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Scienza e societa introduzione alla sociologia della scienza


bucchi riassunto completo convertito
Scienza, tecnologia e società (Università degli Studi di Napoli Federico II)

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SCIENZA E SOCIETÀ
Introduzione alla sociologia della scienza
INTRODUZIONE
Sempre più spesso, anche nel nostro Paese, la scienza è al centro del dibattito pubblico. Diverse questioni
vengono posto con sempre maggiore frequenza e rilevanza nel campo politico e pubblico.
Entro tali dibattiti, la sociologia della scienza non solo ha uno spazio marginale, ma viene spesso chiamata in
causa in modo semplicistico. Si tratta però di un ambito ormai estremamente articolato e diversificato, ricco di
studi empirici e di dibattiti interni, spesso caratterizzato da forti polemiche.
Questa lacuna è particolarmente avvertibile in Italia, dove questa disciplina è stata molto trascurata sia dal punto
di vista dell'insegnamento universitario, sia dal punto di vista editoriale.

CAPITOLO 1
LO SVILUPPO DELLA SCIENZA E LA NASCITA DELLA SOCIOLOGIA
DELLA SCIENZA

1.1. Dalla little science alla big science

Price tracciò un quadro dei caratteri salienti dell'evoluzione dell'attività di ricerca, ponendo le basi del settore
noto come Scientometria: analisi quantitativa dell'attività scientifica sulla base di indicatori come il numero dei
ricercatori, pubblicazioni, citazioni.
A partire da alcuni semplici dati, egli mise in evidenza come la ricerca scientifica presentasse tassi di crescita
superiori a ogni altra attività umana. Notò inoltre un aumento del numero delle riviste scientifiche e come si
trattava sempre meno di un'attività individuale e sempre più collettiva.

La piccola scienza artigianale era diventata quindi un'impresa sociale ed economica di grandi dimensioni e fu per
questo definita dal fisico Weinberg come la big science, per analogia al big business, ovvero il fenomeno che
vede grandi concentrazioni dell'industria capitalistica, crescere in misura esponenziale, raddoppiando le proprie
dimensioni circa ogni 15 anni.
Da questi dati, Price trasse due principali considerazioni:
1. Ridimensiona il ruolo della seconda guerra mondiale nello sviluppo dell'attività scientifica: il tasso di
crescita infatti era rimasto sostanzialmente identico negli anni precedente e in quelli successivi alla guerra.
Anzi, si può notare che la guerra aveva prodotto un leggero attenuamento della curva di crescita, dovuto alle
limitazioni nella comunicazione imposte agli scienziati dalle esigenze di riservatezza legate al contesto
militare.
2. Previsione che il processo di crescita esponenziale della scienza sarebbe inevitabilmente andato incontro
a un limite superiore, se non veniva effettuata una drastica riorganizzazione dei suoi fondamenti. Di fronte a
questa crescita esponenziale, numerosi esperti e policy makers ipotizzarono misure di intervento anche
drastiche (es. Limite di spesa alle varie discipline scientifiche).
A partire dagli anni 70, tuttavia lo sviluppo della scienza raggiunse un livello di saturazione, in particolare
nei maggiori paesi occidentali; mentre la crescita è continuata in altre aree del mondo, come in Asia.

Price mise in evidenza altre peculiarità della scienza contemporanea, come l'effetto immediatezza, ovvero la
rapidissima dimenticanza delle pubblicazioni specialistiche. I papers (gli articoli scientifici che sono diventati
l'unità di comunicazione della scienza contemporanea) tendono a essere citati molto di frequente nel periodo
immediatamente successivo alla pubblicazione, dopodiché le citazioni diminuiscono in modo drastico fino a
sparire del tutto in circa 5 anni.

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Non è però facile individuare un'origine di questa curva, cioè quando si può collocare l'inizio di quell'insieme di
attività, istituzioni e ruoli professionali che definiscono la scienza.
Gli storici della scienza concordano nell'individuare questo momento nel periodo che intercorre tra la metà del
XVI e la fine del XVII secolo, periodo noto come "rivoluzione scientifica". Tra le novità più significative che
questo processo apportò negli stili di pensiero e di indagine della natura, vi sono:
• L'adozione di metodi e prassi distintive dell'attività scientifica, a cominciare dalla sperimentazione;
• Il carattere non più gerarchico della conoscenza: lo studioso non è più vincolato ad accettare per vero
quello che i suoi predecessori avevano prodotto, ma incoraggiato ad analizzarlo direttamente in prima
persona;
• L'abbandono di una cosmologia teleologica e centrata sull'uomo e l'approfondita discussione sui metodi
più appropriati per studiare la natura;
• L'affermazione dell'importanza della comunicazione e dello scambio di risultati e ipotesi e la formazione
di una comunità scientifica dotata di specifici spazi di confronto e di discussione.

Questa crescita e la trasformazione dell'attività scientifica si manifestano in eventi come la fondazione delle
prime accademie e società scientifiche nazionali (es. Accademia dei Lincei, Royal Society e l'Académie del
Sciences). Gli studiosi in questo modo iniziano a riconoscersi come tali tra di loro e a presentarsi come comunità
omogenea davanti al resto della società, si danno delle regole interne e ottengono dall'esterno un riconoscimento
dell'importanza e della dignità del loro ruolo sociale.
Il processo di professionalizzazione e di istituzionalizzazione prosegue nei secoli successivi fino a definire con
sempre maggiore precisione la figura professionale e il ruolo sociale dello scienziato, (termine usato per la prima
volta da William Whewell per descrivere i partecipanti al meeting della British Association for the Advancement
of Science. Nel corso del XIX secolo, la pratica scientifica trova la propria sede operativa naturale nei laboratori
stabiliti su base permanente, che accentuano ulteriormente la differenziazione delle discipline scientifiche, oltre
che delle relative comunità, riviste e spazi di confronto al carattere transnazionale rispetto ad altre attività sociali.
Fin dall'epoca della rivoluzione scientifica, gli scienziati hanno affidato a una lingua franca la comunicazione tra
di loro (prima il latino, poi il francese e infine l'inglese).

L'istituzionalizzazione della scienza è stata variamente collegata da storici e sociologi ad altri fenomeni come
l'industrializzazione o il capitalismo.
Merton sosteneva invece il rapporto tra attività scientifica e capitalismo su base indiretta, collegando lo sviluppo
istituzionale della scienza alla diffusione di particolari valori religiosi, così come Marx e Weber avevano fatto
per la nascita del capitalismo.
Merton mise in evidenza come l'impulso all'attività scientifica doveva essere sostenuto anche da un altro tipo di
stimolo, mostrando quindi una connessione tra puritanesimo e scienza. Infatti, la dottrina religiosa protestante
valorizzava il razionalismo, la metodicità, la diligenza nello studio empirico della natura (rivelatrice della
grandezza di Dio), l'impegno concreto nelle attività pratiche come segno della propria salvezza.

Merton cercava soprattutto di evidenziare che l'istituzionalizzazione della scienza e la codificazione sociale del
ruolo dello scienziato non presupponevano solo una serie di metodi e di attività, ma anche un nucleo di elementi
sociali, cioè di valori e di norme tali da fondare la scienza in quanto sottosistema sociale, in rapporto con il resto
della società e al tempo stesso dotato di una propria autonomia. Allo studio di questi elementi, e quindi del
rapporto tra scienza e società, doveva essere dedicato, secondo Merton, un ramo specifico della sociologia: la
sociologia della scienza.

1.2. La nascita della sociologia della scienza

La sociologia ha scoperto relativamente tardi la scienza, in quanto specifico oggetto di indagine. Infatti, fusolo
nel 1978, che l'associazione dei sociologi americani dette vita a una sezione dedicata alla sociologia della
scienza.

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Secondo Merton (considerato il fondatore di questo settore della sociologia), il ritardo era dovuto almeno in
parte alla scarsa consapevolezza del ruolo sociale della scienza. Un primo passo in avanti è rappresentato dal
secondo conflitto mondiale. A partire dal dopoguerra infatti, numerosi fattori contribuirono a rafforzare la
convinzione che il potere politico dipenda in misura crescente dal contributo regolare della scienza e della
tecnologia, e che le conseguenze economiche, sociali ed ecologiche delle scoperte scientifiche e delle
innovazioni tecnologiche abbiano un'influenza determinante sui destini delle nazioni e del mondo.
Cruciale fu il ruolo svolto da alcuni scienziati e team, durante la prima e poi la seconda guerra mondiale (es.
Tecnologia radar e costruzione della prima bomba a fissione nucleare).
Un altro fattore di rilievo in quegli anni è rappresentato dal nuovo equilibrio politico e dalla configurazione di
rapporti internazionali che si andò a delineare dopo la guerra. L'unione sovietica, aveva infatti già sviluppato nei
decenni precedenti un notevole interesse e impegno governativo nell'incentivazione e nell'orientamento della
ricerca scientifica; al punto che intellettuali occidentali vi individuarono un modello da seguire, sostenendo
l'importanza di una gestione politica della ricerca come fattore cruciale di rinnovamento della società.
Così, al termine della Seconda guerra mondiale, la convinzione della possibilità e dell'importanza di un
intervento attivo dello stato nell'ambito della ricerca era ormai diffusa nella maggioranza dei paesi
industrializzati. Quest'idea si concretizzò nella creazione di consigli scientifici incaricati di indirizzare le scelte
del governo e nell'accresciuta disponibilità di risorse da destinare a questi obiettivi.

Un altro evento importante si verificò nel 1957, quando l'Unione Sovietica lanciò in orbita il primo satellite
artificiale della storia, che fu visto dai paesi occidentali e in particolare dagli Stati Uniti, un indice
dell'avanzamento e quindi della pericolosità raggiunta in campo scientifico e tecnologico.
Il cosiddetto effetto Sputnik produsse due livelli di reazione:
1. Ulteriore espansione della spesa per la ricerca negli USA
2. Si diffuse tra politici e scienziati la convinzione che la competizione con l'URSS dovesse essere
sostenuta attraverso un impegno più incisivo nel campo dell'istruzione superiore e universitaria, in
particolare nella formazione e nel reclutamento di ricercatori e tecnici di alto livello.
Vi erano tuttavia anche ragioni di altro tipo. La scienza era stata tradizionalmente concepita come un'impresa a
parte rispetto ad altre attività umane, protetta da una sorta di aura sacrale e quindi non suscettibile di indagine
sociologica.
Ciò nonostante, vari sociologi si sono comunque dedicati già da tempo all'analisi dei rapporti esistenti tra le
condizioni sociali e l'attività cognitiva nell'area della sociologia della conoscenza. Karl Mannheim dette un
contributo decisivo in questo senso, proponendosi di superare il principio marxiano secondo cui non sono solo le
credenze erronee a dover essere spiegate sulla base di interessi e rapporti materiali. Per lui, l'ideologia non era
necessariamente una falsa coscienza, ma un modo di pensare legato alla posizione di un individuo o di un gruppo
nell'ambito della società, intesa come appartenenza a un certo gruppo sociale o a una certa generazione.
Mannheim continuava a ritenere che si dovesse riconoscere uno status speciale alle scienze naturali e alla
matematica. Su queste aree non poteva essere riscontrato quell'influsso di elementi sociali.

Fino a Merton, dunque non si parla esplicitamente di sociologia della scienza. Numerosi studiosi americani negli
anni '50, svilupparono una serie di studi sulla scienza, in particolare sui meccanismi istituzionali che la
governano. Per questo motivo, il loro approccio era definito come sociologia istituzionale della scienza.
Buona parte di questi studiosi si era avvicinata allo studio degli scienziati partendo dalla sociologia delle
professioni, considerando cioè la scienza soprattutto come un'occupazione, con un interesse specifico per gli
aspetti legati alla stratificazione sociale e utilizzando spesso metodi quantitativi.

Merton si formò negli anni 30 ad Harvard e con la sua tesi di dottorato mirava a dimostrare come l'etica puritana
abbia favorito l'emergere di valori cruciali per lo sviluppo dell'impresa scientifica, come il razionalismo,
l'individualismo e l'empirismo.
Le ricerche di Merton rinunciano a sottoporre a indagine i contenuti veri e propri dell'attività scientifica, ma
riguardano soprattutto gli aspetti organizzativi e funzionali della scienza in quanto istituzione capace di
autoregolamentarsi.

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Questo approccio trova la sua espressione più significativa nella descrizione della struttura normativa della
scienza. Marton identifica infatti 4 imperativi istituzionali (valori e norme di condotta che garantiscono il
funzionamento della scienza):
• Universalismo: asserzioni o risultati scientifici vengono giudicati indipendentemente da caratteristiche
inerenti al soggetto che li ha formulati quali la classe, la razza, la religione. Gli scienziati sono ricompensati
solo sulla base dei risultati ottenuti.
• Comunitarismo: i risultati e le scoperte non sono proprietà del singolo ricercatore ma patrimonio della
comunità scientifica e della società nel suo complesso. Questo imperativo si basa sull'assunto che la
conoscenza sia il prodotto di uno sforzo collettivo e cumulativo da parte della comunità scientifica. Lo
scienziato non ottiene riconoscimento per la propria attività se non rendendola pubblica e mettendola quindi
a disposizione degli altri.
• Disinteresse: ogni ricercatore ha come obiettivo primario il progresso della conoscenza, ottenendo
indirettamente il riconoscimento individuale.
• Scetticismo organizzato: ogni ricercatore deve valutare in modo critico qualunque risultato, inclusi i
propri, sospendendo il giudizio definitivo fino all'ottenimento di prove certe.
Nell'enunciare questi principi, Merton sottolinea a più riprese come essi vadano considerati validi dal punto di
vista istituzionale e non dal punto di vista delle motivazioni individuali di ciascuno scienziato.
L'esistenza di comportamenti concreti 'devianti' rispetto a questi imperativi non li mette in discussione in quanto
tali, del resto, se tutti i comportamenti si conformassero alle norme, queste non sarebbero neppure necessarie.
Numerose critiche si sono appuntate su questo aspetto del lavoro di Merton sulla scienza, al punto da
considerarlo paradigmatico di un'impostazione tradizionalistica da superare nell'analisi sociologica dell'attività
scientifica. La descrizione fatta dal sociologo americano della struttura normativa della scienza è stata
considerata in questo senso un'idealizzazione di carattere prescrittivo più che descrittivo; in modo non dissimile
da alcuni filosofi della scienza, Merton avrebbe presentato un quadro della scienza così come dovrebbe essere
più che come essa è «realmente».

Già lo stesso Merton aveva poi riconsiderato la sua stessa formulazione originara sviluppando il concetto di
ambivalenza sociologica, per descrivere la situazione in cui si trovano determinati attori sociali quando devono
far fronte a conflitti tra valori, norme e ruoli sociali. Questa ambivalenza si concretizzava nell'alternanza
dinamica di norme e contro-norme.
Agli imperativi istituzionali enunciati da Merton si affiancano infatti contro-norme quali "particolarismo,
individualismo, interesse e dogmatismo organizzato".
• Universalismo ---> particolarismo: le caratteristiche sociali dello scienziato sono fattori importanti
nell'influenzare il modo in cui il suo lavoro sarà giudicato.
• Comunitarismo ---> individualismo: la tutela della proprietà si estende alla protezione dei risultati.
• Disinteresse ---> interesse: il singolo ricercatore mira a servire i propri interessi e quelli del ristretto
gruppo scientifico a cui appartiene.
• Scetticismo organizzato ---> dogmatismo organizzato: lo scienziato deve credere fino in fondo ai propri
risultati, mettendo in discussione quelli altrui.

Gli scienziati intervistati da Mitroff avevano attribuito a se stessi e ai propri colleghi atteggiamenti di riluttanza a
rendere pubblici certi aspetti della propria ricerca, di attaccamento alle proprie ipotesi e ritrosia ad abbandonarle
anche in presenza di dati contrari, o la tendenza a giudicare risultati o asserzioni sulla base delle caratteristiche
sociali dello scienziato che le propone. Queste stesse contro-norme possono assolvere a una funzione positiva
per l'attività scientifica. Ad esempio, il fatto di giudicare la persona del ricercatore anziché i suoi risultati può far
risparmiare tempo, focalizzando l'attenzione sui lavori degli scienziati che danno maggiore garanzia di
affidabilità. L'attaccamento alle proprie ipotesi può servire a non abbandonare troppo presto filoni di ricerca che
magari possono dare frutti nel lungo periodo. La contronorma della saggezza può evitare che la comunità
scientifica sia continuamente paralizzata da dispute sulla priorità o dalle pressioni del potere politico e
dell'opinione pubblica.

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Un'ulteriore possibilità è invece quella di considerare gli uni e gli altri come una sorta di flessibile repertorio
ideologico-retorico, a cui gli scienziati possono attingere di volta in volta sulla base delle diverse situazioni per
dare senso alle proprie azioni e per giustificarle di fronte ai propri colleghi, ai policy makers e all'opinione
pubblica.

1.3. L'effetto San Matteo e la quarantunesima sedia: competizione e disuguaglianza nella


scienza

L'analisi del funzionamento dell'attività scientifica e delle norme che la regolano è stata approfondita dallo stesso
Merton e altri studiosi importanti, come Barber, Zuckerman e Hagstrom. Hagstrom in particolare è autore di uno
studio classico in cui si analizza in modo sistematico il funzionamento della comunità scientifica, come se si
trattasse di un'osservazione antropologica. Uno dei principi che assumono particolare rilevanza da questo punto
di vista è quello del dono, che contribuisce a organizzare in modo significativo le relazioni all'interno della
comunità scientifica. Così il ricercatore dona il proprio paper alla rivista su cui viene pubblicato e offre i propri
risultati alla comunità scientifica, che accettandoli, ne riconosce il valore. Questo atto di libera donazione del
proprio lavoro è simboleggiato dalla ricca mitologia che descrive gli scienziati come impossibilitati di godere del
proprio successo in vita, come nel caso di Copernico.

A uno dei fenomeni osservati a questo proposito, Merton dette ad esempio il nome di «effetto San Matteo».
L'espressione trae origine dal Vangelo secondo Matteo, dove si dice: «poiché a chi ha, verrà dato, e sarà
nell'abbondanza: ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha». In ambito scientifico, questo principio si
traduce in un effetto cumulativo che premia esponenzialmente coloro che si trovano già in una posizione di
privilegio. «Un contributo scientifico avrà maggiore visibilità nella comunità degli scienziati quando è introdotto
da uno scienziato di alto profilo rispetto a quando è presentato da uno scienziato che non ha ancora lasciato il
segno».

Analizzando alcuni dati empirici, Merton e i suoi allievi trovarono, ad esempio, che i saggi proposti ad una
rivista scientifica erano accettati più frequentemente se contenevano, tra gli autori, il nome di un premio Nobel o
di un ricercatore particolarmente conosciuto. Allo stesso modo, i saggi di uno stesso scienziato venivano citati
molto più frequentemente dopo che questi aveva ottenuto un riconoscimento di grande visibilità, quale il premio
Nobel. Come caso paradigmatico, Merton cita l'episodio capitato allo scienziato Lord Rayleigh. Il suo nome era
stato accidentalmente espunto da un manoscritto sottoposto alla British Association for the Advancement of
Science. Il comitato lo rifiutò, giudicandolo l'opera di «uno dei tanti personaggi strambi che ci assillano con le
loro elucubrazioni paradossali». Non appena si scoprì chi era il vero autore, il manoscritto fu accettato. Merton
considera questo effetto «disfunzionale per le carriere dei singoli scienziati, che sono penalizzati nelle fasi
iniziali della loro attività», ma funzionale per il sistema nel suo complesso, in quanto consente di operare una
selezione nell'enorme massa dei saggi pubblicati e inviati alle riviste per la pubblicazione. Inoltre il nome di
scienziati già noti può attirare l'attenzione della comunità su scoperte particolarmente innovative che altrimenti
stenterebbero ad essere accettate.
Se ne deduce una visione della comunità scientifica come una struttura caratterizzata da marcate disuguaglianze
e da una distribuzione delle risorse, fortemente piramidale.

Nell'ambito del filone istituzionale sono stati organizzati numerosi altri meccanismi affini. L'effetto alone premia
gli scienziati che possono vantare una migliore collocazione istituzionale: un'università o un dipartimento
particolarmente prestigiosi o una posizione di rilievo all'interno dell'istituzione.
Studi più recenti hanno sostenuto un effetto ancora più discriminatorio di questi meccanismi sulla partecipazione
delle donne all'attività scientifica. Rossiter ha denominato questo meccanismo discriminatorio "effetto Matilda",
dal nome della scrittrice e attivista femminista dell'800 Matilda Gage, autrice anche di un saggio in cui si
sostiene che l'invenzione della macchina per sgranare il cotone sia da attribuire ad una donna.

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Merton usò alcuni termini come:


• Gatekeeper: indica quegli scienziati o quei soggetti, che trovandosi in una particolare posizione
all'interno dell'istituzione scientifica, possono influenzare la distribuzione di risorse, come finanziamenti di
ricerca, incarichi di insegnamento o opportunità di pubblicazione.
• Invisible colleges: per designare le comunità informali di ricercatori che si formano intorno a un
progetto o a un tema di ricerca, e che spesso risultano più influenti ai fini della produzione di conoscenza
delle stesse comunità formali.
Una caratteristica dell'approccio istituzionale, che si è attenuata nei filoni di sociologia della scienza, è invece il
collegamento con la teoria sociologica generale e con i concetti fondamentali della sociologia.
L'idea centrale era quella di analizzare la scienza anche come istituzione sociale. In quanto istituzione, la scienza
doveva avere delle norme caratteristiche. Inoltre, la contrapposizione con il filone istituzionale ha portato a
enfatizzare un Merton ingenuamente positivista, votato a un'immagine idealizzata dell'attività scientifica.

CAPITOLO 2
PARADIGMI E STILI DI PENSIERO: UNA FINESTRA SOCIALE SULLA
SCIENZA?

2.2. Scienza e rivoluzioni

La resistenza di certe idee, metodi e strumenti al cambiamento del panorama teorico e sperimentale, la loro
capacità di sopravvivenza, adattandosi ai nuovi risultati o ignorandoli selettivamente, e il loro essere destinati
In ultimo a un’inevitabile estinzione; la possibilità, osservando attraverso apparati concettuali e interpretativi
diversi, di vedere in modo completamente diverso uno stesso oggetto: questi rappresentano tutti temi al centro
del saggio dello storico della scienza Thomas Kuhn “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”.

Nel suo libro, Kuhn presentava una teoria del mutamento scientifico e rappresenta uno degli impulsi più
significativi allo studio dei rapporti tra scienza e società.
La teoria si basava su alcuni concetti principali: il concetto di paradigma, quello di rivoluzione e quello di
scienza normale.
La scienza, secondo Kuhn, non avanza lungo un percorso lineare e per successive approssimazioni alla verità,
ma è caratterizzata da veri e propri salti e da profonde discontinuità, cioè rivoluzioni. Queste discontinuità
vengono a interrompere periodi di “quiete”, durante i quali viene praticata quella che Kuhn chiama “scienza
normale”. Secondo la sua definizione, scienza normale significa una ricerca stabilmente fondata su uno o più
risultati raggiunti dalla scienza del passato, a cui una particolare comunità scientifica riconosce la capacità di
costituire il fondamento della sua ulteriore prassi.

Questo risultato orienta il lavoro degli scienziati. A questo risultato, o gruppo di risultati, Kuhn dà il nome di
paradigma. Ad esempio, sono paradigmi della storia della scienza l’astronomia tolemaica, l’astronomia
copernicana, la fisica newtoniana e la teoria evoluzionistica darwiniana, che hanno guidato l’attività di ricerca in
un certo settore per lunghi periodi.
Il paradigma è quindi quella conoscenza sedimentata e in larga misura indiscussa che definisce quali problemi
sono di potenziale interesse, come affrontarli e quali soluzioni possono essere considerate accettabili. Un
esempio di paradigma recente e fortemente consolidato è quello del Big Bang, cioè l’idea che l’universo abbia
avuto origine da un evento specifico, orientando ricerche, esperimenti e osservazioni di fisici e astronomi.
Il paradigma ha un ruolo fondamentale anche dal punto di vista pratico, perché consente al singolo scienziato di
disporre di una solida base di partenza e quindi di non dover ogni volta ridimostrare e argomentare da zero ogni
aspetto del suo settore.

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Da questo punto di vista, l’emergere di un paradigma segnala, secondo Kuhn, il consolidamento di un settore di
ricerca in quanto disciplina scientifica. Partendo dalla pluralità di visioni, che caratterizza a fase iniziale di
riflessione su un certo tema, l’attività di ricerca e di studio si stabilizza intorno a una di queste prospettive.

Nei periodi di scienza normale, quindi l’attività di una comunità scientifica è prevalentemente volta a raffinare,
precisare ed estendere il paradigma in vigore. Il paradigma non offre allo studioso solo una teoria di riferimento,
ma un insieme di risultati, idee e pratiche, esempi e modi di risoluzione standardizzati dei problemi che possono
presentarglisi nel corso della ricerca.
La scienza normale consiste quindi nella realizzazione di quella promessa, una realizzazione ottenuta estendendo
la conoscenza di quei fatti che il paradigma indica come particolarmente rivelatori, accrescendo la misura in cui
questi fatti si accordano con le previsioni del paradigma, e articolando ulteriormente il paradigma stesso.
Questo non significa che la scienza normale rappresenti un’attività scientifica poco entusiasmante e creativa.
Infatti, Kuhn stesso specifica come la scienza normale costituisce quantitativamente la parte più consistente
dell’attività scientifica.
Se si considera in prospettiva temporale, l’analisi scientifica di uno specifico tema, si può quindi osservare una
successione di paradigmi. Per occuparsi del passaggio da un paradigma all’altro, Kuhn introduce il suo concetto
di rivoluzione scientifica, antiteca ai periodi di scienza normale.
Kuhn non ritiene sufficiente un semplice risultato non previsto o in contrasto con il paradigma perché questo sia
falsificato e quindi eliminato. Per suscitare la crisi, un’anomalia deve di solito essere qualcosa di più di
un’anomalia pura e semplice.

Il paradigma può essere entro certi limiti plasmato per difenderlo dall’attacco di risultati e osservazioni che lo
contraddicono. Fa parte della sua stessa natura di filtro percettivo, enfatizzare quegli elementi della realtà che si
accordano con il paradigma e ignorare invece quelli che lo contraddicono.
Alcuni studi psicologici e sociologici dell’attività scientifica hanno messo in evidenza meccanismi di
confirmation bias, cioè di tendenza a dare maggiore rilievo a dati che si accordano con il proprio modello teorico
rispetto a dati in disaccordo con tale modello.

Lo scienziato può riuscire o non riuscire a vedere l’anomalia. Se non la vede, può avere una risposta di natura
positivistica e quindi mantenere le proprie convinzioni teoriche semplicemente ignorando i dati in questione. Nel
caso in cui lo scienziato veda l’anomalia, può comunque non riconoscerla in quanto tale, con un atteggiamento
costruttivista. Nel caso in cui lo scienziato veda l’anomalia e la riconosca, può considerarla credibile (risposta di
tipo positivistico, che porta a modificare la propria risposta) o non credibile. In questo caso, può mantenere la
propria ipotesi adottando un atteggiamento di scetticismo.
Anche per Kuhn non è sufficiente che lo scienziato si trovi di fronte a dati che non riesce a inserire nella cornice
del paradigma corrente per far sì che egli lo abbandoni. L’abbandono di un paradigma presuppone infatti che ce
ne sia uno nuovo disponibile.

La transizione da un paradigma in crisi a uno nuovo, dal quale possa emergere una nuova tradizione di scienza
normale, è tutt’altro che un processo cumulativo, che si attui attraverso un’articolazione o un’estensione del
vecchio paradigma. È piuttosto una ricostruzione del campo su nuove basi, una ricostruzione che modifica
alcune delle più elementari generalizzazioni del campo.
I sostenitori di paradigmi in competizione hanno sempre propositi e orientamenti almeno leggermente
divergenti.
Kuhn sottolinea che il passaggio tra paradigmi corrisponde spesso a un vero e proprio ricambio generazionale:
una nuova verità scientifica non trionfa convincendo i suoi oppositori e facendo vedere loro la luce, ma piuttosto
perché i suoi oppositori alla fine muoiono e cresce una nuova generazione che è abituata a quella verità.
Le ragioni dell’abbandono di un vecchio paradigma possono essere molteplici e non di rado di natura
extra-scientifica, come convinzioni filosofiche o religiose, oppure anche aspetti come le caratteristiche degli
scienziati che si fanno portavoce del nuovo paradigma (la loro notorietà, a loro influenza e la loro nazionalità).

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2.3. Perché il casuario non è un uccello?

Il testo di Kuhn provocò un vasto dibattito tra gli storici e i filosofi della scienza, suscitando numerose critiche,
ad esempio quella che vede il termine paradigma, usato da Kuhn in 22 accezioni diverse.
Gran parte dei sociologi, tuttavia, videro nell’opera di Kuhn uno spiraglio che permetteva di sviluppare
un’analisi dei rapporti tra scienza e società in grado di superare i limiti dell’approccio mertoniano. I paradigmi
erano infatti visti come un possibile veicolo di elementi sociali nell’ambito dell’attività scientifica. L’adozione di
un paradigma e il suo mantenimento implica d’altra parte meccanismi come l’autorità, controllo sociale, fiducia
e socializzazione. Il paradigma fornisce al giovane ricercatore un modello di soluzione convenzionale.
Quindi, alcuni sociologi della scienza hanno intravisto un corridoio sociale tra il paradigma e la sua applicazione,
che sembra rilevante in quanto si tratta di spiegare la concorrenza tra paradigmi e la risoluzione che porta
all’affermazione di un paradigma sull’altro. (perché quella che per una persona è la soluzione efficace di un
problema per altri è un’anomalia?)
Due tipi di risposte:
1. Il corridoio viene visto come un passaggio stretto e sostanzialmente interno alla
comunità scientifica. A far preferire un paradigma possono contribuire fattori
micro-politici, come gli investimenti fatti da un determinato gruppo di ricercatori in
una certa direzione.
2. Vede in questo corridoio elementi macro-politici dal contesto sociale più generale entro
cui opera la comunità scientifica in questione.
Questi due ordini di fattori possono combinarsi. Una risposta originale al problema della spiegazione del
passaggio da un paradigma all’altro viene da un’applicazione del modello antropologico grid/group alle
comunità scientifiche. Questo modello classifica i gruppi sociali sulla base di due dimensioni: il grado di
gerarchia e strutturazione delle relazioni interne (grid) e quello di coesione nei confronti dell’esterno (group). Un
esercito o una burocrazia sono esempi di high grid; mentre una setta religiosa dove i componenti hanno scarse
interazioni con gli esterni è un esempio di high group.
Nel quadrante in alto a destra (high group/high grid) ci sono le comunità scientifiche più statiche, caratterizzate
da elevata coesione interna e scarsa competizione. Qui l’anomalia che minaccia il paradigma sarà ignorata o
respinta come una mostruosità; si farà di tutto per difendere il quadro interpretativo corrente. Nel quadrante in
basso a sinistra, dove lo scarso isolamento dall’esterno, si abbina a un’elevata competizione tra i membri,
l’anomalia rappresenterà prevalentemente un’opportunità.
La centralizzazione e l’intervento della burocrazia governativa nella nomina dei professori ruppero gli equilibri
dei circoli chiusi e delle lealtà di gruppo accademiche, incentivando la competizione e la tendenza dei ricercatori
a mettersi in evidenza con scoperte originali.
Il senso di questi tentativi è duplice. Da un lato infatti, si espande il ruolo della componente sociale in senso
verticale: i fattori politici e sociali non contano solo nella risoluzione delle rivoluzioni scientifiche, ma anche nel
loro inizio e dopo la loro fine.

Un limite della teoria di Kuhn viene così individuato nella sua tendenza a prendere in considerazione unicamente
le dinamiche interne alla comunità di specialisti. Un limite a cui sembra invece sfuggire un autore citato da Kuhn
come una delle sue principali fonti di ispirazione: Ludwik Fleck.
Fleck, medico polacco di origine ebraica pubblicò "Genesi e sviluppo di un fatto scientifico", un testo è
diventato un classico della sociologia della conoscenza scientifica.
Per Fleck, ciascun fatto scientifico acquista significato nell'ambito di un determinato «stile di pensiero» -
concetto che egli usa più o meno nel senso del «paradigma» di Kuhn. Diverse concezioni di sifilide portano ad
escludervi o includervi alcuni casi che potrebbero altrimenti essere considerati affini alla varicella o ad altre
malattie. Rispetto a Kuhn, tuttavia, Fleck scopre che i differenti «collettivi di pensiero» (cioè le comunità che
condividono un certo «stile di pensiero») «si intersecano ripetutamente nel tempo e nello spazio». Attorno ad un
determinato stile di pensiero gravita infatti una cerchia esoterica (quella degli specialisti) e una cerchia essoterica
di non specialisti. Lo stile di pensiero trae forza proprio dal continuo scambio tra queste cerchie; in particolare, è
proprio nell'ambito della cerchia essoterica (cioè a livello «popolare») che gli stili di pensiero si presentano in
modo più nitido e incontrovertibile.

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Il ricercatore, in quanto simultaneamente membro di diversi collettivi di pensiero (la comunità di specialisti a cui
appartiene, ma anche un partito, una classe sociale, una cultura, una fede religiosa), si trova al centro di questi
continui scambi. Fleck mostra che numerosi temi che si ritrovano al centro della moderna concezione scientifica
di sifilide provengono da idee collettive diffuse a livello popolare.
II conoscere è l'attività dell'uomo sottoposta al massimo condizionamento sociale e la conoscenza è la struttura
sociale per eccellenza.

CAPITOLO 3
ANCHE LA MATEMATICA è SOCIALE? IL PROGRAMMA FORTE

3.1. Il pianeta che si vede solo dalla Francia

La scoperta astronomica più importante dell’Ottocento fu quella di un elemento del sistema solare. Vi furono
diverse controversie sulle orbite di Nettuno, che rappresenta uno degli oggetti principale della cosiddetta “scuola
di Edimburgo”. Avviata nel 1966 dall’astronomo David Edge, la Science Studies Unit di Edimburgo divenne nel
giro di pochi anni uno dei principali punti di riferimento per gli studi sociali della scienza. Tra i principali
studiosi vi erano Barnes, Bloor, Shapin e Pickering, che nel delineare il proprio approccio alla sociologia della
scienza, si contrapposero alla sociologia istituzionale della scienza cresciuta nel dopoguerra negli Stati Uniti. La
stessa scelta di definire puntigliosamente il proprio obiettivo sociology of scientific knowlege (SSK), anziché
semplicemnte come sociology of science, rappresenta un’esplicita dichiarazione del proprio intento di aprire la
black box della scienza.
Tuttavia mentre l’approccio di Merton e dei suoi seguaci si era sostanzialmente collocato nell’ambito della
tradizione sociologica, la prospettiva della scuola di Edimburgo fu fin dall’inizio chiaramente interdisciplinare,
con un esteso utilizzo di materiali provenienti dalla storia della scienza e un interesse a dialogare con la filosofia
della scienza. La SSK teorizzata a Edimburgo è basata su case studies e ha contemporaneamente stimolato
un’abbondante produzione da parte sia di sociologi sia di storici della scienza.

In un saggio, Shapin ha organizzato questa vasta materia in 4 grandi aree, sulla base degli obiettivi analitici e del
significato che ognuno di questi studi riveste.
1. La prima area comprende quegli studi che mettono in evidenza il carattere contingente della produzione
e valutazione di risultati scientifici. Secondo questi studi, esisterebbe quindi una zona grigia, tra ciò che la
natura offre al ricercatore e i resoconti che egli ne produce: in questa zona grigia possono, in linea di
principio, inserirsi fattori di carattere sociale.
Lo stesso Shapin ammette però che tali studi aprono la strada a una sociologia della scienza, ma non
costituiscono di per sé una sociologia. Una sociologia empirica della scienza deve fare di più che
dimostrare la sotto determinazione dei resoconti scientifici, deve procedere a dimostrare perché
particolari resoconti siano prodotti e deve farlo mettendo in evidenza le connessioni storicamente
contingenti tra la conoscenza e le preoccupazioni di vari gruppi sociali nei loro contesti intellettuali e
sociali.
2. Questo obiettivo è raggiunto, secondo Shapin, dagli studi della seconda area, quella che utilizza gli
interessi professionali come elemento di spiegazione sociologica.
3. Secondo la SSK, ciò che gli scienziati vedono e le spiegazioni che ne danno sono anche in rapporto più
generale con il ruolo della scienza e degli scienziati in un dato momento storico e con il livello di
professionalizzazione e di separazione tra esperti e non esperti. È questo il tema della terza area di studi.
4. Il quarto gruppo di studi che Shapin cita gli consente di sostenere che il ruolo dei fattori sociali non
termina con la compiuta professionalizzazione dell’attività scientifica. Da un lato infatti è possibile mostrare

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un pervasivo utilizzo da parte degli scienziati di immagini, modelli e metafore provenienti dal più generale
contesto culturale. La fonte di queste immagini può essere la cultura tecnologica o la cultura politica.

Evelyn Fox Keller ha descritto la storia della biologia del XX secolo come l’avvicendarsi di due metafore
paradigmatiche:
1. Una metafora centrata sull’embrione e sullo sviluppo graduale dell’organismo: dominata
dall’embriologia
2. Una che attribuisce al gene la capacità di costruire l’organismo su basi predefinite: è caratterizzata dalla
nascita e dall’affermazione della genetica.

Questa transazione può essere interpretata a diversi livelli: uno squisitamente tecnico, che ha portato a
trasformare radicalmente le condizioni e le possibilità della ricerca biologica; uno politico, legato all’opposizione
e poi al riavvicinamento tra Germania e Stati Uniti. Sul piano culturale, il paradigma genetico deve molto al
concetto di informazione sviluppato nell’ambito della cibernetica. E a un livello culturale, il ridimensionamento
del determinismo genetico e la riscoperta dell’importanza del citoplasma (la parte femminile della cellula), deve
molto alle rivendicazioni femministe della seconda metà del secolo.

Il processo funziona anche all’inverso: immagini e concetti provenienti dalla scienza possono essere trasferiti in
ambito politico o sociale, secondo l’approccio della SSK, le teorie o le spiegazioni privilegiate dipendono dalla
specifica situazione sociale che caratterizza certi gruppi sociali e dalle specifiche strategie che tali gruppi
perseguono.
Ne è un esempio la frenologia, una dottrina secondo cui le caratteristiche psicologiche dell’individuo sono
localizzate in zone specifiche del cervello, a cui corrispondono particolari rilievi del cranio.
La disputa verteva su una diversa concezione del cervello, che gli anatomisti universitari vedevano come un
tutt’uno, mentre i frenologi consideravano come un insieme di parti corrispondenti a diverse facoltà intellettuali.
Per Shapin, la frenologia rappresentava una risorsa ideale nelle mani dei ceti mercantili per contrastare le élite
intellettuali accademiche; questi ceti ne fecero una teoria dinamica dell’ereditarietà in cui si metteva in luce,
oltre a certe tendenze inerenti all’individuo, anche la possibilità di mutarle o trasformarle attraverso il
riformismo sociale.
In questo modo si arriva a quello che Shapin chiama full circle: il collegamento degli interessi presenti nella
società ai giudizi sull’adeguatezza e la validità di formulazioni matematico-scientifico esoteriche. Secondo
Shapin non è corretto cedere alla tentazione di separare, in una controversia, la componente strettamente tecnica
da quella cosmologica e metodologica.

Shapin mette in guardia dall’adottare una versione inadeguata e caricaturale della sociologia della conoscenza
che egli definisce modello coercitivo. Un simile modello infatti:
• Attribuisce alla sociologia la tendenza ad affermare che tutti gli individui in una certa situazione
sociale adotteranno una certa credenza intellettuale;
• Tratta il sociale come mera aggregazione di individui,
• Considera in modo deterministico il rapporto tra situazione sociale e credenze,
• Fa coincidere la spiegazione sociologica con l’invocazione di fattori macrosociologici esterni,
• Contrappone la spiegazione sociologica all’affermazione che la conoscenza scientifica sia
empiricamente fondata sugli input sensoriali della realtà naturale.
L’approccio della SSK, secondo cui le persone producono conoscenza sulla base della conoscenza ereditata
nell’ambito della propria cultura, dei propri scopi collettivamente situati e dell’informazione che ricevono dalla
realtà naturale. Gli esponenti della SSK sono stati particolarmente attenti a ricostruire in dettaglio le attività, i
metodi e le pratiche sperimentali concrete degli scienziati. Il ruolo del sociale conclude Shapin è di
pre-strutturare, non di precludere la scelta dello scienziato.

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3.2. Anche la matematica è sociale?

Gli autori della SSK hanno affrontato l’argomento del rapporto tra scienza e società secondo prospettive diverse;
ma la scuola di Edimburgo viene spesso identificata con il cosiddetto programma forte, soprattutto da parte dei
suoi critici. La formulazione classica di tale programma si deve a David Bloor, in Knowledge and Social
Imagery (1976). Sebbene Bloor e il suo testo siano considerati come sintesi della sociologia della scienza, è
importante ricordare come Bloor avesse sviluppato un interesse per gli studi filosofici e sociologici della scienza,
dopo aver conseguito un dottorato in psicologia.
Il suo intento principale era quello di parlare ai filosofi della scienza e di mostrare loro che alla luce di tutta una
serie di studi, condotti principalmente nell’ambito della storia della scienza, non era più possibile sostenere una
visione del funzionamento della scienza come esente da influenze sociali.

Il programma forte è costituito da una serie di principi metodologici per l’analisi sociologica della conoscenza
scientifica. Quest’analisi, secondo Bloor, dovrebbe essere:
• Causale: il programma forte studia le condizioni (psicologiche, sociali e culturali) all'origine della
conoscenza scientifica – interessata alle condizioni che producono credenze o stati di conoscenza;
• Imparziale: il programma forte studia allo stesso modo i fallimenti e i successi scientifici, senza
privilegiare l'analisi di uno sull'altro – imparziale rispetto alla verità e alla falsità, alla razionalità o
all’irrazionalità, al successo o al fallimento. Entrambi i termini di queste dicotomie richiedono una
spiegazione;
• Simmetrica: Ci si deve basare sullo stesso tipo di spiegazioni per analizzare i fallimenti e i successi, e
non differenziare fra cause sociali per i primi e cause naturali per i secondi – simmetrica nel tipo di
spiegazione. Gli stessi tipi di causa devono spiegare le credenze vere e le credenze false;
• riflessiva: in linea di principio i suoi modelli di spiegazione devono essere applicabili alla stessa
sociologia, che non può ovviamente pretendere di essere immune dall’analisi sociologica - le stesse regole
devono valere anche per il programma forte.

Bloor non nega ovviamente che esistano altri tipi di cause, oltre quelle sociali, che concorrono alla produzione di
credenze, ma intende in questo modo dare maggiore dignità e pervasività alla spiegazione sociologica. Fattori
sociali non possono secondo lui, essere tirati in ballo solo quando la conoscenza esce dai binari della razionalità
o cade nell’errore. Questo tipo di atteggiamento caratterizza gran parte delle obiezioni preconcette all’approccio
sociologico nello studio della scienza, vede logica, razionalità e verità come spiegazioni di se stesse.
Secondo questa impostazione, la spiegazione sociologica dovrebbe intervenire nella migliore delle ipotesi
quando subentra qualche intoppo di natura sociale a deviare il corso automatico della razionalità e del progresso
verso la verità.

Il programma forte nasce come reazione ai precedenti approcci sociologici (programma debole) che
restringevano il loro oggetto di studio alle teorie scientifiche false o decadute (per esempio la frenologia).
Secondo i precedenti approcci, il fallimento di queste teorie dipendeva dai pregiudizi, dall'impreparazione, dagli
interessi economici dei ricercatori. La sociologia non era dunque applicabile, se non in maniera marginale, nel
caso delle teorie vincenti perché queste ultime non farebbero altro che svelare una verità naturale.
È possibile infatti mettere in evidenza l’importanza di fattori come la personalità dello scienziato, il suo status e
la relativa capacità di ottenere finanziamenti per il proprio laboratorio; la sua scelta del settore specifico dove
orientare l’attività di ricerca.

Un’altra potenziale obiezione al programma forte che Bloor tenta di superare è il cosiddetto “argomento
dell’empirismo”: le influenze sociali producono distorsioni nelle credenze, mentre l’uso incondizionato della
facoltà di percezione e delle funzioni sensorie e motorie produce credenze vere. Contro questa obiezione Bloor
tenta di mettere in luce come una parte sempre più trascurabile della conoscenza provenga direttamente dai
sensi. La percezione degli stessi scienziati è mediata da complessi strumenti tecnici e da elaborati apparati di
intermediazione.

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La conoscenza secondo Bloor si identifica con la cultura piuttosto che con l’esperienza ed è proprio la
dimensione sociale a garantire il funzionamento della scienza al di là di possibili distorsioni nella percezione
individuale di ogni ricercatore. Non è l’esperienza o l’osservazione bruta che sta al centro dell’attività
scientifica, ma l’esperienza socializzata irripetibile, pubblica, impersonale.

Per Bloor non è che l’osservazione o i dati dell’esperienza non hanno nessun valore: ma non bastano da soli a
determinare un mutamento delle credenze.
Teorie e risultati scientifici sono spesso sottodeterminati dai dati dell’osservazione. A questo proposito, Bloor
porta tutta una serie di esempi di come gli stessi dati percettivi o osservativi possano essere interpretati in modo
completamente diverso.

Bloor si spinge fino ad applicare il programma forte alla disciplina scientifica che più di ogni altra è considerata
impermeabile all’influsso di fattori sociali: la matematica. Il suo sforzo da questo punto di vista consiste
principalmente nel tentare di mettere in evidenza come anche formule, dimostrazioni e risultati elementari non
abbiano nessun significato intrinseco, ma dipendono da una serie di presupposti.
A contesti istituzionali e culturali differenti possono corrispondere logiche o matematiche diverse. Perfino la
soluzione di un problema matematico può essere il risultato di una complessa negoziazione.
Neppure in matematica vi sono infatti definizioni e postulati immutabili da cui discendono automaticamente e
invariabilmente dimostrazioni e teoremi. Esiste invece una continua negoziazione sulle stesse definizioni, come
nel caso del teorema di Eulero, su che cosa sia effettivamente un poliedro. L’adesione a una concezione piuttosto
che a un’altra può essere legata alla collocazione sociale e istituzionale entro cui il ricercatore si trova a
operare.

3.3. Le debolezze del programma forte

Il programma forte sostiene che, nello studio sociale di credenze istituzionalizzate sulla 'verità', risulta poco
saggio usare il termine 'verità' come una possibile spiegazione.
Per questa ragione il programma forte ha aderito ad una forma di relativismo radicale.
Il fisico Alan Sokal ha criticato questo relativismo radicale, in quella che poi verrà definita la guerra delle
scienze, sulla base che questo tipo di approccio conduce inevitabilmente al solipsismo e al postmodernismo.
I sostenitori del programma forte sostengono che il loro approccio è stato frainteso e che l'adozione del
relativismo radicale è strettamente metodologico.)

Il tentativo di Bloor, sicuramente ambizioso, non può dirsi pienamente riuscito. Se l’obiettivo dichiarato del suo
lavoro e della scuola di Edimburgo è quello di portare la sociologia dentro la scatola nera della scienza, al cui
esterno si era fermato Merton, occorre osservare che questo obiettivo non è stato completamente raggiunto. Sono
state mosse diverse critiche verso questo approccio. Ad esempio, la critica nei confronti dell’approccio
sociologico ha individuato 4 versioni di ciò che egli chiama esternalismo (attribuzione al contesto della capacità
di determinare il contenuto della ricerca scientifica).
1. Esternalismo moderato o debole: la conoscenza è socialmente condizionata.
1.1. Locale: la comunità scientifica influenza il lavoro dei suoi membri
1.2. Globale: la società nel suo complesso influenza il lavoro di scienziati individuali
2. Esternalismo radicale o forte: la conoscenza è sociale
2.1. Locale: la comunità scientifica costruisce idee scientifiche
2.2. Globale: la società nel suo complesso costruisce idee scientifiche

L’approccio di Bloor sembra a tratti limitarsi a una concezione simile a quella di Merton e della sua scuola: una
via di mezzo tra esternalismo locale e globale, soprattutto quando analizza l’influenza di fattori come lo stile dei
leader e del contesto economico-sociale.

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Inoltre, l’approccio di Bloor sembra aderire a una concezione simile a quella di Kuhn e Fleck, in quanto mostra
come siano le predisposizioni teoriche o le proto-idee a guidare l’osservazione o la conduzione di esperimenti,
non viceversa.
Bloor sembra teorizzare una sorta di opportunismo sociologico, per cui il ruolo della componente sociale può
andare da un minimo a un massimo in base al tipo di caso scientifico in esame.
Questo atteggiamento rischia di riportare la sociologia a quel ruolo residuale, di presa in carico dei rifiuti della
scienza contro cui Bloor si batte esplicitamente e per contrastare i quali egli ha elaborato il principio della
simmetria.

Il programma forte sostiene che la componente sociale è sempre presente e costitutiva della conoscenza. Ma non
dice che è la sola componente o che è la componente che deve essere necessariamente considerata come il fattore
di innesco di qualsiasi mutamento. Si tratta di una condizione di sfondo.
Un’obiezione più sofisticata è stata mossa al rapporto tra fattori sociali e naturali.

Un altro punto debole è costituito senz’altro da una certa tendenza a identificare l’elemento sociale con gli
interessi, per quanto questi siano spesso intesi dagli aderenti al programma forte in senso più ampio che non
come meri interessi materiali. Soprattutto nel saggio di Bloor, l’aggancio tra la dimensione cognitiva e quella
macrosociologica degli interessi e della collocazione sociale sembra in molti casi poco esplicita.
Paradossalmente, due reazioni critiche estreme sembrano in questo caso ugualmente legittime.

Le accuse di relativismo e costruttivismo radicale mosse a Bloor appaiono in gran parte immeritate. Non solo
perché l’autore stesso considerava il proprio come un tentativo positivista di applicare allo studio del rapporto tra
scienza e società un metodo scientifico. Lo prova il fatto che nel corso degli anni, il programma forte è stato
sottoposto anche a pesanti critiche interne, da parte cioè degli stessi sociologi della scienza, soprattutto su due
aspetti.
1. Il primo è quello della causalità: la SSK non si allontana molto dal modello di Merton e della
sociologia della scienza istituzionale, limitandosi a sostituire alle norme gli interessi come fattore
esplicativo dell’agire degli scienziati. Buona parte degli studi successivi è nata quindi con l’obiettivo più
o meno esplicito di trovare alternative a questo modello esplicativo, ritenuto troppo rigido.
2. Il secondo ordine di critiche verte sull’ultimo principio del programma forte, cioè la flessibilità:
numerosi esponenti del settore hanno infatti messo in evidenza la scarsa capacità da parte degli
esponenti della SSK di applicare gli strumenti da loro sviluppati alla stessa analisi sociologica della
conoscenza scientifica. In alternativa, si propone di ricorrere a nuove forma narrative capaci di mettere
in luce il carattere di costrutto dei propri testi o di esplicitare il posizionamento sociale delle proprie
osservazioni.

CAPITOLO 4
DENTRO IL LABORATORIO

4.1. Experimental demonstration of the tomatopic organization in the Soprano

L’articolo scientifico, il cosiddetto paper, è ormai una forma consolidata di testo e di discorso, con precisi codici
e regole espressive come l’abstract, i grafici, le tabelle e ringraziamenti.
Il processo che porta alla costruzione di un articolo scientifico a partire da conversazioni informali avvenute in
laboratorio, tentativi ed errori sperimentali, aggiustamenti ad hoc di ipotesi e spiegazioni, sono l’oggetto
privilegiato di una serie di studi, che a partire dalla seconda metà degli anni 70, si propongono di integrare e in
buona misura superare le difficoltà del programma forte. Non si tratta più di prendere una certa teoria scientifica

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e di metterla in relazione con uno specifico contesto storico e sociale, ma di entrare dentro allo stesso percorso
che porta alla sua formazione, isolandone le singole componenti e ponendole sotto una sorta di lente di
ingrandimento.

Questa presa di distanza da un certo carattere naturalistico e positivistico insito nell’approccio della scuola di
Edimburgo e in particolare del programma forte, si congiunge dalla fine degli anni 70, con gli stimoli
provenienti da alcuni filoni sociologici come l’etnometodologia, il cui fondatore fu Garfinkel.

All’analisi macrosociologica e causale del programma forte, il nuovo approccio affianca quindi un’analisi
minuta dei processi contingenti che costituiscono l’attività scientifica, analisi che non sfocia in tentativi di
teorizzazione sistematica, ma in case studies, la cui dettagliata ricostruzione è spesso tanto complessa da
occupare un intero volume. Il fatto scientifico non è più visto come un punto di partenza, ma come un punto di
arrivo. Le conoscenze scientifiche non sono solo socialmente condizionate, ma piuttosto esse sono fin dall’inizio
costruite e costituite attraverso processi microsociali.
L’analisi non si concentra, come per il programma forte, sui casi storici, ma prevalentemente sulla scienza
contemporanea. Contesto privilegiato di quest’osservazione microsociologica ed etnografica è quindi il
laboratorio.

In Laboratory Life, Latour e Woolgar (1979) seguono per due anni l'attività di un gruppo di ricerca presso il Salk
Institute di La Jolla, California, attività che porterà in seguito alla scoperta di una sostanza chiamata TRF tale da
valere il premio Nobel allo scienziato Guillemin. Vengono analizzati taccuini di laboratorio, protocolli
sperimentali, bozze di resoconti e stesure provvisorie di papers scientifici; le conversazioni che avvengono
durante gli esperimenti e nell'ambito del gruppo di ricerca sono puntigliosamente registrate.
Secondo un'altra esponente di questo approccio, Rarin Knorr-Cetina, gli studi di laboratorio hanno in primo
luogo dimostrato come non vi siano differenze epistemologicamente rilevanti tra la ricerca della conoscenza che
avviene in un laboratorio e quella che avviene, ad esempio, nell'aula di un tribunale. Anche nel processo di
ricerca scientifica, tutto appare almeno in linea di principio negoziabile.
Ad essere coinvolti in queste negoziazioni non sono solo gli scienziati, ma le agenzie che li finanziano, i fornitori
di strumenti e materiali e i policy makers, per cui alcuni studiosi hanno parlato di catene di relazione
«transepistemiche». La trasversalità di queste negoziazioni e il carattere «impregnato» di decisioni del lavoro
scientifico (attivo, quindi, e non di mera registrazione passiva nell'analisi dei fenomeni naturali) implicano,
secondo la Knorr Cetina, il ricorso da parte dei ricercatori ad «argomenti non epistemici» e il loro «continuo
attraversare il confine tra considerazioni che sono dal loro punto di vista "scientifiche" e "non scientifiche"». Un
elemento significativo nella costruzione del fatto scientifico è rappresentato dalla dimensione retorica: strategie
discorsive, tecniche, di rappresentazione degli oggetti studiati, forme di presentazione dei dati.
Sotto questo profilo, Latour e Woolgar attribuiscono particolare rilievo a due gruppi di elementi retorici:
- Le modalità: sono quegli elementi che qualificano le affermazioni del ricercatore e che vengono
abbandonate man mano che una serie di asserzioni o di risultati si trasforma in un fatto scientifico.
- Le iscrizioni: sono le prove che il ricercatore porta a sostegno delle proprie affermazioni, come tabelle
di dati, grafici, immagini al microscopio, radiografie. Uno strumento scientifico, per loro è quindi un
inscription device, cioè un apparecchio in grado di produrre una rappresentazione visiva in un testo
scientifico.

Il risultato finale di questo processo è l'articolo pubblicato su una rivista scientifica, in cui la serie di progressivi
aggiustamenti e il percorso zigzagante del ricercatore viene rettificato, ripulito da ogni traccia di contingenza e
infarcito di iscrizioni in modo da poter essere considerato un risultato solido e incontrovertibile.
Latour e Woolgar definiscono splitting and inversion questo processo, in quanto:
- Splitting: un oggetto si separa dalle affermazioni che lo riguardano, acquistando una vita propria;
- Inversion: il processo di ricerca si rovescia.

Così, la Knorr Cetina distingue tra il ragionamento «informale» che caratterizza il laboratorio e il ragionamento
«letterario» che informa la stesura del paper scientifico. Il paper, lungi dall'essere un fedele «rapporto» della

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ricerca compiuta, è invece un sottile esercizio retorico che «dimentica molto di ciò che è accaduto in laboratorio»
e lo ricostruisce selettivamente. Ad esempio, il ricercatore può trovarsi a studiare un certo problema o ad
adottare un certo metodo per ragioni relativamente casuali o dettate dalla disponibilità di certe risorse. Nel paper,
il processo verrà razionalizzato e ogni mossa del ricercatore sarà fatta discendere organicamente da specifici
obiettivi fissati in partenza.

Le fonti principali utilizzate da Garfinkel per analizzare la scoperta della pulsar da parte del gruppo di astrofisici
sono 2 e tra loro differivano in modo sostanziale:
- Le conversazioni e gli appunti di lavoro presi durante le osservazioni: rivelavano un laborioso processo
fatto di successive approssimazioni, aggiustamenti, elaborate pratiche discorsive e ragionamenti di senso
comune con cui gli stessi ricercatori raggiungevano un accordo tra di loro sul significato di ciò che
avevano effettivamente osservato.
- L’articolo ufficiale in cui si presentava la scoperta: tutto quello spariva a favore di una presentazione
del fatto scientifico, come naturale e indipendente da qualunque intervento degli osservatori, in una sorta
di razionalizzazione a posteriori che occulta accuratamente ogni parvenza di storicità locale del
processo.

Similmente, Gilbert e Mulkay individuarono due repertori retorici fondamentali:


- Contingenza: domina le discussioni informali, il lavoro nel laboratorio, gli appunti e i resoconti
intermedi
- Repertorio empirista: viene usato in ogni forma di presentazione ufficiale, dalla comunicazione al
convegno, fino al paper o al discorso ufficiale formulato dallo scienziato al momento di accettare un
premio.
Da questo approccio degli studi di laboratorio viene messo in evidenza il carattere fortemente locale e
idiosincratico delle procedure che presiedono alla costituzione di un fatto scientifico. Ogni contesto
sperimentale, ogni laboratorio e anche l’esecuzione di uno stesso esperimento da parte di ricercatori diversi sono
caratterizzati da specifiche configurazioni di competenze, tecniche manuali e materiali disponibili.
Questo aspetto segna al tempo stesso un risultato e un limite metodologico degli studi di laboratorio, in termini
di generalizzabilità delle osservazioni compiute in specifici contesti. Tuttavia, la critica più frequentemente
mossa agli studi di laboratorio verte ovviamente sul concetto stesso di costruzione del fatto scientifico.
Il grado di costruttivismo varia da autore ad autore e perfino tra contributi diversi dello stesso autore. Si va infatti
da una versione particolarmente estrema secondo cui i fatti sono una conseguenza anziché una causa delle
descrizioni scientifiche, a versioni più moderate secondo cui quando la scienza scopre qualcosa, ciò che viene a
esistere è un’entità specifica distinta da altre entità e provvista di un nome, di un insieme di descrittori e di
tecniche che permettono di gestirla.

Il costruttivismo non sostiene l’assenza della realtà materiale dalle attività scientifiche, richiede solo che la realtà
o la natura siano considerate entità continuamente ritrascritte nell’ambito della attività scientifiche e di altre
attività. Questo processo di trascrizione è il principale oggetto di interesse del costruttivismo.

È possibile però mettere in discussione la portata esplicativa di questi studi. Infatti, non è sempre facile
intravedere la capacità di spiegare come un insieme di microinterazioni e negoziazioni possa in definitiva essere
ricomposto in un insieme di pratiche e di risultati condivisi. Non è sempre chiaro quindi come sia possibile la
formazione del consenso o la stessa comunicazione in uno specifico settore di ricerca.
È plausibile che questo limite sia legato a una prospettiva sostanzialmente intramurale ristretta, cioè al
laboratorio e agli attori scientifici. In questo prospettiva, sarebbe importante approfondire in che modo gli stessi
processi di negoziazione e di costruzione siano legati al più ampio contesto sociale.

L’approccio degli studi di laboratorio potrebbe essere considerato come poco sociologico e portatore di una
concezione centrata sui processi interni alla scienza, più che sul suo rapporto con la società (cioè indagare tutte
quelle situazioni che fanno parte integrante di questo processo di costruzione, contribuendo a rendere il fatto
scientifico sempre più solido).

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Nel rifiutare l’approccio strutturale e la distinzione tra scienza e società, gli etnografi della conoscenza
scientifica rendono la dimensione sociale più pervasiva e al tempo stesso più difficile da identificare. La società
penetra nel laboratorio, ma in modo invisibile.

4.2. Dentro la controversia

Il tentativo di superamento del programma forte investe anche il filone di studi centrato attorno alla cosiddetta
scuola di Bath e a studiosi come Collins e Pinch, culminato con il programma empirico del relativismo.
Anche in questo caso, l’attenzione è rivolta principalmente alla ricerca scientifica contemporanea e alla
minuziosa conduzione di case studies. Però, ciò che interessa, in particolare, è mostrare come in molti casi i dati
sperimentali non siano da soli sufficienti a risolvere una controversia scientifica (studio che permette di cogliere
i processi maggiormente rivelatori dell’attività scientifica).
Ad esempio, studiando il lungo contenzioso tra gruppi di fisici sull'esistenza o meno di «onde gravitazionali»,
Collins e Pinch individuarono un fenomeno da loro definito «il regresso dello sperimentatore» (experimenter's
regress). Per decidere se vi erano o meno onde gravitazionali i ricercatori dovevano prima costruire un rilevatore
affidabile. Ma come capire se un rilevatore è affidabile? Potremmo essere sicuri di avere un rilevatore affidabile
qualora fossimo certi che queste onde esistono; in quel caso il rilevatore che le registra sarebbe un buon
rilevatore, quello che non le registra sarebbe dichiarato inadeguato. E così via, in un vero e proprio circolo
vizioso.

Il lavoro sperimentale può essere usato come test se si trova un modo di rompere il circolo del regresso
sperimentale. Nella maggior parte dell’attività scientifica questo è possibile perché il range appropriato dei
risultati è noto dall’inizio. Questo offre un criterio universalmente condiviso di qualità sperimentale. Quando un
simile criterio non c’è, il regresso dello sperimentatore può essere evitato solo trovando altri modi di definire la
qualità di un esperimento, e il criterio deve essere indipendente dal risultato dell’esperimento stesso.

Quali criteri vennero dunque impiegati dagli scienziati per risolvere la controversia? Criteri sociali: la
reputazione dello sperimentatore e della sua istituzione, la sua nazionalità, il suo livello di inserimento nei
circuiti scientifici più rilevanti per l'oggetto di ricerca, le notizie di carattere informale ricavate dai suoi
collaboratori o da altri colleghi. Una volta stabilito quali fossero gli esperimenti e i ricercatori affidabili, divenne
agevole stabilire se le onde gravitazionali esistevano o meno e viceversa.
Gli aspetti scientifici e sociali del processo sono inseparabili.

Si sottolinea così l’implausibilità di quel modello algoritmico della conoscenza scientifica per cui esperimenti e
risultati possono essere universalmente ripetuti sulla base delle indicazioni formali provenienti da papers e
comunicazioni scientifiche. La stessa replica degli esperimenti è un’operazione tutt’altro che scontata, che
spesso poggia su complessi strati di conoscenza tacita e informale.

Lo stesso passaggio di concetti e metodi da un ambito di ricerca a un altro è spesso reso possibile proprio dal
concreto trasferimento di ricercatori che cambiano area disciplinare.

Sulla base di simili studi, Collins ha formulato un nuovo “manifesto programmatico” noto come «programma
empirico del relativismo» che prevede tre obiettivi principali:
• dimostrare la «flessibilità interpretativa» dei risultati sperimentali, vale a dire, la possibilità che questi si
prestino a più di una interpretazione;
• analizzare i meccanismi attraverso cui viene raggiunta la chiusura di questa flessibilità - e quindi, ad
esempio, i meccanismi per cui viene risolta una controversia;
• collegare questi meccanismi di chiusura alla più vasta struttura sociale.

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In mancanza di un quadro teorico e di una cultura tecnica condivisa, i meccanismi che permettono di chiudere
una controversia e di raggiungere il consenso su una certa interpretazione possono infatti essere di natura sociale:
la reputazione di un certo scienziato, la capacità di un certo gruppo di ricerca di imporre la propria visione dei
fatti o la propria strumentazione.

Non tutti gli attori e le istituzioni scientifiche hanno uguale importanza sotto questo profilo. Vi è infatti un core
set, una speciale cerchia di ricercatori e di istituzioni scientifiche nella più vasta comunità, che ha a disposizione
particolari risorse e una posizione chiave nel network per orientare la soluzione di una controversia in un certo
settore.

La peculiarità dell’approccio di Collins e degli studiosi di Bath. Rispetto al programma forte, Collins dichiara
esplicitamente di prendere le distanze da almeno due principi: quello di riflessività che ritiene inapplicabile, e
soprattutto quello di causalità. Collins non è interessato a porre in astratto la questione del rapporto causale tra la
dimensione sociale e la pratica scientifica, ma piuttosto a incarnare la prima nel tessuto della seconda,
inserendola nel varco aperto dalla flessibilità interpretativa.
Egli ritiene invece di fondamentale importanza approfondire ed espandere il principio di simmetria. Il sociologo
che studia una controversia deve essere indifferente all’esito finale della controversia, al punto di trattare il
mondo naturale come se non influenzasse la versione che noi ne diamo. Non è chiaro fino a che punto questo
relativismo metodologico estremo si trasformi in un sostanziale relativismo anche sul piano epistemologico.

La stessa scelta di studiare principalmente la situazione di controversia come particolarmente ricca di


opportunità per l’analista sociale, non è una mossa metodologica di poco conto. Sembra che Collins sottoscriva
almeno in parte un modello agonistico e razionalistico del dibattito scientifico, in cui si contrappongono due
fronti sino a che uno non prevale sull’altro. La scienza, in particolare quella contemporanea, dà tuttavia numerosi
esempi in cui un settore di ricerca si presenta assai più frammentato e in cui posizioni diverse si sovrappongono
parzialmente.
Anche questo approccio sembra in larga misura trascurare il ruolo dei non esperti nella definizione dei protocolli
di ricerca, che in ambito medico e ambientale è divenuto così massiccio e pervasivo da essere istituzionalizzato
in comitati a composizione mista.

4.3. La scienza come Giano bifronte: l’actor-network theory

La prospettiva degli studi di laboratorio è sotto molti aspetti completata e sviluppata dalla cosiddetta
actor-network theory, una proposta teorica e metodologica elaborata da un gruppo di studiosi facenti capo ai
francesi Bruno Latour e Michel Callon.

La scienza per i sostenitori di questo approccio ha due facce, come un Giano bifronte: da un lato c’è la scienza
bell’e fatta” o pronta per l’uso. Dall’altro, la scienza in costruzione, ovvero la ricerca. Compito
dell’epistemologo è analizzare le caratteristiche della prima, mentre del sociologo di studiare la seconda.
Il sociologo quindi può esaminare quei processi che portano alla costruzione di un fatto scientifico, che non può
solidificarsi in quanto tale senza il sostegno e la cooperazione di tutta una serie di «alleati», non solo all'interno
ma anche fuori del laboratorio.
La proposta è quella di considerare il fatto scientifico non come un punto di partenza su cui inserire fattori
sociali, ma come il risultato di una complessa rete di alleanze. Un enunciato o un risultato scientifico può
procedere verso lo status di «fatto» o verso quello opposto di «artefatto» solo attraverso una complessa rete di
attori - a cominciare dai colleghi che citano il vostro risultato oppure che lo criticano se lo passa di mano in
mano, cioè è un processo collettivo.

Per rappresentare questa rete di sostegno Latour mette in discussione una serie di distinzioni:

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• La prima distinzione è quella tra scienza e tecnologia, che egli sostituisce con il termine sintetico di
tecnoscienza. Un risultato scientifico e un oggetto tecnologico hanno in comune il fatto di essere delle
scatole nere. Questo termine indica un meccanismo troppo complesso perché lo si possa analizzare: ci s i
deve quindi accontentare di conoscere input e output.
• La seconda distinzione è tra attori umani e non umani: Un collega ricercatore, un rimando bibliografico
in un paper, un'apparecchiatura in grado di ottenere un'immagine al microscopio, un'azienda disposta ad
investire in una ricerca, un virus che si comporta in un certo modo, un gruppo di potenziali utenti per
un’innovazione tecnologica sono tutti alleati che concorrono a quel processo che trasforma una serie di
risultati sperimentali e asserzioni o un prototipo tecnologico in una scatola nera: un fatto scientifico o un
prodotto tecnologico.

A ogni passaggio, ogni volta che un nuovo sostenitore entra nella rete, l’enunciato scientifico o l’artefatto
tecnologico vengono modificati e adattati per poter soddisfare interessi diversi. Il concetto chiave, in questo
senso, è quello di traduzione, cioè l’interpretazione data dai costruttori-di-fatti dei propri interessi e delle persone
reclutate nell’impresa. Si tratta di persuadere i nostri potenziali alleati che sostenere il nostro fatto scientifico è
nel loro stesso interesse.

-à com’è possibile spiegare la transizione da un paradigma all’altro e il mutamento delle idee scientifiche?
L’invito è ad abbandonare i modelli tradizionali di diffusione, per cui un risultato scientifico o un’innovazione
tecnologica si propagherebbero senza bisogno di nessun aiuto, spinti dalla loro stessa inerzia. Questo modello,
secondo Latour, può sopravvivere solo a condizione di enfatizzare elementi eccezionali come la presenza di
pionieri e di grandi scienziati isolati. Il modello della diffusione non riesce neppure a spiegare in modo
soddisfacente il cambiamento di atteggiamento che caratterizza alcuni gruppi nei confronti di una scoperta o di
un’innovazione.

Da questo percorso Latour fa discendere due regole metodologiche, che mettono in discussione non solo una
visione naturalistica del processo di ricerca scientifica, ma anche gran parte degli studi sociali della scienza
compiuti in precedenza.
Poiché la risoluzione di una controversia è la causa della rappresentazione della Natura e non la conseguenza,
non si può mai usare un risultato (la natura) per spiegare come e perché una controversia è stata risolta.

Se i fatti scientifici sono il prodotto di una complessa composizione e associazione di sostenitori diversi, non si
può usare le scatole nere stesse come elemento esplicativo della risoluzione di una controversia.
Latour ammette che questo principio, se è applicabile alle controversie in corso, lo è molto meno a quelle ormai
chiuse. Quando tuttavia la scatola nere si è chiusa, rendendo invisibile la rete di alleanze che l’ha sostenuta, il
costo e la difficoltà di riaprirla sono troppo elevati per qualunque attore, inclusi gli storici e i sociologi della
scienza. A quel punto, la natura parla direttamente, i fatti sono fatti. La regola metodologica in questione, nella
sua combinazione di realismo e relativismo, pare a Latour una giusta via di mezzo che consente di tracciare con
accuratezza i mutamenti improvvisi da una faccia del Giano all’altra. Questo metodo fornisce una resa
stereofonica della costruzione dei fatti, non più monofonica come i metodi precedenti.
Il secondo principio: la società, in quanto dimensione specifica rispetto a scienza e tecnica, ha un ruolo
fondamentale nel modello tradizionale di tipo diffusivo. Quando la progressiva diffusione o accettazione di un
fatto o di un oggetto, si arresta, possono essere invocati fattori di carattere sociale. Addirittura, per Latour, la
stessa credenza in una società separata alla tecnoscienza è un risultato del modello a diffusione.

Se non si può usare la natura come causa della risoluzione di una controversia, non si può neppure usare la
società poiché la stessa stabilizzazione delle alleanze e degli interessi sociali è un risultato della controversia,
non un punto di partenza.

Le critiche più rilevanti mosse a questa impostazione sono essenzialmente di due tipi:
• La prima è una critica più generale ed esterna, inerente il potenziale esplicativo di fondo dell’approccio,
che viene accusato di essere tautalogico. Se interessi e alleati vengono tradotti e arruolati, ma non persuasi,

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dai contenuti scientifico-tecnologici, non è chiaro quali siano i meccanismi che portano al successo o al
fallimento.
• La seconda critica più specifica, riguarda l’enfasi che il modello attribuisce alla capacità di alcuni attori
scientifici di controllare l’intero processo, secondo una strategia machiavellica e preordinata.

CAPITOLO 5
STAFFE, BICICLETTE E MISSILI: L’ANALISI SOCIOLOGICA DELLA
TECNOLOGIA

5.1. L’importanza di una staffa

Secondo un celebre studio storico, l’avvento del feudalesimo sarebbe legato all’invenzione e alla diffusione della
staffa. La sua adozione ridusse drasticamente il rischio di cadute che affliggeva i cavalieri nel corso dei
combattimenti, aumentandone l’efficienza in battaglia e favorendo così l’affermazione di una società come
quella feudale, basata sulla proprietà della terra e sull’uso della forza.
In seno a questo approccio, il ruolo di una sociologia della tecnologia appare in larga misura confinato a
un’analisi delle conseguenze sociali dello sviluppo tecnologico. L’introduzione di un’innovazione specifica,
come la staffa, è posta alla base di una profonda trasformazione storica, come il feudalesimo.
Gran parte degli studi sviluppati nell’ambito della sociologia della tecnologia nel corso degli ultimi 40 anni, ha
contribuito a ritagliare altri e più significativi spazi attraverso i quali analizzare la tecnologia in chiave
sociologica.

Quello della tecnologia è un tema che attraversa tutta la storia della disciplina sin dagli esordi. Alcuni degli
approcci più innovativi e degli studi più significativi di questi ultimi decenni nell’intero campo degli science and
technology studies fanno largo uso di materiale empirico e di case studies provenienti dall’ambito tecnologico,
fino a mettere in discussione la stessa distinzione tra scienza e tecnologia, sostituita dal concetto più generale di
tecnoscienza.
La tecnologia inoltre è un aspetto di cui tutti, in qualche misura hanno esperienza diretta molto più che della
scienza. Il tema della tecnologia consente infine di mettere bene in luce l’importanza dell’intersezione tra
discipline diverse (incontro tra storici, epistemologi, sociologi, economisti, antropologi).

5.2. L’orologiaio che stupì gli astronomi

Nel 700, l’orologiaio John Harrison risolse il problema della determinazione della longitudine (difficoltà per le
navi di stabilire la propria posizione era la causa di molti incidenti e naufragi), creando un orologio in grado di
funzionare a bordo di una qualsiasi nave e in qualsiasi condizione atmosferica. Ciò consentì di conoscere
simultaneamente l’ora esatta del luogo di partenza e di quello in cui la nave si trovava in quel momento.

La sua storia mise in discussione l’assunto di determinismo tecnologico, che considera la tecnologia unicamente
come scienza applicata. Secondo questo assunto, la scienza rappresenta il motore esclusivo dell’innovazione
tecnologica, che a sua volta non sarebbe altro che l’applicazione automatica delle scoperte scientifiche. Questa
immagine della scienza ha svolto un ruolo storico determinante nel riconoscimento dell’importanza del sostegno
pubblico alla ricerca di base e della tutela dell’autonomia delle comunità scientifiche, soprattutto a partire dal

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secondo dopoguerra. Uno dei primi documenti programmatici di politica della ricerca, il rapporto preparato da
Bush per il presidente americano Roosvelt era nutrito di una simile concezione della scienza. Secondo questo
rapporto, la ricerca scientifica aveva ampiamente dimostrato di poter offrire benefici economici e pratici alla
società nel suo complesso: la ricerca di base porta a nuova conoscenza.

Nuovi prodotti e nuovi processi non vengono fuori da sé. Si basano su novi principi e nuove concezioni, che a
loro volta sono faticosamente sviluppati dalla ricerca svolta nei regni più puri della scienza.
Di qui l’invito a sostenere generosamente la ricerca in una prospettiva di lungo periodo, rispettando nel
contempo l’autonomia degli scienziati e la loro capacità di individuare internamente i filoni di ricerca più
promettenti e meritevoli di investimento in termini finanziari e di risorse umane. Questo ideale fu
istituzionalmente incarnato dalla National Science Foundation, costituita nel 1950 su proposta dello stesso Bush.
Auspicò un raddoppio della spesa per la ricerca nei successivi 10 anni. Già alla fine degli anni 60, tuttavia il
ruolo centrale della ricerca scientifica nello sviluppo tecnologico ed economico iniziò a essere messo in
discussione.

Uno dei caratteri della scienza contemporanea è proprio la sua crescente intersezione con le attività di sviluppo
tecnologico, con scienziati che operano in campi spiccatamente applicativi e ingegneri attivi nell’ambito della
ricerca.
La possibilità da parte degli scienziati di condurre le proprie ricerche dipende in modo sempre più massiccio dal
contributo dei tecnici.
In questa intersezione non è più solo la scienza a stimolare la tecnologia, ma anche la tecnologia a influenzare la
scienza, contribuendo a individuare settori o argomenti meritevoli di ricerca scientifica o fornendo
apparecchiature strumentali tali da rendere possibili o perfino ispirare determinati esperimenti e osservazioni. Gli
storici della scienza inoltre, hanno mostrato che il rapporto con la tecnica e le arti manuali è stato uno dei fattori
cruciali alla base della nascita della scienza moderna.
Non solo alcune delle innovazioni più importanti nella storia della tecnologia, come il filatoio o il motore a
vapore, non sono risultate dall’applicazione di scoperte scientifiche, ma in alcuni casi sono state le stesse
innovazioni ad avere un impatto significativo sulla scienza.

Non meno semplicistica è l’assunzione che l’innovazione tecnologica risulti da un puro atto di creatività
individuale da parte del singolo inventore, figura eroica. Questa assunzione deve tener conto di aspetti simili a
quelli già messi in luce per quanto riguarda la scienza. In primo luogo, infatti l’innovazione si sviluppa spesso
nell’ambito di un determinato paradigma tecnologico, cioè entro un determinato quadro di risorse, modelli e
tecnologie preesistenti.
Inoltre le tecnologie non tendono a essere sviluppate in forma isolata l’una all’altra, ma integrate entro più ampi
sistemi tecnologici. L’innovazione è anche parte di più ampi sistemi economici-sociali.
La stessa adozione della staffa poteva produrre determinati effetti solo entro un certo scenario economico,
politico e culturale. In questo caso, la staffa non ebbe un impatto significativo sulla società anglosassone se non
dopo la conquista normanna. Infine, l’innovazione tecnologica risulta non sempre da processi di carattere
intenzionale e lineare, ma spesso dalla composizione di più forze e gruppi di attori sociali.

5.3. Una misteriosa ciclista

Sulla questione di come si sviluppa e si afferma un oggetto tecnologico, la risposta del determinismo tecnologico
sarebbe l’oggetto migliore a imporsi in virtù della sua efficienza. Tuttavia, il dispositivo più efficiente dal punto
di vista di un utilizzatore di tecnologia può non esserlo da altri punti di vista.

Le varie fasi del processo di innovazione assumono spesso un carattere di continuità, per cui diviene difficile
separare lo stesso stadio dell’innovazione da quello della diffusione. Gli economisti dell’innovazione parlano dei

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learning by using per identificare i miglioramenti apportati a un oggetto non ne corso della produzione, ma
nell’ambito del suo impiego da parte degli utilizzatori finali. Questi miglioramenti possono essere o meno
incorporati, cioè portare a un’effettiva modificazione fisica dell’innovazione o semplicemente a un cambiamento
nel modo di utilizzarla.

Numerosi studi hanno gradualmente messo in luce le varie modalità di coinvolgimento degli utilizzatori non solo
nella determinazione del destino degli oggetti tecnologici e nella loro modellazione, ma anche nella loro
progettazione e nello sviluppo delle conoscenze che li rendono possibili. In questo senso, gli artefatti tecnologici
possono essere reinterpretati, adattati e in certi casi perfino reinventati dai loro utilizzatori, i cui punti di vista
possono addirittura essere incorporati nello stesso processo di design.
Nei casi in cui si vengono a costituire vere e proprie comunità di innovazione tra utenti, la partecipazione degli
utilizzatori ai processi di innovazione va ben oltre il pur importante contributo all’adattamento dei progetti
originali alle esigenze dei consumatori finali, dando luogo anche in questo caso a una vera e propria
co-produzione di tecnologie e delle conoscenze che vi sono incorporate.
Anche alla luce di questi aspetti, è chiaro come l’ingresso prioritario sul mercato di una tecnologia rispetto ad
un’altra concorrente costituisca un vantaggio competitivo spesso determinante: per quanto perfettibile, una
tecnologia si rafforza quante più persone la utilizzano.

Vi è un approccio, detto della costruzione sociale della tecnologia (SCOT: social construction of technology –
Bijker e Pinch) si articola in tre fasi, simili al programma empirico del relativismo (Collins):
1. Dimostrare la flessibilità interpretativa degli oggetti tecnologici: lo stesso oggetto può essere costruito in
modi e forme diversi, non c’è un’unica soluzione ottimale;
2. Analizzare i meccanismi con cui questa flessibilità interpretativa a un certo punto viene chiusa e
l’oggetto assume una forma stabile;
3. Collegare tali meccanismi di chiusura al più ampio contesto sociale.
Obiettivo generale di questo approccio è superare una ricostruzione dell’innovazione tecnologica con senno di
poi, in cui ogni artefatto risulta da una successione necessaria di tentativi tale da condurre logicamente al
modello più efficiente e dove contano unicamente le proprietà tecniche degli artefatti.
Bijker dà ampio spazio anche ai modello apparentemente falliti, rappresentando l’intero percorso come un
processo multilineare a cui partecipano non solo i progettisti, ma anche i gruppi sociali di utilizzatori.
Un artefatto risulta quindi anche dalla negoziazione tra questi gruppi. Esso è tenuto a rispondere a una serie di
problemi, che tali gruppi percepiscono come degni di soluzione; le sue stesse caratteristiche, lungi dall’essere
date una volta per tutte, dal costruttore, sono sottoposte a estrema flessibilità interpretativa da parte degli attori
coinvolti.

L’analisi degli artefatti tecnologici deve quindi impiegare lo stesso principio di simmetria sviluppato nell’ambito
della SSK per lo studio delle controversie scientifiche, adottando una prospettiva imparziale rispetto all’efficacia
o all’inefficacia di una macchina. Tale prospettiva risulta dagli stessi processi di negoziazione tra i gruppi sociali
coinvolti e dalle successive stabilizzazione e chiusura interpretativa. In questo senso, i fallimenti tecnologici non
risultano sociologicamente meno interessanti dei successi.
Un limite di questo approccio è stato individuato nella difficoltà di identificare in modo non ambiguo tutti i
gruppi di attori rilevanti per la costruzione di un determinato artefatto. Inoltre, l’approccio della SCOT ha il
pregio di enfatizzare il ruolo degli utilizzatori nel processo di innovazione, tende a mettere i diversi gruppi
coinvolti sullo stesso piano in termini di capacità di influenzare la chiusura delle possibilità interpretative. Tale
aspetto è indubbiamente legato alla stretta discendenza dell’approccio da filoni di sociologia della scienza, come
il programma empirico del relativismo, con cui condivide l’interesse per le controversie e concetti come quelli di
chiusura interpretativa.
Mentre però nello studio di controversie scientifiche si ha a che fare con una comunità relativamente omogenea,
ma questo non sempre è vero in ambito tecnologico.
In particolare è difficile sostenere che utilizzatori da un lato e progettisti/produttori dall’altro, possano
contribuire allo stesso modo al processo di chiusura. Le possibilità interpretative degli utilizzatori dell’artefatto
sono infatti in larga misura limitate dalle caratteristiche tecnologiche dell’oggetto così come viene offerto sul

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mercato. Come per il programma empirico del relativismo, l’enfasi sulle controversie e sul processo di chiusura
sembra rappresentare un’eccessiva generalizzazione.

Le caratteristiche dei diversi gruppi, le loro differenze in termini di prestigio e potere, le loro motivazioni e la
loro collocazione nello scenario sociale e culturale del tempo non sono spiegate, ma usate in quanto date. In altre
parole, per quanto possa sembrare strano, la SCOT non spiega gli aspetti sociali in modo così ricco come quelli
tecnologici.
Secondo Rosen, il terzo stadio dell’approccio della SCOT (collegare i meccanismi di chiusura al loro contesto
socioculturale) può più utilmente essere considerato come trasversale ai primi due stadi, perché consente di
definire gli stessi gruppi rilevanti, gli artefatti rilevanti e i possibili meccanismi di chiusura.

5.4. Oltre l’innovazione

Nel corso dell’ultimo decennio, alcuni studiosi hanno tentato di applicare gli stessi strumenti dell’indagine
sociologica della conoscenza scientifica agli oggetti tecnologici, con l’intenzione di rivalutare l’analisi della
tecnologia, troppo spesso considerata poco più di un’appendice riservata alla dimensione applicativa della
scienza.
In realtà, sostengono Collins e Pinch, la tecnologia consente di mettere a fuoco gli stessi problemi della scienza
visti sotto un’altra forma, una forma più concreta e quindi ancor più adatta a focalizzare la dimensione sociale.
Gli oggetti tecnologici incorporano e a loro volta contribuiscono a rafforzare, elementi sociali come per esempio
i pregiudizi razziali, le tecnologie in campo fotografico, cinematografico e televisivo furono sviluppate per
riprendere persone di colore.

MacKenzie parte dal problema del modo in cui si arriva a conoscere le proprietà e il funzionamento degli
artefatti tecnologici. Essenzialmente in tre modi:
• Per autorità: sulla base di ciò che ci viene detto su questi artefatti da persone di cui ci si fida;
• Per induzione: si apprendono le proprietà dell’oggetto in questione usandolo o provandolo;
• Per deduzione: se ne desumono le proprietà da teorie e modelli.
Tutte e tre queste modalità, secondo MacKenzie, sono intrise di elementi sociali. Nel primo caso, quello
dell’autorità, in modo persino ovvio: tanto che se la fiducia viene meno, viene meno anche l’autorità cognitiva.
Quanto all’induzione, le relazioni di somiglianza su cui questa si basa contengono un elemento di convenzione
sociale. Questi esempi portano MacKenzie a definire un’interpretazione più generale dell’orientamento dei
soggetti nei confronti degli artefatti tecnologici.

Sull’asse verticale vi è un continuum dei diversi gradi di incertezza nei confronti di una certa tecnologia. L’asse
orizzontale identifica diverse categorie di attori. All’estremo sinistro, caratterizzato da elevata incertezza, vi sono
coloro che si trovano direttamente coinvolti nella produzione dell’oggetto e della conoscenza che questo
incorpora: gli insiders che conoscono particolari o dettagli ignori agli altri e che possono quindi essere portati a
temerne la fallibilità. All’estremo destro vi sono i completi outsiders, totalmente estranei nelle istituzioni che
propongono la tecnologia in questione e orientati a una tecnologia alternativa. In mezzo, la parte della certezza,
dove si trovano coloro che manifestano lealtà all’istituzione in questione, ma senza essere direttamente coinvolti
nello sviluppo dell’artefatto.
Si tratta in definitiva di un tentativo di interpretare i diversi atteggiamenti nei confronti di un artefatto
tecnologico sulla base della collocazione sociale e istituzionale degli attori.

Il ruolo della spiegazione sociologica risulta più articolato rispetto allo stesso approccio della SCOT, poiché non
si limita agli interessi in senso stretto né alla fase di introduzione di un’innovazione, ma anche al suo successivo
utilizzo.
Infine, la deduzione stessa può essere soggetta a negoziazione, infatti il concetto di prova può essere inteso in
modo diverso da ingegneri, fisici, matematici e logici.

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CAPITOLO 6
SCIENCE WARS

6.1. Beffe ed esperimenti

Negli ultimi anni si è diffuso un ampio dibattito culturale che ha coinvolto anche la sociologia della scienza.
Questo dibattito è stato scatenato, tra l’altro, dall’ampio eco suscitato dalla beffa-esperimento, del 1996 da parte
di un fisico della New York University, Alan Sokal. Quell’anno, Sokal inviò un saggio alla rivista Social Text,
che fu pubblicato senza esitazioni dalla rivista, nonostante contenesse strampalate considerazioni su temi fisici e
matematici, per il semplice fatto che suonava bene e lusingava i pregiudizi ideologici dei redattori della rivista.
L’articolo era effettivamente una parodia di un certo modo di scrivere accademico. Tuttavia, Sokal non si
accontentò, presentando con grande eco anche nei mass media, la parodia come un “esperimento” di grande
valore pedagogico e politico.
Sokal ha sostenuto di aver voluto mettere in ridicolo la ciarlataneria e la debolezza intellettuale diffusa in certi
circoli accademici nell’ambito delle scienze umane. Infine, egli dichiara di aver voluto combattere un’ondata
postmodernista-poststrutturalista-socialcostruttivista oggi di moda e più in generale un’inclinazione al
soggettivismo dannosa per il futuro e i valori della sinistra. Tuttavia, le critiche mosse a specifici approccio
utilizzano in larga misura argomenti logori e comunque già formulati, anche meglio, da altri studiosi.
Se l’obiettivo era quello di condure un vero e proprio esperimento, sarebbe stato meglio scegliere una delle tante
riviste di scienze sociali con referees esterni. Nonostante ciò, egli è riuscito a dimostrare qualcosa, anche al di là
delle stesse intenzioni dell’autore:
1. Mostra innanzitutto che processi come la selezione di articoli per la pubblicazione sono intrisi di
elementi politici, sociali e culturali. Un aspetto ben noto ai sociologi della scienza§: già negli anni 70,
Merton aveva osservato come la presenza di un premio Nobel tra gli autori di un saggio potesse
aumentare esponenzialmente la probabilità che questo fosse accettato per la pubblicazione.
2. In secondo luogo, il caso Sokal mostra che il significato di un esperimento dipende dal contesto
scientifico-culturale in cui questo si inserisce.
3. Infine, il caso Sokal mette in evidenza che la tendenza a trasgredire le frontiere tra le scienze naturali e
quelle sociali è un dato di fatto, praticato con disinvoltura sull’uno e sull’altro fronte delle due culture.

6.2. Non siamo mai stati sociologi della scienza?

Le critiche portate avanti all’interno della stessa sociologia della scienza appaiono ben più rilevanti.
Contributo di Latour: proposta di non considerare il fatto scientifico come un punto di partenza a cui appiccicare
fattori sociali, ma come il risultato di una complessa rete di alleanze e traduzioni. Sviluppando queste
considerazioni, egli propone di considerare la stessa modernità come centrata su una contraddizione.
• Da un lato infatti, la modernità crea continuamente ibridi, mescolando natura e culturali.
• D’altra parte la modernità teorizza la separazione e la depurazione della dimensione naturale della
componente umana.
Il problema di molta sociologia della scienza, secondo Latour è stato quello di abboccare a questo doppio gioco
non meno di altre discipline. Tentare di utilizzare la società per spiegare la scienza significa infatti accettare e
rinforzare questa separazione, che è essa stessa un ibrido di natura e cultura. Il programma forte non ha portato
sino in fondo la simmetria che predicava.

Un esperimento-beffa ben più significativo fu quello condotto nel 1987 da William Epstein, il quale mandò a
146 riviste nel campo dell’assistenza sociale un saggio in due diverse versioni, basato sugli stessi dati statistica:

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74 riviste ricevettero il saggio con una conclusione positiva (l’intervento sociale aveva funzionato), 72 con una
conclusione negativa.
La prima versione fu accettata per la pubblicazione molto più frequentemente, ma quando Epstein rivelò il suo
esperimento le reazioni furono assai più negative di quelle ricevute da Sokal. Venne persino proposta la
radiazione di Epstein dall’albo professionale, per aver utilizzato i redattori delle riviste come cavie senza il loro
consenso e per aver violato il principio di fiducia su cui si basa il lavoro accademico.

6.3. Quale sociologia della scienza?

È intuibile come simili posizioni siano state accolte con forte spirito critico. Se alcune conclusioni di Latour
appaiono discutibili, è tuttavia innegabile che nella sociologia della scienza, si sia creata una certa situazione di
impasse. Alla proliferazione di case studies e alla sempre maggiore specializzazione interna, non si è affiancata
una corrispondente crescita teorica.

Barnes, in un breve saggio del 1983: si tratta di un contributo estremamente denso e astratto, quasi privo di
esempi e la cui difficoltà rappresenta una delle principali ragioni per cui molti studiosi non se ne sono occupati.
Il punto di partenza è il modo di denominare gli oggetti del mondo che ci circonda sulla base di due tipi ideali di
termini:
• I primi, cosiddetti termini-N, sono applicati attraverso un processo dove le proprietà empiriche
dell’oggetto vengono confrontate con un modello. Così un soggetto avrà appreso, sulla base degli esempi
che gli sono stati mostrati di ciò che gli è stato detto, quali caratteristiche siano rilevanti per riconoscere una
certa entità. (pattern-matching)
• Un modo opposto di assegnare proprietà agli oggetti, quello cioè che non si basa sulle proprietà
intrinseche dell’oggetto, ma sul modo in cui altre persone lo definiscono. Un predicato di questo tipo è
indicato da Barnes come termine-S.
Dipendono da forme di comportamento, di pensiero e di conversazione collettiva.

1. Si può immaginare una macchina designatrice che compie attività di designazione altamente
routinizzate. Questa macchina consiste in due sezioni. Nella prima entrano particolari o
caratteristiche degli oggetti che vengono confrontati con modelli esistenti. I particolari che vi si
accordano vengono smistati da una parte, quelli che non si accordano dall’altra. La seconda
sezione designa come N i particolari finiti da una parte e non N quelli dell’altra.
2. Si può immaginare una macchina che faccia lo stesso per i termini-S che appare però puramente
tautologica (“questo è S perché io dico che è un S”). La situazione cambia se si ha una serie di
macchine S che operano in parallelo come in una comunità. Più certi particolari sono designati
S, più S diventano.

Un singolo attore sociale può spesso trattare nella pratica i termini S, come se fossero N.

Gli elementi S hanno un ruolo anche nell’attività scientifica: è il caso di un ricercatore che utilizza una bottiglia
di acido cloridrico sulla base del fatto che vi è l’etichetta. Buona parte del percorso compiuto dagli studi sociali
della scienza può essere considerata come la scoperta di aspetti-S in termini-N.

Il fatto che un modello sia considerato come tale è di per sé un’operazione di tipo S e quindi appartiene alla
dimensione sociale. Qualcosa è un modello solo se un numero sufficiente di persone lo tratta come tale.

Usare un modello più diffuso o una metafora largamente condivisa significa poter contare su una più vasta
possibilità di materiali, rifornimenti e scambi con altri utilizzatori. Lo status di un modello, il fatto che sia
considerato o meno appropriato, centrale o marginare, ne influenza l’applicazione e la sua stessa evoluzione. Ciò
che garantisce l’applicazione di routine e non problematica di un concetto è quini il suo essere basato su un

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consenso, oltre al fatto che ciò che abitualmente intendiamo come significato di un predicato sia l’istituzione del
suo uso.

Deve esserci una garanzia normativa del significato. L’idea di Barnes e di Bloor è che la sociologia della scienza
possa entrare in campo a questo punto: a garantire un corretto pattern-matching da parte di ogni macchinetta è il
fatto che più macchinette operino in interazione reciproca. Al di fuori di questa interazione, non ha un senso
nemmeno parlare di applicazione giusta o errata degli N. in questo modo, il gruppo in quanto base del consenso
diventa condizione di normatività e quindi di significato.

La possibilità di affacciarsi a conoscere il mondo naturale si appoggia quindi su una sottile ma indispensabile
ringhiera sociale. Solo questa ringhiera rende possibile disporre di una dimensione normativa che permette al
soggetto di distinguere tra applicazioni proprie e improprie di un concetto, organizzandone l’attività conoscitiva
e permettendogli di focalizzarsi solo su certi elementi, così da non dover ogni volta ricostruire da capo la propria
comprensione. L’orientamento del programma forte può essere quindi riformulato come:

“il riferimento dotato d significato a una realtà indipendente richiede un’istituzione sociale che lo renda
possibile. Il programma forte si può definire come tutti i concetti che hanno il carattere di istituzioni, o che tutti i
termini di tipo naturale coinvolgono, come elemento necessario, l’apparato autoreferenziale che è caratteristico
dei termini sociali.

Vi sono diversi aspetti interessanti, rispetto all’approccio originario:


1. Chiarisce che sociale non è sinonimo di contesto. Una dimensione sociale e quindi un’analisi sociologica
possono essere applicabili anche a comunità di specialisti o di tecnici.
2. Offre un tentativo di spiegazione più articolato ad alcune delle domande che attraversano l’intera storia
dei science studies, a cominciare dal diverso orientamento di ricercatori o gruppi di ricercatori nei
confronti della stessa evidenza empirica.
3. In questa prospettiva, la dimensione sociale appare come una sorta di presupposto della stessa
conoscenza scientifica.
A un livello più generale, legando la dimensione cognitiva a quella normativa, questa riformulazione della SSK
descrive in modo più articolato l’interazione tra processi conoscitivi e processi sociali, che risultava poco
specificata e largamente meccanicistica nella spiegazione causale originaria, basata prevalentemente sugli
interessi.
Mentre nella sua formulazione originaria, la SSK faceva riferimento a un impianto sociologico di stampo
tradizionale, il nuovo approccio sembra in grado di integrare, soprattutto nel lavoro di Barnes, i contributi di
percorsi sociologici come l’interazionismo simbolico, la microsociologia di stampo goffmaniano e
l’etnometodologia. Questa integrazione avviene peraltro a livello teorico e non meramente empirico.

Tale riformulazione non si sottrae a una serie di possibili osservazioni critiche. Alcune di queste vengono
affrontate dallo stesso Bloor, il quale tiene innanzitutto a chiarire come nulla di questo implichi che tutti i
predicati sono di tipo-S, ma solo che tutti i predicati hanno in sé aspetti di tipo-S e funzionano in virtù di una
componente autoreferenziale. Funzionano in virtù del fatto che sono istituzioni sociali. Così si rende ancora più
esplicito un punto fondamentale, che spesso non viene colto dai critici dall’approccio sociologico alla
conoscenza scientifica. In questo senso, l’operazione di Barnes e Bloor risulta diametralmente opposta a quella
di Collins e di altri sostenitori del relativismo metodologico.
Barnes e Bloor tentano non di espandere la componente sociale, ma il contrario: provano a eliminarla del tutto,
per dimostrare che è una lamina sottile ma essenziale. Se si tolgono le istituzioni, cioè quella parte di realtà che è
creata dal fatto di riferirsi a essa, crolla ogni possibilità di un significato condiviso.

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Così riconoscere una dimensione scoiale alla conoscenza non inficia di per sé il valore di quella conoscenza. I
processi sociali non impediscono o attenuano la capacità di conoscere il mondo esterno: al contrario questa
conoscenza è resa possibile proprio dalla presenza di istituzioni sociali e di ciò che viene chiamata società.

Le diverse subculture scientifiche si affacciano su una cultura e una società comune, ed è questa che consente
loro di comprendersi. Secondo la terminologia di Fleck, un ricercatore appartiene contemporaneamente a più
collettivi di pensiero: quello del proprio specifico settore di indagine, ma anche a quello della religione a cui
aderisce o della parte politica a cui fa riferimento, oltre che al collettivo più generale della società e della cultura
in cui vive. Ed è proprio nello scambio e nell’intersezione tra questi stili di pensiero che avvengono i più
significativi mutamenti nella conoscenza scientifica.

Principali punti della critica:


• Ruolo della categoria macrosociale degli interessi, cui gli studiosi legati al programma forte attribuivano
in origine particolare importanza. Nel nuovo quadro di Barnes e Bloor non si comprende dove viene inserita.
Infatti: da un lato gli interessi sembrano in parte polverizzati in una dimensione che enfatizza l’adesione di
routine a pratiche e istituzioni di significato condivisi, dall’altro soprattutto Bloor non sembra disposto a
rinunciarvi. Scegliendo di aderire a un certo modello-istituzione piuttosto che a un altro, lo scienziato
agirebbe in modo da massimizzare le proprie opportunità e ridurre al minimo i costi.
• Critiche generali a una visione delle istituzioni come soluzioni razionali al problema di minimizzare i
costi di transazione per gli individui che vi partecipano possono essere facilmente rintracciate nella
letteratura sociologica.
• Così in determinati contesti, l’adesione alla tradizione può rappresentare per un ricercatore un elemento
chiave della propria stessa identità di scienziato; in altre situazioni, l’innovazione e il superamento dei
modelli tradizionali, o la capacità di produrre conoscenza brevettabile e commerciabile possono
rappresentare elementi altrettanto centrali di identificazione. L’uso di modelli matematico-statistici ne
rappresenta un elemento imprescindibile oggi.

I science and techonology studies scontano forse un’eredità del rifiuto della sociologia istituzionale di Merton,
che li ha portati a un relativo isolamento nei confronti della teoria sociologica generale, preferendo sviluppare
intersezioni con altri settori disciplinari. Ma il merito principale di questo ri-orientamento della SSK sembra
quello di sottolineare con maggiore chiarezza, rispetto al passato, un aspetto della sociologia della scienza,
contribuendo a sgombrare il campo da un equivoco che ha fuorviato buona parte dei critici, quando non degli
stessi protagonisti.
Questa idea di competizione tra ciò che è logico e naturale da una parte e ciò che deriva dalla cultura e dalla
società dall’altro è profondamente radicata. Secondo questa idea le classificazioni possono conformarsi ai fatti
oggettivi della natura o a requisiti di carattere culturale. Possono essere logiche o sociali.
In questo senso, l’analisi mertoniana della profezia che si autoadempie pare a Barnes incompleta. Non si tratta
solo di un aspetto patologico.
Fleck sostiene che: “chi considera la condizionatezza sociale come un male necessario, come un’insufficienza
umana che purtroppo esiste e che è necessario combattere non comprende che senza la condizionatezza sociale
non è in generale possibile nessuna conoscenza e che in generale il termine conoscere acquista significato solo se
è connesso con un collettivo di pensiero.

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CAPITOLO 7
COMUNICARE LA SCIENZA

7.1. La concezione tradizionale della comunicazione pubblica della scienza

La comunicazione scientifica rivolta ai non specialisti ha una lunga tradizione. Tuttavia le pratiche di
comunicazione in quest’area si sono consolidate soprattutto in relazione a due ordini di processi:
1. il primo legato alla compiuta istituzionalizzazione della ricerca come professione, all’aumento
della sua rilevanza sociale e alla sua crescente specializzazione;
2. il secondo legato allo sviluppo e alla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa.

L’idea di una scienza diventata ormai troppo complicata per essere compresa dal grande pubblico è stata
largamente enfatizzata. Tale idea è alla base di una concezione molto diffusa, se non di una vera e propria
ideologia, della comunicazione pubblica della scienza. Gli altri elementi cardine di questa concezione sono la
necessità di una mediazione tra scienziati e grande pubblico, resa necessaria dalla complessità dei contenuti
scientifici; l’individuazione di una categoria di professionisti e di istituzioni responsabili di questa mediazione; la
descrizione di questa mediazione attraverso la metafora della traduzione linguistica.
Questa concezione diffusionista, indubbiamente semplicistica e idealizzata, in cui i fatti scientifici hanno solo
bisogno di essere trasportati da un contesto specialistico a uno divulgativo, affonda le proprie radici nelle
ideologie professionali di due delle categorie di attori coinvolti.
- Da un lato infatti legittima il ruolo sociale e professionale dei mediatori, i divulgatori e in particolare i
giornalisti scientifici.
- Dall’altra parte, autorizza gli scienziati a proclamarsi estranei al processo di comunicazione pubblica,
rendendoli liberi di deprecarne gli errori e gli eccessi, soprattutto in termini di distorsione e di
spettacolarizzazione.

➔ È emerso così un orientamento tendente a considerare i media come uno specchio sporco della scienza,
una lente opaca che non è in grado di riflettere e di filtrare adeguatamente i contenuti scientifici.
Questa visione ha anche enfatizzato l’incapacità del pubblico di comprendere e apprezzare i risultati della
scienza a causa di una pregiudiziale ostilità nei confronti di quest’ultima, alimentata da una copertura mediale
inadeguata e approssimata.
Si è quindi auspicato un incremento quantitativo e un miglioramento qualitativo della comunicazione pubblica
della scienza.
Specialmente a partire dalla metà degli anni 80, istituzioni pubbliche e organizzazioni private hanno lanciato
iniziative per stimolare l’interesse e la consapevolezza del pubblico in ambito scientifico (giornate a porte aperte,
festival della scienza e corsi di formazione in giornalismo scientifico).

Quindi, la concezione tradizionale e diffusionista, della comunicazione pubblica della scienza incorpora:
- Una nozione dei media come canale deputato a trasmettere contenuti scientifici, ma spesso incapace di
adempiere in modo soddisfacente a questo compito, per mancanza di competenze e per la prevalenza di
altre priorità.
- Una nozione del pubblico come passivo, la cui ignoranza e ostilità di default può essere contrastata da
appropriate iniezioni di comunicazione della scienza;
- Una più ampia nozione di comunicazione come processo di trasferimento di conoscenza da un soggetto
a un altro;

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- Una nozione di conoscenza come trasferibile senza significative alterazioni da un contesto a un altro,
secondo cui un’idea o un risultato possono essere trasportati dalla comunità scientifica al grande
pubblico.

Negli ultimi decenni la ricerca sulla copertura mediale dei temi scientifici è andata oltre lo stereotipo della
concezione diffusionista. Analogamente, si è messo in luce come i criteri usati dai media per selezionare esperti
scientifici a cui far commentare un certo tema non coincidano necessariamente con quelli della comunità
scientifica. I giornalisti hanno a volte reagito con durezza alle aspettative che i loro criteri dovessero
corrispondere a quelli degli scienziati, considerandosi portavoce dei dubbi e delle esigenze del pubblico, più che
dei messaggi della scienza, giustificando così il proprio atteggiamento di relativa indifferenza nei confronti delle
priorità dell’agenda scientifica.
Ma dalle analisi è emersa una presentazione dell’attività scientifica come prevalentemente progressiva e
apportatrice di benefici per la società, consensuale, fortemente orientata dalle fonti specialistiche e addirittura
troppo distante dalla comunicazione specialistica sotto il profilo linguistico.

7.2. Un pubblico scientificamente analfabeta?

La concezione diffusionista e pedagogico-paternalistica della comunicazione della scienza ha orientato a lungo


anche gli studi sul pubblico. Furono avviate negli anni 50 negli Stati Uniti.
In molte occasioni, i risultati di queste ricerche sono stati utilizzati per sostenere che vi è uno scarso interesse per
i temi scientifici e un livello troppo basso di alfabetizzazione scientifica, auspicando così uno sviluppo
quantitativo e qualitativo della comunicazione scientifica rivolta al grande pubblico. A partire dagli anni 90,
questi assunti sono stati fortemente criticati a vari livelli.

Si è messo così in evidenza come l’equazione tra comprensione pubblica e capacità di rispondere a domande
sulla scienza abbia limitato a lungo l’agenda del public understanding of science alla constatazione che i membri
del pubblico non ragionano come scienziati di professioni. Le differenti percezioni tra esperti e pubblico non
sono riducibili unicamente a un dislivello nella quantità di informazione disponibile, ma possono rimandare a
una più articolata disgiunzione tra sapere esperto e sapere non esperto.
Tutt’altro che scontato appare anche il legame tra esposizione a contenuti scientifici nei media, livello di
conoscenza e orientamento favorevole nei confronti della ricerca.

7.3. Il ruolo degli scienziati

Nemmeno i ricercatori sono totalmente estranei ai processi comunicativi. Oggi, si stima che la maggior parte dei
lanci d’agenzia su temi scientifici siano basati su comunicati e altro materiale fornito da uffici stampa e di
pubbliche relazioni. Inoltre, gli stessi ricercatori spiccano spesso tra i fruitori più assidui della copertura della
scienza da parte dei media, a cui attingono per preselezionare nell’ormai enorme massa di pubblicazioni e di
ricerche.

Anche i sociologi della scienza hanno cominciato a interessarsi alla comunicazione pubblica della scienza.
Questa mancanza di interesse per la presentazione e la comprensione pubblica della scienza può essere spiegata
considerando i sociologi della scienza come le vittime più sofisticate della concezione tradizionale. Finché era

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intesa come pratica completamente distaccata dalla scienza, la comunicazione pubblica della scienza presentava
scarso rilievo per chi era interessato all’influenza dei fattori sociali sul cuore dell’attività scientifica.

L’approccio degli STS alla comunicazione pubblica della scienza si caratterizza per una severa critica
all’impostazione della concezione tradizionale. Al posto della distinzione netta tra la scienza e la sua
divulgazione, è stato perciò suggerito un modello di continuità della comunicazione scientifica. Lungo questo
continuum si possono tracciare differenze, ma solo di tipo graduale, tra i diversi contesti e gli stili di
comunicazione-ricezione, che esistono nell’esposizione delle idee scientifiche.
Cloitre e Shinn, identificano 4 livelli principali nel processo di comunicazione scientifica:
1. Livello intraspecialistico: è il livello più alto, in cui avviene la formazione della teoria o del dato
scientifico. Questo viene “ufficializzato” e reso noto a ricercatori operanti nello stesso ambito
specialistico e in possesso della medesima terminologia tecnica. Il canale tipico di questo livello è la
comunicazione a congresso o il paper pubblicato su riviste altamente specializzate; sono presenti
numerosi riferimenti ai dati empirici e alle attività sperimentali coinvolte nella ricerca.
2. Livello interspecialistico: questo livello, sempre all’interno della comunità scientifica, assume un ruolo
determinante nello sviluppo di ricerche interdisciplinari, che coinvolgono cioè specialisti ed esperti di
settori scientifici diversi. L’appartenenza degli studiosi ad aree disciplinari separate, implica una
semplificazione della terminologia e dei concetti per favorire la comprensione da parte dei non-iniziati.
Il canale di questo livello può essere l’articolo pubblicato su “riviste sintetiche” o “periodici ponte”
come Nature o Science, oppure ancora il congresso dedicato all’argomento in questione.
3. Livello pedagogico: è il livello in cui un insieme di nozioni e teorie consolidate viene condiviso tra i
ricercatori e un pubblico che non ha ancora raggiunto la piena padronanza del lessico specialistico. È la
modalità attiva nel caso della didattica universitaria o dell’insegnamento avanzato, in cui la sistematicità
e il carattere formativo si uniscono ad una prospettiva storica, in grado di far riflettere sulla natura
cumulativa dell’impresa scientifica. Viene anche definita da Fleck “scienza dei manuali”.
4. Livello popolare: è coincidente con quella che noi definiamo e riconosciamo genericamente come
divulgazione. È uno degli estremi di ciò che abbiamo chiamato continuum espositivo, il livello più basso
della comunicazione scientifica rivolta al pubblico; un’area piuttosto ampia in cui si mescolano soggetti
accomunati dal desiderio di conoscere, pur non avendo una formazione specialistica. È naturalmente
l’ambito più vasto, in cui si trovano riviste settoriali di grande prestigio come Scientific American, ma
anche periodici rivolti ad un pubblico più generico, come Focus o Newton; vi rientrano inoltre gli
articoli sulle pagine dei quotidiani e sui supplementi dedicati alla scienza, nonché le trasmissioni
televisive di divulgazione.

L’esposizione specialistica (“scienza delle riviste”) è caratterizzata da provvisorietà e incertezza.


Quando una teoria fa il suo ingresso nel “manuale” perde molti di questi caratteri e diventa un “fatto”
consensualmente condiviso dalla comunità scientifica.
Un passo ulteriore avviene nell’esposizione della scienza popolare: qui “il fatto si è già fatto carne: esso diviene
una cosa immediatamente percepibile, diviene la realtà”. A livello popolare, scompaiono dubbi o attenuazioni: le
articolazioni e le sfumature del sapere specialistico si condensano in formule elementari e compatte.

Il percorso comunicativo dalla scienza specialistica a quella popolare è una sorta di “imbuto che si restringe
progressivamente, lungo il quale il sapere perde sottigliezze e sfumature riducendosi a pochi elementi certi e
incontrovertibili”.

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Il percorso di una nozione scientifica attraversa i diversi livelli e non può quindi essere descritto come la
semplice traslazione di un oggetto da un contesto comunicativo a un altro. Ogni passaggio comporta infatti una
trasformazione della nozione stessa.

Gli studi di sociologia della scienza basati sul modello della continuità considerano il livello della
comunicazione popolare come lo stadio finale in quel processo di stilizzazione e di produzione di fattualità e
apoditticità che costruisce l’evidenza scientifica.
Più il contesto della ricerca è allontanato dal contesto di ricezione in termini di linguaggio, prestigio intellettuale
e livelli di abilità, più risulta facile per gli scienziati presentare il loro lavoro come certo, decontestualizzato dalle
condizioni in cui è avvenuta la sua produzione e autorevole.

7.4. La comunicazione pubblica della scienza come prosecuzione del dibattito scientifico
con altri mezzi

Il modello della continuità può essere considerato un utile strumento di riferimento, finché descrive una specie di
flusso ideale di comunicazione nelle condizioni di routine. In alcuni casi, tuttavia, il livello di comunicazione
pubblica sembra in grado di giocare un ruolo più sofisticato.

Infatti, non sempre la traiettoria è lineare: vi possono essere (e di fatto si verificano sempre di più) “deviazioni”
verso il livello pubblico: la comunicazione passa direttamente al livello popolare per poi influenzare i livelli
specialistici.

In alcuni casi, il discorso scientifico a livello pubblico è solo apparentemente pubblico: la comunicazione a
questo livello non è realmente rivolta al pubblico in generale, ma al raggiungimento di un vasto numero di
colleghi, in modo rapido, usando il livello pubblico come arena comune senza doversi attenere ai tempi e alle
costrizioni della comunicazione specialistica. Questa prerogativa del livello pubblico è particolarmente
importante nei casi in cui la comunicazione deve attraversare più settori disciplinari o addirittura più categorie di
attori.

Lo spazio pubblico diventa particolarmente rilevante nel caso in cui si stia costituendo o consolidando un nuovo
settore di ricerca. In questi casi, comunicare in pubblico non serve agli scienziati solo per parlare a se stessi, ma
anche per riconoscersi e costruire un’identità comune in termine di interessi conoscitivi e metodi, ponendo così
le basi per l’istituzionalizzazione del proprio settore.
Nei casi di deviazione della comunicazione scientifica, quindi l’immagine del processo dovrebbe essere
leggermente più complessa. In queste situazioni, infatti, il discorso pubblico della scienza non riceve
semplicemente ciò che filtra attraverso i livelli precedenti, ma può trovarsi al centro delle dinamiche della
produzione scientifica.

Quando si parla di comunicazione pubblica si intendono due cose diverse:


- Una traiettoria di routine, consensuale e non problematica, che è adeguatamente descritte dal modello
della continuità. Nonostante le sue connotazioni ideologiche, divulgazioni è un termine sufficientemente
appropriato per questo processo.
- Una traiettoria alternativa, cioè quella rappresentata dai processi di deviazione verso il livello pubblico,
in cui la comunicazione pubblica assume un rilievo ancora maggiore e un ruolo più articolato nei
confronti del dibattito specialistico.

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Alcune rilevanti differenze formali e sostanziali sembrano essere rispettivamente associate a queste due
modalità. A un livello formale, quando la modalità di divulgazione è attivata, i problemi scientifici sono più
frequentemente inseriti in spazi esplicitamente dedicati alla comunicazione della scienza: le riviste di
divulgazione scientifica e le pagine scientifiche dei giornali.
La stessa presenza entro tali frames mediali costituisce un elemento di legittimazione dei contenuti scientifici,
contribuendo ad accreditarli.
D’altra parte, nei casi di deviazione, i problemi scientifici appaiono più frequentemente anche in contesti mediali
generici, quali le sezioni di cronaca. I fatti sociali possono essere consolidati, così come prevede il modello della
continuità, ma possono anche venire dissolti, decostruiti o manipolati da altri gruppi sociali, diversi per i propri
scopi differenti.
L’imbuto non deve necessariamente restringersi ma può tornare ad allargarsi verso i livelli specialistici. Attori
sociali abitualmente esterni all’attività di ricerca, come attivisti, in queste situazioni possono entrare in modo
significativo nei processi di definizione dei fatti.

Lo studio del discorso pubblico della scienza nei casi di deviazione offre in definitiva un’opportunità di rendere
conto della pluralità dei luoghi per la produzione e riproduzione della conoscenza scientifica, oltre che di
riconoscere un ruolo più articolato al pubblico.

Una teoria o un risultato scientifico, in questo modo possono contemporaneamente godere di diverso status e
solidità ai diversi livelli della comunicazione.
Sebbene possa rappresentare un’opportunità per superare le regole e le costrizioni del processo di divulgazione,
la deviazione è guardata allo stesso tempo con apprensione delle comunità specialistiche, quando un problema
scientifico è spinto in un’arena pubblica, perde almeno in parte quello status speciale di cui potrebbe godere
nelle cornici di divulgazione.
Può così diventare oggetto di processi di concatenazione di problemi o sperimentare cicli di vita come qualsiasi
altro tema di interesse pubblico.

Questo contribuisce a spiegare gli sforzi crescenti fatti dagli scienziati per estendere il loro controllo sui processi
di comunicazione con il pubblico. Le istituzioni scientifiche propongono seminari su questi argomenti; i
ricercatori scrivono manuali in cui danno ai propri colleghi su come trattare con i mezzi di comunicazione.
Richiamando il doppio gioco, caratteristico secondo Latour, della modernità, si potrebbe osservare che spesso gli
scienziati praticano la deviazione (la comunicazione pubblica come parte del processo di produzione del fatto
scientifico) camuffandola da divulgazione (la diffusione di conoscenza scientifica con intenti pedagogici). Molti
degli equivoci presenti nel dibattito sulla comunicazione pubblica della scienza nascono probabilmente proprio
dall’attribuire aspettative di tipo divulgativo a comunicazioni che in realtà adempiono a funzioni di deviazione e
viceversa.
Infatti all’interno della comunità scientifica, esiste una tensione tra l’istituzionalizzazione della deviazione da un
lato e invece la sua difesa come una specie di uscita di emergenza per situazioni specifiche, come una fonte
potenziale di mutamento e di innovazione scientifica.

7.5. Si può trasferire la conoscenza?

Mentre i concetti di pubblico e di media sono stati problematizzati fin dalle prime riflessioni sulla
comunicazione della scienza, più recentemente è avvenuto anche per il concetto di scienza. Ciò non è avvenuto
per il concetto di comunicazione, problematizzato solo raramente. Gran parte dell’ideologia diffusionista della
comunicazione della scienza, attribuisce al concetto di comunicazione, la nozione di “trasferimento”, diventando
questo il paradigma dominante per descrivere la comunicazione. In questo senso, la comunicazione si configura

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come un processo di trasferimento di conoscenza da un soggetto o un gruppo di soggetti ad un altro soggetto o


gruppo di soggetti. Si può parlare di comunicazione di successo per intendere quindi un trasferimento riuscito di
informazione da una parte all’altra. Questa nozione si basa quindi sul presupposto che sia possibile trasferire
conoscenza senza provocare una significativa alterazione da un contesto all’altro, e che la stessa conoscenza in
contesti diversi produca gli stessi atteggiamenti e comportamenti.
Dagli anni 50, questa visione di comunicazione come trasferimento è stata messa in discussione, molti studiosi
hanno infatti dimostrato che vari tipi di filtri possono contribuire a rendere il trasferimento, un processo selettivo.
Negli ultimi due decenni, nell’area specifica della comunicazione della scienza, si è arrivati ad evidenziare i
limiti dell’idea di trasferimento, permettendo così di indagare le interazioni multiple tra il discorso specialistico e
quello popolare. In questo senso la comunicazione appare come una forma di “cortocircuito” o “interferenza” tra
il discorso specialistico e quello pubblico, ciò consente quindi una comprensione più articolata della
comunicazione della scienza. Così la comunicazione non è più intesa solo come causa, ma anche come l’effetto
di sviluppi in entrambi i discorsi, che permettono la formazione di una zona d’intersezione. Si può così anche
interpretare la comunicazione come processo, processo che però sostiene e deve essere sostenuto a sua volta
dalle interazioni tra gli attori.

7.6. Dal deficit al dialogo, dal dialogo alla partecipazione – e poi?

Dall’ultimo decennio, il perdurare di preoccupazioni da parte del pubblico su alcune questioni tecnoscientifiche
e la crescente domanda di coinvolgimento da parte dei cittadini hanno portato a ripensare il significato stesso di
comunicazione della scienza in varie arene. Nel 2000, un rapporto della House of Lord riconosceva i limiti di
una comunicazione della scienza basata su una relazione tra scienza e pubblico paternalista e top-down,
individuando una nuova sensibilità per il dialogo.
In vari Paesi e anche a livello europeo, le parole chiave degli schemi di finanziamento e dei documenti di policy
sono slittate da consapevolezza pubblica della scienza a coinvolgimento dei cittadini, da comunicazione a
dialogo, da scienza e società a scienza della società.
Sono fiorite iniziative che mirano a stimolare l’input del pubblico sulle questioni e le decisioni in ambito
scientifico e tecnologico. Alcuni studiosi hanno introdotto una nozione di co-produzione di conoscenza per
descrivere forme intense di partecipazione dei non esperti nella definizione e nell’accreditamento della
conoscenza scientifica.
Queste forme sono state interpretate come un cambiamento significativo non solo rispetto al modello del deficit,
ma anche rispetto alle sue critiche sociologiche.
Secondo Callon, la versione critica del public understanding of science fa slittare le priorità dall’educazione di
un pubblico scientificamente analfabeta all’esigenza e al diritto del pubblico di partecipare nella discussione,
assumendo che le persone comuni hanno saperi e competenze che integrano e completano quelli degli scienziati
e degli esperti. Tuttavia entrambi i modelli sembrano condividere un’ossessione comune, cioè quella della
demarcazione. Infatti, entrambi negano alle persone comuni qualsiasi competenza a partecipare alla produzione
della conoscenza scientifica. Su questa base è stata invocata l’esigenza di uno scarto più sostanziale verso un
modello di co-produzione della conoscenza in cui i non esperti e la loro conoscenza locale possano essere
concepiti non come un ostacolo da superare con opportune iniziative educative (come nel modello del deficit),
né come un elemento addizionale che si limita ad arricchire l’expertise degli specialisti (come nel modello
critico-dialogico), ma piuttosto come essenziali alla stessa produzione di conoscenza. Le due forme di sapere
non sono prodotte indipendentemente in contesti separati per poi incontrarsi successivamente, ma risultano da
processi comuni, condotti in forum ibridi, dove possono interagire specialisti e non specialisti.

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Importante è il tener conto della dimensione del contesto. Infatti la comunicazione pubblica della scienza deve
essere analizzata non solo nel contesto delle interazioni tra esperti e cittadini, ma anche nel più ampio contest
della scienza nella società. Ciò ha numerose implicazioni significative:
- Non si possono applicare in modo non problematico modelli di comunicazione della scienza (sviluppati
nel contesto della little science) a un contesto di ricerca scientifica caratterizzato da pervasive relazioni
con i mercati, da una dimensione globale e da una forte pressione in termini di pubbliche relazioni.
- La scienza contemporanea sta mettendo in discussione la stessa idea di una distinzione netta tra
produttori e utilizzatori di conoscenza, che è alla base di una visione diffusionista della comunicazione
della scienza.

Una caratteristica del contesto contemporaneo della scienza nella società è anche la sua eterogeneità e
frammentarietà. Infatti, la comunicazione è esposta:
- Alle pressioni contraddittorie verso la privatizzazione della conoscenza e quelle verso la libera
condivisione dei risultati di ricerca;
- Alle richieste dei cittadini di maggiore coinvolgimento.
Tutto ciò rende scarsamente plausibile l’uso di un solo modello di comunicazione della scienza.

Sono stati delineati tre modelli principali di interazioni tra esperti e pubblico:
1. Deficit: trasferimento e divulgazione unilaterale, limitata nel tempo / obiettivo di trasferire conoscenza
2. Dialogo: consultazione e negoziazione bidirezionale interattiva / obiettivo di discutere le implicazioni
della ricerca
3. Partecipazione: co-produzione della conoscenza multi-direzionale / obiettivo di stabilire gli obiettivi e
l’agenda della ricerca
Questi modelli dovrebbero essere concepiti come tipi ideali e la maggioranza delle situazioni comunicative
concrete dovrebbe essere descritta da una combinazione dei tre modelli.
Nel tempo, le interazioni tra esperti e pubblico su una certa questione possono spostarsi attraverso i modelli e le
loro combinazioni.

Spesso le istituzioni incontrano difficoltà nel tradurre in pratica le proprie dichiarazioni di intenti sulla
partecipazione pubblica in ambito scientifico e tecnologico. Ciò è dovuto anche da un certo grado di apprensione
per la non controllabilità dei processi partecipativi può essere considerato un fattore chiave alla base della
tentazione che talvolta emerge da parte di enti di ricerca e altre istituzioni, di addomesticare la partecipazione
pubblica selvaggia attraverso iniziative formali di partecipazione,
Un modello comunicativo non dovrebbe necessariamente essere pensato come sovrapposto agli obiettivi e agli
interessi di una categoria di attori specifica. Istituzioni di ricerca e di policy possono promuovere situazioni
dialogiche-partecipative; i cittadini possono contribuire a relegare nel modello del deficit una questione su cui
hanno scarso interesse a partecipare.

Ci si interroga su quali condizioni emergono configurazioni diverse di comunicazione pubblica della scienza. Ad
esempio:
- Il grado di salienza pubblica di una determinata questione scientifica;
- Il livello di mobilitazione pubblica sulla questione e su altre questioni collegate;
- La visibilità e la credibilità delle istituzioni e degli attori scientifici coinvolti,
- Il grado di controversia-disaccordo tra gli esperti scientifici, così come percepito dal pubblico,
- Il grado di consenso sociale sul contesto politico e culturale più generale in cui si collocano le questioni
scientifiche.

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Il contesto politico più ampio può risultare decisivo anche nel definire lo scenario dell’interazione comunicativa.
È possibile individuare alcune tendenze storiche generali nella variazione di queste condizioni. Altre tendenze
generali possono includere il ruolo sempre più pervasivo dei media nel mettere in discussione non solo le
decisioni di policy sulla scienza, ma più specificamente la connessione tra expertise e policy making; o la
crescente richiesta di partecipazione pubblica come parte di una critica più ampia della capacità delle forme
democratiche tradizionali di rappresentare e includere i punti di vista dei cittadini di fronte alle sfide globali,
quando le decisioni cruciali sono prese sempre più spesso a livelli non direttamente sottoposti all’influenza dei
cittadini.

L’inclinazione degli scienziati ad aprire i propri conflitti comunicativi ai non esperti non è un fenomeno nuovo
né in regolare crescita, ma potrebbe essere descritto nei termini di cicli alternativi di apertura e chiusura, in una
sorta di movimento pendolare. Quando i ricercatori si mobilitano nello spazio pubblico per invocare maggiore
attenzione da parte del pubblico alla scienza, possono contribuire alla crescente percezione pubblica
dell’expertise scientifico come portatore di interessi di parte, danneggiando così la credibilità dei tradizionali
snodi decisionali tra esperti e decisori politici.

La comunicazione non dovrebbe essere reificata come evento circoscritto e statico né come una prerogativa che
può essere accesa o spenta a piacere, ma piuttosto come un processo fluido, che assume diverse configurazioni
contingenti. Una certa nozione delle relazioni tra esperti scientifici e pubblico è essa stessa un risultato, e non
una precondizione, delle lotte, negoziazioni e alleanze che si svolgono in tali configurazioni.

La comunicazione non è solo uno strumento tecnico, che funziona in una certa ideologia della scienza e del suo
ruolo nello sviluppo economico e sociale, ma deve essere riconosciuta come una delle dinamiche principali al
centro di quei processi co-evolutivi che ridefiniscono gli stessi significati di scienza e di pubblico, di sapere e
cittadinanza, di expertise e di democrazia.

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