplice. Essa ha voluto ricompensare in noi un resto d’ordine, conservato alla vista di tutta
la terra, un carattere perduto tra le nazioni opulente e voluttuose… Una felice oscurità, un genere di
vita lontano da ogni ostentazione e mollezza ci dovrebbe attaccare alle nostre montagne».
«Da quando l’uomo ha perduto la propria occupazione e la propria dignità, è andata perduta altresì la
conoscenza di quel che lo concerne; e nel disordine in cui ci troviamo, non sappiamo in che
consistano la nostra occupazione e la nostra dignità. Poiché soltanto l’ordine può procurarci tale
conoscenza, io penso che ci sia un solo mezzo di restare nell’ordine: seguire l’istinto che è in noi,
l’istinto divino che è forse quel che solo ci resta dello stato originario dell’uomo, e che ci è stato
lasciato per ricondurci a esso. Tutti gli esseri viventi a noi noti hanno ciascuno il proprio istinto, che
non li inganna. L’uomo, che è il più elevato tra tutti, non avrà il proprio, che si estenda su tutto il suo
carattere, e che sia altrettanto sicuro che esteso?»
«Oh! ciechi mortali che fino alla tomba l’avarizia, l’onore e la voluttà trattengono con vane lusinghe,
che avvelenate con sempre nuove cure e vane fatiche il dono esattamente contato dei brevi giorni,
che sdegnate la quieta felicità di una mezzana fortuna e più esigete dal destino che la natura non esige
da voi e che vi fate un bisogno delle brame della follia. Oh! credetelo, non è già il nastro di un ordine
che rende felici; nessun gioiello di perle fa ricchi! Mirate un popolo spregiato, tutto allegro nel lavoro
e nella povertà. La ragionevole natura soltanto può fare felice».
«Nei moti che la nazione inglese provocò contro Carlo I, Milton si dimostrò un avvocato di tutti i
generi di libertà, della libertà religiosa, della libertà domestica e della libertà civile, per mezzo di
molti scritti, che diede alla luce in loro difesa… Era in tutto un repubblicano, e pensava della cosa
pubblica come un greco o un romano, dei quali aveva perfetta conoscenza».
«Io visitai… i piccoli villaggi intorno al lago dei Quattro Cantoni: e quella natura piena di incanti, di
magnificenza e di grandiosità mi fece nuovamente una tale impressione, che mi sedusse l’idea di
rappresentare in un poema la verità e la ricchezza di quell’impareggiabile paese. Ma per conferire
alla mia rappresentazione più attrattiva, interesse e vita, giudicai bene di animare quello sfondo e
quel suolo altamente significativi con figure umane di altrettanto significato, e mi venne in mente la
leggenda di Guglielmo Tell come quella che appunto mi ci voleva. Io immaginai Tell come un eroe
umano di una forza originaria, tranquillo in sé e fanciullescamente inconsapevole, il quale, come
portatore di carichi, va da un cantone all’altro, dovunque conosciuto, dovunque amato e
soccorrevole, dovunque pieno di affetto per la moglie e per il figliuolo, senza badare affatto chi sia il
padrone e chi il servo» (Colloqui cit., 514-515).
Così, dunque, dal 1726 al 1780 assistiamo tanto nella Svizzera (francese
e tedesca) quanto in Germania a una presa di posizione, la quale ha
interesse non soltanto per i valori che media nella storia della storiografia,
ma anche, e soprattutto, per l’importanza che assume nella storia del
folklore. I miti che abbiamo visto prorompere dall’anima inglese trovano
infatti nel Muralt, nel Bodmer, nel Möser e nel Müller interpreti vivi e
appassionati. Con questa differenza: che essi, se pur sentono, come gli
Inglesi, il potere delle virtù nazionali, animano quei miti in nome dell’etnica
tradizionale, di cui cercano, in un modo o nell’altro, di fare la storia. È con
essi peraltro che dalle ricerche dedicate alla poesia popolare o consacrate
con gusto erudito alle Antiquitates passiamo a una vera e propria indagine
storica, che non è da meno di quella ingegnosissima di un Voltaire, di un
Hume, di un Robertson. Ecco perché la mediazione dell’Inghilterra non
serve soltanto alla Svizzera come elemento di contrasto. Gli Svizzeri e il
Möser si oppongono insomma a un’etica che era quella dello spirito
francese, di quello esprit che consisteva, come dice il Muralt, nell’arte di far
valere delle bagatelles; ma si oppongono anche a un’estetica, che era quella
del Boileau e del Gottsched, fatta appunto per valorizzare un mortificante
accademismo.
Nel 1739 il Gottsched scriveva al Bodmer: «Sembra che gli Inglesi
stiano per cacciare dalla Germania i Francesi. Potrebbe darsi purché non si
radichi per essi una stima così cieca quale domina per i primi presso tutta la
nostra gente di corte e i grandi signori». È noto infatti che nella placida
Germania settecentesca, nelle cui innumerevoli corti principesche impera la
moda di Versailles, le grida che provengono dalla Svizzera scuotono la
gioventù tedesca. È noto inoltre che il re di Prussia scrisse il celebre saggio,
edito nel 1780, De la littérature allemande, dove erano del tutto dimenticati
i nomi di un Klopstock e di un Lessing, che invece erano così cari al cuore
di Bodmer. Bene: scenderà in campo contro di lui il Möser in nome,
appunto, dell’arte tedesca. Era stato Goethe a salutare nello Haller il primo
poeta nazionale. Il Bodmer, quasi alla fine della sua vita, in una lettera
indirizzata al Gleim aveva scritto: «Nel fiore dei miei anni la poesia non
c’era! Poi essa nacque sull’istmo dell’età di Saturno! Hagedorn, Gleim,
Klopstock vennero, e con loro l’età dell’argento: poi la primavera di una età
dell’oro!». E ora ecco il Möser: «Un linguaggio poetico non l’avevamo
quasi affatto e non lo avremmo, se i valorosi Svizzeri non avessero vinto
Gottsched». Haller, continua, fu il primo poeta tedesco, e accanto a lui pone
Gleim, Klopstock, Wieland (vale a dire i discepoli del Bodmer).
Il Möser, più che a Milton come il Bodmer, guarda a Cervantes e a
Shakespeare, mentre Omero gli dà l’impressione di «scendere in bettola»,
come egli stesso aveva fatto a Londra. Ma, quali che siano le sue
preferenze, anche a lui, come al Bodmer, è il sentimento nazionale che sta a
cuore. Con lui la letteratura tedesca si fa nazionale. Né era solo la letteratura
a farsi nazionale. Con Muralt, con Bodmer, con Möser e con Müller si fa
nazionale anche il folklore, la tradizione popolare, la vita popolare,
ravvisata in quel che essa ha di suo, di caratteristico, di particolare.
In tal modo, mentre risuonano le voci nazionali di un Lessing, di un
Klopstock, di un Wieland e mentre la Germania si va unificando sul piano
linguistico, ecco che si vien facendo sempre più urgente e imperiosa la
formulazione del concetto di un’anima popolare coscientemente nazionale.
Contemporaneamente si sente sempre più viva l’aspirazione a vagliare (e a
salvaguardare) i costumi della propria patria. S’è detto che questa idea
sentimentale abbia in fondo rinsaldato il regionalismo tedesco. Ma si tratta
di una tesi insostenibile, ove si pensi che la tradizione popolare è un
elemento vivo e fecondo della storia, perché della storia è un fattore vivo e
valido. S’è detto inoltre che quel tradizionalismo, se pur giunge a
riconoscere il pregio delle tradizioni, lo fa, perché le trova già morte. Ma
anche questa tesi è insostenibile, perché tanto gli storici svizzeri quanto il
Möser, se pur guardano con nostalgia alle tradizioni del passato, in cui
pongono le loro origini, non dimenticano che esse hanno una loro vita dove
sono impegnati il cuore e il sentimento, l’immaginazione e l’umanità. Né
infine va accolta la tesi secondo la quale tanto gli storici svizzeri quanto il
Möser considerarono la civiltà contadina soltanto come una civiltà ricettiva.
Assai chiaro in proposito è anzi il pensiero del Möser, il quale non esita ad
affermare «che il contadino afferra abbastanza rapidamente le innovazioni
utili e che lo si accusa a torto, quando si afferma che egli preferisce lunghi
anni di esperienza a proposte mal sicure. Le utili patate si son diffuse più
rapidamente dei gelsi; e finché la coltivazione del lino gli darà buon pane,
non desidererà produrre seta per mangiar castagne».
Il fatto vero è questo: che in un’epoca in cui l’Illuminismo considerava
le tradizioni popolari come errori dello spirito umano, gli storici svizzeri e il
Möser le vedono come il farsi stesso dell’umanità, onde l’esigenza di
immetterle nella storia e di farne il fondamento stesso del carattere
originario e fondamentale di ogni nazione. Ma c’è di più, ove si pensi che,
mentre tra gli illuministi il popolo era in genere concepito come una
moltitudine condannata all’ignoranza e al fanatismo, gli Svizzeri e il Möser
non solo si oppongono, come gli Inglesi, alle regole e ai vincoli d’ogni
precettistica chiedendo ispirazione alla natura e alla vita, ma diffondono per
il popolo, che è insieme vita e natura, quell’amore che era stato già vivo in
pensatori come Vico e Rousseau.
Bisogna osservare tuttavia che tanto negli Svizzeri quanto nel Möser, il
popolo, l’anima popolare, si identifica nella nazione, in quanto questa
nazione si articola in una civiltà di contadini quale è quella in fondo della
Svizzera e della Westfalia. È noto invece, e lo ha notato egregiamente il
Meinecke, che già da tempo in Germania il concetto di nazione aveva un
significato di maggiore distinzione che la parola popolo usata di preferenza
per i più umili, per gli strati cosiddetti inferiori delle popolazioni (il che del
resto avveniva anche in Francia, in Inghilterra e in Italia). Ed è appunto da
questo contrasto, reso ancor più vivo e acuto dall’Illuminismo francese, che
partirà lo Herder non solo per riempire il concetto di Volk (di popolo, ceto
dei contadini ecc.) di una vita etico-sentimentale che si esprime nei canti,
nelle leggende, negli usi, ma anche, e soprattutto, come ha ben notato lo
stesso Meinecke, per fondere l’anima nazionale del suo popolo con
qualcosa che è semplice e originaria qual è appunto la vita stessa del Volk.
Ed ecco, nel ciclo della Germania, lo Sturm und Drang.
10. Herder o dell’umanità
3. Lingua e nazione
«… non è effetto di organizzazione della bocca, perché anche colui che è muto per tutta la vita, se
riflette, ha in sé linguaggio; non è grido della sensazione, perché esso non fu trovato da una macchina
respirante, ma da una creatura riflettente; non è cosa d’imitazione, perché l’imitazione della natura è
un mezzo, e qui si tratta di spiegare il fine; molto meno è convenzione arbitraria: il selvaggio nella
solitudine del bosco avrebbe dovuto creare il linguaggio per se medesimo, quand’anche non lo
avesse parlato. Il linguaggio è l’intesa dell’anima con se stessa, altrettanto necessaria quanto che
l’uomo sia uomo».
«La poesia è la lingua madre del genere umano, come il giardinaggio è più antico della agricoltura, la
pittura della scrittura, il canto della declamazione, le parabole delle deduzioni e lo scambio del
commercio».
Nello Herder l’uomo crea però la poesia soltanto dopo aver creato il
linguaggio. La poesia, insomma, è per lui una manifestazione dell’uomo
che cresce su se stesso. Il che non gli impedisce, ed è qui se mai che egli si
avvicina al Vico (per quanto in ciò gli sia stato di guida il Blackwell), di
ritenere che il linguaggio nei popoli primitivi sia la forza poetica per
eccellenza, e che tale forza a sua volta si ritrovi tanto nella poesia quanto
nel canto (l’una e l’altro spesso collegati). Ma la poesia, per essere
veramente tale, non deve essere popolare nel senso che essa – espressione
completa dell’uomo che si fa io e al tempo stesso Popolo – rivela quel che
di primitivo e di selvaggio vi è nella natura umana? Ecco, dunque, per la
prima volta affacciarsi l’idea di un’anima collettiva, intesa a spiegare lo
stesso sviluppo letterario ed artistico. E di quell’anima collettiva ecco
l’espressione più genuina: la poesia popolare.
«I canti popolari, le fiabe, le leggende… sono sotto un certo aspetto il risultato delle credenze di un
popolo, della sua sensibilità, delle sue facoltà, del suo sforzo: si crede poiché non si sa, si sogna
perché non si vede, ci si agita con la propria anima, intera, semplice, e non ancora sviluppata. Vi è
qui un grande argomento per lo storico dell’umanità, per il poeta, per il critico, per il filologo.
L’antica mitologia germanica nella misura in cui essa vive ancora nella tradizione e nei canti
popolari, accolta con semplicità e contemplata con animo sereno, sarà realmente un tesoro per il
poeta e per il difensore del proprio popolo, per il moralista e per il filosofo… Tutti i popoli non
civilizzati cantano ed agiscono; i loro canti sono gli archivi del popolo, il tesoro della sua scienza e
della sua religione, della sua teogonia e della cosmogonia, dei fatti dei suoi antenati e degli
avvenimenti della sua propria esistenza, il riflesso del suo cuore, l’immagine della sua vita
domestica, nel dolore e nella gioia, dalla culla alla bara. Una piccola raccolta di simili canti, tolti
dalle labbra di ciascun popolo e nel suo proprio linguaggio, ben compresi, ben esposti, accompagnati
dalla relativa musica: ecco che noi daremo delle conoscenze più precise di quei popoli del cicaleccio
dei viaggiatori».
E lo Herder, com’è noto, fece di tutto per dare alla Germania un’opera
che potesse stare accanto alle Reliques. Lo aiutarono Bürger, Goethe,
Lessing. Il suo piano fallì, perché i Lieder raccolti furono pochi e tali da
non legittimare l’opera che egli si proponeva di compiere. Ma in cambio lo
Herder ci diede, in due volumi, una raccolta di canti popolari provenienti da
nazioni e luoghi diversi. Le nazioni maggiormente rappresentate sono
l’Inghilterra con le Reliques raccolte dal Ramsay e dal Percy e la Spagna
con le romanze tratte soprattutto dal Cancionero de Romances. Non
mancano, però, poeti che certo non sono (per noi) popolari: come, ad
esempio, il Chiabrera e il Meli che rappresentano la poesia popolare italiana
insieme a un antico inno religioso. Né mancano con l’Ossian pagine
dell’Edda. I Volkslieder uscirono dal 1778 al 1779, e in essi lo Herder
rimane fermo al concetto di poesia popolare intesa come poesia nazionale.
Dice infatti Herder: «È fuor di dubbio che la poesia e specialmente il Lied
siano stati in principio di tono assolutamente popolare, vale a dire lievi,
semplici, tutte cose ed espressioni nella lingua della moltitudine comune
della ricca e a tutti sensibile natura». E tale natura gli si dispiega in quella
stessa poesia d’arte, quand’essa sa rendere con freschezza la maniera
popolare. Ecco dunque la poesia: vera e autentica voce del genere umano.
Nessuna voce gli è ignota, tutte entrano nel suo cuore e dal suo cuore
escono come una sinfonia. Si sa bene quel che sono le traduzioni:
commenti, pretesti, sfoghi; ma le traduzioni dello Herder sono bellissime,
perché quasi sempre egli trova il tono giusto. Anche Chevy Chase indossa
abiti stranieri. E li porta bene. I Volkslieder sono Stimmen der Völker, come
li chiamerà Jean de Müller (il quale, nel 1807, ne curò, con quest’ultimo
titolo, una buona edizione). Così, del resto, li aveva intesi lo Herder. Il che
significava che i canti, se da una parte avevano un fondo comune
all’umanità, dall’altra conservavano anche un loro carattere. E qui, nei
Volkslieder, sembravano acquetarsi le ansie stesse dello Herder, nel quale il
concetto della nazione e del cosmopolitismo in tanto accusa la stessa
origine, in quanto lo Herder vedeva le nazioni così come vedeva i canti
popolari: come patrie, cioè, unite nel sentimento stesso dell’umanità che
tutte le comprende. E qui è la chiave per comprendere l’opera dello Herder,
il quale, nel dare rilievo alla poesia popolare come a una voce che sia
universale (per il suo fondo) e nazionale (per le sue varie articolazioni),
metteva in moto la stessa idea che lo aveva guidato nello studio del
linguaggio, onde linguaggio, poesia e nazione vanno da lui considerati, per
usare un’espressione del Cassirer, come un’unità che si attua nella totalità
del molteplice.
6. Voci di Dio
Nelle Ideen, pertanto, quel che domina non è l’uomo artefice di se stesso
e della sua storia. All’uomo si è sostituito definitivamente Dio. Lo Herder
sente, con questa nuova sua opera, di dar fondamento a tutto il sapere
umano. E le Ideen, sotto questo aspetto, ci richiamano spesso l’Essai di
Voltaire. Ma il suo è un nuovo ampio Essai, dove le idee del Voltaire (e
degli illuministi) sono in gran parte capovolte, tanto è vero che per lo
Herder un popolo non è un agglomerato di individui separati, bensì un’unità
spirituale in base alla quale i suoi componenti esistono; mentre ciascuna
civiltà non è un’unità astratta, bensì «un bene particolare che è, dovunque,
qualcosa di organico, frutto del clima, della tradizione e degli usi». Il che
richiede una precisazione. Nelle Ideen, infatti, lo Herder non solo sostiene
che la religione è la tradizione più antica e la più santa della terra, non solo
sostiene che la civiltà e la scienza non sono in origine che delle tradizioni
religiose, ma sostiene altresì che il sentimento religioso è anteriore alla
stessa logica e alla stessa ragione. È vero, dunque, che egli vede la storia
dell’umanità come una «pura storia naturale» delle forze e delle tendenze
umane che operano secondo i luoghi e i tempi; ed è vero che, in tal modo,
egli dà il carattere di tradizione non solo alla religione ma anche alla lingua,
alla poesia, alle arti, ecc.; ma ove vogliamo comprendere il secondo Herder,
bisogna che noi vediamo di quale significato egli riempia la parola natura.
Nessuno, dice egli stesso, confonda l’uso che io faccio della parola natura.
La natura non è un essere per sé stante, ma è Dio tutto intero nelle sue
opere. E aggiunge che, se a qualcuno sembra che la parola natura sia stata
parafrasata e spogliata di ogni senso da molti scrittori contemporanei, la
sostituisca egli, nel suo pensiero, con quelle di onnipotenza, di bontà, di
saggezza, e dica dentro l’anima sua il nome dell’essere invisibile che
nessuna lingua terrestre riesce a esprimere.
Lo Herder vede dappertutto, in tutto il mondo, non soltanto degli uomini
che creano la loro civiltà e la loro storia, ma, come egli stesso dice, degli
Hommes de Dieu. Questa la ragione per cui egli considera la storia stessa
dell’umanità come un insegnamento cui deve ricorrere il genere umano.
Egli crede in uno sviluppo progressivo, cui, secondo luoghi e tempi, va
soggetta l’umanità; non si nasconde, sotto l’influsso del Montesquieu,
l’efficacia che il clima può avere sulla tradizione; ma il suo ideale non è
quello illuministico, tanto è vero che il suo concetto inerente allo sviluppo
progressivo non si riempie di una ragione matematica e astratta, ma di un
valore, comunque esso sia concepito, schiettamente storico (il che lo
avvicina al Lessing, il quale riteneva che la mèta cui tende il processo
storico è quella appunto dell’umanità).
Anche nelle Ideen lo Herder non ha idee preconcette sui cosiddetti
popoli di natura, che egli considererà né più né meno come tutti gli altri
popoli. È dell’avviso che il selvaggio, avendo una sua lingua e una sua
organizzazione, ha come noi una civiltà. La sua legislazione gli appare
addirittura un’opera d’arte. Né esita, inoltre, a porre il selvaggio «al di sopra
del moderno Europeo dal cuore fangoso e dal grugno cosmopolitico». E qui
c’è, ancora, la vecchia polemica sociale del selvaggio contrapposto al civile.
Non dà il minimo peso al colore degli uomini. Tutti i popoli sono da lui
affratellati in nome della tradizione, com’egli la concepisce. Il
cosmopolitismo degli illuministi si trasforma in lui in un sereno
umanitarismo. Nel sentimento dell’umanità anche egli cercherà l’umanità
stessa. E negli ampi quadri che dipinge, portandoci fra i popoli più
disparati, sempre preoccupato più a giustificare che a condannare, egli non
solo rivendica la forza della tradizione, la quale in tanto ha un suo valore in
quanto cambia col tempo e nel tempo, ma la immette nella storia e ne fa la
storia.
In un suo lavoro, che si proponeva di presentare a Caterina di Russia,
inteso a determinare gli elementi della civiltà di un popolo aveva scritto:
«Per l’amore del cielo, che tutto non divenga legge scritta, ma sia impulso
vivente, consuetudine, natura». C’era, in queste parole, l’eco
dell’insegnamento del Möser. Ma quell’insegnamento vibra nel corpo stesso
delle Ideen, dove, forse per la prima volta, le costumanze dei popoli sono
chiamate ad affratellare i popoli stessi. In lui la teologia si veniva
trasformando in una antropologia educativa. Ma il filosofo che non voleva
riconoscere nessuna superiorità di un popolo rispetto all’altro, cadrà
purtroppo nell’idoleggiamento di una missione tedesca. Le voci di popoli
son diventate voci di Dio. Ma Dio – ed è qui il limite dello Herder – si farà
tedesco, tanto è vero che fra i vari miti da lui creati c’è quello del
ringiovanimento del mondo antico ad opera dei popoli germanici, poiché in
essi si nascondevano non solamente delle forze intatte, ma anche dei
costumi «selvaggi, forti e buoni». Si giungeva, in tal modo, al
nazionalismo, parola che è stata foggiata da lui. E quel nazionalismo che
viveva nel proprio e del proprio passato si ammantava di un esotismo che lo
rendeva più affascinante e più selvaggio. L’arpa aveva lasciato cadere la sua
teutonica corda. E quella corda si era trasformata essa stessa in arpa, per
quanto lo Herder ammonisca decisamente che una patria, quale che essa sia,
debba vivere immacolata da ogni peccato di politica, perché la pace e non la
guerra è lo stato dell’umanità, la quale non può ammettere «lotte cruente di
patria contro patria».
8. L’umanità in rivolta
1. Il «tesoro dell’umanità»
«… è come una visione nel sogno, priva di coerenza. Essa è un insieme di cose e di avvenimenti
straordinari, come, ad esempio, una fantasia musicale, gli accordi armonici di un’arpa eolia, la stessa
natura… Tutta la natura deve essere mescolata in un modo meraviglioso con lo spirito mondiale;
deve essere il tempo dell’anarchia generale, della mancanza di leggi, della libertà, dello stato naturale
della natura, del tempo anteriore al mondo… Il mondo della favola è il mondo completamente
opposto a quello della verità, e appunto perciò è ad essa tanto simile, quanto il caos alla creazione
perfetta» (Fragmente, nn. 414-415).
«… univa allora tutte le nazioni d’Europa, i cavalieri andavano dai più lontani paesi del Settentrione
fino alla Spagna e all’Italia, le Crociate resero questa unione ancora più stretta e diedero origine a
mirabili rapporti fra l’Oriente e l’Occidente; dal Settentrione e dall’Oriente venivano leggende che si
confondevano con quelle locali, grandi avvenimenti di guerra, corti splendide, principi e imperatori
che avevano il gusto della poesia, una Chiesa trionfante che canonizzava gli eroi: tutte quelle
favorevoli circostanze si collegavano per creare alla libera nobiltà indipendente e alla ricca borghesia
una vita splendida, nella quale le ridestatesi aspirazioni spontaneamente si sposano con la Poesia, per
riconoscere con maggiore chiarezza e purità la realtà circostante che in essa si rispecchia. Credenti
cantavano della fede e dei suoi miracoli, amanti dell’amore, cavalieri descrivevano imprese e lotte
cavalieresche, e cavalieri pieni di amore e di fede erano i loro eletti uditori».
Il Tieck non solo rivalutava così l’epopea nazionale della sua Germania,
dove, a suo avviso, era la fonte della lingua nazionale, ma creava un suo
Medioevo. Il Medioevo tedesco, certo, è ben diverso da quel che egli
dipinge; ma è proprio dei romantici trasfigurare tutto ciò che è lontano nel
tempo. La prefazione dei Minnelieder, d’altro lato, non vuole essere
soltanto l’esaltazione del Medioevo tedesco; essa è la giustificazione della
stessa opera poetica del Tieck, che, non bisogna dimenticarlo, rivaluta con
la poesia i valori (Medioevo, Cristianesimo, folklore) della vecchia
Germania. La sua Genoveva, tratta da una leggenda popolare, è infatti
un’opera drammatica, dove egli sogna il ritorno alle pure fonti del
Cristianesimo, cui l’avevano condotto da una parte la meditazione delle
opere del Böhme e dello Schleiermacher e dall’altra la lettura dei
drammaturghi spagnuoli. Cristianesimo e Medioevo a loro volta sono per
lui quel che erano stati per il Novalis. E in tale apoteosi del Medioevo
tedesco, per quanto non ci sia l’ombra di un interesse politico, è implicito il
riconoscimento della grandezza della Germania.
«Lo spirito degli antichi eroi dell’arte e della scienza tedesca deve restare il nostro, finché rimaniamo
tedeschi. L’artista tedesco o non ha alcun carattere o ha quello di un Albrecht Dürer, di un Keplero, di
un Hans Sachs, di un Lutero, di un Jakob Böhme. E questo carattere è diritto, aperto, solido, preciso e
profondo, e insieme ingenuo e un po’ sgraziato. Solo i Tedeschi hanno come caratteristica nazionale
quella di venerare come divine l’arte e la scienza solo per amore dell’arte e della scienza» (trad.
Santoli, 150).
«Coi Germani un’incontaminata pura sorgente di una nuova epica eroica dilagò per l’Europa, e
quando la rude forza della poesia gotica s’incontrò, sotto l’influenza degli arabi, con un’eco delle
leggiadre fiabe orientali, sulla costa meridionale che dà sul Mediterraneo, fiorì una gaia arte di
trovatori di canti soavi e di storie strane; e, ora in quest’ora in quella forma, insieme alla leggenda
sacra latina si diffuse anche la romanza profana che cantava di amore e di armi» (trad. Santoli, 175).
È lo stesso concetto che verrà poi ripreso dal Tieck, ma lo Schlegel non
si ferma a quella constatazione. E convinto com’è che la poesia e la
mitologia siano tutt’una cosa, si augura l’avvento di una nuova mitologia
che colleghi l’antico col moderno:
«La nuova mitologia deve venire tratta dalla più remota profondità dello spirito; deve essere la più
artistica delle opere d’arte perché deve compendiare tutte le altre, un nuovo letto e un nuovo vaso per
la antica eterna primigenia sorgente della poesia… E che altro è la mitologia se non un’espressione
geroglifica della circostante natura in questa trasfigurazione di fantasia e di amore…? Perché non
volete sollevarvi a ravvivare queste splendide figure della grande antichità?… Ma anche le altre
mitologie devono venir ridestate secondo la misura del loro senso profondo, della loro bellezza e
della loro forma per affrettare la nascita della nuova mitologia. Ci fossero i tesori dell’Oriente così
accessibili come quelli dell’antichità! Quale nuova sorgente di poesia potrebbe sgorgarci dall’India,
se alcuni artisti tedeschi, coll’universalità e la profondità del sentire, col genio del tradurre che son
loro propri, possedessero l’occasione di cui una nazione che diviene sempre più ottusa e brutale poco
sa profittare. Nell’Oriente noi dobbiamo cercare ciò ch’è più altamente romantico; e quando potremo
attingere alla fonte, l’apparenza di meridionale ardore, che tanto ora ci attrae nella poesia spagnola, ci
sembrerà forse a sua volta occidentale e modesta» (trad. Santoli, 199).
8. Romanticismo e Germanesimo
1. La «nazione» politica
«Che ciascuno si lasci guidare, nella scelta di tutto ciò che crede di comunicarci, dal suo gusto
personale; il mio mi porta, riordinando la mia pubblicazione, a comprendere e a servire tutti; io
divento sempre più avido, vedendo ogni giorno accrescersi le mie riserve; alle raccolte che
seguiranno saranno aggiunte melodie, disegni, particolarmente riproduzioni di vecchie incisioni in
legno e paesaggi, antiche leggende trasmesse oralmente e racconti; così noi potremo riannodare un
gran numero di fili nel vasto tessuto in cui la nostra storia è raffigurata e che è nostro dovere
continuare ad arricchire sempre più».
L’Arnim ha dunque la coscienza di compiere raccogliendo le tradizioni
popolari del suo paese un’opera storica e patriottica. Ma quando insieme al
Brentano egli mette in ordine la vasta materia del Des Knaben Wunderhorn,
che è limitata ai Lieder, si mantiene fedele ai testi raccolti? I due
collaboratori, e lo dichiareranno esplicitamente, non vogliono fare opera di
sapienti o di restauratori, bensì di vivificatori. Da qui i loro geniali
rifacimenti. Il primo volume del Des Knaben Wunderhorn uscì nel 1806.
Gli altri due nel 1808. E grande, com’è noto, fu il successo di quest’opera
che apparve a tutta una generazione come la fonte pura e fresca, cui
attingeranno, a piene mani, la loro ispirazione poeti (Eichendorff, Uhland,
Hoffmann von Fallersleben, Mörike, ecc.), musicisti (Schubert, Schumann e
Brahms) e pittori (si pensi soprattutto a Moritz von Schwind). Sembrava
che fosse stata dissotterrata una nuova fonte di giovinezza alla lirica e alla
musica.
Il Des Knaben Wunderhorn fu dedicato a Goethe come a colui che aveva
intuito il valore dei canti popolari, facendone poi fonte dei suoi Lieder; e il
Goethe fu uno dei primi a salutare quel libro con simpatia, «In questi
Lieder, – egli osservò, – dovrebbero i Tedeschi fuori della loro nebbia del
presente confortarsi per ciò che attinge la natura dal tempo in cui furono
composti, ma che è proprio di tutti i tempi». Né meno efficace, alcuni anni
dopo, fu il giudizio che ne diede Heinrich Heine, il quale non fu certo molto
tenero con i romantici del suo paese: «Io non posso fare abbastanza l’elogio
di questo libro. Esso contiene i più leggiadri fiori dello spirito tedesco, e chi
vuole imparare a conoscere il popolo tedesco da un lato assai amabile deve
leggere questi canti popolari. In questo momento io ho sul mio tavolo
questo libro e mi sembra di sentire il profumo dei tigli tedeschi… Il tiglio
rappresenta una parte principale di questi canti, alla sua ombra si carezzano
la sera gli amanti, è il loro albero prediletto, ed è forse per questa ragione
che la foglia del tiglio ha forma del cuore umano». Ma i tigli e gli amanti,
se pur interessavano il Brentano, per quanto anch’egli avesse vivo e
profondo il sentimento della patria, lasciavano indifferente l’Arnim, il quale
traeva il suo concetto di nazionalità tedesca dalla storia tedesca, da quella
storia, cioè, che egli cercava di ricomporre con i fili della tradizione orale e
popolare.
«Un tale ordine è quella speciale natura spirituale dell’ambiente umano, che esiste realmente anche
se non può essere compresa in un concetto: quella natura, dico, da cui egli stesso discende con la sua
azione, col suo pensiero e con la sua fede nell’eternità, cioè il popolo dal quale ha origine, in mezzo
al quale egli fu educato e divenne ciò che è ora» (Reden, VIII).
Il Fichte sente per il Medioevo tedesco quello stesso amore, chiuso e
violento, che ebbero un Novalis, un Tieck, gli Schlegel, un Arnim e un
Görres. Di più egli, ispirandosi a quel gruppo di romantici che si
raccoglievano intorno a Schiller e a Humboldt, non solo auspica l’idea di
una missione universale della nazione tedesca, ma la esaspera portandola
alle più estreme e pericolose conseguenze. Ma il popolo, cui egli affida tale
missione, non deve appunto per questo sottoporsi a una educazione che lo
elevi nel regno della ragione e in quello della libertà del mondo?
Questa in effetti la tesi delle Reden del Fichte, dove il nazionalismo
assume gli stessi caratteri del cosmopolitismo e dove l’analisi stessa di quel
nazionalismo-cosmopolitismo, chiamato a reggere la nuova organizzazione
sociale, lo porta a riscoprire nello spirito dei popoli l’humus di una società
spirituale che da significato al nostro fare. E la tesi suggestiona certo lo
Jahn per quanto riguarda la missione del popolo tedesco, cui egli augura
non solo l’unione, ma la forza di espandersi, onde cristianizzare, fra l’altro,
gli Slavi. Ma lo Jahn non è un pensatore, è un agitatore; ed egli
dell’educazione di cui ha bisogno un popolo, perché in esso nasca il
sentimento della nazionalità, ha un concetto molto diverso da quello del
Fichte. Direi, ha un concetto esclusivamente folkloristico. Spirito ricettivo e
assimilatore ben di rado egli esprime opinioni sue, ma le esprime con la
convinzione che siano sue. E in fondo la sua stessa rozzezza non è, come
ben osserva il Treitschke, l’arte raffinata di chi sa ipnotizzare e convincere?
Nemico dichiarato della Francia e dei Francesi, lo Jahn è il
rappresentante tipico di un giacobinismo che si riveste di panni teutonici. E
il suo Deutsche Volkstum non è solo improntato, in un certo senso, agli
stessi ideali della Rivoluzione francese ma trova le sue pezze d’appoggio
più dirette nelle Considérations sur le gouvernement de Pologne del
Rousseau.
Giovane, ancora studente, lo Jahn si era ritirato a vivere in una grotta in
spregio alla società del suo tempo, «smidollata» e «franciosizzata». Ed egli,
è evidente, in ciò credeva di realizzare ingenuamente il mito del buon
selvaggio postulato dal Rousseau. Quando Napoleone invase il suo paese
andò subito però come volontario nelle crociate contro i Francesi. E tale,
crociato della libertà e della indipendenza tedesca, rimase nel periodo che
va dal 1806 al 1813, durante cui egli, nemico di ogni cosmopolitismo, si
fece banditore del più acceso nazionalismo prussiano e costituì delle società
ginnastiche, le quali altro non erano che, in maniera ridotta, delle adunanze
popolari. Ma queste non erano state nelle Considérations già auspicate dal
Rousseau? I ginnasti dello Jahn avevano inoltre un unico costume in modo
che essi apparissero e fossero tutti uguali. E a un costume nazionale, a un
costume tedesco, penserà più tardi lo Jahn come al più puro simbolo della
nazionalità tedesca.
Il credo dello Jahn risiede anzitutto nel popolo che crea tutta la sua
storia. Ma che cos’è, a sua volta, questo popolo se non l’artefice di quelle
caratteristiche manifestazioni che lo formano, onde egli ha il dovere di
essere puro, in quanto più puro è un popolo – ecco Friedrich Schlegel –
tanto è migliore? «Solamente l’unione delle masse con lo Stato, – proclama,
– può rivestire lo scheletro dello Stato con la calda carne e il sangue del
popolo». Ed ecco che egli, da buon giacobino tedesco, non esita a
proclamare l’abolizione delle classi feudali e dei loro privilegi, la libera
proprietà della terra, una pubblica istruzione elementare che accomuni i
bimbi di tutte le classi sociali: idee che lo Stein fece in parte sue e che
furono liberamente applicate nello Stato prussiano.
Per creare l’unità fra lo Stato e il popolo, lo Jahn non esita, quindi, a
proporre di nazionalizzare l’arte. Nelle adunate ginnastiche egli non aveva
esitato ad infiammare i giovani leggendo i Nibelunghi. Ed era e fu sempre
dell’avviso che le antologie dei giovani avrebbero dovuto contenere i
Lieder tedeschi, i Märchen, le leggende degli eroi tedeschi, i frutti della
sapienza popolare.
Un acuto folklorista tedesco, Adolf Spamer, ha recentemente affermato
che lo Jahn vide per primo negli usi e nei costumi popolari, nei canti, nella
lingua, nei giochi, nell’arte i mezzi più sicuri per «un rinnovamento,
approfondimento e rafforzamento della vita di un popolo». Ma la verità è
diversa, ove si pensi che l’Arnim e il Görres avevano già considerato la
letteratura popolare come uno strumento atto ad inculcare il sentimento
nazionale, e che lo Jahn, quando allarga quel concetto, estendendolo a tutte
le tradizioni, ritorna in fondo al Möser. In realtà, mentre per un Arnim o per
un Görres, come del resto per A. W. Schlegel, le produzioni popolari sono
individuali per la creazione e collettive per la loro diffusione, allo Jahn tali
produzioni interessano in quanto sono l’espressione di un’anima collettiva
con cui si può educare il Volk, cioè il popolo. È il popolo insomma che
educa sé con se stesso. Ma qui ecco che lo Jahn si pone nella stessa
posizione di un Arnim o di un Görres, in quanto è lui stesso a farsi tramite
di quella educazione, dove la tradizione non è delimitata dalla ragione come
nel Fichte, ma da se stessa, che è quanto dire dalle sue forze collettive e
istintive.
Di ben altra natura è, qualche anno dopo, quando già la figura dello Jahn
cominciava a rappresentare la parte di una comparsa, il richiamo che nel
1814 Friedrich K. von Savigny fa a queste forze istintive e popolari. Il
Thibaut aveva allora avanzato la proposta di unificare la legislazione
tedesca e di creare un codice civile. E ciò, secondo lui, per salvare le
istituzioni liberali che Napoleone aveva introdotto nel suo paese. Senonché
creare un codice che potesse livellare tutte le regioni, senza tenere conto del
loro modo di vivere e di pensare, non significava, obietterà il Savigny,
riconoscere la validità di quel codice napoleonico che egli stesso
considerava come un monumento di orgoglio, frutto delle astruserie dei
filosofi e degli ideologi?
Era convincimento del Savigny invece, ed egli aveva già espresso questo
convincimento fin dal 1803 nel suo lavoro Das Recht des Besitzers, che il
diritto non dovesse restare immutabile, e che l’opera dei legislatori dovesse
essere non di creatori ma di scribi intelligenti, volti a comprendere lo spirito
dei tempi. Da qui il valore che egli, come già il Möser, attribuisce alle
consuetudini e quindi implicitamente a quel diritto popolare che, pur
convivendo nel seno delle consuetudini giuridiche, si invera in quelle
innumerevoli forme rituali o abitudinarie le quali sono espresse anche dai
gesti, dai proverbi, dalle sentenze, dai canti ecc., e che coinvolge il diritto
familiare, il possessivo, il contrattuale e il punitivo. Questo, egli ammoniva,
è il linguaggio delle istituzioni popolari, le quali localmente – ecco ancora
Möser contro Voltaire – sono rette da determinati usi, e perciò da fatti che
servono a determinare il diritto stesso. Anche un discepolo del Vico, il
Cuoco, aveva detto in Italia che ciò che va bene a Parigi non va bene a
Napoli. E si può pretendere, allo stesso modo, che ciò che giuridicamente
va bene per la Westfalia vada bene per l’Assia? Né in proposito erano
mancate in Germania delle ricerche particolari come quelle, ad esempio, del
Reitemer, del Biener e del Martens, i quali avevano appunto indagato le
varie consuetudini popolari tedesche: lavoro questo che sarà poi completato
e portato alla perfezione, anche per quanto riguarda il diritto popolare, da
un fedele discepolo del Savigny, il Puchta.
Studioso impareggiabile del diritto romano – è a tutti nota la sua
Geschichte des römischen Rechts im Mittelalter – il Savigny sapeva che
nell’antica Roma esisteva accanto a un jus scriptum un jus non scriptum,
che era quanto dire un diritto consuetudinario. Sapeva altresì quale valore
avesse avuto il diritto consuetudinario non solo fra gli antichi Germani, ma
anche, ad esempio, in Italia, dove gli statuti avevano codificato delle norme
consuetudinarie. Ed egli pertanto non solo si richiama a quella traduzione,
ma la romanticizza. Dallo Schelling il Savigny, cognato del Brentano, aveva
imparato che un’opera d’arte come un principio di diritto, è pur sempre
l’opera di una intelligenza incosciente e impersonale. E tale massima era
stata di guida, fra l’altro, al Niebuhr, il quale, pubblicando nel 1810 la sua
Römische Geschichte, considerava la vita della nazione romana come il
frutto del genio popolare (mentre, d’altro canto, si rifaceva al Möser e al
suo concetto delle comunità agrarie per dare fondamento alla primitiva
storia di Roma, sempre investita della luce di un epos nazionale, concepito
secondo gli schemi del Wolf).
Il Savigny, forte di queste istanze culturali, non solo, come osserva il
Meinecke, giustifica perciò e sanziona «tutti gli istituti e le forme
tradizionali di vita richiamandosi al genio del popolo, che crea
volontariamente, ma condanna di conseguenza ogni arbitraria ingerenza
nella vita degli stati in quanto è violazione di un ordine di cose creatosi
naturalmente». Ma questa condanna è veramente, come si crede, condanna
del presente, nel senso che il Savigny auspica soltanto un ritorno al vecchio
diritto germanico, oppure essa in tanto ha un valore in quanto non vuole
intaccare quella continuità di sviluppo che è insita nel diritto stesso?
Nel suo celebre saggio edito nel 1814 Von Beruf unserer Zeit für
Gesetzgebung und Rechtswissenschaft, il Savigny ammonisce che «ogni
diritto nasce per opera di forze interiori che agiscono in silenzio e non per
l’arbitrio del legislatore». Né diverso è, qualche anno più tardi, il concetto
che egli esprime sul diritto nel tracciare il programma della «Zeitschrift für
geschichtliche Rechtswissenschaft», dove sostiene che la scuola storica
suppone che la materia del diritto sia data da tutto il passato della nazione.
Tale materia potrebbe essere questa o quella indifferentemente, sempre che
scaturisca dall’intimità stessa della nazione. Non esiste pertanto nessun
momento isolato dell’esistenza umana, in quanto ogni uomo è tale perché in
lui convergono la storia e l’umanità. Con le sue stesse parole:
«Se questo è vero, ogni tempo non trae fuori arbitrariamente il suo mondo, ma lo trae in indissolubile
connessione con tutto il passato. Allora ogni età deve riconoscere qualcosa di dato, che è insieme
necessario e libero; necessario in quanto non dipende dall’arbitrio del presente, libero perché non
procede da un estraneo arbitrio, ma dalla più elevata natura del popolo, come un tutto in via di
sviluppo. Di questo tutto, anche l’età presente è un membro che vuole e capisce in esso e con esso, in
modo che ciò che da quest’ultimo è dato, anche da quello può essere liberamente prodotto. La storia
è, in tal caso, non una raccolta di esempi, ma l’unica via della vera conoscenza della nostra
situazione».
«Correva allora [osserva lo Jhering nel commentare questa teoria del Savigny] per la nostra poesia il
periodo romantico. E chi non si spaventa di questa applicazione del concetto romantico alla
giurisprudenza e voglia prendersi la pena di paragonare fra loro gli indirizzi corrispondenti nei due
campi, forse non mi darà torto se affermo che la scuola storica potrebbe, con egual diritto, esser
chiamata romantica. In realtà, è una rappresentazione veramente romantica, cioè a dire, basata su una
falsa idealizzazione di passate cognizioni, quella, secondo la quale il diritto s’andrebbe formando
senza stento né sforzo e senza attività, proprio come il fungo del campo. La cruda realtà ci insegna
appunto il contrario».
«Lo Spirito agisce per sua essenza, egli si fa ciò che è in sé: propria azione, propria opera. Così
avviene anche per lo spirito di un popolo; il suo agire significa il suo divenire in un mondo esistente
che esiste anche nello spazio. La sua religione, il suo culto, la sua morale, i suoi usi, la sua arte, la sua
costituzione, le sue leggi politiche, tutto quanto abbraccia le sue istituzioni, le sue vicende e azioni,
tutto ciò è opera sua, e tutto ciò è questo popolo».
È vero che questo spirito, il quale peraltro trova la sua incarnazione nello
Stato prussiano, è affine, ma non identico, ritiene il Meinecke, a quello dei
romantici e del Savigny. Nell’uno e negli altri, i popoli sono comunque ciò
che sono le loro opere con la loro eredità spirituale. E fra queste opere
quelle prodotte dalla vita popolare, dal folklore, vanno considerate come il
frutto di una rinnovantesi eredità spirituale che produce appunto gli usi, i
culti, i Lieder, i Märchen, ecc., in una parola le tradizioni popolari, dove la
nazione riflette e rispecchia il meglio di se stessa. E in ciò i romantici
avranno magari esagerato: ma essi, o meglio anch’essi sulla via tracciata dai
preromantici, danno al folklore l’importanza di una idea-forza che, fra
l’altro, da un nuovo e pregnante impulso alla germanistica, la quale, ormai
intimamente collegata col mito del Volksgeist, avrà i suoi più attivi
rappresentanti nei fratelli Grimm.
13. I fratelli Grimm
«Il divino, lo spirito della poesia è lo stesso presso tutti i popoli e non ha che una stessa sorgente; ed
ecco perché si vedono apparire dappertutto delle rassomiglianze, una corrispondenza anteriore, una
parentela segreta, di cui il principio generatore s’è perduto, ma che lascia pensare a un antenato
comune; infine vi è uno sviluppo analogo; ma le condizioni e le differenze esteriori sono differenti.
Ecco perché troviamo a fianco di questo accordo intimo una differenza nella conformazione
esteriore».
«Se tu credi con me che la religione è nata d’una rivelazione divina, che il linguaggio ha un’origine
anch’essa del tutto meravigliosa e che esso non è stato creato dall’Invenzione umana, è necessario
che tu creda e senta che anche l’antica poesia e le sue forme, che la sorgente della rima e
dell’allitterazione, è apparsa verosimilmente tutta insieme…»
«Noi abbiamo avuto la fortuna di conoscere, al villaggio di Niederzwehren, presso Cassel, una
contadina alla quale dobbiamo i più bei racconti del nostro secondo volume. Era la donna di un
piccolo allevatore di bestie: essa era ancora piena di vigore e non aveva più di cinquant’anni… Essa
conserva queste vecchie storie nella sua memoria e in ciò ella ha un dono che il mondo non accorda a
tutti. Essa racconta prendendo gioia al racconto e, se lo si desidera, in modo che si possa scrivere
sotto dettato».
«Abbiamo dato delle fiabe la sostanza così come l’abbiamo ricevuta. Si comprenderà, d’altro lato,
che la maniera di dire e di narrare i particolari è principalmente dovuta a noi. Ci siamo tuttavia
sforzati di riportare qualsiasi cosa che abbiamo ritenuta caratteristica, in modo che noi possiamo dare
questa collezione sotto il suo aspetto vero e naturale. Colui, del resto, che si interessa a un’opera di
questo genere, sa che non ci si può occupare di codeste cose con un metodo da collezionista
indifferente o senza senno, ma che, al contrario, si richiede una grande attenzione nel distinguere la
lezione del racconto più semplice, la più pura e la più completa, dalla lezione falsificata. Ovunque noi
abbiamo trovato che le varianti di un racconto si completano l’una con l’altra le abbiamo date come
una sola storia. Ma quando differiscono abbiamo dato la preferenza a quella che è la migliore e
abbiamo riportato le altre nelle note».
«È ormai da molto tempo che si è riconosciuto come uno dei tratti principali della nostra nazione
l’attaccamento agli usi dei nostri padri, nonché la ripugnanza a disfarsene; e se non fosse stato così,
noi non possederemmo, ancor oggi, una poesia che la sua antichità e il suo valore rendono
comparabile alla sola poesia greca; ancor oggi, i costumi, i modi di parlare e le abitudini dei
contadini non si sono interamente distaccati né dalla antica leggenda né dalla franca natura delle
leggi antiche».
E quel patrimonio ecco che avrà la sua più alta consacrazione in un’altra
opera di Jacob: la Deutsche Mythologie, edita nel 1835. I grandi poemi, cui
i due fratelli avevano dedicato le loro appassionate indagini, l’Edda e i
Nibelunghi, costituiscono, qui, i loro maggiori punti di riferimento. Ma
l’indagine non si ferma a quei poemi e quindi alle credenze che essi ci
tramandano a documentare il mito della vecchia Germania. Jacob si avvale
anche delle cronache del Medioevo e dell’agiografia, e partito dall’antichità
germanica arriva alle sopravvivenze che il folklore ci conserva in tutte le
sue manifestazioni (riti, usi, proverbi, modi di dire, canzoni, leggende,
ecc.). Qui il valore della sua Mythologie – e in ciò egli è sullo stesso piano
delle Deutsche Rechtsaltertümer – dove la problematica del folklore è
affrontata con larghezza di vedute, tanto più che Jacob non si ferma agli
accostamenti fra i miti e i riti, fra i racconti e le credenze, ecc., ma cerca
sempre di approfondire il valore di quelle manifestazioni, di vagliarle
criticamente e di interpretarle.
È ovvio oggi osservare che in queste opere il Grimm attribuisce a una
remota antichità manifestazioni a essa estranee, mentre si abbandona ad
accostamenti arditi e geniali, ma puramente casuali e fallaci, onde, come
ben osserva il Sokolov, egli confonde ciò che è identico con ciò che è
analogo. Ma prescindendo da questa osservazione, si può negare a Jacob il
merito di averci dato in queste sue opere una prima sistemazione scientifica
del folklore? E gli si può negare l’altro merito di averci dato una
rievocazione pittoresca di quel paganesimo – cristianesimo germanico, già
genialmente adombrato nei Kinder- und Hausmärchen e nelle Deutsche
Sagen? Si aggiunga che Jacob è uno scrittore massiccio, ma immaginoso, e
che il suo linguaggio sa creare delle atmosfere dentro cui il lettore finisce
col rimanere stordito e abbagliato. Ed eccoci allora giustificata la ragione
del suo successo. Piace a Jacob, come al fratello, vagare spesso fra le
nuvole come le protagoniste delle sue fiabe; e gli piace, altresì, recarsi alla
tregenda del passato germanico a cavallo di una scopa; ma dalle nuvole
quante volte egli non scende sulla terra, dove cammina con passo sicuro e
deciso?
7. La Grammatik
«i racconti meritano una maggiore attenzione di quel che per ora abbiano avuto, non soltanto per la
loro forma poetica che ha un fascino particolare e che ha lasciato in ciascuno di coloro che li hanno
intesi nella loro infanzia un prezioso insegnamento insieme con un dolce ricordo, ma anche perché
fanno parte della nostra poesia nazionale».
La loro attività ebbe perciò, sia pure nella sua rigida compostezza, il
carattere di una sfida nazionale. E questo fu l’atteggiamento politico cui i
Grimm improntarono sempre la loro vita, tanto è vero che essi, spiriti aperti
e liberali, non esitarono nel 1837 a firmare la celebre protesta redatta dallo
storico Dahlman contro il governo di Hanno ver per aver violato la
costituzione. In cambio Jacob, che già da sette anni insegnava all’Università
di Gottinga, fu espulso. Ma ciò gli servì a dedicarsi maggiormente a
quell’attività che ormai più l’interessava fra tutte le altre che egli aveva pur
coltivato; la lingua e i dialetti della sua Germania. Imponente era già, fin dal
1837, la mole di lavoro che i Grimm avevano messo insieme. Ma ora ecco
che essi nel 1855 si accingeranno alla compilazione di un Wörterbuch der
deutschen Sprache, mentre già nel 1848 Jacob aveva pubblicato, appendice
alla sua grammatica, i due volumi della Geschichte der deutschen Sprache.
Queste opere erano in un certo senso il frutto della germinazione della
Deutsche Grammatik, la quale, come ben commenta il Terracini, composta
nel fervore della riscossa tedesca, è uno dei vangeli della glottologia,
mentre la Geschichte der deutschen Sprache, ricercando la preistoria
linguistica del germanesimo, esprime l’ansia e il sentimento nazionale del
’48 tedesco. Il che si può anche dire del Wörterbuch, che conclude
un’attività di ricerche e di studi maturati fra il 1812 e il 1848, e che è una
miniera di notizie folkloriche.
I Grimm, insomma, nulla trascurarono perché la Germania potesse
finalmente avere accanto ai Monumenta Germaniae Historica, dovuti
all’iniziativa dello Stein, un suo Corpus dove il passato si fondesse col
presente, e dove presente e passato potessero dare l’idea precisa e unitaria
del loro popolo. Era desiderio dei Grimm mettere o rimettere in luce,
convenientemente illustrati, i testi della vecchia letteratura germanica, che
già tanto entusiasmo avevano suscitato nei loro predecessori; ma era,
soprattutto, loro interesse ricostruire, per mezzo degli elementi che offriva
loro il folklore vivente, quel che di più sacro conservava la tradizione. E la
loro opera si svolge su due piani: da una parte le ricerche particolari con la
raccolta e la pubblicazione dei testi; dall’altra le ampie sintesi con le
costruzioni generali inerenti alla lingua, al diritto, alla novellistica, alla
mitologia, all’epopea, ecc. Non sempre, come abbiamo visto, i due fratelli
collaborarono insieme, per quanto, anche collaborando insieme, si
dividessero sempre il compito del loro lavoro. Ma unico fu, pur sempre, il
loro fine: elevare il mondo germanico a un organismo poetico e politico
concluso in se stesso, che assumesse ancor di più il valore eterno di un
simbolo per il popolo stesso cui si ispiravano. E il popolo – lo aveva
espressamente dichiarato Wilhelm – «è un concetto dove si riassumono
perfettamente le facoltà dello spirito».
L’opera dei Grimm, appunto per questo, aveva dominato in gran parte la
cultura germanica, infondendole con la ricerca scientifica una idea-forza di
carattere nazionale. Ma, nel frattempo, quale era stato e qual era
l’atteggiamento che nei confronti del folklore aveva assunto il
Romanticismo negli altri paesi d’Europa? E quale, in essi, l’influsso dei
Grimm e dei loro predecessori?
14. Ritorno alle origini
«Contrasta l’effetto della pubblicazione del Macpherson con quello delle Reliques del Percy; così
modesto questo, quanto pretenzioso l’altro. Io ho già constatato quanto la Germania debba al primo, e
per quel che riguarda il nostro paese l’opera del Macpherson è stata completamente riabilitata da
quella del Percy. Penso che non vi possa esser oggi nessun poeta che non sia fiero di mostrare il suo
riconoscimento alle Reliques. Ed io so che molti altri sono del mio parere, mentre per quanto riguarda
me sono felice di farne pubblico riconoscimento».
«… io feci allora, in primo luogo, la conoscenza con le Reliques del vescovo Percy. Ricordo bene il
luogo dove lessi questo volume per la prima volta. Stavo sotto un grande platano… Il giorno estivo
passò così presto che, nonostante il gagliardo appetito dei tredici anni, dimenticai l’ora del pranzo e
misi in pensiero i miei familiari, finché non venni trovato nel mio intellettuale boschetto. Leggere e
fantasticare era in quei momenti la stessa cosa, e da quel momento non lasciai in pace i miei
compagni e tutti coloro che avevano la forza di ascoltarmi con le drammatiche letture delle ballate
del Percy. Appena poi potei raggranellare un po’ di denaro, che mi si dava per i miei minuti bisogni,
io stesso comprai una copia di questi volumi che mi stavano tanto a cuore, e io non credo che abbia
mai letto un libro così spesso e con tanto entusiasmo».
E fu questo entusiasmo che lo portò, appena trentenne, alla compilazione
di una raccolta di ballate scozzesi, la quale, quattro anni dopo l’apparizione
delle Lyrical Ballads, uscì con il titolo di Min-strelsy of the Scottish Border.
Un suo biografo, il Lockhart, ci narra come, per sette anni di seguito, lo
Scott si aggirasse fra le rovine dei castelli delle regioni vicine al confine
scozzese e com’egli in quelle regioni si preoccupasse di studiare tutte le
manifestazioni inerenti alla vita popolare. Lo Scott guardava già al folklore
con l’interesse dell’antiquario e dello storico, ma anche dell’artista. E nel
Minstrelsy questi suoi interessi si avvicendano, tanto è vero che egli, se da
una parte raccoglie, pur a volte modificandole, le ballate storiche e
romantiche – contribuendo così a tener sempre più vivo l’amore per il
Medioevo e per le tradizioni popolari locali e nazionali –, dall’altra non
esita a comporne delle sue.
Non poche delle ballate raccolte furono utilizzate dallo Scott nei suoi
romanzi, dove egli rese popolare quella teoria del colore locale che era
implicita in tutto il Romanticismo e che già aveva avuto un caldo interprete
nel Müller. Romanzi storici, quelli dello Scott. Ma quale concezione della
storia vi si rivela? Lo Scott si preoccupa certamente della realtà storica e di
tutti i problemi connessi ad essa. E al riguardo un suo ammiratore, Maurice
de Guérin, afferma che «è in lui che si deve studiare la storia». E aggiunge:
«La insegnerà lui la storia meglio di tutti gli storici, perché costoro non
raccontano che i fatti generali e le azioni pubbliche, mentre lui entra nei
particolari della vita e nei suoi dialoghi così naturali e ingenui fa conoscere
tutte le classi della società e i costumi del tempo». Ma ad osservare bene
nella storia quale viene vista dallo Scott, tutto, i particolari, i dialoghi ecc.
sembrano dar vita a una immaginosa e romantica favola. Qui il segreto della
sua opera che non poche volte ci ricorda quei romantici tedeschi che egli
aveva amato e tradotto.
I romantici tedeschi – si metta a confronto un romanzo dello Scott con
quello di un Tieck – si preoccupavano però di vedere da quali bisogni erano
nate le varie condizioni di civiltà e quindi le varie forme del costume cui
essi si richiamavano come a una materia nazionale-educativa. Allo Scott
mancavano invece proprio tali interessi. E la stessa materia storico-
nazionale-educativa cui ricorreva si spegneva in lui in una pittoresca
contemplazione del passato, quando non si trasformava addirittura in una
costruzione sua ideale, che di storico aveva soltanto i caratteri esterni.
Si deve tuttavia riconoscere che lo Scott ci ha lasciato, nella sua vasta
opera, una pittoresca galleria di antichità popolari dove fra l’altro risplende
di una sua luce particolare la vita del popolo scozzese e che completa quelle
che già ci erano state presentate dal Brand, dal Bourne e dal Browne, quasi
a tracciare un folklore ideale di tutta la Gran Bretagna. Queste antichità
assumono in lui il colore di quegli stessi Tales of a Grand-Father che egli
narrava ai suoi nipoti. E Wilhelm Grimm non senza ragione nelle sue note
ai Kinder- und Hausmärchen segnalava lo Scott come colui che aveva
saputo raccogliere l’eredità dell’Ossian e delle Reliques.
«Quando io provo la noia di vivere e mi sento il cuore rattristato a contatto degli uomini, piego la
testa e volgo uno sguardo di rimpianto. Meditazioni incantate! Fascino segreto e ineffabile d’una
anima contenta di se stessa! È in mezzo agli immensi deserti dell’America che vi gusto a lunghi
sorsi».
«Nel primo volume dei Natchez si troverà il meraviglioso, e il meraviglioso di tutte le specie, il
meraviglioso cristiano, il meraviglioso mitologico, il meraviglioso indiano: vi si incontreranno muse,
angeli, demoni, geni, combattimenti, personaggi: la Fama, il Tempo, la Notte, l’Amicizia. Questo
volume offre invocazioni, sacrifici, prodigi, comparazioni, le une brevi, le altre lunghe, alla maniera
di Omero…»
Sarebbe stato più esatto dire: alla maniera di un Omero travestito a guisa
di Ossian. I selvaggi americani dello Chateaubriand parlano e agiscono
infatti come gli eroi del bardo scozzese; onde a volte si ha proprio
l’impressione che Ossian e Fingal abbiano preso il nome di Sciactas e
d’Outougamiz. Ma quale che sia stato il suo stile, è certo che nello
Chateaubriand il fascino del lontano e dell’ignoto si tramuta non solo
nell’ansia di un mondo migliore, ma anche nel sentimento di una vita
semplice e ingenua. In altre parole: nel gusto di quell’eterno momento
primitivo che è dell’umanità. Ed è lo stesso gusto che egli sente per i culti
del Cristianesimo, da lui esaltato nei suoi valori sociali ed estetici; è lo
stesso gusto con cui egli rievoca le foreste dell’antica Gallia che avvicina
all’architettura gotica del suo paese; lo stesso che sente per le varie
manifestazioni della vita popolare in cui è, in gran parte, il passato stesso
della Francia.
«Prima di scrivere, ciascun popolo ha cantato: tutta la poesia si ispira a queste sorgenti native, e la
Spagna, l’Inghilterra, la Germania, ciascuna con orgoglio, hanno il loro romancero. Perché la Francia
non ha il suo?»
Un anno dopo però anche la Francia aveva il suo romancero, tanto è vero
che nel 1843 apparve una delle maggiori sillogi che siano state dedicate alla
poesia popolare francese: i tre volumi, con musiche, di Dumersan e Colet,
Chants et chansons populaires de la France (1858-593). Nel 1852, per
ordine del nuovo imperatore francese, Napoleone III, vengono diffuse
alcune intelligenti e preziose Instructions relatives aux poésies populaires
de la France, dovute a J.-J. Ampère. Ma quelle Instructions (di cui si
serviranno poi studiosi come Rolland, Tiersot, Doncieux, Coirault ecc.)
erano state in parte intuite dal Dumersan e dal Colet.
La poesia popolare appariva ormai anche ai Francesi così come era
apparsa allo Herder: la voce della propria nazionalità. Ma nel frattempo, fra
i due imperi, con questi nuovi e rinnovati interessi non erano andati di pari
passo la letteratura e la storiografia, l’una e l’altra investite appunto da una
nuova forza di rinnovamento? Scrittori reazionari, come un De Maistre o un
De Bonald – è noto come in quest’ultimo il mito del buon selvaggio si
divinizzi – avevano affermato durante la Restaurazione che la borghesia è
un’astrazione dell’Enciclopedismo, mentre il popolo è la storia viva (anche
se ciò, per loro, non escludeva il diritto divino del principe). Dirà più tardi
la Sand: «Il popolo è il solo storico, potremmo dire, che a noi rimane dei
tempi preistorici». E quel popolo entrava, sì, allora, quasi a convivere
idealmente con la borghesia – il che era stato l’auspicio di Saint-Simon –
nell’opera stessa della Sand; ma entrava, con maggiore irruenza, in quella di
un Victor Hugo. Le stesse opere di un Thierry, di un Michelet e di un
Guizot, edite in quel periodo, non si spiegano certo senza l’influsso dello
Chateaubriand e dello Scott. Ma non si spiegano senza il mito del
Volksgeist, quale era stato foggiato in Germania e che i Grimm, molto più
dello Hegel, avevano reso familiare agli studiosi francesi dai quali non poco
trassero i romantici italiani. Gli interessi per la vita popolare si affermarono
infatti in costoro mentre cercavano di risuscitare la coscienza nazionale.
6. Aspetti del Romanticismo in Italia: dalla Lettera semiseria di
Grisostomo alle Vecchie romanze spagnuole
«La poesia popolare – e per tale intendo quella che è interamente prodotta, e non soltanto gradita dal
popolo – non mette fuora opere materialmente immobili come la poesia d’arte; non le raccomanda,
come questa alla scrittura; ma le affida al canto transitorio, alla parola fugace: cammina, cammina
libera e viva; e ad ogni passo che fa lascia un vezzo e ne piglia uno nuovo, senza per questo cessar
d’esser quello ch’ell’era, senza mutare la sembianza che da principio ella assumeva. Sorge uno e
trova una canzone: cento l’ascoltano e la ridicono. Le cantilene udite da’ suoi parenti, la madre le
ricanta a’ suoi figliuoli; questi le insegnano ai nipoti. Quando viene l’uomo letterato, e se le fa
ripetere, e le ferma in caratteri scritti, chi può dire per quante bocche sieno già passate quelle
cantilene? chi riconoscere tutte le modificazioncelle che vi possono avere apprestate?»
«I canti popolari, strettamente legati all’indole nazionale, alle condizioni de’ luoghi, allo stato del
costume, al grado di civiltà, meritano l’attenzione del filosofo. In essi sono i vecchi segreti del cuore
umano. Osservabili per quella espressione che viene spontanea a chi sia veramente commosso, danno
a vedere un misto sempre interessante di comune e di insolito, d’ordinario e di nuovo. Ispirati
interamente dal cuore, ne palesano i due potenti affetti, l’amore e lo sdegno. E li esprimono con
quella energia che fa uno il sentire e lo esprimere… Né infruttuosa inchiesta sarebbe quella di chi
tutti raccogliesse canti siffatti. Di cari e preziosi modi, e locuzioni, e parole; di bei versi tutti genuina
purità; di produzioni nate con la nostra favella, feconda riuscirebbe la sua ricerca. E forse questa
dolcissima madre nostra, privilegiata nutrice di ogni bellezza, ne apparirebbe coronata di un nuovo
serto non indegno ai venerato suo capo».
Non v’è dubbio, dunque, che lo studio delle tradizioni popolari tragga
nell’Europa occidentale nuovi stimoli e nuove suggestioni dal
Romanticismo tedesco, il quale ha avuto il merito di porre, in maniera
decisa, quello studio su una base nazionale e storicistica. Quando la
Germania, senza rinnegare l’universalismo dell’ideale romantico, veniva
considerando la nazione come il mezzo che lo esprime, due grandi Stati
nazionali, l’Inghilterra e la Francia, erano in grado di manifestare un ideale
che si identificasse con la propria cultura e la propria civiltà, che è quanto
dire con la propria coscienza storica. Era logico, quindi, che in essi il
folklore fosse chiamato non a creare quella coscienza, ma a rafforzarla,
diremmo, a ricrearla.
La nazione nella sua forma moderna – si afferma peraltro – nacque in
Inghilterra fin dai Tudor. Ma l’Inghilterra riesce a individuare con maggiore
consapevolezza i suoi caratteri nazionali nell’Ossian e nelle Reliques. Ci si
riferisce invece per la Francia alla difesa della Rivoluzione contro il re. Ma,
a sua volta, non era stata la Francia a far del culto della nazione e della
patria quella religione laica che la stessa dominazione napoleonica fini col
creare e col risuscitare non solo in quei paesi che invase ma anche in quelli
che pretendeva di invadere? E tale religione non dominerà in Europa tutti i
susseguenti moti di indipendenza nazionale che esprimono, per quanto vari
e diversi, l’istanza della propria nazionalità, la quale affonda le radici nel
proprio passato?
Su questo passato, il Guizot innestava gli ideali di un nuovo primato
francese, il quale risultava dalla tradizione culturale per cui la Francia
sarebbe stata in ogni tempo maestra all’Europa. Ugualmente ai valori storici
del passato si riferisce in Italia il Gioberti, il quale però pone al centro della
sua concezione la missione civile e religiosa del papato. E potremmo in
proposito anche ricordare il Mazzini che si richiama alla grandezza della
civiltà italiana nei secoli, alle glorie dell’antica Roma, al Rinascimento ecc.
C’è un’aria nuova, insomma, che circola in tutti questi pensatori ai quali il
primato o la missione della propria patria si dispiega come una realtà
feconda e operosa. E la nazione, intanto, anche con essi e per essi – come
per i romantici tedeschi – non è più un dato naturalistico, ma un fattore
storico.
15. Insegnamenti del folklore
2. La lezione di Danilov
«Chi di noi non ama quei tempi in cui i Russi erano Russi, quando si vestivano dei propri abiti,
camminavano a modo loro, vivevano secondo i loro usi, parlavano la loro lingua e secondo il loro
cuore, cioè parlavano come pensavano? Io, almeno, amo quei tempi. Amo sulle rapide ali
dell’immaginazione volare nella loro lontana oscurità, all’ombra degli olmi vecchissimi e cadenti,
cercare i miei barbuti antenati, conversare con loro intorno agli avvenimenti dell’antichità, intorno al
carattere del glorioso popolo russo» (Natalja, trad. Lo Gatto).
3. Da Puškin a Glinka
Non meno intenso era intanto il lavoro che si veniva facendo per salvare
e valorizzare il patrimonio folkloristico nei paesi scandinavi, vicini
geograficamente ai paesi slavi, ma culturalmente legati in gran parte alla
Germania. La mitologia medievale scandinava – insieme alla letteratura in
cui si articola – era stata già ampiamente divulgata, in Europa, dal Mallet
nello stesso periodo di tempo in cui nascevano l’Ossian e le Reliques. È
però merito dei romantici tedeschi, e soprattutto dei Grimm, quello di
averne fatto oggetto di indagine storica e critica. In un articolo edito nel
1808 negli «Studien», Jacob Grimm aveva decisamente affermato che la
«poesia medievale dei popoli scandinavi non è né generatrice né dipendente
della poesia medievale tedesca» e che pertanto «tutte e due sono nate nello
stesso periodo di tempo sotto l’influsso degli stessi avvenimenti
sviluppandosi parallelamente senza agire l’una sull’altra». E in ciò egli, pur
riconoscendo che dalla Scandinavia venivano le più antiche popolazioni
della Germania, era coerente con la sua idea di quel fondo comune cui si
appellava in nome della poesia popolare. Né diverso era il concetto che in
proposito aveva Wilhelm, cui dobbiamo la traduzione di una raccolta di
canti eroici danesi, già editi in Danimarca sin dal 1591 e ripartiti in quattro
gruppi diversi. Nella sua opera Altdänische Heldenlieder, Balladen und
Märchen, che accoglie appunto tale traduzione, preceduta da una notevole
prefazione, il Grimm divide la materia in due gruppi: da una parte i canti
eroici e dall’altra i canti e le ballate. E ciò perché i primi, a suo avviso,
anteriori agli stessi Nibelunghi e resti autentici di antiche cantilene
primitive, appartengono all’epoca del paganesimo, mentre i canti e le
ballate sono impregnate delle idee del Cristianesimo. Gli uni e gli altri non
erano però (ed è questo quel che contava per lui) che poesia popolare.
Gli Altddnische Heldenlieder uscirono nel 1811. Tre anni dopo si
iniziava la pubblicazione di un’ampia silloge, intitolata Swenka Folkvesiror,
dovuta a E. I. Geijer ed A. A. Afzelius, che comprende quattro volumi. Il
Geijer, poeta e storico, aveva voluto affrontare questa fatica con lo stesso
impegno dei grandi folkloristi del tempo. E l’Afzelius lo aveva
impareggiabilmente coadiuvato. Di notevole interesse, in questa collezione,
i motivi musicali che accompagnano molti canti. Il Geijer era convinto che
quanti più poeti una lingua possiede, tanto meno il popolo canta. E per il
popolo svedese è noto, come ben osserva il Ker, che la ballata era la poesia
nazionale. Ma la tesi del Geijer, cui egli perveniva dato il posto che la
ballata occupava nel suo paese, non va corretta in altro senso: e cioè che in
un paese il quale ha molti poeti colti la poesia popolare finisce col passare
in seconda linea? Anche in Danimarca come nella Svezia, aggiunge il Ker,
«la vita immaginativa è tutta del genere che vien detto popolare». Ed è qui
che respirerà l’opera stessa dell’Andersen, il quale, dietro l’esempio dei
Grimm, se non raccolse delle fiabe popolari, si servì in gran parte di esse
per farne delle rielaborazioni di squisita fattura.
L’opera più imponente però, che nel campo del folklore ci venne allora
dai paesi scandinavi fu quella di Svend Grundtvig il quale dal 1853 al 1899,
in sette volumi, raccolse le Danmarks gamle Folkeviser. In Danimarca
esistevano già raccolte dello stesso genere dovute al Vedel (1591), al Syv
(1695), al Rahbech (1812-14). La raccolta dei canti popolari del Grundtvig
(completata da Axel Olrik) è però su un altro piano. Opera insigne per
sicurezza di metodo e per ricchezza di dottrina, è stata definita. E in effetti
bisogna pur dire che il Grundtvig iniziò con questa raccolta un metodo di
lavoro che sarà quanto mai fecondo nel campo della filologia folkloristica.
In lui operano, si può dire, le esperienze dei raccoglitori precedenti. I
romantici tedeschi avevano avuto indubbiamente il merito di individuare il
valore delle varianti. Ad essi avevano fatto appello il Karadžić e soprattutto
il Lönnrot. Ma per il Grundtvig – come, più tardi, per il Bugge che raccolse
con gli stessi criteri i canti popolari norvegesi (Gamle norske Folkeviser,
Cristiania 1858) –, quelle varianti non sono chiamate a determinare soltanto
la popolarità del canto, ma a dichiararne la tradizione. Si trattava di
disegnare le linee di svolgimento di un canto, di un gruppo di canti, di
vedere come rivive un patrimonio in cui la saga nordica si fonde con la
materia eroica germanica. E qui è indubbiamente il merito del Grundtvig,
cui dobbiamo inoltre le raccolte, filologicamente perfette, delle saghe, le
Danske Sagen (1854-61), e delle novelle popolari, le Danske Folkeaeventyr
(1876-84).
Allievo dello Schelling e del Bopp, il Müller si recò fin dal 1848 in
Inghilterra e precisamente a Oxford per attendere alla pubblicazione del più
antico monumento che ci abbiano conservato gli antichi padri ariani: i Veda
(già rivelati alla cultura europea da un amico dello Jones, A. de Polier). E
Oxford fu e rimase la rocca-forte, la cittadella, dalla quale egli annunzio le
sue teorie in una serie di saggi, in cui la vivacità dello stile si accoppiava a
una felice esposizione degli argomenti presi in esame.
Raccolti poi in volumi che ebbero facile voga, questi saggi comparvero
in parte sotto il titolo di Chips from a German Workshop. Schegge dunque
le sue, e per giunta di un laboratorio tedesco. Questo del resto il carattere
che hanno anche le sue varie Lectures e Contributions, dove egli,
procedendo sempre a scatti, affrontò i vari problemi inerenti alla «scienza
del linguaggio», alla «scienza del mito», alla «scienza delle religioni». Più
organica la sua History of Ancient Sanskrit Literature, edita nel 1859 e
seguita dalla collezione dei testi sacri dell’Oriente in traduzione inglese:
The Sacred Books of the East.
In questi volumi, che assunsero vari titoli nelle innumerevoli traduzioni
europee, il Müller dimostra di possedere le stesse conoscenze dei suoi
predecessori: linguistiche, religiose, folkloristiche. Inoltre egli fa sue anche
le contemporanee esperienze del Positivismo. È del Positivismo la pretesa,
pienamente accolta dal Müller, di ridurre i fatti a un sistema di
classificazioni, sicché la stessa storia viene assumendo le caratteristiche di
una scienza naturalistica. Ed è del Positivismo, come è del Müller,
procedere dall’osservazione del caso singolo alla considerazione del tutto.
Ma c’è di più, ove si pensi che anche nel Müller, come nel Positivismo, le
precedenti istanze illuministiche si fondono continuamente con quelle
romantiche. Senonché, qual è il concetto che ha il Müller intorno ai rapporti
fra il linguaggio e il mito? Quali le sopravvivenze che il mito stesso ha
lasciato nel folklore?
Lo studio dei Veda aveva dato al Müller questo convincimento: che non
è possibile studiare il mito come un fenomeno isolato e che non è possibile
interpretare il mito stesso staccandolo dal linguaggio. Ma ancor prima che
venissero scoperti i Veda, questo parallelismo non era stato individuato, ad
esempio, dal Vico?
Il Vico non solo considerò il mito come un’espressione del linguaggio,
ma nel ricercare l’origine (teorica) della religione, la trovò nel cielo che
fulmina, nei bestioni che stupiscono e temono, onde in essi si forma la
prima idea di Dio. Il bestione, l’uomo primitivo dell’etnologia, che era il
primitivo del Lafitau e del Rousseau, è tutto assorto, inoltre, ritiene il Vico,
in un suo sogno interiore che egli proietta negli oggetti naturali: sicché nello
stormire delle foglie egli avvertirà un certo segno della volontà degli dèi;
nel fluire limpido e tranquillo del ruscello i rispecchiati profili di ninfe;
nella continua vicenda delle stagioni la pietosa storia di Proserpina e di
Cerere ecc. Quando la Scienza Nuova era uscita da alcuni anni, apparvero
due opere di un francese, il Dupuis: il Mémoire sur l’origine des
constellations et sur l’explication de la Fable par l’astronomie, che è del
1781, e l’Origine de tous les cultes, che è del 1795. Il Vico, pur non
avversando l’indirizzo evemeristico allora predominante, aveva affermato
in fondo che le favole, di cui si servono i miti, non sono alterazioni di storie
reali, ma intrinsecamente storie. In questo senso: che la loro pretesa
alterazione è la loro verità stessa. Bene: il Dupuis cercherà questa verità nel
culto della natura che egli considera come un comune bisogno da cui
nascono le lingue, le leggi, le arti. È questo culto che si deve porre, a suo
avviso, alla base della religione primitiva. E poiché, egli aggiungeva, gli
elementi fondamentali della natura sono due, la luce e le tenebre, ecco che il
fondo comune di tutti i miti va ravvisato nel sorgere e nel calare del sole,
onde, ad esempio, Cristo non può non rappresentare che il sole, mentre lo
stesso mito cristiano non è altro che un mito solare.
Il mito, anche per il Dupuis, veniva così considerato come la proiezione
della vita storica dei popoli. E questo, in Germania, fu il principio cui si
attenne il Creuzer, il quale, nella sua Symbolik, sostenne che la prima idea
religiosa è il prodotto dell’animazione della natura, la quale avrebbe dato
origine a un linguaggio tutto pieno di personificazioni simboliche. Né va
dimenticato che il Creuzer, per dimostrare questo assunto, si era avvalso
delle etimologie, sia pure in maniera del tutto arbitraria. Lo aveva seguito in
gran parte il Görres. Ma con più acume s’era messo sulla stessa via K. O.
Müller, il quale però, per quanto le sue ricerche rimanessero limitate alla
Grecia, aveva promosso quell’intelligenza storica del mito cui aveva fatto
appello soprattutto il Vico. I Grimm completarono in un certo senso questo
processo, ove si pensi che essi accolsero l’idea del Vico, e cioè che i miti
sono delle immagini poetiche che esprimono dei fenomeni naturali – per
quanto il loro concetto di poesia non coincidesse con quello del Vico –. Gli
stessi Grimm si possono considerare come i più agguerriti rappresentanti
della mitologia comparata, tanto è vero che in essi la comparazione tende
sempre a far coincidere il mito con il linguaggio, mentre, com’è stato ben
osservato, fu Jacob, nella seconda edizione della sua Mythologie, ad
esprimere l’idea che gli esseri divini della mitologia siano i prototipi di
un’unità originaria così come i suoni delle varie lingue i derivati da un
unicum. La differenza fra le diversità mitologiche corrisponderebbe alle
diversità dialettali. Ai Grimm, tuttavia, cui interessava soprattutto vedere
come i germi delle favole, che sono sopravvivenze di miti, si erano chiusi e
sviluppati in uno speciale centro etnico, qual era quello della Germania, era
mancata una preziosissima fonte: i Veda, dei quali invece si avvarrà
soprattutto un loro grande ammiratore, il Kuhn. Questi, unificando
anch’egli i suoi interessi linguistici con quelli della storia delle religioni,
non solo sostituì il primitivo dell’etnologia con quello della filologia, ma
affermò che il carattere elementare degli dèi, cioè degli dèi del mondo
ariano, si riattacca ai fenomeni passeggeri delle nuvole, delle tempeste ecc.
(indirizzo questo che fu seguito anche dallo Schwartz). E qui, su queste
basi, mentre i caratteri del bestione venivano trasferiti all’Ariano storico,
ecco costruite le sue opere principali come, ad esempio, Die Herabkunft des
Feuers und des Göttertranke, che è del 1859, e Über Entwicklungsstufen
der Mythenbildung, che è del 1873.
Nel saggio Comparative Mythology il Müller considera il Kuhn come
uno dei suoi più diretti ispiratori. E al Kuhn egli infatti si riattacca nel
ricondurre i nomi propri delle varie divinità ariane a una radice indo-
europea, ricostruendo così un loro valore primitivo ipotetico, e quindi il loro
significato originario. Il significato che il Müller dà a quelle divinità, ci
riporta però piuttosto al Dupuis o, meglio, a un Dupuis riveduto, corretto e
aggiornato dalla filologia tedesca. Al sole o, meglio, al sorgere e al
tramontare del sole come fonte ispiratrice della mitologia, il Kuhn aveva
sostituito il temporale, la tempesta, l’uragano. Il Müller rimetterà il sole al
suo posto. E nel far ciò, egli combina, sì, le vedute del Vico con quelle del
Dupuis, del Creuzer con quelle del Kuhn; ma, a differenza di quest’ultimo,
non si contenta di porre il suo esame sugli Ariani storici e lo estende agli
Ariani primitivi. Ai padri, insomma, che la diaspora doveva poi dividere.
«Penso che la stessa idea delle potenze divine ebbe origine dalla meraviglia, onde gli antenati della
gente ariana contemplavano le potenze luminose (deva) che nessuno poteva dire donde venissero e
dove andassero, che non appassivano né morivano, che erano chiamate immortali, cioè a dire che non
passavano, e ciò per distinguerle dalla debole e peritura progenie degli uomini. Questa loro
immortalità trova il suo stesso antecedente nel regolare ritorno dei fenomeni della natura, rivissuti
dalla magica psicologia mitologica».
«… il Dio supremo come un essere che ordina ogni genere di delitti, che viene sconfitto dagli
uomini, che si arrabbia con la moglie e che maltratta i figli, è una prova sicura di una malattia, di una
particolare disposizione del pensiero, ossia, per parlare più chiaro, di vera e propria pazzia… Ed è un
caso di patologia mitologica. Il linguaggio antico era uno strumento difficile da maneggiare,
specialmente per scopi religiosi. Nel linguaggio umano è impossibile esprimere idee astratte se non
sotto metafora… Di qui una sorgente continua di equivoci, molti dei quali si sono conservati nella
mitologia e nella religione del mondo antico» (Contributions to the Science of Mythology, 1, 68,
London, 1897).
Né questa costruzione rimase fuori del campo del folklore, da cui, anzi,
il Müller fu sempre attratto con particolare interesse. Quasi a integrare
quanto Wilhelm Grimm aveva scritto in proposito, egli infatti non solo era
convinto che la nazione resta attaccata con mirabile tenacia ai Märchen, e
che i germi onde essi sono usciti appartengono al periodo anteriore alla
dispersione della razza ariana, ma era dell’avviso che:
«…quei popoli i quali, emigrando verso il nord e verso il sud, portarono i nomi del sole e dell’aurora
così come le credenze nelle splendide divinità del cielo, possedevano già nella loro lingua stessa,
nella loro fraseologia mitologica e proverbiale, i semi, più o meno sviluppati, che dovevano
necessariamente far nascere le stesse piante o piante assai simili in qualunque secolo e sotto
qualunque cielo».
«Il Rigveda ci offre i soli miti: l’uomo nota, vede le vicende celesti e non le narra ancora; ma, se
pure io noi volessi, mettendo ora insieme questi vari miti appartenenti al ciclo dell’aurora, mi trovo
bella e fatta una intiera leggenda, anzi, meglio, una intiera serie di leggende, che riesce quindi
agevole il comparare con le altre epopee e con le altre leggende… Che cos’è l’aurora negli inni
vedici? È una fanciulla che appare sulla punta della montagna; ha la veste luminosa; ha il corpo
luminoso; è guardiana di vacche; ha una sorella, la nera, ossia la brutta, mentre essa è la splendida,
ossia la bella; è la migliore, ossia la sorella buona; disperde la tenebra della sorella, rimove indietro
la sorella; uccide il nero mostro; è figlia della nera… Leghiamo insieme questi miti e spieghiamoli;
ne uscirà fuori a un dipresso il seguente racconto: Una volta era una donna brutta e mostruosa, una
strega, aveva due figlie; l’una simile a lei, ossia brutta e cattiva; l’altra dissimile, ossia bella e buona.
La donna amava la brutta come propria figlia, odiava la bella, essendole matrigna. Essa mandava la
bella a pascere le vacche; ritornando questa sul far del giorno, in cima al monte, la circondò un
grande splendore; essa si adornò di una veste d’oro e le spuntò sul fronte una stella fulgentissima»
(Le novelline di S. Stefano, 6-7, Torino, 1869).
Con questo idolo ecco intanto che Psiche adombrerà l’aurora che si
nasconde quando il sole spunta; Cenerentola, l’aurora che sboccia tra le
nuvole; le Belle imprigionate e liberate da un principe, la primavera che si
libera dall’inverno; l’uccisore del mostro che libera la Principessa dai
capelli d’oro, l’eroe solare. E così via. Né ai Veda il Müller ricorre soltanto
per spiegare i Märchen. Anche i costumi dei popoli trovano in essi la loro
fonte:
«Se noi troviamo lo stesso costume nell’India e nella Grecia, noi siamo spinti a supporre che esso ha
una sorgente comune e siamo quindi portati ad attribuire la sua origine ai tempi che hanno preceduto
la separazione ariana… Uno dei principali incanti che noi troviamo nello studio dei costumi è il
piacere che proviamo a seguirne lo sviluppo, a notarne la loro straordinaria tenacità…».
«Ricostruire quasi per intero, almeno per la razza indo-europea, la logica tradizionale, la quale, se
non è precisamente conforme alle logiche dei filosofi, offre all’osservatore un interesse maggiore di
quelle, ed è forse meno capricciosa e ribelle» (Storia comparata degli usi funebri indo-europei, 6, ed.
1875).
Ma la filologia non si fermò con il Müller e con i suoi più diretti seguaci.
Man mano che il Müller veniva costruendo il suo edificio, il mito indo-
europeo aveva subito spostamenti e adattamenti inerenti al suo stesso centro
di diffusione. Si pensi soprattutto all’opera del Geiger che poneva la culla
del primitivo mondo ariano nel centro della Germania. Oppure a quella del
Poesche che poneva come un dogma l’assimilazione dei biondi nordici con
gli Ariani pretendendo di trovare nell’ovest della Russia le condizioni
favorevoli alla nascita e allo sviluppo di questo tipo etnico. Ipotetica d’altro
lato, quali che fossero stati questi spostamenti e adattamenti, appariva
l’originaria civiltà ariana costruita e immaginata dal Müller, tanto più che la
geologia aveva ormai dimostrato che l’Europa era stata abitata fin da tempi
immemorabili. Gli stessi Feda, sui quali il Müller aveva trasferito il mito
della poesia popolare, quale lo avevano foggiato i Grimm, apparvero agli
studiosi quel che effettivamente erano: e cioè degli inni sacerdotali, i quali
nulla avevano a che fare con la poesia popolare. Ma c’è di più, ove si pensi
che non meno antichi dei racconti indiani contenuti nei Veda apparvero i
racconti egiziani o, ancor meglio, gli assiro-babilonesi. La filologia
comparata era costretta inoltre a riconoscere che la stessa derivazione della
mitologia dalle desinenze dei generi non può costituire un dogma, in quanto
la mitologia è espressa anche da popoli che non conoscono generi
grammaticali e che la stessa teoria del Müller inerente alle desinenze
(nomina-numina) poteva essere valida soltanto in qualche identificazione.
Accusato di non rendersi conto dei particolari dei miti, oltre che della
somiglianza dei miti fra linguaggi diversi, il Müller ebbe anche il torto di
basare il suo sistema sull’incertezza delle desinenze, senza dire poi che
dalla stessa unilateralità della spiegazione etimologica non poteva non
derivare che l’uniformità delle interpreta-zioni. Dirà il Dumézil: «Bisogna
riconoscere che la filologia comparata [del Müller] aveva cercato la sua
disgrazia». E nello stesso anno in cui il Müller moriva, nel 1900, uno dei
suoi maggiori critici, il De Visser dichiarava di non aver imparato nulla dai
mitologisti alla Müller, perché essi non comparavano nulla.
Il De Visser ebbe inoltre a osservare che ridurre la mitologia a una
semplice parafrasi lirica o epica di fenomeni celesti significa porre male il
problema stesso della religione, in quanto il dio è altra cosa o più cose che
la personificazione pura e semplice (insegni Vico, potremmo aggiungere)
d’un fenomeno celeste. Perché un nome, quale che sia, diventi nume, è
necessario, d’altro lato, che l’oggetto al quale prima era applicato, apparisse
già alla coscienza popolare come dotato di virtù divina, per cui, malgrado
l’accrescersi del suo primitivo concetto, rimanesse come segno confuso di
certe nozioni ideali, più o meno elevate, distinte e razionali. Senza questa
intuizione religiosa, osserva giustamente il Kerbaker, che pure fu in gran
parte favorevole alla scuola del Müller, non si può comprendere in qual
modo la semplice osservazione dei fenomeni naturali abbia potuto
trasformarsi in una storia poetica, ispirare l’entusiasmo dei cantori, eccitare
l’ammirazione popolare, tramandarsi alle successive generazioni come il
fine dell’umana sapienza.
Né bisogna dimenticare che queste e altrettali critiche furono precedute
dall’arma più terribile con cui si può colpire un sistema, una teoria, un
uomo: la satira. Al Müller toccò in Inghilterra la stessa sorte che in Francia
era toccata, un secolo prima, al Dupuis. Enorme infatti fu in Francia il
successo che, fra il 1836 e il 1840, ebbe un estroso libretto di cui si fecero
ben tredici edizioni: Comme quoi Napoléon n’a jamais existé, e in cui si
sosteneva, con le stesse teorie del Dupuis, una verità incontestabile: che
Napoleone non era mai esistito e ch’egli, Napoleone, altro non era che il
riflesso e la sopravvivenza di un mito solare. Bene: fin dal 1870, quando
cioè il Müller era in auge, gli studenti di Oxford pubblicavano un opuscolo,
dedicato a un suo seguace, G. A. Cox, dove, coi Veda alla mano,
dimostravano che anche Max Müller era un mito solare (tesi questa che,
alcuni anni dopo, nella stessa Inghilterra, verrà applicata a Cesare e a
Gladstone). Nel rievocare queste polemiche, il Gaidoz ricorda alcuni versi
di Victor Hugo:
È merito del Müller, d’altro lato, l’aver distribuito il suo lavoro secondo
un procedimento in cui le manifestazioni etniche venivano considerate in
rapporto a determinati gruppi di popoli. Merito suo l’aver dichiarato che il
mondo ariano non era per lui un sapere ozioso, ma un sapere dov’è lo
specchio «della nostra famiglia, o per meglio dire, di noi stessi». Merito
suo, infine, l’aver dichiarato, quando si era internato in quel mondo, che un
«etnologo il quale parlasse di razza ariana, di sangue ariano, di occhi e
capelli ariani commetterebbe lo stesso madornale errore di un linguista che
parlasse di vocabolario dolicocefalo o di grammatica brachicefala». E in
questo senso la sua filologia, che pur rimaneva impregnata di positivismo,
assumeva indubbiamente un orientamento storico fecondo di risultati.
Commenta in proposito il Pettazzoni: «Il fatto linguistico, con cui essa
[la scuola del Müller] spiegava il fatto mitico-religioso, era il più atto a far
risaltare per via delle comparazioni, le differenze spirituali fra popolo e
popolo, e quindi l’individualità delle singole genti e nazioni: fattore di
capitale importanza per l’intelligenza della storia (e quindi anche della
storia religiosa)… D’altra parte la filologia era pur qualche cosa di più che
la scienza del linguaggio e che la scienza del mito fondata sul linguaggio
(vergleichende Mythologie): al di là del dato fonetico e dell’astrazione
semasiologica era il testo, sia letterario sia comunque documentario, che si
imponeva per se stesso all’attenzione dello studioso, il testo nella sua
concretezza e dunque nella sua precisa determinatezza storica».
La immaginosa e poetica ricostruzione, in cui il Müller aveva avvolte le
varie manifestazioni del folklore, era stata peraltro un nuovo e potente
stimolo, perché quelle manifestazioni, a cui si riconosceva una preminente
dignità, venissero dovunque raccolte con maggiore fedeltà. In una lettera
che il Müller scrisse al Pitrè perché servisse come introduzione
all’«Archivio per lo studio delle tradizioni popolari» si leggono queste
parole:
«Mio caro signore, desidera che io Le dica le mie idee circa il giornale “Archivio per lo studio delle
tradizioni popolari” che Ella intende pubblicare insieme ad alcuni suoi amici: ed io sento delle
difficoltà a far questo. Lo studio delle tradizioni popolari d’Europa e di tutto il mondo ha fatto sì
giganteschi passi in quest’ultimo ventennio che io non possedendo per conto mio un paio dei famosi
stivali fatati non potrei se non stare a guardare da una ben rispettabile distanza. Anni addietro quando
questo studio era se non dispregiato per lo meno ignorato io mi dichiarai con tutte le mie forze contro
i suoi detrattori. Ora che comincio a sentirmi vecchio e stanco vedo gli alberi, che già concorsi a
piantare, crescere a sì gran foresta…».
«Il raccogliere novelle popolari è un compito difficilissimo o facilissimo… Prima di tutto non ogni
novella che una vecchia può raccontare merita di venire scritta e stampata. Le novelle genuine nate in
casa o, se così mi posso esprimere, autoctone, mandano una peculiare fragranza terrestre… la quale
noi dobbiamo imparare a riconoscere prima di poter dire se una novella è antica o recente, genuina o
spuria, se viene dalla foresta o dalla serra. È tutta una questione di gusto… In secondo luogo la stessa
novella, tutte le volte che ciò è possibile, dovrebbe venire raccolta da sorgenti differenti e da
differenti località e gli elementi che sono comuni a tutte le versioni dovrebbero venire diligentemente
distinti da quelli che sono peculiari a una o più soltanto. In terzo luogo tutti i raccoglitori dovrebbero
informarsi dei risultati già ottenuti nella classificazione delle novelle, al fine di vedere e di dire a un
tempo a quale gruppo appartiene la novella raccolta… In quarto luogo, la novella dovrebbe darsi, per
quanto è possibile, con le ipsissima verba del narratore. Questa sarà una precauzione contro quella
immoralità di collezioni di novelle, della quale abbiamo tanto sofferto. Egli è fuor di dubbio che un
collettore, il quale ritocchi e abbellisca una novella, andrebbe frustato».
«Questo studio dei dialetti, io ne sono pienamente sicuro, è ricco di promesse e io ritengo sempre con
la massima convinzione che, per conoscere che cosa e il linguaggio, noi dobbiamo studiare la reale
vita naturale del linguaggio».
E con tale augurio il maestro, vecchio e stanco, come egli si definiva,
lasciava agli studiosi delle tradizioni popolari il suo testamento spirituale,
mentre dal suo insegnamento, da tutta la sua opera, si veniva rafforzando
un’idea che era stata cara ai preromantici e ai romantici: e cioè che le
singole filologie in tanto hanno un valore in quanto mettono capo alle storie
rispettive dei singoli paesi.
17. Sulle orme del Benfey
Nulla sappiamo di questo Savio che intermezzò con rara abilità i suoi
precetti morali con racconti, novelle e apologhi di una finezza non comune.
Sappiamo però che la prima traduzione del suo libro fu fatta nel secolo VI
Non v’è dubbio che il Benfey, come del resto egli stesso dichiara, sia
rimasto suggestionato dalle ricerche sul Panciatantra del Sacy. A lui
interessano le traduzioni del Panciatantra, le sue ramificazioni e filiazioni.
Ma in tale indagine minuta e precisa, un capolavoro di filologia
orientalistica, egli può trascurare la diffusione che le novelle del
Panciatantra ebbero nella letteratura popolare? Ed è allora che il Benfey,
riprendendo la tesi del Loiseleur Deslongchamps sull’origine indiana
dell’apologo, formula una vasta teoria la quale non si limita a determinare
l’origine dell’apologo, ma abbraccia in parte le produzioni della narrativa
popolare (novelle, racconti, enigmi ecc.).
«Le mie ricerche, – dirà infatti lo stesso Benfey, – mi hanno portato alla
convinzione che un gran numero di Märchen e di altri racconti popolari si è
diffuso dall’India in tutto il mondo». Egli è dell’avviso che tale diffusione
abbia avuto inizio nel secolo X d. C. con le favole, gli apologhi, che vennero
conosciuti attraverso le redazioni e le traduzioni del Panciatantra, rese note
dai viaggiatori o mercanti che si spingevano in Oriente. Ed è evidente
quindi che per il Benfey il primo veicolo della propagazione delle novelle
dall’India in Europa sia rappresentato dalla tradizione orale. Ad essa seguì
però un’altra tradizione: quella letteraria. E il Benfey ecco come ne traccia
l’avvento:
«Col secolo X cominciò, con gli attacchi e le conquiste dei Musulmani in India, una sempre crescente
conoscenza dell’India. Da quel momento in poi la tradizione orale divenne meno importante di quella
scritta. I lavori narrativi dell’India vennero tradotti in persiano e in arabo e, in un tempo
relativamente breve, si diffusero – quando non si diffuse soltanto il loro contenuto, cioè la trama
narrativa – nelle terre occupate dai Musulmani in Asia, in Africa, in Europa, e, a causa delle frequenti
relazioni di questi popoli con i Cristiani, anche in tutto l’Occidente cristiano. In quest’ultimo campo i
punti principali di contatto furono l’impero bizantino, la Spagna e l’Italia».
«Dai Tibetani quelle composizioni [le favole, le parabole ecc.] giunsero, insieme al buddismo, tra i
Mongoli, e sappiamo con la massima certezza che costoro tradussero i racconti dell’India nella loro
lingua. È ovvio aggiungere: con molte modifiche e cambiamenti riguardanti i dettagli… I Mongoli,
com’è noto, dominarono l’Europa per duecento anni e anch’essi quindi contribuirono alla diffusione
delle novelle indiane in Europa».
«È chiaro che in generale la maggior parte delle favole di animali ebbero origine in Occidente e sono,
in grado maggiore o minore, trasformazioni delle cosiddette favole di Esopo. Tuttavia alcune di esse
danno l’impressione di avere un’origine nell’India… La differenza fra le une e le altre consiste in
generale nel fatto che, mentre lo scrittore esopico faceva agire i suoi animali con le loro
caratteristiche, la favola indiana tratta gli animali senza riguardo alla loro speciale natura, come se
essi fossero veramente uomini mascherati in forma di animali» (Panciatantra, 1, 250).
È evidente pertanto che anche qui egli non si preoccupa soltanto della
propagazione delle novelle, ma anche della loro genesi artistica. Il Weber
era convinto in proposito che, ove di una produzione narrativa si voglia
cercare la versione originale, bisogna rintracciarla nella forma che ci si
presenta la più valida artisticamente. Ma a questo criterio estetico ecco che
il Benfey ne oppone un altro:
«La bellezza, la perfetta congruenza dell’idea e della forma si dimostra come il prodotto di una lunga,
continua, e, in certo modo, riflessiva e critica trasformazione, a cui il popolo prende parte più
giudicando che operando; e se si potesse seguire la storia di tutte le favole sino alla loro prima
origine, noi conosceremmo che le più belle creazioni che noi possediamo sono uscite da ben rozzi e
informi principi, che solo con lunga elaborazione nella corrente della vita popolare si sono tornite in
una forma omogenea e che sol per questo raggiunsero la loro più alta perfezione, perché alcune di
esse, espressioni viventi dello spirito popolare, vennero nelle mani di qualche personalità di genio e
furono improntate dallo stampo di un’alta individualità» (Panciatantra, 1, 325).
«Il punto di vista del Benfey sull’origine e la propagazione dei racconti popolari europei è, come dice
egli stesso, una questione di fatto, che sarà completamente risolta soltanto il giorno in cui tutti i
racconti o quasi tutti saranno ricondotti al loro originale indiano».
«In Boccaccio, Federico degli Alberighi non ha niente da offrire alla donna amata che viene a
visitarlo. Si trova dunque nella stessa condizione del colombo del Panciatantra. Egli sacrifica non il
proprio corpo, ma il suo tesoro più caro, il suo unico falcone e riceve in compenso il più grande dei
beni: l’amore di colei che egli ama».
«Prima di venire a una qualsiasi conclusione (sulla genesi di un canto) io sistemo le redazioni in
ordine geografico e cronologico: soltanto in tal modo è possibile distinguere in esse quelli che sono
gli elementi originali da quelli che vi si sono aggiunti».
«L’opera capitale di mio padre è lo studio comparativo del Kalevala che compone la prima parte
della sua storia della letteratura finnica… Le ricerche del Kalevala sono di un certo interesse per i
legami che si trovano fra i canti epici finnici da un lato, e dall’altro i vecchi canti scandinavi, russi,
lituani… Ma d’un interesse ancora più grande è probabilmente l’opera di mio padre che io ho seguito
con l’interpretazione dei canti finnici comparati con le tradizioni similari di tutti i paesi del mondo».
E dopo aver reso questo omaggio all’opera paterna, egli aggiunge: 1, che
il carattere internazionale di un racconto (come di un canto) consiste non
soltanto in una comune idea generale, bensì nella complicazione e nello
scioglimento dell’azione, nel tema tutto intero; 2, che questo tema si
articola in determinati motivi; 3, che per trovare la forma primitiva di
un’avventura è necessario riunire tutte le varianti; 4, che queste varianti
vanno ordinate secondo un criterio storico, se le fonti letterarie ce lo
permettono, o geografico, se invece sono raccolte dalla viva voce del
popolo; 5, che per poter intraprendere quest’ultimo lavoro, è necessario
avere le varianti di ciascun paese, di ciascuna provincia, di ciascun comune.
La conoscenza di queste varianti – la signorina Cox per prima ci diede nel
1893 ben trecentocinquanta versioni di Cinderella –, pubblicate o inedite, ci
porta ali’accertamento degli archetipi aventi ciascuno un proprio autore. Ma
chi può negare, ad esempio (ecco l’appunto al Benfey e al primo
Veselovskij), che nell’Europa settentrionale alcune varianti si sono
conservate in forma più antica che, mettiamo caso, la stessa leggenda di
Polifemo? Ed ecco, a sua volta, che il testo più antico verrà ravvisato in
quello più naturale. È l’idea della semplicità del Keller, osserva lo stesso
Krohn; ma sarebbe più esatto dire che è l’idea della nascita dell’epopea
come la concepivano i romantici e come il Weber l’aveva già applicata alla
novellistica. All’inizio, per i Krohn è la forma più semplice, si, ma la più
perfetta. Il Krohn figlio è dell’avviso tuttavia che la scoperta della forma
primitiva di una leggenda, di un racconto ecc. non è certo la «cosa più
interessante» che offre lo studio geografico-storico di quelle produzioni. È
importante invece vedere quali cambiamenti ha subito quella prima forma e
come essa attraverso le sue varianti si sia articolata nel tempo e nello
spazio. Il che, tuttavia, non gli impedirà – ecco l’errore – di considerare
quelle varianti tutte alla stessa stregua e con lo stesso criterio.
Rielaborati nei suoi vari lavori di novellistica comparata, e in particolar
modo nelle sue indagini sulle fiabe dell’uomo e della volpe, questi principi
furono applicati da Kaarle anche nei suoi studi sul Kalevala e sui canti
popolari estoni. Né è senza significato che il codice cui egli affidò il suo
credo o meglio il credo paterno da lui aggiornato, il Die folkloristische
Arbeitsmethode, edito nel 1926, altro non è che il ripensamento dei suoi
Kalevalan kysmyksiä, che sono del 1910. Altra sua opera magistrale: il
Kalevalan opas, edito nel 1932.
8. Strumenti di lavoro
«La Francia era allora in piena attività epica. Gli avvenimenti e i personaggi che colpivano la fantasia
degli appartenenti alla classe guerriera divenivano immediatamente l’argomento di canti che subito si
diffondevano grazie ai giullari – gli aedi dell’età media – dal loro punto d’origine a tutto quanto il
paese, adattandosi ai diversi dialetti, aumentando nel loro cammino come le onde prodotte da un urto
vanno allargandosi intorno al loro centro… I nuovi canti, che apparivano di continuo, non facevano
dimenticare gli antichi, quando questi per qualche particolare circostanza meritavano di sopravvivere:
le generazioni se li trasmettevano l’una all’altra, modificandoli e ampliandoli più o meno felicemente.
La canzone dedicata a Orlando… attraversò tutta l’età carolingia. Nel secolo XI esisteva sotto forme
diverse, tutte naturalmente parecchio lontane dalla prima» («Revue de Paris», 15 settembre 1901).
«Il secolo XIX che tanto fece e ancor fa per il progresso delle scienze sperimentali seppe dare altresì
un novello e vigoroso impulso agli studi letterari e avviarli per vie non battute in addietro. A lui solo
si appartiene infatti la gloria di aver posto le fondamenta di una vera e propria scienza della
letteratura, la quale, spoglia, per quanto è possibile, da ogni pregiudizio di scuola, ricerchi e studi i
documenti del passato, allarghi lo sguardo ad ogni luogo e ad ogni tempo e riaccostando l’uno e
l’altro tutti i fenomeni simigliami, faccia che a vicenda si illustrino e si chiariscano. Essa si compiace
soprattutto di indagare le origini non tanto delle varie forme letterarie, quanto delle singole
invenzioni; e seguitandone pazientemente il corso attraverso a popoli e paesi ne osserva con occhio
sagace le differenze per iscoprire di poi le cagioni e le leggi della graduale loro trasformazione».
«Mi reca meraviglia, se mi volgo addietro, il numero dei testi di cui l’Autore dovette far uso. Ben
intendo ora la forza di quelle parole che stanno in capo all’edizione principe modenese: Secondo
molte lezende che io ho attrovate e raccolte insieme. Se mai ad alcuno si conviene il nome di
compilatore egli è appunto, chi compose i Reali. I suoi fonti si possono distinguere in cinque
categorie: 1, canzoni di gesta venute dalla Francia; 2, cantari franco-italiani; 3, cantari veneti; 4,
romanzi in prosa italiani; 5, cantari in ottava rima. Fra queste categorie la terza e la quinta dovevano
essere le più numerose».
Non vi è dubbio, come aveva notato il Paris, che il compilatore dei Reali
si debba ravvisare in un solo autore, la cui compilazione aderisce
perfettamente all’animo popolare. E questi, secondo il Rajna, sarebbe
l’autore stesso dell’Aspromonte, il quale anche nei Reali degradò una
materia che in origine aveva ben altra attrattiva:
«Molte narrazioni assai belle per se stesse, le avventure di Fiorio e di Fioravante, le lunghe peripezie
di Drusiana e di Berta, gli amori di Mainetto, la fanciullezza di Orlando, perdono molte delle loro
attrattive nella nostra compilazione. Erano leggende altamente poetiche, frutto spontaneo della
fantasia popolare, e solo abbisognavano di una veste convenevole; il nostro autore le spogliò del
verso, le ridusse in una prosa snervata e prolissa, badò a comprimere ogni ardimento, a far sì che
potessero scambiarsi per istoria vera, e, affine di soddisfare alla ragione, violò i diritti santissimi della
fantasia».
Nei suoi Fabliaux – i quali uscirono nello stesso periodo in cui in Italia
vedevano la luce i primi lavori di estetica di Benedetto Croce – il Bédier
non aveva trascurato, e a ragione, di dare spicco e rilievo al concetto
dell’arte come rappresentazione dell’individuale. In questo lavoro egli
aveva cercato anzitutto di ridurre nei suoi giusti limiti la teoria benfeyana
sull’origine delle novelle. Su centoquarantasette Fabliaux solo undici
ammettevano possibilità comparative con l’India. Ma quelle somiglianze,
egli si domandava, non spettano soltanto alle linee costitutive e generiche
del racconto? E la patria dei racconti è quella dove essi sono nati o è quella
invece dove essi si trovano, nel senso che la loro vera realtà sta nell’atto in
cui sono ricreati o meglio creati?
Era ovvio che, considerata sotto questo aspetto, la monogenesi dei
racconti si risolvesse in una poligenesi e quindi in un legittimo problema
estetico. Ma al di là di quel problema non esiste una storia della cultura che
si rivela feconda, ove la migrazione dei racconti si consideri nei suoi
rapporti con la civiltà cui ha aderito? E il Bédier non sarà egli stesso
prigioniero della teoria inerente alle fonti nelle sue Légendes épiques?
Il Bédier non manca certo di studiare anche queste légendes secondo i
dettami dell’estetica. In uno dei passi più celebri delle Légendes (3, 149
sgg.) egli afferma, ad esempio, che «un’opera d’arte comincia col suo
autore e finisce con lui». E tale, in alcune sue pagine poetiche e brillanti,
egli considera appunto la Chanson de Roland. E questa è la ragione,
aggiunge subito, per cui è vano appellarsi «alle teorie che vogliono mettere
dappertutto delle forze collettive al posto dell’individuo».
Ma c’è di più. È inutile infatti, conclude lo stesso Bédier, supporre che
siano occorsi dei secoli alla formazione della leggenda orlandiana e che
cantori innumerevoli si siano susseguiti. È bastato un attimo, «l’attimo
sacro in cui il poeta, sfruttando forse qualche romanzo, abbozzo grossolano
del suo tema, ha concepito l’idea di un conflitto tra Oliviero e Orlando».
Vero: è bastato quell’attimo. Ma le ricerche del Bédier, tutte le sue ricerche,
non tendono a vedere come si formi quel romanzo, il che d’altro lato nulla
toglie alla validità estetica dell’opera, quale è stata formata dal poeta
individuo? A lui comunque interessa far coincidere quella formazione col
secolo XI. E allora, soltanto allora, egli che giucca con i suoi argomenti
come se fossero i pezzi di una scacchiera, è disposto a farci tutte le
concessioni possibili anche se poi pentito vi ritorna sopra per respingerle.
Non v’è dubbio comunque – per quanto sia difficile trovare nel Bédier
una linea direttiva –, che tanto i Fabliaux quanto le Légendes épiques vanno
considerate sotto due angoli visuali: il primo di estetica, il secondo di storia
della cultura. È vero che il Rajna aveva confuso l’uno con l’altro a
proposito dell’Ariosto. Ma è vero altresì che spesso li confonde anche il
Bédier, il quale tuttavia con la sua opera dimostrò che le ricerche di storia
della cultura – e quindi delle fonti – sono tanto legittime quanto quelle di
carattere estetico, dove quelle fonti possono avere anche il loro peso per
spiegare il testo poetico.
«Un dato tema poetico, una data materia poetica possono passare con facilità da un paese all’altro e
trasmettersi successivamente a popoli di lingua e di razza diversi… Così accadde, per esempio, d’una
serie considerevole di favole, d’apologhi, di racconti o di novelle, che dall’ultimo Oriente vennero in
Europa, o dall’Europa andarono in Oriente, fin da tempi molto remoti, sotto forme diverse. Ma
quando la materia poetica è fissata dal verso, dalla strofa, dalla composizione, quando essa fu
modellata in uno stampo determinato, foggiata in una forma più o meno precisa, il novum opus che
ne risulta non si trasmette più, di regola generale, in questa sua forma, se non a popolazioni
omoglotte, parlanti cioè idiomi identici o molto simili, e tali in sostanza da poter essere compresi
senza grande difficoltà da ognuna di esse».
Formulato questo principio di evidente ispirazione benfeyana, il Nigra
non manca di indagare l’epoca di formazione delle canzoni, le storiche
eccettuate:
«Il periodo genetico ha sempre qualcosa d’occulto, forse perché, fino a quando l’una e l’altra
manifestazione dello spirito umano non sono fissate dalla scrittura e dalla letteratura, v’è luogo ad
una genesi continua. [Ed è così] che molte canzoni nacquero e morirono e quelle che ci pervennero
subirono numerose, profonde e continue modificazioni...»
«Quando dai nostri contadini si compone una canzone, si comincia a fissare la melodia, e questa è
tolta ordinariamente da una canzone anteriore. La melodia determina il metro. Intere frasi e interi
versi, e spesso il principio della composizione, sono mutuati a canzoni già esistenti. Ciò che si
aggiunge di nuovo è spesso scorretto, rozzo e talora confuso; a poco a poco, passando per molte
bocche, si modifica, si purifica, si compie; nuove idee si aggiungono; le espressioni scorrette sono
esclusivamente eliminate o sostituite da altre più corrette; queste a loro volta passando per altre
bocche, e trovandosi in ambienti meno propizi, si corrompono di nuovo, si oscurano, per rinnovarsi
di poi… Nel trasmettersi di bocca in bocca il proprio canto, il popolo lo rinnova e lo modifica
costantemente nelle forme dialettali e nel contenuto, e finalmente anche in parte nella melodia e nel
metro, e queste continue modificazioni costituiscono in realtà una perpetua creazione della poesia
popolare; creazione che passa per molte e varie fasi, e le di cui condizioni di vita e di perfezione o di
degenerazione e di oblio sono intimamente legate con quelle del popolo autore e conservatore».
«Il fondo lessicale e le forme grammaticali dei dialetti dell’Italia superiore e dei dialetti dell’Italia
inferiore (come di tutti gli idiomi romanzi) procedono sostanzialmente dalla lingua latina ed hanno
quindi una base sostanzialmente identica. Ma se nei due rami dialettali della penisola, la parte
lessicale e la grammaticale sono sostanzialmente identiche, la parte fonologica e la sintassi offrono
invece notevoli differenze. La ragione di questo fatto deve cercarsi nella diversità originaria delle due
razze che prevalsero nelle due parti della penisola. Le popolazioni, che all’epoca del dominio romano
abitavano l’Italia inferiore, appartenevano, in proporzione prevalente, al gran ceppo italico, di cui i
Latini stessi erano il ramo più vigoroso. Per contro l’Italia superiore era popolata da Galli e da altre
razze celtiche, o strettamente affini alle celtiche, che, prima di subire il dominio romano, parlavano i
propri idiomi».
«Ma la poesia popolare, al pari della lingua, è una creazione spontanea, essenzialmente etnica. Razza,
lingua e poesia popolare sono tre forme successive della medesima idea e seguono nella loro genesi
e nel loro sviluppo un procedimento analogo. Con ciò noi non vogliamo escludere la possibilità del
passaggio della poesia popolare da una nazione all’altra. Quello che accadde della lingua potè
accadere della poesia popolare. In tal caso sarà compito della storia il cercare le ragioni del fatto, e il
discernere in questa poesia mutuata la parte originaria e la parte che potè esservi aggiunta di proprio
dalla nazione che l’adottò e che seppe assimilarla. Però si può stabilire per principio generale, che la
poesia popolare è creazione spontanea della razza che la canta, risponde al sentimento poetico ed
estetico proprio di questa razza e costituisce un carattere etnico speciale della medesima. Applicando
questo principio all’Italia, siccome noi trovammo nelle due parti della penisola il substrato di due
razze distinte e due tronchi dialettali diversi, così noi dobbiamo trovarvi e vi troviamo, perfettamente
corrispondenti, due specie di poesia popolare nettamente separata».
«Nei secoli XV e XVI, la poesia letteraria, sulle orme di Dante che le aveva tracciata la via, cercò di
segregarsi dalla poesia popolare, ma non vi riuscì. La maggiore sorella esercitava sempre
un’invincibile attrattiva sulla minore; e la minore, non potendo staccarsene, prese a contraffarla.
Credeva di burlarsene, e la onorava. Infatti tutti i migliori poeti del secolo XV, il Medici, il Pulci, il
Poliziano, e alcuni del secolo XVI, il Machiavelli, il Bronzino, il Berni, non ne colsero che la parte
più comica e la esagerarono; alcuni, come il Poliziano, ne sfiorarono la parte più gentile e la
raffinarono; pochissimi, sovrano il Bronzino, la presero tal quale e la plasmarono. Ma fra tutti, o in
un modo o nell’altro, salvarono sufficienti materiali da servire alla ricostruzione di un bel
monumento».
Questo non significa però che il Rubieri rimane di fronte alla poesia
popolare in un atteggiamento di assoluta devozione, tanto è vero che egli
non poche volte rivela 1’inesistenza artistica di certi componimenti
popolari. Vero: ma nel campo stesso della letteratura popolare ciò che non è
poesia non è pur sempre, egli si domanda, un documento sociale,
psicologico, storico? Un popolo che canta, egli perciò afferma, è pur sempre
un popolo che si confessa. E di rincalzo:
«Chi lo segua nelle idee e ne’ sentimenti che più comunemente si rivelano nelle ritmiche sue parole,
e osserva se queste siano o caste o licenziose, o frivole o assennate, o ingenue o maligne, o miti o
feroci, o generose o codarde, o patriottiche o filautiche, difficilmente si ingannerà argomentandone
che l’indole o almeno lo stato di quel popolo è corrispondente o alle virtù o ai vizi che traspirano da’
canti suoi. È beato ma raro quel popolo, da’ cui canti traspirano virtù non solo domestiche, non solo
pubbliche, ma pubbliche e domestiche a un tempo…»
«… distinse le canzoni della sua raccolta [della raccolta, cioè, di cui erano già usciti alcuni estratti
nella «Rivista Contemporanea»] in due serie, delle storiche e delle romanzesche, che rispondono con
una logica esattezza ai due generi di poesia popolare effettivamente più comuni nel popolo subalpino,
perché più confacenti alla seria e cavalleresca sua indole».
«Col nome di tradizionale è da distinguersi quella specie di poesia popolare che tende a trasmettere
per lunghe età, di generazione in generazione e di secolo in secolo, con nissuna o poca alterazione,
qualunque popolare componimento… I prodotti di questa poesia in origine possono essere stati tanto
inventati pel popolo ma non dal popolo, quanto inventati e talora anche improvvisati da esso».
6. D’Ancona
Un anno dopo l’uscita della Storia della poesia popolare italiana videro
la luce alcuni studi di Alessandro D’Ancona, raccolti sotto il titolo: La
poesia popolare italiana. Il D’Ancona, anch’egli uomo risorgimentale,
aveva certo una preparazione del tutto differente da quella del Rubieri. Egli
era il filologo puro, lo storico della letteratura, il ricercatore di testi: preciso,
minuzioso, impareggiabile nelle sue ricerche. E queste doti l’attaccavano da
un lato alla tradizione erudita del Settecento italiano e dall’altro alla
tradizione a lui più vicina di un Benfey o meglio di un Veselovskij, di cui
peraltro fu amico e ammiratore.
Nei suoi studi sulla Poesia popolare italiana anche il D’Ancona sostiene
come il Rubieri che l’unità della poesia popolare italiana va ravvisata nella
sua varietà. Fatto è però che mentre il Rubieri vuoi delineare una storia tutta
interna della poesia popolare italiana, il D’Ancona invece cerca le origini
delle forme esterne, dei generi. Nel 1906, quando ripubblicò il suo lavoro
sulla Poesia popolare, egli stesso osservava:
«Alla prima edizione andava innanzi un Avvertimento, nel quale affermavo che i miei Studi nulla
dovevano alla Storia della poesia popolare italiana di Ermolao Rubieri, pubblicata quando già tutto
avevo scritto e consegnato all’editore e buona parte del mio lavoro era stampata, sicché non esisteva
plagio da parte mia là dove andavamo d’accordo, né coperta confutazione là dove discordavamo…
Ma ora, come potrà vedere il lettore, ho creduto di potermi valere dell’opera del defunto amico,
citandola ogni qual volta mi fosse dato confortarmi dell’autorità sua, o dovessi dissentirne».
«Noi crediamo, e il lettore cortese e attento deve aver già più volte intraveduto quel che diremo, che
il Canto popolare italiano sia nativo di Sicilia. Né con questo intendiamo asserire che le plebi delle
altre provincie sieno prive di poetica facoltà, e che non vi sieno poesie popolari sorte in altre regioni
italiane, e ivi cresciute e di là anche diramate attorno. Ma crediamo che, nella maggior parte de’ casi,
il Canto abbia per patria d’origine l’Isola, e per patria di adozione la Toscana: che, nato con veste di
dialetto in Sicilia, in Toscana abbia assunto forma illustre e comune, e con siffatta veste novella sia
migrato nelle altre provincie. Però se questo è il caso generale, esso non esclude le eccezioni».
«Venendo poi più su, s’incontrano volghi di maggior cultura, ne’ quali la forza poetica è quasi spenta
o si estrinseca ormai soltanto in improvvisazioni sgarbate, se non in semplici rimpasti dell’antico
tesoro di Canti… E chi salisse ancor più su, ai paesi di popolazioni cello-romana, troverebbe la strofa
sicula scarsa in numero… Ivi la poesia indigena e tradizionale ha relazione non col Mezzogiorno
d’Italia, ma con altre popolazioni e altri idiomi, stendendosi alla Provenza, alla Francia, alla
Catalogna, al Portogallo…»
È noto, però, che a proposito della distinzione posta dal Nigra, e cioè che
v’è una forma lirica consona all’indole dell’Italia inferiore e un’altra
narrativa consona all’Italia superiore, il D’Ancona rimane sempre fedele a
quanto aveva scritto nella sua recensione ai Canti popolari del Piemonte,
poi raccolta nei suoi Saggi di letteratura popolare, e cioè che si tratta «di
un’ipotesi ingegnosa che forse contiene del vero, ma che dovrebbe essere
fiancheggiata da più salde prove».
Il D’Ancona non ebbe comunque soltanto un vivo interesse per la poesia
popolare, cui egli riconobbe quel prestigio che in Italia le avevano già
riconosciuto un Berchet o un Tommaseo. Le sue attenzioni furono rivolte
anche alla letteratura popolareggiante o meglio alla letteratura a stampa. Da
qui i suoi Poemetti popolari italiani, che sono del ’98 e che costituiscono
un esempio di quella letteratura comparata da cui il folklore trae un suo
particolare fascino. In questo volume, la Storia di San Giovanni Boccadoro,
il Trattato della Superbia e morte di Senso, Attila Flagellimi Dei, la Storia
di Ottinello e Giulia sono indagate nelle loro diaspore. Anche a lui, a volte,
l’Oriente si rivela come la loro fonte. Ma in ciò egli è sempre cauto e
prudente. Né va dimenticata infine l’opera che il D’Ancona dedicò alle
Origini del teatro popolare, dove mette in rilievo i maggi, le befanate, le
zingaresche e tutte quelle produzioni popolari cui egli si era rivolto con
spirito di romantico, convinto che di tutti i poeti il popolo fosse pur sempre
il maggiore. Studioso della letteratura italiana, indagatore di fonti, artefice
anch’egli di ardite costruzioni, il D’Ancona con la sua opera e con la sua
attività vuole dimostrare che accanto alla cosiddetta letteratura dotta ne
esiste un’altra che merita di essere studiata e vagliata con la stessa serietà
della prima. E per quanto in Italia il culto della letteratura dotta fosse tale da
non agevolare la considerazione e l’avvento dell’altra, egli spianò in queste
ricerche la via a tutta una schiera di valenti e agguerriti discepoli, fra i quali
si deve soprattutto ricordare Francesco Novali, che approfondi, fra l’altro,
lo studio della poesia popolareggiante oltre che dell’iconografia ad essa
inerente, portando nelle sue ricerche una finezza di gusto non comune.
7. Comparetti
«Nei primi anni pisani cadono i lavori di filologia romanza, romantica e folkloristica, gli studi sui
dialetti neo-greci dell’Italia meridionale, il libretto su Edipo e la mitologia comparata, nel quale si
dimostra come la fantasia greca riversasse in motivi novellistici una sua idea morale; e molt’altro.
Già prima, nel 1862, nel suo più antico lavoro di epigrafia, greca, il Comparetti formula il problema
del sincretismo religioso greco-orientale. La collaborazione col D’Ancona è anche esternamente
evidente: con il D’Ancona egli si associa nella faticosa pubblicazione, durata tredici anni, di una
antica raccolta di rime italiane, contenuta in un codice vaticano. Il D’Ancona pubblica una redazione
italiana del libro di Sindibâd, il cosiddetto libro dei Sette Savi di Roma. Il Comparetti ne traccia la
tradizione; particolarmente… quella greca, ma stampa in appendice anche una redazione spagnola
antica. Ancora nel ’75 il Comparetti pubblica in una serie diretta dal D’Ancona una raccolta di
Novelline popolari italiane».
«Come Ella sa bene la poesia popolare della nostra nazione varia assai in certe zone del nostro paese
e si mostra in queste per indole e per forme differenti. Quindi per quanto concerne i canti popolari
non v’ha dubbio che si possa, anzi si convenga, dare in volumi separati quelli di ciascuna provincia
od anche di più ristretta località. Non così per quanto concerne i racconti. Ormai è cosa di cui non si
può più dubitare che una quantità di quei racconti che i tedeschi chiamano Märchen ritrovasi diffusa
presso tutti i popoli d’Europa (senza dire di altri extraeuropei) e si ritrovano di certo o probabilmente
anche tutti ugualmente diffusi presso tutto il popolo italiano. Quindi, come Ella intende bene,
volendo pubblicare raccolte locali come per i canti, si corre il rischio, anzi si ha la certezza, di dare
molti volumi contenenti tutti un materiale narrativo nella massima parte identico… La meglio,
dunque, sarebbe di fare una raccolta generale intitolata Conti (o novelline) popolari italiani, dando
nel testo la versione migliore, più completa, di ciascun racconto tra quelle raccolte in varie parti
d’Italia da ciascun collaboratore e nelle note le varianti più degne di attenzione. Così hanno fatto i
Grimm per i racconti tedeschi e l’Afanasev per i russi».
«La mia raccolta si comporrà di tre volumi dei quali il primo si comincerà a stampare fra un mese. Le
novelline saranno tutte ridotte in lingua comune salvo una o due per ciascuna provincia che saranno
pubblicate in dialetto. Darò le illustrazioni in fondo alla raccolta nell’ultimo volume e queste
conterranno le notizie su ciascuna novella e i confronti con le corrispondenti italiane e straniere. Darò
anche un saggio di bibliografia delle novelline di vari paesi pubblicate fin qui. Questa raccolta di
Novelline italiane è compiuta con uno scopo e con un metodo che deve distinguerla dalle raccolte
parziali di novelline lombarde, venete, sicule».
«Il cantore, il laulaja ripete e crea ad un tempo; la massa dei canti che ha nella mente considera e
sente come cosa di tutti e sua; è quella il suo sapere, il suo esemplare, la sua maniera e ad un tempo il
suo ordigno nell’opera propria. Versi di un canto che noi diremmo lirico ei contesse con un canto che
diremmo epico o magico, e fa anche l’inverso: ei procede in ciò liberamente come chi impiega per
varie occasioni le parole, le frasi, le formule di un linguaggio che è proprietà di tutti e da tutti inteso.
Per questo diritto che i cantori sentono di avere, e assai usano, per la naturai vicenda pure che deve
subire una poesia commessa alla memoria e propagantesi solo oralmente, grandissimo è il numero
delle varianti che ciascun canto presenta, non solo differendo da cantore a cantore, ma anche un
cantore stesso non mai ripetendo due volte lo stesso canto in modo precisamente uguale, o anche
dando oggi legati assieme e combinati in uno canti che ieri dava separati e distinti. Così, l’assieme di
tutti i canti fin qui raccolti colle infinite loro varianti, appare come una massa di versi, di creazioni
poetico-fantastiche fluttuanti quasi e in istato perenne di trasformazione, di scomposizione e
ricomposizione. È questa la vera condizione naturale della poesia popolare di proprio nome…».
Ed è ovvio qui osservare che egli in gran parte faceva sue le idee di
Julius Krohn, cui fu legato da viva amicizia e di cui fu il primo in Italia a
far conoscere le opere. Ma la condizione naturale della poesia popolare non
è la stessa di quella della novellistica, che egli peraltro non fu alieno dallo
studiare secondo la teoria delle migrazioni e degli imprestiti?
Filologo preciso, scrittore raffinato, mente larga e aperta, anche il
Comparetti fu suggestionato dal fascino che si provava nel seguire di paese
in paese un racconto popolare, per trovarlo poi in un testo sanscrito, in una
redazione persiana, in una traduzione siriaca o greco-bizantina. E da questi
interessi nacquero le sue Ricerche intorno al libro di Sindibâd, edite nel
1870, dove egli traccia la tradizione di quel libro, indagandone oltre le
redazioni occidentali quelle orientali che sono da lui ricondotte a un testo
arabo del secolo X. In queste ricerche il Comparetti, pur riconoscendo
l’influenza che quelle redazioni ebbero sulla novellistica popolare, sostiene
però decisamente che la tradizione popolare può tramutare il contenuto di
qualsiasi libro. Né va dimenticato che in un altro saggio, Edipo e la
mitologia comparata, pubblicato qualche anno prima, aveva affermato,
opponendosi alle teorie mitiche di un discepolo del Müller, il Bréal:
«Il dire che per esprimer questi [concetti morali] la fantasia popolare siasi limitata a modificare,
rimodellandoli in senso morale, i miti originati dal mondo sensibile, e non abbia nulla espressamente
creato, è un assurdo che ha contro di sé il buon senso e i fatti. Le forze della fantasia umana,
particolarmente nelle epoche di minor cultura, sono ben lungi dall’essere condannate a quella
meschina parsimonia di produzione a cui taluni mitologi ridurrebbero quella mirabile facoltà
dell’uomo che Goethe ha giustamente chiamato mobile in sempiterno e sempre nuova».
«Le lingue dotte, le lingue comuni, trattate dall’arte e quasi esaurite, sentono anch’esse il bisogno di
ritemprarsi nelle lingue del popolo più vicine alla natura, che ha passioni più vive, che ha impressioni
più immediate e che deriva il suo linguaggio non da regole, ma dalle sue impressioni. L’artista
cercherà e si approprierà tutto quel tesoro di immagini, di movenze, di proverbi, di sentenze, tutta
quella maniera accorciata, viva, spigliata, rapida, che è nei dialetti».
«I recenti progressi della Mitologia comparata e della Demopsicologia, e l’interesse ogni dì crescente
per le tradizioni popolari, fanno ormai sentire il bisogno di una Rivista, nella quale gli studiosi delle
varie Nazioni si raccolgano ed abbiano un mezzo di comunicarsi e diffondere i loro studi e le loro
raccolte. Modesto nei suoi intendimenti, l’«Archivio» si propone di illustrare e mettere in evidenza le
svariate forme della letteratura popolare e le molteplici manifestazioni della vita fisica e morale de’
popoli in genere e dell’Italia in ispecie… Una rivista ed un bullettino bibliografico renderanno conto
delle nuove pubblicazioni sull’argomento; e nulla sarà trascurato perché i lettori abbiano piena
informazione del movimento contemporaneo degli studi delle tradizioni del popolo».
«La storia non dovrebbe essere un elenco di uomini, dove si registrano le date delle loro strepitose
azioni, ma la rivelazione delle idee, delle passioni, dei costumi e degli interessi civili, insomma della
vita di un popolo, di una nazione».
E qualche anno dopo, nel suo Studio critico sui canti popolari siciliani,
aggiungeva:
«La storia del popolo si è confusa con quella dei dominatori…; della sua storia è voluta farsene una
cosa stessa con la storia dei suoi governi, senza tener presente che egli ha memorie ben diverse di
quelle che così spesso gli si attribuiscono si dal lato delle sue istituzioni e sì da quello degli sforzi
prepotenti da lui durati a sostegno dei suoi diritti. Il tempo di ricercare quelle memorie, di studiarle
con pazienza, di fecondarle con amore è venuto anche per noi. Il filosofo, il legislatore, lo storico,
che cercano di conoscere intero questo popolo, sentono oggimai il bisogno di consultarlo nei suoi
canti, nei suoi proverbi, nelle sue fiabe, non meno che nelle frasi, nei motti, nelle parole. Accanto alla
parola sta sempre il suo significato, dietro il senso letterale viene il senso misto e l’allegorico: sotto la
strana e diversa veste della fiaba si troverà adombrata la storia e la religione dei popoli e delle
nazioni».
È evidente che qui il Pitrè si riattacca al concetto che della storia aveva
divulgato il Voltaire e che già nel campo specifico del folklore era passato
sui banchi di prova del Bodmer, del Möser, dello Herder, e soprattutto dei
Grimm. Ciascun volume della Biblioteca vive appunto alla luce di tale
concetto che ne rischiara il programma. Esaurito il quale, il Pitrè non esita a
rivendicare a sé il merito di storico che si era appunto imposto, tanto è vero
che nell’ultimo volume della Biblioteca, vale a dire ne La famiglia, la casa
e la vita del popolo siciliano, egli esclama commosso:
«Un paese che fino ad ieri visse in sé e per sé, sotto dominazioni straniere, a contatto solo di non
sempre gradita gente, ciascuna delle quali lasciò tracce vivissime del suo passaggio e delle sue
fermate; un paese, dove civiltà si sovrapposero a civiltà (se pure furono tutte degne di questo nome) e
dove si formarono come tanti strati di tradizioni, storia parlata e non mai scritta, questo paese offre
materia non ordinaria d’indagine e di critica. Chi avrà vaghezza di seguire, uno per uno, gli
argomenti qui trattati, potrà darsi ragione di certe forme che resterebbero, altrimenti, mute e isolate.
Sono, a chi ben guardi, tanti anelli di una catena di costumi, di pratiche, di credenze, onde spirito e
materia si esplicano insieme».
Nel compilare la sua Biblioteca il Pitrè aveva avuto dunque uno scopo:
cercare la storia della Sicilia dove nessuno l’aveva ancora cercata.
Bisognava salvare anche in Sicilia – ecco l’essenza stessa della sua
Rettungsgedanke – tutto un patrimonio che andava scomparendo, il
patrimonio del popolo. E ciò, in un momento in cui la Sicilia entrava in una
compagine più vasta, l’Italia, serviva a dimostrare l’individualità storica
della Sicilia stessa. Né v’è dubbio, sotto questo aspetto, che della Sicilia il
Pitrè fu l’appassionato filologo, ma soprattutto lo storico, il geniale
illustratore di tutto un mondo, nel quale si riflettono gli echi delle pili
antiche civiltà.
Può sembrare strano, tuttavia, che egli, quasi alla fine della sua carriera,
abbia finito col battezzare la sua disciplina con un termine che abbiamo già
incontrato nel programma dell’«Archivio»: quello di demopsicologia. Ma la
demopsicologia, come la concepì il Pitrè, fu in effetti qualcosa di diverso da
ciò che noi chiamiamo o possiamo chiamare storia delle tradizioni
popolari?
«L’avviso più comune è che i canti popolari traggono nascimento da questo o quel poeta rustico, che
nei paesi e nei villaggi mancano di rado: ma né il loro nome, né il quando, il dove, né il perché del
canto ci si conserva. Questa oscurità che pare un difetto è la vera ragione per cui il canto diviene
popolare. Se il popolo conoscesse l’autore di una canzone, forse non l’imparerebbe, peggio se sa di
persona dotta. Il quando e il dove nasca un canto se non si deduce da qualche suo accenno non può
indovinarsi. Il canto di un solo diventa il canto di tutti, perché nascendo trovasi nelle condizioni più
favorevoli a lunga esistenza; vi rimane perché risponde agli affetti naturali, ai costumi, alle tradizioni
del popolo. Un bel giorno in mezzo ad una piazza, o nel fondo oscuro di un chiasso, o all’aperto dei
campi, si alza una bella canzone non mai fino allora udita. Chi l’ha fatta? Chi l’ha potuta fare?
Nessuno lo sa, nessuno cerca di saperlo; l’autore rinunzia volentieri alla compiacenza di essere
conosciuto come poeta; il popolo che ne rispetta la modestia, ne premia il merito col ritenere per sé,
col tramandare ad altri simili canti» (Studio sui canti popolari, 113).
«Canto popolare… è quello che, nato in mezzo al popolo, porta il marchio dell’assoluta ignoranza
dell’autore, quello che nella sua forma non ha concetto, non verso, non frase, non parola che esca
dalla mente, dalla metrica e dal vocabolario della bassa e indotta gente, quello che corre infine
anonimo e tradizionale».
«Secondo ci è dato raccogliere da ottocento e più ottave siciliane stampate, la poesia amorosa del
Veneziano si lascia a bella prima notare per la grandezza di stile, acutezza di concetto, dolce
espressione di affetti, nobiltà e novità di immagini. Di profondi pensieri filosofici non ha difetto, e
con rara felicità d’arte li associa alle vaghe e gentili grazie della immaginativa… Parrai poi di dir
tutto intorno alla forma estrinseca di lui, dicendo che essa è della elevatezza voluta dal concetto, non
avendo parole per quanto siciliane, che possano appuntarsi di comunale o di plebeo…»
«Parto di vergine fantasia, cui le scuole non degnano d’uno sguardo, ma che le scuole non sanno fare,
essi [i canti popolari] racchiudono tanto tesoro di affetti, tanta copia di pensieri e di immagini che a
saperli parcamente imitare ogni studioso, dal men facile verseggiatore al più ispirato poeta, ne
ritrarrebbe bellezze inestimabili… Schietto linguaggio nell’amore, nella gelosia, nel dispetto, nella
gioia tra le pareti domestiche, sotto estraneo tetto, in mezzo a’ ceppi dell’ergastolo, e in qualunque
stadio di fortuna o stato dell’animo o condizione della vita: il canto è la più vera, la più sentita
espressione dell’indole del popolo…»
«Della mimica nelle narrazioni… è da tener molto conto, e si può esser certi, che a farne senza, la
narrazione perde metà della sua forza ed efficacia. Fortuna che il linguaggio resta qual è, pieno di
inspirazione naturale, a immagini tutte prese agli agenti esterni, per le quali diventano concrete le
cose astratte, corporee le soprasensibili, vive e parlanti quelle che non ebbero mai vita o l’ebbero solo
una volta».
«La letteratura orale ha, passando sulle bocche delle donne, un fascino e una ingenuità, a volte una
forma felice, che gli uomini raggiungono più raramente. Quasi tutti i grandi raccoglitori di racconti
constatano che le migliori e le più helle versioni sono state trasmesse loro da donne: i fratelli Grimm,
F. Luzel riconoscono che i racconti più completi e più felici sono dovuti a delle popolane e che la
sicurezza della loro memoria, come la forma della loro narrazione, è superiore a quella degli uomini.
Una lunga esperienza fatta con le narratoci dell’alta Bretagna conferma quanto sopra».
La differenza fra i Grimm e il Pitrè consiste nel fatto che il Pitrè non si
limitava al riconoscimento di quell’apporto, ma seguendo il sistema già
inaugurato in Russia dallo Hilferding, trascriveva e quindi pubblicava il
testo con la massima esattezza. Nel caso specifico, il testo dialettale.
Sembrava, del resto, al Pitrè che, traducendo, come voleva il Comparetti, i
testi dialettali delle novelle, si annullava o comunque si trasformava la
personalità stessa dei narratori. Egli intuì con chiarezza che una novella, se
è popolare, lo è anzitutto perché, pur svolgendosi in una cornice
tradizionale, in mezzo a luoghi comuni, rivela la personalità (popolare) del
narratore, il quale trasforma le sue stesse fonti.
«Le nostre fiabe sono documenti della parentela tra le razze indo-europee e tra’ diversi rampolli di
codeste razze, documento che tanti secoli, tanti popoli e tante generazioni non hanno finora distrutto
od attenuato, ma che anzi il volgere dei tempi ha reso più solido e più duraturo. Fatto memorabile
codesto nella storia dell’Umanità, che mentre popoli e nazioni intere sono quasi scomparsi… e le
fredde ali del tempo hanno perduta persino la memoria delle gesta più clamorose, queste novelline
infantili vivono a testimoniare un’antichità fuori d’ogni calcolo remota».
«Io parto dal principio che ogni genere di poesia popolare debba andar preso qual rivelazione del
sentire speciale dell’individuo del popolo da una parte, e dall’altra dell’incivilimento dell’individuo e
del popolo che la rivela. I canti popolari, disse Herder, sono gli archivi del popolo, il tesoro della sua
scienza, della sua religione, della teogonia e cosmogonia sua, della vita dei suoi padri, dei fasti della
sua storia; l’espressione del suo cuore, l’immagine del suo interno, nella gioia e nel pianto, presso il
letto della sposa e accanto il sepolcro. Laonde non è a maravigliare se Diodoro Siculo e Plutarco
versi di poeti rapsodi avessero citato a testimonio di costumi-e di consuetudini antiche; e se Paolo
Diacono delle tradizioni dei suoi conterranei avesse fatto suo prò per la storia primitiva dei
Longobardi; né da biasimar poi coloro che nel dettar quindi innanzi la storia, ogni fatto, ogni
avvenimento cercano illustrare colla storia della vita del popolo, colle leggi, colle usanze, coi dialetti,
coi proverbi della nazione».
E nella seconda edizione (1891) dei Canti popolari precisava ancor
meglio:
«Nei canti…, osservandoli attentamente, vi si trovano ascosi tesori inestimabili. Il canto è altra
sorgente di tradizioni rivelando, nello stretto significato del vocabolo, costumi ed usanze
particolari».
«Una distinzione di usi e costumi, di credenze e pregiudizi non è facile quando si voglia illustrarsi,
come io mi son proposto, la vita fisica e morale del popolo. L’uso molte volte si confonde e si perde
nella credenza, e la superstizione spesso è il risultato ultimo di una costumanza. Provatevi a
descrivere gli usi nuziali, i natalizi, i funebri, e vi troverete di fronte ubbie che non potrete da quelli
staccare senza crederle monche e sfigurate».
«Non saprei come abbastanza caldamente raccomandarle, data la particolare condizione nella quale
ella è incontrastato padrone di raccogliere tutto da ogni campo e di trarre lutto nel cerchio della sua
osservazione, anche quelle cose che lei facilmente potrebbe mettere da parte perché navigano alla
superficie del popolino come, per esempio, le diverse manifestazioni di superstizioni e le locali forme
del culto religioso. A tal riguardo si può comprendere che in quasi tutte le località si sono conservati
notevoli istruttivi riti di paganesimo».
«Fu detto e ripetuto che la maggior parte delle credenze e degli usi popolari di oggi sono né più né
meno credenze e usi antichissimi venuti a noi con le teogonie di Grecia e di Roma… Vuoisi che la
festa della Circoncisione coincida con quella latina delle Ciurmali in onore di Giano, con cui si
apriva il mese di gennaio; che la Candelora ricordi i Lupercali, cerimonia romana de’ primi di
febbraio, di cui una parte di usi romani passò addirittura in quelli del Carnevale, benché siavi chi la
ritenga una continuazione della festa di Proserpina… Noi meniamo in giro la vecchia strega, la
vecchia Befana, la Carcavecchia, la vecchia di Natale, e la inseguiamo, e i romani nella vigilia degli
Idi menavano per Roma cacciandolo per fuori le mura Mamurio Veturio, il vecchio inverno, sotto
forma di un uomo coperto di pelli».
Le stesse considerazioni egli farà qualche anno più tardi nel volume sui
Giuochi fanciulleschi siciliani, «Non è da meravigliare», egli infatti
osserva, «che molti giuochi tradizionali dei nostri bimbi siano avanzi di riti,
di cerimonie e usanze antichissime perdute o scomparse dalla memoria dei
volghi, ma che in generale si rapportano ai tre fatti più grandi della vita: la
nascita, il matrimonio e la morte». Eppure «non è sempre agevole, anzi è
talvolta estremamente difficile, il saper leggere dentro a codesti fatti e
l’indovinare il senso recondito per riportarli al loro significato primitivo»,
poiché «vi si oppongono le modificazioni incontrate dalla tradizione
passando da popolo a popolo e le mistificazioni che le parole consacrate nel
giuoco hanno dovuto subire dopo tanti secoli».
Nel volume e nella prefazione con la quale si apre il libro sulla Medicina
popolare siciliana, aggiunge: «La medicina popolare è un complesso di fatti
curiosi e diversi, che nel loro tutto appariscono come un’aberrazione dello
spirito umano, e nei particolari sono reliquie di civiltà e di popoli
scomparsi. Tutto è rappresentato in essa, dalle sacre e misteriose pratiche di
sacerdoti antichissimi a quelle empie delle maliarde d’oggi, dalla medicina
teurgica dei Persiani, degli Assiri, degli Egiziani a quella iatro-fisica
dell’ultimo cinquantennio del secolo scorso». E conclude: «Avanzi di riti
scomparsi, di cerimonie dimenticate, di pratiche smesse. E quello che di
esse ti colpisce è la sopravvivenza simultanea di usi disparati, i quali per noi
equivalgono a strati geologici rivelatori delle varie epoche».
Il Pitrè, onde chiarire meglio il carattere di questi avanzi, non manca
inoltre di estendere il suo sguardo anche a quei popoli primitivi, cui invece
poca o nessuna importanza avevano dato i suoi predecessori italiani. E qui
egli però non va al di là di un Lescarbot, di un Lafitau, di un Voltaire. Così,
ad esempio, si rifà a un etnologo inglese, il Lubbok, autore di una
superficiale Origin of Civili-zation, secondo il quale «il selvaggio è
paragonabile al fanciullo». Per il Lubbok «la condizione primitiva
dell’individuo indica quella della razza, e la miglior prova dell’affinità di
una specie sono gli stadi per cui essa è passata; onde la vita di ciascun
individuo è un capitolo della storia della razza e il graduato sviluppo di un
fanciullo illustra quello della specie». Ma questa teoria, precisa il Pitrè, non
è da accettare senza grandi riserve e con le debite osservazioni di Max
Müller circa la somiglianza dei selvaggi coi fanciulli.
E ai selvaggi, o meglio ai primitivi, egli ritorna spesso nei suoi confronti.
È chiaro, però, che quei confronti, se pur non l’impegnano, gli indicano che
una nuova via si apre agli studi del folklore. Nell’ultimo volume della
Biblioteca afferma anzi che, per mettere in luce le analogie che offrono le
varie manifestazioni del folklore, si deve tener conto non solo dell’antichità
classica, ma anche «dei selvaggi moderni, nei quali il passato è rimasto
cristallizzato», sebbene «nessuno inferirà che nei popoli primitivi siano da
ricercarsi le origini e la provenienza di certe credenze e superstizioni
siciliane».
Lo studio di queste analogie, comunque e dovunque fatte, non chiudono
però il Pitrè dentro le maglie di un passato fine a se stesso, «Il passato non è
morto. Il passato vive in noi e con noi». E a lui interessa soprattutto mettere
in luce questo: che quel passato è, sotto molti aspetti, la stessa storia
contemporanea della Sicilia. Il Pitrè è dell’avviso, insomma, che le
tradizioni popolari sono il frutto del passato, ma vivono perché il presente,
rinnovandole, le ha fatte proprie. Egli è convinto, inoltre, che l’etnologia
deve ormai incontrarsi col folklore per dare al folklore stesso un più saldo
fondamento storico. Con vivo interesse aveva seguito nelle prefazioni della
sua Biblioteca e nei bollettini dell’«Archivio», l’opera che, in tal senso,
avevano svolto e venivano svolgendo il Tylor, il Frazer, il Lang, l’Hartland,
i Gomme. E ora, pur pago della sua parte, indicava ai suoi successori quel
nuovo metodo di lavoro, dal quale gli studi del folklore potevano trarre
nuovo vigore e nuovo impulso.
Parte quinta
La scuola antropologica inglese e il suo influsso negli studi delle
tradizioni popolari
21. Tylor e la Primitive Culture
Nel 1871, quando cioè le teorie del Müller e del Benfey si contendevano
il campo nello studio del folklore, uscì in Inghilterra un libro rimasto
fondamentale anche in tale campo di studi: la Primitive Culture. È in questo
libro che il suo autore, Edward B. Tylor, ripropone i rapporti fra etnologia e
folklore in base ai quali egli da, potremmo dire, una nuova sistemazione
scientifica a tali discipline.
Non v’è dubbio che, nel legare il folklore all’etnologia, il Tylor si
riattacca a quella tradizione che aveva trovato nel mito del buon selvaggio
un’idea-forza. Nella sua opera ritornano, infatti, le istanze che già si erano
affacciate, sia pure in maniera diversa, nel Montaigne, nel Lescarbot, nel
barone de La Hontan, nel Fontenelle, nel Vico, nel Rousseau, nel Goguet,
nel Brosses, nel Boulanger. Con questa differenza: che nel Tylor il
comparativismo fra i popoli primitivi e i volghi dei popoli civili sarà
sorretto da una più robusta e scaltrita indagine filologica, la quale esclude
peraltro quella polemica politico-sociale cui aveva dato luogo lo stesso mito
del buon selvaggio.
Eravamo in un’epoca in cui tanto gli studi etnologici quanto quelli
folkloristici andavano sotto il nome generico di una disciplina,
l’antropologia, che pretendeva di affrontare lo «studio comprensivo di tutto
l’uomo» e che in realtà affondava le sue radici in un terreno naturalistico.
Lo stesso termine di antropologia, adoperato per la prima volta da
Aristotele nel senso letterale di discorso dell’uomo, serviva allora a indicare
la storia naturale dell’uomo: che era quanto dire una storia dove continuava
a inverarsi quella dannosa confusione fra nazione, razza e gruppo
linguistico in cui erano caduti il Gobineau e, in un primo momento, anche il
Müller.
È vero che il Tylor già fin dalle sue Researches into the Early History of
Mankind, che sono del 1865, era arrivato a questa conclusione: e che cioè
era necessario studiare l’homo sapiens non dal punto di vista zoologico,
bensì dal punto di vista mentale, onde sotto tale aspetto l’antropologia
assumerà l’aggettivo di culturale o sociale. Ma il Tylor, che fu appunto il
maggior pioniere di tale antropologia, rimase immune da quei procedimenti
naturalistici che i suoi predecessori avevano introdotto nello studio
dell’uomo e che la teoria dell’evoluzione porterà alle estreme conseguenze?
Oppure in lui c’è già una esigenza storica che riscatta quegli stessi
procedimenti? La scienza madre, insomma, dove affondano le radici
l’etnologia del folklore, è per il Tylor l’antropologia stessa? Oppure è la
storia senz’altri aggettivi?
«La parola cultura o civiltà, presa nel senso etnografico, designa quel complesso che abbraccia le
scienze, le credenze, le arti, la morale, i costumi e le altre facoltà e abitudini acquistate dall’uomo nel
suo stato sociale».
È chiaro infatti che quel complesso sia dominio tanto della cultura
quanto della civiltà: termini questi che risalgono al Settecento e la cui
identificazione si deve nel Tylor alla stessa terminologia inglese, la quale,
come la tedesca, confonde i termini civilisation e culture, quando invece per
noi la cultura è un aspetto della civiltà che è la spiritualità totale di un’epoca
o dell’umanità intera (a differenza dell’incivilimento che è l’attuarsi della
civiltà).
Nella sua Primitive Culture il Tylor afferma inoltre che il miglior mezzo
per studiare le leggi del pensiero e dell’attività umana è quello di ricercare il
grado di civiltà dei diversi gruppi umani. E aggiunge:
«Si deve allora riconoscere, da una parte, una uniformità quasi costante che può essere guardata
come l’effetto uniforme di cause uniformi: dall’altra, la corrispondenza dei differenti gradi di civiltà e
dei periodi di sviluppo o di evoluzione, di cui ciascuno è il prodotto di un’epoca anteriore e ha il
compito di preparare l’epoca futura. Studiare queste due grandi leggi dell’etnografia è il compito di
quest’opera».
«… si sono stratificate tanto rigorosamente quanto la terra su cui l’uomo vive. Esse si succedono
l’una all’altra in una serie praticamente uniforme in tutto il globo, indipendentemente dalla diversità
più che altro superficiale della razza e della lingua, plasmate dall’identica natura umana che agisce,
in mezzo al variare delle circostanze, nella vita selvaggia, barbarica, civilizzata».
«Quando un uso, un’arte, un’opinione sono ben avviati nel mondo, le influenze perturbatrici possono
influenzarle così poco che essi possono tenersi in vita da una generazione all’altra, come un corso
d’acqua che una volta messo nel suo letto vi scorrerà per secoli. Questa non è che una semplice
permanenza culturale: e ciò che stupisce è che i cambiamenti e le rivoluzioni delle cose umane
abbiano lasciato andar tanto lontano i suoi deboli rivoletti. Nelle steppe tartare, sei secoli fa, era
un’offesa posare il piede sulla soglia o toccare le corde nell’entrare in una tenda, e così è tuttora.
Diciotto secoli fa Ovidio ricordava la popolare avversione romana per i matrimoni in maggio, che
non senza ragione attribuiva alla ricorrenza in quel mese dei riti funebri, detti Lemurie. Sopravvive
ancora in Inghilterra il detto che i matrimoni in maggio sono sfortunati; e questo è un esempio
sorprendente di come un’idea, il cui significato è perito con gli anni, può continuare a esistere
semplicemente perché è già esistita. Ora vi sono migliaia di casi simili che sono divenuti, per così
dire, punti di riferimento nel corso della civiltà. Quando nella storia di un popolo è avvenuto un
cambiamento generale, è usuale, tuttavia, trovare delle manifestazioni che non ebbero origine nel
nuovo stato di cose, ma che semplicemente sono durate in esso. In forza di queste sopravvivenze,
diviene possibile dichiarare che la civiltà del popolo, tra cui sono osservate, deve essere derivata da
uno stato più antico, nel quale tali sopravvivenze ebbero la vera patria e il significato più proprio: e
questa è la ragione per cui simili fatti vanno trattati come documenti di scienza storica».
Questa la premessa con cui si apre uno dei capitoli più discussi e
fondamentali, il secondo, della Primitive Culture. Né è senza significato che
in tale premessa il Tylor consideri le sopravvivenze come documenti di
scienza storica. Il che significa che esse non possono essere trattate che con
la stessa metodologia della storia. E la storia non può assolverle o
condannarle – come in parte voleva lo stesso Tylor –, ma considerarle in
quanto fenomeni in cui è imperniata la concezione della vita e del mondo. È
vero che il Tylor, nel considerare le sopravvivenze, ci da a volte
l’impressione di voler porre indiscriminatamente la teoria dell’origine
(selvaggia) della civiltà come base della scienza del folklore. Ed è vero
altresì che allora egli considera le sopravvivenze come dei fatti immobili
che rimangono in mezzo ai volghi dei popoli civili per forza di inerzia,
documentandoci le fasi primordiali della vita e del pensiero dei selvaggi:
monumenti, insomma, a cui la storia della civiltà deve chiedere se la civiltà
stessa di un popolo è derivata da uno stadio inferiore.
Dice il Tylor: molte superstizioni che vivono àncor oggi fra i volghi dei
popoli civili non sono altro che dei fatti trasportati da un ambiente a un
altro, sicché essi, in questa migrazione, hanno perduto il significato che
avevano, rimanendo come prova ed esempio di uno stato culturale più
antico, fuori del quale se ne è sviluppato uno nuovo. E qui è, a suo modo di
vedere, lo spirito della sopravvivenza, la quale molte volte non è che
superstizione. Senonché lo stesso Tylor, nel considerare le sopravvivenze in
un ambiente che non è più il loro, non ne riconosce la validità? E questa
validità quale importanza potrebbe avere, se quell’ambiente che le accoglie
lo fa soltanto con lo spirito del geologo che colleziona dei fossili? La verità
è che un fatto non è mai uguale a un altro che lo ha preceduto, perché di un
fatto quel che conta non è soltanto la nascita, ma anche l’adattamento.
Compito del folklorista perciò deve essere appunto quello di cercare non
solo le concordanze, ma le differenze: la diversità nell’apparente
uniformità.
5. Sopravvivenze e rinascite
Lo stesso Tylor, del resto, non esita ad affermare che spesso si vedono
delle vecchie idee e delle pratiche abbandonate raffiorare in una società che
le credeva morte: nel quale caso v’è, egli chiarisce, rinascita, non
sopravvivenza. Il che, sotto certi aspetti, può anche essere vero, ma a un
patto: che si guardi a quelle due espressioni – la cui terminologia può avere
una giustificazione soltanto empirica – come al risultato di una concreta vita
popolare piena di cambiamenti. I quali, in fondo, altro non sono che le
varianti della filologia folkloristica. Ed è qui, davanti a queste rinascite, che
il Tylor si domanda fino a qual punto noi siamo creatori o comunque
modificatoli dell’eredità dei secoli scorsi. Con le sue stesse parole:
«Come le menti degli uomini mutano col progredire della civiltà, così i vecchi costumi e le vecchie
opinioni svaniscono a poco a poco in un’atmosfera eterogenea e passano in stadi più adatti alla nuova
vita con cui si trovano a contatto. Ma ciò è così lungi dall’essere una legge senza eccezioni, che una
visione rigorosa della storia può spesso far sembrare non essere per nulla una legge. Poiché la
corrente della civiltà ritorna su se stessa, e quello che sembra una brillante corrente di progresso può
in un successivo ricorso girare in un turbine stridente o impelagarsi in una palude oscura e
pestilenziale. Studiando con larga visione il corso dell’opinione umana, possiamo individuare proprio
nel suo perno il passaggio della sopravvivenza passiva alla rinascita attiva».
L’evoluzionista, il quale pur crede alla storia della civiltà come a una
«marcia in avanti», si sente allora perplesso davanti a questi fenomeni. Ed
ecco che si sveglia in lui lo storico, preoccupato soltanto di vedere nei fatti
(sopravvivenze o rinascite che siano) la probabile catena genetica dei
fenomeni. L’impegno storico del Tylor, appunto per questo, si deve
ricercare proprio nell’esame con cui egli avvicina le credenze e le
costumanze dei popoli selvaggi con quelle dei popoli civili. Ma in questo
esame riappaiono quelli che sono i limiti stessi del Tylor sociologo, il quale
nelle sue ricerche, se pur è animato da una grande pietas storica, che lo fa
internare nel mondo dei primitivi con larghezza di vedute, si mantiene
tuttavia legato a degli aggruppameli psicologici ed empirici, i quali, come
tali, non possono costituire dei veri e propri criteri storici. È vero che egli si
preoccupa sempre di trasformare quegli schemi in concetti. Ma quando quei
concetti sono piegati a una tesi fondamentale che li sorregge, vale a dire alla
tesi che tutta l’umanità è sottomessa alle stesse leggi di sviluppo e che essa
è passata dappertutto per gli stessi stadi analoghi di evoluzione, è evidente
che il Tylor dimentica che l’uomo, ovunque viva, fra i primitivi o fra i
volghi dei popoli civili, non è mai il prodotto della natura, bensì della civiltà
che lo ha formato e lo forma.
Il Tylor, comunque, quali che siano le sue premesse, dopo averci dato un
quadro vivace e brillante dei corsi e dei ricorsi storici in cui si avvicendano
le varie civiltà, passa a delinearci, con maggiore precisione, quella che a lui
appare la primigenia: cioè quella dei popoli primitivi, o meglio, com’egli
ancora li chiama, dei selvaggi. La sua preoccupazione rimane anche allora
identica: legare la barbarie della civiltà, il mondo delle sopravvivenze e
delle rinascite, che era quanto dire il mondo del folklore, con la civiltà dei
barbari, che è un ineliminabile momento dello stesso attuarsi della civiltà. E
poiché non v’è civiltà senza religione, ecco che egli cercherà appunto di
vedere qual è la religione dei primitivi, senza la quale a suo avviso non si
spiegano né la mitologia, né gli usi, né i costumi.
6. Mitologia e religione
In uno dei capitoli più vivaci della Primitive Culture il Tylor afferma
senz’altro a proposito della mitologia che questa, di contro a quel che
riteneva il Müller, nacque quando l’uomo era allo stato selvaggio e che essa
pertanto appartiene, nei suoi primi sviluppi, allo stadio primordiale della
vita dell’uomo. Ed è allora che nella sua opera prende consistenza un
concetto destinato ad avere la stessa fortuna di quello che egli formulò in
merito alle sopravvivenze: vale a dire il concetto dell’animismo. Si può
dire, in un certo senso, che il Tylor trae dal Müller una massima che peraltro
era stata già affermata dal Fontanelle: e cioè che l’uomo narra quel che
vede. Ma, per il Tylor, quel che vede l’uomo, cioè l’uomo primitivo, è
completamente diverso da quel che vedeva l’antico ariano del Müller. I
miti, per il Tylor, sono infatti, si, la proiezione di determinate esperienze
giornaliere, in cui si invera la vita stessa del primitivo, del selvaggio. Ma –
si badi – del selvaggio il quale crede all’animazione dell’intera natura, così
com’essa si presenta a lui, preceduta dagli spiriti e dai geni. Ecco perché le
stesse analogie, le quali per noi possono rappresentare se mai dei semplici
prodotti dell’immaginazione, erano per i nostri antenati una realtà.
Per chiarire appunto questa realtà, il Tylor affronta allora un problema di
vasta portata e di grande interesse: l’origine stessa della religione. È noto
che il Comte, sulle orme del Brosses, aveva caratterizzato l’evoluzione
della storia delle religioni in tre gradi: il feticismo, il politeismo, il
monoteismo. Il Tylor accetta senz’altro questo schema. Con questa
differenza: che per lui il primo grado dell’evoluzione non doveva ricercarsi
nel feticismo, bensì nell’animismo, dove si invera appunto l’infanzia della
religione. Da qui la stessa definizione che egli ci da della religione.
«Quando si tratta di studiare le religioni delle razze inferiori, il punto essenziale preliminare da
chiarire e da precisare è ciò che s’intende per religione. Se si vuol fare rientrare in questa definizione
la credenza in una divinità suprema in un giudizio dopo la morte, o l’adorazione di idoli e la pratica
del sacrificio, o altri riti e dottrine diffuse qua e là, senza alcun dubbio un certo numero di tribù si
troverà allora escluso dal mondo religioso. Ma questa definizione troppo limitata ha il difetto di
identificare la religione con alcuni suoi sviluppi particolari, laddove è opportuno considerarla nel suo
movente iniziale e nel suo elemento essenziale. Meglio vale, per quel che sembra, risalire
direttamente alla fonte e porre semplicemente come definizione minima della religione la credenza in
esseri spirituali».
Accolta con successo nel campo specifico della storia delle religioni, la
teoria animistica del Tylor dominò quel campo quasi incontrastata per più di
un trentennio. L’animismo sembrò allora la vera «semente della religione»;
e come tale apparve nelle varie introduzioni alla «scienza delle religioni»
oltre che nelle innumerevoli «storie remote della civiltà». Il Tylor insieme a
quella teoria aveva proposto però anche una metodologia, nella quale la
stessa storia delle religioni, e quindi della mitologia, veniva collegata,
mediante lo studio delle sopravvivenze, alla storia del folklore, per il
principio già da lui sottinteso che la religione di una generazione è destinata
a diventare la superstizione-sopravvivenza di un’altra. E l’una e l’altra, la
sua teoria dell’animismo e la sua metodologia folkloristica, ecco che
troveranno il consenso più immediato e aperto in un paese, la Germania,
dove predominanti erano stati gli interessi per la mitologia della natura. È in
Germania, si può dire, che il Tylor ebbe ancor prima che negli altri paesi la
sua consacrazione ufficiale. È in Germania che la sua Primitive Culture fu
di stimolo agli stessi cultori di quella mitologia. Nota a proposito lo
Schmidt:
«Nella corrente sempre più forte dell’animismo del Tylor venne a incanalarsi, per strana coincidenza,
anche una corrente minore, sorta già tra i seguaci della teoria della mitologia della natura della
Germania e dei popoli indogermanici, la quale volle ora applicare i risultati delle ricerche linguistiche
relative ai popoli indogermanici anche alle scoperte fatte dagli etnologi per i popoli di natura».
«Non resta che una via: quella di distribuire dei foglietti volanti che contengano un saggio delle
indicazioni richieste, e condensino tutta la materia presa in esame in un certo numero di domande ben
determinate, precise. Queste domande devono essere formulate con accorgimento e sicura
conoscenza della materia, in maniera che basti un cenno per richiamare senza indugio alla mente di
chi deve rispondere tutte quelle cose che si desiderano sapere da lui, e che si eviti, oltracciò, ch’egli,
rispondendo alle domande genericamente con un si o un no, si limiti a dare indicazioni vaghe e
superficiali, laddove importano invece distinzioni rigorose e ragguagli minuti sui particolari. Si
cercherà pertanto, progredendo il lavoro, di migliorare e modificare di tempo in tempo le domande
alla stregua delle esperienze psicologiche e delle osservazioni fatte circa l’effetto da esse prodotto su
chi deve rispondere, nonché in base alla più profonda conoscenza della materia acquisita con
l’aumento del materiale. Il contenuto delle domande ha da rimanere lo stesso per tutto lo spazio
geografico su cui si estende la raccolta; ma è necessario dare ad esso, per determinate zone, una
forma particolare».
«Ogni tradizione è da spiegarsi primariamente da se stessa e dal suo ambiente più prossimo; solo
quando non risulta in questo campo, può essere ricercata progressivamente in uno stadio sempre più
lontano e più profondo… Dove si presenti una tradizione popolare si deve tendere, secondo la
possibilità, a una determinazione cronologica e a una ricostruzione della forma originaria da ragioni
interne per la via dell’analisi e con l’aiuto dell’analogia, che siano esaminate acutamente secondo il
contenuto e il valore».
«… prendendo come base la tradizione popolare del Nord Europa ha cercato di dimostrare in
maniera evidente una serie di similitudini tra usanze e immagini del mondo antico e quelle dei popoli
del Nord Europa… Come lei vedrà dai miei recenti trattati, al centro delle mie aspirazioni sta
un’ampia raccolta e spiegazione delle usanze provenienti dal mito riguardante la cultura dei campi».
Nel primo volume dei Wald- und Feldkulte, vale a dire nel Der
Baumkultus der Germanen, il Mannhardt inizia anzitutto il suo esame
trattando il culto degli alberi quale si articola presso i Germani e i popoli
vicini. Ed è allora che egli si pone questo problema: vedere come
l’agricoltura riveli, attraverso i suoi riti e i suoi culti, il mistero stesso della
rigenerazione vegetale. Il Mannhardt non esita a porre come fondamento di
quei riti e di quei culti la credenza, tuttora viva nel folklore, secondo cui
l’uomo vive nella pianta (cui attribuisce, come alla natura, un’anima) unita
a lui da un legame simpatico e segreto. Da qui l’affinità di natura fra l’uomo
e la pianta, l’uno e l’altra dotati di un proprio spirito.
Il Mannhardt, quasi a chiarire questa affinità, passa quindi a illustrare la
concezione che i Germani avevano intorno all’anima dell’albero. E da qui,
da tale concezione, ecco che egli vede emergere gli spiriti della foresta e i
loro vari tipi, mentre l’anima stessa dell’albero gli si dispiega come lo
spirito della vegetazione. Particolare luce ricevono in proposito gli usi
comuni a tale credenza, quali, ad esempio, le processioni primaverili che si
svolgono nell’Europa moderna e dove lo spirito della vegetazione è spesso
rappresentato dal maggio e per di più da un uomo vestito di verdi foglie.
Come egli stesso osserva:
«È lo stesso spirito che anima l’albero e le piante inferiori… Con perfetta coerenza si suppone pure
che lo spirito manifesti la sua presenza nel primo fiore della primavera e si riveli tanto in una
fanciulla rappresentante la rosa canina, quanto, come dispensatore di messi, nella persona del Walber.
La processione di questi rappresentanti della divinità si supponeva che producesse sulle galline, sugli
alberi da frutto e sopra il raccolto, gli stessi benefici effetti della presenza della stessa divinità. In
altre parole la maschera era considerata non come l’immagine, ma come l’attuale rappresentante
dello spirito della vegetazione».
Insegni, fra l’altro, l’esempio di Erwin Rohde, il quale nel suo volume
intitolato Psyche non solo si collega al Tylor, ma anche al Mannhardt. È
vero che egli cita le opere di questi due studiosi soltanto in qualche nota
marginale. Ma è vero altresì che, ove noi leggiamo attentamente la sua
opera, sentiamo subito che tanto le concezioni animistiche del Tylor quanto
i legami fra la terra e il sottoterra, quali li aveva intravisti il Mannhardt,
dominano lo scenario in cui si muovono le ricche e suggestive ricostruzioni
del Rohde.
Da qui il netto distacco di Psyche da un’altra opera che la precedette: La
cité antique di Fustel de Coulanges. Diceva questi nel 1865: «Anche negli
ultimi tempi della storia della Grecia e di Roma, si vede persistere nel volgo
un insieme di idee e di usi che rimontano certamente ad un’epoca molto
remota, per mezzo dei quali noi possiamo conoscere quale fosse l’opinione
primitiva dell’uomo sulla propria natura, sull’anima e sulla morte». E
aggiungeva, sotto l’influsso del Müller: «Per quanto si risalga nella storia
della razza indoeuropea, di cui le popolazioni greche e italiche sono due
rami, non si trova mai che essa abbia pensato che dopo la morte tutto fosse
finito per l’uomo». Ecco, dunque, predominare nelle ricerche storico-
filologiche non soltanto i grandi poeti e i grandi pensatori, bensì anche il
volgo con i suoi costumi, con le sue idee, col suo pensare.
E il Rohde, il cui libro uscì dal ’91 al ’94, par quasi che riprenda quel
discorso, quando appunto afferma che «le credenze popolari intorno al
perdurare delle anime dei defunti, credenze basate sul culto delle anime e
concresciute con alcune accezioni della dottrina omerica delle anime,
rimangono sostanzialmente immutate di forza in tutti i secoli della vita
greca».
Eppure, nonostante la comunità di questi interessi, il Rohde procede su
una via ben diversa da quella tracciata da Fustel de Coulanges. Lo stesso
Rohde in una sua nota avverte:
«Si dovrebbe qui menzionare un libro geniale e ricco di idee, La Cité antique di Fustel de Coulanges,
in cui si tenta di dimostrare che il culto degli antenati è la radice di tutte le più alte forme della
religione dei Greci. Non si viene però a disconoscere in nessun modo la fecondità della tesi del libro,
se si ammette che la sua idea fondamentale – per ciò che concerne la Grecia – non è potuta divenire
più che un’intuizione che potrebbe essere giusta e vera, ma che rimane indimostrabile».
«Naturalmente riesce a noi assai singolare che si possa concepire un uomo vivente, pienamente
animato, in cui abiti un ospite straniero, un suo duplicato più debole, un altro io come sua psiche. Ma
questa è appunto la fede dei cosiddetti “popoli primitivi” di tutta la terra, come ha dimostrato molto
acutamente sovrattutto Herbert Spencer. Non sorprende affatto vedere che anche i Greci partecipino a
quel modo di concepire che è così naturale allo spirito della umanità primitiva».
«I popoli primitivi sogliono attribuire alle anime separate dai corpi una grandissima potenza, tanto
più terribile in quanto invisibile; anzi in un certo modo fanno derivare dalle anime tutte le forze
occulte e si adoperano ansiosamente e di continuo ad accattivarsi la benevolenza di questi spiriti».
6. Usener
«Con la sua legge dello svolgimento dei nomi divini, che rappresentava una scoperta atta a fare della
mitologia la «scienza del mito», Usener veniva a incontrarsi, in sostanza, con la teoria
evoluzionistica, che, indipendentemente da ogni indagine linguistica, era giunta a concepire lo
svolgimento dell’idea di Dio attraverso tre gradi: l’animismo, il politeismo, il monoteismo. Infatti la
quantità sterminata dei numi istantanei (Augenblicksgötter) corrisponde al numero sterminato degli
spiriti della fede animistica; alla pluralità dei Sondergötter corrisponde un animismo più ridotto, o
polidemonismo, mentre la formazione degli dèi personali, con la implicita riduzione delle figure
divine, rappresenta il politeismo destinato a sboccare nel monoteismo».
7. Dieterich
«Quando, un quarto di secolo fa, Paolo Sartori diede alle stampe il suo grande trattato sugli usi e
costumi popolari tedeschi, era fatto un passo decisivo nella indagine delle usanze popolari. In tre
grandi sezioni che trattano della nascita, delle nozze e della morte, della vita e del lavoro a casa e
fuori, delle stagioni e delle feste dell’anno, precedute da osservazioni generali sulla terminologia, da
considerazioni sull’origine e lo sviluppo degli usi e costumi, e da tentativi di una loro interpretazione,
il Sartori raccoglieva e ordinava, con una anche troppo minuziosa citazione delle fonti, un materiale
di ricchezza sbalorditiva».
«Nell’aver riconosciuto che la maggior parte delle usanze ha radice nella religione, il Sartori, che
chiama in un certo senso il costume culto religioso della vita quotidiana, mostra il forte influsso delle
indagini di storia comparata delle religioni che fin dal 1898 avevano trovato nell’“Archiv für
Religionswissenschaft” un centro di notevole importanza».
Ma c’è di più: ed è che quelle indagini si venivano incontrando ormai
con gli stessi risultati cui, dopo Tylor, perveniva la scuola antropologica
inglese. In Dieterich l’animismo è già sostituito a volte dalle istanze
magiche. E dietro quelle istanze ecco apparire la forte personalità di uno
studioso inglese: James G. Frazer, il quale nel suo Golden Bough non
mancò di tenere nella debita considerazione le teorie del Mannhardt.
23. Frazer, l’avvocato del diavolo
È stato più volte osservato che l’opera svolta da James George Frazer nel
campo della etnologia e del folklore si può paragonare a quella che nel
campo della storiografia svolse in Italia Ludovico Antonio Muratori. Al
Muratori il Frazer si avvicina infatti per la straordinaria capacità di lavoro,
per l’infaticabile alacrità di ricerche, per la ricchezza stessa della sua opera.
Con questa differenza, tuttavia: che mentre il campo della indagine
muratoriana rimane l’Italia, quello del Frazer è il mondo. E il mondo visto
nei suoi aspetti più misteriosi e inquietanti, quali sono appunto le credenze e
le superstizioni, alla cui natura si rifanno le istituzioni, i miti, le leggende.
Il metodo di indagine di cui il Frazer si serve per internarsi in quel
mondo è quello stesso del Tylor: il comparativo. Egli si muove in mezzo a
una cultura dominata e impregnata di positivismo. Vi si sente a suo agio. Ha
la passione di un Fontenelle, di un Lafitau, di un Tylor e di un Mannhardt
per le letterature classiche. Il mondo dei selvaggi – così, come il Tylor, egli
chiama i primitivi – gli si dispiega con molteplici interessi. E coi selvaggi,
sulle orme stesse del Tylor, lo interessa la vita spirituale, quale essa vive o
sopravvive fra i volghi dei popoli civili. Sotto questo aspetto, anzi, egli non
solo completa Tylor, di cui accoglie il concetto di sopravvivenza, ma dà al
folklore stesso, cioè alla sua materia, un organizzamento più metodico di
quanto non avesse fatto lo stesso Tylor. Gli sarà di esempio Mannhardt.
Così attraverso le credenze, le istituzioni e le superstizioni il Frazer
collega le civiltà classiche coi popoli primitivi e questi coi volghi dei popoli
civili, per quanto nei suoi collegamenti risulti poi una scala, il cui primo
gradino è costituito precisamente dai popoli primitivi, dalle civiltà classiche
il secondo, dal folklore l’ultimo. Né il Frazer si limita a raccogliere le varie
testimonianze. Che anzi questa è la sua preoccupazione: non imbalsamare
quelle testimonianze, ma renderle vive e suggestive perché le sue pagine si
possano articolare in una scrittura omogenea e compatta. Si direbbe,
leggendo le sue opere, che gli etnologi e i folkloristi d’Europa abbiano tutti
lavorato per lui. Ma lui ricambierà il dono ricevuto, tanto è vero che nelle
sue pagine anche gli etnologi e i folkloristi più rigidi e irsuti diventano
scrittori letterariamente apprezzabili e piacevoli. Il Frazer avvicenda quindi
tali testimonianze con le pagine più suggestive delle letterature classiche o
anche orientali. Riporta, con compiacimento, pagine di letterati, brani di
poeti. La sua cultura profondamente umanistica si innesta su una cultura
moderna, sensibilissima e raffinata. E le sue pagine, e di pagine egli ne ha
scritto migliaia, non affaticano né stancano, ma spingono il lettore a
seguirlo. Anche quando l’autore integra la sua analisi descrittiva con le
interpretazioni date ai vari elementi costitutivi di una tradizione, di un uso,
di un rito.
Si aggiunga che quasi tutte le sue opere sono il frutto di una elaborazione
continua, di un impegno ch’egli ritiene di avere assolto sempre a metà e nel
quale si sente la forza di un temperamento volitivo. Così, ad esempio, il
primo lavoro etnologico pubblicato dal Frazer si intitola Totemism ed è del
1884. Nel 1892 egli ritorna sull’argomento. Ma dobbiamo arrivare al 1912
per vedere quel tema svolto, con ricchezza di particolari, nei quattro volumi
dell’opera Totemism and Exogamy. Né meno laboriosa è stata la
compilazione del lavoro più popolare del Frazer: il Golden Bough.
Pubblicato in due volumi nel 1890, esso fu ristampato nel 1900 con un
volume in più. Ma le sue ricerche, già ben avviate in quelle prime edizioni,
si dirameranno in direzioni sempre più numerose finché dal 1911 al 1915 il
Golden Bough uscirà in dodici volumi.
È questa la più suggestiva opera nella quale gli interessi del Frazer si
sommano, illuminandosi gli uni con gli altri. Gli Inglesi l’hanno definita «la
Bibbia dei tempi moderni». In essa il letterato si accompagna all’etnologo,
l’etnologo al folklorista. E l’uno e l’altro, l’etnologo e il folklorista,
rimangono sempre più ammirati della cultura e della civiltà classica. Le
quali – ancor giovane, nel 1884, il Frazer aveva curato il Bellum
Jugurthinum di Sallustio – sono state affrontate dal Frazer ancora più
direttamente in quei mirabili monumenti che sono i sei volumi di
Pausanias’s Description of Greece e i cinque dei Fasti of Ovid, dove le
feste, le credenze, le istituzioni e le superstizioni dell’antica Grecia e
dell’antica Roma vengono spiegate, illuminate e chiarite col vivificante
contributo dell’etnologia e del folklore.
Sullo stesso piano di questi lavori che segnano il più deciso e decisivo
incontro tra l’etnologia, la filologia classica e il folklore, si articola l’opera
in tre volumi dedicata al Folklore in the Old Testament. Né qui si ferma
l’attività del Frazer, ove si pensi, senza tener conto dei suoi lavori di
carattere letterario, che egli dal 1913 al 1924 pubblicò i tre volumi, di
interesse prevalentemente etnologico, The Belief in Immortality and the
Worship of the Dead; nel 1926 i due volumi The Worship of Nature; nel
1930 l’ampio saggio Myths of the Origin of Fire; nel 1933, ormai
ottantenne, il volume The Fear of the Dead in Primitive Religion. Di
notevole interesse, per quanto si tratti di materiali non elaborati, i tre volumi
Anthologia Anthropologica, editi fra il 1938 e il 1939.
A riassumere alcune conclusioni, cui era giunto nella sua vasta opera, il
Frazer pubblicò fin dal 1908 una serie di saggi che allora presero il titolo di
Psyche’s Task. Nel 1927, nel ripubblicare tale volume – cui, nello stesso
anno, aggiungeva la vivace antologia tratta dalle sue opere, Man, God and
Immortality –, il Frazer volle cambiargli titolo. E lo chiamò, non senza
significato: The Devil’s Advocate.
Laureatosi in legge a Cambridge, il Frazer fu ammesso verso il ’75 al
foro di Londra. Era destino però che i suoi clienti dovessero essere ben
diversi da quelli che si incontravano in quel foro. Questa la ragione per cui
egli volle ribattezzare col titolo di Devil’s Advocate il suo libro Psyche’s
Task. E quell’avvocato, l’avvocato del diavolo, difenderà, sì, nel lungo
corso della sua vita, dei clienti, ma questi, come egli stesso afferma in quel
suo libro, saranno le credenze, le istituzioni, le leggende. E in particolar
modo – ecco il cliente più pericoloso – le superstizioni, nelle quali, se non
vi è tutta la storia dell’umanità, vi è indubbiamente una parte di quella
storia.
«per comprendere l’evoluzione della regalità e il carattere sacro di cui quest’ufficio è stato
comunemente investito agli occhi dei popoli barbari e selvaggi è essenziale avere qualche
conoscenza dei principi della magia».
Così, come se compisse una sosta, il Frazer affronta uno dei problemi
più difficili cui sia collegata la storia del pensiero primitivo. Da questa sua
sosta dipenderà il suo orientamento. Ammiratore e discepolo del Tylor, il
Frazer avrebbe potuto trovare tale orientamento nell’animismo. Fin dal suo
piccolo libro sul Totemism, egli si era però trovato a tu per tu con le
credenze magiche che legano la vita del selvaggio dentro una catena di
ferro. Ma qual è, egli si domanderà, il carattere, la natura, l’ufficio di queste
credenze?
Nel 1890, nella prima edizione del Golden Bough, il Frazer si era
limitato a constatare che ai selvaggi il mondo appare dotato e diretto non
soltanto da esseri personali, ma anche da forze impersonali, che è quanto
dire da leggi naturali, nell’ambito delle quali si sarebbe svolta la magia.
Nella seconda, in quella del 1900, egli mette in maggior rilievo quelle
concezioni. Il che verrà poi ribadito, con maggior impegno oltre che con
una più scaltrita dialettica, nella terza edizione del Golden Bough, nel cui
primo volume egli cerca di determinare l’origine stessa della magia,
classificandone i principi e i mezzi.
Nell’intervallo intercorso, fra le varie edizioni del Golden Bough, nel
1892, era uscita intanto in Inghilterra un’opera dove venivano affrontate le
varie questioni inerenti alla magia dei primitivi. Dovuta a J. A. King,
quell’opera si intitolava The Supernatural, its Origin, Nature and Evolution.
Anche il King, in fondo, è sullo stesso piano del Frazer, quale questi ci
appare fin dalla prima edizione del Golden Bough. Il King però non solo si
mostra decisamente convinto che la magia non sia affatto il risultato di
determinate forze, le quali non hanno nulla a che fare con l’animismo, ma
va oltre. Le usanze magiche, egli avverte, si sono formate quando il corso
naturale delle cose venne interrotto da qualche fatto straordinario, che il
selvaggio identificò in una forza buona o cattiva che portava fortuna o
sfortuna e che perciò provocava desiderio o paura. Così per il King la magia
può effettivamente comprendersi e spiegarsi, ove si tenga presente che essa
nasce dalla visione di cose nuove e straordinarie-soprannaturali, messe in
rapporto con le altre cose conosciute. È proprio allora, secondo il King, che
subentra nel selvaggio uno stato di agitazione che provoca delle
associazioni di idee, le quali alla loro volta pongono l’oggetto in rapporto
con altre cose, sia come causa, sia come effetto, sia come causa ed effetto.
Ora è appunto su questa associazione di idee che il Frazer, fin dalla
seconda edizione del Golden Bough, fonda l’origine della magia – per
quanto noi non sappiamo s’egli conoscesse o no l’opera del King che ad
ogni modo non cita. Ecco quindi che cosa saranno, per lui, le credenze
magiche: dei giudizi ai quali fa da leva l’istinto casuale.
3. I principi della magia formulati dal Frazer
Considerata la magia come una falsa scienza che è insieme una falsa
arte, il Frazer illustra, quindi, i principi che la reggono. E questi, a suo
avviso, sono due: 1, che il simile produce il simile o che l’effetto
rassomiglia alla causa; 2, che le cose che siano state una volta a contatto
continuano ad agire l’una sull’altra, a distanza, dopo che il contatto fisico
sia finito. Il primo principio, egli aggiunge, può chiamarsi legge di
similarità. Il secondo, legge di contatto o di contagio. Questi principi a loro
volta, egli incalza, non sono che due cattive e diverse applicazioni delle
associazioni delle idee. La magia omeopatica (o imitativa) è fondata sulla
associazione di idee per similarità. La magia contagiosa sull’associazione
per contiguità. In pratica, però:
«… i due principi sono spesso combinati; o per essere più esatti, mentre la magia omeopatica o
imitativa può essere praticata da sola, si troverà che la magia contagiosa implica generalmente
un’applicazione del principio omeopatico o imitativo. Effettivamente queste forme di pensiero sono
ambedue estremamente semplici ed elementari. E difficilmente non potrebbe non esser così, dal
momento che sono familiari in concreto, sebbene non certo in astratto, alla rozza intelligenza non
solo del selvaggio, ma delle persone ignoranti e ottuse, dovunque. Tutti e due i rami della magia,
l’omeopatica e la contagiosa, si possono giustamente comprendere sotto il nome generale di Magia
Simpatica, perché ambedue affermano che le cose agiscono l’una sull’altra a distanza, per mezzo di
una segreta simpatia, mentre l’impulso è trasmesso dall’una all’altra per mezzo di quel che possiamo
concepire come una specie di etere invisibile, non troppo diverso da quello che è postulato dalla
scienza moderna per uno scopo del tutto simile, per spiegare cioè come mai le cose possono
influenzarsi fisicamente attraverso uno spazio che appare vuoto».
«… non vi dice soltanto quel che dovete fare, ma anche quel che non dovete. I precetti positivi sono
gli incantesimi, quelli negativi sono i tabu. Effettivamente tutta la dottrina del tabù, o in ogni caso la
maggior parte di essa, non sembra essere altro che un’applicazione speciale della magia simpatica
con le sue due grandi leggi della similarità e del contatto… La magia positiva, o incantesimo, dice: “
Fa’ questo perché possano accadere le tali cose”. La magia negativa, o tabù, dice: “Non far questo
affinchè non accadano le tali cose”. Lo scopo della magia positiva, o incantesimo, è di produrre un
evento desiderato; lo scopo della magia negativa, o tabù, è di evitarne uno cattivo. Ma tutte e due le
conseguenze, quella buona e quella cattiva, fono supposte accadere per leggi di similarità e
contatto… I due fenomeni [i tabù e gli incantesimi] sono semplicemente i due lati opposti o i poli di
una grande e disastrosa illusione, di una errata concezione dell’associazione delle idee. Di questa
illusione l’incantesimo è il polo positivo, il tabù quello negativo».
«Lo sviluppo di una tal classe di funzionari è di grande importanza per l’evoluzione tanto politica
quanto religiosa della società: poiché, quando si suppone che il benessere della tribù dipende
dall’esecuzione di certi riti magici, il mago si innalza a una posizione di grande influenza e
reputazione e può facilmente acquistare il grado e l’autorità di capo e di re. Il risultato generale è che
a questo stadio dell’evoluzione sociale il supremo potere tende a cadere nelle mani di uomini dalla
più acuta intelligenza».
Questa la sosta del Frazer, il quale nel primo volume del Golden Bough,
intitolato non senza ragione The Magic Art and the Evolution of Kings,
pone un netto distacco fra la magia, che, a suo modo di vedere, è una forma
elementare del pensiero (la più elementare anzi che esista e perciò secondo i
dettami dell’evoluzione la più antica) rispetto alla religione, che invece di
quel pensiero rappresenta una forma più complessa. Né soltanto per questo:
ma anche perché il dio del mago è una forza impersonale, mentre il dio
della religione è una forza personale, alla cui volontà il credente si
sottomette (a differenza del mago che invece impone la sua volontà). Nella
stessa Magic Art ecco come il Frazer sintetizza il suo pensiero:
«In primo luogo le nozioni fondamentali della magia e della religione ci fanno pensare che la magia è
più antica delle religioni nella storia dell’umanità. Abbiamo visto che la magia è un’errata
applicazione dei più semplici ed elementari processi mentali, cioè dell’associazione delle idee per
virtù di somiglianza e contiguità e che d’altra parte la religione ammette l’azione di agenti personali e
consci superiori all’uomo, al di là dello schermo visibile della natura. Evidentemente la concezione di
esseri soprannaturali è più complessa che una semplice intuizione della similarità e della contiguità
delle idee; e una teoria che ammette che il corso della natura sia determinato da agenti consci è più
astrusa e recondita e richiede per la sua comprensione un grado molto più alto di intelligenza e di
riflessione, che non l’idea che le cose si succedano l’una dopo l’altra semplicemente a causa della
loro contiguità e somiglianza».
«In nessun luogo la teoria della magia simpatica è messa in pratica per mantener la riserva di cibo più
sistematicamente che nelle sterili regioni dell’Australia Centrale. Quivi le tribù sono divise in un
certo numero di clan totemici, ognuno dei quali è incaricato di moltiplicare i suoi totem per il bene
della comunità, per mezzo di cerimonie magiche. La maggior parte dei totem sono animali e piante
commestibili, ed il risultato generale che si suppone ottenuto da queste cerimonie è quello di
provvedere la tribù del cibo e delle altre cose necessarie. Spesso i riti consistono in un’imitazione
dell’effetto che il popolo vuoi produrre: in altre parole la loro magia è omeopatica o imitativa».
«Possiamo ora comprendere perché una massima di Pitagora diceva di toglier via l’impronta lasciata
dal corpo quando ci si alza dal letto. Il precetto non era che una precauzione contro la magia, facente
parte di un intero codice di massime superstiziose che l’antichità attribuiva a Pitagora, sebbene senza
alcun dubbio fossero familiari ai progenitori barbarici dei Greci, molto prima dei tempi di quel
filosofo».
Ma, altre volte invece, i suoi excursus sulle civiltà classiche sono vere e
proprie trattazioni in cui la magia fa da quadro generale. Insegni il caso
stesso del Re del Bosco, che è insieme il coro e la voce dominante del
Golden Bough. Ma insegni anche il Folklore in the Old Testament, oltre i
commentari di Ovidio e di Pausania. Sembra che il Frazer voglia dire come
Lafitau: i vostri Greci, i vostri Romani non erano poi tanto lontani dal
pensare come la pensavano i barbari. E i suoi quadri ecco, poi, quasi di
rincalzo, che si animano del folklore, vale a dire delle sopravvivenze che
tuttora rimangono nel seno delle nostre civiltà. È allora, si può dire, che il
folklore viene assunto come controprova stessa delle sue asserzioni. Con
questa differenza, rispetto al Tylor: che in quei quadri il folklore finirà col
diventarne l’anima. Il Frazer, nella sua immensa opera, così come non ha
trascurato un culto, un mito, una credenza dell’antichità classica, allo stesso
modo ha avuto presenti quasi tutte quelle espressioni che allo Herder
apparivano, ed erano davvero, voci dell’umanità. Il folklore europeo si
ricompone infatti nelle sue opere, dandoci appunto l’espressione
dell’umanità stessa: un’umanità ricca, immaginosa, viva, calda, che si
effonde nelle credenze, palpita nei suoi spettacoli, si esprime nei suoi
racconti e nelle sue leggende.
Nel Golden Bough il Frazer è costretto, tra l’altro, ad affrontare un
campo di indagini su cui aveva lungamente arato il Mannhardt: il culto
degli alberi. Si è detto che il Frazer popolarizzò in maniera suggestiva le
teorie esposte nei Wald- und Feldkulte (che pur era stato di stimolo a tanti
altri studiosi). Ed è vero. Ma il Frazer – che pur riconosce quanto deve al
Mannhardt – è veramente sulla stessa linea? Nella prefazione con cui egli
presenta l’edizione ridotta del Golden Bough avverte:
«Se nel presente lavoro ho indugiato alquanto sopra il culto degli alberi, ciò non dipende, confido,
perché io esageri la sua importanza nella storia delle religioni ed anche meno perché io ne voglia
dedurre un intero sistema di mitologia. È semplicemente perché non posso passare sotto silenzio
questo soggetto cercando di spiegare il significato di un sacerdote che porta il titolo del Re del Bosco
e di cui una delle funzioni era di strappare un ramo – il Ramo d’oro – da un albero sacro. Ma sono
talmente lontano dal considerare la venerazione degli alberi come cosa di suprema importanza nella
evoluzione delle religioni, che io la considero subordinata ad altri fattori».
Ogni tradizione che vive in questi volghi viene quindi ricondotta dal
Frazer a un rito, il rito a una credenza, la credenza a un sistema di idee. E il
folklore par quasi che assuma il corso di un fiume che nessuna civiltà può
arginare, perché in fondo anch’esso è un aspetto di quella civiltà. Questa la
conclusione del Frazer: ma qual è la via attraverso cui egli vi è giunto? E
attraverso quale travaglio?
Nel seguire le vie di questo corso, la prima via che si dischiude al Frazer
è quella dei popoli primitivi. Comte, allora, è sempre presente nella sua
opera. Anche lui, come Tylor, è convinto che i selvaggi di oggi sono tali in
senso relativo e non in senso assoluto. Eppure lì, fra i selvaggi, è il suo
prima cronologico. Nel chiarire i rapporti fra etnologia e folklore lo stesso
Frazer osserva che «i nostri predecessori furono una volta dei selvaggi i
quali avrebbero trasmesso ai loro discendenti le loro idee e le istituzioni». E
in proposito osserva:
«Il disprezzo, il ridicolo, la ripugnanza, il biasimo sono troppo spesso il solo riconoscimento
concesso al selvaggio e ai suoi costumi. Tuttavia, tra i benefattori che siamo tenuti a commemorare
con riconoscenza, molti, e forse i più, sono i selvaggi. Perché, in fin dei conti, le nostre somiglianze
con i selvaggi sono ben più numerose che le differenze: e quello che abbiamo in comune con loro, e
che riteniamo vero e utile, lo dobbiamo ai nostri progenitori selvaggi che acquistarono lentamente
con l’esperienza e ci tramandarono in eredità quelle idee apparentemente fondamentali che siamo
portati a considerare come originali e intuitive. Noi siamo come gli eredi di una fortuna tramandata
da tanti secoli che si è perduta la memoria di quelli che l’hanno costruita, sicché i possessori del
momento la considerano come un possesso originale e inalterabile della razza umana».
Eppure, nonostante questi e altri difetti, può dirsi dell’opera del Frazer
quel che egli stesso pensava della magia, la quale dai suoi errori fa scaturire
tanta utilità. Distaccate i quadri che ci dipinge il Frazer dal contesto delle
sue teorie, dal prima e dal poi; considerate gli istituti che egli ci rappresenta,
animandoli di una propria vita nella loro natura, che è poi la loro effettiva
natura storica; esaminate i suoi excursus nell’impeto potente delle
atmosfere che si sanno creare: ed ecco che allora avrete un Frazer, il quale
non manca di darci delle pagine, egli naturalista, di interesse strettamente
storico. Si direbbe anzi che il Frazer diventa storico quando dimentica di
voler essere tale.
Non mancano infatti nella sua opera interpretazioni felici su vari
problemi etnologici, messe a punto penetranti, accostamenti che, pur posti
sul terreno dalla natura, rivelano di per se stessi una natura storica. Come
quelle del Tylor, come quelle del Mannhardt, le pagine del Frazer che hanno
un profondo interesse storico sono quelle in cui egli lega in senso ideale le
credenze dei volghi dei popoli civili con quelle dei popoli primitivi, onde
l’etnologia e il folklore si fanno allora veramente storia contemporanea. È
allora che quelle tradizioni si ravvivano e diventano vita stessa della storia.
Vero: egli è dell’avviso che le tradizioni popolari sono dei fossili per l’idea
primitiva che possono contenere. Ma poi con quale e con quanta cura egli
ne indaga la natura! Lo stesso Frazer del resto osserva quelle tradizioni
nelle loro varianti, nelle loro somiglianze, ma anche nelle loro differenze.
Ed ecco allora che egli si impone alla nostra attenzione per la finezza stessa
con la quale collega i materiali nell’ambito di determinate connessioni
culturali e soprattutto per la disposizione di animo, virtualmente poetica,
con cui egli lumeggia quelle connessioni. È qui che il Frazer porta non solo
una sensibilità più raffinata rispetto ai suoi predecessori, ma direi la
civetteria di una intelligenza che fa dello scienziato un poeta.
Partito, insomma, con la missione dello storico alla ricerca della storia
dell’umanità, il Frazer non sempre assolve felicemente questo compito, ma
in ogni caso rivela qualità eccezionali di letterato, di artista, di poeta. Egli
stesso, d’altro lato, negli ultimi anni della sua vita, e ciò sia detto a suo
onore, comprese che in cambio della storia dell’umanità ci aveva dato
piuttosto i documenti di essa:
«Se non ci inganniamo, i fatti da noi accumulati assumeranno col tempo un valore e un pregio che le
nostre teorie non conosceranno mai. Noi pensiamo dunque che, se le nostre opere troveranno posto
nelle biblioteche dei nostri posteri, ciò avverrà per le costumanze e le credenze strane che vi sono
descritte, anziché per le teorie da noi costruite per interpretarle».
«L’autore l’ha scritta non tanto per determinare a quali leggi siano soggetti nella loro genesi e nel
loro sviluppo le cerimonie e i miti, quanto per mostrare la fragilità dei fondamenti sui quali è stata
edificata una teoria ch’egli a buon diritto giudicava falsa. Non per esse e in esse egli studia le
credenze dei selvaggi, ma per le analogie che tale o tal’altra leggenda offre con qualcuno dei grandi
miti dell’antichità; e s’egli paragona tra loro queste due serie di fatti non è tanto per ridurli più
intelligibili, quanto per provare la vanità di un metodo di interpretazione».
Né si può negare che in questa osservazione vi sia del vero, per quanto in
effetti lo sforzo del Lang fu appunto inteso a rendere intelligibile tanto la
genesi quanto lo sviluppo delle novelle (anche se poi quella genesi e quello
sviluppo venivano contaminati da una polemica vivace, si, ma troppo
insistente). È certo però che egli si avvaleva allora delle credenze selvagge
così come le trovava nella descrizione dei viaggiatori o nelle speculazioni
degli etnologi. La prefazione del Marillier è del 1896. Non passeranno molti
anni, e il Lang scenderà invece in campo per studiare «le credenze dei
selvaggi in esse e per esse». Da qui i suoi volumi: The Making of Reli-gion,
che è del 1898; Magic and Religion, che è del 1901; Social Origins, che è
del 1903; The Secret of Totem, che è del 1905. Nei suoi primi volumi, nei
volumi vale a dire del suo noviziato, il Lang si era occupato dei miti non
ariani sulla origine del mondo e dell’uomo per vederne le origini. E gli dèi
occupano la maggior parte dei capitoli della sua opera Myth, Ritual and
Religion. Basta vedere i titoli stessi dei capitoli: Miti greci relativi
all’origine del mondo e dell’uomo; Miti cosmogonici greci; Miti dei
selvaggi relativi agli Dei; Gli Dei delle razze inferiori; I miti degli Dei
dell’America; e così via. Ma allora egli si appagava dell’idea che la
religione fosse nata dall’animismo. Ora invece, e questo è il nucleo della
sua opera The Making of Religion, egli sarà in netto contrasto con quella
teoria. Non già nella forma come lo era stato direttamente col Müller e
indirettamente col Benfey e col Cosquin. Tylor per lui era sempre il
Maestro; e la Primitive Culture il suo vangelo.
Ma in quel vangelo vi sono delle pagine che egli non esita a staccare e
distruggere. La Primitive Culture aveva un’anima: l’animismo. Egli sa bene
quale valore ha quella teoria. Ma come conciliare con essa le testimonianze,
sempre più numerose, raccolte dagli etnografi, secondo le quali anche fra i
primitivi veniva accertata l’idea di quegli esseri supremi che il Tylor aveva
considerato come il risultato di influenze missionarie?
4. Etnologia teologica
«Non appena l’uomo ebbe l’idea di cose che si possono fare, egli potè immaginare che qualcuno
doveva aver fatto quelle cose che egli non arerà fatto e non poteva fare. Questo fattore egli lo
immaginò quindi come un uomo grande, ma naturale… Concepita questa idea, divenne anche
possibile idearne la potenza, e la fantasia potè rivestire Colui che aveva fatto cose tanto utili di certi
altri attributi morali come quello della paternità, della bontà e della vigilanza sulla moralità dei propri
figli… In tutto ciò non vi è nulla di mistico e nulla che, a quanto io vedo, superi le limitate facoltà
mentali di esseri che meritano il nome di uomini».
«La coincidenza con le dottrine teologiche c’era, ed era tale che doveva apparire ad evidenza; e fu
appunto essa il tratto che fu colto prima di ogni altro nella nuova ipotesi del Lang e ad ogni modo
quella da cui dipese la sua fortuna. Conviene dire che a farlo più appariscente, a dargli risalto, il Lang
stesso aveva deliberatamente contribuito; che cedendo forse alla tendenza letteraria e all’indole
romantica del suo spirito non si era peritato di applicare alle credenze selvagge una terminologia
evangelica, citando san Paolo e i Padri della Chiesa, e confrontando, per esempio, j. precetti tribali
praticati dalle società australiane, promulgate – secondo la credenza – dall’essere supremo, con i
comandamenti del Decalogo».
È vero, d’altra parte, che il Lang non volle mai dare una risposta
definitiva alla questione dell’origine della religione. A lui bastava
constatare il fatto – e ciò quando la teoria dell’evoluzione imperava – che
non era necessario elaborare un nuovo concetto sulla religione, come aveva
fatto il Tylor, per trovare fra i primitivi la religione. Gli bastava affermare,
quindi, il principio che la credenza in un Essere Supremo è presso i
primitivi tanto antica quanto l’animismo stesso. E ciò, a sua volta, lo
portava a respingere la precedenza della magia rispetto alla religione,
mentre egli non era alieno dal considerare nella magia stessa delle forze che
né il Tylor né il Frazer avevano valutato: le forze, cioè, extranormali.
Alla luce di queste nuove idee egli rivide in gran parte i suoi vecchi
lavori. Li sveltì, attenuò la parte polemica, diede loro un apparato
etnologico più imponente. È del 1901 la ristampa di Myth, Ritual and
Religion, mentre è del 1904 la ripubblicazione di Custom and Myth. La
nuova concezione che egli aveva manifestato intorno alla religione non
modificò tuttavia alcune sue vecchie affermazioni: e cioè che le favole della
mitologia erano nate in un determinato stadio della vita umana, attraversato
da tutti i popoli e vissuto tuttora in gran parte dai popoli primitivi: uno
stadio in cui le cose che a noi sembrano prodigi erano il prodotto di una
fede sincera e commossa.
«In questi volumi io ho voluto tentare un esame del mito con principi scientifici [cioè coi principi
della scuola antropologica]. I primi tre capitoli del seguente volume sono dedicati a una narrazione
come essa ci vien data dai poeti e dagli storici dell’antichità e come risulta dal folklore moderno.
Esaminerò dapprima i quattro motivi di quella narrazione. I capitoli successivi comprendono
un’inchiesta sulle forme analoghe della nascita miracolosa, quali esse ci vengono documentate nella
favola e nel costume in tutto il mondo. Seguiranno quindi altre inchieste sui motivi connessi alla
liberazione di Andromeda e alla ricerca della testa della Gorgone. Analizzati così i temi e
determinata, come meglio mi è stato consentito dai mezzi di cui posso disporre, qual è la loro base,
posta nella credenza e nel costume e perciò in gran parte nella concezione della vita dei selvaggi, io
tornerò alla narrazione nel suo insieme e, considerandola come opera d’arte, vedrò se mi sarà
possibile di accertare quale sia stata la sua forma primitiva, dove abbia avuto origine e come si sia
diffusa in Oriente».
Nello studiare il mondo della favola, che è poi il mondo dei bimbi dove
si ritrovano i grandi, gli antropologi inglesi erano stati concordi
nell’affermare che l’uomo racconta di preferenza quel che vede. Né diverso
si presentava per loro il problema inerente ai giuochi fanciulleschi e alle
canzoncine che ai giuochi si riattaccano, anche se qui il raccontare è anche
un operare. L’uomo si affaccia appena all’alba della vita. Eppure i suoi
giochi non sembrano, a volte, riportarci in una società primitiva, mentre le
sue canzoncine ne documentano credenze e ideali? Lo stesso Tylor, che
nella Primitive Culture si era occupato della natura etnologica dei giuochi
fanciulleschi, aveva scritto nel 1879 un nutrito saggio The History of Games
(pubblicato in «The Fortnigthly Review») per chiarir meglio quella natura.
Lo avevano seguito il Lang e lo Hartland. Ma c’era di più. Nel 1869 Louis
Becq de Fouquières aveva scritto un’opera Les jeux des anciens, dove
dimostrava come molti giuochi fanciulleschi ancora viventi nel folklore (e
già illustrati, ad esempio, dal Claudius, dall’Arwidson ecc.), dovevano
risalire all’antichità classica. Alcuni anni dopo, nel 1889, un francese,
Edouard Fournier, aveva scritto una Histoire des jouets et des jeux
d’enfants, dove riaffermava che non sarebbe stato possibile scrivere una
storia completa della civiltà senza inserirvi un capitolo sui giuochi e sui
giocattoli.
È merito di Alice B. Gomme l’avere abbozzato questo capitolo, dove
ella, se da una parte si mostra filologa intelligente e precisa nella raccolta
dei testi, dall’altra rianima quei testi applicando al loro studio i principi
della scuola antropologica inglese. La sua opera intitolata Traditional
Games of British Children, edita fra il 1894 e il 1897, vuole essere anzitutto
una raccolta di testi. E come tale la raccolta ha una classificazione
razionale, la descrizione dei giuochi è chiara, imponente il numero delle
varianti di cui l’autrice comprende l’interesse, accurata la trascrizione dei
motivi musicali che accompagnano le cantilene dei bimbi o le filastrocche.
Le si può rimproverare, come fece il Pitrè, che essa limiti la sua raccolta
alle isole britanniche. Il che contrasta con il suo scopo, che è quello di
vedere nei giuochi la genesi, le parentele, le analogie, il senso recondito. E
ciò perché, aggiungeva il Pitrè, «la diagnosi di un giuoco, di una fiaba, di
un indovinello non può farsi definitiva col sussidio di soli due, tre popoli».
Ma alla Gomme interessa stabilire un panorama dove si possano poi inserire
delle visioni particolari. Di più le interessa vedere il giuoco in quella che è o
può essere la sua origine etnologica.
È allora che vediamo ricomporsi nel giuoco fanciullesco il dramma
stesso della vita, quale esso apparve non solo ai popoli delle antiche civiltà
classiche, ma anche e soprattutto ai popoli primitivi. Anche il giuoco nasce
dal culto. Anch’esso è la proiezione di particolari costumanze. Anch’esso
rievoca i misteri del matrimonio, della morte ecc. Ecco un bimbo che
giuoca, innocente, con la sua trottola. Dice un commentatore di
Shakespeare, Steevens, che questo giocattolo, un tempo di considerevole
dimensione, serviva nei villaggi «perché i contadini, quando faceva freddo,
si potessero riscaldare frustandolo, onde essere così sottratti agli stravizi
nelle ore d’ozio». Strumento di utilità pubblica, dunque. Ma non è possibile,
si domanda la Gomme, che nel lancio della trottola rivivano invece usi
religiosi o magici? Secondo la sua opinione, pertanto, «la trottola cui si
imprime il movimento, facendola girare fra le mani, sarebbe il prototipo di
tutte le trottole più complicate». E poiché «questo semplice trottolino è
ancora usato nei giuochi d’azzardo, nella roulette, per esempio, è probabile
che a somiglianza di molti altri giuochi abbia servito di strumento in
passato agli indovini e agli stregoni». In realtà la prima ipotesi non esclude
l’altra. Ma ecco che in un altro villaggio un gruppo di ragazzi giuoca a fare
il mulinello, vale a dire a far circolare un fiammifero acceso finché esso non
si spenga nelle mani di un giocatore che pagherà un pegno. Tylor aveva
creduto di ravvisare in quella pratica fanciullesca «un’atrocità dei
Manichei… i quali si divertivano a sgozzare un infante, che passava in
circolo di mano in mano, ricevendo una pugnalata da ogni membro finché
la piccola vita si spegneva sulle braccia di uno dei crudeli eretici». La
Gomme non esita invece a riferirsi «all’antico uso di mandare ai clan, come
segnale di guerra, una croce di fuoco che era ansiosamente sorvegliata da
ciascuno perché non si spegnesse nel proprio villaggio o nella propria
casa». Né è improbabile, ella aggiunge, che il pegno, in questo come in altri
giuochi, or risvegli l’idea di antiche cerimonie rituali, in cui ogni infrazione
al rito tradizionale fedelmente eseguito era punita».
L’indagine di questi raffronti fra gli usi antichi e i giuochi moderni non
mancò di suscitare un vivo interesse fra gli studiosi delle altre nazioni. Così,
ad esempio, è del 1897 un ampio trattato di F. Magnus Böhme, Deutsches
Kinderlied und Kinderspiel, dove le conclusioni della scuola antropologica
vengono temperate (per quanto il Böhme, anche nell’altro suo lavoro
Geschichte des Tanzes in Deutschland, inclini a riportare tutto al periodo
delle origini germaniche). Più persuasivo e più completo, il lavoro di uno
studioso svedese, Yrjö Hirn, autore appunto di un bel libro, Barnlek, edito
nel 1916 (e tradotto in italiano con il titolo: I giuochi dei bimbi), dove egli
cercò di allargare le indagini iniziate dalla Gomme con «alcuni capitoli
intorno a canzoni, danze e teatrini». Lo Hirn spirito più sottile della Gomme
(e anche più preparato, data la enorme letteratura di cui poteva disporre), è
molto più abile nel mettere in luce la derivazione di determinati giuochi da
forme antiche del culto. Egli segue però soltanto in parte la scuola
antropologica inglese, cui si rifa per il concetto pedagogico del giuoco. Lo
Hirn, senza diminuire infatti l’importanza dei giuochi pedagogici introdotti
negli asili e nei giardini d’infanzia, deplora che queste nuove creazioni
concorrano a far cadere in oblio gli antichi giuochi. Senonché in questi
giuochi non v’è appunto, come osserva la Gomme, quanto v’è di più
semplice nella natura umana? Anche i bambini in quei vecchi giuochi
sapevano rivivere quel che di primitivo è in noi. E questo fu lo scopo per
cui la Gomme pubblicò nel 1894 i due preziosi volumetti Children Singing
Games. Questo lo scopo per cui, alcuni anni più tardi, Edith Harwood trasse
dall’opera Traditional Games una serie di Old English Singing Games per
educare i bambini nordici.
«La religione greca come è esposta nei manuali popolari, e persino in certi trattati di maggior pretesa,
è soprattutto una questione di mitologia, e per di più di mitologia così come la si può vedere
attraverso il mezzo della letteratura… Non si è fatto nessun tentativo serio per esaminare il rituale
greco. Eppure, è più facile accertare in modo definito i fatti del rituale; essi sono più permanenti, e
per lo meno altrettanto significativi. Ciò che un popolo fa in rapporto ai suoi dèi deve sempre
costituire una traccia, e forse la più sicura, per giungere a capire ciò che pensa. Il primo preliminare
per qualunque comprensione scientifica della religione greca deve essere costituito da un minuto
esame del suo rituale».
Questo lo scopo dei Prolegomena, oltre che degli altri libri della
Harrison come, ad esempio, Themis, che è del 1912, e Ancient Art and
Ritual, che è del 1913. Né diverso è lo scopo che assolvono E. T. Farnell e
A. B. Cook, al primo dei quali dobbiamo l’opera The Cultes of the Greek
States, edita fra il 1896 e il 1909, mentre al secondo dobbiamo l’opera Zeus,
edita fra il 1914 e il 1919. L’uno e l’altro, il Farnell e il Cook, affrontarono
l’esame dei culti e dei riti greci come dei fatti concreti prodottisi in una
determinata civiltà. Nel Farnell e nel Cook c’è l’impegno, però, di chiarire
culti e riti con l’apporto della comparazione. E questa ecco che s’inserisce
come metodo di lavoro non solo nel campo dell’etnologia, ma anche in
quello del folklore.
Altrettanto si può dire di un’altra opera, meno vasta ma più geniale delle
precedenti, la Origin of Tragedy di W. Ridgeway, edita nel 1910 (e seguita
da un’ampia appendice, che costituirà il volume, edito qualche anno dopo,
The Drams and Dramatic Dances of Non-european Races). Erano stati il
Rohde e il Dieterich ad avanzare l’ipotesi che la tragedia greca si dovesse
far risalire, contro il parere di Aristotele, ai misteri. Il Ridgeway andrà oltre.
Per lui infatti l’origine della tragedia si collega alle danze mimiche in onore
degli eroi (morti illustri, divinizzati). Il che ha le sue controprove: da una
parte le danze dello stesso tipo che si svolgono fra i popoli primitivi;
dall’altra le sopravvivenze che rimangono nel carnevale moderno della
Francia e della Tessaglia. È la celebrazione di un morto, di un eroe morto e
divinizzato, che ha creato, insomma, la tragedia, la quale soltanto più tardi
si sarebbe innestata sul culto di Dioniso. E la tesi del Ridgeway può essere
integrata in questo senso: che quel culto costituiva un aspetto dell’origine
della tragedia, non l’origine; ma è certo che essa fu, come riconosce il
Pickard-Canv bridge (autore di un’altra ben nota opera, Dithyramb, Tragedy
and Comedy, edita nel 1927) una pietra miliare posta nel campo della
filologia classica, la quale veniva, ancora una volta, a beneficiare del
contributo non solo dell’etnologia, ma anche del folklore, e in particolar
modo del folklore della Grecia moderna.
Ora è appunto in questa corrente di studi, che si inserisce l’opera di uno
studioso francese: Salomon Reinach. Con questa differenza: che mentre i
nuovi etnologi della filologia ricorsero ai totem e ai tabù con abilità, con
discrezione e sempre dentro i limiti di una comparazione chiamata a
illustrare gli istituti presi singolarmente in esame, il Reinach fece di tutto
ciò che toccava dei totem e dei tabù, trovandoli anche e soprattutto dove
essi non erano. Si aggiunga che mentre quei nuovi etnologi della filologia
richiamavano il passato non soltanto per sé, ma anche e soprattutto per quel
che aggiunge al presente, il Reinach lo richiamava quasi come se
proiettasse un’ombra paurosa e immobile.
2. Reinach e le religioni
«Io sento profondamente la responsabilità che mi assumo esponendo per la prima volta in un quadro
di insieme le religioni considerate puramente e semplicemente come fenomeni naturali. Se lo faccio,
è perché credo che i tempi siano ormai cambiati e che in questo, come negli altri campi, la religione
laica debba rivendicare i suoi diritti».
«Quando una pratica, un’idea, una formula è introdotta nel numero delle conoscenze umane comuni,
subisce un modificarsi incessante ed infinito senza che perciò scompaia completamente».
«Il culto degli animali, come degli alberi, delle piante, si riscontra, allo stato di sopravvivenza, in
tutte le società antiche: anzi vi ha dato origine a quelle favole che si chiamano metamorfosi. Quando i
Greci ci raccontano che Giove-Zeus si è trasformato in aquila o in cigno, bisogna vedere nel racconto
un mito narrato a rovescio. Il dio aquila e il dio cigno cedettero il posto a Zeus, quando gli dèi dei
Greci furono adorati sotto la forma umana: per cui, senza contare che gli animali sacri sono restati gli
attributi o i compagni degli dèi, i quali talvolta riprendono la forma animale, le metamorfosi degli dèi
non sono se non un ritorno allo stato primitivo. Così il mito della trasformazione di Giove in cigno
per piacere a Leda, significa che in tempi remotissimi una tribù greca aveva per dio un cigno sacro e
che essa credeva aver questo cigno accesso presso i mortali. Più tardi il cigno venne sostituito da un
dio con forma umana, Giove; ma la favola non fu punto dimenticata e si fantasticò che questo Giove
si fosse trasformato in cigno per generare Elena, Castore, Polluce, i figli del cigno divino e di Leda».
Il nome del Marett è legato alla teoria del preanimismo, secondo la quale
nella mentalità primitiva v’è qualche cosa di più indeterminato e di
psicologicamente anteriore all’animismo consistente «in certi sentimenti e
nell’idea di forze misteriose, non ancora spiriti, ma piuttosto volontà e
personalità indeterminate indicate col nome generico di mana, di orenda
ecc.». E qui, è evidente, ci troviamo di fronte allo stesso atteggiamento
mentale del Tylor, del Frazer, del Lang. Anch’egli si preoccupa
dell’anteriorità di un fenomeno rispetto all’altro. E come il Tylor (ma si
potrebbe dire: come il Brosses, il Comte, lo Spencer), anch’egli è
preoccupato di dare una definizione minima della religione.
Questo è il motivo per cui egli, pur non negando la vitalità
dell’animismo, mette in rapporto il mana col tabù, il quale, a sua volta, non
si spiega col concetto meccanico di magia negativa, ma con quello stesso di
mana. Il che significa che la magia non è un tessuto illusorio e tanto meno
una pura e semplice associazione di idee, bensì una creazione dello spirito
in cui è impegnata la volontà di credere o di fare. Il colpo era diretto al
Frazer. Né egli era solo in questa battaglia, perché contemporaneamente
anche la scuola antropologica francese, fondata da Emile Durkheim, si era
impegnata da una parte a far crollare la teoria dell’animismo del Tylor e
dall’altra a distruggere la tesi, peraltro attenuata dallo stesso Frazer nel
corso della sua opera, che la mentalità primitiva sia imbevuta soltanto di
associazioni illusone.
Il Durkheim aveva iniziato la pubblicazione dell’«Année Soeio-logique»
fin dal 1892. È del 1912, però, la pubblicazione del suo ampio volume Les
formes élémentaires de la vie religieuse, dove egli, basandosi su ampie
informazioni etnografiche, formula un suo concetto sull’origine della
religione. La quale, egli dice, coincide nel suo primo attuarsi con il
totemismo. E il concetto, a dire il vero, non è nuovo. Né era nuovo quel
miscuglio totemismo-religione-magia, che fra l’altro si poneva sullo stesso
piano del preanimismo, considerato dal Marett come un misto di religione e
magia. Il Durkheim aveva riempito tuttavia di quel concetto la prima fase
sociale della storia dell’umanità.
E l’uno e l’altro, il Marett e il Durkheim, in tal modo, se da un lato non
avevano esitato a porre la magia e la religione su uno stesso piano spirituale
– abolendo rispetto all’una e all’altra il prima e il poi – dall’altro
concordavano nel ritenere che un istituto non poteva reggersi sulla
menzogna. Ma non era questo un altro colpo diretto al Frazer, il quale
tuttavia in quella menzogna aveva pur intuito elementi di verità?
È evidente però che tanto il Marett quanto il Durkheim, nel porsi il
problema dell’origine della religione, ricadono poi in quella ricerca del
prima e del poi, di cui si erano liberati nei riguardi della magia rispetto alla
religione e viceversa. La loro ricerca si conclude, appunto per questo, su un
piano astratto e classificatorio, non certo speculativo e storiografico come
era nelle loro intenzioni. All’uno e all’altro sfugge, in fondo, l’essenza
stessa della religione. Senza poi dire, come ammoniva Hegel, che chi
procede in cerca del minimo, e quindi verso il passato del genere umano,
finisce con l’abbandonare lo stesso mondo umano. Il Marett e il Durkheim
hanno il difetto di aver fatto assurgere la ricerca psicologica (il primo) e la
sociologica (il secondo) a fasi storiche. Il Durkheim era stato posto infatti
su falsa strada da una sociologia che escludeva il contributo, quale che
potesse essere, della psicologia. Il Marett parte invece dalla psicologia che
inclina inoltre a confondere con la filosofia. Eppure, se fu proprio la
psicologia – non certo la filosofia e quindi la storia – a fargli porre in
maniera antistorica il problema della religione, sarà proprio la psicologia a
essergli di stimolo per comprendere il concetto di sopravvivenza.
Questa idea era stata già espressa dal Mannhardt e discussa anche dal
Frazer. Ma non è questa la ragione per cui il folklore non è un’appendice
dell’etnografia o meglio dell’etnologia. Il folklorista fa oggetto delle sue
indagini, che è quanto dire del suo giudizio, un determinato fatto
folkloristico. Da questo egli muove. Il che significa, in altri termini, che
muove da un interesse della vita presente, il quale può spingerlo a indagare
un fatto passato che tuttavia si fa presente nella sua stessa mente. Identico il
compito dell’etnologo, anche se egli parte da un fatto etnologico, il quale
poi rivivrà nella sua coscienza come parte di essa. Si potrà dire allora che
tanto il folklore quanto l’etnologia si debbono considerare appendici della
storia? Evidentemente no, ove si pensi che la storia è lo specchio, diciamo
così, di tutta la vita spirituale in cui non vi sono appendici, ma parti vive
che si integrano a vicenda. Il folklorista non studia che una parte di questa
vita. È necessario però che egli, affrontando lo studio di un costume, di una
credenza, di una superstizione veda anzitutto quale è la nuova vita che quel
costume, quella credenza e quella superstizione si sono creati.
Il compito del folklorista, aggiunge pertanto il Marett, non è soltanto
quello di vedere il vecchio, come volevano i suoi predecessori e come
avevano dogmatizzato il Gomme e la Bourne, bensì l’intrecciarsi del
vecchio col nuovo. La domanda che il folklorista deve porsi non è quella di
considerare la sopravvivenza in sé come passato – che tutto il presente
contiene il passato, mentre il presente di oggi tende anch’esso a farsi
passato –, ma vedere dove e come una sopravvivenza vive. Si aggiunga che
nessun giudizio storico può poggiare sul principio di identità. E ciò perché
la coscienza che accoglie un fatto attuale, lo vive nelle condizioni attuali, le
quali fanno si che ogni sopravvivenza sia in atto una rinascita. È vero che
un fatto può anche trovare i suoi precedenti nella coscienza antica che lo ha
vissuto. Ma è vero altresì che esso, per continuare a vivere, trova un
adattamento, e perciò una sua propria vita, nella coscienza di chi lo rivive.
È ovvio osservare, d’altra parte, che nel campo del folklore tutto ciò che
muore rivive sotto altra forma per poi a sua volta, compiuto il proprio ciclo,
dare vita a nuove forme. Ma c’è di più: che quando una superstizione (=
sopravvivenza) ha perduto il suo significato originario, essa assume un suo
nuovo significato, senza di che la sopravvivenza non vive. È vano illudersi,
come faceva soprattutto il Gomme, che un uomo compia un determinato
gesto per abitudine e che quell’abitudine costituisca sopravvivenza
(inconsapevole) di un culto totemico. Lo sarà, ripetiamolo pure, ma se
l’uomo crede in quel gesto vuoi dire che ha fede in esso. Ed è quella fede
che deve pur contare.
Partito dalla psicologia, il Marett arriva così a uno dei più importanti
principi che regolano la vita del folklore e che il folklorista non può
trascurare interpretando e quindi giudicando il folklore stesso. Né, a dire il
vero, si ferma soltanto qui l’interesse storico che il Marett dimostra nei
riguardi del folklore. La scuola sociologica francese nel suo incessante
lavorio aveva posto il suo accento sulle forze collettive che governano la
società. Erano stati in Germania il Lazarus e lo Steinthal a sostenere
energicamente: 1, che a nulla vale affermare la dipendenza dell’individuo
dall’ambiente, se non si ha conoscenza di quell’ambiente; 2, che per far ciò
è necessario attingere le informazioni su tutti i campi della attività umana;
3, che pertanto è necessario, ove si vogliano comprendere l’arte, la
letteratura, il linguaggio, la religione, considerare queste manifestazioni
come collettive. È da queste premesse che partirà più tardi il Wundt, il
quale, se da una parte restringe il compito della Völkerpsychologie allo
studio del linguaggio, del mito e del costume, dall’altra collega il Bastian e
il Waitz col Lazarus e lo Steinthal per costruire una psicologia collettiva
destinata a chiarire gli sviluppi storici e sociali. Il Wundt esclude che
l’individuo possa essere causa veramente agente dell’evoluzione sociale.
Bene: il Durkheim andrà oltre, convinto com’è che l’induzione psicologica
sia insufficiente a spiegare i fatti sociali e quindi le arti e i costumi, i quali
hanno una loro caratteristica, tanto è vero che non risultano da una somma
di apporti della coscienza individuale, ma da una sintesi in cui è la somma
degli elementi stessi che la compongono. E su queste basi fu affrontato lo
studio della mentalità primitiva (Lévy-Bruhl) cui i sociologi francesi si
rifecero per studiare la religione e la magia (Hubert, Mauss, Hertz), il diritto
(Davy, Huvelin), l’arte (Guyau) ecc.
Di contro alle conclusioni cui giungevano i sociologi francesi, i quali in
gran parte rinnovavano e salvavano i resti della filosofia comtiana alla luce
di un rinnovato Volksgeist, la scuola antropologica inglese aveva lavorato in
fondo sugli schemi di una psicologia individuale, accogliendo
implicitamente quella tradizione in cui si inverava lo spirito individuale
della civiltà occidentale (cristiana e umanistica). Il Tylor e il Frazer non
avevano mai negato l’apporto che il selvaggio come individuo da alla sua
società con le sue invenzioni, con le sue creazioni, col suo prestigio. Lo
stesso Frazer aveva ammonito inoltre che non bisogna mai escludere a
priori la spiegazione che un contadino può darci di un uso, essendo essa pur
sempre il frutto di una interpretazione personale. Non si voleva negare,
insomma, il valore della società, tanto nel campo dell’etnologia quanto in
quello del folklore. Si tendeva però a riaffermare che la coscienza collettiva
e quella individuale sono immanenti l’una nell’altra.
È a questo principio che si riattacca il Marett. Nella sua Anthro-pology
egli scrive:
«L’uomo di alta individualità, l’uomo eccezionale, l’uomo di genio, sia egli l’uomo di pensiero,
l’uomo di sentimento, l’uomo di azione, non possono essere trascurati dalla storia. Al contrario,
quell’uomo è in gran parte il costruttore della storia e come tale dovrebbe essere trattato con il dovuto
rispetto dallo storico. Lo “scheletro” della storia, le sue medie, stanno tutti benissimo nel proprio
modo, ma corrispondono alla verità superficiale che la storia si ripete… Quindi l’antropologia non
deve disprezzare ciò che potrebbe chiamarsi il merito del racconto storico. Studiare l’intreccio senza
studiare i caratteri non darà mai l’idea del dramma della vita umana».
«La vecchia etnologia, ispirandosi al lucreziano “Tantum religio potuit suadere malorum”,
nascondeva un sottinteso polemico, più o meno esplicito, contro le aberrazioni delle superstizioni, e
intendeva concorrere, per ciò che le spettava, a sgombrare le menti da tanta nebbia, e a far rifulgere la
luce della “science”. Talora è possibile sorprendere i nuovi illuminati del positivismo nel compiaciuto
atteggiamento del navigante dantesco che dalla riva sicura “guata l’acqua perigliosa”, cioè, fuor di
metafora, nell’atteggiamento di adoratori della “Raison” e di spregiatori di quel tessuto di illusioni e
di errori di quella vicenda di patologici atteggiamenti dello spirito che fu l’umanità primitiva».
E questo, come abbiamo visto, fu appunto l’atteggiamento di un
Reinach. Gli altri antropologi, il Tylor, il Frazer, il Lang, i Gomme, il
Marett, anche se partivano da quelle premesse, giunsero a risultati
completamente opposti. E ciò perché essi, pur considerando l’animismo, la
magia, il preanimismo ecc. come il fondamento della religione o come
l’attuarsi di determinati poteri, finivano col vedere nelle tradizioni dei
popoli la fonte stessa della moralità, del diritto, dell’arte. Si aggiunga, per
usare una frase del Vico, che a loro, nel frattempo, si dispiegava il processo
(storico) per cui i figli di Polifemo si erano fatti Scipioni Africani (i maghi,
re; la magia, scienza; il totemismo, arte; e così via).
Questa la ragione per la quale la scuola antropologica offri al folklore
stesso, considerato come storia, le carte più valide della sua navigazione. E
se è vero, come lo è in parte, che gli antropologi inglesi non valutarono la
natura poetica della letteratura popolare, è pur vero che essi videro con
chiarezza i problemi più inquietanti del folklore, con una visione larga e
ampia. Umanisti per educazione e illuministi per tendenza, essi, potremmo
dire, romanticizzarono, senza volerlo, i popoli primitivi, le civiltà classiche,
i volghi dei popoli civili. E nel loro slancio per abbracciare non più
l’Europa ma il mondo, non soltanto la civiltà ariana ma anche quella dei
popoli primitivi – e tutto ciò in nome della nostra stessa civiltà nel cui
avvenire ponevano tutta la loro fiducia –, essi, cittadini di un impero
coloniale, credevano di poter realizzare la formazione di un veritiero
internazionalismo al quale ciascun popolo, senza distinzione di razza e di
colore, era chiamato a partecipare in nome dell’umanità.
Parte sesta
Aspetti del folklore nell’ultimo cinquantennio
26. La lotta della storia
1. La scuola storico-culturale
Non v’è dubbio che la scuola antropologica inglese, quale che siano stati
i suoi schemi evoluzionistici, tentò (a volte riuscendovi) di storicizzare non
solo l’etnologia, ma anche il folklore. Questo compito fu assunto tuttavia,
con maggiore impegno, da un’altra scuola che ormai va sotto il nome di
storico-culturale.
Un nostro folklorista, il Vidossi, ebbe recentemente a notare:
«Questa scnola che riconosce quali suoi precursori e maestri Fr. Ratzel, L. Frobenius, W. Foy, e F.
Graebner, autore d’un molto apprezzato Trattato di metodologia etnologica, muove dal concetto
dell’origine unica e della successiva propagazione degli elementi culturali per effetto di rapporti di
cultura, deducendone la necessità di stabilire l’area geografica d’ogni elemento per riconoscere
obiettivamente la stratificazione cui appartiene, e ricercarne quindi la cronologia. Casi di poligenesi,
di conseguenze indipendenti da contatti culturali, sono possibili, qualche volta anche probabili. Ma
l’ipotesi d’una origine multipla dei fenomeni, a cui contrasta, nell’ambito storico, l’esperienza e
manca, di regola, la dimostrabilità non può mai essere assunta come principio metodologico o
esimere dall’obbligo di ricerche storico-geografiche in senso opposto. Quel che vale nel campo
etnologico vale tanto più nel campo demologico, dove elementi presunti primitivi s’intrecciano
variamente con altri di derivazione letteraria, sicché la ricerca sarebbe in ogni caso indispensabile, se
non altro, per districarli».
«Il Pessler ha esposto le sue idee in un saggio sulla Deutsche Volkstumsgeographie; nel quale, però,
egli tratta piuttosto del profitto che si può trarre dalle carte per la conoscenza dei fatti che della
“vita”, se possiamo dire così, propria della rappresentazione cartografica di ampie raccolte di
materiali; mentre solo dalla conoscenza di tale “vita” è possibile ricavare i presupposti metodici e le
garanzie necessarie per una interpretazione integrale di carte demologiche».
4. Filologia etnologica
Per potere determinare la varietà di questa vita, per poter cioè chiarire
ancor meglio il problema dei cicli culturali già posto dal Ratzel e dal
Frobenius, il Graebner pone tutta una precettistica, mediante la quale egli
offre all’etnologo gli strumenti di lavoro o meglio le ipotesi di lavoro per
internarsi nel mondo dei primitivi, onde stabilire i vari cicli culturali, le fasi
di sviluppo di un determinato elemento dentro quei cicli, le forme più
antiche di un oggetto o di una credenza rispetto ad altre.
Vasta e complessa non solo nella sua formulazione, ma anche nei suoi
dettagli è questa precettistica. Il Graebner, infatti, ci espone anzitutto i
criteri dell’accertamento delle aree culturali coesistenti nel tempo e nello
spazio:
«Quando due zone culturali di carattere diverso si incontrano, esse potranno sovrapporsi l’una
all’altra nelle zone di contatto e creare così delle forme miste, oppure potranno entrare soltanto in
rapporti marginali, creando dei fenomeni di contatto… Alle volte i singoli elementi culturali
formano, in una determinata zona particolare, una combinazione organica molto omogenea, rendendo
anche facilmente riconoscibili le somiglianze con altre zone particolari… Altre volte certi elementi
culturali, che non appaiono intimamente connessi, si presentano tuttavia costantemente, anche in
zone diverse, in unione più o meno intima. Si tratta allora di cicli culturali di data più antica».
«la scuola storico-culturale ha ben meritato dell’etnologia, ed è la grande esattezza filologica che essa
ha instaurato in tali ricerche. Sebbene l’esattezza filologica non sia storia, tuttavia essa costituisce un
bene prezioso, una garanzia solida opposta ai giuochi dell’immaginazione e agli arbitri del
sentimento. Nessuno può contestare che, in tale ambito, l’esattezza delle informazioni etnologiche sia
ora di molto progredita rispetto al passato. Restituire l’esatta lezione di un lesto, dichiarare le
interpolazieni, fissare le attribuzioni e le provenienze, ricostruire le genealogie, distinguere le
redazioni successive di un’opera, determinare l’ordine cronologico di successione di una serie di
testi, in una parola esercitare con acribia una rigorosa critica testuale esterna è fatica indispensabile,
eurisi necessaria».
5. Interpretazioni etnologiche
«In ogni interpretazione si presenta in grande misura una prudente acuta critica. In primo luogo la
testimonianza, in base alla quale segue la spiegazione, dev’essere accertata in pieno criticamente.
Inoltre il fatto così provato deve essere tanto affine formalmente o idealmente a quello da
interpretarsi, che un passo in fallo non sia possibile o almeno non sia verosimile; soprattutto devono
essere chiari i punti di comparazione… Più dati raggiungono il più alto grado di capacità di
interpretazione soltanto quando appartengono alla stessa unità culturale di luogo e di tempo».
«Poche scienze dispongono, come ha già rivelato Graebner, di un metodo così ben perfezionato come
la storia. Ora ciò naturalmente va a beneficio anche dell’etnologia, la quale però, come speciale ramo
della scienza storica totale, non manca in nessun modo di proprie caratteristiche che poi richiedono
in relazione al metodo la loro considerazione…»
Lo Schmidt è convinto inoltre che il metodo di conoscere della filosofia
è da distinguersi da quello della conoscenza storica. E sentiamo la ragione:
perché la filosofia procede, tra l’altro, anche dai fatti di esperienza, forniti
dalla natura e dalla storia, ma preferendo alle loro cause prossime e
concrete quelle remote e generali. Marett era andato oltre. E, forse prima di
lui, oltre erano andati gli stessi antropologi inglesi, ai quali la filosofia, che
era nel caso specifico la storia della filosofia e non quella evoluzionistica,
aveva insegnato che ogni teoria in tanto vale in quanto è pensata e che il
pensiero non può vivere al di fuori della filosofia.
Lo Schmidt, dopo aver battagliato con quella scuola – nel che, a dire il
vero, non va oltre il Graebner –, prende quindi di mira il Mannhardt. Uno
studioso austriaco, serio e ben preparato storicamente, A. Haberlandt, nel
suo volume Volkskunde und Völkerkunde, non aveva esitato ad affermare
che il Mannhardt aveva anticipato «una buona parte del fondamento
metodologico del folklore e dell’etnologia comparata, vale a dire del
metodo etnologico del Graebner». E lo Schmidt commenta indignato, egli
che in genere è così cavalieresco nel passare in rassegna le teorie altrui:
«Sarebbe stato straordinario se il folklore avesse conosciuto tanto presto il
metodo storico-culturale». Continuando le sue indagini in tal proposito, egli
accenna ai lavori dello Spamer, del Maurer e dello Schier, editi nell’ampia
raccolta curata dallo stesso Spamer e intitolata Die deutsche Volkskunde. E
aggiunge in una nota: «Il ramo geografico culturale con l’applicazione
eccellente della cartografia viene creato in modo speciale da W. Pessler». È
vero che l’attività di quest’ultimo si inizia nel 1906, quando cioè non era
ancora uscita la Methode del Graebner. Il saggio del Ratzel Geschichte,
Völkerkunde und historische Perspektive era stato pubblicato però nel 1893.
E il Pessler rientra quindi nei quadri.
Lo stesso Schmidt tuttavia non esita a riconoscere:
«L’indagine storica ha raggiunto ben presto una considerevole altezza specialmente a causa di
favorevoli condizioni. Questo frutto maturò nelle ricerche dei dotti finlandesi sull’origine della loro
epopea nazionale, il Kalevala. Mentre i ricercatori più antichi come Lönnrot, J. Krohn e altri
ricevettero l’eredità di un punto di vista evoluzionista-naturalistico nella spiegazione della medesima,
l’indagine si perfezionò già sotto J. Krohn e più ancora sotto K. Krohn in una indagine pienamente
storica, su una via di transizione da un modo di lavorare geografico-cartografico a uno puramente
storico. Essi poterono poi anche dimostrare che il Kalevala nella sua forma attuale non è nato nel
tempo preistorico pagano, ma in un periodo di transizione che sta fra il paganesimo e il
cristianesimo».
È strano che lo Schmidt non faccia per Julius Krohn quelle riserve che
aveva manifestato per il Mannhardt. Il che significa che allo Schmidt
sfugge un particolare: e cioè che, se la scuola storico-culturale ha per
metodo la storia, non era necessario che venisse fuori la scuola storico-
culturale, perché la storia si facesse criterio d’interpretazione per il folklore.
E questa infatti è la ragione per cui la storia, cioè il metodo della storia,
aveva dato vita e vigore alle opere dei Grimm, di un Pitrè, di un Mannhardt,
di un Dieterich.
Lo Schmidt è convinto infine che «gli strati inferiori del popolo
corrispondono in gran parte ai popoli primitivi». Da qui il principio da lui
sottinteso: cioè che essendo l’etnologia un criterio di interpretazione del
folklore, è legittimo che essa sia portata al suo grado di pensiero storico.
Insomma: se la metodologia del folklore è la storia e se l’etnologia è essa
pure storia, possiamo trascurare i risultati cui, nel campo specifico
dell’etnologia stessa, ci ha portato la scuola storico-culturale?
Nessuno potrà ora negare che questa scuola coi suoi accertamenti
etnologici ci ha dato in effetti una nuova visione del mondo primitivo. Si
pensi alla grande opera dello stesso Schmidt, Der Ursprung der Gottesidee,
le vera Bibbia dei popoli primitivi. Ed eccoci ai suoi risultati. Esistono oggi,
egli afferma, dei popoli primitivi, la cui cultura ci documenta la più remota
antichità dell’uomo sulla terra. Cioè: dell’uomo veramente primitivo.
Ebbene, in questi popoli esiste la credenza dell’Essere Supremo. Quindi
abbiamo, alle origini, la credenza dell’Essere Supremo. Ed ecco dove
condurranno quelle caratteristiche dell’etnologia che lo Schmidt aveva
rilevato rispetto alla storia.
Si tratta, come si vede, di una teoria la quale, rovesciando le precedenti
costruzioni sull’origine della religione e collegandosi alle posizioni
teistiche, respinte dal Tylor, dal Frazer e dal Durkheim, pone in origine una
credenza puramente religiosa e religiosamente pura: quella dell’Essere
Supremo. Ma possiamo noi, in effetti, affermare che in origine esista una
credenza isolata dell’Essere Supremo? E l’Essere Supremo è davvero, come
lo immagina lo Schmidt, il prodotto di un pensiero logico casuale?
Lo Schmidt, sotto questo aspetto, completa il secondo Lang. Questi, a
dire il vero, aveva esitato a qualificare iddii gli Esseri Supremi. Lo farà lo
Schmidt il quale anzi osserva che l’Essere Supremo, fra i popoli
etnologicamente più antichi, è anche creatore, onnipotente, onniveggente.
Né va dimenticato che per lo Schmidt – come per il Lang – la religione in
questa sua forma arcaica, in questo suo inverarsi cioè nella credenza
dell’Essere Supremo, è una forma essenzialmente diversa dal mito, perché
essa è collegata alla sfera dell’attività razionale, in quanto l’Essere Supremo
degli ultraprimitivi risponde a una concezione razionale della causa. «Il
bisogno di una ragionevole causa», osserva lo Schmidt, «è soddisfatto dalla
certezza di un Essere Supremo creatore del mondo e dell’uomo».
Ora è merito indubbiamente dello Schmidt quello di aver accertato fra i
popoli primitivi la credenza dell’Essere Supremo. E in ciò lo ha seguito,
con risultati eccellenti, la scuola storico-culturale. Nessuno del resto potrà
mettere in dubbio che il momento religioso appare variamente atteggiato
nella coscienza dell’uomo di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Ma quale
aspetto abbia assunto in origine questo momento rimane e rimarrà
un’ipotesi. O comunque un atto di fede. E ciò perché non è possibile
assumere a giudizio storico la tesi del prima cronologico che porta ad
assumere arbitrariamente un momento od aspetto del corso storico come la
condizione necessaria (e la sola necessaria) del resto. Un fatto è stabilire
come una concezione si sia diffusa sulla terra; ma del tutto diverso è
affermare che quella determinata concezione stia proprio alla base
dell’istituto al quale va unita.
Nel porre la credenza dell’Essere Supremo alle origini della religione in
cambio del feticismo, dell’animismo, del preanimismo, lo Schmidt cade in
quegli stessi schemi evoluzionistici contro cui egli era sceso in campo. Ma
il suo in fondo è un evoluzionismo alla rovescia. Egli, per dare vigore a
quell’accertamento, parte dalla premessa che vi sono sulla terra delle
culture cronologicamente primitive. È ovvio invece osservare che la più
bassa e rudimentale civiltà, se noi vogliamo considerarla storicamente, non
può non apparirci che come un prodotto di successive trasformazioni.
Di fatto, la scuola storico-culturale ha studiato determinati cicli, li ha
messi in luce, così come si potrebbero mettere in luce la civiltà egiziana o
quella ebraica o quella maomettana. E qui è il suo merito. Ma poi è andata
oltre, assegnando loro una priorità cronologica e necessaria così come
potrebbe fare lo storico della civiltà egiziana, dell’ebraica, o maomettana
che volesse poi considerare una di quelle civiltà come la prima del mondo.
Nulla ci dice, d’altra parte, che una cultura etnologicamente più antica sia
quella cronologicamente più antica.
2. Folklore e biologia
«Il folklore utilizza in primo luogo il metodo d’osservazione, e ciò perché… esso si occupa di fatti
viventi e attuali. Inoltre, un fatto attuale ha i suoi antece denti, i quali non possono essere spiegati che
col metodo storico… Questa teoria è ben nota… Ma su un fatto bisogna insistere: che il folklore non
è unicamente storico e che non è una sezione della storia. È a poco a poco, del resto, che si comincia
a guarire dalla malattia del secolo XIX, malattia che si può chiamare mania storica, secondo la quale
tutto ciò che è attuale non conta che in rapporto al passato, onde, secondo il tema di un romanzo
celebre, i Viventi non contano che in rapporto ai Morti… Questa malattia psichica e metodologica s’è
così dif fusa che poche persone istruite evitano dinanzi a un oggetto o a un’azione di stimarne
solamente il valore archeologico-storico… Chiunque vuole interessarsi del folklore deve
abbandonare l’attitudine storica per adottare l’attitudine degli zoologi e dei botanici che studiano gli
animali e le piante nella loro vita e nel loro ambiente anch’esso vivente; dunque sostituire al metodo
storico il metodo biologico».
«Poiché il folklore è una scienza biologica, la raccolta dei documenti non può farsi che con un
impiego esatto e metodico della tecnica dell’osservazione come l’hanno elaborata le scienze
naturali… Questa tecnica è qui sottomessa a certi ampliamenti da una parte, a certe limitazioni
dall’altra. L’ampliamento consiste in questo: che nessun fatto può essere preso isolatamente poiché
fa parte di un tutto complesso e questo tutto e mutevole. Lo studioso si trova così forzato a notare
nello stesso tempo parecchi fatti di dettaglio raggruppati attorno ad un nucleo centrale; ma ciascuno
di questi dettagli può in altre condizioni servire a sua volta da nucleo centrale. Questa difficoltà
scoraggia all’inizio i principianti, i quali confessano volentieri che non sanno come raccapezzarsi e si
disperano di rimanere annegati nei fatti. La soluzione sarà che bisogna andare dal più facile al più
difficile, cioè dalle manifestazioni esteriori alle credenze… Nella pratica folkloristica non bisogna
sottomettere i testimoni a un interrogatorio metodico, come sarebbe quello di un giudice; ma bisogna
lasciarle prendere l’abbrivo e farli abbandonare ai ricordi».
I consigli che il Van Gennep dà, nelle sue varie opere, ai folkloristi sono
sempre utili. Ma è necessario ricorrere alla biologia per animarli? Nella
introduzione già citata, il Van Gennep non cambia il suo atteggiamento nei
riguardi della storia. Lo modifica, però, nei riguardi della biologia:
«Io non prendo qui il termine di biologia nel senso trasformista o evoluzionista come sembra lo abbia
compreso qualche critico, ma nel senso preciso di “ciò che concerne la vita”. Non è questa una
immagine per rappresentare lo stato o la società come un organismo vivente sottomesso alle leggi
naturali da cui dipendono tutti gli organismi: di crescita, di maturità, di vecchiaia e di morte. Io dico
solamente – e ciò mi sembra di una evidenza inconfutabile – che, dal momento che gli uomini sono
degli esseri viventi, parzialmente liberi di decidersi in un senso o nell’altro, di muoversi sulla
superficie della terra ed al giorno d’oggi anche nel ciclo e di abbandonarsi, ma solo in certi limiti che
essi stessi si sono imposti, ai loro sentimenti ed alle loro passioni, i loro rapporti debbono essere
esaminati e valutati come rapporti viventi biologici e non come rapporti di oggetti inanimati o
rapporti di esseri morti. Non si tratta qui d’una teoria né di un sistema ma di un angolo visuale che fa
vedere i fatti folkloristici ed etnografici in modo assolutamente diverso che se li si consideri da un
angolo visuale meccanicistico oppure storico e che permette di subordinare migliaia e migliaia di
dettagli apparenti, morfologici, allo studio degli agenti viventi e delle funzioni sociali».
«La migliore definizione del folklore, quella di cui, tutto considerato, ci si può contentare è: studio
metodico, quindi scienza, degli usi e costumi. È inutile aggiungere popolari, perché gli usi e i costumi
sono fenomeni collettivi generali, che si possono discernere indipendentemente dalla razza, dal tipo
di civiltà, dalla classe sociale o in certi paesi dalle caste professionali. Usi significa: modi di vivere
senza alcuna valutazione politica né etica. Costumi significa: modi di vivere conformemente a regole
non scritte o scritte, ammesse dal consenso generale dal basso in alto, spontaneamente e senza
coercizione statale o di governo, spesso anche, a seconda delle epoche o dei paesi, nonostante o
contro questa coercizione, essa stessa giustificata, non da principio ma dopo, da una o più leggi
necessariamente sempre in ritardo sull’evoluzione progressiva o regressiva dei costumi…»
«Ogni individuo ha dunque delle relazioni sociali multiple e gli è sempre lecito, nei limiti fissati dalla
tradizione, di reagire ai rapporti stabiliti: nella famiglia con la scelta della sposa e la limitazione delle
nascite dei figli; come soldato con un’azione di eroismo; come elettore col voto; e così via di seguito.
In altre parole, per comprendere il meccanismo della vita sociale globale, è dall’individuo che
bisogna partire e non dalla collettività; questa non è che un’astrazione o, tutt’al più, una prospettiva,
come una fotografia presa da un aereo».
Il Van Gennep, in tal modo, è sulla stessa linea di quei folklo-risti che
hanno messo in luce l’elemento individuo come la fonte stessa del folklore.
È evidente, però, che egli – mentre si collega in questo campo a un A. W.
Schlegel o a un Pitrè – si pone contemporaneamente contro se stesso. Il
riconoscimento che egli fa dell’individuo nella problematica folkloristica,
annulla infatti quelle leggi generali di cui egli si era fatto propugnatore. Vi
sono, del resto, com’egli stesso specifica, gli individui A e B che possono
anche sottostare a un determinato ambiente, ma vi è l’individuo C che vi si
ribella. Ed è allora che questo individuo può diventare modifi-catore o
inventore di determinati fatti folkloristici.
5. Riti e sequenze
Ancor prima, del resto, di valutare nel folklore il valore dell’individuo, il
Van Gennep aveva già tentato tale valutazione nel campo dell’etnologia.
Nell’introduzione dei Mythes et légendes d’Australie, riferendosi alle
modificazioni cui vanno soggette le tribù australiane, osserva:
«Gli agenti di queste modificazioni sono, nei casi conosciuti con precisione, un individuo o un
piccolissimo gruppo di individui. Questo elemento individuale, che il Durkheim trascura, sostiene
una parte importante nelle società australiane. Talora un individuo, dotato di immaginazione più
vivace, è favorito dagli esseri soprannaturali che gli indicano il cambiamento da introdurre».
«Ogni cambiamento nella situazione di un individuo porta seco azioni e reazioni tra il profano e il
sacro, azioni e reazioni che debbono essere regolamentate e sorvegliate, affinchè alla società generale
non arrechino né molestia né danno. È il fatto stesso di vivere che comporta vari e successivi
passaggi da una società speciale ad un’altra e da una situazione sociale ad un’altra; di maniera che la
vita individuale consiste in una successione di tappe i cui fini e i cui principi formano però un
insieme da porre sullo stesso piano: nascita, pubertà sociale, matrimonio, paternità, avanzamento di
classe, specializzazione d’occupazione, morte, ecc. E a ciascuno di questi insiemi si riferiscono delle
cerimonie, il cui scopo è sempre uguale; fare passare l’individuo da una situazione determinata ad
un’altra situazione, anch’essa ben determinata; essendo uguale lo scopo, è anche necessario che i
mezzi per ottenerlo siano, se non identici nei dettagli, almeno analoghi, anche perché l’individuo si è
a mano a mano modificato poiché ha dietro di sé parecchie tappe e ha superato parecchie di queste
frontiere. Da ciò la rassomiglianza generale delle cerimonie della nascita, dell’infanzia, della pubertà
sociale, del fidanzamento, del matrimonio, della gravidanza, della paternità, della iniziazione alle
società religiose e dei funerali. Inoltre né l’individuo né la società sono indipendenti dalla natura e
dall’universo il quale è anch’esso sottomesso a dei riti che hanno il loro contraccolpo sulla vita
umana. Anche nell’universo vi sono tappe e momenti di passaggio, marcie in avanti e stati di arresto
relativo, di sosta. Così si devono riattaccare alle umane cerimonie di passaggio quelle che si
riferiscono ai passaggi cosmici: ad esempio i passaggi da un mese all’altro (cerimonie del
plenilunio), d’una stagione all’altra (solstizi, equinozi), da un anno all’altro (Capodanno ecc.). Mi
sembra dunque logico raggnippare insieme tutte queste cerimonie secondo uno schema la cui
elaborazione dettagliata però è ancora impossibile».
«Le sequenze [dei riti di passaggio] non sono state quasi esaminate, mentre lo studio di certi rituali
moderni che sono conosciuti molto dettagliatamente (Australia, Indiani Pueblos)… prova che sempre
per le grandi linee e talvolta per i minimi dettagli l’ordine col quale i riti si susseguono e debbono
essere adempiti è di per se stesso di già un elemento magico religioso di portata essenziale. Lo scopo
principale di questo libro è precisamente di reagire contro il procedimento “folkloristico” o
“antropologico” che consiste nell’estrarre da una sequenza diversi riti – siano essi positivi o negativi
– considerandoli poi isolatamente, togliendo loro così la stessa ragione d’essere principale e la loro
situazione logica nell’insieme dei meccanismi».
Questa esigenza è sentita ed espressa dal Van Gennep nel primo volume
del suo Manuel, quando egli, esaminando, nel tomo primo, gli istituti
folkloristici, che raggruppa sotto il titolo Du berceau à la tombe, sente il
bisogno di ritornare sulla fenomenologia dei riti di passaggio. In questo
volume, però, come del resto negli altri che lo seguono, gli schemi
costituiscono soltanto uno strumento di lavoro o meglio un mezzo per
raggruppare dei fatti che sono poi esaminati da un punto di vista storico.
6. Van Gennep e il metodo cartografico
«Perché Sébillot non aggiunge delle carte indicanti le aree di questa o quell’altra credenza o
costumanza determinata per quei luoghi dove non sono state iniziate inchieste speciali?»
È appunto per questo, d’altro lato, che il Van Gennep non si contenta di
esaminare un fatto folkloristico così come egli lo scopre e lo fa oggetto
della sua attenzione, portandolo, per ripetere le sue parole, davanti al suo
spirito; ma va oltre: cerca di vedere questo fatto – quale che esso sia – nei
vari aspetti che ha assunto nel corso dei secoli. E con questa indagine egli
intende meglio il fatto, perché in esso distingue i nuovi motivi e i nuovi
significati che lo hanno arricchito o impoverito. In altri termini: egli supera
sul piano della ricerca quella che è la sua stessa definizione del folklore in
sede teorica. E la supera poiché davanti a lui non vi sono fatti biologici, ma
documenti dello spirito umano. Leggete le sue indagini sul battesimo o sul
matrimonio. Oppure, nella seconda parte che porta anch’essa il titolo Du
berceau à la tombe, i suoi saggi sul matrimonio e sui funerali. Ancora: le
altre parti del tomo primo dedicate alle Cérémonies périodiques cycliques e
quindi al Carnevale, alla Quaresima, alla Pasqua, alle feste di maggio, ai
fuochi di san Giovanni, alle cerimonie agricole e pastorali d’estate. Il
teorico finisce ancora una volta con lo scomparire. E davanti a noi ecco che
rimane lo storico, attento, acuto, sicuro, del folklore francese.
Valga un esempio. Nella prima parte del primo tomo il Van Gennep
esamina l’usanza dei padrini di battesimo, i quali, in molte zone della
Francia, vengono scelti fra i nonni. Ora, come egli aggiunge, si deve notare:
«… che questo insieme giuridico-folkloristico non può spiegarsi con la teoria delle sopravvivenze,
ma deve essere considerato come una invenzione autonoma che si è formata e a poco a poco
sviluppata a partire dall’alto Medioevo o più esattamente a partire dal momento in cui il battesimo
degli adulti fu sostituito da quello dei fanciulli, ciò che non ebbe luogo dappertutto nella stessa epoca
in Europa. Il cristianesimo non si stabilì in tutte le campagne della Francia che verso la fine del
periodo merovingio, più o meno rapidamente secondo la pressione dei missionari e dei vescovi.
Bisognò allora sostituire i padrini dei catecumeni adulti, le cui obbligazioni civili erano limitate, con
altri garanti di maggiore responsabilità e questo non solamente nella liturgia, ma anche nei costumi.
Proprio a tal punto cominciarono a entrare in gioco in una maniera sempre più generalizzata i
meccanismi degli onori e dei loro compensi, delle obbligazioni di consanguineità e di vicinanza e
sono state inventate una infinità di credenze connesse di carattere magico-religioso, il cui scopo
essenziale è sempre stato e resta ancora il conseguimento di un appoggio psichico, sociale ed
economico in favore di quell’essere debole per eccellenza che è il neonato».
E qui ancora una volta i fatti attuali hanno la loro spiegazione in base ai
fatti morti, i quali, in realtà, morti non si possono considerare in quanto si
sono soltanto modificati e adattati. Senza dire che, con quell’esame, il
biologo si è fatto storico. Né il Van Gennep, infine, può fare a meno di
ricorrere al concetto di sopravvivenza che nell’astratta formulazione del
folklore aveva esclusa.
«La reazione del Van Gennep è utile, è necessaria, ma si avverte più di una volta il pericolo ch’essa
esageri. Per il ciclo di maggio, se è difficile documentare il rapporto e il prolungamento delle feste
pagane nel folklore medievale e attuale, è ancor più difficile, almeno per l’Italia, ammettere che fra le
feste floreali e della dea Maja e i nostri calendimaggi documentati fin dal Medioevo ci sia una netta
separazione. Mutamenti, dovuti al naturale evolvere degli usi, al cambio della religione, alle
invasioni barbariche, si; ma vero e proprio distacco, no, tanto più che la dedicazione del mese di
maggio a Maria Vergine è di data relativamente recente. Così per il san Giovanni, l’esistenza (nelle
credenze di quel giorno) di personaggi più o meno mitici in Paesi dell’Europa settentrionale, come
Balder per la Norvegia, Ligo per la Lettonia, Kupalo per la Russia e le relative usanze, specie nelle
regioni, come quelle baltiche, ove il Cristianesimo arrivò tardi e non potè agire in profondità, ci
fanno pur pensare a una grande festa stagionale pre-cristiana. Occorre tener conto anche della vastita
dell’area in cui le principali di queste usanze ci si presentano. Insomma, guardiamoci dallo scambiare
la mancanza dei documenti con la mancanza dei fatti».
«Riconosco senza esitazione che la coscienziosa indagine storica intorno alle origini cristiane e
intorno alla evoluzione ecclesiastica, vulnera in radice parecchi dei nostri principi fondamentali per
tutto ciò che concerne i dogmi e le istituzioni. Riconosco senza esitazione che il dominio del
miracolo si restringe ogni giorno di più, data la possibilità sempre più vasta di ridurne le proporzioni
a cause naturali constatatoli. Io so e sento sempre più il valore di queste obiezioni, il quale potrebbe
però cadere se potessimo in compenso appellare trionfalmente all’ethos cristiano della Chiesa, a un
incomparabile spirito religioso in essa e da essa alimentato, e se invece noi non trovassimo negli
scritti approvati dei suoi maestri di ascesi e di morale, nelle pratiche abituali dei suoi confessori e dei
direttori di coscienza, nelle biografie liturgicamente adoperate dei suoi santi canonizzati… molte
cose che ripugnano a quel nostro senso morale e religioso a cui essa dovrebbe invece innanzi tutto
rivolgersi…»
«Il cattolicesimo non è innanzi tutto una teologia e meno ancora un corpo sistematico di prescrizioni
pratiche, sostenuto da tale teologia. Il cattolicesimo è innanzi tutto vita, e la Chiesa è un organismo
spirituale, alla vitalità del quale noi partecipiamo».
Questo il nucleo attorno cui si impernia la sua Lettera (che, si noti bene,
era diretta) a un professore di antropologia. L’antropologia, che era quanto
dire la scuola antropologica inglese, fu uno stimolo per il Modernismo, o
meglio per alcuni dei suoi rappresentanti. Insegni per tutti il caso del Loisy,
il quale in molti suoi lavori si è avvalso non solo dell’etnologia, ma anche,
sia pure in minor misura, del folklore. E del Loisy il Saintyves fu seguace,
amico ed anche editore. Poiché Pierre Saintyves altri non era che Emile
Nourry, proprietario di quella Libreria Critica che a Parigi fu uno dei centri
più vivi del Modernismo.
Di questo movimento il Saintyves fu indubbiamente il rappresentante
laico più agguerrito. Egli, anzi, potrebbe definirsi il modernista del folklore.
O ancor meglio, il folklorista del Modernismo. E come folklorista si
avvalse, si, delle conquiste che il Modernismo veniva facendo anche nel
campo della etnologia, ma la sua mira fu sempre identica: internarsi nella
selva delle tradizioni popolari con quello spirito che aveva dominato le
ricerche di un Tyrrell e di un Loisy.
Nel 1887, appena diciassettenne, egli ebbe a notare in una pagina del suo
diario: «Spero di poter sempre praticare le seguenti regole: avere per guida
il cuore e l’amore nelle cose dello spirito; istruirmi affinchè possa essere
utile ed esserlo in maniera sempre più efficace; sforzarmi di produrre opere
utili alla scienza». E la sua scienza fu il folklore, al quale egli dedicò, per
usare la sua espressione giovanile, il suo cuore e il suo amore.
Scrittore abile, il Saintyves ebbe un’intelligenza curiosa e viva che gli
permise di affrontare i vari argomenti da lui trattati con immediatezza e con
simpatia. E questa è la ragione per cui i suoi libri si leggono sempre con
interesse, ancbe quando essi trattano argomenti tutt’altro che facili. Egli è in
ciò un po’ il Frazer della Francia. E, come quella del Frazer, vasta è la sua
produzione scientifica, alla quale fa da sfondo il concetto stesso che egli
ebbe della natura del folklore.
Dalla stessa definizione che egli da del folklore possiamo desumere che
il Saintyves è ancorato, come il Van Gennep, al concetto della causalità
della storia. E ciò lo porta a stabilire delle leggi, secondo le quali è
possibile, a suo avviso, spiegare la vita stessa delle tradizioni popolari.
Così, ad esempio, egli, pur ammettendo che la tradizione non è soltanto il
passato ma anche il presente, è dell’opinione che essa possa trasmettersi
senza un’azione volontaria. Né manca quindi di rilevare il valore che
assumono nella diffusione delle tradizioni popolari il contagio o la
suggestione. Queste leggi, a loro volta, lo inducono a considerare il folklore
come una scienza psicologica, e quindi come una storia naturale dell’uomo.
Da qui la confusione che egli fa della metodologia storica con quella
sociologica. Ma in effetti che cosa è per lui la psicologia se non un angolo
visuale come lo è la biologia per il Van Gennep? E anche quando egli, ad
esempio, riduce il folklore a sociologia, non c’è in lui il tentativo costante di
ridurre a storia la sociologia stessa?
Lo stesso Saintyves, d’altro lato, se pur da alle scienze storiche un
carattere che esse non possono avere, è persuaso che queste hanno in
comune con le scienze naturali il metodo comparativo. Compito del
folklorista, egli però incalza subito dopo, è soprattutto quello di spiegare la
natura dei fatti folkloristici. Ed ecco in tal senso quanto egli dirà in uno dei
frammenti del secondo volume del Manuel:
«Il confronto deve mettere in luce non solamente le somigliarne ma anche le differenze, non si deve
dimenticare che la chiave della spiegazione ci può essere offerta da qualche particolarità… La
comparazione non può farsi che stabilendo delle serie sistematiche, tenendo anche conto delle
circostanze essenziali di tempo e di luogo. Non si tratta di riunire in immensi repertori schede attinte
a tutte le fonti antiche e moderne…, ma di procedere a una raccolta metodica, atta a facilitare una
comparazione veramente scientifica».
«Il folklore studia la tradizione e deve quindi, dopo aver raccolto e ordinato i fatti che la
compongono, fornire spiegazione della loro natura o della loro essenza tradizionale… La tradizione
popolare non si potrebbe comparare a un tesoro sepolto: è un flusso di ricchezze di ogni ordine, una
trasmissione senza fine di migliaia e migliaia di invenzioni umane di cui il popolo beneficia nelle
nazioni civili. La catena d’oro della tradizione non riposa immobile in uno scrigno sigillato, ma
realizza, come gli astri, il miracolo del movimento perpetuo».
Né, in effetti, i primi lavori del Saintyves escono dai confini di questa
orientazione conoscitiva. È vero che anche fin dalla loro compilazione il
Saintyves ebbe chiaro questo concetto: cioè che una tradizione va studiata
anzitutto nel momento della sua formazione; poi nel corso della sua
esistenza; infine nel momento della sua scomparsa. Ma è vero altresì che i
momenti di questo studio rimangono allora in lui staccati l’uno dall’altro.
Dice di questi volumi il Van Gennep: «raccolte di materiali». E in fondo ha
ragione, per quanto in essi ci sia sempre un’idea centrale attorno a cui
questi materiali convergono.
Così nel volume Les Saints successeurs des dieux, edito nel 1907, il
Saintyves si propose di dimostrare che il culto dei Santi continua il culto
pagano dei morti. Questa la ragione, per cui molte leggende attribuite ai
Santi non sono che l’interpretazione di epitaffi e di iscrizioni. Ma c’è di più:
ed è che il calendario religioso va considerato, a suo avviso, non come una
semplice lista di feste, ma come una sistemazione rituale e ciclica delle
leggende essenziali di ciascun culto.
Si tratta di una tesi che integra quella del Delehaye, il quale nelle sue
Légendes agiographiques, edite tre anni prima, pur riconoscendo nel culto
dei Santi l’eco di sopravvivenze pagane (il che, del resto, era stato
ampiamente dimostrato dall’Usener, dal Frazer, dal Dieterich, dal Lang
ecc.), faceva nascere il culto dei Santi da quello dei martiri. In realtà, però,
l’indagine dello storico non può limitarsi a constatare che nel culto di un
Santo sopravvive quello di un dio pagano. Si tratta di vedere qual è, invece,
lo spirito che anima questi due culti, i quali non sono né possono essere
storicamente identici. E questa indagine manca nel Saintyves, il quale in
numerosi saggi ulteriori ha approfondito il carattere delle sopravvivenze
pagane nel culto dei Santi. Esemplare in proposito il suo saggio Saint-
Christophe successeur d’Anubis, d’Hermès et d’Héraclès, edito nel 1935 in
quella «Revue d’Anthropologie» dove egli pubblicò alcuni dei suoi saggi
più fini.
Più ampia di quanto non sia nel volume sui Saints successeurs des dieux
è la cornice dell’operetta Les Vierges Mères, la quale, edita nel 1909,
sembra un capitolo aggiunto all’opera The Legend of Perseus dello
Hartland. In essa il Saintyves si occupa del culto delle pietre fecondatrici,
delle teogmie acquatiche e del culto delle acque, dei totem vegetali, delle
nascite miracolose dovute all’azione simultanea nelle piante e delle acque
sacre, delle fecondazioni meteorologiche, delle teogonie solari. Cauti ed
efficaci i suoi confronti, dove, come negli antropologi inglesi, lo studio dei
primitivi si avvicenda con quello delle civiltà classiche e dei volghi dei
popoli civili. Né è senza significato che egli apra l’ultimo capitolo, dedicato
alla idealizzazione della nascita di Cristo, con due passi del Loisy.
E al Loisy egli si rifa in altre opere: come, ad esempio, Le Di-scernement
du Miracle, Les Reliques et les Images légendaires, La Simulation du
Merveilleux, edite fra il 1909 e il 1912. In queste opere il Saintyves,
esaminando le immagini che aprono e chiudono gli occhi, le reliquie
corporali di Cristo, i talismani e le reliquie cadute dal cielo, le guarigioni
miracolose ecc., si preoccupa di determinare la filiazione di quelle pratiche
o di quei culti dalle credenze più antiche dell’umanità. Inoltre egli si avvale
delle conquiste a cui contemporaneamente arrivavano l’etnologia e la critica
biblica.
«Noi possiamo congetturare uno stato sociale imperfettissimo in cui magia e religione sono ancora
confuse in qualche cosa che, a parlare con proprietà, non può dirsi né magia né religione, ma tiene il
posto dell’una e dell’altra… Ciò che fa nascere, possiamo dire simultaneamente, sebbene non d’un
solo tratto, la religione e la magia, è il progressivo differenziarsi che si opera nella massa primitiva in
conseguenza dello sviluppo sociale, intellettuale e morale dei primi gruppi umani… Il distinguersi
della magia e della religione, la scelta delle loro rispettive pratiche, il loro crescente conflitto
gravitano attorno ad un principio sociale: la religione è un culto ufficiale e pubblico; la magia è una
specie di rituale privato, spesso malvisto e anche proibito».
6. Il folklore biblico
«Noi non abbiamo affrontato un tema del Nuovo Testamento senza ricercare con cura tutto ciò che lo
prepara nell’Antico, e inversamente non abbiamo trattato un tema della storia sacra di Israele senza
indicare le repliche o le applicazioni che ne fornisce il Nuovo Testamento. Reimarus presentiva di già
il compito della Tradizione, quando vedeva nel sogno di Daniele un’imitazione del sogno di
Giuseppe e nella stella dei Magi una specie di adattamento della colonna di fuoco e di nuvole del
racconto mosaico. Così anche questa specie di catena non è stata rotta passando dall’una all’altra
raccolta e noi non abbiamo creduto di potere trattare del cammino di Gesù sulle acque senza parlare
del passaggio del Mar Rosso. I due fatti sono legati non soltanto dalla confessione degli autori del
Nuovo Testamento e di Paolo in particolare ma evidentemente non sono che due varianti dello stesso
tema tradizionale tra i Giudei. Lo si ritrova in effetti non solo nelle vite di Giosuè, di Elia e di Eliseo
allo stato di miracolo, ma nei profeti e nei salmi sotto forma di tratto poetico».
E in quanto al suo metodo di lavoro, dopo avere notato che i temi biblici
si riattaccano a dei miti, osserva:
L’opera complessiva del Saintyves ha, dunque, è vero, i suoi lati deboli.
E questa è una delle ragioni per cui è stata sottoposta a una critica spieiata
ma talvolta giusta. Essa, di contro, ha però i suoi pregi. E questa è la
ragione per cui è stata ed è suscitatrice di suggestioni nel campo del
folklore. È un’opera la sua che si impone d’altro lato alla nostra attenzione
non solo come quella di uno scrittore che sa incantarci anche per la scelta
dei suoi temi, sempre interessanti, ma anche per i risultati raggiunti nella
loro trattazione.
Coi suoi pregi e coi suoi difetti l’opera del Saintyves documenta la forte
personalità di uno studioso, il quale affronta i suoi temi con larghezza di
vedute, con profondità di intenti, con la coscienza di chi ricerca
esclusivamente la verità. Pare a volte di risentire in lui la voce di un Thiers
o di un Le Brun, l’uno e l’altro intenti alla ricerca delle sopravvivenze
pagane. Con questa differenza però: che il Saintyves, se, fedele ai canoni
del Modernismo, si propone di spogliare, poniamo, il culto dei Santi dalle
incrostazioni popolari, si avvicina a queste non per condannarle ma per
comprenderle e per spiegarle. Allo stesso modo egli da buon modernista
metterà in discussione la base storica del miracolo in omaggio alle scienze
naturali e fisiche o in omaggio ai risultati del progresso scientifico. Ma ciò
nulla toglierà alla validità del miracolo in sede religiosa etnografica: del
miracolo che riflette voti ed aspirazioni del popolo.
Ansioso, come lo erano i modernisti, di fare del dogma una cosa viva,
suscettibile di sviluppo e di adeguamento alle esigenze della mentalità
moderna, il Saintyves credette a un dogma: quello della fratellanza umana.
E credette altresì che di tale dogma fosse espressione la scienza del folklore,
«disciplina d’amore», la quale insegna che la «comprensione dell’anima
umana non è possibile senza l’amicizia delle anime».
In un suo saggio intitolato Apologie du Folklore il Saintyves ebbe a
scrivere che il metodo stesso del folklore obbliga i folkloristi a mettere in
prima luce il dogma della fratellanza umana. Questo dogma già formulato,
in nome del folklore, dallo Herder si era irrobustito in lui attraverso la
scuola antropologica inglese e il Modernismo. Ed esso è la nota
preponderante, umana e umanistica, della sua opera.
29. Crisi di una poetica
commenta:
«Ora Cupido è diventato un personaggio del mondo popolare, e il trovarlo nominato nei canti non è
sempre indizio di origine letteraria. E perché? Perché il popolo crede in buona fede che Cupido sia
stato un valente compositore di canzoni. La popolana che mi dettava questo canto aggiungeva per
prova che quando lei, giovinetta, guastava le canzoni, la madre la sgridava col dirle: «Eh! Cupido ha
faticato tanto per farle e tu le sciupi».
È vero che la vita del canto popolare riposa appunto in quel rinnovarsi
che non sempre, come credeva la popolana del Vomero, è un guasto. Ma è
vero altresì che il Croce si preoccupava evidentemente di chiarire già i
rapporti fra il mondo letterario e il popolare. Gli piaceva vivere il mondo di
quelle popolane. «Raccolta da una popolana del Vomero», egli annota ai
margini della favola L’uorco e l’orca. E attraverso quel mondo egli sentirà,
vibrante, la vita stessa della sua Napoli. E quindi della sua storia, la quale,
com’egli poi dirà nell’introduzione alla sua Rivoluzione napoletana del
1799, non è soltanto quella dei dominatori, ma anche quella dei dominati
(anche se egli poi, nella sua opera specifica di storico, darà rilievo soltanto
alla prima).
Dalla raccolta di quei materiali che soddisfacevano in lui l’ansia del
ricercatore, il Croce passò subito allo studio delle varie manifestazioni
popolari. E sotto questo aspetto l’indagine che egli dedicò alla Leggenda di
Cola Pesce costituisce il suo primo tentativo di approfondire la ricerca
erudita. Al Graf che allora gli faceva notare com’egli fosse poco informato
di talune fonti inerenti a quella leggenda, rispondeva: «Per quanto il Graf
abbia sminuite le mie asserzioni, egli non ha potuto cogliermi in un fallo di
giudizi logici e di ragionamenti e io ho la debolezza di tenere moltissimo
alla logica e un po’ meno alla conoscenza di Gervasio di Tilbury». Ma in
effetti, nei suoi lavori dedicati non solo alla letteratura popolare, ma anche
alle varie manifestazioni popolari, egli mostrò di tenere tanto alla precisione
filologica quanto alla logica. Né è senza significato che lo stesso Croce
nello scritto che ha intitolato Contributo alla critica di me stesso abbia
osservato su quei lavori quanto segue:
«Io ora scorgo alcuni aspetti positivi; e in primo luogo nel compiacimento onde rievocavo quelle
immagini del passato, uno sfogo alla giovanile fantasia, bramosa di sogni poetici e di esercitazioni
letterarie; e in secondo luogo nelle assidue e faticose ricerche, una formale disciplina che mi venivo
dando alla laboriosità in servizio della scienza».
In tutta la sua opera quelle ricerche sono come un’oasi di pace, come un
riposo. Si potrebbe dire: l’otium del Croce. E il popolo, il popolo
napoletano con le sue leggende, coi suoi lazzari, con le sue maschere, coi
suoi giuochi, coi suoi briganti, coi suoi costumi, eccolo protagonista
principale o di fianco nei Teatri di Napoli, nelle Storie e leggende
napoletane, ne La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza; in
molte ricerche dei suoi Aneddoti di vita letteraria; in alcuni dei primi e dei
secondi Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, oltre che in alcune
dissertazioni di Uomini e cose della vecchia Italia.
2. Croce folklorista
«così com’esse sono d’ordinario narrate dal popolo, hanno smarrito, quando pur l’ebbero, la loro vita
poetica originaria, l’afflato che potè dar loro chi prima immaginò e compose questa o quella di esse;
e somigliano agli scialbi e materiali riassunti, coi quali si espone il «fatto» di una novella o di un
romanzo. Da ciò l’insipidezza ordinaria delle fiabe stenograficamente raccolte dai folkloristi o
demopsicologi: documento bensì di dialetti, di costumi, e, se si vuole, di miti, ma ben di rado opera di
poesia; e, in effetto, quelle raccolte non sono diventate mai libri di lettura, salvo che non siano state
più o meno rielaborate o ritoccate con artistico sentimento».
«Ho tralasciato, invece, affatto l’illustrazione comparativistica delle fiabe, quantunque mi sarebbe
stato agevole dar compimento per lo meno alla “tavola dei riscontri”, che aggiunsi alle prime due
giornate nella mia edizione del 1892. Con siffatta sorta di illustrazione si sarebbe trasferito
l’attenzione all’astratta materia del libro del Basile, trattandolo come documento di demopsicologia,
e non più nel suo intrinseco carattere di opera d’arte. Che cosa può importare al lettore al quale io
indirizzo questa traduzione, di sapere, per esempio, che la Mortella del Basile risponde alla
Rosmarino delle fiabe siciliane del Pitrè e alla Mela delle fiabe toscane dello stesso, e a Die Nelke
della raccolta dei Grimm?… Non solo non può importar nulla, ma servirebbe solo a infastidirlo».
«Voi, illuminati nemici di superstizioni, voi che irridete le pratiche popolari, i santuari, le pitture
miracolose, gli ex-voto, i tatuaggi sacri e simili, avete mai penetrato lo spirito di siffatte pratiche, le
avete intese quali sono, simboli di vita morale, che infrenano, minacciano, consolano, e ispirano
gentilezza di sentimenti e azioni buone? Schernite le goffe chiese spagnuole, dove le immagini dei
santi sono incrostate di lamine d’argento e di altri ornamenti di cattivo gusto: ma forseché quelle
chiese sono musei per artisti e non case di Dio, nelle quali semplici devoti vanno per pregare?»
E tale risposta ai detrattori del folklore non è tanto quella della Caballero
quanto quella stessa del Croce, il quale ha pur sempre avuto un suo
particolare amore per tutto ciò che è popolare, ma soprattutto per ciò che in
stretto senso è poesia popolare, di cui egli ha sempre ammirato
«l’immediatezza con cui essa ricostruisce un ambiente, da carattere a una
località, anima le opere che rimangono come testimonianza del passato».
Frutto di questo amore – è proprio vero che nella maturità si ritorna a tutto
ciò che ci è stato caro nella giovinezza, – l’ampio saggio sulla Poesia
popolare e poesia d’arte, che uscì ne «La Critica» nel 1929 e fu pubblicato
in volume nel 1933.
«… la poesia popolare non si allarga per così ampi giri e volute per giungere al segno, ma vi giunge
per via breve e spedita. Le parole e i ritmi in cui essa s’incarna sono affatto adeguati ai suoi motivi,
come adeguati ai motivi della poesia d’arte sono le parole e i ritmi a lei propri, di cui ciascuno è
grave di sottintesi che mancano nell’altra».
«… una poesia popolare bella e una brutta (non-poesia), come ce n’è in quella d’arte; e non è detto
che le bruttezze, le goffaggini, le freddure, i prodotti meccanici siano minori nella cerchia della
prima, nella quale si trova anche, come nell’altra, molta e varia versificazione gnomica, parenetica,
aneddotica, giocosa, che non è, e non vuole essere, propriamente poesia. Ma, dove la poesia popolare
è poesia, non si distingue da quella d’arte, e, nei suoi modi, rapisce e delizia. La differenza, dunque,
da cercare, e la corrispettiva definizione, sarà soltanto… psicologica, ossia di tendenza o di
prevalenza e non già di essenza, e riuscirà utile, in questi limiti, ai fini della critica».
«Sia pure che la poesia popolare fiorisca di solito nell’ambiente popolare, non perciò si rinchiude in
questo: il suo tono si fa udire per ogni dove sorgano animi così disposti, e perciò anche in ambienti
non popolari e da uomini non popolani… Comunque, perché quel tono risuoni, occorre soltanto che
alcuni uomini, ancorché colti, siano rimasti, verso la vita o certi aspetti della vita, in quella semplicità
o ingenuità di sentimento o vi ritornino in certi momenti».
«Senza negare che nuovi canti popolari pur sorgono qua e là presso i volghi d’Italia, e senza negare
quelli che vennero per altre vie e gli altri che si composero dopo il Cinquecento e che rimasero nella
tradizione, e, soprattutto, senza negare che molti canti furono via via trasformati e molti altri si
composero per imitazione o seguendo gli antichi schemi – negar ciò varrebbe negare cose evidenti –
a me pare che risponda sostanzialmente al vero la teoria che riporta l’origine della grande massa
originale degli strambotti, delle ottave, dei rispetti raccolti nell’Ottocento, alla toscana del Tre e
Quattrocento, e, in buona parte, attraverso la Toscana, alla Sicilia, culla della nuova poesia volgare».
E con ciò indubbiamente il Croce si ricollega, sia pure con molta cautela,
al D’Ancona. Egli però nella sua indagine indubbiamente chiarificatrice ha
trascurato l’importanza che nella poesia popolare assume l’elaborazione.
5. Barbi folklorista
Era questo, come abbiamo già visto, un problema già affrontato dalla
filologia folkloristica dei paesi europei e a cui aveva portato, in Italia, un
deciso contributo Costantino Nigra. E dal Nigra prenderà le mosse uno dei
maggiori rappresentanti della filologia moderna: Michele Barbi, il quale,
discepolo del D’Ancona, visse, nella sua giovinezza, lo stesso clima storico
in cui si era maturato il Croce.
Il Barbi, fin dal 1895, in un suo saggio sulla Poesia popolare pistoiese,
pubblicato nell’«Archivio» del Pitrè, dopo aver passato in rassegna le
raccolte della regione, proponeva di sostituire a quelle sillogi:
«… per un rispetto o per un altro imperfette, una raccolta fatta con maggior larghezza di criteri e con
più continuata pazienza di ricerche per procurarsi tanto le varie lezioni di una stessa canzone,
necessarie a ristabilirne, fra le alterazioni dovute alle trasmissioni orali, il testo primitivo nelle sue
linee sostanziali, quanto i dati di fatto che servano a illustrare i canti nella loro origine, nel loro
contenuto e nella loro forma, in relazione a quella con quelli delle altre regioni d’Italia e, occorrendo,
delle nazioni vicine».
«La poesia popolare è sempre in vita: accetta, trasforma, lascia cadere; ci sono forme che si trovano a
certi momenti, e non più a certi altri; alcune rimangono locali, altre trasmigrano da una regione
all’altra, e spesso, dovendo adattarsi ad usi diversi, ricevono notevoli modificazioni. Sta al nostro
studio riconoscere, fra tante varietà, le forme vere, notarne i caratteri, le relazioni, l’estensione sia nel
tempo che nello spazio; ma son tutte forme ugualmente legittime. Si può ricercare la forma primitiva
di un dato canto, ma non la forma primitiva e genuina della poesia popolare che, nel suo complesso,
va considerata come un essere in perpetuo stato di trasmutazione».
Per lui pertanto:
«la storia della poesia popolare non è la storia della canzone epico-lirica e dello strambotto villeresco
soltanto: è popolare tutto ciò che il popolo fa suo nelle forme da lui via via accettate e preferite. Ci
sono forme più o meno popolari, ci sono canti che rimangono più a lungo e canti che rimangono
meno a lungo nella tradizione, ma ciascuna di quelle forme, e ciascuno di quei canti, per quel grado
di popolarità che ha avuto, ha diritto di entrare in una storia della poesia popolare».
«Occorre diffondere un concetto più esatto della poesia popolare e un’idea più rispondente al vero
della sua storia. Non si tratta di fissare un nuovo e più appropriato concetto teorico di quella poesia
come si provò a fare alcuni anni fa Benedetto Croce; ormai è prevalso nell’uso un dato concetto
empirico, e non si può di punto in bianco mutar nome alle cose».
«Troppo oggi si parla di critica allotria; e invece, non tra critica allotria e critica estetica sarebbe da
far distinzione, ma tra critica vana e critica buona, fra improvvisazioni d’ignoranti e ricerche meditate
e nuove, quale che sia il loro genere… Innanzi alla critica estetica e alla critica filologica vien fatto di
ripetere le parole del Manzoni: «Che bisogno c’è di scegliere? L’una e l’altra alla buon’ora… son due
cose come le gambe, che due vanno meglio che una sola».
Né v’è dubbio che sia così come appunto ci ha dato prova, almeno in
parte, lo stesso Barbi nella sua opera di critico letterario. Si aggiunga
ch’egli riconosce che il canto popolare italiano fa parte «dell’arte nostra e
dell’anima nazionale». Questa l’esplicita dichiarazione che egli fa nella
prefazione del suo volumetto Poesia popolare italiana. È questa,
indubbiamente, la ragione per cui si accinse a una monumentale raccolta di
canti popolari toscani, e non solo toscani, di cui si attende ancora l’edizione
critica.
Il Barbi valuta in pieno, inoltre, l’importanza che la musica ha per lo
studio della stessa poesia popolare:
«Grave danno per lo studio e la valutazione della poesia popolare è stato l’averla sempre considerata
disunita dalla melodia. Non esiste poesia propriamente popolare senza canto; e le stesse questioni più
strettamente filologiche, come la struttura delle strofe, spesso non si risolvono senza tener conto della
parte musicale. È uno studio, quello della musica, che presenta gravissime difficoltà… La triste
condizione in cui si trova questa parte dei nostri studi lamentano con accorate parole due maestri che
in questi ultimi tempi hanno atteso alla musica popolare: Giulio Fara con L’anima musicale d’Italia,
e Francesco Ballila Pratella col suo Saggio di gridi, canzoni, cori e danze del popolo italiano».
Ma quanti sanno che il giuoco e il canto infantile ci conservano la testimonianza di una vera
cerimonia per richiesta di nozze in uso in certe regioni della Francia (e là soltanto?) della quale è una
minuta descrizione anche nella Mare au diable di Georges Sand? La canzone oltre che nel Berry è
diffusa in tutto il Nevernese, e il Triersot ce ne da anche la melodia».
È con questo procedimento rapido, ma che sa rievocare e collegare, che
il Barbi ci da anche le linee programmatiche della storia della poesia
popolare italiana. Ed egli, sia pure di sfuggita, nulla trascura di quanto
possa essere utile e fecondo in questo campo di studi. Ma allora, ci si
domanda, perché il Barbi, pur non avendo preconcetti sulla critica estetica,
convinto com’era anzi che anche la poesia popolare potesse essere arte, non
diede poi nessun peso a questa sua convinzione?
La prevalenza, anzi il dominio assoluto che il Barbi volle dare al
problema filologico della poesia popolare rispetto a quello estetico, è, a
nostro avviso, di carattere essenzialmente polemico. In questo senso: che
alla contemplazione della poesia popolare egli vuole anteporre la fredda
indagine sul canto. Il che gli fa dimenticare che nello studio della poesia
popolare il problema filologico non esclude quello estetico. È vero, infatti, a
sua volta, che il problema estetico non può né deve essere isolato – ecco
l’effettiva obiezione al Croce – dalla tradizione dei canti. Ma è vero altresì –
e qui eccoci al Croce – che la loro vita non è soltanto una vita meccanica, di
luoghi comuni, di formule comuni, di aree ecc., ma è anche, o meglio può
essere, una vita poetica.
7. Menéndez Pidal
«Le moderne danzatrici andaluse, che, al suono squillante delle castagnette, lanciano ai quattro venti
della popolarità le strofette delle sevillanas, o delle malagueñas, o delle rondeñas, o delle peteneras o
di non so quante altre, ci appaiono come una discendenza etnico-culturale di quelle fanciulle di
Cadice – puellae gaditanae – che, come le descrive Giovenale, agitando i fianchi lascivi e scuotendo
i crotali di bronzo, diffondevano molto lontano, nella Roma di Tito e di Traiano, le graziose strofe di
Cadice – cantica gaditana –, che i giovani Romani alla moda non si stancavano di ripetere».
«Queste canzoni sono popolari, senza dubbio, ma non tradizionali. La maggior parte sono opera di
poeti colti, ben conosciuti; e nonostante la loro fondamentale semplicità, hanno sapore di artificio, né
rivelano un’elaborazione veramente popolare. Qualcuna tuttavia giunge a noi in varianti che ci
attestano quel lavorio di elaborazione, per il quale appunto un argomento di poesia vive la sua vita
tradizionale sulla bocca del popolo».
8. Poesia popolare e poesia tradizionale nel concetto del Menéndez Pidal
Il Menéndez Pidal non esita, d’altra parte, per lo studio di tale poesia, a
riproporre l’applicazione di quel metodo storico-geografico che già tanti
eccellenti risultati aveva conseguito non solo nel campo del folklore
letterario e dell’etnica tradizionale, ma anche e particolarmente in quello
della linguistica: esempio l’Atlas linguistique de la France del Gilliéron e
dell’Edmont, edito fra il 1902 e il 1910. Da qui il suo saggio Sobre
geografía folklorica, che egli pubblicò nel 1920 nella sua «Revista de
Filologia Espanola» (che è, fra l’altro, una miniera di contributi folklorici)
col sottotitolo di Ensayo de un método. E il metodo consiste appunto nel
determinare le varietà regionali e le particolarità stilistiche di un canto
popolare o di un gruppo di canti, quali si rilevano nella tradizione orale
d’oggi; nel tracciare le aree geografiche dove tale tradizione attraverso le
sue varianti si è mantenuta salda o invece si è venuta dissolvendo; nello
stabilire quindi quali sono i centri di irradiazione e le correnti di espansione;
nel darci infine l’idea precisa dell’evoluzione storica che ha condotto alla
differenziazione attuale. È stato notato che, nel precisare filologicamente il
termine «popolare», il Menéndez Pidal dimette la questione del «popolare»
come «originato dal popolo» per intendere quell’aggettivo come «elaborato
dal popolo». Vero: ma in quel concetto di «rielaborato» non è implicito in
senso estetico quello di «creato» o meglio, se si vuole, di «ricreato»? Lo
stesso Menéndez Pidal riconosce che anche nella poesia tradizionale il
popolo riproduce, ma, in tal caso, egli incalza: quante volte quei rifacimenti
sono veri e propri atti di creazione, nei quali si inverano la immaginazione e
la commozione dei poeti individui? Nel Romancero, dove egli nel 1927
raccolse alcuni dei suoi più importanti lavori di carattere teorico, lo stesso
Menéndez Pidal, del resto, è quanto mai chiaro ed esplicito a proposito
della elaborazione popolare:
«Di fronte alla moderna affermazione che una poesia tradizionale è anonima, semplicemente perché
si è dimenticato il nome del suo autore, si deve riconoscere che è anonima perché è il risultato di
molteplici creazioni individuali che si sommano e si incrociano: il suo autore non può avere un nome
determinato, il suo nome è legione. Ma in questa poetica creazione collettiva non vi è nulla di
abituale, di insormontabile e misterioso. Il miracolo della poetizzazione in comune si spiega
pianamente e semplicemente col solo riconoscere che le varianti non sono accidente inutile per l’arte.
Sono parte dell’invenzione poetica: la cima più alta di bellezza, di valore estetico, può essere toccata
non solo dal primo cantore, ma da qualsiasi altro recitatore del canto».
«Essenziale è soltanto che il canto da individuale si muti in collettivo e che prenda così radice tra il
popolo, ossia che diventi (per usare il termine tedesco) volkläufig; del che è segno l’apparire, così nel
testo come nella melodia, di certe forme stilistiche proprie del canto popolare e provenienti dallo
«stile orale».
«Così ogni qualvolta si prende a cantare una canzone, essa risente di atteggiamenti nuovi, ed è per
questo che la stessa canzone, come nel campo linguistico la stessa frase, non verrà mai, per quanto
breve sia l’intervallo, cantata o parlata in modo uguale anche se manca l’intenzione di mutare. Stato
d’animo, freschezza o stanchezza, influssi che emanano da una compagnia allegra e dal modo
com’essa è composta (di uomini soli, oppure di ragazze e di giovanotti, o solo di ragazze), il luogo
stesso dove si canta (casa privata oppure osteria): tutto influisce sul testo; sulla forma melodica e
ritmica del canto, e sulla sua esecuzione…»
«Quando il Croce, parlando di poesia popolare, scrive: “nessuna poesia è collettiva nell’origine,
richiedendosi nel suo sorgere la persona di un poeta, e ogni poesia si diffonde o può diffondersi più o
meno largamente nella società in cui nasce”, sorvola appunto sul fatto di questa diffusione, che può
sembrare estraneo all’assunto estetico, ma che per lo studioso di tradizioni popolari non è stato forse
mai d’interesse così capitale come oggi. Per il Hoffmann-Krayer la diffusione avviene per
assimilazione, che è per lui il principio regolatore d’ogni formazione di gruppi. E centro di questa
assimilazione… è sempre l’individuo più forte, che da il tono ai più deboli».
5. Confutazioni
«Nel mio lavoro Volkstanz nur gesunkenes Kulturgut? io ho confutato questi errori… Ho cercato di
chiarire, colFaiuto delle ricerche sulle “isole linguistiche” il caso tipico delle nostre danze amorose:
Ländler, Steirischer e Schuhplattler, che il Bloch voleva far derivare dalle danze di palcoscenico
dell’Ottocento. Tra gli emigranti, che già avevano lasciato la Patria da un secolo e da allora erano
senza collegamento con il loro territorio d’origine, io trovai infatti anche i Ländler che essi dovevano
aver portato seco loro fin dal 1730. Il legame con le danze “saltate” dal Medioevo, come pure la
“gagliarda”, prova la notevole antichità, come anche l’origine popolare delle nostre danze amorose».
E in quanto all’arte popolare, la quale nel campo del folklore è stata fino
ad oggi la meno studiata (per quanto i musei etnografici sorti da per tutto in
Europa possano costituire, in proposito, dei veri laboratori di studio),
notevoli sono le osservazioni di Kon-rad Hahm nella sua ampia monografia
Deutsche Volkskunde, edita nel 1932. Lo stesso Hahm nel suo saggio
Indagine dell’arte popolare in Germania, pubblicato pure in «Lares»,
osserva:
«Per la loro importanza generale sono da menzionare [sull’arte popolare] i lavori e le ricerche di
Michael e Arthur Haberlandt, Otto Lehmann e Adolf Spamer. L’opera di Karl Spiess, Bauernkunst,
ihre Art und ihr Sinn... contiene importanti pensieri cui si può attribuire il valore di guida di tali
studi».
Fatto è che questi autori sono concordi nel respingere la tesi del
Nauniann, anche se qualcuno di essi (lo Spamer, ad esempio) in un primo
momento l’abbia accolta. E ciò perché l’arte popolare, per essere tale, deve
aver appunto quel tono semplice ed elementare che modifica e trasforma le
sue stesse fonti. In altri termini: quel che vale per la poesia popolare vale
per l’arte figurativa popolare.
«Le favole che si usa chiamare magiche, ad esempio sul principe Ivàn che conquista la Car-devica
[reginetta], l’uccello di fuoco o qualche altra meraviglia, sono evidentemente nate nell’epoca del
feudalismo e, dobbiamo pensare, non nell’ambiente contadino, bensì in quello dei boiardi e dei
principi, oppure in quello dei mercanti. Soltanto in un secondo momento esse furono elaborate dai
contadini secondo i loro gusti e rappresentazioni di classe».
«Permettetemi di dare un consiglio amichevole, che potrebbe essere considerato come una preghiera,
ai rappresentanti delle nazionalità del Caucaso e dell’Asia Centrale. Un’impressione immensa ha
suscitato in me e non soltanto in me l’“asciug” Sulejman Stalkij: io ho visto come questo vegliardo
analfabeta ma saggio, seduto alla presidenza del congresso, veniva creando i propri versi e com’egli,
Omero del secolo XX, li ha poi recitati meravigliosamente. Abbiate cura di uomini, capaci di creare
tesori poetici come quelli di Sulejman. Ripeto: Vinizio dell’arte della parola si trova nel folklore,
raccogliete il vostro folklore, studiatelo, elaboratelo. Esso offre vasto materiale sia a noi che a voi,
poeti e scrittori dell’Unione Sovietica».
«Qui interviene un elemento, la tradizione, che alcuni studiosi considerano come il tratto essenziale
che distingue il folklore dalla letteratura. Ripetiamo ancora una volta che la distinzione fra i due
domini è più quantitativa che qualitativa. Senza tradizione, in effetti, lo sviluppo della letteratura non
si potrebbe concepire e, se la potenza della tradizione è più forte nel folklore, ciò è dovuto al fatto
che la produzione poetica, non fissata dalla scrittura, ha dovuto, per una pratica secolare, elaborare
dei mezzi mnemotecnici che ne assicurano la trasmissione orale. Lo studio minuzioso della poetica
popolare mostrerà a qual punto i procedimenti di stile e di composizione, stabiliti da una lunga
tradizione, contribuiscono a mantenere i testi nella memoria degli esecutori e, d’altra parte, a
permettere a questi ultimi di modificarli e di improvvisarne dei nuovi… Non si potrebbe ridurre il
folklore alla sola tradizione, sarebbe vedere in esso soltanto pratica, ristagno, conservatorismo».
Non si vuol negare, insomma, il valore della tradizione che ci attesta la
popolarità di un canto; ma quando un canto riesce a realizzarsi
esteticamente, non è bene che noi lo stacchiamo dalle lezioni che lo hanno
potuto generare e da quelle che potrà generare per contemplarle
esclusivamente come un fatto artistico?
8. Popolo e chiericato
Le note che seguono non pretendono di essere una compiuta bibliografia della nostra Storia. Le
bibliografie o comprendono indistintamente tutto ciò che è stato scritto su un argomento o seguono
un criterio di scelta conforme al metodo che l’autore ha seguito nella sua opera. È a quest’ultimo
criterio che abbiamo voluto attenerci per quei lettori che vogliono in qualche modo approfondire i
singoli capitoli da noi trattati.
Premessa
PARTE PRIMA
Capitolo primo
1. Sulla origine e sulla formazione del mito del buon selvaggio esiste ormai
tutta un’ampia letteratura, la quale di recente è stata passata in rassegna da
G. Cocchiara, Il mito del buon selvaggio (Messina, 1948). Si aggiungono:
N. H. Fairchild, The Noble Savage (New York, 1928), e A. Gerbi, Viejas
polemicas sobre el Nuevo Mundo (Lima, 1946). È merito del Fueter, Storia
della storiografia moderna, trad. Spinelli, 1, 350 (Napoli, 1944), l’aver
messo in risalto l’opera del Martire. Sul de Léry si veda invece R. Allier, Le
non-civilisé et nous (Paris, 1927 sgg.). Discordanti ancor oggi i pareri
intorno alla attività di Bartolomé de Las Casas. Sul quale si vedano, ad
esempio, E. B. Teran, La nascita dell’America, trad. Doria (Bari, 1939) (che
gli è favorevole) e R. Menéndez Pidal, Poesia araba e poesia europea, trad.
Ruggero (Bari, 1949) (che gli è stranamente contrario). Rimandi: J. G.
Frazer, The Golden Bough, 1: The Magic Art and the Evolution of Kings, p.
XXV (London, 1911).
2-4. L’opinione che il mito del buon selvaggio coincida con quello dell’età
dell’oro è stata formulata dal Gonnard, La legende du bon sauvage (Paris,
1946). Il Clerc, Le voyage de Jean de Léry et la découverte du «bon
sauvage», «Revue de l’Institut de Sociologie» (Bruxelles, 1927), se da una
parte mette in rilievo i rapporti fra Léry e Montaigne, dall’altra ritiene che il
mito del buon selvaggio sia stato formulato dallo stesso Léry. Ma si tratta di
una pretesa senza fondamento, poiché se i selvaggi americani sono ritenuti
buoni e pacifici dallo stesso Colombo o soprattutto dal Gonneville (1503-
1505), il loro mito è già formulato chiaramente in pensatori come il Martire
e il Las Casas. Si veda in proposito il bel libro Les François en Amérique
pendant le première moitié du XVI e siècle, a cura di C. A. Julien, R. Herval,
T. Beauchesne (Paris, 1946). Sul concetto che il Montaigne ebbe intorno ai
selvaggi si vedano: G. Chinard, L’exotisme américain dans la littérature
française au XVI e siècle (Paris, 1911), e L’Amérique et le rêve exotique
(Paris, 1934); G. Atkinson, Les nouveaux horizons de la Renaissance
Française (Paris, 1935); G. Toffanin, Montaigne e l’idea classica (Bologna,
1942); e G. Lawson, Les «Essais» de Montaigne, 150 sgg. (Paris, 1948). Al
Lescarbot dedica pagine un po’ aspre A. Bros, L’ethnologie religieuse, 129
sgg. (Paris, 19382).
7. Uno dei saggi più limpidi che siano stati dedicati alle Mille e una notte è
quello di F. Gabrieli, Storia e civiltà musulmana, 99 sgg. (rielaborato e
ripubblicato nella prima trad. italiana delle Mille e una notte, a cura dello
stesso Gabrieli, Torino, 1949).
8. Sulle varie storie delle religioni, nate dall’incontro degli studi orientali
con quelli primitivi e comunque dovute all’affinamento degli stessi studi
orientali, si veda Pinard de la Boullaye, op. cit., 1, 170 sgg. Lo Spencer è
stato considerato come il fondatore della storia comparata della religione da
Robertson Smith, Lectures on the Religion of Semites (London, 18942).
Contro: G. Schmidt, Manuale di storia comparata delle religioni, trad.
Bugatto, 42 (Brescia, 1934). Rimandi: A. Van Gennep, L’exotisme dans la
littérature française du XVI e au XVIII e siècle, in Religions, Mœurs et
Légendes, 5, 100 (Paris, 1914).
Capitolo terzo
1. Sulla lotta contro gli errori, quale venne affrontata dopo la conquista del
l’America, è sempre utile consultare il lavoro di J. L. Castilhon, Essai sur
les erreurs et les superstitions (Paris, 1765). Il problema è trattato con ben
altro criterio da P. Hazard, La crisi della coscienza europea, trad. Serini,
125-229 (Torino, 1946).
6. Al Bekker e al Thomas dedica pagine vivaci P. Hazard, op. cit., 179 sgg.
Per maggiori particolari si vedano l’agile monografia di W. P. C. Knuttel,
Balthasar Bekker (den Haag, 1906); e il vivace studio di F. Battaglia, C.
Thomas, filosofo e giurista (Roma, 1935). Sui precedenti del diritto naturale
può essere sempre utile G. Montemayor, Storia del diritto naturale
(Palermo, 1911). Con maggiore impegno: E. Restivo, La filosofia del diritto
di natura (Palermo, 1902); e O. Gierke, G. Althusius e lo sviluppo storico
delle teorie politiche giusnaturalistiche, a cura di A. Giolitti (Torino, 1943);
e G. Corsano, Ugo Grozio (Bari, 1948).
1. Esiste del Bayle tutta una vasta letteratura, la quale però molto di rado ha
messo in luce quanto debbono a lui gli studi del folklore. Fra i saggi più
interessanti si vedano L. Lévy-Bruhl, Les tendences générales de Bayle et
de Fontenelle, «Revue d’Histoire de la Philosophie» (gennaio-marzo 1927);
H. E. Haxo, Pierre Bayle et Voltaire avant les lettres philosophiques
(pubblicazione della Modern Languages Association of America, New
York, 1931); e B. Magnino, Lo scetticismo di P. Bayle, «Giornale critico
della filosofia italiana» (1941) (ripreso in parte nel libro della stessa A., Alle
origini della crisi contemporanea, Roma, 1946). Sull’atteggiamento che il
Bayle ha assunto nei rignardi dei popoli primitivi ha belle pagine il devolvè,
Essai sur P. B., religion, critique et philosophie positive, 395 sgg. (Paris,
1906). A titolo di curiosità si veda H. Robinson, The Great Comet of 1860.
An Episode in the History of Rationalism (Northfield, 1916).
5-7. Dobbiamo al Carré una recente edizione critica del De l’origine des
fables (Paris, 1932), troppo imbottita e irsuta forse, ma quanto mai utile per
i vasti riferimenti che l’accompagnano. Il Carré nelle sue note si sforza di
dimostrare che le idee manifestate in questo saggio si erano venute
formando nel Fontenelle fin dal 1680. Il che gli permette di considerare il
Fontenelle come il primo precursore del comparativismo, avendo egli così
preceduto il Bayle, il Tournemine ecc. Fatto è però che il comparativismo
aveva già avuto tutta una schiera di anticipatoli (dal Léry al Vossio). Sulle
fonti che hanno portato il Fontenelle a darci un’interprelazione falsa del
mondo primitivo, convincenti le considerazioni del Carré alle pp. 52-54.
Rimandi: A. Lang, Myth, Ritual and Religion, 2, 321 sgg. (London, 1887).
8. Sul concetto dello spirito delle nazioni si veda per tutti il bel libro di F.
Meinecke, Cosmopolitismo e Stato nazionale, trad. Oberdorfer (Firenze,
1930). Rimandi: (a proposito della citaz. di Saint-Evremond) C. Antoni, La
lotta contro la ragione, 8 (Firenze, 1942); e B. Groethuysen, Origini dello
spirito borghese in Francia, trad. Forti, 52 (Torino, 1949).
PARTE SECONDA
Capitolo sesto
1-4. Nel Fueter, Storia della storiografia moderna, trad. Spinelli (Napoli,
1944), manca un qualsiasi accenno all’opera del Lafitau, alla quale invece
ha dedicato la sua attenzione il Meinecke, Die Entstehung des Historismus
(Ber-lin, 1936). Il M. mette soprattutto in rilievo l’impressione suscitata in
Europa dalle notizie del Lafitau inerenti al mondo primitivo. Ma non è qui
che va ricercata la validità dell’opera del Lafitau, ampiamente illustrata da
Padre G. Schmidt, Semaine de l’Ethnologie religieuse (Paris, 1913) (il
quale però immobilizza il Lafitau in quella che è la sua opinione più
discutibile, e che cioè i selvaggi sono ancor oggi quel che erano ieri); dal
Bros, L’ethnologie religieuse, 120 sgg. (Paris, 19382); dal Saintyves, Les
origines de la méthode comparative, et la naissance du folklore, «Revue de
l’Histoire des Religions», 57 sgg. (1932); e dal Pinard de la Boullaye,
L’étude comparée des religions, 1, 182 sgg. (Paris, 1922). Rimandi: B. de
Juvenel, Il potere, trad. Serini, 7 (Milano, 1947); G. Van der Leuw, La
religion dans son essence et ses manifestations, trad. Marty, 672 (Paris,
1948); e A. Van Gennep, Religions, Mœurs et Légendes, 5, 130 sgg. (Paris,
1914).
8. Sull’ampio apporto dato agli studi delle tradizioni popolari dal Muratori
si veda G. Cocchiara, Storia degli studi delle tradizioni popolari in Italia,
34-41 (Palermo, 1947). Si aggiunga: B. Brunello, Il pensiero politico del
Settecento, 100 sgg. (Milano, 1942); L. salvatorelli, Il pensiero politico
italiano dal 1700 al 1870, 90 sgg. (Torino, 19492); e G. Bonomo, Il
contributo di L. A. Muratori allo studio delle tradizioni popolari, in
Miscellanea di studi muratoriani (Modena, 1951).
Capitolo settimo
1-3. Manca uno studio completo che illustri e documenti l’interesse del
Rousseau tanto per l’etnologia quanto per il folklore. Si vedano comunque
su di lui i recenti lavori dello Schinz, La Pensée de J.-J. Rousseau, 50 sgg.
(Paris, 1929); del Wrighter, The Meaning of Rousseau (Oxford, 1929). Sul
Rousseau etnologo: G. Cocchiara, Il mito del buon selvaggio, 15 sgg.
(Messina, 1948). Buone pagine, sempre sullo stesso argomento, in G.
Ferretti, L’uomo nell’infanzia (Città di Castello, s. d.); L. Grosso, Leopardi,
Stendhal e Nietzsche, 151 sgg. (Napoli, 1933); e C. Dawson, Progresso e
Religione, trad. Foà (Milano, 1948). Per le fonti etnografiche: A. Van
Gennep, Religions, Mœurs et Légendes, 5, 141-47 (Paris, 1914). Rimandi:
E. Cassirer, Das problem J.-J. Rousseau, «Arch. f. Gesch. der Philosophie»,
42 (1930); e O. Vossler, L’idea di Nazione dal Rousseau al Ranke, trad.
Federici Airoldi, 13-39 (Firenze, 1949).
4. Del Goguet traccia un brillante profilo il Van Gennep, op. cit., 5, 154-
156. R. Schmidt, L’anima dei primitivi, trad. it., 12 (Roma, 1931), avvicina,
e non senza ragione, il Condorcet dell’Esquisse al Goguet. Il Sébillot, Le
Paganisme contemporain chez les peuples celto-latins, 50 (Paris, 1908),
ebbe già ad osservare che gli enciclopedisti non fecero entrare nel ciclo
dello loro ricerche lo studio delle superstizioni e della «mitologia rustica».
Sul che si veda anche A. Van Gennep, Manuel de folklore français
contemporain, 1, 12-13 (Paris, 1937-38). Un esame attento rivela infondata
l’osservazione del Sébillot. Si veda, ad esempio, in proposito: F. Venturi, Le
origini dell’Enciclopedia, 103 sgg. (Firenze, 1946).
6-8. Sul Boulanger si veda, per tutti, il bel libro di F. Venturi, L’antichità
svelata e l’idea del progresso in N. A. Boulanger (Bari, 1947) (in particolar
modo le pp. 124-140, dove è ricordata tutta la bibl. dell’argomento). Si
aggiunga A. Van Gennep, op. cit., 5, 179-201. Ivi 3, 21-32, un saggio sul
Demounier. Rimandi: G. F. Finetti, Difesa dell’autorità della Sacra
Scrittura contro G. B. Vico, dissertazione del 1768, con intr. di B. Croce, 21
(Bari, 1936); e Lettere inedite di B. Tanucci a F. Galiani, a cura di F.
Nicolini, «Arch. storico per le provincie napoletane», 30, 233 sgg.
Capitolo ottavo
5-8. Alle Reliques sono stati dedicati ampi studi. Fra i più importanti: M.
Willinski, Bishof Percy’s Bearbeitung des Volksballaden und Kunstgedichte
seines Folio-Manuscriptes (Leipzig, 1932); e C. V. H. Marwell, Thomas
Percy, Diss. Gottingen (1934). Per maggiori dettagli si veda, però, la ricca
bibl. che in proposito ci da il Baldi, Studi sulla poesia popolare
d’Inghilterra e di Scozia (Roma, 1949). Rimandi: S. Baldi, ibidem, 42-58,
67; e F. Meinecke, Senso storico e significato della storia, trad. Mandalari,
158 (Napoli, 1948). La frase del Wordsworth è tolta dalla appendice che
segue la prefazione delle Lyrical Ballads quali apparvero nella seconda
ediz. L’immagine della poesia popolare che viene chiamata a rinsanguare e
a rinfrescare la poesia senza aggettivi è del De Sanctis, il quale nella sua
Giovinezza (cap. XXV) ha questa pagina quanto mai significativa: «Parlai
della poesia solenne e della poesia popolare. Mostrai che il cammino delle
forme poetiche è determinato dalla civiltà, e si va sempre verso la maggiore
libertà di congegno e verso la maggiore popolarità. A quel modo che la
lingua, arricchendosi, va sempre più rompendo i suoi nativi confini, e si va
sempre più accostando alle forme popolari del dialetto; a quello stesso
modo la poesia produce con più libertà nelle sue forme, e si rinfresca e si
rinsangua dell’immaginazione popolare».
Capitolo nono
1. Sull’azione mediatrice della Svizzera, oltre ai citati lavori del Van
Tieghem, si veda l’acuto saggio di F. Ernst, La tradition médiatrice de la
Suisse au XVIII e siècle et au XIX e siècle, «Revue de Liner. Comp.», 6, 549-
60 (1926). Su B. de M.: F. Meinecke, Die Entstehung des Historismus, 1, 2
sgg. (Berlin, 1936); e C. Antoni, La lotta contro la ragione, 7-12 (Firenze,
1942). La tesi che B. de M. ci abbia dato il primo e famoso esempio di
esegesi inerente al carattere dei popoli è di M. Fubini, Stile e umanità di G.
B. Vico, 171 (Bari, 1946).
7. Sul Müller, oltre al Feller, op. cit. (che lo mette in rapporto col Mallet e
col Sismondi), si veda soprattutto E. Fueter, Storia della storiografia
moderna, trad. Spinelli, 2, 47 (Napoli, 1944). Il giudizio del De Sanctis
sullo Schiller è nei Saggi critici, e precisamente nel saggio dedicato a
Giambattista Niccolini.
1. Esiste sullo Sturm und Drang una vasta letteratura che nel 1923 è stata
passata in rassegna da V. Santoli in appendice alla sua traduzione di O.
Walzel, Il Romanticismo tedesco (Firenze, 1923). Si integri però con la
bibliografia più recente che ci da L. Bäte, J. G. Herder (Stuttgart, 1948).
Dello Herder si vedano Sämtliche Werke, a cura di B. Suphan (Berlin, 1877-
1910, 32 Bd.). Opere principali sullo Herder, di cui abbiamo tenuto conto:
C. Joret, H. et la Renaissance littéraire de l’Allemagne (Paris, 1875); K.
Stadelmann, Der historische Sinn bei Herder (Halle, 1928); W.
Kohlschmidt, Herder-Studien (Berlin, 1929); A. Gillies, Herder und Ossian
(Berlin, 1933). Riferimenti: F. Meinecke, Senso storico e significato della
storia, a cura di Mandalori, 60 (Napoli, 1948); e C. Antoni, La lotta contro
la ragione, 152 (Firenze, 1942).
4-5. Sul concetto che lo Herder ebbe della poesia popolare e sulle raccolte
che precedono i suoi Volkslieder, si veda la importantissima introduzione di
E. Meyer in Herder, Stimmen der Völker, a cura dello stesso Meyer
(Stuttgart, 1887). Si aggiunga: B. Croce, La forma primitiva della poesia
secondo Hamann e Herder, in Conversazioni critiche, 1, 53-58 (Bari,
19242). Dello stesso Croce (anche per i riferimenti al Bürger) si veda pure
Poesia popolare e poesia d’arte, 14 sgg. (Bari, 1938). Sui rapporti fra
Herder e Wolf, si vedano le acute considerazioni di M. Bréal, Pour mieux
connaître Homère (Paris, 1906), e di P. Levy, Geschichte des Begriffes
Volkslied (Berlin, 1911). Da integrare con B. Croce, Il Vico e la critica
omerica, in Saggio sullo Hegel, 263, 76 (Bari, 19273). Per altre notizie: la
prefazione di A. Galletti a G. Berchet, Lettera semiseria di Grisostomo
(Lanciano, 1913). Riferimenti: E. Cassirer, Philosophie der symbolischen
Formen, 1: Die Sprache, 123 sgg. (Berlin, 1923).
6-7. Sul concetto che lo Herder ha intorno alla tradizione, intesa questa in
senso religioso, si veda, per tutti, G. Van der Leeuw, La religion dans son
essence et ses manifestations, trad. Marty, 676 sgg. (Paris, 1948). Sulla
metamorfosi herderiana ha ottime pagine C. Antoni, op. cit., 171 sgg. Sui
rapporti fra nazione e umanità quali furono intesi dallo Herder si veda A.
Farinelli, Herder e il concetto della razza nella storia dello spirito, in
Franche parole alla mia nazione (Torino, 1949). Sulla missione del popolo
tedesco: R. Mondolfo, Il primo assertore della missione germanica, «Riv. d.
nazioni latine» (giugno 1918). Da integrare con H. O. Ziegler, Die Moderne
Nation, 50 sgg. (Tübingen, 1931); e P. Viereck, Dai romantici a Hitler, trad.
Astrologo e Pintor, 67 sgg. (Torino, 1948). Il Viereck è convinto che senza
lo Herder «il culto nazista e wagneriano del popolo organico e istintivo non
avrebbe potuto esistere», ma aggiunge che «nella Germania di Hitler lo
Herder sarebbe stato imprigionato come un pacifista e un internazionalista»
(p. 69). Il fatto è che questi rapporti sono sempre vaghi e superficiali in
quanto non tengono conto di un principio: cioè che gli ideali di un’epoca
possono degenerare in un’altra. Si vedano in, proposito le considerazioni di
G. Barbagallo, Come si generò il nazismo, «Nuova Rivista Storica», 2 sgg.
(1944-1945). Riferimenti: la Romantische Schule di H. Heyne fu pubblicata
nel 1836; trad. it., 41 sgg. (Roma, 1927). Su Christian Heyne si veda, per
tutti, A. Bernardini e G. Righi, Il concetto di filologia e di cultura classica
nel pensiero moderno, 233 sgg. (Bari, 1947). È noto per altro che fin dal
1765 lo Heyne, in De studii historici ad omnes disciplinas utilitate,
necessitate ac praestantia, ammoniva che una disciplina, la quale viva
appartata non può essere illuminata da quella luce né vista in quelle feconde
attinenze che le vengono dall’affinità con le altre. Sui rapporti fra Herder e
Lessing si veda N. Černyševskij, Lessing nella storia del popolo tedesco,
«Società», 4, 40 (1948).
PARTE TERZA
Capitolo undicesimo
5. Delle Vorlesungen über schöne Literatur und Kunst abbiamo una ottima
ediz. a cura del Minor (Heilbronn, 1884) (in 3, 18, l’elogio alla poesia
popolare). Sul contributo che G. A. Schlegel ha dato agli studi del folklore
si veda E. Tonnelat, op. cit., 34-35.
5. Vastissima la bibl. cui ha dato luogo il credo di Babbo Jahn (che i nazisti
hanno rimesso a nuovo e rispolverato, sappiamo bene con quali conse
guenze). Di essa da un ampio ragguaglio il Viereck, Dai romantici a Hitler,
trad. Astrologo e Pintor, 79-104 (Torino, 1948). È interessante vedere come
le idee dello Jahn furono poi riprese dallo hauer, Deutsche Gottschau
(Stuttgart, 1934). Ma su ciò si veda E. De Martino, Intorno a una storia del
mondo popolare subalterno, «Società», 5, 417-18 (1949). Rimandi: H. von
Treitschke, Deutsche Geschichte im 19. Jahrhundert, 3, 7 (Berlin, 1886-
95); e A. Spamer, Usi e credenze popolari, «Lares», 10, 289-90 (1939).
6-7. Fondamentale, per i precedenti della scuola storica, il lavoro del lands-
berg, Geschichte der deutschen Rechtswissenschaft (Berlin, 1910).
Monografie di notevole interesse: S. Ennecerus, Fr. K. von Savigny und die
Richtung der neueren Rechtswissenschaft (Marburg, 1879); e A. Stoll, Fr.
K. von Savignys sächsische Studienreise 1799 und 1800 (Cassel, 1890). Per
la bibl. it., anch’essa vastissima, si veda B. Brugi, Introduzione
enciclopedica alle scienze giuridiche e sociali nel sistema della
giurisprudenza, 55 sgg. (Milano, 19074); e G. del Vecchio, Lezioni di
filosofia del diritto, 101 sgg. (Milano, 19465). Sul valore del diritto
popolare si veda il recente libro di E. Sauer, Grundlehre des Völker-rechts
(Köln, 19482). Sul valore della consuetudine come fatto normativo (cui si
appella la nostra legislazione) si veda per tutti: N. Bobbio, La consuetudine
come fatto normativo (Padova, 1942). Rimandi: G. Sorel, Les illusions du
progrès, 33 sgg., (Paris, 1908); R. Jhering, La lotta per il diritto, trad.
Mariano, 24 sgg. (Bari, 1935); e F. Meinecke, op. cit., 265.
3-5. L’edizione più recente dei Kinder- und Hausmärchen è stata curata nel
1936 da Otto Ubbelohde. In Italia: trad. integrale (dei primi due volumi) a
cura di Giara Bovero (Torino, 1951). Monografie notevoli: R. Steig, Zur
Entstehungsgeschichte der Märchen und Sagen der Brüder Grimm, «Arch.
f. das Studium der neueren Sprachen», 107, 277 sgg. Dello stesso: Zu
Grimms Märchen, ibidem, 118, 17 sgg. Altre notizie e giudizi in F.
Tonnelat, Les contes des frères Grimm; études sur la composition et le style
du recueil des Kinder- und Hausmärchen (Paris, 1912); in I. Lefftz,
Märchen der Brüder Grimm (Heidelberg, 1927); e in S. Thomson, The
Folktale, 367 sgg. (New York, 1946) (dove è ricordata la più recente bibl.
dell’argomento). La lista dei riscontri iniziata da W. Grimm è stata
continuata, con risultati eccellenti, da J. Bolte e G. Polivka, Anmerkungen
zu den Kinder-Hausmärchen der Brüder Grimm (5 Bd., Leipzig, 1913-32).
Si aggiunga: L. Mackensen, Handworterbuch des deutschen Märchens
unter besonderer Mitwirkung von J. Bolte (Leipzig, 1930-36). Rimandi: L.
Mackensen, Gli studi sul patrimonio narrativo, «Lares», 10, 364 (1939)
(utilissimo anche per la bibliografia citata). Sulle saghe si veda S. Aschner,
Die deutschen Sagen der Brüder Grimm (Berlin, 1909),
7. Sulla teoria di J. Grimm inerente alla lingua e dei suoi rapporti col Bopp
e il Rask, si veda per tutti il lavoro di B. Terracini, Guida allo studio della
linguistica storica, 1: Profilo storico-critico, 71-72 (Roma, 1949). La teoria
indo-europeista che servì di base anche allo studio della novellistica, è
illustrata, con ricchezza di particolari, da J. W. Spargo, Linguistic Science in
the Nineteenth Century (Cambridge, Mass., 1931). Altre notizie e giudizi in
Pagliaro, Sommario di linguistica ario-europea, 1, s. v. Bopp, Grimm ecc.
(Roma, 1930).
8. Sul patriottismo dei Grimm si vedano i volumi citati nelle bibl. del § 1. Si
veda, pure, il penetrante saggio di J. Huizinga, Sviluppo e forme della
coscienza nazionale in Europa sino alla fine del secolo decimonono, in
Civiltà e storia, trad. Chiaruttini, 255-56 (Modena, 1946) (dove è esaminato
il discorso di J. Grimm, De desiderio patriae). Rimandi: B. Terracini, op.
cit., 1, 72.
Capitolo quattordicesimo
2. Sullo Scott folklorista si veda A. Lang, Sir Walter Scott and the Border
Minstrelsy (London, 1910). Sulla validità delle sue antiquitates: B. Croce,
Poesia e non poesia, 59-70 (Bari, 1916). Sullo Scott storico: E. Fueter,
Storia della storiografia moderna, trad. Spinelli, 2, 131 sgg. (Napoli, 1944)
(di cui però non condivido l’idea che il primo a formulare la teoria locale
sia stato lo Chateaubriand e che lo Scott abbia sviluppato sistematicamente
le suggestioni del romantico francese). Rimandi: J. G. Lockhart, Memoirs of
the Life of Sir W. Scott, 1, 50 sgg. (London, 1837-38).
3. Sul preromanticismo francese note e notizie bibliografiche in G.
Cocchiara, Il mito del buon selvaggio, 20 sgg. (Messina, 1948). Si
aggiunga: A. Pizzorusso, Senancour (Messina, 1950). Sarà utile consultare,
sia pure a scopo polemico, L. Reynaud, Le Romantisme. Les origines anglo-
germaniques (Paris, 1929), che considera il Romanticismo francese
addirittura come un’infezione. Sugli inizi del folklore francese si veda il
saggio di H. Tronchon, Quelques notes sur le premier mouvement
folkloriste en France, Mélanges Baldensperger No. 2, 296 sgg. (Paris,
1930). Ma soprattutto: A. Van Gennep, Manuel de folklore français
contemporain, 1, 32 sgg. (Paris, 1937-38) (in 3, 12 sgg. è riprodotto il
questionario Dulaure-Mangourit). Nel Recueil Centenaire Soc. nationale
Antiquaires France, 1804-1904, vi è un notevole articolo del Gaidoz, De
l’influence de l’Académie celtique sur les études de folklore, dove è
segnalato l’influsso che le ricerche dell’Accademia ebbero su J. Grimm
quando si recò a Parigi nel 1804. Altre notizie in M.-J. Durry, L’Académie
celtique et la chanson populaire, «Revue de Littérature Comparée», 9, 62-
73 (1929). Sui vari contributi pubblicati nelle varie annate dei «Mémoires
de l’Académie Celtique» (poi «Mém. Soc. Antiquaires France») si veda A.
Van Gennep, op. cit., 3, 4, s. v. Bourquelot, Maury ecc.
2-3. Sui primi folkloristi russi e sugli autori russi che si sono ispirati al
folklore si veda l’interessantissima opera di A. Pypin, Istorija russkoj
etnografii (4 T., Petersburg, 1890-91). Notizie bibl. più aggiornate in J. M.
Sokolov, Russian Folklore, 20-21, 30-31 (New York, 1950). Da integrare
con D. Zelenin, Russische Volkskunde, 15-50 (Berlin, 1927), e per la parte
letteraria con E. Lo Gatto, Storia della letteratura russa, 1, 44 sgg.
(Firenze, 19443). Rimandi: M. Mila, Breve storia della musica, 264
(Milano, 1948).
PARTE QUARTA
Capitolo sedicesimo
2. Sul problema degli ariani si veda, oltre il Pinard de la Boullaye, op. cit.,
1, 342, 352, il recente volume di G. Poisson, Les Aryens (Paris, 1934) (dove
è citata la vasta bibliografia dell’argomento). Al Gobineau e al suo recente e
nefasto influsso hanno dedicato di recente notevoli pagine il Cassirer, Il
mito dello Stato, trad. Pellizzi, 327 sgg. (Milano, 1950); e P. Viereck, Dai
romantici a Hitler, trad. Astrologo e Pintor, 108 sgg. (Torino, 1948).
3-4. Sulla interpretazione meteorologica del mito e sugli influssi che sul
Müller esercitarono i suoi predecessori si vedano, per tutti, il vecchio ma
pur sempre utile lavoro del Sayce, The Principles of Comparative Philology
(Lon-don, 1875); e R. Pettazzoni, Nozioni di mitologia (Roma, 1949). Altre
notizie in L. Spence, An Introduction to Mythology (London, 1921); e in A.
K. Krappe, La genèse des mythes, s. v. (Paris, 1938). Riferimenti: E.
Cassirer, op. cit., 44.
5. Sul posto che al Müller spetta nella storia delle religioni si veda R.
Pettazzoni, Svolgimento e carattere della storia delle religioni (Bari, 1934).
Altre notizie in J. Reville, Les phases successives de l’histoire des religions,
s. v. (Paris, 1909); A. Bros, L’ethnologie religieuse, 48 sgg. (Paris, 19382); e
G. Schmidt, Manuale di storia comparata delle religioni, trad. Bugatto, 59-
65 (Brescia, 1934).
1-4. Sui rapporti fra il Benfey e il Müller si veda il saggio dello stesso
Müller sulla migrazione delle favole, pubblicato per la prima volta nella
«Contemporary Review» del luglio 1870. Sulla teoria orientalista si vedano,
anche per i numerosi richiami bibliografici ivi contenuti, i lavori del Bédier,
Les Fabliaux, 40-44 (Paris, 1893); di A. H. Krappe, The Science of
Folklore, 10 sgg. (London, 1930); e S. Thomson, The Folktale, 376 sgg.
(New York, 1946). Sulle grandi raccolte orientali – è noto che il
Panciatantra in Italia fu tradotto dal Pizzi (Torino, 1896) – da un
ragguaglio rapido ma preciso S. Battaglia, Contributi alla storia della
novellistica (Napoli, 1947). Rimandi: V. Keller, Über die Geschichte der
Griechen Fabeln, 333 (Leipzig, 1870); e F. Ribezzo, Nuovi studi sulla
origine e sulla propagazione delle favole indo-elleniche, 10-20 (Napoli,
1901) (dove sono discusse le teorie del Benfey e dei suoi avversari).
5. Gli innumerevoli saggi del Köhler nei quali egli dimostrava di conoscere
davvero l’intero patrimonio novellistico europeo sono stati adunati da un
suo fedele discepolo, J. Bolte, e pubblicati con il titolo: Kleinere Schriften
(3 Bd., Weimar, 1898-1900). Lo stesso Bolte, in collaborazione con E.
Schmidt, curò anche il lavoro del Köhler, Über Märchen und Volkslieder
(Berlin, 1894). Bibl. sul Cosquin in A. Van Gennep, Manuel de Folklore
français contemporain, 4 s. v. (Paris, 1937-38).
7-8. Sulla scuola finnica si vedano soprattutto Krappe, op. cit., 10, 42 sgg.;
e Thomson, op. cit., 394 sgg. Sulle origini del melode sierico geografico si
veda F. Kruger, Geographie des traditions populaires en France, 4 sgg.
(Mendoza,1950). Su Kaarle Krohn si veda il commosso saggio di P. E.
Pavolini, «Lares», 4, 3 sgg. (1933). Il calalogo dell’Aarne è slalo
perfezionato da uno dei più grandi folkloristi che abbia l’America, Stith
Thompson (cfr. The Types of The Folktale di A. Aarne, trad. e ampl., da
Stith Thompson, Folklore Fellows Communications No. 74, Helsinki,
1928). Allo stesso Thompson dobbiamo oggi inoltre il più ricco repertorio
dei temi e dei motivi novellistici, Motif-Index of Folk-Literature. A
Classification of Narrative Elements in Folktales, Ballads, Myths, Fables,
Medieval Romances, Exempla, Fabliaux, Jestbooks and Local Legends (6
voll., FF. C. Nos. 106, 109, 116, 117, Helsinki, 1932-36). Per le critiche
rivolte a tale scuola si veda J. M. Sokolov, op. cit., 90 sgg.; e A. Van
Gennep, op. cit., 1, 28 sgg. Riferimenti: K. Krohn, La méthode de M. Jules
Krohn, Congr. Internat. des Traditions Populaires - Paris 1889, 64-68 (Paris,
1891); e E. Morote Best, Elementos de folklore, 245 sgg. (Cuzco, 1950). Si
veda pure l’acuta comunicazione di C. W. von Sydow, Circulations des
contes populaires, Trav. Ier Congr. Inlernal. de Folklore, 132 sgg. (Tours,
1938).
Capitolo diciottesimo
1-3. Sulle origini della filologia romanza è sempre utile il vecchio lavoro di
G. Grober, Grundriss der romanischen Philologie, 1 (Strassburg, 1904-062).
Allre nolizie in A. Monteverdi, Introduzione allo studio della filologia
romanza (Roma, 1943). Dello stesso A. si veda il saggio Neolatine, in Saggi
neolatini, 3-22 (Roma, 1945). Si vedano anche L. Sorrento, Medievalia
(Brescia, 1944); e G. Tagliavini, Le origini delle lingue neo-latine
(Bologna, 1949). Sull’apporto dei romantici ledeschi allo sludio della
filologia romanza si veda G. Bertoni, Le origini della letteratura romanza
nel pensiero dei romantici tedeschi (Leipzig, 1928). Per una puntuale
bibliografia inerente alle varie questioni dell’epopea francese si vedano J.
Bédier, Les légendes épiques, 3, 200-88 (Paris, 1912); A. Viscardi, Le
origini (Milano, 1939); e I. Siciliano, Le origini delle canzoni di gesta
(Padova, 1940). Dello stesso Viscardi, Posizioni vecchie e nuove della
storia letteraria romanza (Milano, 1944) e Storia della letteratura d’oc e
d’oil (Milano, 1952). Di notevole interesse sul Paris rimangono i saggi di F.
Novati, «Emporium» (1903), e di P. Rajna, «Atti R. Accad. della Crusca»
(1904). Si veda pure, nonostante i dissensi, J. Bédier, Hommage a G. Paris
(Paris, 1904). Riferimenti: E. Monaci, G. Paris, «Nuova Antologia» (1°
aprile 1903). Sull’origine della lirica romanza si veda per la vasta bibl.
dell’argomento G. Errante, La lirica romanza delle origini (New York,
1943). Dello stesso: Marcabru e le fonti sacre dell’antica lirica romanza
(Firenze, 1946).
1-2. Not. e bibl. sul Child in S. Baldi, Studi sulla poesia popolare
d’Inghilterra e di Scozia, 21-37 (Roma, 1949). Il Santoli, I canti popolari
italiani, 90 (Firenze, 1940), osserva giustamente che «il passaggio
dell’antico modo di raccogliere e di pubblicare canti popolari alla nuova
maniera iniziata dai Grundtvig e dai Nigra è in certa guisa paragonabile al
passaggio dalla grammatica empirica o astratta o puristica alla linguistica
comparata e storica». Sul Nigra si veda G. Cocchiara, Storia degli studi
delle tradizioni popolari in Italia, s. v. (Palermo, 1947). Alla bibl. ivi citata
si aggiunga ora V. Santoli, Gli studi di letteratura popolare, estr. da
Cinquant’anni di vita intellettuale italiana 1896-1946. Scritti in onore di B.
Croce, 2 (Napoli, 1950). Riferimenti: S. Baldi, op. cit., 14.
3-8. Notizie bibliografiche sui vari autori trattati: G. Cocchiara, op. cit., s. v.
e V. Santoli, Gli studi di letteratura popolare cit., s. v. Per lo studio delle
norme areali e della loro applicazione negli atlanti linguistici note
bibliografiche in V. Santoli, I canti popolari cit., 54. Riferimenti: G.
Pasquali, in D. Comparetti, Virgilio nel Medio Evo, a cura di G. P., 1, p.
XXI (Firenze, 1937); e F. Neri, Storia e poesia, 15 sgg. (Torino, 1936).
Capitolo ventesimo
PARTE QUINTA
Capitolo ventunesimo
1-8. Note e notizie bibliografiche sul Tylor in G. Cocchiara, Il mito del buon
selvaggio, 61-92 (Messina, 1948). Di particolare interesse: P. Radin,
Primitive Man as Philosopher (London, 1927); e R. H. Lowie, The History
of Ethnological Theory (London, 1937).
Capitolo ventiduesimo
6. Sull’Usener si vedano i saggi del Farnell, del Wissowa e del Kroll cit. da
H. Pinard de la Boullaye, L’étude comparée des religions, 1, 356 (Paris,
1922). Rimandi: R. Pettazzoni, Nozioni di mitologia, 37 sgg. (Roma, 1949).
7. Sul Dieterich si veda M. Eliade, op. cit., s. v. Sugli scopi e i confini del
l’etnologia giuridica acute le osservazioni di F. Battaglia, Diritto e filosofia
della pratica, 20 sgg. (Firenze, 1932). Alla bibl. ivi citata si aggiunga
l’aureo lavoro del Vinogradov, Outlines of Historical Jurisprudence
(Oxford, 1920).
3-8. Sulle teorie del Frazer si vedano, per tutti: G. Davy, Sociologues d’hier
et d’aujourd’hui (Paris, 1931); R. H. Lowie, The History of Ethnological
Theory (London, 1937), e G. Cocchiara, Il mito del buon selvaggio
(Messina, 1948). Si aggiunga, specialmente per il concetto sulla magia, E.
De Martino, Il mondo magico (Torino, 1948). Un’ampia rassegna critica
che in fondo comprende quanto di più notevole si sia pubblicato nel campo
della storia delle religioni pro e contro Frazer si trova in G. Schmidt, Der
Ursprung der Gottesidee, 1, s. v. (Münster, 1926). Dello stesso autore:
Manuale di storia comparata delle religioni, trad. Bugatto, 165-280
(Brescia, 1934). Altre notizie in Pinard de la Boullaye, L’étude comparée
des religions, 1, 352-89 (Paris, 1922); e in C. Dawson, Progresso e
religione, trad. Foà, 58 sgg. (Milano, 1948). Buona la monografia di R. H.
Downie, James George Frazer, a Portrait of a Scholar (London, 1940).
Sugli interessi che l’opera del Frazer ha suscitato non solo nel campo della
psicologia, ma anche in quello della filosofia (dal Delacroix al Brunschvieg,
dal Freud al Róhein, dallo Jung all’Aldrich, dal Bergson al Boutroux e
soprattutto al Cassirer) si vedano C. Delacroix, La mentalité primitive
(Paris, 1926), e R. Cantoni, I primitivi (Milano, 1941). Si aggiunga che non
sarebbe possibile capire l’atmosfera che creano certe poesie dello Eliot o
alcune pagine del Mann e del Lawrence senza conoscere il Golden Bough.
Né ha torto, quindi, lo stesso Eliot, quando afferma che il Golden Bough ha
esercitato un’influenza notevolissima sulla sua generazione. Si veda in
proposito T. S. Eliot, Collected Poems 1909-1935 note a The Waste Land
(London, 1936).
Capitolo ventiquattresimo
5-6. Sul Pensiero del Mac Culloch, uno dei più acuti interpreti di quel
mondo celtico cui allora dedicava ampie ricerche anche il Rhys, si consulti
l’ampia opera di O. Dähnhardt, Natursagen. Eine Sammlung
naturdeutender Sagen, Märchen, Fabeln und Legenden (Leipzig, 1907
sgg.). Il D. non solo ci ha dato un’ampia classificazione di temi novellistici
(fra i soggetti: la natura, gli animali, le piante), ma ci ha mostrato anche
come la favola, se è un’interpretazione di esperienze passate, lo è anche di
esperienze presenti. Il che, del resto, qualche anno dopo verrà riaffermato
dal von der Leyen nel suo bel libro Das Märchen (Leipzig, 19253). Si
collega direttamente al Mac Culloch e attraverso lui al Lang e all’Hartland
la Weston, cui dobbiamo due ottimi lavori: The Legend of Sir Perceval
(London, 1909), e From Ritual to Romance (Cambridge, 1920). Non è altro
che un riassunto del Mac Culloch il libro di Macleod Yearsley, The Folklore
of Fairy-Tale (London, 1924) (manchevole anche nella parte bibliografica).
Per quanto riguarda gli usi nuziali, si tengano presenti i lavori di H.
Baechtold, Die Gebräuche bei Verlobung und Hochzeit (Basel, 1942); e di
R. Corso, Patti di amore e pegni di promessa (S. Maria Capua Vetere,
1925).
7. Sulla Gomme e sul lavorio critico intorno al problema etnologico dei
giuochi fanciulleschi di notevole interesse sono le note, gli escursi e le
citazioni che accompagnano il libro dello Hirn, I giuochi dei bimbi, trad.
Faggioli, 227 sgg. (Venezia, 1929). Dello stesso Hirn merita di essere
ricordato il volume The Origins of Art (London, 1902). Per lo studio delle
relazioni fra canto, danza e giucco ha bellissime pagine F. B. gummere, The
Beginning of Poetry, 337-46 (New York, 1901). Riferimenti: G. Pitrè,
«Archivio per lo studio delle tradi zioni popolari», 18, 143 (1899).
8. Sulla teoria del Gomme inerente alla natura del folklore, si vedano: W.
Crooke, Scientific Aspects of Folklore, «Folklore», 23, 14 sgg. (1912); oltre
i vari indirizzi presidenziali pubblicati in «Folklore» (1895 sgg.). Contro: si
vedano C. Knortz, Was ist Volkskunde und wie studiert man dieselbe?, 212
sgg. (Jena, 1900); G. Pitrè, Per l’inaugurazione del Corso di
Demopsicologia nella R. Università di Palermo, «Atti R. Accad. Se. Leu.
ed Arti», 7 sgg. del l’estratto (1911); R. Corso, op. cit., 35 sgg. (dove il
lettore potrà trovare altri rimandi). Sulla Folklore Society notizie bibl. in A.
Guichot y Sierra, Historia del folklore, 35 sgg. (Madrid, 1922).
Capitolo venticinquesimo
1. Sull’apporto che gli studi di etnologia e di folklore hanno dato agli studi
di filologia classica è assai utile il saggio di H. J. Rose, Modern Methods in
Classical Mythology (London, 1930). Note e notizie nelle opere A.
Gudeman, Grundriss zur Geschichte der Klassischen Philologie (Leipzig,
19092); e di J. E. Sandys, History of Classical Scholarship (Cambridge,
19213). Si deve tuttavia osservare che questo apporto è spesso dimenticato o
misconosciuto dagli storici della filologia classica. Così, ad esempio, in G.
Funaioli, Lineamenti d’una storia della filologia attraverso i secoli, in Studi
di letteratura antica, 1, 185-365 (Bologna, 1946), i nomi di Mannhardt,
Tylor, Frazer ecc. non sono nemmeno ricordati. Il che ci fa ricordare una
celebre recensione del Toutain dedicata al Wissowa e pubblicata nella
«Revue de l’Histoire des Religions», 25, 273 (Paris, 1904), dove si
denunziava il partito preso di quei filologi che, chiusi nelle loro torri, non
volevano vedere o fingevano di non vedere quel che si muoveva intorno a
loro. Anche oggi, del resto, sconcertante è, a volte, l’accoglienza che
ricevono le ricerche degli studiosi di filologia classica che sanno bene quale
sia il valore dell’etnologia e del folklore: due discipline che, in realtà, non
tutti i filologi vogliono studiare e che, dopo tutto, è molto comodo ignorare.
PARTE SESTA
Capitolo ventiseiesimo
1-8. Sul Van Gennep e sul suo sistema si veda R. Corso, Folklore, 97-180
(Napoli, 19432) e la bibliografia ivi citata. Contro le sue pretese biologiche
si veda anche quanto scrive A. Varagnac, Définition du folklore, 18 nota 1
(Paris, 1938). Lo stesso Varagnac si ferma anche sulla insufficienza del
metodo psicoanalitico col quale qualche studioso (ad esempio il Rhoeim) ha
cercato di svelarci il mistero delle tradizioni popolari. Le posizioni del Van
Gennep sono state irrigidite da uno studioso belga, A. Marinus, il quale nel
volumetto La causalité folklorique (Bruxelles, 1942), ha affermato che il
folklore è una disciplina essenzialmente sociologica, la quale deve essere
studiata coi metodi della psicologia e non con quelli della storia. La scienza
del folklore, egli aggiunge, si deve disimpegnare dalla «concezione
puramente storica dei fatti» chiamata com’è ad affrontare l’analisi degli
«strati psicologici» ecc. Il Corso, op. cit., 100, giudica l’opera del Marinus,
di cui ci dà una compiuta bibl., come quella di un animoso che è
all’avanguardia del movimento nel Belgio e che ha fatto meritare alla sua
dottrina il nome di neo-folklore. In realtà, il Marinus è uno studioso
completamente sprovveduto di una qualsiasi preparazione storica e
filosofica, e le sue conclusioni sul folklore dimostrano soltanto questo: che
egli non solo non distingue quali sono i confini della psicologia e quelli
della storia, ma è fermo a quella che potrebbe chiamarsi l’archeologia della
storia. Ben diversa la preparazione di S. Erixon, Ethnologie régionale ou
folklore, «Laos», 1, 9 sgg. (Stockholm, 1951), il quale pur affermando che il
folklore deve tener conto di certi aspetti etnologici e psicologici, è
dell’avviso che esso presuppone un’indagine storica e comparativo-storica
della cultura tradizionale. La recensione del Van Gennep al Folklore
français del Sébillot è nella «Revue de l’Histoire des Religions», 25, 407
(1904). Rimandi: P. Toschi, rec. in «Lares», 16, 129-330 (1950).
Capitolo ventottesimo
1-2. Sul Meier e sullo sviluppo degli studi dedicati in Germania alla poesia
popolare nell’ultimo cinquantennio si veda A. Haberlandt, Die deutsche
Volkskunde (Halle, 1935). Altre notizie in P. Toschi, Nuovi orientamenti
nello studio della poesia popolare, «Lares», 16, 2 sgg. (1950).
3-4. Sul neofolklorismo del Naumann esiste una vastissima bibliografia. Si
vedano per tutti: A. H. Krappe, The Science of Folklore, 105, 189 (London,
1930); S. Thomson, The Folktale, 40, 87 (New York, 1946); R. Corso,
Folklore, 104-07 (Napoli, 19432); G. Vidossi, Nuovi orientamenti nello
studio delle tradizioni popolari, Atti III Congr. Arti e Tradizioni popolari,
175 (Roma, 1936). Numerose le critiche al suo sistema: si vedano, ad
esempio, J. M. Sokolov, Russian Folklore, s. v. (New York, 1950); R.
Wolfram, Lo studio della danza popolare in Germania e C. Hahm,
L’indagine sull’arte popolare in Germania, «Lares» 10, rispettivamente 341
sgg., 384 sgg. (1939).
6-8. Sugli sviluppi del folklore russo si cfr. soprattutto J. M. Sokolov, op.
cit., 30-92. Altre notizie in M. Azadovskij, Elude du folklore en URSS
(1918-32), «V.O.K.S.» [Organo della Società per le relazioni culturali tra
l’URSS e l’estero], 40-65 (1933); e in A. Marinus, Ethnographie, folklore et
archéologie en Russie soviétique, «Bull. Soc. Roy. Belge d’Anthropologie
et Préhistoire», 49, 177-86 (1934). Informatissimo e preciso il saggio di L.
Hippius e V. Čičerov, Trent’anni di studi sovietici sul folklore, «Rassegna
della Stampa Sovietica», nn. 4-5 (1949). Da integrare con E. De Martino,
Etnologia e folklore nella Unione Sovietica, in Scienza e cultura nell’URSS
(Roma, 1950). Riferimenti: P. Toschi, rec. alla trad. francese del cit. libro
del Sokolov in «Lares», 15, 105 (1949); C. W. von Sydow, Circulation des
contes populaires, Trav. Ier Congr. Internat. de Folklore, 132 sgg. (Tours,
1938); S. Baldi, Studi sulla poesia popolare d’Inghilterra e di Scozia, 55
sgg. (Roma, 1949).
Indice dei nomi
Aarne A.
Abdallah Ibn ul-Muqaffa
Addison J.
Afanasev A.
Afzelius A. A.
Alais (d’) V.
Alciato A.
Alexandri V.
Altusio
Ampère J.-J.
Anacreonte
Andersen H. C.
Anderson W.
Andree R.
Andreev A. N.
Antoni C.
Ariosto L.
Aristofane
Aristotele
Arnaldo A.
Arndt E. M.
Arnim (von) L. A.
Arwidson A. J.
Aulnoy (de) M.-G.
Azadovskij M. K.
Bachofen J. J.
Bächtold-Stäubli H.
Bacone F.
Baldi S.
Baltus (Padre)
Banier A.
Barbi M.
Bartoli D.
Basile G. B.
Bastian A.
Bayle P.
Becker Ph.-A.
Becq de Fouquières L.
Bédier J.
Behn A.
Bekker B.
Bellini G.
Benfey T.
Berchet G.
Bérenger-Féraud L.-J.-B.
Bernier F.
Bestužev-Marlinskij A. A.
Binni W.
Blackwell F. T.
Blair R.
Bloch M.
Bloch P. J.
Blücher G. L.
Boccaccio G.
Bodin J.
Bodmer J.
Böhme F. M.
Böhme J.
Boileau N.
Bolte J.
Bonald (de) L.-G.-A.
Bopp F.
Bossuet J.-B.
Boulanger N.-A.
Bourne H.
Bouterwek F.
Bowring J.
Brahms J.
Brand J.
Bréal M.
Breitinger J. J.
Brentano K.
Bronnitsyn B.
Bronzino
Brosses (de) C.
Browne T.
Buchan G.
Buffon (de) G.-L.-L.
Bugge S.
Bürger G. A.
Burke E.
Burns R.
Byron G.
Čaadaev P. Ja.
Caballero F.
Calepio
Calvino
Campanella T.
Carducci G.
Carmeli M.
Carré J.-R.
Cartesio
Cassirer E.
Castillo (del) H.
Cattaneo C.
Caudwell C.
Čelakowsky F. L.
Cervantes M.
Cesare
Cesareo G. A.
Cesarotti M.
Chardin
Charron P.
Chateaubriand (de) F.-R.
Chaucer G.
Chauviré R.
Cherbury (of) H.
Chiabrera G.
Child J. J.
Chopin F.
Christiansen R. T.
Cicerone
Čičerov V.
Ciezkowski A.
Claudius M.
Clodd E.
Cloots A.
Coirault P.
Coleridge S. T.
Colet H.-R.
Collins W.
Comparetti D.
Comte A.
Constant B.
Conti N.
Cook A. B.
Corneille P.
Cosquin E.
Costa G.
Cox G. A.
Craveri R.
Crawley E.
Cretet E.
Creuzer F.
Croce B.
Cronia A.
Čulkov M. P.
Cuoco V.
Dahlman F. C.
Dalrymple D.
D’Ancona A.
Danilov K.
Dante
D’Armancour P.
Daub K.
Davy G.
Dawson C.
De Ferraris A. (Galateo)
Defoe D.
De Gubernatis A.
Delehaye H.
Della Valle P.
De Lollis C.
Del Rio M.
De Martino E.
Demeunier J.-N.
De Nobili R.
De Sanctis F.
Dessauer R.
De Visser M. W.
Diderot D.
Dieterich A.
Diez F.
Di Francia L.
Di Giovanni G.
Diodoro Siculo
Dobroljubov N. A.
Dobrovsky V. N.
Doncieux G.
Dostoevskij F.
Droysen T.
Dufresny Ch.
Dulaure J.-A.
Dumersan Th. M.
Dumézil G.
Dupuis C.-F.
Duran A.
Durkheim E.
Eckermann J. P.
Edmont E.
Edwards W.
Eichendorff J.
Eliade M.
Epicuro
Erodoto
Esopo
Fara G.
Farnell E. T.
Fauriel C.
Fawtier R.
Fénelon
Fherle E.
Fichte G.
Ficino M.
Finetti G. F.
Flores P.
Fontenelle (de) B.
Foscolo-Benedetto L.
Fournier E.
Foy W.
Frazer J. G.
Frobenius L.
Fubini M.
Fueter E.
Fustel de Coulanges N.-D.
Gabotto F.
Gabrieli F.
Gaidoz H.
Galateo (vedi De Ferraris A.)
Galiani F.
Galileo
Galland A.
Garnier J.
Gautier L.
Gebelin (de) C.
Geiger P.
Geijer E. I.
Gentile A.
Gerbi A.
Gerhard E.
Giannone P.
Gibbon E.
Gilliéron J.
Gioberti V.
Gladstone W. E.
Gleim J. W. L.
Glinka M. I.
Gobineau (de) A.
Goethe W.
Gogol N.
Goguet A.-Y.
Gomme A. B.
Gomme L. B.
Góngora (de) L.
Gorkij M.
Görres J.
Gottsched J. C.
Gozzi G.
Graebner F.
Graf A.
Gramsci A.
Gravina G. V.
Gray T.
Gregorio di Tours
Grimm J.
Grimm W.
Groethuysen B.
Grozio U.
Grundtvig S.
Guérin (de) M.
Guizot F.
Haberlandt A.
Haberlandt M.
Hagedorn F.
Hahm K.
Hakluyit R.
Haller (von) A.
Hamann J. B.
Hardy T.
Harrison J. E.
Hartland S. E.
Harwood E.
Hazard P.
Hegel G.
Heine H.
Helvétius C.-A.
Herd D.
Herder J. G.
Heyne C. G.
Hilferding A. F.
Hippius L.
Hirn J.
Hoffmann-Krayer E.
Hubert H.
Huet P. D.
Hugo V.
Huizinga J.
Humboldt W.
Hume D.
Huvelin P.
Imbriani V.
Institoris H.
Jahn F. L.
Jeanmaire H.
Jeanroy A.
Jhering C.
Jolles A.
Jones W.
Jouvenel (de) B.
Kallas (Krohn) A.
Kant I.
Karadžič V. S.
Karamzin N. M.
Keller A.
Keltuyala V. S.
Ker W. P.
Kerbaker M.
King J. A.
Kircker A.
Kireevskij I.
Kireevskij P.
Klopstock F. S.
Köhler R.
Kolberg O.
Kollár J.
Kopitar J.
Koppers W.
Krohn I.
Krohn J.
Krohn K.
Krylov I. A.
Kuhn A.
La Bruyère (de) J.
Lachmann K.
La Créquinière (Padre)
Lafitau J.-F.
La Fontaine (de) J.
La Hontan (de) A.-L.
Lallemand C.
Lamprecht K.
Landau M.
Lang A.
Las Casas B.
La Villemarqué H.
Lawson J. C.
Lazarus M.
Le Brun (Padre)
Le Force (M.lle)
Lehmann O.
Leibniz G. W.
Lejeune (Padre)
Lenartowicz I.
Leopardi G.
Lermontov M. J.
Léry (de) J.
Lescarbot M.
Lessing H. E.
Lévy-Bruhl L.
Licurgo
Liebrecht F.
Liungmann W.
Livio
Locke G.
Lo Gatto E.
Loiseleur-Deslongchamps A.
Loisy A.
Lönnrot E.
Lopez de Gómara F.
Lorenzo il Magnifico
Lot F.
Lowth R.
Lubbok J.
Lutero
Luzel F.
Machiavelli N.
Mac Culloch J. A.
Mackensen L.
Mac Lennan J. F.
Macpherson J.
Maione I.
Maistre (de) X.
Mangourit M.
Mann T.
Mannhardt W.
Manzoni A.
Maometto
Marana G. P.
Marett R. R.
Marillier L.
Martens F. F.
Martire P.
Marx K.
Mauss M.
Mazzini G.
Meier J.
Meinecke F.
Meli G.
Menéndez Pidal R.
Mercier S.
Mérimée P.
Messia A.
Meyer P.
Michel F.
Michelet J.
Mila M.
Milá y Fontanals M.
Miller O. F.
Milton J.
Molinaro del Chiaro L.
Monaci E.
Monboddo J. B.
Montaigne (de) M.
Montesquieu (de) C.-L.
Morgan L. H.
Mörike E.
Moro T.
Mosè
Möser J.
Müllenhoff K.
Müller J.
Müller (de) J.
Müller M.
Muralt (von) B. L.
Muralt J.
Murat (M.me de)
Muratori L. A.
Mussorgskij M. P.
Nájera (de) E.
Napoleone
Naumann H.
Neri F.
Nerval (de) G.
Newton I.
Nicolai F.
Niebuhr B. G.
Niemcewicz J. U.
Nietzsche F.
Nigra C.
Nilson M. P.
Nodier C.
Novalis H. F.
Novali F.
Nutt A.
Nyerup C.
Olrik A.
Omero
Ovidio
Ozanam A. F.
Paolo Diacono
Paris G.
Pascal B.
Pasquali G.
Percy T.
Perrault C.
Pessler W.
Pestel P. I.
Pettazzoni R.
Petrarca F.
Pickard-Cambridge A.
Pictet A.
Pictorius L.
Pigafetta M.
Pinard de la Boullaye H.
Pitagora
Pypin A. N.
Pitrè, G.
Pitt H.
Placucci M.
Platone
Plinio il Vecchio
Plutarco
Polier (de) A.
Polivka G.
Poliziano A.
Polo M.
Pope A.
Propp V. Ja.
Puchta G. F.
Pufendorf S.
Pulci L.
Puškin A. S.
Quinet E.
Rabelais F.
Racine J.-B.
Rajna P.
Ralston W. R. S.
Ramsay A.
Ramusio
Ratzel F.
Razin S.
Reinach S.
Renan E.
Ribezzo F.
Ricci M.
Ridgeway W.
Riehl W. H.
Robertson Smith W.
Rodionovna A.
Rohde E.
Röhr E.
Rolland R.
Rousseau J.-J.
Rubieri E.
Russo L.
Sacy (de) S.
Sacharov I. P.
Saint-Pierre (de) B.
Saint-Simon (de) L.
Saintyves E. (E. Nourry)
Salomone-Marino E.
Salvemini G.
Sand G.
Santer E.
Santoli V.
Sarpi P.
Sartori P.
Savigny (von) F. K.
Schelling F. W.
Scherer W.
Schiller F.
Schlegel A. W.
Schlegel F. W.
Schleiermacher F.
Schmidt W.
Schubert F.
Schumann R.
Schwartz W.
Schwind (von) M.
Scott W.
Sébillot P.
Sénancour E.-P.
Sepulveda L.
Shaftesbury A. A. C.
Shakespeare W.
Shelley P. B.
Sokolov B.
Sokolov J. M.
Sorel G.
Souvestre E.
Spamer A.
Spee F.
Spencer H.
Spiess K.
Spinoza B.
Spitzer L.
Sprat T.
Sprenger J.
Staël (de) A.-L.-G.
Stasov V. V.
Stein (von) H. F. K.
Steinthal H.
Strabone
Straparola G. F.
Sydow (von) C. W.
Tacito
Taine H.
Talvi (vedi Voiart E.).
Tassoni A.
Tavernier J.-B.
Temple W.
Tereščenko A.
Terracini B.
Tertulliano
Thibaut A. F. J.
Thierry A.
Thiers J.-B.
Thomasius
Thoms W.
Thomson J.
Tieck J. L.
Tiersot J.
Tille V.
Toland J.
Tolstoj L.
Tommaseo N.
Tommaso d’Aquino
Tonnelat E.
Topelius Z.
Toschi P.
Tournemine (Padre)
Treitschke (von) H.
Trevelyan G. M.
Troya C.
Turgenev I. S.
Tylor E. B.
Tyrrel G.
Tyssot de Patot
Uhland L.
Usener H.
Valla L.
Van der Leeuw G.
Van Gennep A.
Varrone
Vega (de la) G.
Veneziano A.
Venturi F.
Verdi G.
Verga G.
Verri A.
Veselovskij A.
Vico G. B.
Vidossi G.
Viereck P.
Vincenti L.
Virgilio
Visconti P. E.
Voiart E.
Voltaire
Vossler C.
Wackenroder E.
Wagener A.
Wagner R.
Waitz T.
Walzel A.
Warton T.
Weber A.
Weinhold F. A.
Westermarck E.
Wieland C. M.
Wilamowitz (von) U.
Winckelmann J. J.
Wolf F. A.
Wolf J. W.
Wolfram R.
Wood R.
Wordsworth W.
Wundt G.
Young E.
Zola E.
Zuinglio
Žukovskij V. A.
Indice
Premessa
2. Il messaggio dell’Oriente
1. Gli Stranieri-Simboli
2. L’Oriente come vivaio di forze, di ideali e di religioni
3. «Di Dio è l’Oriente, di Dio è l’Occidente»
4. Il Turco e il Persiano danno lezioni all’Europa
5. L’Egitto, fonte di giovinezza
6. I conti di fata e l’Oriente
7. Le Mille e una notte
8. Noi e gli Orientali: differenze e concordanze
3. L’Europa fra religione e superstizione
1. La lotta contro l’errore
2. La Riforma e la comparazione fra il meraviglioso cristiano e il meraviglioso pagano
3. Il Malleus Maleficarum e la letteratura demonologica
4. Bodin e le streghe
5. Anticipatori dell’Illuminismo: Browne
6. Bekker e Thomasius
7. Il deismo e la religione naturale
8. Teologismo folkloristico
6. L’uomo e la storia
1. Verso una nuova «scienza dei costumi»
2. Lafitau e le sue Mœurs des Sauvages Amériquains
3. Etnografia e storia
4. La Scienza Nuova
5. Vico e il mondo primitivo
6. Alle origini, la poesia
7. Vico, le nazioni barbare e le civili
8. Le Antiquitates del Muratori
9. Poesia e tradizione
1. Il «primitivo» a casa propria
2. Muralt e Haller
3. Bodmer e il folklore della Svizzera
4. Poesia e sentimento nazionale
5. Le scoperte del Bodmer
6. L’opera storiografica del Möser
7. Müller e il colore locale
8. La mediazione della storiografia svizzera nella storia del folklore europeo