I Disegni Letterari di Leopardi, ossia 14 appunti preparatori scritti tra il 1819 e il 1834, mettono in
luce la topografia dello spazio letterario (insieme delle opere che uno scrittore di un’epoca ritiene
ragionevole scrivere) di uno scrittore italiano di quel ceto sociale e di quell’epoca.
Ciò che colpisce dei Disegni Letterari è la loro assoluta dissonanza ed eterogeneità, in essi
troviamo infatti il progetto per un romanzo dell’eroe intellettuale sul modello di Werther e quello
per un epica in prosa; un romanzo su una monaca e biografie scritte a imitazione di Plutarco e
Tacito.
Questo perché i Disegni Letterari registrano il momento in cui uno spazio letterario nuovo si
affianca ad un altro dalla tradizione millenaria, e Leopardi pensava ancora fosse possibile muoversi
in entrambi.
Mazzoni recupera poi un passo di Walter Benjamin, dove il filosofo accosta il divenire delle forme
epiche all’evoluzione della superficie terrestre nel corso delle ere geologiche, con lo scopo di
evidenziare la lentezza delle trasformazioni letterarie tanto da essere quasi impercettibili. Allo
stesso modo è altrettanto vero che talvolta i movimenti di lunga durata progrediscono con
lentezza per secoli e poi sfociano in terremoti improvvisi.
In questo passo Benjamin sembra inoltre suggerire che le strutture della narrativa, ed in generale i
materiali estetici, riflettono sulle lunghe permanenze: infatti le grandi forme artistiche sono
longeve perché esprimono le trasformazioni profonde della storia umana. L’arte dà un aspetto
sensibile alle permanenze e alle rotture radicali, proprio come la superficie terrestre fa col tempo
geologico. Le forme dell’arte registrano la storia degli uomini con più esattezza dei documenti.
Forme simboliche
E’ possibile concepire le forme dell’arte e quindi i generi letterari come forme simboliche: essi,
secondo la prospettiva di Panofsky, rappresentano un segno sensibile, concreto, che rimanda a un
contenuto spirituale. I generi rappresentano in forma plastica una certa visione del mondo,
sensibilizzando lo spirituale, per destinarlo ad un certo pubblico. La loro nascita, morte,
metamorfosi corrisponde alla stessa di una certa visione della realtà e dei ceti che vi si
riconoscono.
I generi hanno inoltre la funzione di ordinare lo spazio letterario di uno scrittore: sceglierne uno
invece che un altro significa adottare una certa immagine del mondo, un pubblico, un rapporto
con il passato.
Lo storico percepisce i generi come forme simboliche, lo scrittore invece come strutture
trascendentali.
La svolta rinascimentale
La categoria unitaria di lirica e il sistema moderno dei generi si affermano intorno alla metà del
'500 in Italia. A introdurli in modo inequivocabile fu Minturno, che nei trattati De poeta e L’arte
poetica propose per la prima volta la distinzione fra epica, scenica e melica (o lirica), cercando di
interpretare le forme minori come varianti delle tre grandi categorie principali. L’idea che i
componimenti in versi di argomento soggettivo appartengano a un grande genere sintetico (lirica)
esisteva già da qualche decennio, cioè dalla prima metà del '500, e si diffuse nella seconda metà
dello stesso secolo. A prova di ciò cito i Discorsi dell’arte poetica di Tasso (1560) e la Poetica
d’Aristotele vulgarizzata e sposta di Castelvetro (1570), in cui è data per scontata l'esistenza della
lirica.
Nelle poetiche del secondo '500, l’identità della nuova classe si definisce secondo i principi dei
teorici antichi, autorità indiscusse in ambito rinascimentale. La tripartizione apparentemente
moderna di Minturno nasce in realtà da un criterio aristotelico, cioè dall’analisi dei mezzi che il
poeta usa per mimare la realtà: l’epica ha bisogno solo della parola, la scenica si serve della
rappresentazione teatrale, la lirica della parola accompagnata dal ballo e dal canto. Ma la
legittimazione della lirica attraverso la musica, che pur consentiva di appoggiarsi agli antichi, non
rendeva conto del concetto di lirica che il letterato medio aveva a metà del '500: poesie scritte per
la lettura silenziosa, a cominciare dal Canzoniere di Petrarca. Per molti, ciò che teneva insieme le
poesie liriche non era tanto il legame antico con il canto, ma quella capacità di evocare affetti
dell’animo, sui quali anche Minturno si soffermava a lungo.
Il problema era che i testi poetici antichi non offrivano appigli per sviluppare questa posizione: le
categorie aristoteliche, ad esempio, non consideravano minimamente le poesie private e brevi. In
sintesi, le difficoltà che la poetica classica opponeva alla nuova teoria lirica erano tre:
in un passo della Poetica di Aristotele, è espressamente detto che “il poeta deve parlare
quanto meno possibile in prima persona, perché, in questo modo, non imita”;
la tassonomia antica insiste sulle differenze tra le poesie brevi, rendendo difficile il loro
raggruppamento sotto un unico genere;
la poetica antica sostiene che l’argomento della mimesis verbale sono le azioni visibili, le
gesta che avvengono nello spazio pubblico, non i pensieri o le passioni private.
Il discorso estetico cinquecentesco, fortemente influenzato dalle regole desunte dai testi canonici
della poesia antica, si trova in difficoltà nel legittimare l’esistenza di una forma specializzata nella
rappresentazione degli affetti usando le idee ereditate dalla cultura classica.
D’altro canto, sarebbe assurdo ai loro occhi togliere il titolo di poeta a Petrarca, sebbene nel
sistema tassonomico classicistico non ci fosse spazio per un opera come il Canzoniere.
Ecco perché la categoria moderna di lirica nasce proprio nel '500 e proprio in Italia: l’invenzione di
un nuovo genere allargato, da porre accanto alla poesia epica e drammatica, fu il tentativo
raffinato di risolvere un conflitto tra autorità che rischiava di lacerare l’unità della cultura
letteraria. Occorreva quindi trovare il modo di conciliare due modelli entrambi assoluti,
mantenendosi fedeli a Platone e Aristotele, ma discostandosi da certe conclusioni. Se si fosse
trattato di un'altra opera meno importante, i contemporanei l’avrebbero sicuramente espulsa dal
canone, ma l’autorità di Petrarca era così grande da esigere un compromesso, e il compromesso fu
l’invenzione della poesia lirica come genere unitario grazie al peso che Il Canzoniere aveva nella
più importante letteratura europea.
Come aggirare le difficoltà di coincidenza del Canzoniere con la normativa classica? La prima di
queste fu risolta rapidamente: ai testi della Poetica e della Repubblica che negano il titolo di
imitatore a chi parla in prima persona, vennero accostati altri passi in cui si sosteneva la tesi
opposta. Fu invece più difficile contrastare la teoria classica dei generi, decisamente ostile a
un’opera come quella di Petrarca, in cui convivono metri diversi e temi diversi, e in cui l’unità
complessiva è assicurata solo dall’unità dell’io che scrive. I letterati rinascimentali, a fronte di ciò,
cercarono di attribuire dei significati completamente nuovi alle categorie ereditate nel tentativo di
conciliarle con l’attualità.
La difficoltà principale fu però quella di far conciliare l’idea moderna di lirica con la teoria della
poesia come mimesis di azioni, idea su cui poggiava il sistema ereditato dalla cultura greca e latina.
Da qui il dubbio che il nuovo genere non sia degno del nome di Poesia, e non meriti di figurare
accanto all’epica e al dramma come forma canonica perfetta.
Il modo più comune di aggirare la lettera di Aristotele era quello di sostenere che il racconto di
azioni è la specie di un genere più ampio, comprendente l’imitazione degli affetti oltre che
appunto quello delle gesta, dei discorsi e delle cose sensibili: l’epica, la tragedia e la commedia
rappresenterebbero l’agire degli uomini, la lirica le loro passioni, ma la logica mimetica
persisterebbe in ognuno dei tre.
Tuttavia certe liriche erano così estranee alla mimesis che a qualcuno non bastò inventare la
categoria di imitazione degli affetti per conciliare l’autorità classica con quella di Petrarca: per
rispondere davvero alle obiezioni era necessario cambiare i concetti e le parole. E’ quanto
tentarono di fare Scaligero, Tasso e Sassetti con le loro argomentazioni che diverranno in futuro
luogo comune: mentre il poeta epico e il poeta drammatico rappresentano un evento esterno che
preesiste alla rappresentazione, il poeta lirico esprime un contenuto tutto mentale. Irriconoscibile
agli schemi della mimesis, la lirica può essere compresa solamente alla luce del concetto di
espressione dell'animo.
Scritto nel 1819, fu incluso nella serie di testi pubblicati nel 1825 sul “Nuovo Ricoglitore” col titolo
di “Idilli”. Oltre all’Infinito, ne facevano parte quelle poesie che saranno poi La sera del dì di festa,
Alla luna, Il sogno, Odi, Melisso, La vita solitaria. Ripubblicati, sempre come Idilli, nel volume dei
Versi uscito a Bologna nel 1826, questi componimenti entreranno nel libro dei Canti fin dalla prima
edizione fiorentina del 1831.
Le interpretazioni
Nessuna poesia italiana dell'800 ha attratto così tanti interpreti. Molti di loro sono rimasti colpiti
dal fatto che Leopardi sembri evocare l’esperienza di cui parla piuttosto che trascriverla in forma
logica: Fubini parla ad esempio dell’Infinito come poesia dove il lavoro dell’immaginazione viene
rappresentato con immediatezza e singolare novità, come di chi scopre un’inesplorata regione
dell’animo. Dalla lettura di Fubini e di numerosi altri critici (es. Blasucci e Brioschi), le liriche dei
Canti sarebbero quindi crudelmente autobiografiche e pienamente autoespressive, come
rivelerebbero le strutture formali:
la sintassi, che sembra seguire i dettami del sentimento;
il metro, che trasgredisce le regole della forma-canzone
il lessico semplice, che esprime l'ineffabile tumulto interiore, discostandosi dal lessico
poeticamente consueto
L’originalità di Leopardi starebbe secondo Brioschi quindi nell’aver legato insieme lirica ed
esperienza, stile e interiorità, letteratura e vita privata. Non a caso tutti gli interpreti si soffermano
su questa natura autobiografica e autoespressiva del testo; paragonando lo stile evocativo
dell’Infinito allo stile logico-razionale di altre poesia, come quelle del Petrarca, come esempio di
natura opposta all'artificio. La poesia non rappresenta un’emozione, ma ne è un equivalente.
Stile ed espressione di sé
La critica leopardiana interpreta generalmente l’Infinito come lirica la cui forma rispecchia alla
lettera la voce immediata del sentimento (il conflitto tra metro e sintassi, la scelta del lessico, l’uso
del presente). Mazzoni, con un riflessione acuta, sottolinea però che certi segni di immediatezza
fanno invece parte di un sistema formale ancora largamente mediato dalle convenzioni. Anche
quando si distacca dal lessico arcadico o petrarchesco, Leopardi si serve di un vocabolario poetico
ampiamente tradizionale che si discosta ampiamente dal grado zero del discorso comunicativo: è
difficile che si possa essere immediati quando si scrive <il guardo esclude> o <io nel pensier mi
fingo>.
Altrettanto mediata è la tecnica di composizione delle poesie, visto che Leopardi solitamente
scriveva una prima stesura in prosa e poi verseggiava a freddo, secondo un modo di procedere
lontano dall’idea dello stile come espressione spontanea di sé (è noto che Leopardi avesse già
parlato dell’Infinito nello Zibaldone e negli appunti presi per la stesura di un romanzo
autobiografico).
La sintassi usata nell’Infinito risulta esponenzialmente più complessa rispetto agli appunti in prosa
corrispondenti, perché è impossibile, nel 1819, che una lirica italiana di tono serio sia scritta come
un accumulo di pensieri, a differenza del secolo successivo dove sarebbe stato normalissimo
utilizzare uno stilema simile in poesia.
Inoltre, perché mai un io infiammato dal sentimento avrebbe bisogno di scrivere in endecasillabi
canonici?
Stesso discorso si può fare per i Sepolcri di Foscolo: infatti le transizioni ardite del testo lavorano
ancora su un lessico compattamente classicistico e su una sintassi complicata e latineggiante.
E’ innegabile che, solamente un secolo dopo l’Infinito, i testi lirici come quelli di Ungaretti
combacino in maniera decisamente più precisa a ciò che definiamo oggi come poesia lirica
moderna: perché la lirica sia davvero “voce di dentro” occorre che il poeta esca dalle convenzioni e
conquisti una piena libertà lessicale, metrica, sintattica e retorica. La rivoluzione della poesia
moderna, in altre parole, non è un cambiamento istantaneo, ma un processo che comincia dalla
poetica e che si estende alla pratica per tappe successive, durante una metamorfosi che attraversa
tutto l’Ottocento e termina solo con l’età delle avanguardie storiche, quando i poeti conquistano
davvero quella possibilità di esprimersi liberamente che le poetiche romantiche invocavano, ma
che le poesie degli stessi anni raggiunsero solo in parte.
Nell’Infinito si possono quindi cogliere i primi segni di una trasformazione che cambia lo stile della
poesia europea: in certi passaggi la forma di questo idillio sembra coincidere all’esperienza che
viene messa sulla pagina ma, nonostante ciò, le novità dell’Infinito restano mescolate a elementi
del tutto tradizionali che verranno messi da parte solamente un secolo più tardi.
Il lessico
La prefazione alle Lyrical Ballads di Wordsworth annuncia un cambiamento che tocca tutte le
letterature d’Europa e che sovverte una consuetudine secolare: per la prima volta la scrittura in
versi fa a meno di un linguaggio separato a priori dal vocabolario comune: la poesia non è più un
codice speciale. Decade per sempre l’idea che il vocabolario della poesia debba distinguersi da
quello della prosa.
In Italia questa rivoluzione si manifesta lentamente e con violenza. Nel nostro sistema letterario la
regola della divisione degli stili è stata applicata rigidamente, e la distanza tra i generi di stile alto,
seri ma distanti dalla prosa della vita quotidiana, e i generi di stile basso, aperti alla contingenza
ma condannati a rimanere nel registro comico, è rimasta per secoli incolmabile.
La lirica italiana di stile alto, come si sa, subisce per molto tempo l'influenza del vocabolario
petrarchesco, ristretto, sublimante e censorio. La norma secondo la quale la poesia seria deve
distaccarsi dal contingente e dall’ordinario ha conosciuto pochissime eccezioni, almeno fino all’età
barocca (1600), quando Marino (1569-1625) e i marinisti introdussero per primi gli oggetti
quotidiani nel lessico della lirica alta in maniera copiosa (es. pollami, vermi). Il contesto in cui
compaiono questi termini è però quasi mai descrittivo, ma quasi sempre emblematico/allegorico:
il poeta barocco, in generale, non usa termini del lessico comune per inserire nella poesia un
dettaglio di realtà che indica solo se stesso. Al contrario, il poeta moderno può chiamare gli oggetti
col loro nome semplicemente perché certi oggetti esistono, e metterli nella poesia con i verba
propria e con l’intenzione di significarli direttamente senza alcuna mediazione.
Se la lirica barocca trasmette alla poesia successiva le tecniche che consentono di accogliere le
parole d’uso quotidiano o settoriale senza ledere il tessuto della forma, la letteratura del '700
imita questi procedimenti e compensa l’immissione di parole prosaiche con l’aumento
dell’ornamento. Emblematico , a questo proposito, il lessico del Parini lirico che include sì termini
prosaici, ma sempre abbelliti da ornamenti (es. polmone diventa polmon capace). Quando non
intervengono epiteti (accostamento di un aggettivo che caratterizza il sostantivo) o troncamenti,
interviene la metrica e la sintassi difficile e contorta a ristabilire il decoro della forma.
Poeti nuovi per contenuto e scelte sintattiche, Foscolo e Leopardi credono ancora fermamente
nella poetic diction, tantoché nessuna delle loro composizioni in versi si discosta dal linguaggio
della tradizione.
Leopardi sottolinea nello Zibaldone che la bellezza è nemica della precisione prosaica, la poesia si
servirà quindi di parole cariche di significati semantici indiretti, e non di termini precisi nel loro
significato nudo e arido. Siccome la bellezza è nemica della precisione prosaica, la poesia dovrebbe
servirsi secondo Leopardi di parole, non di termini; il suo linguaggio dovrebbe quindi essere antico,
convenzionale e indeterminato. Seppur sembri una posizione arretrata e regressiva, la scelta di
Leopardi mette in evidenza una logica assolutamente moderna: la poetic diction che egli difende
non rappresenta ai suoi occhi una sorta di seconda natura della poesia, ma già una convenzione,
una scelta libera esattamente come sarebbe quella di usare un lessico prosaico.
In realtà, questa difesa classicistica si concilia male con la teoria della lirica che Leopardi elabora
nello Zibaldone dal 1826 in poi. E’ come se la sua opera fosse presa da due tendenze opposte: una
romantica, che lo porta a fare del contenuto della sua opera una vera e propria autobiografia
empirica, e un’altra classicistica, che lo spinge a restare fedele alle norme ereditate.
Ma la libertà di scegliere le parole è immanente alla poetica romantica: una lirica fondata sulla
confessione, sull’espressione di sé, sull’esibizione della vita empirica, e tutto ciò, presto o tardi,
porrà fine all’uso del lessico antico della poesia. La nuova poesia, come si legge nelle Lyrical
Ballads, vuole distinguersi dalla prosa e dai discorsi comuni non perché si serva di un linguaggio
diverso, ma perché stravolge il discorso ordinario caricandolo di passione.
In Italia, la poetic diction della lirica seria si sfalda completamente con Pascoli (secondo '800), che
immette nel lessico della lirica una quantità enorme di linguaggio quotidiano o settoriale,
nominando la contingenza con una precisione inedita: per la prima volta il linguaggio della poesia
non si distingue da quello della prosa. Eppure questo cambiamento decisivo rimane incompleto in
un aspetto essenziale: Pascoli viola la poetic diction, ma non abbandona completamente il lessico
poetico della tradizione, continuando ad accostare le parole prosaiche e quotidiane alle vecchie
forme arcaiche, come se queste ultime fossero ancora un registro d’uso comune, e non un fossile
linguistico (vedi Myricae).
In realtà, la poetic diction italiana muore davvero solo quando i poeti avvertono che il lessico
tradizionale è un codice in disuso, da evitare o da adoperare solo in base a una scelta poetica
precisa. Perché questo processo si concluda occorre attendere i primi anni del Novecento. Solo
allora la poesia italiana potrà dirsi libera dalla poetic diction premoderna.
La sintassi
E’ possibile definire la sintassi adottata dalla poesia premoderna come pubblica e regolare: il testo
non è un soliloquio che l’io rivolge a se stesso, ma un discorso che rispetta le norme grammaticali
della comunicazione collettiva, come se fosse di fronte a una platea invisibile e avesse una natura
teatrale o oratoria.
La letteratura degli ultimi secoli ha invece insegnato ai suoi lettori che la struttura originaria del
pensiero è pregrammaticale: segue cioè una sintassi privata e irregolare la cui forma estrema è il
monologo interiore. La sintassi (la dispositio delle parti) di un componimento come “Di pensier in
pensier, di monte in monte” del Canzoniere di Petrarca, segue un ordine logico: nei primi versi
colui che parla enuncia la propria condizione, nei versi successivi svolgendo quanto è implicito
nell’inizio, descrive gli effetti dell’inquietudine che lo agita.
Nella “Speranza di pure rivederti” di Montale il passaggio dalla seconda alla terza strofa risulta
invece incomprensibile in termini logici: a una sintassi del periodo pienamente grammaticale si
contrappone infatti una sintassi del componimento che segue catene associative private. La poesia
contemporanea ci ha abituato infatti a leggere testi estranei alle regole della comunicazione
pubblica. Chiunque si cimenti nell’esercizio della parafrasi, capisce che ogni tentativo risulta
destinato all'approssimazione, perché la sintassi non obbedisce a regole pubbliche e oratorie, ma
private e mentali. L’architettura delle frasi e il senso del componimento si lasciano intuire, ma non
si fanno ridurre alla grammatica e alla logica.
Mazzoni sostiene che non esistano esempi di sintassi privata anteriori all’epoca di Foscolo e
Leopardi: non è possibile individuare prima della seconda metà del '700 delle poesie costruite su
una logica associativa estranea alle regole del discorso pubblico, né per quanto attiene alla forma
delle frasi, né per quanto attiene alla forma del componimento.
In Italia Foscolo e Leopardi rimangono comunque fedeli alla poetic diction, ma rinnovano la
dispositio dei componimenti e il periodare della lirica. Leopardi è forse il primo poeta italiano a
esibire, nei suoi testi più innovativi, una sintassi che segue in parte le onde associative del
pensiero.
L’evoluzione era destinata a proseguire ben oltre il grado di libertà conquistato da Leopardi. Anche
in questo caso Pascoli è un poeta rivoluzionario nel virare verso una sintassi puramente privata e
mentale. Nelle poesie di Leopardi, invece, lo slittamento dalla sintassi pubblica a quella privata si
ferma sempre prima che il discorso diventi un monologo interiore: la sintassi è ancora tendente al
modello teatrale in cui l’eroe, pur fingendo di parlare da solo, deve comunque farsi capire bene da
chi lo ascolta e spiegare interamente ciò che pensa.
Il movimento progressivo verso la sintassi mentale si ferma solo quando i poeti arrivano ad
associare le parole in totale autonomia, cioè quando possono scrivere le frasi in forma di stream of
consciousness e disporre liberamente le parti del testo senza seguire un ordine argomentativo o
narrativo, affidandosi ad analogie inconsce o a un montaggio cosciente ma del tutto soggettivo.
Come la crisi del lessico poetico tradizionale, anche la crisi della dispositio pubblica si consuma
definitivamente durante l’età delle prime avanguardie. Nelle poesie dei futuristi lo
sperimentalismo sintattico prende una forma vistosa, ma basta leggere gli scrittori italiani degli
anni dieci che, anche quando scelgono di moderare l’autonomia che lo spazio letterario concede
loro, sanno ormai di poter comporre delle frasi governate da una logica interamente personale.
La metrica (La teoria e la pratica della versificazione, dal punto di vista tecnico e storico)
L’effetto più clamoroso della poetica romantica è probabilmente l’invenzione del verso libero. Un
principio costitutivo della letteratura premoderna vuole che la scrittura in versi si distingua dal
discorso ordinario in virtù della norma metrica: perfino i generi più simili alla prosa conservano
sempre questo elemento di separazione. Che il rispetto del metro non basti a garantire che un
componimento sia vera poesia è un principio ben noto anche alla cultura antica, come scrisse
Aristotele nella Poetica. Tuttavia l’estetica antica non concepisce l’esistenza di una poesia
“poetica” refrattaria alle leggi del metro, cioè a una misura fissa, pubblica e concordata.
Qualunque sia il tipo di schema, tutti devono sapere com’è fatto un verso e quando si va a capo:
all’interno di una logica simile, le due più grandi rivoluzioni della prosodia (studio del ritmo)
moderna, il verso libero e il poeme en prose, sono semplicemente inconcepibili.
Questo principio millenario comincia a vacillare già nella seconda metà del Settecento: se la poesia
è espressione immediata di sé, non si vede perché la metrica regolare debba comunicare le
passioni meglio della prosa ritmica o meglio di una poesia che, ignorando la norma del metro,
segua il ritmo interno del poeta.
La teoria classica e quella moderna sono divise da una variante significativa:
• per la cultura greca e latina, e per le culture classicistiche che fino alla seconda metà del
Settecento continuano a riscrivere i concetti antichi, merita il nome di poeta solo colui che,
rispettando un apparato di abitudini tradizionali, sa rappresentare le azioni, i discorsi e i
caratteri delle persone: in breve, chi è capace di mimesis; mentre chi si limita a mettere in
versi regolari qualcosa di antimimetico deve essere chiamato in un altro modo.
• dalla seconda metà del Settecento, al contrario, chiunque sappia esprimere se stesso in
modo originale e significativo deve essere chiamato poeta: nella logica di questo nuovo
discorso, il metro rappresenta una convenzione ereditata che l’artista può accettare o
rifiutare liberamente in totale autonomia.
E’ innegabile che il metro irrigidisca i ritmi naturali del discorso ispirato, comprimendoli dentro una
misura convenzionale. Anche Leopardi, nonostante il suo classicismo è ben lontano dal credere
che il metro sia una necessità, come si legge in una pagina dello Zibaldone, dove egli dichiara che
la poesia, di per se stessa, non è legata al verso.
L’espressivismo romantico annuncia una rivoluzione metrica che dilaga nella prassi letteraria
quando si affermano definitivamente i due generi che accompagnano il tramonto della prosodia
tradizionale intorno alla seconda metà dell'800: il poeme en prose e la poesia in versi liberi.
L’altro effetto della rivoluzione metrica moderna, dopo il cambiamento dell’orizzonte d’attesa
degli scrittori e dei lettori verso una poesia che non è più mimesis, né naturalmente legata al
metro (e quindi può essere anche in prosa), è il dilagare del verso libero anche nelle letterature
che, in epoca romantica, non avevano conosciuto un allentamento degli schemi prosodici (poesia
inglese, francese, spagnola, russa).
Di solito si attribuisce l’origine del verso libero italiano a Lucini, che negli anni '90 dell'800 praticò
costantemente la violazione delle regole metriche.
In conclusione, caduto anche il più importante residuo tecnico della poesia ovvero la gabbia
metrica, l’autore può davvero, almeno in teoria, esprimersi autonomamente, come se il suo stile
fosse un fatto di pura visione. Questo trionfo del talento individuale sulla tradizione allude a una
metamorfosi profonda e riflette quel bisogno di individualità che contraddistingue il mondo
moderno.
Anche in questo caso, il movimento verso l’individuazione senza riserve, cominciata col
romanticismo, attraversa l'800 e si realizza nell’età delle avanguardie.
I contenuti sedimentati
La poesia moderna è uno spazio con un centro e due periferie. Il centro è occupato dalla lirica, le
due periferie sono invece tentativi opposti e speculari di mettere in discussione il primato della
lirica: il long poem narrativo o saggistico su argomenti non autobiografici e la poesia che ambisce
a risolversi in pura forma, in puro suono. Se la differenza principale risiede nel rapporto con
l'autobiografia empirica dell’autore, l’elemento interno ai testi che tiene insieme il territorio del
genere è la natura soggettiva, espressivistica della forma.
Un topos della teoria romantica pone l’antitesi tra imitazione ed espressione. La letteratura,
secondo questo schema, sembra avere due compiti: raccontare il mondo e manifestare i
sentimenti, le idee, il modo di vedere le cose di chi scrive. Il primo impone all’autore di
concentrare l’interesse sulla realtà oggettiva e richiede il medium della prosa, come accade nel
romanzo moderno e nel teatro moderno; il secondo permette a chi scrive di esibire se stesso e
richiede la versificazione, come accade nella lirica.
Queste idee ormai fanno parte del nostro senso comune: oggi la prosa sembra più vicina alla frase
elementare di grado zero; la poesia appare invece una maniera di scrivere anomala, straniata e
perciò adatta a portare l’attenzione del lettore sul modo di rappresentare le cose, oltre che sulle
cose rappresentate stesse. Questa catena di associazioni nasce proprio contemporaneamente allo
sviluppo dei generi letterari moderni, quando la poesia si specializza e diventa medium naturale
della lirica. Prima di allora esisteva una tradizione millenaria di mimesi in versi che affidava al
discorso poetico un ruolo funzionale al contenuto.
Quando il romanzo moderno e il dramma borghese soppiantano la narrativa e il dramma il versi, e
la teoria espressivistica dello stile conquista un’egemonia sul sistema letterario occidentale, l’atto
di andare a capo viene percepito come un modo per distogliere l’interesse dal contenuto oggettivo
e concentrarlo sull’opacità soggettiva della forma: da allora, i testi che accentuano l’originalità
dello stile sono implicitamente egocentrici, perché pongono al centro dell’opera il gesto con cui
l’io dell’autore dà senso alla realtà rappresentandola sotto un aspetto nuovo, e non il significato
immanente alla realtà che la scrittura dovrebbe limitarsi a rivelare. Da quando diventa innaturale
narrare in poesia, non possono più esistere dei versi puramente mimetici.
Oggi anche le poesie antiliriche non sfuggono al lirismo dello stile: per raccontare in forma piana,
oggettiva e trasparente occorre usare la prosa, e solo la prosa. Ogni tipo di scrittura in versi è
diventato opaco; e anche le poesie che si sforzano, narrando o argomentando, di uscire dai confini
della lirica, lo fanno in una forma che appare marcatamente soggettiva. Esiste infatti un
egocentrismo dei contenuti e un egocentrismo della forma: se le poesie dichiaratamente
autobiografiche li assommano, le poesie che si vogliono impersonali negano il primo ma ostentano
il secondo. Mentre il romanziere mimetico vuol farsi mediatore di una storia che in teoria parla da
sola, lo straniamento stilistico è consustanziale alla scrittura in versi moderna: un genere in cui
l’autore conserva una signoria formale assoluta sul discorso, anche quando proclama la pura
impersonalità.
Negli ultimi due secoli, i generi mimetici in prosa hanno rimesso lo scrittore al centro dell’opera in
molti modi, ma sempre abbandonando il verso. Oggi chi entra in libreria sa di trovare gli scaffali
della narrativa tutta scritta in prosa (tranne rarissime eccezioni), e lo scaffale della poesia
prevalentemente lirica. L’epos, il romance e il romanzo in versi sono scomparsi.
Romanticismo lirico
Se la lirica rappresenta il centro attorno al quale il genere si aggrega, un simile nucleo è a sua volta
così sfrangiato ed esteso nel tempo da meritare ulteriori segmentazioni. Potremmo chiamare
l’archetipo di poesia soggettiva che si è imposto negli ultimi secoli romanticismo lirico o lirica
romantica maggiore, così denominata da Meyer H. Abrams per sottolineare la continuità ideale
fra questa forma e l'ode pindarica, chiamata greater ode.
Il testo di una lirica romantica maggiore contiene il monologo di un io poetico individuato che si
muove in in paesaggio individuato e intrattiene un colloquio con se stesso, con un interlocutore
silenzioso o con le cose. Di solito la prima persona incomincia descrivendo il paesaggio e
successivamente si addentra in una riflessione filosofica che la spinge a prendere una decisione
morale. Tra gli autori più significativi del romanticismo lirico troviamo: Coleridge, Shelley, Holderlin
e Leopardi.
Potremmo dire che la lirica romantica maggiore contiene una forma di sicurezza, misuratezza e
integrità:
la sicurezza con la quale l’io parla di sé, nella convinzione che la sua vita personale abbia un
immediato valore universale, dove il lettore non si identifica in un modello trascendentale,
ma sovrappone il proprio mondo soggettivo al mondo soggettivo del poeta, come se le
esperienze private di quest’ultimo contenessero una verità sulla vita.
La misuratezza nel bilanciare espressivismo e antiespressivismo, i diritti del talento
individuale e il rispetto di alcune strutture del discorso pubblico, radicate nel senso
comune o nella tradizione: la vera crisi formale esploderà mezzo secolo più tardi e nell’età
delle avanguardie.
L'integrità: se fra la seconda metà dell’800 e l’età delle avanguardie l’io che parla nella lirica
moderna tende a diventare disarmonico e diviso, la prima persona della poesia romantica
possiede ancora quelle strutture gerarchiche interiori che danno ordine al flusso della
coscienza. L’io poetico di Leopardi, ad esempio nell’Infinito, sa ancora costruire una
struttura razionale.
Nel Novecento, invece, la disintegrazione del soggetto è un fenomeno palese, gli effetti
dell’insicurezza e della dismisura non sono meno evidenti. Le poesie del Novecento hanno infatti
reso abituali dei temi come l’imbarazzo, la vergogna, lo scandalo di scrivere poesie. Si tratta di una
famiglia di temi ricorrenti e declinati in due forme diversi: una euforica ed espressivistica
(Pasolini), l’altra disforica e crepuscolare (quest’ultima la più diffusa in Italia con Gozzano e
Giudici). Potendo parlare in pubblico della propria esperienza, i poeti danno voce all’imbarazzo
che gli intellettuali provano al cospetto di chi lavora per davvero, rendendo innegabile che la
legittimazione della poesia lirica sia un problema per molti scrittori del '900.
Queste poetiche così diverse in realtà distano meno di quanto si possa pensare: sono infatti due
modi opposti di reagire alla perdita di quell’equilibrio che l’archetipo di partenza, la lirica
romantica, riusciva a mantenere. Nella variante espressivistica, esprimere se stessi significa violare
le regole della vita sociale, quasi che l’affermazione di sé e del proprio stile si realizzasse contro il
mondo; nella variante crepuscolare, chi prende la parola sente di non avere il diritto di darsi tanta
importanza.
Espressionismo e crepuscolarismo
Si può dunque descrivere il campo di forze della poesia moderna usando il romanticismo lirico
come termine di paragone, e studiando come cambi la rappresentazione della realtà dell’io a
partire dalla seconda metà dell’800, quando diventa sempre più difficile per un poeta difendere la
sicurezza, la misura e l’integrità immanenti a quell’idea di confessione.
Contemporaneamente alla nascita delle periferie, anche il centro del territorio si rinnova: se i versi
dell’Infinito raccontano con assoluta serietà l’esperienza di un individuo empirico, servendosi di
una dizione piena di elementi personali, ma che non stravolge il senso comune e la tradizione, le
poesie composte dalla seconda metà dell’800 sono già molto diverse (vedi Rimbaud, Whitman,
Ungaretti). Rispetto all’archetipo romantico resta immutato il posto dell’io nel mondo, perché non
c’è dubbio che l’esperienza personale evocata abbia un sicuro significato collettivo; scompare
invece quell’equilibrio fra espressione di sé e compostezza stilistica che la poesia romantica
riusciva a mantenere. Sarà infatti possibile scrivere poesia lirica in versi o in prosa, andare a capo
quando si vuole, usare dei tropi che sovvertono le forme con cui di solito gli uomini danno ordine
al mondo attraverso il linguaggio o stravolgere qualsiasi regola metrica: il talento individuale, pur
di inseguire l’immediatezza, può permettersi di ignorare ogni vincolo condiviso. Mazzoni chiama
questo modo di fare poesia Espressionismo, definendo espressionistica quella forma di mimesi in
cui l’artista si attribuisce il diritto di stravolgere profondamente la forma sensibile della realtà pur
di esprimere se stesso con più forza, a costo di riuscire oscuro e difficile. In questo senso,
l’espressionismo poetico sottopone la mimesis a un forte straniamento soggettivo, ma non
cancella il richiamo alla realtà oggettiva. In Italia, l’espressionismo lirico dilaga nei primi anni del
'900 con l’Allegria di naufragi di Ungaretti.
Oltre che la forma, l’espressionismo lirico influenza anche il contenuto. Benché egocentriche, la
lirica romantica non oltrepassa mai una certa soglia di soggettivismo nella scelta dei temi: di solito
non si lasciano mai andare all’espressione di quei contenuti oscuri e inconsci che invaderanno il
linguaggio mondiale della lirica moderna, ne permettono che il racconto della vita personale
oltrepassi i confini della dignità e del decoro, come invece è normale che accada nella letteratura
del XX secolo. Quando si parla di un evoluzione espressionistica nella poesia soggettiva moderna si
allude quindi a due processi speculari coevi: la conquista dell’anarchia formale e la possibilità di
raccontare parti della vita interiore che la letteratura del primo '800 ignorava, censurava o
confinava nel genere comico.
I poeti crepuscolari, che declinavano il topos della vergogna di scrivere poesie in maniera opposta
agli espressionisti, sembrano accomunati, prima ancora che dallo stile o dai temi, da un
atteggiamento: pur parlando di sé questi autori sanno di occupare un posto marginale nel mondo;
e pur continuando a usare la forma della confessione, finiscono in realtà per svuotarla, dal
momento che le loro esperienze personali non hanno più alcun valore universale. Le loro poesie
sciolgono il significato duplice dell’aggettivo universale: pretendono di parlare a tutti solo perché
ostentano una marginalità che ogni lettore dovrebbe riconoscere come propria. Nasce così una
poesia ancora romantica nelle scritture (un io parla di sé in uno stile espressivistico), ma
antiromantica nello spirito.
Espressionismo e crepuscolarismo sono dunque poetiche speculari: il poeta crepuscolare vive la
propria confessione come una colpa che suscita vergogna ed esige autoironia; il poeta
espressionista come una provocazione. Per entrambi, l’individualismo sicuro, integro e misurato
della grande lirica romantica è ormai irrecuperabile.
Il genere egocentrico
I confini della poesia moderna sono dunque molto sfrangiati, ed il genere comprende testi molto
diversi tra loro: poesie liriche, poesie pure che lavorano sul linguaggio, poesie che conservano un
andamento narrativo o argomentato, poesie teatrali, poesie in forma di prosa e, in mezzo, svariati
casi ibridi complessi. Questa complessità di correnti e di tendenze è tenuta insieme da un comune
elemento espressivistico: da quando la prosa è il medium naturale del racconto, da quando la
versificazione non è più un ornamento sovrapposto alla frase di grado 0, ma un linguaggio diverso
o il prodotto di una sensibilità particolare, ogni forma di scrittura in versi e ogni forma di prosa che
voglia distinguersi dal semplice modo ordinario di dire le cose, appaiono cariche di opacità
soggettiva. La poesia moderna sembra dirci che l’interessante risiede nella rappresentazione
straniata della realtà, nelle espressioni di pensieri, sentimenti e stati d’animo individuali, o in un
lavoro sul linguaggio che allontana il linguaggio stesso dal suo uso sociale. In sintesi, una forma
d’arte che, sperando di conseguire l’universale attraverso un’individuazione senza riserve, finisce
in un modo o nell’altro per mettere l’io dello scrittore al centro del mondo rappresentato.
Nessun altro genere è così egocentrico, nel contenuto come nella forma, perché nessun altro
elimina così facilmente i livelli di realtà che oltrepassano l’io, distruggendo i vincoli che la
tradizione e il senso comune pongono all’espressione anarchica di sé (perfino la periferia narrativa
e saggistica non sfugge al lirismo della forma, perché l’unico tipo di scrittura che l’orizzonte
d’attesa moderno giudica servile e trasparente è la prosa di stile semplice, e non certo il racconto
in versi o la prosa poetica carica di figuralità).
Cori invisibili
Quando si dice che la poesia moderna differisce da quella premoderna perché gli autori
conquistano il diritto all’autoespressione, è importante tenere presente che questo non significa
che essi imitino solo se stessi o che rinuncino ad ogni convenzione per scrivere in piena
autonomia.
Quanto più diminuiscono i limiti oggettivi che le consuetudini pongono alla libertà potenziale
dell’artista, tanto più cresce il bisogno di un sostegno corale: il soggettivismo dell’arte moderna è
in realtà un soggettivismo di gruppo. Dopo la conquista del diritto all’originalità, lo spazio
letterario che contiene le correnti è un campo concorrenziale, scosso da continue rivoluzioni e
occupato da gruppi che lottano o negoziano tra loro per la conquista del prestigio e del ricordo, e
chiunque ambisca ad entrare in questo territorio si trova davanti un insieme di possibilità già
fissate che costituiscono una sorta di impalcatura trascendentale. I campi artistici, in altre parole,
non sono dominati da un’anarchia individualistica e caotica, ma da un’anarchia sociale e
organizzata, fatta di gruppi, tendenze, correnti che si spartiscono l’ambito delle possibilità aperte
in una certa epoca.
E’ infine significativo sottolineare che l’estetica dell’originalità ha un valore soprattutto teorico e
negativo: non annuncia la conquista di un’autonomia reale, che è irraggiungibile per chiunque
dipenda dal giudizio altrui, ma solo la conquista del diritto a uscire dal solco della tradizione.
Benché la libertà stilistica concessa a Montale negli anni dieci del '900 sia nettamente più vasta di
quella concessa a Leopardi negli anni dieci dell’800, anche la poesia montaliana non può rimanere
estranea ad una mediazione di un linguaggio sociale: pur vivendo in un’epoca dominata
dall’anomia, l’artista moderno rimane comunque incatenato al territorio dei possibili.
Dialettica dell’espressivismo
Il panorama dell’arte moderna non è un caos di cellule isolate come sembrerebbe in apparenza,
ma uno spazio ordinato percorso da tendenze che lottano tra loro per conquistare prestigio e
memoria.
Paragonata all’autonomia teorica che l’estetica romantica riconosce a ogni artista, l’autonomia
reale che ogni artista moderno si è conquistato risulta piuttosto piccola, e connotata da una
profonda negazione, quella del diritto all’inappartenenza. Le presunte monadi che rivendicano la
la propria originalità e la loro indipendenza sono infatti oggettivamente legate insieme a comporre
sistemi, essendo il loro desiderio di autoespressione plasmato a priori (da strutture
trascendentali), dentro di loro e dopo di loro.
Fare l’artista significa insomma prendere posizione nel territorio delle possibilità aperte, e ciò fa
capire che, sebbene si pensava fosse tendenzialmente destinata a sparire dopo l’avvento della
poesia moderna, l’imitazione di opere o individui, precursori o coetanei, a cui è stato conferito un
valore sicuro acquista un valore ancora più significativo proprio nel periodo moderno, epoca in cui
non esiste più un canone universale ma moltissime correnti prive di una legittimazione che non
riposti sul fragile consenso di un gruppo ristretto. In età moderna, l’imitazione acquista quindi un
significato ambivalente: può rappresentare angoscia nel momento in cui occupa il terreno dei
possibili restringendo quindi il numero delle possibilità, ma anche aiutare l’io a conquistarsi
un’identità riconosciuta.
Poesia e canzoni
E’ innegabile che nell’ultimo secolo e mezzo il genere che definiamo come poesia moderna si sia
rivolto a un pubblico ristrettissimo, composto per lo più da poeti o aspiranti poeti. Oggi l’arte di cui
parliamo è una forma di scrittura sempre più autoreferenziale, priva di lettori che non ambiscano a
diventare scrittori a loro volta. E’ evidente che il genere sia segnato da una netta crisi strutturale,
dovuta probabilmente a una perdita di contatto sempre più grande con un fondamento pubblico
condiviso, perdendo così una legittimazione collettiva.
Le arti acquistano un peso collettivo in virtù di un meccanismo che coinvolge le figure dei creatori,
dei commentatori e degli spettatori: l’opera degli artisti viene commentata dagli esperti e
raggiunge il pubblico medio. Quando però questo meccanismo si sfalda, quando cioè l’opera dei
creatori non incontra più il consenso popolare o quando l’autorità dei commentatori perde
significato, il sistema collassa nella pura anarchia: il campo della poesia, durante gli ultimi decenni,
si è avvicinato molto a questa forma di implosione, entrando in una fase di decadenza irreversibile.
Negli ultimi anni è diventato chiaro che la crisi della poesia moderna non lascia uno spazio vuoto
dietro di sé, ma si accompagna al trionfo del suo “elemento musale” o nucleo profondo. Oggi
l’elemento musale della poesia dilaga soprattutto perché si incarna in una forma d’arte che, nata
nell’ambito della comunicazione di massa, sta conquistando una dignità culturale alta: la canzone.
Il legame tra poesia e canzone è meno banale o degradante di quanto sembri: anche la canzone
contiene quell’autobiografismo empirico o trascendentale tipico della lirica moderna, e riscopre
addirittura delle forme abbandonate dall’ultima poetica come il legame con la musica. Inoltre, la
canzone evidenzia l’originaria natura corale della lirica, che si fa evidente nell’evento del concerto
rock. Il loro rapporto è quindi sia di tipo archeologico che figurale.
Le monadi e i sistemi
Nel paragrafo conclusivo, Mazzoni evidenzia quanto il genere letterario della poesia moderna
metta in luce aspetti presenti nella storia e nella società recenti, riproponendo la citazione di
Adorno: “le forme dell’arte registrano la storia degli uomini con più esattezza dei documenti”.
I livelli ermeneutici/interpretativi proposti sono quattro:
mimetico: la prima persona che risuona nella poesia moderna non è il riflesso di
un’identità collettiva, ma un io individuato che vive esperienze personali e soggettive. La
poesia moderna, come la moderna canzone rock, ci mostra che la verità si trova in
esperienze asociali, in attimi isolati;
culturale: modello esemplare di soggettivismo, la logica della poesia moderna aiuta a
capire la logica della cultura contemporanea, sospesa fra l’imperativo etico dell’oggettività
scientifica e la pulsione estetica dell’autoespressione. (es. saggistica che negli ultimi anni si
è allontanata da un tono impersonale del trattato e avvicinata alla letteratura creativa);
esistenziale: la poesia moderna funziona come idealtipo di comportamenti sociali
governati da dinamiche molto vicine a quelle che governano il comportamento sociale dei
poeti. La direzione è in entrambi i casi verso la ricerca di uno stile di vita personale.
allegorica: il pullulare di monadi che hanno conquistato il diritto all’inappartenenza e
tendono ad uno scopo puramente individuale, prive di una tradizione stabile, ma inserite in
un piccolo sistema dal quale dipendono la loro identità e soddisfazione, rappresenta una
straordinaria allegoria della vita odierna.