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Il mondo dei media

Premessa e Introduzione
Per la sociologia, che studia le trasformazioni del mondo umano, i media costituiscono da
sempre un oggetto problematico e denso di conflitti. Oggi i media costituiscono la vera
dimensione territoriale al centro del dibattito sociologico: quando parliamo di società ci
riferiamo alle immagini e ai modelli dell’organizzazione sociale che emergono dai processi
di costruzione collettiva della realtà, immagini e modelli concernenti la sfera
dell’immaginario e delle sue narrazioni. Secondo Paul Watzlawick non si può non
comunicare: il primo corollario di non si può non comunicare, ovviamente, è che la nostra
specie non trova margini di vivibilità – di esistenza – fuori dallo spazio relazionale: la
condizione umana è tale esclusivamente in una dimensione plurale. Questa linea di
ragionamento rimanda di certo alla contemplazione dell’impalcatura di sapere afferente
alla filosofia morale che, soprattutto a partire da Kant si è interrogata sull’impianto
normativo cui è lecito e opportuno ispirarci nel perseguimento del bene individuale e
collettivo. In questo senso risulta rovesciato lo schema interpretativo secondo cui
intensificheremmo le nostre attività comunicative per adeguarci alle continue modificazioni
degli spazi di convivenza, ciò evidenzia il comunicare come mettere in comune. Dal punto
di vista teorico rappresenta una sorta di decisivo movimento senza spostamento che ci
permette tra l’altro di far luce sulla reale funzione ricoperta dai media. Essi si rilevano in
realtà processi di intermediazione che coinvolgono porzioni dell’esistenza molto più
estese. Berger e Lukman in La realtà come costruzione sociale affermano che la realtà – o
meglio, i vari piani della realtà – non trovano fondamento in sé stessi, ma solo su ineludibili
processi di negoziazione collettiva. Da qui si coglie l’importanza di un campo di sapere
come quello della mediologia, che non si occupa solo di indagare i congegni, i device utili
a finalizzare gli scambi e le rappresentazioni, ma tende a rivelare la natura di questi due
termini. Ammettendo che sia possibile scomporre l’idea di comunicazione riducendola ai
minimi termini, forse le due immagini a cui ricorreremmo sarebbero quelle di
rappresentazione e scambio. L’atto dello scambio può avvenire in una condizione di
consapevolezza piena, ma nel suo grado zero, nel brutale do ut des, può comunque
prescindere da qualsiasi forma di approfondimento sulla materia. Rappresentare, invece, è
creare l’opportunità di ostentare di nuovo, dunque di riaffermare una manifestazione già
compiuta e di cui si sono memorizzate le fattezze, di errare alla ricerca del senso. La
rappresentazione, insomma, presuppone – oltre all’esistenza dell’altro – anche la
conoscenza, reale o presunta, di ciò che viene ripresentato e per questo motivo non può
che avvenire all’interno del nomos, dell’iniziativa umana. Se rappresentare significa
“presentare qualcosa più volte”, è evidente che la funzionalità della rappresentazione non
può compiersi se non in presenza di un intervallo che separa la prima epifania del
fenomeno dalle successive. In ciò aiuta la classica distinzione tra oralità e scrittura. È
importante sottolineare lo scambio e la rappresentazione sono tra loro altamente
compatibili, nella maggioranza dei casi complementari. Potremmo affermare, anzi, che in
generale comunichiamo essenzialmente tramite scambi di rappresentazioni: ciò che muta
nel tempo, più che altro, è il grado di intensità e il numero di soggetti che si tendono
coinvolgere all’interno di un singolo processo comunicativo.

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Capitolo I: Tecnica, oralità, scrittura. Corpo e comunicazione
L’avvento del Monolite: tecnica e specie umana
In una celebre sequenza di 2001: Odissea nello spazio (Kubrick, 1968), film ispirato al
celebre racconto di Arthur Clarke, si assiste all’incontro fra un gruppo di primati e un
misterioso artefatto, un grande parallelepipedo nero comparso all’esterno della loro
caverna. La sequenza – nota come L’alba dell’uomo – è seguita da un salto temporale
che, con l’ausilio di un lungo piano sequenza, sposta la narrazione su una stazione
spaziale: di fatto, la scena dell’incontro tra i primati e il monolite illustra in maniera efficace
il rapporto tra l’uomo, il linguaggio e la tecnica. L’esempio fornito dal fondamentale lavoro
cinematografico di Kubrick riassume molte delle questioni relative alla comunicazione e ai
media, a cominciare dalle implicazioni sociologiche sottese al rapporto tra uomo,
linguaggio e tecnica (da intendere come téchne nel senso platonico di saper fare) che
rappresenta il punto d’incontro fra la specie umane e il lungo e complesso percorso di
adattamento all’ambiente. Prima ancora della comunicazione fondata sulla parola,
sull’immagine e sulla scrittura, la capacità relazione dell’umano dispiega “grazie
all’artificializzazione del corpo per mezzo del corpo stesso”. Ciò evidenzia il carattere
culturale del rapporto che l’uomo ha stabilito con la natura sin dai suoi primi passi sul suo
terrestre.
Il Mito, il rito e l’invenzione del segno.
Per riprendere quanto affermato da George Bataille – autore di Lascaux o la nascita
dell’arte (2007) – il consolidarsi della dorma umana della specie procede di pari passo con
lo sviluppo di un sistema sempre più complesso di condivisione dell’esperienza. Si parla,
perciò, di invenzione del segno quando – durante la fase storica del Paleolitico superiore –
alcuni uomini decorarono le pareti delle caverne di Lascaux con una serie di pitture
raffiguranti scene di caccia. Qui è dove l’intreccio fra tecnica e comunicazione ottiene il
suo momento fondativo vero e proprio, attuando un primo tentativo compiuto di
simbolizzazione dello spazio antropico. Se alla nascita dell’arte corrisponde, per dirla
ancora con Bataille, “la nascita dell’uomo” è perché quest’ultimo impone per la prima
presenza “entro il mondo dei fenomeni” restituendo l’oggetto del suo sguardo e del suo
pensiero inizia a riorganizzare il senso all’interno di una narrazione. A lato delle numerose
interpretazioni che nelle pitture paleolitiche di Lascaux hanno voluto leggere la restituzione
di forme embrionali di ritualità tribale, diventa impossibile negarne il potenziale narrativo
quel congelamento temporale dell’esperienza che va ad intrecciarsi senza soluzione di
continuità con la funzione ordinativa e prescrittiva del mito, un esempio di storytelling. È
nel complesso e variegato universo narrativo costituito da ritualità e mitologia, il cosiddetto
terzo tempo della definizione di Paul Ricouer, che avviene l’istituzionalizzazione del
rapporto fra tempo vissuto e tempo cosmico: sia con il rito che con il mito l’umano realizza
un atto comunicativo la cui sostanza simbolica finisce per strutturare il convivere
comunitario mettendone in connessione e coesione i protagonisti. Miti e riti fanno cioè
parte dell’“inevitabile facoltà di simbolizzazione da cui tutte le paure, tutte le speranze e i
frutti culturali zampillano “e che Durand ha, per primo, definito con il termine immaginario.
Innovatio e repetitio
Miti e riti si affollano a interrogare e scandire il tempo vitale. Alla stessa maniera, le
credenza che sostanziano i riti vengono tramandate dando vita a tradizioni, percorsi
culturali alla base delle identità dei popoli, ciascuno dei quali interviene sul modello del
racconto mitico, l’archetipo, sottoponendolo a un processo di innovatio, una modificazione
che rimanda ai tratti peculiari dati dello scambio fra il mito stesso e il contesto sociale che
lo socializza, lo ricostruisce e condivide. Modificandosi lungo il multiforme percorso della
loro tradizione, i miti di fondazione confermano lo schema archetipico su cui si basano e in
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conseguenza, i principi della collettività di cui si fanno tramite. Sorge così l’alba delle
grandi narrazioni, l’alba delle risposte collettive alle grandi domande sull’origine sulla
specie, un principio pratico e praticato attraverso la tecnica del raccontare storie. La
tecnica emerge come dimensione imprescindibile dall’uomo in quanto tale, lo spazio di
connessione, interazione e dominazione del suo essere nello spazio-tempo. Se miti e riti
servono a comunicare la comprensione si quello che l’uomo vive, anche la loro sostanza
risponde e viene scandita da un ritmo preciso: in assenza di scrittura strutturata è il
medium della parola detta a governare per almeno 40000 anni il sistema delle
comunicazioni umane. L’oralità fonda sulla centralità della memoria e del ritmo. Anche qui,
come sottolinea Walter Ong, al ripetizione ha valore di struttura e di collante: emblema di
questa oralità integrale è la capacità della dimensione orale di investire l’opera in ogni sua
fase. Dai miti arcaici all’epica omerica fino alle rappresentazioni tragiche del teatro greco, i
grandi interrogativi sulle origini del mondo ritornano in forma di performance rituali dove il
corpo dell’uomo, avvolto dal medium della finzione narrativa, prova ripetutamente ad
entrare in contatto diretto con la sfera arcana del sacro.
Potere e comunicazione dai templi alle ferrovie
Soltanto in un secondo momento i contenuti della tradizione orale diventano oggetto di
redazioni scritte che ne consentono la diffusione nel tempo e nello spazio. La scrittura
attraversa una fase di elaborazione lunga e complessa, che vede i suoi prodromi nella
pratica della pittografia. Di questa si ha una prima codifica, per l’appunto, con le tavolette
mesopotamiche di Uruk. È nell’evidente destinazione burocratica di queste incisioni
pittografiche che risiede uno dei motori principali dell’espansione del dominio della
scrittura, alla ricerca di una convinzione capace di coinvolgere nel processo comunicativo,
oltre ai protagonisti del mondo materiale, anche i concetti privi di corpo. Il potere normativo
variamente declinato dalla parola scritta va così a realizzarsi tramite un graduale
allontanamento dei segni rispetto ai loro riferimento fisici. Diverso quanto esemplare è,
invece, il caso della civiltà egizia, nel cui sistema di scrittura, si sommano e mescolano ai
preesistenti pittogrammi e ideogrammi le prime rappresentazioni grafico-fonetiche. Nel
frattempo anche i supporti della scrittura cambiano, passando dalle tavolette ai più agevoli
papiri e velocizzando il processo di trasformazione che porterà a convivere il dominio
sonoro dell’oralità con quello visivo dei nuovi codici. La selezione culmina a Creta e
Micene – con le tavolette della Lineare A e della Lineare B – con la sistematizzazione di
un tipo di scrittura sillabico-fonetica che assegna ad ogni sillaba un segno diverso.
Plasmata dagli scambi fra culture diverse e a quelli stessi scambi finalizzata, la tecnologia
della parola scritta si configura come spazio di definizione delle relazioni tra corpi e poteri,
dall’età antica all’uomo tipografico.
Sorvegliare e punire: la scrittura sul corpo
Questo è il messaggio che identifica il medium, per usare la fortunata espressione di
Marshall McLuhan “essenza dell’accelerazione” ed “estensione del potere”.
L’interrelazione fra sapere e potere allora sorge spontanea. L’investitura sacrale del ruolo
degli scribi nell’antico Egitto è parte di un processo che avanza nel tempo, radicandosi
attraverso utilizzazioni e figure della scrittura sempre più specializzate. La parola scritta
ottiene lo status di fonte di rivelazione e documento imperituro. Se la comunicazione dei
contenuti continua a sfruttare un canale orale, che in parte o indirettamente si rivolge
ancora alla collettività, la loro proprietà e gestione resta appannaggio esclusivo di pochi. È
proprio nei termini di questa tensione costante fra chiusura e apertura, mobilità e rigore,
che il corpo sociale attua la riscrittura delle sue gerarchie, imprimendo nuove orme e nuovi
ordini sui singoli corpi degli individui, ai primi vagiti di quella che sarà, a distanza di diversi
secoli, l’età moderna.

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Oralità e scrittura: una perenne convivenza dagli Accadi al web
A partire dalle prime forme di comunicazione segnica costituite dalle pitture di Lascaux e
proseguendo con l’invenzione di un sistema codificato di rappresentazione grafica
dell’habitat visivo-sonoro dell’uomo, si è constatato come la costruzione sociale della
comunicazione si leghi intimamente all’ominazione della specie. Ne deriva che è lo stesso
insieme dei media ad assumere la configurazione di un sistema, dove la relazione di
mutua influenza delle parti conduce al costante riuso delle forme comunicative anche nei
casi in cui il loro spazio mediatico va spontaneamente ad esaurirsi. È necessario
sottolineare l’assoluta necessità del linguaggio dell’adattamento dell’uomo alla Terra e il
modo in cui il suo viluppo sul doppio fronte dell’oralità e della scrittura sia proseguito fino a
noi, ri-mediandosi in nuovi oggetti e ambiti comunicativi. La comunicazione dell’uomo è
rimasta ad articolarsi in un misto di scritto e parlato, a richiedere l’ascolto come il supporto
grafico, lo storytelling verbale accanto a quello per immagini, presupponendo in qualsiasi
caso, la codifica e decodifica di un universo segnico complesso e variegato, oggetto fluido
di studi mediologici.
Capitolo II: L’industria culturale: questioni teoriche e prospettive
storiche
L’ambigua nozione di industria culturale
Il concetto di industria culturale viene nei fatti introdotto da Alexis de Tocqueville nella sua
celebre opera sul sistema socio-politico americano (1835/1840) anche se si afferma nel
dibattito scientifico a partire dal 1947 quando Theodor W. Adorno e Max Horkheimer –
entrambi esponenti della scuola di Francoforte – intitolano così un saggio contenuto in
Dialettica dell’illuminismo. Per i due francofortesi il concetto di industria culturale stava a
identificare “quel processo di industrializzazione applicato alla cultura in grado di
coniugare saperi teorici, dispositivi tecnologici ed individualità, nell’epoca delle masse
metropolitane”. Essi definivano questo sistema come una forma psichica di dominio.
La riflessione di Adorno e Horkheimer è un atto di accusa contro lo sviluppo della
modernità capitalista, che contemplerebbe la messa a punto di meccanismi di controllo in
grado di plasmare le coscienze in una forma collettiva e spersonalizzante. Ciò che
identifica la metropoli industriale – e riscrive o rapporti al suo interno – è la massa che
riprende il concetto ottocentesco di folla intesa come un corpo polimorfo caratterizzato dal
consumo parassitico e privo di spirito critico dei prodotti culturali. In una visione così
marcatamente apocalittica, la conclusione dei due scienziati sociali è che la massa si
configuri come un insieme di ricettori passivi di tutto ciò che viene loro propinato dal
mercato e dai media: si crea una prospettiva per cui vi sono numerosi intellettuali tutti
concordi nel considerare il processo di massificazione in un orizzonte di sostanziale
negatività. Nonostante la forza argomentativa e il successo accademico della tesi
francofortese, la riflessione sull’industria culturale è tutt’altro che univoca: si tende – infatti
– a distinguere tra apocalittici e integrati. È chiaro che si tratta di due tipi-ideali e che il
novero delle posizioni nel quadro del dibattito è stato molto più complesso e ha reso la
nozione di industria culturale straordinariamente ambigua e polifunzionale. Vi è, quindi,
un’attitudine diffusa tra gli scienziati sociali a confondere i piani di pertinenza tra industria
culturale, cultura di massa, mass media, e ciò costituisce la questione teorica da affrontare
in via preliminare: è necessario individuare gli elementi di discrimine sul piano teorico e
metodologico. Un buon punto di partenza è quello di considerare l’industria culturale come
un sistema di relazioni, veri flussi di informazione che supportano lo sviluppo della società
industriale poiché capace di attrezzarsi continuamente nei confronti della complessa
mutevolezza delle condizioni sociali di riferimento. Va rimarcato che, fino ad ora, la
questione relativa alla natura sistemica dell’industria culturale è stata soltanto accennata e
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mai approfondita da coloro che l’hanno posta. Diverso è l’approccio antropo-sociologico di
Morin, che parte proprio dall’osservazione di quelle trasformazioni nel tentativo di
coglierne il significato sul piano dei vissuti e mettendo in discussione la neutralità o la
condizione super partes dell’intellettuale impegnato ad indagare i rapporti che si istaurano
tra pubblico e industria culturale. Tuttavia, lo stesso Morin non risponde alle domande
riguardanti la natura sistemica dell’industria culturale, poiché rivolge il suo sguardo più alle
dinamiche della cultura di massa. Egli elude parzialmente sul piano metodologico la
questione dell’origine del processo di industrializzazione della cultura – dunque della
nascita e del progressivo definirsi di una cultura industriale estese a tutto il corpo sociale.
Tra i francofortesi e Morin si colloca quell’eterogeneità di posizioni che rimanda alla natura
profonda dei conflitti di culture.
Tra ideologia del progresso e nostalgia del passato
L’affermazione di un sistema produttivo basato sulla diffusione della industria e dei suoi
innovativi criteri di organizzazione del lavoro costituisce un fenomeno dagli effetti socio-
antropologici autenticamente rivoluzionari poiché muta radicalmente le strutture
dell’organizzazione sociale, la stessa architettura culturale. Non è un caso che la
trasformazione degli scenari tecnologici si leghi all’ascesa veloce della borghesia e,
dunque, all’emergere di un nuovo sistema di relazioni tra le diverse componenti della
società che ridisegna i termini fenomenologici della costruzione della realtà. Al centro della
Rivoluzione Industriale resta la fabbrica, sede dell’organizzazione dei nuovi rapporti
produttivi, autentico paradigma della contemporaneità industriale che riscrive i processi di
socializzazione a partire dalla concentrazione dei lavoratori in un unico luogo deputato alla
realizzazione delle merci. Il modello operaio viene alienato della capacità di realizzare il
ciclo produttivo nel suo insieme e si riduce a essere un esecutore di funzioni basilari:
questa logica organizzativa, messa a punto da Taylor, introduce in maniera chiara la
differenza fra la tradizione di un lavoro concreto (quello dell’artigiano) e un lavoro astratto,
in cui manca l’ottica del progetto e la possibilità di intervenire in maniera soggettiva sul
ciclo di produzione. È sul dissidio relativo all’inserimento del lavoro intellettuale nell’ambito
del lavoro collettivo che si edifica la potenza comunicazionale di Hollywood che, in qualche
modo, ridefinisce il piano mediatico di rappresentazione divenendo la fabbrica dei sogni.
La trasformazione industriale investe i ruoli sociali ed i ceti che a loro volta la sostengono,
producendo i suoi effetti sugli statuti che definiscono l’identità e la funzione
dell’intellettuale. In un incisivo passaggio di L’opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica, lo studioso tedesco Walter Benjamin sostiene che nell’ambito del
moderno la quantità sia divenuta un elemento di tipo quantitativo, cioè che la presenza
delle masse sulla scena della storia debba essere considerata come un fattore vincolante
per i processi culturali. La scelta degli intrecci narrativi che sono alla base dei racconti di
genere, dei fumetti, dei radio-drammi e dello stesso cinema, rispondono proprio
all’esigenza primaria di mettere in figura le condizioni della massificazione in atto nella
società. Il protagonismo storico delle masse si fonda su alcuni meccanismi di formidabile
impatto come la loro duplicità, che si esprime nella doppia natura di produttori e
consumatori delle merci: chi lavoro alla realizzazione dei prodotti è anche parte del corpo
sociale. Razionalizzando il processo produttivo, la fabbrica introduce una distinzione tra
tempo lavorativo e tempo libero, in cui quest’ultimo resta comunque funzionale alle
strategie economiche poiché è destinato sia ai consumi, sia al soddisfacimento di quelle
esigenze di socializzazione ce non possono essere escluse dai vissuti moderni. La
metropoli è il nuovo paradigma urbano che nasce dall’affermazione dell’industria: essa è la
forma assunta dalla città nel momento in cui si riassetta intorno al rigoroso modello della
fabbrica, è la sede in cui la stessa operazione investe il piano dei rapporti sociali. Il grande
respiro di questo processo storico si concretizza nella sua tendenza a proporsi al di là
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delle culture locali e dei nazionalismi, costituendosi come momento di apparente
contraddizione nel quadro ideologico della modernità. Il potenziamento dei sistemi
comunicativi riveste un’importanza decisiva per i mercati moderni che si affermano sulla
base del superamento dell’orizzonte finanziario locale a favore di un mercato
tendenzialmente globale. Non riusciremmo a comprendere la rifondazione complessiva
della società moderna se non contemplassimo lo sviluppo delle reti informative che è alla
base del sistema dei media di massa e come tale sistema non si sviluppi unicamente in
direzione degli interessi di organizzazione delle reti finanziarie legate ai mercati e alle
borse. Nel passaggio tra Ottocento e Novecento, il processo di massificazione che si attua
nella società industriale, rendendola possibile, riscrive i tradizionali termini di
socializzazione. Ma questo transito apre il campo a un conflitto molto aspro, in cui si
scontrano basicamente tradizioni e innovazioni. La classe degli intellettuali, soprattutto nei
paesi europei che maggiormente vivono l’industrializzazione, tende ad individuare nelle
masse l’emergenza eversiva di classi pericolose che andavano definendo la propria
soggettività. L’impatto visivo delle masse, il loro prendere possesso degli spazi sacrali
della metropoli, concorre a rendere lo sviluppo metropolitano una minaccia all’identità
dell’occidente e, dunque, origine della sua crisi. L’attività del soggetto, sembra suggerire
con una certa lungimiranza il poeta Charles Baudelaire, si rivolge verso la dinamica
dimensione dello spettatore, in una metropoli che è già palinsesto di flussi comunicativi e
nella quale egli si muove riorganizzando le traiettorie dello sguardo in anticipo sulla
visionarietà dei media audiovisivi. La contraddizione sistematica dei propri assunti è la
caratteristica della modernità: l’uomo-massa riconosce sé stesso come unico e irripetibile,
tuttavia egli è sé stesso solo nella relazione simbolica e socioeconomica con l’altro da sé.
Le forme dell’industria culturale permettono il mantenimento di un equilibrio sostanziale tra
questi piani divergenti. L’ossimoro uomo-massa, che descrive il moderno soggetto
industriale, è il problema che deve affrontare l’intellettuale proteso alla rappresentazione di
questo tempo storico, segnato da trasformazioni che possono essere metabolizzate solo
da un serrato processo di produzione simbolica. Il consumo, nella sua dimensione
massificata, si presta con efficacia a conciliare i meccanismi di individualizzazione e quelli
della conformità sociale che incessantemente si intrecciano nel corpo delle masse. Per lo
scrittore americano Edgard A. Poe la soluzione consiste in un esercizio della
comunicazione letteraria intesa come sperimentazione di un immaginario basato sulla
frizione produttiva fra tradizione e sentimento del tempo moderno. I suoi racconti si
snodano tra mondi pieni di rovine in cui il passato torna a noi come malattia del presente,
come architettura simbolica di una trasformazione divisa tra speranza e disperazione.
Questa estetica della nostalgia permea tutta la prima fase dell’industrializzazione del
linguaggi espressivi: illustrando i conflitti in atto nel passaggio tra mondo della tradizione e
mondo moderno, i testi e le pratiche dell’industria culturale rendono possibile
metabolizzare il cambiamento intrecciando un tessuto di continuità con il passato.
Dalla morte dell’arte allo spirito del tempo moderno
Con la progressiva instaurazione di un modello di produzione e consumo fondato sulle
logiche della merce, le forme dell’arte e della cultura non possono mantenere inalterati i
propri statuti. L’istituzione del tempo libero segmenta la giornata in maniera tale da
prevedere una quota dedicata al soddisfacimento di pratiche di socializzazione che
passano sia per l’esercizio del territorio, sia per l’individuazione di territori di differenze
natura, quelli liminali tra soggettività e comunicazione che si aprono intorno ai media di
massa. La fruizione delle opere letterarie, nella fase di strutturazione della società
industriale, proponendosi come uno tra gli apparati costitutivi di questa e divenendo
consumo vero e proprio fino a coinvolgere un pubblico nuovo e diverso che ben presto
influenza la produzione dei testi attraverso quella funzione di regia esercitata dai
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consumatori sulla realizzazione delle merci che Marx definisce come il lavoro del
consumo. La letteratura d’appendice pone in essere nuove strategie, negoziate con un
pubblico in veloce evoluzione che cercava un intrattenimento in grado di restituire loro gli
elementi di coesione sociale. È essenzialmente questo lo scopo che spinge gli esseri
umani a comunicare ricorrendo a forme riconoscibili di racconto del mondo. Se
osserviamo la genesi dei dispositivi letterari industriali (generi, supporti, formati) ci
rendiamo conto di quanto essi costituiscano la sintesi tra esigenze di informazioni sulla
contemporaneità e modalità di rappresentazione attualizzata del mito.
Nell’orizzonte storico contemporaneo, la sua permanenza garantisce una continuità di
significati che rende comprensibili le veloci trasformazioni in atto nel mondo della fabbrica
e della metropoli. Se analizziamo i grandi testi del romanzo popolare o del cinema di
genere, ma anche le attuali forme della fiction seriale televisiva, riconosciamo dietro
l’apparenza moderna il riproporsi morfologico del mito: la concezione dell’arte che emerge
in questo tempo dai cambiamenti accelerati si lega a una determinata età storica e alle
classi che l’hanno sostenuta e rappresentata. Hegel parla di morte dell’arte in riferimento
alla stagione del Rinascimento europeo, e in tale definizione si riassume l’incapacità
tragicamente moderna di esprimere quell’unione assoluta tra forma e contenuto che, per il
filosofo tedesco, era stata raggiunta nell’arte classica. L’arte romantica esprime
divaricazione insanabile tra sensibilità e rappresentazione riverberando la natura lacerata
e conflittuale che caratterizza la società industriale nel suo rapido divenire. La figura che
meglio sigla questa stagione della cultura occidentale è probabilmente la creatura
assemblata con pezzi di cadaveri del personaggio di Frankenstein, scienziato aristocratico
e blasfemo, nell’omonimo romanzo di Mary Shelley. Le interpretazioni del romanzo
rimandano all’inquietudine che il soggetto moderno, espressione di una cultura laica e
post-illuminista, sperimenta nella difficoltà di relazionarsi alla dimensione della
trascendenza e alla domande fondamentali che in essa sono riposte. Arte e morte sono i
temi fondamentali di un’estetica tormentata: il concetto di Sublime teorizzato da Edmund
Burke (1756) soppianta quello di Bello fondandosi su uno stravolgimento emotivo della
fruizione artistica che anticipa le svolte dell’arte moderna. Il sublime e l’orrido sono più
vicini alla sensibilità dell’uomo moderno e ne investono pratiche e mentalità. Il rapporto
con la tecnologia ed i suoi valori produce nuove estetiche, individuano il fantastico come
espressione di un trauma epocale e laboratorio sperimentale per le raffigurazioni, esteriori
ed interiori, di nuovi vissuti. In modo a volte casuale, il pubblico metropolitano individua
quelle zone dello scambio simbolico che gli permettono di accedere pienamente alla
condizione moderna. Ciò che la società industriale tendeva a rimuovere dall’ordine del
discorso riemergeva con forza nell’immaginario e nella sua capacità di orientare il flusso
dei consumi: i resoconti dei delitti, vera origine del roman du crime francese, reintegrano la
dimensione rituale del sangue e la cognizione del dolore nella sfera della partecipazione
patica al mondo. La stessa distinzione tra informazione e spettacolo, realtà e finzione, si
ricompone nell’origine comune dei linguaggi di massa e delle loro strategie espressive.
L’industrializzazione dei media si evolve lungo queste traiettorie tematiche risponde
all’esigenza sempre più diffusa di rendere possibile una rappresentazione del mondo. La
letteratura mette a punto i propri dispositivi, realizzando sia nuove strategie di relazione
con il pubblico sia nuovi immaginari. Con l’allargamento dei bacini d’utenza, fondamento
per la nascita di un mercato culturale, i processi di industrializzazione delle forme estetiche
si orientano verso la moltiplicazione dei linguaggi tecnologici, i moderni media di massa
che funzionano sulla base di una competenza trasversale del pubblico, ovvero
un’attitudine di questo a interagire in maniera complessa con una rete sempre più fitta di
dispositivi mediatici.

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L’industria culturale tra intellettuali e comunicazioni di massa
L’estrema eterogeneità dello scenario dei media di massa si ricompone in un sistema
complesso ma oggettivamente funzionale. L’esperienza del mondo contemporaneo si
definisce all’interno di tale sistema, che convoglia in sé le identità ed i conflitti delle sue
diverse componenti. La cultura di masse è la cultura nell’età delle masse e comprende sia
le forme alte e avanzate, espressione delle classi che hanno potuto sperimentarne la
ricerca e legittimarne la messa a punto, sia le forme basse e volgarizzate, legate alle
istanze dei consumi allargati o alla sopravvivenza delle tradizioni pre-moderne. D’altronde
lo scambio tra i diversi livelli della produzione culturale contemporanea costituisce un dato
ormai acquisito, al punto che alcune avanguardie ricorrono all’uso ironico dei linguaggi di
massa. Tale rapporto di reciprocità, che innesca uno scambio continuo di piani di
linguaggio, si scopre progressivamente nella strutturazione della società industriale e
ridimensiona la teoria critica nella sua dicotomia tra autenticità e simulazione. La
complessità del sistema culturale da sì che Edgar Morin né Lo spirito del tempo evidenzia
proprio la conflittualità estrema dei tempi moderni fondati sul mercato e sulle sue
dinamiche. In Morin, come in parte accade con gli studi di McLuhan, l’idea dell’industria
culturale si riassume in una metafora illuminante, quella del sistema nervoso costituito dai
mass media. L’identificazione praticata da Morin tra industria culturale e mass media si
fonda sulla natura sistemica che integra i due concetti. Solo l’organicità tra le componenti
attive nel quadro della comunicazione può concretizzare quella profonda trasformazione
dei vissuti che si è tentato in qui di riassumere. Un’organicità che trova il suo punto critico
nella figura e nel ruolo dell’intellettuale. Questa ridefinizione del lavoro intellettuale non va
colta nei termini di un asservimento passivo al sistema, quanto piuttosto come
consapevolezza delle dinamiche di conflitto e scambio tra componenti culturali della
società attraverso i media. Ciò è evidente quando McLuhan si chiede non tanto cosa
facciano i media alle persone, quanto piuttosto cosa facciano le persone ai media. Un
quesito che non si limita all’esercizio del paradosso: per McLuhan i soggetti politici ed
economici che gestiscono lo sviluppo non determinano l’uso sociale dei media e delle
tecnologie in generale, poiché è sempre la sperimentazione del consumo a decidere la
sorte dei dispositivi che appaiano sulla scena delle opzioni disponibili. Come si vede, l’idea
di industria culturale come organizzazione di una cultura socio-politica coercitiva che
sembra legarsi soprattutto all’esperienza e alle diverse sopravvivenze della tradizione
marxista, mentre il quadro generale delle riflessione si fa progressivamente più composito
e complesso, distaccandosi anche generazionalmente aprioristicamente negativa dei
media. La ricerca attuale fa proprio anche l’insegnamento di McLuhan sulla necessità di
evitare il nodo teorico del determinismo tecnologico: per Abruzzese, con l’avvento del
digitale nei processi di de-industrializzazione e de- massificazione che esso implica, il
bene di consumo diventa la tecnologia in sé per sé. Più l’industrializzazione dei processi
culturali, per Abruzzese ha senso parlare di tecnologie culturali, poiché la distanza
ideologica e produttiva che la fabbrica e le sue metodiche organizzative dell’attività umana
ancora individuavano tra industrialismo e culture tradizionali, non è più rintracciabile nella
attuali tendenze a superare i dispositivi dell’organizzazione sociale e le forme espressive
che hanno caratterizzato l’età industriale.
La fine dell’industria culturale?
È interessante considerare che il tentativo di sistematizzazione la riflessione sui processi
di industrializzazione della cultura si realizzi negli anni in cui il sistema dei media industriali
e di massa si riorganizza introno all’egemonia del medium televisivo dunque nel momento
in cui acquista nuova consistenza la distanza culturale tra intellettuali e pratiche sociali
della comunicazione. L’industria culturale aveva mantenuto nel corso della sua evoluzione,
una sostanziale continuità nell’individuare i propri committenti in base a una gestione del
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territorio che ancora scindeva lo spazio pubblico dei luoghi metropolitani da quelli privati e
domestici. La consolidata distinzione tra questi aspetti della vita collettiva viene riscritta
dall’avvento di un medium che funziona come grande collettore di funzioni tecniche, ma
anche di linguaggi, culture, pratiche sociali, bisogni e desideri. La televisione si afferma in
base alla propria capacità di rispondere a un complesso di esigenze legato alla catastrofe
del conflitto mondiale, dunque a un dopoguerra che ridisegna gli equilibri planetari così
come l’orizzonte minimo della quotidianità- La diffusione della tv indica una mutazione
profonda che interviene nelle logiche di sviluppo, con l’inversione di tendenza delle
dinamiche di concentrazione nei grandi aggregati urbani che comincia a far intravedere la
fine della centralità della fabbrica nei processi produttivi e un differente rapporto tra
soggetto, spazio e tempo. La natura sistemica della comunicazione televisiva evidente
nell’attitudine di questa a comprendere in sé la molteplicità delle forme, delle tecnologie e
delle culture che hanno caratterizzato l’esperienza della società dello spettacolo. La tv
raccoglie al proprio interno le molteplici funzioni dell’intrattenimento, dallo spettacolo
all’informazione. Rispetto al passato dell’industria culturale, l’età televisiva tende ad
azzerare l’intervallo spaziotemporale tra le cose che succedono in un altrove del mondo e
il mondo percettivo del soggetto: l’istantaneità televisiva muta la fenomenologia della
costruzione sociale della realtà. Accentuando il piano dei conflitti relativi all’industria
culturale e alla sua azione. La stessa funzione primaria dell’industria culturale, quella di
fornire piattaforme espressive capaci di contenere l’orizzonte di senso di una società in
rapida trasformazione, viene insieme potenziata ma anche messa in crisi non tanto dalla
crescita delle opzioni mediatiche a disposizione, quanto dalle prospettive aperte dalla
multimedialità. Il processo di de-massificazione che leggiamo nella nuova
individualizzazione delle pratiche digitali non muta soltanto il come comunichiamo ma
anche il cosa comunichiamo e all’interno di quale prospettiva individuale e collettiva. La
partecipazione al presente del mondo che per Morin era garantita dalla cultura di massa e
dalla sua produttività simbolica e rappresentativa, oggi diventa prospettiva concreta
dell’uomo telematico o dell’individuo digitale: un soggetto nuovo o forse imprevisto che
supera storicamente le dinamiche dell’industria culturale ed i conflitti che sino a oggi ne
hanno caratterizzato l’esperienza sociale.
Capitolo III: I media a stampa. Evoluzione sociale della parola e
dell’immagine tipografica
L’era dell’uomo tipografico
L’organizzazione sociale si fonda sulla transizione rese possibili dai processi della
comunicazione: la capacità di elaborare, decodificare, trasmettere e utilizzare le
conoscenze e le informazioni è ritenuta fondante per ogni struttura comunitaria. Nel 1982,
Walter Ong diversifica in termini psico-dinamici le principali differenze tra i linguaggi delle
culture orali e quelli delle culture scritte, constatando come oggi, per noi letterati, sia
difficile il solo immaginare una cultura in cui non abbiano presenza visiva. Ciò non poteva
che favorire una forma culturale conservatrice e fortemente vincolata alla tradizione;
quando in una cultura orale la conoscenza che non viene ripetuta ad alta vice svanisce
rapidamente, le formazioni sociali devono investire grandi energie nel ripetere, più e più
volte, ciò che è stato appreso nel corso dei secoli. Avendo la possibilità di conservare la
conoscenza mediante la scrittura, dunque al di fuori della mente, le figure dei saggi
vengono declassate aprendo le culture a rivoluzione cognitive. L’opera di Ong fa proprie
delle considerazioni già espresse in un altro classico della mediologia La Galassia
Gutenberg; Nascita dell’uomo tipografico (1964) di Marshall McLuhan. Il testo è centrato,
in particolare, sull’influenza decisiva che l’alfabeto fonetico e la stampa ebbero nello
sviluppo della civiltà occidentale. Separando il significato attribuito alle parole dal suono

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della voce e delle emozioni, l’alfabeto fonetico avrebbe permesso agli esseri umani di
oggettivare i loro pensieri materializzandoli al di fuori di sé stessi. L’invenzione della
stampa a caratteri mobili – conseguentemente del libro – avrebbe successivamente
portato l’uomo a organizzare il proprio ambiente in modo lineare, per esempio dando vita
ai concetti di individualità e nazionalismo. A sua volta, McLuhan fa riferimento ai concetti di
tempo e spazio definiti nel 1950 da Harnold Innis, autore di Le basi della Comunicazione:
nel suo testo egli si interroga, infatti, sul rapporto che intercorre tra uomo e media,
identificando questi ultimi come estensioni del corpo umano, o protesi tecnologiche. Tutti
gli studi successivi hanno tenuto conto, in qualche misura, di tali questioni teoriche. Nel
1974, con Il paradigma perduto, Edgard Morin ha voluto risolvere il conflitto antropologico
tra natura e cultura, altro grande tema di intima incidenza mediologica: i due termini, lungi
dall’essere tra loro distanti o contrapposti, costituiscono invece due facce della ri-
determinazione dell’antroposfera.
L’invenzione del quotidiano
L’invenzione di Gutenberg automatizza e rende più economico il processo di imprimere e
trasportare la parola scritta, implementando nuove conformazioni della comunicazione
che, partendo dalla forma libro, la oltrepassando in termini di velocità e distribuzione. I
giornali permettono alla parola stampata di essere prodotta a cadenza temporale più
ristretta e ad ampliare il raggio della discussione su argomenti legati all’attualità. Di fatto, il
giornale si caratterizza per la riproposizione di temi di attualità all’interno di un’opera che è
corale (si basa sul lavoro di redazione) e che si presenta con una composizione a
mosaico. Ci troviamo di fronte alla nascita di una nuova professionalità legata alle tecniche
di stampa, ma non solo: il giornalismo rappresenta l’innovazione più significativa e ricca di
implicazioni sociali dell’assunzione della tecnocultura della stampa all’interno delle società
europee del XVII secolo. La stampa di informazioni mette a punto nell’arco di alcuni
decenni i propri dispositivi funzionali: a partire dalla prima metà del XVI secolo in Francia
iniziano a comparire le prime pubblicazioni periodiche – i cosiddetti occasionels – ma è
nella prima metà del XVII secolo che nascono in Europa le pubblicazioni a cadenza
settimanale. Solo alla metà dei XIX secolo – grazie all’emergere di nuovi fattori tecnologici
e commerciali – l’editoria periodica affronta la trasformazione che l’avvicinerà all’industria
di massa. Dal punto di vista commerciale, la diffusione dei quotidiani consente un salto di
qualità alla comunicazione pubblicitaria, soprattutto quando la sua platea di amplia con
l’avvento della cosiddetta penny press.
Dalla penny press ai penny dreadful
Per penny press intendiamo la rivoluzionaria strategia commerciale di produrre giornali
venduti a basso costo. Questa partica nasce nel 1833 quando Benjamin Day fonda il
quotidiano New York Sun: la sua idea di vendere un foglio al costo di un centesimo
destabilizzò un mercato in cui i quotidiani erano solitamente venduti a un prezzo che si
assestava attorno ai 6 cent. Il fenomeno si lega in maniera organica anche all’abbassarsi
dei costi di stampa dedicata all’intrattenimento, il sorgere del nuovo mercato dei prodotti
culturali - che sarebbe stato definito penny dreadful – ha alla sua base una decisiva
innovazione tecnologica: la macchina a vapore applicata al torchio da stampa da Friedrich
Koenig. L’insieme di questi processi contribuì alla formazione di un pubblico di massa, che
alimentò la domanda di informazione popolare come strumento di partecipazione alla vita
sociale e civile della nazione. Day, oltre a rendere accessibile economicamente il suo
giornale, rivoluzionò anche la modalità distributiva dei newspaper, introducendo la figura
dello strillone. Anche se i penny press non si distinguono solo nella loro forma e nelle
modalità distributive, ma anche e soprattutto nei contenuti: è la ricerca del profitto a
spiegare la prevalenza di notizie a carattere sensazionalistico. Per ridurre i costi il New

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York Sun concede molto più spazio alla pubblicità di quanto abbia mai fatto un quotidiano
europeo: in America i tre quarti di un giornale è occupato da pubblicità. Il modello
americano della stampa quotidiana si afferma anche in Europa, dove viene recepito nelle
realtà economiche più floride; è su questa scia che in Francia nasce La Presse (1936). La
stampa di massa stava soprattutto contribuendo a incrementare l’accessibilità alle
informazioni, e quindi a democratizzare le dinamiche del confronto politico, avvicinando
quest’ultimo agli interessi dei ceti meno abbienti.
Dalla stampa popolare alla letteratura popolare
Una volta razionalizzo il modello industriale e commerciale della stampa quotidiana,
avviene una progressiva riorganizzazione dei contenuti che sul lungo termine giunge a
trasformare anche la letteratura, ponendo le basi per quelle che saranno poi le narrative
seriali e post-seriali. La letteratura popolare è stata spesso accusata di perseguire
unicamente strategie di mercato: ma generi come il poliziesco, la fantascienza, le loro
contaminazioni, si sono affermate proprio all’interno di questa particolare accezione dei
media a stampa che coniuga la produzione industriale e culturale. Si sviluppa una
modalità di narrazione assai prossima alle forme comunitarie premoderne di esperienza
della vita, recuperando su un piano simbolico ciò che il Moderno ha estromesso dall’ordine
del discorso. Inizia così l’età del romanzo di appendice che si interroga anche su fenomeni
sociali di stringente attualità come la diversità etnica, le trasformazione dei consumi o i
conflitti della vita metropolitana. I contributi al romanzo di appendice sono
programmaticamente impegnati in un processo di ridefinizione dei significati collettivi. In
ogni caso, la storia di questo fenomeno non può essere ridotta semplicemente a un
genere letterario, deve invece essere collocato all’interno della storia culturale di
produzione della conoscenza: esso ha fornito metodi e strumenti che hanno permesso ai
lettori di formare giudizi e dare un senso alle questioni sociali e culturali contemporanee
prima che queste conoscenze venissero trasferite nelle scienze sociali. In Il superuomo di
massa. Retorica e ideologia del romanzo popolare, Umberto Eco ricompone il quadro
storico del romanzo di appendice evidenziando il successo che questo genere riscuote sin
dagli esordi: per popolare, infatti, non si intende un prodotto rozzo o semplificato risvolto a
una massa non istruita, bensì un genere aperto a tutti, basato su temi di vastissimo
interesse. Esso narra prettamente delle condizioni del proletariato e del sottoproletariato
urbano, un universo rigido e schematico che contrappone gli umili ai potenti e nel quale
emerge la figura di un superuomo che difende e vendica i più deboli. In questa prospettiva,
il romanzo d’appendice non si presenta con velleità rivoluzionarie, ponendosi quale
mediatore dei conflitti che caratterizzano la modernità: il superuomo delle masse non è
dunque una figura nobile e eroica, ma piuttosto la sedimentazione delle contraddizioni –
anche morali – dell’ambiguità. Eco sottolinea il tono consolatorio di queste narrazioni che
rispettano la canonica struttura della poetica aristotelica e il portato mitico: anche se nella
metà del XIX secolo il tasso di analfabetismo in Europa era ancora alto, il romanzo
popolare riesce tuttavia a coinvolgere un pubblico di massa. Senza voler affrontare il
discorso sulla qualità letteraria delle opere in questione, tale tipologia di romanzi a puntate
esprime di certo una forte rilevanza sociale, al punto che alcuni studiosi rintracciando
l’influenza di queste narrazioni sui primi movimenti socialisti che culminano nei moti
rivoluzionari del 1848. Qualche anno prima dell’affermazione di questo fenomeno
letterario, Tocqueville aveva delineato nei suoi scritti come il panorama culturale degli Stati
uniti – e in particolare, lo stato delle classi sociali meno abbienti – il che ci permette di
cogliere in pieno l’obiettivo dei romanzi popolari che volevano stupire più che compiacere i
lettori: negli schemi iterativi di quelle storie era possibile intravedere in filigrana la sostanza
traumatica del mondo

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moderno. I canoni di questa narrativa esistevano da migliaia di anni ed erano disponibili
per essere riutilizzati da un pubblico nuovo di lettori: analizzare il rapporto tra le tecnologie
culturali e l’inclusione sociale è un esercizio fondamentale per comprendere al meglio
l’intreccio indissolubile tra le forme storiche dei rapporti sociali e i media. Tuttavia,
indagare il fenomeno sociale della letteratura popolare del XIX secolo rende esplicita la
dirompente modernizzazione della vita quotidiana che – a partire dall’invenzione di
Gutenberg – l’industrializzazione della forme estetiche era stato in grado di promuovere.
L’importanza delle immagini nel giornalismo novecentesco
Per Roland Barthes la fotografia è in grado di presentarci il mondo sociale e materiale
attraverso la sua capacità di convincerci che, qualunque cosa l’immagine evochi agli
occhi, si tratti della semplice corrispondenza con una realtà del passato, l’intrinseca
consapevolezza del suo essere esistita. Anticipando Bathes di quasi mezzo secolo, Walter
Benjamin sostiene che la fotografia ha il potenziale di svelare la storia. A partire dalla metà
del XIX secolo, il fotogiornalismo ha plasmato il nostro modo di vedere il mondo: ad oggi si
può constatare come quest’ultimo si stia riadattando a utilizzare le nuove tecnologie per
continuare a raccontare, visualmente, la società contemporanea. Il fotogiornalismo affonda
le sue radici nella fotografia di guerra: ma come sempre avviene nella storia dei media,
con l’avanzamento culturale si registra anche un avanzamento tecnologico. L’aggiunta di
illustrazioni fotografiche alle notizie fu resa possibile solo grazie all’avanzamento della
tecnica di incisione. Nella seconda metà del XIX secolo, questo settore della
comunicazione si sarebbe ulteriormente esteso ben oltre i confini della fotografia di guerra.
Il fotografo John Thomson collaborò con il giornalista Adolph Smith per un periodico
mensile che ritraeva la vita di persone comuni in giro per le strade di Londra (il progetto
era intitolato Street Life in London) e rivoluzionò il settore utilizzando le foto come mezzo
dominante di narrazione, ma soprattutto affermò il dato di fatto che il consumo di immagini
non riguardasse solo gli eventi eccezionali ma toccasse, ormai, ogni aspetto della
quotidianità. Due importanti innovazioni tecnologiche contribuirono ulteriormente
all’espansione della cultura visuale nel giornalismo: la stampa a mezzi toni e il flash. I
mezzi toni, che alla lunga hanno rimpiazzato l’incisione, consentirono di stampare l’intera
gamma di ombreggiature delle fotografie accelerando il processo di stampa. Dal canto
suo, il flash permise una nitida fotografia di interni, caratteristica che si sarebbe rivelata
fondamentale per il più importante fotoreporter sociale dell’epoca, Jacob Riis. La sua
opera principale How The Other Half Lives documenta la vita di immigrati che vivono nelle
baraccopoli e negli insediamenti di New York. Il suo lavoro – fondamentale per la riforma
sociale – ha mostrato il potere del fotoreportage quale testimonianza epocale per il
cambiamento. Riviste fotografiche – come Life e The New York Daily News – imposero sul
mercato il photo-essay come mezzo sofisticato per la diffusione di notizie. I fermenti
migliori della comunicazione fotogiornalistica arrivarono fino alla metà del secolo XX: con il
declino delle riviste fotografiche e del giornalismo cartaceo in generale, il fotogiornalismo
si è evoluto fino a trasformarsi in qualcosa di assai distante dalle proprie forme storiche.
L’emergere delle tecnologie digitali ha imposto al fotogiornalismo cambiamenti radicali: in
un’epoca in cui l’etica giornalistica è ancora un rilevante fattore deontologico, la
manipolazione fotografica diventa un argomento molto delicato. Con il loro caratteri di
immediatezza, i social media hanno avuto un grande impatto sul ruolo stesso dei
fotoreporter. Tuttavia, l’avanzamento tecnologico ha apportato anche numerosi vantaggi ai
fotografi professionisti: basti pensare alla possibilità di inviare foto di alta qualità in pochi
secondi. Per comprendere la centralità della fotogiornalismo è necessario osservare
l’emergere del vedere come principale esercizio esperienziale dell’uomo.

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Il digitale tra contaminazioni, migrazioni e strategie multipiattaforma
Nel passaggio di secolo l’industria editoriale è stata caratterizzata da radicali mutamenti
tecnologici che, per alcuni settori della carta stampata, sono arrivati a rappresentare una
minaccia in termini di sopravvivenza. Non è impossibile immaginare un consumo di
comunicazione che non preveda più uno dei dispositivi fondanti del sistema dei media così
come lo abbiamo conosciuto ed esperito nell’arco di circa due secoli. Molti studi recenti
hanno posto l’accento sulla crisi percepita dal settore dell’editoria quotidiana: la crescente
pervasività di Internet e le dinamiche di convergenza digitale – con i relativi cambiamenti
nei modelli di consumo – esercitano una pressione finanziaria senza precedenti
sull’industria culturale. Il settore della stampa quotidiana non è il solo, tra le industrie
dedite alla creazione e dalla fornitura di contenuti culturali, a trovarsi nell’epicentro di ciò
che può essere visto come una fase di distruzione creativa accelerata dalla convergenza
digitale dell’intero sistema dei media e del relativo cambiamento dei modelli di consumo.
Ciò nonostante, il ruolo ancora essenziale dei quotidiani all’interno dell’infrastruttura su cui
si basa lo scambio culturale dell’opinione pubblica ha posto particolare enfasi sulla
capacità degli diottri di adattarsi e rinnovarsi con successo dinanzi al mutamento
tecnologico. Da parte dell’industria dell’informazione, al risposta è stata quella di attuare
un approccio multipiattaforma: in generale, rispetto al passato la tecnologia digitale ha
reso più semplice la condivisione e il riutilizzo dei contenuti (tant’è che la riprogettazione
multipiattaforma è divenuta pratica comune e riflette la diffusa consapevolezza dei
cambiamenti di consumo e delle nuove necessità del pubblico). Grazie al miglioramento
della comunicazione inerente le preferenze del pubblico è notevolmente aumentata la
capacità dei fornitori di tracciare e soddisfare più efficacemente i gusti e gli interessi dei
fruitori. Questa trasformazione ha avuto un impatto significativo sulla natura e sul mix di
risorse necessario per gestire con successo questo genere di attività. Oltre a trasformare
la natura delle risorse necessarie per entrare a far parte dell’industria editoriale, la
transizione verso la pubblicazione ibrida ha avuto un impatto notevole sulla routine
quotidiana, sui flussi di lavoro e sulle decisioni da prendere in merito alla produzione e alla
presentazione dei contenuti delle notizie. Pertanto, la potenziale disponibilità di foto e
video clip influenzerà la notiziabilità dell’oggetto in esame. In tal modo, è evidente che la
piattaforma scelta avrà i suoi effetti sul contenuto, confermando ancora una volta
l’assioma mcluhiano che fa corrispondere il medium al messaggio. Un’altra rivoluzionaria
innovazione per i media a stampa la possibilità, grazie alle piattaforme digitali, è la
possibilità di rimodellare i contenuti in base alle preferenze del lettore. La disponibilità di
dati che ritornano all’editore in virtù delle varie modalità di utilizzo di tali contenuti da pare
del lettore, garantisce ai team editoriali informazioni molto più dettagliate e granulari sugli
orientamenti del pubblico di riferimento del giornale. In termini tecnologici, mentre la
distribuzione digitale rende attuabile la realizzazione di un quotidiano fatto su misura per il
lettore, dal punto di vista dell’industria editoriale questo può non essere visto come un
vantaggio. Nel suo studio sulla convergenza digitale del giornalismo, Ivan John Erdal
identifica le sfide legate all’integrazione di un approccio multipiattaforma completamente
convergente o addirittura digital first. Nonostante gli imperativi economici che favoriscono
un approccio comune o convergente alla produzione di notizie, il raggiungimento di questo
obiettivo è condizionato da molte sfide. Soprattutto negli ultimi anni, gli editori provano
soluzioni di compromesso che, senza chiudersi alle esigenze del pubblico, permettano al
contempo di monetizzare contenuti online (le soluzione paywall). In sostanza, un paywall
funge da barriera tra l’utente e i contenuti online: per accedere ai contenuti al di là del
paywall, gli utenti devono pagare un abbonamento o un canone una tantum. In
quest’ottica, il paywall viene visto come una mossa disperata da parte del mondo
dell’editoria per sopravvivere al mutamento in atto. Alla ricerca di un nuovo modello di
business digitale redditizio, il settore editoriale ha per ora identificato un nemico comune: i
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contenuti online gratuiti. Per come sono attualmente strutturati, i paywall compromettono il
principio di apertura di Internet perché privano le persone che non possono permettersi il
costo dell’abbonamento digitale del loro diritto di informarsi e inscrivono valori commerciali
direttamente nei processi di raccolta delle notizie (con inevitabili conseguenze
sull’opinione pubblica). Per questo motivo, la lunga crisi della modernità occidentale può e
deve contribuire ad alimentare un periodo di coraggiosa sperimentazione di nuovi modelli
giornalistici, in grado di continuare a rendere possibile l’esperienza collettiva dell’essere
nel mondo anche oltre i confini storici della modernità industriale.
Capitolo IV: Arte e riproducibilità tecnica: illustrazione, manifesto,
fumetto
L’arte tra unicità e ripetizione
Nel corso dell’Ottocento gli effetti della rivoluzione industriale avevano profondamente
modificato l’idea di società: progressivamente, il modello economico dell’Occidente si era
spostato dentro un orizzonte fondato sulle modalità della fabbrica industriale, che aveva
riorganizzato il lavoro, e le stesse leggi preposte all’organizzazione dei rapporti sociali.
Ogni giorno, moltissimi lavoratori agricoli confluivano nelle città per fornire alle fabbriche la
forza lavoro necessaria a sostenere l’espansione esponenziale del ciclo economico e
produttivo. Si venne, così, a costituire ciò che gli studiosi avrebbero dapprima definito folla
e poi massa, ovvero un insieme conflittuale di individui che davano vita a una realtà
sociale senza precedenti, fondata sulla rifondazione delle culture. A questo processo di
veloce e radicale modernizzazione si deve la nascita della stampa popolare, cioè di quella
rete costituita da catene di giornali che consentivano la trasmissione a distanza delle
informazioni e, attraverso questa, una parte cospicua della costruzione sociale della realtà.
La comunicazione visuale si afferma, dunque, in una prospettiva di senso diversificata e
non riconducibile alla sola tradizione dell’immagine caricaturale e della vignetta satirica. In
particolare – sebbene le tecniche di replicazione delle immagini abbiano radici antiche – lo
sviluppo delle tecnologie della modernità fornisce una spinta decisiva all’innovazione
visuale. L’illustrazione diviene fenomeno di massa e si coniuga a molteplici strategie
espressive nell’ambito delle relazioni interumane, partendo dall’interazione
immagine/parola dell’editoria, della pubblicità e del fumetto, il linguaggio audiovisivo
basato sulla sinergia funzionale tra codice iconico e codice verbale.
Illustrazione popolare e moltiplicazione dello sguardo
Se la storia del segno ci riporta alle pitture rupestri e alle successive divaricazioni tra
pittura e scrittura, il suo sviluppo ci conduce fino al connubio tra l’immagine riprodotta e il
dispositivo mediale che fonda la modernità: la stampa a caratteri mobili di Gutenberg. Lo
stesso etimo della parola illustrazione concerne la pratica medievale e primo-moderna del
corredare i libri di lustri, ovvero di abbellimenti grafici che ne rendono gradevole l’impatto
visivo. Ma i corredi iconografici seguono il percorso strategico del libro, oggetto seriale per
antonomasia, cosicché l’illustrazione partecipa al processo di massificazione dei media
rimarcando il passaggio di stato dall’aura dell’unicità dell’opera d’arte alla sua inevitabile
replicazione e frantumazione nei movimenti progressivi della società industriale. La storia
dell’illustrazione, in definitiva non riguarda tanto il campo della storia dell’arte quanto
l’osservazione sociologica delle trasformazioni che hanno portato all’affermazione di nuovi
individualismi e innovati modelli di organizzazione sociale. La forma moderna del mondo si
rende letteralmente visibile agli occhi di una società che si ripensa nell’azione stessa di
aggiornare le dinamiche di percezione dell’esistenza. Mentre aumenta in maniera
considerevole l’ampiezza dei bacini d’utenza dei testi tipografici, le illustrazioni ampliano il
loro spettro espressivo e le loro funzioni paratattiche nelle strategie narrative. La satira

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illustrata ed i suoi protagonisti consentono l’istituzionalizzazione di nuovi dispositivi mediali
quali la stampa periodica d’informazione e il quotidiano, il capillare e coesivo medium
metropolitano che sempre di più si apre all’innovazione tecnologica della comunicazione
visiva: la riproducibilità tecnica delle immagini conseguì la portata di un medium di massa.
Fu con Gustave Dorè che l’illustrazione svelò la propria vocazione compiutamente
narrativa, sottoposta dall’autore – di formazione classica – al compito di corredare di
immagini la sterminata produzione della letteratura mondiale. Dorè occupò lo spazio
editoriale del libro, in un’operazione dal respiro utopistico eppure anticipativo della svolta
audiovisiva che la tecnologia industriale e la cultura di massa avrebbero realizzato tra la
fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Con Dorè la forma del libro muta attraverso il
sistematico ricorso ai corredi iconografici: l’immagine disegnata è il linguaggio basico che
permette ai differenti settori dell’industria culturale di accomunarsi e mediarsi
sincreticamente per colloquiare con un pubblico sempre più trasversale e dinamico.
Un rutilante mondo di carta: le riviste popolari
Nell’analisi mediologica, l’Ottocento può essere considerato soprattutto il secolo del
romanzo illustrato, come testimonia Les Voyages Extraordinaires di Jules Verne. Il secolo
successivo sancisce invece il definitivo successo delle riviste popolari quale supporto della
produzione letteraria di genere, ovvero espressione di quel sistema organizzativo del
rapporto tra produzione e consumo di immaginario. Trasversale e funzionale a tutti i
linguaggi dell’industria culturale, il sistema dei generi ha regolato la crescita dei consumi e
la trasformazione delle estetiche per un lungo arco di tempo. Diffuse principalmente – ma
non esclusivamente – nei paesi di lingua anglosassone, le pubblicazioni popolari
parteciparono sin dai primi dell’Ottocento alle trasformazioni dei consumi culturali
metropolitani. La funzione delle immagini tecnicamente riprodotte risultava centrale nel
loro modello comunicativo, poiché attraverso l’interfaccia della copertina – di solito
concepita con accesi colori e corografie visive - costituivano il primo impatto sul corpo
sensibile del consumo. La funzione paratattica del disegno emerge con forza e illumina la
comprensione sei processi sociali soggiacenti il consumo di quelle immagini e le narrazioni
di quelle storie. La dinamica diviene ancora più chiara nel Novecento, quando in America il
fenomeno di evolve nei dispositivi di pulp magazine, contenitore editoriale a basso costo
per un pubblico di massa sempre più alfabetizzato. Nel corso del secolo breve
l’illustrazione tende a dislocarsi ulteriormente sul copro articolato dei linguaggi mediali,
concorrendo alle trasformazioni del libro – ad esempio con la nascita dei paperback,
volumi economici in brossura che utilizzano l’allure dei grandi illustratori per implementare
la propria attività sul mercato – così come all’intero sistema delle forme estetiche.
Nell’ambito di una costante evoluzione tecnologica e delle strutturale sinergia con ciò che
ha luogo nei territori sperimentali delle arte visive, il destino dell’illustrazione si compie
attraverso la sua declinazione digitale, quando la potenza delle tecniche informatiche le
permette di superare la dicotomia tra staticità e movimento, traducendo i suoi sterminati
repertori nei nuovi linguaggi dell’audiovisivo.
Il manifesto come arredo metropolitano
Come già sostenuto, l’illustrazione nasce in funzione della diffusione del libro quale
supporto dei moderni processi politico-comunicativi delle società europee, ben presto essa
deborda su superfici eccedenti e non previste, nel quadro della complessa trasformazione
economica e sociale prodotta dalla fabbrica sul corpo storico della città. Nel nuovo
ecosistema culturale delle masse metropolitane, l’immagine si fa essa stessa merce che
permette di orientarsi nei riguardi delle altre merci, dunque aderendo alla riorganizzazione
dei consumi intorno ai paradigmi della società industriale: i manifesti – nel corso
dell’Ottocento – prendono a narrativizzare i prodotti della grande distribuzione

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sottolineandole non solo il valore d’uso ma tutto il portato simbolico. L’interprete esemplare
di questa fase che avvicina le espressioni dell’arte convenzionalmente intesa verso gli
aspetti prosaici ed effimeri della vita sociale è Henri Toulouse-Lautrec, figura mitica delle
avanguardie pittoriche della Belle Époque: Toulouse-Lautrec anticipa l’obsolescenza delle
dicotomie qualitative tra arte e merce nell’ottica di un’idea di cultura per cui gli aspetti
contingenti del quotidiano non possono più essere rimossi e metaforizzati in pratiche
socialmente esclusive.
Il fumetto: origini e trasformazioni di un linguaggio ambiguo
Il primo problema posto dallo studio dei comics riguarda la definizione dell’oggetto: il
medium disegnato resta un qualcosa di diverso dai numerosi reperti di commistione tra
immagini e scrittura. Il fumetto è qualcosa di molto moderno, che si lega intimamente
all’esperienza della civiltà industriale e di massa. Il legame e la continuità tra lo sviluppo
della cultura visuale nell’ambito della riproducibilità tecnica delle immagini e il sistema dei
media a stampa serve a chiarire in alcuni dei motivi del XIX secolo permisero lo sviluppo di
strategie diversificate dell’illustrazione. L’illustrazione a stampa partecipò alla ridefinizione
semiotica dello spazio urbano, contribuendo all’affermazione paradigmatica della
metropoli. Il fumetto nasce e si sviluppa in questo habitat linguistico nuovo, scintillante e
ricco, che disegna inedite traiettorie dello sguardo intervenendo direttamente sul piano
sensorio dei soggetti. Le modalità della nascita del medium-fumetto, avvenuta negli Stati
Uniti in contemporanea a quella del cinema, ci forniscono ulteriori informazioni sulla sua
natura. Nel 1895, stesso anno in cui i Fratelli Lumière presentarono al pubblico il
rivoluzionario cinematografo, esordisce sul supplemento domenicale colori del New York
World il personaggio illustrato di Richard F. Foucault ben presto ribattezzato Yellow Kid:
questo personaggio viene tradizionalmente individuati dagli storici del fumetto come
l’evento che sancisce la nascita del medium. Probabilmente non è così, poiché qualcosa
di simile veniva stampato già negli anni Venti dell’Ottocento: tuttavia, Yellow Kid presenta
fondamentali caratteristiche innovative a partire dal caotica assemblaggio di segni e
tentativi di efficaci soluzioni espressive in cui possiamo individuare la tensione che spinge
apparati e pubblico dell’illustrazione verso un piano più articolato di comunicazione. Allo
stesso tempo, l’insieme sistemico dei media si spostava in modo deciso verso l’emergente
dimensione dell’audiovisivo. Laddove il cinema punta sulla versatilità della propria
tecnologia ottico-meccanica per ottenere il risultato del movimento, il fumetto arriva con il
lavoro psicologico del lettore-spettatore, che ricostruisce mentalmente il movimento
nell’ellissi tra una vignetta e l’altra, così come immagina il suono mediante i codici della
scrittura. A differenza della riproduzione tecnica della pittura rinascimentale o barocca, il
fumetto rispondeva alla domanda di protagonismo del consumo. I primi eroi dei comics
furono quindi maschere tipizzanti della vita metropolitana, dei suoi conflitti e dei suoi
rapporti sociali. Se l’immaginario del fumetto, così come quello del cinema e degli altri
media dell’industria culturale, tendeva a mettere in scena le figure del vagabondo o della
famiglia mononucleare borghese, il suo atteggiamento rimandava ancora ai repertori
dell’illustrazione ottocentesca, limitandosi spesso a commentare piuttosto che raccontare:
il senso dinamico dell’accadere degli eventi era consegnato ad un’organizzazione visiva
interna all’illustrazione stessa. Il passaggio da una narrazione diacronica a una sincronica
fu in parte dovuta all’emergere della strip, la striscia quotidiana che prolungava il consumo
di fumetto su tutto l’arco settimanale. Per continuare a dare una profondità narrativa a
segmenti di immagine così compromessi si mise definitivamente a punto una sintassi
sequenziale, simile alla successione di quadri dei cantastorie itineranti, ma in realtà essa
era già stata sperimentata nelle forme precedenti di comunicazione tipografica.
La strip era quindi composta dalle due alle quattro vignette in successione, che
ritagliavano ellitticamente i momenti culminanti di un’ideale catena visiva: l’insieme delle
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strisce settimanali, costruiva il percorso narrativo che si concludeva nell’esplosione
policroma della pagina domenicale. In stretta relazione con il lavoro del pubblico, che si
rendeva competente e sceglieva le soluzioni più efficaci per la nascente comunicazione a
fumetti, il medium accantonava i residui ottocenteschi che lo appesantivano al fine di
allestire un linguaggio compiutamente audiovisivo attraverso un’arte sequenziale che
rimanda con grande forza alle modalità espressive del film. L’adozione del baloon, invece,
sposta su un piano più avanzato la sinergia tra codici e linguaggi dell’industria culturale.
L’articolazione linguistica individuata dal medium è questa: sempre meno il ricorso alla
didascalia si sovrappone la capacità delle immagini di costruire il proprio discorso narrativo
e sempre più i comics coinvolgeranno il lettore attraverso una struttura comunicativa affine
ai linguaggi tecnologicamente più attrezzati del sistema dei media. Il fumetto giunge così
all’apice della propria avventura mediatica, partecipando con il cinema e la radio alla
definitiva affermazione delle modalità novecentesche di industrializzazione dei processi
culturali. Il rapporto di sinergia che si instaura tra i mezzi di comunicazione vede il fumetto
in una posizione nevralgica: è il linguaggio dai costi più bassi e, per contro, la resa più
elevata sul piano della progettazione di immaginari. Il pubblico di massa che sostiene lo
sviluppo dei media industriali si sposta tra un linguaggio e l’altro grazie a un atteggiamento
mentale che gli consente di abitare il nuovo spazio della comunicazione, di gestirne la
costitutiva pluralità attraverso una competenza partecipativa e l’attitudine a dominare un
corpus linguistico assai più ricco che in passato. La competenza necessaria alla lettura dei
comics, come visto, non è facile da ottenere: occorre sviluppare la capacità di gestire
attivamente almeno due codici diversi. Proprio nel suo far interagire scrittura e immagine, il
fumetto risulta un oggetto estremamente interessante sul piano dell’analisi dei media. A
ben guardare, esso si presenta come una sorta di ipertesto ante litteram, dotato di una
struttura che bella sequenzialità attiva un automatismo programmatico di rimandi al altro.
Si tratta di una lettura che non è tuttavia quella del libro o delle altre arti figurative
tradizionali, ma qualcosa di diverso, di schizofrenico, che solo un complesso lavoro
psichico può ricompattare in una piattaforma unitaria di senso. Lo stesso tipo di lavoro che
fu chiesto allo spettatore delle origini del cinema, con l’artificio tecnico del montaggio che
permise la trasformazione del marchingegno pensato per realizzare fotografie in
movimento nel linguaggio espressivo più innovativo della prima metà del Novecento. Con
la nascita dei comic-book il fumetto vive la sua stagione più efficace: iniziano ad affermarsi
mitologie legate ai personaggi come Topolino e Superman, due delle icone tipiche della
cultura di massa, per molti aspetti omologate alle figure fotorealistiche del cinema e di altre
forme espressive. Si passerà, così, da una narrazione ciclica, basata su un’incessante
ripetizione degli stereotipi comportamentali dei personaggi, a un integrazione del tempo
storico e generazionale nell’economia del racconto. Ma questi processi investono
essenzialmente la fase di massa della vita del medium. Messo in crisi dalla concorrenza
della televisione e poi dei nuovi linguaggi informatici, il fumetto vede restringersi i suoi
spazi di adesione al quotidiano. Da medium generalista dal largo consumo, i comics si
riconfigurano come espressione di sottoculture giovanili fortemente caratterizzate, oppure
come un segmento minoritario di un ciclo produttivo dell’immaginario che lo sostiene
soltanto per il collaudo dei testi audiovisivi destinati ai più redditizi orizzonti cinematografici
e televisivi (vedi i manga). Oggi i comics hanno ridefinito ulteriormente la loro sfera
espressiva attraverso il cosiddetto graphic novel, una concezione del medium che ne
riduce il carattere seriale orientandolo verso una dimensione più prossima alle logiche
autoriali del romanzo, che al fine di bypassare la crisi dell’edicola quale luogo privilegiato
della distribuzione di massa. Il consumatore di fumetti si presenta oggi per lo più come un
lettore avventizio ed esponente di nuove generazioni, che si rinnova ciclicamente in
accordo con le strategie di marketing delle case editrici, oppure come un soggetto
duraturo e transgenerazionale, detentore di una memoria che attraversa grandi fasce di
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esperienza del linguaggio, che egli consuma e insieme conserva. È evidente che,
nonostante i suoi legami originari con tecniche e culture della comunicazione industriale, il
fumetto recuperi attualità nell’affermazione di un ruolo nevralgico negli equilibri sistemici e
nelle dinamiche della convergenza digitale
Capitolo V: Origini e mutazioni del cinema: la comunicazione
audiovisiva
I meccanismi della visione
Gli storici del cinema tendono solitamente a collocare la nascita del medium sul finire del
XIX secolo, e per la precisione nel 1895, anno in cui i fratelli Lumière brevettarono il
cinematografo. In realtà, la genesi del cinema è più complessa e affonda le sue radici
molto indietro nel tempo, toccando nessi fondanti tra visione e pensiero. I filosofi della
Magna Grecia si occuparono dei principi elementari dell’ottica, intuendone le leggi
fondamentali. Durante il Medioevo quegli studi furono ripresi sia dagli arabi che dagli
europei. Il Rinascimento vide, nel clima di clima di curiosità verso i fenomeni della natura
che lo caratterizzava, l’affermarsi della camera oscura come mezzo spettacolare. La
camera oscura, uno dei primi dispositivi ottici di cui siamo a conoscenza, consiste in un
ambiente chiuso e senza luce, alla cui estremità è praticato un piccolo foro. La luce
esterna penetra da questo e proietta sulla parte opposta l’immagine di ciò che sta al di
fuori della camera, sia pure rovesciata e scarsamente definita. La tecnica fotografica,
messa a punto alcuni secoli più avanti, si basa sull’applicazione di questo principio. Nel
clima culturale dell’epoca, quelle impalpabili visioni d’ombra e luce, senza corpo, furono
stigmatizzate come frutto di un sapere diabolico. Lo stesso Kircher e i suoi epigoni,
tuttavia, continuarono a perfezionare tecnicamente la lanterna magica e molti giunsero ad
usarla – per illustrare racconti simili a quelli dei cantastorie popolari, anticipando così la
vocazione narrativa del cinema. Lo scienziato belga Joseph Palteau studiò a fondo tali
dinamiche neuro percettive e nella prima metà del XIX secolo realizzò uno strumento – il
fenachiscopio – consistente in un disco su cui delle figure disegnate sembrano muoversi
quando il supporto viene fatto ruotare a una velocità adeguata. Esso rappresentava
un’anticipazione del teatro ottico, che a sua volta è da intendere come anticipazione del
cinema di animazione.
Nascita della fotografia
Lavorando sui principi della camera oscura e su quelli della litografia, il francese
Nicéphore Niépce mise a punto un primo processo di fissazione delle immagini basato
sull’azione chimica della luce. Il suo insegnamento fu accolto e perfezionato da Louis-
Mandé Daguerre, che con il dagherrotipo riuscì a fotografare paesaggi e ritratti molto fedeli
su lastre di rame argentato. La ricerca di supporti più duttili e di sostanze fotosensibili più
efficaci continuò, nel tentativo di raggiungere una riproduzione sempre più fedele del
referente originale. Il primo uso della nuova tecnica fu la riproduzione in immagine dei
grandi monumenti, e in genere di tutto ciò che – in prospettiva – poteva caricarsi di un
portato di malinconia: l’Estetica della nostalgia – istituita sul piano letterario da Edgard
Allan Poe – costituì fin dalla metà del XIX secolo, uno tra i vettori più potenti nella
definizione dei termini del rapporto tra forme artistiche e società industriale. Il pubblico
dell’immagine riprodotta tendeva ad allargarsi, orientato in modo massiccio vero i ritratti, la
duplicazione delle grandi opere e le vedute paesaggistiche. Lo stato di legittimità delle
immagini rimandava ancora ai miti romantici dell’arte classica, delle sue grandiose rovine.
La professione di dagherrotipista, dall’accessibile apprendistato, conobbe un boom
clamoroso e la pratica fotografica si estese in ogni angolo del mondo: in definitiva, la
fotografia è uno dei grandi indicatori sociali che ci permettono di rilevare l’entità e la

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direzione di quei processi di individualizzazione che si manifestano nella società di massa,
mutando l’ecologia tradizionale fra individuo e comunità.
Tecnologia e modelli di consumo
Nel corso del XIX secolo, l’idea di utilizzo del nuovo mezzo visivo era simile a quella sulla
fonofissazione, tecnologia messa a punto nel 1877 da Edison e da Charles Cros. Per
alcuni studiosi, infatti, la voce rimanda a un potere arcaico della comunicazione umana, un
potere che affonda le proprie radici nella voce originaria della madre: la registrazione delle
manifestazioni sensibili della vita era comunque eminentemente finalizzata alla
conservazione della memoria degli scomparsi. I modelli di consumo, tuttavia, si
spostarono presto su registri più ludici. La famiglia della società industriale aveva la
necessità di equilibrare il tempo lavorativo, esterno alla dimora, con una nuova
organizzazione del tempo privato, quello del divertimento. I processi della comunicazione
presero a sagomarsi sul profilo di un territorio urbano profondamente rinnovato, strutturato
intorno al modello della fabbrica ma, al contempo, in veloce trasformazione. Il pubblico dei
media dirige lo sviluppo dei nuovi dispositivi verso modalità di fruizione che spesso
entrano in rotta di collisione con le strategie dichiarate dagli apparati produttivi.
Cinematografia e cinema
Ma prima della televisione c’è il cinema, autentico e fondante snodo tra le pratiche
fotomeccaniche e quelle elettroniche della comunicazione sociale. L’ampio popolo degli
sperimentatori ottocenteschi si cimentò con la riproduzione delle immagini in movimenti,
covando la speranza di poter fare con la vista ciò che fonofissazione aveva reso possibile
per l’udito. Il primo a fornire una risposta operativa fu Edison, che intuì la necessità di un
supporto flessibile su cui fissare le immagini: la pellicola di celluloide, il film, era già stato
inventato da Eastman e dai fratelli inglesi Hyatt e forniva la soluzione più pratica per la
conservazione delle immagini riprese e anche per la successiva proiezione. Nel 1894
Edison allestì degli apparecchi concepiti per mostrare brevi film a un solo spettatore per
una volta, il kinetoscopio, veniva fruito a pagamento in appositi locali ribattezzati penny
arcade. Edison era contrario alla proiezione pubblica dei film poiché tale scelta avrebbe
comportato la riduzione del numero di apparecchi messi in circolazione sul mercato e,
dunque, la quantità di tecnologia prodotta dalle sue fabbriche. Un ulteriore passo in avanti
venne dall’Europa, solo un anno più tardi, quando i Lumière organizzarono la prima
proiezione pubblica a Parigi, in Boulevard des Capucines, nella sala sottostante al Grand
Cafè. Il cinematografo si basava su soluzione tecniche già approntate da altri, ma esso
consentiva di sincronizzare perfettamente lo scorrimento della pellicola con l’apertura
dell’otturatore dell’obiettivo, ottenendo quindi la stabilità e la nitidezza dell’immagine,
grazie a una griffa mutuata dal meccanismo della macchina da cucire. Occorre, qui,
sottolineare la differenza tra cinematografo e cinema teorizzata da Morin: per il sociologo
francese, il cinematografo è un’opzione tecnologica, un attrezzo che consente di realizzare
una plausibile riproduzione cinetica di immagini dal vero, frutto di quell’aspirazione a un
realismo integrale, il cinema è un linguaggio, un medium socialmente condiviso, attivato
dall’interazione del ciclo produttivo da un pubblico che ne negozia costantemente le
caratteristiche comunicative, i generi, le estetiche.
Lo spettatore Centrale è il ruolo del corpo dello spettatore, che nel cinema viene sollecitato
e posto in una condizione tale da richiamare alla mente l’esperienza del sogno in un
medium sempre più immersivo: tutto riporta la visione del film a una valenza onirica, a una
sorta di collettiva emergenza dell’inconscio. La logia profonda che muove questo
fenomeno è il desiderio annidato nello sguardo sospeso tra incredulità e coinvolgimento
dell’individuo che consuma lo spettacolo, la merce prodotta dall’industria culturale a partire
dai sedimenti dei linguaggi ottocenteschi.
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Il cinema conquista la sua egemonia nel quadro dei processi della comunicazione proprio
per la sua capacità di mobilitare il desiderio, di motivare il pubblico a pratiche di consumo
che ruotano intorno ai prodotti del cinema e li completano. Il cinema si appropria ben
presto di una spiritualità laica che ne traduce la sua natura mercificata in un elemento in
grado di far detonare nel sociale inedite forme di culto, essenzialmente legate alla figura
del divo. Gli apparati della stampa popolare si attrezzano per completare il circuito
comunicativo tra cinema e pubblico. Le sempre più diffuse riviste specializzate – che
rafforzano anche in campo tipografico un modello comunicativo fortemente iconico –
consento alle major hollywoodiane, presto imitate dalle altre cinematografie, di pianificare
accuratamente la promozione dei loro prodotti. La dimensione industriale del cinema
consente di modernizzare il processo di mitizzazione del ruolo dell’attore già presente da
molto tempo nel teatro. Quando il cinema si radica nel consumo, le dinamiche di scambio
tra apparati e pubblico diventano sempre più veloci, sottoposte come sono alla pressione
di un mezzo di comunicazione che nasce come innovazione tecnologica e che continua
incessantemente a rinnovarsi.
Per una sociologia del cinema
La sociologia si è generalmente limitata a ritenere il cinema – come, del resto l’insieme
degli altri linguaggi della comunicazione di massa – semplicemente un campo di indagine
sostanzialmente omologabile ad altri, evitando di coglierne la specificità di medium di
massa. Talvolta, la sinergia tra l’approccio sociologico e quello storiografico ha portato a
considerare il cinema come un osservatorio delle dinamiche sociali, in una prospettiva che
rende il film una sorta di repertorio socio antropologico per la comprensione del dato
storico. Una sociologia degli apparati di produzione-consumo abbinata a una sociologia
dello spettatore può dunque risultare l’ottica più interessante con cui guardare le
evoluzioni e i conflitti dell’esperienza mediale del cinema, il suo attagliarsi ai processi
culturali e ai comportamenti della società contemporanee, il suo essere una scienza dello
sguardo socialmente condivisa. Risulta, quindi, utile sottolineare che i media ottocenteschi
tendevano già a palesare una natura sistemica molto concreta, dunque a rimandarsi l’un
l’altro e a essere resi operativi in modo trasversale da un pubblico multi alfabetizzato. È
questa attenzione agli aspetti antropologici e sociali del cinema accanto a quelli estetico-
formali che può dare senso alle aspirazioni della ricerca.
Spettacolo, corpo e territorio Il cinema delle origini è un ibrido tecnologico e linguistico che
si rifà alla tradizione teatrale come alla cultura del romanzo borghese e dei suoi corredi
iconografici, alle apologie del progresso esibite nelle Grandi Esposizioni Universali. Se non
considerassimo questo processo estensivo dell’area di influenza dello spettacolo, in cui il
cinema si pone come fase tecnologica e produttiva più avanzata, se non riuscissimo a
cogliere la forza di questa attitudine del Moderno alla fantasmagoria, il cinema resterebbe
un oggetto sostanzialmente oscuro. Naturalmente, al pari di quanto era accaduto con la
fotografia, non tardarono a comparire anche film più o meno pornografici, che riscossero
un prevedibile successo nel momento in cui, a cavallo dei due secoli, era in corso una
nuova contrattazione delle pratiche sociali del corpo dopo il processo borghese di
glaciazione repressiva del sesso avviato sul finire del XVIII secolo. I modelli strategici
dell’immaginario in questa prima età cinematografica sono spesso stati visti come la
concessione mercantile a un gusto rozzo, legato al pubblico estremamente popolare che
fruiva nel nuovo mezzo, attirato dalla novità ma anche dalla sua estrema economicità: le
parti del discorso interdette dalle strategie del potere che considerano la cultura come
campo di saperi e non, anche, di pratiche multiple e complesse che rimandano al mito, agli
affetti, alle conoscenze non-linguistiche.

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Apparati e pubblico
Le comunicazioni di massa portarono a compimento negli anni Trenta, soprattutto grazie
al cinema, un vasto processo di riorganizzazione dei meccanismi di percezione della realtà
sociale e del rapporto tra questa e l’individuo. Nel corso del decennio, ad esempio, viene
definitivamente sancito il superamento della centralità alfabetica e dei suoi schemi di
pensiero, la messa in crisi della lettura come meccanismo divaricatore tra classi sociali e
ruoli intellettuali, a favore dello spettacolo, in una pratica collettiva che attraverso le sue
finzioni sembra voler simulare la realtà e che invece finisce per rivelarla allo sguardo. Tutto
è riconducibile all’incidenza delle strategie audiovisive sui vissuti del pubblico, incidenza
crescente e sempre più articolata sul piano dei linguaggi e dei rapporti tra la sfera privata e
quella collettiva. Tra il 1905 e il 1910, tuttavia, in maniera molto veloce, gli apparati
produttivi raggiungono una forma sufficientemente stabile, in grado di interagire con le
domande sempre più articolate del pubblico, soprattutto grazie a una sistematica
traduzione e riscrittura dei repertori dell’immaginario ottocentesco. Qui, registi come Edwin
Stanton Porter cominciano a usare il montaggio a fini narrativi, una tecnica che nel
decennio successivo verrà compiutamente strutturata da David Wark Griffith quale
principio di contraddizione tra inquadrature e campi e per la quale si arriverà a parlare di
“specifico” filmico o di linguaggio cinematografico tout court.
Il montaggio
Possiamo cominciare a parlare di montaggio cinematografico proprio partendo da Méliés,
le cui sperimentazioni visive – volte a suscitare stupore attraverso lo spiazzamento delle
coordinate di senso degli spettatori – producono il transito da una narrazione per immagini
vincolata a un’unica inquadratura, e quindi a uno spazio-tempo forzatamente limitato, a
un’altra che prevede molteplici passaggi spazio-temporali grazie all’accostamento di
quadri tra loro indipendenti. Nel cinema, l’inquadratura seleziona il campo dell’immagine
compiendo una scelta e rivelando allo sguardo allo spettatore ciò che il cineasta vuole
estrapolare dalla totalità del mondo. Sistemando e, appunto, montando tra loro le diverse
inquadrature, il linguaggio cinematografico si definisce, rinunciando sempre più a cogliere
– com’era aspirazione dei Lumière – la realtà sul fatto, e assumendo per contro una
spiccata propensione narrativa, dunque una sostanziale manipolazione della realtà, un
suo ordinamento che consegna alle immagini il potenziale comunicativo del racconto. Tra
Méliès – ancora fortemente ancorato all’estetica del teatro – e Griffith troviamo
l’esperienza di Porter che pose il problema di imprimere alle immagini girate un senso del
tempo capace di dar loro significato. La soluzione espressiva da lui sviluppata è quella del
montaggio parallelo, in cui la macchina da presa segue il progredire di più eventi,
ricostruendoli in modo alternato sullo schermo e scandendo un ritmo che informa lo
spettatore su più livelli di azione. Griffith riprende da Porter questa modalità di racconto
per inquadrature distinte, legate per stacchi di immagine, nell’intento di dialogare con lo
spettatore per suscitare in lui una relazione drammatica. Si punta a coinvolgere il pubblico
all’interno di un’architettura narrativa complessa attraverso l’adozione di piani di ripresa tra
loro differenti, variazioni sapienti del ritmo degli stacchi d’immagine, l’uso dei dettagli visivi
nel montaggio. L’idea griffittiana di montaggio imprime i propri caratteri all’intero cinema
statunitense, orientandone gli esiti estetici e produttivi, ed estendendo la propria influenza
anche alle altre cinematografie. Grazie ad essa, la tecnica diventa elemento drammatico di
una narrazione estremamente funzionale all’ideologia dell’industria culturale. Questo
montaggio narrativo sarà caratterizzato dall’impercettibilità dei raccordi tra le immagini,
perché per funzionare a livello drammaturgico la percezione delle immagini da parte dello
spettatore deve essere orientata unicamente sulla linea del racconto. Su un piano
radicalmente si colloca l’idea di montaggio messa a punto in Unione Sovietica da Vsevold
Pudovkin, il montaggio costruttivo sottolineava la pregnanza del dettaglio, in una logica
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che tendeva a caricare quest’ultimo di una forte valenza simbolica. Per il cineasta
sovietico, il ruolo del montaggio nel cinema è predominante nel racconto rispetto a quello
della recitazione, soprattutto se la fine è un film lirico che sceglie non il racconto ma una
visione sostanzialmente poetica del mondo. La cinematografia sovietica tenderà invece a
perseguire una ricerca formale strettamente intrecciata alle specificità tecniche del
linguaggio filmico. Fu Sergei Michajlovic Ejzenstejn, sostenitore del montaggio
intellettuale, per il quale il film non deve agire necessariamente sulle emozioni, ma può
impegnare l’aspetto razionale dello spettatore. Si tratta di una posizione che riflette la
natura utopica dell’esperienza ejzenstejniana, quella tracciata da un cineasta impegnato
nella costruzione di una società nuovo in cui le strategie dei media sono definite da un
progetto – quello del comunismo sovietico – assai distante dalle prospettive dell’industria
culturale.
Il sonoro
Anche se gli storici individuano in The Jazz Singer il primo film sonoro, e quindi il 1927
come l’anno di questo salto tecnologico che trasforma profondamente l’attività psicofisica
dello spettatore cinematografico. Ancora una volta, la possibilità di una tecnologia non
coincide automaticamente con la sua affermazione nella cultura dei consumi. Notevoli
furono le resistenze a questa contaminazione del discorso delle immagini cinetiche, sia sul
versante teorico che su quello professionale. Tuttavia, la risposta del pubblico a questa
implementazione tecnologica dello spazio spettacolare fu di grande adesione, poiché essa
moltiplicava l’estensione del desiderio, ampliava la zona erogena del consumo stimolando
i sensi del consumatore in modo più completo e travolgente. Lo spettacolo della società
industriale si attrezza per far fronte a una crescita complessiva dei mezzi della
comunicazione che muta l’agibilità e l’idea del corpo, un corpo che i derivati tecnologici
dell’elettricità rendono sempre meno limitati alla sua localizzazione spazio-temporale.
L’ombra dell’immaginario criminale viene animata dai suoni delle sirene della polizia, degli
spari, delle urla di dolore o d’angoscia che cortocircuitano il tempo del racconto.
Se è vero che l’esigenza del suono è insita nel cinema muto come dimostrano proprio
alcune soluzione narrative tutte basate sul rumore immaginario prodotto dall’uso
programmatico della partitura orchestrale, la tecnologia del sonoro viene a coronare un
processo di spostamento del consumo verso una dimensione più marcatamente
multimediale. Il sonoro cambia il rapporto tra spettatore e schermo, mutano i codici e le
forme della partecipazione, maturano i presupposti per un ulteriore scatto delle dinamiche
di interazione tra pubblico e territorio.
Tra finzione e realtà
Il cinematografo conquista così uno statuto linguistico riconosciuto e viene definito settima
arte nel momento in cui il suo sistema produttivo si integra funzionalmente con le pratiche
del consumo, ovvero, il suo sviluppo passa per un radicamento nel territorio attraverso la
diffusione delle sale, che sostituiscono agli spazi improvvisati delle origini un luogo
tecnologicamente sempre più attrezzato per un consumo dal carattere collettivo e dagli
aspetti marcatamente rituali, così il cinema diviene un fenomeno di massa. Ed è qui che
possiamo individuare il transito definitivo dal cinematografo al cinema, un medium
concepito su scala modernamente industriale e su cui si depositano investimenti
passionali dai caratteri inediti. Abbiamo visto come la riflessione sul cinema si animi fin
dall’inizio, toccando dapprima i problemi puramente tecnico-scientifici, e poi quelli relativi
all’arte e all’estetica che investe la distinzione tra realtà e finzione; il che stava a
significare, innanzi tutto, interrogarsi sulla strada che il medium doveva intraprendere.
Contro la sostanziale ingenuità delle teorie del rispecchiamento della realtà e delle sue
utopie filmiche, l’esperienza collettiva ha confermato la vocazione artistica del cinema, in
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accordo con chi ritiene che il suo mutismo iniziale costituisca l’elemento di maggior
potenza espressiva per il linguaggio delle immagini in movimento. Accanto a una cultura
industriale della produzione e al potenziamento del sublime del meccanismo divistico, il
cinema hollywoodiano conquista un ruolo egemone grazie alla capacità di organizzare il
racconto e la rielabora in forme estremamente funzionali alla dialettica tra apparati e
consumo, in cui il discorso tra finzione e realtà viene riscritto nelle forme simboliche di
un’adesione profonda della vita quotidiana.
Il cinema nella cultura del Novecento
La comparsa del cinema non avvenne certo in modo pacifico. Le tassonomie artistiche
non contemplavano la presenza di quella che la è la prima arte al cui inventore si possa
attribuire un nome, anche perché la vocazione alla riproducibilità tecnica, in partenza, il
nuovo linguaggio della sacrale aura dell’unicità. Così, il nuovo mezzo conquista
gradualmente un proprio originale statuto di legittimità. Partendo come forma di puro
intrattenimento e sperimentando in simbiosi con il pubblico i propri linguaggi. Le
cinematografie nazionali, che costituiscono il punto di incontro fra tecnologie industriali e
specifici culturali, in un rapporto contraddittorio di modernizzazione, diverranno parte
integrante e rilevante delle politiche culturali del Novecento. Il cinema spiega il mondo alle
masse metropolitano (mentre da esse è dispiegato), raccontandolo su una estesissima
gamma di registri espressivi. Il mosaico delle cinematografie assume, comunque,
caratteristiche molto diverse dopo la Grande Guerra. A seguito di quella catastrofica crisi
di crescita del capitale, gli equilibri politici europei e le stesse identità culturali del vecchio
continente vacillarono fortemente, Le testimonianze di quello spaesamento epocale ci
pervengono soprattutto nelle pieghe crepuscolari del romanzo mitteleuropeo, da
Remarque a Roth. La progressiva immigrazione delle maestranze europee, e in
particolare tedesche, che diverrà assai rilevante negli anni Trenta con l’avvento del
nazismo in Germania, è il segnale più chiaro che qualcosa stava cambiando a livello
economico, politico e culturale sulla scena dell’Occidente.
L’arte della fabbrica
Fin dalle origini, il cinema aveva lasciato intravedere la fabbrica che si celava dietro le
aspirazioni artistiche, mettendone in scena le forme e l’ideologia della moderna civiltà
industriale. Il lavoro intellettuale venne regolamentato dal ciclo della produzione, dando
vita a un processo che ridefiniva il ruolo dell’autore assoggettandolo alle logiche della
merce. Per trasformare un’idea nel prodotto finito, proiettato nelle sale, le major
hollywoodiane allestirono una catena di montaggio che prevedeva almeno sessantotto
dipartimenti altamente specializzati. Le singole società di produzione, così, realizzano in
maniera compiuta quella sinergia funzionale con la distribuzione e l’esercizio delle sale sul
territorio che avrebbe garantito loro, per un lungo trentennio, la gestione di veri e propri
trust. Senza in realtà inventare niente di nuovo, ma organizzando al meglio quanto
esisteva e l’enorme risorsa del loro mercato interno, sempre più orientato verso il consumo
di masse delle forme estetiche, gli imprenditori di Hollywood misero a punto un insieme di
apparati produttivi basati su tre coordinate essenziali: lo studio-system, lo star-system e il
sistema dei generi. Il film diventava così un manufatto messo a punto attraverso il lavoro
astratto delle maestranze su tutti i livelli, regista compreso, e la direzione reale del
progetto era nelle mani del produttore. Il potenziale comunicativo e spettacolare del divo,
nato già nel teatro europeo, al cinema si estremizzò in una dinamica parossistica, favorito
dall’ingigantimento dei corpi e dei primi piani sul grande schermo. Anche il sistema dei
generi aderiva al criterio di massima specializzazione della manodopera e del lavoro
intellettuale. I generi cinematografici consentivano inoltre il riutilizzo dei set, dei costumi,
delle macchine di scena. La ricerca scientifica di standard produttivi, tipica dell’intera

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esperienza dell’industria culturale novecentesca, raggiunse ad Hollywood il suo grado più
elevato, organizzando efficacemente il rapporto con il pubblico.
Centralità della sceneggiatura e strategie dell’emozione
La Sociologia delle emozioni, elaborata nel 1885 dal critico teatrale Georges Polti, il quale
– rifacendosi alla tradizione settecentesca e ottocentesca della riflessione sulle tecniche
della messa in scena- sintetizzava in trentasei situazioni basilari lo sviluppo di ogni
intreccio narrativo. Questa schematizzazione sarà alla base dello sviluppo delle tecniche
di sceneggiatura, centrali nella messa a punto del linguaggio cinematografico, e già negli
anni Venti il tributo degli sceneggiatori hollywoodiani al lavoro di Polti sarà esplicito. L’idea
di stereotipo sarà uno dei cardini del rifiuto alle produzioni dell’industria culturale espresso
dagli intellettuali di una parte della scuola di Francoforte, ma è innegabile che la razionalità
interna a quanto sistema di produzione riesca a comprendere perfino gli aspetti più
emozionali e oscuri alle pratiche della comunicazione di massa. Non a caso, sarà proprio
la sceneggiatura a essere messa in crisi dall’emergenza delle tecnologie informatiche, che
ridefiniscono la distanza tra fruitore e testo. Dal 1927, anno in cui l’avvento socio-tecnico
del sonoro produce una profonda frattura nell’esperienza spettatoriale, il cinema
americano ha sempre saputo rispondere alla domanda di maggior coinvolgimento
sensoriale del pubblico, consapevole della propria natura emozionale. Va detto che
l’interesse dei sociologi per gli effetti del cinema è sempre stato abbastanza vivo, e anche
un antropologo come Marcel Mauss, nell’ambito del suo lavoro sulle tecniche culturali del
corpo, ha rilevato come movimenti essenziali quali il semplice camminare o una gamma di
altri gesti collegati a modalità del consumo siano modificati e uniformati dalla penetrazione
sociale dei modelli attualizzati proposti nei film. Ma la sociologia dei media non può
limitarsi all’analisi dei contenuti o alla registrazione degli effetti – una metodica, questa, in
sé sempre opinabile – e deve piuttosto muoversi in modo da tener conto della complessità
inerente le pratiche della comunicazione in generale. Torna più utile, in tal senso,
l’approccio di chi sottolinea la natura istituzione tra le istituzioni esistenti, cioè l’essere il
cinema campo di un confronto serrato e negazionale tra pratiche e vissuti, tra apparati e
società, unica dinamica che consenta di superare i limiti della deriva estetica e affrontare
la ricerca dei fondamenti sociali del gusto.
Cinema e televisione
Un punto di non ritorno nell’esperienza del cinema p compiuto dall’affermazione di un
soggetto a esso antagonista, la televisione, che per lungo tempo è stato visto come il
dispositivo di annichilimento del medium cinematografico. Ma è interessante guardare a
questo confronto tra media nella giusta prospettiva storica e considerare la complessa
natura dei conflitti, culturali ed economici, che essa sottende. Se è vero che, come
sostengono molti studiosi, la tv abbia prodotto la fine dell’egemonia del cinema
nell’economia globale dei processi comunicativi segnando ad esempio il tramonto della
cosiddetta Golden Age di Hollywood è anche accertato che le stesse major statunitensi
tentarono di occupare gli spazi aperti della nuova tecnologia e di orientarne gli esiti
industriali attraverso le modalità del consumo. Per un periodo, tra il 1948 e il 1955, si
diffuse il teathre television, tecnologia già sperimentata negli anni Trenta dalla Rca che
rendeva possibile trasmettere sul grande schermo delle sale cinematografiche la
programmazione televisiva. In questa fase, così come accadde in Italia nella seconda
metà degli anni Cinquanta, fu possibile assistere a eventi televisivi di grande richiamo, per
lo più sportivi, in alcune sale appositamente attrezzate del circuito cinematografico.
Nell’arco di un decennio, dal 1946 al 1955, il 78% delle famiglie americane giunse a
possedere un televisore, il che rese praticamente inefficace il theatre television. La nuova
tecnologia aveva rovesciato la tendenza – cui il cinema aveva aderito, in sostanziale linea

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di continuità con la tradizione ottocentesca delle forme spettacolari – a collocare le
pratiche del divertimenti dall’interno della dimora all’esterno dei luoghi collettivi della
metropoli. Non estraneo a tale dinamica era il portato di acquisizione di status legato al
possesso di questo nuovo e prestigioso elettrodomestico. La fruizione cinematografica
prese a differenziarsi da quella televisiva, sollecitando il corpo dello spettatore come mai
era accaduto prima attraverso la massiccia implementazione dell’immersività filmica. Da
un lato, dunque, il cinema rifiutava di cedere le armi al medium emergente, opponendosi
alle sue strategie attraverso l’esasperazione dei propri margini linguistici; dall’altro,
riconosceva l’esistenza di un nuovo e ricettivo mercato dell’audiovisivo, ponendo le basi
per confrontarsi con esso. Ma questa ideologia del conflitto e della resistenza alla
contemporaneità viene messa in crisi dai nuovi assetti imprenditoriali della comunicazione,
che registrano il ritorno in forze degli apparati produttivi cinematografici sulla scena.
Nuovi luoghi per il cinema
L’effettiva entità della distanza tra i due media che si sono dividi l’egemonia delle
comunicazioni di massa nel corso di quasi tutto il Ventesimo secolo andrebbe
riconsiderata e spogliata delle sue connotazioni ideologiche, ormai non più funzionali
neppure a un coerente presa di posizione. La stessa natura dell’offerta è meno divergente
di quanto si sia soliti affermare, poiché il palinsesto televisivo rimanda al programma
cinematografico degli anni Trenta e Quaranta, in cui il film era contornato
dall’informazione, dalla pubblicità, dalle novità musicali e dalle serie a puntate, spesso
ispirate ai personaggi di maggior successo del fumetto. La televisione rispose all’esigenza
di ridisegnare il territorio che scaturiva dall’emergere dei nuovi modelli produttivi e di
consumo dopo lo shock economico, culturale e politico della seconda guerra mondiale. Il
dato più rilevante risiede probabilmente nel diverso grado di interattività offerto dalla
televisione. Con l’avvento del piccolo schermo e soprattutto con la sua incessante
evoluzione tecnologica – mutano le condizioni della fruizione, in un progressivo
spostamento paradigmatico verso una medialità non più definibile di massa. In qualche
modo, la televisione determina nuovi luoghi per il cinema: lo ospita al proprio interno, ma
al contempo ne riformula i caratteri costitutivi e gli stessi statuti linguistico-espressivi. Lo
scambio professionale e di immaginario tra i due media è programmatico: molti tra i registi
più interessanti del cinema contemporaneo provengono dall’esperienza e dai linguaggi
televisivi oppure dialogano strettamente con essi.
Il cinema come effetto speciale
Le domande da porsi di fronte al prodotto filmico non riguardano, in definitiva, la natura
dell’arte ma la funzione sociale di questa. Si rende tuttavia necessario abbandonare ogni
istanza protezionistica e museale nei riguardi di questo mezzo. La sua memoria va
considerata in quanto memoria del Novecento, ma la sua rispondenza ai nuovi bisogni del
consumo di comunicazione è ormai stata ridimensionata dal passaggio di stato causato
dal processo di demassificazione che investe le forme e i modi della cultura di massa nel
transito dalla società tardo-industriale a quella post-industriale. Le nuove tecnologie digitali
hanno da tempo prodotto il loro effetti sul tradizionale corpo tecno-culturale del cinema,
sulla sua natura ottico-meccanica e riproduttiva. Il discorso si sposta dalle iniziali teorie del
riflesso a quelle della simulazione radicale dell’immagine numerica. Tra le attuali
potenzialità dell’informatica, infatti, annoveriamo tecnologie che consentono allo spettatore
di calarsi all’interno del mondo digitale e di interagire con esso e in esso, realizzando
quella personalizzazione dei processi comunicativi che sembra costruire l’orientamento
prevalente nelle attuali pratiche mediali. Con esse si realizza un desiderio radicale di
partecipazione anticipato da tutte le forme audiovisive precedenti. Il computer non è solo

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lo strumento con cui si fa cinema, ma sempre di più uno strumento attraverso cui si
consuma il cinema, e nei domini della rete, il suo nuovo habitat.
Capitolo VI: La comunicazione istantanea: telegrafo, radio, televisione
Elettricità e istantaneità
Quando il sociologo e storico fondatore della Scuola di Toronto, Marshall McLuhan, si
trova a dare una definizione di età elettrica parte inevitabilmente da lontano, vale a dire da
ciò che nella sua prospettiva divide e caratterizza la società preindustriale rispetto allo
sconvolgimento prodotto dalla scoperta dell’elettricità e dall’avvento del paradigma della
fabbrica. I progressi scientifici e tecnologici ottenuti a cavallo fra i secoli XVIII e XIX sono
la spinta e insieme il sintomo del delinearsi di un nuovo orizzonte per la specie umana,
dove il “compito di imparare e sapere”, liberato dalla griglia della specializzazione delle
competenze e dei poteri, assume per la prima volta una funzione unificante in senso
stretto. L’individuo al centro dell’età elettrica viene definito McLuhan come un nomade alla
continua ricerca della conoscenza, al quale l’elettricità fornisce il supporto fisico per
spostarsi da un’informazione all’altra fino a stabilire un’inedita e totalizzante forma di
connessione con le cose. Nell’Ottocento il potere di conoscere porta a definitivo
compimento il percorso di erosione delle fondamenta del potere che conosce: questo
perché l’elettricità ha la forza di estendere globalmente il sistema nervoso dell’uomo, di
individuare e svelare il punto d’incontro fra i suoi presupposti biologici e il divenire dei
processi sociali in cui, come nella contemporaneità, l’individuo si trova a essere coinvolto
nel crescente prodursi di informazioni che viaggiano alla stessa velocità degli impulsi
celebrali. McLuhan è fra i primo studiosi di comunicazione a preconizzare la qualità
immersiva ed estensiva della loro esperienza: i dispositivi mediatici sussistono in una
relazione di mutuo scambio che li porta a riplasmare l’ambiente accanto a chi lo abita. Se
per l’era della fabbrica valgono i parametri dominanti della linearità e della visualità alla
base delle pratiche della scrittura e della lettura, con l’età elettrica comincia ad affermarsi
un modello esperienziale basato sull’istantaneità e la circolarità. È anche e innanzitutto il
corpus sociale a modificarsi immergendo gli individui in un flusso omnipervasivo di
informazioni, che lavora per accorciare le percezione delle distanze sia in termini spaziali
che temporali, arrivando a realizzare il villaggio globale descritto da McLuhan nel suo
fondamentale libro Gli strumenti del comunicare (1964). Tale processo, innescato dallo
sviluppo delle tecnologie dei trasporti, va ad ampliarsi. Dall’inedita e inaudita estensione
dello spazio sociale che le reti ferroviarie e il miglioramento delle tecnologie di navigazione
producono nel corso del XIX secolo deriva quella che James Beninger definisce una crisi
di controllo, vale a dire la nascita di un impellente bisogno di compensare la nuova
grandezza dell’orizzonte spaziale e coprire le distanze materiali in tempi sempre più brevi.
L’istantaneità, la simultaneità del qui e ora dell’altrove rivestono il cuore della rivoluzione
iniziata – sulla base concettuale del telegrafo ottico – dal telegrafo elettrico di Samuel
Morse e culminata nel 1876 con l’invenzione del telefono, dispositivo dai molti padri ma
brevettato nella sua soluzione definitiva da Alexander Graham Bell.
Nascita della radio e intrattenimento wireless
La percezione dell’hic et nunc non è più limitata alla condivisione materiale del medesimo
spazio-tempo ma si estende all’atto comunicativo fino a identificarsi con esso. In più, e a
differenza del telegrafo, il telefono offre all’individuo la possibilità di eludere la mediazione
specialistica di cui parlava McLuhan a proposito degli stravolgimenti sociali derivati
dall’avvento dell’età elettrica. Non a caso i primi passi in direzione dell’invenzione della
radio muovono dallo stesso principio alla base delle nuove reti delle telecomunicazioni,
prima telegrafiche e poi telefoniche: la trasmissione di dati sulle lunghe distanze. Il sistema
dei media procedere rapidamente all’eliminazione dei vincoli e degli ostacoli che
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impediscono una sua ulteriore espansione. Alla radiotelegrafie mancano i cavi ma manca
anche la capacità, come il suo stesso nome ci ricorda, di svincolarsi dalla scrittura
riproducendo la voce umana. Una facoltà destinata a rimanere esclusivo appannaggio del
telefono fino al 1906, anno nel quale Reginald Fessenden effettua la prima trasmissione
vocale radiofonica. Ciò rappresenta senz’altro un punto di svolta sia nei termini
dell’orizzonte percettivo sin qui discussi che per quanto riguarda l’insieme dei processi
mediatici e del sistema di relazioni che lo sostiene.
La radio fra totalitarismo e democrazia
Con la diffusione della radio la facoltà aggregante dei processi mediatici viene portata
definitivamente alla luce. La radio va a creare a propria volta inedite occasioni di incontro e
di condivisione sociale; una proprietà che i regimi emergenti negli anni Venti e Trenta del
Novecento si trovano irrimediabilmente a intercettare e piegare ai propri scopi. I popoli
coinvolti nel primo conflitto mondiale vengono tenuti all’erta e al corrente delle notizie dal
fronte attraverso la propaganda radiofonica. Il risultato di tale coinvolgimento, che
McLuhan ha visto e interpretato come un processo di ritribalizzazione della società, ovvero
di un essenziale ritorno alle forme arcaiche di condivisione nella nuova e ne più estesa
prospettiva del villaggio globale. Cinema e radio collaborano e si affiancano nella dialettica
fra masse e potere, assecondando un uso sociale dei media desideroso di restituire lo
spirito del tempo delle guerre di trincea e dei dittatori rivolti alle piazze invase dalla folla. In
Italia, per esempio, bisognerà attendere il 1939 per assistere al compimento del processo
di implementazione della radio nella dimensione abitativa, in sostituzione di
apparecchiature, quali il grammofono e la pianola, espressamente finalizzate alla
riproduzione e all’ascolto del suo negli ambiti del privato: la proprietà di sollecitare in
maniera diretta un’unica terminazione sensoriale senza obbligare i soggetti a concentrarsi
completamente sul processo comunicativo – fa sì che esso contribuisca con facilità alla
riscrittura del contesto pubblico come di quello privato. Svago e aggiornamento coesistono
in un solo mezzo, il cui inevitabilmente destino è quello di costituire l’interfaccia privilegiata
delle nuove forme della quotidianità nella vita famigliare. Centrale anche dal punto di vista
del design e dell’arredamento, è un medium che per molti versi va a rimpiazzare il ruolo
fisico e la funzione sociale del fuoco acceso dell’era premoderna. Se la forma d’uso adotta
fra prima e seconda guerra mondiale rimanda alla dimensione declamatoria dei convegni
di piazza – Mussolini concepisce la radio più come un megafono che come luogo di
scambio comunicativo in senso stretto – la successiva e progressiva integrazione della
radiofonia nei circuiti della sfera privata si pone al principio di un processo di
democratizzazione del medium che conduce inevitabilmente alla riprogettazione del suo
supporto tecnologico.
Dalle valvole ai transitor: la radio come protesi
Nel quadro della lenta ma inesorabile ripresa economica seguita alla risoluzione dei due
conflitti mondiali, il brevetto messo a punto da Walter Brattain, William Shockley e John
Bardeen negli studi della Bell Telephone americana va dunque a inaugurare una nuova
fase evolutiva dell’elettronica d’ora in avanti intimamente legata al dispositivo del transitor.
Questo neonato componente elettrico contribuisce a un’inaudita accelerazione dei
processi di diffusione e di potenziamento delle tecnologie culturali, a partire innanzitutto
dalla loro miniaturizzazione. Il boom economico degli anni Cinquanta e la conseguente
nascita di inedite categorie sociali di consumatori, a cominciare da quei giovani che si
ritrovano e identificano nelle moderne pratiche di ascolto musicale sia individuali che
collettive, dona l’ultima e decisiva spinta a un sistema mediatico già intrinsecamente
audiovisivo I Radio Days – per citare un celebre film di Woody Allen (1987) – sono al loro

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acme storico, ma anche e nel contempo sul punto sul punto di partecipare all’ennesimo
stravolgimento socioculturale.
Nascita della televisione: il broadcasting
L’estensione dei sensi umani, a maggior ragione se inserita nella cornice accelerata della
società elettrica e industrializzata fa molto presto a saturarsi. I prolungamenti dell’occhio e
dell’orecchio necessitano di altri orizzonti entro cui rinnovarsi per modificare e diversificare
l’esperienza umana del mondo. Mentre la radio fa capolino sulla scena socioculturale
influenzando il cinema a punto da condizionarne e mutarne per sempre le specifiche
linguistiche le sperimentazioni sul mezzo televisivo sono già cominciate. La stessa
massificazione della società muove verso lo sviluppo di nuove forme comunicative che
siano in grado di adeguarsi all’hic et nunc di una data configurazione socio storico. È una
relazione biunivoca o, per meglio dire, circolare, che spoglia la tecnica del suo ruolo
teorico di strumento autonomo per intrecciarla al sociale e all’umano senza soluzione di
continuità. In tale prospettiva ogni tecnologia, la televisione in particolare, assume
carattere di forma culturale. Alle prime trasmissioni tv, sperimentate fra gli anni Venti e
Trenta del Novecento, segue una fase di progressiva sistematizzazione che sfocia
dell’istituzionalizzazione vera e propria di metà secolo, successiva alla fine della guerra e
contemporanea alla diffusione dei transitor: il 1954 anno dell’esordio della televisione in
Italia, coincide con la data del debutto delle radio portatili sul mercato mondiale. Tramite la
forma comunicativa da uno a molti del broadcasting, segni e segni dell’industria culturale,
della sua configurazione esterna ed esteriore, rivivono fra le pareti di milioni di case. La
dimensione private del sociale va tanto a potenziarsi quanto a ridefinire i termini del suo
rapporto con la collettività. Anziché ripiegarsi su sé stesso, con l’avvento della televisione
lo spazio dell’individuo amplia i propri confini fino ad occupare il centro della prima forma
compiuta di privatizzazione mobile. Grazie alla tecnologia del tubo catodico la visione dei
luoghi più reconditi del mondo può essere condivisa e condivisa in un flusso inarrestabile e
istantaneo che mutua la propria forma dal sistema radiofonico aggiungendovi il potere
fascinatorio e immediatamente credibile dell’immagine in movimento. Mentre alla radio
manca la tangibilità del riferimento visivo e al cinema la capacità di riprodurre
istantaneamente le immagini della società di massa, la televisione tocca ogni cosa nello
stesso momento, Fuoriesce dai circuiti deputati alla fruizione culturale per entrare
nell’intima quotidianità delle famiglie e dei loro membri e scardinarli dalla dimensione
materiale dello spazio. Il confronto tra tv e mezzo radiofonico sussiste poi anche sul piano
della diffusione: concretizzando il noto principio mcluhaniano che antepone la
configurazione culturale ai contenuti della comunicazione, i due media si collocano a capo
di un movimento decisivo nel quale massificazione e individualizzazione rappresentano le
due facce della stessa medaglia del sistema delle trasmissioni mediatiche. La televisione è
il luogo di confine dove le relazioni fra le dinamiche di produzione e di consumo e le
soggettività contemporanee che ne sono protagoniste vengono sottoposte a una totale
ritessitura che riflesse una nuova modalità dell’istituzionalizzazione della cultura. Sintesi
dell’intera esperienza della società di massa fino agli anni Trenta del Novecento il sistema
televisivo propone un linguaggio e una modalità di fruizione la cui polimorfa, immersiva e
divorante espande il dominio dei sensi e allarga i confini del desiderio.
La televisione in Italia
Quello degli anni Cinquanta è il periodo nel quale anche in Italia fa il suo ingresso ufficiale
nel sistema dei media, per quanto con ritardo rispetto ai paesi anglosassoni, sancisce il
passaggio dalla centralità della radio all’egemonia televisiva viene inizialmente attutito da
una strategia di sostanziale scambio dei formati e dei contenuti della comunicazione. Nel
caso specifico dell’Italia, questa continuità fra palinsesti passa attraverso il mantenimento

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dell’impostazione pedagogizzante che per decenni ha strutturato l’offerta radiofonica
italiana, a volte piegandosi alle logiche antidemocratiche di regime. Ciò non basata,
tuttavia a facilitare l’integrazione del nuovo medium nel tessuto sociale nella vita
quotidiana del paese. L’Italia, almeno al principio, si tiene entro i confini di un insieme di
politiche cultuali che distinguono il vecchio continente dagli Stati Uniti d’America. I
palinsesti televisivi europei, strutturati dall’alto e gestiti dai monopoli statali, riducono le
possibilità del mezzo a un flusso unico che – parafrasando John Reith, lo storico direttore
del servizio pubblico radiotelevisivo europeo – conserva lo scopo primario di educare,
informare e intrattenere. Se da un lato persiste l’impostazione apertamente didattica di
programmi quali Non è mai troppo tardi prefigura la possibilità di un’auto-alfabetizzazione
popolare atta a riavvicinare gli spettatori, oltre che sul piano comunicativo, anche dal punto
di vista più strettamente sociale: i pubblici hanno cominciato a ridistribuirsi sulla base di
nuovi e più fluidi criteri, esigendo a propria volta una radicale riprogettazione dei palinsesti
e delle specifiche linguistiche dell’offerta mediatica. Mentre in America e in Europa
avvengono le prime trasmissioni televisive a colori, le nuove generazioni affacciatesi sulla
scena pubblica per riscriverne le dinamiche di consumo stanno ora inevitabilmente
convertendosi in un nuovo e recalcitrante soggetto politico. È nell’arco di tale crisi della
società di massa che il dispositivo della serialità televisiva, e dunque delle serie tv, ava
consolidare l’egemonia del medium catodico rispetto all’insieme dei processi comunicativi
proiettandola verso la successiva mutazione nel modello generalista, che a sua volta
prelude la frantumazione della programmazione e dell’audience della fine del secolo
(quella che Eco definisce la neotelevisione).
Radio e televisione verso il digitale
L’emergere della portabilità si trova ad implementare un dispositivo che la connette
immantinente a una nuova concezione di istantaneità e, dunque, di mappatura
spaziotemporale dell’esperienza umana: il GPS. Questo strumento sfrutta l’immaterialità
delle onde radio per effettuare una più precisa misurazione delle coordinate spaziali sul
territorio fisico. Tale applicazione rientra in un più generale processo di risemantizzatine
territoriale e di rinegoziazione dei termini della sfera privata che contribuisce in primo
luogo all’invenzione e la diffusione delle tecnologie digitali. Componente fondamentale del
sistema dei media, la televisione non può esimersi dal cogliere le istanze della
digitalizzazione della società e della stessa antroposfera. In Italia, dove gli anni Ottanta è
entrato in vigore il sistema nazionale delle emittenti commerciali e del duopolio Rai-
Mediaset, ciò va a tradursi in una sostanziale amplificazione del concetto di
privatizzazione mobile introdotto da Williams. È l’alba della post-televisione, vale a dire di
una modalità di orientamento fra le narrazioni audiovisive e gli spazi della virtualità sempre
più votata all’interattività e al protagonismo del narrowcasting, porta irrimediabilmente al
tracollo la struttura e le regole alla base del modello generalista. Qui la sovrapposizione fra
il nuovo habitus del quotidiano e la serializzazione del racconto ha già dato vita a una
grande varietà di infinità testuali, esempi di lunga serialità esportati in tutto il mondo,
ciascuno con il proprio caratteristico brand. Nel frattempo il World Wide Web di Tim
Bernes-Lee, la cui implementazione risale ai primi anni Novanta, ha portato all’estremo la
formulazione del villaggio globale di McLuhan riproposta in apertura. Tutti i sensi, il tatto in
primis, sono rimasti coinvolti in pratiche di condivisione e narrazione continue e istantanee,
capaci di convertire l’invisibile in visibile. Il flusso si è globalizzato di pari passo con una
mobilità tecnologica sempre più prostetica e miniaturizzata oltre il senso del luogo. Dopo
aver rielaborato da una pare le modalità organizzative della comunicazione e dall’altra il
sistema delle istanze latenti all’interno delle diverse configurazioni socio storiche delle
forme culturali, i flussi radiofonici e televisivi sono arrivati a fondersi con la proprietà

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interattiva e ipertestuale della rete e dei suoi supporti, convergendo negli illimitati e fluidi
percorsi schermici della società digitale.
Web radio e web series socializzano il flusso fino a farne il collante invisibile delle nuove
pratiche di consumo e scambio culturale, l’inarrestabile narrazione di una dimensione
umana profondamente modificata che, fra un tap e l’altro, avanza nell’infinito reticolo di
immagini e suoni proposti dal cyberspace.
Capitolo VII: La fine delle comunicazioni di massa: reti e personal media
nell’età digitale
Interfacce e media, una storia di fantasmi
La nostra quotidianità è progressivamente caratterizzata dalla disponibilità di apparati
informatici con i quali interagiamo ininterrottamente, device dalle funzionalità più disparate.
Superata l’era del computer come device monolitico, caratterizzato da una singola
interfaccia, ci troviamo di fronte a un moltiplicarsi illimitato di interazioni uomo-macchina,
cui corrisponde un pari incremento del numero di interfacce coinvolte. La storia tecno-
culturale dell’umanità è scandita dall’evolversi di dinamiche interattive a partire dalla
scoperta delle modalità di utilizzo del proprio corpo: l’hardware biologico è la prima e più
importante tecnologia umana. Dalle attività della caccia sino a rivoluzioni antropologiche
quali la scoperta del fuoco o l’invenzione della ruota, la capacità di interagire col mondo
attraverso la sfera della tecnica ha esteso in maniera esponenziale le potenzialità di
dominio della specie sull’ambiente. La vicenda della specie si fonda sull’ininterrotta
relazione con l’ecosfera nel tentativo di sopravvivere estendendo il portato delle nostre
capacità (ciò che Pierre Levy definisce ominazione). In quest’ottica si possono considerare
i più recenti supporti tecnologici, l’avvento delle macchine industriali e di strumenti di
comunicazione come telegrafo, radio, televisione, quali conseguenze del medesimo
impulso ad accrescere il nostro portato sensoriale per controllare l’habitat in cui ha luogo
la nostra esistenza. L’interattività digitale costituisce il frutto di un lungo processo di
adattamento tra copro e tecnologia, anche l’interazione novecentesca con gli elaborati
elettronici nasce in una forma complessa e in sostanza ancora meccanica.
La parabola dell’orologio
La storia dell’interfacce, come di norma per i media, è fatta di integrazioni e sparizioni più
o meno graduali. Molti strumenti che hanno fatto parte della vita quotidiana sono stati
integrati in altri media che li hanno rimpiazzati. È il caso dell’orologio, uno strumento
fondamentale nei processi di modernizzazione. La meridiana risolveva con semplicità la
necessità di condividere la percezione del tempo, pur avendo un grosso problema: non
era consultabile in assenza di sole. Il primo orologio meccanico, di natura sempre
pubblico, vide la sua nascita soltanto nella Francia del XII secolo. La natura pubblica
dell’orologio di piazza si trasforma con la comparsa dei primi orologi a pendolo, rimpiccioliti
a tal punto da poter essere contenuti in una casa. La miniaturizzazione, che esaudisce
l’esigenza sociale di possedere privatamente uno strumento segnatempo, prosegue con
l’introduzione dell’orologio da taschino, e infine, la nascita dell’orologio da polso. Il passo
seguente al transito da oggetto pubblico a privato è la digitalizzazione dell’orologio: si
superano i congegni meccanici a favore delle oscillazioni del quarzo, con un display che
scrive ore e minuti. Ad oggi, sul polso di fa invece strada lo smartwatch, dispositivo che
attiva molte più funzioni di un semplice segnatempo. La parabola storica dell’orologio sin
qui sintetizzata esplicita le modalità di trasformazione dei media e delle loro interfacce:
evolvendosi sino a integrarsi tra loro, i media estendono i nostri sensi coniugandosi
sempre più strettamente al corpo biologico.

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Breve storia della musica portatile Dobbiamo considerare che prima dell’invenzione del
Walkman Sony, nel 1979, un riproduttore musicale portatile e personale non esisteva. Il
consumo musicale non esiste da solo, sospeso in un vuoto culturale: prima
dell’introduzione di questi strumenti del consumo personalizzato esistevano solo le radio
portatili o le auto-radio con lettore di audiocassette. Per comprendere questa istanza di
consumo disponiamo di alcuni riferimenti sociologici, in specie per quanto concerne gli
spazi metropolitani. Possiamo immaginare gli abitanti delle metropoli, sovraccaricati da
stimolazioni sensoriali e di prossimità fisica, attuare strategie di difesa; in alternativa, le
strade metropolitane potrebbero essere considerate semioticamente prive di interesse;
oppure si può guardare alla metropoli come un luogo alienante, pieno di sconosciuti
potenziali pericoli. In contrasto con queste visioni negative della vita metropolitana, altri
studiosi prendono spunto da Walter Benjamin per un approccio meno apocalittico alla
società moderna in cui emerge la figura del flaneur: il passeggiatore metropolitano che
esplora la città senza fretta. Nel caso in questione, si passeggia accompagnati da una
colonna sonora personale; si può analizzare tale pratica anche attraverso gli strumenti
dell’estetizzazione dell’esperienza proposta da Debord attuata trasformando in spettacolo
un semplice tragitto metropolitano. Il Walkman, creato da Sony e poi imitato da tutte le
aziende, ha avviato una rivoluzione durata oltre vent’anni. L’unico dispositivo personal in
grado di decretarne la fine del panorama culturale ed economico è stato l’Ipod di Apple.
L’avvento della musica digitale
Il Walkman consentiva agli utenti di costruire il proprio ambiente sonoro, ma in maniera
limitata rispetto alle attuali opzioni. Ad esempio, uno degli aspetti più importanti per l’utente
è la possibilità di sincronizzare la musica con il proprio umore. Sebbene il Walkman
garantisse agli utenti la gestione di un proprio ritmo personale, v’erano anche limiti per
questa soluzione tecnologica: Il dispositivo Sony ha sopperito alla necessità sociale di
creare una propria audio sfera, ma alla lunga è emersa una nuova necessità, quella di
implementare il menù musicale disponibile e gestirlo con la flessibilità richiesta dai cambi
di scena della vita quotidiana. L’avvento della tecnologia MP3 consente la trasformazione
della musica in file di dimensioni ridotte, facilmente gestibili da un computer o da un lettore
portatile. La tecnologia MP3 ha prodotto un cambiamento rapido e radicale nelle
aspettative dei consumatori verso ciò che si può fare con le tecnologie audio mobili. Gli
sviluppi tecnologici che hanno portato alla produzione dell’Ipod Apple rappresentano una
combinazione di funzionalismo tecnologico e un senso di magia. Possiamo ritrovare nell’
Ipod l’icona culturale del ventunesimo secolo e, al contempo, una stringente metafora
della vita urbana: lo spazio pubblico si è ridotto sino a scomparire all’interno della sfera
uditivo dell’individuo.
La virtualizzazione dei gadget
La trasmigrazione dell’Ipod, strumento fisico dedicato esclusivamente all’ascolto della
propria libreria musicale, all’app Ipod per smartphone è conseguenza diretta di quella re-
mediation. Le funzionalità dell’Ipod vengono dunque ri-mediate in una piattaforma più
ampia, quella dello smartphone, altra creazione di Apple, che materializza la
trasformazione del telefono cellulare in un meta medium. È il procedimento che descrive
Lev Manovich nel saggio Software takes command: per Manovich viviamo in un’epoca in
cui il software plasma ogni agente, ogni strumento e ogni oggetto della cultura. Non a
caso, per rendere indolore il passaggio del device da gadget con un suo hardware e una
sua fisicità alla sua fantasmica versione software, nelle prime iterazioni dei sistemi
operativi degli smartphone viene utilizzato un approccio scheumorfico per il design delle
interfacce. Lo scheumorfismo è l’utilizzo di ornamenti grafici che richiamano le
caratteristiche estetiche di uno schermo. Imitare vecchie tecnologie non risponde a una

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necessità duratura: è un rito di passaggio, per abituare gli utenti all’utilizzo del nuovo
ambiente tecnologico senza particolari traumi. Il destino di tutte le tecnologie è essere
rimediate in forme più attuali che lo soppiantano o, come nel caso dei lettori musicali.
Seppure sotto forma di software, così, l’Ipod guadagna un’ultima funzione che ne amplia a
dismisura il potenziale: la connettività ad alta velocità, e con essa, la capacità di
streaming. Ciò rende possibile Apple Music, Spotify, Deezer.
Sesso, soldi e sport
Secondo Patchen Barss “esiste un profondo legame tra la pornografia e gli strumenti e le
tecniche di comunicazione umana”. I creatori e i consumatori di contenuti a sfondo
sessuale hanno sempre rappresentato una forza trainante nello sviluppo di forme di
comunicazione che fanno parte del nostro quotidiano, dalla fotografia allo streaming di
video su Internet. La forte influenza della pornografia sulle comunicazioni ha contribuito a
creare molti degli strumenti a disposizione dei consumatori. L’idea di base dei motori di
ricerca dei siti di condivisione fotografica e di streaming video, nonché molti altri
componenti integranti l’attuale sistema dei media, hanno beneficiato direttamente della
spinta innovativa della pornografia. Il motivo di tale legame sembrerebbe ovvio: i
consumatori di pornografia tendono ad acquistare e utilizzare i loro prodotti in forma
anonima. Ogni recente progresso sembra quini essere teso verso vettori: la privacy e la
convenienza. Non si può, tuttavia, ridurre il ruolo di traino tecnologico della pornografia alla
semplice necessità di privacy. La pornografia alla semplice necessità di privacy. La
pornografia ha volto un ruolo importante, che non ha nulla a che vedere con l’anonimato,
per molti media. Nell’occidente industrializzato, il legame tra pornografia e mondo dei
media è fondamentalmente finanziario: questa volontà a essere beta tester ha creato un
vero e proprio modello di business che utilizza il porno come banco di prova fondamentale
per prevedere il successo di un nuovo medium, prima che questo debutti sul mercato
mainstream. Storicamente, le rappresentazioni dell’espressione umana dai bassorilievi
mesopotamici alle stampe tradizionali giapponesi sino ai linguaggi dell’industria culturale.
Studiando i nessi tra storia dei media e rappresentazione della sessualità, Jonathan
Coopersmith scrive in Sex, Vibes e Videotape: “la pornografia sarebbe pubblicamente
elogiata come un’industria che ha sviluppato, adottato e diffuso con successo e rapidità le
nuove tecnologie”. Per i consumatori comuni, la storia del rapporto tra pornografia e
comunicazione può apparire inopportuna, alla stregua di un imbarazzante segreto relativo
alla storia della tecnologia.
La globalizzazione dello sport entertainment
Già nei primi anni Trenta, l’attività sportiva un fenomeno socialmente assai più complesso
di quanto possa apparire, e costituisce di certo uno degli elementi principali della moderna
industria culturale. Il dibattito sul rapporto tra cultura e entertainment, specie su un
fenomeno rilevante dal punto di vista sociale come lo sport, implica la necessità di
considerare le molte sfaccettature. Non v’è discontinuità fra l’industria degli eventi sportivi
e il resto dell’industria culturale – in specie dopo la diffusione del medium televisivo
culturale – in specie dopo la diffusione del medium televisivo nella sfera domestica del
tempo libro – poiché essa rappresenta una colonna portante dei palinsesti generalisti così
come delle piattaforme dedicate. La spettacolarizzazione degli eventi sportivi produce
eventi mediali centrali su competizione e regole, ma anche su forme testuali adatte a
influenzare la spettacolarità. È stato così coniato il termine Medisport per definire l’intima
connessione tra sport e media, sostenendo che la fusione con il sistema della
comunicazione ha reso lo sport un fenomeno ibrido di cui è sempre più difficile interpretare
i reciproci confini.

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Lo sport come medium totale Considerando lo sport alla stregua di un medium possiamo
cogliere la composizione bivalente del suo pubblico. I fan presenti dal vivo sono parte
integrante dello spettacolo. Il pubblico dello sport ha una composizione eterogenea: si va
dagli appassionati impegnati in attività di fandom ai cosiddetti tifosi occasionali. Questa
topofilia viene mitizzata, spesso come sentimento nostalgico per tempi passati, quando gli
stadi e le squadre costituivano davvero delle rappresentazioni simboliche territoriali, e il
legame fra sport e media – come il teatro o il circo – si basava sulla performance e la
presenza fisica allo stadio.
Il solo mercato locale non può sopperire alle necessità di un’industria sportiva globale: i
campionati più importanti sono seguiti mediante vecchi e nuovi media e orientati verso
mercati slegati dall’idea di territorio, nella continua ricerca di nuove piazze, nuovi fan,
nuovi investitori. Ma oggi non si può pensare in termini di conflitto tra locale e globale: per
la crescita e la prosperità di un club all’interno di un sistema economicamente sempre più
competitivo, lo sviluppo di brand sportivi è indispensabile. Questa rinnovata fluidità
spettatoriale ed economica ci mostra una delle sfaccettature del fenomeno che Anthony
Giddens definisce disembedding: la disfunzionalità della distinzione forzata tra
entertainment e cultura, o tra cultura alta e cultura bassa, viene ancora una volta
evidenziata dall’evoluzione del fenomeno sportivo. Dalla mitizzazione della cultura
olimpica alla struttura altamente spettacolare di dream team calcistici come il Real Madrid,
o di eventi mediatici dal forte coinvolgimento sociale: risulta chiaro quanto lo sport sia uno
dei motori della moderna industria culturale e come sia riuscito a rimanere al passo coi
tempi adattandosi velocemente ala scompaginazione dei medium di massa. Il rapporto fra
media e sport si rinsalda in una convergenza che produce uno dei luoghi più dinamici della
produzione culturale contemporanea, rimescolando continuamente le analisi ortodossi e le
tassonomie del sistema trans-mediale.
Il videogame: nuovi linguaggi della rappresentazione nell’età digitale
Nell’attuale panorama mediale il videogame rappresenta un fenomeno sociale complesso
che mette in crisi l’intero sistema dei mass media. L’industria relativa a questa forma di
intrattenimento, sia per le dimensioni che per la velocità con cui si espande, rappresenta
un settore d0avanguardia nell’era digitale, con cifre che superano ormai quelle relative ad
altri media quali cinema, home video o musica. Per le sue caratteristiche, il videogame va
esaminato come medium a sé stante, un apparato socio-tecnico che funge da mediatore
nella comunicazione fra soggetto. I videogame introducono una nuova relazione tra
soggetto e rappresentazione, un rapporto che scavalca la consueta posizione
spettatoriale, individuando nella relazione ludica una nuova prospettiva valida alla
comprensione delle pratiche relative ai media digitali: giocare con il video permette di
oltrepassare i limiti dello schermo nell’interazione dei mezzi di comunicazione di massa,
individuando una soglia linguistica dai caratteri innovativi. Con l’aumento della
distribuzione digitale e la proliferazione delle piattaforme è emersa una gamma assai
diversificata di sviluppatori, pubblici e modalità di produzione e consumo di videogame.
Bisogna costatare anche una trasformazione sostanziale nella composizione della platea
dei videogiocatori: accanto un nucleo forte di giocatori, dominato prevalentemente da
uomini, che continua a privilegiare la ricerca della massima performance tecnologica, oggi
nuove piattaforme si affacciano al gaming estendendo la portata dei videogiochi a un
pubblico eterogeneo e occasionale che ha un rapporto quotidiano con i videogiochi,
interprete di un ruolo non compulsivo nel rapporto con dispositivi di videogioco.

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L’industria Tripla-A, la scena indie ed i casual game
La sezione più in vista dell’industria dei videogiochi, quella formata dagli studios che
investono di più nello sviluppo e nella commercializzazione di franchise, tecnologicamente
spettacolari, per le macchine da gioco domestiche, è comunemente nota come Tripla-A.
Storicamente i videogiochi sono sempre stati medium a propulsione tecnologica,
affascinati dalle ideologie hacker del progresso e dalla passione per il virtuosismo.
L’obiettivo del fotorealismo, ottenuto tramite l’avanzamento tecnologico, rimane una delle
utopie degli sviluppatori. Come risulta chiaramente dal concetto di generazioni di console,
il dispositivo che si interfaccia con il corpo del consumo, ciascuna vista come superiore al
precedente. La scena indie, caratterizzata da individui o piccoli team di sviluppatori che
realizzano progetti di nicchia Proprio per la musica e i film indie si sono affermati in
risposta alla produzione mainstream, gli sviluppatori di giochi indipendenti possono
operare liberamente in termini di creatività e innovazione, non essendo vincolati
dall’obbligo di rientro di investimenti milionari. Gli sviluppatori indie emergono soprattutto
dalla normalizzazione dei canali di distribuzione digitale: gli sviluppatori indie sfruttano
appieno Internet per offrire giochi economici direttamente agli utenti, senza la necessità di
intermediari. Grazie ai loro costi di gestioni più bassi, la crescita degli studi indie ha creato
nuovi generi e stili, resuscitando anche alcune dinamiche dei giochi delle origini e
ripercorrendo una strada completamente diversa rispetto a quella cultura del continuo
aggiornamento hardware degli editori Tripla-A. Se l’ascesa della scena indie ha
comportato l’effetto collaterale della legittimazione dei videogiochi, oramai accettati come
qualcosa di più che un mero prodotto di intrattenimento allora l’affermazione dei casual
games riguarda la normalizzazione sociale dei videogiochi.
I casual games attirano gli utenti attarverso uno stile e un design più accessibili: in tal
modo i casual games riescono a introdursi nella pratica quotidiana di chi non ha mai
giocato ad alcun videogames. Nei suoi circa sessant’anni di vita, il medium videoludico ha
subito una veloce e innovativa evoluzione che ne ha ampliato le prospettive in direzioni
impreviste, traghettandolo dal semplice intrattenimento interattivo alla sfera della ricerca e
dell’apprendimento.
I social media nella società delle reti
Nella letteratura sociologica, l’idea di società dell’informazione può essere ricondotta a
Daniel Ball, il sociologo americano che alla fine degli anni Cinquanta coniò la locuzione di
post industrialismo. Queste rappresentazioni sono essenziali per le successive concezioni
della società dell’informazione da parte di studiosi quali Alvin Toffler e Manuel Castells.
Fondamentale, in questa prospettiva del mutamento, è la suddivisione lineare della storia
in tre periodi:
▪ L’era pre-industriale
▪ L’era industriale
▪L’era post-industriale
Nella sua accezione, la Rete è una metafora tecnologica che si riferisce a tutti i tipi di
social network: tra persone, organizzazione e simboli, mediati o meno, di cui Internet è
soltanto l’ultima incarnazione. Per Castells, la società in rete è uno dei tre modi
fondamentali di organizzazione sociale insieme allo stato e al mercato. Gli esseri umani si
sono sempre organizzati in reti. Ma è stato solo dopo la diffusione delle tecnologie
dell’informazione, alla fine del ventesimo secolo, che le reti hanno iniziato a prevalere sulle
altre due modalità fondamentali di organizzazione sociale, producendo lo stato di rete e
l’impresa di rete. La società in rete stabilisce un tempo senza tempo, attivo in un
movimento apparentemente perpetuo di scambio digitale che tenta di sostituirsi alla
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sequenza lineare di eventi e pratiche, come perfettamente rappresentato dalla
comunicazione basata su hyperlink, fondamento del world wide web. Il www, infatti si
delinea come una sorta di titanica BBS condivisa, per permettere agli utenti di scambiarsi
software, dati, messaggi e notizie. L’idea di base dei social media non è quindi molto
innovativa. Tuttavia, anche in ambito accademico c’è spesso confusione riguardo a cosa
debba esattamente essere incluso in questa definizione e in che modo i social media
differiscono concettualmente da ciò che definiamo Web 2.0 e User Generated Content. Ha
senso, così, fare un passo indietro e analizzarne le differenze. La crescente disponibilità di
accesso ad Internet ad alata velocità ha ulteriormente contribuito alla popolarità del
concetto di diario online, portando alla creazione di siti di social networking come
MySpace e Facebook. Da qui la nascita dei social media come li conosciamo, con tutte le
loro differenti declinazioni: Twitter, Instagram, Snapchat. Una definizione formale dei social
media richiedere innanzitutto di tracciare una linea di demarcazione tra due concetti
correlati che vengono spesso nominati insieme ad esso. Mentre la semplice idea di
pubblicazione dei contenuti appartiene all’era del Web 1.0, il Web 2.0 è caratterizzato dalla
collaboratività e dalla scomparsa di ostacoli di natura tecnica per contribuire ai contenuti.
Sebbene il Web 2.0 non faccia riferimento ad alcun aggiornamento tecnico specifico del
World Wide Web, esiste una serie di funzionalità di base necessarie al suo funzionamento.
La definizione di social media richiede, innanzitutto, una comprensione delle dinamiche di
socializzazione. I media non sono semplici tecnologie, ma sistemi tecno-sociali. Possiamo
individuare alla loro base un primo strato tecnico su cui si appoggia un livello culturale di
attività umane che producono, diffondono e consumano conoscenza. I media sono sistemi
tecno-sociali in cui le tecnologie dell’informazione e della comunicazione consentono di
ampliare lo spettro delle attività umane: Internet è costituito, allo stesso tempo, da
un’infrastruttura tecnologica e da esseri umani che interagiscono tra loro. Il web non è
soltanto una rete di reti informatiche, ma una rete che interconnette reti sociali e reti
tecnologiche. Internet è costituito da un sistema tecnologico e da un sottosistema sociale
che hanno entrambi una morfologia a rete. Insieme, queste due parti costituiscono un
sistema tecnico-sociale.
Le reti e lo scambio: dalle comunità alle communities
Nella Rete l’influenza si esercita in due modi: attraverso le reti sociali e diffondendosi
attraverso le reti di comunicazione. Riprendendo la teorizzazione di Katz e Lazarsfeld, il
concetto di influenza sociale online nella sua attuale diversità rispetto all’esperienza
novecentesca dei mass media: dal momento in cui la struttura solidale della comunità
rurale e urbana ha ceduto il passo a reti che grazie ai social media hanno esteso la
portata, la velocità e la complessità dei modelli di comunicazione, l’influenza sociale non
può non tener conto dei cambiamenti. La maggior parte delle persone nei paesi sviluppati,
e probabilmente anche altrove, partecipa a più di una rete sociale piuttosto che a un
singolo gruppo. Si spostano tra queste reti e talvolta diffondono informazioni tra essi.
L’avvento dei social media ha introdotto nuove opportunità per la comunicazione e
l’influenza sociale, offrendo alle persone la capacità di interagire in modo anonimo e
asincrono. Paradossalmente, in una società organizzata in rete e iper-connessa, può
essere più difficile convincere gli altri che la propria posizione sia quella giusta quando gli
altri partecipanti hanno accesso a risorse online che possono offrire punti di vista
alternativi.
Il Web è definibile nei termini di un medium che rende possibile una democratizzazione
senza precedenti dell’accesso alle informazioni. Questa parità teorica nella diffusione e
nell’accessibilità delle informazioni è tuttavia praticamente inesistente. I motori di ricerca
ed i portali di informazione favoriscono i contenuti già popolari rispetto a quelli sconosciuti.
I progettisti di motori di ricerca lavorano per dare risultati che gli utenti reputino utili.
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L’intelligenza delle web communities Nell’attuale mediascape, il World Wide Web
costituisce uno degli elementi più importanti. Per web communities intendiamo il loro
riflesso mediato tramite il web: con il sostegno delle tecnologie dell’informazione e della
comunicazione, le comunità online presentano un’intelligenza condivisa superiore a quelle
di una comunità tradizionale. Una web community deve ottenere tre requisiti fondamentali
per essere considerata tale. In primis, la comunità dovrebbe contenere un sistema di
memoria che registri l’insieme di informazioni e conoscenza condivise, analogo a quelle
del sistema di memoria nel cervello umano. Inoltre, la comunità dovrebbe avere la
capacità di risolvere problemi mediante un lavoro collettivo, operando attraverso le
intelligenze dei singoli in un’azione “che passa dal cogito cartesiano al cogitamus”. Nel
saggio L’intelligenza collettiva Pierre Lévy sostiene che “l’intelligenza collettiva è la nuova
infrastruttura. L’intelligenza non è solo un oggetto cognitivo, ma va interpretata come
nell’espressione operare di comune intesa”. La comunità online deve dimostrare capacità
di problem-solving su un livello superiore rispetto a qualsiasi membro della comunità in sé:
confrontando la struttura neuronale interconnessa del cervello umano, l’intelligenza
comunitaria può anche essere paragonata a una rete neurale, in cui i neuroni sono
membri della comunità insieme ai sottostanti sistemi web-based. Le forme di aggregazione
sociale basate sul web – o su altri medi digitali – sono spesso accusate di scompaginare
la comunità allentandone i legami: i social media ci proietterebbero quindi in una
dimensione in cui, per citare il titolo di un’opera della psicologia americana, saremmo tutti
insieme ma soli. I media, in quanto processi, non impoveriscono autonomamente la vita
sociale delle persone che ne fanno uso; è il modo in cui le persone interagiscono a mutare
l’uso delle innovazioni tecnologiche che si affacciano al panorama mediale.
P2P e le nuove modalità digitali di distribuzioni
Nell’età industriale, con l’attività di consumo si esprimono opinioni e posizioni che
orientano le scelte della produzione. Nell’età digitale quest’influenza si rafforza, elevando il
piano del conflitto fra industria e consumo. Il progetto della distribuzione digitale nasce
proprio nella rete clandestina. Il passaggio a questo modello distributivo da parte
dell’industria culturale è stato determinato innanzitutto dal conflitto tra il mercato delle reti
di distribuzione illegale e le industrie, in posizione dominante, che detengono i diritti
d’autore sulle opere. L’aspetto e il funzionamento di questi mercati sono radicalmente
mutati dall’affermazione di standard aperti ispirati all’etica hacker e a quelle modalità
distributive che riconducono alla legalità le innovazioni delle piattaforme peer to peer di file
sharing come Napster, WinMX, Emule. La rivoluzione digitale ha avuto davvero inizio nel
momento in cui gli strumenti grazie alle tecnologie open source sono diventati accessibili a
tutti. Nel tentativo di arginare la pirateria attraverso azioni legali, le industrie tradizionali
hanno spinto le reti illecite e innovarsi sviluppando nuove tecnologie di decentramento che
non richiedono un serve centralizzato. L’industria si è quindi vista costretta a adottare un
modello distributivo create dal basso, cui gli utenti s’erano abituati, centrato sull’uso non
vincolato all’acquisto e l’accesso illimitato al catalogo. La persistenza della pirateria sul
mercato ha eroso i monopoli sulla diffusione dei media. Non più costretti ad affidarsi ai
servizi legittimi, gli utenti vengono attratti dall’offerta di un ecosistema in grado di imitare e
superare le possibilità offerte dall’immediatezza e dalla fruibilità della pirateria: piattaforme
come Amazon, Spotify, Netflix hanno deviato il flusso di distribuzione attraverso le proprie
strutture e detengono ora gran parte del controllo sull’accesso ai media: i venditori digitali
hanno conquistato il mercato attraverso lo sviluppo di attraenti piattaforme Retail. In
precedenza, gran parte della distribuzione dei media era gestita in maniera top-down, dai
più importanti conglomerati dell’industria mediatica. Questi nuovi intermediari, i
venditori/distributori digitali, hanno assunto gran parte del controllo sulla vendita del
dettaglio dei loro media, amalgamando l’approccio centrato sull’utente. Ne consegue il
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transito verso l’accesso ai media piuttosto che alla loro proprietà: questo cambiamento
radicale di paradigma non ha favorito soltanto l’utente, permettendo di ridurre la spesa per
aver accesso a cataloghi vastissimi. L’industria culturale digitale, a ben vedere, non s’è
rivelata né una riforma complessiva della concentrazione delle major, né un regime
distopico in cui gli algoritmi decidono per noi quali prodotti culturali consumare: si è invece
creato un equilibrio fra i due scenari, la convivenza non priva di conflitti tra forze socio-
economiche che si controllano e influenzano a vicenda, sull’orlo di trasformazioni al
momento inimmaginabili.

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