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PSICOLOGIA DEL LAVORO

(Prof.ssa Vincenza Capone)


CAPITOLO 1
La psicologia del lavoro si focalizza sulle condizioni di vita lavorativa e sul benessere dei
lavoratori, mirando a contribuire al loro miglioramento; essa si concentra sull’individuo, sul
singolo soggetto inserito all’interno del suo contesto lavorativo e se ne occupa considerando
da una parte il ruolo dell’individuo stesso, la relazione con il contesto e altri individui,
dall’altra le condizioni di benessere e di malessere. È una psicologia che si fonda sulla
contingenza, ciò significa che tiene conto delle problematiche e delle richieste del mondo
del lavoro. La psicologia del lavoro non fa ricerca di base (che cerca di rispondere a delle
domande nel tentativo di approfondire dei costrutti), ma nasce con un altro obbiettivo:
rispondere alle domande del contesto (non della scienza) tenendo presenti le sue esigenze.
Per quanto riguarda la modalità di conduzione degli interventi, bisogna tener conto delle
seguenti parole chiave: la rilevanza consente allo psicologo del lavoro di ricordare che gli
studi e le applicazioni devono essere indirizzati ai contesti professionali odierni (quindi
contingenza); essa va a braccetto con l’utilità; queste devono appoggiarsi al rigore, metodo
scientifico; infine la deontologia, tutto ciò che ha a che fare con privacy, scopi di ricerca,
metodi eticamente corretti e così via.
La psicologia del lavoro studia l’esperienza lavorativa dell’individuo, la soggettività
umana e come l’uomo si inserisce nell’ambiente lavorativo, il quale porta con sé sentimenti,
atteggiamenti (es. soddisfazione lavorativa), comportamenti, processi sociali e processi
psicologici  sono quelli che portano una persona a intraprendere un percorso lavorativo.
Punti importanti: l’attenzione è particolarmente rivolta all’interazione uomo-macchina-
ambiente, all’analisi del lavoro, cioè delle sue caratteristiche e come influenzano l’individuo
e viceversa, alla progettazione del contesto (si parla di ergonomia), all’orientamento
professionale e alla selezione, agli interessi, alle motivazioni e agli atteggiamenti verso il
lavoro, nonché all’interazione tra vita lavorativa ed extra-lavorativa, alla promozione del
benessere.
[contingenza – relazione – contesto lavorativo – promozione del benessere (a lavoro e
fuori)]

Si differenzia dalla psicologia delle organizzazioni, che invece approfondisce i temi di


carattere più sociale della psicologia del lavoro, è più globale; considera le persone in
quanto membri di gruppi, il funzionamento dei team e le organizzazioni come costruzioni
collettive o artefatti sociali; pone l’attenzione sulle percezioni sociali reciproche, sui
meccanismi di influenza sociale, sulle comunicazioni, sulla cooperazione e il conflitto
intergruppi, sui processi di decisione sociale, sulle valutazioni di efficacia ed efficienza.
Non c’è più il singolo, ma le comunità e questo cambia le prospettive, i metodi e gli
obbiettivi.
Quella che viene considerata un’altra branca a sé stante è la psicologia delle risorse
umane, che si occupa della gestione delle persone, in termini di seguire il percorso di
carriera degli individui (processo di socializzazione dalla fase d’ingresso a quella d’uscita
dalle organizzazioni; selezione del personale  psicologo delle risorse umane come gancio
tra individuo e organizzazione), del contratto psicologico e del coinvolgimento.
L’attenzione è rivolta alle varie fasi (carriera o iter professionale) che caratterizzano
l’interazione tra l’individuo e l’organizzazione.

Nascita della psicologia del lavoro


Hugo Münsterberg viene considerato il padre della disciplina, poiché all’interno della rivista
The Psychology and Industrial Efficiency (1913) fu il primo a parlare della necessità di
selezionare degli individui capaci di svolgere un determinato tipo di lavoro e
dell’importanza che tale selezione del personale ha per essi  ha messo nero su bianco la
necessità di prendere in considerazione la soggettività. L’assunzione di lavoratori con
personalità e abilità mentali adatte a certi tipi di lavoro è il modo migliore per incrementare
la motivazione, la prestazione e l’apprendimento.
La psicologia del lavoro ha cambiato terminologia nel corso del tempo…
Psicotecnica: studio delle tecniche migliori per fare in modo che gli individui riescano a
svolgere un certo lavoro; viene riconosciuto alla psicologia il fatto di possedere degli
strumenti; però gli psicologi italiani non accettano questo termine. Nasce poi psicologia
industriale un po’ per un errore  nel 1904 in un articolo di uno studioso dell’epoca, la
stampa piuttosto che scrivere “psicologia individuale” scrisse industriale, ma gli psicologi lo
lasciarono così perché pensavano potesse rivelarsi utile. E così fu, negli anni ’50 avevano
preso il sopravvento le industrie e quindi ciò rispecchiò la contingenza. Più tardi in alcuni
paesi si utilizzò psicologia dell’occupazione e oggi si predilige psicologia del lavoro.
La psicologia del lavoro nasce come disciplina applicata, quindi orientata all’azione e alla
risoluzione concreta dei problemi. Mettere insieme due prospettive contrapposte cioè teoria
e conoscenza più orientata ad approfondire concetti teorici, alla conoscenza dei fatti e dei
processi, e l’azione concreta è stato particolarmente difficile; così come particolarmente
complessa è stata la sua accettazione. Dice Gabassi, in pochi settori della scienza la
dicotomia antitetica fra conoscenze di base e applicazione delle stesse, è stata così radicale
come in psicologia  questa dicotomia antitetica è stata però la fortuna della psicologia
del lavoro, che ne ha permesso la diffusione.

Eventi storici:
- 1800. alle soglie della II rivoluzione industriale, nascita del capitalismo  in risposta ad
un’oggettivizzazione che vuole guardare solo alle performance e al risultato, si parla di
soggettività lavorativa (Spaltro); qualcuno comincia a interrogarsi sul ruolo del singolo.
- 1824-33. in Inghilterra  Trade Unions, prime organizzazioni sindacali e Factory Acts,
atti legislativi a tutela del lavoratori; questo porta la psicologia a interrogarsi ancora sulla
soggettività.
- 1856. sempre più studiosi si interessano del ruolo del singolo a lavoro, tra cui Taylor; in
che modo riconoscere le necessità dell’individuo e l’intervento di una psicologia volta a
studiare la soggettività in maniera scientificamente fondata; l’ambiente delle fabbriche, duro
e poco tutelante, porta gli studiosi ad interrogarsi su come intervenire nel contesto e qual è
la metodologia giusta.
- 1901. in Italia, a Milano Luigi Devoto  fonda la prima Clinica del lavoro, che si occupa
di problematiche legate al lavoro; si riconosce il lavoro come elemento centrale nella vita
delle persone che può portare benessere o malessere.
- dal ‘900 in poi studiosi come Kiesow, Wundt, Gemelli, Ponzo, riconoscono nella
psicologia una matrice applicativa.
- 1910. in Europa  studi nelle fabbriche di armi su cause infortuni, lavori alienanti,
mortalità, condotti per la prima volta da psicologi.
- 1917. prima guerra mondiale  negli USA all’Harvard University, psicologi sperimentali
sviluppano l’Army Alpha e Beta test (rispettivamente per chi sa leggere e chi non sa
leggere) per la selezione del personale; viene individuato un ruolo forte nella disciplina.
- 1919. primo dopo guerra  Benussi fonda il laboratorio di ricerche psicologiche in cui si
formano numerosi studiosi di psicologia del lavoro, come Musatti; si fa strada la volontà di
specializzarsi in questo ambito.
- 1920. dopo Münsterberg, a Londra Muscio e il corso “Lectures on Indutrial Psychology”
 ha ideato il primo testo didattico per insegnare la psicologia del lavoro.
- 1929. con Mayo e il metodo etnografico si ha la possibilità di entrare nel collettivo con la
descrizione sistematica dell’organizzazione sociale di un gruppo industriale.
- crisi del ’29. La recessione segnò una battuta d’arresto per la psicologia  ma in USA
studi sul significato che il lavoro può assumere per l’uomo (identità, costruzione di un
individuo).
- seconda guerra mondiale. McDougall e scuola psicoanalitica e sociale  porta una serie di
considerazioni anche a livello psicologico; si riconosce il ruolo dell’uomo psicologico e del
lavoro di gruppo.
- 1945. APA  riconosce ufficialmente lo statuto autonomo della psicologia del lavoro, si
differenzia dalle altre psicologie e compare la dicitura “Industrial and Business Psychology”
nella sezione 14.
- anni 60-70. la strada è ormai spianata, la disciplina è fortemente riconosciuta; necessità di
teorie multidisciplinari  teoria sistematica: il fattore umano per il funzionamento
dell’organizzazione.
- 1968. in Italia lotte operai e sindacali  clima favorevole allo sviluppo della psicologia
del lavoro, tanto che di lì a poco nascerà una società di Psicologia del lavoro e delle
organizzazioni.

Spesso la psicologia del lavoro si appoggia ad altre branche della psicologia, trae spunto da
altre teorie per poterle applicare al proprio ambito di studio, ma ha le sue peculiarità.
Studiare il lavoro in una prospettiva psicologica implica tener conto che ci si occupa di una
comunità sociale e tecnica non pacifica, che gli attori sono portatori d’interesse in
tendenziale conflitto, che si tratta di una disciplina fortemente centrata sul contesto e sulle
sue problematiche. Si parla di contingenza  significa rispondere ai problemi e le richieste
del contesto. La ricerca in ambito lavorativo si caratterizza per la complessità dei problemi,
per l’ampiezza e l’incertezza delle situazioni che non possono essere definite in modo
univoco; l’influenza del qui e ora si fa sentire sulla dinamica lavorativa e porta a difficoltà a
generalizzare. Per la contingenza, i vari contributi di ricerca non possono essere
generalizzati in Paesi con culture diverse, né le tecniche trasferite da un contesto all’altro
ritendendo di ottenere risultati affidabili.
Studiare l’individuo al lavoro non vuol dire solo volgere l’attenzione a comportamenti
misurabili o a performance, non si creano più artefatti, ma la maggior parte del lavoro si
sviluppa intorno all’informazione, ai saperi e agli affetti, qualcosa di immateriale; le
organizzazioni erogano servizi ovvero ogni attività o vantaggio che una parte può scambiare
con un’altra, la cui natura sia essenzialmente intangibile e non implichi la proprietà di
alcunché (Kolter, Scott). Operazionalizzare queste “performance” è complicato.
Parasuraman e colleghi (1988) hanno individuato le 5 dimensioni chiave dei servizi, tramite
cui capire se sono efficaci e come impattano sulla vita dei lavoratori:
1. elementi strutturali, comfort, gradevolezza dell’ambiente, presenza del personale,
efficacia comunicativa;
2. affidabilità, capacità di erogare il servizio in maniera affidabile e accurata;
3. capacità di risposta, aiutare il cliente fornendo il servizio in tempi rapidi;
4. sicurezza, competenza e cortesia, fiducia e riservatezza (questo aspetto è molto sensibile
per chi si occupa di psicologia del lavoro);
5. empatia, capacità di prestare cura e attenzione individualizzata.

Diversity management
Il mercato del lavoro è denso di difficoltà e di problematiche: le donne  legge 120/2011
(Golfo-Mosca), obbligo temporaneo di rispettare un’equa rappresentanza di genere nei
consigli di amministrazione e collegi sindacali delle società quotate e partecipate pubbliche;
lavoro flessibile e atipico e le sue conseguenze psicologiche; conciliazione vita-lavoro; il
multiculturale, la disabilità, condivisione organizzativa, prevenzione e sicurezza.
Lo psicologo del lavoro guarda l’identità lavorativa come un’identità importante e la sua
attività si muove all’interno di una prospettiva duplice: individuale e organizzato / personale
e collettivo; da un lato le organizzazioni vogliono performance, dall’altro l’individuo vuole
benessere  prospettiva interna ed esterna alle strutture produttive. È capace di perseguire
obiettivi di ricerca-azione, di gestire le dimensioni dell’ascolto e della collaborazione con la
committenza nel raggiungimento dei fini organizzativi…
- all’interno  lavora sulle organizzazioni che sono formate da persone; tiene conto delle
esigenze, delle finalità, della storia, dei fini e della cultura dell’organizzazione; tiene conto
della sfera sociale (colleghi, superiori, clienti, utenti potenziali, mass media); mira a
migliorare efficienza ed efficacia dell’organizzazione; valuta capacità, potenzialità,
motivazioni degli individui per pianificare interventi di valorizzazione e crescita;
accompagna l’individuo lungo il suo percorso nell’organizzazione (riferimento alle risorse
umane), ma anche in relazione alla famiglia (conciliazione lavoro-famiglia), ai suoi valori,
all’ambiente sociale; individua i rischi psicosociali es. il burnout e promuove il benessere
organizzativo.
- all’esterno  agisce sull’utenza (migliorare la risposta); azioni di sensibilizzazione rivolte
ai destinatari verso l’utilizzo di determinati servizi; attenzione agli atteggiamenti e alle
opinioni delle persone, agli stili di vita e ai consumi, ai valori etici e sociali, ai livelli di
qualità percepita, all’efficacia delle campagne pubblicitarie; miglioramento di conoscenze e
competenze; marketing finalizzato alla soddisfazione e alla fidelizzazione del cliente.

Ricapitolando
(elementi cruciali, argomenti su cui concentrarsi e domande d’esame)

1. La psicologia del lavoro: elementi di base


2. La differenza tra psicologia del lavoro, delle organizzazioni e delle risorse umane
3. La nascita della psicologia del lavoro
4. Peculiarità
5. Compiti dello psicologo del lavoro

CAPITOLO 2 – METODI E TECNICHE DI RICERCA IN PSICOLOGIA DEL


LAVORO
La psicologia del lavoro e delle organizzazioni studia i comportamenti delle persone nei
contesti lavorativi e nello svolgimento delle attività professionali tenendo conto delle
diverse condotte lavorative, dei processi psicologici (es. stress lavoro correlato) e
psicosociali che le sottendono, delle forme di interazione tra ambiente lavorativo e coloro
che vi lavorano. Nel fare tutto ciò si trova in una situazione conflittuale: promuovere il
benessere dei lavoratori e allo stesso tempo favorire il massimo vantaggio (= raggiungere
obbiettivi, aumentare produttività ecc.) dell’organizzazione, due aspetti che devono andare
in sincronia.
La ricerca parte da domande che vengono dai contesti lavorativi e dalle loro problematiche
 si muove tra complessità ed efficacia. Mira a favorire la comprensione del
comportamento umano e delle dinamiche lavorative e organizzative, ad esempio perché
alcuni lavoratori riescono a mandare avanti performance migliori rispetto ad altri, perché
alcuni lavoratori riescono ad intrattenere relazioni più efficaci rispetto ad altri; impostare
pratiche gestionali sicure; potenziare la selezione del personale, che significa identificare
quali sono le caratteristiche di personalità che vanno ricercate nello svolgimento di un dato
lavoro (importanza delle differenze individuali); individuare quindi programmi di
formazione efficaci. La complessità dell’oggetto d’indagine complica la ricerca e lo
psicologo del lavoro si trova a difficoltà di accesso alle informazioni, di conseguenza
problemi etici  quanto è possibile entrare nel privato dei lavoratori, come si possono
conciliare le esigenze dei lavoratori e quelle delle organizzazioni.
Il processo di ricerca empirica
Ha come obiettivo far progredire la comprensione dei fenomeni lavorativi e organizzativi e
pertanto hanno in comune alcune fasi fondamentali. Le fasi della ricerca si verificano
sempre tenendo conto della contingenza, e si tratta di cinque fasi principali, con un
momento conclusivo che costituisce un feedback molto utile e ricco di informazioni per
quanti vorranno ulteriormente sviluppare la ricerca progettando nuovi studi.
[domanda di ricerca – disegno di ricerca – misurazione delle variabili – analisi dei dati –
conclusione della ricerca]

- Domanda di ricerca: è quella che dà vita al progetto di ricerca (all’idea), permette di


interrogarsi su dove si vuole arrivare e si basa su conoscenze già esistenti del problema.
Essa non parte dal ricercatore, ma da richieste che partono dal contesto, cioè esigenze del
lavoratore o delle organizzazioni. Importante consultare fonti esperte  oltre alla letteratura
e alle teorie già note, è necessario interrogare chi fa parte del contesto, confrontarsi con
l’esperienza di chi ha esigenza di risolvere un problema. L’obbiettivo è risolvere tale
problema, e allo stesso tempo elaborare una teoria al servizio del contesto: una teoria è un
assunto che ha la funzione di spiegare le relazioni tra fenomeni; dopo varie ricerche su un
argomento si può formulare una teoria che spieghi i motivi del verificarsi di alcuni
comportamenti. Anche nel più applicativo dei campi, c’è bisogno di capire la relazione tra
fenomeni, collegando le diverse variabili con una teoria. In ambito lavorativo c’è difficoltà
nel creare una teoria  si potrebbe fare riferimento a teorie precedenti che hanno il nostro
stesso obbiettivo ma che hanno applicato variabili diverse in contesti diversi, ma ciò non
assicura l’attendibilità.
Per quanto riguarda la domanda di ricerca si può partire da un metodo induttivo  dalla
raccolta dati all’elaborazione della teoria, o un metodo deduttivo  dall’elaborazione della
teoria alla raccolta dati.
Una teoria è uno strumento importante nello specificare le domande di ricerca, ma è solo
uno dei tanti altri a disposizione. Comunque bisogna tenere presente che la teoria è a
sostegno della domanda: Spector sottolinea l’importanza della teoria per la psicologia del
lavoro  il valore della teoria in questo ambito è quello di fornire una spiegazione utile per
i comportamenti relativi al lavoro, piuttosto che essere la sola fonte di un’idea di ricerca
(non è la sola fonte, è un supporto).

La ricerca pura (di base) ha come scopo l’elaborazione e la verifica di teorie e ipotesi che
potranno trovare applicazione in futuro; non si sposa con gli obbiettivi della psicologia del
lavoro e delle organizzazioni in quanto non risponde alla domanda della contingenza. In
psicologia del lavoro vengono utilizzate la ricerca applicata e la ricerca-intervento: quella
applicata nasce dall’esigenza di risolvere problemi emersi sul campo e che richiedono
soluzioni concrete per rispondere a specifiche esigenze organizzative, quella intervento si
propone di contribuire al cambiamento organizzativo mediante il coinvolgimento diretto
degli attori che partecipano con il ricercatore allo studio. La differenza sta nel fatto che
mentre la ricerca applicata non fa altro che provare a dare una risposta al problema, per
esempio perché è successa una determinata cosa in ambito organizzativo (perché tante
persone si mettono in malattia), la ricerca-intervento fa un passo in più, qui l’obbiettivo è
produrre cambiamenti nell’ambiente lavorativo chiamando in causa coloro che sono
coinvolti nel problema  non viene soltanto data la soluzione al problema, ma si cerca di
risolverlo in itinere.
Uno studio condotto in ambito organizzativo è generalmente basato su una specifica
domanda di ricerca. Si distinguono studi esplicativi, studi disegnati per verificare
specifiche ipotesi derivate da ricerche e teorie precedenti (forniscono informazioni sul
perché? come è successo?); e studi descrittivi, studi finalizzati a raccogliere osservazioni
riferite al contesto studiato  il ricercatore se ne avvale quando non ha un’ipotesi precisa
negli studi esplorativi (forniscono informazioni sul cosa è successo?).
Sia la ricerca di base, che quella applicata necessitano di entrambe le tipologie di studio.
Come indagare la domanda di ricerca? Attraverso:
- la metodologia si riferisce ai valori e agli assunti che servono da base razionale alla
ricerca;
- i metodi sono tecniche o strumenti di ricerca utilizzati per raccogliere i dati (questionario,
griglia di osservazione, note libere ecc.).
La differenza tra questi due concetti è che la metodologia è un po’ la filosofia che ispira la
ricerca, è il contenitore degli standard e dei criteri che muoveranno la ricerca e che il
ricercatore utilizza per interpretare i dati e per giungere alle conclusioni (la ricerca può
essere quantitativa o qualitativa  la scelta di una o dell’altra ci indica come proseguire e
influenza anche il modo in cui costruiamo la domanda di ricerca); invece i metodi sono gli
strumenti a disposizione di quella metodologia, ad esempio se è qualitativa il metodo sarà
l’intervista, se è quantitativa sarà il questionario.
[Si parte dalla metodologia per poi arrivare ai metodi]

- Disegno di ricerca: ogni domanda di ricerca presuppone che ci sia un disegno di ricerca
ben strutturato all’inizio. La scelta del metodo dipende dalla natura del problema studiato,
dal costo e dall’effettiva fattibilità. Avere chiara fin dal principio la ricerca ci consente di
interrogarci sulla validità della stessa, tenendo presente il livello di naturalità del setting di
ricerca e il grado di controllo sullo studio. In molte strategie di ricerca il problema può
essere studiato nel contesto in cui si manifesta spontaneamente. Altri fenomeni non
necessitano di essere indagati nell’ambiente naturale, in quanto si presume che essi siano
indipendenti dal contesto in cui si manifestano. La validità interna si riferisce al grado con
cui i risultati ottenuti possono essere attribuiti alle variabili indagate  i risultati sono
attendibili? Rispecchiano effettivamente il fenomeno studiato o dipendono da altre variabili
non considerate? Quanto più controllo la naturalità del setting tanto più si può rispondere a
queste domande. La validità esterna si riferisce al grado con cui i risultati di una ricerca
condotta su un certo gruppo di soggetti possono essere estesi, generalizzati ad altri contesti
 ciò significa che si deve trattare di contesti simili, ma questa condizione non è sempre
possibile e questo è un po’ un problema per la psicologia del lavoro.
La maggior parte degli autori concorda con quelle che sono state definite minacce alla
validità: interna  effetto Hawthorne, acquiescenza e desiderabilità sociale; esterna 
campionamento (richiede tecniche scientifiche a doc e ci dice se possiamo o no estendere i
risultati a popolazioni più grandi), strumenti e variazioni stagionali, cicliche, psicologiche.
Bisogna decidere che tipo di disegno di ricerca in senso stretto si vuole portare avanti. Si
distinguono in:
- disegni sperimentali: si cerca di capire se la variabile indipendente assume livelli diversi;
un disegno che quasi mai viene portato avanti nell’ambito della psicologia del lavoro e delle
organizzazioni è il classico esperimento, che si distingue dalle altre forme di disegno di
ricerca per l’assegnazione casuale dei partecipanti alle differenti condizioni della variabile
indipendente; inoltre il ricercatore ha un alto grado di controllo sulla conduzione dello
studio, che può presentare più condizioni di trattamento  il setting (all’interno del
laboratorio), le variabili intervenienti più controllate rispetto ad un contesto naturale.
- disegni quasi sperimentali: più frequenti e fattibili da mandare avanti nell’ambiente
lavorativo; ci consentono di muoverci un po’ di più rispetto al contesto di laboratorio in
senso stretto, non dobbiamo sottostare alle rigide regole del disegno sperimentale, e
consentono di lavorare con persone che sono collocate già in un ambiente, in determinate
condizioni e quindi permette di rispondere alle esigenze reali del contesto; si tratta di
situazioni lavorative in cui i soggetti non possono essere collocati nelle condizioni di
trattamento per ragioni pratiche, anche di ordine organizzativo e logistico; disegni con
gruppo non equivalente (non necessariamente presenza di un gruppo di controllo)  non vi
è una vera assegnazione casuale dei partecipanti ai livelli della variabili indipendente, in
quanto i partecipanti si trovano in differenti condizioni di trattamento per altre ragioni, ad
es. due filiali in una ditta.
- disegni non sperimentali: i dati sono raccolti in base a una o più variabili ma non esiste
alcuna condizione di trattamento; non avviene una manipolazione delle variabili, ma viene
fatta una “fotografia” della situazione; questo tipo di disegno è il più semplice da mandare
avanti ma il problema è che non consente di replicare le osservazioni  la soluzione è
l’Interrater Agreement, ovvero introdurre più valutatori per capire come sono correlate le
variabili (due valutazioni da osservatori indipendenti).
Per questi disegni, la metodologia può essere quantitativa (metodo: questionario) o
qualitativa (metodo: intervista), ma quella che si utilizza più spesso è una metodologia
multi-metodo  i disegni a più fonti, cioè ibridi, combinano i dati provenienti da più
metodi di raccolta dati, ad es. questionario + dati d’archivio; attingere da più metodologie e
più metodi ci consente di avere più informazioni da più fonti (superando il cosiddetto bias
mono-metodo) e quindi avere risultati più attendibili.
Per quanto riguarda le modalità, questi tipi di disegni possono essere:
- trasversale: implica la valutazione di tutte le variabili per ogni soggetto nello stesso
momento, è il più diffuso e il più semplice, ma “fotografando” la situazione in un dato
momento non permette di trarre conclusioni causali (solo correlazionali).
- longitudinale: implica la valutazione di tutte le variabili per ogni soggetto in momenti
differenti; la differenza col trasversale è che implica misurazioni ripetute nel corso del
tempo sugli stessi soggetti, spesso sulle stesse variabili; rappresenta uno strumento efficace
per lo studio dei fenomeni organizzativi tuttavia richiede l’impiego di tempo ed energie.
Utilizzare l’uno per compensare le mancanze dell’altro non risulta essere la strategia
migliore, ma esiste una situazione di compromesso chiamata cross lagged, in cui si
misurano delle variabili in un primo tempo e altre variabili in un secondo tempo.

Molti studi in ambito organizzativo si avvalgono di forme di ricerca qualitativa basate


sull’impiego di metodi e tecniche di rilevazione non standardizzati. La ricerca qualitativa è
fondata su un approccio naturalistico nei confronti del suo oggetto d’indagine e quindi è
orientata a studiare i fenomeni di cui si interessa nel loro contesto naturale, tentando di
cogliere i significati che le persone danno loro (Denzin e Lincoln)  consente di eliminare
una serie di problemi della ricerca come l’effetto Hawthorne (variazioni di un fenomeno o
un comportamento per effetto della presenza di osservatori), si usa molta esplorazione;
richiede un’attenzione particolare del ricercatore, che deve essere capace di non farsi
influenzare. Come la ricerca quantitativa, anche quella qualitativa fornisce delle linee guida,
si pensi a tecniche come lo shadowing, cioè seguire passo passo come un’ombra, e
l’etnografia organizzativa, caratterizzata da forte enfasi sull’esplorazione della natura di
un particolare fenomeno organizzativo, tendenza ad operare con dati non strutturati,
investigazione di un numero esiguo di casi, interpretazione dei dati che include
l’interpretazione esplicita dei significati delle azioni delle persone  entrare nel contesto,
prendere appunti, stilare delle note il più possibile dettagliate su quello che succede e farlo
in maniera non invasiva, ovvero evitando ciò che non mi interessa in termini di
strumentazione come ad es. evitare di portare telecamere, registratori ecc.
Esempi di metodi qualitativi in ambito organizzativo sono:
- intervista in profondità  partendo da alcuni argomenti, il ricercatore può effettuare con
l’intervistato gli approfondimenti liberi d’interesse per gli obiettivi della ricerca;
- storia di vita  il filo conduttore dell’interazione è il racconto destrutturato da parte
dell’intervistato;
- osservazione partecipante  consiste nell’osservazione dell’ambiente organizzativo
(aspetti concreti e valori), del comportamento, dell’aspetto e delle interazioni sociali dei
soggetti nel corso dell’attività lavorativa; per evitare bias si considera la presenza di un altro
osservatore;
- focus group  metodo per la raccolta dei dati collettivi prodotti durante una discussione di
gruppo focalizzata intorno ad alcuni temi predeterminati, sui quali si intende verificare delle
ipotesi relativamente a motivazioni, credenze, percezioni che orientano i comportamenti
delle persone nei confronti degli stessi temi.
Prima di effettuare l’analisi dei dati, il ricercatore deve rilevare e misurare le variabili di
interesse.
- Misurazione delle variabili: una variabile può essere definita come un attributo di un
fenomeno oggetto di studio, la cui misurazione può assumere due o più valori. Le variabili
quantitative sono numeriche, mentre quelle qualitative non lo sono, ma possono essere
codificate con numeri. La rilevazione delle variabili consiste nella trasformazione di entità
astratte (autostima, soddisfazione) in variabili, ossia entità concrete rilevabili empiricamente
 operazionalizzare i concetti in variabili. Una volta che le informazioni sono state rilevate,
il ricercatore deve estrapolarne il significato.
[La misurazione è però un grande semplificatore della realtà, operazionalizzare ci porta una
visione parziale della realtà.]
Si distinguono variabili indipendenti, manipolate o controllate dal ricercatore che le
sceglie e le fa variare per misurarne gli effetti e dipendenti, che sono l’oggetto di interesse
e rappresentano alcuni aspetti del comportamento che si intende indagare. Quando i
punteggi della variabile indipendente vengono utilizzati per predire quelli della variabile
dipendente, le variabili vengono definite predittore e criterio.

- Analisi dei dati: la psicologia del lavoro si avvale frequentemente di metodi statistici per
l’analisi dei dati raccolti, la quale sarà svolta in modo diverso in base a se sono qualitativi o
quantitativi. Correlazione multipla, per verificare se è possibile attribuire la relazione di due
variabili ad altre variabili e regressione multipla, mette alla prova gli effetti congiunti di due
o più predittori  dati quantitativi. Per quanto riguarda i dati qualitativi, l’Analisi del
contenuto, per la descrizione oggettiva, sistematica e quantitativa del contenuto manifesto
della comunicazione.

- Conclusione della ricerca: Una delle più importanti questioni nella conduzione della
ricerca riguarda il livello di generalizzazione delle conclusioni tratte, ovvero la misura in cui
tali conclusioni possono essere estese alla popolazione oggetto di studio. La
generalizzazione dei dati dipende da soggetti rappresentativi della popolazione oggetto
d’indagine e dalla scelta del metodo, che incide sulla validità esterna della ricerca.
Per quanto riguarda l’interpretazione dei risultati si può andare incontro a diversi tipi di
errori, anche per le errate interpretazioni dei nessi causali tra le variabili. I principali errori
possono essere ricondotti a quattro categorie fondamentali  quelli dovuti a una scorretta
operazionalizzazione dei concetti (misure non affidabili o inadeguate), errori dovuti ad
analisi statistiche errate, errori dovuti a insufficiente validità interna, errori dovuti
all’inappropriata generalizzazione dei risultati (validità esterna).

Ricerca e problemi etici: Un primo problema da osservare è la salvaguardia, da parte del


ricercatore, del benessere delle persone che partecipano allo studio, quindi è importante che
il ricercatore possa prevedere effetti dannosi della ricerca. Inoltre, nessuno può essere
costretto a partecipare alla ricerca; questo per il rispetto del codice etico, che prevede la
correttezza dell’informazione psicologica, confidenzialità delle informazioni raccolte,
rispetto dei diritti umani dei partecipanti. I codici etici sono creati per tutelare i diritti dei
soggetti e per evitare la possibilità che figure professionali non qualificate improvvisino
ricerche; in ambito lavorativo eticamente abbiamo una responsabilità duplice, cioè sia nei
confronti dei lavoratori che delle organizzazioni; un ulteriore principio etico riguarda il
consenso informato, per cui i soggetti devono essere informati sulla natura e lo scopo della
ricerca; quando promettiamo un feedback dei risultati dobbiamo fornirlo.

Ricapitolando

1. Fare ricerca in psicologia del lavoro


2. Il ciclo della ricerca: dal disegno di ricerca ai risultati
3. Ricerca pura, applicata e intervento
4. Ricerca sperimentale, quasi sperimentale e non sperimentale
5. Le variabili
6. Le conclusioni della ricerca
7. I problemi etici

CAPITOLO 3 - Ambiente e sicurezza sul lavoro


Quando si pensa al lavoro non si può non pensare alla soggettività. Il fattore umano è la
chiave di lettura principale degli infortuni sul lavoro (concausa degli incidenti), è l’elemento
fondamentale di ogni attività lavorativa e uno degli elementi chiave per la determinazione
del successo di un’organizzazione.
Secondo il rapporto dell’International Labour Organization (2008), ogni anno muoiono 2,2
milioni di persone a causa di incidenti sul lavoro o malattie professionali; gli infortuni che
causano tre o più giorni di assenza sono 268 milioni. Come mai tutto ciò? Oltre al fatto che
il fattore umano sottovaluta la probabilità che avvengano gli incidenti, bisogna tenere in
conto l’assenza di cultura della prevenzione e della salute sul lavoro. Il problema più grosso
è che l’approccio alla sicurezza sul lavoro viene visto in maniera performativa e strutturale.
In Italia, la prevenzione è considerata un costo più che un investimento, un problema
normativo più che gestionale. Nonostante l’esistenza di leggi che tutelano la sicurezza sul
lavoro, è importante che le organizzazioni acquisiscano quella cultura per controllare il
numero di morti. Non si investe per costruire una cultura perché gli investimenti sono visti
come perdita di profitto. Dobbiamo tener presente che essendo il fattore umano centrale
nello svolgimento del lavoro vanno applicate strategie gestionali significative e il
coinvolgimento del singolo che deve interiorizzare una cultura alla sicurezza. Per poter però
studiare bene il fattore umano, le teorie e i modelli che la psicologia propone, dobbiamo
partire da una serie di aspetti tecnici che ci consentono di comprendere qual è il ruolo della
psicologia La sicurezza sul lavoro è una combinazione complessa da operazionalizzare, in
cui interagiscono diversi fattori: strutturali, tecnologici, gestionali e organizzativi,
individuali. La psicologia del lavoro interviene nella gestione di questi fattori. Quando
parliamo di tutela della sicurezza dobbiamo tener presente che il lavoratore che si mette a
rischio può da una parte incorrere in un infortunio sul lavoro e dall’altro rischiare una
malattia professionale, due rischi che hanno caratteristiche completamente diverse, anche se
prevedibili. L’infortunio sul lavoro è definito come un evento traumatico, lesivo per la
salute del lavoratore, che si verifica nell’ambiente di lavoro, nell’orario di lavoro, o durante
il percorso casa-lavoro, in modo rapido e violento, per cause esterne alla volontà del
lavoratore; Le cause dell’infortunio sul lavoro sono una combinazione di fattori che
presentano un fallimento, quindi di elementi soggettivi e oggettivi che vanno nella direzione
di far cadere un tassello della catena e creare una defaillance che porterà all’incidente 
cognizioni del lavoratore (es. distrazione) combinati a condizioni esterne. La malattia
professionale è più subdola ma altrettanto invalidante: non è un evento traumatico o
qualcosa che vediamo subito, ma che pian piano colpisce il lavoratore, e dipende
direttamente dall’ambiente e/o dall’oggetto del lavoro, dagli strumenti e dalla modalità di
svolgimento del lavoro; quindi si manifesta a causa di un ambiente di lavoro che ne
favorisce l’insorgenza  patologia da fatica, malattia da cause fisiche, da cause chimiche,
da polveri, da agenti infettivi. Questa doppia definizione ci fa pensare al fatto che in
entrambe c’è una componente soggettiva, mentale.
Nella sicurezza al lavoro quelle discipline che studiano la mente umana ci entrano a pieno
titolo. Inizia così a muoversi qualcosa anche a livello normativo, ma in tempi molto recenti.
Il primo decreto del 1994 inizia a riconoscere l’organizzazione come responsabile della
sicurezza dei suoi lavoratori. Il secondo, del 2008, sottolinea l’attenzione sulle patologie
mentali, si impone all’organizzazione la valutazione dello stress-lavoro correlato; hanno
riconosciuto che uno dei fattori determinanti nel verificarsi degli infortuni è da ricondurre
all’organizzazione del lavoro e alla cultura della sicurezza dell’impresa e non
esclusivamente a carenze strutturali di macchine e impianti. Sono stati individuati dalla
letteratura fattori nocivi dell’ambiente di lavoro generici (luce, rumore, temperatura), della
produzione (polveri, gas, vapori, radiazioni), fatica fisica e psicofisica (ritmi eccessivi,
monotonia, eccessive responsabilità). Per arrivare a queste normative c’è stato un ampio
studio delle cause degli incidenti e il susseguirsi di una serie di modelli:
- anni ’60, modello tecnico ingegneristico normativo  l’incidente come risultato del
fallimento della tecnologia e devianza dalla norma, incentrato sulla cura dei danni;
- anni ’70, modello centrato sulla persona  si concentrava soltanto sulla componente
umana come causa d’errore, in uno scenario meccanico perfetto in cui era l’uomo a
sbagliare e non il macchinario, quindi si basava sulla prevenzione dell’errore umano;
- anni ’90, modello organizzativo socio tecnico  l’uomo può fare errori ma è inserito in un
sistema che va preso in considerazione a 360°, si prende in considerazione il malessere
psicofisico sull’organizzazione, accenni di promozione oltre che prevenzione;
- oggi, approccio sistemico  casualità circolare, promozione e cultura della salute e della
sicurezza.
La macro classificazione dei rischi professionali (che provengono dalla normativa) vede tre
categorie principali:
- rischi per la sicurezza, hanno a che fare con il potenziale verificarsi di incidenti o infortuni
dove le cause sono da ricercarsi nella caratteristiche di sicurezza e manutenzione di
strutture, impianti, macchinari; non riguarda strettamente l’operatività dello psicologo
- rischi per la salute in senso stretto, detti anche “igienici ambientali”, responsabili della
potenziale compromissione dell’equilibrio bio-fisico del lavoratore (rumore, radiazione,
rischi chimici, rischi legati alla fatica); hanno a che fare con un eccessivo carico di lavoro o
un demansionamento, oppure troppe responsabilità o ancora gestione sbagliata di alcune
parti del lavoro
- rischi legati all’organizzazione del lavoro, sono rischi trasversali legati alla progettazione
e organizzazione del lavoro (turni massacranti, difficoltà di conciliare con la famiglia).
[Tutto questo ha a che fare con il benessere dei lavoratori.]

Qual è il compito della psicologia del lavoro in tutto questo? Di sicuro intervenire su tutti gli
elementi che hanno a che fare con il fattore umano. L’agire sull’individuo inizia con
l’interrogarsi su cosa sono i fattori che mettono a rischio l’individuo facendogli mettere in
atto comportamenti che finiscono in incidenti, infortuni, malattie. Il compito della
psicologia del lavoro è intervenire a sostegno della progettazione di dispositivi di
prevenzione e la messa a punto di strutture fisiche  questo è condizione necessaria ma non
sufficiente a ottenere un vero salto di qualità nella riduzione del fenomeno infortunistico,
delle malattie professionali e dei disastri ambientali. Inoltre dee contribuire alla costruzione
di un ambiente sicuro sul versante tecnico (attrezzature e macchinari), ma anche dal punto di
vista ergonomico e prendere quindi in considerazione l’errore umano.
Errore umano  prospettiva ergonomica di stampo cognitivista, una teoria che sostiene
che le caratteristiche cognitive degli operatori (individui) spingono gli stessi a compiere
degli errori. Lo studio dei comportamenti legati alle caratteristiche operative dei
lavoratori è alla base della teoria di Rasmussen, secondo cui gli individui nello svolgere il
proprio lavoro possono mettere in atto una serie di comportamenti:
- skilled-based behaviour  comportamenti automatici che quotidianamente vengono
messi in atto in una determinata situazione, ad esempio nel momento in cui l’individuo è
diventato esperto del proprio lavoro, entra in una situazione di routine e non ci pensa poi
così tanto, sono comportamenti reiterati nel tempo che diventano familiari;
- ruled-based behaviour  comportamenti definiti da regole precise ritenute le più adatte in
determinate circostanze; anche in questo caso il comportamento viene messo in atto sulla
base della conoscenza del contesto, ma c’è uno sforzo cognitivo maggiore (il lavoratore
valuta quale sia la situazione e in base a essa decide il comportamento da adottare);
- knowledge-based behaviour  messi in atto quando il lavoratore si trova di fronte ad una
situazione sconosciuta e si deve attuare un piano per raggiungere gli obiettivi; deve attingere
alla propria expertise per rielaborare una nuova situazione, per cui lo sforzo cognitivo è
ancora più forte: il lavoratore pianifica una soluzione a un problema senza avere gli
strumenti precedenti a cui aggrapparsi, basandosi solo sulle proprie competenze e
conoscenze.
Tutti e tre richiedono un impegno cognitivo diverso: nel primo caso è minimo, perché è
automatico, nel secondo caso è intermedio, perché ci sono delle regole precise per cui devo
solo decidere quale sia quella più giusta per la circostanza che mi si propone; l’ultima è
quella più impegnativa, perché devo agire in modo adatto a rispondere alla richiesta che
arriva dall’ambiente. Partendo da questa teorizzazione, Reason comincia a studiare gli errori
dell’individuo a lavoro e ci dice che se quelli sono i comportamenti più frequenti messi in
atto, partendo da essi possiamo studiare gli errori più frequenti verificatisi se uno di quei
comportamenti non viene svolto come ci si aspetta.
Reason distingue tra:
- errori di esecuzione (skilled)  si verificano quando usciamo dalla routine e sbagliamo
quello che per noi è semplice e solito e ce sono di due tipi: lo slip si verifica a livello delle
abilità, in questa categoria vengono classificate tutte quelle azioni eseguite in modo diverso
da come pianificato, cioè la persona sa come dovrebbe eseguire un compito ma non lo fa
oppure, inavvertitamente, lo esegue in maniera non corretta (so come si fa ma per
distrazione, fretta ecc. non lo faccio, cambio la risposta a quello stimolo); inoltre è
direttamente osservabile. Il lapse è un errore di esecuzione legato al fatto che l’azione ha un
risultato diverso da quello atteso a causa di (l’errore deriva da) un fallimento della memoria
e non è direttamente osservabile, non sappiamo a che livello il lavoratore ha modificato
quella risposta. Dietro questi errori spesso tra gli antecedenti c’è un sovraccarico del
lavoratore o poco tempo per riflettere su come sta andando il lavoro: per poter fare
prevenzione l’ideale sarebbe una maggiore attenzione al fattore umano e agli atteggiamenti
routinari stessi;
- errori di pianificazione (mistakes)  si dividono in ruled-based, hanno a che fare con
la scelta di procedure che non consentono di raggiungere l’obiettivo e knowledge-based, in
riferimento alla conoscenza posseduta, insufficiente/carente che porta a intraprendere piani
di azione che non permettono di raggiungere l’obiettivo. A questo proposito è
importantissima la selezione del personale, perché spesso non si hanno le competenze
necessarie per far fronte a delle incertezze.
Il fattore umano, così come l’organizzazione, può spingere l’individuo a compiere degli
errori secondo una teoria cognitivista. Le violazioni sono invece azioni eseguite in maniera
volontaria anche se espressamente vietate da norme. La letteratura classifica tre diversi tipi
di violazioni: eccezionali, routinarie e atti di sabotaggio. Oltre al fattore umano in termini di
attenzione al lavoro c’è anche la relazione con l’organizzazione, una difficoltà di
interiorizzazione con la cultura organizzativa. Perché arrivo addirittura ad atti di
sabotaggio? Quali sono i meccanismi mentali che ci portano a fare questo? La qualità
dell’attaccamento alla propria organizzazione incide sulla messa in atto delle violazioni.

Spesso nell’analisi del rischio ci troviamo di fronte a numeri alti di incidenti e situazioni
rischiose ancora più ampie. A fronte dei rischi che un lavoratore esperisce quotidianamente,
della possibilità di errori e che questi si trasformino in incidente, le condizioni che devono
verificarsi sono tante. L’organizzazione si accorge dell’incidente con un’incidenza molto
più bassa del potenziale. Proprio perché tra rischio e incidente i fattori sono tanti, la
probabilità che il rischio diventa incidente deve vedere che questi fattori si allineino. Chi si
occupa di risk management sa questa cosa, sa che l’esposizione a rischio è molto forte e
invece l’incidente si verifica meno spesso, e sa che questa percezione può diventare errata
per il lavoratore portandolo a sottovalutarla. L’ analisi dei Near Miss è l’analisi di un
evento che avrebbe potuto avere conseguenze dannose, ma che non si è concretizzato in
incidente; costituisce un’opportunità di apprendimento per l’organizzazione e fornisce un
segnale di allarme importante per indicare i rischi che un’organizzazione sta correndo.
Perché non è successo? E perché si stava verificando?
- Pratica cognitiva di riflessione e di valutazione di quelli che sono i problemi legati ai
“quasi errori”; analizzare e tenere sotto controllo gli antecedenti è un indicatore di quanto
un’organizzazione possa essere a rischio.
La valutazione degli errori viene attuata attraverso lo Swiss cheese model: questo modello
ci dice che è possibile un allineamento, che i Near miss sono molto più frequenti
dell’infortunio  devono verificarsi una serie di condizioni e fattori che allineati portano
all’infortunio (influenze dell’organizzazione, supervisioni non sicure, precondizioni per
azioni non sicure, azioni non sicure), proprio come i buchi del formaggio che si allineano; il
modello ci dice che questo allineamento è possibile se si verificano determinate
precondizioni e che quindi bisogna agire, intervenire su quegli antecedenti per evitarlo.
Bassa percezione del rischio porta a sottovalutare il rischio sia da parte del lavoratore che
dell’organizzazione.
- La percezione del rischio è una parte del comportamento che tiene conto degli
atteggiamenti e della personalità del lavoratore di fronte al rischio o al pericolo per la sua
salute nel contesto lavorativo (influenza il comportamento). La percezione del rischio viene
definita come quella percezione che determina il grado di consapevolezza per cui un
lavoratore avverte che svolgere la propria attività o utilizzare un dato strumento mette la sua
sicurezza in pericolo. Il livello di percezione del rischio alza o abbassa l’attenzione del
lavoratore, lo porta a seguire delle regole piuttosto che altre. Nasce da una serie di fattori…
- stima di un pericolo, derivante dalla valutazione della possibilità che possa verificarsi uno
specifico incidente e dal giudizio di rilevanza degli esiti di tale evento  i comportamenti
orientati alla sicurezza crescono in funzione del rischio percepito;
- influenze sociali, culturali e politiche impattano sul rischio soggettivo e oggettivo  se
non c’è una cultura che orienta verso il benessere, il rischio soggettivo si abbasserà (il
comportamento autoprotettivo quindi dipende in parte dalla stima del rischio soggettivo, ma
risulta difficile separarlo dal rischio oggettivo, dato che tutte le valutazioni del rischio
coinvolgono un giudizio dell’essere umano, oltre a influenze di natura sociale, culturale e
politica).
La percezione del rischio coinvolge:
- l’attenzione e l’elaborazione di informazioni, provenienti da fonti esterne o da esperienza
diretta di situazioni pericolose, incidono sulla formazione specifica sulle mansioni svolte. Il
ragionamento umano rispetto a eventi incerti, come il rischio che si verifichi u evento
avverso, non segue una lgica meramente razionale, ma piuttosto utilizza euristiche
(scorciatoie di pensiero), che però mettendo in “risparmio cognitivo” potrebbero far
incorrere in errori;
- il controllo percepito (quanto penso di poter controllare l’azione) incide sull’assunzione
del rischio, il quale dipende anche dall’ottimismo irrealistico (bias a favore del sé) per cui
tendiamo a prendere le distanze circa la possibilità che quella cosa possa succedere a noi:
“non può succedere a me”;
- il locus of control interno o esterno (attribuire cause delle proprie azioni a sé stesso o agli
altri/entità) influenza il rischio percepito  se ci affidiamo ad un’entità esterna, il rischio
percepito sarà minore. Le teorie dell’attribuzione mettono a fuoco come ci sia una generale
tendenza delle persone ad attribuire il proprio comportamento a cause esterne, ma a vedere
il comportamento degli altri come causato internamente.
[I bias a favore del sé non favoriscono la percezione dell’altro.]
Riprendendo la definizione di “percezione del rischio”, in quel grado di consapevolezza
sono contenute tutte queste variabili che vanno indagate dagli psicologi del lavoro  come
modificare la percezione del rischio per portare l’individuo ad una condotta adeguata allo
svolgimento del lavoro.

Condizioni di lavoro e progettazione ergonomica:


La psicologia del lavoro entra nell’organizzazione in una prospettiva ergonomica.
L’ergonomia è una disciplina specifica che consente ai professionisti di costruire e
progettare degli ambienti di lavoro adeguati al buon funzionamento del lavoratore. Le
condizioni di lavoro sono fondamentali per il lavoratore, vuol dire tener conto da una parte
dell’ambiente di lavoro inteso come l’insieme delle caratteristiche biomeccaniche e
antropometriche e dall’altro degli aspetti psicologici, quindi l’attenzione, la motivazione,
tutti elementi che costituiscono una parte fondamentale dell’ambiente di lavoro. Progettare
degli ambienti ergonomici non vuol dire solo costruire ambienti comodi per il lavoratore ma
è necessario considerare tutti gli aspetti psicologici.
- Definizione di ergonomia: si occupa del rapporto tra uomo e il suo ambiente di lavoro a
360°, ricorrendo all’apporto scientifico di molteplici discipline quali l’ingegneria, la
medicina del lavoro, la fisiologia, la psicologia. Dunque riconosce la necessità di progettare
il lavoro sia dal punto di vista strutturale che psicologico, per dare all’individuo un ambiente
che funzioni e renda l’individuo stesso particolarmente efficiente. Parliamo di ergonomia
come una disciplina che dà pari dignità alle discipline che contribuiscono allo stato di salute
del lavoratore ma anche alle discipline più “soft” relative al fattore umano. È una disciplina
di progettazione (di ambienti più sicuri, adeguati prima di tutto da un punto di vista fisico) e
il suo obiettivo è aumentare l’efficienza dell’attività umana eliminando le caratteristiche di
progettazione del lavoro che sono causa di inefficienza o inabilità. Chiede la messa in
campo di una serie di forze per accogliere il lavoratore  prende in considerazione aspetti
antropologici e psicologici, ha scopi sociali ed economici (garantire salute, benessere e
sicurezza / prestazioni, produttività e competitività). Principali propositi della
progettazione:
- globalità d’intenti  vuole mettere d’accordo una serie di professionalità per andare nella
stessa direzione, cosa vuol dire ambiente sicuro in tutte le discipline;
- interdisciplinarità degli interventi significa che non c’è una disciplina che prevale sulle
altre;
- partecipazione dei lavoratori/addetti  aiutare a co-costruire un setting adeguato.
[Tutto ciò è molto costoso e faticoso.]

I principi dell’ergonomia:
Lo scopo dell’ergonomia è quello di aumentare l’efficienza dell’attività umana, minimizzare
il costo per lavoratore, ridurre le cause di inefficienza o di inabilità fisica. Il focus è sul
singolo, tenendo conto di tutte le influenze esterne e l’obbiettivo principale è favorire il
benessere umano. Variabili di interesse ergonomico (Wilson): (dall’interno all’esterno)
uomo, macchine, spazio di lavoro, ambiente di lavoro, organizzazione di lavoro. Il tutto
influenzato da leggi, concorrenti, tecnologie, economia.
L’ergonomia vuole migliorare le condizioni di lavoro e quindi si occupa di elementi quali
microclima (insieme di parametri ambientali che regolano le condizioni climatiche di un
luogo di vita o di lavoro, es. temperatura dell’aria, umidità, ventilazione), illuminazione,
rumore, carico di lavoro fisico (è necessario valutare che ciò che viene richiesto a livello
fisico, non sia superiore alle capacità del lavoratore in uno specifico contesto), sollevamento
manuale dei carichi, posture fisse prolungate. In questo elenco il ruolo dello psicologo del
lavoro è marginale, interviene spesso nella gestione della ripetitività, ma l’aspetto
psicologico sta in altre dimensioni, una tra tutte l’attenzione a come questi elementi possono
impattare su un costrutto che si trova nei contesti lavorativi, ovvero la fatica mentale.
- Costrutto di fatica mentale: gli psicologi non sono riusciti a dare una definizione univoca,
ma sono tutti d’accordo sul fatto che sia una diminuzione reversibile delle prestazioni e
delle funzioni dell’organismo legata ad una diminuzione della soddisfazione verso il lavoro
e a un aumento dello sforzo effettuato per compierlo. Non si sa perché si manifesta ma
sappiamo che si presenta quando il lavoratore deve svolgere determinati compiti. Quello che
fa sì che la fatica mentale non venga considerata un rischio psicosociale più importante è
proprio per la sua reversibilità. Gli studi ci dicono che se un lavoratore è troppo oberato
potrebbe esperire alti livelli di fatica mentale, ma alla pari un lavoratore che svolge una
mansione che ha poco a che fare con le sue competenze, abilità e percezioni cioè vengono
sottostimate, può esperire un sovraccarico, e quindi fatica mentale e insoddisfazione. La
fatica mentale infatti nasce dall’interazione fra i requisiti di un compito di lavoro, le
circostanze in cui è effettuato, le abilità, le percezioni e i comportamenti dell’operatore.
Causa abbassamento dell’energia psichica, problema di attenzione (obiettivi) e deficit nei
meccanismi di controllo cognitivo nel gestire le richieste mentali. È connessa al carico
mentale, ma sono diversi: la fatica mentale è una diminuzione della soddisfazione per il
proprio lavoro ed è una conseguenza del carico mentale (non è necessario un sovraccarico,
esso incide sia in senso positivo che negativo)  quantità di lavoro indicatore di
esposizione. La fatica mentale è un indicatore d’effetto, nel senso che dipende da qualcosa,
ha degli antecedenti; è un’alterazione temporanea dell’efficienza mentale e fisica che
dipende dall’intensità, durata e andamento (strain) mentale precedente. Ce ne accorgiamo
perché vediamo che il lavoratore non sta bene, le performance potrebbero non essere
adeguate. Oltre a lamentare stanchezza fisica, il lavoratore ha una prestazione peggiore, ma
soprattutto maggiore frequenza di errori.
Nonostante la mancanza di definizione, la letteratura si è interessata alla misurazione della
fatica mentale in quanto è un indicatore di malessere e di errori nella prestazione. Criteri…
- soggettivi: questionari di autovalutazione sui sintomi della fatica;
- comportamentali: test di memoria, reattività, concentrazione;
- fisiologici: ritmi cerebrali, frequenza cardiaca e respiratoria, tensione muscolare;
- biochimici: alterazioni a livello ormonale.
I criteri soggettivi e comportamentali sono quelli più usati in ambito organizzativo, sono più
che sufficienti per cogliere una situazione di disagio. Nell’ultimo anno gli studi sulla fatica
mentale ancora di più hanno portato a un contributo per diverse ragioni, in primis che la
progettazione degli ambienti non era cambiata ma la contingenza sì, e poi perché la fatica
mentale è un indicatore molto immediato, mentre altri costrutti come il burnout e distress
sono più difficili da osservare fotografando il momento.
La fatica mentale non è:
- stressor, un agente che causa lo stress;
- stress, la somma di tutte le influenze che provengono da fonti esterne e interferiscono con
la persona fino a condizionarla mentalmente e fisicamente. Lo stress lavoro correlato
potrebbe essere un antecedente (è reversibile). Si distingue tra distress, fallimento adattivo
della risposta, e eustress, energia ben utilizzata;
- strain, sforzo psicologico e psicofisiologico a fronte di un’alta domanda ambientale.

Ricapitolando
1. Il fattore umano
2. Gli errori di classificazione
3. La percezione del rischio
4. Rischio: relazioni con locus of control e ottimismo irrealistico
5. L’ergonomia
6. L’ergonomia e la psicologia del lavoro  psicologo del lavoro alla pari con altre figure
7. La fatica mentale

CAPITOLO 4 - Le differenze individuali


Sono molto importanti nella selezione del personale poiché permettono di collocare in
maniera adeguata un individuo in un’organizzazione e di seguirlo nel suo percorso,
permettono di prevedere il livello delle prestazioni fornite sul lavoro e la qualità delle
relazioni interpersonali.
Nella psicologia delle risorse umane si parla molto del concetto di employability,
letteralmente “occupabilità”: quanto sono occupabile, quanto sono appetibile per l’azienda,
quanto le mie competenze possono trovare un impiego nel mondo del lavoro. Va osservata
sotto due punti di vista: quello dell’organizzazione, che richiede persone occupali, e allo
stesso tempo quello dell’individuo che si interessa a come l’azienda lo percepisce. Più che
guardare agli individui, alcune organizzazioni guardano le competenze specifiche (es. soft
skills: capacità trasversali che non hanno niente a che fare con la conoscenza ma fanno la
differenza). Capire come sono fatti gli individui e le loro competenze aiuta da una parte
l’organizzazione a selezionare le persone giuste e dall’altra gli individui a sentirsi più
“occupabili”.
Nello studio delle differenze individuali, bisogna innanzitutto attuare un’analisi delle
variabili interpersonali (primo step di una selezione del personale), che riguardano le
somiglianze e le differenze di una persona rispetto ad un’altra. Condurre un’analisi a livello
interpersonale significa descrivere le differenze fra individui secondo un principio
tassonomico, o di classificazione delle caratteristiche/comportamenti individuali (ce l’ha o
non ce l’ha?); non si guarda soltanto se la caratteristica è presente oppure no, ma si
confrontano gli individui e si fa una classificazione, per vedere dove si posizionano.
Dopodiché si analizzano le variabili intrapersonali, che si riferiscono al funzionamento
della singola persona; permettono di spiegare perché un individuo agisce in un certo modo
secondo un principio di unicità delle caratteristiche/comportamenti posseduti  come le sue
caratteristiche lo fanno diventare unico e quindi adatto o no a quella tipologia di lavoro. La
differenza la fa l’analisi di queste variabili: secondo il principio tassonomico, tutti gli
individui possono essere descritti in base ad un certo numero di categorie o fattori (tipo di
estroversione e coscienziosità)  gli individui che si collocano sullo stesso livello della
caratteristica in oggetto risultano avere caratteristiche simili rispetto a coloro che si
collocano invece su un livello diverso; nell’analisi di quelle intrapersonali, l’interesse non è
diretto a stabilire se la persona A è più estroversa della persona B, ma capire come si
manifesta quella caratteristica di A nel contesto lavorativo e perché.

Oltre Münsterberg, altri studi hanno portato avanti l’importanza delle differenze individuali.
Wundt, a cui dobbiamo la formulazione dei principi generali del comportamento umano,
fondò lo Strutturalismo e condusse il primo studio degli elementi di base della mente;
formulò considerazioni sul fatto che il comportamento sia guidato dalla mente e che le
differenze individuali costituiscono un elemento fondamentale per comprendere e prevedere
il livello e la qualità delle prestazioni. Nella psicologia del lavoro lo studio delle differenze
individuali permette di prevedere esiti lavorativi e quindi legato al successo lavorativo e alla
soddisfazione professionale. Il primo attributo individuale studiato in ambito organizzativo,
quale elemento della mente fondamentale per le prestazioni efficaci, è l’abilità cognitiva,
tramite cui le persone acquisiscono conoscenze e risolvono problemi. I primi studi si sono
occupati di un fattore g, abilità cognitiva generale che consente agli individui di agire in
maniera corretta e di muoversi in determinati situazioni  teoria monofattoriale di
Spearman secondo cui l’intelligenza è data da una capacità generale e da altri fattori
secondari (concezione gerarchica, scomposizione in sottofattori), fondamentale per capire
come l’individuo si muove nel mondo.
Proprio perché l'abilità cognitiva non è l'unica abilità da considerare gli studiosi sono partiti
dal classificare le caratteristiche individuali, tra cui Landy e Conte. Tutti quegli aspetti
legati al fisico non possono essere sottovalutati e lasciati da parte, perché per alcuni lavori
sono importanti. Abbiamo quindi abilità cognitive e psicomotorie, la personalità, gli
interessi e i valori. La concordanza di valori tra l'individuo e l'organizzazione diviene
fondamentale per costruire una buona relazione con l'organizzazione stessa.
Abilità cognitive e psicomotorie:
Con abilità s’intende ciò che una persona è in grado di fare. Tassonomia di Fleishman e
Reilly:
- intelligenza e abilità cognitive  il fattore g viene operazionalizzato in questo modo: è
una capacità mentale molto generale che comprende capacità di ragionamento,
progettazione, problem solving, pensare in modo astratto, capire idee complesse, imparare
velocemente, apprendere dall’esperienza, sapersi orientare nel futuro. L’intelligenza è
l’applicazione di abilità cognitive e conoscenze volte ad apprendere, risolvere problemi,
raggiungere scopi; si traduce in operazioni molteplici, rispecchia varie componenti ed è
funzionale all’adattamento dell’individuo. Non esiste solo “g”, ma anche altre abilità
cognitive sottostanti utili per varie tipologie di lavoratori (a seconda dell’attività lavorativa g
viene frazionato) e alcune di loro risultano cruciali per certe attività ma non per altre.
Nunnaly ci dice che dobbiamo guardare solo ad alcune caratteristiche specifiche e lasciare
sullo sfondo le altre, un approccio oggi più superato rispetto ad altri, ed è uno dei primi che
cerca di catalogare le abilità  capacità verbale, numerica, di ragionamento, di deduzione,
di individuare relazioni, di ricordare, spaziale e percettiva.
Carroll parla di Human Cognitive Abilities  non possiamo considerare un unico fattore g,
ma una serie di abilità mentali sono disposte in un ordine gerarchico in cui contenuti e
processi mentali semplici confluiscono in quelli più complessi. In psicologia del lavoro ci si
rifà molto a tale modello gerarchico: il terzo strato è quello del fattore g; il secondo strato
consente di individuare le caratteristiche costituzionali di base delle persone, che perdurano
e che possono governare o influenzare un’ampia gamma di comportamenti in un
determinato dominio (intelligenza fluida e cristallizzata, memoria generale e apprendimento,
percezione visiva e uditiva ampia, abilità ampia di rievocazione ecc.); per ognuna di queste,
ciascun individuo può mettere in atto abilità specifiche ristrette del primo strato, ad es.
abilità di rievocazione  riuscirò nel concreto ad avere delle strategie che mi consentono di
dire quali sono le skills che ho messo in atto e che dovrò mettere in atto in futuro.
L'importanza dell'intelligenza sta nel fatto che contribuisce alla performance lavorativa e
alla comprensione dell'analisi del lavoro e quindi le complessità che il lavoro mi propone.
Naturalmente a volte questo non basta: ci sono dei lavori il cui svolgimento richiede
necessariamente delle abilità fisiche. Quindi considerando il fattore g ci sono altre abilità
che devono essere contemplate per analizzare le caratteristiche del lavoro e le competenze
che l'individuo deve avere per poterlo svolgere.
[Intelligenza, performance lavorativa e complessità del lavoro sono strettamente legate.]
- abilità fisiche  vi sono mansioni il cui svolgimento richiede determinate caratteristiche
fisiche quali forza, flessibilità muscolare, resistenza fisica;
- abilità sensoriali  funzioni fisiche della vista, dell’udito, del tatto, del gusto ecc.;
- abilità psicomotorie  coordinazione, destrezza e tempi di reazione dell’individuo.

Personalità:
Il selezionatore si trova di fronte a tutti questi aspetti e a dover capire come si combinano tra
loro per far sì che il lavoro venga svolto in maniera corretta. Ma abbiamo detto che l'abilità
è solo un aspetto, dobbiamo capire anche chi abbiamo di fronte, ed ecco che non può
mancare lo studio della personalità, uno di quegli aspetti fortemente indagati nella selezione
del personale perché in grado di spiegare perché le persone si comportano in determinati
modi, intraprendono un percorso di carriera piuttosto che un altro, ma anche perché, a parità
di paga, di contesto, di mansioni ecc., alcuni risultano più o meno soddisfatti di altri e
svolgono il loro lavoro in maniera più efficace, raggiungendo determinati livelli di
prestazione. Il termine personalità forse deriva dalla parola latina persona, ovvero le
maschere indossate dagli attori, quindi forse nasce dell'attribuzione di una serie di
caratteristiche a un personaggio. La personalità è quell’elemento di stabilità che ci consente
di dire chi abbiamo di fronte e come si comporterà in futuro.
Non esiste una definizione univoca di personalità ma la definiamo a seconda del punto di
vista: per l’individuo è l’insieme delle qualità e inclinazioni che danno il senso della propria
identità, integrità e unicità; per l’altro/osservatore è l’insieme delle caratteristiche che
distinguono gli individui l’uno dall’altro (si crea delle aspettative); per lo studioso è la
complessità dei “sistemi” psicologici che contribuiscono all’unità e continuità della condotta
e dell’esperienza del singolo individuo in interazione col mondo esterno, nel corso del
tempo.
Il modello dei Big Five è il modello di riferimento secondo cui è possibile descrivere la
personalità in base a cinque fattori principali, ciascuno dei quali comprende due tratti più
specifici. I tratti (Eysenck) sono definiti come disposizioni generali a comportarsi in un
certo modo; essi sono concepiti come categorie descrittive stabili nel tempo e in diverse
situazioni (una persona che si comporta in maniera estroversa ad una festa con gli amici
risulterà altrettanto estroversa nel familiarizzare con estranei o nel trattare con un cliente). I
tratti si spaiano su un continuum e vengono definiti da una serie di item…
- Energia  dinamismo, “Mi sembra di essere una persona attiva e vigorosa”; dominanza,
“Generalmente tendo ad impormi piuttosto che accondiscendere”.
- Amicalità  cooperatività, “Se necessario non mi tiro indietro dal dare aiuto a
sconosciuti”; cordialità, “Mi confido volentieri con gli altri”.
- Coscienziosità  scrupolosità, “Di solito curo ogni cosa nei minimi particolari”;
perseveranza, “Porto fino in fondo le decisioni che ho preso”.
- Stabilità emotiva  controllo delle emozioni, “Di solito non mi capita di reagire in
maniera esagerata anche a forti emozioni”; controllo degli impulsi, “Di solito non perdo la
calma”.
- Apertura mentale  apertura alla cultura, “Sono sempre informato su quello che accade
nel mondo”; apertura all’esperienza, “Ogni novità mi affascina”.

Studi sul modello hanno evidenziato una relazione curvilinea tra coscienziosità
(responsabile, prudente, orientato al risultato) e successo lavorativo e performance; tra
stabilità emotiva e bassa sensibilità allo stress, adattabilità al cambiamento; tra energia
(socievole, ambizioso, energico) e sviluppo di carriera, livello retributivo, soddisfazione
lavorativa. L’amicalità mette tutti d’accordo: avere questo fattore piuttosto pronunciato vuol
dire che un lavoratore può trarre vantaggio ed essere un buon lavoratore nei contesti
organizzativi. Mentre per gli altri fattori ci sono risultati discordanti.
Questo modello è tra i più usati perché ha numerosi strumenti di misurazione validati, come
il Neo Personality Inventory (Costa e McCrae) che ha dimostrato elevata concordanza tra
autovalutazione e eterovalutazione, o ancora il Big Five Questionnaire (BFQ).
Vantaggi del Big Five  rappresenta una cornice di riferimento condivisa per la descrizione
della personalità, tramite la quale interpretare e catalogare le differenze individuali relative
alla personalità (anche nei contesti); è caratterizzato da elevata comprensività, economicità e
accessibilità, consente di esaminare e valutare la persona con i termini che le persone usano
abitualmente per comunicare, descrivere e giudicare sé stesse e gli altri; consente di
esaminare e di fare previsioni rispetto ad importanti criteri esterni connessi all’adattamento
psicosociale, come il successo scolastico e lavorativo e il benessere psicologico.
Limiti  i cinque fattori non sono stati riscontrati in tutte le culture, soprattutto quelle
collettiviste; abitualmente le persone usano un numero più limitato di fattori per descrivere
sé stesse e gli altri; allo stesso tempo, i cinque fattori non esauriscono la varietà delle
caratteristiche che descrivono la personalità, né permettono una descrizione accurata ed
esauriente delle singole individualità. Un tentativo per ovviare a questi limiti (anche se non
del tutto) è la teorizzazione di sette fattori di Teller e Waller: fattori generali a valenza
positiva (notevole, straordinario, eccellente) e a valenza negativa (crudele, cattivo, strano).
Sviluppi recenti indagano tratti disfunzionali: emotività negativa, distacco dalle altre
persone, antagonismo, disinibizione, compulsività, psicoticismo.
Altri tratti di personalità che dobbiamo esplorare per far sì che l'individuo si ponga in
maniera adeguata all'interno del contesto lavorativo:
- Self-concept: il modo in cui una persona considera sé stessa in quanto essere fisico,
sociale, spirituale e morale, che influenza le modalità di interazione con il mondo esterno.
Uno degli autori che si è occupato maggiormente di questo concetto è Gecas  valori,
credenze, competenze, obiettivi personali influenzano il concetto di sé.
- Locus of control (Rotter): le persone percepiscono un diverso grado di controllo sulle
situazioni. LOC esterno  scarso controllo sugli eventi; LOC interno  attribuiscono a sé
successi e fallimenti. Non solo ci aiuta a capire come gli individui si pongono in ambito
lavorativo in termini di sicurezza del lavoro ma anche che persone con LOC interno
riescono a gestire meglio il proprio lavoro, attribuendo a sé stessi successi e fallimenti.
- Self-monitoring (Snyder): grado in cui le persone riescono a controllare il modo in cui si
presentano agli altri, osservabile tramite la messa in atto di comportamenti accettabili; chi
ha alto self-monitoring tende a considerare meglio il significato e le caratteristiche delle
situazioni e comprende facilmente le caratteristiche dei nuovi ruoli. Guardare chi abbiamo di
fronte e vedere come si pone nel suo non verbale, come si è preparato per venire al
colloquio, che abbigliamento ha scelto, sono tutti fattori che hanno a che fare con il nostro
self-monitoring.
- Autostima: l’opinione sviluppata dall’individuo sul proprio valore (giudizio valoriale) in
base ad una complessiva valutazione di sé; coloro dotati di alta autostima hanno maggiore
fiducia nell’esplorare situazioni nuove e nuovi ruoli e ad assumersi i rischi di gestire
situazioni sconosciute; alta autostima e buona capacità di gestione delle proprie risorse
cognitive e strumentali sono un fattore protettivo nei confronti delle conseguenze della
mancanza di lavoro.
- Autoefficacia (Bandura): l’autoefficacia percepita è intesa come la convinzione che le
persone hanno nelle proprie capacità di organizzare e realizzare il corso di azioni necessario
a gestire in modo adeguato le situazioni che incontreranno in modo tale da raggiungere i
risultati prefissati; si riferisce a quanto mi sento capace di svolgere un lavoro, è un giudizio
riferito ad uno specifico ambito; avere un alto grado di autoefficacia porta ad alta qualità di
prestazione (sono cose diverse).
Sempre nella nostra carrellata sulla personalità vediamo che quando entriamo in un contesto
lavorativo le funzioni e i ruoli sono differenti, per cui ci sono lavoratori adatti ad alcuni
lavori e altri adatti ad altri. Rispetto a questo gli studi dicono che una valutazione che aiuta a
capire come mettere le persone al posto giusto passa anche dal capire cosa gli si sta
chiedendo, quali obiettivi devono raggiungere, e fare un match tra queste richieste del
contesto e le caratteristiche dell’individuo può essere funzionale.
- Personalità di tipo A e di tipo B possono reagire in maniera diversa: i tipo A sono
competitivi, fortemente motivati e orientati al successo, con un forte senso di urgenza e
impazienza ma non sanno collaborare e costruire gruppo. Quando abbiamo obiettivi
specifici da dover raggiungere in tempi brevi è più indicato scegliere persone con questo
tipo di caratteristica. Le persone di tipo B sono rilassate e adottano un approccio semplice ai
problemi della vita (continuità nel tempo di interazione con le persone  tempi lunghi).
Non è che una è migliore dell’altra, il selezionatore deve scegliere colui che gli serve in quel
momento.
- Tra le caratteristiche di personalità degli individui si prende in considerazione anche il
bisogno che l’individuo vuole soddisfare attraverso il lavoro, strettamente connesso alla
motivazione. McClelland parla di bisogno di riuscita, cioè voler soddisfare la necessità di
avere una diretta responsabilità del lavoro che svolgo, delle azioni altrui e proprie per
raggiungere obiettivi personali, e questo lavorando in un contesto che mi metta alla prova;
bisogno di affiliazione, cioè mantenere relazioni interpersonali, lavorare in gruppo, evitare
conflitti, attenzione ai sentimenti e bisogni altrui, spesso mettendo l’altro prima della
riuscita; bisogno di potere, cioè esercitare controllo sugli altri, quindi ricoprire ruoli di
comando in cui dare mansioni. Questi 3 bisogni si escludono un po' tra di loro, non possono
essere co-presenti, e capire quale bisogno maggiormente impatta sull’individuo contribuisce
a farci fare previsioni sulla sua condotta, le sue aspettative sul contesto lavorativo.
- Soprattutto quando si tratta di servizi, da tenere in conto nella selezione del personale è la
proattività: tendenza relativamente stabile dell’individuo ad accettare i cambiamenti, a
cercare attivamente i cambiamenti, a pianificare il futuro, a perseverare di fronte agli
ostacoli. Gli studi a riguardo sono pochi, non si sa quanto incide sulla performance, ma
sicuramente incide nell’affrontare delle sfide e il saper adattare le proprie competenze.

Oltre alla personalità, quando guardiamo le differenze individuali, bisogna interrogarsi sugli
interessi professionali. Essi sono dei predittori della performance efficace e del
comportamento lavorativo quanto più mi interessa qualcosa, tanto più la mia performance
sarà migliore. Caratteristiche: hanno una componente disposizionale, si stabilizzano in età
adulta e possono essere modificati dall’esperienza lavorativa; sono espressi in forma di
preferenze; riflettono l’identità personale, insieme alla personalità contribuiscono alla
formazione dell’identità lavorativa.
Modello di Holland: gli interessi professionali possono essere definiti come preferenza
manifestata da una persona verso particolari ambienti professionali o attività lavorative. Il
modello RIASEC propone sei macro categorie di interessi: realistici, intellettuali,
convenzionali, intraprendenti, artistici e sociali. Ogni individuo propende verso determinati
interessi professionali piuttosto che altri, e alcuni di escludono, non possono andare di pari
passo. Come capire rispetto alla macro-categorizzazione quali sono gli interessi più vicini e
quelli più lontani? Studiando l’esagono. Gli interessi posizionati lontani non possono
convivere e non li troveremo quindi nella stessa persona
Indagando la mappatura degli interessi, essi sono collegati alle caratteristiche di personalità:
- realistici, “Do-ers” hanno una chiara definizione degli obbiettivi e dei passaggi per arrivare
ad essi, sono conformisti, onesti, materialisti, pragmatici e persistenti;
- intellettuali, “Thinkers” sono analitici, cauti, critici, curiosi e precisi;
- artistici, “Creators” sono disordinati, emotivi, espressivi, idealisti, impulsivi, intuitivi e
anticonformisti;
- sociali, “Helpers” sono cooperativi, amichevoli, generosi, empatici, sensibili e
comprensivi;
- intraprendenti, “Persuaders” sono avventurosi, ambiziosi, energetici, esibizionisti e
ottimisti;
- convenzionali, “Organizers” sono conformisti, coscienziosi, metodici, efficienti, rigidi,
obbedienti e prudenti.
Holland comunque non esclude la compresenza di più interessi (e quindi caratteristiche di
personalità legate a questi interessi), ma dipende dalla distanza di essi nell’esagono. La sua
classificazione è una semplificazione della realtà, non esaurisce la vasta gamma di
preferenze di un individuo. Inoltre questo modello non può essere preso in considerazione
quando l’identità è ancora in formazione.
[Ci sono caratteristiche che rimango ed altre che cambiano in base al setting.]

Valori:
Non possiamo dimenticare che c’è un altro aspetto da considerare, che è l’assetto valoriale
degli individui. I valori muovono le nostre condotte, sono l’insieme di convinzioni in virtù
delle quali riteniamo giusto o sbagliato agire in un modo piuttosto che in un altro. Nascono
dalla creazione della nostra identità e dallo scambio con i nostri contesti di appartenenza.
Brofenbrenner ci insegna che tutti i livelli che l’individuo incontra nella vita sono alla base
della costruzione dei valori, tanto importanti perché sono un mediatore tra i nostri bisogni,
le ragioni che adduciamo nella scelta di un lavoro e gli obiettivi che vogliamo raggiungere,
soprattutto quando sono obiettivi organizzativi. È essenziale comprendere quali sono i valori
compatibili con le finalità che di volta in volta vengono perseguite in ambito organizzativo.
[Bisogni/motivi di base  valori  scopi]
La congruenza è il valore ideale, essa ha luogo quando le persone all’interno di un contesto
lavorativo collaborano con colleghi con valori simili e questo porta ad emozioni positive;
l’incongruenza si verifica quando persone collaborano con colleghi con valori diversi e ciò
porta a conflitti relazionali (i più complessi e difficili da gestire dalle organizzazioni).
Approccio da ricordare è quello di Rokeach: gli individui utilizzano i valori, culturalmente
appresi, come standard per stabilire se sono morali e competenti come gli altri, per guidare
la propria autopresentazione e per favorire la razionalizzazione di credenze, atteggiamenti,
comportamenti, che altrimenti potrebbero essere personalmente o socialmente di difficile
accettazione. I valori sono la chiave di lettura del nostro agire e dell’agire altrui, influenzano
direttamente la scelta dei modi ed i mezzi dell’azione, noi giustifichiamo le nostre azioni
sulla base delle nostre credenze. Rokeach distingue in linea di massima due macro categorie
di valori: i valori terminali sono quelli che riflettono la preferenza del soggetto per
determinati obiettivi finali da raggiungere nel corso della vita (vita confortevole, felicità,
riconoscimento sociale); i valori strumentali costituiscono i mezzi attraverso cui le persone
provano a raggiungere gli obiettivi terminali (mente aperta, coraggio, razionalità). Gli
antecedenti dei valori si trovano nella cultura, nella società e nella personalità  il risultato
finale del valore è il comportamento.
Valori come stati desiderabili: secondo Schwartz i valori sono stati desiderabili (valore non
è tanto qualcosa che ci guida ma qualcosa a cui tendiamo), obiettivi e scopi, comportamenti
che trascendono da specifiche situazioni e che sono applicati come standard normativi per
giudicare e scegliere tra modi alternativi di comportamento che si strutturano in relazioni
conflittuali. I valori non sono così ben definiti come secondo Rokeach, tuttavia guidano il
nostro modo di essere, le nostre condotte in tutti i campi. Decidiamo quali sono questi stati
desiderabili ai quali vogliamo tendere, e una volta che diventano per noi un faro
difficilmente cambieranno. Schwartz ne identifica dieci e quanto più sono vicini tra di loro
tanto più sono simili. Valori che si allontanano tra loro portano invece a situazioni
conflittuali.
Modello semi-circomplesso  secondo Schwartz ci sono dei valori più vicini tra loro:
apertura al cambiamento, autotrascendenza, affermazione (automiglioramento),
conservatorismo.
Con Allport secondo cui non è detto che tutti i valori che l’individuo ha sono importanti per
il contesto lavorativo, bisogna quindi identificarli, si ha una classificazione dei valori, ma
operazionalizzandoli in sottocategorie:
- valori teoretici  ragionamento e pensiero sistematico
- valori economici  utilità e praticità
- valori estetici  bellezza, forma, armonia artistica
- valori sociali  persone, relazioni interpersonali
- valori politici  esercitare potere
- valori religiosi  unità, universo globale

Ricapitolando

1. Differenze individuali
2. Il fattore “g” e le diverse abilità contemplate
3. La personalità: il Big Five e altri modelli
4. Tratti di personalità d’interesse lavorativo
5. Gli interessi
6. I valori: approcci teorici

La teoria della struttura psicologica universale dei valori umani


I valori sono considerati ciò che le persone ritengono debba essere soddisfatto in risposta al
ruolo lavorativo ricoperto e quindi contribuiscono a spiegare cosa motiva le persone verso il
raggiungimento di obiettivi ritenuti importanti. Si formano come prodotto di apprendimenti
ed esperienze di vita all’interno del contesto culturale di appartenenza dell’individuo, quindi
differenti esperienze soggettive porteranno differenti valori  ciascuno ha un set di valori
unico e irripetibile. Secondo Schwartz i valori si distinguono tra loro dal tipo di obiettivo o
motivazione che essi esprimono; i valori sono stati socialmente desiderabili utilizzati per
rappresentarsi mentalmente questi obiettivi e per comunicarli nell’interazione sociale. Per
Schwartz la natura e le origini dei valori riguardano tre tipi di necessità umane universali:
- i bisogni di natura biologica dell’organismo;
- le richieste di natura sociale, necessarie al coordinamento degli scambi interpersonali;
- gli obblighi socio-istituzionali, che garantiscono il bene comune e la sopravvivenza della
società.
Partendo da questo presupposto, l’autore postula dieci valori derivanti dai tre tipi di
necessità umane universali e riconosciute in tutte le culture (generabilità transculturale, oltre
200 studi in 60-80 paesi). All’inizio Schwartz definisce il suo modello circomplesso perché
segue un andamento circolare  le variabili vengono collocate lungo la circonferenza e le
più simili si troveranno in posizioni adiacenti, di contro quelle che hanno una relazione
negativa sono più distanti (universalismo e potere sono in opposizione); la struttura
circolare, in questa fase di teorizzazione del modello, è funzionale in quanto rende quello
che per Schwartz è un continuum motivazionale, cioè di motivazioni che sottostanno a quei
valori, perciò più vicini i valori, più vicine le motivazioni ad es. benevolenza e
conformismo  entrambe promuovono relazioni sociali supportive, ma le motivazioni alla
base sono una intrinseca, cioè la benevolenza (promuovere il benessere degli altri
significativi immediatamente vicini alla persona come il gruppo familiare), e il
conformismo viene espresso come valore per una motivazione in parte estrinseca, cioè
siccome il conformismo provvede a mantenere l’armonia delle relazioni dei gruppi sociali
funzionali alla nostra sopravvivenza probabilmente la motivazione sottesa è legata al fatto
che l’individuo sa che se mette in atto un comportamento distruttivo sarà sanzionato, punito.
Successivamente Schwartz dirà che il modello è semi-circomplesso: nella sua struttura
conformismo e tradizione si collocano sullo stesso angolo, ciò vuol dire che questi due
valori esprimono degli obiettivi sovrapponibili  se la tradizione è più legata al rispetto di
idee culturali e religiose mentre il conformismo si rifà al rispetto delle norme sociali,
guardando questi due valori all’interno di un dominio motivazionale di più ampio respiro si
potrebbe dire che entrambi concorrono al fatto che gli esseri umani si subordinano a ciò che
è socialmente imposto ovvero alla sopravvivenza del gruppo sociale più allargato. Elenco
dei valori…
- autodirezione: Schwartz si rifà a Bandura in riferimento al bisogno di controllo e di
padronanza per l’apprendimento sociale;
- successo: raggiungimento del successo personale attraverso la dimostrazione delle proprie
competenze in accordo con gli standard sociali e quindi comporta approvazione sociale;
- sicurezza: incolumità, armonia e stabilità della società, delle relazioni e della propria
persona (tutto è legato al senso di appartenenza);
- tradizione: rispetto, commitment e accettazione delle usanze e delle idee che
appartengono alla propria cultura o religione, bisogno di condivisione di esperienze, di
solidarietà ecc.;
- benevolenza: bisogno dell’organismo di affiliazione (Maslow). Differenza delle
motivazioni tra benevolenza e universalismo che più che contrapporsi si allargano  il
primo si riferisce alla promozione del benessere dell’in-group, con il secondo il benessere è
quello del contesto sociale più allargato, del mondo e per la conservazione della natura;
- stimolazione: novità e sfide nella vita, bisogno dell’organismo di varietà e di stimoli
necessari a mantenere un livello di attivazione ottimale;
- edonismo: piacere personale e bisogni dell’organismo, piacere associato al loro
soddisfacimento;
- potere: status sociale e il prestigio, il controllo o la dominanza sia sulle persone che sulle
risorse;
- conformismo: limitazione delle azioni, delle inclinazioni e degli impulsi che potrebbero
disturbare o danneggiare gli altri e/o le norme sociali.
L’insieme dei dieci valori può essere rappresentato all’interno di uno spazio bidimensionale
e ciò consente di rappresentare in modo sintetico le relazioni di opposizione tra valori in
conflitto: nella prima dimensione, oppone i valori dell’apertura al cambiamento a quelli
del conservatorismo e vi è un conflitto tra i valori che enfatizzano l’indipendenza di
pensiero, azione e sentimenti e cambiamento (autodirezione e stimolazione) e i valori che
pongono enfasi sull’ordine, sull’autolimitazione e sulla resistenza al cambiamento
(sicurezza, conformismo e tradizione); nella seconda, pone in contrasto i valori
dell’autotrascendenza con quelli dell’automiglioramento e vi è un conflitto tra i valori
che enfatizzano la preoccupazione per il benessere e l’interesse degli altri (universalismo e
benevolenza) e i valori che pongono enfasi sul perseguimento dei propri interessi, del
relativo successo e della dominanza sugli altri (potere e successo).
Tra i comportamenti studiati vi sono l’uso di alcol e di preservativi, furto nei negozi, la
cooperazione e la competizione, il comportamento da consumo, la scelta della facoltà
universitaria, l’occupazione, il contatto sociale con gli out-group. Tra gli atteggiamenti
studiati ci sono la soddisfazione lavorativa, l’impegno organizzativo, la fiducia nelle
istituzioni. Tra le caratteristiche di personalità indagate si ritrovano la desiderabilità sociale,
la dominanza sociale, i tratti di personalità (Big Five).
Per quanto riguarda gli strumenti utilizzati si ricordano il Portrait Values Questionnaire
(PVQ), fondamentale per cogliere la natura transculturale del modello (adatto anche ad
individui non istruiti in scuole occidentali, breve descrizione dei dieci valori come fossero
ritratti) e la Schwartz Value Survey (SVS) in cui i valori sono presentati come sostantivi ed
aggettivi in due liste di item per esprimere gli aspetti degli obiettivi motivazionali sottostanti
i valori.

CAPITOLO 6 - La motivazione
È il motore, ciò che guida quotidianamente gli individui nello svolgimento delle attività
lavorative, ed è anche il motore di ciascun dipendente quando entra in un’organizzazione
per potare avanti il suo lavoro. La motivazione è ciò che dà senso al lavoro dell’individuo, è
ciò che fa diventare un compito qualcosa di più, che porta soddisfazione e non solo ciò che
permette l’ottenimento di un compenso; è quel costrutto su cui gli psicologi del lavoro
devono insistere per poter portare benessere al lavoratore ed è anche la chiave di volta per le
organizzazioni per far sì che un lavoratore si senta nel posto giusto e al massimo delle sue
potenzialità. Non esiste una definizione univoca di motivazione nella lettura psicologica e
nella psicologia del lavoro, ma in riferimento ad essa di sicuro parliamo di un’energia (che
spinge, ci attiva) investita dagli individui nella prestazione lavorativa e nell’appartenenza
all’organizzazione. La motivazione ci consente di rispondere alla domanda “perché gli
individui si comportano nel modo in cui si comportano?”, è un predittore dell’azione 
ruolo centrale nella condotta (lavorativa) degli individui. Inoltre, grazie ad essa si può
migliorare l’efficienza e l’efficacia dell’organizzazione. La motivazione è data da una
moltitudine di fattori interni ed esterni che possono influenzare la condotta umana nei
contesti lavorativi, cioè tutti quei comportamenti che hanno a che fare con lo svolgimento
del lavoro e che comportano un certo impegno e dispendio di energie da parte del
lavoratore; comprende classi differenti di attività che comportano un differente
coinvolgimento di vari e specifici fattori determinanti (fattori interni, esterni contestuali,
legati ai compiti, outcomes).
Negli anni sono state date molte definizioni di questo costrutto tutte diverse: Kreitner e
Kinicki sostengono che la motivazione è un insieme di processi psicologici che provocano
la nascita, la direzione e la persistenza nel tempo di azioni volontarie dirette verso un
obbiettivo nonostante gli ostacoli; Avallone la definisce un complesso processo delle forze
che attivano, dirigono e sostengono il comportamento nel corso del tempo. Il processo
motivazionale è complesso, articolato, e va nella direzione di forza, energia, che sostiene la
condotta nel corso del tempo, facendo sì che rimanga stabile e orientata verso l’obiettivo
che l’individuo si pone. Pedon e Maeran parlano di un processo collegato sia alla categoria
dei risultati che la persona vuole raggiungere o evitare, sia alle specifiche azioni necessarie
per ottenerli (si concentrano sull’esito); Pinder riprendendo Avallone afferma che la
motivazione è un insieme di forze che danno origine ad un comportamento lavorativo
determinandone forma (lo plasma), direzione, intensità e durata; Kanfer e Ackerman la
definiscono un fenomeno dalle molteplici determinanti (che non sono ben definibili)
complesso e dinamico (può cambiare) che interessa direzione, intensità e persistenza del
comportamento. Ciò che emerge da queste definizioni è che ci si riferisce alla motivazione
come a un processo in divenire di fattori che influenzano la condotta sia in termini di
risultati finali che di azioni messe in atto, sia di direzionalità, cioè dove sto andando, che di
intensità e durata.
Per ovviare alla molteplicità di definizioni e all’incertezza su quale sia quella giusta, quindi
per riassumere le diverse posizioni esistenti si parla di campo semantico della
motivazione: esso consente di mettere insieme una serie di elementi che accomunano tutte
le definizioni dando una “macrodefinizione” del costrutto  essa è un’energia che attiva
una condotta, ne determina la direzione verso un obbiettivo, l’intensità con cui viene messa
in atto e la persistenza; energia che muove il comportamento orientandolo verso una meta
che la motivazione stessa ha contribuito a definire.

Nell’analisi della motivazione bisogna tenere in conto quei fattori…


- energia che porta all’attivazione, mette l’individuo nelle condizioni di avviare il
comportamento;
- direzione  percorso scelto dal lavoratore orientato dall’obbiettivo a cui si rivolge. A
seconda del ruolo ricoperto all’interno di un’organizzazione e della relazione individuo-
contesto il percorso cambia, ad es. i dirigenti sono interessati a percorsi “funzionali” per il
lavoratore, ovvero vogliono che il lavoratore raggiunga l’obbiettivo che si è prefissato ma
che lo faccia seguendo una serie di direzioni specifiche (arrivare puntuale, collaborare);
- intensità  forza dell’investimento energetico, lo sforzo con cui si svolgono le attività;
- persistenza  disponibilità a insistere nel tentativo di conseguire l’obbiettivo nonostante
ostacoli e avversità.
Questa energia si differenzia in due tipi di motivazione: intrinseca, ha a che fare con il
lavoro in sé e il rapporto personale che l’individuo ha con esso, con il piacere stesso di
svolgerlo al di là della ricompensa; estrinseca, riguarda la ricompensa finale che l’individuo
otterrà, quindi gli obbiettivi saranno perseguiti in ragione di fattori esterni. A seconda della
qualità della motivazione si attiveranno processi differenti e differenti saranno gli esiti; la
letteratura conferma che quella intrinseca è la più veritiera, agisce meglio sul benessere
psicosociale e sulle condotte efficaci dei lavoratori, ma anche su quella estrinseca si può
intervenire per ottenere degli obbiettivi organizzativi e delle performance efficaci 
dipende dal contesto, es. scuole superiori, educazione del bambino.
La motivazione è strettamente legata alla performance ma è bene tenere presente che non
coincide con la condotta  è un costrutto ipotetico, un processo psicologico che può dare
esiti diversi; antecedente della condotta; il comportamento non è in primo piano, è l’esito; il
conseguimento di un risultato lavorativo è il frutto di molteplici fattori come il contesto, le
relazioni, il momento storico (solo alcuni controllabili dalla persona e influenzati dalla
motivazione); attribuire solo a carenze motivazionali un cattivo esito della prestazione è una
distorsione nell’analisi lavorativa della condotta. Es.: la quantità di tempo passata a studiare
un esame (comportamento) dipende dalla motivazione + capacità e obiettivi personali +
contesto (appunti presi male). Poiché per studiare la motivazione di un individuo si osserva
la sua condotta, col tempo si è sviluppato questo bias nell’analisi per cui questi due elementi
coincidono, ma non è così: studiare la motivazione vuol dire comprendere e prevedere
determinati esiti del rapporto tra persona e contesto lavorativo (fattori individuali, fattori
esterni sociali e non sociali es. strutture fisiche).

Teorie motivazionali
Due macrofiloni di studi: il primo ha provato a rispondere alla domanda “Perché agisce
così?”  individuare gli stati interni, le possibili cause/ragioni di un’azione o di un’attività
e individuare gli elementi che portano a spiegare una condotta; il secondo invece voleva
capire qual è il processo che governa l’attivazione  cos’è che fa sì che l’individuo attivi
quell’energia e che gli consenta di promuovere nuove azioni, attività, condotte per arrivare
al raggiungimento degli obbiettivi e prevedere azioni e attività future. Per provare a
rispondere a queste domande gli studi si sono divisi in due categorie:
- teorie di contenuto  individuare e analizzare bisogni, mete, scopi (Quali sono gli
elementi che influenzano e caratterizzano la motivazione?);
- teorie di processo  spiegare scelte, intensità, persistenza (Quali sono i processi
decisionali sottostanti la motivazione? Come si esplicano?).
Tutte le teorie osservano l’input, cioè fattori che hanno a che fare con la motivazione come
sforzo, impegno, tempo, disciplina ecc., la prestazione, cioè quantità e qualità del lavoro e i
suoi effetti sulla persona (esiti nella condotta) e i risultati attesi, cioè cosa mi aspetto dalla
mia condotta es. stipendio, sicurezza, soddisfazione, riconoscimenti sociali ecc.

Dobbiamo a Maslow la prima definizione di motivazione come la prima spinta di ogni


azione nel momento in cui la consideriamo come un bisogno da soddisfare e quindi
l’antecedente più forte della condotta. Aggiunge che la motivazione è data da bisogni e che
ogni individuo desidera soddisfare una serie di bisogni fondamentali. Se si vuole motivare
qualcuno, è importante cercare di capire qual è il bisogno che lo spinge all’azione, altrimenti
si rischia di utilizzare risorse che su di lui non avranno influenza. La motivazione è
caratterizzata da cinque bisogni di base…
Maslow propone un modello gerarchico, una piramide di bisogni che secondo la sua teoria
andrebbero soddisfatti in maniera scalare (dinamismo gerarchico): andando ad indagare i
bisogni motivazionali degli individui ce ne sono alcuni definiti primari che vanno
necessariamente soddisfatti perché altrimenti l’individuo non riuscirà a costruirsi delle
motivazioni su bisogni secondari  prima di tutto soddisfare i bisogni fisiologici e di
sicurezza per poter soddisfare quelli di relazione, autorealizzazione, autostima. Questo
modello è oggi superato, nonostante sia stato rivisitato dall’autore, ed è stato criticato: rigida
sequenzialità implicita nella teoria, cioè non ci sono elementi che confermano che gli
individui vogliono prima soddisfare un bisogno e poi un altro; mancanza di dimostrazioni
empiriche della validità del dinamismo; scarsa sensibilità alle differenze individuali e di
carattere socio-culturale (la costruzione del bisogno di motivazione nasce da caratteristiche
dell’individuo che si incontrano e scontrano col contesto); poca considerazione dei diversi
significati attribuiti ai bisogni da ogni persona; la critica più forte è che l’unica fonte della
motivazione è nell’individuo, il contesto è sullo sfondo. È comunque importante studiare
questa teoria per vari motivi  è la prima che si focalizza sul contenuto e permette di
superare i modelli meccanicistici della scuola economica che invece vedeva la motivazione
come il risultato di ricompense; riconosce la necessità dei lavoratori di soddisfare dei
bisogni; dal punto di vista dell’organizzazione consente di identificare i tipi di bisogno dei
lavoratori (anche soggettivi), di verificare la possibilità di creare condizioni per soddisfarli e
di stabilire una connessione tra condotte lavorative da privilegiare e i bisogni da soddisfare.
In generale, il bisogno del singolo va attenzionato per avere un vantaggio anche in termini
organizzativi.

Teoria del bisogno di riuscire (Achievement need) di McClelland – è un autore della


psicologia del lavoro che si è occupato, a partire dall’analisi dei bisogni, di capire com’è
fatta la motivazione e lo ha fatto tenendo conto di un bisogno primario da lui identificato
definito bisogno di riuscire  secondo l’autore è un bisogno tipico delle società occidentali,
legate allo sviluppo economico e sociale, che vedono la motivazione come basata sulla
necessità di soddisfare il bisogno di riuscire in determinate cose/ambiti. Partendo da questo
bisogno generale di riuscire nell’obbiettivo e nella vita, McClelland ha individuato una serie
di elementi più specifici che possono declinarlo a seconda delle esigenze dei lavoratori ma
anche a seconda delle loro caratteristiche individuali in uno specifico momento del lavoro e
del contesto. In ambito lavorativo, si distinguono una serie di motivazioni che orientano la
condotta dell’individuo:
- motivazione al potere  orientamento a influenzare le persone e a modificare le situazioni
secondo le proprie intenzioni, che si esplica in termini di condotta (e di scelta di carriera)
con la volontà di esercitare pressioni sugli altri, su decisioni e procedure;
- motivazione all’affiliazione  orientamento a creare un’ampia e fitta rete di legami
sociali nel contesto lavorativo che si esprime con la tendenza a sviluppare relazioni
confidenziali e supportive e scegliere partner professionali amichevoli (obbiettivo della
condotta lavorativa è costruire legami);
- motivazione al successo (sottocategoria: evitare il fallimento)  orientamento a
raggiungere mete desiderate, realizzare le proprie capacità e migliorare prestazioni e chi ha
questo bisogno ricerca obbiettivi sfidanti e punta a raggiungere l’eccellenza.
A seconda del bisogno che si vuole soddisfare si faranno scelte di carriera differenti e
l’organizzazione può decidere di agire in diversi modi. Rispetto a Maslow, McClelland non
sostiene che esista una gerarchia tra queste categorie di motivazioni e che non sia possibile
nel corso della carriera di un individuo avere bisogni e quindi motivazioni differenti; tutte
sono presenti, ma a seconda della situazione e del tipo di compito, di obbiettivi e strumenti a
disposizione del lavoratore si attiveranno istanze motivazionali diverse che richiedono la
soddisfazione di un bisogno piuttosto che un altro.
Studi successivi hanno portato McClelland all’identificazione di un’altra classe di
motivazioni che muovono la condotta lavorativa, la motivazione alla competenza:
orientamento a sviluppare continuamente le proprie abilità e a svolgere compiti mantenendo
standard e qualità; coloro che hanno la necessità di soddisfare questo bisogno cercano la
piena padronanza delle attività, vogliono essere autonomi, sperimentare e mettersi in gioco,
traggono insegnamenti dall’esperienza e affrontano situazioni nuove in modo creativo. Tale
teorizzazione è molto innovativa in quanto spiega la condotta di individui orientati al
cambiamento, alla conoscenza di nuove pratiche  in un mercato del lavoro così mutevole,
la motivazione alla competenza è un’importante chiave di lettura per il benessere dei
lavoratori; dare possibilità di formazione e di crescita agli individui può essere un fattore
motivazionale.

La teoria dei due fattori di Herzberg – tuttora è una delle teorie più utilizzate e valide
nell’ambito della psicologia del lavoro e della organizzazioni. Partendo dal quesito
“esistono bisogni più importanti di altri?”, questo autore definisce due classi di bisogni:
- fattori di igiene  fanno riferimento a retribuzione, condizioni di lavoro, sicurezza,
relazioni interpersonali. Questi fattori, se presenti, non demotivano ma neanche motivano
mentre se sono assenti/precari non portano motivazione e sono fonte di insoddisfazione
(sono dei pre-requisiti, individui in una “condizione zero”);
- fattori motivazionali  riconoscimento, attribuzione di responsabilità, opportunità di
carriera, possibilità di apprendimento, crescita nel ruolo.
Non è vero che la ricerca di soddisfazione di ogni bisogno crea motivazione al lavoro e non
tutte le condizioni che l’organizzazione determina sono motivanti per la soddisfazione dei
bisogni personali legati alla motivazione. Inoltre, secondo Herzberg, la soddisfazione di un
bisogno è strettamente legata, oltre che alla prestazione e alla condotta, alla soddisfazione:
nel caso dei fattori igienici, quando vengono soddisfatti vi è una condizione di assenza di
insoddisfazione e demotivazione mentre al contrario insoddisfazione/demotivazione
(attengono al contesto o all’ambiente nel quale il lavoratore opera); per quanto riguarda il
continuum dei fattori motivazionali, quando sono assenti non c’è soddisfazione e
motivazione mentre se sono presenti ci saranno (attengono a quello che il lavoro fa e come
in termini di crescita personale). I fattori motivanti sono più importanti di quelli igienici per
ottenere performance efficaci, ma senza di essi non si possono considerare i fattori
motivanti anche se non è detto che debbano essere soddisfatti tutti.
- Vantaggi  sottolinea l’importanza di contesti di lavoro sensibili e plastici, che si
muovono e cambiano rispetto a desideri e attese degli individui; rinforza il concetto che per
motivare non valgono formule prestabilite ma è necessario moltiplicare le opportunità in
funzione delle differenze individuali; consente di differenziare fattori igienici e
motivazionali e quindi non tutti i bisogni sono motivazioni, non tutte le soddisfazioni di
bisogni attivano la motivazione.
- Limiti  risultati non univoci sulla sua validità (contingenza).

Le teorie di processo sono interessate a capire quali sono le fasi del processo che attiva la
motivazione, e ognuna ci arriva in modo diverso…
La teoria dell’“aspettativa-valenza (o valore)” di Vroom – il costrutto di aspettativa non
è nuovo, già Lewin e Tolman avevano evidenziato la connessione tra il comportamento di
un individuo e la sua percezione e valutazione dei risultati conseguibili (le aspettative
influenzano le intenzioni, che influenzeranno la pianificazione di azioni e quindi il
comportamento). Questa è una teoria cognitiva che studia il processo motivazionale
analizzando: sequenza comportamentale, cioè il corso di azioni messe in atto per
raggiungere un obiettivo; motivazione, energia mobilitata per il compimento dell’azione;
ricompensa, cioè i benefici che si ottengono raggiungendo gli obiettivi. La teoria
dell’aspettativa-valenza rivela un approccio sostanzialmente fondato sulla dimensione della
scelta cognitiva  Che valore ha per me il premio, la ricompensa ovvero la contropartita
che me ne deriva? Cosa mi aspetto se metto in atto quanto mi viene chiesto? Qual è la
probabilità che, se io faccio un buon lavoro, ci sarà una qualche ricompensa per me? Gli
individui sono motivati se l’obiettivo finale è associato ad una ricompensa che abbia un
senso per loro.
Secondo tale teoria, la motivazione al lavoro è la risultante di tre variabili che indicano esiti
futuri valutati positivamente dalla persona; il livello di attivazione motivazionale è una
funzione data dalla moltiplicazione di…
- Valenza (V): preferenza o desiderabilità e l’attrattività anticipata di un risultato (da -1 a
+1), quanto mi piace la ricompensa e che valore gli do;
- Aspettativa (E): la percezione di quanto lo sforzo o l’impegno nella prestazione possa
effettivamente condurre al raggiungimento dell’obiettivo (da 0 a +1, può azzerare la
moltiplicazione);
- Strumentalità (I): la possibilità che il raggiungimento dell’obiettivo dia la ricompensa (da
-1 a +1).
Grazie a questi tre aspetti si possono studiare le diverse spinte motivazionali dell’individuo,
ad esempio mi interessa di più trovare un posto fisso o un ambiente di lavoro piacevole. Il
primo “ingrediente” della motivazione ha a che fare con i risultati, che devono essere attesi
e desiderati (valenza), ma l’individuo deve anche percepire una relazione tra impegno e
prestazione per il raggiungimento dell’obiettivo (aspettativa) e deve credere che esiste una
relazione tra prestazione lavorativa e risultati desiderati (strumentalità).
Critiche  non si fa cenno all’influenza sul processo motivazionale di altri attori sociali
(colleghi, dipendenti, superiori), è tutto legato alla sola valutazione dell’individuo; non per
tutti i lavoratori i tre elementi della teoria sono in rapporto moltiplicatorio tra loro; la
capacità predittiva della teoria, quando applicata al confronto tra persone, risulta molto
inferiore rispetto alla valutazione individuale; la teoria sembra più appropriata a spiegare le
scelte di carriera piuttosto che i processi motivazionali; troppo semplicistica, non considera
il rapporto individuo-organizzazione; l’individuo non è solo razionale.

Il modello del goal setting di Locke – fino a qualche tempo fa è stato il modello più
studiato dalle organizzazioni per implementare il project management (gestione delle risorse
umane e organizzative). Nello studio del processo motivazionale, secondo il modello
l’elemento c’entrale è l’obiettivo, ciò che una persona si sforza di raggiungere con la
propria azione, è l’intento della condotta di una persona; variabile capace di influenzare i
comportamenti motivati; l’obiettivo consapevole dirige l’attenzione e sostiene lo sforzo
lavorativo, agevola lo sviluppo di strategie, incoraggia la persistenza e l’impegno  la
motivazione è attivata dall’obiettivo interiorizzata. Per attivare tutto il processo bisogna
prendere in considerazione degli elementi che caratterizzano gli obiettivi:
- consapevolezza, riconoscimento dell’obiettivo e di cosa fare per raggiungerlo;
- forza e accettazione, valore attribuito all’obiettivo e quanto interessa raggiungerlo;
- aspettativa di successo, quanto credo di riuscire ad ottenere il risultato prefissato;
- specificità, chiarezza e vicinanza dell’obiettivo;
- difficoltà, grado di sfida che l’obiettivo sollecita.
[esempio: condurre uno stile di vita sano]
Secondo Locke, la persona agisce in modo consapevole e razionale per il conseguimento
degli obiettivi purché essi abbiano alcune caratteristiche che li contraddistinguono in
relazione alle prestazioni da svolgere  obiettivi difficili, ma realizzabili tendono a
indirizzare verso prestazioni migliori e quindi tendono ad attivare un’energia motivazionale
più elevata; obiettivi ben specificati orientano verso prestazioni più adeguate rispetto a
obiettivi troppo generali e vaghi; un elevato livello di coinvolgimento rispetto agli obiettivi
migliora la prestazione (goal commitment). La definizione degli obiettivi assume un ruolo
centrale perché consente di avviare il processo motivazionale. Inoltre, il feedback dei
colleghi, dei superiori e del compito stesso influenza il livello di motivazione per la
prestazione. L’accettazione e l’impegno sugli obiettivi sono influenzati da una serie di
fattori esterni  legittimità di chi indica gli obiettivi (fonte riconosciuta), pressione dei pari,
rilevanza del successo del proprio gruppo di lavoro e possibilità di riuscita individuale,
probabilità del conseguimento di risultati particolarmente attesi come incentivi finanziari;
fattori di interazione sociale  possibilità di partecipare attivamente alla definizione degli
obiettivi, partecipazione alle decisioni riguardanti i tempi con cui raggiungere gli obiettivi,
possibilità di negoziazione di compensi, incentivi e premi; fattori interni  percezione e
valutazione di essere capaci di conseguire gli obiettivi (autoefficacia), legata ad altri fattori
quali capacità possedute, complessità dei compiti e caratteristiche personali. Si chiarisce il
ruolo non solo delle capacità percepite del lavoratore, ma l’effettivo grado di padronanza di
tali capacità. La teoria del goal setting contempla la self-efficacy come costrutto cardine
perché, partendo dal presupposto che essere consapevoli degli obiettivi lavorativi significa
avere una rappresentazione cognitiva degli esiti desiderati dall’esperienza di lavoro, il
possibile gap tra la situazione attuale e quella da raggiungere determina aspettative di
riuscita basate sulla propria autoefficacia (non è illusoria ma si basa sull’esperienza ed è
legata ad uno specifico ambito di funzionamento).
- Evoluzioni: studi recenti condotti in particolare da Latham affermano che quando poniamo
l’attenzione su qualcuno da motivare dobbiamo chiederci di cosa ha bisogno, qual è
l’obbiettivo che è più accattivante per il lavoratore  quando la persona possiede le abilità e
le conoscenze richieste possono essere fissati si parla di obiettivi di risultato, mentre
quando tali competenze mancano è opportuno fissare obiettivi di apprendimento
precedenti a quelli di risultato. La teoria del goal setting risulta ancora valida se si ragiona in
quest’ottica.

La teoria di Adams e la relazione tra motivazione ed equità – il processo motivazionale


parte da una serie di domande motivazionali che hanno a che fare con la giustizia nelle
organizzazioni:
- I risultati attesi e ottenuti appaiono appropriati agli investimenti fatti?
- Per quello che si ottiene vale la pena impegnarsi ancora di più?
- Si possono creare degli squilibri tra ciò che si investe sul lavoro e ciò che concretamente si
ottiene? E come si reagirà a livello motivazionale?
La motivazione può essere analizzata in termini di equità e come parte delle relazioni
psicosociali che avvengono nel sistema sociale lavorativo; prima di attivare l’energia
motivazionale e mettere in atto delle condotte si fa riferimento all’equità percepita, cioè la
valutazione soggettiva del livello di equità presente nel contesto lavorativo. L'equità
percepita consente all'individuo di capire quanto è opportuno impegnarsi. Le valutazioni
avvengono sulla base di due elementi  equità interna, che ha a che fare con confronto tra
il risultato ottenuto e il contributo fornito ed equità esterna, che ha a che fare con il
confronto tra sé stessi e gli altri. Quindi questa teoria introduce una dimensione sociale al
processo motivazionale e riporta alla teoria dello scambio e del confronto sociale per la
spiegazione delle relazioni sociali.
Autopercezione e confronto sociale: nella valutazione dell’equità percepita dal contesto, il
lavoratore considera la relazione tra risultati attesi (output) e contributo che apporta
all’organizzazione (input). La percezione di equità tra input e output deve essere equilibrata
non solo rispetto a sé stesso ma anche rispetto a: altri colleghi nella stessa condizione,
lavoratori assunti come gruppo di riferimento in altri contesti o esperienze precedenti,
credenze e rappresentazioni ideali/culturali. Bisogna stare attenti agli effetti della non
equità, poiché essa può portare ad un abbassamento della motivazione, a modificare il
rapporto input/output, a modificare i propri referenti ed effettuare così nuovi tipi di
confronto sociale, o anche a cambiare lavoro.
L’organizzazione deve garantire una sufficiente equità esterna e interna per il mantenimento
della motivazione, poiché se si verifica iniquità interna e/o esterna ci sarà una riduzione
della motivazione. Studi successivi a quello di Adams hanno ragionato su come l’equità o
l’iniquità vengono lette dal singolo evidenziando l’influenza delle caratteristiche di
personalità  iniquità negativa (dare tanto e percepire di ricevere meno rispetto a quanto
dato), l’individuo si trova a diminuire il contributo per tentare di compensare l’impegno che
ha dato rispetto ai risultati; iniquità positiva (sentire di ricevere di più rispetto a quanto
invece si è apportato all’organizzazione), caratteristiche di personalità dell’individuo
potrebbero portarlo a lavorare di più e rinunciare alle ricompense. Un aspetto
dell’autopercezione da tenere in considerazione secondo Adams è la sensibilità all’equità,
data da caratteristiche di personalità dell’individuo, e identifica tre profili di personalità: i
benevoli non si lasciano scoraggiare da situazioni di iniquità e se vedono che qualcuno
riceve una ricompensa maggiore della loro tendono ad essere accomodanti; i sensibili sono
molto attenti alla giustizia organizzativa, vogliono ricevere esattamente ciò che hanno dato e
che il contesto sia equo anche nei confronti degli altri; gli aventi diritto si sentono sempre in
una condizione di iniquità, non hanno una reale percezione del rapporto input/output, si
sentono sempre in credito e che gli altri abbiano ottenuto più di loro.

Dalla teoria dell’equità si sviluppa un approccio più ampio che si focalizza sulla giustizia
organizzativa quale fattore motivazionale e qualcosa di più complesso, che si propone di
promuovere la percezione di equità all’interno dei contesti di lavoro. Domande:
- Comportandomi in un determinato modo riceverò un trattamento imparziale?
- La mia graduazione dell’impegno corrisponde ad una valutazione efficace, congrua dal
punto di vista degli esiti?
- Ci sono dei favoritismi o dei privilegi nella distribuzione dei ricavi?
- C’è un’effettiva trasparenza nei modi di procedere?  comprendere le procedure di
attribuzione delle risorse
- Come sono affrontati gli scioperi e i conflitti latenti?
Dobbiamo a Greenberg un’evoluzione del modello di Adams sulla giustizia organizzativa,
un modello che vede la promozione delle percezioni di equità all’interno del contesto
lavorativo operazionalizzata come tre tipi di giustizia:
- giustizia distributiva  si riferisce alla distribuzione delle risorse, ciò che gli individui
valutano è la relazione tra le ricompense ricevute e la prestazione fornita;
- giustizia procedurale  relativa all’insieme di procedure e valutazioni che devono essere
esplicitate rispetto all’attribuzione delle risorse, dare delle spiegazioni sul perché è avvenuta
in un certo modo piuttosto che in un altro;
- giustizia interazionale (relazionale)  si riferisce alla giustizia nelle relazioni, ad es. tra
leadership e dipendenti, ciò che le persone valutano in questo caso ha a che fare con il
rispetto, l’empatia etc.
Sono percezioni di giustizia che si riferiscono a specifici ambiti e in ambito organizzativo
assumono un ruolo centrale nella motivazione dei lavoratori. Le tre forme di giustizia sono
correlate positivamente con la motivazione e la prestazione lavorativa è associata
positivamente alla giustizia distributiva e procedurale  la percezione di giustizia
procedurale è influenzata dalla possibilità di coloro che fanno parte dell’organizzazione di
partecipare al processo valutativo e di prendere parte alle decisioni dello stesso. In questo
modo aumenterà la motivazione e si avranno anche performance efficaci.
Altri autori si sono soffermati su una serie di fattori che permettono di migliorare la
percezione di giustizia organizzativa: lavorare sui meccanismi adottati per la gestione dei
rapporti interpersonali (i datori di lavoro devono fornire feedback ai dipendenti su quanto
viene fatto a lavoro, ascoltare le opinioni dei dipendenti è uno strumento di partecipazione,
modalità partecipative nella presa di decisioni aumentano la motivazione); lavorare sulla
modalità con cui si cerca di far comprendere i processi decisionali che conducono alle scelte
decisionali (quali criteri sono stabiliti per valutare le prestazioni, cioè il metro di giudizio,
quali le ragioni di un sistema premiante, quali procedure di assegnazione di impegni e
ricavi). Inoltre, i valutatori devono essere equi e visti come tali.

Work engagement e Job Demand Resources Model – è uno dei modelli emergenti che
maggiormente si occupa di comprendere i fattori che muovono la motivazione. Questo
modello è molto utilizzato in psicologia del lavoro e delle organizzazioni per studiare il
funzionamento organizzativo  l’esito sono le performance, out-comes organizzativi e la
motivazione è una delle variabili che le influenzano. Gli individui a lavoro si ritrovano
quotidianamente ad affrontare delle richieste provenienti dal contesto e rispondono ad esse
in termini sia di risorse possedute che di cosa può offrire l’organizzazione; le job demands
sono influenzate da una serie di fattori anche individuali (quanto mentalmente è predisposto
l’individuo a rispondere, fattori emozionali che si attivano a seconda di quanto è complicato
il compito, sforzi fisici); le job resources vanno da una parte a sollecitare le skills
dell’individuo e dall’altra si fondono con le possibilità che dà l’organizzazione in termini di
autonomia, feedback, supporto ecc. A seconda del bilanciamento tra richiesta e risposta gli
individui reagiranno e si comporteranno in determinati modi  se le domande
dall’ambiente sono sfidanti e l’individuo possiede le risorse per affrontarle, allora la
combinazione tra job demands e resources lo motiverà, attiverà l’energia per svolgere il
lavoro, lo farà sentire bene e coinvolto nel lavoro (work engagement, uno stato mentale
collegato al lavoro caratterizzato da vigore, dedizione e assorbimento) e lo porterà a degli
esiti favorevoli in termini di performance organizzative. Se invece le job demands sono
troppo forti e l’individuo non ha a disposizione le risorse per fronteggiarle, ciò lo potrebbe
portare in una situazione di strain, cioè all’attivazione della parte negativa dello stress, con
risultati negativi per le performance. La motivazione nasce dall’incrocio tra domande del
contesto e risorse personali, che avviene all’interno di un contesto che pone le domande e
allo stesso tempo dà gli strumenti al lavoratore per rispondere ad esse. Questo modello è il
più utilizzato perché le job demands e le job resources non sono spiegate dalla letteratura,
ma sta al ricercatore calarsi nel contesto e capire quali sono in base alla sua domanda di
ricerca (contingenza). Questo modello è importante perché ci mette di fronte al fatto che
domande e risorse possono variare a seconda del contesto e quindi che i lavoratori sono in
alcune fasi più motivati e in altre meno. Ci sono lavoratori che possono essere motivati per
buona parte della loro attività lavorativa per poi trovarsi di fronte a situazioni sconvenienti.

Studi recenti (2008) si sono concentrati sul costrutto di flow at work: il flow è uno stato di
alta intensità motivazionale, uno stato di consapevolezza in cui gli individui sono totalmente
immersi e concentrati nell’attività che svolgono, provano piacere in quello che fanno
(strettamente legato al benessere), hanno il pieno controllo della situazione, si rappresentano
chiaramente i propri obiettivi e sperimentano una forte motivazione intrinseca. Si tratta del
coinvolgimento che si può generare se si dà al lavoratore la possibilità di svolgere a pieno il
suo lavoro, fornendogli delle risorse adeguate, degli strumenti forti per poter mettersi in
gioco; elevato livello di sfida della situazione ed elevate abilità diventano motivi per
aumentare il flow, favoriscono l’assorbimento dal lavoro e quindi il piacere lavorativo e la
motivazione intrinseca. Non abbiamo molte evidenze empiriche perché non è stato
analizzato spesso in ambito lavorativo bensì creativo

Le motivazioni non sono solo “personali”, l’organizzazione assume un ruolo centrale. Un


buon lavoratore è tale perché motivato da un bisogno di successo o di autorealizzazione, al
contrario un lavoratore scadente è privo di aspettative, desideri e ambizioni e ciò può essere
dovuto a condizioni di lavoro alienanti, scarse competenze, assenza di opportunità, cultura
organizzativa autoritaria e non aperta alla crescita e al coinvolgimento. L’organizzazione,
prima di trovare strategie per motivare, deve necessariamente monitorare una serie di
aspetti che hanno a che fare con la relazione tra persona e organizzazione  secondo
Quaglino le diverse spinte motivazionali che sostengono l’individuo al lavoro devono essere
lette in riferimento a quell’esperienza di più ampio respiro che è l’appartenenza
all’organizzazione (membership). Per misurare la motivazione e quindi capire se
all’interno di un’organizzazione ci sono dipendenti motivati bisogna osservare la loro
condotta, attraverso una serie di costrutti indicatori:
- organizational citizenship  la cittadinanza organizzativa fa riferimento all’insieme di
comportamenti non imposti dall’organizzazione, ma che migliorano l’efficacia
dell’organizzazione stessa. Essi non sono esplicitamente riconosciuti o richiesti e sono
esclusi dal sistema di ricompense formali. Viene operazionalizzata attraverso coscienziosità
(particolare cura nel lavoro in tutte le fasi, più di quella che gli viene richiesta), virtù civica
(senso di responsabilità nei confronti dell’organizzazione), sportività (manifestazioni di
atteggiamenti positivi di lealtà nei confronti degli altri lavoratori e dell’organizzazione
stessa), altruismo (disponibilità ad aiutare i colleghi), cortesia (relazioni basate su
cooperazione e gentilezza)  elementi reputati particolarmente sensibili dalla letteratura,
misurabili tramite scale, quando si mettono in atto comportamenti pro-organizzazione,
perché ci si sente parte di essa.
- engagement  propensione degli individui ad essere pienamente presenti
nell’organizzazione, esprimere sé stessi fisicamente, cognitivamente ed emotivamente nel
corso delle prestazioni lavorative (impegno), agire seguendo gli interessi
dell’organizzazione sentendosi attratti, dediti, coinvolti ed entusiasti nello svolgimento del
proprio lavoro.
- partecipazione  le persone vogliono contribuire al raggiungimento degli obiettivi
aziendali se sono motivate, ma questo richiede uno sforzo soprattutto da parte
dell’organizzazione che deve cambiare lo stile di project management da gestionale
autoritario a uno partecipativo; se ciò riesce, la partecipazione oltre ad essere una chiave di
volta per la motivazione degli individui diventa un fattore di miglioramento delle
prestazioni e della produttività, della crescita dell’attenzione al cliente e favorisce la
cooperazione dei gruppi di lavoro.
- organizational commitment  non è semplicemente l’appartenenza all’organizzazione,
ma la qualità del legame di appartenenza. Il senso di appartenenza consiste in un legame di
orgoglio e sentirsi parte di qualcosa, che contribuisce a fare qualcosa per quel gruppo e
riconoscersi come suo membro. Il commitment è propriamente la qualità di questo legame.
Possono esserci diversi tipi di appartenenza: affettivo (lo voglio), piacevole attaccamento
all’organizzazione; di permanenza (ne ho bisogno, me ne andrei ma non ho valide
alternative), convenienza in termini di costi-benefici a non interrompere il rapporto con
l’organizzazione; normativo (devo), percezione di un obbligo morale a rimanere
nell’organizzazione. L'organizational commitment è quell'aspetto della relazione individuo-
contesto che mostra gli effetti del contratto psicologico che l'organizzazione stipula con il
lavoratore, facendo sì che l'organizzazione possa affrontare elevati livelli di turbolenza.
Questo perché il commitment ha da una parte la fiducia nell'organizzazione e dall'altra
l'alleanza motivazionale, la voglia di creare un legame. Ecco perché questo costrutto ci aiuta
a comprendere se c'è motivazione: essere committed con l'organizzazione migliora la
motivazione e ci porta a riflettere su come affrontare le turbolenze. Nella definizione del
commitment bisogna tenere presente che esso ha a che fare con la natura dei legami tra
persona e organizzazione e l’intensità di essi  gruppo di lavoro, capi, organizzazione nel
suo complesso. Spesso viene confuso con il job envolvement (sentirsi coinvolti nel proprio
lavoro non è commitment), che ha a che fare con i legami tra la persona e il suo lavoro in
termini di self  coerenza tra persona e lavoro, possibilità di soddisfare le proprie esigenze
ed esprimere sé stessi, possibilità di partecipare alle decisioni. In questo caso
l’organizzazione è sullo sfondo, non riguarda il legame con essa.
Genesi del commitment: quello affettivo nasce da variabili organizzative relative alle
politiche aziendali, quindi quanto più l’individuo sente che il processo organizzativo è equo
in termini di gestione e selezione del personale, trasparenza delle comunicazioni,
comportamenti etici nei confronti dell’ambiente più sarà probabile che “voglia stare”
nell’organizzazione; a livello di variabili personali, gli antecedenti del commitment affettivo
sono autostima e autoefficacia; tra le variabili connesse al lavoro svolto ritroviamo
autonomia, possibilità di usare e sviluppare competenze sul lavoro, buone relazioni con
superiori e colleghi, spazio di decisioni partecipate. Per quanto riguarda quello di
permanenza, esso nasce da variabili personali cioè una valutazione cognitiva costi-benefici
dell’abbandono, fattori esterni di tipo familiare (stipendio), livello di discrepanza tra self e
situazione e da variabili situazionali quali alternative sul mercato occupazionale, grado di
attrattività di altre organizzazioni. Il commitment normativo nasce da variabili personali
come la socializzazione pre-lavorativa (valori del lavoro, stili di comportamento leale,
onesto, disciplinato) e variabili sociali come il clima di fiducia reciproca tra persona e
organizzazione.
Esiti del commitment: è considerato la variabile più importante per monitorare la presenza
di motivazione nell’organizzazione ed è molto studiato poiché specialmente quello affettivo
e quello normativo sono risultati due commitment correlati con una serie di variabili
connesse all’organizzazione e al benessere del lavoratore  cittadinanza organizzativa,
benessere percepito, soddisfazione lavorativa con bassi livelli di turn over, intenzione di
rimanere nell’organizzazione. Però gli studiosi che si sono concentrati sull'implementazione
di progetti formativi volti al rafforzamento della motivazione ci dicono che è bene farsi
delle domande prima di iniziare a monitorare e a seconda delle risposte scegliamo
l'approccio da utilizzare.

Come motivare? Come condurre-indurre i dipendenti a lavorare in funzione degli obiettivi


dell’organizzazione? Elementi da tenere presenti sono: la partecipazione, la possibilità di
progettare il lavoro e stabilire come svolgerlo, costruire ambienti che permettono di
combinare compiti diversi in maniera più o meno autonoma. La letteratura ha provato a
sintetizzare una serie di aspetti funzionali alla motivazione e alla possibilità di motivare i
dipendenti al lavoro in macro categorie  i modelli contenutistici orientano l’attenzione
dal contesto organizzativo al contenuto del lavoro, favoriscono interventi sulle mansioni
(rotazione, allargamento di spazi, arricchimento di compiti); i modelli processuali sono
orientati all’analisi delle relazioni tra bisogni e comportamento organizzativo e alla
comprensione e previsione di determinati esiti del rapporto tra persona e contesto
lavorativo.
Altro elemento è lavorare sulla giustizia organizzativa, migliorando le percezioni di
giustizia, aumentando la partecipazione ai processi decisionali, creando circoli di qualità e
gruppi di lavoro autogestiti.

Ricapitolando

1. Motivazione: definizioni e campo semantico


2. Le teorie di contenuto e di processo
3. La teoria dei bisogni di Maslow, teoria di McClelland e teoria dei due fattori
4. La teoria di Vroom, di Adams e di Locke
5. La giustizia organizzativa
6. Come motivare? Applicazione dei modelli

CAPITOLO 5 - La competenza
Sul vocabolario Zingarelli, essa viene definita la caratteristica propria di colui che dimostra
di saper svolgere in modo adeguato una certa attività, un certo compito; significa anche
sapersi adattare alle situazioni e muoversi nei contesti. Per gli psicologi del lavoro è la più
importante delle caratteristiche degli individui e viene studiata perché favorisce i processi di
valorizzazione delle persone e delle organizzazioni e il benessere  la competenza diventa
un elemento fondamentale per “saper stare al mondo”. La competenza a vivere non ha a
che fare solo con la professione, è una globale abilità cognitiva e affettiva che consente
all’individuo di essere e di stare al mondo; tutti gli individui hanno una competenza a vivere
declinata in modi differenti (l’esito della performance cambia), è fisica, biologica, cerebrale,
mentale, psicologica, polimorfa, cangiante (cambia con l’esperienza e con l’identità),
cognitiva e affettiva (nel considerare quello che l’individuo vuole fare e vuole essere queste
due componenti si fondono). Per la sua complessità è difficile dare una definizione e gli
studi a riguardo sono tanti e variegati (Bruner, Morin, Argyris); inoltre ogni persona
costruisce la propria competenza in modo unico, ma in ognuna si ritrovano gli elementi di
struttura e processo.
La struttura è considerata la parte strettamente cognitiva della competenza, è il macro
contenitore delle mappe cognitive presenti nella nostra mente che usiamo per ragionare su
come stare al mondo  tale macro mappa cognitiva la costruiamo allo stesso modo delle
singole mappe cognitive, secondo quella che per Bruner è una caratteristica fondamentale
della struttura della competenza a vivere cioè la componente semiotica. Essa ha a che fare
con l’uso del linguaggio per la costruzione dei simboli e dei significati (individuale) e con
l’interazione (relazionalità), ovvero le persone costruiscono la conoscenza del mondo
attraverso processi interattivi in un contesto culturale. La componente paradigmatica è più
razionale e ha a che fare con la progettazione e l’intenzionalità dell’azione, meno radicata
nel linguaggio e più sul ragionare su come le nostre intenzioni si trasformano in risultati.
Questo vuol dire che pensando alla competenza da un lato costruiamo conoscenza, relazioni,
scopriamo il mondo, dall’altro siamo in grado di riflettere sulla relazione tra intenzioni e
azione e comprendere in quale direzione stiamo andando. Questa è l’ossatura della
competenza, forzatamente staccata dal processo. Quest’ultimo costruisce e fa funzionare la
struttura, per questo sono interdipendenti, l’uno non può esistere senza l’altro. Viene diviso
in due componenti:
- individuale conversazionale, in cui si ritrovano azioni globali e immediate, comprende
gran parte della conoscenza tacita, la valutazione affettiva ed è orientata alla costruzione del
sé (elementi più immediati che orientano il modo di essere di una persona);
- sociale-culturale, che riguarda la forma logico-razionale della competenza, nasce da
conoscenze esplicite spesso condivise socialmente e nel momento in cui vengono richiamate
alla memoria per poter mettere in atto un’azione competente sono presenti a livello
razionale quindi implicano uno sforzo.
[Il processo è una declinazione della struttura.]
Seppure struttura e processo vanno nella stessa direzione per tutti, la combinazione di queste
due costruiscono la nostra competenza a vivere. Necessariamente un indicatore della
competenza a vivere è la prestazione, la condotta dell’individuo all’interno del contesto. La
competenza a vivere la portiamo in tutti i contesti della nostra vita, ma la psic. del lavoro
pone l’attenzione su cosa sia la competenza professionale in modo specifico, riconosce la
necessità di specializzarsi su alcune competenze che impattino sulla prestazione nel contesto
lavorativo stesso. In quest’ultimo si evince la necessità di chiedersi: guardiamo a una sola
competenza del lavoratore? No, perché non può fotografare la varietà di ruoli che svolge
l’individuo nel suo lavoro. Anche per quanto riguarda la competenza professionale non
esiste una definizione univoca, ma gli studiosi fanno riferimento ad essa come l’insieme di
differenti capacità di azione messe in atto dalla persona in un determinato contesto, sulla
base del processo di certi attributi (conoscenze, skills, atteggiamenti). La competenza
professionale, a differenza della competenza a vivere che è unica, si declina in varie
competenze che riguardano una mescolanza di conoscenze, skills, motivazioni,
rappresentazioni, credenze, valori ed interessi, cioè le differenze individuali; si associano ad
una prestazione riuscita; si articolano in una combinazione di elementi diversi che può
essere valutata e dimostrata nell’azione, differenziando le persone per livello di prestazione
 le organizzazioni possono inferire il livello di competenza. Nello studio di questo
costrutto, centrale nell’analisi dei contesti lavorativi, si indagano l’esito e la performance
ma anche gli antecedenti:
- caratteristiche di personalità  funzionamento psicologico della persona, relazione della
persona con sé, gli altri e l’ambiente, need for affiliation, locus of control, self-monitoring,
self-efficacy (guidano la modalità di agire, di presentarsi, i propri valori);
- capacità  abilità cognitive e sensoriali, capacità fisiche;
- caratteristiche socio-culturali  formazione scolastica e professionale, esperienza di
lavoro (a seconda delle esigenze della contingenza assumono forme differenti).
Gli studi sulla competenza lavorativa partono dal linguista Chomsky, il quale ha ritrovato
delle somiglianze con la competenza linguistica: parte dalla considerazione che nonostante
il parlante conosca le regole di grammatica della sua lingua non riesce sempre ad essere
efficace nella sua prestazione; Chomsky ci dice che la competenza di un parlante è definita
dalla sua competenza grammaticale. Parallelismo con la competenza professionale definita
l’insieme di capacità interne alla persona, indipendenti dalla natura del compito e dalla
situazione e da vincoli materiali a cui l’azione è rivolta. La teoria linguistica si occupa in
primo luogo di comprendere cosa vuol dire competenza linguistica, tenendo conto di un
parlante ascoltatore ideale, inserito in una comunità linguistica omogenea, il quale conosce
perfettamente la sua lingua e non è influenzato da condizioni grammaticalmente irrilevanti
quali le limitazioni di memoria, le distrazioni, i cambiamenti di attenzione e di interesse, etc.
Per considerare l’esecuzione linguistica effettiva dobbiamo considerare l’interazione tra vari
fattori e la competenza sottostante del parlante-ascoltatore non è che uno di essi  la
competenza è qualcosa che il parlante possiede o non possiede. Introduciamo così una
distinzione fondamentale tra competenza (la conoscenza che il parlante ascoltatore ha del
proprio linguaggio) ed esecuzione (l’uso del linguaggio in situazioni concrete); la prima
rimane sempre quella, la seconda cambia. Quindi, la competenza linguistica consiste nella
conoscenza che un parlante idealizzato ha della propria lingua e delle sue regole, la
competenza professionale è definita dall’insieme di capacità interne alla persona,
indipendenti dalla natura del compito e dalla situazione e dai vincoli materiali a cui l’azione
è rivolta; fa riferimento alle strutture mentali e alle funzioni cognitive nello svolgimento dei
compiti complessi. L’esecuzione è la messa in atto delle competenze in un contesto reale e
la più grande critica a Chomsky è che l’ambiente in questa teorizzazione è solo un posto in
cui eseguiamo il compito, passivo, non interagisce.

La competenza tacita di Polanyi:


Secondo l’autore, per competenza tacita si intende ciò che si conosce, ma non si esprime
perché non si può o sarebbe inutile farlo, “possiamo conoscere più di quanto possiamo
esprimere”. Essa consente di comprendere perché nelle organizzazioni alcune persone
diventano indispensabili perché con il loro modo di fare le cose vanno in un determinato
modo, spesso non sono in grado di spiegare perché e come fanno le cose ma quel modo di
fare dà valore aggiunto al funzionamento del gruppo e dell’organizzazione. Riconosce
l’unicità dell’individuo, una persona con competenza tacita diventa insostituibile. La
conoscenza tacita è strettamente legata all’individuo e dipende strettamente dal contesto, è
difficilmente formalizzabile ed esplicitabile.
La competenza tacita va distinta dalla competenza implicita, ovvero ciò che si può ma non
si vuole esprimere, di cui si è consapevoli e che si sarebbe in grado di comunicare. La
competenza tacita implica invece l’impossibilità di comunicare qualcosa perché è insito nel
modo di essere della persona, è alla base dell’expertise; è quel valore aggiunto che
l’individuo porta con sé in un contesto lavorativo.

La competenza riflessiva di Schön:


Il professionista, la persona competente a lavoro, non deve essere considerato mero
“risolutore di problemi strumentali” ma egli è artefice creativo e riflessivo del proprio agire,
delle proprie scelte e delle proprie mosse nei contesti di pratica. La routine non aiuta la
costruzione del professionista, perché egli è qualcosa di più di colui che prova a mettere in
atto una conoscenza in seguito a uno stimolo ambientale. La competenza riflessiva è la
capacità dell’individuo di fondere insieme problem solving e problem setting: ciò rende
l’azione unica e causa di apprendimento. Il professionista riflessivo prova a risolvere il
problema e lo fa in maniera contestualizzata: definire il problema significa riflettere su quali
sono le decisioni da prendere, quali i fini da raggiungere e con quali mezzi e tutto ciò
avviene attraverso un approccio problematico alla realtà  riflessione nell’azione mentre
la richiesta viene presentata dal contesto. Schön parla di contesti di pratica, in cui il
professionista trova la ragione del suo operare, che sono campi di esperienza problematica
da esplorare, indagare, trasformare, attraverso l’esercizio di un’“abilità artistica” connotata
da competenze emergenti in situazioni uniche, incerte e conflittuali  il sapere
professionale si costruisce nell’azione riflessiva ed è un sapere empiricamente situato. Ciò
che fa diventare professionisti competenti è l’effetto sorpresa: in situazioni nuove, che
fanno uscire dalla ripetitività e dalla routine, bisogna pianificare nuove modalità per
affrontarle. Esso consente all’individuo di mettere in atto la cosiddetta azione intelligente
che Schön definisce “conoscenza nell’azione”, l’esecuzione sapiente di un’attività pratica
che si concretizza nell’azione ed è difficile da verbalizzare (la riflessione nell’azione
avviene al momento, si risponde alla richiesta del contesto sul momento). L’esempio dei
musicisti di jazz: a seconda dello stimolo proposto dal contesto, dall’effetto sorpresa, si
provano a mettere in atto azioni competenti. Grazie a questo tipo di competenza, la teoria è
intesa non soltanto come conoscenza esplicita e formalizzata, ma come implicita e tacita.

La capacità negativa di Lanzara:


Dobbiamo a questo autore una rivoluzione nello studio delle competenze, perché non solo
riconosce il contesto come importante per la costruzione della competenza per far sì che la
persona metta in atto la sua competenza, ma fa un cambio di paradigma nello studio delle
competenze, cambia la concezione della natura e delle caratteristiche della competenza
professionale. Ha approfondito il costrutto sulla base delle teorie precedenti affermando che
essa si esplica grazie ad un’integrazione ecologica tra l’agire e il mondo in cui si manifesta.
La competenza ad agire è mossa da schemi cognitivi e si muove tra due elementi
contestuali, incertezza e cambiamento. Secondo Lanzara può essere definita una particolare
modalità di accoppiamento con il contesto  individuo e contesto si influenzano
reciprocamente. La competenza diventa qualcosa di mutevole proprio perché incertezza e
cambiamento vanno ad influenzare l’azione, è data dall’esistenza di una capacità che
attribuiamo all’attore e da un fenomeno di integrazione del comportamento con i dati e i
requisiti richiesti per svolgere un certo compito all’interno di un ambiente. Quindi, la
competenza risulta da un’integrazione funzionale tra l’individuo in termini di Sé (capacità
interne e processi cognitivi) e il comportamento che esplica, come l’ambiente agisce su esso
e l’individuo a sua volta cambia quel comportamento in risposta a nuove richieste. La
competenza non è solo dell’individuo, non è come con Chomsky io so delle cose, le metto
nel contesto e nell’esecuzione le posso sbagliare; qui sto dicendo che quelle azioni, quelle
skills, diventano competenza nel momento in cui entrano a far parte del contesto, che è
qualcosa di fondamentale e attivo. Il cambio di paradigma sta nel fatto che il contesto non è
passivo, è attore e co-costruttore della competenza. Lanzara parla di mente in azione in
quanto le competenze vengono esplicate e costruite nell’interazione ecologica con
l’ambiente; nella definizione di competenza vengono considerati gli aspetti processuali e
dinamici della competenza pratica, tipici dell’imparare facendo; le competenze vengono
sperimentate e verificate nell’ambito di relazioni sociali e sono il risultato di processi
complessi di socializzazione e apprendimento cognitivo. Nella costruzione di un sapere
competente Lanzara afferma la necessità di analizzare tre elementi fondamentali:
- programma per l’azione  fa riferimento alle interazioni tra individuo e ambiente, le
quali quando l’individuo mette la “mente in azione” vengono progettate, realizzate e corrette
mediante programmi per l’azione e meta progetti. Essi sono la capacità dell’individuo di
riflettere in maniera intelligente su come vuole mettere in atto le sue azioni e come è
necessario rispondere alle necessità del contesto. Quando ci interfacciamo col contesto ci
sono diversi modi in cui possiamo interagire: in questi casi siamo in grado di fare dei
programmi per l’azione che ci aiutano a vivere all’interno del contesto anche realizzando le
economie cognitive, che sono delle inferenze che abbiamo già costruito rispetto alle
caratteristiche dell’ambiente e che ci aiutano a mettere in atto un’azione intelligente perché
ci ritornano utili nel momento in cui non c’è tempo di pianificare, ma dobbiamo agire
nell’azione. Per Lanzara l’economia cognitiva non è negativa, anzi, rende più nota ed
efficiente l’azione, riduce l’ansia dell’imprevisto, ci consente di vivere in serenità
l’interazione funzionale con il contesto, ma penalizza la ricerca del nuovo.
- capacità negativa  si esprime nella capacità di andare oltre il noto, saper sostare
nell’incertezza per conosce il nuovo ed esplorare l’ignoto, accettare di essere vulnerabili agli
eventi. Questa capacità è fondamentale nelle situazioni di incertezza e di cambiamento
perché consente di essere proattivo nell’incertezza senza agire, è un’attesa attiva che nasce
dal voler capire come evolveranno le situazioni, non soffrendo l’impossibilità di agire ma
sfruttando la non azione come momento di conoscenza di ciò che sta avvenendo. Tant’è che
Lanzara prende questa definizione di capacità negativa dal poeta Keats: “quando un uomo è
capace di rimanere in incertezze, misteri, dubbi senza essere impaziente di pervenire a fatti
o ragioni”. La capacità negativa è una di quelle competenze fortemente richieste dalle
organizzazioni e riconosciuta come centrale per il lavoratore. Ci sono situazioni che non
possiamo controllare, che non riusciamo a cambiare con le nostre forze, e quindi che scelta
abbiamo?
1. Voler agire a tutti i costi e subire la frustrazione;
2. Rimanere in maniera attiva in ascolto per poter agire quando sarà il momento.
- sensibilità al contesto  carattere sociale della competenza. Apprendere una competenza
non è un’attività puramente cognitiva, le competenze sono riproducibili all’interno di un
sistema di relazioni e di pratiche socialmente e culturalmente riconosciute. Quindi la
competenza di un individuo in questa interazione ecologica si mostra e si sviluppa in un
dominio di azione specifico, nell’ambito di una determinata comunità sociale; con la
mediazione della comunità la persona apprende una serie di elementi che situano e
organizzano socialmente la competenza. La competenza è data da apprendimento
individuale e apprendimento culturale, che non sono scindibili l’uno dall’altro nella
costruzione della stessa.

La competenza professionale da una parte è un insieme di attributi connessi al posto di


lavoro, attributo delle persone, è un’esperienza personale e costruzione collettiva, che nasce
come partecipazione ad una comunità di pratiche professionali e dall’altra come riflessione
e valorizzazione di esperienze diverse e come accettazione dell’ignoto e del nuovo. Questo
costrutto è così complicato, per la plasticità e il cambiamento continuo sia del contesto che
dell’individuo, che sono stati definiti dei paradossi della competenza: appartiene
all’individuo ma è anche un’acquisizione del contesto, è incostante (cambia continuamente),
è volatile (difficile da operazionalizzare) ma ha un carattere ricorrente, si manifesta nel
momento dell’azione professionale ma non coincide con essa, si costruisce nelle interazioni
e relazioni, è presente a sostegno dell’azione professionale ma non è l’azione. Nonostante
sia “tutto il contrario di tutto”, la competenza va attenzionata in quanto costituisce una
chiave di volta importante nella comprensione della prestazione professionale.
Quando pensiamo alla competenza possiamo pensarla come una risorsa che ci permette di
pensare a noi come ad un potenziale da sviluppare. In conclusione, la competenza ha una
connotazione di potenzialità e nello stesso tempo è una sintesi di componenti: conoscenze
generali e di senso comune proprie e della comunità di appartenenza; conoscenze e abilità
tecniche di prestazione; capacità di trasferire tali abilità in compiti diversi; atteggiamenti e
attributi personali per affrontare e gestire ruoli lavorativi; abilità metacognitive (riflettere
nell’azione). Ha una connotazione situazionale  la selezione dei corsi di azione
competente si esplicita concretamente nei contesti di esperienza, ed è in stretta relazione con
le condizioni di esercizio dell’attività.

Chi è un professionista competente?


La nozione di competenza diviene ufficialmente utilizzabile senza specificazione riguardo:
le richieste dell’ambiente lavorativo, le capacità delle persone e i metodi usati per collegare
richieste e capacità. Potremmo dire che la competenza è una sintesi personale dell’individuo
che passa attraverso l’esperienza e si struttura in una particolare configurazione delle
cognizioni e delle abilità finalizzata alla soluzione dei problemi, all’azione concreta ed
efficace. È la sintesi personale garantisce una risposta competente. Ognuno di noi manifesta
la sua competenza nella sua capacità puramente individuale perché, appunto, si tratta di un
fattore umano, è un quanto tale di una risorsa fondamentale.
Proviamo adesso a capire come le competenze si calano all’interno del mondo del lavoro;
per fare ciò le dobbiamo misurare, comprendere. I tentativi di offrire modelli sulla natura
delle competenze professionali e sul loro valore per la comprensione delle condotte
lavorative si sforzano di semplificare l’insieme dei fattori implicati nella costruzione della
condotta lavorativa siano essi di natura personale, conoscitiva, esperienziale e situazionale.
Si distinguono:
- modelli razionalistici  vedono la competenza come un insieme ampio di attributi
usabili per svolgere l’attività lavorativa e le persone più competenti sono quelle che
usufruiscono di un insieme più ricco e numeroso di attributi;
- modelli interpretativi  secondo cui la competenza si esprime in funzione delle
contingenze situazionali e delle finalità perseguite dagli individui. La competenza come
sapere d’uso, che non esclude abilità e risorse personali, ma che si struttura in base a
obiettivi e situazioni specifiche.

Il modello delle competenze di successo


La competenza è una caratteristica intrinseca della persona riguardante aspetti
motivazionali, capacità, tratti personali, immagini di sé. Le competenze sostengono una
pluralità di azioni quotidiane, si evolvono in funzione dell’esperienza. Secondo McClelland,
la competenza non è un fattore di intelligenza, ma un insieme di schemi cognitivi e
comportamentali operativi collegati al successo nel lavoro  le competenze sono predittori
di successo dell’attività lavorativa.
Per quanto riguarda l’assessment e la misurazione della competenza ritroviamo la
Behavioral Event Interview focalizzata sull’individuazione dei best performers e delle
competenze ad essi attribuibili, gli schemi cognitivi e comportamentali causalmente
correlati al successo lavorativo.
Nel filone inaugurato da McClelland rientra il contributo di Boyatzis: la competenza è una
caratteristica sottostante la persona, che si traduce in una prestazione efficace e superiore nel
lavoro. Uno specifico comportamento è la manifestazione della competenza in risposta alle
richieste di una particolare posizione e di un particolare contesto organizzativo (quando
guardano l’azione di un lavoratore stiamo guardando la competenza come risposta alle
richieste del contesto lavorativo; competenze e azioni sono in relazione biunivoca). Il
modello di competenze proposto da Boyatzis ha due dimensioni, che distinguono differenti
tipi e livelli di competenza che vengono misurati e valutati: la prima descrive i tipi di
competenze, che sono associati a diversi aspetti del comportamento lavorativo e a diverse
capacità delle persone; la seconda descrive i livelli delle competenze, riconducibili a cinque
costrutti (*motivi, tratti, immagine di sé, ruoli sociali, capacità cioè skills).
Quali sono le caratteristiche di competenza che secondo Boyatzis dobbiamo considerare e
studiare per individuare le caratteristiche utili a cogliere la competenza relazionale?
Possiamo individuare macroaree:
- autoconsapevolezza, che ha a che fare con: una dimensione emotiva che riguarda il
riconosce le emozioni e i loro effetti personali; accurata valutazione di sé, conoscere i punti
di forza e debolezza; fiducia in se stessi e sentire di avere un valore e delle capacità;
- gestione di se stessi: adattabilità, flessibilità nell’affrontare gli ostacoli e il cambiamento;
autocontrollo, controllare le emozioni in funzione del gruppo di appartenenze o nelle norme
organizzate; coscienziosità, essere affidabile, prestare attenzione ai fatti; iniziativa e fedeltà,
essere proattivi e congruenti con valori, emozioni e comportamenti;
- consapevolezza sociale: empatia, comprendere gli altri e accogliere i loro interessi;
orientamento di servizio, riconoscere a andare in contro ai bisogni dell’utente;
consapevolezza organizzativa, percepire le relazioni di natura politica nell’organizzazione;
- capacità sociale: leadership, ispirare e guidare i gruppi; sviluppo degli altri, aiutare a
migliorare le prestazioni altrui; funzione catalizzatrice, gestire il cambiamento; influenza
sociale; creazioni legami; comunicazioni; collaborazione. Questi due macro-elementi non
devono avere gli stessi livelli per tutti, ma dipendono dal contesto lavorativo entro il quale
l’individuo si trova ad agire. Noi ci troviamo ad avere una serie di caratteristiche ed attributi
tipici del contesto lavorativo, poi sta a noi decidere quali indagare. Per quanto riguarda i
livelli di competenze di secondo grado, Boyatzis dice che gli individui dovrebbero essere
capaci di far sì che tutti quegli elementi si coniughino insieme ed entrino a far parte del
contesto lavorativo, la rilettura attraverso una serie di aspetti fondamentali dell’individuo:
- motivazione: attivazione, persistenza, direzione del comportamento verso gli obiettivi;
- tratti: influenzano la modalità diversa di reazione caratteristica di un individuo in risposta
ad una serie di stimoli equivalente;
- immagine di sé: percezione e valutazione della persona;
- ruoli sociali: ruolo professionale riscoperto in relazione alle aspettative degli altri;
- capacità (skill): abilità di una sequenza di azioni o in particolari situazioni in riferimento
agli obiettivi da perseguire.
Questo modello per una prestazione efficace sottolinea la relazione dinamica esistente tra
competenze, richieste del ruolo e ambiente organizzativo che determina l’efficacia
dell’azione o del comportamento.
Altro modello è quello di Spencer e Spencer, secondo cui la competenza è una
caratteristica intrinseca individuale collegata ad una performance efficace o superiore in
una mansione o in una situazione e che è misurata sulla base di un criterio prestabilito; essa
è parte integrante e duratura della personalità e causa e predice il comportamento e i risultati
ottenuti ed è misurabile. Per quanto riguarda le caratteristiche della competenza, gli studiosi
evidenziano una serie di aspetti che Boyatzis individuava nei livelli come aspetti che si
interfacciano con la competenza, ovvero skills, immagini di sé, conoscenze, tratti,
motivazioni.
A Spencer e Spencer dobbiamo, inoltre, la metafora dell’iceberg  quello che bisogna
considerare in termini di competenze per poter garantire una prestazione efficace non sono
soltanto skills e conoscenze (che rappresentano la punta dell’iceberg), ma noi dobbiamo
vedere alla globalità, a ciò che è nascosto: skills e conoscenze possono essere perfezionate
e migliorate, ma ciò che ci interessa è un sommerso che ha a che fare con quanto l’individuo
è “competente a vivere”, quanto sa fare una serie di cose, e quanto ha una serie di
caratteristiche che possono aiutarlo con lo svolgimento del lavoro (le cosiddette
competenze distintive). La prestazione ha origine dalla parte sommersa dell’iceberg e si va
a consolidare grazie alle skills e alle conoscenze acquisibili. Quindi le competenze soglia
sono necessarie per arrivare a una performance di livello accettabile (es. leggere e scrivere,
in generale conoscenza degli elementi di base per svolgere una mansione); le competenze
distintive invece concorrono a distinguere i soggetti superiori alla media.
[Competenze di realizzazione e operative, di assistenza e servizio, di influenza, manageriali,
cognitive, efficacia personale]
Partendo da questi elementi e da come si combinano, si può dire che la competenza è
visibile nel comportamento e che quest’ultimo, derivante dal possesso e dall’applicazione di
conoscenze teoriche, know-how specialistici, capacità, atteggiamenti ed orientamenti
mentali da parte delle persone, è in grado di produrre risultati prestazionali di natura
superiore.

La scuola francese
Il primo autore che cerca di discostarsi dal modello di Spencer e Spencer è Le Boterf che
propone il modello tripartito della competenza (saper essere e saper fare – attivazione e
mobilizzazione – bilancio delle competenze), volto al riconoscimento e alla riconoscibilità
delle competenze professionali in un’ottica di superamento della classificazione proposta
dagli autori che lo hanno preceduto  competenza come processo e non come la
classificazione di elementi che si combinano per rispondere alle esigenze del contesto, ma
come un insieme riconosciuto e provato di rappresentazioni, conoscenze, capacità e
comportamenti mobilizzati e combinati in maniera pertinente in un contesto dato. L’autore
riconosce che la competenza non è uno stato o una conoscenza posseduta, non risiede nelle
risorse che l’individuo possiede ma nella sua capacità di saper mobilitare e combinare tali
risorse  agire pertinente, cioè attivare le risorse nell’azione. Questo modello sottolinea
che la competenza non è una struttura, al contrario di Boyatzis e Spencer; è vista come una
caratteristica di un soggetto attivo che sa agire in maniera pertinente in un ambiente a sua
volta attivo che cambia continuamente, che lo stimola e lo mette in condizioni di agire in
maniera pertinente. La competenza quindi sta nella capacità di azione pertinente del
lavoratore e ha una qualità generativa, cioè si sviluppa e produce riflessività e continuo
apprendimento.
Per Le Boterf, lo sviluppo della competenza è un imparare ad imparare, ma questo aspetto
ha subito una semplificazione: l’autore ne fa un processo complesso che però viene ridotto
ad un “saper fare”. Riuscire ad acquisire competenza è complesso perché non si tratta solo
di apprendere, è un imparare ad apprendere in maniera adeguata e ciò significa che la
persona dovrebbe impegnarsi nell’apprendimento mettendo in gioco particolari risorse che
gli consentano di riflettere su quello che stanno facendo; l’esperienza, la competenza agita,
deve essere ripensata, ricostruita, attivare una riflessione sull’azione competente che
consente poi al lavoratore di far sì che quell’azione possa diventare uno schema cognitivo
più astratto, che lo metta in condizione di costruire modelli e piani d’azione  condizione
del saper essere e del saper fare (riflettere sulle azioni e sulle loro conseguenze). La
competenza nasce dalla capacità dell’individuo di attivarsi e mobilizzare le risorse. Per
categorizzare una competenza è necessario comprendere le sue componenti:
- disponibilità da parte dell’individuo di mettere insieme una serie di risorse che ha a
disposizione e saperle combinare;
- capacità da parte dell’individuo di ricercare risorse e conoscenze che hanno a che fare con
le richieste funzionali che arrivano dal contesto.
La competenza non è la semplice somma di un insieme di caratteristiche, ma è
l’integrazione complessa di quelle componenti all’interno di un contesto che permette
all’individuo di svolgere delle attività, risolvere problemi, prendere decisioni e valutare le
proprie azioni in maniera pertinente. Per capire se una persona è competente, secondo il
modello proposto da Le Boterf bisogna indagare la prima delle due componenti (avere
l’intenzione di combinare risorse e dei piani d’azione che consentano di farlo); la seconda
componente è altrettanto importante perché riguarda il saper combinare delle risorse in
maniera adatta al contesto, il quale cambia di continuo  attivare e mobilitare e farlo tante
volte quanto il contesto richiede. Altro aspetto è la necessità di operare un bilancio delle
competenze: consiste nella capacità del soggetto di ricostruire il proprio patrimonio di
esperienze e riconoscerlo attraverso una continua operazione di autovalutazione e recupero
di feedback presenti e passati.
Sulla linea di Le Boterf sono nate altre teorie. Secondo Meignant è necessaria la validazione
delle acquisizioni professionali: bisogna che le competenze non soltanto vengano modellate
e individuate ma vengano anche certificate, diventando in questo modo saper fare
operativo, utile e utilizzato all’interno dei contesti.

La scuola italiana
Sulla base della scuola francese, si è soffermata sulla necessità di studiare la competenza
come un fenomeno che ha pari caratteristiche individuali e sociali quindi la scuola italiana
vuole fortemente riconoscere il contesto nella competenza. L’esperto è colui che riesce a
mettere in atto più complessi programmi d’azione, ha una forte capacità negativa, ha un
pensiero critico e rivolto all’azione.
Pellerey fa un ulteriore passo avanti definendo la competenza un insieme di strategie, cioè
la “messa in uso”, il “saper agire” delle risorse cognitive, emotive, relazionali, sociali,
tecnologiche, professionali, indispensabili all’individuo per poter partecipare alla vita della
comunità nei diversi contesti organizzativi e nelle diverse situazioni. Adesso l’esperto è
anche colui che riesce a mettere in atto delle azioni competenti nel controllo e nella gestione
dell’emotività e la competenza è considerata elemento centrale per inserirsi in una comunità,
aiuta a parteciparvi, ad affrontare le diverse situazioni sociali. L’esperto non è chi ha skills e
abilità, ma chi riesce a programmare l’azione, avendo un forte pensiero critico rivolto
all’azione.
[La partecipazione richiede competenza.]

Il modello organizzativo delle competenze


Studi recenti hanno abbandonato una prospettiva individuale nell’analisi della competenza
per andare verso un modello organizzativo: ipotizzano che la competenza sia una qualità
emergente che l’organizzazione fa evolvere nel tempo.
Competenza in pratica  i modelli di competenze nascono per valorizzare individui e
organizzazione; mappatura di conoscenza, capacità e qualità (chi c’è, cosa sa fare e come);
l’azione professionale in contesti e situazioni specifiche diviene unità di analisi. Il modello
di un’organizzazione descrive la qualità professionale richiesta a tutte le persone che
lavorano o collaborano con essa. Tutto è finalizzato alla valorizzazione delle persone, al loro
reclutamento (recruiting) e allo spostamento di risorse, ad incrementare la formazione, ma
cosa più importante è finalizzato alla buona performance dell’organizzazione.

Ricapitolando

1. La competenza a vivere e professionale


2. Definizione di competenza
3. Competenza e competenze
4. Competenza linguistica, tacita e riflessiva
5. Competenza e capacità negativa
6. I modelli di competenze: razionalistici e interpretativi

CAPITOLO 7 - La soddisfazione lavorativa


Job satisfaction – Si tratta della misura di atteggiamento più utilizzata nella ricerca
organizzativa e nasce in un momento in cui la letteratura si stava concentrando sui principali
atteggiamenti che il lavoratore esperisce nelle organizzazioni e aziende, ma anche rispetto al
lavoro stesso (autonomia). Questo costrutto viene operazionalizzato come un set di
atteggiamenti favorevoli che il lavoratore elabora nei confronti del lavoro; le prime
definizioni hanno enfatizzato la soddisfazione lavorativa come atteggiamento generale,
ovvero credenze, sentimenti e tendenze all’azione che costituiscono un giudizio globale sul
proprio ambiente (mi piace o non mi piace il lavoro che sto svolgendo).
ABC degli atteggiamenti  parlare di soddisfazione lavorativa come atteggiamento
significa analizzare tre componenti: dimensione emotiva, cognitiva e comportamentale.
Facendo riferimento a queste tre dimensioni si parla di soddisfazione lavorativa come stato
emotivo positivo o piacevole (emozione) risultante dalla percezione (cognizione) della
propria attività lavorativa (comportamento). Più recentemente, i fattori che hanno
contribuito alla popolarità della soddisfazione lavorativa sono: il legame tra soddisfazione
lavorativa e life satisfaction; il proposito di limitare il turnover; gli effetti della
soddisfazione lavorativa sulla soddisfazione dei clienti. Per queste ragioni negli ultimi anni
un crescente numero di ricercatori sta proponendo di sostituire il costrutto di soddisfazione
lavorativa con quello di benessere psicologico. Inoltre, la soddisfazione viene oggi più
spesso considerata non tanto come una “causa” della produttività, bensì una variabile in
grado di mediare o moderare la relazione tra altre variabili antecedenti e la produttività.
È l’atteggiamento più studiato nell’ambito organizzativo, in primis perché è considerata una
misura/indicatore del benessere individuale del lavoratore e si pone in linea con le direttive
OMS, rispetto alle normative che tutelano il lavoratore all’interno dell’organizzazione;
importanza di indagare le fonti e le modalità di promozione della soddisfazione lavorativa.
Rispecchia fortemente una prospettiva di psicologia della salute positiva, la quale sostiene la
necessità di promuovere benessere in termini di quanto gli individui sono soddisfatti del
proprio lavoro  il benessere lavorativo non è concepito solo come assenza di malessere al
lavoro, ma come uno stato completo di buon funzionamento sul piano fisico, psicologico e
sociale. Il movimento Human Relations (Mayo, 1993) si è interessato alla misurazione degli
atteggiamenti e quindi all’operazionalizzazione delle variabili psicologiche; i lavoratori
soddisfatti sono più motivati, più propensi a fornire prestazioni quantitativamente e
qualitativamente migliori  nonostante numerosi studi abbiano confermato che la
soddisfazione lavorativa non incida direttamente sulla prestazione, essa aumenta la
motivazione e questo ricade sulla qualità della performance. La correlazione più forte che
trovano Judge e coll. tra soddisfazione e prestazione è di 0.30. La studiamo anche per altri
motivi: è molto vicina al sentire comune, è misurabile tramite questionari, c’è la possibilità
di trarre indicazioni per la qualità della vita lavorativa, c’è la possibilità di confronto tra
diverse culture e ambienti. Inoltre, gli studi affermano l’esistenza di una relazione tra
soddisfazione lavorativa e soddisfazione per la vita (spillover), cioè altri contesti.
Evidenze empiriche:
- molti studi si sono interessati allo studio della soddisfazione lavorativa in ambito sanitario
e si è visto che operatori sanitari soddisfatti hanno pazienti con una migliore compliance e
con maggiore soddisfazione per le cure;
- la soddisfazione lavorativa incide sul livello di qualità della vita del lavoratore;
- influenza il commitment affettivo che a sua volta influenza la prestazione;
- studi in ambito sanitario, scolastico, studentesco hanno evidenziato come la soddisfazione
lavorativa sia correlata sia con il benessere psicosociale dei lavoratori sia con altre sfere
come l’autoefficacia percepita nello svolgimento di un compito.
Alcuni autori cominciano ad interrogarsi sull’eventualità che esistano diverse soddisfazioni
e così si è arrivati alla definizione di soddisfazione relativa, che si riferisce a differenti
aspetti dell’esperienza di lavoro in un’organizzazione. Van Saane et al. e altri autori hanno
individuato delle macro aree della soddisfazione  contenuti del lavoro (cosa devo fare),
autonomia, crescita, riconoscimento economico, carriera, supervisione, comunicazione,
collaborazione, significato, carico di lavoro, richieste. Vengono individuate in base al
contesto, tant’è che Cortese in Italia, in riferimento alle dimensioni di soddisfazione
relativa, parla di: compito e sviluppo, organizzazione e comunicazione, clima, contratto
psicologico, immagine  reputation rispetto al proprio lavoro, cosa pensano gli altri e la
cultura di riferimento del lavoro e rispetto a quanto l’organizzazione è stimata dal contesto,
contesto (in senso strutturale ergonomico e in termini relazionali), valutazione e carico di
lavoro.
Per quanto riguarda la letteratura sul costrutto, i primi ad occuparsi di soddisfazione
lavorativa lo hanno fatto dal punto di vista cognitivo ovvero gli approcci della Social
Cognition: si sono occupati di soddisfazione in termini di valutazioni cognitive e hanno
provato a rispondere alla domanda “quali sono le modalità con cui le persone valutano gli
elementi in gioco per poi decidere il proprio livello di soddisfazione?”. Il modello cognitivo
più importante è il facet model proposto da Lawler (1973), modello cognitivo-percettivo
che considera la soddisfazione il risultato del confronto tra ricompense ricevute e
ricompense attese dell’individuo  percezione di quanto è dovuto (A) / percezione di
quanto ricevuto (B). La stima delle ricompense attese si costruisce prima di tutto valutando
ciò che si ritiene di offrire, dopodiché si confronta l’input con le ricompense ottenute da altri
scelti come riferimento e infine si valutano le caratteristiche del lavoro in sé (difficoltà,
responsabilità ecc.). Se le due percezioni coincidono (A=B), il lavoratore si riterrà
soddisfatto; se quanto ricevuto non lo soddisfa perché riteneva di ottenere di più (A>B) sarà
insoddisfatto; viene presentata anche una condizione in cui il lavoratore sa di aver dato un
tot e riceve di più di quanto dato  in questo modo si crea una condizione di disagio,
perché c’è uno scostamento tra quella che si percepiva doveva essere la propria ricompensa
rispetto a quanto si è dato e quello che effettivamente si è ricevuto (l’iniquità positiva nel
caso della soddisfazione non contribuisce a migliorarla). L’individuo cerca di colmare tale
disagio ad esempio cercando di dare di più, quindi mettendo in atto comportamenti di
cittadinanza organizzativa, oppure facendo presente la situazione richiedendo una
valutazione alternativa.
[Somiglianza col modello dell’equità percepita di Adams  confronto con gli altri e
bilancio tra input e output (qui il confronto è tra ciò che si dovrebbe ricevere e ciò che viene
ricevuto).]
I modelli disposizionali sono quegli approcci centrati su aspetti della personalità che
influenzano l’atteggiamento positivo nei confronti del lavoro. Hanno provato ad analizzare
quelle situazioni in cui il contesto è uguale per tutti e le richieste e le condizioni lavorative
sono le stesse, ma le persone esperiscono soddisfazioni diverse, si chiedono a che cosa
dobbiamo attribuire tale fenomeno; partono dall’esigenza di spiegare le molte differenze
individuali nella soddisfazione lavorativa  le caratteristiche della persona come
caratteristiche del self, capacità di tollerare lo stress, atteggiamenti verso la vita, possono
influenzare la percezione positiva nei confronti del proprio lavoro. In questo approccio gli
studi sono tanti:
- Locke e Latham si sono concentrati sul ruolo della self-efficacy come fattore di differenza
individuale  quando le persone a parità di contesto si sentono più capaci di svolgere un
determinato compito risultano più soddisfatte, mentre quando si sentono meno efficaci
(percezione di autoefficacia più bassa) saranno meno soddisfatte;
- Warr et al. individuano un tratto stabile che impedisce la percezione della soddisfazione
lavorativa, l’affettività negativa (porsi sempre in un’accezione critica e negativa);
- Il modello più applicato e con più evidenze empiriche è il core self-evaluation model 
Judge et al., a livello di caratteristiche di personalità che influenzano la soddisfazione
lavorativa, parlano di un “core” (CS-E) cioè un insieme di variabili che va a costruire questo
macro-tratto di personalità degli individui, il quale andrà ad incidere sulla soddisfazione:
autostima, autoefficacia, assenza di pessimismo, locus interno. Le persone che hanno alti
livelli di queste variabili sono coloro che riusciranno a gestire meglio i contesti lavorativi e
risulteranno essere più soddisfatti del proprio lavoro. Questo core va ad incidere anche sulle
percezioni delle caratteristiche del lavoro, ciò significa che alti livelli delle variabili portano
a percepire meglio il lavoro, a vederlo come meno oneroso e poiché tali percezioni sono un
elemento che permette la costruzione della soddisfazione lavorativa questo andrà ad incidere
indirettamente anche sulla soddisfazione nella vita. Nell’evoluzione del modello, Judge
introduce un’ulteriore variabile: è vero che il core è funzionale al buon funzionamento del
lavoratore nel contesto organizzativo e lavorativo, ma bisogna tenere in conto il ruolo
dell’organizzazione e del lavoro in sé. Il core potrebbe avere un effetto migliore sulla
soddisfazione lavorativa se al lavoratore vengono forniti degli obiettivi stimolanti (rimando
alla teoria del goal setting).
Critiche ai modelli di personalità: essi mettono in secondo piano le interazioni tra persona e
ambiente e questo ha notevoli implicazioni sul ruolo dell’organizzazione, come se non
avesse più peso né responsabilità sugli esiti per i lavoratori e il benessere/la soddisfazione
dipendesse solo da caratteristiche individuali (l’unica cosa che può fare è dare obiettivi
stimolanti?).
Per ovviare a questo grande limite, altri studiosi hanno posto la loro attenzione sulle
caratteristiche del lavoro e sulle varie componenti del lavoro che hanno una rilevanza per il
lavoratore in termini di costruzione della soddisfazione lavorativa/piacevolezza, dando vita
agli approcci situazionali. Vengono presi in considerazione aspetti concreti e tangibili (es.
la paga, le promozioni, accesso a corsi di formazione), aspetti legati al lavoro in sé
(autonomia, feedback, job design  costruzione dell’ambiente e dei compiti di lavoro),
aspetti sociali (qualità delle relazioni, clima organizzativo) e altri aspetti come sicurezza,
stabilità ed equità percepita.
Uno dei modelli più importanti è il modello delle caratteristiche del lavoro di Hackman e
Oldham, datato ma attuale, che non riguarda solo la soddisfazione lavorativa ma anche la
motivazione. Questi studiosi tentano di capire come alcune caratteristiche del lavoro
impattano sugli stati psicologici critici e come questi impattano sugli esiti legati al
lavoratore stesso. Il modello ci dice che queste componenti, caratteristiche del lavoro e
dell’individuo e gli esiti del lavoratore, sono strettamente interconnesse tra loro. Le
caratteristiche/dimensioni del lavoro attiveranno degli aspetti implicati nella costruzione
della percezione di soddisfazione lavorativa…
- abilità: intesa come il grado di complessità del compito e di abilità richieste dal lavoro;
- identità del compito: possibilità del lavoratore di seguire l’intero processo del lavoro (se è
chiaro in cosa consiste il lavoro questo sarà positivo per la costruzione della soddisfazione);
- significato del compito: quanto il compito è significativo all’interno del processo
lavorativo, qual è il peso che ha globalmente rispetto al funzionamento dell’organizzazione;
- autonomia: il grado di discrezionalità nel decidere metodi e tempi del proprio lavoro
(partecipazione);
- feedback: quanto un lavoratore ha accesso alle informazioni circa la qualità del lavoro
svolto e i risultati raggiunti (l’organizzazione deve restituire qualcosa al lavoratore,
altrimenti l’impatto sul significato del lavoro sarà negativo e di conseguenza su tutto il
processo).
Queste macrocategorie vanno anche a costruire il potenziale motivazionale di un
individuo: quanto più sono accentuati quegli elementi tanto più il lavoratore sarà
potenzialmente motivato. Sono un’idea di quello che per il lavoratore è il suo lavoro, fanno
sì che lo reputi più o meno importante, influenzano la percezione di responsabilità e la
conoscenza dei risultati. Alcuni però hanno un peso maggiore di altri, cioè hanno un alto
valore moltiplicativo (autonomia e feedback, se manca una delle due viene meno la
motivazione); nel caso di abilità, identità del compito e significato del compito non è
necessario che ci siano tutte e tre per attivare il potenziale motivazionale.
Il modello sottolinea che questo processo non è diretto, perché la valutazione di quegli
elementi è filtrata da stati psicologici critici (reazioni individuali alle caratteristiche del
lavoro):
- significato del lavoro  l’individuo deve percepire il proprio lavoro come importante;
- responsabilità  deve essere certo di rispondere personalmente dei risultati ottenuti;
- conoscenza dei risultati  strettamente connessa alla responsabilità; l’individuo deve
sapere se gli esiti del lavoro sono soddisfacenti oppure no.
Sulla base delle caratteristiche percepite del lavoro filtrate dagli stati psicologici critici si
costruisce il risultato lavorativo del lavoratore in termini di performance, soddisfazione
lavorativa e motivazione; il modello propone altre due varabili di esito cioè la soddisfazione
nella vita e il senso di efficacia. Per far sì che si attivi tutto il processo è necessario che ci
sia un bisogno di crescita medio alto, che significa sentire la necessità di voler migliorare
nel proprio lavoro; successivi studi hanno individuato un altro aspetto che influenza la
relazione tra i tre blocchi di variabili, la soddisfazione del contesto.
[Core Job Characteristics  Critical Psychological States  Outcomes]
I modelli basati sulle emozioni si concentrano sul ruolo della componente emozionale nella
costruzione della soddisfazione lavorativa. L’Affective events theory di Weiss e
Crompanzano si concentra su come gli eventi quotidiani che il lavoratore si trova ad
esperire nello svolgimento del suo lavoro, nelle relazioni con gli altri e con i clienti,
influenzano le emozioni, che a loro volta incidono sulla soddisfazione; gli studi concordano
su un aspetto in particolare  eventi che generano effetti negativi sono quelli che fanno sì
che gli individui esperiscano bassi livelli di soddisfazione lavorativa ed è vero anche il
contrario (effetti positivi / alta soddisfazione). L’elemento innovativo risiede nel fatto che
gli effetti negativi hanno un peso maggiore rispetto a quelli positivi, sono più pregnanti,
anche se sono sporadici e quelli positivi si verificano di norma; bisogna porre particolare
attenzione agli eventi negativi che generano emozioni negative per la costruzione del
benessere all’interno di un’organizzazione.
Antecedenti della soddisfazione lavorativa
Per quanto riguarda le caratteristiche del lavoro vanno attenzionati: ruolo (ambiguità e
conflitto di ruolo incidono in maniera negativa sulla soddisfazione), conflitto lavoro-
famiglia, controllo sul lavoro, orari (orario lungo e part-time, l’importante è che ci sia
congruenza tra richieste dell’ambiente e le possibilità dell’individuo), politiche delle risorse
umane (quali sono le politiche a favore dei lavoratori, qual è il contratto psicologico),
relazioni con management e colleghi. Tra le caratteristiche individuali ritroviamo: fattori
genetici e tratti di personalità. Non sono invece antecedenti, quindi non sono correlati alla
soddisfazione lavorativa l’ammontare della retribuzione, il carico di lavoro (non
direttamente) e il lavoro notturno.
Fino ad ora la soddisfazione lavorativa è stata presentata come variabile di esito, ma
sappiamo che influenza anche altre variabili ed aspetti. Abbiamo visto che questi aspetti
sono segnali di allarme di cattivo funzionamento dell'organizzazione. Tra questi
ritroviamo:
- assenteismo  la soddisfazione lavorativa rafforza il valore della presenza, mentre
l’insoddisfazione porta all’assenza come protesta implicita e ha anche basi motivazionali;
- turnover  le persone che sono insoddisfatte del proprio lavoro per lunghi periodi
tendono ad abbandonare l’organizzazione e ciò porta alla riduzione dell’efficienza, costi per
selezione e formazione del personale, ha delle conseguenze sul clima organizzativo e degli
effetti sulla persona;
- burnout  c’è una correlazione negativa con le dimensioni di burnout (quindi la
soddisfazione lavorativa è un fattore di protezione dal burnout ma bassi livelli di questa
possono condurli a una condizione di burnout).
Tra gli strumenti per la misurazione della soddisfazione lavorativa ritroviamo sia scale
monodimensionali che guardano alla globalità, cioè pur considerando una serie di
caratteristiche specifiche la restituzione finale sarà sempre quella di una soddisfazione in
termini generali, come il Minnesota Satisfaction Questionnaire; e scale multidimensionali,
che vanno a misurare aspetti relativi della soddisfazione ma in modo generale oppure
specifico  strumenti generali adatti a tutte le professioni es. Job Satisfaction Survey;
strumenti specifici tipici di alcune professioni es. Index of Work Satisfaction. La letteratura
per questo costrutto autorizza ad utilizzare un item singolo: In termini complessivi quanto si
sente attualmente soddisfatto/a del suo lavoro in questa organizzazione?, il quale può
restituire in termini globali la misurazione della soddisfazione lavorativa.

Ricapitolando

1. Definizione di soddisfazione lavorativa


2. Implicazioni per gli ambiti lavorativi
3. Le origini
4. Soddisfazione generale e relativa
5. Modelli cognitivi, centrati su aspetti di personalità, approcci situazionali e modelli basati
sulle emozioni
6. Antecedenti e conseguenze della soddisfazione lavorativa
7. Gli strumenti

CAPITOLO 11 - La carriera
Interessa lo psicologo del lavoro perché si occupa dell'interazione individuo-contesto di
lavoro, quindi del percorso che l’individuo vive nel momento in cui comincia la sua carriera
lavorativa, già quando comincia a costruire dei percorsi e delle idee di cosa vorrà fare da
grande, fino al pensionamento. La psicologia delle risorse umane si focalizza su alcuni
passaggi come l'ingresso nel lavoro, la selezione del personale, l'outplacement. Questo ha a
che fare con una branchia specifica che è la psicologia della carriera: la vita lavorativa
dell'individuo diventa attenzionata dalle teorie psicologiche. È un costrutto complesso da
definire poiché è strettamente connesso alla contingenza. Lo sviluppo della carriera degli
individui cambia continuamente a seconda della situazione economica, sociale e politica del
contesto in cui sono inseriti. La carriera è un costrutto che interessa tutte quelle discipline
che hanno a che fare con il mondo del lavoro, ad esempio l’economica vuole capire come la
carriera influenza la performance, le scienze organizzative, l’ingegneria gestionale (project
management); in ambito psicologico ce ne occupiamo perché ha molto a che fare con come
l’individuo costruisce l’identità professionale e come interagisce col contesto lavorativo. Per
gli psicologici la carriera è una sequenza di attività della sfera lavorativa legata ad
atteggiamenti, attitudini, valori e aspirazioni individuali (Deutsch e Williams); come
percorso individuale, che ha a che fare con la crescita personale, è regolata da una serie di
dimensioni psicologiche coerenti con la costruzione dell’identità personale e sociale e con
l’immagine di sé. Il primo focus quando parliamo di carriera è concentrato sul capire come
l'individuo articola questo percorso individuale, e come la costruzione dell'identità personale
è influenzata e influenza questo percorso. Parliamo di carriera pensando all'individuo
all'interno di un contesto lavorativo, legata ai suoi atteggiamenti, attitudini e aspirazioni, per
cui prende forma dall’interazione tra le potenzialità del singolo e le opportunità del
contesto/contingenza.

La teoria di Super – teoria evolutiva del ciclo di vita un po’ superata ma che consente di
riflettere sulla prima macroarea. La carriera infatti così come tutti gli altri costrutti della
psicologia del lavoro, non è sempre uguale, ma cambia incontrandosi con la contingenza.
Questi fattori individuali e sociali sono influenzati dal mercato del lavoro, dalle istituzioni,
dalle concezioni culturali rispetto ai percorsi lavorativi che la società ha a seconda del
periodo storico. Dal punto di vista della psicologia del lavoro, Super voleva capire come le
persone integrano il lavoro nella loro vita e come l’esperienza lavorativa si inserisce nello
sviluppo individuale. Questa teoria è stata definita rainbow career theory: nello studio di
come la carriera si inserisce nella vita delle persone, Super si focalizza su due elementi,
l’arco di vita e lo spazio di vita (life span – life space); queste ultime possono essere
definite come un processo fluido che si evolve nel corso della vita e si declina come un
tentativo costante di implementare (anche in senso cronologico) differenti concetti di sé
nelle decisioni riguardanti l'ambito formativo e professionale. Gli individui percorrono un
arco di vita, una serie di stadi con diverse fasi che si combinano e man a mano si dividono
in spazi di vita, cioè ruoli specifici da conciliare nel corso della vita.
Life span – maxi cicli di sviluppo  crescita (infanzia), esplorazione (adolescenza),
stabilizzazione (24-44 anni), mantenimento (45-65 anni), declino (dopo 65 anni).
Life space – ruoli (a seconda del maxi ciclo di sviluppo in cui ci si trova si andranno a
ricoprire dei ruoli predominati rispetto agli altri che vanno conciliati)  bambino, studente,
donna e uomo nel tempo libero, lavoratore, cittadino, genitore, coniuge. La conciliazione/il
bilanciamento dei ruoli è un elemento importante sia nello sviluppo personale che di
carriera. Super sottolinea il ruolo dell'identità lavorativa già all'inizio della fase di
esplorazione cioè in adolescenza. Man mano che si va avanti nel percorso questa carriera
cambia i ruoli che l'individuo si trova a rivestire nei cicli di sviluppo, cambia le traiettorie e
le priorità. Questa è una scalata cronologica, che ci presenta delle fasi fino ad arrivare a una
stabilizzazione, dopo di che la carriera diventa un elemento stabile della persona che va
mantenuta nel tempo fino a diventare un elemento marginale.
Possiamo concordare con Super che essendo la carriera un aspetto che ha a che fare con la
costruzione del sé essa cambia e ha più o meno spazio a seconda del ciclo di sviluppo, ma il
limite della sua teoria è che propone una gerarchia delle tappe imbrigliata in fasce d’età, che
non consente margine di movimento e non prende in considerazione la contingenza 
quello che poteva essere vero negli anni ’60 col boom economico non è valido oggi.
A Super dobbiamo il riconoscimento dell’importanza di elementi tipici della psicologia del
lavoro in riferimento alla carriera come la maturità di carriera (si sviluppa durante il
mantenimento). Essa dipende dalla capacità dell’individuo di realizzare un compromesso tra
i diversi ruoli che ricopre, tra i diversi concetti di sé e tra le diverse realtà con cui si
confronta; tra i compiti di sviluppo che ci si aspetta da lui e le risorse cognitive e affettive a
sua disposizione per affrontarli  riuscire a bilanciare queste risorse tra i diversi ruoli che
in quel momento della vita ci troviamo a rivestire dipende da un insieme di elementi sociali
e individuali che devono combinarsi in maniera adeguata. Al contrario di Super, che
afferma che l’apice della maturità di carriera si ha nella stabilizzazione, essa avviene in
diverse fasi della vita dell’individuo a seconda della situazione lavorativa e molti studiosi di
sviluppo hanno affermato che anche nella fase iniziale di una carriera si può raggiungere un
livello di maturità. Punti importanti della teoria…
- la vita è una sequenza di life stage entro i quali gli individui sviluppano ruoli, abilità,
interessi e il proprio concetto di sé;
- all’interno del ciclo di vita sono individuabili dei punti di decisione che suddividono il
ciclo stesso in micro cicli di presa delle decisioni di carriera;
- la maturazione professionale è vista come sviluppo e implementazione del proprio
concetto di sé, risultante dall’interazione con l’ambiente di riferimento;
- l’adattamento positivo al lavoro, la soddisfazione lavorativa e di carriera sono
proporzionali alla coerenza tra concetto di sé e caratteristiche della carriera intrapresa.
La critica più grossa è proprio la proposta di stadi così ristretti che non sono conciliabili con
la concezione di mondo del lavoro che abbiamo oggi. Ad esempio la fase di esplorazione in
cui il giovane si mette alla prova in un arco di tempo che va fino ai 25 anni, è una fase
provvisoria, che porta a varie transizioni, che fa sì che l'individuo si affacci al lavoro. In
questa fase il giovane, impegnato nel mettersi alla prova, si confronta con i propri limiti e le
opportunità professionali che l’ambiente esterno offre. Tuttavia è poco realistico pensate che
un giovane di 25 anni possa concludere cosi un percorso all'oggi molto complicato. Nasce
così per sostenere ma anche superare alcuni limiti della teoria la Career Construction Theory
di Savickas. Gli individui costruiscono dei ruoli di vita, tra i quali la carriera lavorativa, e si
interfacciano con delle situazioni che gli permettono di costruire esperienza, di rafforzare
relazioni e interrogarsi su cosa preferiscono fare, attribuiscono significato. Questo non è
strettamente cronologico, sono significati che vengono attribuiti dalle relazioni
interpersonali. Savickas ci dice che i percorsi di carriera non sono sequenziali, non
necessariamente vengono vissuti cronologicamente. Sicuramente nel life-span ci saranno dei
momenti in cui i ruoli, le situazioni, etc, costruiranno l'identità professionale, ma la maturità
di carriera dipende da una serie di elementi.
Al modello stadiale di Super subentra così la concezione attuale di carriera, le transizioni di
carriera, non più vista come una scalata verso l'alto ma come una traiettoria, un insieme di
passaggi e scambi tra individuo ambiente che gli consentono di costruire ruoli, identità e
preferenze, innanzitutto in una direzione orizzontale, e poi con il presupposto che i cicli di
carriera possono ricominciare, che in diverse fasi di vita si può mettere in discussione
quanto costruito per ricominciare daccapo. Si tratta di una visione dello sviluppo meno
lineare che rappresenta la vita come una traiettoria, la cui configurazione dipende dai
contesti molteplici e dinamici in cui si iscrivono i percorsi individuali e dagli
eventi/momenti di rottura che l’individuo incontra nel corso della vita, definiti transizioni,
momenti cruciali e di svolta nello sviluppo dell’adulto. In relazione alla vita lavorativa, il
passaggio da una prospettiva stadiale a una transizionale si è avuto perché la carriera non è
più concepita come una “scalata” all’interno della stessa organizzazione, ma piuttosto come
trasversale alle organizzazioni, l’individuo cambia frequentemente contesti lavorativi nella
sua crescita mettendosi in discussione. Se questo è vero utilizzare la teoria di Super per
spiegare i passaggi delle fasi di carriera è piuttosto complesso e fuorviante. Nascono così
una serie di modelli che cercando di concentrarsi sullo studio della carriera come traiettoria,
nella quale l'individuo si muove lungo un percorso ed entra a un certo punto in contatto con
le organizzazioni, ma è una traiettoria che ci accompagna in tutto il percorso, non legata alle
esperienze in uno specifico ambito, ma che esce fuori dalle organizzazioni, perché la vita
all'interno di queste ultime è molto più precaria. La carriera trasversale porta l'attenzione su
quei momenti cruciali che l'individuo deve necessariamente affrontare quando si incontra
con il contesto lavorativo.
La più riconosciuta è il ciclo di transizione di Nicholson – l’autore afferma che ogni
qualvolta l’individuo si trova a cambiare contesto e a mettere in discussione il suo bagaglio
di conoscenze e competenze attraversa delle fasi:
- preparazione  prima fase che precede l’assunzione, quindi l’ingresso del lavoratore
all’interno dell’organizzazione, fatta di aspettative, desideri, bilancio delle risorse, in cui
l’individuo riflette su quali sono le scelte e le strategie da mettere in atto; l’individuo si
prepara per poter entrare nell’organizzazione;
- incontro  la relazione individuo-organizzazione che solitamente avviene nel colloquio e
che serve ad entrambi per conoscere cosa vogliono; potrebbe concludersi con la non
assunzione o con l’entrata nell’organizzazione; le aspettative e le risorse dell’individuo si
incontrano con il contesto lavorativo e comincia ad attribuire significato alle proprie azioni
e a comprendere quali sono le strategie per adattarsi al nuovo lavoro (copying e sense
making);
- aggiustamento  comincia il percorso dell'individuo che deve poi relazionarsi in maniera
attiva con il contesto, si attiva un percorso di esplorazione interna per capire quali sono i
ruoli che egli deve ricoprire al suo interno; fase di adattamento alle funzioni richieste al
lavoratore in base alle risorse che ha a disposizione, sia individuali che dell’organizzazione,
in cui egli trova la sua personale modalità di svolgere il proprio lavoro, sarà in grado di
sviluppare relazioni, di mettere in atto cambiamenti personali e di mettere in discussione il
professionista che era prima;
- stabilizzazione  subentra quando la fase precedente si è consolidata. Il lavoratore sarà
pronto e concentrato a svolgere il compito, entrerà in una routine e a livello psicologico si
avranno commitment ed efficacia.
Questo ciclo si ripeterà ogni volta che si cambia contesto lavorativo e quindi ha delle
implicazioni nello sviluppo di carriera. Si basa su degli assunti: i cicli sono cumulativi,
l’esperienza delle transizioni precedenti costruisce la transizione successiva (recursion); le
diverse fasi sono tra loro interdipendenti, l’una è strettamente connessa e influenzata
dall’altra (interdependence) ma allo stesso tempo sono discontinue, cioè ogni fase ha dei
compiti, dei problemi e delle soluzioni specifici che la caratterizzano (discontinuity).
Nonostante le transizioni precedenti permettano l’elaborazione di quelle successive, non si è
mai pronti ad una nuova transizione perché ci sono sempre elementi di novità che rimettono
in discussione tutto  è un ciclo infinito, ma ricominciare daccapo non vuol dire azzerare
tutto. I cicli successivi saranno influenzati dalle esperienze precedenti, dagli aspetti che
caratterizzano le situazioni che l'individuo ha già vissuto.

L’approccio sviluppo-contesto – in questa prospettiva le transizioni professionali vengono


interpretate considerando sia il percorso evolutivo dell’individuo sia le numerose e
complesse relazioni tra individuo e contesto nell’arco della vita. Vondraceck riprende gli
assunti del modello di sviluppo di Bronfenbrenner, che distingue quattro livelli di contesti in
cui l’individuo si muove nella costruzione della sua identità, e prova ad ipotizzare come
questi sistemi hanno a che fare con lo sviluppo della carriera di un individuo,
influenzandolo direttamente o indirettamente…
- microsistema  contesti più prossimi, in particolare la famiglia, in cui la formazione delle
intenzioni future verso il lavoro è influenzata dalla struttura (es. numero di componenti) e
dalla qualità delle relazioni;
- mesosistema  insieme delle interazioni tra microsistemi, dove il focus è sulle transizioni
ecologiche che consentono di governare la simultanea appartenenza a più contesti (famiglia,
lavoro, scuola);
- esosistema  strutture sociali esistenti sul territorio che influenzano il funzionamento dei
sistemi minori, contesti a cui l’individuo non partecipa direttamente, come il mercato del
lavoro, ma che influenzano lo sviluppo professionale e personale (relazione tra le
caratteristiche della cultura professionale dei genitori e i valori dei figli);
- macrosistema  sistema socioeconomico e quadri ideologici che sostengono le diverse
culture, influenzano le scelte professionali attraverso le rappresentazioni sociali delle
professioni.
Questo modello ci fa capire come nelle scelte di carriera il contesto ha un potere forte,
l’individuo agisce e compie delle scelte, costruisce la sua carriera interagendo con quei
contesti.
Il sociocognitivismo – anche questo approccio, in una prospettiva diversa in quanto mette
in primo piano le valutazioni cognitive dell’individuo, riconosce il ruolo fondamentale del
contesto nella costruzione dell’identità professionale; allo stesso tempo il soggetto è attivo
nel raggiungimento degli obiettivi, nelle sue scelte di carriera non è vittima della
contingenza ma è dotato di agency cioè la capacità di cambiare e interagire col contesto,
intervenendo e modificando il corso degli eventi. Il sociocognitivismo prova a interrogarsi
sulla carriera partendo da come gli individui sviluppano gli interessi di carriera, su quali
possono essere gli elementi che fanno sì che gli individui effettuino delle scelte piuttosto
che delle altre. Come valutano i propri livelli di performance?
Secondo Bandura, l’agentività è alla base della costruzione delle azioni dell’individuo. Nel
corso della loro vita le persone sono agenti attivi e non semplici spettatori  l’uomo è un
“agente” dotato di iniziativa, in grado di anticipare l’insorgenza di problemi, la necessità e i
cambiamenti, ed è attivo nel modificare il corso della sua vita ed i sistemi sociali che
organizzano, guidano e regolano la vita sociale nel suo complesso. Nella teoria sociale
cognitiva di Bandura si parla di agentività e causazione triadica: se si definisce l’individuo
un agente attivo si riconosce che tutto ciò che egli è interagisce con l’ambiente sociale e si
esplica nel comportamento/performance; persona, ambiente e comportamento si influenzano
reciprocamente. Quindi, l’individuo che costruisce la sua carriera è in grado di muovere
degli elementi e di modificare il contesto. Elemento centrale di questa teoria è il costrutto di
self-efficacy  l’autoefficacia percepita è intesa come la convinzione che le persone hanno
delle proprie capacità di organizzare e realizzare il corso di azioni necessario a gestire in
modo adeguato le situazioni che incontreranno in modo tale da raggiungere i risultati
prefissati; percezione della capacità di svolgere un determinato compito che richiede
determinate skills in un determinato contesto (non esiste un’autoefficacia generale).
L’autoefficacia si costruisce a partire da quattro fonti:
- esperienza  lo sviluppo di convinzioni di efficacia, attraverso continue esperienze di
azione e confronto con il compito, crea gli strumenti cognitivi e autoregolatori necessari per
una prestazione efficace, soprattutto se tali esperienze sono complesse e rilevanti per
l’individuo;
- modellamento  consente ai soggetti di confrontarsi con le prestazioni altrui (che
reputano simili o migliori) aumentando o diminuendo i propri giudizi di efficacia;
- persuasione verbale  comunicazione con altre persone che persuade gli individui di
possedere le abilità necessarie per il raggiungimento di determinati obiettivi o per il
superamento di determinate difficoltà e non (feedback negativo / profezia che si
autoadempie);
- attivazione fisiologica e emozionale  la convinzione di quanto si è capaci di svolgere un
certo compito passa per la capacità di regolare gli stati di tensione e le emozioni che si
associano alle sfide con le quali ci si confronta (es. ansia dell’esame).
Le fonti dell'autoefficacia sono elementi che possono fare da leva motrice per un percorso di
carriera piuttosto che un altro. Così la Social-Cognitive Career Theory prova a spiegare i
meccanismi che danno vita al percorso di carriera, come dal prendere vita la carriera viene
portata avanti e come queste scelte di carriera divengono prestazioni più o meno realizzate
in maniera efficace. La self-efficacy gioca un ruolo importante nelle decisioni e scelte di
carriera. Lent, Brown e Hackett hanno utilizzato questo costrutto come componente centrale
della loro teoria, che cerca di comprendere il processo dinamico e i meccanismi attraverso
cui il percorso di carriera e gli interessi professionali si sviluppano, le scelte di carriera sono
portate avanti e le prestazioni lavorative sono realizzate (utilizzata per predire le scelte di
carriera lavorativa, le aspirazioni manageriali e le scelte di studenti delle superiori e
universitari). Secondo questa teoria, self-efficacy, aspettative di risultato e intenzione di
portare avanti gli obiettivi interagiscono con il contesto socio-culturale e con variabili
strettamente personali (predisposizioni, genere, etnia) predicendo gli interessi e il percorso
di carriera scolastica e lavorativa  gli interessi sono determinati dalla self-efficacy e dalle
aspettative, generate a loro volta dalle esperienze e dagli apprendimenti; essi guidano il
raggiungimento degli obiettivi prefissati e i risultati ottenuti (prestazioni), in base a un
meccanismo retroattivo, modificano self-efficacy e aspettative (influenzate sia dalle
caratteristiche individuali es. predisposizioni, genere, etnia sia da variabili contestuali).
[Frapporre self-efficacy e aspettative tra l’identità personale e lo sviluppo di interessi.]
Gli interessi non sono semplice espressione della personalità, piuttosto le inclinazioni
personali possono essere trasformate in interessi professionali se l’individuo è consapevole
di sapere eseguire le azioni necessarie per produrre certi obiettivi. Self-efficacy e interessi si
influenzano a vicenda.
La teoria di adattamento al lavoro – (non importantissima) ottica di scambio col contesto;
vuole indagare quali sono i processi di adattamento dell’individuo sul posto di lavoro.
Questa teoria parte dal presupposto che nel portare avanti una carriera l’individuo deve
entrare in maniera attiva e propositiva nei contesti di lavoro e per poter crescere
professionalmente ha bisogno di mantenere una relazione armoniosa tra le proprie esigenze
per essere motivato e il proprio ambiente di lavoro (compromesso). L’adattamento avviene
a due livelli…
- registro delle abilità  l’individuo cerca di adattarsi mettendo in campo abilità possedute
in risposta alle abilità richieste dall’organizzazione. La corrispondenza tra queste abilità
genera satisfactoriness, la soddisfazione organizzativa sulla base della quale gli individui
possono essere promossi, trasferiti o licenziati;
- registro dei valori  l’insieme dei bisogni di cui l’individuo è portatore che possono
trovare risposta nelle ricompense dell’organizzazione. La corrispondenza tra i valori
dell’individuo e le risposte dell’organizzazione genera la soddisfazione individuale, sulla
base della quale gli individui decideranno se restare o licenziarsi.
Sia la soddisfazione individuale che quella organizzativa sono indicatori che possono
predire l’adattamento al lavoro e il mantenimento del medesimo. Inoltre, ogni individuo
reagisce in modo diverso di fronte alla non corrispondenza, ad esempio modificando i propri
valori e capacità.
Holland e il modello RIASEC – altra teoria del filone person-environment fit, ma si
concentra sul momento della scelta professione. Secondo il modello di Holland gli individui
con diversi profili di personalità orientano i propri interessi professionali verso ambiti
specifici e sviluppano la scelta occupazionale in modo coerente con il proprio profilo; il
comportamento lavorativo individuale ed organizzativo risulta quindi dall’interazione tra il
singolo e il suo ambiente di lavoro inteso secondo un’ottica di campo.

In questo momento di contingenza l'individuo si trova ad affrontare aspetti molto complicati


rispetto all'imprevedibilità del contesto, per cui deve costantemente mettersi in discussione,
scendere a compromessi. Strettamente legato alla contingenza e alla definizione di carriera è
il costrutto di ancore di carriera (fondamentali): la carriera è vista come una continua
negoziazione tra individuo e ambiente, ma è anche qualcosa che ci contraddistingue, legata
a fattori stabili dell’identità. Ci sono cioè degli aspetti centrali del sé a cui la persona non
rinuncerà mai, o che metterà in discussione solo in caso di scelte difficili o transizioni di
ruolo. Tali ancore sono un insieme di autopercezioni basate sui successi lavorativi,
sull’autovalutazione e sul feedback da parte di terzi e che l’individuo sperimenta e consolida
attraverso l’esperienza, i bisogni, i suoi talenti e valori (gli permettono di non trovarsi in
balìa della contingenza). Le ancore sono stabili ma evolvono durante lo sviluppo della
carriera, possono essere predittive delle scelte di carriera e si integrano allo stile di vita della
persona divenendo propulsori di scelte di vita.
In conclusione, la costruzione della carriera parte dalla persona, ma si articola
nell’interazione con il contesto sociale, con le opportunità materiali e relazionali e si
confronta con i vincoli concreti che le persone devono affrontare. Negli ultimi anni gli studi
sulla carriera hanno introdotto una serie di altri elementi che riguardano una nuova
concezione di carriera:
- carriera boundaryless (senza confini)  elemento distintivo è la capacità di adattamento
intesa come l’abilità e la disponibilità a rispondere in modo efficace ai cambiamenti che
generano nuove opportunità professionali. Si parla di questo tipo di carriera in termini di
“successo psicologico” con riferimento agli obiettivi personali raggiunti dall’individuo
piuttosto che a quelli convenzionalmente imposti da terzi, es. genitori e società in generale;
- protean career (proteiforme, che può assumere diversi aspetti)  processo gestito dalla
persona e non dall’organizzazione, che comprende le diverse esperienze che la persona fa
nell’istruzione, nella formazione, nel lavoro all’interno delle organizzazioni ecc. Per
raggiungere il successo psicologico è necessario svincolarsi dalla classica definizione di
carriera che prevede una suddivisione rigida tra lavoro e vita, dove il vero successo implica
l’integrazione dei due domini.
[Si tiene conto di uno scenario socioeconomico caratterizzato da dinamismo, incertezza e
complessità.]

Ricapitolando

1. Definizione di carriera
2. Studi psicologici sulla carriera
3. La teoria di Super
4. Le transizioni biografiche e professionali
5. L’approccio sviluppo-contesto
6. Il sociocognitivismo e lo sviluppo della carriera
7. La Social-cognitive career theory
8. La teoria dell’adattamento al lavoro
9. La teoria di Holland
10. Le ancore

CAPITOLO 9 - I rischi psicosociali


Sono fattori che all’interno del contesto lavorativo o nello svolgimento del proprio lavoro
mettono il lavoratore di fronte a delle difficoltà e a situazioni che lo portano ad esperire
malessere. Il malessere lavoro correlato è un argomento molto caro a chi si occupa di
lavoro, soprattutto in quanto di recente sono nate delle normative che regolamentano e
obbligano le organizzazioni ad occuparsi dello stato di salute dei lavoratori  per anni esso
era stato concettualizzato come assenza di malessere e il focus era quindi sui rischi
psicosociali. L’OMS nel 1986 cambia il concetto di salute, introduce la promozione della
salute a tutela dell’individuo sostenendo che “salute” non è soltanto assenza di malattia ma è
presenza di una serie di fattori biologici, psicologici e sociali e questa visione viene
assimilata molto lentamente ampliando il focus anche al benessere. La diagnosi dello stato
di salute di un’organizzazione passa sia per la valutazione di fattori di promozione del
benessere (es. soddisfazione, benessere psicosociale, recovery at work) sia per i rischi che
sono indicatori di malessere e vanno tenuti sotto controllo per far sì che il lavoratore possa
operare in maniera adeguata nel suo contesto.

Stress occupazionale
Lo stress in ambito lavorativo è un rischio che può aprire a un’altra serie di rischi
psicosociali e al malfunzionamento dell’organizzazione, ma è quello che maggiormente può
essere attenzionato e ridimensionato. La letteratura sullo stress si è occupata dello studio
delle cause, dei processi e degli esiti del fenomeno seguendo tre prospettive: stress come
risposta non specifica (responsed-based, Seyle), stress come caratteristica dello stimolo
ambientale (stimulus-based, Wolf e Rogers) e stress come risultato dell’interazione tra
persona e ambiente (stimulus/response relationship – transational approach, Lazarus).
Secondo l’approccio fisiologico di Seyle, che è una pietra miliare nello studio dello stress
ma oggi è superato, l’uomo è in salute e non è stressato se le sollecitazioni dell’ambiente
sono proporzionate alle sue capacità di risposta. Al contrario, se le richieste dell’ambiente
sono troppo onerose si verificherà un’attivazione psicofisiologica definita stress  risposta
non specifica per provare ad adattarsi. Prende anche il nome di sindrome generale di
adattamento, e vede lo stress come una reazione fisiologica aspecifica a qualunque
richiesta di modificazione esercitata sull’organismo da una gamma di stimoli eterogenei. La
risposta psicofisiologica porterà l’individuo ad una reazione che pian piano gli consentirà di
razionalizzare rispetto alle richieste ambientali e far sì che i livelli di stress rientrino. Seyle è
stato il primo ad identificare due forme di stress: ci sono situazioni in cui le richieste
dell’ambiente sono sì valutate come onerose, ma non sono tali da portare malessere, anzi
richiedono all’individuo di agire in modo da ripristinare una situazione di normalità che
porti benessere  lo stressor crea la reazione fisiologica aspecifica che, se può essere
fronteggiata da una risposta adeguata, fa sì che l’individuo sperimenti eustress e produca
una performance efficace. In questo caso la richiesta è sfidante e attiva l’individuo in modo
da raggiungerla diventando un fattore stimolante, uno stress positivo, che rende l’individuo
efficiente a lavoro. Quando le richieste sono troppo poche o troppe per farvi fronte con le
proprie abilità si parla di distress. Seyle non connota negativamente necessariamente lo
stress, ci dice solo che è una risposta psicofisiologica a delle domande dell’ambiente, ma
questa attivazione può portare a due esiti: distress ed eustress. D’altro canto la relazione tra
queste due variabili porta a un bilanciamento differente. Ci sono due casi in cui possiamo
sperimentare stress negativo: quando le capacità di risposta sono particolarmente superiori
alle richieste dell’ambiente, quindi non siamo adeguatamente stimolati, e quando le richieste
sono elevate ma non abbiamo la forza di fronteggiarle. La relazione tra attivazione che
arriva dall’ambiente e risposta dell’individuo è rappresentata come una “U capovolta”, con
livelli di stress positivo che migliorano l’efficienza e livelli di stress che portano ad una
situazione negativa. Questo modello ha permesso una prima operazionalizzazione dello
stress, ma è preso poco in considerazione nell’ambito della psicologia del lavoro.
[livello di attivazione  fase di allarme – fase di resistenza – fase di esaurimento  stato
normale]
Altri studiosi dell’approccio stimulus-based si sono focalizzati sull’analisi degli stimoli
presenti nel luogo di lavoro che creano stress, caratteristiche ambientali espresse sotto forma
di richieste e di carico per l’individuo o di elementi di minaccia o di fattori dannosi, che
hanno un effetto squilibrante: possiamo definirli stressor (cause). Essi sono stati classificati
in base al contesto ambientale (eccessivi livelli di rumore, temperature insostenibili, scarsa
illuminazione), al contesto organizzativo (partecipazione e controllo della situazione, ruolo
sociale, possibilità di crescita di carriera, stile di leadership, rapporto coi colleghi e tra
lavoro e contesto esterno) e al contenuto dell’attività lavorativa (mezzi di lavoro, livelli di
pressione temporale, carico del compito, cattiva assegnazione di compiti). Negli ultimi anni
la letteratura ha individuato altri tipi di stressor:
- tecnostress  uso delle nuove tecnologie, situazioni connesse con la flessibilità
occupazionale e la flessibilità spazio-temporale, es. smartworking;
- mobbing  violenze sistematiche su un lavoratore perpetrate da superiori e colleghi;
- sexual harrassment  comportamenti di invadenza e minaccia a sfondo sessuale, di cui
sono vittime soprattutto le donne.
Gli ultimi due sono considerati veri e propri rischi psicosociali perché mettono a rischio la
salute non solo attivando lo stress ma compromettendo anche la salute mentale
dell’individuo.
L’approccio più utilizzato e vicino alla concezione di stress lavoro correlato è quello
transazionale, ma per arrivare a questo approccio bisogna considerare gli approcci di
interazione: entrambi si concentrano sulla qualità della relazione persona-ambiente; sono
attenti non soltanto a quali sono i possibili stressor o all’attivazione di risposte da parte
dell’individuo, ma all’intero processo cioè stimoli, come reagisce la persona e variabili
intervenienti che possono filtrare; i fattori di stress potenziali non operano in modo
automatico, non sono uguali per tutti e non hanno lo stesso impatto sulle persone, ma sono
necessarie delle condizioni di interazione con la persona per far sì che quello stressor venga
letto come situazione stressante e attivi il cosiddetto processo di stress. Una differenza con
gli approcci precedenti risiede nel fatto che con il termine “stress” adesso ci si riferisce
all’intero processo che si attiva nel momento in cui l’individuo viene posto davanti ad una
certa situazione, le valutazioni che fa, la risposta che dà, l’interazione con il contesto e il
rientro della situazione stressante. Lo stressor fa parte del processo di stress, è la situazione
stimolo che potrebbe potenzialmente diventare un fattore che attiva il processo; lo strain è
la risposta psicologica, fisiologica e comportamentale che l’individuo in interazione con
l’ambiente dà agli stressor. L’approccio interazionale di Karasek riconosce l’importanza
dello scambio individuo-ambiente nell’identificazione di un processo di stress. Egli afferma
che il fatto che persone diverse reagiscono in maniera diversa a caratteristiche del lavoro
simili dipende dalle percezioni  l’individuo percepisce le richieste che arrivano
dall’ambiente a partire dalle caratteristiche del suo lavoro e rispetto ad esse si pone di fronte
ad una serie di valutazioni che hanno a che fare con la domanda, cioè le richieste poste al
lavoratore (pressione temporale, difficoltà, ritmi, impegno) e con il controllo, in termini di
possibilità di prendere decisioni sui compiti e ampiezza delle competenze possedute
(partecipazione); a seconda di come si combinano questi due elementi il lavoro sarà
percepito come più o meno stressante. Lo strain maggiore si avrà nei casi in cui l’alta
domanda si incontra con basso controllo. La parte interessante del modello ha a che fare
ancora una volta con l’ambiente: la costruzione della mia percezione di domanda e controllo
nasce proprio dall’interazione individuo-ambiente, e quindi l’interazione tra me e le altre
persone che operano nel contesto lavorativo, la mia rete di appartenenza. Uno dei fattori
individuati come fattori di protezione nella diminuzione della discrepanza tra domanda e
controllo è il sostegno sociale percepito, che non riguarda la rete di relazioni costruite a
lavoro, ma quanto quelle relazioni vengano percepite come sostegno, ed è un fattore in
grado di influenzare le conseguenze indotte dalla percezione della minacciosità ambientale.
Secondo Karasek è possibile operare una classificazione di tipologie lavorative:
- lavori ad alto strain sono quelli che prevedono alta domanda e basso controllo, creano alta
tensione psicologica dovuta all’elevato carico di lavoro e si manifestano con ansia,
depressione, vari disturbi psicosomatici;
- lavori attivi generano eustress piuttosto che distress in quanto prevedono alta domanda e
alto controllo, la persona può esprimere pienamente le sue potenzialità;
- lavori a basso strain prevedono bassa domanda e alto controllo, non creano tensione
psicologica e possono essere definiti rilassanti. I lavoratori sono soddisfatti, ma non sono
lavori sfidanti, non li mettono alla prova  sul lungo periodo possono diventare noiosi e
poco soddisfacenti;
- lavori passivi in cui c’è bassa domanda e basso controllo vanno particolarmente
attenzionati perché creano tensione psicologica, la persona non ha possibilità di esprimere le
proprie capacità (ci può essere fatica mentale anche con basso carico mentale, skills che non
possono essere sfruttate)  a lungo andare diminuiscono le abilità e le capacità di
apprendimento e il lavoratore percepisce stress da deprivazione e un abbassamento della
qualità della vita lavorativa, che per lo spillover ricade anche sulla qualità della vita in
generale.
Il modello transazionale teorizzato da Lazarus va oltre la percezione del contesto da parte
degli individui, vede lo stress come risultato di un processo continuo e costante di scambio e
di interazione tra individuo e ambiente e quindi considera le caratteristiche individuali che
regolano il processo di stress, ma tenendo conto del fatto che l’individuo interagisce e
scambia con il contesto una serie di elementi. In elaborazioni successive, Lazarus e
Folkman provano a rispondere alla questione del perché persone che lavorano nello stesso
ambiente percepiscono le domande come più o meno stressanti, e affermano che ciò avviene
perché gli individui, nel momento in cui portano avanti questo continuo e costante scambio
con l’ambiente, mettono in atto una serie di valutazioni cognitive rispetto alle richieste: la
prima valutazione cognitiva, detta primary appraisal, ha a che fare con la valutazione e
l’attribuzione di significato alla situazione (quali sono le conseguenze per il benessere?);
dopodiché si attiva una seconda valutazione, detta secondary appraisal, che implica la
percezione del soggetto di possedere le strategie di coping per fronteggiare la situazione
avversa  se ciò avviene, allora il processo di stress terminerà in maniera positiva, al
contrario se la persona valuterà di non essere nelle condizioni di rispondere alle richieste del
contesto allora esso si complica. Un elemento importante introdotto dagli autori è quello di
strategie di coping, cioè strategie di difesa nei confronti dello stress che richiedono una
riflessione su quali siano le più giuste da utilizzare (se in maniera negativa lo stress tenderà
a perdurare nel tempo e a sfociare in altre patologie come il burnout). Gli individui scelgono
le strategie di coping a seconda della situazione (richieste e risorse) in cui si trovano ad
agire, per cui esse non sono legate a caratteristiche stabili di personalità ma si tratta di un
processo dinamico che cambia nel tempo al variare delle situazioni; è possibile classificarle
in adattive, che consentono di far fronte allo stress in maniera adeguata e farlo rientrare a
livelli accettabili di omeostasi, e disadattive…
- centrate sul problema  adattive, vuol dire che ci aiuta a tenere sotto controllo lo stress e
quindi ritornare a una situazione pre stress – azioni di problem solving finalizzate ad
affrontare in maniera diretta e specifica le richieste e le difficoltà ambientali, esse portano ad
alti livelli di benessere e bassi livelli di strain percepito;
- centrate sulle emozioni  azioni e riflessioni finalizzate alla riduzione delle conseguenze
emotive date dallo stressor (componente emotiva dello strain) – sia adattive che disadattive
a seconda di come viene gestita la situazione (in ambiente lavorativo sono disadattive);
- evitamento  azioni per non pensare al problema – sia adattive che disadattive, anche se
implicano un discostamento totale dalla richiesta (sono a favore del sé) se momentanee
possono portare alla soluzione del problema.
La valutazione di strategia di coping è funzionale al contesto lavorativo nel momento in cui
il lavoratore riesce a capire qual è il modo migliore di agire; il coping però non è una
caratteristica stabile di personalità, ma un processo dinamico, cambia nel tempo al variare
delle situazioni ed è legato al contesto. Questo vuol dire che non esistono strategie
totalmente disadattive, tutto dipende dalla lettura del contesto  in ambito lavorativo
bisogna arrivare alla soluzione del problema. In generale lo scopo delle strategie di coping è
far tornare l’individuo in una condizione di pre strain, far rientrare l’attivazione. In questo
risiede la caratteristica che distingue lo stress dal burnout, in cui non è possibile quel
ritorno.

Le conseguenze dello stress occupazionale per l’individuo sono tante: sul piano fisiologico
(alterazioni del normale funzionamento del sistema cardiovascolare con sintomi quali
l’aumento di pressione sanguigna, diabete, sindromi metaboliche, obesità), sul piano
psicologico (insoddisfazione, ansia, disturbi dell’umore) e sul piano comportamentale, cioè
sulla performance del lavoratore (elementi correlati allo stress sono abuso di sostanze,
incremento di azioni sociali negative, aumento di infortuni e riduzione della produttività).
Lo stress deve essere tenuto sotto controllo dalle organizzazioni anche per via di altre
conseguenze che colpiscono le stesse: soprattutto economiche, ma anche perché le persone
interessate lavorano peggio, la produttività diminuisce e quindi i profitti, e non da ultimo la
compromissione del clima psicosociale che fa emergere situazioni di conflittualità latente.
Gli studiosi si sono interrogati sul modo in cui moderare l’impatto dello stress
sull’individuo e hanno individuato una serie di variabili di mediazione tra stressor e strain:
disposizionali, situazionali, sociali…
- caratteristiche di personalità: come agiscono sulla percezione di uno stressor. Le
persone con modelli comportamentali di tipo A esperiscono significativi livelli di stress
(rabbia e ostilità in particolare), mentre i modelli di tipo B più orientati alla collaborazione e
alla cooperazione tendono a mostrare livelli più bassi di stress rispetto ai primi;
- affettività negativa: caratterizzata da bassa autostima e stati emotivi negativi, porta a
percepire più elevati livelli di strain;
- self-efficacy: alti livelli di autoefficacia riducono le conseguenze dello stress;
- autostima: le persone che hanno un giudizio positivo di sé stesse, quindi alta autostima,
sono meno sensibili all’azione negativa degli stressor.
[Variabili tipiche del contesto lavorativo che fungono da fattori di protezione]
- controllo sulle situazioni avverse e sugli eventi: la partecipazione, la possibilità di
mantenere il controllo su una parte del proprio lavoro tiene sotto controllo lo stress, aumenta
l’autoefficacia e consente di scegliere quali sono le strategie di coping più adatte a risolvere
la situazione;
- commitment: qualità del legame di appartenenza ad un’organizzazione, positivamente
associato alla soddisfazione lavorativa e negativamente ai livelli di stress percepito;
- supporto sociale: elemento importante nella promozione della salute e prevenzione dello
stress poiché non soltanto influenza le cause dello stress (agisce sugli stressor con effetto
preventivo), ma è anche un rimedio (effetto curativo) e modera l’azione delle conseguenze
dell’attivazione dello strain soprattutto in riferimento ai superiori, a chi si riconosce come
più esperto (effetto buffering)  a livello organizzativo, questa è la prima variabile da
tenere in considerazione quando si vuole intervenire sullo stress.
Da parte delle istituzioni e delle organizzazioni deve esserci una maggiore attenzione allo
stress e quindi a come valutarlo. Per la valutazione dello stress si distinguono: misure
soggettive, quali strumenti self-report, questionari (validati in tutte le lingue e per molti
contesti lavorativi), strumenti più qualitativi che permettono di approfondire il significato
soggettivo; misure oggettive, cioè strumenti per rilevare lo stress lavoro correlato tramite
misurazione di parametri fisiologici come cortisolo, adrenalina, frequenza cardiaca.
Solitamente combinare misure soggettive e oggettive nello studio dello stress dà risultati
migliori, ma i costi sono elevati e raramente si riescono a portare avanti e così gli studiosi
(specialmente gli psicologi del lavoro il cui scopo è l’intervento e non la ricerca) si
concentrano su quelle soggettive nella maggior parte dei casi. Tali strumenti consentono di
analizzare adeguatamente e precocemente i segnali di stress organizzativo. L’analisi
precoce dei fattori di rischio, abbastanza evidenti, può essere condotta anche da un manager,
in generale da un buon osservatore: decremento ingiustificato delle prestazioni  aumento
del tasso di errori e dei difetti di produzione, mancato rispetto dei tempi di realizzazione;
abbassamento motivazionale  variazione del clima psicosociale, relazioni interpersonali
che diventano difficili, calo del senso di appartenenza, deterioramento delle relazioni
sindacali; assenteismo  segnale di bassa motivazione e soddisfazione, e anche di stress.
Di fronte allo stress lavoro correlato ci sono tre modalità di intervento possibili:
- primari – di livello organizzativo: finalizzati alla riprogettazione delle attività lavorative,
ristrutturazione dei ruoli, clima cooperativo allo scopo di ridurre gli agenti in grado di
sollecitare stress. Per questo motivo sono quelli più consigliati dagli psicologi alle
organizzazioni e sono molto efficaci, anche se costosi (raramente messi in atto);
- secondari – rivolti agli individui: finalizzati a modificare le reazioni verso gli stressor
occupazionali (lo psicologo del lavoro è chiamato spesso ad intervenire a questo livello,
aiutare le persone a capire meglio come far fronte alle richieste del contesto e quali strategie
mettere in atto). Sono piuttosto efficaci e poco costosi, quindi visti più di buon occhio dalle
organizzazioni in termini di risorse economiche, e sono affiancati a biofeedback e tecniche
di rilassamento che abbassano anche lo strain, cioè la reazione allo stress;
- terziari – rivolti agli individui stressati: portati avanti da psicologi clinici, in quanto
finalizzati alla cura e alla riabilitazione del lavoratore che manifesta effetti derivanti dallo
stress. Sono abbastanza efficaci (difficili da valutare) e mediamente costosi.

Burnout
È stato definito come uno dei problemi di salute pubblica maggiori in ambito lavorativo e
caratterizza tutti gli ambienti di lavoro, non solo le helping professions. Spesso viene
confuso con lo stress oppure viene concettualizzato come stress prolungato: in realtà lo
stress è il genere e il burnout è una specie, ovvero una particolare forma di risposta a certe
condizioni di stress. Lo stress costituisce una reazione momentanea di adattamento alla
domanda dell’ambiente, che può in seguito rientrare facilmente nella norma; il burnout è
una sindrome che presuppone un processo a lungo termine e costituisce una risposta
inadeguata a una situazione stressante che si cronicizza e difficilmente rientra
spontaneamente. Quindi, il burnout può essere inteso come una sottocategoria dello stress
con antecedenti correlati e conseguenze differenti, esso costituisce un possibile esito dello
stress con conseguenze più gravi soprattutto nei casi in cui lo stress non è mediato, si è
stressati senza via d’uscita, senza elementi di moderazione e senza sistemi di sostegno.
Il burnout è definito in base a due approcci: la situazione di stato si focalizza sui sintomi,
considerato come la manifestazione di un disagio e la situazione di processo concepisce il
burnout come un fenomeno che si sviluppa in diverse fasi. La definizione di stato proposta
da Freudemberger e successivamente rielaborata in riferimento al contesto lavorativo dalla
Maslach consente una prima definizione di burnout, cioè la manifestazione di un disagio di
un lavoratore che si esprime secondo tre macro dimensioni: la più importante, che
maggiormente consente di capire se un lavoratore è in burnout, è l’esaurimento emotivo che
esprime il disagio relativo alla sensazione di essere continuamente in uno stato di tensione,
in una fase di strain, mette il lavoratore nella condizione di sentirsi sempre allo stremo delle
forze; la depersonalizzazione è una risposta di distacco da parte dell’operatore nei confronti
degli utenti. Non è tipico soltanto delle professioni di aiuto, ma è un costrutto del lavoratore,
quindi è presente non solo nelle professioni in cui c’è qualcuno da aiutare e sostenere, ma in
tutte quelle in cui ci sono condizioni sfavorevoli. Subentra così la dimensione del cinismo
in quei lavori che non hanno un utente da gestire, ciò significa che si prendono le distanze
dal lavoro stesso. È proprio un distacco al lavoro, una demotivazione dal lavoro e una
considerazione di questo come qualcosa di doveroso da dover svolgere ma che non dà
soddisfazione. Comprendiamo così come il burnout possa essere esperito a tutti i livelli,
tant’è che può interessare anche gli studenti. L’ultima dimensione è la mancanza di
realizzazione professionale e personale, è una sensazione di incompetenza nell’affrontare il
proprio lavoro, che però non è un abbassamento di autoefficacia percepita bensì la
sensazione di non avere le risorse per affrontare quel lavoro, realizzare degli obiettivi. Gli
studiosi chiedono di attenzionare il processo e quali siano le fasi specifiche, un susseguirsi
di condizioni che riguardano l’individuo nel contesto lavorativo. La definizione di processo
più condivisa è quella di Edelwich e Brodksy, per i quali il burnout si sviluppa in diverse
fasi:
1. entusiasmo idealistico  prima fase di valutazione delle risorse e delle richieste del
contesto caratterizzata da aspettative di successo (non sempre realistiche) e miglioramento
del proprio stato;
2. stagnazione  col passare del tempo tale entusiasmo si incontra e scontra con le
transizioni legate alle circostanze, alle skills, alle risorse messe a disposizione dal contesto
ecc. e i risultati dell’impegno cominciano ad essere percepiti come incerti;
3. se la stagnazione si prolunga nel tempo diventa frustrazione  sentimento di impotenza,
sentire di non avere le risorse e che le proprie azioni non portano ai risultati sperati;
4. apatia  fase in cui il burnout si conclama caratterizzata da una totale chiusura in sé
stessi, perdita del desiderio di aiutare gli altri.

Gli studiosi si sono molto interrogati su quali fossero gli antecedenti e cause scatenanti del
burnout e abbiamo per questo diversi approcci. Abbiamo i modelli dinamici, per i quali le
cause del fenomeno sono soprattutto a livello individuale, come l’individuo valuta gli aspetti
legati al suo lavoro e come questi divengono antecedenti del burnout. Ma noi sappiamo che
quando parliamo di stress e rischi psicosociali non considerare il contesto ci mette sempre a
rischio di non considerare elementi importanti. Per cui i modelli basati sulla
competenza\efficacia affermano che l’insorgenza del burnout dipende dalla percezione
della propria capacità di intervenire sull’ambiente. Possiamo identificare da una parte i
fattori interni (aspettative, percezione di competenza, potere e controllo) e dall’altra i fattori
esterni (adeguatezza delle risorse, divisione dei ruoli, feedback sui risultati); il modo più
appropriato per studiare la genesi del fenomeno è combinare gli elementi su cui si
focalizzano i modelli precedenti in un’integrazione proposta dal modello ecologico, che
vede il comportamento umano in termini di adattamento della persona alle risorse e alle
circostanze che il lavoro gli mette davanti (interscambio). Il fit adeguato tra individuo e
ambiente esita nel benessere, mentre un fit negativo e scambi poco adeguati possono
incorrere nel burnout. Sottolinea che è necessario tener conto delle richieste e delle risorse,
che possono evocare due processi. Uno energetico, per cui le elevate richieste esauriscono le
risorse mentali e fisiche dei lavoratori, e uno motivazionale, per cui la presenza di risorse
lavorative incrementa l’engagement. Per valutare e riconoscere l’importanza di questo
modello, del fatto che ogni ambiente di lavoro richiede all’individuo una valutazione delle
sue skills e delle risorse a disposizione e così via, nasce il Job Demand-Resources model
che riconosce l’unicità di ogni ambiente di lavoro che possiede sue specifiche caratteristiche
le quali sono a loro volta responsabili dell’insorgenze del burnout dei lavoratori (es.
antecedenti nella sanità partenopea diverse da quella lombarda). Nell’analisi degli
antecedenti bisogna andare a vedere anche la contingenza del momento, oltre che le
componenti individuali. Le richieste e le risorse del lavoro possono evocare due processi: se
le richieste sono elevate ed esauriscono le risorse mentali e fisiche dei lavori si parla di
processo energetico che porta al burnout, mentre se ci sono richieste che possono essere
risolte dalle risorse lavorative a disposizione, quindi si dà la possibilità al lavoratore di
costruire tali risorse, la presenza di quest’ultime incrementa l’engagement (benessere
lavorativo, performance) e si parla di processo motivazionale.
Tra le cause del burnout sono stati individuati:
- fattori individuali (le persone rispondono in maniera diversa alle situazioni stressanti)
particolarmente sensibili al burnout quali tratti di personalità es. tipologia A, introversione,
mete di carriera  persone che si pongono obiettivi troppo elevati possono mitizzare il
significato del lavoro, ed esperienze precedenti possono essere una risorsa perché coloro che
hanno già vissuto una situazione stressante sanno gestirle meglio rispetto a chi si trova a
dover costruire strategie e competenze per farvi fronte a partire da zero. Maggiormente a
rischio burnout sono coloro che si trovano all’inizio o alla fine di una carriera;
- fattori organizzativi sono i ruoli lavorativi  distribuzione dei compiti e degli impieghi
incompatibili con le capacità e i valori, struttura di potere  struttura gerarchica che non
permette l’espressione individuale e il controllo sugli eventi organizzativi, e il clima
relazionale  la qualità dei rapporti incide sulle capacità di tollerare e affrontare il disagio
(un buon clima tutela dal burnout).
Il job burnout può interessare qualsiasi persona calata in un contesto organizzativo e quindi
con esso ci si riferisce a qualsiasi situazione in cui l’individuo si rende conto di non
possedere le risorse (interne ed esterne) necessarie per affrontare le richieste provenienti dal
lavoro svolto. È applicabile a tutte le professioni, e quelle 3 famose dimensioni sono
interscambiabili. La depersonalizzazione diventa cinismo quando non c’è la relazione con
l’utente, si arriva a svilire il proprio lavoro, non avere più interesse.
Strumenti utilizzati nella valutazione del burnout: Maslach Burnout Inventory, tipico delle
professioni di aiuto, consente di rilevare le dimensioni di esaurimento emotivo,
depersonalizzazione, ridotto senso di riuscita professionale; partendo dal fatto di voler
considerare il burnout un job burnout si è passati all’Organizational Checkup System, che
vale per tutte le professioni e prende in considerazione aspetti individuali e anche
organizzativi.
Interventi…
- livello individuale  durante l’assunzione, ovvero revisionare i sistemi di reclutamento,
inserimento lavorativo e formazione (analisi delle motivazioni personali) e in itinere, tramite
una supervisione orientata al potenziamento delle risorse individuali (counseling
psicologico con l’obiettivo di potenziare motivazione, autostima, autoefficacia);
- livello sociale  orientati alla costruzione di sostegno sociale percepito e a rafforzare la
coesione di gruppo, la quale ha un effetto buffering dal burnout;
- livello organizzativo  raramente messo in atto in quanto costoso, analisi adeguata
dell’organizzazione che incida su quegli elementi legati al burnout come caratteristiche del
clima, stili di management, funzionamento dei gruppi di lavoro, cultura organizzativa.

Mobbing
Oltre ad essere stato individuato tra i tipi di stressor, viene considerato un particolare
comportamento controproduttivo (richiede la volontà da parte di un lavoratore di agire nei
confronti di qualcuno o qualcosa per danneggiare l’organizzazione e il suo funzionamento).
Etimologicamente la parola mobbing deriva da “to mob” cioè aggredire e “mobile vulgus”
folla tumultuante  aggressione e altri sono elementi importanti per la comprensione di
quali sono le concause del fenomeno. Il mobbing scaturisce da una situazione di
conflittualità in cui una persona diviene oggetto di azione persecutorie da parte di una o più
persone; è un rischio psicosociale molto grave poiché provoca alla vittima, che non è in
grado di reagire adeguatamente, dei danni alla salute psicofisica non indifferenti e alla
condotta lavorativa. La diagnosi del mobbing e differenziarlo dalla conflittualità è alquanto
difficile: esiste se c’è continuità nell’aggressione, se perdura nel tempo, deve verificarsi
regolarmente e ripetutamente; ci deve essere intenzionalità nell’esercitare la vessazione; è
un processo progressivo, cioè si intensifica nel tempo; una persona deve trovarsi
necessariamente in situazioni di inferiorità, ovvero in una relazione asimmetrica (il carattere
asimmetrico sta nel fatto che da una parte c’è una persona più forte e dall’altra una persona
che non vuole porsi in situazioni conflittuali).
Dobbiamo a Leymann il tentativo di disambiguare il conflitto dal mobbing, il quale ha
identificato tre forme di comportamento tipico del conflitto ma che si possono indirizzare
verso la diagnosi di mobbing (osservate dalle cosiddette sentinelle, figure elette dalle
organizzazioni attente alle situazioni per controllare aspetti di possibile mobbing):
comunicazioni con la persona attaccata in cui si urla, si rimprovera, si critica; attacchi alla
reputazione della persona fatti di pettegolezzi, offese, ridicolizzazioni che se esasperati
possono sfociare in mobbing; manipolazione della prestazione come punizioni, compiti
pericolosi o ridicoli (asimmetria a vantaggio del mobber). Queste dimensioni se
caratterizzate da continuità, sistematicità e intensificazione progressiva porteranno al
mobbing. Leymann e Ege affermano che la continuità e la ripetitività vanno
operazionalizzate e quindi identificano delle fasi del passaggio dal conflitto al mobbing: per
poter parlare di mobbing, il conflitto deve essersi verificato almeno una volta a settimana
nell’arco di sei mesi; fase di inizio del mobbing  il conflitto matura e si stabilizza
caratterizzando le dinamiche di relazione tra mobber e mobbizzato in cui ha un ruolo anche
il gruppo (osservazione, reazione o non reazione, può intervenire favorendo il
ridimensionamento del comportamento del mobber); fase di errori e abusi dell’ente risorse
umane  spesso l’ente delle risorse umane gestisce in maniera errata il mobbing
allontanando la vittima e non il carnefice; questo porta di frequente all’esclusione dal
mondo del lavoro  trasferimento, dimissioni, prepensionamento. Secondo Ege, nell’analisi
delle fasi del mobbing bisogna considerare il contesto socio-culturale in cui sono inserite le
precedenti dinamiche: in paesi come Italia o Spagna è stato identificato nelle dinamiche
relazionali di un gruppo di lavoro quella che viene definita condizione zero, cioè una
conflittualità latente, fisiologica, un conflitto generalizzato dove tutti sembrano contro tutti;
questa conflittualità e competizione latente in alcuni contesti sfocia in conflitto. Se la
condizione zero si verifica sempre risulta complicato distinguere una situazione di mobbing
da una di conflitto.
Per quanto riguarda la valutazione si distinguono: metodi interni (autopercezione del
fenomeno, si interrogano le persone coinvolte), metodi esterni (osservazione del contesto) e
metodi integrati  visione più completa del fenomeno.
La letteratura ha individuato antecedenti del mobbing: individuali, che hanno a che fare con
la soggettività  ipotesi disposizionale, caratteristiche di personalità dell’aggressore e della
vittima; sociali  le dinamiche del gruppo influenzano natura, forma e frequenza del
mobbing; situazionali (contingenza)  tra i più frequenti vi è la scorretta organizzazione
lavorativa. Le conseguenze del mobbing sono molteplici, sia individuali per cui la vittima è
portata ad abbandonare da sé il posto di lavoro e può sviluppare disturbi della socialità
(nevrosi, depressione, isolamento sociale), sia organizzative tra cui assenteismo della
vittima ma anche di altri membri dell’organizzazione che sentono un clima pesante,
diminuzione della produzione e conseguenze legali con relativi costi. Le organizzazioni
hanno cara la prevenzione del mobbing, la quale viene messa in atto sfruttando la
normativa esistente, monitorando il sistema di gestione delle risorse umane (clima,
comunicazione, valutazione), promuovendo e comunicando una vision politica anti violenza
(diffondere principi etici, non tollerare violenze, aggressioni e vessazioni), proponendo
figure di supporto (gruppi aiuto-aiuto, counselor), formando al riconoscimento del mobbing
(sentinelle soprattutto).
Le dinamiche di mobbing si presentano quando mobber, vittime e osservatori si combinano
tra loro, quando le caratteristiche disposizionali, sociali e situazionali vedono in gioco la
presenza di questi tre elementi.

Stalking (occupazionale)
Forma di aggressione/molestia messa in atto da un persecutore che irrompe in maniera
ripetitiva, indesiderata e distruttiva nella vita privata di un altro individuo  ha origine nel
luogo di lavoro e invade la sfera privata. Lo stalking per definirsi tale presuppone la
compresenza di tre componenti: molestatore/stalker, vittima/stalking victim, comportamenti
intrusivi ripetuti nel tempo. L’analisi del fenomeno ha messo in evidenza una peculiarità
grave dal punto di vista legale su cui porre l’attenzione, ovvero l’intensificarsi dello stesso
nell’ambito delle professioni di aiuto: le dinamiche di relazione ed empatia tra operatori
sanitari e pazienti/familiari se non gestite bene possono trasformarsi in situazioni di
stalking. In generale è un rischio psicosociale molto frequente nei contesti lavorativi e
organizzativi; ha delle conseguenze forti sulle vittime sia dal punto di vista fisico che
emotivo (disturbi del sonno, attacchi di panico, rabbia, confusione) e anche sulla struttura
lavorativa, in quanto il posto di lavoro viene percepito come insicuro.

Traumatizzazione vicaria
Fonte di disagio psicologico specifica per coloro che operano in particolari settori
occupazionali, ovvero professioni d’aiuto, che sono esposti ad eventi traumatici che
coinvolgono l’utenza  sentirsi coinvolti nell’emergenza anche se non la si vive in prima
persona, non si è la vittima. I target di questo rischio psicosociale sono i soccorritori quali
vigili del fuoco, operatori di ambulanze, in generale tutti coloro che si occupano di prestare
soccorso a persone che vivono o hanno vissuto situazioni di emergenza; questi professionisti
sono quindi esposti frequentemente a eventi di carattere traumatico e ciò è un fattore di
rischio per la loro salute fisica e psicologica  lo stress occupazionale derivante dalla
gestione di eventi critici può generare effetti negativi sul benessere psicologico
(esaurimento emotivo molto forte – antecedente del burnout). Si può intervenire sul
fenomeno prima di tutto conoscendolo, formando gli operatori a riguardo; interventi
individuali di supporto realizzati subito dopo l’evento critico, durante i quali si ascolta come
sono andati i fatti, si opera sulle sensazioni delle vittime e viene fornito loro conforto
emotivo cercando poi di mobilitare le risorse necessarie per reagire all’accaduto; debriefing
psicologico di gruppo per supportare gli operatori delle emergenze con l’obiettivo di
prevenire risposte disfunzionali a eventi critici e incrementare il supporto sociale
(rielaborazione e presa di distanza dal problema).

Ricapitolando

1. Fattori di rischio psicosociale


2. Stress occupazionale: approcci differenti, antecedenti, conseguenze, prevenzione e
valutazione
3. Gli stressor e le strategie di coping
4. Burnout: definizioni di stato e di processo, approcci differenti, antecedenti, conseguenze,
valutazione e interventi
5. Mobbing: definizione, conflitto, modelli di Leymann e Ege, conseguenze e prevenzione
6. Stalking
7. Traumatizzazione vicaria

CAPITOLO 8 - Il benessere lavorativo


Recentemente nello studio del rapporto tra lavoro e benessere è stata posta maggiore
attenzione alla ricerca di un insieme più ampio di variabili (non solo rischi psicosociali) che
possono incidere sullo stato di benessere o sofferenza psicologica derivante dall’esperienza
lavorativa. Abbiamo visto già la soddisfazione lavorativa quale primo indicatore di
benessere che si concentra su una credenza più vicina al sentire comune e che parlare di
benessere vuol dire analizzare aspetti che riguardano il benessere psicologico, sociale ed
emozionale; benessere e malessere sono costrutti tra loro connessi, ma assenza di malessere
non vuol dire necessariamente benessere, così come bassi livelli di benessere non
equivalgono al malessere. Quando parliamo di benessere nelle organizzazioni consideriamo
una valutazione di aspetti negativi e positivi, entrambi vanno necessariamente indagati per
capire come stanno i lavoratori.
Per questa ragione la letteratura in psicologia del lavoro si è particolarmente soffermata sul
Job demands-resources model (Demerouti): è il modello più utilizzato ed è considerato
quello con maggiore applicabilità e funzionalità nella previsione del malessere e benessere
perché è flessibile  non operazionalizza, non parte da variabili fisse e strutturate, possono
essere incluse una serie di varabili da definire in funzione degli specifici contesti in cui lo si
vuole utilizzare, così come dei soggetti che si intende coinvolgere. Questa flessibilità è
dovuta al fatto che il modello suddivide i fattori che influenzano il benessere in due
categorie:
- job demands  sono le domande che l’organizzazione pone al lavoratore, quindi tutti gli
aspetti fisici, organizzativi e sociali che richiedono uno sforzo fisico e mentale e che sono
associati a costi psicologici e fisiologici (conflitti, carico di lavoro, responsabilità,
possibilità di accedere a risorse). Sono le richieste che al lavoratore vengono fatte nello
svolgimento del proprio lavoro ma possono assumere caratteristiche diverse a seconda del
contesto;
- job resources  hanno a che fare ugualmente con aspetti fisici, organizzativi e sociali, ma
che sono funzionali al raggiungimento degli obiettivi lavorativi in termini di performance,
riducono le richieste lavorative e gli sforzi ad esse associate, stimolano la crescita e lo
sviluppo personale.
[L’incrocio tra questi due elementi consente al lavoratore di valutare se sta esperendo
benessere oppure no.]
Si distinguono due tipi di richieste lavorative (ambiguità/conflitto di ruolo, centralizzazione,
complessità, condizioni lavorative sfavorevoli, conflitto lavoro-famiglia): le challenge
demands implicano uno sforzo da parte del lavoratore, ma portano a crescita, impegno e
vigore; le hindrance demands richiedono sforzo, ma ostacolano crescita e apprendimento
causando danni alla salute e alla motivazione del lavoratore. Entrambe correlano con il
burnout, ma solo le prime possono portare ad effetti positivi come l’engagement (impegno e
coinvolgimento) se gestite in modo opportuno. Cosa si intende per risorse all’interno di
questo modello? Danno al lavoratore la possibilità di rispondere alle richieste, tra cui
l’autonomia, la chiarezza di ruolo e di compiti, la progettazione del lavoro, gli stili di
leadership, la partecipazione alle decisioni e il supporto sociale. Questi sembrano essere
elementi da considerare risorse trasversalmente ai contesti, ma il modello ci pone di fronte a
una classificazione in due categorie: le risorse personali riguardano autovalutazioni positive
che influenzano la percezione di agire con successo sull’ambiente di lavoro; le risorse
lavorative riguardano la disponibilità di informazioni, il supporto dei capi e dei colleghi, il
feedback sulle prestazioni. La combinazione di questi tipi di risorse ha una ricaduta molto
positiva sul benessere del lavoratore. Inoltre, quanto più si riescono a bilanciare le job
demands con le job resources tanto più si avrà work engagement, al contrario l’esito è
l’esaurimento  questi due elementi incidono l’uno positivamente, l’altro negativamente
sulla job performance.
Evoluzione del modello  in vista del fatto che l’individuo è dotato di agency, quindi è
capace di modificare il contesto, anticipare gli eventi e gestire situazioni, gli studiosi si sono
interrogati sul ruolo che egli ha nella combinazione di job demands e job resources
all’interno del contesto e hanno introdotto il concetto di job crafting: è un processo con cui
il lavoratore modella il proprio lavoro a sé stesso, mette in atto una serie di aggiustamenti
per far sì che il bilanciamento tra richieste e risorse si adatti alla propria soggettività; è
definito l’insieme dei cambiamenti materiali o cognitivi che le persone apportano ai loro
compiti e alle loro relazioni di lavoro. I cambiamenti materiali/oggettivi si riferiscono agli
obiettivi perseguiti, alla loro forma, numero e contenuto, mentre i cambiamenti
cognitivi/soggettivi si riferiscono al modo in cui si percepisce il proprio lavoro. Secondo la
letteratura, le persone fanno job crafting quando ragionano su quali sono gli obiettivi e quali
le strategie per raggiungerli e provano ad agire sul contesto, cercando di capire come
cambiarlo per favorire il proprio funzionamento. Quindi il job crafting è l’insieme dei
cambiamenti che i lavoratori possono apportare per modificare il sistema di richieste e di
risorse lavorative e si può esprimere mediante tre tipi di comportamento: aumento delle
risorse lavorative di tipo strutturale e sociale, aumento delle richieste sfidanti (challenge) e
diminuzione delle richieste ostacolanti (hindrance). Esso è una risorsa a disposizione del
lavoratore che si costruisce con l’esperienza, con la conoscenza del contesto, che migliora il
work engagement e la soddisfazione lavorativa (in generale il benessere lavorativo) ed è
correlato negativamente col burnout.
Il Job demand-resources è stato poi applicato quale modello di intervento
nell’organizzazione, non solo per diagnosticare benessere e malessere, articolato in otto
tappe e definito JD-R Monitor.
1. Definizione della situazione e del problema: l’organizzazione riconosce che c’è un
problema di benessere lavorativo;
2. Progettazione dell’intervento: capire quali sono i fattori chiave da inserire nel modello in
termini di specifiche richieste e risorse, e le relazioni tra variabili e esiti; si coinvolgono gli
attori sociali
3. Comunicazione interna all’organizzazione per legittimare lo studio;
4. Raccolta dei dati che deve avvenire in anonimato e prevedere poi un feedback;
5. Analisi e report: descrizione dei risultati abbinata a dei primi consigli su come
intervenire;
6. Restituzione dei risultati a tutti i livelli e discussione con gli interessati;
7. Interventi veri e propri, possono essere sia individuali che organizzativi;
8. Valutazione generale del processo ripercorrendo le tappe precedenti.

Guardare al benessere vuol dire tenere conto anche di altri aspetti, tra cui dare al lavoratore
la possibilità di recuperare le energie e conciliare lavoro e famiglia. Tra i concetti più recenti
emersi nello studio del benessere lavorativo vi è sicuramente il recovery from work, cioè il
tempo dedicato al recupero dal lavoro: si tratta di un processo psicologico nel corso del
quale il sistema di funzionamento dell’individuo, che è stato attivato durante un’esperienza
stressante (lavorativa) ritorna a livelli pre-stressor. La difficoltà a gestire un equilibrio tra
demands e resources mette il lavoratore a dura prova quotidianamente nello svolgimento del
suo lavoro, e se non riesce a trovarlo esperirà stress prolungato, che potrebbe poi sfociare in
burnout, costituendo un rischio sia per l’individuo che per l’organizzazione. Gli studi
affermano che garantire un adeguato recovery from work ai dipendenti di un’organizzazione
e in generale a un lavoratore contribuisce un miglioramento delle performance; se il
recovery non è sufficiente la prestazione successiva non sarà adeguata. Le teorie sul
recovery sono ancora poche, ma si distinguono due approcci:
- teorie sforzo-recupero  concepiscono il recupero come un elemento necessario che
avviene nel momento in cui si tiene il lavoro fuori dalla vita; gli sforzi fatti per le richieste
lavorative causano uno sforzo mentale, che si riduce quando terminano le richieste e si
attiva il recovery. Per poter recuperare, i sistemi di funzionamento lavorativi non devono
essere stimolati nel tempo libero, ma ne vanno stimolati altri;
- teorie di conservazione delle risorse  secondo Hobfoll, le persone tendono a proteggere
le proprie risorse e abilità e in situazioni stressanti esse si logorano per cui è necessario
trovarne di nuove. Esperienze di recovery per il recupero delle risorse: mettere in atto da un
lato una serie di comportamenti che portino distacco psicologico, stato di calma e
tranquillità (meditazione, lettura), in generale evitare di attivare i processi psicologici
richiesti dal lavoro; dall’altro cimentarsi in attività simili ma in ambiti diversi che
forniscono la possibilità di costruire nuove risorse funzionali ed integrative (mastery e
control).
Le ricerche sul recovery hanno evidenziato la sua capacità di migliorare le prestazioni dei
lavoratori sul lavoro e di aumentare benessere e soddisfazione lavorativa. Nei contesti
organizzativi quindi è stata riscontrata la necessità di promuovere maggiore consapevolezza
del concetto e delle sue implicazioni per la salute ai lavoratori, formare sulle possibili
attività di recovery (i lavoratori devono sapere come fare, non improvvisando) e formare il
management per la gestione delle risorse extra lavorative (non eccedere); inoltre, gli studi
affermano che la tecnologia non è recovery, non è uno strumento utile per la costruzione di
risorse né per il distacco che serve per ricominciare a lavorare (gli studi sono ancora in
corso).
In un mercato del lavoro sempre più competitivo e caratterizzato da un’extra-dedizione di
tempo ed energie ad attività lavorative, trovano spazio condizioni che favoriscono il rischio
di sviluppare una dipendenza dal lavoro definita dalla letteratura workaholism o work
addiction: un eccessivo e incontrollabile bisogno di lavorare che influenza in maniera
permanente la salute, la qualità della vita e le relazioni personali; è caratterizzata dal fatto
che il lavoro è vissuto come un’ossessione, si dedica poco tempo alla sfera personale a
causa del tempo dedicato al lavoro e si provano sensi di colpa quando non si lavora 
pensiero costante di lavorare come compulsione interna senza che vi siano reali necessità di
farlo. Questo costrutto è stato difficile da operazionalizzare a causa dei suoi antecedenti:
viene considerata una dipendenza “buona” poiché accettata socialmente; il contesto
lavorativo gioca un ruolo determinante nella promozione di workaholism attraverso culture
del lavoro prettamente orientate al risultato, sistemi di incentivi che premiano elevati livelli
di produzione (società capitalista), esempio di responsabili che lavorano molto, forte
identificazione organizzativa (cittadinanza organizzativa), eccessive richieste lavorative da
parte dell’organizzazione.
Un’altra problematica legata all’attuale contesto in cui il mercato del lavoro è debole e
precario è l’insicurezza lavorativa, un concetto psicologico che fa riferimento alla
preoccupazione relativa alla continuità del proprio lavoro, al timore di perderlo e restare
disoccupati; è considerata una variabile in grado di influenzare i vissuti di benessere e
malessere e come uno stressor dalla teoria transazionale di Lazarus; difficile individuare
strategie di coping efficaci; conseguenze negative si associano a una riduzione della
soddisfazione lavorativa, del commitment, della salute psicologica e fisica, della
prestazione. Alcuni studi hanno evidenziato come l’insicurezza lavorativa possa spingere
talvolta le persone ad aumentare gli sforzi lavorativi per “convincere” i datori di lavori
dell’importanza del loro contributo all’organizzazione e altri evidenziano come la relazione
tra l’insicurezza lavorativa ed esaurimento emotivo (dimensione centrale del burnout) sia
mediata dal carico di lavoro e dal genere.
La popolazione mondiale sta invecchiando molto rapidamente ed è previsto quindi un
aumento della percentuale dei lavoratori “old” rispetto a quelli “young”, ragion per cui
l’invecchiamento della forza lavoro è considerata una delle caratteristiche distintive del
ventunesimo secolo. Numerosi studi si sono focalizzati sul benessere dei lavoratori
anziani: non è possibile definire un’età universale che determini quando un lavoratore
diventa “maturo”, soprattutto per l’insieme di fattori che possono modificare tale
definizione come gli stereotipi nei loro confronti e le norme sociali legate all’età
pensionabile. L’invecchiamento porta con sé cambiamenti fisici, cognitivi e di personalità
che hanno degli effetti in termini di performance lavorativa  poiché per molti essa risulta
ancora adeguata è importante che i lavoratori anziani ricoprano, laddove la mansione lo
consente, ruoli lavorativi che valorizzino l’intelligenza cristallizzata (e non l’intelligenza
fluida che tende a decadere con l’avanzare dell’età), quindi il loro bagaglio di competenze,
es. ruoli di supervisione. Da un punto di vista organizzativo, variabili in grado di influenzare
il benessere del lavoratore anziano sono quelle connesse alla presenza di stereotipi e
pregiudizi (ageism) e quelle relative al job design: un clima organizzativo che favorisca un
positivo age climate può ridurre il desiderio di andare in pensione e incrementare la loro
salute; nonostante la motivazione al lavoro tenda a non diminuire con l’età, i lavoratori
anziani sono spesso sottovalutati negli ambienti di lavoro e oggetto di stereotipi legati
all’età e di comportamenti discriminatori (assegnazione non equa di compiti e
responsabilità). Le politiche di risorse umane a supporto e potenziamento delle peculiarità di
ogni fascia d’età sono indispensabili al fine di garantire benessere occupazionale delle
risorse e adeguata performance lavorativa  nonostante i lavoratori anziani siano
frequentemente orientati all’uscita dal mondo del lavoro, è utile per le organizzazioni
continuare a sostenere la loro employability in quanto essi rappresentano un’importante
fonte di conoscenza tacita e poi perché è stato dimostrato che possono continuare a svolgere
efficacemente la maggior parte delle attività lavorative. Il termine age management fa
riferimento alle possibili azioni e interventi attraverso cui le risorse umane vengono gestite
all’interno dell’organizzazione con un’attenzione specifica sull’età: misure volte
all’abbattimento delle barriere d’età e alla valorizzazione delle differenze intergenerazionali.
L’OMS ha evidenziato che l’attività lavorativa è associata a un migliore stato di salute,
benessere e integrazione sociale, ma per una serie di ragioni legate alla contingenza molte
persone si trovano ad allontanarsi temporaneamente dal mondo del lavoro. Il tema del
return to work, il reinserimento lavorativo dopo prolungata assenza ha acquisito sempre
più importanza nell’ambito della psicologia del lavoro e della salute, ed è stato studiato in
riferimento alle persone che si sono allontanate dal lavoro a causa di malattie, disabilità o
infortuni (periodo di riabilitazione) ma anche per maternità, cassa integrazione  il
reinserimento professionale può essere vissuto come un periodo emotivamente stressante in
quanto richiede l’adozione di strategie di adattamento al cambiamento in relazione alla
propria condizione psicofisica o lavorativa, alcune persone possono esperire un aumento di
livelli di ansia e depressione, anche se altri studi hanno evidenziato alti livelli di
soddisfazione lavorativa nelle persone che rientravano a lavoro ad esempio in seguito a
riabilitazione cardiovascolare. Altri studi hanno dimostrato che maggiore è il periodo di
assenza dal lavoro per malattia, minore è la probabilità che la persona ritorni effettivamente
al lavoro, quindi diventa fondamentale identificare e comprendere quali sono i fattori che
possono ostacolare o facilitare il reinserimento lavorativo: sociodemografici (età, livello
d’istruzione), clinici, psicologici (aspettative, depressione) e organizzativi (soddisfazione e
stress lavorativo). Gli interventi riguardano l’adattamento delle condizioni di lavoro alle
possibilità del lavoratore e il supporto a livello relazionale tra quest’ultimo e il datore di
lavoro per mantenere alto l’interesse.
Ricapitolando

1. Modello J-DR: definizione e tipi di domande e risorse, modello di intervento nelle


organizzazioni
2. Job crafting
3. Recovery e antecedenti, modalità di recovery
4. Workaholism
5. Insicurezza lavorativa
6. Il benessere dei lavoratori anziani – azioni di reinserimento

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