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Giovanni Ragone

Per la mediologia della letteratura


Premessa
Frammenti
Appunti su ION
Letteratura e metafore della comunicazione
Il cieco, l’occhio
Il simulatore
Il mutante
L’orrore post-umano
Le metafore dei media
Lo sdoppiamento e il molteplice
Il viaggiatore, il pellegrino, l’esule
L’apparizione
Il valore delle metafore. Sociologia e mediologia
Per Foucault
Lo spazio letterario
Questioni di fondo
Metafore/mondo
Architetture
Brainframe
Controllo
Virtualizzazione
Mediologia/Narrazioni
Saggi
Oralità e scrittura nella novella del Seicento: il genere (letterario) come medium
Leopardi e il desiderio mimetico
Maupassant, Zola e le Serate di Médan
Per una mediologia conradiana
Ellroy e il noir
Per la mediologia della letteratura. McLuhan e gli immaginari
Nota al testo
Premessa

Nella prima sezione di questo volume ho raccolto appunti teorici in massima parte inediti; la seconda
comprende alcuni saggi non facilmente rintracciabili; e in chiusura l’intervento che dà il titolo al volume.
L’insieme testimonia un lungo percorso di ricerche sulla letteratura: dall’imprinting – Benjamin, che ho
incontrato negli anni Settanta attraverso uno dei miei maestri, Alberto Abruzzese; e poi Bachtin, Segre,
Ong, Lotman - all’apprendistato sui testi e sulla storia letteraria e della cultura, che devo ad Alberto Asor
Rosa. Negli anni Ottanta, mentre iniziavo a ricostruire la nascita e gli sviluppi dell’editoria moderna in
Italia - industria culturale, sistema semiotico, medium -, mi intrigavano alcuni temi già indicativi per la
successiva svolta mediologica, come la serialità nel barocco, o la multimedialità nel romanzo
dannunziano. Negli anni Novanta insegnavo sociologia della letteratura alla Sapienza, e mi occupavo di
informatica umanistica, editoria digitale, politiche dell’educazione. Venivo apprezzato per la storia
dell’editoria, su cui ho lavorato anche nel decennio successivo (Un secolo di libri, 1999, L’editoria in
Italia, 2005, Classici dietro le quinte, 2009); del resto se ho iniziato a mettere a fuoco la letteratura come
medium è grazie alle ricerche sull’evoluzione complessa dell’industria culturale. Ma quel campo di
ricerca mi stava stretto. Cercavo un modello teorico nuovo, pluridisciplinare, di cui ho provato a gettare
le basi nei capitoli finali della Introduzione alla sociologia della letteratura (1996). Lì, in alternativa al
percorso ancora lukácsiano seguito da Franco Moretti, proponevo lo studio dei testi e dei generi come
ibridi mediali, e quello scavo delle “metafore dei media”, di cui anche questo volume è testimone. Presto,
tuttavia, sarei uscito dai recinti delle “scienze letterarie” portandomi dietro – credo – molto di quello che
avevo imparato e sperimentato. Tornavano le domande che mi ponevo da studente e da lettore di
Benjamin: sull’immaginario collettivo, il senso dello spazio, del tempo, e dell’abitare; sul rapporto fra
tutto questo e le tecnologie; sulle relazioni fra i media e l’evoluzione delle arti e delle forme estetiche
nella cultura.
Decisi di andare alla radice. Del resto, già negli anni Ottanta avevo reintrodotto McLuhan – con un
discreto coraggio - entro un canone scientificamente accettato e diffuso come è stato quello della
Letteratura italiana Einaudi (rompendo un silenzioso ostracismo, dovuto alla perdurante egemonia, fra
i Sessanta e i Novanta, della semiologia e di un marxismo ancora storicista). Dai Novanta non ho più
abbandonato la mediologia, nei miei diversi ambiti di ricerca sui processi culturali (pubblicità,
educazione, digital heritage, sociologia dell’immaginario, comunicazione dei beni culturali e dei
territori). Fra questi, tenacemente, è rimasta la letteratura: tra i saggi e le raccolte più riusciti – e non
compresi in questo volume - indicherei Nuove metamorfosi. Kafka/Ellis (2004), Letteratura fluida
(2006), Memoria e letteratura (2007); Il Castello e le metafore dei media (2010); Archetipi della serialità
nella letteratura (2016); Benjamin e il medium romanzo (2017). Gli ultimi due in collaborazione, come
diversi altri lavori – sono stati continui e fruttuosi, ormai da molti anni, lo scambio e la discussione con
Fabio Tarzia, Emiliano Ilardi, Donatella Capaldi e altri colleghi ed amici. Una bibliografia completa è
collocata alla fine del volume.
Con lo sguardo di oggi, e confrontandomi con la situazione all’inizio del percorso, è facile constatare che
il retroterra mcluhaniano della mediologia continua ad agire; si può dire anzi che agisce – da almeno un
quindicennio – con maggiore intensità ed efficacia. E la ragione evidente è la necessità acuta di teorie
che aiutino ad interpretare la trasformazione dello spazio/tempo, della percezione, della coscienza, degli
immaginari, da un’epoca all’altra, puntando a individuare il conflitto che la mediamorfosi in
accelerazione porta inesorabilmente con sé; e i problemi drammatici che la tecnologia e il biopotere ci
hanno lasciato in eredità nella lunga storia della cultura. Se l’impostazione della scuola di Toronto è
ormai senso comune – e spesso banalizzato, ciò accade perché viviamo schizofrenicamente in due diverse
dimensioni della comunicazione. Da un lato l’idea dello scambio di informazioni, secondo uno schema
spesso teorizzato dai linguisti; il trasferimento di informazioni è il modello (utilissimo) al quale
ingegneri, sociografi e specialisti di marketing collaborano da mezzo secolo per sviluppare sistemi di
analisi automatica dei testi e delle immagini, fino al trasferimento dell’intelligenza artificiale per la
gestione e il controllo in ogni ambiente di vita. Dall’altro lato, tutti comprendono – anche senza esserne
pienamente consapevoli – che la comunicazione non si riduce allo schema: essa è in effetti produzione
creativa inter- e intra-soggettiva, interazione soggetto-ambiente. Genera ambienti virtuali, spazi che
hanno coordinate e regole di costruzione. E naturalmente questo vale anche per le arti, per il cinema, per
il testo letterario - che divengono il nostro ambiente, se li abitiamo. Un’opera si presenta come un medium
denso, composto e sorprendente, o al contrario schematico, apparentemente semplice e familiare; ma
essa sempre configura un mondo, e il soggetto che lo esperisce. E allo stesso tempo, proprio quella
configurazione strutturale, come le figure che ne emergono, funziona da metafora “profonda” del
comunicare, e (come vedremo) dello stato del soggetto che comunica “trasferendosi” nel mondo-
ambiente creato dal testo (la metafora, infatti, è un trasferimento).
Con questo non intendo certo negare che le metafore artistiche siano vettori di altre dimensioni
dell’esperienza e del conflitto, oltre a quelle dei media. Ma rivendico nondimeno la valenza conoscitiva
dell’hybris interpretativa che è rappresentata in questo libro, almeno nel riportare alla coscienza ciò che
spesso è occultato dal fluire rapido dell’innovazione nell’ambiente che abitiamo, e dalla conseguente
rimozione (narcosi) del soggetto, se non si dota di strumenti di analisi e di capacità introspettive. Le
radici del nostro “sentire” e “comprendere” i media partono dal miglior lascito dell’intelligenza nel
Novecento europeo: le avanguardie artistiche e il cinema, la psicologia della Gestalt, Freud, la sociologia
e antropologia di Durkheim e Mauss, la scuola di Warburg, le intuizioni mediologiche di Walter
Benjamin, l’individuazione dei linguaggi e dei processi di consumo di Edgar Morin. Il merito e l’eredità
fondamentale di McLuhan è nell’aver ribaltato la visione ingenuamente sociologica e antropologica della
cultura come produzione di oggetti che proiettano direttamente in artefatti la sfera psico-sociale di
individui e gruppi (qui i soggetti, lì gli oggetti che essi esprimono), in una “estetica materialistica” (come
la definì Barilli nel 1967) giocata su processi di mediamorfosi che implicano una continua reinvenzione
dell’osmosi fra tecnologie, ibridazione dei media, invenzione e ri-mediazione di immaginari. Quella
estetica si è riversata - attraverso gli insegnamenti universitari, il giornalismo, le teorie dei new media e
il learning by doing nelle piattaforme - nel sentire comune dell’era digitale: più o meno consapevolmente,
tendiamo a considerare gli ambienti di vita come mondi virtuali sempre in tensione e in precario e
conflittuale equilibrio; e i soggetti come consumatori ma anche (precari e schizoidi) produttori, in grado
di contribuire a immaginare gli ambienti, e dunque a cambiarli. E mentre la creatività si gioca in buona
parte entro i processi di serializzazione, non si è spenta per questo la sua funzione nell’intravedere e
anticipare i conflitti. Per comprendere in modo olistico i fenomeni della cultura serve oggi una
conoscenza ibrida, come lo sono i media; di questa è parte integrante la capacità di interpretare le opere
e i movimenti delle arti, ancora rilevante in un mondo di iper-produzione degli immaginari e
virtualizzazione della vita.
Mi diresti, per favore, che direzione devo prendere?
Dipende più che altro da dove vuoi andare – disse il Gatto.
Non mi interessa tanto dove… - disse Alice.
Allora non ha importanza che direzione prendi – disse il Gatto.
Mi basta arrivare da qualche parte – soggiunse Alice per chiarire il suo pensiero.
Oh, ma allora lo farai senz’altro – disse il gatto – basta che cammini abbastanza a lungo.

Ironico, ma non troppo.


Frammenti
Appunti su ION
Alice sprofonda nel pozzo, proprio mentre ascolta la sorella che legge un libro. La semi-veglia del
racconto letterario genera in lei (e in noi) un fiotto di immagini in associazione inconscia e onirica. Ossia
l’abbandono del travestimento avventuroso (ossia del romanzo) verso una “stravedere”, un flusso anti-
logico, condiviso culturalmente, e autonome: l’immaginario collettivo. Divertente e perturbante.

Alice è una delle metafore (mediamorfiche) della simultaneità elettrica. Tra quelle dell’era precedente,
la modernità basata su analisi, previsione, e sistemi meccanici, dobbiamo considerare un altro topos
metaforico basato sul pozzo, che viene a sua volta dall’epoca della prima diffusione della scrittura, nella
Grecia antica. Dal fondo di un pozzo Democrito osserva e irride le ridicole esistenze umane (senza
vederle, perché si è accecato, sfuggendo la meraviglia dello spettacolo, e i conflitti irrisolti della vita
pubblica e privata, e accentuando – da puro cervello isolato - la forza prospettica e logica della scrittura).
La figura, recuperata dagli umanisti, ricorrerà innumerevoli volte nel cinque-seicento, in chiave post-
erasmista e neostoica: l’io della scrittura come sorgente (certo non irenica, non siamo lontani da
Machiavelli) di un immaginario analitico: maschere, ruoli, previsioni, tentativi di assorbire
l’imprevedibile. Il pozzo di Democrito è il posizionarsi dell’io in un ruolo allo stesso tempo difeso e in
grado di attaccare, con le armi della scienza, il mondo. Ma con Alice, nessun posizionamento. Il pozzo
diventa un condotto verso mondi luminosi e strani. Forma fluida, carica di energia.

Robinson sull’isola: l’identità si organizza come una forma semi-automatica di introspezione (del resto,
il diario sentimentale ha una lunga storia, da Madame de La Fayette a Amiel, e oltre, verso Henry James
e D’Annunzio, fino al modernismo). Metafora strutturale, con l’irruzione a un certo punto di Venerdì,
che incarna a sua volta della paura (addomesticata) di non riuscire a “tenere” il dominio dell’ambiente-
isola e del precario equilibrio interno, minacciato dall’inconscio e dal corpo - la parte ingenua e naturale
da educare -, come da un primitivo orrore selvaggio che invade “dall’esterno” (i cannibali). Duplice
aggressione, nell’ambiente e nel’io. De Foe trasferisce il soggetto dal conflittto meccanico delle maschere
barocche al “romanzo” moderno: che è un tentativo di controllo delle identità interne all’io, in parallelo
al tentativo di controllo del flusso metropolitano che inizia a essere generato nella città-mondo
commerciale.

Madame Bovary incarna il paradosso del nuovo soggetto di massa, che consuma l’immaginario, e ne è
consumata. L’io è preda di fantasmi, di apparizioni, come la perturbante donna del ritratto in un film di
Fritz Lang, o l’angelo azzurro dello spettacolo espressionista. Senza pietà per il soggetto, nello sguardo
parodico, ma partecipante della letteratura (in questo senso è post-democritea). Umorismo noir.

Bouvard e Pécuchet consumano il salto tecnologico e comunicativo della scienza e dei media, costruendo
sulla stupidità del sistema stupide macchine enciclopediche e collezionistiche. Trasferire in ordini
razionali, produttivi l’informazione dei giornali e dei manuali genera risultati assurdi. Scoperta: o il
sistema dei massmedia in cui si sta entrando è del tutto stupido, o il suo procedere, la sua deriva, non è
razionale. Certo i due non si arrendono mai. L’irresistibile coazione a produrre, a assemblare, a imitare,
a ripetere: la spinta creativa del soggetto, in caricatura, una fatica di Sisifo. Ma anche l’inevitabile e
controproducente banalità di una gestione sociale affidata a manager e divulgatori che lavorano su
stereotipi.

Huysmans e l’accumulo di ogni frammento, come possibile mondo di piacere, relitto che dovrebbe
rivivere ma non rivive. L’io cerca i frammenti. Deve frammentarsi, come strategia di vita nel flusso non
ordinabile. Ma in questo metaforizza la morte di una forma estetica. Ne emerge nel lungo travaglio del
Novecento, un’altra forma.

Fantasmi e mostri dell’immaginario: metafore del flusso che anima tutte le estetiche di massa, fin dalla
lontana archeologia dello spectacle d’horreur tardocinquecentesco; gli inizi, le figure che cominciano a
emergere dallo sfondo, fino a popolare tutto il primo piano, con i media audiovisuali.

Il Casanova di Schnitzler percorreva l’Europa, regno di incontri piacevolmente o spiacevolmente casuali


con il corpo, gestito con la sapiente ripetizione di appropriata tecnica. Ora – svagato e deconcentrato
consumatore d’antan – decade, e dovrà ritirarsi.

Il Visconte dimezzato calviniano, paradosso della pulsione verso la riconnessione impazzita, im/possibile
dei frammenti sparsi. Io non riesce paradossalmente a diventare ciò che dovrebbe diventare: ION, io/noi
multiplo, virtuale, come sarà più tardi Qfwfq, mentre il Cavaliere Inesistente resta preda di analoga
sindrome riguardo alla consistenza materiale. Metafora “razionale” e aperta di ciò che la letteratura
dell’assurdo – e non solo quella – interpreta invece come liquefazione, annichilimento, martirio,
distruzione.

Hollywood Party e Pynchon: la festa post-metropolitana, l’entropia neobarocca.

Mentre in Blade Runner compare il doppio virtuale, sulle rovine della grande distruzione del soggetto
moderno. Nostalgia? Lo sfondo di rovine allude forse a frammenti da salvare. Oltre lo sfruttamento
industriale e di potere dei cyborg, che avviluppa quel che sopravvive della post-metropoli, cosa ci
attende? Un futuro di libertà della relazione? L’intelligenza collettiva? L’utopia della rete. ION è la
soggettività del futuro: uno spazio-tempo a buchi neri, rapidi cambi di universo, riattivazioni della
percezione corporea, immersioni nel passato dell’immaginario e delle arti.

Mediologia/letteratura

La metafora letteraria è implicita, non è una figura del discorso, ma una struttura generativa nel modello
narrativo. Procede per sintesi, semplificazione, sperimentazione, ipersemiotizzazione. Contribuisce a
costruire nuovi codici sociali e comunicativi. Codici simbolici enigmatici, occultati in figure. Grazie ad
Alberto Abruzzese, che me lo hai insegnato in una memorabile lezione su Benjamin nel 1969. Ci è voluto
molto tempo, insomma…

Il processo di civilizzazione ha richiesto una continua evoluzione dei sistemi di introiezione/


autocostrizione necessari a fronteggiare la crescita esponenziale dei rapporti di interdipendenza, che si
realizzano in mutazioni continue, attraverso i salti tecnologici della comunicazione. Essi sono il frutto, a
loro volta, della spinta evolutiva finalizzata a esplorare e controllare il territorio reale, poi l’immaginario
ed emozionale, poi il mentale e virtuale. Strati evolutivi della cultura, tutti compresenti oggi nella
struttura mentale, sociale e comunicativa, della soggettività, come in ogni funzione sociale. E nell’arte.
E nella letteratura.

SCRITTURA/VOCE FLUSSO VISUALE/AUDIO DIGITALE


Città estesa Metropoli Mondo
Decine di codici Migliaia di codici Milioni di codici
STAMPA MEDIA WEB
Alcuni canali Centinaia di canali Miliardi di siti
Comunicazione differita Differita e simultanea Differita, simultanea
e simultanea ben distinte insieme e virtuale

RELAZIONE CONSUMO INFRASTRUTTURE


Interdipendenza tra soggetti Interdipendenza Deriva sociale globale
sociali nel sistema dell’industria culturale relazione locale
Previsione Comunicazione Project-work

IO governa il flusso IO frammento, flusso in surriscaldamento ION, la soggettività

Sulle origini di ION

Nella modernità l’io non vive il senso del mondo senza sottoporlo a regole e anti/regole, che vanno
conciliate: Mente sistematica vs Spettacolo, Logica vs Inconscio, Scritto vs Audiovisivo
Proprio attraverso la continua conciliazione e compromesso interno, il soggetto del moderno si
autonomizza come principio percettivo e ordinatorio immerso in un flusso “naturale”, che scorre come
spettacolo, varietà. Sa di essere paradossalmente folle: da Erasmo a Cervantes. Si fortifica, assumendo
la propria natura come vera e in parte falsa, e la necessità di assumere maschere, nel grande teatro della
vita sociale.
Costruisce lo spettacolo artificiale, la tecnologia dello spettacolo: nella corte e in letteratura e nelle arti;
in città e in teatro. Si definisce strutturalmente come padronanza della relazione sociale, del denaro, del
potere, dell’amore. In definitiva come super maschera, dalle Illusions perdues ancora fino a Bel-Ami (il
superfurbo di massa). L’io e il flusso sono inseparabili. Ma il flusso inizia a diventare figura, occupando
il primo piano.

Per questo si inizia nelle arti a ipersemiotizzare il flusso, a segnalarne il surriscaldamento graduale.
Tentando di percepire attraverso un “senso interno”, il senso del frammento, accettato come autenticità
soggettiva, che “vede” oggetti, corpi, segni, nel flusso: da Baudelaire a Schiele, a Picasso. O a Benjamin.
Poi visualizzando vortici, materia, metaforizzando l’io-flusso che tende a diventare ION, tra sogno e
cosmo: da Miró a Fontana.

Per il materialista Sade, tutto è natura. Il soggetto vede e comprende l’intero universo. Il sesso, il corpo
e la morte sono natura, forme della vita. Tutte le convulsioni dell’umanità lo sono. Tutto degrada e
rinasce. Lo stoico è divenuto, fino in fondo, libertino; l’etica è diventata radicalmente incommensurabile
al singolo fenomeno, se non come decisione localizzata e temporalizzata. Per questo nasce con la
metropoli il “carattere”: per distinguere e spiegare il soggetto come dominio del sé.

Costruire il carattere come struttura portante della vita sociale è stato possibile utilizzando la nuova
tecnologia dell’immaginario: la stampa. Il soggetto moderno, nella versione dominante umanistico-
rinascimentale, si presenta come “studio” e autoaffermazione, ipostasi dell’io. Richiede la costruzione di
un mondo che “poggi” sulla natura senza confondersi con essa, lottando costantemente con gli istinti. Un
mondo fatto di modelli di carattere, modelli produttivi, modelli di vita sociale, che interagiscono e
confliggono, come in Dickens o Hugo. Il carattere, il “tipo”, è un modello culturale di individuo nella
società in lotta della metropoli. Una costruzione sociale “chiusa”. Da Balzac a John Wayne.
Ma con le avanguardie e l’era elettrica, il carattere va in fumo, anzi in elettroni. Il corpo si denaturalizza,
il soggetto non può più identificarsi con un carattere stabile. Il soggetto è instabile, proietta più identità.
Schnitzler ci mostra una fase di questa vicenda. Tutto è cultura, proiezione, ruoli e maschere.

Il silenzio era lo spazio della creazione, della soggettività che trovava nel ragionamento, o in seguito
nella lettura/proiezione di caratteri e eventi il modo di autodefinirsi, di produrre forma, e di rappresentare
relazioni sociali. Ma sempre più la musica riempie il campo percettivo, e sempre più come compresenza
simultanea di frasi/frammenti, da Wagner a Berg. Come il soggetto, che si fa simultaneo e a frammenti
sovrapposti di vita. Come il consumo, saturo, plurimo, iperflusso di immagini e suoni. Comico e tragico,
simultaneamente, senza ironia.

Lulù, da Wedekind a Pabst a Berg, è apparizione inspiegabile, casualità e causalità, desiderio e orrore,
fortuna e rovina, morte/vita. Il soggetto squartante e squartato. Lo spettacolo dello squartamento era il
clou dello spectacle d’horreur neo-stoico. Indicava, per esempio nella seicentesca Lucerna di Francesco
Pona, insieme alla bizzarria, alla doppiezza metaforica, alle ripetute nefandezze omicide,
l’incommensurabilità e la pena della vita-natura. Nello stesso tempo, la macchina per produrre immagini
era innestata, e la modernità era cominciata. Nel primo Novecento, il mostro-Lulù metafora
dell’incommensurabilità e dell’angoscia del flusso. Ma la Lucerna della tarda modernità è ora una donna,
un mostro/anima, il desiderio.

Il corpo è la metafora più “naturale” dell’io. Il luogo dove si manifesta, si incarna e si comunica la forma
e il carattere del soggetto. L’ipersemiosi lombrosiana della fisionomia mostra i segni del
surriscaldamento metropolitano. Il soggetto si va sciogliendo nel consumo, nell’immagine, nel flusso. La
società dei consumi proietta e produce corpi. Si arriva a ION quando ci si abitua a più corpi, a essere più
corpi o frammenti di corpi. Il mostro è spesso metafora di liquefazione, anticipata dall’assemblaggio
degli archetipi dell’Ombra e dei relativi frammenti di corpi.
Così la mostrificazione è l’altra faccia del faticoso processo di autodefinizione di ION come modello di
compresenza. È la metafora dominante della paura sociale di sciogliersi nel flusso dei media
(apparentemente casuale, ma in realtà ipercodificato).

Rappresentare il flusso della riproducibilità e del consumo, percepire il flusso sottostante dello spettacolo
della vita (energia dei media), potenziare la struttura io/noi, con uno scatto di coinvolgimento e distacco:
il realismo del secondo dopoguerra, da Truffaut a Rohmer, cerca di “tenere” il racconto, inglobando i
vari livelli nella struttura, che assume dunque valore metaforico. Ma c’è anche la ricetta paradossale, da
Quéneau a Calvino. E infine la tradizione dell’assurdo violento, che gioca con i materiali della cultura di
massa, come in Bukovsky o nei “cannibali”, ipersemiotizzando lo scioglimento/liquefazione e
l’implosione del soggetto e del flusso stesso. ION nasce come risposta al flusso: il soggetto postmoderno
può r/esistere solo se acquista margini di libertà, apertura e imprevedibilità. Perciò si plurimizza. E si
dispone a più dimensioni.

Dal naufragio conradiano, emerge infine ION. È un soggetto multiplo e globale, come il Gabbiere di
Álvaro Mutis. In un altro romanzo di Mutis, L’ultimo scalo del Tramp Steamer, il narratore e il capitano
di navi mercantili Ion Iturri si confrontano con l’epifania e agonia simbolica della nave, vecchia carretta
benjaminiana. Il vissuto marinaio, forgiato da una vita di fedeltà e infedeltà a se stesso, ansima e va in
pezzi. Sopravvive la sua donna, libanese, amante e armatrice, che si allena a essere molti, o uno. A una
costante metamorfosi e a molte vite. Nostalgia di Conrad e dell’epifania benjaminiana, ma per
metabolizzare il futuro, senza troppi lamenti. Quale futuro è probabile per ION? L’intensità bruciante di
un dono io/tu in una qualsiasi delle molte vite e frammenti? È questo il continuo aprirsi di buchi neri
nella rete delle esperienze mediali/virtuali? Ancora essere contro desiderare e consumare? L’intensità
dell’incontro che si apre nella navigazione distratta?

ION, soggetto sentimentale e plurimo. Una nuova tecnologia dell’identità, fatta di culture/infrastrutture
che lo sostengono nel produrre mondi virtuali in cui agire, ma che anche – contemporaneamente –
definiscono continuamente scenari “sistemici” (parziali). Intanto le metafore (e la paura) del nuovo
ambiente plastico e della nuova il/logicità spazio/temporale invadono il cinema (precorse dal sarcastico
veggente Borges).

(2002)
Letteratura e metafore della comunicazione

Il cieco, l’occhio

Omero, l’aedo cieco, ha come sua ombra Tiresia, l’indovino. Sentire il mondo, senza la luce degli occhi,
come preludio misterico della scrittura. Un non vedere che amplifica le possibilità dell’immaginazione.
Con Omero il canto si fa letteratura: l’epos, mantenendo le funzioni sociali antiche (tramandare la
conoscenza, che è mito, e vaticinare – dalla notte dei tempi – il presente), inizia ad estendersi sui territori
del tragico e del comico, e intraprende la lunga navigazione di Ulisse verso il romanzo. La vista profonda,
corale e sacrale, genera la varietà e disparità dei racconti, sempre fondata su una ricchezza che è data da
serie foniche, verbali, e di immagini accumulate e ascoltate migliaia di volte nella lunga durata della
tradizione orale. L’immaginario condiviso si presenta di fronte al cieco, nella sua memoria, nella sua
oscurità, e lì inizia la sua metamorfosi performativa, che si allarga via via, improntando nelle sue forme
il senso dell’abitare, e il controllo del sé. E diventando macchina della parola in scrittura.
La scrittura di un cieco è l’enigmatica metafora del primo e decisivo passaggio epocale della
comunicazione (almeno nel tempo che storicamente ci è noto). Il potere della scrittura doveva essere
percepito sullo sfondo del fluire verbale e archetipico delle mitologie. La parola scritta fissava e fissa in
cronotopi l’immaginario; e consente, anche, di vedere il mondo, di riflettere sul mondo e sul soggetto
stesso che immagina e ricorda. Formando sistemi testuali o narrativi più complessi e coerenti, la scrittura
consente di tenere insieme, di mettere in relazione spazi di memoria e strutture dell’immaginario sempre
più estesi. Ma perché mai l’invenzione della letteratura è attribuita a chi non sa vedere? Forse il non
vedere allude a una pulsione archetipica e magica della letteratura. Forse la cecità di Omero, che è certo
allusione al passato, al mondo delle voci, e al senso divinatorio del racconto, è insieme anche la metafora
della dimensione mentale, emozionale, proiettiva, memoriale, onirica, dell’immaginario collettivo,
riserva e potenza generatrice di ogni operazione estetica, e di ogni pratica sociale della comunicazione.
Forse il non-vedere è l’occhio chiuso al contingente, lo sprofondamento necessario all’aedo nella
struttura profonda dell’arte per generare nella sua mente un intero mondo, per dare inizio alla sua
narrazione. Con tutti i sensi aperti, ma oscurando il lavorio strategico, logico, e impregnato di senso della
posizione dell’asse mente-vista-spazio. E in questa metafora primigenia e ancora inscindibile dal sacro,
come nelle altre metafore dei media, la sensorialità del passato segna ambiguamente i momenti di svolta
da un mondo all’altro. Riemerge a perturbare le strutture abusate, a generare vortici e squarci nel nostro
stoico o cinico patire.
Vedere e non vedere… Nel passaggio dal mito alla letteratura si moltiplicano le metafore che trasformano
l’occhio in iper-segno. L’occhio, chiuso, aperto, moltiplicato. Per esempio la nave Argo, mezzo di
esplorazione, avventura, conquista, che porta ambiguamente il nome di una città eponima della civiltà,
che è però anche quello di un mostro dai cento occhi, domato e piegato dal semi-dio: un mostro che ha
evidentemente a che fare con gli archetipi del romance, e con la potenza della nuova tecnologia. Ma la
nave Argo non può vedere, eppure parla, come il cane vecchio e cieco di Odisseo, che pure si fa
comprendere. E il naufrago che narra la sua storia alla corte di Alcinoo – alter ego del narratore che
segue le dovute regole del ricambio al dono verso gli ascoltatori, amplificando il racconto immaginario
e sorprendente degli eventi - è quello stesso eroe che in un’unica scena avendo accecato con un enorme
stilo l’occhio enorme di Polifemo, mette alla prova le virtù sottili e in prospettiva sofistiche della logica
verbale (“- Io sono Nessuno!”). Qui la metafora dell’aedo cieco (sintesi di ciò che è prima del vedere, e
del celarsi autoriale della scrittura) si estende in struttura e in figura: l’immaginario dei miti si trasforma
nel racconto romanzesco rivolto a un pubblico; e l’occhio archetipico viene distrutto (fertilmente) ad
opera dell’arte della parola…
Ma in modo forse meno enigmatico, anche altri racconti dell’Odissea alludono alla potenza emergente
della letteratura come medium in grado di ri-mediare ogni immaginario - e d’ora in poi ogni invenzione,
sentimento, ed esperienza: di attingere non più o non solo al mito, o ai linguaggi tramandati dal potere
sacrale. È il caso per esempio degli esploratori trasformati in bestie nella reggia di Circe, un luogo
sospeso tra realtà e immaginazione, in grado di proiettare il corpo e la volontà del peregrinante (lettore,
ma anche attore dello spazio letterario) in un piacere euforico e allucinogeno. Il piacere della simulazione
e quello accompagnato all’orrore della metamorfosi – i grandi campi metaforici dell’Odissea – segnano
la parabola della letteratura che racconta il mondo orale. Molti secoli dopo, al tempo della dialettica della
ragione, quando la Galassia Gutenberg avrà giocato tutto il suo potere di analisi e oggettivazione per
mettere sotto controllo sia l’una che l’altra, sia la simulazione che la metamorfosi, il nuovo mondo della
metropoli e dei media ne riscoprirà la potenza. Da Poe e Baudelaire in avanti le forme letterarie
assumeranno esplicitamente – non più solo di fatto ma anche di diritto - il loro aspetto di metafore di
soggettività mutanti.

La luce o l’oscurità, il prevalere dell’occhio-“vista” o del “sentire”, determinano un campo metaforico


primigenio, nel quale è forse possibile distinguere tre grandi e successive formazioni archetipiche.
Esaurita quella più antica e vicina alla cecità divinatoria, è significativo l’emergere nella filosofia greca
di una seconda tradizione, quella del folle/saggio autoaccecamento di Democrito. Esso diventerà non
casualmente, molti secoli dopo, tópos e cifra della cultura umanistica europea. Secondo un racconto
aneddotico antico, che ebbe larga diffusione nel Medio Evo, ripreso attraverso Cicerone e Luciano, e poi
divenne luogo comune iconologico dal XV al XVII secolo (con epicentro in Alberti ed Erasmo), colui
che era forse il più grande filosofo del mondo antico passò gli ultimi anni della sua vita in un pozzo, per
evitare la compagnia dei suoi sciocchi concittadini di Abdera, e infine si tolse la vista. Nel mondo antico
il buio di una grotta era abitato dalla presenza della Sibilla, invisibile mediatrice tra il profondo senza
scrittura e il presente della vita sociale. Essa scriveva i suoi responsi su foglie secche, trascinate dal vento
nel mondo esterno. Ora nel racconto su Democrito il senso del non vedere, legato alla grotta e alla
percezione divinatrice dell’aruspice che rivela il corso fatale del destino, assume un significato diverso,
quello che solo la civiltà delle lettere rendeva possibile, originando una nuova volontà di conoscere,
organizzare, discutere criticamente, e imponendo il dovere morale di decidere il destino, formando il sé
come io pensante, e distanziandolo paradossalmente dal mondo. L’episodio può ricordarci la diffidenza
di Platone, nella Repubblica e nel Fedro, per la scrittura letteraria, troppo subalterna all’opinione comune
e al piacere che distrae1. Ma più radicalmente e recuperando l’archetipo, con un ambiguo rovesciamento,
il filosofo irridente rinuncia, anzi rifiuta la vista (traumaticamente, secondo la tradizione). Perché la
facoltà ormai dominante e apparentemente indispensabile, progressiva, della vista – e dello scrivere e
leggere – si è ribaltata secondo Democrito nel medium dello spettacolo ridicolo e miserevole dell’agire
nella polis, governato e abbagliato da obiettivi falsi ed effimeri. La vista è la città: lo spettacolo esterno,
percepibile soprattutto attraverso gli occhi, ripercorribile attraverso la nuova memoria e rielaborazione
scritta. Da essa la morale del filosofo si distacca, poiché la vera conoscenza della struttura del mondo
passa da una mente-natura, non da una mente che sia vista, teoria, strategia e tattica. La cultura, con i
suoi codici prevalentemente basati sulle lettere, è già avvertita come una sfera di apparenze e false
convinzioni, che obnubila il processo materiale della natura, il nostro essere corpo. Rifiutarla – come
extrema ratio - è un atto di saggia follia, un approdo alla felicità mentale.

1
Le questioni relative ai passi di Platone, attraverso una rielaborazione dei classici lavori di Havelock e Goody, sono
riassunte e reinterpretate con acume da Gabriele Frasca, Oralità, scrittura e una guerra mediale, in Mediologia. Una
disciplina attraverso i suoi classici, a cura di M. Pireddu e M. Serra, Liguori, Napoli 2012, pp.176-185.
Nel tópos democriteo la figurazione dell’occhio e dell’accecamento tende a perdere quindi le sue virtù
metamorfiche legate alla radice orale e sacrale dell’archetipo e diventa un rovescio della polis. Del resto,
fin dagli inizi la scrittura letteraria ha costruito strutture metaforiche che ambiguamente tendono a
rovesciare l’ordine visivo, su cui poggia il vivere sociale gestito dalla scrittura. La mediologia di matrice
mcluhaniana (anche come sintesi di altre correnti estetiche, storiografiche e sociologiche che hanno avuto
origine tra le due guerre, nel segno di Warburg, Florenskij, Arnheim, Febvre, Elias, Horkheimer) ha più
volte descritto il dispiegarsi di un mondo moderno, tipografico, prospettico e individualizzante sul
fondamento di una ragione modellata dall’asse percettivo cervello/occhio/pagina scritta/realtà
oggettivata. Il rovescio di quella ragione, il rovescio del potere della vista, è l’autoironia erasmista
(Rabelais, Cervantes, Shakespeare), o la dialettica più tragica che comica che si travasa nella leggenda
nera dell’esprit fort, con le sue radici lucianesche in Momus di Leon Battista Alberti: stoico-cinico ed
epicureo-materialista-libertino. La civiltà della scrittura-medium totalitario che celebra il suo trionfo con
la stampa - la Gutenberg Galaxy identificata da McLuhan (1962) – produce così i suoi anticorpi ironici
o tragici. Nutre in se stessa anche i geni dell’autodistruzione, o di una prossima media/morfosi, nel suo
procedere a sbalzi lungo i secoli dell’epoca moderna: sono le forme estetiche e critiche di una letteratura
sensorialmente e filosoficamente consapevole, incline a difendersi, utile ad allenare la psiche e il senso
per sopportare le sollecitazioni già estensive, onnicomprensive, invasive, obbliganti, della modernità.
Scrivere lettere per rimettere in crisi la vita secondo le lettere, per rovesciare la Galassia, per demolire il
controllo della “vista” sul mondo, l’illusione dell’io individuale che osserva, distanziato, la realtà e scrive
manuali per il suo uso, è quanto fanno gli erasmisti e i loro eredi, fino a Jacques il fatalista e Tristram
Shandy, e ancora dopo, fino a Bouvard et Pécuchet. E in questo senso la metafora del riso apparentemente
folle di Democrito, recuperata innumerevoli volte soprattutto tra la metà del Quattrocento e la metà del
Settecento, testimonia – forse più della melanconia saturnina – le potenzialità immanenti di un nuovo
sentire. Di quel conflitto culturale, interiore e comunicativo (di cui abbiamo traccia attraverso le arti,
soprattutto dalla fine del XVI secolo), di quella «schizofrenia… forse conseguenza necessaria
dell’alfabetizzazione» da cui partiva McLuhan, rileggendo il King Lear shakespeariano con la sensibilità
della nuova scienza dei media.
Una terza forma archetipica della metafora occhio-vista/accecamento-oscurità, dopo quella arcaica e
quella connessa alla filosofia della natura, rinchiudeva d’altronde il mondo in un cieco carcere: la nera
città di Dite, l’inferno o l’oscurità contrapposti alla luce eterna della conoscenza e di Dio. Qui il Platone
della Repubblica smentisce Democrito: nella caverna (VII, 514-517) non c’è il folle-saggio, ci sono
invece uomini incatenati, spalle alla luce proveniente dall’apertura, che proietta sulle pareti immagini
illusorie, ombre labili delle idee che sono in alto, nell’iperuranio. In un mondo buio – dove la vista è
sospesa – ecco la prima apparizione di immagini già avvertite come schermiche e mediatrici di false
visioni (e si apre un baratro fra il soggetto e l’apparenza dell’immaginario, non solo tra la vera conoscenza
e la apparente verità delle opinioni comuni). La polis è città delle immagini. La vera conoscenza, per i
platonici, si distoglie dalle immagini, concentrandosi in una vista assoluta che si trasfigura da facoltà
della ragione umana a percezione mistica dell’Eterno. Da Plotino attraverso Agostino fino alle teleologie
medievali e alla potente rappresentazione letteraria della Commedia, la metafora dell’oscurità come
luogo del senso profondo si ribalta nel campo metaforico opposto e simmetrico della luce. L’Inferno è
una città semi-diroccata, proiettata in un pozzo nero e senza speranza, al fondo del quale sono le viscere
del Demonio (che è corpo al massimo grado); solo abbandonandola, aggrappandosi faticosamente ai
repellenti peli di Lucifero, Dante trova l’uscita in uno stretto budello, per risalire l’erta scabra verso
l’Eden naturale e di lì infine verso i Cieli, nel trionfo della Luce. Nella simbologia dominante
dell’occidente cristiano il senso metaforico positivo del non vedere come incunabolo dell’immaginario
collettivo viene abbandonato. La vista razionale si eleva per gradi fino alla vista della fede, e
all’abbandono ed unione con Dio.
E nel dominio della Galassia, la sublimazione metaforica nella vista della luce devia paradossalmente il
naturalismo filosofico degli umanisti dalle sue basi epicuree e ciniche, portandolo ad adottare fino al
massimo della sua diffusione la metafora della luce e della vista come conoscenza, fino ad erigerla a
vangelo “deista”. Seppure i sapienti dovranno assumere il celarsi (e dunque la grotta, il nascondiglio
segreto, lo scrivere in cifra) come condizione semi-obbligata – irridente, scandalosa e “nera” – di una
vita sottoposta a un regime di opinioni sostanzialmente false, il medium (che in breve tempo diventa il
medium del mondo) sarà la parola scritta e stampata dagli illuminati contro gli oscurantisti: e già con
particolare enfasi all’inizio del XVI secolo (per esempio nelle polemiche tra gli ambienti erasmisti e
quelli tradizionalisti e scolastici a proposito del recupero della filosofia antica), la ragione si incorpora
irreversibilmente nella vista e nel libro, e tale resta il connubio fino alla tarda modernità. Di contro, sarà
proprio l’oscurità pronuba ad apparizioni schermiche e proiettive, il buio sogno del passato “gotico” o
del presente criminale, ad assumere la funzione di rovescio della polis, e a dare forma alla spinta
perturbante. Ben presto, dagli spectacles d’horreur tardo cinquecenteschi in avanti, tocca agli artisti, ai
teatranti, ma anche - assai presto – a più modesti artigiani della penna e del racconto seriale, il ruolo di
dare corpo alle emozioni, alla voce, allo spettacolo sensoriale e mentale e alla casualità della vita reale
entro uno spazio dominato dall’occhio prospettico e raziocinante.

La cultura antica solo lentamente iniziò a configurare il senso come azione cognitiva di un soggetto in
grado di trascrivere il mondo in testi: un soggetto-potenza emergente, sebbene infinitesimo al cospetto
del gran libro della natura e di Dio. Gradualmente, con le possibilità di riuso della memoria scritta, l’arte
della parola si codificava, si tecnicizzava, cambiava natura. La stampa fu il “salto” decisivo: il mondo,
già intorno al XVI e XVII secolo, appariva come un immane coacervo di testi e di immagini testualizzate,
dove l’equilibrio tra il vedere-esplorare-organizzare del soggetto e l’incommensurabilità del fenomeno e
dello spettacolo si stava piegando tutto a favore dell’io-vista. Verso il XIX secolo, il ruolo produttivo e
creativo delle società umane e degli individui era divenuto senso comune; alle società e agli individui è
attribuito non solo il compito di conoscere il mondo, ma anche quello di generare il loro ambiente e se
stessi, di produrlo e consumarlo, in uno scambio comunicativo sempre più allargato.
Uno dei punti fermi della scienza dei media – naturalmente si tratta di un’idea che matura al seguito di
Nietsche, delle avanguardie, di Benjamin e di molto altro ancora - è la tesi che la musica inizi a cambiare
sostanzialmente proprio nel XIX secolo. Dopo millenni di deriva culturale verso un mondo dominato –
e ri/prodotto - dalla scrittura, emergevano nelle metropoli le potenze comunicative e sociali della
virtualizzazione della vita. Certo, le forme schermiche e immersive dell’immagine riprodotta, e non solo
le forme estetiche fondate sulla voce, erano già apparse da molto tempo, e si erano coniugate con la
stampa già a partire dal XV secolo; ma nelle metropoli, con una pervasiva diffusione dei media, si
sviluppano embrioni di proto-industria culturale e si viaggia decisamente verso una comunicazione
multimediale e di flusso. L’immagine riprodotta, e lo spazio visivo largamente riprodotto attraverso la
narrazione sono i vettori di un graduale passaggio, già nel XIX, verso le forme industriali degli altri
media, intrecciate agli usi industriali della scrittura. Secondo il McLuhan di Understanding Media
(1964), con le tecnologie elettriche la “realtà” implode. Dall’occhio si torna all’orecchio, o meglio,
all’inclusione sinestetica di tutto il sensorio: e dunque si riacutizza, ma rovesciato a favore del secondo
termine, l’antico conflitto tra il vedere e il sentire.
Allo stesso tempo, i conflitti latenti nella comunicazione vengono rielaborati negli oggetti – enigmatici
e semi-consci - dell’arte. Così il campo metaforico della cecità e dell’occhio, del buio e della luce torna
in gioco, soprattutto in operazioni che alla lontana richiamano la tensione generale e figurale dell’epica.
La bianca e sommergente corporeità di Moby Dick, fluttuante nel liquido oceano, non è il potente rovescio
simmetrico della ragione di Achab che si acceca? E il lento cadere nel buio della protagonista di Dancer
in the Dark di Lars von Triers non sembra indicare qualcosa che va oltre il dominio della vista,
organizzando in metafora il timore ma anche la vitalità di un nuovo sprofondamento dei sensi? Jorge
Luis Borges, affascinato dall’enigma della letteratura come simulazione che è anche labirintico ritorno
della soggettività sulle orme di se stessa, dedica alla metafora primigenia del cieco un racconto, L’artefice
– forse scritto nel 1934, pubblicato nel 1960. «Non aveva mai indugiato nei piaceri della memoria. Le
impressioni scivolavano su di lui, momentanee e vivide; il carminio di un vasaio, la volta celeste carica
di stelle che erano anche dei, la luna, dalla quale era caduto un leone, la pulitezza del marmo sotto i lenti
polpastrelli sensibili, il sapore della carne di cinghiale, che gli piaceva addentare a morsi bianchi e secchi,
una parola fenicia, l’ombra nera di una lancia nella sabbia gialla, la vicinanza del mare o delle donne, il
vino denso la cui asprezza mitigava il miele, potevano riempirgli totalmente l’anima». Le impressioni
dell’artefice sono vivide, pure, senza memoria. Quando egli perde la vista, e disperato si rende conto che
non vedrà più il cielo e il suo stesso volto, e che questo intanto cambierà, una mattina si sveglia e sente
«inspiegabilmente, come chi riconosce una musica o una voce, che tutto questo gli era già successo e che
lo aveva affrontato con timore ma anche con gioia, speranza e curiosità. Allora discese nella sua memoria,
che gli parve interminabile, e da quella vertigine riuscì a estrarre il ricordo perduto che brillò come una
moneta sotto la pioggia». Ma cosa veramente “era già successo”? Non solo il suo ricordo, come
l’episodio della iniziazione alle armi, e quello della iniziazione all’amore di una donna. Ma ogni ricordo,
ogni simbolo, ogni narrazione, che gli si presentano ora senza amarezza, come prefigurazione del
presente. Nel buio, l’artefice cieco comprende il senso metaforico di quel ricordo, e dalla storia del
rischio, dell’iniziazione, della sfida del combattimento, della malia dell’amore inizia la sua nuova
esistenza di narratore. Il capolavoro di Borges, naturalmente, non è solo nella sua rappresentazione di un
passaggio dalla vita nel presente senza memoria alla vita come letteratura e dunque come memoria,
simbolo e narrazione infinita; è anche e forse più nella metafora strutturale generata dalla situazione in
cui pone noi lettori: anche noi che all’inizio non comprendiamo nulla, viviamo in un mondo di
impressioni che ci scivolano addosso, anche noi alla fine comprendiamo – sprofondati nel buio –
l’enigma del cieco e siamo pronti ad assumere, attraverso il ritorno di Omero stesso al nostro presente, il
gioco vitale dell’immaginare, del “sentire” le voci, e del narrare. La letteratura del Novecento, in buona
parte, è questo gioco: un contro ambiente enigmatico che ci spalanca un mondo diverso da come appare
secondo le tecnologie e i modelli dell’informazione e della cultura industriale, uno sprofondamento nel
ricordo e nel sogno, dove consapevolmente indagare.

Il simulatore

C’è un altro campo archetipico delle metafore della comunicazione che è possibile seguire, dagli albori
della letteratura fino a noi.
Il simulare, nella letteratura antica sembra in origine legato al divino (gli Dei assumono a volte
fattezze umane, per aiutare gli eroi, o per congiungersi con giovani uomini o donne), come testimonianza
di un potere metamorfico di ordine superiore a quello degli uomini, che aspirano invece a fermare e
stabilizzare la forma e l’identità, nel tempo e nello spazio (Eracle vince sia Argo dagli innumerevoli
occhi che Proteo capace di innumerevoli forme: entrambi, forse, emblemi mostruosi di un recupero del
caos primigenio nella nuova potenza della città, che va domata e controllata). Tuttavia il mutaforme (lo
shapeshifter dei manuali hollywoodiani di sceneggiatura cinematografica), il personaggio che cambia
aspetto, mostrando dapprima una (falsa) identità e poi rivelandone a sorpresa un’altra, copre l’intero arco
dell’arte di raccontare, partendo da Odisseo (che inganna Polifemo, ma anche, forse, i Feaci e comunque
tutta la gente o quasi della reggia di Itaca), da Circe – così amata non a caso dal barocco – fino, per citare
episodi recenti o recentissimi, a La donna che visse due volte di Hitchcock o ai romanzi di Palahniuk.
Figura utilissima, quella del simulatore, nel muovere la narrazione garantendo sorprese anche
traumatizzanti per il destinatario; ma sarà bene domandarsi - tenendo conto delle enormi differenze fra
un’opera e l’altra, fra un’epoca e l’altra – se non vi sia un vettore comune e implicito di quel rinviare a
qualcosa di inespresso, a una identità mai completamente certa.
Rivestire l’identità di un’altra persona è una abilità specializzata, che richiede la capacità di cogliere non
solo i tratti essenziali ma anche le sfumature di un carattere, recitando una parte sul piano della resa
visiva, della voce, del corpo, degli schemi motivazionali, e del sistema delle relazioni sociali entro le
quali agire. La narrazione diventa allora una successione di scene (frames) in cui l’attore – il mutaforme
– assume diverse maschere, mantenendo il più possibile il controllo degli eventi. Secondo Erving
Goffman, è proprio entro questi giochi di interpretazione di un ruolo e di recitazione, specialmente nelle
società complesse, che gli individui tendono a interagire nello scenario sociale.2 La vita non è dissimile
dall’opera. Ma se l’uditorio che si intende irretire non conosce il personaggio che viene imitato, o ne
possiede solo una definizione superficiale, oppure se il personaggio è di invenzione (una composizione
di tratti presi da varie fonti), l’operazione del simulatore diventa – in senso ancora più esteso – quella di
creare uno o più caratteri. Dunque la metafora del simulatore (vale a dire: un soggetto che impersona
ambiguamente un altro soggetto; oppure: un soggetto che sviluppa creativamente un intero nuovo
personaggio con il suo mondo, partendo da un’ipotesi basata su alcuni tratti essenziali) ha bisogno – se
non nella prima versione, attingibile nella “rappresentazione” ambigua della vita reale, sicuramente nella
seconda versione, molto più complessa, di una “tecnologia” della narrazione in grado di controllare
logicamente ma anche di rendere virtualmente efficaci le apparizioni del “personaggio” simulato. E la
scrittura offre fin dagli inizi omerici alla letteratura potenzialità analitiche, descrittive e prospettiche, e
nello stesso tempo potenzialità spettacolari, date dalla capacità di creare immagini e di memorizzarle nel
tempo.
È possibile che l’apparizione del mutaforme segnali - ogni volta in modo diverso - la potenza dei media
come tecnologie della riproduzione e dell’immaginazione creativa. E dunque le fratture, le crisi che la
media/morfosi determina nel soggetto, e nella società. Fin dall’inizio: Odisseo, sul confine tra il mito e
la letteratura, viene trasformato nel suo aspetto fisico dalla dea protettrice, e appare come un mendicante
nella reggia di Itaca. Lì infine si rivela – dopo aver bene indagato la situazione e preparato una trappola
senza uscita per i Proci – come il terribile vendicatore, lo sposo e il re. Simulatore per travestimento in
un’altra persona, Odisseo non perde mai – per il lettore e per se stesso - i tratti iniziali dell’eroe; così
agendo, egli mostra di possedere una facoltà superiore agli uomini comuni, e cioè la capacità di
metamorfosi; e con un simile potenziamento il lettore tende a identificarsi: simulare è un potere e una
tecnica. Siamo all’io che impersona un altro (metafora del primo tipo), mentre la magia di Circe
rappresenta un esempio di simulazione come creazione di un mondo (metafora del secondo tipo) – non
a caso emblema, molto più tardi, della meraviglia barocca – ed è in un certo senso il momento più
esplicito di un modello generale della simulazione di interi mondi (veri? falsi?) che Odisseo si ingegna a
narrare ai Feaci. Qui il racconto sembra rinviare a una letteratura che scopre la dialettica tra controllo
dello spazio e immaginario implicita nella scrittura: a un’epoca che – come Platone – ha paura di un
viaggio senza ritorno nell’immaginario, invero ora possibile. I compagni di Odisseo, difatti, seppure
quella volta verranno salvati per il riscuotersi – dopo lungo torpore – dell’eroe, alla fine non torneranno
alle loro case.
Il testo che compie il salto decisivo verso la narrazione moderna europea, abbandonando gli schemi più
semplici e iconici delle letterature medievali, il Decameron, inizia costruendo un altro ipersegno
metaforico del simulatore: il trionfo parodico di Ciappelletto. Solo apparentemente (a livello del discorso
e della fabula) la prima novella del Boccaccio si limita a significare che il mondo santifica chi sa
astutamente ingannare recitando e impadronendosi di un’altra identità (ed è ovviamente l’apologia e la
critica della società mercantile, che costringe ai giochi di ruolo). Sotto la metafora del primo tipo, con un
Cepperello eroe in sedicesimo, è nascosta una costruzione iperbolico-paradossale e cinicamente irridente
rispetto a ciò che gli ingannati (e con loro i lettori) vedono e organizzano nel loro vedere. Assistiamo
cioè a un racconto del secondo tipo, al tentativo riuscito di un soggetto nel produrre un intero mondo

2
La vita quotidiana come rappresentazione, 1959.
finzionale, che si sostituisce a quello reale. È iniziata l’epoca moderna, l’epoca della fiction, e non si ha
più paura di Circe. Boccaccio inizia a sperimentare le potenzialità tecniche della scrittura narrativa al di
fuori dalla tradizione “figurale” del passato, e nel Decameron vengono rielaborate e trasferite in metafore
strutturali le energie e le ambiguità di una fase in cui le lettere tendono a diventare il medium centrale e
pervasivo di strati sociali ampi, e non semplicemente lo strumento di dominio dei nobili e del clero. Sul
piano della comunicazione, il giardino e la villa dove si intrecciano i racconti dei giovani gentiluomini e
gentildonne in fuga dalla peste tendono ad attutire e a governare nel segno della ritrovata filosofia della
natura le ripetute apparizioni del simulatore nelle novelle. Simulano quasi tutti: le mogli, i mariti, i
religiosi, spesso ottenendo impunemente ciò che vogliono; torna anche la tradizione di Odisseo, in
intrecci romanzeschi: il Conte d’Anguersa, Tedaldo, Torello sono eroi che fuggendo macchinazioni o
cattiva fortuna esplorano il mondo, e tornando dopo lungo peregrinare, si travestono e si sdoppiano; il
loro ritorno dopo l’esplorazione richiede la proiezione di un doppio immaginario e simulato. Così il
modello narrativo di tutta l’opera, e il motivo antico del travestimento dell’eroe al ritorno in patria,
comunicano implicitamente un senso strutturale in parte inedito: questi racconti ci dicono che dopo una
simile esperienza non solo si è in grado di esercitare fino in fondo la tecnica della proiezione di un doppio,
e financo quella della proiezione di un intero ambiente, ma che tutto questo può approdare anche alla
creazione di una nuova immagine di se stessi. Di conseguenza la riconciliazione, la riconquista di
un’unica identità socialmente riconosciuta, l’happy end, è esito necessario, ma anche convenzionale e in
qualche modo, e forse per la prima volta, instabile, come per esempio, nelle celebri novelle di Nastagio,
di Federigo, del marchese di Saluzzo. La tecnica della scrittura apre nuovi spazi al dominio
dell’immaginario, e per il soggetto l’unicità del proprio carattere inizia già ora, agli albori della
modernità, a perdere il carattere di dato assoluto, di certezza attorno a cui costruire un’intera esistenza.
La metafora del simulatore richiede un lungo e approfondito scavo. L’arte del romanzo come tecnologia
esplorativa e di riproduzione dell’immaginario, così come l’arte del teatro, matura in Europa nella fase
incipiente della modernità, tra Cinquecento e Seicento, e insieme all’apogeo della maschera – l’abito di
scena della simulazione – coincide con il momento dello sviluppo esplosivo della stampa. Nel romanzo
e nella novella barocchi la simulazione pullula; non solo invade la materia narrativa ma nella maggior
parte dei casi diventa la costante strutturale che organizza il racconto. Qualcosa di diverso accade nel più
importante romanzo satirico italiano del Seicento, la Lucerna, che consiste nella proiezione dei racconti
di innumerevoli vite (troncate da morte violenta), emessa da un oggetto parlante, che ne è l’ultima
reincarnazione. Anche se l’invenzione di quella struttura è molto più antica – deriva da Luciano – essa
testimonia una potenzialità importante, una deriva degli ipersegni metaforici, poiché qui non c’è nessuno
che si traveste, né una maga Alcina che crea un castello incantato. La vita stessa è lo spettacolo, proiettato
dalla lucerna, magica e umana, tragicamente e comicamente umana. La Lucerna, in fondo, è emblema
di una metamorfosi non prodotta e non gestita, ma subita. Di un tormento del sensorio e dell’anima.
Mutazione, metamorfosi.
Il ruolo di protagonista attivo del simulatore nelle narrazioni coincide, nel tempo, con la parabola della
scrittura come tecnologia della comunicazione di tipo unidirezionale, e poi dei media che continuano a
basarsi sulla scrittura. E di converso la tragica morte della simulatrice nella Donna che visse due volte di
Hitchcock, ancora più che il confinamento hollywoodiano nel sogno della Donna del ritratto di Fritz
Lang, sono il segno del conflitto che la tecnologia cinematografica riaccendeva fra il controllo del “reale”
e la potenza di un immaginario che nel cinema tende a divenire fino in fondo reale. In entrambi i casi, la
mise en abyme del rapporto con la simulatrice trascinava lo spettatore nel sogno, nell’estasi, nell’incubo,
nella incapacità di “mantenere la logica” della “realtà”, fino allo scioglimento finale. L’arte dei grandi
maestri del cinema produceva lì un contro ambiente onirico, che invitava a “sentire”, a provare quel
conflitto. Mentre i cyborg che popolano il mondo di Blade Runner, creature programmate in fabbrica
come perfetti simulacri, sono simulatori in senso ben diverso dagli umani. La tecnologia industriale ha
infatti raggiunto la capacità di proiettare e ricreare ex-novo il mondo, e i suoi abitatori: e il dubbio tragico
del cyborg protagonista di Blade Runner sulla sua natura (reale o virtualmente reale?) è il nostro stesso
dubbio; la sua forza come la sua tristezza sono le nostre.

Il mutante

Matura, nel fin de siècle, l’era elettrica.


Lo “spazio uditivo e tattile riconfigurato”. Un ambiente estetico risonante, pluritemporale, mitico. Una
continua emersione e reimmersione di figura e sfondo. La forma attraversa il più aspro dei conflitti:
l’implosione elettrica convive con il surriscaldamento dell’esplosione percettiva e culturale moderna,
gutenberghiana. La “materia collettiva e mitica” in corto-circuito con la “forma individualistica,
segmentale e meccanica”; la “visione tribale e collettiva” con “l’espressione privata e commerciabile”.
L’acme del mondo tipografico, potenziato dalla velocità elettrica, raggiunge secondo McLuhan il
culmine di una sorta di taylorismo mediale: “istantanee mentali”, gestione delle immagini, e tentativi di
controllare la catena degli effetti; riduzione della vita conscia a un unico livello e possibilità di invasione
(e governo) dell’inconscio collettivo, reso ipertrofico dalla “dissociazione e surriscaldamento della vista”
(Understanding Media, 1964).
Sono le avanguardie artistiche ad anticipare il rovesciamento audiotattile, e il parto del nuovo mondo dei
mass-media e del consumo. Testimoniando e svelando il conflitto, esplorando strutture e figure della
nuova soggettività (la simultaneità, il mito, il simbolo, il coinvolgimento “del lettore come coautore”, la
rinuncia all’”io esclusivo”, il ritorno pre-moderno alla “cecità del veggente”, all’intensificazione
dell’interiorità). E una linea di grandi scrittori provenienti da zone “periferiche”, orali, si è orientata - già
da tempo - nello stesso senso: Poe e Melville, i progenitori; in seguito verranno Yeats, Joyce, Faulkner,
Dylan Thomas (Understanding Media). Ma a quella linea mainstream dovremmo aggiungere Conrad. E
le metafore più potenti della metamorfosi e della mutazione, quelle di Kafka e di Céline.

“Mutazione”, nel linguaggio attuale, riconduce prevalentemente alla metafora biologica e genetica. Nella
terminologia riferibile ai processi culturali (sulle orme degli “scienziati sociali” e dei médécin-
philosophes tardo-ottocenteschi), dovrebbe implicare - almeno oggi, nella nostra epoca - una definizione
dinamica: una soglia, una rottura di continuità. Dal moderno al postmoderno.
La mutazione, intesa come conservazione e diffusione di una modifica nel DNA di una specie vivente, è
relativamente imprevedibile in natura. Ma ora - nel mondo delle biotecnologie, del calcolo e
rappresentazione digitali, dei sistemi di intelligenza artificiale – anche le mutazioni possono essere
indotte, e quindi previste. Inoltre, per mano dell’uomo, i processi di mutazione delle specie viventi
accelerano, e di molto. Siamo di fronte a un nuovo sviluppo della sfera dell’innovazione, quindi delle
possibilità di scelta; sul piano culturale e sociale si intensificano dunque le paure, il senso di dissoluzione,
di resa a potenze estranee (Remo Bodei, Destini personali. L'età della colonizzazione delle coscienze,
2002). Si diffonde l’angoscia della mutazione: come rischio di una discendenza deviata, come destino
che può rendersi irreversibile, come cambiamento troppo veloce per poter essere governato. Paura – e
fascino - della morte, o di un destino “altro”. Questo è probabilmente il motivo per cui la metafora
letteraria e spettacolare del mutante, una vecchia conoscenza dell’immaginario collettivo a partire almeno
da Frankenstein, è riapparsa – soprattutto a partire dagli anni ’70 del Novecento – in infinite varianti. Si
avverte il cambiamento incombente nella sfera biologica, nella natura, nel corpo; e lo si avverte
inestricabilmente connesso a una trasformazione veloce della cultura: la società dell’informazione e della
comunicazione rende quasi irriconoscibili i paesaggi.

Se abbandoniamo il dominio violento della mutazione, e torniamo a pensare la trasformazione delle


forme culturali come “metamorfosi” – come avvenne nella tarda antichità, e poi di nuovo nel barocco –
ci troviamo invece nei confini della antica metafora mitologica e letteraria, non ancora distaccata del
tutto dall’ordine "naturale" del ciclo (Persefone, Proserpina…). È la rielaborazione filosofica, nel mondo
della scrittura, del mito secondo il quale uomini, piante, stelle condividono un destino di storie intrecciate,
un continuo fluire da uno stato di esistenza all’altro, un morire vitale e creativo, che genera nuove entità;
e sono le potenze naturali, gli dei, a governarlo. Di tutto questo nella tradizione del pensiero occidentale
sopravvive un senso di dolce violenza, di adattamento e plasticità, magica e misteriosa. Così l’idea di
metamorfosi rinvia anche nel nostro linguaggio a processi trasversali, senza soluzione di continuità. Essi
formano il nostro paesaggio, e possiamo farcene una ragione.

Un cambiamento violento, che desta stupore e paura, o un processo di adattamento più “soft”: le spie
linguistiche segnalano – è evidente - due modi assai diversi di interpretare lo spaesamento del soggetto
in un ambiente che gli appare sovvertito. Quanto alla più celebre narrazione novecentesca di
Metamorfosi, quella di Kafka, attenzione, perché il titolo sembra funzionare in senso paradossale: proprio
come epitaffio sarcastico della metafora classica (ma anche tardo romantica e positivistica)
dell’adattamento. Gregor Samsa è infatti un imprevisto mutante, sul quale si esercita, ineludibilmente,
una scelta sociale. L’invenzione di Kafka ci dice dell’incombere di una trasformazione immanente e
dirompente, e della paura sociale che la accompagna, e della reazione conseguente: finché il
cambiamento mostruoso, radicale e incontrollabile si può bloccare, il meccanismo di esclusione tenterà
di confinerà il disagio.
O fingerà di confinarlo. Gregor viene eliminato; ma la sua figura rimane, come uno squarcio
enigmatico e irreparabile in un tessuto sociale che nel racconto appare liso, vulnerabile nella sua
ripetitività e nella sua dimensione statica (appositamente e vistosamente ostentata). Così la Metamorfosi
anticipa il passaggio (traumatico e conflittuale) verso la postmodernità, a lungo covato dallo sviluppo
intensivo e onirico dell’immaginario. E il testo dissemina segnali sulla mutazione imprevista, e sul nuovo
soggetto che ne è nato, tali da determinare una ironica metafora, di cui oggi è più agevole provare a
cogliere gli aspetti che riguardano la comunicazione.

Nel rivoluzionario avvio del racconto, Kafka lavora sulla figura, sulla percezione del mutante che appare
improvviso, nel consorzio umano.

Cosa m’è avvenuto? Pensò. Non era un sogno.

Solo con lo scorrere delle pagine anche lo sfondo, la struttura, riguadagna il primo piano, anticipando la
forma del Processo, del Castello, e del romanzo incompiuto, Il disperso3. La prima cosa che Gregor
Samsa percepisce del suo nuovo corpo di scarafaggio è il guscio. La seconda sono le gambine, “numerose
e sottili”. Il guscio, duro ma non abbastanza da proteggerlo dalle ferite, e dalle mele che gli tirerà addosso
il padre esasperato, racchiude come una debole corazza una materia poco consistente, quasi liquefatta,
matrice di umori viscidi che si spargono in vario modo per terra e sulle pareti. Quanto alle gambine, le
sue nuove protesi, esse saranno inizialmente percepite come ipersensibili e doloranti. Il movimento non
è più il forte di Gregor, che prima rappresentava il classico esempio del superattivismo dell’uomo
d’affari. Nel nuovo stato, dunque, è tutto il sistema percettivo di Gregor ad essere cambiato, come il suo
stato fisico. Decine di arti sottili, le nuove protesi; una diversa sensibilità al dolore, insieme più acuta e
più ottusa; il gusto di mangiare rifiuti; una vista che si ottenebra e si adegua allo spazio che perde le
coordinate umane; un rapido ambientarsi nella stanza ridotta ad affastellamento di oggetti. Non sono
indizi sufficienti per comprendere l’enigma del corpo di Gregor? Metafora dal senso nascosto, e non solo
invenzione onirica che anticipa la tecnica surrealista, Gregor si colloca ancora più avanti, più vicino a

3
Il disperso (Der Verschollene) era il titolo che secondo i suoi appunti Kafka avrebbe dato al romanzo che venne pubblicato
postumo da Max Brod come America.
noi, ben oltre la compresenza di sogno e realtà: poiché, appunto, “non era un sogno”…). E oggi i vettori
della metafora sono più evidenti: la liquefazione, il trash. Come lettori-spettatori postmoderni siamo
assuefatti alle mostrificazioni, allo spargimento di ogni umore corporeo, al disgusto misto a euforia, allo
sguazzamento in iperestesia come al rinserramento debole in interni-guscio in decadenza, esposta alla
mutazione violenta). Quelli rappresentati da Kafka sono infatti i tratti comuni dell’immaginario di flusso,
nella sua dimensione surriscaldata e dolorosa.
A una parete della camera di Gregor c’è un’immagine ritagliata da una rivista e incorniciata. Lo
scarafaggio, simbolicamente, si attaccherà disperatamente al vetro di quella figura, per non farla togliere
dalla stanza ormai vuota dei suoi oggetti di prima. Si tratta di un’immagine di moda, una donna in berretto
e boa di pelliccia: “essa levava incontro a chi guardava un pesante manicotto, in cui scompariva tutto
l’avambraccio”. Quel vetro-schermo sulla parete, emanazione della metamorfosi fascinosa della moda,
in alternativa al guscio della famiglia. Le relazioni labili, veloci e inconsistenti dei viaggi d’affari da un
lato, e l’organizzazione occhiuta, super-logica e gerarchizzata fino all’assurdo della sua ditta dall’altro,
erano d’altronde l’ambiente in cui Gregor si era identificato, esterno all’involucro ormai vuoto della
famiglia. Nella sua nuova, angosciosa esistenza, il post-umano sembra voler immergersi disperatamente
e ostinatamente nello schermo, mentre il suo mondo primario, e quello logico-secondario della vita
adulta, lo escludono: vista da un mondo ordinato e pre-spettacolare, la liquefazione postmoderna non può
che essere vissuta con terrore e disgusto. Ma era troppo tardi, come il lettore di oggi comprende
perfettamente, per il tentativo di happy-end finale tentato della famiglia Samsa. Da quella metamorfosi
non è dato scampo.

Così Kafka provò ad immaginare il mondo dove la potenza immanente si manifestava nei suoi tratti più
vitali: l’America. Vi sbarca, in quello straordinario romanzo incompiuto che è Il disperso, il sedicenne
Karl Rossmann, emigrante forzoso, espulso dal Vecchio Mondo (non è priva si significato la strana
alleanza tra la famiglia - che di nuovo si svuota ed esclude - e la cameriera che ha praticamente violentato
il giovane disperso). Straniante impatto, “per un tedesco”, New York. Dove ancora prima di sbarcare,
sulla nave ancorata nel porto, si avverte il dominio di qualcosa di simile al “pensiero laterale”, una
casualità apparentemente priva di logica, che funziona da sfondo per tutta la vicenda: Karl cerca un
ombrello e perde la valigia; si appassiona nella difesa di un fuochista suo compatriota dai soprusi dei
superiori e trova il ricco zio Jakob (ma è veramente lo zio? quello autentico aveva Jakob come nome di
battesimo, non come cognome). Ogni azione consapevole di Karl fallisce, mentre eventi apparentemente
privi di motivazione - o anche prodotti da evidenti errori di giudizio - lo investono cambiando il suo stato,
e tutto il corso del racconto. Il lettore degli altri romanzi di Kafka conosce assai bene, del resto, quel
meccanismo, e allora non può fare a meno di notare una differenza: qui Karl non si proietta
ossessivamente e quasi disperatamente verso uno scopo (organizzare una strategia di difesa, come nel
Processo; essere reintegrato nel ruolo sociale inizialmente previsto, come nel Castello), e nemmeno
impiega di continuo la sua mente in ragionamenti logici e dilemmatici per darsi una spiegazione dei
comportamenti dei suoi interlocutori, e soprattutto dei suoi enigmatici persecutori. In America, o in
America, semplicemente, la struttura è “laterale”. Il caso domina, e questo è tutto, sebbene dietro il caso
si manifesti in seguito un motivo che apparentemente ne rappresenta la causa (il più delle volte si tratta
di una pulsione assurda o violenta, e spesso ambivalente di qualcuno: la smaniosa fissazione per la
coerenza che sembra possedere l’imprenditore self made man Jakob; l’ossessione punitiva e falsamente
deduttiva e processuale del capo-cameriere e del capo-portiere nell’Hotel Occidentale; l’avidità e il
sadismo del manigoldo e truffatore Delamarche; ma ci sono anche la benevolenza dell’altro uomo
d’affari Pollunder, la coquetterie scandalosa e androgina della figlia Clara, e l’affettuosa protezione della
capo-cuoca Greta Mittelbach). La situazione di Karl cambia forma di continuo, come i ripiani della
scrivania “americana” che lo zio fornisce – lateralmente e controvoglia – al giovane destinato ad
affrontare un mondo mutato, privo di ordini stabili, in perpetuo flusso, e spezzato in frammenti, in
schegge di senso. Lo rappresenta, in una visione elettrica e metaforicamente intensa, la celebre visione
di Manhattan:

… un turbine di figure umane e veicoli, da cui si leva un secondo turbine più complicato e più sconvolto, formato di rumori,
polveri ed odori, e tutto questo era incalzato e compenetrato da una luce potente, che continuamente era come dispersa e
portata via dalla massa degli oggetti e poi in fretta nuovamente raccolta, sicché all’occhio confuso appariva addirittura
corporea come se sopra alla strada venisse ogni momento spezzata una lastra di vetro che ricopriva ogni cosa.

Frammenti di uno schermo. La luce che vi si riflette corporea… Hollywood, lo spettacolo, il mondo come
industria culturale, che ancora deve produrre i suoi effetti - e che probabilmente trova nel romanzo una
fantastica rappresentazione per metafora nel capitolo isolato sul Teatro naturale di Oklahoma – appare
ed è già in frantumi nella percezione anticipatrice di Kafka (“meglio non interpretare l’America come
uno spettacolo , si rischia di rovinarsi”, ammonisce del resto lo zio, che è divenuto milionario per aver
inventato un’impresa di comunicazione e servizi import/export). America è infatti la mutazione in piena
corsa: un feroce surriscaldamento del flusso metropolitano, fino alla definizione di non-luoghi, come il
parossistico ufficio di portineria dell’Hotel Occidentale, interamente in vetro trasparente, dove tutto
procede ad altissima velocità e standardizzazione delle risposte vocali, delle comunicazioni telefoniche,
della scrittura veloce. Quindi, l’implosione, dove i frantumi sono nelle identità fatte di schemi
apparentemente sconnessi degli individui, nell’aspetto onirico e labirintico, e perfino trash degli interni,
nello spettacolo da luna-park dei comizi in strada, nella degenerazione sadomasochista e quasi splatter
dei persecutori che tormentano un Karl in verità abbastanza pronto a integrarsi nel nuovo mondo.
Costringendolo a uno sprofondamento notturno, surreale, e forse senza ritorno, nelle viscere infernali di
Ramses, la metropoli immaginaria (uno scenario che ci ricorda nel finale il cinema di Tarantino, dopo
aver rasentato quello di Lang).

Se ci lasciamo catturare da Kafka, è dunque per essere sballottati nel processo originale e violento della
mutazione postmoderna, in un sistema di metafore con un forte significato simbolico/sociale:
dall’immagine di moda alla logica “laterale”, dal grande spettacolo di massa alla frantumazione e alla
liquefazione postmetropolitana. L’enigma letterario – in struttura e in figura –, e il cambiamento
incombente. L’artista che intuisce e dà forma in poche pagine a qualcosa che solo con grande sforzo –
spesso dopo decenni – le scienze sociali riescono a definire in termini di pensiero sistematico.

L’orrore post-umano

C’è una archeologia letteraria anche per l’immaginario delle reti?


Se Kafka – come si è detto - ne rappresenta la percezione negativa e paradossale, lo spaesamento, è
probabile che l’anticipo visionario della mutazione si trovi nel cuore delle avanguardie storiche, nei
manifesti futuristi. Lì Marinetti (recuperando e rovesciando la poetica simbolista), immaginò un neo-
linguaggio letterario in grado di funzionare come nuova tecnologia del sé post-umano. È infatti nel
magma incandescente e simultaneo del cambiamento della società, del soggetto, del corpo innestato di
protesi artificiali, che la nuova soggettività teorizzata da Marinetti intendeva immergere le sue reti – fatte
di quelle forme letterarie mutanti, che sono le immagini simboliche.4 Immagini come nodi della rete, e
come sensori: era la premessa di quella forma della soggettività, percepita come relazione plurale e
fusionale tra una mente/corpo essenzialmente tattile e un ambiente fluido, che dopo l’incubazione nelle
avanguardie va a costituire lo sfondo strutturale della letteratura dell’ultimo Novecento. Qui ne vedremo
un solo esempio, sulla linea di quel surriscaldamento percettivo che da Batman (il supereroe già dark) e
4
Nel Manifesto tecnico della letteratura futurista, del 1912. Cfr. Ragone, 2000.
da Bates (l’assassino in Psycho di Hitchcock) porta a Patrick Bateman, il protagonista di American
Psycho di Bret Easton Ellis (1991):

Sono al DuPlex, il nuovo ristorante di Tony Mc-Manus a Tribeca, con Christopher Armstrong, un mio collega della P & P.
Abbiamo studiato tutti e due alla Exeter, e prima di trasferirsi a Manhattan lui ha frequentato… […] Armstrong indossa un
doppio petto gessato a quattro bottoni e una camicia dal colletto ampio, tutto Christian Dior, e una larga cravatta di seta paisley
Givenchy Gentleman. La sua agenda di pelle e la sua cartella, entrambe Bottega Veneta, giacciono sulla terza sedia del nostro
tavolo, che posizionato com’è, all’ingresso e accanto alla finestra, non mi dispiace affatto Io indosso un abito di lana pettinata
a occhio di pernice Schoenemann comprato da DeRigueur, una camicia di cotone perlé Bill Blass, una cravatta Macclesfield
di seta Savoy e un fazzoletto di cotone Ashear Bros. Una versione da ascensore della colonna sonora di Les Misérables risuona
in sottofondo nel ristorante. […] Il Patty Winters Show stamattina era incentrato sugli Assassini di Neonati. Tra gli spettatori
presenti in studio c’erano i genitori di bambini rapiti, torturati e uccisi, e sul palco un gruppo di psichiatri e pediatri cercavano
di aiutarli a fare i conti – piuttosto inutilmente, va detto, e con mio enorme piacere – con la loro rabbia e confusione. […]
Qualcosa tuttavia mi disturbava mentre di fronte allo schermo gigante Sony facevo colazione con fettine di kiwi e mela-pera
giapponese, acqua Evian, muffin biologici alla crusca, latte di soia e muesli alla cannella, impedendomi di godere appieno del
dolore di quelle madri, e soltanto verso la fine dello show ho capito di cosa si trattava: la crepa sopra il mio David Onica, di
cui avevo parlato al portiere…[…] Così uscendo ho deciso di fermarmi in portineria per reclamare, ma il portiere che mi sono
trovato davanti era nuovo, all’incirca della mia età e però semicalvo, squallido e grasso. Sulla scrivania, accanto a una copia
del Post aperta alla pagina dei fumetti c’erano tre ciambelle glassate…

Siamo nella Manhattan di American Psycho: un laboratorio-scenario virtuale dove Bateman e i suoi
interlocutori rappresentano la loro parte di quintessenza del soggetto/consumatore. L’ennesimo
concentrato del presente imploso. Una postmetropoli che è reggia barocca, luna-park, ma anche ventre
sfondato, caos reticolare, iper-plasia della ricchezza e debordamento del kitsch, o assaporamento
disgustoso di homeless liquefatti senza speranza. È lì che attraverso la causticità dandy (riservata del
resto a se stesso o a yuppies o barboni scarsamente interessati a decodificarlo), dalla soggettività di
Bateman completamente fusa con un ambiente saturo di consumo, trabocca gradualmente il sadismo
violento, mostruoso, ma senza quasi conflitti. Il soggetto come post-mostro, un serial killer che ha
totalmente perduto i connotati storici, letterario, massmediatici, giornalistici e filmici dei suoi archetipi
(le apparizioni paurose del flusso, dal romanzo nero e poi da Jack lo Squartatore in avanti).5

Il meccanismo si ripete nel testo centinaia di volte, spia di quella microfisica del corpo di cui si è detto,
che qui entra fino in fondo nella scrittura (ma sarà da vedere con quale funzionalità sociale). American
Psycho è dunque - almeno in apparenza - un paradosso sul consumo. Bateman non è diverso dai suoi
colleghi, “normali” yuppies intenti a navigare strenuamente nei territori completamente virtuali dei
linguaggi di moda. Li rappresenta anzi alla perfezione, superandoli in conoscenza dell’ambiente, e nella
pratica della tastiera di gioco dell’io polimorfico, in grado di esercitare le più diverse pratiche a seconda
degli ambiti di (non)luogo e di (non)linguaggio richiesti. Infine sublima con metodo efferato – se così si
può dire – la libidine dell’iperconsumatore. A partire da uno qualsiasi dei suoi mondi di consumo, egli
applica infatti su se stesso una tecnica di surriscaldamento del desiderio in grado di portarlo faticosamente
e per tentativi anche affannosi, fino a uno stadio oltre, dove il parossismo porta a uno scioglimento
splatter dell’io e dei corpi come esito procurato. La macchina del carnefice (che non è una novità, come
l’io polimorfo: risalgono entrambi all’archeologia barocca del moderno), insieme alla creatività

5
La rottura che si è consumata con la serie letteraria viene naturalmente segnalata, qua e là: l’unica scheggia di romanzo che
fluttua intorno riguarda i Misérables (le immagini pubblicitarie per il lancio della versione cinematografica); nella dedica, in
quel quasi-nulla che resta di una “cornice”-filtro distanziante per il testo che si è qui completamente estinta, riappaiono i
demoni del Sottosuolo di Dostoevsky, sotto forma di spezzone appaiato a un altro dei Talking Heads, secondo una pratica
abituale nei romanzieri transnazionali dell’ultima generazione.
dell’artista: così l’iperconsumatore pianifica uno schema, volge a suo vantaggio un incontro o un evento
casuale, si procura il suo godimento.
E allora dal consumo conviene spostarsi verso il soggetto, e dal paradosso verso la struttura del racconto.
Tutto è cambiato, infatti, rispetto a Hitchcock - che ha funzionato a lungo come archetipo
dell’immaginario del terrore non solo cinematografico. In Psyco - nella schizofrenia del protagonista
Norman Bates (interpretato da Anthony Perkins) - l’emozione si libera attraverso la dissociazione della
realtà. Nella schizofrenia filmica il mondo si rompe, il motel si scioglie in mattatoio, l’io si spacca e ne
esce un lago di sangue; un flusso di adrenalina allo stato puro invade la percezione e viene - per gli
spettatori – da fuori e da dentro, dallo schermo su cui si proietta una fiction e dalla violenta emersione di
una doppia personalità interna. Bates era ancora la figura (letteraria e mediale) dell’identità che si spezza,
perdurante lungo i quasi due secoli del tempo della metropoli, con i connotati dell’emersione di una
personalità aberrante, di uno stato percettivo iper-lucido e nello stesso tempo in trance (specchio e
metafora strutturale della realtà che si liquefa, aprendosi in squarci di follia). Bates come soggetto andato
in pezzi. Ma a questo, il mondo dei media ci ha abituato.
Bateman (la radice del cognome suona ambiguamente, come “indebolire”, “macerare”, “abbattere”) è
invece la mutazione del soggetto nell’epoca successiva, la nostra; dove alla metamorfosi per liquefazione
e alla frantumazione dell’io nel flusso si sostituisce l’estasi dell’implosione. Al posto del motel in
Arizona: Manhattan, anzi l’America di American Psycho, il mondo ipermediale, globale, saturo di
comunicazione e di segni. Al posto di un uomo qualunque alla deriva (come era Bates, gestore di un
motel di provincia): un uomo al comando come Bateman, che ricopre contemporaneamente i ruoli di
yuppie, creativo, testimonial, super-consumatore. Al posto della violenta frattura, del fluire agghiacciante
del sangue (e del cadavere della madre, mummificato da Bates come simulacro dei codici istituzionali
sommersi dal flusso): una preparazione costante, accurata, creativa, delle orge di violenza; un
surriscaldamento della percezione, omologo alla droga, spinto per gradi verso l’inferno di un ferire,
sbranare, amputare, sezionare, ridurre a spezzoni, come atti in serie, omologhi ad altre operazioni di
piacere. Da un mondo e da un io violentemente doppi, assaliti e liquefatti dalla percezione dell’orrore,
siamo arrivati al mondo e all’io interamente strutturati dal consumo, con l’unica possibilità di agire per
surriscaldamento e implosione, secondo una strategia che mira a distruggere/creando. In altri termini
Ellis ci obbliga a misurarci con un piacere completamente artificiale, esercitato su un corpo
completamente fluido, fuori dalla forma, senza distinzioni tra interiorità e esteriorità (Mario Perniola, Il
sex appeal dell’inorganico, 1994). Il mutante Bateman nel suo ambiente imploso, e la sua tecnologia del
sé: la sintesi ipercreativa dell’orrore. Una soggettività outrée come risposta al surriscaldamento del
flusso, che ha generato un oltre, (permeando tutto lo spazio/tempo, addensandosi in un infinitum di segni,
marche, configurazioni, e stereotipi: Bateman non ha quasi ricordi, se non di migliaia di episodi simili a
quelli che mette in scena ogni giorno, e quel poco che resta delle relazioni con la madre e il fratello si
colloca più o meno sullo stesso registro).
Quella di giocare con i materiali e le regole della scrittura di flusso, facendoli implodere, non è una
invenzione originale di Ellis. Si tratta invece di una “deriva” – l’iperrrealismo – comune a molti autori
della nuova generazione, sebbene l’innesco sia già nelle avanguardie degli anni Sessanta. Non intendo
con questo riferirmi soltanto a singoli movimenti artistici, ma alla tendenza generale, alla dimensione
espressiva di una realtà satura di informazione, dove i livelli della visione sono sempre multipli,
sovrapposti, virtualizzati, e nella quale è possibile sciogliere, disgregare, ridurre a spezzoni e rimettere
in moto con algida prontezza ogni struttura mediale, come in generale ogni struttura dell’io.
L’iperrealismo, dunque, come tecnica della comunicazione implosa, senza conflitto apparente, come
mistero del banale in cui si dissemina il torpore estatico. E in American Psycho, come deriva tattile,
iperestetica e non-significante della violenza. Tutto questo ci porta verso un’ultima ipotesi generale,
valida per Ellis, ma anche per De Lillo o per Nove. La metafora comunicativa sembra perdere la
dimensione dell’enigma, simbolicamente denso (l’immagine-sensore delle avanguardie, il significato
nascosto della struttura, da Kafka a Gadda). Soprattutto negli anni Novanta il racconto della Grande
Mutazione assume un carattere ostentato, fra il paradosso e la parabola, eco lontano della tradizione della
satira, ai due livelli in cui l’enigma del testo di norma si produce, vale a dire sia in struttura (quella
iperrealista, della post-metropoli, di cui si è detto fin qui ), che in figura. Narrazione in prima persona
della mente di un soggetto mutante, il testo di Ellis ci restituisce un’identità in cui l’estremo polimorfismo
si è travasato in un sensorio che integra le nuove funzioni percettive artificiali dell’epoca digitale:
scanner, potenza di elaborazione dei dati (secondo schemi plastici ma anche ripetitivi), gigantesco riuso
di immagini e di codici…. Dal quasi-cyborg Patrick Bateman che ne risulta, sparisce l’antico carattere
sacrale del mostro, quello che oscuramente permaneva nelle rappresentazioni dell’orrore nella civiltà
metropolitana, fantasmatica, di flusso; quella mostrificazione che con tragica e sarcastica ironia veniva
infine attribuito ai recessi della nostra psiche, da Poe fino a Hitchcock. Nessun mistero, nessun fascino,
in Bateman, solo coazione e euforia. O in altri termini, la personalità violenta e schizoide dello Psycho
hitchcockiano, migrata in lui, ha occupato tutto il campo, senza che nessun allarme sociale sia scattato,
e ha appreso a fare implodere se stessa e l’ambiente, virtualizzandolo. E attraverso l’invasione horror
degli anni Ottanta (di cui è metafora l’ossessiva presenza del serial killer nella scrittura cinematografica
e giornalistica-televisiva, fino alla saga celebrativa di Hannibal), si è arrivati fino all’attuale scioglimento
del “genere” in larghe zone della narrazione postmoderna.
Patrick Bateman è dunque molto di più di un serial killer: si presenta piuttosto come un consumatore
disposto a una trance perversa, entro una gamma che eccede le pratiche abituali solo per mostrare
ostentamente i rischi sociali di una mutazione non prevista e governata. E American Psycho non è un
racconto dell’orrore, ma la registrazione percettiva in prima persona delle connessioni neuronali che si
formano nella mente di Bateman, come in quella di ognuno di noi: immagini, emozioni, emissioni vocali,
suoni in arrivo, previsioni, stati psichici. Tale il serial killer, tale il lettore, che non si colloca più in modo
scisso nello spazio narrativo (come vittima e come carnefice), secondo le buone abitudini metropolitane.
Lo stato cyber della mente abolisce ogni distanza, o almeno, questa è la potenzialità (e la paura che si
scatena): lo spazio/tempo narrativo si predispone alla soglia del virtuale. Lì dentro, la mente naviga
lasciando una traccia registrata, ancora nel dispositivo irreversibile e lineare della scrittura.

Le metafore dei media

Teoria. Esiste ancora un mainstream della letteratura? Esso è ormai largamente globalizzato e
globalizzante, così si può dire che come la svolta, o per meglio dire la cesura della allora giovane narrativa
italiana dei primi anni Novanta si è servita largamente di un autore come Ellis, così Ellroy, magari con
qualche anno di ritardo, è stato influente nella scoperta italiana del noir, che passa da un immaginario
letterario e cinematografico americano. È questa dimensione mediale e comunicativa del testo quello che
a me interessa, e che ritengo fondativa dello stesso senso della esperienza estetica delle arti. Dimensione
comunicativa: e comunicare non è un trasferire informazioni, naturalmente, quanto un ospitare
immaginazione collettiva per produrne altra. Utilizzare le strutture dell’immaginazione collettiva, che
sono metafore organizzate, figure e strutture che hanno valore metaforico per il senso comune, e farne
altro, che forse potrà assumere un senso metaforico a sua volta, per pochi o molti lettori. In questo caso,
milioni di lettori.
Risparmio al massimo gli argomenti teorici, salvo il punto di partenza: perché e come la scienza dei
media, quando guarda nei testi, può aiutarci a comprendere meglio quelle metafore, e dunque noi stessi.
La scienza dei media si muove nel dominio trasversale delle discipline estetiche, delle scienze della
cultura e della società, ed è irriducibile ai paradigmi “moderni”, logici e riduzionisti della “trasmissione
di informazioni” (e di una economia marginalista della cultura). Il punto di partenza della mediologia
consiste nell’individuare ogni nuova forma della comunicazione (che sia sperimentale o banale,
creazione personale o prodotto di massa) come una azione che nel caos apparente dell’evoluzione
culturale trasforma l’esperienza collettiva (McLuhan, La legge dei media, 1988). Essa ha dunque come
vero oggetto il senso della forma per la psiche e per la cultura.
Per “forma”, intendiamo la struttura di un oggetto utile a comunicare, e che a sua volta cambia la
soggettività. Dunque sono forme i media, le tecnologie, le arti, ogni nostra estensione comunicativa in
grado di funzionare sul piano mediale (i media come sistemi di traduzione di una struttura dell’esperienza
umana in un’altra), sul piano comunicativo (le tecnologie come atti di interpretazione, di selezione e di
individuazione dell’ambiente, capaci di darne una nuova versione possibile), e sul piano
conoscitivo/creativo (le arti e gli immaginari come lavoro sulle strutture e le figure della cultura che ne
genera altre).
Ai tre livelli di determinazione della forma, è sempre presente un senso metaforico, che allude a una
trasformazione. Un senso che investe la soggettività (l’io/noi: il soggetto e la comunità sociale, come
percezione, corpo, immaginario).
Ogni nuova forma della comunicazione (sperimentale, artistica, o processo industriale, seriale che sia)
trasforma l’esperienza collettiva, la ri-media, ne provoca la metamorfosi. Così un romanzo è un medium,
un sistema di traduzione di una struttura dell’esperienza umana in un’altra. Come ogni tecnologia della
comunicazione, attraverso il romanzo compiamo pratiche di interpretazione, di selezione e di
individuazione dell’ambiente, capaci di darne una nuova versione possibile. Ma McLuhan sosteneva che
a queste funzioni gli oggetti – e i processi - artistici ne aggiungono, o più che altro ne sviluppano più
intensivamente e visibilmente, un’altra, generando - nella esperienza che ne facciamo – un vero e proprio
“controcampo” conoscitivo/creativo latente, che lavora sul nostro corpo e su quello della cultura,
utilizzando strutture e figure oggi diremmo virtuali, metafore il più delle volte enigmatiche che alludono
alla metamorfosi della soggettività (l’io/noi: il soggetto e la comunità sociale, la percezione, il corpo,
l’immaginario; in breve: la soggettività della mediamorfosi, il senso profondo della comunicazione). A
cosa servono i romanzi?
Alla trasformazione culturale, naturalmente: “I media non possono essere indagati direttamente, perché
i loro effetti sono subliminali”; perciò “… le arti indagano lo sfondo mediale e inventano i collegamenti
tra l’ambiente tecnologico e l’eredità biologica”. Inoltre - rimuovendo la pressione dell’”attuale”,
recuperando sfondi precedenti, ed esasperando l’evoluzione estetica - esse collaborano a rovesciare la
forma, in una nuova configurazione… In alcuni passaggi-chiave di McLuhan, si va oltre queste
definizioni generali, per individuare tre convergenti e specifiche azioni artistiche. Vale la pena di renderle
esplicite, per introdurci alla teoria delle metafore della comunicazione.
La prima consiste in un orientamento simbolico all’autodefinizione, all’esperienza di noi stessi - si
potrebbe dire - nello spazio del racconto o del quadro. La seconda in un orientamento all’innovazione,
intesa come tentativo di anticipo di derive immanenti nella forma dell’io, della percezione, e della
tecnologia. La terza - che sembra appartenere principalmente, se non esclusivamente alla funzione
artistica - si manifesta in senso terapeutico, come orientamento a percepire e assumere il conflitto. È una
risposta all’evoluzione dei media - ai cambiamenti “più brutali di una guerra”, e al modo in cui la psiche
e la cultura reagiscono, immergendo la mente e il corpo nella catalessi narcotica delle metafore mass-
mediali: l’arte come controcampo, controambiente finzionale, leva per il risveglio estetico (sono concetti
fondativi in McLuhan, fin da Gutenberg Galaxy, 1962).
In ogni forma artistica convergono l’alta definizione del simbolo, la sperimentazione anticipatoria della
struttura, e l’esperienza dello svelamento - attraverso la magìa spettacolare o il corto-circuito doloroso
della fiction, della proiezione del sé, della virtualizzazione. Le tre dimensioni sono a volte fuse in
architetture metaforiche di particolare forza e durata.
Infine: la conoscenza/creazione delle arti e il “calarsi nella forma” della percezione “a mosaico” che
secondo McLuhan dovrebbe essere adottata dalla scienza dei media (fuori dalla tradizione “spaziale”, e
coerentemente alla cultura dei flussi) hanno molti tratti in comune. Seguendo l’artista, calandosi nel
gorgo della forma, anche al mediologo si applica la metafora del marinaio di un racconto di Edgar Allan
Poe, Una discesa al Maelstrom - che viene attirato e catturato dal vortice, ma osservandone la struttura
riesce a cooperare con esso e a salvarsi (McLuhan, nella celebre intervista su Playboy, 1969).

Lo sdoppiamento e il molteplice

Caino e (B)Abele. Non è un lapsus, ma una doppia metafora. ÈÈÈ la parte cattiva, in trance narcotica,
violenta, a fondare la civiltà. Che è permanentemente basata su una doppia identità. Non siamo uno, ma
due: qui è la fonte di un senso e di una percezione variabili, qui l’origine delle regole sociali su cui si
fonda la vita: ogni soggetto deve mettere nel conto un certo grado di ambiguità, deve accettare un
meccanismo di controllo sociale che limiti la violenza, deve subire un potere metaregolatore come
garante e gestore degli scambi, deve agire un certo grado di ipersemiosi dell’io (celebrando il controllo
più o meno eroico della propria parte negativa e perversa). Dopo Isacco e Giacobbe, e Davide, solo il
Cristo realizza in pieno nel monoteismo occidentale il riscatto di Abele, del suo progetto fallito di
innocente armonia, che era quello di Adamo. La vittima diventa soggetto, accettando il tormento del
doppio. Ma intanto Caino ha prodotto Babele, la società-macchina che va verso la complessità, verso il
flusso, la simultaneità dei linguaggi. Qualcosa che non può non essere vista come satanica, inaccettabile,
da una società ancora patriarcale. Come ha nella memoria l’uccisione di Abele, così la stirpe di Caino
mitizza la distruzione di Babele, ma anch’essa resta come metafora costitutiva: l’io che si costituisce
contro il flusso, contro l’indecidibile, la folla di maschere, l’entropia. Il Caino del XX secolo, che ebbe
nome Adolf Hitler, uccise Abele e provò a distruggere Babele. Ma fu Babele a vincerlo.

Il viaggiatore, il pellegrino, l’esule

Ancora Odisseo, naturalmente, apre la serie delle metafore viatorie, troppo estesa perché se ne possa
ragionare come di un unico campo. Se non per notare un tratto comune: chi viaggia, nel racconto, è
medium di un’esplorazione che produce il mondo, per testi e immagini; ciò che si scopre vagando diventa
un universo, prodotto attraverso una codifica a doppia elica (anche il codice genetico ha una struttura a
doppia elica): conoscitiva, logica, sistematica su un lato, e spettacolare, audio-visiva sull’altro. Il
viaggiatore, nel corso del tempo, sintetizza equilibri sempre diversi fra i due lati del codice. Ed è
interessante che nel dilagare del viaggio tra il Seicento e il Settecento, mentre via via si attenuava il
carattere paradossale e ancora figurale della metafora nella struttura che ne aveva dato la prima modernità
erasmista (viaggiando si scopre la pazzia degli uomini), emergeva intanto un senso non detto, un senso
“oltre”, che può essere individuato come nuova metafora della comunicazione: come emblema potremo
assumere Casanova, l’esploratore in fin dei conti metodico di qualcosa che non può essere ridotto a
sistema, vale a dire il caso e il corpo, infiniti casi e infiniti corpi. Un viaggio che è svagato, eppure a suo
modo concentrato. Il mondo non è più qualcosa da decodificare e organizzare, se non in modo random,
e prevalentemente casuale. Dal viaggiatore si passerà al flâneur. Dai generi comici della peregrinazione,
ancora definibili nel loro senso satirico, si passa al romanzo moderno. Dalla testualizzazione di un mondo
orale alla convivenza con il flusso della metropoli.
Ma c’è un’altra declinazione del peregrinare, nella lunga durata: quella religiosa. Nell’Occidente
cristiano, lo stesso Salvatore è pellegrino, e così i suoi discepoli, e i suoi emuli nella testimonianza della
queste. Fino alla Commedia, il visitare e il testimoniare sono parte integrante della queste, secondo un
percorso di chiare immagini visive (la definizione è di Pound e Eliot), seppure l’io, il soggetto-Dante
inizia a staccarsi dallo sfondo. Osservando la costellazione delle figure dantesche nella sua forma di
immaginario delle “città” (degli uomini e di Dio), sovrapposto a quello ulisside della navigazione e a
quello cavalleresco della selva e del castello, non troveremo ancora nulla di simile all’osservatore e
classificatore vorace, al narratore sarcastico, stoico o cinico ma immaginoso che sarà il viaggiatore
gutenberghiano, dal Simplicissimus lucianesco a De Foe e Diderot; eppure, nella perfetta sintesi dantesca
del viaggio medievale, appare un tratto che risulterà fondativo, per metaforizzare – più avanti – la
condizione post-gutenberghiana. Nella Commedia la doppia funzione del codice viatorio è ancora fusa e
indistinguibile; l’immagine dantesca è insieme sia diretto correlato allegorico della conoscenza, sia
vettore di esperienza/immaginazione fisica, tattile, e sonora, nella fonia dolorosa del lamento o in quella
celestiale dell’estasi. E tuttavia la metafora sacra del peregrinante - che incorpora nel viaggio i tratti
sapienziali dell’augure e del profeta, dove il dire è direttamente e tragicamente dannare o salvare il mondo
- prende un ulteriore senso nella figura dantesca dell’esule. Riletto con occhi moderni, il viaggio
dantesco, vale a dire conoscenza, visione, giudizio, e salvezza o dannazione, sembra implicare un “essere
fuori”, un distacco doloroso e forzato dalle proprie radici per vivere altri spazi e tempi. Difatti, la metafora
dell’esilio individuale assume una rilevanza fondamentale nell’esperienza della modernità nella sua fase
metropolitana.
I romantici recuperano Dante. Alcuni fra i più grandi scrittori del Novecento europeo (Blok, Achmatova,
Mandelstam, Pound, Eliot, Borges…) continuano a lavorare sull’archetipo dantesco, alla ricerca di
tecniche di controllo del flusso metropolitano che ne rovesci la potenza estensiva e quantitativa in
immagini sintetiche, risonanti, dolorose o paradisiache. Le arti dell’immagine hanno inaspettate origini
nella visionaria cultura medievale…. Ma l’esilio – ben oltre l’archetipo dantesco – vale come
rappresentazione inconscia della ambigua condizione del soggetto nello spazio dei flussi. Escluso dai
luoghi, l’io abita i flussi, dove virtualizza altri luoghi… Così l’esule si insinua nell’immaginario
occidentale in figure universali della narrazione di massa, come l’Edmond Dantès del Montecristo, o il
Rick di Casablanca; o si reincarna in prove di soggettività mutanti, in Rimbaud, Céline, Camus; torna a
navigare sul margine, in Conrad; o rivive nei Capitani e Gabbieri di Mutis, dalle molteplici esistenze…

L’apparizione

Qualcosa era cambiato nel modo di leggere. Già dalla fine del Settecento sembrano svilupparsi e in un
certo senso differenziarsi le due tendenze potenzialmente presenti negli usi della stampa, che ormai
averva assunto in alcuni paesi europei il ruolo di medium dominante e di istituzione sociale pervasiva e
decisiva per la definizione di tutti i codici simbolici: da una parte si leggono serialmente,
superficialmente, i materiali a stampa che invadono la quotidianità, gli spazi interni delle case (lettura
“estensiva”), dall’altra un testo può catturare, isolare, essere letto come riproduzione di uno spazio/tempo
o di un ragionare totalizzante nell’intimo della propria personalità (lettura “intensiva”).
Osserviamo i quadri che raffigurano i concerti del cenacolo di Schubert, nei primi decenni del secolo: i
volti

L’ascolto romantico della musica prescriveva uno stato di assorbimento, in grado di generare dalle
emozioni i sentimenti, e dai sentimenti immagini. Un simile patto comunicativo valeva per la letteratura
romantica.

Semi-veglia, sentimenti, immagini. Apparizioni fantasmatiche. Si è visto come nella prima definizione
della modernità le operazioni del simulatore riproducevano di continuo la metafora implicita degli effetti
della scrittura come tecnologia della simulazione con le parole. Ma con la rivoluzione industriale, i media
della simulazione cambiano sostanzialmente. Si aprono scenari molto differenti, poiché lo spazio e la
mente sono investiti nella cultura delle metropoli da un flusso continuo, fatto di apparizioni
prevalentemente visuali, audiovisuali, mentali… E la novità, era che l’abitudine del pubblico all’ascolto
o alla lettura in immersione, e all’immersione nel flusso, iniziava a divenire materia prima per lo
sfruttamento economico dell’immaginazione collettiva da parte di industrie culturali. Lo sfondo della
comunicazione si popolava di figure. Di un nuovo tipo.

In quel nuovo ambiente si moltiplicano le apparizioni fantasmatiche. Il Don Giovanni di Mozart ne mette
in scena una, potentissima e perturbante, che afferra e trascina nell’abisso il simulatore per eccellenza.
Ma è il romanzo “gotico” - ancora prima del melodramma romantico, popolato di eroine allucinate e di
giovani eroi che emergono come fantasmi da sfondi di boschi, finestre, palazzi signorili – ad abituare il
pubblico a una nuova esperienza: l’epifania, una labile figura che si materializza per brevi momenti, ma
lascia intorno a sé un alone che non cessa di esistere. Fenomeno sintomatico ed estremo, non a caso
gestito molte volte in senso parodistico, auto-umoristico, i fantasmi della tradizione “gotica”
rappresentano in senso lato una metafora da ipersemiosi e sintesi della grande deriva comunicativa e
sociale che sposta il baricentro della comunicazione verso l’immaginario.

Baudelaire e l’esperienza artistica che ne deriva scopre i frammenti di immaginario, le percezioni


improvvise e involontarie, le apparizioni come materia della mente e della poesia, come “illuminazioni”.
In questo senso, l’immaginazione di Baudelaire anticipa il passaggio oltre la civiltà della scrittura, e il
rovesciarsi dell’Ottocento - il “secolo serio”, portato alla descrizione, all’analisi, all’accumulo
“scientifico”, e al controllo sociale ossessivo – nel flusso metropolitano, nell’ambiente a dominante
visiva. In questo senso, la simulazione, la vis activa del dominio, della riproduzione, dell’esplorazione,
si rovescia in produzione inconscia. Dalla magia evocatrice simboleggiata dagli incanti di Circe o di
Alcina si passa alla frammentazione, produzione ed evocazione involontaria e seriale di immagini.

Dive, femmes fatales, mostri, mitologie di massa…

Metafore di strutture aperte, di un consumo profondo, inconscio, di un immaginario non esauribile e di


un orientamento non pedagogico, ma di una produzione collettiva e di flusso. La nuova metamorfosi
della comunicazione è dunque il passaggio all’immaginario e al flusso metropolitano.

A differenza del simulatore, l’apparizione fantasmatica non pretende di ingannarci. Essa esiste, nel suo
modo effimero, labile, fuori dall’organizzazione reale del tempo e dello spazio. Può sparire, nell’atto
stesso del consumo, e anche ritornare, attraversando le strutture materiali, i muri, e il tempo. Un carattere
fantasmatico assumono nel flusso metropolitano i volti e i corpi di donne-mito, oggetti del desiderio, e
metafore del consumo. Le immagini invadono l’editoria tardo ottocentesca e tappezzano gli spazi della
metropoli, ma le arti continuano per decenni a esplorare l’esperienza dell’apparizione. L’espressionismo,
soprattutto, mentre i media delle immagini e l’arte cinematografica cambiano in pochi anni, all’inizio
del Novecento, il volto della civiltà occidentale. E da L’angelo azzurro al mito di Marylin, spietatamente
o con tragica leggerezza, le apparizioni perturbanti che segnano metaforicamente il nostro rapporto con
la labile immaginazione dei media elettrici continuano a funzionare come ipersegni di un irresistibile
sprofondamento nel mondo del flusso, dell’immagine, del consumo.

Madame Bovary è la parodia, il paradosso del nuovo soggetto di massa, che l’immaginario lo consuma,
e ne è preda. Preda di fantasmi, di apparizioni, come la donna del ritratto, perturbante, di Fritz Lang, o
l’angelo azzurro dello spettacolo espressionista e senza pietà.
.
Fantasmi e mostri dell’immaginario: metafore del flusso che anima tutte le forme.

Il valore delle metafore. Sociologia e mediologia.


Il cieco, il simulatore, il viaggiatore, l’apparizione… Figure metaforiche, portatrici di un senso implicito,
strutturale, che risponde a tensioni, a domande comunicative e sociali. Immergersi e ambientarsi negli
strati non casualmente accumulati delle metafore è indispensabile, volendo inseguire le vicissitudini del
soggetto nel mondo dei media. Proviamo ad esplicitare ancora il fondamento teorico che è alla base di
tutto il lavoro, che è riassumibile entro tesi estremamente semplici - anche se le implicazioni sul modo
post-moderno di considerare le arti non sono di poco conto:

le metafore della comunicazione sono fondative nella genesi e nella struttura delle opere d’arte;
la ragione è che l’opera tende a riflettere implicitamente e spesso inconsciamente sulla comunicazione,
rispondendo a tensioni sociali in relazione alla dinamica dei media;
una definizione metaforica della relazione io/media può essere celata in figure, in funzioni narrative, in
strutture generative del testo e dell’opera, e in generale al livello del modello narrativo;
il procedimento tipico della metafora della comunicazione comporta sintesi, semplificazione,
sperimentazione e ipersemiosi; quest’ultimo termine viene qui utilizzato nel senso che gli hanno dato i
semiotici della cultura; ma anche come “rappresentazione radicalizzata dell’improbabile, con funzioni di
paradosso del processo reale”;
i campi estesi e coerenti di metafore comunicative implicite costituiscono di per sé un codice simbolico
enigmatico, occultato in figure;
dall’esperienza sociale delle arti, la metafora comunicativa si diffonde nel complesso della vita sociale,
contribuendo a costruire nuovi codici simbolici, e a formare abitudini, pratiche, relazioni;
pertanto è possibile affinare una tecnica di interpretazione assimilabile alla stratigrafia degli archeologi:
una stratigrafia della comunicazione (concernente tutti gli oggetti culturali, e quindi anche le arti e la
letteratura).

Walter Benjamin ha utilizzato per primo l’analisi di strutture metaforiche implicite nelle arti e
nell’immaginario metropolitano in relazione alla comunicazione. McLuhan,ne ha ricavato il fondamento
della mediologia. In Italia, Abruzzese.

È il caso di rivendicare fino in fondo questa tradizione, sul piano delle scienze dell’uomo e della società,
non solo per l’autorevolezza e il fascino dei suoi iniziatori, ma anche e soprattutto perché essa utilizza
procedure necessarie, non sopprimibili, nel sistematizzare le intuizioni e nel sottoporre i sistemi
individuati alla falsificazione e al giudizio collettivo. Il sociologo è infatti costretto a semiotizzare il caos
dei fenomeni sociali, interpretandolo come “testi” e “regole” portatori di significato, e la validità di una
analisi che lavori soprattutto “per simboli”, e da questa proceda a connetterli in “codici simbolici”, non
sembra di per sé inferiore alla analisi diretta dei codici. Da un lato, insomma, McLuhan e Abruzzese,
dall’altro – per esempio – il funzionalismo, o anche Luhmann.
La mediologia non è di per sé refrattaria al confronto con una sociologia sistematica.
In termini più netti: possediamo almeno due modelli della trasformazione sociale. Uno è basato sull’idea
di evoluzione dei codici, dei linguaggi istituzionali. E ha conosciuto la sua teorizzazione più forte in
senso evoluzionista con Norbert Elias e alla sua teoria del processo di civilizzazione. La società, secondo
Elias, ha visto una continua evoluzione dei sistemi di introiezione di codici e di autocostrizione necessari
a fronteggiare la crescita esponenziale dei rapporti di interdipendenza tra i soggetti, che si verifica nei
passaggi via via via più intensivi verso strutture sociali articolate, differenziate, complesse, e infine sovra-
nazionali. Nella sua visione evolutiva dei rapporti di interdipendenza, Elias non riconosceva in modo
adeguato il ruolo dei media, i salti tecnologici della comunicazione, che invece ora ci appare invece come
un fattore decisivo della civilizzazione. Usando la stessa terminologia di Elias, si può dire che la
differenziazione sociale e la liberazione di potenzialità di scambio - che a loro volta, nel concreto
generarsi di assetti storici successivi, determinano una tormentata storia dell’io/noi (il soggetto sociale)
– non sono immaginabili se non nella loro relazione con il percorso evolutivo dei media: esplorazione e
controllo del territorio reale, poi dell’immaginario ed emozionale, poi del mentale e virtuale, in catene di
interdipendenza sempre più estese e di diversa natura. Dalla visione di Elias deriva anche l’idea che
l’esperienza sociale e storica del controllo dei territori (reale, immaginario, virtuale) costituisca strati
evolutivi tutti compresenti oggi nella struttura mentale, sociale e comunicativa, come in ogni funzione
sociale, e nelle arti.
L’altro modello generale è quello mediologico, basato sull’idea di evoluzione dei media, e
sull’individuazione delle metafore sociali che l’immaginazione collettiva e quella delle arti produce per
dare forma alla percezione, alle emozioni, ai sentimenti, alla coscienza, e in ultima analisi alle relazioni
sociali. Se la sociologia privilegia i codici, la mediologia privilegia le metafore. E sembra evidente che
se i due modelli non collimano, qualcosa non va, occorre fermarsi a riflettere.
La diacronia, allora, è il luogo di incontro e di verifica: il discorso mediologico interpreta le metafore in
senso diacronico, e tenta le sue periodizzazioni.

Per Foucault

Adattarsi. Era il senso, l’intelligenza, l’etica del neostoico, poi libertino. Sopravvivere, anche
dolorosamente, era accettare la natura/mondo (imparando a goderne nascostamente, e se possibile a
trionfarne). L’idea di adattamento è biologica, ha ancora a che fare con un mondo/natura, ma nella
medio/sfera il mondo è corpo/tecnologia, semiartificiale. L’adattamento, nel moderno, era una azione
volontaria, una presa di coscienza (sommersa dalla presa del potere da parte delle masse nell’universo
metropolitano, dove l’adattamento è lo sviluppo dell’immaginario sociale). Il riemergere della cura
personale avviene oggi piuttosto in forma di terapia. Foucault e Kundera insegnano a curarsi, dopo aver
messo a nudo ogni (bio)potere, in ogni sapere. La mediologia tende alla terapia: ri/conquistare una
struttura di ION, corpo/tecnologia/immaginario al plurale, imparare a essere ION. La neo-natura è un
nuovo equilibrio, un ION/mondo, non un fenomeno biochimico. Questa è anche la neo-etica, il senso
della vita, il senso della pluralità, differenza, complessità, equilibrio, ambiente, mercato. Dove la zona
intima è il dono.

(2011-2015)
Lo spazio letterario

Questioni di fondo

Per secoli la letteratura è stata il più potente dispositivo dell’immaginario, la dimensione comunicativa
in cui il soggetto moderno proiettava le sue strutture.
Letteratura, scrittura, stampa. Una discussione preliminare è necessaria: la letteratura implica
necessariamente quella struttura prospettica e stabile dello spazio/tempo, quella istituzione
“gutenberghiana” della mente basata sulla scrittura che ha consentito lungo intere epoche il “distacco”
fra soggetto e oggetto, l’analisi, la misurazione, l’esplorazione? Niente di più evidentemente inesatto.
Lo stesso McLuhan, del quale spesso si rimuove l’effettivo fondamento teorico, ci mostra che lo spazio
letterario è spesso un teatro di trasformazioni strutturali, di esperimenti premonitori, di anticipi di quegli
straordinari cambiamenti che investono e trasformano il medium, vale a dire l’ambiente comunicativo in
cui un’epoca è immersa, il mondo mediato in cui l’umanità, o una delle sue culture, vive e sogna. Il
ruolo delle arti è fondamentale nella mediologia di imprinting mcluhaniano, proprio perché viene loro
attribuita quella relativa libertà sperimentale che consente ai linguaggi estetici di fare emergere con
immediatezza nuove “figure” della comunicazione dallo sfondo storico del medium dominante. Ora, il
punto su cui riflettere è se esista - così come una testualità delle arti visive autonoma dallo specifico
dell’affresco o dalla pittura a olio su tela, e anche dalla prospettiva, o come un linguaggio musicale
autonomo dalla notazione moderna fondata su certe misure (la tonalità) – anche una testualità letteraria
almeno relativamente autonoma dal medium alfabetico, o almeno dalle caratteristiche tipiche della
comunicazione nelle culture alfabetiche.

Non sarà difficile, basta “sentire”, più che leggere, un brano come questo:

In distanza, il traffico procedeva a rilento lungo il ponte scoperto del cavalcavia. Non so perché mi venne in mente la volta
che Catherine aveva proclamato che non sarebbe mai stata soddisfatta finché non avesse provato ogni possibile atto
copulatorio. In qualche punto di quel nesso di cemento e acciaio da costruzione, di quel paesaggio complessamente segnato
di indicatori stradali e di raccordi, di simboli di status e beni di consumo, Vaughan circolava nella sua auto come un
messaggero, il gomito segnato di cicatrici appoggiato sulla cornice cromata del finestrino, percorrendo le autostrade in un
sogno di violenza e sessualità dietro un parabrezza non lavato (J.G..Ballard, Crash, 1973).

Qual’è l’effettiva composizione del medium? Solo la parola scritta? Non siamo piuttosto immersi in un
denso flusso comunicativo multimediale, che pure iniziando con la “distanza” colta dall’occhio e
de/scritta dalla penna (o all’epoca, da una macchina da scrivere), ci immerge nel brusio e nel movimento
indistinto del traffico, nella fantasia visuale/onirica di atti sessuali di una nostra partner, nella
spazializzazione complessa di reti stradali e segnali pubblicitari, nell’immaginazione di un alter-ego che
sembra emergere da un film hard-boiled, nelle sensazioni più tattili, e controversamente tattili (dolore e
sporco come desiderio), che sciolgono definitivamente in puro aggricciamento di nervi e pelle il sensorio
del lettore?
Una delle tesi più importanti di McLuhan è che il medium è sempre composto. E del resto non esisterebbe
la mediologia senza le previe discussioni dei grecisti sulla questione omerica (l’Iliade e l’Odissea sono
produzioni orali o scritte?), senza il previo sviluppo dell’etno-antropologia (come dar conto senza tradirle
delle culture orali?), senza l’ancora precedente coscienza psicanalitica (in ogni momento, l’Io non è mai
un soggetto omogeneo) e della scuola di Warburg (ogni epoca percepisce e rappresenta lo spazio e il
tempo in un modo diverso). Dovremmo aggiungere che sovente, oltre una certa soglia di pressione di
una componente interna o esterna, la complessità della composizione del medium arriva a un grado tale
da generare un’altra dimensione fisico-chimica rispetto alle teoriche proprietà dell’elemento (o degli
elementi) di partenza. Variando la composizione, le arti generano nuovi media - naturalmente sullo
sfondo del medium dominante (nel caso di Ballard, dal flusso multimediale dominante prende corpo una
scrittura letteraria che impegna tutto il sensorio). Con questo intendo sostenere che non è la scrittura, ma
l’operazione di variazione sul medium dominante a funzionare come vettore strutturale di base per la
composizione dello spazio letterario; la letteratura gioca sul medium i suoi esperimenti di trattamento
della parola, il più delle volte in senso mimetico.

Con un salto vertiginoso indietro nel tempo, ecco l’incipit e la chiusa della Ballata delle rose di Angelo
Poliziano, composta nel tardo ‘400 (la data è incerta) ai limiti estremi del mondo della voce, prima che
intervenga il dominio della stampa:

I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino


di mezzo maggio in un verde giardino.
Eran d’intorno violette e gigli
fra l’erba verde, e vaghi fior novelli
azzurri gialli candidi e vermigli…

…I’ posi mente: quelle rose allora,


mai non vi potrÈ dir quant’eran belle:
quale scoppiava dalla boccia ancora;
qual’eron un po’ passe e qual novelle.
Amor mi disse allor: “Va’, co’ di quelle
Che più vedi fiorite in sullo spino”.

Quando la rosa ogni suo’ foglia spande,


quando è più bella, quando è più gradita,
allora è buona a mettere in ghirlande,
prima che sua bellezza sia fuggita:
sicché fanciulle, mentre è più fiorita,
cogliàn la bella rosa del giardino.

Lo spazio è quello eufonico del canto con accompagnamento strumentale, immerso in una natura di
tarda primavera, in amichevole brigata. Colori, profumi, sensazioni a fior d’udito e di pelle: e tuttavia a
comunicare è una natura-giardino civilizzata, regolata, de-scritta da un medium cittadino, incline a
“porre mente”, a ragionare, a trasformare la formula proverbiale in riflessione, a fermare la bellezza, a
individuare e cogliere il tempo sulla base del criterio del massimo piacere, a coltivare un’arte sapienziale
della parola, a surriscaldare l’attenzione del lettore concentrandola sui particolari visivi, e a organizzare
il testo su un doppio livello metaforico che nasconde il corpo. La composizione non è in equilibrio,
piuttosto sembra che la scrittura abbia perfezionato le sue pratiche ed esercizi raffinati per penetrare la
voce, e addomesticarla. Nella tradizione già plurisecolare delle città d’Europa, nel tardo Medio Evo, la
scrittura e la voce in spazi letterari dagli equilibri omeostatici, che iniziano a forzarsi verso la scrittura,
come nella figura raziocinante e sublimante della Commedia dantesca.
Ma c’è veramente un periodo in cui il medium letterario coincide strutturalmente con lo spazio/tempo
alfabetico, dominante della comunicazione? In un certo senso, sì. C’è un periodo, relativamente breve,
in cui l’egemonia della stampa si estende radicalmente, e le arti della parola si concentrano sul
riempimento dello spazio percettivo lungo l’asse mondo-occhio-mente logica: grosso modo da
Machiavelli alla prima metà del Seicento – ne segue il formarsi di un “pensiero scientifico”, distinto,
pour cause, da ogni altro “luogo”. E tuttavia, a quell’anticipo sperimentale sulle potenzialità della mente
moderna corrispondevano in parallelo altre correnti di straordinaria portata, basate sul tentativo di
esprimere e controllare le emozioni con la scrittura, e di utilizzare la loro espressione come vettore di
desiderio o di orrore collettivo (nel XVI-XVII secolo), o più modernamente di accettazione neostoica o
cinico-epicurea del sentimento e del corpo (nel XVII-XVIII). Nei tempi della gestazione dell’epoca
moderna, quando i canali nuovi o rigenerati della comunicazione iniziano lentamente a pluralizzarsi (il
libro, il giornale, il teatro, la rappresentazione musicale, l’accademia, ecc.), i codici proliferano, in
invenzioni di scrittura ibrida che si susseguono già rapidamente. In questo senso – e non è considerazione
da poco – il suono della voce, cacciato dalla finestra - rientrava dalla porta principale, non solo sulla
scena teatrale, ma anche nel romanzo (con una lenta incubazione dalla novela di matrice cervantina al
novel inglese)6.

Per completare questa breve serie di esempi, osserviamo un passo del tutto “comune” di un buon romanzo
del tardo Ottocento. Il medium si configura nel confronto tra il medium di flusso metropolitano e l’ansia
di controllo della mente:
Sorrise gentilmente mentre le poneva la domanda, ma gli occhi o la voce non tradirono alcuna emozione. Liberato dall’ansia,
almeno riguardo a Romayne, padre Benwell osservò Stella.
Per quanta fermezza lei mettesse nel controllarsi, la confessione del segreto nel suo cuore si era fatta strada fino al suo viso.
L’espressione freddamente composta che aveva contrapposto al prete quando gli aveva parlato si sciolse con tenerezza sotto
l’influsso della voce di Romayne e dello sguardo di Romayne. Senza alcun esplicito mutamento di colore, la sua pelle delicata
arse debolmente, come se sentisse un calore intimo che la ravvivava.
(Wilkie Collins, La veste nera, 1881)

Metafore-mondo

Per semplificare il discorso, ecco una possibile schematizzazione:

Medium/Ambiente Alfabetico Flusso multimediale Digitale


dominante: (XV-XIX secolo) (XIX-XX secolo) (XX-XXI secolo)

Spazio-tempo “Reale”-logico Immaginario Virtuale

Percezione: De/Scritta Visuale/sonora/tattile Mentale

Territorio: Città estesa Metropoli Globale (locale)

Codici: Decine Centinaia Milioni

Struttura: Generi letterari Media-generi Derive mediali.

Canali: Alcuni Centinaia Miliardi di siti

Tempo: Differita In “tempo reale” Simultanea/processuale.

La comunicazione – questo vale in generale - si struttura come produzione di un ambiente virtuale, in


uno spazio che ha coordinate e regole di costruzione. E naturalmente ciò vale anche per il testo letterario,
che diviene il nostro ambiente, se lo abitiamo. Un’opera si presenta come un medium denso, composto
e sorprendente, o al contrario schematico, relativamente semplice e familiare; ma sempre essa configura
un mondo, e il soggetto che lo esperisce.

6
Cfr. Ragone e Capaldi 2001.
E allo stesso tempo, proprio quella configurazione strutturale, come le figure che ne emergono, funziona
da metafora “profonda” del comunicare, e (come vedremo) dello stato del soggetto che comunica,
“trasferendosi” nel mondo-ambiente creato dal testo (la metafora è infatti un trasferimento). Per questo,
il processo evolutivo generale, dalla predominanza alfabetica a quella di flusso, fino all’epoca digitale,
va costantemente tenuto presente.
Una vecchia obiezione a tutto ciò poggia sul fatto che la letteratura e l’arte costituiscono mondi ben
distinti dalla società reale. Benjamin, McLuhan, e tutti i loro discendenti, collegando intuitivamente
metafore artistiche a fenomeni comunicativi e sociali si sarebbero limitati ad abbellire in modo più o
meno arbitrario i loro percorsi saggistici o teorici, sfruttando qualcosa che inevitabilmente è destinato ad
accadere – vale a dire, sfruttando il fatto che certe zone della vita sociale e della comunicazione si
“riflettono” negli oggetti artistici in modi non sistematizzabili razionalmente dalle scienze umane.
L’ipotesi di lavoro della mediologia viaggia naturalmente in senso opposto, sulla base di una tradizione
del resto solida e condivisa con altre linee di ricerca, nel campo della semiotica, dell’antropologia e della
psicanalisi. In sintesi, l’idea è che i linguaggi artistici, definendo figure o strutture che occultano codici,
alludono a narrazioni che hanno valore mitologico, e incorporano stati psico-sensoriali del soggetto,
compiano sempre un’operazione di costruzione dello spazio che ha sempre un significato metaforico sul
piano simbolico-sociale.
Harald Weinrich in uno dei saggi di Metafora e menzogna (1976) ha mostrato il funzionamento
linguistico e comunicativo del marchingegno come forza modellizzante, creazione implicita di schemi e
nello stesso tempo apertura del senso: la densità della codifica metaforico-sociale nell’opera artistica
costituisce un vantaggio sperimentale rispetto ad altri linguaggi, in particolare perché facilita le
operazioni di “ipersemiosi” (dove si sottolinea ostentatamente, in iperbole o parodia, un codice in uso,
sottolineandone il ruolo di sfondo per una nuova “figura” della codifica sociale, o la situazione di
imminente rovina e rovesciamento). L’incessante lavoro di costruzione di spazi metaforici da parte delle
arti è essenziale perché esso diffonde attraverso forme simboliche quelle modalità di adattamento, e
quelle capacità di di allenamento, che risultano socialmente indispensabili per la sopravvivenza delle
culture in ambienti (semio/bio/fisici) che mutano.
Nell’epoca digitale mutano con una velocità che sembra superare le capacità di adattamento del
pensiero, nelle forme che abbiamo ereditato dal Novecento. Umberto Eco ha scritto che rispetto al flusso
dei media, che ci sovrasta nel suo produrre gli oggetti di un eterno, ingannevole presente, l’opera d’arte
ci insegna a distinguere, e quindi a morire. E non sarebbe un compito da poco: accettare attraverso
l’esperienza dell’arte la natura profonda, complessa, storica, seppure individualmente effimera
dell’io/noi. Ma nella stessa chiave neo-stoica che caratterizza la visione intellettuale del nostro tempo,
penso che quella affermazione debba essere rovesciata. In modi diversi, il lavoro artistico – da Picasso a
Kubrick, da Don DeLillo a un video-clip – ci insegna a vivere. Ad accettare noi stessi, nel nostro limite
temporale, e il mondo, prevedibile e imprevedibile.

Architetture

Tutte le unità o forme di integrazione umana sono caratterizzabili come determinati tipi di strutturazione
dello spazio (Norbert Elias, La società di corte, 1969). Lo spazio è la società stessa, il supporto materiale
del tempo, e la sua forma simbolica (Manuel Castells, La nascita della società in rete, 1996). L’attenzione
alla struttura spaziale (anzi alla “architettura”) come forma di organizzazione della società è una delle
più rilevanti nervature della cultura del Novecento. In relazione diretta con un salto di qualità nella
percezione dello sprofondamento del tempo, a cui si reagisce (assai prima della metropoli e dei media
elettrici) “situando”, e “spazializzando” in metafore di luoghi, di corpi, di sensazioni non solo l’intreccio
delle relazioni sociali, ma la stessa soggettività. Sono queste metafore a incorporare il senso del tempo.
Proviamo ad approfondire l’intuizione di Elias (che risale agli anni ’20, e a cui arrivarono per vie
indipendenti Mandel’stam e Benjamin, nello stesso periodo). Anche le metafore artistiche sono esperibili
come forme spaziali (cronotopiche) più volte ripetute: come le “forme dell’abitare” di Elias, esse
divengono in questo modo elementi simbolicamente rilevanti dei codici culturali. Per essere più precisi,
le metafore estetiche costituiscono la struttura e la costellazione simbolica della virtualizzazione, del
flusso di informazioni codificate da apparati mediali, che lungo tutta la nostra storia affida gradualmente,
e in misura sempre più ampia e profonda, la parola, la cultura, il corpo, la vita stessa a uno spazio
artificiale. Ancora: Elias avvertiva che il passaggio dalla città complessa dell’ancien régime alla
metropoli segna anche uno spostamento: dalle strutture (spaziali) che organizzano la vita sociale
direttamente e fisicamente intessuta di relazioni, alle strutture della mediazione sociale. Simmel,
Benjamin, McLuhan, e il pensiero mediologico ci hanno accompagnato nel riconoscere la deriva della
virtualizzazione, visitando i (non) luoghi del denaro, del consumo, e infine dei media.
I testi letterari, come le narrazioni mediali, sono secondo questa prospettiva “luoghi” di sperimentazione
e codifica delle strutture dell’io e delle metafore estetiche. Esaminando i testi letterari e le narrazioni
mediali il quadro delle evoluzioni delle architetture dell’io-noi e delle metafore estetiche ci si presenterà
nella sua immane ricchezza e complessità sociale.
Di solito però – rischiando di cadere in un determinismo riduzionista e autoreferenziale – si fa
esattamente l’opposto: si identifica una architettura nella struttura dei media, e poi si cercano conferme
della sua introiezione nell’io-noi e nelle metafore estetiche. Le conseguenze le vediamo di continuo:
anche i giornalisti meno colti hanno ormai scoperto la mediamorfosi come prospettiva da cui guardare la
storia della cultura, la situazione contemporanea – e le grandi derive sociali. Tuttavia, per quella strada
si può ampliare e approfondire il tracciato geniale di McLuhan, ma è difficile sfuggire a una astratta
generalizzazione (esempio: Bolter e Grusin, Understanding New Media, 2000). Soprattutto, il
riduzionismo non dà conto dei conflitti, delle diversità (nelle società e nelle soggettività), delle riserve di
senso, se non genericamente, o come forme residuali rispetto alle derive dominanti.
In grande anticipo sulle teorie attuali della società in rete, e sugli esiti attuali della globalizzazione, Elias
utilizzava l’idea di “forma” (“una struttura” o “una rete”…“di interdipendenze”) per ovviare ai limiti
opposti e simmetrici delle sociologie basate sull’individuo e le sue azioni, e di quelle basate sul sistema
sociale. E poiché nonostante il continuo incremento dei livelli di interdipendenza nella società e nella
soggettività quei limiti sono ancora lì (da un lato una certa preponderanza delle visioni sistematiche, dove
il “noi” e la deriva tendono a prevaricare, dall’altro il rifugio nei sondaggi che limitano l’orizzonte alle
risposte individuali e di brevissimo periodo), dovremmo riprendere da Elias una maggiore fiducia nello
studio della dinamica evolutiva della cultura, nei suoi luoghi deputati alla definizione delle strutture
estetiche e della soggettività (oggi soprattutto i serial e i social network). “Sentire” il testo letterario o il
contenuto di un medium individuando nelle sue architetture una dimensione sintetica, percettiva, non-
dialettica eppure rivelatrice di deriva nella metafora sociale e comunicativa è una pratica tipica della
communication research di stampo mcluhaniano, fin dalle origini.

Brainframe

Secondo De Kerckhove la mente ha bisogno di coordinate spaziali e temporali, entro le quali proiettare
immagini del mondo che costituiscono a loro volta un intero mondo funzionale. La mente stessa sarebbe
un ambiente finzionale, in cui la soggettività vive attoricamente, cambiando spesso la scena e mescolando
prospettive razionali e immaginazioni fantastiche (L’architettura dell’intelligenza, 2001).
La testualità letteraria offre alla mente interi ambienti assistiti, spazi-protesi per le sue produzioni. Perché
ancora stenta a nascere una ciberletteratura, ossia una letteratura che funzioni come protesi del
cyberspazio? Le forme attuali dell’arte letteraria, apparentemente, replicano quelle del Novecento. Non
credo a una irrimediabile obsolescenza del medium scrittura – che si ibrida con gli altri media, come tutti
i media.
Il punto è probabilmente un altro: in un mondo dei media connettivo e convergente, al soggetto sono
richieste performance che implicano ubiquità, penetrazione, autoorganizzazione focalizzata, design
condiviso. Vediamo: l’ubiquità non è una vera difficoltà, se il testo – soprattutto con la stampa – è stato
il primo vettore per la materializzazione, e il più potente per molti secoli. La penetrazione, ossia la facilità
di accesso, richiede al sistema letterario delle ristrutturazioni (il tempo della comunicazione digitale non
è ancora compatibile con lunghe ore di lettura intensiva), di per sé non impossibili – e l’e-book è una di
quelle. I problemi più seri riguardano l’autoorganizzazione, che sta per produzione collettiva e
omeostatica, di molti scrittori/lettori in rete (e qui si concentrano infatti attualmente gli esperimenti):
ossia la natura della produzione, che da massmediale dovrebbe riorientarsi in senso reticolare. E i guai
ancora maggiori derivano dalla esigenza di design condiviso: qualcosa che sembra irrimediabilmente
costringere verso modelli semiotici e narrativi così fissi da appiattire la creatività sui format dei
videogiochi. Perciò i bestseller sono sempre più piatti. Nata relativamente libera dai generi e dai modelli
fissi (utilizzati il più delle volte per cambiarli), la creazione letteraria ha forse bisogno di vivere in
ambienti affrancati il più possibile dalla utile rigidità e prevedibilità dei software.

Controllo

Già dall’emergere, in piena epoca di predominio della mente alfabetica, di tendenze artistiche che
prefiguravano il flusso si può dire che i principi alfabetici sono stati gradualmente stravolti.
Dalla notte dei tempi, lo spazio dell’esistenza è attraversato da flussi di eventi (reali) e di informazioni.
Ma nel XIX e XX secolo il nostro ambiente culturale si è trasformato in modo imponente; da una società
dove conoscere e comunicare la realtà implicava una semplice produzione di simboli attraverso linguaggi
verbali (orali e scritti), e secondariamente visuali (prossemici e iconici), siamo approdati a una
soggettività immersa nella virtualità delle immagini. E nel mondo digitale del XXI secolo, lo spazio dei
flussi si definisce come un gigantesco ipertesto astorico, medium di tutte le diversità culturali, dove si
incrociano sequenze di interazioni finalizzate, ripetitive e programmabili di informazioni, tecnologie,
interazioni organizzative, immagini, suoni e simboli. Nello spazio dei flussi, i luoghi perdono il loro
significato attuale (il modello è una rete di appartamenti, zeppi di protesi per comunicare). Inoltre esso
tende a determinare simultaneamente dispersione e concentrazione: networking territoriale, sviluppo di
iperconcentrazioni e disseminazione a rete, o al contrario sconnessione di intere aree.
Ma in che senso è ancora possibile controllare il flusso? Una volta gli eventi venivano annotati e
storicizzati, le informazioni tradotte in documenti. La storia e una teorizzazione applicata alla storia erano
il sistema fondamentale di controllo della cultura nel suo insieme. Il flusso distanziato e analizzato come
oggetto, su cui verificare le teorie. Più tardi la virtualità sembra prendere il sopravvento. Diventa
pragmaticamente più rilevante imparare a sedurre – per controllare un ambiente - piuttosto che disporre
degli infiniti episodi di seduzione come oggetto (un passaggio che sotto-traccia è molto precoce, basta
confrontare Machiavelli con Mazzarino). Oggi i sistemi di controllo sono assai evoluti e raffinati, e per
non sbagliare tendono a incrociare pratiche diverse, deduttive e immersive, storiche e
comportamentistiche., come mostra per esempio il lavoro dei pubblicitari.
Credo si possano indicare a grandi linee tre grandi aree di controllo della nostra esperienza:
i sensori
Organi sensibili traducono l’ambiente in dati numerici, che vengono elaborati. Tipicamente: il sondaggio,
e le tecniche di marketing.
la simulazione
È l’esperienza di un ambiente simulato, attraverso la testualità finzionale, nella gamma che va dalla ri-
produzione tipizzante e mimetica dell’infotainment a quella enigmatica e metaforica dei linguaggi
artistici.
la riflessione
Rimette in rapporto prospettico l’io e gli oggetti fluttuanti, attraverso il pensiero scritto (che naturalmente
si mescola in infiniti modi con l’esperienza e la simulazione)

infine, l’interconnessione
che mette in rete tutte e tre le pratiche (e le aree della mente, e le connessioni fra le menti).

La diffusione dei sistemi di controllo è disomogenea. Sensori e forme banali di simulazione – cioè le
forme prevalentemente an-alfabete e gestibili con dei software specializzati sono ovviamente preferiti
dai gestori (alfabeti) del flusso. Di contro, una oscillante miscela di simulazione e riflessione (con la
letteratura e il cinema al centro), costituisce la pratica comune dei ceti intellettuali, a livello planetario. I
due modelli sembrano ancora a lungo destinati a scontrarsi. Il brainframe consente di incrociarli, e forse
genererà un nuovo equilibrio, ma le singole soggettività e culture “locali” mostrano – in ogni singolo
caso - diverse soluzioni.

Virtualizzazione

Se il Novecento aveva vissuto una non facile convivenza tra l’“entro le mura” delle istituzioni culturali,
titolari privilegiate della elaborazione in testi autoriali, e l’“entro i mass media domestici” della grande
industria dello spettacolo, ora entrano in gioco nuovi spazi e nuovi attori. Si passa infatti alla
smaterializzazione e al decentramento della cultura in milioni di reti di produzione, che coinvolgono e
riutilizzano miliardi di persone. E questo accelera enormemente la trasformazione dei linguaggi e dei
modelli. Siamo entrati in pieno in una fase di esplosione immensa, galattica del patrimonio digitale
accessibile, e di convergenza “naturale” tra immagini fisse e in movimento, suoni e testi, “luoghi” e
media, che avviene nel trasferimento di tutti i processi culturali su una base connettiva e “neurale”, le
reti, dove ogni nodo (creato da un singolo o da un gruppo, impresa, istituzione) è potenzialmente
accessibile e disponibile a incrementare il suo “contenuto” attraverso la connessione e collaborazione
con gli altri nodi.
L’iperaccelerazione dell’attività culturale, la convergenza in un unico ambiente virtuale e la base
connettiva della cultura, spostando decisamente il baricentro di ogni processo, ne rivelano la sostanza
produttiva in una continua e immanente attività di ri/ mediazione, che nel nostro tempo si presenta come
subito efficace, verosimile, “naturale”, diffusa, e in gran parte, apparentemente, “democratica” (poiché
non dipende strettamente dalle istituzioni culturali né dalla grande industria dell’immaginario)….
Virtual reality, augmented reality, storytelling con tecnologie digitali sono le keyword del momento, che
orientano tutti i programmi di innovazione dell’industria culturale e spesso delle arti, in linea con la
deriva prorompente della virtualità. Si tratta di un cambiamento che “satura” la nostra percezione, e per
questo non desta sufficiente attenzione teorica, mentre dovremmo avere consapevolezza della rivoluzione
estetica che avanza: già l’esperienza schermica di ambienti digitali immersivi o tridimensionali
riorganizzava il senso della vista nello spazio, in una sensorialità eminentemente tattile; ora la “realtà
aumentata” esce dai vincoli dello schermo, si mobilizza con smartphone e tablet, permette di abitare
diversamente luoghi fisici, e spinge a ricreare anche ambienti virtuali acustici o anche olfattivi. E
l’integrazione della vista con gli altri sensi spinge verso nuove forme estetiche, anticipate da tempo nella
sperimentazione artistica (per esempio in Bill Viola).
In sintesi, il regime “scopico” basato sull’immagine fissa (fotografie e stampe ottocentesche su affiches
e pubblicazioni illustrate), e poi sulla sequenza di immagini in movimento (il broadcast del racconto
cinematografico e televisivo novecentesco) si disgrega, venendo meno ogni differenza ontologica fra
immagini, testi scritti, suoni, esperienza tattile e loro reciproche combinazioni; e inoltre individui e gruppi
possono “naturalmente” produrre e distribuire rappresentazioni di corpi in movimento nello spazio, e
fermarli in immagini fotografiche che assumono il valore di sintesi concettuali, rovesciando la passività
del pubblico dei massmedia, e in molti sensi “realizzando” la profezia delle avanguardie storiche, fino a
Duchamp . Anche perché la virtualizzazione in 3D va oltre, distruggendo la “parete di vetro spesso” fra
l’immaginazione dei produttori e la concreta fruizione degli spettatori; permettendo la continua
modificabilità e replicabilità dell’esperienza, annullando la differenza fra immagine testimoniale e
finzionale, fino alla creazione di mondi e oggetti “più veri del vero”, e alla sensazione di poter entrare
nella vita riprodotta per esserne protagonisti (con tutti i rischi anticipati dalla distopia del Truman Show,
per altro già prefigurata dai parchi di divertimento, e realizzata bdai reality show). Del resto, anche il
movimento degli artigiani digitali, i makers, elimina un’altra parete di vetro tra produttori e fruitori,
permettendo di creare in modo diffuso ed economico oggetti materiali a partire da immagini digitali.
Lo storytelling – inteso come invenzione di storie per “focalizzare” e gestire l’attenzione di pubblici
potenziali in qualsiasi settore – è un campo di esperimenti, pratiche e realizzazioni che si allarga a grande
velocità. Oggi si tende in tutti i campi della comunicazione a utilizzare il narrato come forma più efficace,
in grado di addensare i significati, le informazioni e le metafore in un racconto memorizzabile facilmente
e in cui ci si possa identificare. La “tecnica” della narrazione è stata adottata, per esempio, dalla
pubblicità, scalzando le forme più referenziali o sintetiche. Per la diffusione estesa dello storytelling
possiamo intravedere ragioni di lunga durata: le nostre società tendono ad abbandonare – dopo molti
secoli – le pratiche di socializzazione attraverso il confronto degli individui con le norme, le istituzioni
(e quindi attraverso l’introiezione degli “ordini”, sia in ambienti reali che in immaginari/miti collettivi).
Nel nostro tempo la socializzazione, la costruzione del sé nella relazione con gli altri, avviene
essenzialmente nel confronto con le storie (anche se preferiamo microstorie e storie a episodi alle lunghe
narrazioni) degli altri, un confronto che si moltiplica utilizzando la versatilità dei format e la
virtualizzazione delle tecnologie digitali. Perciò lo storytelling è letteralmente “esploso” con la società
delle reti… Ma contro la vulgata corrente, occorre ricordare che la narrazione non è (o almeno non è
solo) una tecnica, una branca della retorica, così come, in generale, la comunicazione non è solo una
tecnica. Narrare significa sempre condividere, co-produrre, trasformare immaginarie media. È
un’operazione dialogica e ibridante: gli immaginari vengono rifusi in una storia, i media vengono rifusi
in un nuovo e specifico mix, in un nuovo ambiente virtuale in cui abitare; e ogni operazione incide
molecolarmente o talvolta in modo eclatante, sul fluire evolutivo delle culture.
Oggi le arti creano i loro oggetti in questo nuovo tipo di flusso, nella comunicazione condivisa fra i
miliardi di attori delle reti. La letteratura è tuttora la più frequentata officina per la creazione di storie, e
per una prima individuazione di ambienti, che la produzione audiovisiva (nell’industria e nel web)
voracemente rielabora; e non ha mai goduto di un pubblico così ampio. Ma cambiano – ancora – i rapporti
sociali, i processi di autoformazione, le competenze necessarie per vivere il nostro tempo, le lunghe e
brevi durate degli immaginari. E sul ridislocarsi delle funzioni dell’arte lettteraria nel complesso delle
foucaultiane “tecnologie del sé” (di cui il soggetto attuale ha bisogno come l’aria), occorre che di nuovo
l’attenzione dei mediologi, paradossali archeologi del presente-futuro, si rivolga ai processi di
ibridazione e alle metafore dei media che continuano a popolare poesie, romanzi e altri oggetti e
performance fatti di parole.

(2015-2018)
Mediologia/Narrazioni

Disponiamo di strumenti interpretativi delle dinamiche della narrazione di oggi, e su quali modelli si
basano?
Cosa ci raccontano veramente i racconti? Esiste un movimento, una tendenza generale delle narrazioni?
Per certi versi il sociologo deve porsi di fronte ai testi con uno sguardo, una vis interpretativa più forte di
quella di altri lettori. Per una ventina d’anni la sociologia della letteratura è precipitata in una zona di
discredito, ora da qualche tempo molte analisi, anche giornalistiche nascondono una dimensione o
almeno una chiave mediologica. Piuttosto refrattaria a questo rimane la critica letteraria istituzionale, ed
è una delle ragioni del suo inseguire a distanza altri sguardi, e anche di una mancanza di presa sul
presente, di un rimanere indietro, o “prima”, rispetto ai paradigmi del passaggio alla società in rete, ciò
che porta a rimuovere il confronto con le nuove forme estetiche. Viceversa, si può riaffermare il senso di
un’indagine in grado di porsi delle domande non solo sul come – come cambiano i racconti -, ma anche
sul perché. L’intento del sociologo è di mettere a fuoco il significato delle narrazioni per l’identità,
individuale e collettiva, e i processi che generano quel significato. Su tutto questo disponiamo di
prospettive teoriche “forti” che hanno origini lontane, negli anni ’20 o anche prima, in Weber o in
Simmel, quelle che hanno portato negli anni ’60 e ’70 a una grande diffusione di una vera e propria
sociologia della letteratura, e in particolare della letteratura narrativa.
Si tratta, in sostanza: a) della teoria della narrazione come riflesso, o tentativo di rispecchiamento più o
meno riuscito delle relazioni sociali, finalizzato o comunque utile alla comprensione della società stessa,
alla introiezione dei codici sociali: un’idea messa a punto da Lukács ma che resta parzialmente valida
per i funzionalismi, e anche per Luhmann; b) della teoria della narrazione come catena di metafore
dello stato mentale, della vita mentale di una data cultura ed epoca; il testo come un sistema di metafore
inconscie, o semi-conscie, e comunque sintetiche ed enigmatiche, proiettate da un movimento dinamico
in corso nella sfera della comunicazione: della percezione, della struttura di definizione dello spazio e
del tempo: e questa è l’ipotesi avanzata da Benjamin, poi da McLuhan, e seguita in generale dalla
mediologia, in Italia da Abruzzese; c) dell’approccio culturologico che tende a indagare le funzioni della
narrazione – per esempio nello spazio della cultura dei media descritta e interpretata da Edgar Morin; e
questo può includere (e includeva già in Morin) diverse cose: una ricerca di tipo antropologico/simbolico,
una semio-sociologia che indaghi le strutture del racconto, l’approccio che privilegia le pratiche
culturali della narrazione, e quello che indaga l’evoluzione del racconto in relazione con le dinamiche
specifiche ed evolutive dell’industria culturale.
Se posso tracciare un bilancio, almeno della mia esperienza, mi sentirei di affermare che ognuna di queste
prospettive conserva, almeno in senso limitato, una certa validità (è un dato interessante, tra l’altro, il
ritorno di fortuna in America di Lukács, visto come un’applicazione alla letteratura di un impianto
weberiano), sia riguardo al nostro rivolgerci al passato, sia di fronte alla apparente varietà infinita degli
oggetti narrativi che vengono comunicati oggi. Anche in uno spazio affollato di forme diverse e
eterogenee, - tutte quelle pensate e pensabili, del passato da riusare e ricreare e rivendere, del
presente/futuro da immaginare e tradurre in oggetti virtuali - esistono infatti e possono essere indiividuate
delle costanti che caratterizzano il nostro sistema culturale, e dei vettori che determinano quelle costanti.
Noi riconosciamo senza troppe difficoltà degli oggetti che appartengono alla cultura medievale, o a quella
barocca, proprio facendo ricorso alle tre prospettive formalizzate dalla sociologia che ho appena
elencato: al loro riflettere relazioni sociali, al loro formalizzare metaforicamente spazio, tempo e
percezione, propri di una cultura e di un’epoca determinata, e al loro significato per la mediazione di
miti, pratiche, e come oggetti comunicati entro un ciclo determinato di produzione, distribuzione e
consumo.

Sugli strumenti e i modelli che ci servono oggi, ognuno ha naturalmente le sue preferenze. Mi limito a
qualche accenno.
L’aspetto più evidente che incontro come studioso della cultura dei media è la preponderanza che nelle
forme della narrativa e del cinema più recenti e più consumate soprattutto dai giovani hanno assunto le
dinamiche segniche tipiche dei linguaggi del consumo, basate su immagini testualizzate, sincretismo,
prevedibilità, sinestesia, tecniche pubblicitarie, tematismo e stereotipi, riduzione del corpo a immagine,
lavoro sull’impatto emozionale, ecc. Oggi lo spazio dei narratori coincide in buona parte con lo spazio
dei flussi di informazione del consumo. Del resto anche nelle arti del racconto letterario, come è successo
per le arti figurative, le avanguardie, da Marinetti a Raymond Quéneau hanno lavorato a fondo su quella
mutazione genetica che è rappresentata dall’irruzione dei linguaggi del consumo nella comunicazione e
nella vita mentale.
Come studioso di quella parte ormai preponderante e integrata con tutti i settori dell’industria culturale
che è l’editoria, le costanti che incontro, ormai dagli anni ’80, sono il peso sempre maggiore che hanno
assunto i lettori occasionali e morbidi rispetto a quelli forti (in una dinamica che in Italia ha visto
interrompersi fin dal 1998 la correlazione tradizionale tra miglioramento formale dei livelli di istruzione,
miglioramento della competenza alfabetica effettiva, e incremento della lettura di libri e periodici); e di
pari passo la transmedialità dei racconti che è alla base delle strategie produttive dominanti, fondate sui
bestseller a palinsesto flessibile, sul mix serialità/evento, sulla tascabilizzazione e l’offerta multimediale
in edicola. Una logica di flusso continuo, a contenitore, con tempi di permanenza dei libri ridotti a
pochissime settimane: è l’innovazione di processo dell’industria culturale matura, che ha come forze
motrici quelle che hanno preparato e accompagnato il passaggio alla società in rete: terziarizzazione,
integrazione dei media, tecnologie digitali, concentrazione e ristrutturazione a rete della produzione e del
lavoro, smaterializzazione e delocalizzazione. Alla logica di flusso corrisponde nel tempo e in un certo
senso si è contrapposta a lungo una logica “a isola” basata sull’innovazione di prodotto basata sui lettori
forti: la scrittura come macchina virtuale in grado di creare in proprio immaginari, senza fondersi
necessariamente nei flussi seriali: frammenti, intuizione, densità, pertinenti al mandato sociale delle arti
più che alle altre funzioni dei media. Ma questa contrapposizione tende a sciogliersi, da quando si è
entrati in una nuova fase, segnata dalla centralità di serial televisivi/internetici ad alta qualità, di livello
cinematografico, nella costruzione degli immaginari collettivi.

Come mediologo, nelle metafore della comunicazione e della percezione che incontro oggi sono ancora
visibili le eredità delle costanti metaforiche della letteratura moderna, migrate in epoca ormai
archeologica dai libri e dai giornali verso il cinema e di lì circolate nel mondo dei media, narrativa scritta
inclusa: l’Apparizione, da Edgar Allan Poe o dal mondo di Alice in Lewis Carroll a La donna che visse
due volte di Hitchcock, una figura che emerge nei racconti come rischioso oggetto di desiderio,
immaginazione pallida, volatile, ma pervasiva e immanente, proiettata dalla virtualizzazione nella
metropoli, nell’incombere e poi nello stabilizzarsi delle tecnologie elettriche della comunicazione; poiché
lo spazio e la mente sono investiti nella cultura delle metropoli da un flusso continuo, fatto di apparizioni
prevalentemente visuali, audiovisuali, mentali… E la novità, già ai tempi di Carroll, era che l’abitudine
del pubblico all’ascolto o alla lettura in immersione, e all’immersione nel flusso, iniziava a divenire
materia prima per lo sfruttamento economico dell’immaginazione collettiva da parte di industrie
culturali. Così lo sfondo della comunicazione si popolava di figure fantasmatiche: Dive, femmes fatales,
mitologie di massa. E da L’angelo azzurro al mito di Marylin, spietatamente o con tragica leggerezza, le
apparizioni perturbanti segnano metaforicamente il nostro rapporto con la labile immaginazione dei
media elettrici continuano a funzionare come ipersegni di un irresistibile sprofondamento nel mondo del
flusso, dell’immagine, del consumo. Poi, tra le due guerre, la Metamorfosi, da Kafka e dal surrealismo
fino a Quentin Tarantino, proiezione di una plasticità e fluidità incongrua e onirica dell’esperienza. Il
carattere ammonitorio, terapeutico, che era nella tradizione antica, e quindi la struttura confinabile,
episodica, allegorico-cristiana dell’apparizione mostruosa e della sua sconfitta, sembra attenuarsi o
estinguersi nella modernità. Sia nei libri della metropoli, da Jekyll/Hyde a It di Stephen King, sia nel
cinema, da Nosferatu a Hannibal, il mostro accentua le sue attitudini metamorfiche, di simbolo
totalizzante e ambiguo, che assume tutte le forme, rappresentando metaforicamente il flusso mediale, e
lo sforzo inane di “ridurlo” in schemi relativamente fissi e controllabili. Il mostro fantasmatico diventa
immanenza di una soggettività che si abitua alla casualità, alla flessibilità, all’ansia ossessiva, a
razionalità provvisorie, al mondo liquido che i linguaggi artistici ci hanno mostrato con notevole anticipo
su Bauman. Arancia meccanica di Burgess e poi di Kubrick ci mostra una forma di scioglimento acustico
e tattile dello sfondo sociale, e poi del corpo e del soggetto tutti irrorati da un’estrema violenza, a fronte
di una estrema nitidezza delle immagini. Pulp di Bukovski è un’indagine estrema e radicale sulla
smaterializzazione del mondo, sotto il segno etilico, gratuitamente violento, assurdo, sanguinoso,
imponentemente erotico e autoassolutorio dato dall’abbandono alla perdita di centro, coniugata alla
liquefazione che investe il consumo stesso come linguaggio che scioglie tutti gli altri linguaggi. Altman
e Tarantino sommati, iperrealismo e transrealismo, sono il retroterra delle nuove forme del racconto,
saltando le tradizioni della scrittura. Altman, vale a dire un io che è lo spettatore stesso immerso nelle
sue cento, mille, diecimila identità sociali, che si intrecciano nell’assurdo quotidiano, e Tarantino, la sua
implosione e rideterminazione in rete. Del resto, in ogni racconto, in ogni atto di immaginazione,
narrazione, rappresentazione è sempre presente un’operazione volta alla costruzione di identità, che
comunicata in uno spazio pubblico più o meno ampio mette in gioco le relazioni tra il soggetto e
l’ambiente culturale, innesca o prosegue dei processi. Tecnologie del sé, come sosteneva Foucault, i
racconti fondano spazi dell’esperienza.
Questo non è meno essenziale nell’esperienza culturale di oggi, nel mondo della “virtualità reale”, come
la definisce Castells. La società in rete è caratterizzata dalla compresenza di livelli, di processi culturali
rapidi, simultanei, eppure temporalmente eterogenei. Viviamo all’interno delle soggettività e delle
culture il conflitto immanente tra lo spazio dei flussi e lo spazio dei luoghi. Viviamo nuove straordinarie
potenzialità di fluidità e connettività dei racconti, ma anche la compresenza di flusso in larga parte
eterodiretto e isola. Facciamo esperienza dei racconti che ridefiniscono continuamente la metafora
dell’identità liquida - prendete in generale i format televisivi, che lavorano a sciogliere le isole nel flusso:
L’isola dei famosi! – prendete a livello artistico quelle tendenze della narrativa americana che ci hanno
costretto a riflettere su quella stessa metafora, sul gigantesco ipertesto, sul tempo senza tempo della
globalizzazione, utilizzando archetipi e stereotipi del pulp e di ogni altra tradizione archetipa e stereotipa
del consumo, da Bukovsky a Ellis a DeLillo. Prendete Kill Bill. Ma viviamo anche racconti dove la
connettività si risolve in comunicazione di identità ancora costruite sui luoghi, rese simbolicamente
significanti secondo un progetto. Paradossalmente, proprio la televisione veicola continuamente identità
che confliggono con la forma attuale dei mass media. Ed è proprio questo il senso prevalente
dell’esperienza di tanta narrativa e cinema, con l’esempio abbastanza clamoroso di Camilleri:
un’esperienza situata, e conflittuale, che in vario modo assume il senso di una resistenza che si fa scelta,
di un uso delle connessioni consapevole e denso di valori collettivi. La neotelevisione sembra già vecchia,
nel suo ridursi a gestire l’angoscia o l’euforia onirica del medium di massa attraverso il solito ciclo
dall’emozione al sentimento al simbolico, mentre l’ambiente della rete come intelligenza connettiva
espande a vista d’occhio l’accesso ai consumi, la generazione continua di nuovi sistemi, servizi e media,
il controllo e l’esplorazione di nuovi archivi di informazioni e oggetti testuali, e ha già trasportato la
cultura in una “quarta dimensione”, in cui gli oggetti si smaterializzano e si rimaterializzano di continuo,
e diventa importante soprattutto l’attore sociale: chi costruisce identità e per quali interessi.
Per restare alle dinamiche portanti della cultura in rete, occorre allora portare la nostra attenzione su temi
come la stratificazione, la disuguaglianza, il conflitto endemico, e la formazione del lavoro intellettuale.
Non è tanto il digital divide – in un paese come l’Italia accedono alle nuove tecnologie imprenditori e
lavoratori, uomini e donne, e anche, tutto sommato, Nord e Sud (piuttosto tendono a essere esclusi anziani
e ceti debolissimi). Quanto uno squilibrio di potere nella comunicazione e nella cultura, laddove lo spazio
dei flussi è gestito da élites dominanti (manageriali e politiche) con i loro immediati quadri esecutivi,
largamente in grado di saldarsi con gli strumenti culturali e le tradizioni mediali più trash, e con miti e
stereotipi seriali, perpetuando la massificazione di processi culturali in cui l’interazione è ridotta al solo
feedback quantitativo del mercato. Interagiti, non interagenti. Mentre la nuova struttura a rete della
comunicazione permette la connessione multipla e interattiva di identità, e si rivela in effetti come lo
spazio vitale per la produzione culturale, ma solo per quegli strati che sono in grado di costruire
innovazione diffusa. Insomma, il modello non è binario (il soggetto e la rete; o anche le nuove culture
della rete contro i vecchi ruoli intellettuali e sociali), è molto più complesso. La società in rete è una
società conflittuale. Dove si confrontano gruppi sociali con interessi, e in situazione di forte squilibrio.
Siamo del resto, sul piano del potere, in una postdemocrazia (come dice Colin Crouch) che necessita di
una controspinta, di rimedi in direzione di un riequilibrio delle forze. Torna a galla – dunque – anzi
semplicemente era stata rimossa, proprio come lo sguardo sociologico dallo spazio della narrazione, la
questione degli intellettuali. Narrare è infatti un’operazione e una tradizione che contrassegna la
costruzione di identità, le tecnologie del sé, i ruoli sociali e i consumi di un ceto trasversale e diffuso, che
sembra costituirsi, almeno dal ’68, come attore a volte in grado di ridefinire i processi culturali, e
parzialmente i rapporti di potere. Il lavoro intellettuale diffuso riguarda dal lato della produzione almeno
due milioni e mezzo di italiani, nei media, nell’editoria, nelle attività di formazione e di comunicazione,
focalizzati su processi tecnici (progettare e gestire un format; inventare e realizzare il racconto entro
coordinate precise, seriali nel senso che lavorano su dati culturali previsti, secondo pratiche tipiche del
marketing; utilizzare linguaggi che richiedono un grado elevato di abilità professionale); e
contemporaneamente – si potrebbe dire – come generalisti, che consapevolmente o inconsciamente
lavorano a ridefinire strutture e figure che assumono un significato metaforico, simbolicamente rilevante
sul piano sociale, come sintesi di conflitti, come mitologie, ecc. Sono più o meno lo stesso numero dei
lettori forti, e in buona parte coincidono con loro. Ad essi si collegano altri strati, inoccupati o occupati
in altri lavori, che ne condividono mentalità, pratiche e abitudini di consumo culturale. E nella
globalizzazione di società già avanzate, sappiamo che le identità si costruiscono non tanto sull’esperienza
locale, in senso tradizionale, quanto su luoghi e comunità virtuali. E se oggi il conflitto nella società in
rete attraversa ogni soggetto, solo quell’intellettualità diffusa – che tanto dispiace a chi attualmente
comanda – sembra essere portatrice di competenze, interessi e memoria sufficienti a ridar corpo a un
nuovo senso del luogo, nello spazio virtuale della comunicazione.

(2015)
Saggi
Oralità e scrittura nella novella del Seicento: il genere (letterario) come medium

Oralità e scrittura, o meglio: le relazioni tra i due poli, organizzano in modo differente e codificato ogni
specifica situazione comunicativa ed espressiva. Ma se è così, nulla vieta di considerare anche i diversi
generi letterari come sistemi di codifica di situazioni comunicative-modello. Come i media, come il
cinema o la pubblicità, anche i generi, anche l’horror, o il talk-show o il giallo possono essere considerati
strutture portanti della comunicazione. Oltre alla fenomenologia generale dei media, e allo studio
specifico di ogni medium, si apre allora la prospettiva di una fenomenologia dei generi (letterari) come
modelli comunicativi/percettivi. Il discorso vale per tutti i generi.
Proviamo, per esempio, a ragionare in questo senso sulla forma-novella. Il codice novellistico è
fondato sull'ascolto?
Nella tradizione orale l'interprete dice, mettendo in rima una storia; di solito, la storia è tramandata
nel libro. Il testo narrativo si presenta allora come una nuova versione della storia, derivata da una
performance effettiva. Anche le forme di racconto in versi (romanzi cavallereschi e novelle) che
dominano buona parte della scena letteraria quattro-cinquecentesca restano ancorate a una pratica
comunicativa di lunghissima durata, entro la quale non si è mai interrotta la continuità rappresentata dal
ruolo essenziale della voce dell'interprete, e dalla sua speciale performance.
Così leggere ad alta voce (recitare leggendo) un testo scritto, che è frutto di un'interpretazione
precedente nella serie della tradizione, oppure recitarlo o cantarlo dopo averne memorizzato alcuni tratti
fondamentali, ma creando una nuova versione personalizzata, sono usi che senza soluzioni di continuità
rientrano ancora nel mestiere, nel patrimonio dell'intrattenitore/narratore in rima. Il raccontare evoca
comunque una figura di interprete, che essa coincida o no con l'identità di colui che ha scritto, o trascritto
la storia. Nelle occasioni dedicate al racconto, l'interprete orienta il legame tra la comunità degli
ascoltatori e il libro.
Nel suo fondamento, questo discorso può essere esteso anche al dominio della narrativa in prosa?
Naturalmente, è scontato il fatto che la novella, almeno tra il XIII e il XVI secolo, era variamente mediata
da una performance interpretativa orale, e dunque si rivolgeva -prevalentemente, o almeno in seconda
battuta - verso un'aspettativa di ascolto. Ma occorre intendere con maggior precisione l'evoluzione del
genere, nel suo equilibrio mimetico/diegetico, come una forma di interazione e di fusione particolarmente
equilibrata tra oralità e scrittura.
L'esempio più alto, il Decameron, canonizza le forme di un trattenimento narrativo che implica
una partecipazione di gruppo, organizzata attraverso una coincidenza strutturale fra il piano della scrittura
e quello dell'oralità. Dal lato del discorso letterario, che organizza le voci e figure di interpreti-narratori
orali delle novelle interne al testo: le novellatrici e i novellatori, e nello stesso tempo si configura come
ragionamento, e perfino confessione, affidati dall'io dello scrittore alla stabilità eternante del mezzo
scritto, che incornicia la mimesi del ‘trattenimento’ e interviene a commentarlo. E simmetricamente, dal
lato del ricevente: sulle figure degli interpreti-novellatori letterari si modella infatti la voce dell'interprete
implicito e reale, di colui o coloro che leggono, ad alta voce, il libro in situazioni comunitarie forma-
lizzate; e anche la competenza e l'immaginario dell'eventuale lettore silenzioso dovranno comunque
prevedere una riconversione del testo scritto verso la performance vocale-interpretativa.
Così il libro di novelle organizza un sistema di comunicazione complesso, a più livelli,
apparentemente senza mutare i rapporti tradizionali della narrazione orale, pure attraverso un'elegante ed
elaborata finzione. I destinatari, infatti, sia nella struttura del testo, sia nella pratica effettiva della lettura
(o della mediazione interpretativa vocale), sono sempre identificati come destinatari del risuonare di una
voce, che media il messaggio in una dimensione di ascolto. Proprio in questo senso - in un testo come il
Decameron, che si fonda su un armonico movimento dignificante, dove la forma del racconto ha ormai
conquistato autonomia e stabilità, nella dimensione autoriale - la cornice funziona come mise en abyme
comunicativa: le figure dei narratori/interpreti acquistano un rilievo particolare, come metafora e modello
ideale, ad alta densità semantica, di una pratica effettiva di relazione e di discorso comunitario mediata
dalla voce, che è nello stesso tempo metafora e modello del discorso letterario. Sollevandosi da una
dimensione prevalentemente orale, l'intreccio, e il tessuto discorsivo sono ora luoghi “oggettivi”,
predisposti a decodifiche logiche o a spostamenti/ identificazioni inconsce più che ai rifacimenti e alle
attualizzazioni performative che al libro hanno fornito motivazioni e materiali. Luoghi dell'artificio
letterario: delle arti della scrittura, di cui il grande libro è una summa.
Nell'orizzonte comunicativo, il libro di novelle, implicando sempre in qualche misura una
traduzione delle diverse forme dell'oralità nello stile letterario - ciò che richiede un organismo testuale a
diversi piani - è dunque un medium composto, che veicola a sua volta le forme della comunicazione orale.
La rilevanza archetipica del Decameron consiste insomma anche in questo: la struttura a cornice
rinvia a un modello percettivo fondato sull'oralità, in equilibrio omeostatico, ma nello stesso tempo,
secondo le dinamiche della scrittura, almeno relativamente aperto verso l'esterno; voci e scrittura
sembrano coincidere in un ordine armonico, che seda i conflitti. L'evoluzione delle raccolte novellistiche
post-decameroniane, funzionali a pratiche di riproduzione e ricezione che implicano per lungo tempo
una permanenza della voce, mostra in senso dinamico e in una varietà di assetti comunicativi il dialogo
tra due sistemi: il campo dell'oralità quotidiana, o degli usi verbali privati, familiari e pubblici,
variamente influenzati dalla scrittura, mediato dal linguaggio più denso e artisticizzato degli effettivi
intrattenimenti narrativi (che prevedono il riunirsi insieme di una comunità “festiva”- dunque almeno
moderatamente ritualizzata - per giochi e conversazioni piacevoli e ridevoli, e soprattutto per narrar
novelle); e il campo del linguaggio letterario, sempre più separato e autonomo, organizzato secondo
proprie norme intertestuali. Gli interpreti-narratori dei “trattenimenti” continuano a utilizzare il libro
come repertorio di storie da raccontare a voce, secondo l'uso di eredità giullaresca; più tardi, come
deposito di testi per le veglie e i diporti in compagnia. Ma intanto i linguaggi e le pratiche orali vengono
rielaborati in funzione di testi sempre più stabili e autoriali, passibili solo di essere letti in pubblico (anche
nel caso della lettura del testo per musica e canto), e non più di essere 'detti all'improvvisò.
Le arti della scrittura cambiano, fra il Duecento e il Quattrocento, le regole della narrazione e
della memoria. La novella è probabilmente uno dei frutti più rilevanti di questa mutazione.
Evidentemente, il ri-uso del testo novellistico scritto non ha molto a che fare con i sistemi formulaici di
memorizzazione che organizzano le forme della narrazione orale (l’epica in rima, ma anche la fiaba o
l'esempio in prosa); di una novella si possono ricordare più o meno fedelmente elementi di intreccio,
impressioni di registro stilistico, alcune formule di discorso; non di più. A differenza di quanto sembra
avvenisse per alcune forme di racconto in rima, la continuità tra “dire” e “leggere”, tipica della
performance di intrattenimento piacevole, richiede molto presto, forse fin dal Novellino duecentesco, di
essere re-istituita, e finta, con artifici. La persistenza della voce, nella novella, è di solito metaforizzata
in figure di interpreti, sul piano dell'intreccio; ed è oggetto di stilizzazioni o ibridazioni dialogiche, sul
piano discorsivo.
Si è insistito spesso, estendendo il ragionamento all'intero arco storico del genere, sul fatto che la
lettura novellistica mantiene comunque un legame con l'oralità, implicando sempre una aspettativa di
ascolto. L'archetipo della voce del narratore-interprete, secondo questa impostazione, tenderebbe ad
emergere continuamente nelle regole strutturali, riproducendo costantemente una semantica della
situazione orale.7 La tesi è convincente, ma a patto che si tenga adeguato conto del processo di
trasformazione linguistica che - come ho già sottolineato - si svolge in senso opposto: i libri di novelle,
nella forma a cornice, nella tendenza più o meno marcata verso la stabilità e l'ordine classico, verso
un'elegante e armonica "alta definizione" (forte rilievo e simmetria di forma, chiaro ordine analogico),

7
G: Baldissone, Le voci della novella. Storia di una scrittura da ascolto, Olschki, Firenze 1992.
sembrano mostrare, con altrettanta evidenza, la progressiva egemonia del letterario sulla conversazione
conviviale, del leggere sul dire-improvvisare.
Del resto, se è vero che l'ascolto novellistico rielabora l'esperienza effettiva, l'abitudine
all'interrelazione quasi sempre orale che è nel vissuto del lettore-ascoltatore (e risulta quindi il medium
più diretto possibile per la mimesis), è anche vero che le regole del genere riproducono e canonizzano le
fondamentali interrelazioni che già nel basso medioevo si istituiscono nel quotidiano dei ceti dominanti
tra il parlare e lo scrivere, e insegnano a modulare la voce sia in pubblico che in privato secondo modelli
discorsivi in vario grado armonizzati con gli usi retorici e sintattici scritti. Nella tradizione post-
decameroniana il libro di novelle conserva della cultura orale la struttura episodica, la pratica partecipante
della vita cittadina e dei suoi linguaggi, e il senso della continuità e contiguità delle forme del dire (di
solito modellando la sua struttura sulla performance narrativa di più interpreti, o dell'autore stesso in
figura esplicita di narratore, o almeno di trascrittore e mediatore di altre figure in performance...). Ma in
generale, anche quando si presenta al grado zero, come apparente semplice trascrizione della voce, quel
sostrato è tradotto in un ordine in tutto o in parte letterario.
Infine, la fioritura rinascimentale e cortigiana del novelliere, con i rifacimenti manieristici del
Decameron, dalle Porretane alle Piacevoli notti e oltre, tende a catalizzarsi intorno all'arte della civile
conversazione. Il ritorno dell'archetipo era anche un riemergere dell'aspirazione a un ordine regolato del
discorso, rintracciabile là dove era avvenuto il recupero della tradizione scritta antica - satirica, o scenica
o idillica; e dove erano andate definendosi quelle possibilità strutturali alternative, a cui per secoli doveva
far riferimento l'arte della composizione narrativa in prosa, come la riflessione tematica sul
comportamento, la regolazione del climax, la varietà romanzesca. Il mutare degli equilibri tra parola e
scrittura, che passa non secondariamente attraverso una ricodifica del genere-principe della narrazione
in prosa, e attraverso il suo rilancio tipografico, è dunque una delle ragioni più importanti dell'oscillazione
di forme e strutture del libro di novelle, nei travasi tra l'ambiente letterario cittadino, e quello cortigiano
(dunque tra comunità caratterizzate da differenti strutture di interrelazione dei mezzi orali/scritti).
[...] In effetti, nei testi che segnano la ripresa di fortuna della novella nel quarto/quinto decennio
del Seicento - ormai tramontata l'epoca e la cultura formalizzate dal Castiglione e raccontate dal Bandello
- sono difficilmente riconoscibili le forme tradizionali di integrazione di quelle marche della
comunicazione orale e di quelle strutture che nel passato richiamavano la performance interpretativa
vocale. Anzi, seguendo gli indicatori più diffusamente adottati per valutare le caratteristiche differenziali
tra comunicazione orale e comunicazione scritta - provo a sintetizzarle in uno schema che il lettore
troverà in nota - è possibile riscontrare una netta soluzione di continuità tra la novella barocca e gli
eqiilibri tradizionali del genere. È questa una trasformazione che passando attraverso l'eclissi tardo-
manierista del novelliere tradizionale, si manifesta, tuttavia, con passaggi graduali.
[...] Le potenzialità di un immaginario sociale e combinatorio aperto sull'avventura, e situata
soprattutto nel presente, tornano a riemergere nel medio seicento dopo un silenzio di decenni, colmato
solo in parte dalla ricezione delle Novelas Ejemplares cervantine (stampate in Italia nel 1615 e tradotte
fra il 1622 e il 1627), e dall’originale esperienza della Lucerna di Francesco Pona (1625). A Venezia,
egemone nel dettare le mode accademiche, letterarie, teatrali, editoriali, gli Incogniti, che sperimentano
già dagli anni '20 diversi generi di invenzione, in un clima eccezionalmente fertile, recuperano, dopo la
fortuna libraria del romanzo alla maniera alessandrina, anche la novella “alla maniera di Giovanni
Boccaccio”. Il genere è insomma rilegittimato, ma in un ordine del tutto tipografico; e pur assimilando e
riorganizzando gli assetti comunicativi della tradizione recente, satirica e accademica, la sua struttura
tende gradualmente a mutuare l'ordine del discorso del medium scrittura/lettura individuale,
emancipandosi con sempre maggior sicurezza dalla performance narrativa orale, e dai suoi modelli
interpretativi.
[...] Tra il 1638 (seconda parte dell'Albergo di Maiolino Bisaccioni) e il 1643 (appena prima di
una fase piuttosto agitata per l'accademia veneziana) furono scritte nella cerchia degli Incogniti un
centinaio di novelle. Di queste, la gran parte si assesta su una misura comune - che oscilla intorno alle
duemila parole - su uno stile e delle regole uniformi. Per la prima volta è assente nei testi ogni accenno
a un “trattenimento”; dunque c'è soluzione di continuità con la tradizione novellistica cortigiana.
Mancano prove certe di una lettura in accademia; e del resto la stessa leggibilità recitata di queste novelle
è fortemente dubbia... Anche se è evidente - per la trafila, che tende a generalizzarsi, della raccolta per
strati successivi di novelle prodotte in un certo arco di tempo; o per le notizie fornite dagli avvisi ai lettori
riguardo a una circolazione di testi sciolti prima della raccolta a stampa - che almeno in una prima fase
la composizione delle novelle non è mirata alla destinazione editoriale, ma è collegata a una pratica
comune, a una circolazione e sperimentazione interna al gruppo. Del resto, varie forme di invenzione
degli Incogniti avevano varcato la soglia del successo editoriale.
[...] Un complesso di regole autonome e stabili è già evidente nella prima raccolta del Loredano
(le Novelle amorose, composte, sembra, tra il 1635 e il 1643), termine convenzionale del nostro percorso.
Qui si intravvede la fine della transizione di cui il barocco rappresenta solo un tratto; e termina, in un
certo senso, la lunga vicenda dell'interpretazione novellistica, che era collegata al trattenimento, al
ragionare nel giardino, o all'ascoltare intorno al fuoco della veglia. Lo statuto enunciativo, nei testi del
Loredano, elimina del tutto dalla scena la voce del narratore, che promana da uno spazio separato, oltre
il confine: non solo esterna rispetto alla vicenda narrata, ma ora solo implicitamente immaginabile dal
lettore come luogo e tempo concreto, come corpo, figura. Ora essa è rintracciabile solo attraverso “le
favole d'una penna che sa ancora tessere l’istorie”, come scrive, presentando il volume, il segretario
dell'accademia. Inizierà, lentamente, a riconfigurarsi nella narrazione una dialogicità che implica lo
spazio dell'autore, la sua identità da ricostruire, problematicamente (potremmo dire: modernamente),
nella lettura: la dialogicità di Cervantes e Quevedo, senza una vera ricezione nelle nostre culture. Ma
prima, in questa fase di irrigidimento della stessa versabilità barocca, il cambio di prospettiva si manifesta
soprattutto in un ostentato azzeramento dei residui tratti oralizzanti, ad ogni livello del testo. La figura
dell'interprete, ridotta a voce narrante implicita, si spersonalizza, diventa figura mentale, acquista i
caratteri dell'oggettività, si pone - tendenzialmente - come monologo di un io immerso nella pubblica
opinione, che registra gli eventi e gli effetti delle passioni, restando quasi impassibile.
È probabile che una simile spersonalizzazione rappresenti il punto di convergenza tra la deriva
generale della comunicazione, sempre più esperibile in un orizzonte integralmente tipografico, e altre
dinamiche sociali. Forse solo entro una scena oggettivata, sottratta anche alla performance e al rito
teatrale, sospesa del tutto dai legami e dai valori della comunità, può esser rappresentata la nuova e
problematica autonomia degli individui (qui, soprattutto nella sfera amorosa). Dallo spazio/tempo
dissimulatorio dell'accademia, gli Incogniti calano lo sguardo direttamente nella cronaca degli eventi che
si svolgono all'interno delle case e delle ville patrizie, proiettando nei libri un nuovo immaginario erotico.
E una morale libertina passa, quasi insensibilmente, attraverso l'assetto ‘oggettivante’ della voce fuori
campo. Solo in chiusura di ogni racconto la penna narratrice esprime un giudizio, cui è rigorosamente
interdetto ogni tratto personalizzante:
[...] Scomparendo la residua dialogicità della voce satirica, anche la forma narrativa breve - come,
ormai da un quindicennio, il romanzo - non comporta più la necessità di un equilibrio tra macchina
dell'intreccio e coinvolgimento emotivo giocato sull'interpretazione oralizzante, sulle voci/figure degli
interpreti orali, sulla resa vocale. Si estingue la cornice, ma anche la scenicità e il dialogo diretto dei
modelli decameroniani, sostituiti dagli esercizi di stile vocale ‘recitativo’ o ‘affettivo’, che derivano dalla
pratica accademica (e, con ogni evidenza, da quella musicale e teatrale), seppur ridotti alla necessaria
compattezza della novella.
Non si verifica, comunque, una semplice omologazione dello stile novellistico rispetto a quello
romanzesco, anche se l'esperimento accademico passa in tipografia, ed è forse la domanda del pubblico
dei libri a determinare i passaggi successivi. La breve e intensa fioritura della novella amorosa Incognita
sembra legata infatti da un lato a una fase determinata della storia della simbolizzazione erotica, dall'altro
all'emergere di forme di lettura rapide ed effimere.
[...] Già nella Dianea, il fortunato romanzo del Loredano, il principe dell'Accademia, la materia
erotica era assai presente (più che nell'altro prototipo romanzesco degli Incogniti, la trilogia del Biondi),
funzionando come temporaneo di-vertimento rispetto a un universo-macchina completamente assorbito
nell'intreccio, nella matassa dell'intrigo politico. A quel distanziamento e sospensione provvedeva il
registro cavalleresco e pastorale, di eredità tassiana-marinista, che differenzia gli inserti amorosi dalla
diegesi della macchina narrativa, derivata dal romanzo alessandrino, gestita al grado zero dell'oralità,
tacitista e incline alla massima. Fin da allora, comunque, se vi era intreccio nella vicenda erotica, questo
era basato essenzialmente sullo scambio di lettere. Ora, l'esercizio epistolare resta il fondamento di quasi
tutte le novelle del Loredano. La lettera, nelle Amorose, non è più solo un modello retorico di scrittura o
di discorso; piuttosto è uno strumento ingegnoso che può celare la vera identità del personaggio,
simulare le sue intenzioni, o al contrario permettere - ad un attento lettore - di comprendere sotto il velo
dei concetti lo stato reale della passione di chi - nella finzione - la scrive. Dunque, la comunicazione
“segreta” attraverso la lettera è funzionale a un intreccio basato sulla dissimulazione e sulla seduzione;
su ruoli, più che su caratteri e personaggi (dietro i falsi nomi che volutamente li mascherano rispetto ad
eventi della cronaca erotica reale); su strategie di possesso o di negazione, motivate dall'eccesso di
passione amorosa, da gelosia, disperazione o furore; quegli “affetti” che mettono a rischio e infine
possono travolgere la discrezione e l'ingegnosità dissimulatoria. Nel particolare sistema di cooperazione
tra diversi codici e diversi media che genera questo tipo novellistico, lo scambio epistolare, in un
equilibrio inverso rispetto al romanzo, sovrasta le epifanie dirette della voce, che si presenta solo in forme
iper-regolate, simili ai lamenti o alle arie del melodramma, più raramente alle parti del madrigale
concertato.
Campo d'azione privilegiato per la simbolizzazione erotica, nella sua particolare logica di
dissimulazione (che è definita esplicitamente come una logica “politica”), lo scambio di lettere diventa
il medium predominante tra gli amanti. Nell'intreccio erotico, la lettera, vera, o falsificata, coinvolge il
destinatario diversamente dal dialogo scenico, diretto: egli, come il lettore, la analizza con cura, la
decritta per intenderne il senso nascosto (per es. tenendo in sospetto i “concetti così universali..., le
“parole così fredde” di chi sembra negarsi), e reagisce a volte con sprezzante ironia. Oppure cede agli
affetti che la forza della scrittura ingegnosamente suscita. Infine, di quella forza mostra di sapersi
giovare...

... Isabella nel ricevere quella lettera vide la propria speranza sui confini della disperazione.
Sapeva, che gli affetti del senso prendono maggior forma allora, che più vengono interrotti, onde credeva
le scuse di D. Diego nascere più per montamento d'amore che per effetto di timore. Finalmente sopra
d'un foglio mescolò gelosia, rimprovero, sdegno e affetto, così scrivendo...

Nel complesso, di fronte all'esternarsi ‘oggettivo’ dei fatti ‘veri’ che esemplificano l'esperienza
individuale della passione, il ruolo del lettore acquista un rilievo maggiore che nel romanzo (dove
predomina, nell'intreccio, l'aspetto compilatorio e seriale). A un polo della comunicazione agisce una
voce narrante fuori campo, a tratti sentenziosa; all'altro polo si sviluppa un'attività cooperativa intensa,
con giudizi e scelte frequentemente messe in dubbio, come avviene per la valutazione e comprensione
dei fatti privati, delle notizie che vanno di bocca in bocca (e non siamo alle avvisaglie, del resto,
dell'emergere della forma-giornale?). I due poli, sufficienti all'inscenamento, tendono dunque a saltare le
intermediazioni, in favore di un'esposizione oggettivante, dove perde rilievo e si convenzionalizza del
tutto la rappresentazione dell'oralità. Del resto, la forma grafica del testo a stampa, nella sua ancora più
marcata continuità di stesura (rispetto al modello grafico dell'Albergo, dove resistevano almeno i salti di
capoverso al cambiare della voce titolare del discorso...), non era in alcun modo favorevole a una lettura
ad alta voce, nemmeno moderatamente recitativa).
L'equidistanza 'oggettiva’ del punto di vista, che i teorici moderni attribuiscono alla stampa, domina il
campo in forma di scrittura tacitiana (di preferenza, rispetto allo stile concettoso): non è tanto importante
il parlare, quanto il valutare e l'agire o essere agiti. Di questo il lettore cercherà il senso. Mentre lo
sguardo-mente narrante scruta la convulsa serie dei segreti della notte, dei pensieri segreti, non detti, ma
notomizzati, degli amanti.8

Alla fine del percorso del barocco, dunque, il lettore non si trova chiamato in alcun modo al
contatto «realistico», «vivo» con le voci del testo: tutta la scena è costruita per mostrare la sua artificialità
e per invitare ad una decodifica visuale e logica. La lettura può/deve avvenire individualmente e
silenziosamente; eventualmente, il testo va riutilizzato per riprodurre la situazione accademica,
leggendolo o estraendone elementi per un nuovo discorso. Attraverso questo passaggio, si determina
l'unione tra il discorso accademico e l’editoria veneziana, con grande fortuna di pubblico. Con il libro di
consumo, proprio a questa altezza cronologica, si registra a ogni livello nell’evoluzione dei generi un
cambio netto di rapporti tra orale e scritto, e tra autore e lettore.
È ovvio domandarsi: il celamento /regolarizzazione della voce equitonale (che la rende implicita
e esterna) e la deriva verso il visuale-logico, costellata da rappresentazioni retoriche delle manifestazioni
della passione come eccesso (ma è un eccesso ripetuto e seriale, una normale mostruosità), non
istituiscono forse un modello fortemente coercitivo della percezione, in grado di orientare socialmente?
Si tratta, in conclusione, di interpretare ciascun genere in relazione alla storia dell'orizzonte
comunicativo. Inoltre, si tratta di verificare come il genere in quanto modello comunicativo tenda a
funzionare come grande modello di socializzazione, di codifica simbolica del comportamento sociale, e
naturalmente, come parte in causa anche nel divenire complessivo della funzione-istituzione o sistema
letteratura-È infatti proprio la struttura di genere orientata verso le codifiche visuali/concettuali ciò che
permette al narratore barocco di costruire quel repertorio di situazioni-affetti codificati e tipizzati che
assume il valore di codice simbolico del comportamento amoroso, fondato - come sostiene Luhmann -
sull’autoproposizione paradossalmente eccessiva dell’amante, tra macchinazioni e tattiche. La scena
retorica permette di rappresentare l'eccesso nella sua autoreferenzialità, speculare a una mancanza di
motivazione che non sia puramente funzionale al raggiungimento dello scopo. A Venezia, grande capitale
europea, la stampa (e la pratica della lettura individuale, silenziosa e seriale), componendosi nei nuovi
generi barocchi con il medium della lettura/performance accademica, inizia a strutturare le emozioni
secondo le regole della serialità e del consumo, avvia la modellizzazione dell’amore come codice
simbolico della passione paradossale, intensifica nello stesso tempo la spettacolarizzazione
dell’immaginario e una prima industria culturale.
Le regole di un genere si possono individuare solo a partire dall’analisi comparativa di un insieme
di testi. Si pone dunque il problema di trovare tecniche di analisi testuale che ci aiutino a identificare,
anche a questo livello, la struttura comunicativa. È possibile? E come?
Se ci limitiamo ad assumere la doppia polarità oralità/scrittura, qualche strumento, sebbene
alquanto schematico, si può utilizzare. Proviamo, per esempio, a verificare la pertinenza di alcuni tratti
strutturali di un testo rispetto ai due versanti della tabella che segue:

Orientamento verso l’oralità Orientamento verso la scrittura

8
I passi che precedono sono in G. Ragone, Le maschere dell’interprete barocco, 1996. Per una completa ricostruzione della
storia della novella in Europa dal medio Cinquecento alla fine del Seicento cfr. D. Capaldi e G. Ragone, La novella
barocca: un percorso europeo, 2001.
1. I processi testuali fondamentali 1. I processi testuali fondamentali
I nomi hanno potere sulle cose, sono elementi del I nomi funzionano come segni che interagiscono in un
mondo concreto (il testo è il mondo, e lo ricrea) gioco artistico, e/o come portatori di significati
osservabili e verificabili secondo tecniche descrittive,
logiche e analitiche, secondo un modello scientifico.
Ridondanza, lentezza, andamento per lenta Associazione di diverse aree semantiche e diversi
accumulazione, conservazione, ripetizione. Si ricrea, codici, semplicità lineare, velocità, novità. Il gioco
complicandola con varianti, una situazione che i combinatorio crea strutture nuove, addensando
riceventi percepiscono come nota, concreta, e a cui informazione. La partecipazione emotiva è prevista e
reagiscono con forte partecipazione emotiva. Il codificata: passa attraverso un complesso lavoro di
codice è semplice, e fa parte del bagaglio culturale rielaborazione e traduzione, che il lettore compie
collettivo; è assimilato in comunità, attraverso utilizzando sceneggiature intertestuali e luoghi della
pratiche ritualizzate. propria memoria relativa all’esperienza, ricostruendo
sia il codice che il testo.
Passione, desiderio, riconoscimento o attesa di Sguardo apparentemente oggettivo,
un’unità di sentire, di un collegamento rappresentazione concettuale.
interpersonale. Esecuzione in funzione ludica,
coinvolgente, o rituale.
2. La cooperazione del ricevente 2. La cooperazione del lettore
Il ricevente partecipando alla comunicazione Il testo in arrivo non è ridondante, né attuale-
attualizza un forte carico mnemonico nello stesso concreto; il lettore simula in più fasi determinate
tempo in cui percepisce il messaggio: riproduce il alcune operazioni di riorganizzazione dei significati e
patrimonio orale come deposito dei testi-base, delle strutture testuali e di comparazione e dialogo
memorizzati come sono e per formule-fonti (è una con elementi extra-testuali. Gli elementi di significato
memoria attiva, stimolata e coadiuvata dalla vengono isolati e associati; l’elaborazione richiede a
ripetizione e dall’accumulo ridondante, mentre ogni passaggio la definizione di ipotesi e di previsioni
l’interpretazione è guidata dalle equivalenze). Alle sulle direzioni intorno alle quali il senso si sviluppa.
variazioni del testo, a cui viene invitato a Alla linearità della scrittura il lettore oppone una
partecipare, il ricevente reagisce comunque con una reazione previsionale.
identificazione, positiva o negativa (partecipazione
e carica agonistica).
Al ricevente è richiesta per la comprensione una Il lavoro del ricevente richiede l’attivazione di un
competenza enciclopedica molto ridotta (gli livello standard di competenze enciclopediche
elementi vengono quasi tutti forniti dal testo) e esterne al testo. Il tipo e la qualità delle enciclopedie
tendenzialmente posseduta in comune con gli altri richieste varia da genere a genere; è possibile il mix
soggetti della comunicazione. con la tendenza opposta. Il lettore stabilisce strutture
i mondi possibili contenenti individui-attori in gioco, e
prende decisioni interpretative, ogni volta che
attualizzando porzioni successive del testo egli
avverte una disgiunzione di probabilità tra ipotesi e
mondi diversi. Le decisioni saranno
validate/invalidate successivamente.
3. La ricezione orale influenza il codice 3. La ricezione scritta influenza il codice
Tendenza all’eroismo, al coinvolgimento, al Tendenza politico-diplomatica (il testo deve trovare
conflitto, alla partecipazione, all’identificazione tra l’accordo con un lettore che solo ipoteticamente è
chi parla e chi ascolta (tendenzialmente si attua una definibile). La gara di abilità si svolge in presenza (più
gara di abilità in presenza di interlocutori, si mima o meno condizionante) di altri testi scritti precedenti.
un conflitto esteriorizzato in pubblico). Intensità, Non c’è flessibilità di esecuzione, e il compromesso
tendenza a sviluppare pochi temi essenziali; scarsità con il lettore deve essere nei limiti del possibile
di artifici che frenino le reazioni emotive. previsto nel codice, sulla base di un mix di
accessibilità, piacevolezza, autorevolezza.
Tra il mondo di riferimento, a cui il ricevente La comparazione con un mondo di riferimento (ad es.
compra gli elementi di informazione del testo, e la storia per un romanzo storico) avviene secondo
quello dei soggetti della comunicazione c’è una regole definite (il codice prevede più piani della
relazione simmetrica; tra il tempo-spazio dei due significazione)
mondi si stabilisce un’equivalenza.
Performance, individuale o collettiva (ricordare e Testo tecnologizzato: una macchina utilizzata
parlare in pubblico). Il libro come utensile per la individualmente e silenziosamente. Libro come
fissazione di una certa versione del testo in vista dioggetto che contiene informazione o piacere,
una riproduzione semi-autonoma del discorso. trasportabile. Attenzione per la novità, l’originalità del
Riutilizzo libero di materiali disponibili nella discorso; obbligo di citazione esplicita o di
tradizione. occultamento dei prestiti della tradizione.
Dialetti e stili di comunità particolari. Grafoletto, tendenzialmente nazionale.
Dominio dell’asse di equivalenza, delle figure della Prevalenza della logica analitica, dell’associazione
ripetizione e della similitudine. Ritmi e echi legati combinatoria tra elementi diversi, del sillogismo. La
alla respirazione. Maggiore spazio per le scrittura compone le strutture logiche e quelle del
manifestazioni della logica simmetrica e simbolica pensiero inconscio, governa (o nasconde) il conflitto
dell’inconscio; il conflitto interno è esteriorizzato.interno, che viene interiorizzato.
Cura della memorabilità e della autorevolezza: per Consumabilità del testo (che potrà essere recuperato,
es. forte marcatura dell’inizio del testo (e degli inizi
o ricostruito attraverso i codici). Di conseguenza
interni), e occultamento dell’inclusione di materiali minor marcatura dell’inizio e delle partizioni (se non
eterogenei rispetto all’asse fondamentale del per effetti di spiazzamento), e apertura all’inclusione
discorso. di più codici anche eterogenei, a digressioni di vario
tipo, e a una polisemia complessa.
In relazione alla memorabilità, strutture Modalità narrative lineari, riduzione della figuralità
formulaiche; modo narrativo figurale e costruzione dell’amplificazione fonica, visione schematica e
del grande eroe. Le proprietà del personaggio di una analitica, appiattimento del grande eroe. In un mondo
narrazione sono sovrapposte e compresenti. testuale, solo alcune proprietà del personaggio
vengono di volta in volta attualizzate.
Flusso continuo. Ricezione contestuale, per Ricezione per elementi discreti, attraverso
riconoscimento di equivalenze tra figure simboliche l’isolamento e la ristrutturazione dei significati, dei
e formule a ridondanza fonica, gestuale, pulsionale segni percepiti in senso visuale-logico. Tendenza alla
interna. Orientamento pragmatico e dialogico, o chiarezza e alla congruenza logica. Tendenza alla
sacrale-riituale della comunicazione. razionalizzazione spaziale, a strategie posizionali-
lineari, alla descrizione narrazione su grande scala.
Spazio della narrazione aperto e deformabile da Spazio della narrazione chiuso, autosufficiente,
continue reinterpretazioni, da accumuli e definito come serie lineare, con poche irregolarità. La
irregolarità., da un procedere per affinità tematiche comunicazione differita nel tempo,
e figure. Per converso generi e registri fondamentali decontestualizzata, autonoma rispetto alla prassi
organizzati in canoni fissi; dominio assoluto di un concreta (si forma una specifica lingua letteraria),
presente o di un perfetto atemporale; uso di richiede la costruzione di una grammatica che si
funzioni foniche, di enumerazioni e di schemi distingue dalla madrelingua, basata su standard
gnomici o lirici che si sovrappongono a quelli stilistici e di astrazione. Per converso, dialogicità e
narrativi o tragici. rapida trasformazione dei generi, gioco su tempi e
spazi diversi, veloce permutabilità secondo schemi
visuali.
In una cultura a ritmo lento, le influenze letterarie In una cultura in cui domini l’asse di trasformazione
sono incluse senza soluzione di continuità nel flusso della lingua scritta, si determinano campi di forze in
orale. tensione fra gli strati oralizzanti e la codifica dei
generi scritti.

Consideriamo da un lato la radice orale della parola, il suo organizzarsi secondo le regole descritte nella
tabella, dall’altro il processo di rielaborazione che si genera necessariamente nel passaggio verso le forme
scritte. Si può dire che in ogni insieme testualizzato il polo della scrittura tende a ritradurre i mondi
dell’oralità in forme e stili interpretabili secondo i propri codici. Il genere, ma al limite ogni testo, si
configura da questo punto di vista come un sistema di mediazione specifico, un sistema di transcodifica
del materiale orale. Lo schema binario è particolarmente adatto a rappresentare il rapporto fra il testo
scritto e i materiali della transcodifica. Tuttavia sappiamo che la realtà della comunicazione è molto più
complessa, e che quello schema dovremo rimetterlo in discussione. Tenendo conto, sulla scorta delle
intuizioni di McLuhan, della molteplice varietà e della conflittualità dei media, e del quadro tracciato da
Abruzzese, non potremo considerare indifferentemente come «oralità secondaria» il cinema o la
televisione, né come «scrittura» il computer. L’orizzonte comunicativo multimediale è caratterizzato da
una sua deriva portante, come è già avvenuto in passato per altre situazioni epocali; nello stesso tempo
vi si intensificano i flussi di transcodifica fra un medium e l’altro (attraversati da corto-circuiti, da zone
di oscuramento ed esclusione, da conflagrazioni anche violente).
Allo studioso di comunicazioni di massa possono interessare soprattutto le «onde» di traduzione
del materiale letterario in un processo in cui esso si fonde con altri sistemi, generando derive sociali. Al
sociologo della letteratura dovrebbe interessare la struttura comunicativa di un genere o di un testo,
almeno da due punti di vista: in che modo sono organizzati i processi di transcodifica dall’extraletterario
al letterario? Vi sono mutazioni strutturali nel codice che possano essere imputate a significative
trasformazioni del mix mediologico? Ma allora torniamo alla domanda-chiave. È veramente possibile
descrivere la struttura di un testo come struttura di un processo comunicativo, e come sistema di
transcodifica da altri sistemi?
Uno dei modi di farlo potrebbe consistere nell’interpretare il nostro testo direttamente come un
sistema di traduzione, partendo dall’idea che in ogni testo vengono tradotte strutture significative che
provengono da altri sistemi di comunicazione. Prendiamo come esempio un romanzo come il Piacere
dannunziano, che presenta un’alta densità semantica proprio perché è luogo di intensi processi di
transcodifica dall'extraletterario al letterario, e da altri media al medium scritto. E anche in questo caso,
intessuto di materiali diversi, verbali, scritti, stampati, che vengono «importati» nel linguaggio letterario
con una forte tensione sperimentale, uno degli effetti socialmente rilevanti del Piacere, non è proprio lo
stabilizzarsi e il diffondersi di un nuovo modello di comunicazione nell’immaginario collettivo?
Nel Piacere le ricerche hanno bene accertato la presenza incombente di materiali preesistenti:
novelle, testi giornalistici, poesia (parnassiana), diario (tardo-romantico alla Amiel); potrei aggiungere
come ipotesi il romanzo di formazione (nella versione finale e negativa di Flaubert), e ci sarà ancora
molto da scavare. Tutti questi materiali vengono convogliati e riorganizzati nella struttura testuale. Ma
ognuno di essi postula una diversa organizzazione del tempo.
Per esempio: la novella costruisce il tempo come momento, recuperato in un flusso; il romanzo
lo organizza in un segmento o in una catena di segmenti conclusa (qui, la catena della prova e del
fallimento); l’articolo di giornale, soprattutto nella versione praticata dallo stesso D'Annunzio, sulla
“Tribuna”, ci riporta al tempo baudelairiano del flâneur, all'impressione, al continuo ed effimero bruciarsi
e svanire della moda; la poesia immobilizza in un universo autonomo,atemporale e metaforicamente
«passato» il tempo interno dell'io. Come possono essere compresenti nella struttura tutti questi tempi?
Potremmo dire che i diversi modelli percettivi, comunicativi, strutturano nel profondo la
frammentazione, l'eterogeneità, e nello stesso tempo anche l'unità del testo. La causalità sociale veicolata
dall'allegoria/paradigma logico-simbolico della decadenza (il piacere come simbolo della morte e
dell'impotenza di una classe, di una tradizione, di un tempo, nel moderno che si afferma con la sua logica,
e con le sue figure), si organizzata proprio attraverso l'eterogeneità dei materiali in transcodifica,
attraverso lo sconvolgimento dell'ordine lineare del tempo (e non solo della «chiusura» romanzesca).
In particolare, è la transcodifica di media elettrici (il giornale, con la sua simultaneità) ad assumere
più rilievo nella struttura del romanzo, perché essa vanifica e disgrega il modello di ascendenza goethiana
dell'intensa osservazione delle emozioni come segni di qualità dell'anima (che D'Annunzio transcodifica
nella «sinfonia di Maria» e nelle passeggiate romane con entrambe le amanti), in una dissociazione di
sensazioni che catalizza l'esperienza ogni volta su un piacere sensoriale diverso, fino all'ipnosi. Se nel
testo, come è noto, è ben operante la forza e il modello percettivo della sinestesia, vale a dire di una figura
del discorso e della percezione che tende a fondere nella simultaneità le diverse sfere sensoriali, in esso
opera infatti anche un modello percettivo simmetricamente opposto. La sinestesia organizza la
transcodifica dall'extrasemiotizzato, dall’extra-scritto verso la testualizzazione; l'opposta e simmetrica
forza e tensione comunicativa organizza altri mondi, mondi a parte, nel e oltre l'universo testuale. Il
mondo degli oggetti d'arte, erotizzato (e poi svenduto all'asta); quello rituale-formulare della moda, del
salotto, della maschera, della giapponeseria; una cinesica che è esperienza segreta del corpo, come
sistema di passaggio oltre la soglia del paradigma sociale verso la tensione interna; e infine una presenza
vocale, nello stesso senso: la voce come espressione unica, atemporale, diversa, che va oltre le
voci-maschera sociale (le voci galanti del salotto). E ancora, sul piano di un simbolismo comunicativo,
la musica, pura fonìa.i
Con questi mezzi, forse, D'Annunzio tende a organizzare la disgregazione incombente della
percezione logico/lineare del ciclo moderno della parola stampata, in un nuovo modello
percettivo/comunicativo. E il processo è sicuramente interiorizzato dal lettore, nella sua dinamica e nella
sua tensione occulta e simmetrica, opposta a quella che in quella che retoricamente «letteraturizza» il
testo in sinestesia verbale-scritta. Forse questa è una delle ragioni della straordinaria fortuna di massa di
D'Annunzio (e della misteriosa «classicità» del Piacere, per la nostra sensibilità post-moderna).

Tentareuna analisi del testo come sistema che transcodifica altri sistemi di comunicazione; ma
anche, sul piano diacronico, comparare le modifiche strutturali del sistema con i fenomeni generali che
caratterizzano il campo comunicativo in un dato ambiente storico e culturale. Dunque, teniamo d’occhio
le modifiche di codice. C’è molto da scoprire, come si è detto, sul rapporto tra editoria,
spettacolarizzazione, modernità e regole nuove della testualità (come mostrava l’esempio sul barocco).
C’è molto da scoprire sui cambiamenti strutturali che le scritture letterarie introiettano nell’età dei media,
reagendo al nuovo assetto del corpo, della memoria e dell’immaginario: dalla costruzione
cinematografica di un certo Zola alla simultaneità filmica in Hemingway, alla struttura cibernetica in
Calvino, o ipertestuale in Eco. Solo un critico letterario orgogliosamente ma stupidamente
autoreferenziale può rifiutare un discorso di questo genere.

(1996)
Leopardi e il desiderio mimetico

1. Tarda estate del 1821. Un viluppo di pensieri si dipana intorno al tema della memoria. Nel cumulo di
osservazioni e divagamenti in molte direzioni, lo zibaldone leopardiano segue un filo teorico ben definito,
e che a noi suona straordinariamente attuale. Del resto, già la stessa idea di memoria come facoltà non
isolabile, ma sempre in funzione come parte del ciclo cognitivo che parte dalla sensazione e include
sentimento, pensiero, azione è molto simile al modello elaborato da Damasio su base sperimentale,
nellambito delle neuroscienze, verso la fine del XX secolo:

Malamente si distingue la memoria dall’intelletto, quasi avesse una ragione a parte nel nostro cervello. La memoria non è
altro che una facoltà che l’intelletto ha di assuefarsi alle concezioni, diversa dalla facoltà di concepire o d’intendere
(Zibaldone, 5 agosto)

La memoria è la base del sentimento, del pensiero, del comportamento. Senza memoria non è possibile
nessun movimento cognitivo (nessuna “azione” dell’intelletto, che dalla memoria delle premesse deriva
delle conseguenze). Ma – si chiede Giacomo - come funziona la memoria? Per adattamento, per abitudine
all’imitazione. Troviamo, per esempio, esteticamente belli i classici perché siamo assuefatti ad essi; ma
se li osserviamo sul serio li scopriamo ineleganti, irregolari, come del resto è spesso irregolare la bellezza
(4 agosto). Un passo in più: troviamo belli il passato e il futuro perché così siamo abituati a immaginarli,
secondo modelli che si sono stabilizzati per imitazione e a cui siamo assuefatti; e se osserviamo il
presente, lo scopriamo brutto come spesso è brutto ciò che è vero (18 agosto). Anche l’estrema volubilità,
che sembra essere una caratteristica distintiva e vantaggiosa della specie umana, non è che l’effetto di
una estrema adattabilità, vale a dire della attitudine a imitare ogni volta qualcosa o qualcuno, hic et nunc.

La memoria è infatti l’”assuefarsi ad assuefarsi”: imparare in un batter d’occhio a ripetere un’operazione


(19 agosto); e ad assolutizzare ciò che è puro effetto della assuefazione, della vocazione istintiva degli
uomini all’imitazione, e del desiderio irresistibile di ripetere e di comunicare agli altri le proprie
sensazioni. L’imitazione affonda del resto le sue basi nei sensi: provare una sensazione significa
immedesimarsi con essa, ricordarla e desiderare di soddisfarla (21 agosto).

La lettura è il medium più potente per l’assuefazione (per l’imitazione, e per il desiderio di imitare). E i
più non si rendono conto di essere soggetti passivi, abituati a non dare forma alle idee proprie o nuove
(22 agosto).

Riassume a questo punto Leopardi – e con lui, naturalmente, lo scetticismo antico e il sensismo moderno
-: in linea generale “il discernimento… deriva da una lunga e varia serie di assuefazioni”, perché “l’uomo
è un animale imitativo… dipende in tutto dalla assuefazione; … non apprende se non perché si
avvezza…; [e l’] avvezzarsi… [non è che la]somma inclinazione e disposizione ad imitare…” (23
agosto). Dunque la memoria è l’imprinting che ciascuno sviluppa, abituandosi a ripetere certe azioni
cognitive, come risposta alle sensazioni, e poi come immaginazioni e come sentimenti mimetici. Cosa
muove, tuttavia, codesta imitazione? Non esiste infatti un uomo che non rivolga desiderio e speranza, sia
verso un altro essere, che esiste per lui in quanto lo si ama, sia verso se stesso in quanto oggetto d’amore
(22 agosto). Seppure in antico l’uomo sembra esser stato capace di più sentimento, nel moderno – nutrito
dai libri e dalle tecniche – più di immaginazione mimetica e meno di effettivo sentimento (24 agosto).
Un mutamento essenziale accompagna infatti la civiltà: “l’uomo e la natura sono oggi in opposizione: è
l’uomo che si è cambiato e ora trova la natura imperfetta per lui. Continua a affinare l’arte per cambiare
radicalmente la natura” (25 agosto, dì di S. Bartolomeo). Per cambiarla, ma non secondo un disegno: lo
sviluppo specifico della cultura e della storia umana è accidentale, derivando dall’accumularsi di infinite
combinazioni casuali (27 agosto), che sono sospinte dall’amor proprio - il desiderio ardentissimo della
propria felicità -, e dall’imitazione-assuefazione come base della cognizione.

E così, mentre nella natura tutto è in armonia, l’umanità è condotta dalla sua stessa struttura cognitiva a
porsi come una sorgente di contraddizioni: per esempio l’uomo pone in contrasto e in rivalità la
perfezione dell’anima e le sensazioni del corpo (1 settembre). L’uomo non imita la natura, ma conosce e
vive per imitazione mossa dal desiderio e odio per se stesso o per un altro uomo. “L’anima dÈ partiti è
l’odio. Religione, partiti politici, scolastici, letterarii, patriotismo, ordini, tutto langue, manca di attività,
e di amore, e cura di se stesso, tutto alla fine si scioglie e si distrugge, o non sopravvive se non di nome,
quando non è animato dall’odio, o quando questo per qualunque ragione lo abbandona.” (2 settembre).

Così si arriva, nello stesso giorno, alla metafora della camera oscura - celebre almeno per i lettori dello
Zibaldone che abbiano incrociato Claudio Colaiacomo:

L’individuo civilizzato copia in se stesso lo stato a cui la società è ridotta dall’incivilimento come una camera oscura ricopia
in piccolissimo una vasta prospettiva. Non più moto né in questa né in quello. Questa corrispondenza non è casuale né frivola.

Il soggetto moderno imita, anzi copia, riproduce mediante una tecnologia della comunicazione, un
mondo a sua volta artificializzato, sempre più nutrito di immaginazione/imitazione collettiva e
socializzata, e dunque sempre più immobile e assuefatto.

2. Durante le settimane che seguono, dense di appunti, l’approdo al focus di interesse della modernità
come artificio e morte tendenziale della stessa vitale spinta degli uomini a desiderare/odiare imitando
sembra spalancare nuove prospettive. Le note leopardiane puntano in altre direzioni (le religioni,
l’apprendere, la filosofia, il linguaggio, ecc.). Ma è significativo come ogni tanto esse tornino ad
approfondire, e anche a radicalizzare, quella nuova rete concettuale che lega la memoria, il desiderio – e
l’odio – che sono a base dell’imitazione, e i modelli collettivi.

Per esempio: sono le “assuefazioni” (abitudine a ripetere), sia particolari che generali a determinare la
memoria, che di per sé “quasi non esistendo (come si vede nÈ fanciulli) senza queste, può considerarsi
come facoltà presso a poco acquisita” (5 settembre). La memoria è imitazione di se stessa, e tutte le
facoltà umane, dall’apprendimento in su, sono essenzialmente imitazione (14 settembre). Ora Leopardi
insiste soprattutto sull’accumulo di modelli che vengono assorbiti ed imitati sempre più passivamente (la
memoria come funzione riproduttiva di norme sociali, immaginari e media, e infine del consumo e della
moda). “L’uomo si addomestica alla continua novità come all’uniformità, e allora l’oggetto nuovo gli è
tanto familiare quanto un oggetto vecchio, e la novità in genere gli è più familiare e ordinaria, che la
uniformità” (8 settembre).

E in senso opposto alla grande assuefazione della modernità, le note iniziano a sviluppare - sullo sfondo
di una teoria della cultura basata sull’imitazione - un nuovo ragionamento sul ruolo delle arti: “Proprietà
del vero poeta è la facoltà e la vena delle similitudini… vivissime somiglianze tra le cose… relazioni a
cui non aveva mai pensato… facoltà di scoprire i rapporti tra le cose” (e questo è in effetti il ruolo del
filosofo, ma i filosofi sono spesso insensibili, mentre il poeta è ancora innamorato della vita, gli basta
una donna o una bellezza per “sentire”, e per imitare il vero (7 settembre). Tuttavia, attenzione a non
creare nuovi stereotipi: i romantici hanno fatto molto rumore e scandalo; ed è stato un bene, poiché hanno
dimostrato che non esiste il bello come stabilità o rispetto delle regole; ma è stato anche un male, perché
sono caduti in fanatismi e stravaganze, e non sono stati in grado di scoprire un “bello parziale”, un bello
relativo (11 settembre). Né il cliché né il mero solipsismo rispondono al bisogno di contrastare
l’”indebolimento” della modernità (è anche così si entra in una zona di discussione che accompagnerà
otto e novecento, da Baudelaire a Benjamin e oltre). D’altronde, le arti non sono vincolate a linguaggi
specifici, la poesia per esempio è svincolabile dal verso, e potrebbe utilizzare anche il discorso in prosa
(14 settembre).

Dal mondo non è possibile separarsi. Il Cristianesimo indica una meta astratta, un ritiro in una vita
spirituale, che distrugge la vita. Il mondo è solo natura; occorre comprenderlo con le armi della riflessione
(13 settembre). E senza illusioni: l’amicizia è rara, a predominare come sentimento in grado di generare
imitazione è l’odio: “Chi ha disperato di se stesso, o per qualunque ragione, si ama meno vivamente, è
meno invidioso, odia meno i suoi simili, ed è quindi più suscettibile di amicizia per questa parte, o almeno
in minor contraddizione con lei. Chi più si ama meno può amare. Applicate questa osservazione alle
nazioni, ai diversi gradi di amor patrio sempre proporzionali a’ diversi gradi di odio nazionale; alla
necessità di render l’uomo egoista di una patria perch’egli possa amare i suoi simili a cagion di se
stesso…”(17 settembre).

3. In quella tarda estate del 1821 la riflessione del giovane recanatese approdava quindi secondo strade
originali, e di molto precorrendo i tempi, a un incrocio fra i tre nuclei fondativi delle future scienze
umane. Sul primo (come funziona il rapporto fra soggettività e modelli della cultura?) si sarebbero in
seguito condensate la sociologia e la mediologia; sul secondo (qual è il ruolo e il funzionamento della
memoria nei processi cognitivi e nei processi culturali?) la psicologia; sul terzo (esiste una radice, una
energia fondativa e archetipica alla base delle strutture culturali antiche e moderne?) la psicanalisi e
l’antropologia. Rileggendo lo Zibaldone mi è sembrato evidente che uno dei motivi attuali di fascino del
testo, in un mondo di ibridazione culturale dove ci si accanisce invece nel sostentare prospettive e
metodologie disciplinari asfittiche, è proprio nel suo immergerci contemporaneamente in tutti e tre i
nuclei fondativi. Ma vorrei sottolineare che la vicinanza più sorprendente non è quella tra Leopardi e
Simmel/Benjamin (rinvio ancora a Claudio Colaiacomo), né quella tra Leopardi e la psicologia teorica e
sperimentale di oggi. È invece quella tra Leopardi e Girard. E su questo credo valga la pena di spendere
ancora qualche ragionamento.

Nel 1961 René Girard iniziò a tracciare in Menzogna romantica e verità romanzesca una storia del
desiderio attraverso i grandi autori della letteratura. La sua tesi di base, via via nutrita in altre opere da
una riflessione fondamentale sulla violenza come fondamento del sacro, è che il desiderio è
insopprimibilmente mimetico, tende cioè a imitare ciò che si sente raccontare e che si vede rappresentare.
E che imitando si ama ma soprattutto e paradossalmente si odia l’oggetto dell’imitazione. I grandi testi
letterari, secondo Girard, rappresentano drammaticamente o ironicamente la credenza in modelli
culturali collettivi che “trattano” e rimuovono il desiderio mimetico e la rivalità che esso comporta.
L’eroe che fin dalla mitologia arcaica incarna e sublima l’eterna imitazione in una lotta, è metafora sì di
un desiderio/amore infinito, ma l’arte ne rivela l’ambivalenza, il desiderio che diventa odio, la proiezione
autodistruttiva del sé in un doppio; e la stessa ambivalenza della folla che assiste alla rappresentazione
amando e odiando i protagonisti.

In seguito nel pensiero di Girard l’imitazione come base della cultura si chiarisce ulteriormente come
desiderio d’appropriazione, che in genere scatena conflitto e rivalità tra individui, fino a perdere di vista
il suo oggetto e a farne una questione di prestigio, e nella specie umana di vendetta senza limiti. Ovunque
il sacrificio è l’epilogo di un’ebbrezza mimetica collettiva e la ripetizione di una scelta sacrificale
spontanea e originale, che sceglie una vittima e risolve la crisi distruttiva unendo la collettività contro la
vittima impotente, di solito secondo stereotipi storicamente dati). Le pratiche religiose o anche le
fondazioni moderne delle democrazie – e potremmo aggiungere le cerimonie dei media - poggiano sul
culto del sacrificio, assai “persuasivo”: scelta sacrificale unanime, “riconciliazione”, precetti che
spostano l’accento sulla ripetizione e fraintendimento del rito come pacificazione, piuttosto che sulla
comprensione del mito.
Romolo e Remo, Caino e Abele: la rivalità mimetica, il duello, le differenze che si annullano e
ripiombano nella confusione violenta, prima di una nuova fondazione. Paolo e Francesca che imitano
Lancillotto e Ginevra: il libro, medium o origine della passione mimetica e del suo scacco, da Dante a
Cervantes a Flaubert e Dostoevskij. Il desiderio-odio mimetico che diventa nevrosi da assuefazione
morbosa, come aveva visto Freud: un ossimoro attizzatore del sentimento.

Ma per quanto sia difficile, è necessario al saggio – o all’umanità post-olocausto – liberarsi o almeno
imparare a governare diversamente la coazione archetipica che costantemente anche nel mondo
civilizzato si ripete (questo prescriveva Epitteto al giovane Giacomo, questo irrideva parodisticamente
Erasmo, e metteva in scena Shakespeare). Il desiderio per lo stesso oggetto erotico desiderato da chi si
sta imitando, e la conseguente frustrazione e gelosia sono infatti una costante che perdura, anche nella
società dei consumi. L’intensità del desiderio è inversamente proporzionale alla possibilità di
appagamento, fino al rancore (o all’eroica amicizia alla Casablanca…).

Unendo insieme una teoria della memoria e della conoscenza-azione come imitazione e assuefazione e
una teoria dell’ambivalenza amore-odio come energia a base delle strutture sociali, Leopardi sembra aver
iniziato a individuare quello che per Girard è il sistema di rimozione sul quale si innestano gli apparati
mitici e rituali, in ogni cultura. Sempre è infatti necessario mascherare, deviare e regolare sotto
costruzioni e norme formali e ideali (come quelle “laicamente” e modernamente sacralizzate della civile
convivenza e dell’amicizia) la perturbante dominanza di un desiderio mimetico potenzialmente
schizoide.
Certo, il poeta e aspirante filosofo non avrebbe potuto immaginare che le mitologie di massa dell’era
elettrica avrebbero rovesciato il gioco, incanalando direttamente il desiderio mimetico in
rappresentazioni desacralizzate. Riutilizzando l’immaginazione dell’arte per farne modelli della
proiezione quotidiana del sé. Da quando predominano il noir e il lato mostruoso dell’immaginario, il
primo piano del desiderio mimetico - iperdiffuso dal consumo, violento e pornografico - non ha quasi
bisogno di uno sfondo in cui si palesi una corte, un pubblico, o una collettività che giudichi l’eroe. Questi
ha potuto così assumere tratti perturbanti, resi innocui e governabili dalla assuefazione alla serialità, ma
anche da una costante pratica di relazione con i nostri avatar programmaticamente ambivalenti (il che
non vuol dire che essi non possano scatenare la paura che i nostri desideri non siano in realtà veramente
nostri). Ultimi, Berlusconi e Grillo sono nell’immaginario collettivo autori di narrazioni e invenzioni
rituali, e loro stessi eroi simpaticamente mostruosi, ma pur sempre in grado di mobilitare
leopardianamente l’odio, e girardianamente lo sdoppiamento e la confusione. E comunque risultano più
interessanti e coinvolgenti degli schemi della sinistra: dove la socievolezza che si manifesta attraverso
una confusa congerie di metafore residuali (razionaliste, idilliche, etiche) non approda – se mai è ancora
possibile – a nuove forme collettive e visibili di rapporto tra soggettività e desiderio.

(2014)
Maupassant, Zola e le Serate di Médan

Nel 1877 esce Un coeur simple di Flaubert. Da allora, fino alla metà del decennio successivo, la novella e
il racconto breve conoscono un periodo di eccezionale effervescenza. Teniamo d’occhio le date: una
tensione sperimentale consapevole è alle origini delle Soirées de Médan, 1880, la raccolta collettiva del
gruppo di Emile Zola; poi, in un breve arco di tempo, Maupassant scrive centinaia di racconti su giornali e
riviste (in parte raccolti in volume fra il 1881 e il 1884: La maison Tellier, Mademoiselle Fifi, Contes de la
bécasse, Miss Harriet, Les soeurs Rondoli, Clair de lune; segue un piccolo capolavoro, La petite Roque,
1885; e matura la svolta verso il fantastico e il noir, con Le Horla, 1887). In Italia, Verga è già ai vertici
della sua arte con Vita dei campi, 1880, e continua a sperimentare Ia misura breve nelle Novelle rusticane,
in Per le vie e in Drammi intimi (le raccolte del1883-1884). La lettura di Flaubert, dei “naturalisti” di Médan,
e ancora più da vicino - di Maupassant e di Verga è certo determinante per D’Annunzio (Terra vergine,
1882; Il libro delle vergini, 1884; San Pantaleone, 1886); ma anche Verga sembra avvertire il sommovimento
di cui è portatrice la nouvelle vague francese. Infine, sempre negli stessi anni, e in contatto con lo stesso
entourage, ecco i primi racconti di Henry James ...
Parigi, fine anni ‘70: i Goncourt e Zola, Cézanne e gli impressionisti. E il maestro dell’ avanguardia,
Flaubert. Le nuove tendenze lo assumono come punto di riferimento: Les tentations de Saint-Antoine aprono
la strada verso il simbolismo. L’éducation sentimentale è il preludio di una nuova direzione del romanzo. Ma
nella dimensione narrativa ha molto da insegnare anche l’ultimo Flaubert, quello onirico e introspettivo di
Salambô, e dei Contes, e quello epico-paradossale e corrosivo di Bouvard et Pécuchet. Succede qualcosa di
impressionante, sotto l’evidente “disimpegno” dalla tradizione; qualcosa che tende a dissolvere le regole
classiche del racconto, come l’intreccio “chiuso” in un ordine spazio-temporale definito, il percorso
esplorativo nella realtà sociale, il confronto appassionante, esemplare, tra l’eroe e la consistenza dei rapporti
di cui è fatto il mondo. E anche la formula “sperimentale” del nuovo principe dei narratori, Zola possiamo
leggerla come un tentativo di scavo sotto la superficie degli intrecci, che apparentemente rispettano le
vecchie regole. C’è come uno spostamento della vecchia convenzione entro un nuovo sistema percettivo:
la coerenza interna del romanzo come forma simbolica fa i conti con un nuovo universo sensoriale (è un
compromesso, o un passaggio straordinario dell’immaginario collettivo: dipende dal nostro criterio di
giudizio).
Ma sullo sfondo del romanzo zoliano, proprio la novella, come si è visto, diviene il campo di una tensione
altissima della scrittura. Il fenomeno è concentrato nel tempo; in seguito il fuoco si sposta rapidamente
verso le estetiche simboliste e wagneriane, e verso un nuovo romanzo anti-classico (per esempio À rébours
di Huysmans, e Il piacere).
Come può essere spiegato questo passaggio della sperimentazione attraverso la forma breve? Forse la
novella è più libera, già disponibile per statuto al fatto straordinario più che all’esplorazione, alla ricerca
di un effetto sul destinatario più che all’indagine problematica sull’integrazione dell’ eroe. Forse qualcosa è
cambiato nella domanda che determina lo spazio narrativo. Il destinatario è sempre e ancora il pubblico,
unificato da un solo circuito e da una sola convenzione; ma la convenzione e il circuito sono ora quelli del
giornale. Il pubblico è sempre più sintonizzato sul giornale, è sempre più soggetto metropolitano. Occorre
spostare l’attenzione sul rapporto fra testualità e lettore della metropoli.
La forma breve, il racconto che si legge in una sola volta, il testo che raggiunge il massimo di
coinvolgimento in poco spazio, 1’apertura di un varco temporale che si stacca dal resto e attira il lettore
emozionalmente in mezzo a molte altre sollecitazioni, spettacolo tra gli spettacoli della nuova informazione,
sembra ora il modo privilegiato per catturare il destinatario, per vivere l’immaginazione letteraria; forse il
modo privilegiato di vivere l’immaginario tout-court. E, anche se le Soirées escono direttamente in volume,
emulando i Contes flaubertiani, e orientandosi sulla dimensione più lunga tra quelle previste (nella varia
tipologia del racconto per i giornali, i supplementi letterari, le riviste), Zola e i suoi amici - come in
seguito il principe dei novellieri, Maupassant - sembrano ora del tutto consapevoli di sperimentare
effetti e tecniche.
Impresa volutamente provocatoria, fin dalla scelta del tema comune delle novelle (la sconfitta e l’ invasione
prussiana del 1870, che turbava la cattiva coscienza borghese e patriottica della Terza Repubblica), le
Soirées de Médan furono accolte come il manifesto del naturalismo. In un tempo così diverso, ma così
sensibile agli ondeggiamenti e ai conflitti percettivi, come è il nostro, possiamo evitare agevolmente di
filtrarle attraverso la formula banalizzata di un “realismo” brutale oppure angusto e minore, che risale alle
svalutazioni autorevoli di Croce o di Lukács. Piuttosto, ci colpiscono le variazioni sul tema della
suggestione, gli esercizi sull’apertura simbolica dell’immagine che gli ospiti di Médan, con ogni
evidenza, hanno deciso di provare, con esiti virtuosistici, in una gestione a volte incantevole, a volte efferata,
a volte francamente ostentata delle emozioni: il fascino del testo è forse più nella svolta sul piano delle
tecniche, che nell’allargamento delle convenzioni tradizionali sui limiti di contenuto e sugli obiettivi del
racconto. Poco o nulla di riposante, per il lettore, sotto l’apparente continuità con la grande tradizione
francese; in effetti il libro sembra un campione, una stratigrafia impressionante delle sollecitazioni a cui è
sottoposto il medium narrativo, prima di trovare le vie del modernismo (lo si sente, in incubazione).
Soprattutto è da notare la scelta - non sempre e necessariamente consapevole - di strutture aperte, con il
disequilibrio dell’ordine percettivo e simbolico che ne deriva: l’ordine gerarchico fra gli schemi logici del
racconto e l’investimento inconscio viene spazzato via. Si apre un gorgo, parte un flusso; e il soggetto vi si
immerge. Per imparare a convivere con il nuovo spazio virtuale? O il momento è piuttosto quello del
rischio, di un prossimo imbarco per un giro della morte, di una resa alle emozioni, che lascia intravedere
la giostra della disgregazione?
Più degli altri protagonisti dell’esperimento, è significativamente proprio Émile Zola, l’ospite di Médan
(proiettato - come Verga - verso il ciclo dei romanzi) quello che si mantiene più fedele all’intreccio classico
(per esempio: i due promessi dell’Attacco al mulino, vicenda tradizionale che incrocia la deflagrazione del
fatto d’armi). Ma - di nuovo come Verga – il caposcuola dei naturalisti gioca a emarginare sottilmente, fuori
del centro visuale il più possibile, la linea degli eventi che pure giustifica la narrazione. La conduzione dei
protagonisti nelle traversie e lo scioglimento sono più che altro una serie quasi automatica e fatale di eventi,
su cui costruire lo sguardo; l’identificazione del lettore con un lavoro del soggetto-eroe qui è fattore
simbolico più che esemplare, ed è solo una delle linee del quadro; piuttosto insignificante, attenuatissima,
è la sintassi dei colpi di scena, sostituita dalla sorpresa più lineare e monologica della cronaca (anche
commossa, come forse ricorderà De Amicis, qualche anno dopo). L’artificio del racconto ha cambiato
natura: ora i fatti servono a giocare un altro gioco.
Il campo visuale è concentrato su una visione che emerge di per sé, con il suo carico di eventi; il mulino
sul fiume è un’ immagine, un’ impressione, un luogo della memoria, un ricordo. L’evento cheviene narrato
non è particolarmente importante; la struttura, quella della società, della vita, e infine della narrazione, si
diluisce e si scioglie, sembra scorrere da sola, come la Morelle, il fiume che scorre, il tempo che scorre,
immanente. Siamo vicini a un grado zero dell ‘esperienza logica degli eventi, siamo in una disposizione in
cui tutto è spettacolo percettivo. L’essenziale non è il nostro modo di considerare ciò che sta accadendo; è il
continuo spostarsi, ondeggiante, del punto da cui si guarda e si ascolta; è la costante mobilità dell’inquadratura.
Al gioco di prospettiva sugli eventi si è sostituito il fluire dello sguardo e del suono; alla dialogicità fra la voce
narrante e quelle dei personaggi è subentrato un dialogo diverso, tra il lettore e lo spettacolo (ciò che non
esclude il sarcasmo, o la pietà, la letizia o la paura, ma solo come reazione al flusso del narrato).
L’inquadratura funziona in oggettiva e anche in soggettiva, con gli occhi del Capitano, del vecchio
Merlier, di Domenico, di Francesca, intenti a scrutare l’altra riva e la presenza del nemico, nel bosco. Ci
lascia in un meandro del tempo, in un angolo della guerra e dell’immensa campagna francese; choccati
dai colpi della fucileria e dalle voci rauche dei prussiani, immersi nel mormorio dell’ acqua che scorre ...
L’impianto bozzettistico delle figure (il vecchio sindaco, Domenico-lo-straniero, il capitano francese, quello
nemico), e la storia patetico-eroica, sono gli elementi ancora tradizionali della costruzione. Ma Zola li
tiene n equilibrio, con una leggerezza, con una percezione impressionistica immediata, che sono la cifra
della nouvelle vague novellistica, e di cui terranno conto le storie di provincia di Maupassant. Modelli
di lunga durata per il modernismo; e nel silenzio del bosco, di fronte a quei fili di ragno, a un lettore italiano
può venire in mente un altro straordinario racconto, di un’ altra guerra di resistenza ...
Anche in Boule-de-suif la visione domina il campo, in un sapiente montaggio di inquadrature e di scene,
che permette all’interpretazione - come attività più simbolica che logica, poiché la struttura degli eventi è
semplice, nella sua ambiguità fondata sulla ripetizione e sull’attesa - di prendere forza, ma solo dopo che
lo spettacolo ha imposto le sue leggi. Con l’effetto di immergerci al livello dello spavento dei borghesi
in fuga da Rouen, dentro la diligenza sotto la neve, poi nelle loro incertezze, nei loro umori oscillanti di
giorno in giorno, nella sala d’albergo (una situazione surreale che preannuncia Buñuel…).
Il tratto forte, umoristico, tradizionalmente descrittivo, che caratterizza i personaggi, subisce di continuo
uno spostamento: ribaltando la prospettiva, Maupassant gioca a coinvolgere il lettore nel disagio, nello stato
emotivo e labile dei transfughi.
Boule-de-suif fu salutata da Flaubert come un capolavoro, e in effetti l’allievo segue la linea del maestro,
aggiungendo altre valenze. Arriva a rompere ironicamente, come Flaubert, la staticità dell’immagine fissa, e
quel rapporto tradizionale tra l’immagine e il racconto che rinvia a un ordine logico (così ladescrizione e
il bozzetto, nel romanzo e nel giornale, sono intesi come contrappunto visivo-umoristico della vera narrazione,
che è quella dei fatti emozionanti; così nella commedia sono necessari, da sempre, i caratteristi). Concentra
nella forma breve, e approfondisce con eccezionale sincretismo le scoperte del romanzo flaubertiano: lo
schema narrativo della labilità emotiva dell’ eroe, e dell’ instabilità delle coscienze, ma anche la vibrazione
percettiva del frammento visivo. È già tutto anticipato fin dall’inizio della novella, quando alle scene della
guerra ridicola retorica subentra un’attesa, un tremolìo interno, un silenzio profondo, nella città abbandonata
dai soldati francesi; e poi in una sequenza che è già cinematografica irrompe in città la massa nera degli ulani,
il fragore del suono, il turbine delle sensazioni. Una forza inconscia e feroce, e un altro ordine, brutale e
un po’ folle... E di lì in avanti, tra il mondo abituale e il suo nuovo aspetto sconvolto - per tutto il racconto,
con andamento sinusoidale, spostando di continuo il fuoco - la narrazione ondeggia: eccitazione,
campionamento dei luoghi comuni, pensieri e parole della cinica umanità borghese, spettacolo percettivo,
oltre il visivo, verso gli altri sensi, olfatto, tatto, gusto, tensione simbolica (violenta); di nuovo eccitazione,
e così via.
L’intreccio di Boule-de-suif sembra costruito secondo le regole classiche: si narra un fait divers, esiste
un’eroina, con la sua peripezia, cd esiste un valore esemplare della vicenda; ma è un impianto sottoposto
a un sovvertimento insistito. Intanto, l’avventura di viaggio prevede di solito cattive sorprese e fortunose/astute
vie di salvezza, che rovescino il rovescio di fortuna; mentre la pingue Boule è una perdente, una vittima
predestinata e fissa, nella sua ambiguità degradata. Il simbolismo di donna che sfama e donna da mangiare,
da possedere, riempie il campo percettivo quasi subito, dopo che lo sguardo ha inquadrato in successione i
forzati compagni nella fuga autorizzata e pagata a caro prezzo; ora emergono il cibo, il sesso, la rapacità degli
sguardi e il contatto fisico nella diligenza che sobbalza; e soprattutto emerge l’avido appetito, violento
sotto la maschera del discorso, della parola borghese dei viaggiatori, e poi brutale e quasi afasico nel ricatto
dell’ ufficiale prussiano (ma anche il democratico Cornudet vorrebbe consumare alle spicce ...). Lo spettacolo
è in questo duro effetto simbolico, corroborato da una grande intensità sensoriale. Ondeggiando fra l’acre
sarcasmo flaubertiano e una leggerezza ironica, pietosa e stupita, la valenza di questo
sfruttamento/divoramento/stupro, chiusa la parentesi di una eccezionalità momentanea, è dunque molto più
profonda della denuncia sociale (e anche su quel piano, la metafora potrebbe essere più inquietante di
quanto appare a prima vista, forse espressione inconscia di una prostituzione e di una inutile generosità e
speranza della forza-lavoro, regolarmente ricacciata nel suo ruolo di merce: la repressione della Comune non
è passata senza traccia).
Allo stesso modo, Maupassant sembra divertirsi a rimettere in movimento proprio le componenti tradizionali
dell’intreccio, ad assoggettarli alla sua tecnica e alla sua ragione suggestiva: certi elementi tipicamente
novellistici (come la ripetizione ogni volta comicamente rovesciata della scena del pranzo della comitiva, o
il parallelismo della scena nell’interno della diligenza, all’inizio e alla fine del racconto) o bozzettistici
(come nei punti di intersezione fra la vicenda tragica-amara e il piano della guerra e dell’occupazione,
tratteggiato umoristicamente), assumono una luce nuova, un valore inaspettato e spaesante. I borghesi non
possono far altro che mangiare, giocare e abbandonarsi a fantasie erotiche, in un consumo forzato che
appiattisce le differenze, e in una finta normalità che rende più evidente la meschinità e il cinismo
calcolatore del vivere moderno, dove ogni cosa si può cucinare e combinare “a fin di bene”. Contro la
tradizione, la carrozza e l’albergo non sono i luoghi dcl dialogo e dell’incrociarsi dci destini: sono luoghi
chiusi, prigioni.
E specularmente anche la dinamica temporale dell’intreccio si apre sul nulla: la catastrofe dell’invasione ha
rivelato un rimescolìo senza fine, un disagio di fondo, lo spettacolo di un mondo dove nulla si trasforma
veramente, dove il rapporto del soggetto con la realtà è quello avido e instancabilmente calcolatore dcl
topo nel formaggio. La parola è menzogna. Una faccia multipla e tutto sommato indifferente (benpensante,
patriottica, “per bene”, erotomane, suora, puttana: come le donne del gruppo) è la normalità della vita.
Boule ha vissuto qualcosa di simile a una legittimazione sociale, ma era tutto uno sporco, normale e
necessario imbroglio. Quello che conta, quello che genera le regole, è l’istinto, il senso fisico. Siamo
immersi lì, al livello visivo del corpo di Boule e delle sensazioni dei viaggiatori; la macchina da presa
inquadra l’interno della carrozza, e solo ogni tanto il paesaggio attraverso i finestrini. Abbiamo visto la
partenza, ma non vedremo l’arrivo. Irritazione, sarcasmo, una Marsigliese fischiettata provocatoriamente,
e un pianto sommesso, tra gli scossoni delle ruote, nell’oscurità della notte, restano le ultime sensazioni.
Acri.
Dalle menzogne allo spaesamento: in Zaino in spalla di Huysmans il mondo è labile, folle. Lo straniamento
della guerra pervade tutto, deformando e deterritorializzando il soggetto, continuamente sballottato da un
posto all’altro, in preda a un continuo malessere (è l’opposto della concentrazione percettiva sulla memoria
di un luogo nel Mulino di Zola). A dominare non è il campo visuale, ma la sensazione interna: suoni,
rumori, voci, ma anche l’olfatto, l’eccitazione erotica, il gusto dell’inghiottimento, il dolore alla pancia, la
fitta. Il punto-sorgente è sempre all’interno del corpo del soggetto, che racconta in prima persona, dall’inizio
alla fine, e il racconto è sempre lo stesso, quello di un io iper-eretistico, che cerca di cavarsela semi-
automaticamente, in mezzo al caos della guerra ...
La voce che sentiamo non è una voce qualsiasi: è il dandy aristocratico, lo scrittore d’avanguardia (con i
suoi luoghi deputati, (dal culto del sonetto alla commistione tra erotismo e sacralità reIigiosa). Che qui assapora
la serie enciclopedica di esperienze sensoriali diverse, proprio menttre gli sbalzi, il caos e la fatalità beffarda lo
fanno rotolare nel degrado. E che si permette sardonicamente il lusso del lieto fine, della salvezza a casa
propria. Quel caos, pochi anni dopo, assumerà in À rébours l’aspetto di un ordine maniacale e assolutamente
arbitrario.
Huysmans gioca ad amplificare iperbolicamente un sistema di notazione che il lettore conosce bene, come
un portato della scrittura giornalistica: lo spunto coloristico che fissa icasticamente e rapidamente l’evento,
in soggettiva. Ma mentre Zola costruisce in equilibrio e Maupassant destabilizza il senso, partendo entrambi,
tuttavia, dagli elementi tradizionali del rac conto, in Zaino in spalla la soggettività è tutto: non c’è
nemmeno il montaggio visuale di inquadrature e scene, ma un flusso continuo (tanto che il tempo tende a
essere reso in simultanea, al presente; salvo oscillazioni). Tutto è il soggetto, e tutto è natura (e impressione).
Compresa la violenta (ma in parte autogena) e avvilente malattia del tubo digerente. Insomma, uno
dei canoni della nuova scuola è rispettato, ma qui iniziano ad aprirsi due possibilità alternative: o un tempo
e una parola assorbiti nella sintassi del montaggio, che rende in successione le immagini e le
sensazioni da punti di vista mobili (ed è la strada che da Zola, Maupassant, e Verga porta verso il
cinema); o un flusso discorso che registra direttamente percezioni ed eventi (e siamo alla struttura semi-
conscia del modernismo; che ha qualcosa a che vedere, dunque, con la folla e la confusione gridata del
giornale... ). In effetti, alcuni squarci di Zaino in spalla attraversano la linea che va dal simbolismo alle
sintesi futuriste.
In diversi modi, tutti i racconti di Médan sono vettori di una rete di significati nascosti, di un non-detto che
sembra incombere, tanto più quando la struttura della narrazione perde significato. Anche in una storia
apparentemente banale come Il salasso di Céard, che pure segue una catena di avvenimenti reali, collettivi,
e utilizza una tecnica descrittiva, caricaturale e narrativa del tutto in linea con le abitudini dci lettori, il
simbolismo immanente raggiunge effetti straordinari (probabilmente oltre le intenzioni). Assistiamo alle
incertezze del generale Trochu, difensore di Parigi assediata: alle tragiche conseguenze della sua comica labilità,
e del suo amore senile per una navigatrice d’alto bordo, in mezzo a squarci di vita della capitale allo stremo e di
Versailles occupata dai prussiani; ma è anche possibile leggere il racconto come una serie impressionante di
metafore. A partire da quella del Vecchio Comandante, che forse rappresenta il Vecchio Orizzonte della
scrittura: Céard, che pure è narratore più tradizionale rispetto agli amici, sembra registrare in pieno uno spazio
della comunicazione destabilizzato, un sistema percettivo e sociale strutturato da nuove potenze. Nel Salasso
il giornale è il vero contesto, che invade lo spazio narrativo: un mondo confuso, simultaneo, dove ogni
fatto/notizia è assolutamente effimero e reversibile. Il mondo della moda e l’erotizzazione conseguente alla
moda assumono un ruolo impressionante nella vicenda.
Sotto le stanze del Generale incombe e urla il vortice orale della folla; lassù, tra gli ufficiali, con ritmi da
vaudeville (deliziosa apoteosi della reversibilità e dell’ impazzimento del significato), irrompe presso di lui
Madame de Pahauën: un mito erotico, una réclame ambulante, una Grande Favorita, disponibile per tutti,
dall’Imperatore al soldatino. Nuda per il tableau vivant, sogno segreto e pubblico di tutta la città, transizione
fra la femme fatale e il noir (e premonizione di forme divistiche che ben conosciamo), Madame segue la
sua logica, del tutto inarrestabile: quella oscillante del mito di massa. E non sarà forse il Generale -
inchiodato alle gerarchie e alla tradizione, ai vincoli delle regole, ostile alla folla che gli è ostile, votato
alla difesa di un ordine e di un regime che è impossibile restaurare, ma dominato dalla seduzione a buon
mercato, dal kitsch di Madame - il simbolo dell’ormai soccombente primato del letterario?
In ogni modo, la banalità della storia e dello stile non impedisce allo stile di Céard di trovare - a fianco
dei luoghi comuni dell’immaginario legato alle trasformazioni del moderno, come lo spettro della morte
dietro le paillettes, o come una certa clownérie dei personaggi - anche intuizioni spettacolarmente poetiche,
come la metropoli senza luci, vista dall’alto delle colline, con gli occhi di Madame, come un astro spento.
Ma la catastrofe incombe sulla belle époque: metamorfosi incontrollabile, orrore della guerra moderna che si
prepara, fantasmagoria-apoteosi funebre nella metropoli che si devasta e si ricostruisce. In una ricerca
affannosa di novità e di brandelli di ragione, gli spettatori di Parigi-astro spento, i lettori, sono i terminali
di un nuovo immaginario fatto di sesso e paura, di volgarità e ipersensibilità.
Spettacolare e fantastico è al massimo grado La faccenda del Gran 7, in una notte dell’ orrore tutta colorata
di rosa (“Davanti a loro, di fronte al vuoto regolare prodotto da tre immensi corpi di alloggiamento aperti,
sul lato nord, come una fauce, nel cielo, una distesa di incandescenza si avanzava impercettibilmente sulla
città, più in là del cancello della caserma, più in là della piazza d’armi enorme, deserta e di già tutta
rosa”) e poi di giallo e di grigio (“La grande piazza sabbiosa scintillava con un rutilare pallido.
Sembrava di procedere sulle ceneri, nel fondo di un gigantesco focolare piatto, in un’incassatura di fornace
pronta a spegnersi”). Ancora un astro spento, una caserma nel buio, una catastrofe che incombe: ma ora,
ancor più che in Céard, tutto è immagine suono (il vociare dei soldati in camerata, la confusione dopo la
scopetta del moribondo, l’urlo e la baronda, il ruglio del pianoforte e le risa rauche dalle finestre del casino,
le fucilate, la tromba che suona la carica, una musica d’inferno, poi un brusìo niste, e i colpi di fucile
che continuano, ormai stanchi e ubriachi nell’orgia di violenza ... ). Domina la forza istintuale, primigenia,
avvolgente dcl senso acustico, la voce senza ragione, e quasi senza linguaggio, regressiva: con Hennique
siamo direttamente in mezzo alla folla, alla stupida, automatica e autodistruttiva ebbrezza della folla, che
distrugge il suo balocco, che sevizia le sue misere puttane. Lo scandalo naturalista, l’emergere di ciò che
non è decente descrivere (“colpi d’arma da fuoco partirono da ogni lato sul misero gruppo, lo scrollarono,
lo stesero sul pavimento, nel suo angolo, in un mucchio in cui gonne e camicie sollevate permisero di
scorgere il rosa morto di quei poveri corpi da trenta soldi”) non riguarda, in fondo, la guerra e la sconfitta.
Riguarda la folla, la metropoli-caserma, e il corpo, completamente assorbito nel testo attraverso l’emozione
acuta e il disagio del colore e del suono. E non a caso troviamo nella novella (forse non sconosciuta al
D’Annunzio degli Idolatri) una sceneggiatura che ci è familiare, dopo la stagione hollywoodiana del western
e del film di guerra: le scene di una pigra normalità, in interno, poi il trauma, e la reazione devastante...
È un anticipo dei generi che il colore e il sonoro hanno proiettato per molto tempo al centro dell’ immaginario
di massa? E che senso ha lo spettacolo del male: controllare il terrore, rivivere la violenza? L’ultima storia
indica invece la strada di un compromesso rassicurante, di livello medio: con i suoi mezzi, anche nella
piena esplosione dello spettacolo di massa e dell’ inconscio (un’esplosione nell’io e nell’immaginario
collettivo), la letteratura riesce comunque a confezionare un apprezzabile mix di intrattenimento giocando
al meglio ciò che ora le è proprio, vale a dire la possibilità di esprimere il pensiero semiconscio, ciò
che si nasconde dietro i silenzi, sotto le parole lecite, le buone maniere. In Dopo la battaglia - ennesima
reincarnazione novellistica, anche se alla lontana, della veneranda Matrona di Efeso – in Fedro, Petronio e
Boccaccio - Alexis utilizza per il soldatino ferito e semi-svenuto qualcosa di simile al flusso di coscienza,
nello stato allucinatorio che fa emergere le immagini e le impressioni dell’assalto e della ferita, nel
fluttuare di ricordi vaghi. Di lì il piano dell’inquadratura si sposta gradualmente all’esterno: il soldato in
ginocchio, il soldato steso in mezzo alla strada, poi raccolto nel grande carro in cui la vedova Plémoran
trasporta la bara del marito. E mentre il carro procede, si stabilisce una struttura oscillatoria: la rappresentazione
del flusso di pensiero e sensazioni, il sovrapporsi frammentario di logica, di ordini temporali e causali, e
di associazioni, pulsioni, fantasie, simboli; insomma lo schema narrativo che sarà quello del romanzo
modernista, e di molta arte del primo Novecento, e che può ben essere banalizzato in forme più accessibili,
come già mostra il continuo alternarsi di flash-back e di slittamento erotico nel lento viaggio notturno,
che si concluderà nel silenzio e nel buio del carro, stesi accanto alla bara, a divorarsi di baci e di carezze.
Lo spazio del medium letterario è ora quello dcl sogno (lo comprenderà bene D’Annunzio; del resto
Madame de Plérnoran ricorda da vicino certe eroine quasi-sperelliane delle Favole mondane - sui giornali
romani, cinque o sei anni dopo). La lettura vale come esperienza onirica, oltre le convenzioni (nella biblioteca
di Plémoran, un pulsante segreto apre la raccolta di libri erotici), sublime ed oscena, camaleontica e blasfema
(il soldatino, a sorpresa, è un religioso). E il sogno, banalizzato e di massa; la narrazione si espande, non più
frenata, se non debolmente, dagli algoritmi logici, da un ordine del discorso come indagine razionale (uno
strato che ora si dispone come una crosta esterna, sottile e spezzata).
Genìe di scrittori e registi minori si confrontano, da oltre un secolo, con le dosi di violenza e di sesso necessarie.
Forse esiste una vocazione conoscitiva, una funzionalità problem solving in un’esperienza di questo genere,
che abitua ad esplorare la simultaneità, il nuovo tempo/spazio della vita, la nuova sollecitazione del senso
e del corpo. Apparecchiando un piacere del testo che è anche, sempre, disagio. Anche nelle storie dei meno noti
fra i médaniani, dunque, si intravvedono le future ricette della fabbrica dei sogni, le strutture simboliche e narrative
fondamentali del nostro immaginario. Le Soirées sono di una modernità inquietante.
(1995)
Per una mediologia conradiana

Prologhi all’era elettrica.


A un mondo “di repentini cambiamenti dell’identità, più brutali della guerra”…

***

Fiume, cielo, mare. La grande metropoli sotto una oscurità funerea e immobile. Il cielo e il tramonto, poi
la calma sul Tamigi popolato di storie, di servizi e traffici. La “civiltà” del fiume e del vasto medium
liquido, confinante con la città mostruosa. Una nube di tenebra già incombe, sul cuore della cultura
occidentale.
L’oceano, il fiume, la rete della Compagnia belga e le “narrazioni” orientate ai valori del commercio e
della civilizzazione saranno il letto liquido, scorrevole, su cui Marlow si troverà a navigare, in una queste
più passiva che attiva. E velocemente “realtà” e “storia”, “esplorazione” e “missione”, i segni dello
scambio e del trasporto, si discioglieranno in una nebbia che confonde terra e acqua, giungla e fiume,
follia e senso. Eppure Marlow, che al calare della notte e nel galleggiamento molle della Nellie inizia a
raccontare, dalla sua esperienza ha pure appreso qualcosa di fondamentale:

… il significato di una vicenda non era nell’interno come un gheriglio, ma dall’esterno avviluppava il racconto, e questo lo
svelava soltanto come la luminescenza rivela la foschia, a somiglianza di quegli aloni indistinti che talvolta lo spettrale chiaro
di luna rende visibili.

Il racconto - ci avverte Marlow - si presenta come foschia, come enigma che non sarà sciolto.
Annebbiamento del senso. E mutazione percettiva, fino al punto estremo dell’esperienza. Il senso come
l’alone, proiettato dal fantasma lunare: un’entità irreale, una tremolante apparizione.

***

Un minimo di teoria è necessario, per il lettore che non avesse finora incontrato McLuhan e la scienza
dei media, una teorizzazione che si muove nel dominio trasversale delle discipline estetiche, delle scienze
della cultura e della società, ed è irriducibile ai paradigmi “moderni”, logici e riduzionisti della
“trasmissione di informazioni” (e di una economia marginalista della cultura).
Il punto di partenza della mediologia consiste nell’individuare ogni nuova forma della comunicazione
(che sia sperimentale o banale, creazione personale o prodotto di massa) come una azione che nel caos
apparente dell’evoluzione culturale trasforma l’esperienza collettiva (McLuhan 1964). Essa ha dunque
come vero oggetto il senso della forma per la psiche e per la cultura.
Per “forma”, intendiamo la struttura di un oggetto utile a comunicare, e che a sua volta cambia la
soggettività. Dunque sono forme i media, le tecnologie, le arti, ogni nostra estensione comunicativa in
grado di funzionare sul piano mediale (i media come sistemi di traduzione di una struttura dell’esperienza
umana in un’altra), sul piano comunicativo (le tecnologie come atti di interpretazione, di selezione e di
individuazione dell’ambiente, capaci di darne una nuova versione possibile), e sul piano
conoscitivo/creativo (le arti e gli immaginari come lavoro sulle strutture e le figure della cultura che ne
genera altre).
Ai tre livelli di determinazione della forma, è sempre presente un senso metaforico, che allude a una
trasformazione. Un senso che investe la soggettività (l’io/noi: il soggetto e la comunità sociale, come
percezione, corpo, immaginario).

***
Dal frame del racconto in avanti (lo yawl sul fiume, le voci attutite al cospetto della tenebra che incombe
su Londra), la metafora spaziale e quella percettiva costituiscono le dimensioni evidenti ed espressive
della navigazione di Marlow (esattamente nei tre sensi di cui si è detto: autodefinizione/ simbolo;
immanenza/ struttura; controcampo/ svelamento). Dimensioni solo all’inizio distinguibili, e che via via
si fondono.
Seppure una delle più forti motivazioni del viaggio era rappresentabile all’inizio come una carta
geografica con una vasta zona bianca da ”riempire”, assai presto l’esplorazione perde irrimediabilmente
ogni velleità di colmare uno spazio, una superficie. E si immerge alla cieca, come sulla carta la coda del
fiume-serpente sembrava al giovane Marlow sparire nelle profondità della terra. Fino alla radice,
all’enigma (e a ciò che la cultura occidentale con le sue simulazioni nasconde). Presto - infatti - alla vista
di Marlow il valore degli spazi si capovolge, e il fiume africano si trasforma in rivolo putrefatto, che
disfa la terra: “correnti di morte in vita, le cui rive si decomponevano in mota”. I confini, gli oggetti
solidi, la stessa possibilità di definire le cose si dissolvono, fino alla perdita del senso del luogo. Da
prevalentemente visiva come era nelle pagine iniziali, la percezione si fa tattile .
Giunti alla prima stazione, il senso occidentale-moderno della forma è ormai alle spalle, per sinestesia e
decomposizione delle metafore strutturali di spazio e sensibilità percettiva; ed è allora, su quelle rive (tra
Dante e Poe/Baudelaire), che Marlow avverte per la prima volta la presenza di un incubo: il “demone
flaccido, bugiardo, dall’occhio spento, di una follia rapace e spietata” che gli si posa – per così dire – su
una spalla, e che subito si materializza “nell’ombra”. La vista, in uno stato latente di semi-veglia, non
riesce quasi a discernere, ma celata da un bosco, una folla di negri giace per terra, a morire. Più tardi -
dopo una faticosa marcia via terra - il demone torna a proiettarsi (di nuovo “reale”) nella fatiscente
Stazione Centrale, sulla riva del fiume. E il fiume impone i suoi connotati strutturali, simbolici e
metaforici al racconto, mentre seguendo una deriva immanente nella scrittura di Conrad – in Cuore di
tenebra e altrove – la metafora spaziale viene disciolta con lenta, tenace violenza in quella percettiva e
liquida.
I segni più forti (la carta geografica, i luoghi, le procedure e le “misure” – già corrose da un certo senso
dell’assurdo - delle città commerciali) e quelli più emotivi e impressionisti della navigazione (l’”orlo di
una giungla colossale d’un verde così scuro da sembrare nero, bordato dalla risacca bianca”, con le
macchie “grigie di insediamenti”), sono scorsi via, trascinati in un flusso continuo, sommersi nel suono
e nella sensazione tattile. Il campo visivo si popola di apparizioni e incubi, e poi si abbuia, illuminandosi
a tratti di qualche barbaglio, in cui le figure si intuiscono soltanto, come rumori, odori, sfioramenti di
corpi. Gli oggetti perdono i loro contorni, sfasciati e trasandati. I corpi muoiono, consumati dalla febbre.
Anche la voce narrante di Marlow, che dà luogo inizialmente a una successione diacronica di grumi
espansivi e a volte satirici, tende nel corso della navigazione fluviale a un grado unico; e pour cause: un
senso fisico-tattile di degrado, che accompagna il flusso-spettacolo mentale. Ora il racconto di Marlow
sembra “prendere forma senza bisogno di labbra umane”. Liquefazione spaziale e percettiva, demoni,
proiezioni. Un senso di angoscia, di euforia, ansia, disgusto, che avvolge il racconto, e investe gli
ascoltatori. Noi, galleggianti sul fiume.

***
A cosa servono i romanzi?
Alla trasformazione culturale, naturalmente: “I media non possono essere indagati direttamente, perché
i loro effetti sono subliminali”; perciò “… le arti indagano lo sfondo mediale e inventano i collegamenti
tra l’ambiente tecnologico e l’eredità biologica”. Inoltre - rimuovendo la pressione dell’”attuale”,
recuperando sfondi precedenti, ed esasperando l’evoluzione estetica - esse collaborano a rovesciare la
forma, in una nuova configurazione… In alcuni passaggi-chiave di McLuhan, si va oltre queste
definizioni generali, per individuare tre convergenti e specifiche azioni artistiche. Vale la pena di renderle
esplicite, per introdurci alla teoria delle metafore della comunicazione.
La prima consiste in un orientamento simbolico all’autodefinizione, all’esperienza di noi stessi - si
potrebbe dire - nello spazio del racconto o del quadro. La seconda in un orientamento all’innovazione,
intesa come tentativo di anticipo di derive immanenti nella forma dell’io, della percezione, e della
tecnologia. La terza - che sembra appartenere principalmente, se non esclusivamente alla funzione
artistica - si manifesta in senso terapeutico, come orientamento a percepire e assumere il conflitto. È una
risposta all’evoluzione dei media - ai cambiamenti “più brutali di una guerra”, e al modo in cui la psiche
e la cultura reagiscono, immergendo la mente e il corpo nella catalessi narcotica delle metafore mass-
mediali: l’arte come controcampo, contro-ambiente finzionale, leva per il risveglio estetico (McLuhan
1962, 1964 e 1988).
In ogni forma artistica convergono l’alta definizione del simbolo, la sperimentazione anticipatoria della
struttura, e l’esperienza dello svelamento - attraverso la magìa spettacolare o il corto-circuito doloroso
della fiction, della proiezione del sé, della virtualizzazione. Le tre dimensioni sono a volte fuse in
architetture metaforiche di particolare forza e durata.
Infine: la conoscenza/creazione delle arti e il “calarsi nella forma” della percezione “a mosaico” che
secondo McLuhan dovrebbe essere adottata dalla scienza dei media (fuori dalla tradizione “spaziale”, e
coerentemente alla cultura dei flussi) hanno molti tratti in comune. Seguendo l’artista, calandosi nel
gorgo della forma, anche al mediologo si applica la metafora del marinaio di un racconto di Edgar Allan
Poe, Una discesa al Maelstrom - che viene attirato e catturato dal vortice, ma osservandone la struttura
riesce a cooperare con esso e a salvarsi (McLuhan 1969).

***

Matura durante la fin de siècle l’era elettrica. Lo “spazio uditivo e tattile riconfigurato”. Un ambiente
estetico risonante, pluritemporale, mitico. Una continua emersione e reimmersione di figura e sfondo. La
forma attraversa il più aspro dei conflitti: l’implosione elettrica convive con il surriscaldamento
dell’esplosione percettiva e culturale moderna, gutenberghiana. La “materia collettiva e mitica” in corto-
circuito con la “forma individualistica, segmentale e meccanica”; la “visione tribale e collettiva” con
“l’espressione privata e commerciabile”. L’acme del mondo tipografico, potenziato dalla velocità
elettrica, raggiunge secondo McLuhan il culmine di una sorta di taylorismo mediale: “istantanee
mentali”, gestione delle immagini, e tentativi di controllare la catena degli effetti; riduzione della vita
conscia a un unico livello e possibilità di invasione (e governo) dell’inconscio collettivo, reso ipertrofico
dalla “dissociazione e surriscaldamento della vista” (McLuhan 1988).
Sono le avanguardie artistiche, naturalmente, ad anticipare il rovesciamento audiotattile, e il parto del
nuovo mondo dei mass-media e del consumo. Testimoniando e svelando il conflitto, esplorando strutture
e figure della nuova soggettività (la simultaneità, il mito, il simbolo, il coinvolgimento “del lettore come
coautore”, la rinuncia all’”io esclusivo”, il ritorno pre-moderno alla “cecità del veggente”,
all’intensificazione dell’interiorità). E una linea di grandi scrittori provenienti da zone “periferiche”,
orali, si è orientata - già da tempo - nello stesso senso: Poe e Melville, i progenitori; in seguito verranno
Yeats, Joyce, Faulkner, Dylan Thomas (McLuhan 1964).
Ma a quella linea mainstream dovremmo aggiungere Conrad.

***

Torniamo alla metafora spaziale di Cuore di tenebra, fusa come si è detto in una sola struttura con quella
percettiva, nella sommersione nel flusso, che cela un conflitto violento (foresta selvaggia, ancestrale;
luna e grande fiume: “Avremmo saputo domare quella cosa muta o sarebbe stata lei a domarci?”).
Messaggio strutturale, ma anche condensazione in figure spesso indimenticabili - come sintomo o per la
loro forza allegorica: una nave che nel vuoto e nel silenzio assoluto spara dall’oceano contro la giungla,
sulla costa africana (la astratta potenza moderna sul margine di un mondo selvaggio che riemerge, e
sommerge); il metaforico demone “flaccido e bugiardo”, dall’occhio spento (un doppio decrepito e
compromissorio, un fantasma opprimente che il soggetto proietta di sé nel flusso inconsistente, dove la
vista non serve…). E ancora, quel subalterno Mefistofele di cartapesta, capo della stazione. O il ritratto
dipinto da Kurtz: una donna bendata vestita con un drappo e con in mano una fiaccola.
Situate nella zona intermedia del racconto, queste ultime sono immagini-maschera, carta straccia,
emblemi “letterari” già distrutti e derelitti. La loro inconsistenza e degrado amplifica per converso
l’incommensurabile, incombente approssimarsi di una forza sovrumana, di quella apparizione che
oscuramente dovrebbe dar corpo e senso all’energia che risucchia i luoghi e i sensi nel cuore della
giungla. Ma a lungo il fantasma di Kurtz non si condensa come forma, nonostante le molte narrazioni
che si disseminano sul suo conto. Sulle orme - ci sembra - dell’indefinizione suggestiva di Poe, il campo
metaforico spaziale-percettivo si sdoppia di qui in avanti in una struttura empatica e nascosta, a doppia
trama: figura e sfondo, conscio e inconscio, la “realtà esteriore” e la verità interiore “nascosta ma
percepita”, il “piccolo e antico vapore” e la “misteriosa immobilità” che lo avvolge. Tagliato fuori dalla
possibilità di comprendere, lo stesso Marlow inizia a percepire il battello e se stesso come un’apparizione.
“Scivolare come fantasmi… Pieni di stupore e di segreto spavento”...
Kurtz è la figura che avvertiamo sullo sfondo, incombente ma non definibile. “Il mostruoso si manifesta
in piena libertà… la sensazione che non sia disumano… deve avere un senso”. Come potenza del mito e
del gorgo, come estremo sogno fascinoso ed emblema oscuro di un possibile e definitivo rovesciamento,
la figura di Kurtz - la forma di Kurtz - si proietterà solo al culmine del flusso, che trasporta - degradati,
irriconoscibili, trash – i detriti del mondo occidentale. Ed è per Marlow e per noi un incontro
sorprendente, terribile, umano, troppo umano.

***

I Quaderni di tecnica di navigazione di un certo Towson, con disegni di catene e paranchi: qualcosa di
vero, con glosse scritte a mano, forse in codice: l’ultimo segno della scrittura e dello spazio occidentale,
abbandonato in una capanna deserta sul fiume. Poi arriva, a sommergere il battello, una immensità di
frecce, e la morte per lancia del timoniere. Su Marlow incombe sempre più forte l’immagine di Kurtz,
come un flusso vocale, una visione che invade tutto il sensorio: “stupefacente (bewildering), illuminante,
esaltante e spregevole al massimo grado, fiume di luce pulsante o limpido fluire dal cuore di impenetrabili
tenebre”. Marlow prova un senso di abbandono. Il suo racconto diventa sconnesso, come il brusìo di voci
che emana dalla foresta.
Non mi addentrerò nell’ultimo tratto del viaggio, nell’orrore, nella delirante apparizione di Kurtz e nel
suo stesso disfacimento poiché molte delle letture che seguono ne cercano il senso. Qui interessa la
dinamica strutturale della percezione, il suo valore metaforico. Dallo spazio ancora visivo dell’esordio,
dal mood tattile-decomposto che penetrava nella mente di Marlow durante il percorso di avvicinamento
a Kurtz, si è transitati verso un continuum fonico, una vibrazione sonora, ipnotica, ossessiva, che
aggriccia la pelle. L’energia dell’orrore. La forma è ora un’unica, impressionante emissione di voce, un
“ritorno” del flusso sonoro nella nostra mente, nella frammentarietà, nell’oscillare violento, nel gorgo
che si apre.

***

Metafore di flusso (i fanali delle barche, la foresta, il fiume, il vapore, l’apparizione…), illuminano
debolmente quell’alone che avviluppa le figure e le rivela “dall’esterno”, come aveva anticipato, con
esattezza, Marlow. E tuttavia quello che incontriamo all’inizio è un Marlow meditativo, un superstite
tornato dal Nulla, su una barca flottante sul fiume, quasi immobile nel tempo. Solo ripercorrendo il
viaggio agli Inferi comprendiamo che il flusso, scorrendo sempre più violentemente, trascina quelle ed
altre figure, sradicandole, facendole a brandelli. E alla fine, nella corrente, ecco ricomparire in quello
stato terribile anche le metafore primigenie della comunicazione: il simulatore (la scrittura), e l’eroe folle
(la schizofrenia di un soggetto diviso), il dio miserabile (il suo drammatico oscillare e cadere);
l’Arlecchino metamorfico e Kurtz il Doppio senza fine.
Sono le ultime rive infernali, le ultime “apparizioni” (veri anticipi dei corpi di luce del cinema), trascinate
dal fiume nel cuore delle tenebre, e già espressioniste, mostruose. Il viaggio fluisce surriscaldando il
senso, fino al gorgo, all’orrore, al nero assoluto.

***

Delle ulteriori dimensioni strutturali meno evidenti, di Cuore di tenebra, e delle loro valenze metaforiche,
si può solo accennare. Percezione, corpo, soggettività si virtualizzano - di solito - nella struttura temporale
del racconto. Che qui è ricondotta ai termini classici (odisseici) del resoconto dell’eroe superstite, e per
il resto si limita ad alcune brevi oscillazioni tra la notte sul battello-cornice e lo stato ipnotico, disciolto
nella percezione continua e audio-tattile, sul battello dell’esperienza estrema. Non è dunque il gioco sulla
compresenza e destrutturazione del tempo, sul quale lavorerà l’avanguardia del Novecento, , a
determinare il messaggio strutturale del romanzo, quanto un’altra dinamica che assorbe quella temporale
come la metafora strutturale della percezione assorbe quella spaziale. Si tratta dell’immersione e
reimmersione violenta di sfondo percettivo/figura, e della sua accelerazione per sprofondamenti
successivi, che alla dinamica del racconto danno la forma del vortice. Con il relativo senso di perdita del
controllo, di assorbimento in un “buco nero”, di paura e di attrazione dell’annichilimento.
A livello macroscopico: un avvitamento sempre più stretto, qui rappresentabile con gli elementi
essenziali del racconto (ma una micro-analisi confermerebbe lo steso assunto):
SFONDO: la “razionalità”e la costruzione retorica strumentale della compagnia→ la sovreccitazione
“esplorativa” di Marlow→
FIGURA: la queste↓ la nave che spara, nel silenzio, sulla giungla↓ la folla di neri che muore, nascosta
sotto gli alberi
SFONDO, FIGURA, SFONDO: sulla rotta del commercio→covano la follia e la morte↓ i connotati del
fiume di tenebra← il fiume dalle rive decomposte (le stazioni decomposte)
FIGURA: il demone flaccido e bugiardo, dall’occhio spento, di una follia rapace e spietata↓
SFONDO: si accumulano gli indizi, i lacerti che testimoniano la spinta inconscia/incontenibile di Kurtz,
la sua immagine non vitale←
FIGURA: la voracità cinica e volgare ↓ Kurtz il demone si “gonfia”, retorico e folle ↓
SFONDO: il delirio di Kurtz è il cuore delle tenebre.

Già al secondo giro le classiche definizioni di sfondo e figura della partenza del soggetto e della queste
si sciolgono nello sfondo fluviale; al terzo lo sfondo è l’immagine spenta e decomposta di Kurtz; al
quarto, il delirio: quello sfondo che Marlow - archetipo della soggettività elettrica - non dovrà più
rimuovere. Ma sul senso del ritorno di Marlow, e del finale del racconto, diverse interpretazioni sono
possibili.

***

Chi è veramente Kurtz? L’interrogativo angoscia Marlow per tutto il racconto, e funziona anche come
un evidente invito al lettore - perché si immerga a sua volta nell’enigma. Densa e ambigua come ogni
grande metafora letteraria, la figura-Kurtz - o come si è appena visto lo sfondo-Kurtz - si presenta come
super-apparizione, proiezione del desiderio di un super-io di flusso, ma anche come precipizio per il
super-Uomo. Accompagnato non a caso da controfigure (Mefistofeli di cartapesta, Arlecchini disposti a
qualsiasi compromesso, attori falliti) che sono rappresentate come subalterne nel loro simulare, e incapaci
dell’esperienza estrema, Kurtz rappresenta il fallimento di una identità surriscaldata, della volontà
suprema, del gesto estremo, che si dissolve nel Nulla. Più volte Conrad usa la metafora del “cuore
selvaggio”, un Es primordiale, un doppio “nero” e mutante che si vuole oltre il confine della civiltà e del
Sé, che vi si annida violentemente, generando un fiume di follia, implodendo in frammenti dissociati,
proiettando brandelli di storie epiche capovolte, in decidibili, malvagie.
L’esperienza dell’orrore che affiora. Prima del Novecento l’orrore era in un certo senso privato, intimo,
poco comunicabile. Conrad ne anticipa la valenza metaforica di massa, il senso del Nulla con il quale
occorrerà convivere, in futuro, nell’ambiente liquido dei media. Ancora prima, come sappiamo, un super-
Narciso psicopatico devasterà il mondo, con la guerra e lo sterminio. E migliaia di volte tornerà, negli
immaginari dei media, il superkiller (un facile allenamento del soggetto, che svuotato nel consumo trova
godimento solo “oltre”, in uno spazio nero, rovesciato, demoniaco). Ma qui siamo agli inizi della
parabola: dal terrore di Poe si è passati all’incubo interiore, al vortice e all’implosione del soggetto-
L’arte letteraria compie fino in fondo il suo gioco drammatico: l’eroe/santo guarda in se stesso e vi trova
l’orrore; dunque impazzisce, delira, distrugge, implode.
Soggettività ipnotico-patologica, solitaria, auto-mitizzante, iper-empatica, Kurtz si presenta come
straordinaria metafora del super-Narciso nel flusso dei media elettrici. Ancor prima delle avanguardie e
del modernismo, l’io si svuota di senso, e rovesciandosi in immagini e frammenti, si precipita nel flusso.
Dalla “meccanica” delle catene e paranchi, delle tecniche di navigazione, e delle tecniche di
civilizzazione e dominio imperiale, siamo balzati in una nuova dimensione: il viaggio di Marlow sul
fiume-labirinto ci fa scivolare sul liquido elemento come fantasmi; di lì il miraggio sembra quello -
ancora fondato su scienza e ragione - che si vive qui, in Europa.
Infine - nell’epilogo del racconto - rigurgitati dall’Inferno nella terra della menzogna pietosa, la nostra,
il futuro che ci resta possibile sembra confinarsi in una sopravvivenza necessaria, nell’esistenza irrigidita
in maschera fissa, e in una “verità” che torna “positiva”. Il nuovo sfondo, tuttavia, quello che Marlow ci
ha trasferito raccontandolo immobile come un Budda in un tempio notturno, è la dissoluzione del super-
Uomo in Narciso. Conrad individua il rivolgimento brutale che incombe; non sarà lui a scorgere le
fattezze di Proteo nelle macerie di Kurtz; piuttosto, il suo lascito si concentra su Marlow, e ci parla di
una avventurosa e precaria cura del sé.

***

C’è infatti ancora qualcosa di non detto nel romanzo, e tuttavia essenziale per comprenderne il senso per
la psiche e per la cultura. Sembra che la tensione che ci trascina nella lettura non sia soltanto quella che
deriva dalla doppia struttura dell’esplicito e dell’indefinito (eredità di Poe e Melville, che anticipa l’era
elettrica); e nemmeno è sufficiente a spiegarla il nostro immedesimarci in soggettività trascinate dalla
soverchiante forza di attrazione della tenebra (archetipo di quote imponenti di immaginario
novecentesco). Anche un’altra sorgente di energia muove la forma, e riguarda - paradossalmente – il
valore della forma stessa. Dieci anni dopo la stesura di Cuore di tenebra, riflettendo sulla storia d’amore
di Søren Kierkegaard, un testimone privilegiato del passaggio d’epoca tra Otto e Novecento introduceva
alcune domande di fondo sulla queste – o per meglio dire – sul gesto (per noi: il gesto di Kurtz, di Marlow
che ne insegue il fantasma, e in definitiva anche della donna di Kurtz).
Il gesto, ossia rendere univoco l’inesplicabile. Giörgy Lukács sta parlando di Kierkegaard che trova nel
gesto estremo, dolorosamente, un “assoluto”. Lo slancio e la proiezione irrevocabile del sé nel gesto - o
nell’illusione - del soggetto che cerca il senso, la forma del sé, a qualsiasi costo. Tentare il “salto”, oltre
le “mediazioni” e la “psicologia” che devono restare convenzionali, per caricare l’energia che porta a
subire il dolore assoluto, affinché la realtà non si sgretoli in tante, e ingannevoli possibilità (Lukács 1910).
E indossare una maschera per accrescere il dolore, per nascondere il vero gesto. Contro la mediazione.
Aut Aut.
Kurtz indirizza l’odio e la sopraffazione verso il cuore dell’Africa, per separarsene nel gesto assoluto.
Ma nel gesto implode, e di nuovo la sua maschera di grande seduttore si infrange, e la vita riappare, fatta
“di mediazioni e abissi”.

Quando la forma si frange sugli scogli dell’esistenza .

Il nero assoluto, la follìa dolorosa, la maschera: così l’ombra di Kurtz proietta verso il Novecento tutto il
piano metaforico della autenticità, della mutevolezza, della perdita dell’aura, degli “abissi che si
spalancano in mezzo alla fitta rete delle mediazioni”, della tensione agitata dal dubbio (quell’andare
“oltre” del gesto “non è forse ingannare se stessi?”), sulle quali Lukács inizia a teorizzare in L’anima e
le forme. Ma l’osservazione ansiosa del proprio - indeciso - gesto non è forse la chiave di tutta la scrittura
di Conrad? E l’inseguimento di Marlow, che raggiunge infine il dolore e il delirio di Kurtz per trovarsi
di fronte la miseria, il delirio, il disfacimento di un eroe che perdura dopo la sua morte, ma a costo di
nuove menzogne, non ne è l’emblema, il “gesto” per così dire di secondo grado? Marlow è oltre Kurtz.
Ha coscienza del suo gesto.

Anche Marlow, alla fine di Heart of Darkness, il grande racconto di Conrad, se ne andrà zitto con il suo
segreto tra uomini che non si voltano… Marlow sa che dietro l’orizzonte sta il mistero… Sa che il mistero
sta dentro l’orizzonte del nome e della parola. Ed è alla ricerca di questa parola che gli andrà: alla ricerca
della parola straordinaria pronunciata da Kurtz nel cuore della foresta dell’avorio. La parola di Kurtz è
avvolgente: è seducente come una parola udita in sogno. Ma è una parola comune; è la parola che tutti
pronunciano: civiltà, progresso, denaro… Ma c’è una cosa che Kurtz comunica con questa parola
comune, qualcosa che si nasconde sempre in essa, ma che raramente affiora oltre il suo chiuso orizzonte.
Kurtz comunica – e questo rende la sua parola, altrimenti risibile miserabile, terribile e spaventosa -, il
vuoto e l’orrore che si cela dentro le parole… È quello stesso vuoto e quello stesso orrore che Marlow
vede sui muri della città sepolcrale in cui giunge con questa sua nuova coscienza, nata dalla prossimità
della tenebra sconfinata, che egli non comunica a nessuno, perché nessuno vuole sentirla (Rella 1981).

Eppure noi la sentiamo. Cuore di tenebra – anche in questo senso – è una metafora paradossale sul mito
e la perdita dell’autentico. Dove l’arte del romanzo, più profonda delle filosofie dell’autenticità e dello
sperimentalismo modernista, riesce a spingersi nell’abisso dell’io proiettato “oltre”. Finché il senso di
morte, o il Nulla, diventa lo sfondo, dal quale dolorosamente ci abituiamo a riemergere.

Marshall McLuhan, La Galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico (Gutenberg Galaxy), 1962,
varie ed.
Id., Gli strumenti del comunicare (Understanding Media), 1964, varie ed..
Id., Dall’occhio all’orecchio, a cura di G. Gamaleri, Armando, Roma 1982, pp. 25-70 (Intervista di Eric
Norde a McLuhan, 1969).
Id. e Eric McLuhan, La legge dei media. La nuova scienza (1988), Edizioni Lavoro, Roma 1994.
Giörgy Lukács, L’anima e le forme (1910), Adelphi, Milano 2002, pp.53-72 e p.69.
Franco Rella, Miti e figure del moderno (1981), Feltrinelli, Milano 2003, pp.127-128.

(2006)
Ellroy e il noir

1. Il noir è dagli anni Novanta – sul mercato internazionale dei bestseller e anche in Italia – uno dei generi
dominanti del racconto letterario. Pur scontando la sua banalizzazione nel ciclo industriale, dove la
competizione, nel migliore dei casi, è con i polpettoni pseudo-storici alla Dan Brown: il successo ma
anche le qualità di testi come il celebre L.A. Confidential di James Ellroy (1990) a cui mi riferirò in questi
appunti, indicano come attraverso il noir, almeno per un certo tempo, sia passato non solo il mainstream
dell’immaginario di consumo, ma anche il mainstream della letteratura.
Il termine mainstream richiede una breve premessa teorica. Il “canone” letterario, con la sua funzione di
“guida” per la riproduzione e la tradizione delle arti (anticamente: canne infisse nel terreno, a segnare
una linea spezzata, una costellazione dei punti di rilievo), in quanto proseguimento della serie dei
“classici” (i testi “di classe”, per l’élite e in principio elitari, serie poi popolarizzata con l’istruzione di
massa), si è estinto più meno negli anni Ottanta. Nonostante si sia tentato in vari modi di riproporlo e
riattualizzarlo anche nella società dei consumi, era un modello culturale troppo legato a una centralità
dell’educazione letteraria storicamente e socialmente esaurita. È riemerso così l’altro modello di
organizzazione dell’egemonia, già presente e attivo nella tradizione ludica dell’Occidente. Fin dall’età
del Barocco, infatti, la società dello spettacolo ha costruito - e costruisce tuttora : nel suo conflittuale
tramonto - il proprio paradigma in forma aperta, poco canonizzata, non basata sulla “autorevolezza” e
sui valori letterari o artistici di un oggetto, ma sul criterio dell’utilità pratica, della potenza del medium
in termini di egemonia e di share, di valenza nell’immaginario collettivo e di consumo. Al posto del
canone dei testi autorevoli, c’è un’evoluzione trascinata dal mainstream, la corrente creativa che più
profondamente incide sull’innovazione delle forme. Nell’ambiente fluido e multimediale della società
dello spettacolo, e poi nel mondo proteiforme delle reti, mentre si indebolisce il ruolo del travaso di
riferimenti, esempi e norme dagli strati elevati della cultura a quelli intermedi e all’apprendimento
scolastico, la serie che prende rilievo è data da segni e modelli di riferimento, forme estetiche e metafore
dominanti che “orientano” e sospingono lo scorrere del grande fiume della cultura. E la letteratura, come
il cinema, è ancora, in questo senso, al lavoro. Funzionale, nel confermare la direzione. Creativa, nel
declinare identità e storie sullo sfondo del “tempo senza tempo” e della violenta virtualizzazione di ogni
spazio di vita - il cambiamento epocale di fine millennio gestito dall’industria della comunicazione.
Conflittuale e terapeutica nel suo dare forma ai conflitti di una soggettività mutante.
Il mainstream della cultura e della letteratura – con i suoi “generi” – è ora più che mai globalizzato e
virtualizzzante. Le attuali forme estetiche, estensioni di una sensibilità abituata da oltre un secolo di
immagini in movimento a costruire e immaginare scenari spaziali e temporali per immersione, sono
arrivate da ultimo a stabilire con un rapido e curioso coinvolgimento contestualizzazioni ed ipotesi senza
che nessuna auctoritas - e nessun autore implicito – le abbia codificate. Suggestione, imitazione,
intuizione, assai più che la novecentesca sperimentazione delle avanguardie, determinano il corso, per
esempio della narrativa. È così, non per caso, in Italia, almeno dalla cesura che si è verificata dopo la
scomparsa di Calvino e Pasolini. Succedeva allora che una giovanissima generazione di nuovi scrittori
dei primi anni Novanta (Ammaniti, Nove, Scarpa, ecc.) prendesse ispirazione alla lontana da Brett Easton
Ellis; l’autore di un nuovo e strano tipo di storia su un serial killer ultragriffato (Psycho,xxx ). Ma lo
splatter dei “cannibali” italiani era ancora fondamentalmente satirico; verso la fine del decennio invece
l’influenza del noir di Ellroy e di altri americani, ma anche dell’hardboiled e della pulp fiction (incluse
le versioni cinematografiche), insieme alla riscoperta dei B-movies polizieschi italiani degli anni Settanta
divenne il nuovo alveo per raccontare storie.
L.A. Confidential di Ellroy. considerato abbastanza unanimemente archetipo e capolavoro del genere, si
presentava come qualcosa di veramente nuovo e potente, quasi portando all’estremo e mettendo a fuoco
i caratteri fondamentali della storia poliziesca “nera”: una vera e propria furia nella costruzione
dell’intreccio, e soprattutto uno stile che stimola inconsciamente il sensorio lavorando ossessivamente
sul nostro senso di orientamento, o meglio, di disorientamento.
Sarà utile esplicitare il riferimento teorico a McLuhan che sostiene questa affermazione. Diremo quindi
che: il valore culturale di ogni testo non consiste nel trasferimento di informazioni, quanto
nell’operazione di “ospitare” frammenti di immaginazione collettiva e di riorganizzarli per produrne
altra. Il valore mainstream di un oggetto è soprattutto in questa sua dimensione mediale (il testo è in se
stesso un medium): figure e strutture dell’immaginario che hanno un valore metaforico per il senso
comune ne assumono un altro, in cui si riconoscono o di cui fanno comunque esperienza pochi o molti
lettori. In questo caso, milioni di lettori.
Più precisamente: l’assunto-base della mediologia è che ogni nuova forma (tecnologia, oggetto) della
comunicazione, che sia di tipo sperimentale-artistico, o industriale-seriale, trasforma l’esperienza
collettiva, la ri-media, ne provoca la metamorfosi. Storicamente, il medium-romanzo è stato una fucina
potente di oggetti attraverso i quali compiere pratiche di interpretazione, di selezione e di individuazione
dell’ambiente, capaci di darne una nuova versione possibile (e di stabilizzarla, mediante processi di
ripetizione e codificai). Ma McLuhan sosteneva anche che a queste “normali” funzioni di “traduzione”
gli oggetti e la creazione artistici ne aggiungono - o ne sviluppano più intensivamente e visibilmente -
un’altra: Essi infatti generano nella nostra esperienza un vero e proprio “controcampo”
conoscitivo/creativo e percettivo, che permane virtualmente nel nostro corpo e in quello della cultura,
utilizzando strutture e figure metaforiche e il più delle volte enigmatiche. I quadri di Picasso o in testi di
Joyce – secondo McLuhan – sono mondi dell’immaginario che ci “abituano” alla metamorfosi
dell’ambiente reale, dei media, di noi stessi, trasferendo in metafora il cambiamento e il conflitto da
adattamento (a livello dell’io/noi: il soggetto e la comunità sociale, la percezione, il corpo, l’immaginario
collettivo)9. In breve: l’opera è esperienza metaforica della mediamorfosi.

2. Rivista in questo modo, la struttura e la stessa successione delle grandi metafore artistiche (per dire:
dal picaro cinquecentesco all’isola di Robinson, dai fantasmi ottocenteschi al cuore di tenebra di Conrad
e allo scarafaggio mutante di Kafka…) può svelarci molte cose. Alcune formazioni metaforiche sono
infatti di lunghissima durata, ma vengono rielaborate e ridisegnate per “ospitare” e “ri-mediare” le
proiezioni storicamente in continua evoluzione del soggetto in mediamorfosi. Per tentare di comprendere
la costruzione di Ellroy, per esempio, conviene tornare ai due antichissimi paradigmi
dell’attraversamento dello spazio (naturale o urbano) e della ricerca di indizi. L’attraversamento è dalla
notte dei tempi una metafora strutturale dell’iniziazione: partire da una casa, da un’origine, superare delle
prove, tornare a casa… Gli eventi avvengono nelle stazioni dell’attraversamento e sono quasi sempre
delle prove. Ma l’attraversamento è anche quasi sempre una caccia, ed essa richiede la ricerca e
interpretazione di indizi. Come ha notato Carlo Ginzburg anche il paradigma indiziario è primordiale e
si intreccia all’attraversamento: chi deve superare le prove è spesso cacciatore (o preda). Deve avere
cognizione dell’ambiente, o di ciò che vi è avvenuto in precedenza, decifrando tracce (di animali o di
umani). In Ellroy ritorna in modo indissolubile l’intreccio tra iniziazione (che include sempre la
possibilità effettiva e tragica di fallire ed essere uccisi), prove, caccia (attiva e passiva) e attività
indiziaria. E si potrebbe interpretare tutto questo come un potente “ritorno” alla percezione “tribale”;
come una metafora del necessario e violento adattamento a una giungla post-metropolitana, fuori da ogni
illusoria estetica della razionalizzazione e del controllo dell’ambiente e del soggetto stesso.

9
Rinvio per una esposizione analitica delle teorie di McLuhan sul ruolo dell’arte e della letteratura a un mio contributo su
Gutenberg Galaxy (La mente e il vortice. Gutenberg Galaxy di M. McLuhan, in Mediologia. Il cammino di una disciplina
attraverso i suoi classici,, a cura di M.. Pireddu e M. Serra, Liguori, Napoli, 2011)
Molti indicano l’origine del noir nei racconti di Edgar Allan Poe. Il riferimento è pertinente, ma solo a
patto di appiattire la forma estetica del noir su uno solo dei suoi componenti metaforici - che lì emerge
compiutamente per la prima volta: la liquefazione violenta dello spazio, del tempo, del sensorio.
Significativamente, infatti. i paradigmi primordiali dell’attraversamento iniziatico e della ricerca
indiziaria vengono distrutti da Poe (e da Baudelaire in Europa): l’andare “fuori” diventa spaesamento o
allucinazione, in un luogo deserto, incontrollato; la “casa” e le “stazioni” che si attraversano diventano
luoghi onirici senza più funzioni distinte; la “prova” non è tale, ma trascinamento e immersione, fino al
baratro; e l’inchiesta del detective positivo alla Dupin viene sottoposta al trauma violento che la colora
di mistero inspiegabile, quasi soprannaturale. Paradossalmente, da giornalista-scrittore, Poe inventa e
mette in scena quello che sarà nel secolo e mezzo successivo il “giallo” indiziario, ma nello stesso tempo,
con il suo genio artistico e anticipatore, ne intravede il rovescio e ne mina alla radice le basi metaforiche
di apologia della competenza borghese e moderna (vale a dire: analizzare, definire scenari, agire su di
essi). Il protagonista di L’uomo della folla, che pure sembra cercare indizi per capire cosa spinga uno
strano individuo intravisto attraverso i vetri del caffè a muoversi per le vie della metropoli, viene
affascinato dal suo miraggio e trascinato in giro per ore. Non c’è nessuna spiegazione. Solo quel
misterioso spazio allucinatorio delle opportunità metropolitane, tra angoscia, ipnosi e autoipnosi, ma
anche euforia e sovreccitazione. Quella è la metafora, e infatti il racconto è un “luogo” classico per la
scienza dei media, che vi scopre la parentela tra le interpretazioni di Benjamin e le intuizioni di McLuhan:
il rovesciamento audio-tattile della percezione, il controcampo che esaspera ostentatamente il senso
dell’immersione, la casualità, e anche l’orrore e il terrore dei racconti di Poe spettacolarizzano
metaforicamente l’era elettrica, e il suo incubare quotidiano nella metropoli del XIX secolo.
Ma come spesso accade, le forme dominanti dell’immaginazione collettiva erano più indietro, e
stabilivano un differente equilibrio nella relazione con l’ambiente metropolitano (e con il vortice
elettrico). Per circa un secolo dopo il Dupin di Poe, passando da Conan Doyle ad Agata Christie e a
centinaia di loro epigoni, e fino all’assai pi\ problematico Simenon, la coppia cronaca nera
giornalistica/giallo letterario si definirà come sistema mediale standard per la sterilizzazione dell’orrore,
celebrando pur con qualche autoironia l’inchiesta indiziaria positivista, riguardo alla quale le prove e la
caccia verranno ridotte a mere tecniche a disposizione di caratteri con scarsa profondità. E vale ancora,
in qualche modo, fino ai riti televisivi dei tempi nostri, a Porta a porta e Chi l-ha visto?
A utilizzare l’eredità noir di Poe furono l’avanguardia letteraria anti/naturalista del tardo Ottocento, e poi
il surrealismo, ma ci vollero diversi decenni prima che l’operazione artistica tornasse a incontrare in
questo senso le pulsioni dell-esperienza comune, banale, quotidiana. Fu quando la cronaca “nera” trovò
una scrittura-ospite più accogliente e capace di lavorare su metafore perturbanti e anche popolari, in una
America già matura per l’industria culturale, nella carta stampata e nel cinema. Ed ecco l’emergere
potente del lato oscuro, che caratterizza l’ondata dell’hard-boiled americano degli anni Trenta, non senza
rapporti con l’espressionismo tedesco, e poi con certo cinema noir francese. A saggiare il cuore di tenebra
del soggetto gli europei ci erano arrivati molto prima, da Flaubert a Oscar Wilde, perfino a D’Annunzio,
fino al testo più pre-noir tra le due guerre, vale a dire il Voyage au bout de la nuit di Céline (1932). Ma
sono stati i romanzi hardboiled di Hammett e molto presto anche il cinema a trasportarci in stanze e uffici
immersi nel buio, con pochissima luce che filtra dalle fessure delle persiane. L’andare “fuori” liquefatto
nella notte, il paradigma indiziario annebbiato in uno stato psichico sempre sul punto di cedere
all’etilismo, o alla passione violenta, o al torpore di una soggettività che ha il buio dentro di sé.
Rovescio del grande incubatore di Hollywood, genere per gli americani particolarmente angoscioso e
doloroso, e quindi metaforicamente carico, nell’hardboiled riemergono alla grande l’iniziazione per
prove e la caccia insieme alla ricerca indiziaria, ma in un mondo rovesciato, ed esperito da una nuova
soggettività “sospesa”, tra bene e male, tra dentro e fuori. L’uomo in fuga incanaglito e predato di Céline,
e molto più efficacemente la popolare figura alla Humphrey Bogart, dolorosa e doppia, di generoso
farabutto, di detective fallito, già in grado di riprodursi in migliaia di imitazioni pulp, che resta pur sempre
un cacciatore, ma abita il buio della metropoli, senza mai uscirne, fuori e dentro se stesso; e del resto vi
si moltiplicano le stazioni, ma di un attraversamento che non trova veramente senso né fine.
L'atteggiamento voyeristico, esorcizzante del giallo non funzionava già nell' hardboiled e tantomeno
funzionerà nel noir, dove il paradigma indiziario serve a sporcarsi le mani, per offrire al lettore le chiavi
di una esperienza “perturbante” e disturbante (tragica piuttosto che romanzesca). L'essenziale è la caccia.
Ma a essere cacciati, sfortunatamente, nella maggior parte dei casi, siamo noi stessi.

3. Teniamo allora ben presenti sia la straordinaria rilevanza culturale della tradizione pre-noir su cui
poggia Ellroy, sia i materiali e gli strumenti che la coppia cronaca nera/fiction (ormai televisiva) del
secondo novecento ha via via raffinato, cercando – anche se avolte con qualche ironia - di conservare un
senso al paradigma indiziario. Sono quei materiali ancora di eredità cinematografica che potranno essere
simbolicamente rovesciati. Sono quei modelli e quelle tecnologie che come notava Kracauer servono
all’investigatore per attraversare lo spazio urbano, distinguendo tra gli indizi utili per l’indagine e quelli
che hanno la funzione di depistarlo10.
Naturalmente si tratta di produzione seriale (il grosso del mainstream, che intanto sta scavando più
avanti). Ma vediamo in cosa consistono, per riassumerli in una formula, quei sistemi di indagine che
raffinandosi di continuo sembrano ancora garantire la possibilità di un’esplorazione vincente dello spazio
metropolitano, dove il soggetto-detective va a caccia, e almeno mantiene il ruolo di comprendere – e
parzialmente dominare – il suo ambiente. Si tratta, essenzialmente, di due diversi metodi: la penetrazione
dello sguardo nella psicologia (che parte almeno dal Poirot di Agatha Christie) e la tecnologizzazione
della rete indiziaria (di cui il “manifesto” più esplicito sono le raffinate analisi di laboratorio nella serie
televisiva CSI). Mentre si accetta (e non sarebbe stato possibile altrimenti, in un secondo Novecento che
ha articolato via via i suoi modelli di controllo sociale e culturale intorno alla gestione della paura) la
compromissione del soggetto parzialmente liquefatto, e il tracimare nel vissuto quotidiano di personaggi
immaginari una volta confinati in una sfera separata (criminali, viziosi, mostri), è dunque possibile
mantenere il controllo in due modi: “personalizzando” l’Ombra in tipi psicologici (la salvezza è nella
gestione della relazione con l’altro potenzialmente ostile attraverso tecniche di psicologia giudiziaria), o
potenziando il cervello venatorio con la protesi infallibile della tecnologia. Vi è naturalmente anche la
variante autocritica rispetto all’osceno affidatamento alla tecnologia psichica o biochimica, con uno
spostamento dell’analisi sulla sfera stessa del soggetto –investigatore, con l’esempio forse più riuscito
nella serie televisiva Jordan.
Ma Ellroy e il noir rifiutano queste evoluzioni seriali del poliziesco, che si ibrida con l’Ombra ma senza
abbandonare la propria razionalità, la pulsione verso il controllo. Ellroy riparte invece dal vecchio
hardboiled, dall’investigatore nevrotico depresso, proiettivo e compulsivo. Dove l’indagine si trasforma
in un’ossessione che cancella tutto il resto, nella posta di una mano di poker in cui sul piatto ci si gioca
la vita intera. Ancora più ostentatamente rispetto a Hammett, l’armamentario investigativo diventa uno
sfondo, un intreccio-giungla che lascia in primo piano, a occupare la scena, il trabordare, il moltiplicarsi
e degenerare senza tregua di una soggettività surriscaldata. Ecco l’”eroe” ridotto a un sensorio
metaforicamente sempre, disperatamente e faticosamente all’erta, pronto a picchiare, scopare, fottere chi
è ostile o ostacolo, fino a uccidere. La legge è sopravvivere, o meglio accumulare potere, soldi, garanzie.
E la metropoli è uno spazio complesso, ultra frantumato, dove non c’è nessuna razionalità positiva a cui
riferirsi, ma solo azioni “locali”: il politico manipola i media, il giornalista del gossip interferisce con
tanti altri livelli e moventi intrecciati con quelli del crimine, del successo personale, dei sentimenti
primari (odio, foia, gelosia, invidia…). Tutti giocano a depistare tutti. E i detective di L.A. Confidential
(i tre che abbastanza indifferentemente svolgono il ruolo di attori attraverso i quali il mondo viene
vissuto, ma in mezzo a decine di altri soggetti) vengono proiettati in uno spazio completamente liquefatto,

10
S. Kracauer, Il romanzo poliziesco, Editori Riuniti, Roma 1984 (lo scritto risale al 1922-1925).
saturo di desiderio degradato, dove cercano e depistano. Gli indizi sembrano moltiplicarsi
esponenzialmente, e vengono ordinati secondo razionalità parziali e insoddisfacenti11.
In effetti c’è una razionalità almeno relativa che alla fine o all’inizio di ogni sezione in cui è diviso il
romanzo, costruisce una verità provvisoria e gelatinosa: ed è l’ordine dei media, in questo caso del
giornalismo (la storia copre gli anni Cinquanta). I media governano l’entropia post-metropolitana, in una
Los Angeles governata dal ritmo del giornale quotidiano locale, e d’altronde già proiettata in serial
polizieschi, che hanno per consulenti poliziotti corrotti, e nella onnipresente pulsione al rifacimento dei
corpi femminili sul modello delle dive di Hollywood, per far godere a pagamento ricchi squali,
imprenditori e politici. Il paradigma indiziario dilaga, e nello stesso tempo fallisce. E solo nell’ultima
parte del romanzo il lettore – che più o meno inconsciamente lo sospettava già da un bel pezzo -
comprende che i diversi e molti fili ed episodi derivano da un preintreccio anch’esso complesso, che
precede ciò che si è visto dall’inizio fin lì. Così tutto quello che è successo dal 1950 al 1958 inizia a
essere risistemato in una storia che è iniziata molto prima, e le differenze tra i tre protagonisti principali
si avvitano in un nuovo scenario che li proietta contro i protagonisti del preintreccio. L’effetto è uno
scarico di energia, che amplifica quelli precedenti – massacri, scontri, conflitti – che avevamo
attraversato via via, seguendo le ossessioni dei tre.
Protagonista, in definitiva, non è più una figura, magari metaforicamente compulsiva come
nell’hardboiled. Protagonista – direttamente – è la metafora strutturale dell’ossessione. E qui è il senso,
sia quello evidente, ostentato, sia quello mediale, inconscio, che regge il tutto. Come ogni grande opera
popolare, la storia offre anche una verità esplicita, esemplare, che tende a semplificare: grosso modo,
L.A. Confidential mostra apertamente che solo con il rifiuto di leggi e regole, con l’uso della violenza si
può arrivare a una faticosa e dolorosa verità, alla salvezza della propria vita e della propria sanità mentale.
Ma metaforicamente apprendiamo che solo entro le tonalità affettive dell’ossessione ci si può muovere
in una metropoli complessa sul piano simbolico e fisico, spazio di barriere, mura ed ostacoli che solo la
violenza e le ossessioni parossistiche dell’investigatore possono abbattere. Questa storia, fatta di decine
di personaggi e microstorie e temi e luoghi che si intrecciano, finisce con la maggior parte dei personaggi
che sono morti ammazzati e con le microstorie si sono finalmente fuse in una. E allora il noir ci fa sentire
la complessità postmoderna come un peso, inevitabile, senza uscita, a cui si reagisce violentemente.

4. Nelle discussioni sull’immaginario americano una questione ricorrente è del resto: perché nella cultura
che ha sviluppato più di ogni altra la metropoli moderna e post-moderna l’immaginario si orienta così
spesso in senso antimetropolitano? Rappresentato spesso come spazio anarchico e senza legge (i film
sulle gang, e sulla polizia corrotta), militarizzato (Carpenter), devastato dalla catastrofe (vulcani, alieni,
terremoti, glaciazione), il territorio di New York, L.A., San Francisco viene regolarmente distrutto con
un certo piacere sadico, quando al fallimento del moderno non sia contrapposto, stancamente, il vecchio
cavaliere solitario. Può darsi che vi sia una archetipica difficoltà della cultura americana a credere sul
serio in sistemi simbolico-politici di mediazione per gestire una realtà che eccede così apertamente la
possibilità di rappresentazione e di controllo (problema che tutto sommato dovrebbero avvertire di più
gli europei, con le rivolte delle banlieu francesi e dei quartieri poveri inglesi). E forse le ragioni del
successo e del corso mainstream del noir – metaforicamente: una soggettività che abita la metropoli ma
la rifiuta –hanno a che fare con l’avvento di uno spazio urbanizzato per un verso reticolare e digitale e
nello stesso tempo enclavizzato e diviso in ghetti. Ellroy e il noir in generale richiamano gli anni
Cinquanta americani, strade e autostrade non ancora informatiche ma d’asfalto, corpi fatti di carne dollari

11
Una buona analisi dell’intreccio è stata tracciata da E. Ilardi in Mutazioni, La letteratura nello spazio dei flussi, a cura di
G. Ragone e F. Tarzia, Liguori, Napoli 2004.
di carta, scontri e desideri che im-mediatamente si mettono in azione, luoghi e proiettili solidi, per quanto
tutti proiettati in B-movies e sottoposti alla pressione della celluloide. Richiamano un mondo dove ancora
è possibile la caccia, almeno tra il soggetto e l’Ombra, in uno scenario “reale” dove poliziotti corrotti o
criminali incalliti attraversano per noi una metropoli fatta di ghetti, quartieri fortezza, luoghi del potere,
simulacri o iperluoghi del consumo. Nostalgia di uno spazio urbano ancora attraversabile? Del conflitto,
ancora, come serie di prove?
Ma credo che occorra scavare di più. I testi mainstream sono metamorfici, profondi e nascosti come
iceberg, si rovesciano, ti fanno scattare dei clic inaspettati. E allora, sotto il richiamo al passato-anni
Cinquanta di L.A. Confidential – che caratterizza non solo il noir, ma nell’ultimo decennio anche altri
“recuperi” della narrativa, da Bukovsky a Bunker a Fante – c’è forse l’andare alle radici di una condizione
pulsionale, percettiva, sensoriale (la nostra condizione), al momento in cui essa si forma. Il dove e il
quando non è casuale: Los Angeles, il backstage di Hollywood, e quando Hollywood trionfa in tutto il
mondo. Quando l’immaginario collettivo prevale sul serio e globalmente sulla vita quotidiana,
sciogliendo il dominio delle istituzioni e delle norme culturali secondarie e primarie (dalla politica e dalla
polizia alla relazione amorosa e affettiva, fino al senso della dignità personale e del corpo). Quando si
rappresenta in proscenio – del resto liberata dalla paura della guerra – l’emozione forte, tattile,
compulsiva, che va dal sesso e dall’odio fino allo splatter e al trash, e la soggettività corrotta, abituata a
uno stato an-estetico di semi-trance e sempre dissimulatoria (ricordate il Terzo uomo di Welles?): è
questo che accomuna in L.A. Confiderntial i tre protagonisti: l’arrivista, protetto e istruito Exley, il
bestione White, e l’opportunista che traffica con la televisione, il truffatore etilico e drogato Vincennes,
riempiendo attraverso il loro sentire ed agire il nuovo spazio epico e iper-audiotattile. E alle loro spalle,
il sentire e agire della generazione precedente, quella dei capi della polizia (degli anni Trenta e Quaranta,
hardboiled e pulp…).
Lo stile di Ellroy, perfetto, collabora:
Sfondare una porta di garage dopo l’altra. Farsi prendere a pesci in faccia da una quantità di neri schifosi, e il suo vero lavoro
era al motel. Stava dirigendosi verso il ghetto quando gli venne l’idea.
Tagliò verso est, parcheggiò davanti al RoyalFlush. La Buick di Claude Dineen era lì ferma: lui probabilmente si stava facendo
nel cesso.
Jack entrò. Silenzio: Big V voleva dire guai. Il barman gli versò un doppio Old Forester; Jack lo buttò giù. Era la fine di
cinque anni di astinenza. L’alcool gli diede energia. Sferrò un calcio alla porta della toilette.
Claude Dineen si stava bucando.

Lo stream of consciousness non viene solo dal personaggio, dal suo sensorio. Nella sua contrazione, nella
sua sincope, sommando il pulp al linguaggio per immagini e inquadrature del cinema, diventa il nostro,
la nostra sorda ossessione.

E infine una spia, un oggetto desueto, per noi oggi ma anche nei Novanta della quadrilogia. C’è un
punto, nel romanzo, in cui sotto la pagina affiora – come emblema della stimolazione del sensorio in un
modo molto preciso – una vecchia conoscenza, una protesi oggi sparita (senza, si badi, che venga mai
evocata esplicitamente): tilt. Il flipper. Di nuovo, gli anni Cinquanta.

Impugnato saldamente sui fianchi, lo scuotevamo per imboccare dei pertugi, far deviare illegalmente la pallina là
dove sarebbe stata sballottata e respinta più volte accumulando punti, fare centro e respingerla, in uno stato di
eccitazione generale in cui la vista bruciava la distanza dal corpo proteso, in un rapporto quasi sessuale con la
macchina…

Potenza, recuperi in extremis, erezione e esaurimento. Totale connessione con l’esperienza multimediale,
che diventava fisica… Il ludus si surriscaldava, ci inglobava da dietro il vetro della sua superficie (lo
schermo) e richiedeva sempre più investimento del corpo. Questo era, probabilmente, il flipper. E questa,
io credo, è la metafora mediale del noir, indissolubilmente legata al suo senso per noi: stazione
serialmente fruibile del nostro prendere le misure al mondo liquido, esplorando il buio e preparandoci a
nuove mutazioni. Il noir – va detto – non è ironico. Piuttosto, è ascetico, strappa senza pruderie le
maschere dell’uomo-consumatore, e ce lo mostra nella sua passione compulsiva. A cosa questo preluda,
non so dire.

(2011)
Per la mediologia della letteratura. McLuhan e gli immaginari

1. Del McLuhan letterato conosciamo i due principali focus. A Cambridge per il bachelor nel 1934-1936,
influenzato dal new criticism di I.A Richards, studia le forme letterarie moderniste e sperimentali e si
interessa alla struttura del paradosso in Eliot e Pound. Nella prefazione del 1969 a una raccolta dei suoi
saggi letterari (The Interior Landscape) scriverà: “Richard, Leavis, Eliot e Pound e Joyce (…). Il mio
studio sui media iniziò e rimane radicato su quegli uomini. (…) Gli effetti dei nuovi media sulle nostre
vite sensoriali sono simili agli effetti della nuova poesia. Essi non cambiano i nostri pensieri ma la
struttura del nostro mondo”. La tesi per il Ph.D di Cambridge, nel 1939-40, è invece dedicata alle arti
della parola, dall’antichità alla scolastica all’età elisabettiana, e culmina nell’analisi stilistica, sempre in
chiave di discorso paradossale, di un importante romanziere e poeta inglese cinque-seicentesco e
barocco, Thomas Nash. Addottorato non a Cambridge , a causa della guerra, ma a St. Louis nel 1943, e
nominato professore in varie università (Wisconsin, St. Louis, Windsor nell’Ontario, e dal 1946
Toronto), (visita Pound in manicomio criminale nel 1946, ne difende pubblicamente l’opera poetica,
strutturalmente polisemica e barocca, e tiene con lui una lunga corrispondenza, come aveva fatto in
precedenza con il pittore e teorico ex-vorticista Wyndham Lewis, trasferito in Canada). i suoi corsi
riguardano ancora soprattutto Eliot, Pound, Joyce e le nuove tendenze della poesia inglese, e dall’altro
lato la tradizione della retorica fino al Cinquecento. Nuovi interessi, che lasceranno il segno: Poe, e il
fumetto… seguono i seminari finanziati dalla fondazione Ford su comunicazione e cultura, e lo studio
sui prodotti di massa, fino all’esperimento multimediale e simultaneo di The Mechanical Bride (1951)
preludio per la creazione del Centro per la cultura e la tecnologia a Toronto (1963). Con questo, le basi
letterarie che costituiscono il background del McLuhan maturo sono abbastanza definite. Del resto, in
una intervista del 1969, dichiarava che la prima intuizione della sua teoria generale dei media gli era
venuta dai materiali della cultura popolare, che egli assemblò in The Mechanical Bride all’inizio degli
anni Cinquanta; ma che una più potente chiave interpretativa gli era scattata in un secondo momento,
tornando nel mainstream della letteratura: “mi resi conto… che i più grandi artisti del XX secolo: Yeats,
Pound, Joyce, Eliot avevano adottato un nuovo approccio, fondato sull’identità dei processi di cognizione
e di creazione. Mi resi conto che la creazione artistica è il playback dell’esperienza comune”. E il
passaggio-chiave consiste forse nel teorizzare la crisi e l’implosione della lingua scritta, codificata dai
dizionari ((“L’inglese e il Francese sono, per così dire, mass media obsoleti”), e nel vedere, come
operazione d’avanguardia e di anticipazione dentro quella crisi il laboratorio joyceano (“Il Finnegans
Wake è un dramma del linguaggio”). Mentre già in un saggio del 1951 su Joyce, Aquinas and the Poetic
Process, accennando alla Philosophy of Composition di Edgar Allan Poe, affiorava la sua teoria dell’arte
come “antenna” che collabora attivamente e formalizza la mediamorfosi che simultaneamente intensifica
un processo, e lo rovescia, rendendo obsoleta una struttura e recuperando tratti delle strutture precedenti
(la teoria esposta in modo sistematico nel postumo La legge dei media): “il processo poetico è teso a
scoprire e rintracciare”. Dunque preliminare a qualsiasi “creazione” è la “ricostruzione” e l’autore-
investigatore è uno storiografo, o piuttosto un archeologo. E per centinaia di volte, nella Galaxy, a essere
preso come riferimento e verifica costante della rivoluzione – e conflitto – dei media è il grande campo
di sensori dei linguaggi artistici.
2. D’altra parte, mentre Understanding Media, nel 1964, ebbe un forte impatto sulla cultura americana,
e molto più limitatamente su quella europea, l’influenza di McLuhan sugli studi letterari è stato pari quasi
a zero, fino a metà degli anni 80. In Italia, è zero; del resto l’unica discussione con Eco in Apocalittici e
integrati e altri, si riferisce nel 1964 a Understanding Media, e nessuno sembra conoscere Gutenberg
Galaxy, del 1962. All’idea profondamente dinamica della mediamorfosi, Eco contrappose il gioco
intellettualistico e tipicamente logocentrico di interpretare gli sceneggiati televisivi con la Poetica di
Aristotele, la pubblicità delle saponette con l'oratoria gesuitica, le canzoni pop con Kant, e così via, sulla
base della invarianza degli stessi schemi. La raccolta di articoli italiani su McLuhan pubblicata da
Gamaleri nel 2006 (Capire McLuhan), mostra come praticamente quasi solo Renato Barilli, nella
neoavanguardia letteraria italiana, ci capì sul serio qualcosa. La Galassia, infatti, fu tradotta in italiano
nel 1976 e restò quasi ignorata, mentre i saggi letterari fino al 1962 sono stati pubblicati da noi solo nel
2009: Letteratura e metafore della realtà.
Più in generale, la svolta mediologica di McLuhan, che porta a sintesi idee da qualche tempo emergenti
soprattutto in campo antropologico, psicologico, ed economico e soprattutto nella cultura anglosassone,
ma anche assimilando e riutilizzando le intuizioni degli anni Venti e Trenta europei, si ricollegava, come
ha notato Gabriele Frasca, da un lato a una critica delle strutture della modernità (si stava allontanando
nella memoria la paura e la retorica della guerra), e dall’altro a una nuova fase globalizzante dell’industria
della comunicazione, di marca americana, che utilizza le nuove tecnologie del cinema e della televisione.
Mentre in Europa, negli stessi anni 60, ancora effervescenti (linguistica, formalismo, nouvelle histoire,
tendenze strutturaliste in psicanalisi, antropologia, sociologia e filosofia) – la possibilità di una
mediologia venne praticamente scartata. Fu Critique, la rivista di Bataille (l’antico compagno di
Benjamin, Kracauer, Caillois, Klossowski, Leiris, nel Collegio di Sociologia postsurrealista del 1937-
39), a sdoganare McLuhan nel 1966; ma i francesi ragionarono soprattutto sulle sue affinità con Lévi-
Strauss (ne scrisse anche Riesman nel 1966), e con il Barthes di Mythologies. In realtà Baudrillard,
Virilio; e in seguito Débray negli anni Ottanta e Novanta riutilizzarono ampiamente McLuhan,
naturalmente a modo loro, e senza mai far riferimento alle sue teorie sull’arte. In Italia, a parte gli uffici
studi della Rai che importarono i due principali testi di McLuhan, l’incerta e fluttuante emersione della
mediologia dall’imprinting benjaminiano di Abruzzese (tra Forme estetiche e società di massa, 1973, La
grande scimmia, 1979), Archeologie dell’immaginario, 1988, e Metafore della pubblicità, 1988) non
derivava da McLuhan, e tuttavia la sua riscoperta, sempre da parte di Abruzzese e della sua scuola - se
non erro alla fine degli anni Ottanta, provocò forse una spinta decisiva verso la decisione di costruire un
impianto teorico completamente autonomo. E in quello stesso periodo la “scuola” di Toronto, ma più
Walter Ong che McLuhan, più l’idea di una tensione immanente tra oralità e scrittura che la complessa
e torrenziale concezione della media morfosi mcluhaniana, sembrava offrire ad umanisti con un tipico
imprinting francofortese (Benjamin, Adorno e Marcuse) da un lato e bachtiniano-barthesiano-lotmaniano
dall’altro - e dopo che erano stati tradotti i libri di Havelock e Ellis (1981), di Ong (1987), e di Goody
(1988), tutti in diversi modi collegabili a McLuhan -.una nuova chiave di comprensione dei processi
evolutivi della letteratura. Fra antropologia, sociologia, architettura, cinema, arte e letteratura, si
indebolivano le “grammatiche” basate su una pretesa isolabilità del segno, e si cominciava a percepire la
dimensione mediale e collettiva dell’immaginario, se non ancora la deriva del medium stesso come
flusso, come soggettività culturale e sociale. Eravamo in molti ad evadere dalle discipline tradizionali,
apolidi alla ricerca di chiavi interpretative a più dimensioni. Di lì partiva l’insofferenza verso la miopia
dei nuovi specialismi della sociologia della cultura, di nuovo corporativi e subalterni ai poteri della nostra
industria della comunicazione, e la scoperta piena dei media come strutture fondanti della percezione e
della cultura. Ma erano lì anche le basi di una seppur frammentaria mediologia della letteratura, in grado
di saltare oltre le aporie della tradizionale critica sociologica delle arti di matrice lukacsiana.
Anche nelle punte avanzate di quel modo di leggere le opere, infatti, -e penso a Franco Moretti - la base
di partenza consiste nella convinzione che in esse si fissino, si condensino tipizzate le strutture del mondo
sociale reale, riflesse nello schermo più o meno deformante di un soggetto che vi esprime la propria
concezione del mondo. Al critico spetta individuare le strutture, e individuare di converso i modelli di
rappresentazione che l’artista utilizza nel suo lavoro, con le relative curvature dello specchio (si resta
dunque abbastanza fatalmente ancorati alla critica dell’ideologia). L’idea dell’opera come riflesso, o
tentativo di rispecchiamento più o meno riuscito delle relazioni sociali, finalizzato o comunque utile alla
comprensione della società stessa, e soprattutto alla introiezione dei codici sociali (idea messa a punto a
modo suo da Lukács ma che resta parzialmente valida per i funzionalisti, fino a Luhmann), non viene
granché messa in discussione dalle nuove interpretazioni dei testi che si sono affollate negli ultimi anni
in chiave antropologico/simbolica, o direttamente filosofica, e nemmeno da una pur interessante semio-
sociologia degli oggetti e delle pratiche della comunicazione letteraria. Per il mediologo, viceversa,
un’opera, come ogni altro medium, non ha senso se non nel flusso, nell’ambiente sensoriale, tecnologico,
mediale e dunque sociale, ibridante e denso di immaginari, entro il quale scorrono proteiformi identità e
memoria culturale. Scarsamente supportate dall’elegante prospettivismo storico del sociologo della
letteratura lukacsiano, la riflessione e la conoscenza sui media implicano strumenti ibridi e complessi,
trasversali alle discipline estetiche, alle scienze della cultura e della società, alla psicologia cognitiva.
Questa è l’eredità di McLuhan: si parte dalla convinzione che creare un nuovo medium, un nuovo oggetto
che comunica, sperimentale in senso artistico, o prodotto di massa, significhi comunque dare “forma”,
trasformare l’esperienza collettiva, agire la metamorfosi. Le opere non sono, romanticamente, le forme
essenziali di un’anima, di uno spirito del tempo a cui l’artista dà vita immortale; né, “realisticamente”, i
testimoni più o meno fedeli di un’epoca e di una società. Ciò che avviene nell’opera è un processo:
l’opera è metaforica, ci trasferisce da uno stato a un altro nel vortice della mediamorfosi.

3. Ritengo tuttora Gutenberg Galaxy, dove per la prima volta emergono a sprazzi queste teorie, il testo
fondativo di una mediologia della letteratura (in grado di saldarle alle intuizioni di Benjamin e di altre
esperienze degli anni tra le due guerre). La Galassia inizia - pour cause – dai materiali della letteratura:
la narrativa orale antica, gli scrittori dell’età elisabettiana; di qui parte una prima classificazione delle
organizzazioni sociali “orali”, “scritte”, “elettriche”, e su quella “cosa soltanto che non sappiamo”
riguardo alle cause della rivoluzione tecnologica; poi la struttura del cervello, la natura metaforica del
linguaggio, l’instabile equilibrio fra corpo, tecnologie e culture, e il Novecento “elettrico” come scenario
di crisi, tensione, globalizzazione e crollo definitivo di un intero sistema. Le basi della mediologia sono
già formata: i media sono estensione dei sensi; la cultura è il processo di interiorizzazione dei media.
All’estensione oggettivante della vista è stata sottoposta la mente nell’epoca della scrittura e della
stampa: la mente gutenberghiana. Ed essa è sottoposta in modo inatteso (e inconsapevole) a un ritorno
all’orecchio, al suono alla voce, in un nuovo ambiente elettrico, o elettronico. Non va sottovalutata
l’ambizione di McLuhan, nel fare i conti con l’intera civiltà della ragione e con la sua ultima incarnazione
tayloristica: del forzoso compromesso tra l’energia del big bang elettrico e l’ordine della scrittura, qui
viene dichiarata, e senza ritorno, l’implosione È in questi termini che ci arriva la prima sistemazione
organica e critica di una teoria del moderno (dopo la Dialettica dell’illuminismo, scritta in California
durante la guerra e uscita nel 1947, ma a quanto sembra ignota a McLuhan). In chiave mediologica, la
Galaxy racconta ellitticamente l’ascesa e la catastrofe della civiltà gutenberghiana; in altri termini:
l’origine e il rovesciamento della modernità occidentale. Materiali, illuminazioni, e macerie.
dall’antichità a James Joyce, sono radunati e assemblati come piattaforma di lancio per il decollo di
un’altra storia - quella dei massmedia dell’era elettrica, che funziona secondo diversi principi. Una tesi
scontata, si dirà, oggi che i lamenti sulla fine del soggetto e del fondamento razionale della cultura sono,
in definitiva, dietro le nostre spalle. Eppure McLuhan continua a essere una sorta di rimosso. Nel
giornalismo culturale è tornato solo quest’anno, allusivo a una critica dei mass-media che nessuno o
quasi ha voglia di praticare seriamente; ma non se ne sa nulla nell’ambiente delle humanities, che in
questo rivelano la loro subalternità – che data dagli anni Ottanta - la cultura dei massmedia, e la loro
difficoltà a ibridarsi con le culture digitali.

4. Tornando alla Galassia, i precedenti più espliciti della teoria di McLuhan sono come è noto in Empire
and Communications di Innis (1950): “l’alfabeto è un elemento aggressivo e attivo che assorbe e
trasforma le culture, come per primo mostrò H. Innis”; tuttavia sono ben presenti, oltre alle tesi di Parry
sull’epica antica, che risalgono agli anni ’20, sia Gombrich, Panofsky e l’eredità della scuola di Warburg;
sia L’apparition du livre di L. Febvre e H. J. Martin, tra i fondatori delle “Annales” francesi (1958). E
anche se McLuhan non aveva potuto utilizzare Benjamin, le sue esplorazioni filosofiche, letterarie,
sociologiche, economiche, scientifiche e soprattutto antropologiche erano veramente ampie (tra gli altri
europei Cassirer, Huizinga, Popper, Auerbach, Curtius, Frye, Gilson, Maritain, Sartre, Lowenthal,
Polanyi, Einstein, Eliade, Frazer, R. Williams, e decine di americani, per lo più psicologi, antropologi
come E. T. Hall e scienziati). Le sue “finestre” cercano conferme in ogni direzione. Per esempio: la
prospettiva in pittura si afferma solo quando nel Rinascimento si stabilizza una mente fondata sul punto
di vista fisso; i Greci conoscevano alcuni elementi della prospettiva ma avevano elaborato un punto di
vista astratto molto diverso da quello moderno, simile invece a quello medievale, sufficiente comunque
per una grande messe di invenzioni scientifiche e artistiche basate sull’interiorizzazione della logica
alfabetica. Solo nella fase cinque-seicentesca successiva all’invenzione della stampa la tecnologia
alfabetica costringe definitivamente il sensorio in uno spazio “chiuso” e desacralizza la cultura nel letto
di Procuste di una “macchina” della parola scritta. Una “macchina” che era già stata embrionalmente
sperimentata dalla civiltà romana, dalla scolastica medievale e dalle università a partire dal XII secolo,
anche se in quel periodo la lettura era ancora prevalentemente ad alta voce (come nella “cabina di
audizione” del monaco), e il rapporto fra scrittura e lettura restava fondamentalmente performativo e
dialogico.

La “macchina” gutenberghiana. In sostanza, provando a reimpostare l’intero dispositivo della Galassia,


si tratta della combinazione - in ogni genere di medium che artificializza e organizza i processi culturali
- dei vettori che seguono, tutti basati sull’asse tra parola spazializzata e fissa, occhio, cervello:

• azione/reazione meccanica
• tempo lento, differito
• possibile non coinvolgimento del sensorio salvo su un solo senso
• isolamento del momento, senso del tempo cinematico e sequenziale
• punto di vista fisso
• mono-fonia
• de-tribalizzazione
• desacralizzazione
• pensiero logico
• trionfo della conoscenza applicata
• specializzazione mediale
• mente machiavellica e mercantile
• omogeneizzazione dei linguaggi nella comunicazione di massa
• standardizzazione
• centralizzazione delle nazioni moderne
• individualismo e ostilità al governo in quanto ente collettivo

L’insistenza sul tema della desacralizzazione, che deriva dai libri di Mircea Eliade (e ci rimanda a stretto
giro al Régis Debray di Vie et mort de l’image, 1995), è un passaggio-chiave: il senso del libro è proprio
quello di “mostrare per quali processi storici la desacralizzazione è avvenuta”; secondo McLuhan, Eliade
individua erroneamente nella sfera del “sacro” quei tratti delle culture pregutenberghiane che si
riferiscono piuttosto all’ambiente orale e al suo impianto culturale fondamentalmente non-razionale. Ora
nella nostra epoca “elettrica” gli stessi tratti riaffiorano per il capovolgimento del sensorio, ciò che
permetterebbe alla mente di tornare ad accogliere il pensiero mitico (ma non è questa la linea che va da
Durand a Maffesoli?). Diventerebbe così possibile abbandonare il “confinamento” fra i diversi aspetti
dell’esperienza, e passare da una dimensione culturale e sensoriale all’altra (un’utopia quasi-marcusiana
o un processo reale e attuale?), usando “multipli modelli di ricerca sperimentale”. L’ibrido, il multiplo,
il simultaneo, il “galattico” sono secondo McLuhan i soli approcci scientifici possibili, nella metamorfosi
più o meno rapida e violenta dei media. E in fin dei conti il libro tende a non ipostatizzare eccessivamente
la forza dominante della Galassia: solo più o meno un terzo dell’arco cronologico della scrittura è stato
“tipografico”, imponendo attraverso la stampa una meccanizzazione della mente; ora si può rimettere a
fuoco quel movimento, e osservarne gli effetti ex-post, mentre si sta vivendo in pieno una nuova fase.
Essa non esclude affatto, e anzi implica forme ibride, di compromesso fra il mondo elettrico e la scrittura:
così per esempio il “ritorno” del primitivismo con le avanguardie artistiche del primo Novecento, e la
“sacralizzazione” della tecnologia da parte di Marinetti e di altri, sarebbero “banalizzazioni ancora
meccaniche” del gigantesco risprofondamento della cultura nel primato dell’orecchio.

E d’altra parte, proprio il “denudamento della vita conscia e la sua riduzione ad un unico livello” nel
tritacarne gutenberghiano ha prodotto – anche qui sulla lunga durata, come sfondo implicito ed
oppositivo della civiltà della stampa – il “nuovo mondo dell’inconscio”: l’inconscio collettivo, con i suoi
archetipi che si organizzano come sorgente della comunicazione di massa, fin dal XVII secolo (qui
McLuhan lascia solo due paginette, ma quanto affascinanti!). La Galaxy rimanda dunque esplicitamente
a un'altra costellazione, a un’altra “nascita” e “ascesa”, che meriterà un altro libro: “La Galassia
Gutenberg si dissolse teoricamente nel 1905 con la scoperta dello spazio curvo, ma in pratica essa era
già stata invasa dal telegrafo due generazioni prima”. Da allora si entra nel vortice elettrico dei media,
esposti ai contraccolpi di una nuova grande rivoluzione, che riconfigura “la condizione dell’uomo di
massa in una società individualistica”. “La civiltà fornisce al barbaro, cioè all’uomo tribale, un occhio al
posto di un orecchio e non sa adesso come affrontare il mondo elettronico”… “La nuova interdipendenza
elettronica ricrea il mondo ad immagine di un villaggio planetario”…McLuhan annuncia esplicitamente
Understanding Media. Ed è già chiaro, molte pagine prima, che il viaggio sarà più o meno lo stesso,
seguendo le tracce del Maelstrom di Edgar Allan Poe (una metafora che sembra come una calamita per
mediologi!): così come il vecchio marinaio che attentamente aveva osservato i movimenti del grande
gorgo, anche noi, studiando “l’azione del nuovo vortice sul corpo delle vecchie culture”, ci salveremo

5. Della possibilità di una mediologia della letteratura si è discusso, e sono emerse idee non omogenee,
in un convegno nel 2004, Letteratura fluida. La proposta era in sostanza quella di sistematizzare quel
modo di immergerci nelle forme letterarie che tante volte abbiamo esperito, sulla scia di
Benjamin/Abruzzese e sulla scia di McLuhan. La mediologia interpreta le forme letterarie come metafore
di soggettività mutanti. Retrospettivamente, considerando l’intero arco storico della letteratura,
l’operazione funziona. Riusciamo a leggere con uno sguardo diverso, che rivela nei testi processi mai
indagati, anche i classici come Dante e Boccaccio, il barocco, Zola, Conrad, Kafka. I problemi vengono
soprattutto sulla fase post-metropolitana. Una evidente linea creativa del Novecento, anticipata da Kafka,
ha giocato sulle metafore (mediali) della mutazione, dello spaesamento, dell’incubo post-catastrofe, del
trash che risucchia il mondo, dell’esclusione e inclusione che diventano nonsense. Tuttavia il ruolo della
letteratura come arte di avanguardia si è attenuato. Le derive attuali delle piattaforme estetiche, il fatto
stesso che le operazioni artistiche sono diventate esplicitamente e coscientemente operazioni mediali, la
riconfigurazione dei processi culturali e degli attori nella società in rete portano a un indebolimento dello
scarto conoscitivo delle grandi metafore letterarie. La letteratura, quando non è completamente assorbita
negli schemi della serialità multimediale, sembrerebbe dunque dover interessare essenzialmente come
campo archeologico (del moderno, delle estetiche schermiche); o come epica liquida, ostensione
implosiva della metropoli e del consumo; da attraversare, quindi, per una passeggiata nelle dissolvenze
del soggetto. Nella nuova, generale metamorfosi delle piattaforme estetiche dei nuovi media e di Internet
- la rivoluzione connettiva della rete - ci si chiede se e come le forme letterarie partecipano a questo
movimento, e su quali metafore. La questione non investe solo l’evoluzione delle forme (naturalmente
più o meno ibridate con i processi estetici e culturali della rete), ma anche e soprattutto la soggettività
che viene implicata e trova espressione nelle forme (e nel consumo letterario). La letteratura, la vecchia
arte della narrazione verbale e della poesia, riesce ancora a rappresentarla, piazzando le sue zampate? I
racconti sono tecnologie del sé altrettanto essenziali nell’esperienza culturale di oggi di quanto non
fossero ieri. L’ibridazione delle forme estetiche, d’altra parte, va avanti a un ritmo intenso, e la letteratura,
già intensamente “tradita” nel cinema e nella serialità televisiva viene ri/mediata nei videogames, nei
meticciamenti tra blog e formati tradizionali, e i tentativi di interattività; pure se l’ibrido più colossale e
vincente è dato dal trionfo di una serialità letteraria dei bestseller già progettata e predisposta per la
transcodifica cinematografica e televisiva. Ma è allora pura sopravvivenza quella di un mainstream
letterario di controcampo, a metafore “profonde” sul flusso? “La letteratura come mondo vissuto non
può più ospitarci: scrittura che, interrogandosi sulla nascita di un nuovo mondo, quello metropolitano, si
interrogava sulla propria morte in quanto voce interiore, parola, forma di veggenza a ritroso”, scriveva
Abruzzese. La “figura” e la “struttura” metaforica del testo letterario rimane ancorata ai connotati storici,
letterari, massmediatici, giornalistici e filmici dei suoi archetipi, o si scioglie, come teorizzavano
Abruzzese e Paolo Fabbri in quel convegno, nelle forme percettive e mentali omologhe alla struttura
fluida e reticolare dell’ambiente in cui abita? Oggi sembra tramontata l’idea del blog come letteratura
tout-court, ma resta vero che la metafora mediale e sociale sembra prodursi più in struttura che in figura.
Il nuovo sembra insomma non avere più bisogno della cornice del vecchio. Nell’iperconnettività delle
reti, i quattro caratteri della mente (selettività, interattività, plurisoggettività, creatività) si intensificano.
Nel tempo di una sola generazione ecco un cambiamento parossistico verso una mente umana super-
inclusiva, mentre nel gioco autobiografico sull’esperienza sensoriale, sul sentimento individuale,
sull’identità, la relazione tra l’io e il noi diventa reversibile. L’adattamento è naturalmente problematico.
E la globalizzazione genera uno spazio dei flussi sempre più caotico, iperproduttivo e anche conflittuale,
dove la costruzione del sé implica una continua composizione della schizofrenia tra flussi digitali e
luoghi, e tra industria culturale globale e reti sociali diffuse e costruite dal basso. La mutazione pervade
e riplasma incessantemente ogni processo, e nessuna apparizione sorprende più di tanto. Nella corrente
della società in rete (lo spazio dei flussi: il tempo senza tempo), l’angoscia non è il tempo perduto,
all’inautentico ci siamo allenati. È piuttosto il rischio (simmetrico all’immensità delle connessioni e degli
sviluppi virtuali) della fragilità delle proprie connessioni interne, perennemente reversibili verso
l’esterno. Quella che viviamo è l’insicurezza di Proteo. E secondo questa posizione, fine della tradizione,
del canone, ma anche del mainstream. Come cambia allora il senso del romanzo o della poesia?
Generando altre forme letterarie ibride? Proiettandosi verso una post-letteratura on line secondo il
vecchio schema avanguardistico dell’innovazione, dell’anticipo della deriva soggettiva e mediale? Altri
invece, in senso opposto, predicano la funzione della letteratura come luogo di resistenza al flusso, o
almeno di condensazione di un equilibrio che ancora coniuga pensiero e deriva audio tattile, parola
riflessiva e installazione spettacolare, grazie al funzionamento del testo scritto iuxta propria principia.
In sostanza, sette anni dopo, oscilliamo ancora su questa doppia polarità. Si vanno sul serio attenuando
le funzioni tradizionali del testo letterario come luogo virtuale di auto-definizione, di costruzione di un
nuovo equilibrio pubblico/privato, di spazi di identità e soggettività non subalterni? La letteratura fluida
si riconfigura come medium dei prosumer della rete? Si tratta di marketing editoriale per “allargare” la
narrazione alle culture del consumo? O il laboratorio letterario è ancora utile per ripensare ogni altra
forma di comunicazione? O riaffiora il contro-campo antinarcotico, il surriscaldamento metaforico, il
risveglio ironico, da Roth a Palahniuk, a Houellebecq, a Foster Wallace? O la letteratura che veramente
ci interessa incarna molte varianti contemporaneamente (non era questo, d’altronde, il senso
“catastrofico” del Don Quijote, o del Voyage au bout de la nuit?).

6. Vorrei ora recuperare alcuni principi teorici di McLuhan che esplicitamente o implicitamente
costituiscono la base per una mediologia delle arti e della letteratura (sono prevalentemente letterari gli
esempi sui quali egli si è basato).

Il primo riguarda in generale il senso dell’operazione artistica. Per il sociologo il problema non si pone
più di tanto: le arti ci sono state, ci sono; sono istituzioni sociali, e se ne può descrivere l’evoluzione in
quanto tali. Chiederemo agli attori (artisti, pubblico, mediatori) a che servono e se funzionano. Per
McLuhan le arti sono media particolarmente votati da un lato a sospingere il processo di mediamorfosi,
dall’altro a formalizzare il conflitto intrapsichico generato nella mediamorfosi dalla tensione tra le
diverse estensioni del nostro sensorio, e a renderlo in questo modo sostenibile. Così il testo letterario,
come nuova forma che comunica, ossia che collabora con altre forme, immaginari e soggettività a creare
forme, immaginari e soggettività, cambia a sua volta l’ambiente e la soggettività stessa (la psiche,
l’“anima”; la cultura, la “memoria” vivente). In quanto specifica tecnologia della comunicazione, la
letteratura comporta una intensa attività di interpretazione, di selezione e di individuazione
dell’ambiente, capace di darne una nuova versione possibile. Come ogni medium, anche ogni opera
d’arte, ogni poesia, ogni romanzo, traduce una struttura dell’esperienza umana in un’altra (e questo
trasporto è il suo senso implicito, metaforico). Ma più e diversamente dagli altri media, le arti si
costituiscono come “controcampo” conoscitivo/creativo, che lavora sulle strutture e le figure della cultura
e ne genera altre, dotate di una particolare ostensività a valore simbolico, per le comunità e gli individui,
che le utilizzano come tecnologie del sé: per conoscere e curare se stessi.

Il secondo principio riguarda la struttura delle opere. Qui i linguaggi artistici si differenziano dagli altri,
e ogni arte gioca una sua specifica partita. La letteratura per esempio ha tradizionalmente sfruttato la
potenzialità di una maggiore complessità nei sistemi di ibridazione, poiché la versatilità della parola nel
ri/mediare tutti i sensi ibridandoli con ogni tipo di immaginazione (visiva, auditiva, tattile, ecc.) è stata a
lungo superiore a quella degli altri mezzi, a causa dei limiti fisici entro i quali poteva darsi la
rappresentazione visiva o plastica, o dei limiti di durata del teatro (secolari equilibri sono naturalmente
cambiati con la simultaneità e la potenza ibridante dei mezzi elettrici, ma già a partire dalla “totalità”
dello spettacolo wagneriano,). Resta vero in generale per le opere d’arte che il movimento metaforico di
trasporto si struttura su più livelli comunicanti. Riflettendo sul testo letterario: le sue tecnologie di
gestione del sensorio (e del ciclo emozione-sentimento-pensiero basato sullo stimolo e sulla memoria
sensoriali) ci trasportano via via da uno stato virtuale a un altro, selezionando ogni volta dei tratti specifici
di un ambiente e del modo di percepirlo, e abbandonandoli per passare in modo associativo o contrastivo
a un altro ambiente e a un altro orientamento della percezione; ma contemporaneamente il medium-testo
gestisce un continuo processo di ibridazione tra “architetture” o “macchine” o “flussi” mediali,
segnalando direzioni e conflitti della mediamorfosi e offrendosi come campo di esperienza fondamentale
di quelle derive e di quelle lacerazioni; e ancora, il testo come “luogo” di ri/mediazione ed elaborazione
di immaginari gioca su metafore e narrazioni archetipiche o stereotipiche eminentemente figurali oltre
che strutturali. A ognuno dei livelli, come tecnologia, come medium e come laboratorio degli
immaginari, la forma estetica dell’opera, così configurata come processo eminentemente metaforico,
allude (spesso in modo inconscio o enigmatico) alla metamorfosi della soggettività (l’io/noi: il soggetto
fuso con la comunità sociale, la percezione, il corpo, lo spazio/tempo, la vita, l’immaginario), vale a dire
al senso profondo della comunicazione. Ecco un modo stimolante di leggere un romanzo o una poesia.

Il terzo principio riguarda il ruolo delle arti nel ciclo mediamorfosi-innovazione tecnologica, in cui esse
sono strettamente implicate. Secondo McLuhan, “Quando la tecnologia estende uno dei nostri sensi, una
nuova traduzione della cultura si verifica con la stessa rapidità con cui la nuova tecnologia viene
interiorizzata”…(è una delle “glosse” della Galassia).
…Coloro che per i primi sperimentano l’affermarsi di una nuova tecnologia, sia essa l’alfabeto o la radio, rispondono
calorosamente poiché i nuovi rapporti tra i sensi che all’improvviso si instaurano per la dilatazione tecnologica dell’occhio o
dell’orecchio pongono davanti a loro un mondo nuovo e sorprendente che fa intravedere […] un nuovo modello di intreccio
fra tutti i sensi insieme. Ma lo shock iniziale gradatamente svanisce mentre l’intera comunità assorbe le nuove abitudini
percettive in tutti i suoi settori di lavoro e di scambio. La vera rivoluzione ha luogo in questa seconda e più prolungata fase di
adattamento di tutta la vita individuale e sociale al nuovo modello di percezione creato dalla nuova tecnologia. […] “È
indubbio – scrisse il simbolista Edgar Allan Poe – che il semplice atto di porre mano alla penna tende in notevole misura a
dare logicità al pensiero”. La scrittura lineare e alfabetica rese possibile l’improvvisa invenzione di “grammatiche” di pensiero
e di scienza da parte dei greci. Queste grammatiche, cioè queste esplicitazioni di processi individuali e sociali, consistevano
nella visualizzazione di funzioni e di rapporti non visivi.

Dalla Galassia alla Legge dei media in cui viene sistematizzato il modello dell’evoluzione, McLuhan
sottolinea costantemente che il rapporto tecnologia/cultura non è deterministico, e anzi va inteso come
un ciclo in cui i termini si invertono. Da un lato “la meccanizzazione dell’arte degli amanuensi […] fu la
prima traduzione del movimento in una serie di fotogrammi statici o di inquadrature”, essa “confermò
ed estese la nuova accentuazione visiva della conoscenza applicata, fornendo così la prima merce
ripetibile uniformemente, la prima catena di montaggio e la prima produzione di massa”. Confermò ed
estese: perché secondo McLuhan già dall’antichità era iniziato il processo di distacco dell’immagine dal
corpo. In questo senso le arti hanno a lungo collaborato a sospingere i mutamenti nella percezione e nelle
pratiche rituali, narrative, e sociali; di lì deriva l’innovazione tecnologica (la tipografia, ma anche per
esempio l’invenzione di macchine per il calcolo veloce, o la notazione musicale standard); e di lì ancora
ancora, con l’estensione e diffusione dei modelli della riproducibilità, sperimentati culturalmente e
impliciti nella nuova tecnologia (ed è uno dei tanti rinvii possibili a Benjamin) deriva la grande
trasformazione della modernità, la nascita della macchina-Galassia sulle ceneri
dell’immagine/organismo plastico, che viene sostituita dal punto di vista razionalizzante, e dalla “magia”
meccanica e riproduttiva della “camera obscura” cinque-seicentesca. In definitiva sono la mente e il
corpo a generare, in buona parte mediante la sperimentazione delle arti, le loro protesi tecnologiche, in
un parallelismo costante tra esterno e interno, tra “artificiale” e “naturale” di cui avevano iniziato a
rendersi conto Florenskij (1919), e poi Vygotsky (1934), riscoperto oggi dai progettisti di una semantica
dell’artificiale come organico, olistico, naturalizzante. Per McLuhan, straordinariamente lucido
nell’individuare le linee più avanzate della neuropsichiatria e della psicologia del suo tempo, la
comunicazione umana “poggia essenzialmente su una infrastruttura psicologica e culturale di
intenzionalità condivisa, originatasi durante l’evoluzione a sostegno delle attività di collaborazione”, e
basata su “abilità socio cognitive per creare insieme con gli altri attenzione congiunta (e altre forme di
terreni concettuali comuni)”, insieme a “motivazioni (e addirittura regole) pro sociali volte all’aiuto e
alla condivisione”. Il soggetto e l’oggetto si danno senso in una relazione intenzionale pragmatica
(richiedere, informare, condividere); il senso nasce sulla base di apprendimento (simulazione, sviluppo),
in modo connettivo (la mente estesa di Bateson), per essere percepito dagli altri. La comunicazione quindi
solo euristicamente può essere ridotta all’idea “linguistica” di trasferimento di informazione, figlia della
Galassia: una riduzione meccanica e transitoria della comunicazione, che è invece e sempre osservazione,
simulazione, immaginazione, e apprendimento (con il corpo-mente) in contatto con la comunità.

Un quarto principio riguarda il ruolo delle arti nel creare forme estetiche ibride. Il ciclo evolutivo dei
media comporta trasformazioni attenuate dall’ibridazione, da strutture di interfaccia come il
Rinascimento, una “zona d’incontro tra il pluralismo medievale e l’omogeneità moderna del meccanismo
– una ricetta di attacco fulmineo e di metamorfosi” (infatti “fino a più di due secoli dopo l’invenzione
della stampa nessuno fu in grado di scoprire come mantenere un unico tono o atteggiamento per tutta
un’opera in prosa”). Le grandi metamorfosi della cultura, dei media e del sensorio richiedono strategie
attive di adattamento, nel colmo di un ottundimento collettivo che è provocato proprio dall’estensione e
interiorizzazione delle nuove tecnologie. La stessa Galassia, storicamente, non arriva a dominare
esaustivamente il campo; ma arriva, piuttosto, a surriscaldare e ipostatizzare le proprie strutture: più o
meno due secoli dopo Gutenberg, tra Seicento e Settecento, la nuova mente tipografica stringe il suo
intreccio in una organizzazione sociale “nazionale” che richiede sempre maggiore interdipendenza,
regolazione, calcolo, istituzionalizzazione. E che riduce via via gli uomini a espressione della macchina,
in possesso di un pensiero statico, ma “non in grado di intenderne le configurazioni” (Innis). Mentre nel
seno di quella cultura nuove sensibilità artistiche, considerate outsider, alienate, preparano il ritorno del
magico, dell’incantamento: il nuovo uomo integrale, cioè intuitivo e irrazionale dell’era elettrica, il
“ritorno all’orecchio”, all’audio-tattile. E a sua volta questo ritorno, nella seconda metà del Novecento
viene rallentato da altre strutture di interfaccia, come dice un’altra “glossa”, “L’incontro del secolo XX
tra due aspetti culturali, quello alfabetico e quello elettronico, conferisce alla parola stampata un ruolo
primario nel rallentare il ritorno all’Africa dentro di noi”. Conviene quindi considerare il campo delle
arti stesse come una zona di ibridazione e di interfaccia. Il loro lavoro è variabile: consiste sia nel
corroborare attraverso i loro movimenti metaforici i processi di “rapida traduzione” e rivolgimento o
rovesciamento di una cultura investita dal cambiamento tecnologico, sia nell’estendere i nuovi modelli
della soggettività al corpo della cultura (e sono soprattutto le arti di massa, le arti popolari e seriali ma
ad alto tasso di creatività artigiana ad assolvere questo compito); sia nel coltivare sensibilità aliene e nel
rappresentare l’endemica schizofrenia indotta dal conflitto mediale, sia nel formalizzare
sperimentalmente nuove configurazioni del sensorio e dell’ambiente.

Il quinto principio riguarda il funzionamento complesso della metafora artistica. Fermo restando che una
mediologia della letteratura può appoggiarsi a un discreto repertorio di sondaggi sull’eredità delle
costanti metaforiche soprattutto figurali della letteratura moderna, migrate in epoca ormai archeologica
dai libri e dai giornali verso il cinema e di lì circolate nel mondo dei media: cinema, tv, fumetto, e ancora
romanzo, la teoria di McLuhan sembra orientarsi su questo punto soprattutto intorno alla dinamica
figura/sfondo, poi consolidata nel definire ogni processo mediale e in generale culturale come addensato
intorno a quattro poli simultanei: surriscaldamento (intensificazione), rovesciamento, rimozione,
recupero. Per esemplificare: qualcosa che era sullo sfondo, e ne avevamo una percezione sfocata,
strutturale, emerge in primo piano come figura, o come struttura ad alta definizione; lo scenario così si
rovescia, e il sensorio si abitua alla nuova configurazione; intanto non sono più percepiti ed elaborati
ampi tratti delle vecchie figure e strutture in primo piano, che diventano obsolete, e altre figure e strutture
sono invece recuperate dal passato (quando non tornano inaspettate e perturbanti…). Non basterà quindi
a una mediologia classificare i grandi campi metaforici della creazione artistica lungo la diacronia e
trovare di queste comparse una spiegazione (quando e perché dilaga il racconto di fantasmi? quando e
perché affiora ossessivamente nel racconto la presenza e la paura del doppio? Quando e perché torna
l’androgino?), ma occorre ricostruire movimenti metaforici ancora più complessi. Riprenderò su questo
punto un esempio generale di McLuhan e una mia riflessione su Zola. Negli appunti in appendice alla
Legge dei media si sintetizza in questo modo il processo di mediamorfosi che chiamiamo “radio”: si
intensifica la diffusione e la multilocalizzazione del comunicare, e l’ambiente “oggettivo” e prospettico
si capovolge in un “cinema sonoro”, dove gli spettatori diventano attori (emblema ne è L’invasione dei
marziani di Orson Welles); dallo sfondo riemerge in primo piano una istintiva e anche minacciosa
sensibilità tribale (per esempio, in pieno proibizionismo, una sensibilità al rischio della liquefazione
etilica), mentre diventa obsoleto e viene rimosso il tempo/spazio razionale e lineare della tradizione
occidentale. Di Zola dirò che vi si intensifica la sensibilità immersiva, tipicamente metropolitana, fino a
determinare un rovesciamento della tecnologia del romanzo, dove ora – ed è esattamente un anticipo del
cinema sonoro – i lettori diventano spettatori-attori, in un ambiente multi prospettico e saturo di
sensazioni visive e audio-tattili fuse in impianti sinestetici; tornano in primo piano le pulsioni
“oralizzanti” e tattili del corpo e ogni tipo di rimosso, mentre si avviano a diventare obsolete le abitudini
prospettiche e loquacemente giudiziose accumulate dalla lunga tradizione del racconto in prosa, fin dalla
matrice cinque-seicentesca.

Il sesto principio riguarda il carattere fondamentalmente schizofrenico della forma estetica letteraria. Lo
si spiega con la tesi fondamentale della Galassia che compare nel terzo e nel quarto tassello del mosaico:
L’INTERIORIZZAZIONE DELLA TECNOLOGIA DELL’ALFABETO FONETICO TRADUCE
L’UOMO DAL MONDO MAGICO DELL’ORECCHIO AL MONDO NEUTRO DELLA VISTA; e
dunque LA SCHIZOFRENIA È FORSE UNA CONSEGUENZA NECESSARIA
DELL’ALFABETIZZAZIONE. Diversamente dalle culture orali, l’individuo del mondo letterato e a
lungo plasmato dalla stampa, l’io “gutenberghiano”, si sviluppa nella mediazione con un gran numero di
oggetti e di eventi fissi e preformati, che lo costringono a pensare in termini di rapporti spazio-temporali
e di causalità meccanica, “circondato da una tecnologia visiva, astratta ed esplicita, di tempo e spazio
uniformi in cui ogni causa è efficiente e sequenziale, le cose si muovono e accadono su piani singoli in
ordinata successione”. Se nel mondo dell’orecchio, “caldo e iperestetico”, le parole hanno un potere
magico, qui in Occidente, nel mondo dell’occhio, “relativamente freddo e neutro”, dove – soprattutto da
quando la stampa ha permesso la diffusione e la centralità culturale delle tecnologie visive dell’alfabeto
fonetico – le parole entrano a far parte di un processo seriale, meccanico e astratto. Tra i due mondi si
apre una frattura, nel seno stesso della mente: “da ciò segue, naturalmente, che l’uomo letterato, così
come lo incontriamo nel mondo greco, è un uomo diviso, uno schizofrenico, e tali furono tutti gli uomini
letterati da quando fu inventato l’alfabeto fonetico”, fonte primaria del processo di detribalizzazione, e
della via obbligata verso la libertà e l’individualizzazione. Mentre, in senso inverso, e ricomponendo la
scissione, si torna dall’occhio all’orecchio: “oggi qualsiasi bambino occidentale cresce di nuovo in un
simile mondo magico e ripetitivo allorché ascolta la pubblicità alla radio e alla televisione”. Ma
aggiungeremo che la scissione tra controllo logico e passione immersiva, tra pensiero superiore e corpo,
e il conflitto tra media nel seno stesso della mente resta evidentemente aperto, sebbene diversamente
gestito negli ambienti massmediali che allenano alla schizofrenia interpretandola come una ovvia
condizione post-umana. Su questo McLuhan coltivava alcune illusioni, anche se il suo più celebre ritratto
di schizofrenico, quello del Re Lear shakespeariano, figura di un potere che impazzisce, rinsavisce, di
nuovo crolla, diventa il simbolo dissociato, e dunque praticamente universale, in grado di parlare per
sempre a padri e figli, a carnefici e vittime…. McLuhan ne individua la radice metaforica, nella tragedia
mediale – situata in un momento specifico dell’evoluzione della cultura occidentale - “dell’isolamento
di un senso dall’altro per mezzo di intensità distinte, con la conseguenza dell’irrazionalità e dello scontro
tra intelligenze, persone e funzioni”. Il Re (come due delle sue figlie) si presenta come un campione del
machiavellismo, della distinzione specialistica di piani diversi, della capacità meccanica di oggettivare
gli scenari e gli attori. In questo senso i protagonisti del dramma sono figure-chiave, che sintetizzano e
rappresentano processi (dinamiche conflittuali, e soprattutto mediali; non i tipi sociali di Weber e
Lukács): il mondo pre-gutenberghiano dei ruoli viene sostituito da quello gutenberghiano dei lavori; e
uno spazio inclusivo di “configurazioni” (l’empatia delle figlie per il Padre, per il Re) viene ridisegnato
secondo una mappa esclusiva di “sequenze continue, lineari e uniformi di tempo e di spazio così come
di relazioni personali”

Settimo principio: l’analisi mediologica è possibile anche sul piano strettamente testuale. Delle sue
considerazioni su Lear, McLuhan cerca conferme anche in singoli passi. In particolare in un brano del
IV atto del King Lear che mostra con eccezionale efficacia ostensiva e verbale la nuova potenza sensitiva
della vista – il pieno dispiegamento del potere della stampa, dopo oltre un secolo di allenamento. I versi
di Shakespeare esprimono una particolare configurazione percettiva, un “ficcare gli occhi così in fondo”
ormai in grado di costruire la prospettiva visiva e spaziale come forma artificiale e simbolica, isolata
dalla sinestesia sensoriale e tattile, e organizzata come successione organizzata di “pannelli piatti a due
dimensioni uno dopo l’altro”. L’analisi si appoggia sulle teorie dello spazio visivo di Gombrich, e
confluisce nel dimostrare come la psiche, la struttura narrativa e la testualità del dramma rivelino già
pienamente operante l’esperienza dell’uomo tipografico, il principio della “separazione delle operazioni
sensorie e della vita sensoria individuale in segmenti specializzati”, con “la conseguente frenesia di
scoprire un gioco di forze nuovo e onnicomprensivo”, che “assicura la concitata attivazione di tutte le
componenti e di tutte le persone sottoposte al nuovo stress”. Anche Machiavelli era stato “ipnotizzato da
quel particolare segmento di esperienza che egli aveva isolato per elevarlo alla più alta intensità di
consapevolezza”. Alla base del (politico) moderno c’è quella stessa conoscenza visiva, “razionale”, che
si presenta come ipnosi, separatezza, ipostasi del soggetto. Mentre all’altezza cronologica di King Lear
compare Don Quijote, l’eroe assurdo, “galvanizzato dalla nuova forma del libro”: in modo ancora più
chiaro che in Shakespeare, l’eroismo grottesco del Cavaliere dalla Triste Figura incorpora il senso di
futilità che deriva dall’”isolamento” percettivo (il macchinismo folle della “azione volutamente
inquadrata”) E con questo McLuhan apre un ragionamento di sfondo sulla follia e sull’assurdo, sulla
tragedia e il tragicomico, che innerva tutta la mediologia (letteraria e non) della Galassia.

Il frammento iniziale del libro si chiude spostandosi rapidamente tre secoli dopo Shakespeare e
Cervantes. Siamo negli anni Trenta del Novecento, quando la macchina gutenberghiana è ben oltre il
tramonto, e le arti ne danno reinterpretazioni ex-post; come un epigramma assai criptico di Yeats. Esso
mostra Locke, il grande anticipatore fine-Seicento della filosofia dei Lumi, caduto in deliquio, in un
giardino morto. Dove il giardino “sta a significare l’intreccio di tutti i sensi in armonia organica”; e la
morte del giardino va messa in relazione al “trance ipnotico provocato dall’accentuazione della
componente visiva dell’esperienza fino al punto in cui essa riempì tutto il campo dell’attenzione”. Qui
la metafora poetica della crisi terminale dello spazio/tempo meccanico ne rappresenta in chiasmo
temporale – e malinconicamente – gli inizi: l’interiorizzazione della tecnologia alfabetica, portata al
massimo grado di surriscaldamento dalla stampa, l’io diviso e schizofrenico come i suoi sensi, la
riduzione del corpo a involucro… In un solo squarcio di analisi testuale, si condensa il nucleo
mcluhaniano della scienza dei media. Che resta inscindibile dall’immersione mediologica “nel playback
delle arti”.

Bibliografia essenziale:

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(2014)
Nota al testo
Nella prima sezione, gli Appunti su ION sono comparsi in AA.VV., Per Alberto Abruzzese, Luca Sossella
ed., Roma 2002, pp.189-195 con il titolo Appunti su ION e la nuova identità. Sono inediti gli scritti
seguenti: Letteratura e metafore della comunicazione, Lo spazio letterario, Mediologia/Narrazioni, che
risalgono a un periodo fra il 2011 e il 2015, salvo qualche integrazione più recente. Nella seconda
sezione: Oralità e scrittura nella novella del Seicento: il genere (letterario) come medium è un
frammento della Introduzione alla sociologia della letteratura. La tradizione, i testi, le nuove teorie,
Liguori, Napoli 1996, pp.307-320; Leopardi e il desiderio mimetico è stato pubblicato in Fondocampo,
per Claudio Colaiacomo, Luca Sossella ed., Roma 2014, pp. 171-178; Maupassant, Zola e le Serate di
Médan è il saggio introduttivo alla raccolta di novelle di É. Zola et al., Le serate di Médan, Euroma, Roma 1995,
pp.7-19; Per una mediologia conradiana è un capitolo di Cuore di tenebra 2006. Metafore conradiane:
media, corpi e immaginari, Liguori, Napoli 2006, pp.11-22; Ellroy e il noir è uscito con il titolo Metafore
del noir, in La responsabilità del filosofo. Studi in onore di Massimo Baldini, a cura di Dario Antiseri, Rubbettino,
Soveria Mannelli 2012, pp. 501-510; Per una mediologia della letteratura. McLuhan e gli immaginari è
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5. Introduzione alla sociologia della letteratura. La tradizione, i testi, le nuove teorie, Liguori, Napoli
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21. I ventitre anni con Alberto Asor Rosa, in “Bollettino di italianistica”, X, n.2, 2014, pp. 26-31
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23. Seriale, immersivo, industriale. Il barocco e l’invenzione del melodramma (con D. Capaldi), in
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2. Editoria, letteratura e comunicazione, in Letteratura italiana. Storia e Geografia, III. L'età
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10. Leggere o non leggere. I giovani universitari romani e la lettura, Euroma, Roma 1996 (con M.
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13. Il consumo e le forme letterarie, in Letteratura italiana del Novecento. Bilancio di un secolo, a cura
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14. L’editoria, in MediaEvo, a cura di M. Morcellini, Carocci, Roma 2000, pp. 267-287 (II ed. rivista e
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15. Italia 1815-1870, in Il romanzo. III, Storia e geografia, a cura di F. Moretti, Einaudi, Torino 2002,
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16. L’editoria in Italia. Storia e scenari per il XXI secolo, Liguori, Napoli 2005.
17. Beni culturali, comunicazione in rete, editoria, con E. Ilardi, in “Giornale della Libreria”, ottobre
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18. Classici dietro le quinte. Storie di libri e di editori italiani, da Dante a Pasolini, Laterza, Roma-Bari,
2009 (con la collaborazione di Donatella Capaldi, Alessio Ceccherelli, Fabio Di Pietro, Emiliano
Ilardi, Fabio Tarzia), pp.V-XI; pp.3-376.
19. Dal canone al mainstream, la nostra memoria attraverso i libri, in Fabrizio Govi, I classici che hanno
fatto l'Italia. Per un nuovo canone bio-bibliografico degli autori italiani, Giorgio Regnani ed.,
Soliera 2010, pp. XIII-XXXII.

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