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GUIDO MAZZONI - SULLA POESIA MODERNA

Introduzione. Le forme dell’arte e la storia degli uomini


Letteratura e lunga durata

I Disegni Letterari di Leopardi, ossia 14 appunti preparatori scritti tra il 1819 e il 1834, mettono in
luce la topografia dello spazio letterario (insieme delle opere che uno scrittore di un’epoca ritiene
ragionevole scrivere) di uno scrittore italiano di quel ceto sociale e di quell’epoca.
Ciò che colpisce dei Disegni Letterari è la loro assoluta dissonanza ed eterogeneità, in essi
troviamo infatti il progetto per un romanzo dell’eroe intellettuale sul modello di Werther e quello
per un epica in prosa; un romanzo su una monaca e biografie scritte a imitazione di Plutarco e
Tacito.
Questo perché i Disegni Letterari registrano il momento in cui uno spazio letterario nuovo si
affianca ad un altro dalla tradizione millenaria, e Leopardi pensava ancora fosse possibile muoversi
in entrambi.
Mazzoni recupera poi un passo di Walter Benjamin, dove il filosofo accosta il divenire delle forme
epiche all’evoluzione della superficie terrestre nel corso delle ere geologiche, con lo scopo di
evidenziare la lentezza delle trasformazioni letterarie tanto da essere quasi impercettibili. Allo
stesso modo è altrettanto vero che talvolta i movimenti di lunga durata progrediscono con
lentezza per secoli e poi sfociano in terremoti improvvisi.
In questo passo Benjamin sembra inoltre suggerire che le strutture della narrativa, ed in generale i
materiali estetici, riflettono sulle lunghe permanenze: infatti le grandi forme artistiche sono
longeve perché esprimono le trasformazioni profonde della storia umana. L’arte dà un aspetto
sensibile alle permanenze e alle rotture radicali, proprio come la superficie terrestre fa col tempo
geologico. Le forme dell’arte registrano la storia degli uomini con più esattezza dei documenti.

Modelli per una storia della cultura


Mazzoni evidenzia poi come il modo di intendere il divenire della cultura sulla linea evidenziata da
Benjamin abbia origine con Hegel e con le sue lezioni di estetica e di filosofia della storia. I
presupposti di questa “corrente” sono ad esempio:
 la fiducia nell’unità culturale di un epoca
 la convinzione che esistano delle discontinuità significative fra periodi storici diversi
 la convinzione del valore rappresentativo delle opere che sono entrate nei nostri canoni
monumentali o documentari
 l’idea che sia possibile raggruppare opere diverse per origine, scopo, genere o stile
 la fiducia nel valore rappresentativo delle esperienze estetiche.
Oggi questi presupposti sono diventati problematici a causa di un altro modello interpretativo
della storia e della cultura, il poststrutturalismo, che ha reso nota la sfiducia di una possibile
partizione obiettiva delle ere culturali e storiografiche e dei canoni monumentali, e che addirittura
definisce “hegelismo rammollito” il modello precedente (P. Bourdieu).
Siccome Mazzoni in questo testo ha orientato la sua concezione storico-culturale sul modello
dell’hegelismo rammollito, passa a esplicitare i fondamenti del suo discorso, evidenziando cosa
difende e cosa ritiene criticabile nel modello scelto:
 E’ vero che la società e la cultura sono fatte di campi relativamente autonomi, ognuno con
una propria logica e con un suo tempo interno, ma è altrettanto vero che i sistemi culturali
coevi tendono a intersecarsi tra loro, a subire l'influenza dei grandi sistemi materiali che li
sorreggono e a produrre una specie di sintesi. Se visti da lontano, gli uomini di uno stesso
decennio finiscono per assomigliarsi tutti, e le distinzioni che sembravano insormontabili
sfumano nel colore della loro epoca (vedi il “senso comune”). Così come i generi di una
stessa letteratura, ad esempio quella moderna: sebbene ciascuno di essi evolva secondo
una propria logica, il loro insieme evidenzia delle caratteristiche comuni inoppugnabili.
 Il fatto che alcune opere entrino nel canone relativo a quell’epoca, non è frutto né del
“giudizio del tempo”, ossia solamente del loro valore oggettivo riconosciuto nel corso degli
anni, né di una pura capacità coercitiva su di un opera rivale nella lotta per la memoria. Le
opere e le idee dominanti si impongono non solo perché prevalgono nella lotta interna al
sistema letterario, ma soprattutto perché si adattano meglio al cambiamento storico
complessivo, essendo capaci oltre che di convincere, anche di rispondere alle attese del
corpo sociale.
 Il fatto che lo storico della cultura pensi per epoche è dovuto alla natura dell'oggetto
considerato: niente come il materiale estetico registra il senso comune e l’inconscio
comune di un gruppo sociale, sapendo dare consistenza plastica alla loro maniera di
intendere le strutture primarie della vita. La cultura estetica funziona come un insieme di
immagini e di miti che tutti possono comprendere, quasi fossero una sorta di religione
popolare.
Teoria dei generi
Walter Benjamin nel paragonare la morfologia delle forme narrative alla morfologia della
superficie terrestre pensava a raggruppamenti di opere tanto complessi quanto indefinibili: i
generi. Se lo spazio letterario di un'epoca corrisponde alla superficie terrestre, i generi sono le
zolle che danno forma alla crosta del pianeta.
Che cosa sono i generi letterari?
Nell'uso comune, il concetto di genere indica famiglie di testi del tutto disomogenee: l'allegoria, la
ballata, la cantata, il dramma, l'elegia, l'epigramma, l'epistola, l'epopea, l'eride, la fiaba, l'idillio,
l'ode, la parodia, il poema didascalico, il racconto, la romanza, il romanzo, la satira sono
raggruppamenti incommensurabili tra loro.
Goethe proponeva di fissare una gerarchia che seguisse un ordine razionale: occorreva dedurre
alcune grandi categorie ideali distinguendo la massa dei generi poetici (Dichtarten) dalle tre grandi
forme naturali (Naturformen) della poesia: l'epica, la lirica e il dramma.
Si tratta della versione moderna di una dialettica nota già a Platone che in un passo delle Leggi
nomina le categorie cui gli autori e il pubblico ricorrevano per classificare la poesia melica, mentre
nella Repubblica deduce una tripartizione ideale di tutti i testi, riportandoli alle grandi forme del
racconto semplice, del racconto mimetico e del racconto misto.
Genette ha dimostrato che gli unici veri archigeneri sono le nozioni di diegesi (rappresentazione
narrativa, indiretta, di una vicenda, in opposizione alla mimesi, che è la rappresentazione recitata,
diretta, e incarnata di quello stesso contenuto di storia), mimesi e racconto misto già note a
Platone e ad Aristotele, e che queste tre categorie risultano comunque troppo povere per fondare
un sistema articolato. A ciò si aggiunge il fatto che le categorie di narrativa, dramma e lirica su cui
si reggono quasi tutti i sistemi moderni non hanno alcun fondamento logico assoluto, ma solo
un'origine storica relativa.
Pare comunque ragionevole mantenere il senso di una progressione del particolare all'universale
(Goethe), dalle forme più piccole e contingenti alle forme più grandi e astratte. La poesia moderna
sarebbe uno di questi grandi generi allargati.
Va detto, inoltre, che mentre la poetica antica riconosceva l'esistenza di alcune grandi forme
sintetiche (l'epica seria, l'epica comica, la tragedia e la commedia), l'estetica letteraria moderna
fatica a difendere il valore di tali raggruppamenti dalle critiche al positivismo. Infatti la catena
deduttiva che permette di passare dalle piccole forme alle grandi rimanda a un paragone fra le
famiglie letterarie e le specie animali che non coglie la logica complessiva delle nostre categorie.
Per capire il senso dei generi occorre interrogarsi sulla loro natura.

Topografia dei generi


I generi non sono raggruppamenti organici paragonabili alle specie animali. Secondo H. R. Jauss
essi possono essere distinti secondo tre posizioni:
 essenze ante rem: strutture trascendentali che idealmente precedono l'esistenza empirica
dei testi;
 griglie tassonomiche post rem, derivanti dal giudizio del lettore
 in re: i generi registrano l'oggettiva continuità storica fra opere di una stessa famiglia e
rappresentano delle tracce di un legame oggettivo tra i singoli testi.
Secondo Mazzoni, le caratteristiche che legano diverse opere in un unico genere sono
sostanzialmente due:
 l’oggettivo: una somiglianza di stile e argomento immanente all’opera
 il culturale: gli schemi mentali che ai lettori rendono catalogabile un'opera.
Questi due fattori sono compresenti in quasi tutti i casi, sia pure in quantità variabili.
I generi riflettono una continuità in parte immanente alla res e in parte ideale perché le idee non si
limitano a sottolineare le norme, ma hanno anche il potere di produrle. Essi rimandano a una
doppia persistenza: reale e immaginaria, iscritta nella forma dei testi stessi e sedimentata nelle
attese. Gli elementi immateriali non sono meno importanti degli elementi materiali nel formare
l'immagine dell'intero.
Lo schema mentale che si addice al genere (nel senso di universali in re) è quello topografico: ogni
genere ha un centro ed una periferia, ed ogni opera di colloca nello spazio conformemente alla
somiglianza all’opera modello di quel genere. Il centro è occupato dalle opere che l'orizzonte
d'attesa dei lettori percepisce come vicine a un ipotetico idealtipo; la periferia, invece, dai testi che
vengono fatti rientrare nel genere anche se eccentrici rispetto a una norma presunta.
Esempio “Romanzo del Novecento”:
Centro: Recherche (Proust), Ulisse (Joyce), L'uomo senza qualità (Musil)
Periferia: I Buddenbrook (Mann), Il gattopardo (Tomasi di Lampedusa), Vita e destino (Grossman).
È importante sottolineare che le categorie spaziali non hanno necessariamente un valore estetico.

Forme simboliche
E’ possibile concepire le forme dell’arte e quindi i generi letterari come forme simboliche: essi,
secondo la prospettiva di Panofsky, rappresentano un segno sensibile, concreto, che rimanda a un
contenuto spirituale. I generi rappresentano in forma plastica una certa visione del mondo,
sensibilizzando lo spirituale, per destinarlo ad un certo pubblico. La loro nascita, morte,
metamorfosi corrisponde alla stessa di una certa visione della realtà e dei ceti che vi si
riconoscono.
I generi hanno inoltre la funzione di ordinare lo spazio letterario di uno scrittore: sceglierne uno
invece che un altro significa adottare una certa immagine del mondo, un pubblico, un rapporto
con il passato.
Lo storico percepisce i generi come forme simboliche, lo scrittore invece come strutture
trascendentali.

Che cos’è la poesia moderna


Le strutture trascendentali (o forme simboliche) della letteratura moderna si formano durante una
metamorfosi che dura molti secoli, e che culmina, fra la seconda metà del '700 e la prima metà
dell'800, in una stagione di cambiamenti repentini durante la quale i generi che le poetiche
antiche e classicistiche consideravano più prestigiosi (l’epos e la tragedia) muoiono o entrano in
una fase di mera sopravvivenza, per essere sostituiti dal novel e dal dramma borghese, ossia due
forme assolutamente nuove e moderne che mettono in scena in modo serio e problematico le
storie delle persone ordinarie e i conflitti della vita quotidiana.
Negli stessi anni anche la poesia muta completamente, e ciò appare evidente consultando i
Disegni Letterari leopardiani, dove il poeta accosta abbozzi preparatori di opere assolutamente
dissonanti tra loro.
La poesia moderna non deve essere considerata come un organismo o un’essenza, ma come uno
spazio complesso e disomogeneo:
 l’epoca moderna della scrittura in versi (cioè la poesia) viene fatta iniziare in momenti
differenti (tutti compresi fra l’età romantica e l’età delle avanguardie).
 Benché la superficie maggiore del suo territorio sia composta di opere in versi, la poesia
moderna è arrivata a inglobare anche i poémes en prose: testi in prosa che si distinguono
per i contenuti autobiografici o per la densità formale.
 Pensando al genere come ad una mappa topografica, il centro si vede indubbiamente
occupato dai testi lirici: componimenti brevi o di media lunghezza, quasi sempre in versi,
che parlano di temi personali in uno stile considerato personale.
L’inizio dell’età moderna della poesia sancisce anche la fine della poesia didascalica, se non in
forma parodica o sperimentale: da tempo, l’idea di stile che i poeti e i lettori si fanno non è più
ornamentale. Meno repentina ma altrettanto netta la crisi della narrativa versificata. Fino a metà
dell’800 era considerato del tutto ovvio usare i versi per adornare un racconto o un ragionamento:
se la poesia epica, didascalica e descrittiva erano dei generi comunemente praticati nella
letteratura classicistica del '700, la cultura romantica rinvigorì la tradizione del poema narrativo.
Nonostante diversi fenomeni di resistenza, durante il 19° secolo i componimenti narrativi lunghi
decrebbero inesorabilmente, confermando l’egemonia della lirica nel campo della scrittura in
versi.
L’età moderna, in sintesi, portò alla scomparsa della poesia didascalica, rese la prosa il medium
naturale della narrazione grazie al romanzo moderno, e vide la lirica conquistare l’egemonia della
scrittura in versi. Se il centro della mappa topografica della poesia moderna è occupato dalla lirica
(poesia soggettiva), troviamo nella periferia del genere due famiglie di testi che non possono
essere chiamati lirici:
 i poemetti (o long poems): opere in versi, ma anche poémes en prose, che talvolta
superano il confine della poesia soggettiva affrontando contenuti narrativi o saggistici, e
che principalmente rinunciano alla forma tendenzialmente breve, opaca e soggettiva della
lirica moderna per ricercare una dizione più chiara, trasparente e pubblica;
 i testi che vogliono abolire la prima persona ed eliminare ogni contenuto manifesto, al fine
di ridurre la poesia ad un gioco di suggestioni formali (Mallarmè)
In linea di principio, un poeta moderno può dire ogni pensiero e ogni passione privata in una
forma assolutamente individualistica: l’io, esprimendo se stesso, ambisce a dire la verità di tutti e a
“conseguire l’universale attraverso un individuazione senza riserve” (Adorno).

La rete dei concetti


Lirica e poesia nella moderna teoria dei generi
La metamorfosi che il concetto di poesia subisce fra la seconda metà del '500 e la seconda metà
del '700 può essere considerato l’inizio della poesia moderna e insieme la condizione necessaria
affinché la poesia possa accedere all'epoca moderna: nel '500 era impensabile descrivere la lirica
come facciamo oggi, nel '700 l’idea che la poesia coincidesse per lo più con la lirica e che questa
fosse il genere dove una prima persona parla di sé con uno stile personale inizia a diffondersi tra i
lettori specialisti.
Durante i secoli, il concetto di lirica assume quindi significati diversi. Nella cultura antica, la lirica è
la poesia cantata al suono della lira e la poesia destinata alla lettura silenziosa, che si richiama, nei
temi e nei metri, alla tradizione della poesia accompagnata dagli strumenti a corda. Nella nostra
cultura, la lirica è uno dei tre grandi generi teorici in cui la letteratura si divide, cioè quello in cui un
io espone, in uno stile molto lontano dal grado 0 della prosa, dei contenuti fortemente soggettivi:
passioni, stati d’animo, riflessioni personali.
Il concetto moderno di lirica si afferma a partire dalla divisione della letteratura in 3 categorie
teoriche fra la metà del '700 e l’inizio dell'800 (età romantica) nella cultura tedesca e inglese,
sostituendo in pochi decenni le partizioni nate nella cultura antica ma ancora vive nel classicismo
settecentesco, e diffondendosi in tutta Europa secondo innumerevoli varianti ma simili nella
sostanza.
La letteratura si compone, nello schema romantico (Hegel) , in tre grandi generi:
 l’epica (o narrativa), dove l’io del narratore racconta le parole, i pensieri e le azioni di terze
persone, concentrando l’attenzione del lettore sull’interesse intrinseco alle cose
raccontate.
 la lirica, dove un io parla di se stesso in prima persona, dove l’interesse del lettore è
orientato verso il significato che le esperienze raccontate hanno su di lui.
 il dramma (teatro), che unisce caratteristiche della lirica e dell’epica in una nuova tonalità.
Esso dà luce sia allo svolgersi obiettivo dell’azione, sia al suo originarsi dall’interno degli
individui.
Prima dell’età romantica questa tassonomia non esisteva e, anche quando iniziò ad affermarsi in
forma embrionale, rimase per molto tempo minoritaria rispetto al modello classicistico di origine
molto più antica e del tutto inconciliabile col genere della lirica.

Lirica e poesia nella poetica antica


Anche nei testi fondamentali della poetica antica, la Repubblica di Platone e la Poetica di
Aristotele, i generi teorici erano tre, ma il criterio distintivo era completamente diverso rispetto a
quello romantico.
Secondo Platone, ciò che dicono i poeti è racconto, e il racconto può svolgersi per:
 narrazione semplice (il poeta parla in prima persona) – ditirambo
 imitazione (il poeta ricrea la parola dei personaggi) – tragedia e commedia
 forma mista (il poeta alterna il proprio racconto alla parola altrui) - epopea
Nella Poetica di Aristotele la suddivisione di fa più complessa: l’arte poetica è mimesis, imitazione,
e i criteri che permettono di classificare le opere sono tre:
 i mezzi usati per imitare (arte poetica, musica, pittura, versi o prosa)
 gli oggetti imitati (il tema dell’opera)
 il modo di imitare (opere drammatiche, narrative e miste in base a chi parla)
Entrambi classificano le opere poetiche secondo una differenza formale di facilissima
individuazione: chi parla all'interno del testo? Le possibilità, come visto, possono essere tre.
Questo schema, largamente egemone nella poetica antica e nella cultura letteraria del Medioevo
latino, impedisce di pensare la categoria di lirica come la intendiamo dopo il romanticismo: se
infatti si accetta come unico criterio il modo del discorso (chi parla?), l’epica e la lirica risultano di
fatto indistinguibili! (parla pur sempre una voce sola).
Eppure la coscienza letteraria moderna avverte uno scarto tra epica e lirica. Uno scarto che risiede,
oltre che nel contenuto, nell’intenzione del discorso: l’epica (o narrativa) mette in rilievo
l’oggettivo nella sua oggettività, la lirica l’animo che riflette, che sente.
Il sistema dei generi romantico e moderno sovrappone due variabili diverse: traccia il confine fra
testo drammatico e testo non drammatico usando criteri formali, iscritti nella struttura del
discorso e impliciti nella risposta alla domanda “chi parla?”, ma poi distingue fra lirica e narrativa
seguendo un discrimine diverso, fondato sul contenuto più che sulla forma del discorso.
Si è visto quindi come per la concezione antica della poetica, incentrata sull’idea che la poesia sia
una mimesis della realtà condotta secondo certe strutture, e non una libera creazione di un io, il
discorso di chi racconta l’oggettivo stesso nella sua oggettività, e di chi parla del mondo esterno
per dar voce al proprio mondo interiore, sono sostanzialmente indistinguibili. Ecco perché la
cultura greca e latina ignorano la nozione moderna di poesia lirica.

Categorie alessandrine, latine e medievali


La parola lyrikoi compare in epoca alessandrina (o età ellenistica) fra il 3° e il 2° secolo a.C. per
designare i poeti che componevano il canone dei lirici arcaici (Alcmane, Saffo, Alceo, Stesicoro,
Ibico, Anacreonte, Simonide, Pindaro, Bacchilide). Inizialmente usato per definire solamente gli
autori del corpus di opere chiamate melike poiesis, il termine arrivò nel 1° secolo a.C. a designare
anche l’opera stessa, da lì in poi chiamata lyrike poiesis: poesia cantata al suono della lira.
Mentre i poeti arcaici non danno un nome proprio al genere, in un brano delle Leggi di Platone
troviamo un elenco di sottogeneri lirici, dove il criterio comune al melos (canto lirico) è il legame
con la musica, il canto e la danza, e la divisione in sottogeneri è basata su criteri molto distanti dai
moderni, come lo scopo del discorso, la divinità cui il testo era dedicato, la metrica, il dialetto, il
tipo di musica, etc... (criteri pubblici, sociali, oggettivi).
I primi a dare uno statuto teorico alle categorie antiche furono i grammatici e filologi alessandrini,
che imposero dei canoni e appianarono le differenze, grazie ad una gigantesca opera di
sistemazione.
Fondamentale a riguardo la Crestomazia di Proclo (grammatico e filosofo del 2° secolo d.C.), dove
l’autore, riprendendo le partizioni teoriche di Platone e Aristotele, divide la poesia in:
 diegetica, collocandovi l’epos, il giambo, l’elegia e la poesia melica;
 mimetica, collocandovi i generi teatrali (tragedia, dramma satiresco e commedia).
All’interno della poesia melica si possono poi distinguere delle sottocategorie divise per temi
(dedicata agli dei, dedicata agli uomini, poesie miste o per circostanze occasionali), sebbene
l’elemento che le mette in relazione non è certo la soggettività dell’autore: infatti, per Proclo, la
poesia melica, giambica, elagica sono tre generi diversi.
L’opera dei filologi alessandrini trasmise alla cultura latina, medievale e rinascimentale una rigida
divisione in sottogeneri di quella poesia che, dal romanticismo in poi, avrebbe fatto parte di
un’unica categoria sintetica. Questa struttura di origine alessandrina rimase grossomodo in piedi
fino alla seconda metà del '700. In sintesi, la cultura greca e quella latina non concepivano l’idea
che un genere letterario potesse stare insieme grazie all’esprimersi di un soggetto.
La letteratura latina del 1° secolo a.C. rinnovò profondamente le forme di poesia breve ereditate
dalla cultura greca, ma la poetica restò fedele alle partizioni ellenistico/alessandrine. Ne è prova
l’Institutio oratoria di Quintiliano in cui l'architettura delle forme letterarie è ancora
sostanzialmente identica a quella alessandrina.
La categoria unitaria di lirica manca nei sistemi di origine filologica come in quelli di origine
filosofica.
Diomede nell’Ars grammatica, scritta nel 4° secolo d.C., sovrappone come Proclo gli schemi teorici
di Platone e Aristotele a quelli filologici di origine alessandrina, e anch’egli non dispone delle
parole per pensare qualcosa che si avvicini all’idea moderna di poesia lirica.
I concetti della poetica classica si diffusero nel Medioevo in modo frammentario e caotico: il
sistema antico dei generi si era destrutturato talmente tanto da apparire irriconoscibile. La poetica
e la retorica medievale usano le categorie classiche in modo confuso. Se grazie a Diomede la
tassonomia platonica e aristotelica riesce ad attraversare il medioevo, le categorie con cui
comunemente vengono classificate le poesie che oggi chiamiamo liriche seguono criteri dissonanti
e disordinati di tipo metrico o tematico, che solo a posteriori possiamo raggruppare in una
tipologia razionale. L’elemento che rimane inalterato rispetto alle tassonomie antiche è il criterio
della classificazione, perché anche la poetica e la retorica medievali ripartiscono la scrittura in versi
usando variabili pubbliche e oggettive. Come era già capitato nella cultura latina del 1° secolo, a un
rinnovamento delle forme liriche non seguì un rinnovamento nella teoria.
Questa destrutturazione si prolungò ben oltre l’epoca di Dante per almeno due secoli: anche nel
primo Rinascimento, la nozione di lirica resta legata a Orazio. Perché rinasca un dibattito coerente
e innovativo occorre attendere la seconda metà del '500, quando il commento di Robortello alla
Poetica di Aristotele (1548) aprì una una nuova stagione nella storia delle teorie letterarie e nel
dibattito sulle forme della poesia.

La svolta rinascimentale
La categoria unitaria di lirica e il sistema moderno dei generi si affermano intorno alla metà del
'500 in Italia. A introdurli in modo inequivocabile fu Minturno, che nei trattati De poeta e L’arte
poetica propose per la prima volta la distinzione fra epica, scenica e melica (o lirica), cercando di
interpretare le forme minori come varianti delle tre grandi categorie principali. L’idea che i
componimenti in versi di argomento soggettivo appartengano a un grande genere sintetico (lirica)
esisteva già da qualche decennio, cioè dalla prima metà del '500, e si diffuse nella seconda metà
dello stesso secolo. A prova di ciò cito i Discorsi dell’arte poetica di Tasso (1560) e la Poetica
d’Aristotele vulgarizzata e sposta di Castelvetro (1570), in cui è data per scontata l'esistenza della
lirica.
Nelle poetiche del secondo '500, l’identità della nuova classe si definisce secondo i principi dei
teorici antichi, autorità indiscusse in ambito rinascimentale. La tripartizione apparentemente
moderna di Minturno nasce in realtà da un criterio aristotelico, cioè dall’analisi dei mezzi che il
poeta usa per mimare la realtà: l’epica ha bisogno solo della parola, la scenica si serve della
rappresentazione teatrale, la lirica della parola accompagnata dal ballo e dal canto. Ma la
legittimazione della lirica attraverso la musica, che pur consentiva di appoggiarsi agli antichi, non
rendeva conto del concetto di lirica che il letterato medio aveva a metà del '500: poesie scritte per
la lettura silenziosa, a cominciare dal Canzoniere di Petrarca. Per molti, ciò che teneva insieme le
poesie liriche non era tanto il legame antico con il canto, ma quella capacità di evocare affetti
dell’animo, sui quali anche Minturno si soffermava a lungo.
Il problema era che i testi poetici antichi non offrivano appigli per sviluppare questa posizione: le
categorie aristoteliche, ad esempio, non consideravano minimamente le poesie private e brevi. In
sintesi, le difficoltà che la poetica classica opponeva alla nuova teoria lirica erano tre:
 in un passo della Poetica di Aristotele, è espressamente detto che “il poeta deve parlare
quanto meno possibile in prima persona, perché, in questo modo, non imita”;
 la tassonomia antica insiste sulle differenze tra le poesie brevi, rendendo difficile il loro
raggruppamento sotto un unico genere;
 la poetica antica sostiene che l’argomento della mimesis verbale sono le azioni visibili, le
gesta che avvengono nello spazio pubblico, non i pensieri o le passioni private.
Il discorso estetico cinquecentesco, fortemente influenzato dalle regole desunte dai testi canonici
della poesia antica, si trova in difficoltà nel legittimare l’esistenza di una forma specializzata nella
rappresentazione degli affetti usando le idee ereditate dalla cultura classica.
D’altro canto, sarebbe assurdo ai loro occhi togliere il titolo di poeta a Petrarca, sebbene nel
sistema tassonomico classicistico non ci fosse spazio per un opera come il Canzoniere.
Ecco perché la categoria moderna di lirica nasce proprio nel '500 e proprio in Italia: l’invenzione di
un nuovo genere allargato, da porre accanto alla poesia epica e drammatica, fu il tentativo
raffinato di risolvere un conflitto tra autorità che rischiava di lacerare l’unità della cultura
letteraria. Occorreva quindi trovare il modo di conciliare due modelli entrambi assoluti,
mantenendosi fedeli a Platone e Aristotele, ma discostandosi da certe conclusioni. Se si fosse
trattato di un'altra opera meno importante, i contemporanei l’avrebbero sicuramente espulsa dal
canone, ma l’autorità di Petrarca era così grande da esigere un compromesso, e il compromesso fu
l’invenzione della poesia lirica come genere unitario grazie al peso che Il Canzoniere aveva nella
più importante letteratura europea.
Come aggirare le difficoltà di coincidenza del Canzoniere con la normativa classica? La prima di
queste fu risolta rapidamente: ai testi della Poetica e della Repubblica che negano il titolo di
imitatore a chi parla in prima persona, vennero accostati altri passi in cui si sosteneva la tesi
opposta. Fu invece più difficile contrastare la teoria classica dei generi, decisamente ostile a
un’opera come quella di Petrarca, in cui convivono metri diversi e temi diversi, e in cui l’unità
complessiva è assicurata solo dall’unità dell’io che scrive. I letterati rinascimentali, a fronte di ciò,
cercarono di attribuire dei significati completamente nuovi alle categorie ereditate nel tentativo di
conciliarle con l’attualità.
La difficoltà principale fu però quella di far conciliare l’idea moderna di lirica con la teoria della
poesia come mimesis di azioni, idea su cui poggiava il sistema ereditato dalla cultura greca e latina.
Da qui il dubbio che il nuovo genere non sia degno del nome di Poesia, e non meriti di figurare
accanto all’epica e al dramma come forma canonica perfetta.
Il modo più comune di aggirare la lettera di Aristotele era quello di sostenere che il racconto di
azioni è la specie di un genere più ampio, comprendente l’imitazione degli affetti oltre che
appunto quello delle gesta, dei discorsi e delle cose sensibili: l’epica, la tragedia e la commedia
rappresenterebbero l’agire degli uomini, la lirica le loro passioni, ma la logica mimetica
persisterebbe in ognuno dei tre.
Tuttavia certe liriche erano così estranee alla mimesis che a qualcuno non bastò inventare la
categoria di imitazione degli affetti per conciliare l’autorità classica con quella di Petrarca: per
rispondere davvero alle obiezioni era necessario cambiare i concetti e le parole. E’ quanto
tentarono di fare Scaligero, Tasso e Sassetti con le loro argomentazioni che diverranno in futuro
luogo comune: mentre il poeta epico e il poeta drammatico rappresentano un evento esterno che
preesiste alla rappresentazione, il poeta lirico esprime un contenuto tutto mentale. Irriconoscibile
agli schemi della mimesis, la lirica può essere compresa solamente alla luce del concetto di
espressione dell'animo.

Resistenze classicistiche e differenze nazionali


Lo sforzo di alcuni teorici autorevoli non bastò a diffondere il nuovo sistema dei generi: la
maggioranza dei trattatisti continuò a interpretare Aristotele e Platone alla lettera. Tra la fine del
1500 e l’inizio del 1700, la divisione della poesia in epica, drammatica e lirica si diffuse in tutte le
grandi letterature europee, tuttavia questa triade moderna non divenne mai di uso comune e
continuò a scontrarsi, per quasi due secoli, con le tassonomie antiche, più diffuse e più autorevoli,
che negavano alla lirica lo status di genere teorico, segmentandola in tanti piccoli sottogeneri (il
solo componimento che meritasse l’appellativo di lirica restava l’ode oraziana e pindarica).
Il predominio di un sistema o dell’altro dipendeva anche dalla nazionalità dell’interprete:
 i letterati italiani erano portati a mettere la lirica sullo stesso piano dell’epos, della tragedia
e della commedia (epica e dramma);
 i letterati francesi separavano l’ode dalle altre forme che raggruppavano nella categoria
vagamente dispregiativa di petite poesie
Nota era l’avversione della classe letteraria francese verso la poesia italiana, e ciò era dovuto al
fatto che la letteratura francese, non avendo una tradizione lirica illustre come quella italiana, era
portata ad associare la poesia breve al registro comico-scherzoso.
Gli italiani invece eccellono nella lirica amorosa o eroica, grazie a Petrarca e Chiabrera.
In Italia, Il Canzoniere ha legittimato la lirica, perché dopo Petrarca gli italiani non possono
dubitare che la poesia soggettiva di stile grave abbia una dignità pari a quella dei grandi generi
classicistici. Questo discorso non è invece valido per quanto riguarda la poesia francese.

La nuova teoria romantica


La categoria moderna di lirica e la tripartizione della letteratura in epica, lirica e drammatica si
affermano definitivamente con la crisi del classicismo europeo nella seconda metà del '700.
In questi anni, si va man mano ad abbandonare la tesi secondo cui la lirica sarebbe imitazione di
passioni e sentimenti come sosteneva, tra gli altri, Minturno, cercando di salvare la normativa
aristotelica. Inizia invece ad affermarsi l’idea che il genere teorico lirico sia luogo di espressione di
sentimenti veri a cui dar voce con immediatezza, e in nessun modo imitazione di sentimenti fittizi.
A riguardo fu decisivo Le Belle Arti Ricondotte a Un Principio di William Jones, nel quale l’autore
sostiene che Aristotele ha contribuito a diffondere una teoria suggestiva ma illegittima, perché il
principio dell’imitazione non può spiegare tutta l’arte, essendo incapace di tener conto della
musica e della poesia.
Secondo la rete di nozioni che in questo periodo va formando un insieme di topoi coerenti, l’opera
d’arte non sarebbe una mimesi rituale della realtà, ma l’espressione della vita intima dell’autore. Si
affermano in quest’epoca i concetti di originalità e di genio, l’autenticità come criterio di giudizio,
l’esaltazione dell’immediatezza a discapito delle regole.
Rapidamente, negli ultimi decenni del '700, la tripartizione della letteratura in epica, drammatica e
lirica diventa un luogo comune che tutti ripetono, spesso mettendo la lirica al primo posto in
quanto forma di poesia originaria da cui le altre sarebbero derivate. Se la poetica classicistica
diffida dalla poesia soggettiva, il romanticismo la esalta, facendone la norma di tutti gli scritti in
versi. Leopardi stesso scrive nello Zibaldone: “Quanto più un uomo è di genio, quanto più è poeta,
tanto più avrà dei sentimenti da esporre, tanto più sdegnerà di vestire un altro personaggio”.
Secondo Bernardelli gli elementi essenziali della poetica romantica sono:
 la lirica non si definisce più in rapporto al principio di imitazione, ma in quanto genere
dell'autobiografia e della confessione
 il concetto di lirica si trasforma da nozione poetica specifica in categoria estetica
universale. Da questo momento in poi potrà essere detto lirico tutto ciò che è legato
all’espressione artistica della soggettività
 la lirica viene sempre più spesso a coincidere con l’idea stessa di poesia
 il romanticismo rifonda il rapporto tra lirica e musica: il sentimento che infiamma il poeta
genera uno stile personale, una musica interiore che il testo rende udibile
 si afferma il legame tra lirismo e attimo: la poesia sta essenzialmente in un impeto ed ed è
per sua natura breve.
Infine, fra la metà del '700 e la prima metà dell'800, anche il concetto di lirica si trasforma: se lo
Zibaldone di Leopardi del 1828 dà per scontato che il poeta debba parlare delle passioni e degli
aneddoti privati, a inizio secolo questo ragionamento non è ancora così ovvio. Fino all’età
romantica esisteva una vasta tradizione di poesia lirica in senso lato nella quale la prima persona
occupava il centro del discorso pur senza narrare la propria vita, sentimenti o pensieri (es. il più
canonico dei testi lirici premoderni: le Odi di Orazio). Con la rivoluzione dei generi letterari che si
compie fra la metà del '700 e l’inizio dell’800, la scrittura in versi tende invece a coincidere con la
lirica, e la lirica con l'autobiografia, intendendola in senso ampio, cioè non solo come racconto
degli eventi che hanno segnato una vita, ma anche come racconto di stati intimi dell’io, come
esibizione pubblica della propria differenza soggettiva.

L’idea moderna di poesia lirica


Questo colossale mutamento di idee e di parole anticipa e favorisce la metamorfosi che, fra il
romanticismo (1770) e l’età delle avanguardie (1900-1920), avrebbe trasformato la poesia
europea. Il primo segno che la poesia sta cambiando è la rivoluzione delle categorie che la
descrivono.
I discorsi teorici prendono atto in leggero anticipo rispetto ai mutamenti reali:
 con lo sviluppo del romanzo, la prosa diventa il medium naturale della narrazione
 la poesia si specializza in senso lirico, e la lirica si fa sempre più soggettiva.
A partire dalla seconda metà del Settecento penetra nel senso comune degli scrittori e dei lettori
l’idea che lo spazio letterario sia diviso in tre grandi classi, di cui una, la lirica, poggia rispetto alle
altre due su basi recenti. Se infatti è possibile definire l’epica e il dramma da una caratteristica
immanente al testo (chi parla?), per quanto riguarda la lirica non esistono dei tratti formali
indiscutibili che la separino da un testo narrativo, e la variabile che li distingue, così chiara per la
critica moderna, è impalpabile per la poetica antica. Nel discorso teorico che diventa di senso
comune durante il '700, la differenza risiede nei contenuti e nell’intenzione del testo, la lirica porta
sulla pagina le passioni di chi scrive con immediatezza; è il genere dell'autobiografia interiore e
dell’autoespressione, la forma in cui una prima persona parla di sé in uno stile personale.
Da ciò è chiaro anche lo slittamento che l’idea di poesia subisce rispetto all’età classica: per la
poesia antica il legame fra soggettività e lirica è meno importante rispetto ad altre variabili come
la funzione pubblica del testo, il suo contenuto oggettivo, il metro e, in origine,
l’accompagnamento musicale.
Evidentemente il ruolo della prima persona non era considerato determinante, e in ogni caso
veniva giudicato meno importante di altre cose: la vita privata di una persona qualsiasi era
considerata un argomento troppo oscuro, irrilevante e incomunicabile dalla poetica classicistica.
Ne è prova il fatto che, pur sviluppandosi forme brevi di poesie dove la prima persone è una voce
individuata che racconta una vicenda individuata, la poetica antica mantiene inalterati i suoi
schemi tassonomici, facendoli rientrare in sottogeneri determinati perché mettono in versi un
contenuto pubblicamente riconoscibile (la lode, il biasimo, le pene d’amore) nella forma che gli
corrisponde (strofa saffica, giambo, esametro, distico elegiaco). In sintesi, l’identità del testo non è
definita da un vago soggettivismo, ma da criteri che recano il segno della funzione sociale svolta da
certi tipi di poesia: lodare gli dei, biasimare gli indegni,... Ciò che conta non è l’esprimersi di un
soggetto ma il valore collettivo del componimento, come se il testo non fosse fatto per
l’autoespressione, ma per assolvere a un compito preciso.
Questo schema sopravvive al gigantesco slittamento verso il privato che la poesia subisce in età
alessandrina e nei secoli successivi. Occorre attendere la metà del '500 perché le parole della
tassonomia antica, ormai inadeguate a descrivere i propri oggetti, assumano altri significati. Due
secoli dopo il Canzoniere (1470) i teorici italiani prendono atto che le categorie classiche non
spiegano il testo che per loro è l’opera più importante della letteratura nazionale e il più
importante libro di liriche che sia stato scritto dopo le Odi di Orazio. Il Canzoniere sfugge alle
griglie classiche e latine: non è tenuto insieme dal metro perché le misure sono diverse, non è una
semplice raccolta di poesie d’amore e soprattutto l’attenzione ricade sul personaggio che dice io,
cioè, col linguaggio dei critici cinquecenteschi, all’imitazione degli affetti individuali.
Nasce così un sistema di generi profondamente diverso da quello antico, una tassonomia che
sposta i criteri di giudizio dal pubblico al privato, dall’esterno all’interno, dalla mimesis
all’introspezione.
La metamorfosi del concetto di lirica da una concezione classica ad una moderna è dunque la
stessa che porta alla nascita della poesia moderna.

Il concetto di poesia moderna


Il concetto di poesia moderna, cioè l’idea che la scrittura in versi del presente sia radicalmente
diversa da quella del passato, si afferma negli stessi decenni in cui la tripartizione moderna dei
generi letterari diventa un luogo comune.
Di solito i racconti della letteratura italiana fanno iniziare la poesia moderna con Foscolo, Leopardi
e Manzoni secondo un disegno che risale a De Sanctis, critico letterario italiano del 1800 e autore
dell’opera Storia della letteratura italiana, il quale individua in Foscolo l’iniziatore dei tempi nuovi
della poesia lirica moderna per 2 ragioni:
 nella sua poesia parla una persona vera, non la maschera convenzionale della poesia
arcaica che recita passioni e pensieri inautentici in forme convenzionali, ma “un uomo nella
sua intimità… l’uomo intero nella esteriorità della sua vita di patriota e di cittadino e nella
intimità de’ suoi affetti privati”. Ciò che conta è la presenza reale di una persona empirica
dietro l’istanza letteraria che nel testo parla in prima persona.
 la novità di stile nella sua poesia, dove la parola non è più subordinata alla musica e quindi
ridotta a formalità, ma, nei Sepolcri, Foscolo toglie al verso ogni residuo di musicalità
settecentesca e inventa uno stile nuovo, dove egli dice cose e non parole, e dove evita
l'artificio ed esprime con immediatezza la voce di dentro. Ecco perché Foscolo abbandona
progressivamente il sonetto, la canzone, le rime e sceglie forme più libere e capaci di
seguire i moti dell’animo, come gli endecasillabi sciolti dei Sepolcri.
Dunque la nuova poesia lascia parlare i pensieri e le passioni di un io biografico concreto, permette
l’espressione libera di sé e rifiuta le convenzioni artificiose: questa è l’idea di lirica moderna che il
romanticismo ci ha trasmesso e che De Sanctis ha tradotto in storia.
Per quanto riguarda invece Leopardi, risulta interessante notare il cambiamento radicale della sua
teoria dei generi poetici avvenuta fra il 1817 e il 1826. Fino alla metà degli anni venti, Leopardi
continua a servirsi delle categorie di derivazione classica anche per classificare le poesie brevi di
argomento autobiografico, usando quindi criteri metrici e tematici. In questa fase, la categoria di
lirica viene usata in un’accezione ristretta, per indicare il genere inaugurato dai lirici greci e
continuato da Orazio, da Petrarca, e da coloro che hanno scritto odi e canzoni di argomento
pubblico. La conversione alla teoria romantica avviene però nel 1826, anno in cui Leopardi scrive
nello Zibaldone che la poesia è divisa in tre generi, ma il primo in ordine di rango è quello lirico,
genere dell’espressione libera e schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dell’uomo, genere
naturale e non artificiale. Successivamente, affinando la tassonomia comparsa nello Zibaldone,
scriverà che l’epos va contro la natura della poesia, perché l’ispirazione autentica non si può
prolungare, e perciò le opere di poesia sono corte per natura: oltre che estranea all'artificio e alla
convenzione, oltre che irriducibile alla mimesis, la poesia autentica è soprattutto un linguaggio
immediato e incontrollabile, un furore divino di cui il poeta è custode passivo. In virtù di questa
conversione, Leopardi rinuncia ai sottogeneri classicistici e nomina Canti l’edizione fiorentina delle
sue poesia nel 1831. La concezione della lirica come linguaggio spontaneo è arrivata fino ai giorni
nostri, ecco perché quando apriamo un libro di poesie ci aspettiamo di trovare un insieme di
componimenti brevi e autobiografici, scritti in uno stile soggettivo e lontani dal grado 0 della
lingua comunicativa.
Riassumendo il capitolo per intero, si è visto che la letteratura si divide in tre generi, due dei quali
(epica e dramma) sono definiti da tratti formali incontestabili, mentre il terzo (la lirica) deve la
propria identità alla combinazione di un elemento tematico, l'autobiografia, e un elemento
formale (l’autoespressione attraverso lo stile). La lirica ha inoltre una storia discontinua e divisa in
due o tre stagioni, la prima delle quali remota e quasi mitologia (l’epoca della poesia primitiva) e le
altre due concrete e separate da una frattura profondissima, poiché la poesia premoderna è
dominata dalla convenzione, dalle regole e dall'artificio, mentre la poesia moderna riporta la lirica
alla sua funzione autentica, lasciando che la vita interiore si esprima con immediatezza e sincerità.
A partire dall’epoca romantica esiste quindi un genere letterario che lascia parlare dell’io, del loro
autore, che corrisponde a una straordinaria metamorfosi anche nella pratica: è una
trasformazione lenta, che dispiega i propri effetti per quasi un secolo secondo tappe diverse da
letteratura a letteratura, ma che sostanzialmente obbedisce alla stessa logica di fondo.
Un testo esemplare
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.

Questo colle solitario mi è sempre stato caro,


e anche questa siepe, che impedisce al mio sguardo
una gran fetta dell’orizzonte più lontano
Ma mentre siedo e fisso lo sguardo sulla siepe,
io immagino gli sterminati spazi al di là di quella,
i silenzi che vanno al di là dell’umana comprensione
e la pace profondissima, tanto che per poco
il mio cuore non trema di fronte al nulla. Quando sento
le fronde delle piante stormire al vento, così paragono
la voce del vento con quel silenzio infinito:
e istintivamente mi giunge in mente il pensiero dell’eternità,
le ere storiche già trascorse e dimenticate e quella attuale
e ancor viva, col suo suono. Così il mio ragionamento
si annega in quest’immensità spazio-temporale,
e per me è un naufragare dolcissimo.

Scritto nel 1819, fu incluso nella serie di testi pubblicati nel 1825 sul “Nuovo Ricoglitore” col titolo
di “Idilli”. Oltre all’Infinito, ne facevano parte quelle poesie che saranno poi La sera del dì di festa,
Alla luna, Il sogno, Odi, Melisso, La vita solitaria. Ripubblicati, sempre come Idilli, nel volume dei
Versi uscito a Bologna nel 1826, questi componimenti entreranno nel libro dei Canti fin dalla prima
edizione fiorentina del 1831.

Analisi del testo


Il significato letterale dell’Infinito è sicuramente chiaro a chi conosca il lessico storico della poesia
italiana. L’unico dubbio concerne il pronome dimostrativo <quella> al verso 5, che secondo alcuni
si riferirebbe a <tanta parte>, mentre secondo la letteratura tradizionale indicherebbe <la siepe>.
Un'anastrofe (inversione dell’abituale ordine dei termini di una proposizione) complica i vv. 4-7;
per il resto la sintassi si lascia facilmente decifrare.
Il metro di questa poesia, l’endecasillabo sciolto (=non rimato), prolifera dalla seconda metà del
'500 e conosce una gran fortuna a partire dalla seconda metà del '700 in molti testi anche diversi
fra loro.
La poesia si compone di quattro periodi, ma è possibile individuarne una divisione ideale in tre,
secondo una scansione sancita da passaggi semantici, da pause sintattiche e da differenze lessicali:
 i vv.1-3;
 il corpo centrale (vv. 4-13);
 la chiusa (vv. 13-15).
All’inizio l’io dice che un certo paesaggio gli è caro e lo descrive con una brevità sommaria:
sorprende che lo sfondo venga soppresso per intero solo perché è familiare alla prima persona,
come se la descrizione non intendesse illustrare il contesto della poesia a chi non lo conosce, ma
invitare il lettore a condividere la natura intima e privata delle cose che il soggetto vede. L’ infinito
racconta infatti un evento originale, privo di precedenti ed estraneo agli stereotipi ideali. Scandita
dai deittici (qui, questa, la: ripetizione di aggettivi che designano con precisione), l’ambientazione
della poesia allude a un qui ed ora preciso, a un luogo familiare a chi scrive, prova ne è il fatto che
Leopardi abbia già parlato di esperienze simili in due brani in prosa (appunti per un autobiografia e
in una parte dello Zibaldone).
Nei primi versi l’io narra un azione che si suppone che nella realtà egli abbia ripetuto più volte:
questo fa intuire al lettore che probabilmente un intervallo di tempo abbastanza lungo separa
idealmente l’esperienza dalla scrittura dell’esperienza, come per altro sembra suggerire il passato
remoto del primo verso.
Poi, al v. 4, il ritmo statico dei primi versi viene interrotto da una sensazione visiva: gli spazi
interminati oltre la siepe suscitano la prima percezione dell’infinito, cui l’io reagisce all’inizio con
paura (vv. 4-8); e quando il vento stormisce fra le piante, la <voce> generata dal suo passaggio
suscita una percezione analoga, questa volta disposta lungo l’asse del tempo (vv.8-13). Nel
secondo segmento l’io sembra raccontare un fatto nuovo, e non più una passione consueta, come
indicato dal cambio della scelta del tempo dal passato remoto del v.1 (<mi fu>) al presente del v.8
(<E come il vento | Odo stormir tra queste piante>), che sembra registrare un evento improvviso.
La natura del tema si riflette anche sulla forma del discorso, agitato da una persistente asimmetria
tra il metro e la sintassi.
Nel terzo segmento il discorso pare invece placarsi, l’io riassume il significato della propria
esperienze in una formula dichiarativa, e alla paura del v.8 subentra la dolcezza del naufragio
finale al v.15. Se nei periodi centrali la scrittura pareva trascrivere i pensieri con immediatezza,
adesso la distanza fra evento e racconto torna a crescere, facendo sì che il principio riecheggi nella
fine.
Alla divisione delle parti secondo il senso, corrisponde la divisone delle parti secondo lo stile.
All’inizio il conflitto tra metro e sintassi è minimo; i versi terminano con una cadenza uniforme di
8a-10a (<èrmo còlle>, <tànta pàrte>, ..) e il lessico è petrarchesco o arcadico. La sintassi dei primi
versi ordina più che evocare (come farà nella parte centrale).
Successivamente, nel secondo segmento, il brusco <Ma> del v.4 apre un passaggio della poesia
movimentato e che tralascia la sintassi razionale dell’incipit. Il conflitto tra metro e sintassi si fa
sistematico e gli enjambements, fortissimi, prolungano radicalmente l’effetto evocativo. La sintassi
è complicata da due anastrofi marcate (vv. 4-7; vv. 9-11) e da una fuga di soggetti legati dal
polisindeto (<l’eterno, | E le morte stagioni, e…>) (Figura sintattica consistente nel collegare varie
proposizioni di un periodo con numerose ripetute congiunzioni: per es. il verso dantesco ). Il
significato di entrambe queste figure rientra nel tentativo di imitare la forma dell’esperienza
invece che riassumerla. Secondo Fubini, nel variare la sequenza naturale del discorso, Leopardi
vorrebbe evocare lo smarrimento dell’io sopraffatto dall’oggetto del suo pensiero e rigettato in
fondo alla frase, grazie ad uno stilema che incarna l’esperienza raccontata invece riassumerla con
distacco.
Anche il lessico cambia radicalmente nel secondo segmento: termini come <sovrumana> e
<immensità> non appartengono infatti al vocabolario bucolico ne alla tradizione petrarchesca. In
questa parte, la scelta delle parole pesantemente lunghe sembrano raffigurare la vastità degli
oggetti mentali cui si riferiscono.
Da un tono marcatamente emotivo e movimentato, si arriva infine alla chiusa che sembra
ristabilire l’iniziale calma e naturalezza. Il <Così tra questa..> del v.13 sembra riassumere il tumulto
emotivo espresso di getto dei versi precedenti, e a poco a poco il conflitto tra metro e sintassi
torna ad attenuarsi. Il forte enjambement del vv. 13-14 è seguito da una pausa che non spezza il
periodo, ma apre alla dolcezza conclusiva dell’ultimo verso. Anche la distanza cronologica tra
esperienza e scrittura ritorna a farsi consistente, imitando l’inizio della poesia.

Le interpretazioni
Nessuna poesia italiana dell'800 ha attratto così tanti interpreti. Molti di loro sono rimasti colpiti
dal fatto che Leopardi sembri evocare l’esperienza di cui parla piuttosto che trascriverla in forma
logica: Fubini parla ad esempio dell’Infinito come poesia dove il lavoro dell’immaginazione viene
rappresentato con immediatezza e singolare novità, come di chi scopre un’inesplorata regione
dell’animo. Dalla lettura di Fubini e di numerosi altri critici (es. Blasucci e Brioschi), le liriche dei
Canti sarebbero quindi crudelmente autobiografiche e pienamente autoespressive, come
rivelerebbero le strutture formali:
 la sintassi, che sembra seguire i dettami del sentimento;
 il metro, che trasgredisce le regole della forma-canzone
 il lessico semplice, che esprime l'ineffabile tumulto interiore, discostandosi dal lessico
poeticamente consueto
L’originalità di Leopardi starebbe secondo Brioschi quindi nell’aver legato insieme lirica ed
esperienza, stile e interiorità, letteratura e vita privata. Non a caso tutti gli interpreti si soffermano
su questa natura autobiografica e autoespressiva del testo; paragonando lo stile evocativo
dell’Infinito allo stile logico-razionale di altre poesia, come quelle del Petrarca, come esempio di
natura opposta all'artificio. La poesia non rappresenta un’emozione, ma ne è un equivalente.

Serietà e contingenza - Pubblico e Privato - Tre tipi di autobiografia in poesia


Mazzoni esprime in questa parte il suo consenso nel considerare gli Idilli di Leopardi (come i
Sepolcri di Foscolo e non solo) le prime liriche italiane autenticamente moderne, dove compaiono i
primi segni di quella rivoluzione che trasfigurerà la poesia europea nel secolo a venire, facendo
nascere un genere letterario diverso. Secondo l’autore, sarebbe però d’altro canto sbagliato
feticizzare la novità in un caso singolo, perché la storia della cultura non conosce salti. Il valore
enorme dell’Infinito non risiede quindi solo nelle novità che contiene, ma nelle trasformazioni che
condensa e in quelle che, in un certo senso, annuncia.
E’ un opera che cristallizza fenomeni che attraversano la poesia del '700 e trasformazioni che
diventeranno chiare solo nelle fasi successive della lirica leopardiana, o addirittura nella poesia del
primo '900.
Perché l’Infinito è una poesia nuova? In primo luogo per il contenuto. Lo schema classico della
divisione degli stili impediva ai generi di stile alto o intermedio di rappresentare la vita ordinaria,
confinandola nei componimenti di registro basso, e censurava negli alti ogni aspetto contingente
della realtà, come le storie e le passioni puramente personali degli uomini, imponendo di
idealizzarli.
Negli anni in cui componeva l’Infinito, Leopardi aveva una conoscenza vivissima della suddivisione
dei generi della poesia di stampo classicistico. Quando decide di chiamare Idilli i 6 testi che fanno
parte di questa serie, ha in mente un modello letterario piuttosto vago e una pluralità di tradizioni:
 gli idilli classici di Mosco;
 la bucolica antica;
 la pastorale moderna;
 gli idilli sentimentali di Gessner.
I testi degli Idilli si discostano però notevolmente rispetto a questa genealogia a cui Leopardi
dichiara di ispirarsi, infatti:
 in primo luogo cambia il personaggio che dice io: quello dei componimenti a cui Leopardi si
ispira è un soggetto stereotipato, prevedibile e prigioniero delle norme di genere, quello di
Leopardi è un “io esistenziale”, circondato da dettagli biografici concreti e calato nella
contingenza di una vita insostituibile.
 in secondo luogo è diverso il tono che Leopardi usa per raccontare le vicende della prima
persona, cioè la serietà assoluta con cui nell’Infinito si narrano le esperienze private di un
individuo non stilizzato, in un’ammirabile fusione di serietà e contingenza del tutto nuovo
all’associazione che la tassonomia classicistica riservava all’idillio (situazioni poetiche seriali
e patetismo sentimentale).
Le riflessioni contenute negli Idilli (sull’esperienza dell’infinito, sulla morte, sulla natura del
ricordo) eccedono i limiti dei modelli cui Leopardi dichiarava di ispirarsi, quasi che gli Idilli
realizzassero con qualche anno di anticipo quello scioglimento dei generi che si compie
definitivamente nel 1831, quando Leopardi decide di rinunciare alle distinzioni classicistiche e
chiama Canti la raccolta delle proprie liriche. Non a caso, negli stessi anni, Leopardi ridefinisce il
genere dell’idillio in modo tematico e assolutamente moderno come poesie e testi brevi che
parlano di esperienze reali, o in altre parole <avventure storiche del mio animo>.
L’apertura verso l'autobiografia si fa più marcata dopo il 1828, quando molti dettagli accidentali
della vita si riversano nei testi.
In sintesi, seguendo la linea tracciata da critici come Fubini, De Sanctis e lo stesso Mazzoni, è
possibile individuare tre tipi di poesia lirica in base al diverso modello di autobiografismo adottato
in ogni componimento, di cui due diffusi in molte epoche ed il terzo assolutamente moderno e
annunciato in Italia proprio dall’opera di Leopardi:
 Lirica di società: colui che dice io non è una persona biografica precisa, ma una persona
collettiva generica, un io fungibile che vive esperienze individuali (perché dette da una
prima persona singolare) ma non individuate (perché indistinte). In questo caso, la
presenza di un soggetto lirico non garantisce di per sé la presenza di un soggetto reale: il
personaggio che dice io è uno stereotipo di soggettività cui non corrisponde alcun nome
proprio. La società è il contesto in cui nasce e cresce una poesia simile, composta per
intrattenere un pubblico determinato e quasi sempre sempre accompagnata dalla musica.
Esempio: lirica greca arcaica, poesia dei trovatori, poesia musicale settecentesca delle corti
(Metastasio).
 Lirica autobiografica trascendentale (da Contini): Diffuso a partire dalla letteratura latina
del 1 secolo a.C., questo modello di scrittura in versi presuppone un io personale, un nome
proprio separato dalla comunità come quello presente nel Canzoniere di Petrarca e
nell’opera di Orazio. Dopo secoli di lirica di società, la poesia del Medioevo conosce una
trasformazione profonda con Dante e Petrarca, che introducono, nell’ambito della poesia
d’amore, esperienze individuate che sfuggono alla serialità. L’esempio decisivo è appunto
quello del Canzoniere: un libro che non racconta la storia indefinita di due amanti generici,
ma si concentra sulla vicenda, etica e psicologica, di una prima persona dotata di un nome
proprio e di un’identità determinata, e dove l’attenzione è orientata verso lo spazio
introspettivo. Ciò che però differenzia questo genere da una lirica autobiografica empirica
è che le esperienze evocate riescono sempre universalmente umane: la loro
indeterminatezza è infatti garanzia di generalità, quasi che la prima persona volesse farsi
esempio universale, spogliandosi dei tratti troppo individuati e trasformandosi in un
individuo tipico. Ulteriore prova è anche la scelta del lessico nel Canzoniere di Petrarca: per
descrivere gli stati d’animo o il carattere dei personaggi, l’autore usa aggettivi generici del
tipo <astuto> <generoso> o per quanto riguardo gli stati d’animo <amore> <odio> che
tendono sempre a razionalizzare il magma fluido della vita psichica, rendendola quanto più
universale possibile. Leopardi scrive nell’istante dell’emozione, Petrarca compone da
lontano, dopo aver messo in ordine i contenuti, facendo attenzione a evitare che il
riferimento a circostanze precise leda il valore universale del discorso.
 Lirica autobiografica empirica (Erlebnislyrik): ne è un esempio estremo La speranza di
pure rivederti, inserita nelle Occasioni del 1939 di Montale, nel suo non organizzare i dati
dell’esperienza, ma nel portarli sulla pagina senza alcun filtro o mediazione, anche a costo
di non fornire gli strumenti adatti al lettore per una corretta comprensione della poesia
(fondamentale conoscere dei dettagli dell’esperienza di Montale per capirne la chiusa, in
particolare la storia dell’amico Mirco e della sua amata). In generale, le poesie che
appartengono a questo modello appaiono molto più intime e private perché riescono a
dire la vita interiore con una ricchezza di particolati e una libertà di stile del tutto nuova, e
solo in epoca moderna i riferimenti si sono fatti così privati da riuscire del tutto
indecifrabili, a differenza dell’era premoderna della poesia lirica, dove non veniva mai a
meno la presenza, implicita o esplicita, di un contesto pubblico/sociale. Qui l’io parla a se
stesso; il tu è un interlocutore fantasmatico; le associazioni mentali sono del tutto private e
insostituibili.
Con questa nuova forma di autobiografia, cresce sicuramente la libertà dell’artista: il protagonista
degli Idilli è una persona contingente che si confessa davanti a un pubblico invisibile di persone
contingenti, senza bisogno di ricorrere alla mediazione di un exemplum astraente. Se cresce la
libertà dell’artista, cresce anche il pericolo che le sue opere perdano ogni rapporto col senso
comune: da quando la letteratura ignora le situazione tipiche della vita, i romanzi e i libri di poesie
sconcertano il pubblico medio raccontando esperienze così personali da risultare incomprensibili
ai più.
Lo spazio letterario della poesia moderna concede quindi alla vita contingente della persona che
mette il nome proprio sul libro di versi un peso del tutto nuovo. La lirica di tono alto o medio
anteriore alla svolta che l’opera di Leopardi annuncia imponeva al poeta di puntellare l’esibizione
del proprio io empirico con alcune solide strutture trascendentali; la lirica moderna abbandona
queste impalcature e accede a una libertà autobiografica nuova e profonda.

Dissoluzione dei generi e realismo esistenziale


Fino alla seconda metà del '700, le strutture dettate dai generi hanno condizionato in modo
decisivo la lirica europea. L’autore di un'ode, di un epigramma, o di una lirica d’amore sapeva che
avrebbe dovuto adattare la propria identità reale ai confini di un identità poetica fissa, plasmare la
propria vita empirica a una struttura già stabilita e calare la propria esperienza in stampi rigidi.
Benché i grandi innovatori della poesia autobiografica, come Petrarca e Catullo, siano riusciti a
ricavare spazi di introspezione autentica all’interno delle regole, non significa che essi abbiano
rinunciato per intero all’impalcatura del genere e alla sua funzione stilizzante. Fra l’individualismo
di Petrarca e l’individualismo dei moderni cade insomma un confine decisivo. Se nella letteratura
moderna ogni personaggio e ogni evento sono in linea di principio degni di una rappresentazione
seria, tragica e problematica, nella cultura antica, e nelle letterature classiche che prendono a
modello la cultura antica, tutta la bassa realtà e ciò che è quotidiano (professioni ordinarie:
mercanti, artigiani; luoghi: casa, campo; vita solita: famiglia, lavoro) deve essere rappresentato
solo comicamente, senza approfondimento problematico. Già nella letteratura greca arcaica, la
divisione degli stili diventa teoria nella Poetica di Aristotele, dove si prescrive che la qualità dello
stile e delle azioni deve corrispondere solamente al rango degli eroi virtuosi, secondo una
tripartizione gerarchica della società greca in uomini migliori di noi, uguali a noi e peggiori di noi.
La “Stiltrennung” (divisione degli stili) antica domina la letteratura greca e latina, si scontra col
realismo creaturale cristiano della Bibbia e si combina, nel Basso Medioevo, con un'altra forma di
separazione stilistica nata nell’ambito della letteratura cortese. Dopo la riscoperta umanistica e
rinascimentale della poetica antica, la divisione degli stili impone di nuovo la propria egemonia sul
sistema letterario occidentale durante l’epoca dei classicismi europei e infine si dissolve quando il
romanzo realistico moderno diffonde un modo nuovo, democratico, di rappresentare la realtà.
Possiamo dire che l'autobiografismo empirico nelle liriche degli ultimi secoli implica una rottura
della divisone degli stili del tutto speculare a quella che incontriamo nel romanzo moderno o nel
dramma moderno: con lo sviluppo di questa nuova forma, la scrittura in versi diventa capace di
rappresentare, in modo serio, dettagliato e problematico, la vita quotidiana di una persona
privata; dove il grado di realismo esistenziale raggiunge picchi che in epoca premoderna aveva
raggiungo solo occasionalmente.
Nel disegno storico tracciato da Auerbach, la rappresentazione seria della vita quotidiana è
l'elemento che distingue la mimesi moderna dalla mimesi antica e classicistica. La lirica moderna
conquista un grado di realismo esistenziale, usando un termine coniato dallo stesso Auerbach, che
in epoca premoderna era stato raggiunto solo occasionalmente.

Oratoria e soliloquio interiore


Rispetto a liriche moderne come “La speranza di pure rivederti” di Montale, le poesie di Catullo o
le liriche di Orazio si rivolgono spesso a una seconda persona che può considerarsi poco
conosciuta, ma il monologo dell’io rimane sostanzialmente comprensibile in ogni suo passaggio, e
anche quando i testi alludono alle forme della comunicazione privata, le strutture profonde del
discorso restano pubbliche e sociali.
Pur sovvertendo la sostanziale impersonalità della lirica di società, la poesia autobiografica
premoderna ne ha mantenuto l’impianto oratorio e teatrale, come se ai contenuti soggettivi non
ne corrispondesse ancora una forma autenticamente personale, come se il personaggio che dice
io, pur parlando della propria vita intima, continuasse a raccontare se stesso davanti a un pubblico
visibile o invisibile.
Nelle poesie degli ultimi due secoli è invece normale incontrare dei passaggi logici del tutto
soggettivi, degli snodi che si avvicinano a una scrittura privata o a un soliloquio interiore, e che
mettono su carta i dettagli accidentali in una vita accidentale.
La differenza tra poesia e oratoria, secondo John Stuart Mill, coincide con l’opposizione tra
soliloquio interiore e il monologo recitato, dove la lirica, in entrambe le antitesi, interpreta
sicuramente il primo dei due termini.
Pur essendo un discorso pubblico, stampato su carta e venduto nelle librerie, la lirica autentica
deve sforzarsi di mantenere le condizioni del discorso privato.
Una delle conseguenze più importanti dell'autobiografismo empirico che si diffonde in epoca
romantica è la distruzione delle strutture oratorie e teatrali che governavano la retorica della lirica
di società e della lirica autobiografica trascendentale, come si avverte già dall’incipit dell’ Infinito:
<sempre caro mi fu quest’ermo colle, | E questa siepe, …>. Sono versi nuovi, dove il lettore si trova
davanti una scena precisa e presentata per accenni, e non uno sfondo generico ed eterno. La
retorica è quella delle scritture private, dove l’io non sente alcun bisogno di spiegare ciò che il
lettore non può sapere.

Stile ed espressione di sé
La critica leopardiana interpreta generalmente l’Infinito come lirica la cui forma rispecchia alla
lettera la voce immediata del sentimento (il conflitto tra metro e sintassi, la scelta del lessico, l’uso
del presente). Mazzoni, con un riflessione acuta, sottolinea però che certi segni di immediatezza
fanno invece parte di un sistema formale ancora largamente mediato dalle convenzioni. Anche
quando si distacca dal lessico arcadico o petrarchesco, Leopardi si serve di un vocabolario poetico
ampiamente tradizionale che si discosta ampiamente dal grado zero del discorso comunicativo: è
difficile che si possa essere immediati quando si scrive <il guardo esclude> o <io nel pensier mi
fingo>.
Altrettanto mediata è la tecnica di composizione delle poesie, visto che Leopardi solitamente
scriveva una prima stesura in prosa e poi verseggiava a freddo, secondo un modo di procedere
lontano dall’idea dello stile come espressione spontanea di sé (è noto che Leopardi avesse già
parlato dell’Infinito nello Zibaldone e negli appunti presi per la stesura di un romanzo
autobiografico).
La sintassi usata nell’Infinito risulta esponenzialmente più complessa rispetto agli appunti in prosa
corrispondenti, perché è impossibile, nel 1819, che una lirica italiana di tono serio sia scritta come
un accumulo di pensieri, a differenza del secolo successivo dove sarebbe stato normalissimo
utilizzare uno stilema simile in poesia.
Inoltre, perché mai un io infiammato dal sentimento avrebbe bisogno di scrivere in endecasillabi
canonici?
Stesso discorso si può fare per i Sepolcri di Foscolo: infatti le transizioni ardite del testo lavorano
ancora su un lessico compattamente classicistico e su una sintassi complicata e latineggiante.
E’ innegabile che, solamente un secolo dopo l’Infinito, i testi lirici come quelli di Ungaretti
combacino in maniera decisamente più precisa a ciò che definiamo oggi come poesia lirica
moderna: perché la lirica sia davvero “voce di dentro” occorre che il poeta esca dalle convenzioni e
conquisti una piena libertà lessicale, metrica, sintattica e retorica. La rivoluzione della poesia
moderna, in altre parole, non è un cambiamento istantaneo, ma un processo che comincia dalla
poetica e che si estende alla pratica per tappe successive, durante una metamorfosi che attraversa
tutto l’Ottocento e termina solo con l’età delle avanguardie storiche, quando i poeti conquistano
davvero quella possibilità di esprimersi liberamente che le poetiche romantiche invocavano, ma
che le poesie degli stessi anni raggiunsero solo in parte.
Nell’Infinito si possono quindi cogliere i primi segni di una trasformazione che cambia lo stile della
poesia europea: in certi passaggi la forma di questo idillio sembra coincidere all’esperienza che
viene messa sulla pagina ma, nonostante ciò, le novità dell’Infinito restano mescolate a elementi
del tutto tradizionali che verranno messi da parte solamente un secolo più tardi.

Una storia delle forme


Come si evolve la forma della poesia moderna tra il romanticismo (1770) e l’età delle
avanguardie (1920)
Teorie dello stile
Come visto, il primo passo della metamorfosi avviene tra la fine del '700 e l’inizio dell'800, quando,
più che lo stile, cambia il contenuto delle poesie contemporaneamente allo sviluppo dei generi che
danno voce all’esperienza vissuta degli scrittori: l'autobiografia moderna, che si diffonde
rapidamente in tutta Europa (Confessioni di Rousseau e il Werther di Goethe). Anche la lirica,
come tutta la letteratura, si avvicina alle scritture d’esperienza, perché il soggetto poetico tende a
coincidere col soggetto biografico e perché quest’ultimo parla di sé, riducendo poco a poco le
mediazioni che, nella poesia precedente, trasformavano una storia privata e individuale in una
storia pubblica ed esemplare. Ma se il personaggio che dice io nel testo e la persona che mette il
proprio nome sulla copertina del libro si sovrappongono già nella poesia del primo '800, occorrerà
almeno un secolo perché il secondo dei cambiamenti impliciti nella poetica romantica si realizzi
pienamente: quello che riguarda la forma.
Le linee generali della teoria dello stile che si sviluppa nella seconda metà del '700, invocavano una
poesia che lasciasse traboccare spontaneamente i sentimenti, facendo trapelare con
immediatezza il ritmo della passione rendendo lo stile della poesia completamente diverso dallo
stile della prosa, come sostenuto da Wordsworth nella prefazione a “Lyrical Ballads” (1800), il
quale cita ad esempio i primi poeti dell’età arcaica per invocare un ritorno all’immediatezza.
Al linguaggio spontaneo del sentimento si contrappone, nelle poetiche di decadenza, quella che
Wordsworth definisce poetic diction. Entrambi questi codici differiscono dalla prosa comune: se la
lirica primitiva e la lirica che Wordsworth vorrebbe scrivere parlano la lingua della passione
eccitata da eventi reali, la poetic diction o dizione poetica genera uno stile artificioso e meccanico,
scelta a freddo e priva di rapporti col modo naturale di dire le cose, come accade nella lirica
settecentesca. La poesia autentica ha invece un’origine naturale, individuale, passionale e
immediata. Si differenzia dal discorso ordinario solo perché carica le parole di emozione, ma per il
resto si serve del linguaggio davvero parlato dagli uomini.
Quando Wordsworth oppone lo spontaneo traboccare delle emozioni alla poetic diction definisce
un passaggio decisivo: lo stile del poeta primitivo o del poeta moderno è personale e solitario,
perché riflette una passione individuale e autentica, mentre la poetic diction è convenzionale e
collettiva. L’antitesi tra i due modelli non oppone solamente natura e cultura, spontaneità e
mediazione, ma anche originalità e consuetudine, talento individuale e tradizione.
Wordsworth descrive quindi gli effetti di una metamorfosi che incomincia nel corso del '700 e che
si sedimenta nelle nostre abitudini, inaugurando un’epoca nuova della storia letteraria e una
concezione dello stile ancora egemone oggi.
Roland Barthes nel Grado zero della scrittura afferma che la poesia classica era sentita come una
variazione ornamentale della prosa, il frutto di un'arte (cioè di una tecnica), e non come un
linguaggio diverso o come il prodotto di una sensibilità particolare.
E’ significativo dire che già nella poetica antica esistevano queste idee che dal romanticismo in poi
diventeranno luogo comune, cioè che il poeta sia parlato dall’entusiasmo, dalla natura o dal
furore: ne è prova il testo canonico sulla poetica classica, la Poetica di Aristotele, in cui si afferma
che la creazione artistica contiene un elemento naturale, irrazionale ed estatico che non tutti
posseggono e che l'imitatore ha ricevuto in dono.
Tuttavia quest’interpretazione della poesia e della forma rimane largamente minoritaria rispetto a
una tesi opposta. Essendo la mimesis l’elemento principale dell’arte poetica, prima vengono le
cose da imitare e solo dopo la dizione, che viene scelta secondo convenienza, cioè in modo che
alla qualità del contenuto corrisponda la qualità della forma. E’ quindi opportuno che lo stile si
adegui alla natura dei personaggi (migliori di noi, peggiori,..). La forma è dunque un ornamento
che si sovrappone al contenuto di grado zero rispettando un rituale preciso, pubblico, codificabile.
Il linguaggio del poeta non può quindi essere troppo conveniente al discorso, perché altrimenti
perderebbe il suo effetto; al contrario, il linguaggio del retore deve sempre essere chiaro, essendo
la chiarezza la prima virtù dell’arte oratoria. L'esaltazione dell’ingegno individuale cadono nel
contesto di un’opera che ha trasmesso alla letteratura occidentale un modello ferreo di
classicismo sorvegliato, attento alle regole dell’arte e alla tradizione.
Per la concezione antica, poesia e prosa non sono due forme espressive fondamentalmente
diverse nella loro essenza, entrambe sono piuttosto comprese nella più ampia categoria del
discorso, e si distinguono solo per la quantità e la qualità dell’ornamento scelto: come una veste
rituale, la forma rispetta misure pubbliche e regole codificate. Questo modo di intendere la poesia
e la prosa (uguali nell’essenza ma differenti nella forma secondo regole stabilite) ha retto fino ad
almeno la seconda metà del '700. Solo nel romanticismo una simile teoria perde prestigio, e si
afferma l’idea secondo la quale le figure retoriche che distinguono il testo letterario dalla frase
discorsiva non sono degli abbellimenti scelti a freddo per rispettare certe consuetudini, ma i
sintomi di una passione, di un pensiero.
Espressivismo
Mazzoni chiama la teoria dello stile che si afferma all’inizio dell'800 espressivistica. Questo
aggettivo definisce l’atteggiamento, romantico e moderno, di chi ripone il senso della propria vita
nella manifestazione della propria differenza soggettiva. Secondo Charles Taylor, coniatore del
termine, l’espressivismo è un framework, un quadro di riferimento, che fissa un'ideale di vita
buona.
All’inizio dell'800, questa nuova norma morale comincia a guadagnare spazio, scontrandosi con
altri framework, o quadri di riferimento, della tradizione millenaria: l’etica antichissima dell’onore,
incentrata sulla ricerca di gloria nella sfera pubblica; l’etica del controllo razionale sulle passioni;
l’etica della vita comune, per la quale la riproduzione, il lavoro e la famiglia possono da sole
giustificare un destino.
L’espressivismo si diffonde sia nella cultura d’élite, sia nel senso comune. Occorre però distinguere
tra due diverse declinazioni di questa etica:
 il be yourself, la versione passiva, che si limita a proporre l’ideale narcisistico di fedeltà a se
stessi
 l’express yourself, la versione attiva, che invita a mostrare la propria singolarità
Ad un espressivismo dei contenuti (autobiografia empirica), si affianca così un espressivismo della
forma, cioè la teoria romantica dello stile come rivelazione di un io. Due modi speculari di
manifestare la differenza personale e trasportarla nello spazio pubblico.
Lo stile è il prodotto di una sensibilità particolare non solo perché esprime le passioni di chi scrive,
ma soprattutto perché incarna una maniera personale di vedere le cose. Nella forma si sedimenta
infatti quella differenza di sguardo che separa gli individui e che, se non ci fosse l’arte, rimarrebbe
il segreto eterno di ciascuno. Lo stile è quindi una questione di visione, più che di tecnica, come
affermava Proust, e trova un'applicazione speciale nel più espressivistico dei generi: la poesia
lirica.
L’idea della forma che si afferma tra la seconda metà del '700 e l’inizio dell'800 rimane per molto
tempo ancora troppo legata all’estetica della mimesi, della rappresentazione, e quest’ultima, pur
divenendo soggettiva e intraducibile, rimane legata ad un contesto che le preesiste, fatto di cose,
azioni, pensieri e passioni. Mentre di norma la cultura del primo '800 interpreta l’espressivismo
come un rifiuto delle regole classicistiche e come un allargamento della mimesi alla
rappresentazione della vita psichica cosciente, l’idea romantica che lo stile sia il prodotto di una
sensibilità particolare, quando viene interpretata fedelmente, oltrepassa i limiti del romanticismo
e trova la propria realizzazione piena del processo di disumanizzazione dell’arte, nata con
l’estetica del simbolismo ed esploso nell’età delle avanguardie, quando l’espressivismo giungerà
a compimento ignorando completamente la tradizione e il senso comune e permetterà a
Marinetti, per citare un esempio, di proclamare la morte della psicologia e il trionfo
dell’immaginazione senza fili.
E’ in questo ambito che nasce un linguaggio letterario totalmente separato dall’estetica della
mimesis: la poesia pura.
A lungo le scelte formali quali il metro, il lessico, la sintassi e i tropi, si sono conformate a un
preciso rituale collettivo, e la poesia è stata un discorso di grado zero cui venivano aggiunti una
gabbia metrica e in generale degli ornamenti stabiliti e codificati pubblicamente, poi, a partire
dalla seconda metà del '700, i rituali hanno cominciato a sgretolarsi e il genere è entrato in una
fase in cui l’anomia (assenza della regola) diventa norma. La lirica moderna deve quindi la propria
origine a due metamorfosi parallele che tendono entrambe all’individuazione senza riserve:
 dal lato del contenuto, l’ingresso dell’io empirico in poesia;
 dal lato della forma, la conquista del diritto a scrivere senza rispettare regole prestabilite e
a intendere lo stile come espressione anarchica di sé.
La prima si compie già con la lirica romantica: se si guarda ai contenuti, l’Infinito è già una poesia
moderna. Non si può dire altrettanto per la forma, Leopardi per molti aspetti resta un classicista.
Il dilagare dell’individualismo nel dominio della forma non è quindi un cambiamento repentino,
ma un processo che attraversa il 19° secolo. Alla domanda “quando nasce la poesia moderna?”,
occorre quindi rispondere che la poesia moderna è uno spazio letterario che si forma lentamente
fra la fine del '700 e l’età delle avanguardie, e chi si trova in questo spazio ha davanti a sé
possibilità inedite: può parlare di sé, usare qualsiasi parola, andare a capo quando vuole, violare la
grammatica, ed esprimere la propria differenza soggettiva in qualsiasi modo ritiene opportuno.
La direzione della metamorfosi è una sola: il trionfo del talento individuale nella scelta del metro,
del lessico, della sintassi e dei tropi.

Il lessico
La prefazione alle Lyrical Ballads di Wordsworth annuncia un cambiamento che tocca tutte le
letterature d’Europa e che sovverte una consuetudine secolare: per la prima volta la scrittura in
versi fa a meno di un linguaggio separato a priori dal vocabolario comune: la poesia non è più un
codice speciale. Decade per sempre l’idea che il vocabolario della poesia debba distinguersi da
quello della prosa.
In Italia questa rivoluzione si manifesta lentamente e con violenza. Nel nostro sistema letterario la
regola della divisione degli stili è stata applicata rigidamente, e la distanza tra i generi di stile alto,
seri ma distanti dalla prosa della vita quotidiana, e i generi di stile basso, aperti alla contingenza
ma condannati a rimanere nel registro comico, è rimasta per secoli incolmabile.
La lirica italiana di stile alto, come si sa, subisce per molto tempo l'influenza del vocabolario
petrarchesco, ristretto, sublimante e censorio. La norma secondo la quale la poesia seria deve
distaccarsi dal contingente e dall’ordinario ha conosciuto pochissime eccezioni, almeno fino all’età
barocca (1600), quando Marino (1569-1625) e i marinisti introdussero per primi gli oggetti
quotidiani nel lessico della lirica alta in maniera copiosa (es. pollami, vermi). Il contesto in cui
compaiono questi termini è però quasi mai descrittivo, ma quasi sempre emblematico/allegorico:
il poeta barocco, in generale, non usa termini del lessico comune per inserire nella poesia un
dettaglio di realtà che indica solo se stesso. Al contrario, il poeta moderno può chiamare gli oggetti
col loro nome semplicemente perché certi oggetti esistono, e metterli nella poesia con i verba
propria e con l’intenzione di significarli direttamente senza alcuna mediazione.
Se la lirica barocca trasmette alla poesia successiva le tecniche che consentono di accogliere le
parole d’uso quotidiano o settoriale senza ledere il tessuto della forma, la letteratura del '700
imita questi procedimenti e compensa l’immissione di parole prosaiche con l’aumento
dell’ornamento. Emblematico , a questo proposito, il lessico del Parini lirico che include sì termini
prosaici, ma sempre abbelliti da ornamenti (es. polmone diventa polmon capace). Quando non
intervengono epiteti (accostamento di un aggettivo che caratterizza il sostantivo) o troncamenti,
interviene la metrica e la sintassi difficile e contorta a ristabilire il decoro della forma.
Poeti nuovi per contenuto e scelte sintattiche, Foscolo e Leopardi credono ancora fermamente
nella poetic diction, tantoché nessuna delle loro composizioni in versi si discosta dal linguaggio
della tradizione.
Leopardi sottolinea nello Zibaldone che la bellezza è nemica della precisione prosaica, la poesia si
servirà quindi di parole cariche di significati semantici indiretti, e non di termini precisi nel loro
significato nudo e arido. Siccome la bellezza è nemica della precisione prosaica, la poesia dovrebbe
servirsi secondo Leopardi di parole, non di termini; il suo linguaggio dovrebbe quindi essere antico,
convenzionale e indeterminato. Seppur sembri una posizione arretrata e regressiva, la scelta di
Leopardi mette in evidenza una logica assolutamente moderna: la poetic diction che egli difende
non rappresenta ai suoi occhi una sorta di seconda natura della poesia, ma già una convenzione,
una scelta libera esattamente come sarebbe quella di usare un lessico prosaico.
In realtà, questa difesa classicistica si concilia male con la teoria della lirica che Leopardi elabora
nello Zibaldone dal 1826 in poi. E’ come se la sua opera fosse presa da due tendenze opposte: una
romantica, che lo porta a fare del contenuto della sua opera una vera e propria autobiografia
empirica, e un’altra classicistica, che lo spinge a restare fedele alle norme ereditate.
Ma la libertà di scegliere le parole è immanente alla poetica romantica: una lirica fondata sulla
confessione, sull’espressione di sé, sull’esibizione della vita empirica, e tutto ciò, presto o tardi,
porrà fine all’uso del lessico antico della poesia. La nuova poesia, come si legge nelle Lyrical
Ballads, vuole distinguersi dalla prosa e dai discorsi comuni non perché si serva di un linguaggio
diverso, ma perché stravolge il discorso ordinario caricandolo di passione.
In Italia, la poetic diction della lirica seria si sfalda completamente con Pascoli (secondo '800), che
immette nel lessico della lirica una quantità enorme di linguaggio quotidiano o settoriale,
nominando la contingenza con una precisione inedita: per la prima volta il linguaggio della poesia
non si distingue da quello della prosa. Eppure questo cambiamento decisivo rimane incompleto in
un aspetto essenziale: Pascoli viola la poetic diction, ma non abbandona completamente il lessico
poetico della tradizione, continuando ad accostare le parole prosaiche e quotidiane alle vecchie
forme arcaiche, come se queste ultime fossero ancora un registro d’uso comune, e non un fossile
linguistico (vedi Myricae).
In realtà, la poetic diction italiana muore davvero solo quando i poeti avvertono che il lessico
tradizionale è un codice in disuso, da evitare o da adoperare solo in base a una scelta poetica
precisa. Perché questo processo si concluda occorre attendere i primi anni del Novecento. Solo
allora la poesia italiana potrà dirsi libera dalla poetic diction premoderna.

La sintassi
E’ possibile definire la sintassi adottata dalla poesia premoderna come pubblica e regolare: il testo
non è un soliloquio che l’io rivolge a se stesso, ma un discorso che rispetta le norme grammaticali
della comunicazione collettiva, come se fosse di fronte a una platea invisibile e avesse una natura
teatrale o oratoria.
La letteratura degli ultimi secoli ha invece insegnato ai suoi lettori che la struttura originaria del
pensiero è pregrammaticale: segue cioè una sintassi privata e irregolare la cui forma estrema è il
monologo interiore. La sintassi (la dispositio delle parti) di un componimento come “Di pensier in
pensier, di monte in monte” del Canzoniere di Petrarca, segue un ordine logico: nei primi versi
colui che parla enuncia la propria condizione, nei versi successivi svolgendo quanto è implicito
nell’inizio, descrive gli effetti dell’inquietudine che lo agita.
Nella “Speranza di pure rivederti” di Montale il passaggio dalla seconda alla terza strofa risulta
invece incomprensibile in termini logici: a una sintassi del periodo pienamente grammaticale si
contrappone infatti una sintassi del componimento che segue catene associative private. La poesia
contemporanea ci ha abituato infatti a leggere testi estranei alle regole della comunicazione
pubblica. Chiunque si cimenti nell’esercizio della parafrasi, capisce che ogni tentativo risulta
destinato all'approssimazione, perché la sintassi non obbedisce a regole pubbliche e oratorie, ma
private e mentali. L’architettura delle frasi e il senso del componimento si lasciano intuire, ma non
si fanno ridurre alla grammatica e alla logica.
Mazzoni sostiene che non esistano esempi di sintassi privata anteriori all’epoca di Foscolo e
Leopardi: non è possibile individuare prima della seconda metà del '700 delle poesie costruite su
una logica associativa estranea alle regole del discorso pubblico, né per quanto attiene alla forma
delle frasi, né per quanto attiene alla forma del componimento.
In Italia Foscolo e Leopardi rimangono comunque fedeli alla poetic diction, ma rinnovano la
dispositio dei componimenti e il periodare della lirica. Leopardi è forse il primo poeta italiano a
esibire, nei suoi testi più innovativi, una sintassi che segue in parte le onde associative del
pensiero.
L’evoluzione era destinata a proseguire ben oltre il grado di libertà conquistato da Leopardi. Anche
in questo caso Pascoli è un poeta rivoluzionario nel virare verso una sintassi puramente privata e
mentale. Nelle poesie di Leopardi, invece, lo slittamento dalla sintassi pubblica a quella privata si
ferma sempre prima che il discorso diventi un monologo interiore: la sintassi è ancora tendente al
modello teatrale in cui l’eroe, pur fingendo di parlare da solo, deve comunque farsi capire bene da
chi lo ascolta e spiegare interamente ciò che pensa.
Il movimento progressivo verso la sintassi mentale si ferma solo quando i poeti arrivano ad
associare le parole in totale autonomia, cioè quando possono scrivere le frasi in forma di stream of
consciousness e disporre liberamente le parti del testo senza seguire un ordine argomentativo o
narrativo, affidandosi ad analogie inconsce o a un montaggio cosciente ma del tutto soggettivo.
Come la crisi del lessico poetico tradizionale, anche la crisi della dispositio pubblica si consuma
definitivamente durante l’età delle prime avanguardie. Nelle poesie dei futuristi lo
sperimentalismo sintattico prende una forma vistosa, ma basta leggere gli scrittori italiani degli
anni dieci che, anche quando scelgono di moderare l’autonomia che lo spazio letterario concede
loro, sanno ormai di poter comporre delle frasi governate da una logica interamente personale.

La metrica (La teoria e la pratica della versificazione, dal punto di vista tecnico e storico)
L’effetto più clamoroso della poetica romantica è probabilmente l’invenzione del verso libero. Un
principio costitutivo della letteratura premoderna vuole che la scrittura in versi si distingua dal
discorso ordinario in virtù della norma metrica: perfino i generi più simili alla prosa conservano
sempre questo elemento di separazione. Che il rispetto del metro non basti a garantire che un
componimento sia vera poesia è un principio ben noto anche alla cultura antica, come scrisse
Aristotele nella Poetica. Tuttavia l’estetica antica non concepisce l’esistenza di una poesia
“poetica” refrattaria alle leggi del metro, cioè a una misura fissa, pubblica e concordata.
Qualunque sia il tipo di schema, tutti devono sapere com’è fatto un verso e quando si va a capo:
all’interno di una logica simile, le due più grandi rivoluzioni della prosodia (studio del ritmo)
moderna, il verso libero e il poeme en prose, sono semplicemente inconcepibili.
Questo principio millenario comincia a vacillare già nella seconda metà del Settecento: se la poesia
è espressione immediata di sé, non si vede perché la metrica regolare debba comunicare le
passioni meglio della prosa ritmica o meglio di una poesia che, ignorando la norma del metro,
segua il ritmo interno del poeta.
La teoria classica e quella moderna sono divise da una variante significativa:
• per la cultura greca e latina, e per le culture classicistiche che fino alla seconda metà del
Settecento continuano a riscrivere i concetti antichi, merita il nome di poeta solo colui che,
rispettando un apparato di abitudini tradizionali, sa rappresentare le azioni, i discorsi e i
caratteri delle persone: in breve, chi è capace di mimesis; mentre chi si limita a mettere in
versi regolari qualcosa di antimimetico deve essere chiamato in un altro modo.
• dalla seconda metà del Settecento, al contrario, chiunque sappia esprimere se stesso in
modo originale e significativo deve essere chiamato poeta: nella logica di questo nuovo
discorso, il metro rappresenta una convenzione ereditata che l’artista può accettare o
rifiutare liberamente in totale autonomia.
E’ innegabile che il metro irrigidisca i ritmi naturali del discorso ispirato, comprimendoli dentro una
misura convenzionale. Anche Leopardi, nonostante il suo classicismo è ben lontano dal credere
che il metro sia una necessità, come si legge in una pagina dello Zibaldone, dove egli dichiara che
la poesia, di per se stessa, non è legata al verso.
L’espressivismo romantico annuncia una rivoluzione metrica che dilaga nella prassi letteraria
quando si affermano definitivamente i due generi che accompagnano il tramonto della prosodia
tradizionale intorno alla seconda metà dell'800: il poeme en prose e la poesia in versi liberi.
L’altro effetto della rivoluzione metrica moderna, dopo il cambiamento dell’orizzonte d’attesa
degli scrittori e dei lettori verso una poesia che non è più mimesis, né naturalmente legata al
metro (e quindi può essere anche in prosa), è il dilagare del verso libero anche nelle letterature
che, in epoca romantica, non avevano conosciuto un allentamento degli schemi prosodici (poesia
inglese, francese, spagnola, russa).
Di solito si attribuisce l’origine del verso libero italiano a Lucini, che negli anni '90 dell'800 praticò
costantemente la violazione delle regole metriche.
In conclusione, caduto anche il più importante residuo tecnico della poesia ovvero la gabbia
metrica, l’autore può davvero, almeno in teoria, esprimersi autonomamente, come se il suo stile
fosse un fatto di pura visione. Questo trionfo del talento individuale sulla tradizione allude a una
metamorfosi profonda e riflette quel bisogno di individualità che contraddistingue il mondo
moderno.
Anche in questo caso, il movimento verso l’individuazione senza riserve, cominciata col
romanticismo, attraversa l'800 e si realizza nell’età delle avanguardie.

I tropi (sostituzione di espressioni proprie con espressioni improprie, cioè figurate)


Lo scarto fra le poesie moderne e la frase elementare è spesso così ampio da rendere i testi
indecifrabili, si tratta però di un’indecifrabilità in parte nuova, diversa da quella cui i lettori erano
abituati.
Di solito l’oscurità della poesia antica ha un’origine precisa: è il segno che il testo comunica un
sapere aristocratico, nell’ordine dei contenuti o in quello della forma. Per esempio il poeta
alessandrino scrive per un pubblico raffinato che condivide i suoi gusti. In questi casi chi decifra o
apprezza il testo accede a una conoscenza o un gusto elitari, mentre chi non decifra né apprezza è
escluso da un sapere che, pur essendo privilegio di pochi, ha un valore universalmente umano.
Oltre a servirsi delle forme già esistenti, la poesia moderna sviluppa una forma di oscurità nuova.
Ad esempio se Montale non avesse spiegato gli antefatti e le allusioni di “La speranza di pur
rivederti”, l’ultima strofa sarebbe risultata incomprensibile. In questo caso è possibile decifrare
ogni segmento della poesia ma non la relazione tra le parti. In altri casi di poesia moderna è invece
possibile capire il senso complessivo della poesia ma non le singole immagini. In entrambi i casi il
meccanismo che rende la poesia parzialmente oscura è simile: se la lirica preromantica rimanda di
solito a un sapere o a uno stile pubblici ma comprensibili a pochi, la lirica postromantica è
inintelligibile perché esibisce un modo personale di vedere, di collegare e di deformare le cose.
Potremmo dire che la differenza principale tra l’indecifrabilità antica e moderna è la resistenza alla
parafrasi: quasi sempre possibile per la poesia antica, spesso irrealizzabile per quella moderna, che
spesso può solo sperare in un autocommento del poeta per comprenderne il significato autentico.
La diffusione di questi autocommenti è un sintomo della nuova indecifrabilità: per intendere una
poesia non basta più il possesso di un sapere collettivo, ma bisogna anche conoscere gli aneddoti
che l’autore ha disseminato nel testo.
L’indecifrabilità delle poesie moderne può essere suddivisa, secondo Fortini, in due differenti
modalità:
 l’oscurità: nasce da una deformazione puramente soggettiva del discorso di grado zero
fondato sulla logica diurna e sul senso comune (ne è segno l’uso copioso di metafore).
 la difficoltà: è un enigma provvisorio che la parafrasi può colmare. Il lettore resta
comunque nella condizione di accedere alle notizie cui il poeta fa riferimento.
Naturalmente l’oscurità e la difficoltà non si escludono a vicenda ma sono legate al grado di
competenza del lettore e comunicanti fra loro, come gli estremi di una scala graduata. Se è vero
che entrambe sono sempre esistite (riguardo la difficoltà vedi la poetic diction in età premoderna),
è altrettanto vero che la poesia moderna ha cambiato la loro natura e la loro incidenza, facendo
aumentare la quantità delle allusioni private e la ricerca di immagini insolite. Nell’età delle
avanguardie storica, l’oscurità diventa ancora più profonda e indecifrabile.

Lo spazio letterario della poesia moderna

I contenuti sedimentati
La poesia moderna è uno spazio con un centro e due periferie. Il centro è occupato dalla lirica, le
due periferie sono invece tentativi opposti e speculari di mettere in discussione il primato della
lirica: il long poem narrativo o saggistico su argomenti non autobiografici e la poesia che ambisce
a risolversi in pura forma, in puro suono. Se la differenza principale risiede nel rapporto con
l'autobiografia empirica dell’autore, l’elemento interno ai testi che tiene insieme il territorio del
genere è la natura soggettiva, espressivistica della forma.
Un topos della teoria romantica pone l’antitesi tra imitazione ed espressione. La letteratura,
secondo questo schema, sembra avere due compiti: raccontare il mondo e manifestare i
sentimenti, le idee, il modo di vedere le cose di chi scrive. Il primo impone all’autore di
concentrare l’interesse sulla realtà oggettiva e richiede il medium della prosa, come accade nel
romanzo moderno e nel teatro moderno; il secondo permette a chi scrive di esibire se stesso e
richiede la versificazione, come accade nella lirica.
Queste idee ormai fanno parte del nostro senso comune: oggi la prosa sembra più vicina alla frase
elementare di grado zero; la poesia appare invece una maniera di scrivere anomala, straniata e
perciò adatta a portare l’attenzione del lettore sul modo di rappresentare le cose, oltre che sulle
cose rappresentate stesse. Questa catena di associazioni nasce proprio contemporaneamente allo
sviluppo dei generi letterari moderni, quando la poesia si specializza e diventa medium naturale
della lirica. Prima di allora esisteva una tradizione millenaria di mimesi in versi che affidava al
discorso poetico un ruolo funzionale al contenuto.
Quando il romanzo moderno e il dramma borghese soppiantano la narrativa e il dramma il versi, e
la teoria espressivistica dello stile conquista un’egemonia sul sistema letterario occidentale, l’atto
di andare a capo viene percepito come un modo per distogliere l’interesse dal contenuto oggettivo
e concentrarlo sull’opacità soggettiva della forma: da allora, i testi che accentuano l’originalità
dello stile sono implicitamente egocentrici, perché pongono al centro dell’opera il gesto con cui
l’io dell’autore dà senso alla realtà rappresentandola sotto un aspetto nuovo, e non il significato
immanente alla realtà che la scrittura dovrebbe limitarsi a rivelare. Da quando diventa innaturale
narrare in poesia, non possono più esistere dei versi puramente mimetici.
Oggi anche le poesie antiliriche non sfuggono al lirismo dello stile: per raccontare in forma piana,
oggettiva e trasparente occorre usare la prosa, e solo la prosa. Ogni tipo di scrittura in versi è
diventato opaco; e anche le poesie che si sforzano, narrando o argomentando, di uscire dai confini
della lirica, lo fanno in una forma che appare marcatamente soggettiva. Esiste infatti un
egocentrismo dei contenuti e un egocentrismo della forma: se le poesie dichiaratamente
autobiografiche li assommano, le poesie che si vogliono impersonali negano il primo ma ostentano
il secondo. Mentre il romanziere mimetico vuol farsi mediatore di una storia che in teoria parla da
sola, lo straniamento stilistico è consustanziale alla scrittura in versi moderna: un genere in cui
l’autore conserva una signoria formale assoluta sul discorso, anche quando proclama la pura
impersonalità.
Negli ultimi due secoli, i generi mimetici in prosa hanno rimesso lo scrittore al centro dell’opera in
molti modi, ma sempre abbandonando il verso. Oggi chi entra in libreria sa di trovare gli scaffali
della narrativa tutta scritta in prosa (tranne rarissime eccezioni), e lo scaffale della poesia
prevalentemente lirica. L’epos, il romance e il romanzo in versi sono scomparsi.

Romanticismo lirico
Se la lirica rappresenta il centro attorno al quale il genere si aggrega, un simile nucleo è a sua volta
così sfrangiato ed esteso nel tempo da meritare ulteriori segmentazioni. Potremmo chiamare
l’archetipo di poesia soggettiva che si è imposto negli ultimi secoli romanticismo lirico o lirica
romantica maggiore, così denominata da Meyer H. Abrams per sottolineare la continuità ideale
fra questa forma e l'ode pindarica, chiamata greater ode.
Il testo di una lirica romantica maggiore contiene il monologo di un io poetico individuato che si
muove in in paesaggio individuato e intrattiene un colloquio con se stesso, con un interlocutore
silenzioso o con le cose. Di solito la prima persona incomincia descrivendo il paesaggio e
successivamente si addentra in una riflessione filosofica che la spinge a prendere una decisione
morale. Tra gli autori più significativi del romanticismo lirico troviamo: Coleridge, Shelley, Holderlin
e Leopardi.
Potremmo dire che la lirica romantica maggiore contiene una forma di sicurezza, misuratezza e
integrità:
 la sicurezza con la quale l’io parla di sé, nella convinzione che la sua vita personale abbia un
immediato valore universale, dove il lettore non si identifica in un modello trascendentale,
ma sovrappone il proprio mondo soggettivo al mondo soggettivo del poeta, come se le
esperienze private di quest’ultimo contenessero una verità sulla vita.
 La misuratezza nel bilanciare espressivismo e antiespressivismo, i diritti del talento
individuale e il rispetto di alcune strutture del discorso pubblico, radicate nel senso
comune o nella tradizione: la vera crisi formale esploderà mezzo secolo più tardi e nell’età
delle avanguardie.
 L'integrità: se fra la seconda metà dell’800 e l’età delle avanguardie l’io che parla nella lirica
moderna tende a diventare disarmonico e diviso, la prima persona della poesia romantica
possiede ancora quelle strutture gerarchiche interiori che danno ordine al flusso della
coscienza. L’io poetico di Leopardi, ad esempio nell’Infinito, sa ancora costruire una
struttura razionale.
Nel Novecento, invece, la disintegrazione del soggetto è un fenomeno palese, gli effetti
dell’insicurezza e della dismisura non sono meno evidenti. Le poesie del Novecento hanno infatti
reso abituali dei temi come l’imbarazzo, la vergogna, lo scandalo di scrivere poesie. Si tratta di una
famiglia di temi ricorrenti e declinati in due forme diversi: una euforica ed espressivistica
(Pasolini), l’altra disforica e crepuscolare (quest’ultima la più diffusa in Italia con Gozzano e
Giudici). Potendo parlare in pubblico della propria esperienza, i poeti danno voce all’imbarazzo
che gli intellettuali provano al cospetto di chi lavora per davvero, rendendo innegabile che la
legittimazione della poesia lirica sia un problema per molti scrittori del '900.
Queste poetiche così diverse in realtà distano meno di quanto si possa pensare: sono infatti due
modi opposti di reagire alla perdita di quell’equilibrio che l’archetipo di partenza, la lirica
romantica, riusciva a mantenere. Nella variante espressivistica, esprimere se stessi significa violare
le regole della vita sociale, quasi che l’affermazione di sé e del proprio stile si realizzasse contro il
mondo; nella variante crepuscolare, chi prende la parola sente di non avere il diritto di darsi tanta
importanza.

Espressionismo e crepuscolarismo
Si può dunque descrivere il campo di forze della poesia moderna usando il romanticismo lirico
come termine di paragone, e studiando come cambi la rappresentazione della realtà dell’io a
partire dalla seconda metà dell’800, quando diventa sempre più difficile per un poeta difendere la
sicurezza, la misura e l’integrità immanenti a quell’idea di confessione.
Contemporaneamente alla nascita delle periferie, anche il centro del territorio si rinnova: se i versi
dell’Infinito raccontano con assoluta serietà l’esperienza di un individuo empirico, servendosi di
una dizione piena di elementi personali, ma che non stravolge il senso comune e la tradizione, le
poesie composte dalla seconda metà dell’800 sono già molto diverse (vedi Rimbaud, Whitman,
Ungaretti). Rispetto all’archetipo romantico resta immutato il posto dell’io nel mondo, perché non
c’è dubbio che l’esperienza personale evocata abbia un sicuro significato collettivo; scompare
invece quell’equilibrio fra espressione di sé e compostezza stilistica che la poesia romantica
riusciva a mantenere. Sarà infatti possibile scrivere poesia lirica in versi o in prosa, andare a capo
quando si vuole, usare dei tropi che sovvertono le forme con cui di solito gli uomini danno ordine
al mondo attraverso il linguaggio o stravolgere qualsiasi regola metrica: il talento individuale, pur
di inseguire l’immediatezza, può permettersi di ignorare ogni vincolo condiviso. Mazzoni chiama
questo modo di fare poesia Espressionismo, definendo espressionistica quella forma di mimesi in
cui l’artista si attribuisce il diritto di stravolgere profondamente la forma sensibile della realtà pur
di esprimere se stesso con più forza, a costo di riuscire oscuro e difficile. In questo senso,
l’espressionismo poetico sottopone la mimesis a un forte straniamento soggettivo, ma non
cancella il richiamo alla realtà oggettiva. In Italia, l’espressionismo lirico dilaga nei primi anni del
'900 con l’Allegria di naufragi di Ungaretti.
Oltre che la forma, l’espressionismo lirico influenza anche il contenuto. Benché egocentriche, la
lirica romantica non oltrepassa mai una certa soglia di soggettivismo nella scelta dei temi: di solito
non si lasciano mai andare all’espressione di quei contenuti oscuri e inconsci che invaderanno il
linguaggio mondiale della lirica moderna, ne permettono che il racconto della vita personale
oltrepassi i confini della dignità e del decoro, come invece è normale che accada nella letteratura
del XX secolo. Quando si parla di un evoluzione espressionistica nella poesia soggettiva moderna si
allude quindi a due processi speculari coevi: la conquista dell’anarchia formale e la possibilità di
raccontare parti della vita interiore che la letteratura del primo '800 ignorava, censurava o
confinava nel genere comico.
I poeti crepuscolari, che declinavano il topos della vergogna di scrivere poesie in maniera opposta
agli espressionisti, sembrano accomunati, prima ancora che dallo stile o dai temi, da un
atteggiamento: pur parlando di sé questi autori sanno di occupare un posto marginale nel mondo;
e pur continuando a usare la forma della confessione, finiscono in realtà per svuotarla, dal
momento che le loro esperienze personali non hanno più alcun valore universale. Le loro poesie
sciolgono il significato duplice dell’aggettivo universale: pretendono di parlare a tutti solo perché
ostentano una marginalità che ogni lettore dovrebbe riconoscere come propria. Nasce così una
poesia ancora romantica nelle scritture (un io parla di sé in uno stile espressivistico), ma
antiromantica nello spirito.
Espressionismo e crepuscolarismo sono dunque poetiche speculari: il poeta crepuscolare vive la
propria confessione come una colpa che suscita vergogna ed esige autoironia; il poeta
espressionista come una provocazione. Per entrambi, l’individualismo sicuro, integro e misurato
della grande lirica romantica è ormai irrecuperabile.

Classicismo lirico moderno


Il classicismo lirico moderno può essere inteso come un seguito ideale del romanticismo lirico. E’
però una continuità dinamica e dialettica, che tiene conto di quanto siano cambiate le abitudini
dei poeti dopo il trionfo del talento individuale, e che salva lo spirito della tradizione riscrivendone
la lettera, senza abbandonarsi ad atteggiamenti nostalgici. La lingua di Montale ne è un esempio:
tecnica, concreta e moderna, ma anche scelta ed essenziale: aperta al mondo moderno ma anche
compatta e monostilistica come il lessico della lirica premoderna di registro alto. Nelle poesie che
Montale scrive fra la seconda edizione degli Ossi di seppia (1928) e la Bufera (1956), lo stile
mantiene un legame metrico, sintattico e lessicale con la lirica premoderna di stile tragico, e
l'esperienza quotidiana di una persona empirica possiede ancora un valore cosmico-storico,
proprio come accadeva nel romanticismo lirico.
La continuità dei temi non è rigida ma plastica: lo spirito del grande romanticismo lirico
sopravvive, ma i contenuti si adeguano ai tempi. Lo stile allude a schemi tradizionali senza traccia
di arcaismo esibito, che quindi non presuppone una frattura inconciliabile tra presente e passato.
Il classicismo lirico moderno ha saputo quindi far convivere una continuità con la tradizione
poetica di stile alto e con il grande romanticismo lirico, con un adattamento della tradizione stessa
ai tempi nuovi, evitando di conservare il passato in modo nostalgico o meccanico come è tipico del
manierismo.

Periferie antiliriche: i recuperi dell’oggettività


La storia della poesia moderna include anche tentativi di superare quell’individuazione senza
riserve cui la poesia soggettiva sembra tendere (monologhi di un personaggio individuato che
parla di sé in uno stile che si vuole carico di elementi personali). Mentre l’espressionismo, il
crepuscolarismo e il classicismo moderno rimangono legati alla forma lirica, le periferie del genere
nascono dalla volontà di oltrepassare il nucleo egocentrico di questa forma. Il superamento
avviene in due direzioni speculari e produce risultati opposti:
 da un lato troviamo l’insieme di testi che recuperano contenuti narrativi, riflessivi o teatrali
che scavalcano i limiti dell'autobiografa empirica;
 dall’altro i testi che cercano di spostare l’attenzione del lettore dal senso al suono,
dall’interesse per i contenuti personali al valore dello stile.
Una di queste periferie tende a un recupero dell’oggettività, l’altra, pur proclamando la scomparsa
elocutoria del poeta, finisce per esasperare l’individualismo immanente alla lirica moderna.
Per recuperare l’oggettività, si può agire sia sul contenuto che sulla forma. Agire sul contenuto
significa ritrovare un modo narrativo/saggistico estraneo all'autobiografismo lirico; agire sulla
forma significa fuggire dall’opacità dello stile poetico moderno adottando ad esempio una
scrittura più discorsiva, ma senza abbandonare necessariamente il racconto di aneddoti privati o
opinioni personali.
Benché il centro del genere sia occupato indubbiamente dalle forme soggettive, i poeti antilirici si
sono conquistati un posto di assoluto rilievo nel canone della letteratura moderna. Il più
rappresentativo è T.S. Eliot, che nel corso del '900 ha cercato di rinnovare la scrittura in versi
rifiutando la centralità dell’io, esortando i poeti ad abbandonare il narcisismo lirico per ricercare
forme estranee come i dramatic monologues (vedi The Love Song of J. Alfred Prufrock). Nei primi
anni Trenta del Novecento si dedica a poemetti narrativi dove la trama lineare è rimpiazzata dal
montaggio plurilinguistico di voci, personaggi, situazioni diverse (Terra desolata).
Mutevole ed estesa, questa periferia antilirica si combina con il centro lirico in molti modi.
Peraltro, l’espressivismo stilistico è una componente ineliminabile, a meno che il poeta non
riscopra una versificazione ornamentale di tipo premoderno. Di solito il long poem modernista (o
poemetto italiano) del secondo '900, pur tendendo a uno stile più sciolto di quello lirico, non
abbandona del tutto lo straniamento soggettivo caratteristico della poesia moderna.
Una delle novità più interessanti che tendono a distaccarsi dalla soggettività lirica è la tecnica del
dramatic monologue, tecnica sviluppata da Robert Browning. A dire io, nel monologo
drammatico, è un personaggio storico o d’invenzione che disvela in pubblico il senso del proprio
destino, come in un soliloquio teatrale. Parzialmente affine al monologo drammatico è la “poesia
per interposta persona”, dove a dire io è una specie di maschera (un personaggio che assomiglia al
poeta, ma che non coincide perfettamente con lui, perché ne accentua alcuni tratti caratteriali)
come accade in Caproni.

Periferie antiliriche: la poesia pura


Dall’altra parte dello spazio letterario della poesia moderna, si trova un altra periferia
antiromantica nata con il simbolismo francese attorno all’utopia di una poesia pura. Mallarmè, più
di tutti, ha contribuito a diffondere questo genere periferico nel corso del '900, contraddicendo
costantemente i capisaldi del romanticismo lirico. A suo giudizio, è inutile che i poeti raccontino il
mondo fenomenico o esprimano se stessi con immediatezza: la realtà visibile e gli individui sono
pura contingenza insensata. La vocazione autentica della letteratura è invece orfica e
sovrapersonale: spogliare il linguaggio dall’uso quotidiano e riportarlo a un’ipotetica pienezza
originaria, facendo coincidere forma e contenuto del discorso umano, e descrivendo non gli
accidenti esteriori, ma la “nozione pura” delle cose. Risultato supremo della letteratura è il Livre,
l’inno, come puro insieme raggruppato di qualche circostanza folgorante o delle relazioni fra tutto.
Di fatto, i testi di Mallarmé si distinguono per il rifiuto di ogni immediatezza mimetica o espressiva,
nei contenuti come nella forma, giacché ignorano o sublimano l’accidentalità del quotidiano e
raccontano delle scene d’occasione trasfigurate in allegorie. Queste circostanze folgoranti
implicano l’uso di temi simbolici e la scelta di uno stile antimimetico. Posto che simili momenti
siano la rivelazione di un'idea, lo stile dell’opera dovrà essere la “messa in scena spirituale esatta
di questa rivelazione”; e siccome il linguaggio puro delle essenze, contrariamente al linguaggio
corrotto della comunicazione ordinaria, non distingue tra forma e contenuto, il vero poeta dovrà
sforzarsi di abolire la separazione fra suono e senso che è costitutiva del modo comune di parlare,
raggiungendo quella coincidenza perfetta che è propria della musica.
Uno degli intenti della poesia pura è quindi quello di dissolvere le “parole della tribù” in quel
linguaggio essenziale cui Mallarmè attribuisce significati orfici e collettivi, quasi filo-religiosi.
Da questa poetica discende una lunga tradizione critica che sottolinea il primato del suono sul
senso, della forma sui contenuti. La vera poesia presupporrebbe l’eclissi del poeta che, cedendo
l’iniziativa alle parole, lascia parlare il ritmo dell’idea. In realtà, ciò che però il lettore vede
sfogliando le poesie di Mallarmè è innanzitutto una lirica introversa e solipsistica, nella scelta degli
argomenti come nello stile, rendendo quindi inconcludente il presupposto de-soggettivistico della
poesia pura.
Il simbolismo viene ad essere così l’apoteosi del narcisismo in poesia: comunica infatti un’idea di
mondo totalmente introflessa e un egocentrismo così forte da eliminare l’ultimo residuo di
oggettivazione narrativa che la poesia romantica e postromantica manteneva: la presenza di un
personaggio che racconta o si confessa.
Secondo Hugo Friedrich la lirica moderna elimina non soltanto la persona privata, ma anche la
normale umanità. Nessuna poesia di Mallarmé potrebbe essere interpretata biograficamente, ma
neppure potrebbe essere interpretata come linguaggio di una gioia che tutti conosciamo, di una
malinconia che ognuno comprende poiché ognuno l'ha in sé (disumanizzazione). Mallarmé
perfeziona l'idea, diffusa da Baudelaire in poi, che la fantasia artistica non sia un rappresentare
idealizzante, bensì un deformare la realtà che elimina la presenza dell'io e lascia parlare il
linguaggio.
Il simbolismo viene così ad essere il vero archetipo della poesia oscura, sebbene non sia l’unica
forma estremamente solipsistica che rinuncia a ogni legame con le strutture pubbliche del mondo
della vita, finendo per generare un’oscurità impenetrabile. Infatti, esistono altre forme di
intransività, di egocentrismo senza individuazione che intrattengono con il simbolismo un
rapporto genealogico complesso.
Secondo Fortini esiste una continuità tra il romanticismo orfico, il simbolismo, il futurismo, il
surrealismo e certi esperimenti delle neoavanguardie. Queste tendenze sono accomunate dal
ricorso a una forma autoreferenziale e intransitiva, mimesi di una coscienza oscura.
In sintesi, esistono delle tendenze che, in modi diversi, prolungano la posizione romantica, altre
che cercano di trascenderla e altre che la esasperano:
 classicismo lirico moderno: mantiene la struttura di fondo della poesia soggettiva, ma
trasforma la natura e il peso della prima persona;
 poesia antilirica narrativa: oltrepassa i limiti della lirica moderna recuperando forme
narrative, saggistiche o teatrali estranee alla dizione lirica più intransigente;
 poesia pura: rifiuta la logica dell'Erlebnislyrik, ma comunica una visione del mondo
egocentrica attraverso l'opacità della scrittura.

Il genere egocentrico
I confini della poesia moderna sono dunque molto sfrangiati, ed il genere comprende testi molto
diversi tra loro: poesie liriche, poesie pure che lavorano sul linguaggio, poesie che conservano un
andamento narrativo o argomentato, poesie teatrali, poesie in forma di prosa e, in mezzo, svariati
casi ibridi complessi. Questa complessità di correnti e di tendenze è tenuta insieme da un comune
elemento espressivistico: da quando la prosa è il medium naturale del racconto, da quando la
versificazione non è più un ornamento sovrapposto alla frase di grado 0, ma un linguaggio diverso
o il prodotto di una sensibilità particolare, ogni forma di scrittura in versi e ogni forma di prosa che
voglia distinguersi dal semplice modo ordinario di dire le cose, appaiono cariche di opacità
soggettiva. La poesia moderna sembra dirci che l’interessante risiede nella rappresentazione
straniata della realtà, nelle espressioni di pensieri, sentimenti e stati d’animo individuali, o in un
lavoro sul linguaggio che allontana il linguaggio stesso dal suo uso sociale. In sintesi, una forma
d’arte che, sperando di conseguire l’universale attraverso un’individuazione senza riserve, finisce
in un modo o nell’altro per mettere l’io dello scrittore al centro del mondo rappresentato.
Nessun altro genere è così egocentrico, nel contenuto come nella forma, perché nessun altro
elimina così facilmente i livelli di realtà che oltrepassano l’io, distruggendo i vincoli che la
tradizione e il senso comune pongono all’espressione anarchica di sé (perfino la periferia narrativa
e saggistica non sfugge al lirismo della forma, perché l’unico tipo di scrittura che l’orizzonte
d’attesa moderno giudica servile e trasparente è la prosa di stile semplice, e non certo il racconto
in versi o la prosa poetica carica di figuralità).

Cori invisibili
Quando si dice che la poesia moderna differisce da quella premoderna perché gli autori
conquistano il diritto all’autoespressione, è importante tenere presente che questo non significa
che essi imitino solo se stessi o che rinuncino ad ogni convenzione per scrivere in piena
autonomia.
Quanto più diminuiscono i limiti oggettivi che le consuetudini pongono alla libertà potenziale
dell’artista, tanto più cresce il bisogno di un sostegno corale: il soggettivismo dell’arte moderna è
in realtà un soggettivismo di gruppo. Dopo la conquista del diritto all’originalità, lo spazio
letterario che contiene le correnti è un campo concorrenziale, scosso da continue rivoluzioni e
occupato da gruppi che lottano o negoziano tra loro per la conquista del prestigio e del ricordo, e
chiunque ambisca ad entrare in questo territorio si trova davanti un insieme di possibilità già
fissate che costituiscono una sorta di impalcatura trascendentale. I campi artistici, in altre parole,
non sono dominati da un’anarchia individualistica e caotica, ma da un’anarchia sociale e
organizzata, fatta di gruppi, tendenze, correnti che si spartiscono l’ambito delle possibilità aperte
in una certa epoca.
E’ infine significativo sottolineare che l’estetica dell’originalità ha un valore soprattutto teorico e
negativo: non annuncia la conquista di un’autonomia reale, che è irraggiungibile per chiunque
dipenda dal giudizio altrui, ma solo la conquista del diritto a uscire dal solco della tradizione.
Benché la libertà stilistica concessa a Montale negli anni dieci del '900 sia nettamente più vasta di
quella concessa a Leopardi negli anni dieci dell’800, anche la poesia montaliana non può rimanere
estranea ad una mediazione di un linguaggio sociale: pur vivendo in un’epoca dominata
dall’anomia, l’artista moderno rimane comunque incatenato al territorio dei possibili.

La poesia moderna come forma simbolica


Quale immagine del mondo rappresenta la poesia moderna

L’io e gli attimi


L’immagine del mondo o contenuto spirituale reso sensibile che la poesia moderna rivela al lettore
è senza dubbio di tipo narcisistico, inteso come l’idea che il senso della vita, del piacere, della
felicità non vadano ricercati nel confronto col mondo esterno, ma nell’indipendenza emotiva
ottenuta dal depotenziamento dei rapporti con gli altri e cercando di essere o esprimere se stessi:
un inesplicato bisogno di indipendenza.
Questa visione narcisistica della realtà è attraversata da due faglie profonde:
 l’interruzione della catena sociale, che legherebbe gli individui in sistemi di reciproca
dipendenza interiore ed esteriore;
 l’interruzione della catena cronologica, che legherebbe gli istanti della vita fra loro in una
continuità ideale
L’idealtipo della poesia moderna ci presenta invece un’immagine del mondo opposta all’idea che
la vita acquisti il proprio significato in rapporto alle relazioni interumane o nel senso ricavato dalla
sintesi di un lungo periodo, di una vita intera, ma al contrario ciò che ha veramente significato e
racchiude un senso profondo sono pochissimi attimi epifanici e fulminei. La società moderna,
tramite la poesia degli ultimi due secoli, ci mostra che le dimensioni oggettive della vita non sono
essenziali alla comprensione della realtà, legittimando un estremo individualismo monadico e
rendendo difficile credere che esista una verità ulteriore rispetto alla nostra verità e al nostro
modo di guardare le cose, come invece non accade nelle società che conservano solidi valori
collettivi.

Dialettica dell’espressivismo
Il panorama dell’arte moderna non è un caos di cellule isolate come sembrerebbe in apparenza,
ma uno spazio ordinato percorso da tendenze che lottano tra loro per conquistare prestigio e
memoria.
Paragonata all’autonomia teorica che l’estetica romantica riconosce a ogni artista, l’autonomia
reale che ogni artista moderno si è conquistato risulta piuttosto piccola, e connotata da una
profonda negazione, quella del diritto all’inappartenenza. Le presunte monadi che rivendicano la
la propria originalità e la loro indipendenza sono infatti oggettivamente legate insieme a comporre
sistemi, essendo il loro desiderio di autoespressione plasmato a priori (da strutture
trascendentali), dentro di loro e dopo di loro.
Fare l’artista significa insomma prendere posizione nel territorio delle possibilità aperte, e ciò fa
capire che, sebbene si pensava fosse tendenzialmente destinata a sparire dopo l’avvento della
poesia moderna, l’imitazione di opere o individui, precursori o coetanei, a cui è stato conferito un
valore sicuro acquista un valore ancora più significativo proprio nel periodo moderno, epoca in cui
non esiste più un canone universale ma moltissime correnti prive di una legittimazione che non
riposti sul fragile consenso di un gruppo ristretto. In età moderna, l’imitazione acquista quindi un
significato ambivalente: può rappresentare angoscia nel momento in cui occupa il terreno dei
possibili restringendo quindi il numero delle possibilità, ma anche aiutare l’io a conquistarsi
un’identità riconosciuta.

Poesia e canzoni
E’ innegabile che nell’ultimo secolo e mezzo il genere che definiamo come poesia moderna si sia
rivolto a un pubblico ristrettissimo, composto per lo più da poeti o aspiranti poeti. Oggi l’arte di cui
parliamo è una forma di scrittura sempre più autoreferenziale, priva di lettori che non ambiscano a
diventare scrittori a loro volta. E’ evidente che il genere sia segnato da una netta crisi strutturale,
dovuta probabilmente a una perdita di contatto sempre più grande con un fondamento pubblico
condiviso, perdendo così una legittimazione collettiva.
Le arti acquistano un peso collettivo in virtù di un meccanismo che coinvolge le figure dei creatori,
dei commentatori e degli spettatori: l’opera degli artisti viene commentata dagli esperti e
raggiunge il pubblico medio. Quando però questo meccanismo si sfalda, quando cioè l’opera dei
creatori non incontra più il consenso popolare o quando l’autorità dei commentatori perde
significato, il sistema collassa nella pura anarchia: il campo della poesia, durante gli ultimi decenni,
si è avvicinato molto a questa forma di implosione, entrando in una fase di decadenza irreversibile.
Negli ultimi anni è diventato chiaro che la crisi della poesia moderna non lascia uno spazio vuoto
dietro di sé, ma si accompagna al trionfo del suo “elemento musale” o nucleo profondo. Oggi
l’elemento musale della poesia dilaga soprattutto perché si incarna in una forma d’arte che, nata
nell’ambito della comunicazione di massa, sta conquistando una dignità culturale alta: la canzone.
Il legame tra poesia e canzone è meno banale o degradante di quanto sembri: anche la canzone
contiene quell’autobiografismo empirico o trascendentale tipico della lirica moderna, e riscopre
addirittura delle forme abbandonate dall’ultima poetica come il legame con la musica. Inoltre, la
canzone evidenzia l’originaria natura corale della lirica, che si fa evidente nell’evento del concerto
rock. Il loro rapporto è quindi sia di tipo archeologico che figurale.

Antropologia poetica moderna


Il primo contenuto che si sedimenta nelle poesie moderne è, ovviamente, l’immagine della natura
umana che queste opere rimandano al lettore. Osservando l’evoluzione della poesia moderna,
dall’età romantica ad oggi, è possibile cogliere delle differenze significative di tipo antropologico,
che riguardano quindi il diverso ruolo del poeta e il cambiamento dei suoi valori nel corso delle
epoche.
Se i primi grandi testi della poesia moderna ci colpiscono per la sicurezza, l’integrità e la misura
che il personaggio poetico dimostra quando prende la parola, parlando come se avesse un
pubblico invisibile pronto ad ascoltare; le opere degli autori dell’ultimo secolo e mezzo sono
invece segnate da un netto conflitto col coro sociale invisibile e con la tradizione. Inoltre, il
personaggio poetico neocrepuscolare ostenta la propria marginalità; il personaggio teatrale
trasforma il monologo in una recita, quello espressionista non mette alcun limite alla confessione
di sé, imprigionando il poeta in una sorta di solitudine privata estranea all’epoca romantica.
Ciò evidenzia che nell’ultimo secolo e mezzo il poeta non ha più una legittimazione collettiva; che
non può più attribuire con certezza valore universale alle proprie vicende; che il suo posto nel
mondo non è più lo stesso. Le qualità della persona romantica e i suoi valori, come il
disciplinamento delle passioni o la trasparenza a se stesso e agli altri, sono ormai inattuali e
sostituite da altre che propongono idee dell’uomo e del suo posto nel mondo molto diverse.
E’ però importante tenere presente che se per molto tempo la poesia moderna ha riflettuto una
visione coerente dell’uomo del suo tempo, il genere sembra aver perso progressivamente la
propria autorevolezza, essendo diventati i poeti sempre più emarginati ed isolati socialmente. Ciò
rende difficile sostenere che la scrittura in versi rifletta una versione umana universalmente
condivisibile, al contrario di quanto si potrebbe affermare per la canzone pop o rock, in cui un
vastissimo pubblico si riconosce.

Le monadi e i sistemi
Nel paragrafo conclusivo, Mazzoni evidenzia quanto il genere letterario della poesia moderna
metta in luce aspetti presenti nella storia e nella società recenti, riproponendo la citazione di
Adorno: “le forme dell’arte registrano la storia degli uomini con più esattezza dei documenti”.
I livelli ermeneutici/interpretativi proposti sono quattro:
 mimetico: la prima persona che risuona nella poesia moderna non è il riflesso di
un’identità collettiva, ma un io individuato che vive esperienze personali e soggettive. La
poesia moderna, come la moderna canzone rock, ci mostra che la verità si trova in
esperienze asociali, in attimi isolati;
 culturale: modello esemplare di soggettivismo, la logica della poesia moderna aiuta a
capire la logica della cultura contemporanea, sospesa fra l’imperativo etico dell’oggettività
scientifica e la pulsione estetica dell’autoespressione. (es. saggistica che negli ultimi anni si
è allontanata da un tono impersonale del trattato e avvicinata alla letteratura creativa);
 esistenziale: la poesia moderna funziona come idealtipo di comportamenti sociali
governati da dinamiche molto vicine a quelle che governano il comportamento sociale dei
poeti. La direzione è in entrambi i casi verso la ricerca di uno stile di vita personale.
 allegorica: il pullulare di monadi che hanno conquistato il diritto all’inappartenenza e
tendono ad uno scopo puramente individuale, prive di una tradizione stabile, ma inserite in
un piccolo sistema dal quale dipendono la loro identità e soddisfazione, rappresenta una
straordinaria allegoria della vita odierna.

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