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"Image - immaginario: punti di contatto tra gli studi postcoloniali e


l'imagologia letteraria"

Chapter · January 2013

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1 author:

Nora Moll
Università Telematica Internazionale UNINETTUNO
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Imagology View project

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Lingue e letteratura
5
I contributi pubblicati nel volume
sono stati sottoposti ad un processo di
selezione e di revisione (peer-review).
La presente pubblicazione è deriva-
ta dalla ricerca di Ateneo Sapienza
2009-2011, prot. n. C26F09HEZH.

prima edizione aprile 2013

© 2013 NOVALOGOS/Ortica editrice soc. coop., Aprilia


www.novalogos.it

ISBN 978-88-97339-18-2
POSTCOLONIALE ITALIANO
Tra letteratura e storia

a cura di Franca Sinopoli


Nota e ringraziamenti

Il volume scaturisce da un progetto di ricerca di Ateneo Sapienza, realiz-


zato dal 2010 al 2011. La curatrice è particolarmente grata alle colleghe e
ai colleghi che hanno animato il seminario con i frutti delle loro ricerche
e agli studenti del corso di letterature comparate dell’a.a. 2010-2011,
dedicato agli studi postcoloniali italiani, i quali hanno proficuamente
seguito i lavori del seminario apportando con le loro osservazioni e do-
mande ulteriori stimoli alla ricerca. Si ringraziano infine il Dipartimento
di Studi greco-latini, italiani e scenico-musicali, la Facoltà di Lettere e
Filosofia e l’Ateneo Sapienza per il sostegno ricevuto all’iniziativa.
Indice

7 Introduzione di Franca Sinopoli

11 Capitolo primo Roberto Derobertis


Dislocazioni. Gli studi postcoloniali in Italia: contesti,
elaborazioni, problemi

31 Capitolo secondo Nora Moll


Image – immaginario: punti di contatto tra gli studi
postcoloniali e l’imagologia letteraria
55 Capitolo terzo Maria Grazia Negro
“Un giorno sarai la nostra voce che racconta”: la que-
stione linguistica nella letteratura postcoloniale italiana

76 Capitolo quarto Andrea Sirotti


Riflessioni su lingua, retorica e stile in due autrici post-
coloniali italiane: una letteratura maggiorenne?

89 Capitolo quinto Simone Brioni


Pratiche «meticce»: narrare il colonialismo italiano a
«più mani»

120 Capitolo sesto Barbara De Vivo


Alla ricerca della memoria perduta. Contro-memorie
della colonizzazione italiana in Etiopia nel romanzo Re-
gina di fiori e di perle di Gabriella Ghermandi
147 Capitolo settimo Daniele Comberiati
Tripoli 1970. Esodo di corpi ammassati, celati, rimossi
174 Capitolo ottavo Antonio M. Morone
Asimmetrie postcoloniali: le relazioni italo-libiche tra
storia e memoria

191 Abstract
199 Autrici e Autori
Capitolo secondo
Image - immaginario: punti di contatto tra gli studi postcolo-
niali e l’imagologia letteraria
Nora Moll

Di fronte all’universo narrativo di un romanzo, al microco-


smo di una poesia, o trattando una pluralità di altri generi let-
terari – occidentali e non – la ricerca e la critica letteraria fino
a una trentina d’anni fa hanno teso a porre in rilievo volta per
volta il rapporto con la tradizione, le singolarità linguistico-
stilistiche, le caratteristiche strutturali, i diversi rimandi inter-
testuali, la capacità di definire un mondo altro e di trasportarvi
dentro il lettore, in una fusione di orizzonti dalla quale nessu-
na esperienza ermeneutica può prescindere. Pur nella grande
varietà di approcci e di impostazioni epistemiche che si sono
alternate nel corso del secolo scorso, coagulandosi in voci au-
torevoli di singoli critici e teorici ma anche in scuole nazionali
non sempre dialoganti fra di loro, una costante verso la qua-
le i critici si sono mossi affinando il proprio armamentario
teorico-metodologico è stato quel quid caratterizzante la forza
immaginativa, la Einbildungskraft dalla quale stile, forma, lin-
guaggio, tematiche sembrerebbero derivare. E per comprende-
re l’immaginario di un singolo scrittore, sono stati alternativa-
mente auscultate la voce e la testimonianza dello stesso autore,
la realtà testuale isolata in un close reading o fatta reagire con
altri testi e linguaggi artistici e non. Tutto ciò all’insegna dello
sforzo di comprendere, di penetrare nel vivo di una espressivi-
tà considerata da sempre nella sua innocenza: nell’innocenza
data dallo stesso fatto, evento, mestiere letterario.
Con l’avvento degli studi postcoloniali, una delle più
grandi scoperte, dolorose o scandalose se vogliamo, è stata la
31
capitolo secondo
constatazione che la letteratura innocente non è. O meglio
che la sua innocenza si fermerebbe in ambito estetico, men-
tre spingendosi verso la sfera etico-politica ed entrando nella
realtà della ricezione interculturale ed extraeuropea – come fu
necessario dopo secoli di indiscusso eurocentrismo – essa si
trasformerebbe in colpevolezza. In una strana alchimia, l’oro
della creazione letteraria all’improvviso rivelava così la sua na-
tura di piombo, nero o pesante. Da lì, una serie di strategie,
ad alcune delle quali si accennerà in seguito ma che saranno
illustrate anche nelle parti restanti di questo volume, di porre
il singolo testo in un contesto sin allora mai evidenziato con
tale insistenza: quello della ideologia, della politica, del discor-
so culturale che nella longue durée del dominio dell’Occidente
su gran parte del resto del mondo è stato capace di produrre
fiori di bellezza, ma di una bellezza colpevole, mendace, assas-
sina. Letteratura e razzismo, letteratura e ideologia, letteratura
e imperialismo, sono questi i binomi affrontati da una teoria
che si incardina nell’esame di uno degli aspetti della letteratu-
ra occidentale: la capacità e insieme l’incapacità di raccontare
l’“altro”, la necessità, insieme meravigliosa ed arrogante, di de-
finirlo, di porlo in relazione, spesso di inferiorità, con chi vede
e narra e poeta, e con il suo pubblico. Tuttavia, all’interno della
ricerca comparatistica e più precisamente imagologica, ancora
prima dell’avvento della teoria e della critica postcoloniali, di-
versi passi in tale direzione erano già stati fatti, circoscrivendo
con non molte eccezioni come ambito d’azione quello delle
sole letterature occidentali e di conseguenza indagando circa il
reciproco “guardarsi” delle varie nazioni europee.
In seguito si cercherà di individuare dei punti di contatto
tra i due ambiti di ricerca, ricorrendo ad alcuni Gedankenexpe-
rimente nel tracciare un percorso che va dalla (presunta) inno-
cenza dell’immagine letteraria al più vasto e non sempre ben
definito concetto di immaginario, degli “sperimenti mentali”
che non possono che derivare, ancora una volta e inevitabil-
mente, dalla stessa letteratura.
32
punti di contatto tra gli studi postcoloniali e l’imagologia letteraria
L’innocenza perduta dell’immagine letteraria

Mi guardi, mi guardi da vicino, ogni volta più vicino e allora


giochiamo al ciclope, ci guardiamo ogni volta più da vicino
e gli occhi si ingrandiscono, si avvicinano fra loro, si sovrap-
pongono e i ciclopi si guardano, respirano confusi, le bocche
s’incontrano e lottano tepidamente, si mordono con le lab-
bra, appoggiano appena la lingua tra i denti, giocano nei loro
recinti là dove un’aria pesante va e viene col suo profumo
antico e il suo silenzio. Allora le mie mani cercano di immer-
gersi nei tuoi capelli, di accarezzare lentamente la profondità
dei tuoi capelli mentre noi ci baciamo come se avessimo la bocca
piena di fiori o di pesci, di movimenti vivi, di fragranze oscure.
E se ci addentiamo, il dolore è dolce, e se affoghiamo in un
breve e terribile assorbirsi dell’alito, quell’istantanea morte è
bella. E c’è una sola saliva e un solo sapore di frutta matu-
ra, e io ti sento tremare su di me come una luna nell’acqua.

La resa narrativa di un bacio e di ciò che lo contorna, nel-


la sua meravigliosa declinazione offerta da Julio Cortázar nel
suo romanzo Rayuela1, è certamente un esempio di scena de-
scrittiva lontanissima dalle tematiche sulle quali abitualmente
focalizzano l’attenzione gli studiosi del fenomeno letterario
postcoloniale2. Eppure, con il beneficio di arrivare per via
1
Il romanzo dell’autore argentino, pubblicato per la prima volta nel 1966
per Editorial Sudamericana, Buenos Aires, è stato tradotto in italiano da
Irene Buonafalce sotto il titolo di Il gioco del mondo (Rayuela) per Einaudi,
Torino, 2004. Il passo citato è tratto dal cap. 7, a pagina 42 nella edizione
italiana.
2
Tuttavia va ricordato che Silvia Albertazzi, una delle prime studiose che
in ambito italiano ha tentato di inquadrare il fenomeno, attribuisce ad esso
anche le letterature latinoamericane e quindi autori come Julio Cortázar.
Ora, nonostante i punti di contatto tra le letterature postcoloniali pro-
dotte in ambito africano o asiatico e quelle latinoamericane e caraibiche
(tra cui la tendenza ad un reale meraviglioso che la studiosa giustamente
attribuisce a Alejo Carpentier, riconoscendovi un tentativo di poetica col-
lettiva aderente ad una specifica auto-immagine culturale), in quest’ultime
si pone sotto una luce molto diversa la reazione e il modo di rapportarsi

33
capitolo secondo
contrastiva a queste stesse tematiche, essa ben mette in mo-
stra il potere immaginativo (“immaginifico” come un poeta
decadente italiano avrebbe detto) della parola letteraria, la
sua capacità di definire sempre nuove immagini associate ad
azioni e personaggi, pur nella totale immobilità della fabula e
nell’arresto descrittivo di una scena. Cortázar, e con lui il suo
narratore interno, in questo passaggio ricco di similitudini e
metafore nel mettere in scena un bacio sceglie una via imper-
via che, pur non rifuggendo da un certo romanticismo stili-
stico, sembra voler voltare le spalle alla ben nota codificazione
che tale topos ha ricevuto nel corso della storia letteraria occi-
dentale: l’avvicinarsi dei due volti è come ipostasiato nell’im-
magine (mitologica ma soprattutto antiestetica) del Ciclope,
l’aria delle bocche è “pesante” (sebbene di una pesantezza “an-
tica” e silenziosa). Poi, quasi sviando l’associazione obbligato-
ria tra la bocca e un certo fiore (la rosa), la descrizione sfocia
in una similitudine (“ci baciamo come se avessimo la bocca
piena di fiori o di pesci”) che ingloba quasi cannibalescamen-
te tale topos floreale, estendendosi subito verso un altro ele-
mento naturale, ma quanto mai lontano da ogni codificazione
precedente (la bocca piena di pesci equivale a un bacio). Nel
bacio messo in scena dall’io-narrante di Cortázar, è l’umano a
dialogare con la natura - e continua a farlo poco più avanti at-
traverso la metafora della “frutta matura” e nella similitudine
della “luna nell’acqua” - e non la natura a fornire i suoi attri-
buti all’umano: e vi dialoga assorbendo da essa dei connotati
inusuali, ma che ampliano l’immaginabile, che attribuiscono
profumo, movimento, umidità, erotismo ad una pratica uma-
na di massima innocenza, spesso lasciata in uno stato di resa

con le vecchie madrepatrie europee, e le loro letterature: una reazione più


all’insegna di un dialogo interculturale e della coscienza di costituirsi atti-
vamente come una nuova élite letteraria mondiale che, viceversa, nei ter-
mini di un “writing back to the center” ai fini di un processo di decoloniz-
zazione culturale e “mentale”. Cfr. Silvia Albertazzi, Lo sguardo dell’altro. Le
letterature postcoloniali, Carocci, Roma, 2000.

34
punti di contatto tra gli studi postcoloniali e l’imagologia letteraria
descrittiva imperfetta e “sotto censura”. Nel dialogo dei corpi
accade quindi allo stesso momento un dialogo con la natura,
che sembra rifuggire i nessi intertestuali e l’astrattezza di una
codificazione letteraria, proprio ai fini di consegnare al lettore
un’immagine di grande innovazione creativa: immagine forse
mai immaginata in questa maniera, ma poi suscettibile di es-
sere ripresa, ricelebrata, tradotta dalla carta alla vita.
Passiamo ad un altro esempio testuale, contenente anch’es-
so metafore e similitudini che attingono all’ambiente naturale:

Forse, come tutti i soldati conquistatori di questo mondo,


presumevo di conoscere la psicologia dei conquistati. Mi sen-
tivo troppo diverso da loro, per ammettere che avessero altri
pensieri oltre quelli suggeriti dalla più elementare natura. For-
se reputavo quegli esseri troppo semplici. Ma dovevo insistere:
gli occhi di lei mi guardavano da duemila anni, con il muto
rimprovero per un’eredità trascurata. E mi accorgevo che nel-
la sua indolente difesa c’era anche la speranza di soccombere.
Perché non capivo quella gente? Erano tristi animali, invec-
chiati in una terra senza uscita, erano grandi camminatori,
grandi conoscitori di scorciatoie, forse saggi, ma antichi e
incolti. […] Erano forse come animali preistorici capitati in
un deposito di carri armati, che s’accorgessero d’aver fatto il
loro tempo e ne provassero perciò una inconsolabile malin-
conia… No, troppo semplice, non avrei mai capito.
La lotta continuò ancora, e avrebbe potuto continuare:
anch’io pensavo ad altro. E invece, com’era cominciata così
bruscamente finì: ma evitava di guardarmi.

Il passaggio che ruota anch’esso dell’incontro tra due uma-


ni è tratto dalle ben note pagine di Tempo di uccidere, di Ennio
Flaiano3. Anche in questo caso, il termine di paragone che
rende immaginabile la scena (quella di un amplesso che senza
mezzi termini può essere definito come uno stupro) è la natura
e il mondo animale. Ma questa volta il lavoro linguistico-im-
3
Ennio Flaiano, Tempo di uccidere, Rizzoli, Milano, 2008 [1947].

35
capitolo secondo
maginativo non è mirato a definire l’evento, la “pratica umana”
nei suoi dettagli più intimi, non è in gioco l’interagire di un
“noi” (e non vi sono baci degni di narrazione): l’occhio anche
questa volta è di un io-narrante maschile, ma più che diventa-
re “ciclopico” a forza di avvicinarsi confondendosi con l’altro,
esso produce uno sguardo massimamente distante che non ri-
corre all’immediatezza di descrizioni sensoriali e sinestetiche
come nel caso di Cortázar, facendo viceversa uso di tutto ciò
che la cultura e i suoi codici definiscono in partenza. Difatti,
la donna indigena oggetto di stupro è costruita narrativamen-
te in quanto associata al paesaggio, visto che sin dall’immagine
attraverso la quale è introdotta sulla scena si differenzia da esso
solo attraverso un oggetto-simbolo, mentre poi sono messi in
evidenza i suoi movimenti indolenti, monotoni, istintivi: mo-
vimenti quasi animaleschi4. Nella pausa descrittiva del pas-
saggio sopraccitato – pausa che precede la conclusione della
lotta del soldato italiano e la veloce ripresa dell’azione vera
e propria, resa in maniera ellittica ed evitando, come l’intera
sezione testuale dedicata all’incontro con la donna indigena,
ogni drammaticismo – l’io narrante assimila quindi sé e la
donna a delle categorie politico-sociali, quelle del “conquista-
tore” e dei “conquistati”, evidenziando in questa maniera la

4
“Per lavarsi la donna aveva raccolto i capelli in una specie di turbante
bianco. Ora che ci penso: quel turbante bianco affermava l’esistenza di lei,
che altrimenti avrei considerato un aspetto del paesaggio da guardare pri-
ma che il treno imbocchi la galleria.”, ivi, p. 38 e sgg. Per una delle prime
e principali interpretazioni di stampo più “culturale” e demistificatorio del
romanzo si veda Giovanna Tomasello, L’Africa tra mito e realtà. Storia della
letteratura coloniale italiana, Sellerio, Palermo, 2004, e in particolare il cap.
VIII. 3, Flaiano e gli incubi della coscienza, pp. 208-215. Per un’analisi
imagologica ed interculturale del tema africano in alcuni narratori del No-
vecento italiano (tra cui Flaiano, Moravia, Pasolini, Celati, Lucarelli, sino
ad alcuni scrittori migranti di origine africana come Ali Farah, Ghermandi
e Lamri) mi permetto di rinviare inoltre a Nora Moll, Immaginari mondiali
italiani del Novecento: il caso dell’Africa (cap. 3. 3), in Armando Gnisci,
Franca Sinopoli, Nora Moll, La letteratura del mondo nel XXI secolo, Bruno
Mondadori, Milano, 2010, pp. 142-186.

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punti di contatto tra gli studi postcoloniali e l’imagologia letteraria
massima distanza tra l’osservatore e l’osservata. Si tratta di una
distanza psicologia e culturale che possiamo quindi collocare
all’estremo opposto rispetto alla vicinanza “ciclopica” del ba-
cio di Cortázar (e che implicava un avvicinamento non solo
attraverso un punto di vista “zoomato” ma anche attraverso
un’etica amorosa), distanza che in parte viene però interrogata
e messa in dubbio, con il senso di distacco ironico (e talvolta
cinico) caratteristico dello scrittore-sceneggiatore italiano. Per
ben tre volte, un “forse” affievolisce infatti asserzioni e para-
goni, ma il tentativo di relativizzare il déjà-vu dell’immagine
culturale che sopraggiunge all’osservatore viene subito ritratto
almeno nei primi due di questi “freni” logico-linguistici: nel
primo caso nell’affermazione della diversità tra l’osservante e
l’osservata e delle categorie a questi associati, nonché in quella
(che oggi definiremmo razzista) della quasi impossibilità di
pensiero in quest’ultima; nel secondo nell’avversativa che in-
troduce il tema della non-appartenenza alla stessa dimensione
storica della osservata e della sua associazione alla pre-istoria
(tema ricorrente in molta letteratura coloniale e postcoloniale
di autori occidentali: si pensi finanche all’interpretazione, di
diversi anni successiva, dell’Africa da parte di un altro scrit-
tore italiano, Alberto Moravia5). Nell’ultimo caso, invece, il
volo della fantasia che dipinge uno scenario distopico fatto di
animali preistorici e carri armati è viceversa frenato dall’asser-
zione di non poter capire, e di conseguenza dell’insufficienza
della imagérie culturale che qui prevale sul tentativo di una
resa narrativa più autentica e originale del nuovo, dello sco-
nosciuto; la conclusione del passaggio, svolta con una con-
cretezza pur ellittica e un cinismo che solo il lettore di oggi
potrà valutare come brutale, soffocherà invece sia la remota
possibilità dell’autentico che l’imponente forza della forma-
zione discorsiva di stampo colonialista e razzista insinuatasi
nel pensiero e nell’immaginazione dell’io narrante.
5
Vedi anche Giovanna Tomasello, cit., cap. IX, L’età del neocolonialismo.
Emanuelli, Moravia e Pasolini, pp. 216-243.

37
capitolo secondo
Tirando brevemente le somme dal nostro confronto te-
stuale, è utile richiamare alla memoria una delle tesi iniziali
formulate da Wolfgang Iser all’interno del suo studio intorno
al rapporto tra il “fittizio e l’immaginario”, secondo la quale
l’immagine letteraria supplisce un’assenza6: difatti, è un co-
strutto verbale che richiama all’immaginazione del lettore (e
prima di lui dello stesso scrittore) un oggetto/evento assente,
lo rende presente senza poter negare la sua assenza. Ma indi-
cando proprio questo gioco tra assenza e presenza, che nel let-
tore fa diventare Erfahrung, esperienza acquisita e formativa,
anche ciò che non appartiene alla nostra sfera dell’Erlebnis,
della esperienza diretta, si insinuano tante possibilità di resa e
di traduzione nel linguaggio verbale, date dal potere evocativo
e inventivo dell’immaginazione letteraria. Non sempre la di-
stanza tra il presente dell’espressione e l’assenza dell’espresso è
una distanza sopra la quale lo scrittore (e il poeta) stende un
ponte dalla fattezza nuova, inaudita, dall’innocenza disarman-
te. Nella ferita che si spalanca tra la presenza della parola e l’as-
senza dell’oggetto/evento, possono fiorire topoi più o meno
abusati o testimonianti una esplicita fedeltà ad una tradizione;
ma in questa ferita, soprattutto quando l’oggetto osservato/
immaginato ed espresso è marcato dall’alterità e dalla distan-
6
Cfr. Wolfgang Iser, Das Fiktive und das Imaginäre. Perspektiven literari-
scher Antropologie, Suhrkamp, Frankfurt/M, 1990, e in particolare le pp.
29-36, in cui l’autore analizza i vari tipi di “sconfinamento” (Entgrenzung,
Grenzüberschreitung) che la finzione letteraria ottiene attraverso il “relazio-
narsi” (Relationierung) con la realtà rappresentata: un processo, questo, che
nonostante l’offerta di un analogon linguistico del rappresentabile e quindi
di una presenza discorsiva indicherebbe allo stesso tempo l’intraducibilità
del rappresentato, e quindi l’assenza dell’oggetto di tale discorso. Lo studio
di Iser (ben noto per le sue teorie della ricezione letteraria), nel quale si
occupa della produzione finzionale di realtà attraverso l’immaginario, ha
finora visto solo una traduzione inglese: Id., The Fictive and the Imaginary.
Charting Literary Antropology, The Johns Hopkins University Press, Lon-
don, 1993. Uno studio fondamentale intorno allo stesso campo d’analisi,
ma di stampo più storico-filosofico, è inoltre offerto da Alan R. White, con
The language of imagination, Basil Blackwell, Oxford, 1990.

38
punti di contatto tra gli studi postcoloniali e l’imagologia letteraria
za culturali (ma anche storiche), di frequente fattori sociali
e condizionamenti ideologico-culturali versano il loro sale7.
Potremmo aggiungere che è sull’esame del dosaggio di quel
sale che intervengono l’imagologia, gli studi culturali nonché
la teoria postcoloniale.

Dall’image all’immaginario

Ripercorrere il passaggio dalla singola immagine letteraria


all’immaginario di un autore – o viceversa cercare di capire la
relazione tra il macrocosmo poetico di un’intera produzione
di un autore e il microcosmo testuale di una pagina o di una
frase – è una delle principali preoccupazioni dell’estetica della
produzione e della ricezione letteraria. Spesso, sono gli stessi
scrittori con le loro riflessioni o dichiarazioni metaletterarie
o di poetica a venire incontro al rovello del critico, metten-
do in evidenza l’importanza di un nucleo immaginario visi-
vo a partire dal quale l’atto creativo in molti casi scaturisce:
dal “poi piovve dentro a l’alta fantasia” dantesco (Purgatorio,
XVII, 25), alla poetica della specularità e del doppio di un
E.T.A. Hoffmann, alle elaborazioni diaristiche e saggistiche di
narratori italiani come Cesare Pavese (ne Il mestiere di vive-
re, 1950) e Italo Calvino (che percorrono tutta la sua opera
per poi condensarsi nelle pagine di poetica comparatistica re-
lative alla Visibilità, delle sue Lezioni americane, 1988), uno
7
Di “violenza della lettera” e di “sguardo del malocchio” ha parlato anche
Jacques Derrida: «Se [la parola letteraria] rappresenta e fa immagine, è per
la mancanza anteriore di una presenza. Supplente e vicario, il supplemento
[lo sguardo del malocchio] è un’aggiunta, un’istanza subalterna che tien-
luogo. In quanto sostituto […] il suo posto è assegnato nella struttura della
marca di un vuoto. Da qualche parte qualcosa si può riempire da sé […]
se non lasciandosi colmare per segno e procura». Cfr. Id., La violénce de la
lettre: de Lévi-Strauss à Rousseau, in De la grammatologie, Les Editions de
Minuit, Paris; trad. it., La violenza della lettera: da Lévi-Strauss a Rousseau,
in Della grammatologia, Jaca Book, Milano, 1998, pp. 201-202.

39
capitolo secondo
dei momenti di più alto valore auto-critico è da sempre stato
l’analisi del rapporto tra l’immaginazione visiva e la sua resa
linguistica: analisi che può servire al recupero dei propri “miti
personali” oppure mettere in evidenza la mediazione fra «la
generazione spontanea delle immagini e l’intenzionalità del
pensiero discorsivo»8.
Tuttavia, la resa di un’immagine e quindi di un oggetto/
evento esterno alla sfera linguistico-espressiva non può essere
ridotta solamente ad un problema linguistico-discorsivo, ri-
coprendo come del resto l’intero fenomeno letterario anche
altre funzioni. Con l’indagine sistematica di Wilhelm Dilthey
(Über die Einblildungskraft der Dichter, 1887) intorno alla
“potenza immaginativa” in letteratura e alle funzioni dell’im-
maginario, all’immaginazione creativa del singolo sono state
infatti attribuite non solo delle qualità eminentemente poe-
tico-espressive, bensì anche conoscitive, in virtù di una tra-
duzione dell’esperienza vissuta (Erlebnis) sul piano dell’espe-
rienza formativa ed estetica (Erfahrung), che può coinvolgere
in un momento successivo anche il lettore; il quale attraverso
quel tipo di esperienza trasmessa può subire una modificazio-
ne della sua stessa sfera emotiva, della sua stessa visione del
mondo. Inoltre, già fin dalle riflessioni di Dilthey, ma anche
in moltissimi momenti meta-letterari di scrittori particolar-
mente sensibili al nesso tra immagine-parola-conoscenza, l’at-
tenzione è stata focalizzata non solo sulla dimensione estetica
intra-letteraria di tale fenomeno, bensì anche sui suoi risvolti
etici, sul suo tendere verso la dimensione pratica dell’agire, di-
mensione ancora una volta strettamente collegata con il con-
cetto di Erfahrung. Anche rimanendo all’interno di un’analisi
prettamente critico-estetica, i “materiali” dell’immaginario
8
Cfr. Italo Calvino, Lezioni americane, in Saggi. 1945-1985, Mario Barenghi
(a cura di), Mondadori, Milano, p. 705. Per il ruolo dell’immaginazione
visiva in Calvino si vedano Alberto Asor Rosa, «Lezioni americane», in Stile
Calvino, Einaudi, Torino, 2001, pp. 63-134, e Marco Belpoliti, L’occhio di
Calvino, Einaudi, Torino, 1996.

40
punti di contatto tra gli studi postcoloniali e l’imagologia letteraria
non possono, come è risaputo, essere ricondotti unicamen-
te alle “visioni” del singolo scrittore, ai suoi miti e simboli
personali, alle sue nevrosi e/o epifanie, ma sono da sempre in
comunicazione con il più ampio bacino delle esperienze, dei
simboli, dei miti, dei topoi di una cultura e dei suoi linguaggi
creativi, verbali e non.
Ed è proprio sullo humus dell’extraletterario, dell’immagi-
nario nel suo versante collettivo e culturale che si è impiantata
fin dai suoi esordi, all’interno della scuola francese sviluppatasi
nei primi decenni del Novecento, l’imagologia comparatistica,
ma anche, successivamente, la teoria postcoloniale. Per l’ima-
gologia, l’elemento minimale del discorso letterario sul qua-
le va focalizzata l’attenzione è denominata image, una forma
specifica di immagine letteraria che, in un primo momento,
sembra aver perso il suo aspetto principale, ovvero il versante
visivo-fantastico, a favore del versante concettuale-conoscitivo
o più precisamente ideologico, ma che tuttavia, a ben vedere,
fa confluire il visivo-fantastico in quello concettuale-cono-
scitivo attraverso un procedimento metaforico e metonimi-
co. Difatti, secondo una delle definizioni correnti offerte da
Joep Leerssen, essa può essere identificata come «the mental
or discursive representation or reputation of a person, group,
ethnicity or ‘nation’»9 la quale va tuttavia tenuta distinta dalle
constatazioni e dalle osservazioni empiriche su gruppi, etnie,
nazioni, culture:

Factual report statements which are empirically testable […]


are not part of image-formation. Images specifically concern
attributions of moral or characterological nature (e.g. “Spa-
9
Cfr. Joep Leerssen, Image, in Manfred Beller, Joep Leerssen, Imagology.
The cultural construction and literary representation of national characters. A
critical survy, Rodopi, Amsterdam/New York, 2007, p. 342. Per la teoria e
soprattutto la metodologia imagologica, di fondamentale importanza sono
inoltre i lavori di Daniel-Henri Pageaux. Per la questione del rapporto tra
image e immaginario, dello studioso francese si può leggere: De l’image à
l’imaginaire, in «Colloquium helveticum», 7, 1988, pp. 9-16.

41
capitolo secondo
niards are proud”); often they take the form of linking social
facts and imputed collective psychologisms. To the extent
that a discourse describing a given nationality, country or
society relies on imputation of national character rather than
on testable fact, it is called imaginated.10

La messa in evidenza più o meno esplicita, attraverso il


discorso letterario, di “caratteri nazionali”, di caratteristiche
psicologiche di intere collettività, fino alla ripresa ma anche
alla creazione di luoghi comuni sull’altro (inteso convenzio-
nalmente come il diverso e distante), è quindi uno degli og-
getti dell’indagine imagologica che all’interno del grande cor-
pus letterario e culturale europeo è riuscita a individuare delle
strutture fisse, delle genealogie imagotipiche e delle polarità
nella reciproca visione tra le varie nazioni11: passione e arro-
ganza spagnola, raffinatezza e immoralità italiana, romantici-
smo e senso del dovere tedesco, e così via. Nel ridurre la com-
plessità del cosiddetto “altro” a stereotipi e luoghi comuni, la
letteratura avrebbe secondo tali studi occupato sia un ruolo
di collettore e di amplificatore (ancora prima dell’avvento dei
mass media) e contemporaneamente quello del fondatore di
veri e propri miti e cliché sull’altro, “stampelle” per un imma-

10
Cfr. Joep Leerssen, op. cit., ivi.
11
Per il concetto di imagotipico e imagotipia si rimanda a Hugo Dyserink,
Komparatistik. Eine Einführung cap. II. 1.4., Komparatistische Imagologie,
Bouvier, Bonn, 1991, pp. 125-133, in traduzione italiana Id., Il punto di
vista sopranazionale dello studio letterario comparato e la sua applicazione
all’imagologia, in Comparare i comparatismi, Armando Gnisci, Franca Si-
nopoli (a cura di), Lithos, Roma, 1995, pp. 52-67. Altri saggi in lingua
italiana che inquadrano l’imagologia (branca di studi maggiormente svi-
luppatasi in Francia, Germania e nei Paesi Bassi) dal punto di vista storico
e metodologico sono: L’immagine dell’altro e l’identità nazionale: Metodi di
ricerca letteraria, Manfred Beller (a cura di), Schena, Fasano, 1996; Nora
Moll, Immagini dell’altro. Imagologia e studi interculturali, in Letteratura
comparata, Armando Gnisci (a cura di), Bruno Mondadori, Milano, 2001,
pp. 185-208; Paolo Proietti, Specchi del letterario: l’imagologia, Sellerio, Pa-
lermo, 2008.

42
punti di contatto tra gli studi postcoloniali e l’imagologia letteraria
ginario collettivo che sembra preferire il già detto all’insolito
e all’autentico: infatti, per tornare su un esempio spesso citato
nelle ricerca di imagologia intraculturale, l’associazione della
passionalità al “carattere” spagnolo è in gran parte dovuta alla
Carmen di Prosper Mérimée, romanzo pubblicato nel 1847 e
ripreso da Georges Bizet nella sua altrettanto famosa versione
operistica del 1875: una potente e ben marcata etero-imma-
gine attraverso la quale non solo è stata definita, in termini
romantici ed esoticizzanti, la coeva cultura spagnola, ma che
è anche servita a tracciare indirettamente un’auto-immagine
culturale proprio in quanto detta passionalità ispanica e gitana
è vista in contrasto con la stessa identità collettiva francese. Un
gioco, questo, tra immagine dell’altro e immagine della stessa
collettività “che guarda”, che può in alcuni casi avere un ul-
teriore risvolto, ossia quello della importazione e dell’interio-
rizzazione dell’image letteraria e culturale che altre collettività
hanno elaborato sul conto della cultura di appartenenza:

It has been observed that in some cases countries have expor-


ted their self-image and that these have been adopted abroad
as hetero-image from hegemonic foreign sources and interio-
rized them as auto-images. There is reason to suspect that the
direction of these processes is determined at least in part by
power relations.12

Prima ancora di giungere all’importante questione del-


le “relazioni di potere” che influiscono sulla formulazione e
sull’“esportazione” di immagini di altre nazioni o culture –
questione che è stata affrontata con particolare rigore dagli
studi postcoloniali, costituitisi in parte come una complessa
analisi delle formazioni discorsive che l’Occidente ha prodotto
sull’Oriente e sull’Africa – è bene mettere in evidenza come la
letteratura non è stata soltanto una sorta di meccanismo pro-
duttore di images: i processi di formazione di un immaginario
12
Cfr. Joep Leerssen, op. cit, p. 343.

43
capitolo secondo
sul culturalmente diverso, le molte connessioni tra auto- ed
etero-images letterarie e culturali, nonché la reazione della col-
lettività “immaginata” (o del singolo rappresentante di questa
collettività) a questo stesso immaginario, sono stati infatti ela-
borati in forma analitica ed esplicativa anche all’interno dello
stesso discorso letterario. Oltre alle ben note Lettres persanes
di Montesquieu (1721), in cui il filosofo francese ironizza sui
costumi e sul “carattere” dei francesi lasciando la parola ad
un fittizio viaggiatore persiano (e che sono uno straordinario
esempio di un’auto-immagine culturale, critica e satirica, co-
struita attraverso un deciso cambiamento del punto di vista e
l’identificazione con lo “straniero visitatore”), possiamo a tal
proposito citare nuovamente Italo Calvino. Il suo racconto
“cosmicomico” I dinosauri13 si presenta infatti come una sorta
di narrazione “a tesi”, laddove la tesi da dimostrare tramite
un’argomentazione che coincide con il procedere della fabula
attraverso una serie di scenari, è di tipo eminentemente ima-
gologico: i discorsi collettivi sull’altro, sul diverso, procedono
e si modificano al di là e oltre la concreta presenza fisica, sto-
rica e sociale dell’oggetto di tali discorsi; ma pur nella loro
astrattezza e pur assumendo le fattezze del mito e della mi-
stificazione, essi possiedono sia una concretezza nella perce-
zione dell’oggetto “guardato”, immaginato e narrato, sia una
consistenza sul piano del reale e delle azioni a favore o ai danni
dello stesso.
Nel caso del racconto calviniano, tale oggetto di un proces-
so imagotipico svolto quasi alla maniera di uno “sperimento
mentale” è esemplificato da un dinosauro, unico superstite
della leggendaria estinzione della specie, dopo 150 milioni
di anni di dominio sui vari continenti. Trovatosi in una co-
munità di “Nuovi”, esseri non meglio specificati, il dinosauro
(apostrofato dai “Nuovi” come “Brutto” e marchiato per la
sua diversità) deve confrontarsi con le dicerie e le mitizzazio-
13
Italo Calvino, Le Cosmicomiche, Mondadori, Milano, 1993 (prima edi-
zione per Einaudi, 1965).

44
punti di contatto tra gli studi postcoloniali e l’imagologia letteraria
ni createsi intorno alla sua specie, la cui appartenenza è da
lui nascosta fino alla fine: in un primo momento gli “antichi”
dinosauri sono visti come brutali e pericolosi, poi diventano
oggetto di rispetto e di ammirazione a causa della loro forza,
per poi cadere, nelle narrazioni dei “Nuovi”, nel ridicolo e
infine nel compassionevole. Di fronte ad ognuna di queste
etero-images – che trovano una loro originale (e divertente)
eco anche nei sogni di Fior di Felce, la “ragazza” da lui corteg-
giata – il Brutto non fa che percepire lo scarto tra una possibile
verità su di sé e sulla sua “gente” (verità ormai non più acces-
sibile a causa della estinzione della sua grande “comunità”) e
i discorsi che circolano di bocca in bocca, di generazione in
generazione, e che costituiscono un immaginario collettivo
all’interno del quale anche il suo essere «un Diverso, uno Stra-
niero, quindi un Infido»14 rimane nella sfera del vago, di una
essenzializzazione che rifugge ogni tentativo di individuare la
sua essenza di persona. Sbalordito e a tratti impaurito dai rac-
conti che ruotano intorno alla sua stessa identità collettiva e
dalla sequenza di etero-immagini mistificatorie che contribu-
iscono ad allontanarlo dalla serena costruzione di una propria
identità individuale, il Brutto non sa e non vuole “usare” ai
suoi fini nemmeno quelle versioni del mito sui Dinosauri che
potrebbero risultare a suo favore, aiutandolo anche a conqui-
stare la “ragazza” da lui corteggiata («Mi succedeva di provare
verso di loro la stessa insofferenza che avevo avuto per il mio
ambiente, e più li sentivo ammirare i Dinosauri più detestavo
i Dinosauri e loro insieme»15). Dopo aver constatato l’impos-
sibilità di essere associato ad un dinosauro “vero” e concreto
attraverso il confronto tra la sua corporatura e quella suggerita
da uno scheletro di un animale della sua stessa specie, il Brutto
si rassegna (non prima però di essersi “ritrovato” e rinnovato
nel corpo di una “mulatta”, incrocio femminile tra un dino-
sauro e un rinoceronte) a questa sorta di onnipotenza della
14
Ivi, p. 91.
15
Ivi, p. 92.

45
capitolo secondo
sfera dell’immaginario, della mitizzazione collettiva che pre-
scinde man mano dallo stesso oggetto mitizzato:

[…] ora sapevo che i Dinosauri quanto più scompaiono tanto


più estendono il loro dominio, e su foreste ben più stermina-
te di quelle che coprono i continenti: nell’intrico dei pensieri
di chi resta. Dalla penombra delle paure e dei dubbi di gene-
razioni ormai ignare, continuavano a protendere i loro colli,
a sollevare le loro zampe artigliate, e quando l’ultima ombra
della loro immagine s’era cancellata, il loro nome continuava
a sovrapporsi a tutti i significati, a perpetuare la loro presen-
za nei rapporti tra gli esseri viventi. Adesso, cancellato anche
il nome, li aspettava il diventare una cosa sola con gli stampi
muti e anonimi del pensiero, attraverso i quali prendono forma
e sostanza le cose pensate: dai Nuovi, e da coloro che sarebbero
venuti dopo i Nuovi, e da quelli che verranno dopo ancora.16

Con grande lucidità, Calvino offre qui una definizione non


solo dei meccanismi dell’immaginario collettivo e dei proces-
si di mitizzazione e di stereotipizzazione al quale esso tende,
ma ricorda anche la già citata assenza dell’oggetto “guardato”
che l’immagine culturale tende a sostituire con «stampi muti
e anonimi del pensiero, attraverso i quali prendono forma e
sostanza le cose pensate»: assenza che nel caso di tali processi,
all’interno dei quali la letteratura in quanto narrazione mitiz-
zante ha da sempre occupato un ruolo di primo piano, può
assumere la forma di un mis-conoscimento colpevole, di una
negazione dell’altro e del diverso, che sospende o rovescia lo
stesso statuto conoscitivo dell’immaginazione letteraria nel
medesimo momento in cui offre delle pericolose scorciatoie
del pensiero e della conoscenza.

16
Ivi, p. 101 (corsivo dell’Autore).

46
punti di contatto tra gli studi postcoloniali e l’imagologia letteraria
Immagini e potere / il potere delle immagini

Come già accennato, gli studi postcoloniali si sono costitu-


iti, a partire dagli anni ’70 dello scorso secolo, principalmente
come reazione all’immaginario occidentale a partire dal punto
di vista extra-europeo dei soggetti delle ex-colonie, i quali han-
no messo in evidenza le interconnessioni tra le sfere del potere
politico ed istituzionale e della cultura. La dimensione poli-
tico-identitaria delle teorie postcoloniali, dapprima sospetta
agli occhi della stessa ricerca letteraria occidentale, è più che
evidente: accompagnando attivamente, a loro volta, il proces-
so politico-culturale della decolonizzazione (all’interno della
quale soprattutto in ambito indiano le teorie marxiste hanno
occupato un ruolo di primo piano), i temi principali affrontati
in tal senso sono stati e continuano ad essere: il contatto tra
culture una volta “distanti”, ma avvicinate attraverso le stesse
pratiche del dominio imperialista, della colonizzazione e della
migrazione, la rappresentazione e l’interpretazione di civiltà
“altre”, la revisione dei canoni letterari, nonché i rapporti tra
le strutture del potere politico e le rappresentazioni discorsi-
ve (indagini all’interno delle quali, com’è risaputo, il pensiero
foucaultiano e le teorie post-strutturaliste hanno man mano
assunto un ruolo di primaria importanza).
Mettendo in evidenza come il campo culturale era stato
visto fino ad allora come «immune ad ogni intreccio con il
potere», mentre «le rappresentazioni [erano] considerate solo
immagini apocalittiche da analizzare sintatticamente e costru-
ire come tante grammatiche di scambio», uno degli studiosi
a dare origine un vero e proprio cambiamento di paradigma
negli studi letterari è stato il comparatista Edward W. Said17.
Oltre ad approfondire a livello teorico e attraverso una lunga
serie di esemplificazioni testuali tale “complicità” che la lettera-

17
Cfr. Edward W. Said, Culture and Imperialism, Knopf, New York, 1993;
trad. it., Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale
dell’Occidente, Gamberetti, Roma, 1998, p. 82.

47
capitolo secondo
tura avrebbe intrattenuto sin dalla modernità e soprattutto tra
il secolo XIX e XX con il progetto e il potere imperialista, Said
è riuscito a “liberare” l’imagologia europea da una prospetti-
va precipuamente e volutamente europea, mostrando nel suo
studio Orientalismo – un esempio di imagologia interculturale
che contravviene, anch’esso volutamente, al principio di neu-
tralità a favore di una presa di posizione politico-identitaria
– come la presenza dell’Oriente nella cultura occidentale sia
stata una presenza solo fittizia, da qualificare non come “veri-
tà” bensì come “rappresentazione”18. Al di là delle critiche che
successivamente furono mosse al capolavoro saidiano, uno dei
suoi aspetti di assoluta novità consiste nella circostanza che
l’“altrove” orientale non viene analizzato a partire dal punto
di vista interno di una cultura che per secoli si è arricchita at-
traverso il confronto e l’immaginazione esoticizzante di un’in-
tera area del mondo, bensì a partire da una location specifica,
quella di uno studioso medio-orientale formatosi attraverso
un confronto attivo con la letteratura, la filosofia e la teoria
letteraria occidentale, ma che pone in primo piano le conse-
guenze etico-politiche di tale immaginario; conseguenze che
non sono state, invece, pienamente valutate da studi analoghi
condotti a partire da un’impostazione imagologica più tradi-
zionale, eppure intenta a uscire fuori dal “laboratorio Europa”
da sempre individuato come il campo privilegiato d’analisi di
quella branca della letteratura comparata19.
18
Vedi Id., Orientalism, Vintage Books, New York, 1978; trad. it., Orienta-
lismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1991. Per l’idea che l’Orientalismo occi-
dentale abbia soppiantato con una serie di formazioni discorsive l’Oriente
storico e reale si vedano soprattutto le pp. 24-25 della edizione italiana.
19
Studi di stampo imagologico sul rapporto tra le letterature europee e
l’Oriente e/o l’Africa e sulla questione letteratura e colonialismo, e con una
particolare attenzione alla francofonia, sono stati condotti da un punto di
vista interno al sistema letterario e culturale europeo soprattutto da Jean-
Marc Moura e da János Riesz: si vedano almeno Jean-Marc Moura, La
Littérature des lointains. Histoire de l’exotisme européen au XXe siècle, Cham-
pion, Paris, 1998; Id., L’Europe littéraire e l’ailleurs, PUF, Paris, 1998; Id.,
Littératures francophones et théorie postcoloniale, PUF, Paris, 1999; János Ri-

48
punti di contatto tra gli studi postcoloniali e l’imagologia letteraria
Oltre a Said, molti altri studiosi etichettati come postcolo-
niali, durante quest’ultimo ventennio hanno concentrato l’at-
tenzione sulle conseguenze, non solo politiche, di un imma-
ginario occidentale che lungo tutta la modernità ha partorito
delle fobie razziste circa le popolazioni extraeuropee e indigene
dell’Asia, dell’Africa, e delle Americhe. Nel suo monumentale
e complesso lavoro The Location of Culture, ad esempio, Homi
K. Bhabha, indica gli effetti deleteri dell’immaginario coloniale
popolato da indigeni neri (indiani, africani, americani) descrit-
ti secondo schemi stereotipati e sottintesi razzisti, anch’essi di
frequente strutturati in maniera bipolare: infatti, l’indigeno è
solitamente visto come un “selvaggio”, ma anche come “il più
ubbidiente dei servitori”, è la personificazione di una “sessua-
lità rampante” e contemporaneamente “innocente come un
bambino”20. Giudizi, questi, che trovano un parallelo nella
saggistica di Ngugi Wa Thiong’O, autore di dichiarazioni de-
mistificatorie più apertamente rivolte alla letteratura europea:

La letteratura che includeva immagini dell’Africa e dell’afri-


cano oscillava tra quella che rappresentava l’africano sempre

esz, Koloniale Mythen, Afrikanische Antworten. Europäisch-afrikanische Lite-


raturbeziehungen, IKO, Frankfurt/M., 2000, Id., Wolfgang Bader (Hrsg.),
Literatur und Kolonialismus. Die Verarbeitung der kolonialen Expansion in
der europäischen Literatur, Lang, Frankfurt/M., 1983. Il concetto di «labo-
ratorio Europa» è tratto dall’imagologo belga Hugo Dyserink: si vedano
Hugo Dyserink, Komparatistik und Europaforschung, Bouvier, Bonn, 1992.
20
Cfr. Homi K. Bhabha, The location of culture, Routledge, London/New
York, 1994, p. 82: «It is recognizably true that the chain of stereotypical
signification is curiously mixed and split, polymorphous and perverse, an
articulation of multiple belief. The black is both savage (cannibal) and
yet the most obedient and dignified of servants (the bearer of food); he is
the embodiment of rampant sexuality and yet innocent and a child; he is
mystical, primitive, simple-minded and yet the most wordy and accom-
plished liar, and manipulator of social forces. In each case what is being
dramatized is a separation – between races, cultures, histories, within hi-
stories – a separation between before and after that repeats obsessively the
mythical moment of disjunction». Lo stesso passo si trova a p. 120 della
traduzione italiana (I luoghi della cultura, Meltemi, Roma, 2006).

49
capitolo secondo
sorridente come l’essere più congeniale, a quella che mostrava
il combattente della resistenza africana come l’autentica rein-
carnazione della crudeltà, vigliaccheria, ignoranza, stupidità,
invidia e finanche cannibalismo. L’africano collaborazionista
fu glorificato. Quello che si opponeva al colonialismo dif-
famato. Ovviamente tutto ciò non era sempre proclamato
esplicitamente. Ma lo scrittore guidava le emozioni dei lettori
in quella direzione, affinché si identificassero con l’africano
che non percepiva contraddizioni tra sé ed il colonialismo,
e si allontanassero dall’africano che controbatteva, quello
che rivendicava quanto gli spettava di diritto, o quello che,
nelle piantagioni di banane, complottava contro il padro-
ne. Ma questi erano personaggi. Erano inoffensivi. Davvero
inoffensivi?21

Ritorna, in questi e moltissimi altri momenti chiave


dell’analisi del discorso culturale e letterario occidentale effet-
tuata da studiosi postcoloniali, un concetto già messo in evi-
denza precedentemente all’interno del nostro ragionamento
circa lo statuto teorico dell’immagine letteraria: quello dell’as-
senza dell’oggetto rappresentato, assenza che nelle formazioni
discorsive che si asserviscono alle pratiche di dominio sulle
popolazioni colonizzate assume l’aspetto scandaloso di una
definitiva e quasi irrecuperabile negazione. Il potere delle im-
magini culturali si esplicita in tal modo nel potere di negare
e di far smarrire l’accesso ad una identificazione più aperta
dell’alterità, capace di subire delle modificazioni nel corso del-
21
Cfr. Ngugi Wa Thiong’O, Decolonizing the Mind. The Politics of Lan-
guage in African Literature, Heinemann, London, 1986; trad. it., Spostare
il centro del mondo, Meltemi, Roma, 2000, p. 181. Nel cap. 17, succes-
sivo a quello dal quale è tratta la citazione e che porta il titolo Razzismo
e letteratura, Wa Thiong’O analizza nello specifico l’immagine dell’Africa
in Karen Blixen, enucleandovi delle immagini non solo pater- (o mater)
nalistiche, bensì anche dei tratti più apertamente razzisti, laddove la servitù
dell’autrice è da lei descritta alla stessa stregua del suo cane, oppure quando
è messa in evidenza la natura infantile dei kikuyu: vedi Il suo cuoco, il suo
cane: l’Africa di Karen Blixen, pp. 183-186.

50
punti di contatto tra gli studi postcoloniali e l’imagologia letteraria
la Storia e di includere la possibilità di considerare quell’“al-
tro” alla pari di sé, e dunque come persona. Molto lucido a
questo proposito lo stesso Bhabha:

L’identificazione e l’identità infatti non sono mai un a prio-


ri né un prodotto finito, ma solo e sempre il problematico
accesso ad un’immagine di totalità. Le condizioni discorsive
di questa immagine psichica di identificazione saranno più
chiare se riflettiamo sulla pericolosa prospettiva implicata
dal concetto stesso di immagine: quest’ultima infatti – intesa
come punto di identificazione – è il contrassegno di un luogo
di ambivalenza, la sua rappresentazione è sempre spazialmen-
te scissa (rende presente qualcosa che è assente) e temporal-
mente differita (l’immagine si pone come rappresentazione
di un tempo che è sempre altrove, di una ripetizione)22.

E più avanti, dialogando con Fanon, oltre con Said, Fou-


cault e Derrida:

Lo stereotipo non è una semplificazione perché è una falsa


rappresentazione di una realtà data; è una semplificazione
perché è una forma fissa, bloccata, di rappresentazione che,
negando il gioco della differenza (gioco che è invece ammes-
so proprio dalla negazione attraverso l’Altro) costituisce un
problema per la rappresentazione del soggetto in significazio-
ni di relazioni psichiche e sociali.23

Verrebbe da chiedersi, infine, se di fronte ai grandi cambia-


menti che lo scenario europeo ha subito a partire dagli anni
’50 – insieme al crollo dei poteri coloniali, la costituizione di
un’ipotesi di governo transnazionale europeo e la trasformazio-
ne delle stesse identità nazionali attraverso il fenomeno della
migrazione, all’interno dell’Europa e dal Sud del mondo verso
il più benestante Nord – la pratica di un’imagologia che presu-
22
Cfr. Homi K. Bhabha, I luoghi della cultura, cit., p. 76. Corsivi nel testo.
23
Ivi, p. 110.

51
capitolo secondo
merebbe la costituzione di identità nazionali storicamente de-
finite abbia ancora un senso, in riferimento al campo letterario
e culturale contemporaneo. Senza dubbio, di fronte alle nuove
identità complesse e miste (sia per nascita sia come risulta-
to della migrazione transnazionale e transculturale) gli studi
postcoloniali sono riusciti a offrire delle risposte più complete,
anche grazie ad una apertura maggiore verso altre discipline.
Stupisce però dolorosamente, oltre al ritorno di pregiudizi na-
zionali all’interno della stessa “vecchia” Europa anche o e so-
prattutto dopo il suo riordinamento prettamente economico
attraverso il trattato di Maastricht, la permanenza di strutture
imagotipiche di stampo coloniale e di pregiudizi razziali nei
confronti di immigrati extra-europei, in presenza di uno sce-
nario interno ormai globalizzato e pluri-culturale (pregiudizi e
fobie che improvvisamente si rovesciano in false filie all’inter-
no delle quali continua ad agire il pensiero metonimico della
“pelle” e dell’animalità). Senza dubbio, più che imputare come
responsabile o “colpevole” la letteratura – ridotta all’interno
dell’attuale società dell’immagine quasi ad ancella di altri lin-
guaggi verbali e non verbali come la televisione e il cinema,
di ben maggiore impatto collettivo – il luogo deputato per
la trasmissione di stereotipi o immagini razziste sono ormai i
mass-media e i nuovi media, solo apparentemente più liberi e
aperti alla pluralità di voci e di idee, ma più spesso ridotti ad
un mero coagularsi del già detto e del già visto.
Compito della letteratura, di fronte a questa situazione sa-
rebbe quello di presentarsi come discorso alternativo al déja-vu
dei media e a quella che da Slavoj Žižek è stata definita come
un’“epidemia dell’immaginario”24. Sfidando calvinianamente
il labirinto, sembra che questa sia una delle poche strade per
espellere le immagini-fantasma che impediscono il dialogo au-
tentico tra gli umani.

24
Vedi Slavoj Žižek, L’epidemia dell’immaginario, trad. it., Meltemi, Roma,
2004.

52
punti di contatto tra gli studi postcoloniali e l’imagologia letteraria
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54
ISBN 978-88-97339-18-2

NOVALOGOS t via Aldo Moro, 43/D - 04011 Aprilia


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finito di stampare nel mese di aprile 2013


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