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Emozioni e adolescenza
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Emozioni e adolescenza
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Emozioni e adolescenza
Alla mia piccola Luna,
dolce catarsi d’ogni mio affetto..
INTRODUZIONE
Un famoso comico capitolino ,
appartenente alla scuola satirica di fine
secolo scorso, nei suoi celebri spettacoli era
solito esordire con una battuta che ha fatto
la storia della televisione.
La frase recitava grossomodo così: “C'è
grossa crisi...!”.
Ebbene, come accade molto spesso alle
persone dalla spiccata sensibilità artistica,
quest’ attore, pur se con l'intento di
suscitare ilarità, non ha mancato del tutto il
focus problematico di una società come la
nostra che, evolvendosi ad un ritmo
frenetico, si trova oggi ad affrontare
necessariamente un regime di “grossa
crisi”.
Noi viviamo oggi in un contesto socio-
culturale che, a seguito dello scenario
economico-politico che risponde al nome di
globalizzazione , si trova ad affrontare
numerose ristrutturazioni per integrare, in
uno schema coerente, elementi culturali
appartenenti a diverse consuetudini sociali.
La trasformazione, in una cultura come
quella occidentale fortemente contagiata
dal positivismo scientifico, pur portando
spesso con se notevoli difficoltà adattive, è
anche e soprattutto indice di progresso per
l'uomo.
Messia di questo repentino processo
evolutivo sembra essere attualmente la
tecnologia che, con la sua esattezza
matematica e apparente infallibilità
procedurale, si rivela in grado di risolvere
qualsivoglia problema di ordine fisico o
metafisico sistematizzando, secondo la
logica binaria che le è peculiare, gli aspetti
pragmatici che caratterizzano il progresso
stesso.
Questa faticosa “staffetta evolutiva” che
segna il passaggio dell'uomo da “animale
sociale” ad “animale tecnologico” crea una
crisi nella misura in cui, l'uomo stesso, si
ritrova col perdere la
propria humanitas, restando così
invischiato in un processo dove la ragione
non possiede più le qualità di singolarità e
soggettività
Tale ragione si tramuta così in
mera “ragione strumentale” La quale, pur
garantendo il progresso tecnico, svaluta
l'ardire dei sentimenti ed il senso del
pensiero personale, i quali finiscono col non
trovare posto nella logica binario-
dicotomica che suddivide l'esperienza
secondo le categorie di utile ed inutile, sulla
quale la società tecnologica sembra aver
fondato i propri principi.
Questo fenomeno evolutivo (o involutivo),
che potremmo definire psicologicamente
come la conseguenza dell'impoverimento
cognitivo e affettivo causato da una
costante necessità di conformare se stessi
all'ambiente circostante, sembra condurre,
in casi estremi di crisi, a una perdita della
propria identità di “uomo tra gli uomini”,
causando quel senso di alienazione e di
vuoto tipico dei racconti di disagio
contemporaneo.
Questo scenario di crisi sembra attecchire
maggiormente nella vita di quei soggetti
che affrontano, oltre al cambiamento
sociale, la propria stessa trasformazione
interna, passando dall'infanzia all'età
adulta.
Il riferimento è chiaramente agli
adolescenti, soggetti in crisi per definizione,
che da sempre sono la spia più luminosa del
disagio manifesto di una civiltà.
Nella sua prospettiva attuale, il disagio di
questi soggetti assume la forma di un
deserto comunicativo, riguardo agli affetti,
all'interno del quale i propri pensieri si
scontrano con l'analfabetismo emotivo che
caratterizza l'attuale trasformazione sociale
e culturale e assumono, data l'impossibilità
espressiva, la forma di agiti che vanno dal
polo dell'atteggiamento passivo,
all'estremo opposto dell'atto aggressivo
auto ed eterodiretto.
Le famiglie sembrano non curarsi di queste
modifiche comportamentali dei propri figli,
affidandone sempre più spesso l'educazione
e la crescita ai mass-media che ne
plasmano le menti secondo la logica del
consumo, creando nuovi bisogni che in
qualche misura siano capaci di sedare la
rabbia dovuta al vuoto emotivo e
comunicativo che li pervade.
Anche la scuola, considerata in passato
elemento formativo d'elezione delle giovani
menti, sembra oggi incapace di contenere il
disagio relazionale di questi soggetti che
non trovano in essa risposte alla necessità
impellente di poter conoscere se stessi
prima di padroneggiare concetti e formule
ancora una volta tese unicamente al
perfezionamento tecnico discostando,
dunque, sempre di più l'attenzione da quei
processi conoscitivi che passano attraverso
il riconoscimento delle proprie e altrui
emozioni, necessari affinché si possa
affermare in questi soggetti l’individuazione
del proprio sé a partire da esperienze
relazionali significative e soddisfacenti dove
la propria individualità trovi spazio e possa
esprimersi nella complementarità della
relazione con gli altri.
Questo deficit emotivo e relazionale sembra
talmente diffuso da costituire una
preoccupante normalità tanto da poter
essere considerata un fenomeno di “disagio
culturale” al quale gli esperti di mercato
hanno immediatamente dato un’etichetta
commerciale utilizzando la parola “Emo” ,
termine che deriva da un troncamento della
parola anglosassone “Emotional”, quasi a
sancire, non a torto, una stretta relazione
causale tra il disagio emotivo e relazionale
e la crisi esistenziale attuale degli
adolescenti.
Lungi dalle logiche del branding , scopo di
questo lavoro sarà individuare, secondo un
inquadramento di matrice psicodinamica, la
qualità dei vissuti soggettivi che
caratterizzano il disagio manifesto dei
giovani contemporanei per meglio
comprenderli alla luce dei cambiamenti
culturali della società moderna.
Poiché la psicoanalisi si presenta come una
disciplina tesa alla ricostruzione delle
esperienze del passato, si partirà con
un’esaustiva rassegna dei principali concetti
teorici fondamentali relativi allo sviluppo
emotivo infantile, per meglio inquadrare
l'evolversi del senso d’identità dell'individuo
a partire dalle prime interazioni con le
figure significative, i caregivers.
Conseguentemente s’indagheranno i
costrutti che fungono come “molla
evolutiva” della comprensione emotiva,
come la frustrazione, e i fenomeni
caratteristici dell'età adolescenziale,
ponendo molta enfasi sulla svolta culturale
della famiglia cosiddetta “affettiva” , sul
ruolo formativo svolto dalla scuola in tale
contesto e sul valore profondo
dell'interazione con i pari nel processo di
formazione, così da poter definire in quali
termini la crisi può essere considerata un
fenomeno costitutivo inevitabile per lo
sviluppo del Sé, e quando, invece, questa
stessa crisi è da considerare un percorso di
deviazione dal normale processo evolutivo,
così come superficialmente ci appare.
Con la sistematizzazione dei dati raccolti
“sul campo” attraverso tecniche di
psicodramma analitico nelle scuole
superiori, si tenterà di stabilire quanto
questo moderno analfabetismo emotivo sia
effettivamente esperito dagli adolescenti e
quanto possa influire sui processi
d’individuazione, oppure quanto questo
stesso deficit comunicativo possa essere
invece considerato il focus problematico di
un disagio relazionale nei confronti del
quale intervenire, valutandone gli effetti.
Si procederà, infine, alla descrizione di tutti
quei principi concernenti le tecniche
psicoterapeutiche che possono condurre ad
una maggiore comprensione del fenomeno
e che siano in grado di fornire un sostegno
adeguato qualora il disagio conseguente
alla crisi si dovesse manifestare con una
compromissione significativa della vita
stessa di questi “piccoli adulti”, già alle
prese con i processi adolescenziali.
CAPITOLO PRIMO
VERSO UNA SISTEMATIZZAZIONE
CONCETTUALE DELLE EMOZIONI
1.1 L’evoluzione storico-culturale del
concetto
Sebbene le emozioni facciano parte della
vita quotidiana e siano state descritte in
opere letterarie di tutte le culture, vi è
ancora una notevole confusione riguardo
alla loro natura.
Anche la psicologia si è interessata allo
studio delle emozioni, tuttavia, a causa
della complessità del fenomeno e
dell’intrinseca polisemia del termine, sia la
riflessione teorica sia la ricerca hanno
conosciuto un'evoluzione discontinua e
frammentaria dovuta alla focalizzazione su
aspetti sempre parziali del complesso
fenomeno di studio.
La parola emozione deriva dal latino, e più
propriamente da “emovus”, participio
passato del verbo emovere.
Etimologicamente, da un punto di vista
strettamente linguistico, la parola emozione
significa sta a indicare un “moto verso
l'esterno”, un “muovere fuori di se”.
Si riconoscono universalmente come
emozioni quei fenomeni come la rabbia, la
paura, la sorpresa, il disgusto i quali, in
presenza di determinati eventi o situazioni,
insorgono dall’interno coinvolgendo la
persona intensamente al di là della sua
consapevolezza ed intenzionalità, e che si
manifestano come “sindromi reattive
multidimensionali” che svolgono una parte
essenziale nel rapporto tra l’individuo e
l’ambiente, che interessano l’organismo e la
personalità a tutti i livelli e presentano
molteplici aspetti e componenti diverse.
Possiamo definire le emozioni, in un'ottica
psicodinamica, come “la componente
soggettiva, la sensazione affettiva che
accompagna la condotta di un individuo e
che acquista un particolare valore
soprattutto nell'interazione con
l'ambiente”.
L'emozione, e in generale l'affettività, sono
argomenti trasversali alla Storia del
Pensiero che hanno da sempre
appassionato i pensatori ed i filosofi fin
dall'Antichità, basti pensare alle acute
disamine di autori come Platone e Aristotele
, o in epoca moderna, alle speculazioni
Cartesiane e di Pascal .
Secondo la psicologia pre-scientifica, però,
l’emozione veniva considerata come un
fattore di perturbazione della condotta
razionale dell’uomo.
Con Darwin si propone un significato
opposto e rivoluzionario delle emozioni:
esse rappresentano un meccanismo
adattivo atto a favorire la sopravvivenza
della specie e a proporre effetti sia sul
soggetto sia sull’ambiente.
1.1.1 Freud e le emozioni
E' principalmente grazie a Freud che le
emozioni sono state intese non più come
contrapposte alla razionalità, ma come
componente inscindibile del funzionamento
della mente, la chiave per interpretare il
senso più profondo della condotta di un
individuo.
Freud, procede ad una “rivalutazione” degli
affetti e delle emozioni come elementi
fondanti della vita psichica ponendole in un
ruolo di primo piano nel lavoro terapeutico
“Esse hanno un ruolo ed una funzione
importante nella vita, ma vanno conosciute,
esercitate e controllate nella vita di
relazione umana.” .
Egli considerava le emozioni non semplici
sensazioni elicitate fisiologicamente, ma
stati interni complessi soggetti a rimozione,
a distorsione e modificazioni per cause
consce e inconsce.
Nel 1895 getta le basi di una teoria delle
emozioni.
Studiando i sintomi di paralisi delle pazienti
isteriche che scomparivano con l’ipnosi,
giunse a inferire che i soggetti soffrivano a
causa di ricordi che avevano rimosso e tali
ricordi erano proprio quelli ad alto
contenuto emozionale, fino a concludere
che il sintomo isterico agiva come una
rappresentazione mascherata
dell’emozione rimossa.
Freud prosegue su questa strada, sempre
più convinto della continua presenza-
influenza dell’inconscio nella quotidianità
delle persone, e con Psicopatologia della
vita quotidiana approfondisce l’analisi di
una serie di manifestazioni (lapsus,
dimenticanze, comportamenti superstiziosi)
che, come il sogno, pur non avendo nulla di
patologico, sono in grado di dimostrare una
forte influenza emotiva.
L’agire umano così non appare più sorretto
dal libero arbitrio, ma piuttosto da forme di
compromesso tra le istanze cognitive e
razionali da un lato, e quelle emozionali e
pulsionali dall’altro.
Lo scavo analitico mostra allora come la
razionalità umana sia continuamente
frammista ad elementi affettivi e passionali
spesso inconsapevoli, a conflitti emotivi
sempre operanti nel corso della vita.
Il concetto di emozione in Freud è, dunque,
strettamente legato a quello di pulsione: è
un’elaborazione di quest'ultima da parte del
processo secondario di pensiero che le
conferisce “direzionalità”, “intenzionalità”,
e “significatività” lungo un continuum
evolutivo non sempre lineare.
Forse l’elemento innovativo più
sconvolgente di tutto il lavoro freudiano
consiste nel fatto che la dimensione
dell’inconscio introdotta dalla teoria
psicanalitica colpisce un’ulteriore illusione:
l’uomo non è più interamente padrone
neppure della propria interiorità, l’ “Io non è
più padrone in casa propria”, dice Freud, “la
coscienza e la razionalità umane sono
sempre insidiate da emozioni e passioni che
ne relativizzano il ruolo”.
L'emozione, inoltre, sulla base della spinta
psico-fisiologica del desiderio pulsionale, il
quale trae origine dalla realtà interna dove
è sita la propria fonte energetica, instaura
un ponte di collegamento tra il “Sé” e
l'”Altro-da-Sé”.
Questa intuizione ha aperto la strada per
tutto il pensiero psicanalitico moderno sulle
emozioni, ed è stato di fondamentale
importanza soprattutto per le teorizzazioni
della scuola delle Relazioni Oggettuali
nell'ambito dell'attività di gioco del
bambino e nell'approccio dell'Infant
Research per gli studi sulle conseguenze dei
diversi stili di attaccamento, concetti sui
quali sarà fatta luce successivamente.
1.1.2 Comportamentismo, cognitivismo ed
emozioni
In un’ottica comportamentista, invece,
l’attenzione è focalizzata sul
comportamento emotivo.
Il principale contributo di questo
orientamento è stato quello di distinguere
due aspetti distinti delle emozioni umane:
una specifica attivazione
neurovegetativa e comportamentale
osservabile
una specifica esperienza soggettiva
descritta da chi fa l'esperienza
Tale approccio, se da un lato ha avuto il
pregio di fornire informazioni dettagliate e
un gran numero di osservazioni sull’azione
emotiva, dall’altro lascia in ombra la
componente soggettiva delle manifestazioni
emotive stesse, dicendoci poco sul loro
complesso significato.
Lo stesso accade con la speculazione
cognitiva in merito alle emozioni: le
principali teorie riconducono, ancora una
volta, la manifestazione soggettiva
dell'esperienza a una specifica attivazione
neurovegetativa stimolata dall'ambiente
esterno.
Chiaro esempio è la teoria centrale delle
emozioni di Cannon e Bard la quale sostiene
che la risposta emotiva è conseguente alla
stimolazione di certe precise zone profonde
del cervello, i nuclei dell’ipotalamo.
La teoria dei due fattori di Stanley Schachter
prende invece in considerazione sia gli
aspetti fisiologici che quelli cognitivi:
secondo Schachter, si prova un’emozione
quando si sceglie un’etichetta cognitiva per
designare uno stato diffuso di attivazione
fisiologica cui diamo il nome di una
particolare sensazione.
Schachter non avanza l’ipotesi che le
sensazioni fisiologiche sono emozioni e che
ciascuna emozione è accompagnata da
modificazioni fisiologiche differenziate, ma
suggerisce che lo stato di attivazione è
soltanto un’attivazione generalizzata del
Sistema Nervoso Autonomo finché non lo
colleghiamo cognitivamente a
un’interpretazione relativa ad un’emozione.
Tutti questi approcci pongono dunque
l'esperienza soggettiva come conseguenza
di un'attivazione fisiologica che innesca
l'interpretazione del fenomeno.
1.2 Sull'ontogenesi delle emozioni
Definire una qualche ontogenesi delle
emozioni risulta particolarmente difficile,
poiché è molto complesso stabilire se
esistano stati emotivi primari già
differenziati, o si ha a che fare con un unico
stato emotivo originario generalizzato e
non differenziato.
In entrambi i casi, sia che si parta da stati
primari differenziati che da uno stato
indifferenziato, risalire alla radice del
fenomeno non è semplice e non basta a
stabilire quali sono i fattori che
determinano, nel corso dello sviluppo, la
complessa e raffinata articolazione dei
vissuti emotivi che ritroviamo nell’adulto.
Come dimostrato dalla Bridges , la
manifestazione emotiva del bambino fino a
circa sei settimane di vita non è che una
semplice eccitazione indifferenziata: in
questa fase evolutiva più che di emozioni si
parla di reazioni psicosomatiche a stimoli
interni.
Questo genere di manifestazione emotiva in
seguito si diversifica gradualmente in un
processo che porta verso la padronanza
della risposta emotiva primaria, la quale è
ancora particolarmente condizionata
biologicamente, e si articola secondo
connotazioni positive, come nel caso della
gioia, o negative, ad esempio rabbia, paura.
Questa risposta con il passare del tempo
ancora si affina e si articola in tutte le
sfumature espressive delle emozioni
complesse che è possibile ravvisare
nell’adulto, le quali risultano combinazioni
delle emozioni primarie, condizionate e
plasmate però dall’esperienza.
L''autrice sostiene, infatti, che i fattori
incidenti sullo sviluppo emotivo sono da un
lato la maturazione delle strutture nervose
e dall’altro l’apprendimento.
Secondo la Bridges all’età di due anni sono
ravvisabili, nel bambino, tutti gli schemi
emotivi che è dato di trovare nell’adulto. La
successiva differenziazione consiste in un
aumento del numero e del tipo di situazioni
in grado di suscitare emozioni, e in tale
differenziazione un ruolo centrale sarebbe
giocato, appunto, dall’apprendimento.
Altro contributo fondamentale dell’autrice
sta nell’aver rilevato come, in un ambiente
adeguatamente stimolante, il procedere
dello sviluppo emotivo segue tappe ben
precise e che, la chiave di tale sviluppo sia
nell’incontro tra le potenzialità messe a
disposizione dal processo maturativo e
l'ambiente, inteso nel suo senso più ampio;
così come descritto anche da Heinz
Hartmann per ciò che concerne lo sviluppo
dell’Io, il quale procede lungo uno sviluppo
regolare solo se il bambino esperisce
intorno a sé un ambiente sano e
gratificante che Hartmann definisce
“ambiente medio prevedibile”. Con questo
termine si intende non solo un buon
ambiente biologico, ma anche sociale;
anche se la psicologia dell’Io punta sempre
maggiormente l’attenzione sui fattori
biologici.
Questa posizione sarà sostenuta in seguito
anche da Donald Winnicott, anche se con
un’enfasi maggiore posta nei confronti delle
relazioni oggettuali, per quanto riguarda la
teorizzazione dell'esperienza del gioco , il
quale necessita di un ambiente facilitante e
rassicurante: dice lo stesso Winnicott
che “Lo spazio di gioco è uno spazio
potenziale tra la madre e il bambino o che
unisce madre e bambino. La fiducia della
madre crea un ambiente di gioco
intermedio qui, dove origina il concetto di
magico, poiché il bambino fa fino ad un
certo punto l'esperienza
dell'onnipotenza...” ; la stessa posizione è
sostenuta anche da John Bowlby nello
sviluppo della sua teoria sull'attaccamento
del bambino a proposito dell’esplorazione
ambientale.
Gli esperimenti di Melzack su cuccioli di
cane, inerenti all’effetto di ambienti
scarsamente stimolanti sulla possibilità di
sviluppare adeguate reazioni di
anticipazione a stimoli dolorosi, sembrano
andare nella direzione ipotizzata dalla
Bridges, e sostenuta da altri, confermando
l’esistenza di una stretta relazione tra
potenzialità e fattori ambientali.
1.2.1 Emozioni e consapevolezza di Sé
Renzo Canestrari, in un’elegante analisi ,
illustra come lo sviluppo emotivo sia legato
a livelli di complessità crescente della
consapevolezza di sé e della
rappresentazione del mondo esterno.
Ad un primo livello, le interazioni tra il
neonato e l’ambiente esterno, si fondano in
larga misura sulle modificazioni
interocettive che l’ambiente esterno suscita
nel neonato.
A questo livello, che l’autore
definisce sensoriale-affettivo, le emozioni
avrebbero da un lato una funzione di
sopravvivenza, consentendo al neonato di
comunicare uno stato di disagio inducendo
un intervento regolatore; dall’altro, proprio
in quanto mobiliterebbero una risposta,
contribuirebbero a far emergere una prima,
embrionale, consapevolezza di sé come
agente causale e costituirebbero dunque un
primo passo verso la differenziazione tra il
sé e ciò che è altro da sé.
A un secondo livello, che Canestrari
definisce percettivo-affettivo, le mutate
condizioni maturative, inerenti la capacità
di percepire aspetti distinti della realtà,
consentirebbero il sorgere di esperienze
emotive in risposta ad aspetti differenziati
della realtà.
Renè Spitz ci descrive brillantemente come
lo sviluppo del bambino parte da uno stadio
di indifferenziazione procedendo attraverso
tre tappe, ciascuna caratterizzata dalla
presenza di un “organizzatore psichico” .
Il primo stadio definito d’indifferenziazione,
detto anche pre-oggettuale, copre il
periodo fino ai 3 mesi, ed è caratterizzato
dall’incapacità da parte del bambino di
differenziare tra mondo interno e realtà
esterna.
Le tappe dello sviluppo hanno inizio con lo
stadio dell’oggetto precursore, dai 3 agli 8
mesi, caratterizzato dal “sorriso sociale”,
attraverso il quale il bambino stabilisce una
prima forma di comunicazione: il neonato
sorride a qualsiasi sagoma presentata
frontalmente che riproduce le
caratteristiche del volto umano, tendendo
ad orientarsi e a spingersi verso di essa.
Lo stadio dell’oggetto libidico intero, dagli 8
ai 15 mesi, è caratterizzato dalla “reazione
di angoscia” verso l’estraneo: il bambino
mostra in questo modo di saper riconoscere
il volto della mamma e quello dei familiari,
rispetto agli estranei.
Il terzo periodo, detto della comunicazione
semantica, prevede una capacità di giudizio
e di opposizione, testimoniata dalla
comparsa del “no”, il terzo organizzatore.
intorno al terzo mese di vita.
In questa fase di sviluppo abbiamo a che
fare con una serie di emozioni che non sono
più legate alla sensazione interocettiva di
uno stato ma ad un oggetto che possiede
una sua realtà fenomenica.
Ad un ulteriore livello di integrazione
l’emozione si libera dal fondamento
esclusivo dei dati percettivi esterni e dei dati
sensoriali interni, e, le risposte emotive
possono persistere o sorgere
indipendentemente dalla presenza di dati
percettivi e sensoriali.
1.2.2 Il rapporto madre-bambino nella
genesi emotiva
Le emozioni emergono, come abbiamo
precedentemente accennato,
dall'interazione tra il bambino ed il suo
primo ambiente di vita, ambiente che, come
sappiamo, è caratterizzato dalla presenza
costante dei caregivers.
In quest’ ottica le emozioni vengono a
strutturarsi come la connotazione affettiva
della condivisione di un’esperienza tra il
neonato e le proprie figure di riferimento,
che costituisce il substrato relazionale per
l'acquisizione anche di altre funzioni come il
linguaggio e gli schemi mentali; è infatti
riconosciuta da sempre l'interdipendenza
dello sviluppo emotivo dell'acquisizione
delle abilità sociali e della conquista delle
capacità metacognitive.
Le emozioni rappresentano delle
manifestazioni intermentali dei bisogni e
delle aspettative dei due partner coinvolti
nell'interazione e costituiscono una sorta
di luogo relazionale primario, in cui sono
rese possibili la mediazione e la
negoziazione della relazione in funzione da
un lato del temperamento del neonato e
dall'altro del sistema di credenze, valori,
esperienze e attese del caregiver.
Le emozioni, nella loro costitutiva
dimensione relazionale, costituiscono,
quindi, contemporaneamente, sia una
manifestazione che uno strumento di
costruzione della dinamica interattiva
stessa, in una prospettiva di feedback
circolare e ascendente. Naturalmente,
sebbene nel dialogo emotivo sia la madre
che il bambino siano partner attivi e
partecipi, le loro posizioni non possono che
essere asimmetriche.
La madre, come sostengono anche i teorici
delle Relazioni Oggettuali di scuola
psicoanalitica, fornisce un sostegno e un
contenimento che permette lo sviluppo
delle capacità del bambino, pensiamo ad
esempio alla funzione di réverie postulata
da Wilfred Bion e al concetto
di holding sviluppato da Donald Winnicott :
la réverie è la capacità di accogliere le
sensazioni del neonato, le proiezioni dei
suoi bisogni, dando loro un significato, per
utilizzare le parole dello stesso Bion, “è la
funzione della madre-contenitore” .
Dice Winnicott “Dove c’è un bambino, lì ci
sono delle cure materne che lo tengono in
vita” .
Ciò che l’autore intende per “cure materne”
può essere riassunto dal concetto
di holding, il quale rappresenta la capacità
della madre di rispondere empaticamente
ai bisogni del bambino. Capacità, questa,
che ha inizio con la gravidanza e si estingue
a mano a mano che il bambino diventa
indipendente.
Nei primissimi stadi di vita, l’holding funge
da “pelle psichica” del bambino,
consentendo il divenire del sé.
Per quanto riguarda l'apprendimento della
capacità di riconoscere le emozioni, una
madre sana e competente attribuisce
intenzionalità emotiva ai comportamenti
spontanei del bambino in modo congruente
alla situazione contestuale e adotta un
comportamento responsivo e supportivo,
incoraggiando l'espressione degli stati
affettivi, sollecitando l'interesse e imitando
in modo amplificato e ridondante le
manifestazioni di emozioni positive.
In questo modo la madre consente lo
sviluppo di una capacità
di rispecchiamento da parte del bambino,
capacità che costituisce il presupposto per
lo sviluppo di un'autentica intenzionalità e
consapevolezza di sé.
Alla fine del primo anno di vita, inoltre,
l'espressione emotiva della madre assume
anche un'essenziale funzione segnaletica e
comunicativa, in quanto viene sfruttata dal
bambino come veicolo di informazioni sul
contesto, specialmente in merito a
situazioni e oggetti sconosciuti, secondo il
processo del riferimento sociale: processo
che, come sostiene Palmonari, “implica un
incremento della somiglianza percepita tra
sé e i membri del proprio gruppo, una sorta
di omogeneità intragruppo” che nella prima
infanzia si manifesta come omogeneità
affettiva tra il bambino ed i propri
caregiver.
In “Sviluppo affettivo e ambiente” Winnicott
attribuisce al gioco spontaneo un
importantissimo valore di contributo allo
sviluppo affettivo e all'identificazione dell'Io.
In particolare il gioco spontaneo viene
individuato come la manifestazione
principale di un buono sviluppo relazionale,
rispetto alla relazione privilegiata con la
madre: se il bambino si attiva
spontaneamente per giocare, significa che il
vissuto affettivo gli ha consentito di crearsi
una distanza dalla madre.
Infatti, il bambino e l'oggetto, prima di
questa fase sono fusi e la madre rende reale
ciò che il bambino è pronto a scoprire.
Se ciò avviene la distanza tra madre e
bambino diventa uno spazio potenziale,
un'illusione, tale da consentirgli la
sperimentazione del proprio sé, separato
dalla madre.
Il raggiungimento di questa fase di sviluppo
è fondamentale per la strutturazione di una
corretta esperienza emotiva in futuro.
1.2.3 Consapevolezza emotiva e
riconoscimento emotivo
Una recente prospettiva psicologica,
denominata teoria del rispecchiamento
affettivo, individua nell’interazione faccia a
faccia adulto-bambino il principale canale
attraverso cui passa il riconoscimento delle
emozioni da parte del neonato: in
particolare, Fonagy sostiene che il bambino
impara a comprendere le emozioni
osservando le espressioni del viso della
madre e di chi lo circonda, associandole al
comportamento successivo dell’adulto.
Questo processo è possibile acquisirlo
grazie alla particolare sensibilità delle
madri, che sono in grado di cogliere le
manifestazioni emotive dei loro bambini e
mettersi in sintonia con esse, regolando così
le emozioni dei neonati stessi.
Il bambino esprime le proprie emozioni
attraverso il corpo, senza però averne
coscienza: il caregivercoglie tali
manifestazioni e funziona da specchio,
riflettendo in modo sufficientemente
accurato il comportamento del neonato,
così com’è sostenuto anche da Jacques
Lacan secondo il quale l'Io è in origine il
luogo dei misconoscimenti, e ciò a partire
da un riconoscimento, il riconoscimento
della propria immagine allo specchio. Nello
“stadio dello specchio” inizia la storia dell'Io
e delle sue successive identificazioni
secondo quel registro chiamato da Lacan
“immaginario” che regola la relazione duale
basata, appunto, sull'immagine dell'altro.
Il rispecchiamento tra volto del bambino e
volto dell’adulto non è però preciso poiché
quest’ultimo alterna l’imitazione del volto
del piccolo a gesti di cura o sorrisi, non
procedendo quindi con continuità, e inoltre
non risponde unicamente ai segnali del
bambino ma interagisce anche con
l’ambiente esterno.
Attraverso l’analisi delle reazioni della
madre ai suoi segnali, il neonato inizia a
capire quale comportamento dell’adulto
risponde alle sue espressioni, che tipo di
reazione suscita il suo pianto o il suo riso e
quindi quale parte dell’ambiente esterno
dipende in qualche modo da lui e quale no:
questo aumenta nel neonato la
consapevolezza che le proprie azioni hanno
delle conseguenze e che anche le
manifestazioni emotive sono in grado di
sollecitare alcune risposte nell’ambiente.
Attraverso questo procedimento il bambino
impara anche a prendere consapevolezza
delle proprie emozioni e a modularle grazie
all’aiuto del caregiver.
L’adulto fornisce, in questo processo, al
bambino una sorta di modello, di “viso
tipico” di una particolare emozione, il quale
diventerà nel tempo un riferimento relativo
a quale sia la manifestazione tipica di un
determinato vissuto emotivo e servirà al
bambino per interpretare correttamente i
visi altrui, perfezionare le proprie abilità
espressive e fingere o simulare, come
avviene a partire dai due anni di età.
Nel corso dello sviluppo, inteso come
intreccio di processi maturativi e relazionali,
il bambino acquista consapevolezza e
apprende a riconoscere non solo le
emozioni di base, ma anche quelle miste e
complesse, tipo l'ambivalenza e le
cosiddette emozioni sociali come l'orgoglio
e la vergogna la cui discriminazione è più
tardiva e non può dirsi compiuta prima
degli 8 anni, in quanto richiede il simultaneo
confronto di norme interne e culturali in
relazione ad un giudizio dicotomico.
Di fatto il bambino esperisce questo tipo di
emozioni già in età precoce, come sostiene
la teoria psicanalitica che le interpreta
come l'espressione dell'interiorizzazione
delle norme parentali, del consolidarsi del
Super Io e dell'identificazione post-edipica
con il genitore dello stesso sesso (vergogna
e senso di colpa per i desideri incestuosi,
orgoglio per le conquiste della latenza) ;
mentre a proposito dell'ambivalenza
Melanie Klein attribuisce la presenza
simultanea di affetti positivi e negativi scissi
e conflittuali alla fase schizoparanoidea .
Nella fase schizoparanoidea il bambino
scinde la madre in due oggetti parziali:
quando la madre soddisfa i suoi bisogni
primari, cioè quando è presente e lo allatta,
ella è sentita come oggetto buono; è invece
oggetto cattivo quando è assente e lo
frustra nei suoi desideri. In questa fase non
ci sono i sensi di colpa per le pulsioni, le
fantasie aggressive, i sentimenti di rabbia e
rancore contro la madre quando lo frustra.
Infatti, per il bambino la madre non è
ancora riconosciuta come oggetto totale,
cioè come colei che assomma aspetti
frustranti e aspetti gratificanti.
Quando però, la maturazione psichica e
fisica del bimbo lo condurrà a prendere
coscienza che, in realtà, la madre è una
soltanto, “intera”, allora riconoscerà di
trovarsi di fronte ad un Oggetto Totale;
dunque, ripensando ai sentimenti di rabbia
e rancore e alle fantasie aggressive e
distruttive provate a suo tempo nei riguardi
della stessa madre ora amata, proverà un
naturale Senso di Colpa e bisogno di
Riparazione.
Tuttavia il bambino “pre-operatorio” non è
in grado di distinguere dal punto di vista
cognitivo e di verbalizzare questo tipo di
emozioni complesse.
Nel corso dell'età scolare e della
preadolescenza il bambino continua il suo
apprendistato e perfeziona la sua capacità
di decifrare efficacemente le emozioni
altrui, sul versante espressivo
è socializzato per quanto concerne le
norme espressive tipiche della sua cultura
sia intesa in senso prossimale (familiare,
scolastica, amicale) che in senso distale
(nazionale, generale), imparando anche a
dissimulare emozioni provate o a recitarne
altre al fine di tutelare sé o altri all'interno
della relazione sociale.
Questo avviene anche grazie a un corretto
rispecchiamento affettivo tra infante e
caregiver il quale permetterà quindi nel
tempo al bambino di entrare nel mondo del
simbolo, così da avere a disposizione un
modello per la manifestazione dei diversi
affetti in modo da potervi associare il
comportamento conseguente.
Come testimoniano gli studi di Saarni che
prendevano in considerazione la reazione
dei bambini a una ricompensa deludente, la
capacità di scegliere l'espressione emotiva
più adeguata a un determinato contesto
relazionale comincia ad essere
padroneggiata in modo completo solo a
partire dai 6 anni, mentre in precedenza
seppur già a 2-3 anni i bambini capiscono la
necessità di non manifestare un'emozione
non sanno indicare l'opzione sostitutiva
adeguata.
Il bambino, quindi, inconsapevolmente
apprende precocemente questo genere di
simulazioni affettive; ciò accade a causa del
reiterarsi di forme d'interazione
insoddisfacenti con i caregiver, quindi
dall'interazione con una madre che non
risponde in maniera soddisfacente ai
bisogni del bambino: una madre non
sufficientemente buona come è descritta
nella letteratura Winniccottiana, o una
madre ansiogena, come postulato da Harry
Stack Sullivan ; le quali portano
rispettivamente alla strutturazione di
un Falso Sé da parte del bambino, costrutto
che può diventare depersonalizzante, e
all'insorgere di un'ansia anticipatoria,
struttura che tende facilmente a
cristallizzare.
Nella stessa direzione vanno le osservazioni
dell’Ainsworth a proposito del
comportamento paradossale del bambino
che ha sviluppato, uno stile di attaccamento
di tipo insicuro-ambivalente , questo tipo di
attaccamento genera un introietto nel
bambino: “devo farmi accettare
dall'ambiente” il quale tenta di evitare le
invalidazioni e non mette alla prova le
proprie ipotesi esplorative.
1.2.4 Origine e sviluppo dell'empatia
Un'altra componente fondamentale della
comprensione emotiva, che viene
sviluppandosi parallelamente al
riconoscimento delle emozioni, è la capacità
di identificare le condizioni idonee ad
attivare, interrompere, modificare in modo
intenzionale uno stato emotivo altrui,
basata sull'empatia.
Secondo una definizione evolutiva come
quella formulata da Strayer e da Hoffman ,
l'empatia consisterebbe in un processo di
attivazione emotiva appropriato e
consonante in un determinato contesto con
quello di un'altra persona, che comporta
differenti mediatori cognitivi.
Secondo Heinz Kouht la funzione empatica è
ciò che ci consente di osservare la realtà
psichica nostra e delle altre persone.
Il bisogno di empatia, dice Kohut, perdura
tutta la vita. E’ un bisogno fondamentale,
un nutrimento psicologico, generato dalla
paura di autoesclusione dal mondo.
L’empatia secondo l’autore è dunque
essenziale per mantenere la salute mentale;
e la presenza di fenomeni empatici tra
madre e figlio è fondamentale per lo
sviluppo di un attaccamento sicuro nella
prima infanzia.
L’ambiente empatico è quindi, per Kohut,
condizione necessaria per conservare la
coesione del sé
Lo sviluppo dell'empatia può essere visto
come un continuum in cui i processi più
primitivi coesistono con quelli più evoluti.
Fin dalla nascita il neonato è soggetto al
contagio emotivo: questo consiste in una
reazione emotivo - affettiva automatica e
mimetica tipo reazione circolare
primaria che non presuppone la
differenziazione tra sé e altro ed ha una
funzione adattiva e sociale come precursore
dell'attaccamento.
Dalla fine del primo anno, all'interno della
relazione con il caregiver, si sviluppa
l'empatia per condivisione parallela o
egocentrica, che consiste nell'attribuzione
all'altro di uno stato emotivo
precedentemente sperimentato dal
soggetto in una situazione analoga; questo
livello di empatia, che pure lascia
inaccessibile il vissuto autentico dell'altra
persona, richiede importanti prerequisiti
cognitivi come l'acquisizione della
permanenza dell'oggetto , il bambino deve
cioè divenire consapevole dell’esistenza di
un oggetto anche quando questo è assente,
deve possedere la capacità di riconoscere le
emozioni altrui, capacità che acquisisce
attraverso la funzione rispecchiante della
madre dalla quale il bambino apprende
principalmente per mimesi, come descritto
anche in precedenza, e deve padroneggiare
la differenziazione tra sé e l'altro,
padronanza raggiungibile attraverso
l'attività di gioco simbolico , anche questa
precedentemente già accennata.
Tra il 3° e il 4° anno, invece, grazie alla
piena conquista del linguaggio e della
funzione simbolica e
metarappresentazionale , il bambino
diviene in grado di formulare teorie della
mente circa i vissuti altrui e di assumere la
prospettiva dell'altro, potendo così
pervenire ad una forma più evoluta di
empatia per condivisione partecipatoria.
Nel corso dell'età scolare continua a
potenziarsi la capacità di decentramento e
di rappresentazione integrata del vissuto
altrui, mentre nell'adolescenza l'avvento del
pensiero formale e la possibilità di
ragionare per ipotesi consentono al ragazzo
di anticipare vissuti possibili e di
generalizzare a gruppi sociali.
In questa fase della vita, caratterizzata da
profondi cambiamenti sia sul piano fisico
che mentale, subentra un senso di
smarrimento che porta il soggetto ad
interrogarsi sulle domande più profonde
relative al senso della vita le quali generano
una forte angoscia ed un profondo senso di
perdita di integrità nel quale si susseguono
stati affettivi ambivalenti e cangianti
dominati da un profondo senso di
solitudine.
Secondo un'ottica psicodinamica nel corso
di questa fase evolutiva, in cui è in gioco il
consolidamento dell'identità, l'empatia può
rappresentare sia una risorsa che un fattore
di rischio per la vita affettiva del giovane:
essa, infatti, da un lato svolge la funzione di
facilitatore per i processi identificatori
cementando la coesione all'interno del
gruppo dei pari, così come contribuisce a
rendere intima e ricca la relazione diadica
con “l'amico del cuore”, tuttavia può anche
rappresentare, specie se esasperata, una
condizione di vulnerabilità per l'Io
dell'adolescente, assediato dalle pressioni
pulsionali e dalle sfide ambientali.
Non a caso, infatti, spesso nei gruppi di
adolescenti avvengono quei fenomeni di
regressione a modalità di contagio emotivo
che Freud e LeBon hanno descritto nelle
folle , che prevedono l'identificazione con il
membro più patologico, la diffusione
dell'identità e della responsabilità e che
spesso esitano in condotte collettive
devianti.
1.2.5 Emozioni e adolescenza
Come dice Borgna , va riconosciuta
all’adolescenza la più ampia dimensione
emozionale rispetto alle altre età dell’uomo.
Le emozioni, più che esprimersi,
s’incendiano durante questi anni e sono
profondamente contrassegnate da una
straordinaria intensità e spinte da una forte
urgenza.
L’emozione rappresenta per l’adolescente
anche un importante strumento conoscitivo
essendo caratteristico di questa età il
desiderio di sperimentare, di conoscere
attraverso nuove forme di contatto e di
relazione che passano attraverso il
“sentire”.
Queste emozioni sono sempre assolute, o
totalmente positive o del tutto negative, ma
tendono a spegnersi così facilmente come
s’infiammano accompagnandosi spesso a
un senso d’inadeguatezza che porta chi le
esperisce a chiudersi in se stesso, a ricercare
la solitudine che deriva dall’ansia e
dall’angoscia (due esperienze emotive
predominanti nell’età adolescenziale) di non
essere compresi dal “mondo dei grandi”,
sovente, infatti, la fragilità del destino
emozionale si scontra con l’indifferenza e il
distacco altrui, ciò rischia di innescare
nell’adolescente la miccia di future
problematiche psicologiche.
1.3 La fenomenologia delle emozioni
Le emozioni, come abbiamo potuto vedere
dall'approfondimento della loro genesi,
svolgono una parte essenziale nel rapporto
tra l’individuo e l’ambiente, e interessano
l’organismo e la personalità a tutti i livelli
presentando aspetti e componenti diverse.
Queste componenti della risposta emotiva
possono essere descritte, parafrasando
l'approccio utilizzato da Reisenzen, in due
macro-aree
Risposte fisiologiche
Vissuto soggettivo
La risposta fisiologica riguarda una specifica
e osservabile reazione neurovegetativa.
Questa risposta rappresenta la
manifestazione somatica più evidente
dell'esperienza emotiva.
Nel parlare di componente esperienziale
soggettiva, l'autore la descrive come il
vissuto cosciente che non può essere
descritto in quanto soggettivo ed inerente a
ciò che ognuno di noi prova quando è felice,
irato, sorpreso e via dicendo.
La componente esperienziale
soggettiva può essere analizzata secondo
diversi aspetti tra i quali sono di particolare
rilevanza:
l'intenzionalità: la prerogativa
dell’esperienza emotiva è di essere
sempre esperienza di un qualcosa e
quindi sempre legata ad un fenomeno o
ad un avvenimento.
Allo stesso tempo però può accadere di
essere felici o tristi senza sapere
consciamente per via di che cosa o
perché; in questo caso l’intenzionalità è
vuota ma comunque non assente.
Inoltre questa componente implica la
distinzione tra sé e gli altri ed è
considerata da Lewis e Michalson un
prerequisito della competenza emotiva
attenzione: nel processo emotivo sono
implicati diversi processi cognitivi tra cui
quello attentivo; infatti le emozioni
permettono l’incremento delle
informazioni mobilitando l’attenzione su
di esse (Izard 1977, Tomkins 1980),
quindi uno stato emotivo coincide con
uno stato attentivo;
percezione: oltre al processo attentivo è
coinvolto anche quello percettivo che
consente di individuare le qualità totali
espressive e fisiognomiche, per questo
motivo la realtà che ci circonda ci può
apparire invitante, minacciosa, ecc.;
recupero: infine, entra in gioco anche il
processo mnemonico che ci permette di
ricordare gli aspetti di situazioni in cui si
sono già provate le emozioni.
Ultimo aspetto è quello che riguarda la
dimensione del vissuto: questo riguarda le
modificazioni dell’umore conseguenti a
rappresentazioni mentali dell'evento e
significati personali di volta in volta
attribuiti.
Questo aspetto delle emozioni è l'unico non
direttamente osservabile.
Tutte queste diverse componenti delle
emozioni sono correlate tra loro da
complessi rapporti di interdipendenza.
1.3.1 L'emozione: espressione universale o
culturale?
Darwin sosteneva che la struttura delle
espressioni emotive era innata e connessa
quindi all’appartenenza a una data specie,
mentre la sua modulazione era un portato
della trasmissione culturale.
Per dimostrare ciò Darwin confrontò la
mimica di diversi gruppi etnici.
Dal punto di vista del metodo questa ricerca
aveva un grave punto debole: questi
soggetti erano venuti a contatto con
persone di origine europea e quindi non si
poteva escludere che la loro capacità di
decifrarne le espressioni mimiche ed
emotive fosse il frutto dell’apprendimento e
dell’esperienza.
Circa un secolo dopo lo psicologo americano
Ekman ha dimostrato la validità della teoria
dell’universalità delle espressioni emotive
attraverso lo studio di gruppi umani
totalmente isolati che non avevano mai
visto un europeo.
Ekman ha mostrato delle foto di attori che
recitano emozioni a osservatori “ciechi” che
non sanno nulla dell’emozione espressa dal
volto. Ne risulta che le emozioni di base
vengono correttamente riconosciute, ma
non tutte nella stessa misura percentuale.
Il rilevare di un certo grado di discordanza ci
permette di dire che esiste in ogni mimica
una componente di base universale, ma
anche una componente acquisita e
culturalmente determinata, come osserva
Canestrari , il quale sostiene che, a fronte di
una dotazione universale inerente
l’espressione delle emozioni di base, i fattori
propri di un contesto culturale agirebbero
sulle regole che governano la modulazione
degli stati emotivi e la loro connotazione.
Per cui, a fronte dell’universalità
dell’espressione di una data emozione, la
manifestazione della stessa potrebbe essere
consentita in circostanze diverse in diversi
contesti culturali e, parimenti, essere
connotata più o meno negativamente in
altri contesti.
1.3.2 Classificazione delle emozioni: la fonte
Le espressioni emotive sono molteplici e
qualitativamente diverse: da un punto di
vista fenomenologico ed interpretativo, le
emozioni possono essere classificate e
raggruppate a seconda della loro fonte.
Abbiamo le emozioni somatiche, cioè quelle
che si manifestano principalmente come
una scarica di attivazione neurofisiologica
stimolata dall'ambiente esterno.
La maggior rappresentante di questa
categoria è la paura, la quale si
accompagna ad un sentimento di brivido o
di scossa interiore e nei confronti della
quale la prima reazione di un individuo è la
fuga (o la paralisi). Altra emozione che
presenta questa caratteristica è l’ansia che
ha anch'essa un effetto paralizzante e si
manifesta con tachicardia e dispnea.
Le emozioni situazionali, invece, sono stati
emotivi determinati da precise situazioni e
contesti di cui costituiscono le reazioni
individuali.
Un esempio di emozione appartenente a
questa categoria è la gioia: sentimento di
benessere e di soddisfazione che si collega
ai successi ottenuti, essa nasce come
“risonanza interiore di un’esperienza
intensa e profonda” ed ha la particolarità di
effondere e sgretolarsi facilmente.
Alta emozione appartenente a questa
categoria può essere la tristezza che è una
reazione emozionale altrettanto intensa e
coinvolgente, tendente verso la polarità
opposta rispetto ai toni della gioia e che
insorge di fronte a situazioni di dolore, di
perdita, di sofferenza o di lutto.
Vi sono poi le emozioni sociali: sono quelle
che si sviluppano nel contesto delle relazioni
interpersonali e di gruppo, come l’amore,
un sentimento di legame che fonda il
proprio essere sulla reciprocità
frantumando i confini dell'io in una radicale
trascendenza, e il suo opposto, cioè l'odio.
Nell'odio, come ha brillantemente
approfondito anche Sartre , non c'è lo
slancio verso il futuro tipico dell'amore,
bensì esso è pervaso dall'incidenza di un
fenomeno passato che risucchia esperienze
e fantasie e che sovente è manifestato
come agito aggressivo.
Infine, abbiamo le emozioni cognitive dove
è il tipo di emozione che incita l’uomo a
orientare il proprio pensiero secondo
volontarietà ed intenzionalità.
Possiamo annoverare in questa categoria
l’interesse, la speranza, la religiosità, i
sentimenti morali, il rispetto di sé e degli
altri. Tutti sentimenti questi che risentono
fortemente del contesto all'interno del
quale l'individuo agisce e acquistano un
senso proprio grazie all'acquisizione di una
serie di conquiste cognitive che emergono
nel tempo attraverso l'interazione con
l'ambiente.
Tutte queste molteplici manifestazioni
emotive appena descritte hanno un aspetto
comune che riguarda il portare chi le
esperisce fuori dai confini della propria
individualità mettendolo in contatto con il
mondo.
1.3.3 L'emozione come Stimmung e come
sentimento
Questa distinzione, operata magistralmente
da Eugenio Borgna , separa le emozioni in
due categorie secondo la misura
dell'intenzionalità e della trascendenza, le
quali sono mutevoli a seconda del tipo di
emozione e del contesto.
L'autore distingue le emozioni in stati
d'animo (o Stimmung) e sentimenti.
Gli stati d'animo appartengono alla
dimensione della vita interiore specifica del
soggetto che attua l'esperienza emotiva; in
questo caso emozioni come la gioia o la
tristezza si manifestano senza che in esse
sia presente un intenso slancio intenzionale
verso il mondo pervadendo il soggetto
dall'interno.
Ci sono poi altre emozioni, e questo è il caso
dei sentimenti, che, al contrario della
categoria descritta in precedenza,
presentano un profondo slancio verso gli
altri-da-Sé.
Questi sentimenti, ai quali ascriviamo
emozioni come amore ed odio, sono
profondamente indirizzati verso il mondo
esterno e si nutrono della relazione con gli
altri significativi.
Vi sono poi emozioni, come l’ansia, che a
volte si tematizzano come Stimmung e a
volte come sentimenti.
Ovviamente, come fa notare attentamente
l'autore, questa distinzione tra Stimmung e
sentimenti è molto labile e spesso soltanto
virtuale dal momento che spesso le
emozioni oscillano verso entrambe queste
polarità tra di loro non opposte; ma
nondimeno torna utile ai fini di una migliore
comprensione fenomenologica del vissuto
emotivo.
1.4 Il disequilibrio emozionale
La sensibilità emotiva, oltre ad essere un
importantissimo strumento di conoscenza
ed esperienza, ha il difetto di poter
trasformare la percezione degli eventi e lo
stesso manifestarsi di questi eventi;
situazione che in alcuni casi può condurre
anche verso il manifestarsi di disturbi
psichici.
La tradizione psicoanalitica classica
evidenzia come l'inaccettabilità di alcune
emozioni porti all'instaurarsi di una serie di
meccanismi di difesa.
Tra questi quelli più primitivi coinvolti sono
la proiezione, che consiste nello spostare
sentimenti propri e parti di sé su altri
oggetti o persone; la negazione, la quale si
riferisce a un procedimento per cui il
soggetto dapprima formula un desiderio,
pensiero o sentimento fino ad allora
rimosso, ma poi continua a difendersi
negando che gli appartiene; ed, infine la
regressione, che concerne la tendenza da
parte della personalità a tornare a qualche
metodo o forma di espressione propria di
una fase precedente del suo sviluppo.
Quando le difese di un soggetto sono
inappropriate, cioè diventano una modalità
di comportamento abituale e stereotipata,
acquistano una profonda valenza
disadattiva; in questi casi, la personalità
viene alterata, con l'effetto potenziale di
poter distorcere l'immagine di sé e la
percezione del mondo circostante, deviando
il soggetto dal normale percorso di sviluppo.
I sentimenti, le emozioni, hanno, anche
nella normalità psichica, la tendenza a
trasformarsi sovente in vere e proprie
esplosioni affettive, sia in senso positivo sia
negativo.
Le due polarità dello squilibrio emozionale
vertono da un lato verso una sensibilità
esacerbata, caratterizzata da situazioni in
cui il soggetto è scosso emotivamente
anche per modeste e banali sollecitazioni,
mentre all'altro polo ritroviamo una
situazione caratterizzata da indifferenza
affettiva, il che accade quando il soggetto è
affettivamente indifferente, non reattivo; o
quando questo stesso soggetto non
possiede capacità di riconoscimento ed
espressione emotiva.
È quando queste trasformazioni interiori
sono esacerbate, prolungate nel tempo che
possiamo parlare di disturbi affettivi od
emozionali.
Per quanto riguarda le manifestazioni
disturbate appartenenti al polo
dell'esacerbazione affettiva possiamo
citare, ad esempio, la situazione di colui che
manifesta un carattere iperattivo, sempre
critico e oppositivo, e tendenzialmente
violento, fenomeno che può costituire un
punto di partenza per un’evoluzione
psicotica della personalità sotto forma di
“paranoia di persecuzione” in cui il soggetto
si costruisce una realtà mentale illusoria
caratterizzata da idee deliranti di essere
perseguitato, ingannato, assediato da
progetti ed intenzioni ostili.
Anche la nevrosi isterica può essere
annoverata in questa categoria.
Questo disturbo fin dall’antichità è stato
considerato come un’alterazione
dell’affettività.
Dal punto di vista emozionale, si
caratterizza per la labilità o instabilità dello
stato emotivo, per la teatralizzazione delle
reazioni affettive e per la tendenza alla
conversione della sofferenza emotiva in
disturbi di tipo somatico.
Un disturbo emozionale è presente anche
nella personalità sociopatica, la quale
presenta una modifica strutturale della
personalità dove è pregnante il mancato
rispetto degli obblighi sociali, con la
manifestazione di una forte insensibilità di
fronte all’altro, caratterizzata da
un’eccessiva aggressività e da un marcato
disinteresse progettuale, nonché
fortemente deficitaria per quanto concerne
l’autocontrollo rispetto ad emozioni
negative spesso accompagnato dalla
tendenza all’agire le emozioni
profondamente aggressive come la collera
o l’ira.
Per ciò che concerne invece il polo della
mancata capacità espressiva o del mancato
riconoscimento delle emozioni,
fondamentale risulta la definizione del
concetto di "alessitimia", il quale indica
proprio la difficoltà del soggetto
nell'individuare e verbalizzare i propri e gli
altrui sentimenti.
Questo costrutto fu introdotto ed utilizzato
per la prima volta da Peter Sifneos e John
Nemiah agli inizi degli anni '70 sulla base
delle osservazioni cliniche di pazienti che
soffrivano di disturbi psicosomatici, cioè di
quei soggetti dove il disagio psichico
assume la dimensione della manifestazione
fisiologica in assenza di alterazioni
funzionali che giustifichino la malattia
presentata in anamnesi.
1.5 L'alessitimia e l'analfabetismo emotivo
Il termine alessitimia indica una specifica
alterazione delle funzioni affettive e
simboliche che spesso rende sterile e
incolore lo stile comunicativo dei soggetti
nei quali è riscontrabile la presenza di
questo costrutto.
Letteralmente significa “non avere le parole
per le emozioni”. L'alessitimia può essere
definita, infatti, come la mancanza di parole
per esprimere le emozioni.
Tale patologia si manifesta nella difficoltà a
identificare e descrivere i propri sentimenti
e a discriminare tra stati emotivi e
sensazioni corporee.
Tant’è che molti dei primi esponenti della
medicina psicosomatica ritenevano che i
conflitti emotivi inconsci giocassero un ruolo
molto importante come cause dei disturbi o
delle malattie psicosomatiche.
Alcuni di essi, in base ad osservazioni
cliniche e ai colloqui avuti con i loro
pazienti, ipotizzarono che fosse un disturbo
nella capacità di esprimere le emozioni a
predisporre le persone alle malattie
psicosomatiche classiche.
Paul MacLean , ad esempio, notò che molti
pazienti psicosomatici mostravano
un'evidente incapacità intellettuale a
verbalizzare le proprie emozioni e ipotizzò
che gli affetti disturbanti fossero tradotti in
una specie di linguaggio organico.
Allo stesso modo Jurgen Ruesch osservò sia
un analogo disturbo dell'espressione
verbale e simbolica nei pazienti
psicosomatici sia un insieme di
caratteristiche comportamentali e
psicologiche che facevano pensare a una
personalità infantile.
Tali caratteristiche erano ad esempio
l'arresto e il deterioramento
dell'apprendimento sociale, una tendenza a
usare l'azione fisica diretta o canali corporei
di espressione, dipendenza e passività, modi
infantili di pensare, il ricorso all'imitazione,
una coscienza morale estremamente rigida,
aspirazioni elevate e irrealistiche ed un
grado eccessivo di conformismo sociale.
I soggetti alessitimici sono incapaci di
riconoscere i motivi che li spingono a
esprimere determinate emozioni, hanno
difficoltà a mettersi nei panni degli altri e
possono mancare di empatia: capita ad
esempio che tali persone abbiano esplosioni
di collera o di pianto incontrollato, ma
quando sono interrogate sui motivi di
queste manifestazioni, sono incapaci di
descrivere quello che provano.
In genere le persone alessitimiche
sembrano ben adattate da un punto di vista
sociale nonostante manchi loro non solo la
capacità entrare in contatto con la propria
realtà psichica e con i propri vissuti interiori
ma anche la fondamentale capacità di
sintonizzarsi sui sentimenti e sui vissuti
altrui, elementi che rendono il loro buon
adattamento sociale solo apparente.
Inoltre queste persone tendono a stabilire
relazioni interpersonali fortemente
dipendenti oppure preferiscono stare da soli
ed evitare gli altri.
Fenomeno che conduce a un progressivo
ritiro e disinvestimento sociale.
La loro vita immaginativa è ridotta o
addirittura assente come testimoniato, ad
esempio, dall'assenza o povertà di
materiale onirico in questi soggetti.
Essi mancano della capacità d'introspezione
e il loro stile cognitivo è legato allo stimolo.
Marty e de M'Uzan coniarono il termine
di pensée opératoire (pensiero operatorio)
per descrivere un tipo di pensiero incapace
di produrre fantasie, senza immaginazione,
estremamente utilitaristico, preoccupato
dei minimi particolari degli eventi esterni e
molto aderente alla realtà, e ipotizzarono
che questo tipo di pensiero fosse tipico del
soggetto “alessitimico”.
Occorre precisare che non tutti i pazienti
psicosomatici esibiscono chiari elementi
alessitimici e non tutti i medici psicosomatici
hanno accettato il concetto di alessitimia.
Inoltre quest'ultima non è considerata un
fenomeno del tipo tutto o nulla e ogni
persona sembra avere la capacità di
accedere a uno stile di comunicazione
relativamente asimbolico, tanto che le
caratteristiche alessitimiche sono state
riscontrate anche in pazienti con disturbi da
uso di sostanze e sindromi da stress post-
traumatico, in pazienti con gravi disturbi
affettivi o depressioni mascherate che
spesso si presentano ai medici accusando
disturbi fisici. Inoltre l'alessitimia è stata
descritta come un fenomeno secondario nei
pazienti in dialisi e in quelli che hanno
subito un trapianto, oltre a quelli in pericolo
di vita che si trovano nei reparti di terapia
intensiva.
1.5.1 Come si sviluppa l’alessitimia?
Trovare una causa univoca che porti allo
svilupparsi del costrutto alessitimico di
personalità è un’operazione chimerica.
Probabilmente non esiste un'unica
spiegazione sulle cause di un fenomeno
tanto complesso. Infatti, oltre che da
fattori genetici, neurofisiologici e
intrapsichici, gli stili di comunicazione sono
influenzati da fattori socioculturali,
dall'intelligenza e dai modelli familiari di
comunicazione.
Alcuni studiosi hanno suggerito che possa
esistere uno specifico ambiente sociale -
evolutivo che inibisce l'espressione emotiva,
ipotesi che sembra per altro confermata
dalla presenza di un numero maggiore di
uomini alessitimici rispetto alle donne.
Infatti, agli uomini più che alle donne
s’insegna a esprimere poco le proprie
emozioni e a sviluppare capacità legate più
alla vita pratica, lavorativa che non alla
sfera affettiva.
Leff , a sua volta, ha trovato che nei paesi
sviluppati le persone mostrano una
maggiore differenziazione degli stati
emotivi rispetto a coloro che vivono in paesi
in via di sviluppo e che alcune lingue
impongono limitazioni all'espressione delle
emozioni.
Nella genesi del costrutto alessitimico. i
teorici della psicoanalisi hanno in
particolare sottolineato il ruolo dei problemi
che si verificano nelle prime fasi dello
sviluppo.
Sembra che, come per l'empatia, alla base
della capacità di rendere coscienti i propri
vissuti emotivi, ci siano, i processi di
sintonizzazione-desintonizzazione che
caratterizzano le prime fasi del rapporto
madre-figlio e che consentono al bambino
di sentirsi compreso, com’è stato prima
descritto.
Non a caso la prolungata assenza di
sintonia emozionale tra genitori e figli
impone al bambino un costo enorme in
termini emozionali, come dimostrano gli
studi della Spitz condotti su bambini privati
della presenza dei caregiver.
Quando un genitore non riesce mai, per
assenza o incapacità, a mostrare alcuna
empatia con una particolare gamma di
emozioni del bambino - gioia, pianto,
bisogno di essere cullato - questi comincia a
evitare di esprimerle e forse anche di
provarle.
In questo modo presumibilmente, numerose
emozioni cominciano a essere cancellate dal
repertorio delle relazioni intime soprattutto
se, anche in seguito, durante il dispiegarsi
dell'infanzia, questi sentimenti continuano a
essere copertamente o apertamente
scoraggiati.
L'alessitimia, soprattutto negli ultimi anni ,
è stata associata a uno stile di
attaccamento insicuro-evitante,
caratterizzato da una ricerca ossessiva di
cure, situazione che insorge nei bambini per
i quali il bilanciamento tra esplorazione
dell’ambiente e l'attaccamento nei
confronti del genitore è spostato in favore
del primo aspetto: il loro comportamento
enfatizza gli aspetti di indipendenza,
autonomia e autosufficienza affettiva nei
confronti della figura di riferimento.
Il caregiver infatti non rappresenta una vera
e propria base sicura per il loro sviluppo e
per questo essi tendono a non fare
riferimento ad egli quando si sentono
moderatamente spaventati e a disagio, così
come accade nelle situazioni di breve
separazione, e a non manifestare
chiaramente e apertamente i desideri di
vicinanza, contatto e rassicurazione. In altre
parole la caratteristica distintiva di questi
bambini è data dal fatto che tendono a
inibire la manifestazione dei propri bisogni
psicologici di confronto e protezione
rispetto alla figura di attaccamento,
enfatizzando uno stile relazionale di
autonomia e indipendenza.
Questo tipo di stile da attaccamento,
individuato concettualmente da Bowlby
grazie agli studi sugli stili di attaccamento
infantili e da Mary Main che sviluppò l’Adult
Attachment Interview; ed osservato dalla
Ainsworth all'interno della Strange
Situation, è stato più recentemente anche
correlato da alcuni studiosi, come Fonagy ,
ad una spiccata problematicità relativa alla
funzione riflessiva del sé, la quale viene
intesa dal suddetto Fonagy come la
capacità di andare al di là dei fenomeni
immediatamente noti e di rispondere al
comportamento in maniera tale da indicare
che l’individuo ha preso in considerazione lo
stato mentale dell’altro nell’organizzare le
proprie azioni in rapporto con quelle degli
altri,e che quindi possiede la capacità di
padroneggiare una vasta gamma di stati
emotivi.
Questa capacità, definita “mentalizzazione”
dallo stesso autore, nasce dalla capacità del
bambino di poter riflettere sui propri stati
mentali, e ciò può avvenire soltanto se al
bambino è data la possibilità di potersi
rispecchiare nella figura di riferimento.
Situazione che, nel caso dello stile di
attaccamento sopra citato, non avviene
affatto poiché la figura di riferimento è
avvertita come assente o non affidabile.
Secondo Joyce McDougall l'alessitimia è una
difesa primitiva straordinariamente forte
contro il dolore psichico la quale protegge
da angosce di perdita d’identità che hanno
origine nel rapporto deficitario con la
madre.
L’alessitimia, dice, deve essere considerata
un tratto stabile di personalità che
interagisce con gli eventi stressanti
predisponendo verso la somatizzazione e lo
sviluppo di malattie.
Nell’adulto gli affetti sarebbero cancellati
dalla coscienza attraverso una difesa di tipo
psicotico denominata forclusione, in seguito
alla quale la persona si sente vuota e
incapace di un contatto significativo con gli
altri a causa della cancellazione totale
dell’aspetto psico-emotivo di uno o più
eventi.
L’annullamento della parte psichica
dell’emozione permette al corpo di
esprimersi come nella prima infanzia
attraverso un processo di risomatizzazione
dell’affetto.
Molti soggetti che presentano fenomeni di
somatizzazione non sono consapevoli degli
aspetti mentali del loro dolore e, quindi,
insistono sulla natura esclusivamente fisica
della sofferenza.
La psicoanalista considera questi soggetti
assolutamente “non analizzabili”, a causa
del loro deficit di rappresentabilità mentale.
Secondo la McDougall quindi, i tentativi di
terapia in questi casi sono solo dei lavori
lunghi e inconcludenti, che portano
comunemente all’abbandono: i soggetti
alessitimici, infatti, non partecipano
emozionalmente alla seduta, non
collaborano col terapeuta, sono piuttosto
ripetitivi nel ripresentare sempre gli stessi
argomenti e mostrano di annoiarsi durante
gli incontri.
Krystal , invece, piuttosto che
concettualizzare l'alessitimia come una
difesa, la attribuisce a un arresto dello
sviluppo affettivo a seguito di un trauma
infantile, o a una regressione nelle funzioni
affettivo - cognitive dopo un trauma
catastrofico nella vita adulta.
Questa si manifesta formalmente come
deficit in tre aree di vita:
area delle funzioni affettive
area delle funzioni cognitive
area della rappresentazione del Sé e
degli oggetti
Nel tentativo di ristabilire un sentimento di
sicurezza a seguito del trauma subito,
questi soggetti attivano processi narcisistici
compensatori che possono promuovere il
diniego dei fallimenti, l’isolamento, la
scissione degli affetti indesiderabili, il
mantenimento di fantasie onnipotenti o
grandiose, la convinzione di essere
invulnerabili o lo sviluppo di sintomi
somatici in assenza di disturbi organici.
Alla luce di quanto enunciato, possiamo
riflettere su come siano molteplici i
fenomeni che possono far deviare un
regolare progredire dello sviluppo emotivo e
quanti diversi fattori psicologici e
socioculturali, dunque, sono in gioco
nell'insorgere nella persona del costrutto
alessitimico.
Inoltre, come hanno dimostrato Weintraub
e Mesulam con le loro ricerche nel 1983, un
danno precoce all'emisfero destro può
interferire seriamente con l'acquisizione di
capacità per le quali quell'emisfero è
ritenuto specializzato.
Essi sostengono, infatti, che come l'emisfero
sinistro controlla lo sviluppo della
competenza linguistica, così l'integrità
dell'emisfero destro potrebbe essere
essenziale all'emergere di capacità
interpersonali e di quella che è definita
competenza comunicativa.
Pertanto una carente funzionalità
dell'emisfero destro potrebbe spiegare non
solo la difficoltà dei pazienti alessitimici a
riconoscere e descrivere le loro emozioni,
ma anche la loro minore capacità empatica.
1.5.2 Dall’alessitimia “tratto”
all’analfabetismo emotivo “cultura”
Alcuni teorici, come il sopra citato Borgna,
hanno inserito il costrutto alessitimico
all'interno di un fenomeno socio-culturale di
più ampia portata che è quello dell'
“analfabetismo emotivo”, caratterizzando
questo fenomeno come una urgenza sociale
contemporanea, dal momento che sono
molte le persone le quali,
indipendentemente dallo status sociale,
dalle condizioni psicofisiche e dal livello
culturale, mancano di competenza emotiva.
Da Goleman abbiamo imparato che per
analfabetismo emotivo s’intende “la
mancanza di consapevolezza e quindi di
controllo e di gestione delle proprie
emozioni e dei comportamenti a esse
connessi, la mancanza di consapevolezza
delle ragioni per le quali ci si sente in un
certo modo, l’incapacità a relazionarsi con
le emozioni altrui, non riconosciute e non
rispettate, e con i comportamenti che da
esse scaturiscono” .
Manca anche l'abilità a sviluppare l'empatia
la quale arriva solo quando si è quasi
totalmente consapevoli delle proprie
emozioni.
E ancora dalle sue ricerche sappiamo che
esso è diffuso nei bambini, nei ragazzi e nei
giovani.
Umberto Galimberti, nel suo ultimo libro
“L’ospite inquietante” parla profusamente
di analfabetismo emotivo, inteso come
incapacità, soprattutto da parte dei più
giovani, di decifrare i propri sentimenti e le
proprie emozioni e delle sue cause.
Ci dice Galimberti che l'incapacità di leggere
nel proprio animo, provoca solo un impulso
all'azione, spesso svincolato dal proprio
vissuto interiore.
Questo accade a causa di stili relazionali e
comunicativi che risultano deficitarii,
assenti o problematici.
Egli afferma che l’emozione è
necessariamente relazione, in una società
dunque dove i rapporti si fanno sempre più
scadenti e meno sociali, dove l’interesse
personale prevarica qualunque forma
d’empatia, dove i valori rispondono alle
leggi del marketing, gli affetti alle
prestazioni professionali, manca
completamente una “cultura emotiva” che
ha lasciato spazio all’arido deserto della
ragione senza cuore; pertanto diviene
impossibile esprimere ciò che si “sente
dentro”.
L'analfabetismo emotivo è purtroppo molto
diffuso ed è proprio per questo che diventa
importante esercitarsi a esprimere e
riconoscere le proprie emozioni, a educare il
cuore, come sostenuto dalla psicoterapeuta
francese Isabelle Filliozat .
La Filliozat ci mette in guardia riguardo
all’importanza che riveste “l’intelligenza del
cuore” poiché è questa la dimensione che ci
mette in contatto con gli aspetti più veri
della nostra umanità e che ci permette di
penetrare di là della superficie delle cose e
di ascoltare le motivazioni profonde proprie
ed altrui.
E’ infatti, a causa della cattiva gestione
delle nostre emozioni che l’uomo sembra
oggi diventato un “infermo relazionale”:
l’autrice osserva come nella società
moderna ci scontriamo gli uni con gli altri,
abbiamo abusi di ogni genere, difficoltà a
comunicare, solitudine, razzismo,
esclusione; tutti sintomi di una malattia
sociale che radica e prolifera copiosamente
nel deserto delle passioni che ha come
bersaglio prediletto i giovani adolescenti.
CAPITOLO SECONDO
CENNI TEORICI SUL CONCETTO DI
FRUSTRAZIONE
Uno stato di frustrazione è da intendersi
come “La condizione in cui viene a trovarsi
l’organismo quando è ostacolato, in modo
permanente o temporaneo, nella
soddisfazione dei propri bisogni” .
Questo incontrare ostacoli al
soddisfacimento dei propri bisogni deve
ritenersi un’evenienza normale nel corso
dell’esistenza e non una condizione
anomala o patologica.
Gli studiosi d’ispirazione freudiana hanno
sottolineato che il modo di insegnare al
bambino a disciplinare gli sfinteri e, prima
ancora, il modo in cui si attua il rapporto
madre bambino durante l’alimentazione,
diviene occasione di somministrazione,
maggiore o minore, di frustrazioni.
L’educazione degli sfinteri è stata presa in
considerazione da moltissimi studiosi
nell’intento di rilevare eventuali correlazioni
tra modo di insegnare a disciplinarsi e
formazione del carattere sia da un punto di
vista cognitivo che emotivo.
Il nostro interesse nei confronti della
frustrazione, come elemento
rappresentativo da osservare
nell’interpretazione psicodrammatica, si
fonda sulla forte (ma talvolta assente…)
reazione emotiva che tali contesti
relazionali conflittuali suscitano.
Per conoscere a fondo il fenomeno,
proviamo a inquadrarlo innanzitutto da un
punto di vista evolutivo.
2.1 Processo evolutivo e frustrazione
Sin dalla nascita il bambino è sottoposto a
una lenta somministrazione di frustrazioni,
ed è compito dei genitori somministrarle in
modo tollerabile .
Per un sano sviluppo della personalità è
indispensabile che il dosaggio delle
frustrazioni sia scelto opportunamente e
non superi certi limiti di tolleranza.
Il bambino, quando lo sforzo di
adattamento all’ambiente frustrante è
prolungato, come accade nel caso di
genitori iperprotettivi e ansiosi che limitano
i bisogni di autonomia, ricorre ad una serie
di meccanismi difensivi che tendono ad
essere progressivamente disadattivi e
problematici i quali persistono nel tempo
come modalità abituali di comportamento e
che sovente riemergergono sottoforma di
totale chiusura emotiva e relazionale o con
le sembianze di un agito aggressivo al quale
manca, per antonomasia, un’integrazione
cognitiva dell’affetto ad esso legato, così
come sostenuto dal già citato Donald
Winnicott.
Al contrario, con genitori eccessivamente
remissivi e indulgenti nei confronti del
bambino, si può avere una scarsa
somministrazione di frustrazioni e questo
determina il permanere del carattere del
piccolo nella fase dell’egocentrismo
infantile la quale, come ci dice anche Jean
Piaget, è caratterizzata dalla mancanza di
differenziazione, nel bambino, tra il proprio
punto di vista soggettivo e quello di un altro
.
Tale fissazione diventa spesso causa di forte
disagio sociale dal momento in cui le
frustrazioni, che abbiamo già descritto
come una normale esperienza “fisiologica”
e del tutto naturale, possono insorgere
quando il bambino si ritrova a maturare
nuove forme di esperienza e di relazione
lontano dall’ambiente familiare.
In tale circostanza, nell’interazione con il
gruppo dei pari o nel rapporto con le figure
istituzionali della scuola, egli non trova più
rispondenza alle sue pretese esagerate;
insorge così un forte disagio emotivo a
causa dell’esperienza frustrante stessa, che
non può essere supportata da un’adeguata
integrazione cognitiva, data la mancanza di
analoghe esperienze pregresse formative,
provocando una reazione che tende verso
una delle estremità dei due poli emotivi
descritti in precedenza.
In conclusione un insuccesso scolastico, un
fallimento di una prova d’esame, la
cessazione, subita, di una relazione
amorosa, l’abbandono o l’isolamento
affettivo, la morte di una persona cara, ecc.
sono, o divengono, tutte occasioni di
frustrazioni di bisogni umani essenziali.
Attraverso il superamento di queste e altre
situazioni frustranti e attraverso il maturare
di determinati modi di reagire a tali
frustrazioni, gli individui incorporano valori
e norme di quella società che gli è propria,
favorendo così il processo di adattamento a
essa in modo più o meno soddisfacente.
2.2 Motivi frustranti
Le cause delle frustrazioni possono essere le
più diverse, le distinguiamo in cause
derivate dall’ambiente fisico, cause
derivanti dall’ambiente sociale, cause
familiari, cause personali.
Le caratteristiche geografiche possono
condizionare la soddisfazione dei bisogni
d’individui o d’interi gruppi etnici.
Ad esempio, la distanza eccessiva
dell’abitazione dai centri cittadini è di
ostacolo, per certe categorie d’individui
come i contadini o i montanari, al
soddisfacimento di numerosi bisogni.
Le frequenti emigrazioni rappresentano una
reazione a tale frustrazione derivante
dall’ambiente fisico.
La scarsità degli alloggi oppure lo squallore
di vecchie abitazioni sono fonte di grosse
frustrazioni soprattutto per quei gruppi
sociali che per emigrazioni si trovano
bruscamente introdotti in una realtà ostile.
Le minoranze razziali, etniche, religiose,
politiche sono, inoltre, spesso oggetto di
frustrazioni che costituiscono la premessa
per gravi squilibri sociali.
Alcune frustrazioni, specialmente quelle
causate dall’ambiente fisico, sono
facilmente tollerate dall’individuo perché
sono anonime, non cariche d’intenzionalità
e di significato personale.
Le frustrazioni più difficili da accettare sono
invece quelle che derivano dall’ambiente
sociale, cioè dalla presenza e l’azione di altri
individui vicino a noi .
Nell’ambiente scolastico, ad esempio la
struttura dei rapporti tra i diversi membri
che si trovano da sconosciuti a dover
dividere un percorso comune, la figura
istituzionale rappresentata dagli insegnanti
con i quali spesso è difficile relazionare, la
possibilità (o impossibilità) di migliorare la
propria posizione così da ricevere gratifiche
da parte degli altri significativi,
costituiscono tutte occasioni di frustrazioni
di origine sociale.
Anche il ruolo sociale dello studente
universitario può essere fonte di frustrazioni
più o meno facilmente tollerate come il
perdurare di una posizione di dipendenza
economica dalla famiglia, in un età in cui
altri giovani svolgono già un’attività
redditizia; l’insicurezza riguardo i tempi e i
modi del futuro e l’incertezza nei confronti
di un soddisfacente inserimento
professionale; l’isolamento nella folla degli
studenti e la lontananza dall’ambiente
familiare, sono tutte frustrazioni provate
dagli studenti.
Un’altra categoria fortemente frustrata
dalla società è quella dei malati di mente,
infatti, chi ha subito il ricovero in ospedale
psichiatrico è spesso circondato da
diffidenza, timore, ed è facilmente frustrato
nelle sue esigenze di integrazione sociale.
L’ostilità più o meno aperta dell’ambiente
sociale può destinare al fallimento gli sforzi
residui di queste persone già duramente
provate .
Fonte di frustrazioni gravissime è la
condizione dell’infanzia abbandonata,
affidata all’assistenza pubblica di
brefotrofi .
Il neonato affidato al brefotrofio, mancando
di un rapporto personale, durevole, fatto di
affettuose attenzioni, con una persona
adulta, si perde nella folla anonima dei
coetanei e mostra segni gravissimi
d’immaturità nelle funzioni psico – motorie,
nel controllo degli sfinteri, nello sviluppo del
linguaggio, oltre a disturbi altrettanto gravi
dell’affettività (apatia, stati di depressione,
impulsività…).
A causa di questo prolungato e, in alcuni
casi, irreversibile stato di frustrazione, il
futuro adattamento sociale di questi
ragazzi, come ci descrive Renè Spitz, può
essere pregiudicato gravemente.
Altre cause frustranti trovano terreno fertile
nel nucleo familiare.
In alcuni ambienti familiari vige un clima
rigido, severo, proibitivo e disciplinare, cioè
un clima autoritario in cui il bambino può
raggiungere la sicurezza emotiva solo a
condizione di rinunciare a numerose
esigenze, assumendo i valori e le norme
proposte dagli adulti.
Questa condizione è causa di frequenti
frustrazioni soprattutto quando il bambino
scopre, al di fuori dell’ambito familiare,
modelli di comportamento e di
soddisfazione dei bisogni che gli sono
negati, ma di cui subisce in modo
persistente la suggestione .
Altre volte il comportamento dei genitori è
iperprotettivo e ansioso, per cui lo stato di
apprensione continua per il benessere dei
figli fa sì che i genitori circondino i figli di
limitazioni, che diventano frustrazioni
soprattutto quando questi sperimentano,
con i coetanei, la propria inettitudine
insieme ai vantaggi di una vita più libera .
Anche l’indifferenza e la trascuratezza
caratteristiche di certi ambienti familiari
dove la comunicazione tra i membri
costituenti è molto scadente, oggi sempre
più frequenti a causa delle modifiche sociali
che alle quali è andata in contro la famiglia
del nuovo millennio, possono frustrare
alcune esigenze di base come il bisogno di
protezione, di valorizzazione ecc .
Infine, l’incoerenza educativa alla quale
sono sottoposti alcuni ragazzi i quali
genitori hanno una condotta caratterizzata
da alternanza imprevedibile di concessioni e
proibizioni, è molto frustrante, perché pur
permettendo di concretizzare la
soddisfazione di molteplici bisogni, cade
nell’errore di frustrarli subito dopo
inibendone la stessa espressione .
Molti casi di frustrazione, poi, sono inerenti
alla complessità psicologica degli individui,
cioè derivano da un conflitto tra i bisogni
dello stesso individuo .
La frustrazione si verifica quando un
comportamento motivato viene impedito
od ostacolato.
Essa può scaturire anche dalla semplice
dilazione del soddisfacimento dei bisogni, la
frustrazione, derivante dalla dilazione della
soddisfazione dei bisogni, viene
abitualmente tollerata, perché attenuata da
una serie di compensi secondari, ma a volte
la tensione può farsi intollerabile,
inducendo l’individuo ad abbattere le
barriere che si oppongono al
raggiungimento dell’obiettivo o a porre in
atto altri meccanismi e schemi d’azione più
o meno problematici.
Le cause personali come fonte di
frustrazione sono un’esperienza di disagio
tipica dell’adolescenza.
Nell’adolescenza, come descritto da Erik
Erikson, la frustrazione può derivare dal
conflitto che scaturisce nell’oscillare tra
desideri e bisogni tra loro inconciliabili:
quando due tendenze si escludono
reciprocamente è possibile risolvere il
conflitto solo con la frustrazione, anche se a
volte solo temporanea, di uno dei due
bisogni in contrasto.
L’adolescente si sente spinto da un lato
verso l’autonomia, l’affermazione di sé,
dall’altro verso il bisogno di protezione e di
restare in una situazione di non –
responsabilità.
Egli reagisce spesso con la proiezione del
bisogno di protezione sui genitori, o nei
confronti degli altri significativi, e nelle loro
limitazioni al raggiungimento
dell’autonomia, che è l’altro bisogno sentito
sul piano della consapevolezza.
La reazione a tale frustrazione prototipica
adolescenziale è strettamente correlata al
tipo di clima familiare e sociale all’interno
del quale l’adolescente esperisce la propria
attività emotiva e relazionale.
In un’epoca successiva, il problema
dell’autonomia o della dipendenza nei
confronti dei genitori può riaffacciarsi in
modo più drammatico, nel momento in cui
l’individuo compie una scelta affettiva al di
fuori della famiglia ed elabora il progetto di
costruire un nuovo nucleo familiare.
Un giovane che avverte il bisogno di
sposarsi sente anche l’impulso di
accontentare i genitori uniformandosi alle
loro preferenze e alle loro esigenze, in tali
casi, se c’è un conflitto tra queste tendenze,
si crea una situazione di frustrazione
fortemente influente sul piano emotivo.
La frustrazione può anche derivare da un
conflitto tra due tendenze inconciliabili, in
questo caso un obiettivo non può essere
raggiunto se non abbandonandone un altro,
cioè sacrificando un’esigenza.
L’esperienza di perdita derivante dal
sacrificare un’esigenza è spesso causa di
disagio emotivo quando non si posseggono
le risorse adatte per far fronte alla
situazione minando così il benessere stesso
di colui che fa esperienza di tale disagio.
2.3 Differenze individuali nella tolleranza
alla frustrazione
CAPITOLO TERZO
I MODELLI INTERPRETATIVI DELLA CRISI
ADOLESCENZIALE
Situata tra l’infanzia e l’età adulta,
l’adolescenza è, per antonomasia, la fase
del cambiamento (dal latino adolescere,
cioè crescere), irrompendo nella vita degli
individui tra gli 11 e i 14 anni e
comportando una serie di modificazioni di
natura somatica e neuro-endocrina ai quali
si accompagna la costruzione di un’identità
conforme a tali cambiamenti.
Erikson paragona la crisi dell’adolescente al
salto del trapezista che rischia di non
riuscire ad afferrare l’attrezzo dopo aver
lasciato la linea di partenza, ponendo
l’accento in tal modo sulla forte
contraddizione tra il desiderio di autonomia
e indipendenza cui aspira ogni adolescente
e il bisogno ancora vivo di coccole e
protezione che caratterizzava gli stati di vita
in parte passati ma in parte tuttora
presenti.
A dire il vero, l’inquietudine adolescenziale
sarebbe semplicemente una tra le tante
situazioni di crisi che si manifestano nel
corso della vita di un individuo e non
andrebbe perciò enfatizzata più del
necessario.
D’altronde, le reazioni degli adolescenti di
fronte ai radicali mutamenti esistenziali cui
vanno incontro sono molteplici e molti
affrontano il periodo critico con sufficiente
tranquillità mentre altri incontrano
differenti gradi di difficoltà, i quali possono
manifestarsi con reazioni d’irrequietezza,
apatia, indisciplina, disobbedienza, le quali
sono solitamente considerate
caratteristiche dell’età, fino alla messa in
atto di condotte estremamente trasgressive
che contemplano dall’abuso di sostanze fino
al perseverare di condotte aggressive auto
ed eterodirette.
Proviamo ad analizzare da diversi punti di
vista l’epigenesi di tale crisi così da valutare
i vari contributi presenti in letteratura.
Le linee d’indagine sull’universo
adolescenziale attualmente in atto, sono,
grosso modo, riconducibili a quattro diversi
modelli interpretativi: fisiologico,
psicoanalitico, cognitivo e sociologico;
tuttavia, affrontando ciascuno un aspetto
differente dello sviluppo adolescenziale, tali
modelli possono in qualche modo coesistere
e quindi concorrere insieme a disegnare un
quadro quanto più possibile esauriente
della fase evolutiva in questione.
3.1 Modello fisiologico, cognitivo e
sociologico a confronto
L’approccio fisiologico accentra la sua
attenzione su tutti quei cambiamenti che
trasformano un ragazzo in adulto.
D’altronde sono proprio i mutamenti
morfologici a palesare l’inizio della
rivoluzione adolescenziale.
Come rilevava Renzo Canestrari , è in
questo periodo che avviene la maturazione
sessuale e, di conseguenza, l’erotizzazione
del sistema nervoso.
Nelle giovani adolescenti la maturazione
sessuale si accompagna all’accrescimento
della statura, all’aumento del volume del
seno, l’allargamento del bacino,
l’arrotondamento dei fianchi, la comparsa
dei peli pubici e ascellari ecc., finché, al
culmine delle trasformazioni, compare il
menarca.
Oltre alla statura e alla peluria nei ragazzi si
sviluppa la muscolatura, cambia il timbro
della voce, aumenta la statura e
naturalmente si ha la maturazione degli
organi sessuali che sono ormai in grado di
procreare.
Generalmente le femmine raggiungono
prima dei maschi lo sviluppo puberale, ed è
per questo che a 12 anni appaiono già
cresciute e mature rispetto ai ragazzi che
sembrano ancora dei bambini.
La diversità di sviluppo si ripercuote
notevolmente sulle relazioni reciproche tra i
sessi: ragazzi e ragazze hanno modi di fare,
di pensare, di agire disomogenei ed è per
tale motivo che scelgono compagnie dello
stesso sesso.
I loro destini torneranno a incrociarsi
quando anche i ragazzi avranno raggiunto
lo stesso sviluppo puberale.
La caratteristica più sorprendente di queste
metamorfosi è la straordinaria rapidità con
cui esse si realizzano, la loro eclatante
vistosità e allo stesso tempo l’estrema
variabilità con cui punteggiano la loro
insorgenza da soggetto a soggetto; aspetti
questi che non possono non ripercuotersi
nella coscienza dei ragazzi, i quali,
avvertono profondamente il distacco dal
precedente schema di riferimento intessuto
attorno al proprio corpo preadolescente,
mentre per altri vengono inesorabilmente
sospinti verso la nuova identità già in
itinere, alla ricerca di una prossima e più
idonea situazione di stabilità.
Le dimensioni e le proporzioni di alcune
parti del corpo sono gli elementi che
maggiormente preoccupano i giovani di
entrambi i sessi e influiscono notevolmente
sulla propria autovalutazione, soprattutto
sulla base dei confronti che costantemente
s’istituiscono con i coetanei; così, se uno
sviluppo sessuale tardivo può essere fonte
di preoccupazione, di sentimenti
d’inquietudine e d’inferiorità, uno fin troppo
precoce può generare discrasie fra la
percezione dell’ambiente circostante e la
propria considerazione di sé, magari ancora
non del tutto slegata dalla strutturazione
infantile.
Le trasformazioni adolescenziali non si
fermano agli aspetti fisiologici e psicologici,
anche a livello intellettuale occorrono delle
consistenti modificazioni, attentamente
indagate da Jean Piaget .
Il ricercatore svizzero parla di intelligenza
operativa formale, le cui strutture entrano
in funzione verso i 12–13 anni, sostituendo
il pensiero concreto, tipico della
fanciullezza, col pensiero astratto, proprio
della mentalità adulta; quest’ultimo definito
anche pensiero ipotetico - deduttivo,
potendo tener conto sia delle situazioni
direttamente percepibili sia di avvenimenti
meramente possibili: per l’intelligenza
astratta, cioè, il significato di un evento si
estende anche all’universo del possibile e un
tale allargamento di prospettiva non può
non riverberarsi sullo sviluppo della
personalità dell’adolescente che, difatti,
inizia a maturare nuove riflessioni con le
nozioni di proporzionalità, probabilità e
casualità nella costruzione di sistemi
combinatori che, a loro volta, aprono spazi
di curiosità ed esigenze in precedenza
sconosciuti.
In pratica ogni giovane nella fase puberale
acquista una capacità di ragionamento che
gli permette di uscire dalla sua esistenza
particolare e slanciarsi verso la conquista
del mondo anche attraverso il linguaggio, la
fantasia, e la capacità d’astrazione.
Già dai dodici anni i ragazzi sono in grado di
formulare i loro pensieri seguendo un
processo logico-deduttivo, e utilizzare la
modalità dell’esperimento a riprova delle
loro convinzioni.
Con il passare degli anni ciò che
maggiormente si accresce è il bagaglio
lessicale e morfosintattico che, ampliandosi
e articolandosi, consente elaborazioni
concettuali sempre più complesse.
E’ ovvio che questa prorompente crescita
intellettuale finisca col ripercuotersi anche
nella vita scolastica, dove l’ormai notevole
capacità d’apprendimento può sospingere
ogni ragazzo verso una piena acquisizione
della complessità del sapere, portandolo ad
aderire a un sistema di valori già esistente
oppure ad apportare delle modifiche
personali che finiscono col prospettargli
un’interpretazione abbastanza personale
del mondo circostante.
Nella visione cognitivista, questa grandiosa
crescita intellettuale è lo strumento principe
per l’organizzazione delle nuove modalità
somatiche, affettive e relazionali che
l’adolescente convoglia verso la
ristrutturazione della propria identità in
divenire.
Il modello sociologico, illustrato da
Bronfenbrenner , sottolinea, invece, come
l’adolescenza, e la crisi ad essa legata, sia in
realtà un prodotto dei paesi industrializzati,
e come, pur manifestandosi secondo una
serie di condotte eterogenee anche
all’interno di una stessa società, ci sia una
forte correlazione tra il grado di complessità
della società e la tipologia di adolescenza
che le si affianca, nel senso che tanto più
una società è complessa, maggiormente
l’adolescenza sarà lunga e conflittuale.
In antichità, l’adolescenza non esisteva, i
bambini di colpo si trasformavano in piccoli
uomini, cominciavano a vestirsi da grandi e
ad assumere le mansioni che si addicevano
agli adulti; le tappe erano bruciate, il salto
dall’infanzia all’età adulta avveniva molto
rapidamente.
Con l’avvento del benessere questa fase
della vita si è prolungata sempre di più, i
ragazzi sono stati esclusi dall’attività
produttiva e in larga misura dal mondo
degli adulti.
Nella società moderna, principalmente per
quanto riguarda la condizione dei paesi
occidentali, raramente la maturità sessuale
corrisponde alla maturità sociale.
E’ per tale motivo che i giovani, emarginati
(o auto-emarginati) dagli spazi significativi
dell’esistenza, almeno rispetto al modello
strutturato dagli adulti, vivono il loro tempo
circondati essenzialmente da coetanei,
tanto da costituire quasi una classe a sé
stante e una vera sottocultura giovanile che
presenta caratteristiche peculiari come lo
stesso modo di parlare, di vestirsi, di
acconciare i capelli.
Gran parte dei loro atteggiamenti ha il
preciso scopo di marcare l’appartenenza
alla propria generazione e a sancire le
differenze con il mondo adulto.
3.2 Adolescenza e crisi:: il modello
psicanalitico
L’approccio psicanalitico classico, nei
riguardi dell’adolescenza, focalizza
l’attenzione sui conflitti intrapsichici
generati dall’attinta maturazione sessuale
che moltiplica l’energia libidica,
riattualizzando vecchi desideri e formulando
una pressante richiesta per una rapida
dissipazione di tal energia.
All’interno di questa linea interpretativa
l’adolescente non è in grado di fronteggiare
le nuove pulsioni genitali, ma non sa
neppure come gestire le vecchie pulsioni
pregenitali che, dopo il lungo periodo di
latenza, tornano a farsi sentire.
Riuscire a controllare questo complesso
bagaglio pulsionale è un compito oltremodo
difficoltoso, dinanzi al quale è facile che
l’adolescente avverta la propria
inadeguatezza, indeciso se appagare o
meno la tumultuosa successione dei
desideri.
Secondo Freud durante questa fase
ricompare l’angoscia edipica, la paura e la
vergogna dell’incesto e, a causa di ciò, il
ragazzo o la ragazza, ora maturo
sessualmente, tende ad allontanare, a
contestare sempre più i propri genitori e a
rifiutare le identificazioni attuate durante
l’infanzia.
Egli scrive: “L’avvento della pubertà
inaugura le trasformazioni che devono
portare la vita sessuale infantile alla sua
forma normale definitiva. La pulsione
sessuale, che era fino a quel momento
essenzialmente autoerotica, trova a questo
punto il proprio oggetto sessuale” oggetto
che, nell’ottica Freudiana , esiste solo in
quanto investito dalle pulsioni, quasi si
trattasse di una creazione di queste ultime.
Il passaggio dalla sessualità infantile a
quella adulta è così visto come la
transizione dalla pregenitalità (orale, anale
e fallica), al primato genitale verso cui
convergono le diverse pulsioni parziali.
Per Freud la scoperta dell’oggetto d’amore
è, dunque, in realtà una “riscoperta”,
poiché ogni individuo ricerca nell’amore
adulto l’oggetto amato della propria
infanzia.
Più tardi Anna Freud asserirà che l’Io
adolescenziale è costantemente impegnato
a reprimere i desideri sessuali, sicché la
pubertà sarebbe caratterizzata
dall’impegno e dalle capacità che ogni
adolescente dimostra nel tollerare gli
attacchi pulsionali.
L’eccitazione sessuale e il conseguente
cambiamento fisico costituiscono gli
elementi di maggiore preoccupazione per
l’adolescente.
Le nuove pulsioni genitali comportano ora
grandi turbamenti, riattivando le vecchie
angosce di castrazione e il senso di colpa
associato a episodi di masturbazione.
Il riattivarsi delle dinamiche edipiche,
minacciando il raggiunto equilibrio tra Es ed
Io, costringe l’adolescente a mettere in atto
una serie di difese col fine di contrastare
l’angoscia derivante dalla riattivazione
dell’Edipo.
Sempre a detta di Anna Freud, i meccanismi
di difesa messi in atto per far fronte alle
angosce adolescenziali sono, in
successione: spostamento della
libido dagli oggetti infantili verso nuovi
oggetti (amici, gruppo, partner); inversione
dell’affetto genitoriale che si converte da
amore in odio, da dipendenza in ribellione,
da stima in disprezzo; ritiro della libido
verso sé in mancanza di investimenti
oggettuali alternativi con conseguente
stagnazione della libido e nascita di idee di
grandezza; regressione, che rivela
l’esistenza di una forte angoscia in grado di
mettere a repentaglio il precedente
equilibrio psichico e addirittura la netta
distinzione tra l’Io e gli oggetti.
Altre difese descritte nell’opera in
questione, molto comuni nella condotta
adolescente, sono l’intellettualizzazione e
l’ascetismo: attraverso il primo gli
adolescenti provano a staccarsi dalle
pulsioni sessuali esaltando le facoltà del
pensiero e spostando in tal modo
l’attenzione su altri aspetti della vita.
Nel caso dell’ascetismo, invece, le attività
intraprese come lo sport, lunghe sedute di
lettura, o le rinunce nella forma, ad
esempio, dei digiuni, dell’astinenza dai
giochi con cui gli adolescenti si cimentano
hanno lo stesso fine di tenere a freno il
montante istinto sessuale.
3.2.1 Il modello Eriksoniano
Per gli autori cronologicamente successivi il
concetto di crisi evolutiva adolescenziale
oscilla tra un significato positivo di
cambiamento maturativo ed evolutivo e un
significato negativo di squilibrio e
scompenso psicologico.
Ne è un chiaro esempio la teoria degli stadi
di Erik Erikson che postula lo sviluppo del
senso di identità come una serie di
acquisizioni personologiche che si integrano
attraverso varie fasi critiche.
L’autore sostituisce all’idea di
riattualizzazione edipica una crisi d’identità
che oscilla tra le polarità opposte
dell’autonomia e della dipendenza dalle
figure di riferimento.
La conquista dell’identità, secondo questa
visione, consiste perciò nel riuscire a
definire un proprio spazio intimo
nettamente distinto da quello degli altri,
sebbene a essi correlato, ed è in tale quadro
che va inserito il distacco sempre più
marcato dalle figure parentali, nonché il
contemporaneo investimento in figure
alternative, quali possono essere il gruppo
dei pari o il partner sessuale.
In realtà la definizione identitaria, nella
visione di Erikson, rappresenta un’impresa
tutt’altro che agevole, innanzitutto perché si
costruisce molto lentamente, al contrario
dei cambiamenti fisiologici che invece si
susseguono a ritmi oltremodo rapidi, ma
soprattutto perché non c’è nulla di naturale
e innato in tale costruzione e tutto si
conquista attraverso sforzi numerosi ed
onerosi, col rischio che l’impresa possa
addirittura fallire e al posto di una chiara
percezione della propria identità si generi
una forte confusione a livello psichico, che si
manifesta nell’incapacità di compiere
scelte, assumersi responsabilità, svolgere
adeguatamente dei compiti o intessere
relazioni. L’autore individua l’estremo limite
di questo percorso nella cosiddetta “identità
negativa”, basata su una profonda ostilità
nei confronti dei familiari e della società e
sull’identificazione con tutto ciò che nelle
precedenti fasi evolutive veniva catalogato
come cattivo e pericoloso.
Secondo Peter Blos , invece, la crisi
d’identità adolescenziale rappresenta
l’esperienza più sofferta e prolungata,
sicché il carattere e la personalità
individuale assumono una struttura
relativamente stabile solo alla fine
dell'adolescenza, nel momento in cui
vengono superate ed elaborate le sfide che
contraddistinguono questa fase.
E’ all’interno di tale intervallo che si avverte
la necessità di rivedere i punti irrisolti
dell’esperienza precedente, attraverso una
revisione che comporta necessariamente la
rottura di strutture consolidate e la
conseguente disorganizzazione dello stato
identitario: con l’acuirsi della pressione
istintuale, il riaffacciarsi del complesso
edipico e l’abbandono di una indifferenziata
bisessualità, solitamente accompagnata
all’attenzione verso l’altro sesso e un
significativo mutamento delle relazioni
oggettuali; tutto un insieme di vissuti che
alimentano un senso di smarrimento e
perdita della continuità del Sé.
Anche Erikson , come abbiamo visto, è
d’accordo con il fatto che la crisi
adolescenziale si manifesti sotto forma di
“crisi dell’identità”, che può addirittura
avere esiti patologici, quali la “confusione
d’identità” o la “perdita dell’Io”; ma a suo
avviso essa è caratterizzata dalla costante
ricerca di un legame di continuità in grado
includere i cambiamenti e le trasformazioni
avvenute.
Il nuovo corpo, le pulsioni genitali,
l’allargamento della sfera intellettuale,
sono tutti elementi che non possono certo
passare inosservati, ma essenzialmente
richiedono di essere ristrutturati nella nuova
dimensione giovanile, al fine di realizzare un
nuovo equilibrio, diverso da quello della
fanciullezza; una transizione, insomma.
3.2.2 Adolescenza e narcisismo
Dal punto di vista psicologico è possibile
individuare durante la fase adolescenziale
un nuovo investimento di tipo narcisistico,
benché di natura diversa rispetto ai vissuti
di onnipotenza del bambino nelle sue prime
fasi di vita.
Ogni adolescente, infatti, nutre
un’immagine grandiosa di sé e manifesta
un certo grado di disinteresse nei confronti
del mondo esterno, disinteresse che si
palesa attraverso condotte profondamente
egoistiche.
E’ un fenomeno che, sia pure in gradi
diversi, interessa tutti i ragazzi durante
questa fase e si enuclea nella ricerca di
un’immagine soddisfacente di se stessi, un
sostegno di tipo narcisistico che porta alla
costruzione di un Ideale dell’Io e compare
contemporaneamente al Super-io, dopo la
scomparsa del conflitto edipico .
Esso contiene immagini e attributi che l’Io si
sforza continuamente di acquisire ed è
frutto di una triplice idealizzazione:
l’idealizzazione dei genitori da parte del
bambino, quella del bambino da parte dei
genitori e infine quella del bambino
riguardo alla realizzazione del proprio sé.
Heinz Kohut è sicuramente lo psicoanalista
che più di tutti approfondisce il tema del
narcisismo, fino al punto di porlo al centro
della sua teorizzazione.
Per Kohut i bisogni narcisistici permangono
per l’intero corso della vita parallelamente
allo sviluppo dell’amore oggettuale.
In adolescenza, conseguentemente alla
riattualizzazione edipica, e alla frustrazione
conseguente la svalutazione delle imago
parentali idealizzate in precedenza, si ha un
nuovo investimento narcisistico che si
manifesta come una percezione di
perfezione del proprio Sé grandioso.
Fondamentale, secondo l’autore, è la
presenza di genitori ottimali i quali,
“nonostante la stimolazione alla
competizione, sono anche sufficientemente
a contatto con il battito della vita da essere
in grado di vivere la crescita della
generazione successiva con gioia non
forzata e non difensiva” e che, attraverso
una serie di condotte talvolta frustranti e
talvolta gratificanti, contribuiscono ad una
graduale attenuazione dell’esibizionismo e
della grandiosità, che possono così essere
integrate nella struttura della personalità
adulta.
Altro contributo fondamentale nei confronti
del narcisismo e dell’adolescenza ci arriva
da Otto Kernberg il quale parla
dell’adolescenza come di una
destabilizzazione dell’equilibrio narcisistico
infantile che si avvia verso una ridefinizione
dell’Ideale dell’Io attraverso il moltiplicarsi
degli investimenti oggettuali nei confronti
del gruppo dei pari a causa della
svalutazione delle figure parentali .
Ovviamente, affinché questo percorso
raggiunga una completa integrazione
personologica, è necessario che
l’adolescente abbia avuto la possibilità di
integrare, durante l’infanzia, l’investimento
libidico del Sé con un’immagine realistica
della valutazione delle parti buone e cattive
del sé e delle figure parentali; è questo che
Kernberg intende con “equilibrio
narcisistico”.
Quando ciò non avviene, non ci sono basi
narcisistiche solide e l’adolescente ricorrerà
a modalità di valutazione di sé e gli altri
filtrate dal processo di scissione, dividendo
gli oggetti interni ed esterni tra totalmente
buoni o totalmente cattivi; il che si
manifesta con una difficoltà cronica a
valutare in maniera intergrata le proprie
motivazioni, i propri comportamenti e
relazioni interpersonali proprie e degli altri;
ed una modalità di comportamento “tutto o
niente” che oscilla tra l’idealizzazione e la
svalutazione costante.
3.2.3 Il modello delle relazioni oggettuali
Le prime critiche al modello freudiano di
crisi puberale e di ambivalenza nel rapporto
con gli oggetti da parte dell’adolescente
arrivano da Melanie Klein , la quale sostiene
che il bambino esperisce da subito relazioni
oggettuali d’amore e d’odio, le quali sono
del tutto interne, “fantasticate”.
Il contributo di quest’autrice riguardo alla
posizione depressiva, descritta nei capitoli
precedenti, ha fornito nuovi strumenti
concettuali per la comprensione dei processi
psichici dello sviluppo; le stesse ansie e
difese si riattivano durante tutto il processo
maturativo ogni qual volta ci si troverà ad
affrontare il distacco e la perdita, in ogni
sua forma.
Anche l’adolescenza è uno di questi
momenti secondo la Klein, e per affrontarlo
e superarlo è necessario che sia avvenuta
durante la prima infanzia un’integrazione
positiva tra gli elementi ambivalenti relativi
al Sé e all’oggetto.
Il pensiero oggettuale nei riguardi
dell’adolescenza è stato però ampiamente
approfondito da Donald Winnicott, il quale
introduce, finalmente, l’effettiva
importanza della realtà esterna, fino ad
allora sottovalutata, nel determinare l’esito
delle dinamiche psichiche.
Egli ci dice che la realtà esterna, nel periodo
puberale, rappresenta sia un motivo di
conflitto sia il luogo dove l’individuo può
realizzare i suoi sogni, porsi in relazione con
altri, creare una dimensione culturale del
suo esistere .
Tutto ciò presuppone che egli abbia
consolidato un forte senso di sé, senta ad
esempio di appartenersi, abbia presente il
filo della sua storia e non si percepisca né
estraniato né alienato da se stesso.
Affinché questo accada, la sua infanzia deve
essere stata protetta, in altre parole
una madre sufficientemente buona deve
averlo sottoposto a piccole frustrazioni
ottimali, recepite come non traumatiche.
Al contrario la madre non sufficientemente
buona, come s’è detto in precedenza,
interrompe bruscamente l'onnipotenza
soggettiva del bambino, ne tarpa le ali e, di
fatto, impedisce la crescita di un sé ottimale
(quello che Winnicott chiama vero sé),
permettendo invece la formazione del falso
sé: accondiscendente, privo di creatività, di
energia vitale e con un pesante senso
d’inutilità soggettiva che finisce con lo
scontrarsi con la realtà esterna, piuttosto
che “incontrarla”.
Se la creatività, la saldezza del proprio
essere e anche la gioia di vivere
contraddistinguono positivamente gli
aspetti del vero sé, c’è un secondo motivo
per il quale Winnicott è interessato
all’ottimale crescita della psiche infantile
per il buon esito del superamento della crisi
adolescenziale: lo sviluppo del senso di
colpa .
La capacità di provare il senso di colpa, e
quindi l’equilibrato sviluppo di un senso
morale, dipende dal grado di tolleranza del
bambino nei confronti delle sue pulsioni sia
libidiche, sia aggressive.
Se il senso di colpa scatta nei modi e nei
tempi previsti, il bambino potrà più tardi
entrare nella più canonica triangolazione
edipica, tollerando stavolta l’ambivalenza
delle pulsioni d’amore e odio nei confronti
del genitore dello stesso sesso, dovuti alle
fantasie sessuali e di possesso esclusivo
riguardo il genitore del sesso opposto,
proprio grazie alla precedente esperienza
psichica di sopportazione del senso di colpa.
Per di più, se il suo primo sviluppo affettivo
è stato equilibrato grazie alle amorevoli
cure della madre , dovrebbe essere in grado
di superare la situazione edipica con
relativa facilità e speditezza, identificandosi
col genitore dello stesso sesso e
sviluppando un adeguato Super-io, frutto
dell’interiorizzazione delle regole morali
assunte attraverso l’influsso genitoriale.
Attenzione, però, mette in guardia
Winnicott: anche chi alleva bene i propri
figli deve attendersi la rivolta, anzi, migliore
è stata l’educazione e più profonda sarà
questa rivolta, “Anche quando la crescita
nel periodo della pubertà procede senza
crisi di rilievo, ci si può trovare a dover far
fronte ad acuti problemi di trattamento
ambientale, perché crescere significa
prendere il posto dei genitori. Lo significa
veramente. Nella fantasia inconscia,
crescere è implicitamente un atto
aggressivo. Ed il bambino non è più ora di
proporzioni infantili” .
Tuttavia, per l’autore, non si tratta di una
fase pericolosa, anzi, semmai sarebbe
pericoloso non attraversarla:
l’irresponsabilità e l’aggressività dei ragazzi
è, ai suoi occhi, il vero tesoro
dell’adolescenza, ciò che consente alla
specie umana il suo continuo progresso sia
in campo etico che scientifico, poiché molti
degli ideali accolti quasi acriticamente in
adolescenza continueranno a fare da
riferimento per il lavoro teorico dei futuri
politici e scienziati.
Egli ci dice che “L’immaturità è una parte
preziosa della scena dell’adolescente. In
questa sono contenute le più eccitanti
caratteristiche del pensiero creativo, un
nuovo e fresco sentire, idee per un vivere
nuovo. La società ha bisogno di essere
scossa dalle aspirazioni di coloro che non
sono responsabili” .
Difatti il delitto peggiore che si può
compiere nei confronti di un adolescente è,
per Winnicott, privarlo anzitempo di questa
fase di piena irresponsabilità e immaturità,
costringerlo ad assumersi incarichi che
assolutamente non dovrebbe svolgere
anche se a volte la situazione economica o
parentale impone diversamente.
“La vera maturità – scrive - si acquista
attraversando lentamente e
completamente la burrascosa stagione
dell’adolescenza. Il trionfo appartiene a
questo raggiungimento della maturità
attraverso il processo di crescita. Il trionfo
non appartiene alla falsa maturità basata
su una facile personificazione di un adulto.”
Sul versante opposto, la relazione con una
madre assente, o comunque destrutturante,
inibisce la nascita del senso di colpa, col
risultato di trovarsi di fronte ad adulti
oppressi da un soverchiante senso di colpa
inconscio e quindi melanconici o nevrotico-
ossessivi, oppure, peggio, del tutto incapaci
di provarlo e quindi cinici, antisociali,
distruttivi.
Sono soprattutto questi ultimi a cercare di
sentirsi a tutti i costi colpevoli di qualcosa di
concreto, di tangibilmente percepibile,
fugando, proprio attraverso l’attuazione di
crimini anche efferati, l’oppressione
inconscia che pesa sul loro essere.
Le azioni trasgressive (violente o meno)
trovano, dunque, la loro giustificazione
nell’incapacità dei soggetti di pacificare in
altro modo un disagio psichico di cui
avvertono chiaramente la presenza senza
tuttavia riuscire a determinarne la causa.
In altri termini saremmo di fronte a
individui attanagliati da un complesso
edipico irrisolto, i quali, pur di agganciare il
profondo sentimento di angoscia a qualcosa
di concreto, s’industrierebbero (per via
inconscia ovviamente) a commettere crimini
reali in modo da collegare il senso di colpa
alla pervasiva e compulsiva presenza di tali
crimini, piuttosto che ad un ansia indicibile
e ingiustificabile.
I primi invece, quelli oppressi da un
dilagante ma indefinito senso di colpa,
tenderanno a elaborare schemi di vita
disfunzionali: disturbi dell'identità, anche di
genere sessuale, angoscia latente, ricerca
compulsiva (da parte delle donne) di un
padre, manifestata attraverso la continua
sostituzione di partner sessuali o comunque
sostituti (soprattutto per i maschi) della
madre responsiva mai avuta.
Coloro i quali non tollerano l’ambivalenza
dei propri sentimenti, ma non scivolano
nell’antisocialità distruttiva, tendono fin
dall’infanzia a scindere ogni cosa in
“buona” o “cattiva” (come d’altronde
ipotizzava Melanie Klein).
Per loro non esistono mezze misure e sono
portati a mal valutare sia le persone sia i
casi della vita: l’amico che sbaglia non è più
amico, l’amore finisce se il partner non
compartecipa ogni stato d’animo e il lavoro
è da rigettare anche se delude una sola
volta .
3.2.4 Attaccamento e adolescenza
Nella prospettiva dell’attaccamento,
l’adolescenza è un periodo di transizione in
cui viene a modificarsi la qualità dello stile
d’attaccamento acquisito attraverso le
prime interazioni con i caregiver, così come
descritto nel primo capitolo.
John Bowlby ha teorizzato che nel corso
dell’interazione con il proprio ambiente, gli
individui costruiscono quelli che
chiama Modelli Operativi Interni ,
comprendenti modelli operativi del Sé e
delle figure di attaccamento.
In pratica nell’interpretazione di Bowlby il
concetto di Modello Operativo Interno
relativo a una figura di attaccamento è, per
molti aspetti, equivalente al tradizionale
concetto di “oggetto interno” , poiché il
bambino, fin dai primi mesi di vita, sarebbe
in grado di ristrutturare le proprie
esperienze relazionali costruendo uno
schema rispondente alle sue figure di
attaccamento, in base al quale riconoscere
la disponibilità e l’attendibilità di queste
figure e prevederne il comportamento,
soprattutto in occasione di situazioni
stressanti.
I Modelli Operativi Interni, quindi,
costituirebbero delle vere e proprie
rappresentazioni mentali, in grado di
veicolare la percezione e l'interpretazione
degli eventi, consentendo al nuovo
individuo di fare previsioni e crearsi
aspettative riguardo la sua vita relazionale,
e giungere quindi a quel mutamento
qualitativo della relazione d’attaccamento,
dalla quale discende direttamente la crisi
adolescenziale.
Infatti, in questa fase della vita, il
comportamento di attaccamento pare
differenziarsi nettamente dai modelli di
comportamento di attaccamento che
possiamo osservare nell’infanzia, sia in
situazioni strutturate come la Strange
Situation, sia nella vita reale.
Infatti, gli adolescenti sembrano
costantemente occupati in un attivo e
intenzionale allontanamento dalla relazione
con i genitori e con altre figure di
attaccamento familiari, ostentando spesso
lo spirito di opposizione e la capacità di
autonomia.
Tuttavia, le ricerche a riguardo condotte da
Fraley e Davis mostrano che l’autonomia
degli adolescenti si stabilisce non tanto a
discapito della relazione con i genitori,
quanto sulla base dell’aggiuntadi un
insieme di relazioni sicure, che dureranno
con molta probabilità ben oltre
l’adolescenza.
D’altronde già Bowlby aveva asserito che
l’adolescente organizza la propria vita come
una serie di “escursioni” sempre più lunghe
rispetto alla base sicura fornita dai genitori .
Questa non è dunque una fase in cui i
comportamenti e i bisogni di attaccamento
sono abbandonati, piuttosto è il periodo in
cui questi sono gradualmente trasferiti ai
coetanei, preferibilmente ai partner
sentimentali in prima istanza ed agli amici
in seconda .
Fin dalla tarda adolescenza, infatti, è
possibile costruire relazioni a lungo termine
nelle quali i coetanei, nelle vesti di partner
sentimentali o come amici molto stretti,
servono veramente come figure di
attaccamento, sotto ogni dimensione del
termine.
Pertanto, in questa particolarissima fase
della vita, il sistema dell’attaccamento
sembra giocare un ruolo integrale
nell’aiutare l’adolescente ad affrontare le
sfide maturative, creando i ponti con quelle
che avverte come basi sicure.
Il trasferimento dei bisogni e dei
comportamenti di attaccamento, dai
genitori ai pari, richiede una trasformazione
delle relazioni d’attaccamento da
gerarchiche,nelle quali principalmente si
ricevono cure,a relazioni d’attaccamento
simmetriche, nelle quali si ricevono e si
dannocure e sostegno.
Una delle finalità delle relazioni
simmetriche è proprio quella di favorire lo
sviluppo delle relazioni sentimentali, che
hanno già la capacità di potersi trasformare
in relazioni di attaccamento che dureranno
tutta la vita .
Secondo Ammaniti il sistema motivazionale
dell’attaccamento s’integra e si modifica
anche in rapporto all’attivazione di altri
sistemi motivazionali, come ad esempio
quello sessuale - sensuale che diventa
particolarmente importante nel corso
dell’adolescenza .
Egli aggiunge che il bisogno di sicurezza,
pur rimanendo uno degli assi portanti
dell’esperienza individuale, si ridimensiona
e si articola nel corso del tempo; così se nei
primi anni di vita è basilare la presenza
delle figure genitoriali o di chi ne fa le veci
per assicurare un senso di protezione, in
adolescenza il bisogno di sicurezza amplia
la sua portata operativa e sotto il suo
ombrello accoglie sia la necessità dei legami
sentimentali, che garantiscono
un’appropriata identificazione del Sé
sociale, sia i rapporti di amicizia,
fondamentali nell’estrinsecazione della
propria personalità e progettualità futura.
Sia il sistema di attaccamento che quello
sessuale - riproduttivo, che in questa fase
della vita inizia visibilmente a manifestarsi,
spingono quindi verso la costituzione di
nuove relazioni tra coetanei, caratterizzate
da adeguato fervore, interessi condivisi e
forti emozioni, per iniziare ad assolvere
alcune funzioni delle antecedenti relazioni
genitore-bambino .
La dimensione sessuale di queste relazioni
può anche aiutare a favorire la componente
dell’attaccamento, fornendo motivazioni
stabili ad interagire, l’esperienza di
emozioni intense, intime, e una storia di
un’esperienza unica e condivisa.
Un ultimo aspetto di fondamentale
importanza per quanto riguarda la
comprensione della transizione
adolescenziale è enunciata dalla Weiss ,
secondo la quale oltre alla modifica
qualitativa della relazione a seguito degli
elementi descritti, cambia nell’adolescente
la modalità di esplorazione dell’ambiente
circostante: così, mentre nell’infanzia è
controllata, ma anche stimolata, dalla
figura di attaccamento, in età adulta, al
contrario, è in gran parte gestita in modo
autonomo.
Antonucci , a tal proposito, ha proposto la
teoria del convoglio, secondo la quale ogni
individuo, fin dalla nascita, è circondato da
una rete di relazioni destinata a modificarsi
con il tempo.
Tale convoglio è da immaginare come una
serie di cerchi concentrici che più si
avvicinano al centro e maggiormente
acquisiscono intimità e importanza.
Ovviamente durante l’infanzia il cerchio più
interno corrisponde ai membri del nucleo
familiare, mentre nei cerchi esterni sono
collocati gli altri.
Nel corso dell’adolescenza la struttura è
riconfigurata e sono proprio i parenti stretti
a slittare verso la periferia, mentre varie
figure esterne occupano posizioni sempre
più centrali.
Il lungo periodo adolescenziale, sotto
questo profilo, registra un vero e proprio
sovvertimento dell’ordine concentrico
iniziale.
Secondo Holmes , tuttavia, la ricerca di
autonomia da parte degli adolescenti non
va nettamente a discapito della relazione
con i genitori, ma aggiunge a quest’ultima
un altro insieme di relazioni sicure che,
molto probabilmente, saranno conservate
anche dopo l’adolescenza.
Ovviamente, la capacità di gestire in modo
equilibrato l’investigazione del mondo è in
gran parte dovuta al grado di autonomia
individuale che proprio la prima fase di
attaccamento è riuscita a realizzare.
3.2.5 Adolescenza: conflitto pulsionale o
crisi relazionale?
Alla luce di quanto descritto fin qui, appare
chiaro come, nel corso dei secoli,
l’approccio alla crisi adolescenziale, sia
stato profondamente vario, ogni volta
focalizzato su di un diverso aspetto,
probabilmente a causa dei leitmotiv
culturali e sociali che si sono susseguiti nel
corso dei secoli.
Per quanto concerne la situazione attuale
sembrerebbe che la psicologia dell’età
evolutiva si vada sempre più orientando
verso una linea interpretativa che tende a
preferire la fondamentale importanza della
sfera affettiva.
Spiega ad esempio Fonagy che, nel
rapporto con la madre o comunque nel
rapporto con chi presta cure e attenzioni al
bambino, lo scopo di quest’ultimo sarebbe il
mantenimento di un livello desiderato di
prossimità. “Lo scopo fisico è in seguito
soppiantato da uno di natura più
psicologica, il sentimento di essere vicino al
caregiver”.
Dal momento che lo scopo non consiste in
un oggetto ma in uno stato d’animo o un
sentimento, il contesto in cui vive il
bambino, dato in parte dalle risposte del
caregiver, influenzeranno fortemente il
sistema dell’attaccamento.
Diviene quindi di fondamentale importanza,
nell’esito finale della transizione
adolescenziale, un corretto sviluppo della
componente empatica, garantita da
relazioni qualitativamente significative e da
una comunicazione positiva tra i membri
della relazione.
C’è, inoltre, da aggiungere che, un oggetto
d’indagine come la crisi adolescenziale, che
appare così variegata e multi sfaccettata,
difficilmente si presta a un inquadramento
teorico univoco e lineare.
A tal proposito vale la pena di citare Senise,
autore che ha ampiamente approfondito lo
studio dell’adolescenza.
Senise ci dice, in maniera forse un po’
provocatoria, ma decisamente realistica da
un punto di vista clinico, che,
nell’approcciarsi all’adolescente, avere un
inquadramento teorico che faccia
riferimento ad un pensiero unilaterale, non
permette di cogliere i costanti mutamenti
affettivi che sono ravvisabili in quest’età;
egli pertanto invita a “non avere nella
mente degli schemi precisi di riferimento,
non fissarli in mente,(...)ma di trattenere
quello che serve, dimenticando il resto” .
3.3 Evoluzione dell’empatia e disequilibri
dovuti alla sua mancata insorgenza
Negli ultimi anni si è potuto osservare che
esiste una tendenza naturale che interviene
nelle interazioni non disturbate tra genitori
e figli, la quale assicura reazioni tali da
permettere a questi ultimi di giungere con
successo allo sviluppo psicologico e sociale:
l’empatia.
Il calore empatico dei genitori è di grande
importanza come prerequisito per lo
sviluppo dell’autostima e della socialità .
In pratica l’empatia, come evidenziato nel
primo capitolo, può promuovere un sano
sviluppo della personalità se il genitore sa
accettare genuinamente il figlio e i
sentimenti che questo sta sperimentando.
Quando le invocazioni e le richieste di
protezione di un bambino non sono
ascoltate, l’unica possibilità che egli ha di
sopravvivere emotivamente in un ambiente
familiare cupo e spaventante è la rimozione
del dolore; ma allontanare la dimensione
della sofferenza dai propri circuiti mentali
significa poi non riconoscerla come
emozione primaria nel momento in cui si
manifesta negli altri, non riuscire a
sviluppare un adeguato senso empatico, o,
peggio, proiettare su qualcuno più debole il
peso della propria angoscia.
L'empatia viene a coinvolgere il passato, il
presente e il futuro dell'individuo: e per
l'adolescente in particolare questo significa
entrare in contatto con le proprie
potenzialità di crescita oltre che con le
proprie difficoltà e con le proprie paure.
Winnicott e Bion avevano già indicato nei
loro scritti, l’importanza, affinché vi fosse un
rapporto sufficientemente buono tra madre
e bambino, ai fini del contenimento e
dell'internalizzazione, che la madre avesse
la capacità di raffigurarsi il bambino come
entità mentale.
Kohut ha descritto in modo articolato come
per lo sviluppo del Sé sia indispensabile
l'esperienza vitalizzante e coesiva del
rispecchiamento, così come Lacan dopo di
lui.
Negli ultimi anni alcuni psicoanalisti con
uno specifico interesse nella psicologia
evolutiva, come Stern e Fonagy , così come
gli studiosi dell'attaccamento, da Bowlby a
Mary Main , hanno esplorato anche su base
empirica lo sviluppo del mondo
rappresentazionale del bambino e lo
sviluppo delle sue capacità metacognitive a
partire dalla qualità della relazione poiché è
il comprendere l'altro in termini di stato
mentale che permette di dare senso alle
proprie ed altrui esperienze e di anticipare
le azioni.
Situazioni familiari particolarmente difficili,
dove non vi è comunicazione empatica,
quindi, creano così le condizioni ideali per
l’insorgenza di disturbi psichici di varia
natura ma, lungi dal ritenere che si tratti di
situazioni rare, legate ad ambienti sociali
degradati, Bruno Rossi sottolinea come, al
contrario, per non poche famiglie è possibile
registrare anaffettività, latenza, disordine
emotivo, carenze sentimentali, senso di
sfiducia in se stessi e negli altri, atmosfere
gregarizzanti, egocentrismi, esercizio rigido
di ruoli, marcato orientamento adulto ad
opporsi ed umiliare piuttosto che ad
agevolare e valorizzare, inclinazione a
squalificare e deconfermare, piuttosto che
stimare e apprezzare, propensione a
reprimere emozioni e sentimenti piuttosto
che a favorirne l’espressione.