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Nel 1981 Ted Nelson, inventore degli ipertesti, annuncia le trasformazioni che la
digitalizzazione dei media avrebbe comportato.
McLuhan capì invece che ogni tecnologia della scrittura investe la forma di
trasmissione, ma anche il sistema culturale in sé.
- Quella di Donna Haraway che vede nel cyborg, quindi nella fusione tra
individuo e macchina, una nuova nozione di “soggetto”, capace di superare
il dualismo.
- Pierre Lévy vede nei media una possibile via d’uscita dalla condizione di
audience passiva a cui è stato condannato lo spettatore, soprattutto dalla
televisione.
Nel 1945 sulla rivista americana “The Atlantic Monthly” comparve l’articolo
intitolato “As We May Think”, scritto da Vannevar Bush, consigliere scientifico del
presidente Roosevelt: nell’articolo veniva presentato il progetto MEMEX, che
proponeva nuovi metodi di indicizzazione per la quantità sempre più crescente di
dati e informazioni, che stavano diventando sempre più difficili da gestire. Questi
sistemi di indicizzazione erano basatati sul modello dei processi associativi con i
quali opera la mente umana, anche se non trovarono mai una reale applicazione.
Tuttavia, le intuizioni di Bush sono importanti poiché sono da molti considerate
come la prima formulazione intuitiva della logica ipertestuale e il parallelismo che
lui ha evidenziato con l’attività cognitiva ha avuto diverse ricadute nei dibattiti
successivi.
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Dunque, il lettore è svincolato dal compito di passiva decodifica del messaggio,
permettendo invece di avere una FRUIZIONE INTERATTIVA del testo, che spesso
viene anche definito come “ipermedia”, dal momento che combina immagini,
suoni, parole.
Il rapido sviluppo di tecnologie informatiche ha permesso lo sviluppo negli ultimi
anni di sistemi ipertestuali. Si tratta di una svolta più radicale di quella causata
dall’avvento della scrittura elettronica, la quale costituisce in fondo la semplice
trasposizione in formato elettronico della sequenza lineare delle pagine del libro
stampato.
Possiamo citare come esempio il cardinale John Henry Newton, che nell’Ottocento
si proclamò contrario alla stampa, che consentiva la diffusione di testi più
economici e reperibili, denunciandone gli effetti devastanti per la mente, la quale
sarebbe stata illuminata passivamente e avrebbe iniziando ad agire in modo
meccanico.
Qualsiasi tentativo di tradurre i pensieri in segni grafici entro uno spazio visivo
presuppone di per sé competenze e abilità che Bolter definisce “tecnologiche”.
Bolter negli anni Novanta, in Writing Space, evidenziò come ciascuno “spazio”
della scrittura sia il risultato di una diversa tecnologia, dalla quale dipendono la
logica organizzativa delle informazioni e la percezione del contenuto testuale.
Sostiene anche che la nostra sia la “tarda età della stampa”, in cui i paradigmi di
Gutenberg sono stati interiorizzati al punto di essere percepiti come naturali.
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I documenti online sono per definizione “transitori”, sottoposti a frequenti
revisioni e aggiornamenti e l’organizzazione in forma non sequenziale e interattiva
delle informazioni ridefinisce i confini tra scrittura, lettura e interpretazione, il
concetto di autorialità e le modalità di fruizione.
Nanni Balestrini afferma che la scrittura collaborativi si limita nella maggior parte
dei casi ad un gioco senza alcuna pretesa artistica, dal momento che l’aspetto
creativo deve essere più intenzionale.
Umberto Eco è convinto della sopravvivenza dei libri proprio grazie alla
peculiarità della loro fruizione rispetto alla lettura nell’ambiente digitale, che è
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invece difficilmente conciliabile con le esigenze della riflessione e della
meditazione.
Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, il dibattito si è
arricchito e con il celebre articolo di Coover, The End of Book, gli ipertesti vengono
posti per la prima volta all’attenzione del dibattito internazionale. Nel 1993 esce
Quibbling di Carolyn Guyer, un “racconto rizomatico femminista”, per usare la
definizione di Landow: si tratta di un’opera che va a sostituire il principio
aristotelico di “trama” con i principi del pensiero “nomadico” e che incarna l’idea
dell’ipertesto come forma di scrittura femminista.
Nel 1995 questo tema viene proposto nuovamente, ma in una prospettiva diversa,
in Patchwork Girl di Shelley Jackson, che inaugura (secondo Michael Joyce) una
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nuova stagione narrativa ipertestuale, fondendo teoria e pratica narrativa e
sperimentando nuovi percorsi della scrittura digitale. Torna quindi all’attenzione
del dibattito internazionale il problema del rapporto tra la forma ipertestuale e la
scrittura femminile.
George Landow ricorda che nonostante sia una produzione recentissima, “ci sono
già tanti tipi di narrazioni ipertestuali quanti di narrazioni a stampa”.
Tuttavia, è innegabile che ci siano alcuni tratti comuni, legati all’impiego del
supporto digitale, come la rottura della linearità, l’organizzazione reticolare delle
unità narrative, la ridefinizione del rapporto tra autore e lettore, la
contaminazione multimediale tra testo, suoni, immagini ecc.
La distanza che separa gli ipertesti dagli esperimenti cartacei emerge nei testi
cosiddetti “labirintici”, che hanno sacrificato l’ordine lineare delle pagine per
rendere possibili letture multiple e incarnare quella che Calvino definisce come
“l’antica ambizione la molteplicità delle relazioni, in atto e potenziali”.
Ogni minimo oggetto è visto come il centro di una rete di relazioni che lo scrittore
non può non seguire e che tocca orizzonti sempre più vasti.
Nella “logica dei labirinti” i lettori sono invitati a proporre, usando un apposito
modulo interattivo, nuovi “rami” per le storie che via via diventano come alberi
sempre più articolati.
In altri ipertesti la struttura spaziale del testo narrativa o è diversa e segue una
logica reticolare o “ciclomatica”, come nel caso di Afternoon, a Story, caratterizzata
dalla reale destrutturazione di ogni impianto narrativo e da personaggi traversali
da un ramo all’altro, che determina la formazione di isole intorno alle quali si può
girare all’infinito (i cicli).
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Si tratta di una logica di strutturazione dello spazio ovviamente incompatibile con
il formato cartaceo.
La ricerca di una relazione “mediata” con il reale è alla base della letteratura
postmoderna: lo sguardo non si posa sulla realtà in sé, ma sulle rappresentazioni
che ne sono state fatte, accentuando il carattere di inautenticità della realtà
contemporanea ed il senso di derealizzazione e distacco di chi scrive da ciò che
scrive. In questa chiave è da leggere la tendenza della narrativa ipertestuale alla
riscrittura.
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hyperfiction si incrociano con aree più vaste del dibattito sulla rivoluzione
digitale. David Bolter e George Landow hanno cercato di dare luce alle ricadute in
ambito narrativo della “riconfigurazione” della logica testuale connessa all’avvento
della tecnologia digitale. L’obiettivo è verificare in che misura l’universo del
racconto prodotto dagli ipertesti possegga delle caratteristiche specifiche legate al
nuovo “spazio della scrittura”.
In Writing Space, Bolter afferma che “la narrativa appartiene a questa nuova
tecnologia, almeno quella moderna, perché per natura aperta all’esperimento”.
George Landow individua un esempio interessante nella LOGICA “PARATATTICA”,
che consente di introdurre variazione sul tema come principi di costruzione del
racconto, analizzando più prospettive dei personaggi e scambiando le unità
narrative per rendere dinamico il testo, aperto ad interventi esterni.
Il problema fondamentale è però che questa scrittura paratattica non può in sé
determinare un punto conclusivo e nell’affermarlo, George Landow si rifà alle
affermazioni di Barabara Herrnstein Smith sulla “chiusura” del testo che
garantisce coesione e stabilità. E di Hayden White sulle implicazioni ideologiche
connesse all’atto narrativo che incarna coerenza, integrità e pienezza attraverso la
rappresentazione lineare degli eventi, mettendo in relazione TRAMA e MORALITA’.
Mario Gineprini afferma che per far sì che la narrativa ipertestuale assuma
rilevanza, bisogna allontanarla dalle categorie della narratologia tradizione ed
esplorare le varie possibilità che il computer offre per le varie forme di
affabulazione.
Massima Riva dichiara che le analogie non vadano cercate nelle nostre categorie
letterarie, ma nei GRANDI PASSAGGI, come quello dell’oralità alla scrittura o
quello dal manoscritto alla stampa.
Altri campi di analisi sono l’analisi della riconfigurazione del ruolo del lettore e
degli spazi testuali attraverso gli strumenti offerti dalle teorie letterarie recenti:
reader-response criticism, poststrutturalismo e decostruzionismo.
David Bolter è tra i primi ad individuare nell’ipertesto la concreta attuazione della
teoria della ricezione, dal momento che il lettore prende parte alla costruzione del
testo come sequenza di parole. Inoltre, ritiene che l’ipertesto faccia emergere la
distanza tra il testo e la sua comprensione, evidenziando la necessità di collocare
l’opera letteraria a metà strada tra l’uno e l’altra. Per Bolter l’accento è
soprattutto sul ruolo sempre più “attivo” del lettore, che interpreta il testo. Un
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ipertesto richiede un lettore più attivo che non solo sceglie i percorsi di lettura,
ma che ha anche la possibilità di leggere il testo come “autore”, creando
collegamenti al testo che sta leggendo.
La terza e più ricca area del dibattito si articola intorno alla TEORIA DELLA
CONVERGENZA tra scrittura ipertestuale e poststrutturalismo, un assunto
teorico che guida tutta la riflessione di George Landow.
È soprattutto la narrativa ad offrire una prospettiva interessante: la teoria critica
promette di teorizzare l’ipertesto e l’ipertesto promette di dar corpo a diversi suoi
aspetti, soprattutto quello concernenti la testualità, la narrativa e i ruoli o le
funzioni del lettore e dello scrittore. Landow evidenzia come la convergenza tra la
teoria letteraria e l’ipertesto sia evidente già sul piano lessicale: Barthes,
Foucault, Bachtin, Derrida usano abitualmente termini come tela, rete e
collegamento che chiamano in causa l’ipertestualità.
L’apertura intrinseca della logica ipertestuale e la sua struttura parcellizzata e
molploce si avvicinano al testo descritto da Barthes come “rete a mille ingressi [...]
il cui punto di fuga è continuamente arretrato.
Un testo è fatto di strutture molteplicità, provenienti da culture diverse, ma esiste
un luogo in cui la molteplicità si riunisce ed è il LETTORE, che diviene però un
lettore senza storia né biografia, che ha lo scopo di tenere unite in un unico
campo le tracce di cui uno scritto è costruito.
Landow accosta al concetto derriddiano di “decentramento” la struttura dispersa
dell’ipertesto che non ha non è un centro ne una “periferia” dal momento che si
tratta di concetti costantemente in cambiamento in base alle scelte compiute di
volta in volta dal lettore che costruisce il percorso narrativo.
La parte più interessante dei suoi studi è la convergenza che Landow evidenzia
tra l’ipertesto e le osservazioni di Bachtin sul carattere dialogico e polifonico del
romanzo, che è l’unica forma letteraria capace di presentare la parola diretta
(attribuibile all’autore) e la parola oggettuale (attribuibile al personaggio), ma
anche una parola ambivalente, che è ricontestualizzata e reinterpretata, il cui
senso viene costantemente rinegoziato in un gioco
Una delle prime obiezioni mosse alla hyperfiction e che sostiene la tesi
dell’inconciliabilità con la logica narrativa, è il fatto che essa metta
apparentemente in discussione la dinamica stessa di “costruzione” su cui si regge
il racconto, intesa come disposizione sintattico-funzionale delle unità testuali.
Nell’ipertesto non esiste alcuna composizione rigida delle informazioni narrative,
poiché il testo si mostra come un insieme virtuale di frammenti disseminati in
uno spazio pluridimensionale. Bisogna ipotizzare una modalità narrativa che
prescinda dalla fabula e dall’intreccio, quindi da qualsiasi tentativo di dare ordine
alla materia, seguendo i principi che, secondo Sklovskij,sono la forma stessa
dell’arte. Egli sostiene inoltre che la favola, la novella e il romanzo siano
combinazioni di motivi e che, dal punto di vista dell’intreccio, non c’è da
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comprendere il contenuto, ma solo la forma, come legge della costruzione
dell’oggetto.
Michael Joyce evidenzia come aspetto più rilevante questo ruolo così centrale del
lettore, poiché è lui a stabilire l'ordine di presentazione della materiale narrativo e
quindi l'intreccio, selezionandoli lessie e disponendole in ordini sempre diversi. A
chi va dunque attribuito il valore artistico di un ipertesto narrativo? Gigliozzi
sostiene che il lettore sia il vero responsabile della costruzione del racconto, e che
la sua “dimensione autoriale” sia direttamente proporzionale ai margini di
autonomia che gli sono concessi nel testo. Il tentativo di applicare coordinate
spazio-temporali (quindi criteri narratologici per formati cartacei) conduce
sicuramente a deduzioni fuorvianti. In realtà, anche la presunta autorialità del
lettore è solo un “inganno”, un tentativo di applicare principi narratologici
inadatto alla pluridimensionalità dell’ipertesto.
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Al lettore è delegato il compito di costruire l’intreccio, ma questo non implica
nessun “incarico autoriale”, perché il vero atto di scrittura è altrove, nella logica
di organizzazione più profonda che risponde a delle precise intenzionalità
comunicative che sono del tutto indipendenti dal processo di costruzione di cui
legge. Il grado di articolazione del testo costituisce una prima manifestazione del
progetto autoriale. Inoltre, è sempre l’autore stabilire la lunghezza delle lessie,
cioè i blocchi di lettura, corrispondenti alle singole schermate, che costituiscono
le unità minime di informazione narrativa. I criteri che impongono una minima
linearità sono espressione di una scelta arbitraria, calibrata in funzione
dell’effetto di maggiore o minore frammentazione che l’autore vuole produrre. È
l’autore a decidere il tipo di connettività tra i frammenti del testo e a farne una
selezione e una gerarchizzazione.
4.4 libertà vigilata: nuovi equilibri tra intentio auctoris e intentio lectoris
Iser introduce la nozione di Lettore Implicito, che ha solide radici nel testo,
nozione recuperata da Umberto Eco nella definizione di Lettore Modello, che è in
grado di cooperare all’attuazione testuale come l’autore voleva. Un testo non si
limita a presumere una competenza, ma contribuisce concentramento a produrla.
Il Lettore Modello va costantemente ridefinito, in corso di lettura, sulla base della
continua acquisizione di competenze e di informazioni progressivamente fornite
dal testo stesso. La nozione di a lettore Modello viene messa alla prova sapere
innumerevoli combinazioni, poiché ogni blocco dovrebbe avere tanti lettori
modello diverso tra loro quanti sono i percorsi di lettura possibili. Bisogna
considerare quindi le dinamiche di comunicazione testuale e le strategie di
controllo della fruizione. È stato sottolineato che la strutturazione dello spazio
testuale costituisce già di per sé uno strumento di orientamento della fruizione,
configurandosi come una dimensione profondamente strutturante e non come un
semplice contenitore. Lo “spazio logico” si traduce in “spazio visibile” e “spazio
agito”: Si tratta di due livelli simultanei di espressione che conferiscono visibilità
all'organizzazione logica del materiale narrativo e predispongono gli strumenti
stessi di interazione con il testo. Anche la scelta del tipo di software rientra tra le
strategie di orientamento della fruizione. Nel caso di Patchwork Girl di Shelley
Jackson, Il gioco di riscrittura di Frankenstein e le associazioni metaforiche tra il
testo e il corpo sono legate alla possibilità di visualizzazione del materiale
narrativo consentite da StorySpace che, associando blocchi testuali a parte del
corpo della donna, funziona come suggerimento per il lettore. secondo Marco
lobietti, l’interfaccia grafica sarebbe l’espressione più emblematica della voce
dell’autore nell’ipertesto, nonché il segno tangibile del suo controllo nella
orchestrazione dei percorsi di lettura. L’interfaccia, infatti, può diventare la voce
dell’autore nel ipertesto, organizzando la forma dei contenuti e portando in letture
verso la costruzione di un determinato percorso. in altri termini, l'interfaccia
grafica mostra che il lettore è libero di spostarsi, ma sempre comunque all'interno
di una rete tracciata è collaudata dall'autore, e la cui percorribilità è stata in
precedenza verificata scrupolosamente. Si ridefinisce il precario gioco di equilibri
tra libertà e costrizione che sarebbe poi alla base del rapporto tra autore e
destinatario di qualsiasi opera creativa, come spiega gigliozzi, attraverso la
metafora della pittura 2 punti così come il pittore fa un passo indietro per
valutare la riuscita del ritratto, osservandolo dal lato dell’osservatore, così solo
apparentemente il lettore/spettatore sarà libero in quanto inevitabilmente andrà
sedersi in un posto progettato per lui e addirittura collaudato. Il lettore sceglie,
ma lo fa all’interno di percorsi costruiti, predisposti da un autore punto potrebbe
quindi esserci in realtà una riduzione della libertà del lettore, al quale viene
negata la possibilità di attivare i percorsi ipertestuali non elettronici che la sua
soggettività ed emotività potrebbe determinare.
con il cambiare delle strategie testuali per orientare la fruizione, cambia anche il
tipo di cooperazione richiesta al lettore. Cesare Segre osserva che nessun
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percorso di lettura è lineare, nemmeno nel romanzo tradizionale, dal momento
che quando si legge di volta in volta una frase, tue le precedenti costituiscono
una sintesi memoriale, mentre quelle che dovuta ancora leggere formano un’area
di possibilità linguistiche e narrative. Nonostante la sequenzialità di questo
processo, non dobbiamo dimenticare che la sintesi memoriale è un processo
molto più complesso della semplice somma algebrica di tutte le parti del testo:
leggendo noi stacchiamo le informazioni dalla pagina ed esse producono una
trasformazione nel nostro sistema di conoscenze e riorganizziamo il nostro
sapere.
Il lettore è sì chiamato a contribuire allo sviluppo della fabula, però il testo alla
fine legittima solo una delle ipotesi interpretative a lui formulate: gli Stati della
fabula, infatti, confermano o disattivano la porzione di fabula anticipata dal
lettore. La cooperazione interpretativa richiesta al lettore impone ci riconoscere
come legittimo solo il percorso
convalidato dall’autore. Ciò non esclude che le ipotesi avanzate dal lettore non
fossero altrettanto valido e, secondo il modello proposto da Eco, la cooperazione
di configurerebbe come un incontro/scontro tra due progettualità.
Secondo Umberto Eco, la libertà concessa al lettore finisce alla lunga per
annoiare, poiché incompatibile con il piacere stesso della lettura, inteso come
scontro con le immodificabile leggi del fato. L’assunto immodificabile per cui tutti
i percorsi sono ugualmente legittimi impedisce al lettore l’ebbrezza di vedere le
proprie ipotesi contraddette dall’autore. Viene inoltre meno quel gioco di allusioni
e ambiguità tipico della narrativa tradizionale.
Bisogna però dire che anche le obiezioni più ragionevoli mosse alla hyperfiction
derivano da un tentativo di applicare le dinamiche di comunicazione testuale e i
principi di evoluzione dell’intreccio che sono proprio della narrativa tradizione ad
una forma testuale a cui non possono essere applicate. In realtà, nell’ipertesto
narrativo i livelli di significato hanno poco a che vedere con l’evoluzione degli
eventi ed emergono attraverso accostamenti e sovrapposizioni tra porzioni diverse
del testo, come in Patchwork Girl, in cui infatti la trama è ridotta praticamente a
zero e i percorsi di lettura creano complesse simmetrie interne e giochi di
corrispondenze metaforiche. L’ipertesto, dunque cancella il piacere della lettura,
ma lo ridefinisce. Esplora una dimensione nuova della scrittura, più vicina al
mondo interiore, in bilico tra realtà e immaginazione.
5.1 Dal testo all’ipertesto: il percorso di una riscrittura Già a partire dal titolo,
l’opera propone la riscrittura di un classico, cioè Frankenstein, or the Modern
Prometheus (1818), e di un testo meno noto, The Patchwork Girl of Oz (1913) di
Frank Baum, a cui si incrociano comunque molti altri riferimenti letterari,
direttamente o no legati al tema del “mostro”. È innegabile il riferimento alla
letteratura cinematografica che ruota intorno al concetto di “corpo smembrato”:
Body Parts di Eric Red (1991) o The Patchwork Girl di Larry Niven.
Tuttavia, il riferimento principale rimane quello all’opera di Mary Shelley, come si
intuisce già dalla schermata iniziale, intitola “HER”, che presenta l’immagine in
bianco e nero di una donna frammentata e ricucita attraverso linee tratteggiate.
Consente un solo collegamento alla title page, che presenta sei percorsi
corrispondenti alla sei sezioni che compongono la struttura dell’opera:
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- Story
- Body of text
- Graveyard
- Journal
- Crazy quilt
- Sources
Per alcuni versi, Patchwork Girl può essere letto come ennesimo esempio nel
panorama postmoderno di RISCRITTURE FEMMINISTE, il cui scopo è quello di
riportare in superficie paradigmi legati al patriarcato e sovvertirli. Questo scopo è
evidente già nella scelta del romanzo da riscrivere, il Frankenstein, che già dagli
anni Settanta era considerato come base della scrittura femminile.
Graveyard: brevi profili biografici degli essi che hanno fornito le varie
parti del corpo del mostro, ponendo immediatamente il problema
dell’IDENTITA’ MULTIPLA
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Il racconto della nascita del mostro va qui inteso come una sorta di
archetipo letterario del tema della CREAZIONE, un espediente per creare
una relazione tra la “costruzione” del corpo “rappezzato” e la
frammentarietà dell’ipertesto.
Ogni parte che compone il corpo serberà un giorno memoria del mostruoso
mosaico di cui è stata parte, seppur ognuna abbia mantenuto chiari i segni della
sua “vita” precedente e della persona a cui è appartenuta (ad esempio, la lingua
“instancabile” di Susannah o del cuore impavido di Agatah).
La protagonista stessa trova la sua identità nelle cicatrici e identifica il suo corpo
con le linee di sutura tra i pezzi ricuciti: “La mia vera essenza è negli spazi vuoti
tra le varie parti.”
Come spiega Michael Joyce, Patchwork Girl è una riscrittura intesa soprattutto
come ESPLORAZIONE DELLA PERMEABILITA’: tutta l’opera si costruisce nelle
fessure del romanzo di Mary Shelley, ma allo stesso tempo intrattiene un
rapporto di filiazione con innumerevoli altri testi, tutti citati dall’autrice stessa in
Crazy Quilt, le cui lessie sono interamente costituite da citazioni messe insieme
in modo singolare.
il testo viene inteso come palinsesto, groviglio di voci, immagini e generi diversi,
incarnando il nuovo spazio della scrittura introdotto dalla logica ipertestuale.
Allo stesso modo, il corpo “rattoppato” della protagonista si fa immagine della
radicale riconfigurazione del concetto di IDENTITA’ nell’età postmoderna: il corpo
ibrido e grottesco è da sempre celebrato dalla cultura rock e punk come risposta
spiritosa, ma anche politica, al conformismo sociale della borghesia post-
industriale.
Viene messa in discussione la nozione di identità intesa come entità in sé, stabile
e unitaria, a cui la cultura postmoderna, soprattutto dopo l’avvento della
rivoluzione digitale, contrappone dei paradigmi di frammentazione e molteplicità.
In questo contesto culturale, la vecchia concezione unitaria dell’io non è più
sostenibile e la “patchwork girl” incarna quel sé “proteiforme” che assume
sembianze differenti ma mantiene integra la propria identità.
Katherine Hayles evidenzia che la ricerca di coerenza e stabilità nell’individuo è
inattuabile, assurda e costantemente frustrata e viene associata al contesto
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filosofico- letterario del Settecento e alle disquisizioni teologiche medievali sulla
ricostituzione dell’integrità fisica del corpo.
La Jackson propone:
che accompagna il lettore di patchwork girl, che non sa mai con precisione dove si
trova, né in che direzione si sta muovendo. È obbligato a procedere a tentoni,
affetto da una sorta di miopia. Si tratta di una condizione molto diversa da quella
molto più rassicurante del lettore di un testo cartaceo. Lo SMARRIMENTO
diventa non solo un’importante esperienza estetica, ma anche cognitiva, in un
momento in cui compito dell’arte non è imitare l’ordine della realtà, ma fare
sperimentare il caos. Tanto il lettore quanto l’autore come attori del processo
comunicativo passano in secondo piano, poiché al centro dell’attenzione e il
processo semiotico di generazione del significato, il testo nel suo farsi e disfarsi,
secondo una logica che ricorda il gioco combinatorio. Sia una “semiotizzazione
delle lessie”, ogni schermata apre percorsi molteplici e divergenti, in cui ogni
significato è a sua volta anche significante. Al centro dell’opera resta il conflitto
tra pienezza e frammentazione, tra l’aspirazione alla piena integrazione del corpo
e del testo in una forma stabile unitaria, e la consapevolezza che quell’unità è
comunque precaria. Se è vero che a tutti i percorsi di lettura consentiti da un
ipertesto hanno la stessa legittimità sul piano narrativo, tutto viene quindi
rimesso in gioco e dipende di volta in volta dalle decisioni del lettore. La tensione
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tra pienezza e frammentazione è un gioco che rimane irrisolto alla base del testo e
che costringe il lettore, frustrato, a reprimere l’impulso di cercare di dare un
senso stabile e unico agli eventi. L’enorme sforzo non rende ragione dell’enorme
sforzo che la lettura ipertestuale richiede, dal momento che (come afferma Bolter)
dobbiamo abituarci a scrivere e leggere in modo multiplo. In quest’opera non è in
discussione tanto la possibilità di un’interpretazione condivisibile della realtà,
quanto l’idea che quella realtà sia l’unica possibile. Offre una rappresentazione
del mondo contemporaneo nella molteplicità della sua natura plurima, che
solleva quesiti ma non dà soluzioni.
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