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DALLA MANO ALLA BOCCA

Se solo i fossili potessero parlare!

E’ così che – sagacemente – Corballis sintetizza il problema dell’origine del linguaggio. Le


controversie furono generate prevalentemente dalle difficoltà di ordine metodologico di indagine,
motivo per il quale la Société de Linguistique de Paris, per evitare che i suoi membri si perdessero
in questioni e polemiche ritenute indecidibili, nel 1866 mise al bando la presentazione di relazioni
che toccassero il problema.
A due teorie fondamentali sull’origine vocale del linguaggio, vale a dire la teoria dei suoni naturali
e la teoria dell’adattamento fisico, si contrappone quella dell’origine gestuale. Più specificamente
quest’ipotesi patrocinata da Corballis segue il modello della continuità che cerca di rintracciare le
condizioni per un graduale sorgere del linguaggio umano nelle altre forme di comunicazione
animale, principalmente gesti manuali e facciali. L’idea che il linguaggio umano si faccia risalire ai
gesti manuali, comunque, era ancor prima speculazione del filosofo francese Condillac (1747).

Curiosità: Una teoria intrigante, ma che Corballis definisce “frivola”, suggerisce addirittura che
la nostra discendenza sia dagli uccelli e non dai primati.

Anche per Corballis il linguaggio assume carattere grammaticale, ma ciò che dimostra nelle sua
argomentazione è come queste proprietà non siano dovute ad un sistema di regole specifiche ed
unicamente umane, ma siano invece il risultato di adattamenti anatomici e pressioni selettive della
nostra specie.

Lezione di grammatica: Corballis definisce la grammatica come l’impalcatura su cui costruire


enunciati. Il linguaggio permette di mettere in relazione concetti già presenti nella mente ricorrendo
a delle regole. Parliamo di una classe di regole per lo più inconsapevoli che governano le forme
naturali del linguaggio umano; la nostra precisa capacità di costruire e comprendere enunciati
dipende quindi da una ben precisa competenza nell’uso delle stesse. L’impalcatura grammaticale
fondamentalmente è costituita da parole funzionali, mentre le parole di contenuto – che oltretutto
rappresentano una classe aperta - sono facilmente sostituibili. Fondamentalmente è la grammatica
che conferisce al linguaggio la sua generatività, rendendolo diverso da tutte le altre forme di
comunicazione animale. Sono stati molti, comunque, gli studiosi ad opporsi all’idea della mente
intesa come un computer, ovvero una struttura che opera seguendo regole, sempre più a favore
invece di un meccanismo associazionale. Ovvero: la mente è creata dal cervello ed opera per mezzo
di neuroni e sinapsi e che veicolano informazioni mediante gli organi di senso. Elman ha tentato
una simulazione con una rete in loop che potesse predire eventi successivi per mezzo di regole
grammaticali. Questa simulazione in qualche maniera impara senza sapere cosa sta apprendendo ed
inizialmente non è capace di maneggiare la ricorsività del linguaggio, ma con il fattore di crescita
riesce poi a cogliere sempre più dettagli. Ciò va a sostegno dell’idea che piuttosto che uno specifico
gene della grammatica di cui solo gli uomini sono dotati, il linguaggio potrebbe dipendere da
alterazioni evolutive nello schema della crescita (periodo post natale lungo); in maniera non
dissimile parliamo dell’acquisizione della grammatica mediante un meccanismo associativo che
includa questo fattore di crescita che potremmo tranquillamente chiamare esperienza. Chiaramente
è una condizione che va a svilire le idee innatiste (tra le altre quelle di Pinker), peraltro si rimarca
l’importanza della componente culturale del linguaggio, quella che Dawkins chiama MEMI
(caratteri culturalmente determinanti).
Linguaggio, verbo e pensiero: Corballis in qualche maniera ci distoglie sempre dall’idea che il
linguaggio sia dapprima verbale…e proprio in virtù di questo fatto siamo anche in grado di farci
un’idea di cosa sia il linguaggio non verbale e quindi il pensiero non verbale. Questo dipende dalla
nostra capacità di rappresentare nella nostra mente oggetti, suoni, azioni per poi manipolarli. Poi in
un secondo momento, quando ci avvaliamo del linguaggio per “pensare”, il pensiero richiede che
vi siano simboli (siano parole o segni) che siano associati ad oggetti, azioni, proprietà. Manipolando
questi simboli possiamo trasmettere il pensiero. Per dirlo alla Spinoza, il linguaggio potrebbe essere
inteso come un modo del pensiero. Il discrimen è la linearità del linguaggio (superata dalla
gestualità).

Curiosità: Il linguaggio del pensiero, vale a dire della rappresentazione mentale di oggetti e
concetti è noto come ‘’mentalese’’.

Gli animali e il linguaggio: Cartesio come pioniere della filosofia moderna si pose subito il
problema di distinguere – in termini cognitivi – gli animali non umani, da quelli umani. La sua idea
degli animali come automi, pure macchine, era non solo nuova, ma ritenuta anche sbagliata.
Tuttavia a la sua convinzione che il linguaggio umano sia un unicum, e che attesti la presenza in noi
della ragione, è oggi condivisibile alla luce della più moderna linguistica e delle neuroscienze.
Cartesio fu ampiamente criticato, anche alla luce delle teorie darwiniane, almeno sino a che Naom
Chomsky non costrinse i teorici ad affrontare nuovamente la questione: il linguaggio è davvero
qualcosa che solo gli umani possiedono. Neocartesiano convinto Chosmky lancia una sfida ponendo
la questione in termini ‘’computazionali’’; anzitutto il nostro cervello non è una tabula rasa, ma
possiede già alla nascita le istruzioni per imparare tutte le lingue; in secondo luogo tutte le lingue
possiedono un nocciolo di regole comuni (Grammatica universale) e possiamo verosimilmente
escludere che il linguaggio si sia sviluppato per una pressione evolutiva sul piano della
comunicazione, altrimenti anche le scimmie e le altre specie dovrebbero avere un linguaggio simile
al nostro.
Circa 5 o 6 milioni di anni fa si separa dagli ominidi il ramo degli ominini, quello che porta
all’essere umano moderno e che separa dagli scimpanzé e bonobo.
Gli animali hanno una certa capacità di imitare il discorso umano, ma non pensiamo che un
imitazione sia facoltà linguistica. Ciò ha dato praticamente il via ad una serie di esperimenti
sull’apprendimento del linguaggio da parte delle grandi scimmie. L’idea di allevare insieme un
bambino ed uno scimpanzé sembrava utile per ottenere qualche evidenza. Negli anni trenta due
scienziati attuarono quest’esperimento: lo scimpanzé fu in grado di comprendere un centinaio di
parole, senza produrne alcuna. L’esperimento venne ripresentato dalla coppia Hayes circa un
decennio dopo (il caso Viki) con risultati anche piuttosto ragguardevoli, poiché – considerata anche
la morfologia del tratto vocale – Viki riuscì a produrre alcune parole. Con Washoe venne invece
ritenuto opportuno operare con la lingua segnata che diede risultati sicuramente più incisivi: giunse
ad usare segni per più di 100 parole, acquisendo la capacità combinatoria per produrre frasi. Questo
fece scattare un campanello d’allarme per la possibilità di un sistema linguistico potenzialmente
produttivo. Inoltre dimostrò di comprendere molti più segni di quanti sapesse produrne. Il caso di
Kanzi (Savage-Rumbaugh) però è il più particolare: il bonobo dimostrò di produrre
spontaneamente la lingua dei segni, non soltanto come risposte a stimoli esterni. Mostrò inoltre di
avere memoria degli eventi passati e raggiunse le competenze linguistiche e sociali di un bambino
di circa 3 anni, tranne per il fatto che non sapesse parlare.

Protolinguaggio: Si tratta di un sistema tendenzialmente privo di grammatica, dotato di una sintassi


primitiva che permette di formare differenti combinazioni di parole che rappresentano oggetti e
azioni. Qualcosa di simile al proto linguaggio si può trovare in due specie di mammiferi marini
(delfini e leoni marini) e pappagalli. Le capacità proto linguistiche potrebbero dunque dipendere da
una capacità cognitiva più generale che permette a questi animali di formare rappresentazioni
mentali e di combinarle in modi dotati di significato. Una condizione simile può manifestarsi come
risultato di lesioni cerebrali, in situazioni note come agrammatismo. Anche il proto linguaggio è
generativo e permette di produrre e comprendere proferimenti nuovi anche se non fornisce nulla di
simile alla flessibilità e la narratività della sintassi completa. Il fatto che Kanzi ed altre grandi
scimmie abbiano appreso con successo un proto linguaggio dà l’idea che ne avessero già la
capacità. C’è un fatto importante da ricordare però: se nell’uomo l’apprendimento avviene – almeno
inizialmente – per imitazione, questa nei primati è scarsa. Ciò che secondo Povinelli impedisce di
superare il proto linguaggio è una limitata comprensione del mondo fisico. Già Tomasello
descriveva uno studio in cui le scimmie venivano poste lontano da un oggetto ed impossibilitate a
raggiungerlo: dando loro un rastrello, si osservava che per una capacità mentale NON imitativa,
riuscivano a trarre a sé l’oggetto bramato. Esperimento simile fu descritto da Povinelli. In ogni caso
la capacità di un pensiero combinatorio potrebbe stare alla base di un protolingaggio.

All’inizio era il gesto: L’arbitrarietà della parola ci priva di ogni connessione reale tra significante e
significato, cosa che invece difficilmente accade con il gesto, soprattutto nell’indicare il significato
di una parola additando il suo referente. Il gesto è in qualche maniera il ponte tra il suono e la
realtà: sembra quasi inevitabile che la relazione tra suoni arbitrari e gli oggetti cui si riferiscono sia
nata dal gesto in quanto – cito – “il mondo era così nuovo che molte cose non avevano un nome”.
Ancora una volta, ci ricorda Povinelli, l’attività puramente associativa.
A sostegno di un linguaggio “segnico” ancor prima dell’istinto, c’è la prova che le grandi scimmie
gesticolano con una connotazione tipicamente sociale (gioco, aggressione, pacificazione): si
riferiscono tendenzialmente ad azioni piuttosto che a oggetti (tranne nell’additare, un’attività mai
riscontrata in natura, ma comprovata sulle scimmie che sono in cattività, poiché le scimmie in
natura indicano con lo sguardo); la trasformazione da iconico ad astratto si chiama
convenzionalizzazione.
I due modi peculiari dell’indicare nelle grandi scimmie, sono l’additamento e lo sguardo, anche se
non intesi propriamente alla maniera umana: è stato infatti assunto che lo scimpanzé risponde in
base alla vicinanza della mano all’oggetto e non alla direzione.
In ogni caso i gesti degli scimpanzé sono diadici, quindi volti ad una altro individuo.
A questo punto è evidente la volontà comunicativa. Forse in questo caso è più sensato credere allo
scopo comunicativo del gesto e all’istinto della vocalizzazione che nelle scimmie sembra essere una
connotazione più che altro emotiva, legata a situazioni di pericolo o approcci sessuali.
Ultima cosa non meno importante è la nozione di cultura: ad esempio i macachi giapponesi sono
unici nella loro specie perché lavano le patate prima di mangiarle. La scimmia colta si riconosce
anche nelle diversità culturali tra gli scimpanzé, identificate in differenti schemi comportamentali
che riguardano il pulirsi, l’uso di utensili o riti particolari per corteggiamento. Secondo Wundt gli
esseri umani condividono con gli altri animali un certo numero di gesti espressivi fondamentali ma
il grande passo che fece la specie umana fu la capacità di imitare attività arbitrarie. In un certo
senso, nelle mani degli uomini il gesticolare ha acquisito alcune delle proprietà tipiche del
linguaggio vero e proprio.

Bipedalismo: Nella transizione dalle grandi scimmie alla famiglia degli Ominini, un elemento
evolutivo di grande rilevanza per la teoria gestuale è naturalmente il bipedalismo che, esautorando
le mani da compiti legati al movimento, le lascerebbe libere di dedicarsi alla comunicazione. Se da
un lato la posizione eretta ha dato adito a teorie sull’attività fonatoria tipica del linguaggio verbale
umano, per via della morfologia del tratto vocale, dall’altro lato può rappresentare l’emancipazione
di braccia e gambe dagli impegni locomotori, per dedicarsi liberamente alla gestualità. Circa 6
milioni di anni fa esisteva una specie unica costituita da antenati comuni a noi, agli scimpanzé e
bonobi moderni. Questa specie si suddivise in due rami, di cui uno suddiviso ulteriormente tra
scimpanzé e bonobo, mentre l’altro diede origine ad un certo numero di specie differenti, tra cui
noi. Noi apparteniamo all’ordine dei primati, famiglia degli ominini, genere Homo, specie Sapiens.
La creatura più antica identificata come ominino risale a 6 milioni di anni fa e fu ritrovata in Kenya
(Orrorin). I vari ritrovamenti sono collocati tra i 6 e i 4 milioni di anni fa. Fino al 1924 si sapeva
poco circa la transizione fra scimmia e uomo, sino a che Rymond Dart entrò in possesso di un
teschio con tratti sia umanoidi che scimmieschi, in Sudafrica. Venne annoverato come
Australopithecus africanus, ossia uomo del sud ed identificato come anello mancante.
Una scoperta importante fu quella di Lucy, fossile rinvenuto in Africa orientale di circa 3 milioni di
anni fa, certamente bipede. Oltre la posizione eretta i primi ominini non erano molto differenti dai
predecessori grandi scimmie: l’incremento della massa cerebrale e l’utilizzo di utensili sarebbe
avvenuto soltanto con il genere Homo.

Teoria della savana: Per molti archeologi il passaggio alla posizione eretta avviene a causa dello
spostamento dalla foresta alla savana. La teoria della savana tuttavia è stata rifiutata da Tobias nel
1995, il quale spiegò che i reperti vegetali fossili ritrovati con l’australopitecus non appartenevano
alla vegetazione tipica della savana.

Teoria dell’acqua: La teoria invece avanzata è la cosiddetta teoria dell’acqua, per cui il bipedismo
si sarebbe sviluppato con l’esigenza di camminare nell’acqua per la ricerca di cibo. Peraltro anche
gli altri mutamenti anatomici sembrano compatibili con ambienti acquatici piuttosto che asciutti.

In concomitanza col bipedalismo W.H.Calvin suggerisce che il lancio può aver aperto la strada al
linguaggio giacché una simile capacità, di lanciare principalmente col braccio destro, avrebbe
condotto alla comparsa di circuiti dedicati alla coordinazione temporale nell’emisfero cerebrale
opposto.

Diventare umani: Con la comparsa del genere Homo, circa 2mln di anni fa, altre acquisizioni
anatomiche e comportamentali come le prime manifatture litiche, l’allungamento del periodo
dell’infanzia, l’accrescimento del volume celebrale e di forme di coalizione sempre più complesse,
potrebbero aver consentito al primo protolinguaggio gestuale di assumere veri e propri tratti
grammaticali. Una caratteristica di prima appartenenza al genere umano è la capacità di costruire
utensili.
La relazione tra linguaggio ed utensili vede nel tempo diverse speculazioni: Holloway sosteneva
che gli elementi di progetto intrinseci agli utensili litici implicavano una dipendenza dal linguaggio.
E’ probabile tuttavia che gli utensili siano il prodotto di sfide ambientali piuttosto che dell’abilità
linguistica in sé. L’idea di Corballis è che nel corso degli ultimi due milioni di anni sia andato
emergendo un linguaggio più sofisticato, accompagnato da processi di pensiero innovativi e
generativi che hanno permesso lo sviluppo di utensili più sofisticati quando le circostanze lo hanno
richiesto. Questo linguaggio era con tutta probabilità più gestuale che parlato così che lo sviluppo
della manifattura potrebbe essere stato in realtà inibito dall’uso delle mani.
La comparsa del genere Homo è importante non solo perché coincide con i primi utensili litici
conosciuti, ma anche perché segna l’inizio dell’incremento della massa cerebrale, connesso allo
sviluppo mentale ed in particolare del linguaggio.

Perché tutti i cambiamenti importanti avvennero nello stesso periodo?

Secondo Pinker i caratteri fondamentali della mente umana si sono evoluti quando i nostri antenati
si adattarono allo stile di vita degli agricoltori cacciatori. Gli ominini non erano ben messi
fisicamente, ma per istinto di sopravvivenza ideavano strategie cognitive per minimizzare il
pericolo e massimizzare le opportunità di attacco. La cooperazione fu fondamentale per la
sopravvivenza dei nostri antenati, sia nelle coalizioni per la lotta, sia per un comportamento
altruistico (di cui Hamilton ha notificato una regola genetica).
L’imposizione della coalizione e la comparsa della mente: I meccanismi di rafforzamento della
coalizione dipendono pesantemente dagli sviluppi della mente, vale a dire che alla collaborazione
soggiace la già conosciuta teoria della mente. Simon Baron Cohen ha sostenuto che una vera teoria
della mente non esisteva nell’antenato comune di uomini e scimpanzé e si è probabilmente evoluta
per incrementi piuttosto che come una facoltà tutto-o-niente.
Forse il modo più ovvio attraverso cui gli stati mentali ed emotivi possono essere condivisi è
proprio il linguaggio, interdipendente con la teoria della mente.

Curiosità: la teoria della mente ha la stessa struttura ricorsiva degli enunciati.

In definitiva i tratti della mente umana sono emersi negli ultimi 2 milioni di anni; tranne che per la
componente culturale, le capacità mentali umane con molta probabilità raggiunsero lo stesso livello
di oggi già con la nascita di Homo Sapiens in Africa (150.000 anni fa). Anche se i primi Homo
Sapiens probabilmente parlavano, almeno in alcune occasioni, ci sono buoni motivi per supporre
che gran parte dello sviluppo del linguaggio abbia avuto luogo tramite gesti manuali piuttosto che
tramite vocalizzazioni. I nostri progenitori primati erano mal equipaggiati per generare segni vocali
intenzionali, erano invece meglio adatti a compiere movimenti volontari con mani e braccia. Inoltre
le comunicazioni vocali avrebbero attratto altri animali, mentre i gesti manuali sono silenziosi. Lo
sviluppo del lancio e la costruzione di utensili fa parte di quella che Merlin Donald ha chiamato fase
mimica nell’evoluzione degli ominini, ovvero: le azioni coinvolte nella costruzione o nell’uso di
utensili avrebbero potuto essere impiegate per rappresentare gli oggetti stessi. Donald e Corballis
hanno idee tendenzialmente differenti sulla mimesis. Per il primo non è considerabile
protolinguaggio, ma suo precursore. Per Corballis può essere protolinguaggio a tutti gli effetti.

Girolamo Cardano osservò nel 1576 che i sordi erano capaci di esprimere idee astratte in termini
segnici; poco meno di un secolo dopo Bonifacio parlava di segno linguaggio universale. C’erano
già delle buone basi per un discorso sulla lingua segnata, ma soltanto verso la metà del 700 con
Etienne Bonnot de Condillac, si arriva a parlare precisamente del linguaggio come qualcosa di
originato dai gesti. Prima del 1750 tendenzialmente i sordi congeniti si sarebbero ritrovati in una
situazione di minus, data l’impossiblità di imparare a leggere e a scrivere. Fu soltanto verso la fine
del secolo che le cose migliorarono, in Francia, grazie a Charles Michael de l’Epée , un abate dedito
alla salvezza delle anime dei sordomuti, quali privati della parola di Dio. Questo atteggiamento
illuminato si diffuse altrove nel giro di diversi anni. Dalla scuola parigina si spostò poi negli stati
uniti grazie a Laurent Clerc quale fondò il primo istituto per una fiorente tradizione
dell’insegnamento della lingua segnata; la cosa condusse allo sviluppo dell’ASL. Ci furono non
poche difficoltà, causa delle scuole oraliste fino al punto in cui a Milano nel 1880 durante un
congresso, a favore della tradizione oralista venne dichiarato proibito il linguaggio dei segni, fino
agli anni 70. Nell’ASL sono stati attestati 4000 segni, ma è sicuramente una sottostima. Le lingue
segnate comunque non riguardano solo i sordi; tra le più complicate si possono annoverare quelle
dei nativi australiani, ma trattandosi di lingue recenti non patrocinano l’evoluzione della lingua
parlata a partire da quella segnata. Plains Sign Talk è simile ma sviluppata in Nordamerica. Anche i
monasteri hanno rappresentato focolai prolifici per le lingue segnate, sebbene in questo contesto
siano più simili al proto linguaggio (come pidgin) che al linguaggio maturato, sia perché non sono
apprese nella prima infanzia, sia per le restrizioni. Come nel caso del parlato comunque anche la
lingua dei segni ha la proprietà della trasmissibilità culturale, sebbene sia contingente, quindi non
necessaria: la nascita apparentemente spontanea di lingua dei segni suggerisce l’innatismo. Alcuni
studiosi hanno peraltro trovato prove che i bambini sordi aggiungono spontaneamente una
grammatica alle forme primitive di lingua segnata improvvisata dai genitori udenti. Si tratta di un
esempio di creolizzazione a partire da un pidgin originariamente rozzo. L’idea di Corballis è a
sostegno di una maggiore naturalità della lingua dei segni, anche in virtù del fatto che i bambini
acquisiscono il linguaggio segnato prima e più facilmente di come altri bambini imparino a palare.
Il balbettare – peraltro – molto spesso accompagnava la gestualità dei bambini sordi allevati da
genitori sordi: ciò lascia presumere il balbettare come importante precursore del linguaggio sia
parlato che segnato. Ricapitolando: è evidente che gli indizi di una prima grammatica gestuale
vengono cercati da Corballis nelle attuali lingue segnate usate dai sordi. Queste mostrano tutte le
caratteristiche proprie del linguaggio verbale: sono apprese spontaneamente dal bambino durante lo
stesso periodo critico in cui si apprendono le lingue verbali , i loro segni sono doppiamente
articolati e possiedono un lessico ed una sintassi tali da poter supportare l’insegnamento
universitario di discipline come matematica, filosofia e poesia. La sintassi delle lingue parlate è
lineare (avviene cioè nella sola dimensione del tempo, nella quale le parole si susseguono), le lingue
segnate organizzano grammaticalmente anche lo spazio, facendo uso di tutte le dimensioni fisiche
della nostra esperienza, anche tramite il ricorso all’espressività ed alla postura. Questo aspetto,
insieme ad elementi come la localizzazione degli individui, spinge all’idea che le lingue segnate
abbiamno un elemento di analogicità che manca alla sintassi di qualsiasi lingua parlata, ovvero
l’uso sintattico dello spazio tempo rimane fortemente iconico. Una sintassi iconica può istituirsi
gradualmente tramite l’uso e senza dover postulare improvvise riorganizzazioni del cervello e
sarebbe una conseguenza delle caratteristiche del gesto, che viene definito seme della sintassi.
Il segno: è l’unità fondamentale che corrisponde alla parola in una lingua parlata.
In semiotica, il segno è definito "qualcosa che sta per qualcos'altro, a qualcuno in qualche modo". È
considerato una unità discreta di significato: un sistema, composto da un segnale, una referenza e un
referente, che rinvia ad un contenuto.

Il passaggio da segni iconici ad arbitrari viene detto convenzionalizzazione e si applica in maniera


abbastanza generale ai sistemi di comunicazione. Una volta divenuto arbitrario – il segno – il
ricevente non può più fare affidamento alla sua somiglianza con oggetti o eventi del mondo reale.
Con la convenzionalizzazione la comunicazione si sposta nell’ambito della cultura; dover imparare
simboli arbitrari può sembrare a prima vista un fastidio, ma invero comporta notevoli vantaggi:
innanzitutto sono più brevi, consentendo una comunicazione più efficiente. Inoltre i segni iconici
possono provocare confusione tra oggetti o azioni simili. In definitiva avere più segni per più
significati è vantaggioso.

Dualità di composizione: Un’altra caratteristica del “vero linguaggio” è che possiede una
grammatica tale da imporre una struttura a quel che diciamo. I due livelli di analisi presi in
considerazione nel creare una dualità di composizione sono la Sintassi e la Fonologia.

Sorprendentemente anche nelle lingue dei segni si possono identificare elementi di tipo fonemico,
benché silenziosi. La differenza è che nel parlato gli elementi occorrono sequenzialmente, mentre
nella lingua segnata possono essere disponibili simultaneamente. I fonemi delle lingue segnate sono
– parimenti a quelle delle lingue parlate – coarticolati; variano dunque con il contesto. I modi di
gesticolare, in effetti, possono essere considerati distintivi quanto le voci. Inoltre i movimenti
concreti sono influenzati dal movimento precedente e da quello successivo, proprio come i fonemi
nel parlato sono influenzati da quelli contigui. E’ chiaro che tutti gli elementi sintattici che
occorrono nella lingua parlata abbiano una controparte in quella segnata. Lo studio della sintassi
delle varie lingue dei segni è relativamente recente: una differenza sostanziale è che nella lingua
segnata la marcatura sintattica è effettuata contemporaneamente al resto del messaggio, nella stessa
maniera in cui gli elementi dei segni individuali sono trasmessi simultaneamente piuttosto che
sequenzialmente.

Il considerevole dominio della parola sulle nostre vite è di certo un tratto caratterizzante della
condizione umana, sebbene siamo portati a gesticolare anche quando non sia necessaria una
situazione pragmatica (come per esempio mentre siamo al telefono).
Se al principio era il gesto, allora, cosa mai può essere accaduto per determinare un cambiamento
così radicale? Non è ben chiaro quando il parlare sia entrato nel corso dell’evoluzione della nostra
specie, anche perché non si ha una prima prova inconfutabile antecedente alle registrazioni di
Edison.
Il modo più intuitivo per comprendere la storia del linguaggio è tramite le parole: è facile vedere
come parole di diverse lingue siano correlate e derivino da radici comuni.
Le lingue mutano nel corso del tempo e in comunità linguistiche differenti divergendo gradualmente
sino a che non diventano praticamente incomprensibili reciprocamente; l’ideale sarebbe
raggruppare le lingue in base alle loro somiglianze e così procedere sino ad ottenere una mappatura
del corso della preistoria umana.
Un pioniere di questo approccio fu William Jones, un giudice di stanza in India del quale si dice che
avesse appreso 28 lingue. Egli notò forti affinità tra sanscrito, greco e latino, evidenze che lo
condussero ad identificare la famiglia indoeuropea (il territorio di comune origine di queste lingue è
la regione danubiana 5000/6000 a.C.).
Già diversamente la situazione si presentava in Africa, dove il comparatista americano Joseph
Greenberg identificava almeno 4 famiglie di cui la più antica Khoisanica.
Qualcuno ha sostenuto che le famiglie linguistiche possano essere raggruppate in super-famiglie:
per esempio l’indoeuropeo potrebbe appartenere alla superfamiglia nostratica.
Il linguista comparativo Merrit Rhulen ha fornito una classificazione secondo la quale questa
superfamiglia è stata suddivisa in eurasiana-americana ed eurasiatica. Si è poi proposta una
convergenza di tutte le famiglie ad un’unica lingua originaria detta ‘’Proto-Mondo’’ o lingua madre,
databile tra 100.000 e 70.000 anni fa.

Vitaly Shevoroshkin sosteneva che in principio il significato veniva trasmesso ricorrendo solo a
consonanti con un'unica vocale (a) breve, simile ad un grugnito. Le vocali emersero solo dopo per
favorire la distinzione dei significati; lo studioso russo suggerisce che la parola changa si riferisse
inizialmente ai significati di naso e odore. Successivamente, nel corso della transizione da un
sistema parzialmente gestuale ad un sistema vocale autonomo, l’esigenza – forse – di disambiguare
e di fornire due significanti per due significati innescò la nascita delle altre vocali, sicché chunga,
da quel momento in poi, sarebbe stata utilizzata per riferirsi all’odore, lasciando invariato il binomio
changa-naso (170.000-100.000 anni fa).
Ci furono molte ondate migratorie, ma dal momento che molti discendenti dei primi migranti non
sopravvissero all’arrivo dei successivi l’esodo critico (quello delle popolazioni moderne non
africane) deve essere stato relativamente recente. A tale proposito è stata effettuata una minuziosa
analisi del mtDNA raccolto da 35 individui moderni di diverse parti del mondo, che suggeriscono
che l’antenato comune più recente delle popolazioni africane e non, visse intorno a 52.000 anni fa.
Ciò suggerisce un esodo dall’Africa di una popolazione diversa da quelle ominine indigene,
confermato dagli studi sulla variazione del cromosoma Y, per cui: come il mtDNA trasmesso in
linea femminile, il cromosoma Y appartiene solo alla discendenza maschile e non va incontro a
ricombinazione. I cambiamenti del cromosoma Y quindi sono attribuibili solo a mutazione.
In qualche maniera le ondate migratorie sempre successive, sostituivano le precedenti come in ogni
storia di colonizzazione. Uno degli esempi di “sostituzione” è l’uomo di Mungo, in Australia,
probabilmente appartenente ad un’ondata migratoria più antica, estinta a seguito dell’arrivo di nuovi
migranti. Lo studio del DNA mitocondriale a questo punto può dirci tanto anche sulle differenze
sessuali e la condotta dei nostri antenati: si suppone (e Pinker ne è sostenitore) che almeno nelle
società aduse al saccheggio, fossero gli uomini soltanto ad andare in guerra e per avere le donne; le
bande di migranti, in definitiva, sarebbero state composte soltanto da maschi.

Secondo Corballis gli adattamenti anatomico-celebrali necessari allo sviluppo di una lingua parlata
autonoma dal gesto sarebbero sorti solamente 200.000 anni fa con la comparsa della nostra specie,
Homo Sapiens. Questi non sarebbero nati per la parola, bensì sarebbero stati l’effetto secondario di
altri adattamenti anatomici raggiunti tramite selezione naturale e dunque adattativi: ad esempio
l’abbassarsi della laringe, necessario per produrre i suoni tipici della nostre lingue, viene
interpretato come una necessità strutturale imposta dallo svilupparsi progressivo della stazione.
L’insieme di queste caratteristiche sedimentatesi durante la storia della specie sarebbe stato sfruttato
per il passaggio dal gesto alla parola soltanto in tempi recenti e collegato al boom tecnologico che,
secondo gli archeologi, è avvenuto circa 40.000 anni fa
La possibilità di un linguaggio vocale autonomo è stata una “scoperta” gradualmente sviluppatasi
secondo modalità culturali. L’invenzione di modalità comunicative simili a quelle contemporanee
ed il conseguente passaggio da una predominanza del gesto ad una della voce avrebbe permesso una
comunicare senza contatto visivo, con conseguente liberazione delle mani e possibilità di dedicarsi
ad altre attività anche durante il processo comunicativo. Questa nuova condizione ha comportato
forti ripercussioni sul versante della trasmissione del sapere: il poter spiegare con parole una certa
procedura tecnica mentre la si esibisce ha concesso di veicolare informazioni ben più complesse ed
articolate.

Anche se quasi certamente i primi Homo sapiens erano quindi potenzialmente capaci di parlar una
lingua vocale autonoma, questa capacità è emersa molto più tardi nell’evoluzione del genere Homo.
In virtù di quanto scritto sopra, cerchiamo di comprendere brevemente il cambiamento anatomico:
la laringe comparve con l’evoluzione del polmone ed il suo ruolo primario era quella di escludere
l’ingresso nelle vie aeree inferiori di qualunque cosa non fosse aria. In origine era una fascia
muscolare intorno alla glottide che chiudeva il tratto. Divenne poi una struttura capace di impedire
all’aria di entrare o uscire dai polmoni quando tratteniamo il respiro. Ancora dopo la sua
evoluzione fu fondamentale per la produzione di suoni, grazie al passaggio d’aria e la vibrazione
delle pliche vocali, sebbene il suono dipenda da come esso stesso venga filtrato dal tratto vocale.
Gli scimpanzé dal punto di vista anatomico sono semplicemente impossibilitati a produrre gran
parte dei suoni che invece produciamo noi grazie all’abbassamento della laringe nella gola,
possibilmente conseguenza del bipedalismo.
Ad ogni modo le variazioni dimensionali del tratto vocale – dice Corballis – possono essere
considerate gesti. La percezione della lingua parlata può dipendere almeno in parte dalla
percezione di quello che stanno facendo gli articolatori piuttosto che da un’analisi puramente
acustica. Quest’idea è alla base della cosiddetta “teoria motoria” della percezione del linguaggio.
Curiosità: si chiama effetto McGurk, ed è il fenomeno secondo il quale se si sovrappone un suono
come ga su un video di una bocca che sta in realtà dicendo ba, allora sentiremo la sillaba da.

Se prendiamo ad esempio anche i ventriloqui, possiamo convincerci del fatto che in fin dei conti
neppure la lingua parlata sia sfuggita alle sue origini gestuali.
Anche se l’abbassamento della laringe è stato decisivo per l’evoluzione del parlare umano, può aver
comunque giocato un ruolo abbastanza diverso: generalmente quanto più gli animali sono grandi,
tanto più è lungo il loro tratto vocale, consentendo la produzione di suoni profondi per via di
formanti basse. E’ possibile che l’abbassamento della laringe negli umani sia stato selezionato per
farci apparire più grossi e spaventare i predatori. Philip Lieberman sotiene da tempo che i
cambiamenti sfociati nel tratto vocale umano non si completarono fino alla comparsa della nostra
specie, intorno a 150.000 anni fa; se la sua argomentazione è corretta, ciò vuol dire che il tratto
vocale umano deve essersi formato dopo la separazione specifica tra Homo Sapiens e Homo di
Neanderthal.

Cambiamenti nel cervello: L’area F5, in cui è stato scoperto il sistema dei neuroni specchio nelle
scimmie, è omologa all’area di Broca negli umani. Ora, poiché l’area di Broca negli umani è
connessa a funzioni legate alla produzione e comprensione del linguaggio e dal momento che nelle
scimmie la F5 è un’area legata (prevalentemente) alla comprensione delle azioni manuali, è
possibile ipotizzare che nel corso della filogenesi umana le vocalizzazioni siano state gradualmente
incorporate all’interno del Sistema specchio. Secondo Corballis il processo che ha portato dai gesti
manuali al linguaggio parlato è stato caratterizzato da due fasi: in una prima fase si è verificata
l’incorporazione nel sistema specchio dei gesti facciali; in una seconda fase si è attuata
l’incorporazione delle vocalizzazioni. La prima fase nel passaggio dai gesti al parlato è
rappresentata, quindi, presumibilmente da un incremento del coinvolgimento della faccia nella
comunicazione. L’atto finale nel processo che ha condotto dalla mano alla bocca è costituito
dall’incorporazione delle vocalizzazioni nel sistema specchio, la suddetta teoria motoria della
percezione del parlato. L ’idea alla base di tale teoria è che percepire suoni è percepire gesti
(naturalmente in questo contesto il termine ‘gesto’ include anche i movimenti non visibili). In tale
prospettiva, infatti, il parlato non è un sistema per produrre suoni, ma un sistema per produrre ì gesti
articolatori attraverso l’azione di sei organi: le labbra, il vello, la laringe e il dorso, il corpo e la
punta della lingua.

CAPITOLO 8

Perché siamo asimmetrici? I due emisferi sono parzialmente asimmetrici, sia dal punto di vista
strutturale che funzionale. Le differenze potrebbero essere chiaramente cause delle diverse
specializzazioni funzionali dei due emisferi. Alcuni aspetti del linguaggio sono lateralizzati
nell’emisfero sinistro mentre altre funzioni cognitive come le abilità visuo-spaziali, tendono ad
avere una rappresentazione prevalentemente nell’emisfero destro. Nell’emisfero sinistro son infatti
collocate le aree di Broca e Wernicke, le regioni cerebrali classicamente associate al linguaggio
articolato.Questa premessa è chiaramente alla base di un pensiero fondamentale: poiché la mano
destra è per lo più controllata dalla parte sinistra del cervello, la nostra asimmetria cerebrale sembra
definire un ulteriore legame tra mano e bocca nell’evoluzione del linguaggio umano; probabilmente
un altro indicatore dell’origine gestuale del linguaggio. Qualora poi rappresentasse l’anello
d’unione tra il linguaggio vocale e quello gestuale, sarebbe tipicamente umano.
John Eccles sostiene che l’emisfero destro è un mero computer paragonabile al cervello degli
animali inferiori mentre l’esmisfero sinistro è essenzialmente autocoscienza e libero arbitrio. Julian
Jaynes dà un ulteriore significato improbabile e surreale all’asimmetria: più di tremila anni fa gli
uomini si affidavano alle allucinazioni interpretandole come messaggi divini, soltanto in seguito vi
fu una lateralizzazione cerebrale, frutto della responsabilità individuale.
Dopo 35 anni di ricerche le conclusioni di Gazzaniga su individui con “cervelli divisi” dimostrano
che l’emisfero sinistro funziona come interprete percettivo delle proprie azioni. Diversi esperimenti
in tal contesto hanno mostrato la prevalenza nell’uso della parte sinistra indipendentemente dalla
mano usata.
Simmetria e Asimmetria: L’asimmetria basso-alto fondamentalmente dipende dall’influsso di
gravità e dalla pressione selettiva. In un certo senso offre diverse motivazioni evolutive sull’utilità
della differenziazione tra parte bassa e parte alta (come il fatto che sia adattivo avere gli occhi posti
in alto per controllare i predatori, o che l’apparato d’ingestione sia lontano da quello escretore).
Motivazioni plausibili sembrano essere fornite anche nel caso di un’asimmetria fronte-retro,
collegata principalmente al movimento,mentre sembra invece immotivata la realizzazione di
un’asimmetria bilaterale (destra-sinistra).

CAPITOLO 9 (perché il parlato si è imposto sul gesto)

Quali furono le pressioni selettive che portarono – infine – al dominio della parola?
Innanzitutto il vantaggio dei simboli arbitrari: tranne che in casi onomatopeici, le parole non
possono essere iconiche, pertanto offrono largo spazio alle possibilità di creare simboli che
distinguano oggetti e azioni simili (lo stesso motivo, per cui possono generare ambiguità, tuttavia).
L’idea e è che il parlato si sia affermato perché esso ha maggiori vantaggi pratici rispetto alla
gestualità. Innanzitutto, i suoni raggiungono aree inaccessibili alla vista. Con la voce è, infatti,
possibile rivolgersi anche a persone che non ci vedono, mentre le lingue gestuali necessitano del
contatto visivo. Questo, naturalmente, ha l’importante vantaggio di rendere possibile la
comunicazione al buio (specie in periodi in cui non esisteva l’illuminazione artificiale). Peraltro
permette la trasmissione di messaggi confidenziali, grazie alla modulazione della voce, o di attirare
facilmente l’attenzione degli altri: è possibile che all’inizio dell’evoluzione del linguaggio i suoni
abbiano giocato un ruolo sussidiario e, prevalentemente, legato al richiamo dell’attenzione, per poi
assumere gradualmente una maggiore importanza nella trasmissione del messaggio stesso. Infine, il
linguaggio vocale potrebbe essersi affermato per liberare le mani da altre attività, come per
esempio la costruzione e l’uso di manufatti: le persone possono parlare, costruire e usare strumenti
allo stesso tempo, mentre gesticolare e contemporaneamente produrre utensili appare più
difficoltoso. La scoperta del linguaggio vocale può, così, aver generato un rapido sviluppo
tecnologico: tecnologie sempre più complesse poterono essere descritte, spiegate e trasmesse da
una generazione all’altra.

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