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Nora Moll
Università Telematica Internazionale UNINETTUNO
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ISBN 978-88-97339-18-2
POSTCOLONIALE ITALIANO
Tra letteratura e storia
191 Abstract
199 Autrici e Autori
Capitolo secondo
Image - immaginario: punti di contatto tra gli studi postcolo-
niali e l’imagologia letteraria
Nora Moll
33
capitolo secondo
contrastiva a queste stesse tematiche, essa ben mette in mo-
stra il potere immaginativo (“immaginifico” come un poeta
decadente italiano avrebbe detto) della parola letteraria, la
sua capacità di definire sempre nuove immagini associate ad
azioni e personaggi, pur nella totale immobilità della fabula e
nell’arresto descrittivo di una scena. Cortázar, e con lui il suo
narratore interno, in questo passaggio ricco di similitudini e
metafore nel mettere in scena un bacio sceglie una via imper-
via che, pur non rifuggendo da un certo romanticismo stili-
stico, sembra voler voltare le spalle alla ben nota codificazione
che tale topos ha ricevuto nel corso della storia letteraria occi-
dentale: l’avvicinarsi dei due volti è come ipostasiato nell’im-
magine (mitologica ma soprattutto antiestetica) del Ciclope,
l’aria delle bocche è “pesante” (sebbene di una pesantezza “an-
tica” e silenziosa). Poi, quasi sviando l’associazione obbligato-
ria tra la bocca e un certo fiore (la rosa), la descrizione sfocia
in una similitudine (“ci baciamo come se avessimo la bocca
piena di fiori o di pesci”) che ingloba quasi cannibalescamen-
te tale topos floreale, estendendosi subito verso un altro ele-
mento naturale, ma quanto mai lontano da ogni codificazione
precedente (la bocca piena di pesci equivale a un bacio). Nel
bacio messo in scena dall’io-narrante di Cortázar, è l’umano a
dialogare con la natura - e continua a farlo poco più avanti at-
traverso la metafora della “frutta matura” e nella similitudine
della “luna nell’acqua” - e non la natura a fornire i suoi attri-
buti all’umano: e vi dialoga assorbendo da essa dei connotati
inusuali, ma che ampliano l’immaginabile, che attribuiscono
profumo, movimento, umidità, erotismo ad una pratica uma-
na di massima innocenza, spesso lasciata in uno stato di resa
34
punti di contatto tra gli studi postcoloniali e l’imagologia letteraria
descrittiva imperfetta e “sotto censura”. Nel dialogo dei corpi
accade quindi allo stesso momento un dialogo con la natura,
che sembra rifuggire i nessi intertestuali e l’astrattezza di una
codificazione letteraria, proprio ai fini di consegnare al lettore
un’immagine di grande innovazione creativa: immagine forse
mai immaginata in questa maniera, ma poi suscettibile di es-
sere ripresa, ricelebrata, tradotta dalla carta alla vita.
Passiamo ad un altro esempio testuale, contenente anch’es-
so metafore e similitudini che attingono all’ambiente naturale:
35
capitolo secondo
maginativo non è mirato a definire l’evento, la “pratica umana”
nei suoi dettagli più intimi, non è in gioco l’interagire di un
“noi” (e non vi sono baci degni di narrazione): l’occhio anche
questa volta è di un io-narrante maschile, ma più che diventa-
re “ciclopico” a forza di avvicinarsi confondendosi con l’altro,
esso produce uno sguardo massimamente distante che non ri-
corre all’immediatezza di descrizioni sensoriali e sinestetiche
come nel caso di Cortázar, facendo viceversa uso di tutto ciò
che la cultura e i suoi codici definiscono in partenza. Difatti,
la donna indigena oggetto di stupro è costruita narrativamen-
te in quanto associata al paesaggio, visto che sin dall’immagine
attraverso la quale è introdotta sulla scena si differenzia da esso
solo attraverso un oggetto-simbolo, mentre poi sono messi in
evidenza i suoi movimenti indolenti, monotoni, istintivi: mo-
vimenti quasi animaleschi4. Nella pausa descrittiva del pas-
saggio sopraccitato – pausa che precede la conclusione della
lotta del soldato italiano e la veloce ripresa dell’azione vera
e propria, resa in maniera ellittica ed evitando, come l’intera
sezione testuale dedicata all’incontro con la donna indigena,
ogni drammaticismo – l’io narrante assimila quindi sé e la
donna a delle categorie politico-sociali, quelle del “conquista-
tore” e dei “conquistati”, evidenziando in questa maniera la
4
“Per lavarsi la donna aveva raccolto i capelli in una specie di turbante
bianco. Ora che ci penso: quel turbante bianco affermava l’esistenza di lei,
che altrimenti avrei considerato un aspetto del paesaggio da guardare pri-
ma che il treno imbocchi la galleria.”, ivi, p. 38 e sgg. Per una delle prime
e principali interpretazioni di stampo più “culturale” e demistificatorio del
romanzo si veda Giovanna Tomasello, L’Africa tra mito e realtà. Storia della
letteratura coloniale italiana, Sellerio, Palermo, 2004, e in particolare il cap.
VIII. 3, Flaiano e gli incubi della coscienza, pp. 208-215. Per un’analisi
imagologica ed interculturale del tema africano in alcuni narratori del No-
vecento italiano (tra cui Flaiano, Moravia, Pasolini, Celati, Lucarelli, sino
ad alcuni scrittori migranti di origine africana come Ali Farah, Ghermandi
e Lamri) mi permetto di rinviare inoltre a Nora Moll, Immaginari mondiali
italiani del Novecento: il caso dell’Africa (cap. 3. 3), in Armando Gnisci,
Franca Sinopoli, Nora Moll, La letteratura del mondo nel XXI secolo, Bruno
Mondadori, Milano, 2010, pp. 142-186.
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punti di contatto tra gli studi postcoloniali e l’imagologia letteraria
massima distanza tra l’osservatore e l’osservata. Si tratta di una
distanza psicologia e culturale che possiamo quindi collocare
all’estremo opposto rispetto alla vicinanza “ciclopica” del ba-
cio di Cortázar (e che implicava un avvicinamento non solo
attraverso un punto di vista “zoomato” ma anche attraverso
un’etica amorosa), distanza che in parte viene però interrogata
e messa in dubbio, con il senso di distacco ironico (e talvolta
cinico) caratteristico dello scrittore-sceneggiatore italiano. Per
ben tre volte, un “forse” affievolisce infatti asserzioni e para-
goni, ma il tentativo di relativizzare il déjà-vu dell’immagine
culturale che sopraggiunge all’osservatore viene subito ritratto
almeno nei primi due di questi “freni” logico-linguistici: nel
primo caso nell’affermazione della diversità tra l’osservante e
l’osservata e delle categorie a questi associati, nonché in quella
(che oggi definiremmo razzista) della quasi impossibilità di
pensiero in quest’ultima; nel secondo nell’avversativa che in-
troduce il tema della non-appartenenza alla stessa dimensione
storica della osservata e della sua associazione alla pre-istoria
(tema ricorrente in molta letteratura coloniale e postcoloniale
di autori occidentali: si pensi finanche all’interpretazione, di
diversi anni successiva, dell’Africa da parte di un altro scrit-
tore italiano, Alberto Moravia5). Nell’ultimo caso, invece, il
volo della fantasia che dipinge uno scenario distopico fatto di
animali preistorici e carri armati è viceversa frenato dall’asser-
zione di non poter capire, e di conseguenza dell’insufficienza
della imagérie culturale che qui prevale sul tentativo di una
resa narrativa più autentica e originale del nuovo, dello sco-
nosciuto; la conclusione del passaggio, svolta con una con-
cretezza pur ellittica e un cinismo che solo il lettore di oggi
potrà valutare come brutale, soffocherà invece sia la remota
possibilità dell’autentico che l’imponente forza della forma-
zione discorsiva di stampo colonialista e razzista insinuatasi
nel pensiero e nell’immaginazione dell’io narrante.
5
Vedi anche Giovanna Tomasello, cit., cap. IX, L’età del neocolonialismo.
Emanuelli, Moravia e Pasolini, pp. 216-243.
37
capitolo secondo
Tirando brevemente le somme dal nostro confronto te-
stuale, è utile richiamare alla memoria una delle tesi iniziali
formulate da Wolfgang Iser all’interno del suo studio intorno
al rapporto tra il “fittizio e l’immaginario”, secondo la quale
l’immagine letteraria supplisce un’assenza6: difatti, è un co-
strutto verbale che richiama all’immaginazione del lettore (e
prima di lui dello stesso scrittore) un oggetto/evento assente,
lo rende presente senza poter negare la sua assenza. Ma indi-
cando proprio questo gioco tra assenza e presenza, che nel let-
tore fa diventare Erfahrung, esperienza acquisita e formativa,
anche ciò che non appartiene alla nostra sfera dell’Erlebnis,
della esperienza diretta, si insinuano tante possibilità di resa e
di traduzione nel linguaggio verbale, date dal potere evocativo
e inventivo dell’immaginazione letteraria. Non sempre la di-
stanza tra il presente dell’espressione e l’assenza dell’espresso è
una distanza sopra la quale lo scrittore (e il poeta) stende un
ponte dalla fattezza nuova, inaudita, dall’innocenza disarman-
te. Nella ferita che si spalanca tra la presenza della parola e l’as-
senza dell’oggetto/evento, possono fiorire topoi più o meno
abusati o testimonianti una esplicita fedeltà ad una tradizione;
ma in questa ferita, soprattutto quando l’oggetto osservato/
immaginato ed espresso è marcato dall’alterità e dalla distan-
6
Cfr. Wolfgang Iser, Das Fiktive und das Imaginäre. Perspektiven literari-
scher Antropologie, Suhrkamp, Frankfurt/M, 1990, e in particolare le pp.
29-36, in cui l’autore analizza i vari tipi di “sconfinamento” (Entgrenzung,
Grenzüberschreitung) che la finzione letteraria ottiene attraverso il “relazio-
narsi” (Relationierung) con la realtà rappresentata: un processo, questo, che
nonostante l’offerta di un analogon linguistico del rappresentabile e quindi
di una presenza discorsiva indicherebbe allo stesso tempo l’intraducibilità
del rappresentato, e quindi l’assenza dell’oggetto di tale discorso. Lo studio
di Iser (ben noto per le sue teorie della ricezione letteraria), nel quale si
occupa della produzione finzionale di realtà attraverso l’immaginario, ha
finora visto solo una traduzione inglese: Id., The Fictive and the Imaginary.
Charting Literary Antropology, The Johns Hopkins University Press, Lon-
don, 1993. Uno studio fondamentale intorno allo stesso campo d’analisi,
ma di stampo più storico-filosofico, è inoltre offerto da Alan R. White, con
The language of imagination, Basil Blackwell, Oxford, 1990.
38
punti di contatto tra gli studi postcoloniali e l’imagologia letteraria
za culturali (ma anche storiche), di frequente fattori sociali
e condizionamenti ideologico-culturali versano il loro sale7.
Potremmo aggiungere che è sull’esame del dosaggio di quel
sale che intervengono l’imagologia, gli studi culturali nonché
la teoria postcoloniale.
Dall’image all’immaginario
39
capitolo secondo
dei momenti di più alto valore auto-critico è da sempre stato
l’analisi del rapporto tra l’immaginazione visiva e la sua resa
linguistica: analisi che può servire al recupero dei propri “miti
personali” oppure mettere in evidenza la mediazione fra «la
generazione spontanea delle immagini e l’intenzionalità del
pensiero discorsivo»8.
Tuttavia, la resa di un’immagine e quindi di un oggetto/
evento esterno alla sfera linguistico-espressiva non può essere
ridotta solamente ad un problema linguistico-discorsivo, ri-
coprendo come del resto l’intero fenomeno letterario anche
altre funzioni. Con l’indagine sistematica di Wilhelm Dilthey
(Über die Einblildungskraft der Dichter, 1887) intorno alla
“potenza immaginativa” in letteratura e alle funzioni dell’im-
maginario, all’immaginazione creativa del singolo sono state
infatti attribuite non solo delle qualità eminentemente poe-
tico-espressive, bensì anche conoscitive, in virtù di una tra-
duzione dell’esperienza vissuta (Erlebnis) sul piano dell’espe-
rienza formativa ed estetica (Erfahrung), che può coinvolgere
in un momento successivo anche il lettore; il quale attraverso
quel tipo di esperienza trasmessa può subire una modificazio-
ne della sua stessa sfera emotiva, della sua stessa visione del
mondo. Inoltre, già fin dalle riflessioni di Dilthey, ma anche
in moltissimi momenti meta-letterari di scrittori particolar-
mente sensibili al nesso tra immagine-parola-conoscenza, l’at-
tenzione è stata focalizzata non solo sulla dimensione estetica
intra-letteraria di tale fenomeno, bensì anche sui suoi risvolti
etici, sul suo tendere verso la dimensione pratica dell’agire, di-
mensione ancora una volta strettamente collegata con il con-
cetto di Erfahrung. Anche rimanendo all’interno di un’analisi
prettamente critico-estetica, i “materiali” dell’immaginario
8
Cfr. Italo Calvino, Lezioni americane, in Saggi. 1945-1985, Mario Barenghi
(a cura di), Mondadori, Milano, p. 705. Per il ruolo dell’immaginazione
visiva in Calvino si vedano Alberto Asor Rosa, «Lezioni americane», in Stile
Calvino, Einaudi, Torino, 2001, pp. 63-134, e Marco Belpoliti, L’occhio di
Calvino, Einaudi, Torino, 1996.
40
punti di contatto tra gli studi postcoloniali e l’imagologia letteraria
non possono, come è risaputo, essere ricondotti unicamen-
te alle “visioni” del singolo scrittore, ai suoi miti e simboli
personali, alle sue nevrosi e/o epifanie, ma sono da sempre in
comunicazione con il più ampio bacino delle esperienze, dei
simboli, dei miti, dei topoi di una cultura e dei suoi linguaggi
creativi, verbali e non.
Ed è proprio sullo humus dell’extraletterario, dell’immagi-
nario nel suo versante collettivo e culturale che si è impiantata
fin dai suoi esordi, all’interno della scuola francese sviluppatasi
nei primi decenni del Novecento, l’imagologia comparatistica,
ma anche, successivamente, la teoria postcoloniale. Per l’ima-
gologia, l’elemento minimale del discorso letterario sul qua-
le va focalizzata l’attenzione è denominata image, una forma
specifica di immagine letteraria che, in un primo momento,
sembra aver perso il suo aspetto principale, ovvero il versante
visivo-fantastico, a favore del versante concettuale-conoscitivo
o più precisamente ideologico, ma che tuttavia, a ben vedere,
fa confluire il visivo-fantastico in quello concettuale-cono-
scitivo attraverso un procedimento metaforico e metonimi-
co. Difatti, secondo una delle definizioni correnti offerte da
Joep Leerssen, essa può essere identificata come «the mental
or discursive representation or reputation of a person, group,
ethnicity or ‘nation’»9 la quale va tuttavia tenuta distinta dalle
constatazioni e dalle osservazioni empiriche su gruppi, etnie,
nazioni, culture:
41
capitolo secondo
niards are proud”); often they take the form of linking social
facts and imputed collective psychologisms. To the extent
that a discourse describing a given nationality, country or
society relies on imputation of national character rather than
on testable fact, it is called imaginated.10
10
Cfr. Joep Leerssen, op. cit., ivi.
11
Per il concetto di imagotipico e imagotipia si rimanda a Hugo Dyserink,
Komparatistik. Eine Einführung cap. II. 1.4., Komparatistische Imagologie,
Bouvier, Bonn, 1991, pp. 125-133, in traduzione italiana Id., Il punto di
vista sopranazionale dello studio letterario comparato e la sua applicazione
all’imagologia, in Comparare i comparatismi, Armando Gnisci, Franca Si-
nopoli (a cura di), Lithos, Roma, 1995, pp. 52-67. Altri saggi in lingua
italiana che inquadrano l’imagologia (branca di studi maggiormente svi-
luppatasi in Francia, Germania e nei Paesi Bassi) dal punto di vista storico
e metodologico sono: L’immagine dell’altro e l’identità nazionale: Metodi di
ricerca letteraria, Manfred Beller (a cura di), Schena, Fasano, 1996; Nora
Moll, Immagini dell’altro. Imagologia e studi interculturali, in Letteratura
comparata, Armando Gnisci (a cura di), Bruno Mondadori, Milano, 2001,
pp. 185-208; Paolo Proietti, Specchi del letterario: l’imagologia, Sellerio, Pa-
lermo, 2008.
42
punti di contatto tra gli studi postcoloniali e l’imagologia letteraria
ginario collettivo che sembra preferire il già detto all’insolito
e all’autentico: infatti, per tornare su un esempio spesso citato
nelle ricerca di imagologia intraculturale, l’associazione della
passionalità al “carattere” spagnolo è in gran parte dovuta alla
Carmen di Prosper Mérimée, romanzo pubblicato nel 1847 e
ripreso da Georges Bizet nella sua altrettanto famosa versione
operistica del 1875: una potente e ben marcata etero-imma-
gine attraverso la quale non solo è stata definita, in termini
romantici ed esoticizzanti, la coeva cultura spagnola, ma che
è anche servita a tracciare indirettamente un’auto-immagine
culturale proprio in quanto detta passionalità ispanica e gitana
è vista in contrasto con la stessa identità collettiva francese. Un
gioco, questo, tra immagine dell’altro e immagine della stessa
collettività “che guarda”, che può in alcuni casi avere un ul-
teriore risvolto, ossia quello della importazione e dell’interio-
rizzazione dell’image letteraria e culturale che altre collettività
hanno elaborato sul conto della cultura di appartenenza:
43
capitolo secondo
sul culturalmente diverso, le molte connessioni tra auto- ed
etero-images letterarie e culturali, nonché la reazione della col-
lettività “immaginata” (o del singolo rappresentante di questa
collettività) a questo stesso immaginario, sono stati infatti ela-
borati in forma analitica ed esplicativa anche all’interno dello
stesso discorso letterario. Oltre alle ben note Lettres persanes
di Montesquieu (1721), in cui il filosofo francese ironizza sui
costumi e sul “carattere” dei francesi lasciando la parola ad
un fittizio viaggiatore persiano (e che sono uno straordinario
esempio di un’auto-immagine culturale, critica e satirica, co-
struita attraverso un deciso cambiamento del punto di vista e
l’identificazione con lo “straniero visitatore”), possiamo a tal
proposito citare nuovamente Italo Calvino. Il suo racconto
“cosmicomico” I dinosauri13 si presenta infatti come una sorta
di narrazione “a tesi”, laddove la tesi da dimostrare tramite
un’argomentazione che coincide con il procedere della fabula
attraverso una serie di scenari, è di tipo eminentemente ima-
gologico: i discorsi collettivi sull’altro, sul diverso, procedono
e si modificano al di là e oltre la concreta presenza fisica, sto-
rica e sociale dell’oggetto di tali discorsi; ma pur nella loro
astrattezza e pur assumendo le fattezze del mito e della mi-
stificazione, essi possiedono sia una concretezza nella perce-
zione dell’oggetto “guardato”, immaginato e narrato, sia una
consistenza sul piano del reale e delle azioni a favore o ai danni
dello stesso.
Nel caso del racconto calviniano, tale oggetto di un proces-
so imagotipico svolto quasi alla maniera di uno “sperimento
mentale” è esemplificato da un dinosauro, unico superstite
della leggendaria estinzione della specie, dopo 150 milioni
di anni di dominio sui vari continenti. Trovatosi in una co-
munità di “Nuovi”, esseri non meglio specificati, il dinosauro
(apostrofato dai “Nuovi” come “Brutto” e marchiato per la
sua diversità) deve confrontarsi con le dicerie e le mitizzazio-
13
Italo Calvino, Le Cosmicomiche, Mondadori, Milano, 1993 (prima edi-
zione per Einaudi, 1965).
44
punti di contatto tra gli studi postcoloniali e l’imagologia letteraria
ni createsi intorno alla sua specie, la cui appartenenza è da
lui nascosta fino alla fine: in un primo momento gli “antichi”
dinosauri sono visti come brutali e pericolosi, poi diventano
oggetto di rispetto e di ammirazione a causa della loro forza,
per poi cadere, nelle narrazioni dei “Nuovi”, nel ridicolo e
infine nel compassionevole. Di fronte ad ognuna di queste
etero-images – che trovano una loro originale (e divertente)
eco anche nei sogni di Fior di Felce, la “ragazza” da lui corteg-
giata – il Brutto non fa che percepire lo scarto tra una possibile
verità su di sé e sulla sua “gente” (verità ormai non più acces-
sibile a causa della estinzione della sua grande “comunità”) e
i discorsi che circolano di bocca in bocca, di generazione in
generazione, e che costituiscono un immaginario collettivo
all’interno del quale anche il suo essere «un Diverso, uno Stra-
niero, quindi un Infido»14 rimane nella sfera del vago, di una
essenzializzazione che rifugge ogni tentativo di individuare la
sua essenza di persona. Sbalordito e a tratti impaurito dai rac-
conti che ruotano intorno alla sua stessa identità collettiva e
dalla sequenza di etero-immagini mistificatorie che contribu-
iscono ad allontanarlo dalla serena costruzione di una propria
identità individuale, il Brutto non sa e non vuole “usare” ai
suoi fini nemmeno quelle versioni del mito sui Dinosauri che
potrebbero risultare a suo favore, aiutandolo anche a conqui-
stare la “ragazza” da lui corteggiata («Mi succedeva di provare
verso di loro la stessa insofferenza che avevo avuto per il mio
ambiente, e più li sentivo ammirare i Dinosauri più detestavo
i Dinosauri e loro insieme»15). Dopo aver constatato l’impos-
sibilità di essere associato ad un dinosauro “vero” e concreto
attraverso il confronto tra la sua corporatura e quella suggerita
da uno scheletro di un animale della sua stessa specie, il Brutto
si rassegna (non prima però di essersi “ritrovato” e rinnovato
nel corpo di una “mulatta”, incrocio femminile tra un dino-
sauro e un rinoceronte) a questa sorta di onnipotenza della
14
Ivi, p. 91.
15
Ivi, p. 92.
45
capitolo secondo
sfera dell’immaginario, della mitizzazione collettiva che pre-
scinde man mano dallo stesso oggetto mitizzato:
16
Ivi, p. 101 (corsivo dell’Autore).
46
punti di contatto tra gli studi postcoloniali e l’imagologia letteraria
Immagini e potere / il potere delle immagini
17
Cfr. Edward W. Said, Culture and Imperialism, Knopf, New York, 1993;
trad. it., Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale
dell’Occidente, Gamberetti, Roma, 1998, p. 82.
47
capitolo secondo
tura avrebbe intrattenuto sin dalla modernità e soprattutto tra
il secolo XIX e XX con il progetto e il potere imperialista, Said
è riuscito a “liberare” l’imagologia europea da una prospetti-
va precipuamente e volutamente europea, mostrando nel suo
studio Orientalismo – un esempio di imagologia interculturale
che contravviene, anch’esso volutamente, al principio di neu-
tralità a favore di una presa di posizione politico-identitaria
– come la presenza dell’Oriente nella cultura occidentale sia
stata una presenza solo fittizia, da qualificare non come “veri-
tà” bensì come “rappresentazione”18. Al di là delle critiche che
successivamente furono mosse al capolavoro saidiano, uno dei
suoi aspetti di assoluta novità consiste nella circostanza che
l’“altrove” orientale non viene analizzato a partire dal punto
di vista interno di una cultura che per secoli si è arricchita at-
traverso il confronto e l’immaginazione esoticizzante di un’in-
tera area del mondo, bensì a partire da una location specifica,
quella di uno studioso medio-orientale formatosi attraverso
un confronto attivo con la letteratura, la filosofia e la teoria
letteraria occidentale, ma che pone in primo piano le conse-
guenze etico-politiche di tale immaginario; conseguenze che
non sono state, invece, pienamente valutate da studi analoghi
condotti a partire da un’impostazione imagologica più tradi-
zionale, eppure intenta a uscire fuori dal “laboratorio Europa”
da sempre individuato come il campo privilegiato d’analisi di
quella branca della letteratura comparata19.
18
Vedi Id., Orientalism, Vintage Books, New York, 1978; trad. it., Orienta-
lismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1991. Per l’idea che l’Orientalismo occi-
dentale abbia soppiantato con una serie di formazioni discorsive l’Oriente
storico e reale si vedano soprattutto le pp. 24-25 della edizione italiana.
19
Studi di stampo imagologico sul rapporto tra le letterature europee e
l’Oriente e/o l’Africa e sulla questione letteratura e colonialismo, e con una
particolare attenzione alla francofonia, sono stati condotti da un punto di
vista interno al sistema letterario e culturale europeo soprattutto da Jean-
Marc Moura e da János Riesz: si vedano almeno Jean-Marc Moura, La
Littérature des lointains. Histoire de l’exotisme européen au XXe siècle, Cham-
pion, Paris, 1998; Id., L’Europe littéraire e l’ailleurs, PUF, Paris, 1998; Id.,
Littératures francophones et théorie postcoloniale, PUF, Paris, 1999; János Ri-
48
punti di contatto tra gli studi postcoloniali e l’imagologia letteraria
Oltre a Said, molti altri studiosi etichettati come postcolo-
niali, durante quest’ultimo ventennio hanno concentrato l’at-
tenzione sulle conseguenze, non solo politiche, di un imma-
ginario occidentale che lungo tutta la modernità ha partorito
delle fobie razziste circa le popolazioni extraeuropee e indigene
dell’Asia, dell’Africa, e delle Americhe. Nel suo monumentale
e complesso lavoro The Location of Culture, ad esempio, Homi
K. Bhabha, indica gli effetti deleteri dell’immaginario coloniale
popolato da indigeni neri (indiani, africani, americani) descrit-
ti secondo schemi stereotipati e sottintesi razzisti, anch’essi di
frequente strutturati in maniera bipolare: infatti, l’indigeno è
solitamente visto come un “selvaggio”, ma anche come “il più
ubbidiente dei servitori”, è la personificazione di una “sessua-
lità rampante” e contemporaneamente “innocente come un
bambino”20. Giudizi, questi, che trovano un parallelo nella
saggistica di Ngugi Wa Thiong’O, autore di dichiarazioni de-
mistificatorie più apertamente rivolte alla letteratura europea:
49
capitolo secondo
sorridente come l’essere più congeniale, a quella che mostrava
il combattente della resistenza africana come l’autentica rein-
carnazione della crudeltà, vigliaccheria, ignoranza, stupidità,
invidia e finanche cannibalismo. L’africano collaborazionista
fu glorificato. Quello che si opponeva al colonialismo dif-
famato. Ovviamente tutto ciò non era sempre proclamato
esplicitamente. Ma lo scrittore guidava le emozioni dei lettori
in quella direzione, affinché si identificassero con l’africano
che non percepiva contraddizioni tra sé ed il colonialismo,
e si allontanassero dall’africano che controbatteva, quello
che rivendicava quanto gli spettava di diritto, o quello che,
nelle piantagioni di banane, complottava contro il padro-
ne. Ma questi erano personaggi. Erano inoffensivi. Davvero
inoffensivi?21
50
punti di contatto tra gli studi postcoloniali e l’imagologia letteraria
la Storia e di includere la possibilità di considerare quell’“al-
tro” alla pari di sé, e dunque come persona. Molto lucido a
questo proposito lo stesso Bhabha:
51
capitolo secondo
merebbe la costituzione di identità nazionali storicamente de-
finite abbia ancora un senso, in riferimento al campo letterario
e culturale contemporaneo. Senza dubbio, di fronte alle nuove
identità complesse e miste (sia per nascita sia come risulta-
to della migrazione transnazionale e transculturale) gli studi
postcoloniali sono riusciti a offrire delle risposte più complete,
anche grazie ad una apertura maggiore verso altre discipline.
Stupisce però dolorosamente, oltre al ritorno di pregiudizi na-
zionali all’interno della stessa “vecchia” Europa anche o e so-
prattutto dopo il suo riordinamento prettamente economico
attraverso il trattato di Maastricht, la permanenza di strutture
imagotipiche di stampo coloniale e di pregiudizi razziali nei
confronti di immigrati extra-europei, in presenza di uno sce-
nario interno ormai globalizzato e pluri-culturale (pregiudizi e
fobie che improvvisamente si rovesciano in false filie all’inter-
no delle quali continua ad agire il pensiero metonimico della
“pelle” e dell’animalità). Senza dubbio, più che imputare come
responsabile o “colpevole” la letteratura – ridotta all’interno
dell’attuale società dell’immagine quasi ad ancella di altri lin-
guaggi verbali e non verbali come la televisione e il cinema,
di ben maggiore impatto collettivo – il luogo deputato per
la trasmissione di stereotipi o immagini razziste sono ormai i
mass-media e i nuovi media, solo apparentemente più liberi e
aperti alla pluralità di voci e di idee, ma più spesso ridotti ad
un mero coagularsi del già detto e del già visto.
Compito della letteratura, di fronte a questa situazione sa-
rebbe quello di presentarsi come discorso alternativo al déja-vu
dei media e a quella che da Slavoj Žižek è stata definita come
un’“epidemia dell’immaginario”24. Sfidando calvinianamente
il labirinto, sembra che questa sia una delle poche strade per
espellere le immagini-fantasma che impediscono il dialogo au-
tentico tra gli umani.
24
Vedi Slavoj Žižek, L’epidemia dell’immaginario, trad. it., Meltemi, Roma,
2004.
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punti di contatto tra gli studi postcoloniali e l’imagologia letteraria
Bibliografia