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PSICOLOGIA DELLO SVILUPPO

Per psicologia dello sviluppo si intende il ramo della psicologia che studia come un bambino si sviluppa e
cresce e come ciò possa essere condizionato da elementi ambientali quali la famiglia e la scuola; analizza
come il nostro comportamento, le nostre categorie mentali e in genere le differenti personalità nascano in
un modo, per arrivare all’età adulta sensibilmente modificate.
Per sviluppo si intendono le dinamiche di cambiamento che si verificano lungo il corso della vita.
Newton diceva “se ho visto così lontano è perché sono salito sulle spalle di giganti”; noi saliremo sulle
spalle di quegli studiosi che si sono interessati alla crescita e allo sviluppo del bambino.
Il bambino nella storia non è sempre stato considerato come una persona a sé stante con delle tappe, fasi e
stadi di sviluppo che lo fanno diventare un adulto ma inizialmente era semplicemente considerato un
adulto in miniatura (non c’erano ad esempio le leggi che proteggevano i bambini, oggi si); prima di arrivare
all’attuale comprensione delle fasi dello sviluppo di un bambino c’erano diversi modi di rapportarsi con i
bambini.
Nel Medioevo vigeva la teoria del peccato originale per cui il bambino nasceva macchiato dal peccato per
cui l’educazione doveva purificarlo dal peccato originale che veniva dai genitori e fare in modo che il
bambino diventasse un adulto e si potesse salvare.
Successivamente nel 1600 Locke parla di una tabula rasa  il bambino e la sua mente erano come una
tavoletta di cera con cui gli adulti scrivevano l’educazione, i concetti a cui il bambino doveva attenersi (il
bambino per essere educato deve essere seguito in maniera pressante dai genitori).
Poi nel 1700 arriva Rousseau che formula la prospettiva della bontà innata sostenendo che il bambino
doveva essere lasciato il più libero possibile perché il bambino nasce per natura con una bontà innata che
viene inquinata dal mondo circostante.
Alla fine dell’800 arriva Freud che descrive il bambino come un perverso polimorfo in quanto quando nasce
è tutto Es, è governato dal principio del piacere per cui non ha nessun tipo di regola interiore e le norme gli
verranno poi date attraverso la relazione, il rapporto e l’educazione.
Fino alla metà dell’800 non si parla di una vera e propria psicologia dello sviluppo; a partire dalla metà
dell’800 è iniziato l’interesse del bambino, soprattutto sull’attenzione e sulla memoria e partendo da questi
due aspetti Binet (ricercatore francese di fine ‘800) inizia a interessarsi dello sviluppo e della psicologia dello
sviluppo studiando l’attenzione e la memoria.
Nel 1904 viene chiesto a Binet dal ministro dell’istruzione francese di preparare dei test per valutare
attenzione, memoria e intelligenza degli studenti delle scuole pubbliche e nasce il primo test
dell’intelligenza.
Un altro studioso che si interessa alla psicologia dello sviluppo del bambino è Harnold Gesell e lo fa
attraverso l’osservazione  costruisce una cupola trasparente con dei binari sul letto su cui pone una
macchina da presa e all’interno di questa cupola osservava i bambini che giocavano senza essere visto e
senza disturbarli (osservazione naturalistica).
Anche Stanley Hall, influenzato dalla teoria di Darwin, si interessa a questo ramo della psicologia e afferma
che lo sviluppo infantile segue un corso evolutivo naturale: ci sono delle tappe che avvengono in
determinate fasce di età e il bambino segue naturalmente questa evoluzione nel suo sviluppo.
Hall ipotizza che lo sviluppo dei bambini si possa verificare in fasi, ciascuna con delle modificazioni e
capacità diverse.
Gli psicologi dello sviluppo studiano la crescita sociale del bambino (relazione tra neonato e genitore; ruolo
del gioco nello sviluppo di amicizie di lunga durata), lo sviluppo cognitivo del bambino (dall’evoluzione del
linguaggio alla comprensione dei numeri, all’evoluzione e all’apprezzamento dei prodotti artistici) e lo
sviluppo emotivo (ruolo dei genitori e degli amici in questo processo).
Lo sviluppo e le sue fasi vanno però necessariamente guidate attraverso l’educazione con strumenti idonei
per l’età e la fase del bambino; in ogni fase di sviluppo gli aspetti educativi che riguardano la cura del
bambino hanno una grande importanza, il bambino deve essere educato riguardo i comportamenti a
rischio, l’abuso di droghe.
Sono importanti anche gli stili di parenting, ovvero le modalità con cui i genitori/educatori si mettono in
rapporto con i bambini, le modalità con cui gli psicologi infantili si mettono in rapporto con loro; alcuni
dicono che i bambini imparano l’amore quando essi stessi sono stati amati e quindi sarà importante la
qualità affettiva di ogni relazione che genitori, educatori, psicologi infantili avranno con i bambini con cui
entrano in contatto.
Un altro punto importante è la salute e il benessere, il contesto socio-culturale, discriminazione razziale e di
genere, la presenza di politiche sociali favorevoli al benessere del bambino.
“Educare” deriva dal latino “ex”- “ducere” che significa tirare fuori e quindi educare significa anche tirare
fuori le capacità, gli strumenti, le caratteristiche individuali di quel bambino che sta crescendo; nello
sviluppo bisogna tener conto di questa attività nell’educare e cioè tirare fuori quelle qualità che il bambino
ha dentro di sé.

Processi e periodi di sviluppo


Ognuno di noi si sviluppa come tutti gli altri per certe caratteristiche (caratteristiche comuni dello sviluppo),
per altri aspetti invece ognuno di noi si sviluppa come qualche altro individuo (ad esempio un figlio che
sviluppandosi tende a somigliare ai genitori) e per altri aspetti ciascuno di noi si sviluppa in maniera unica,
come in nessun altro individuo e in questo sta la nostra unicità.
Da tutto questo deriva la nostra identità sociale, cioè la nostra capacità di relazionarci con gli altri e la
nostra identità individuale che ci rende unici.
Federico II di Svevia (1200) era chiamato “stupor mundi” e decise di fare un esperimento chiedendosi se
all’inizio quando la specie umana si era formata ci fosse una lingua comune; mise dei neonati con delle
infermiere e ordinò che venissero accuditi nel miglior modo possibile, che venissero tenuti sempre puliti,
che venissero nutriti ma toccandoli il meno possibile e senza dire una parola in modo che quando avessero
cominciato a parlare avrebbero parlato nella lingua originale; l’esperimento venne interrotto perché i
neonati senza essere toccati e senza sentire parole morirono uno ad uno  abbiamo quindi la necessità
della relazione e del rapporto con l’altro.
Le tappe fondamentali dello sviluppo umano comprendono tre processi:
 Processi biologici  sono quei processi che producono dei cambiamenti nel nostro corpo, sono dati
dai geni che ereditiamo dai nostri genitori, sono dati dallo sviluppo del nostro cervello che cresce
insieme alla crescita di tutti gli altri organi nel corso dello sviluppo, sono dati dall’altezza, dal peso e
dai cambiamenti ormonali al momento della pubertà
 Processi cognitivi  sono i cambiamenti nel pensiero, nel linguaggio, nella capacità di
comprensione e di espressione; il bambino comincerà a osservare, poi metterà insieme frasi da due
parole (olofrase), comincerà a risolvere dei problemi e poi nascerà anche la capacità analitica e
della fantasia
 Processi socio-emotivi  sono rappresentati dalle relazioni, dai rapporti che un individuo ha con
altre persone come ad esempio il bambino che fa il sorriso come risposta ad una carezza della
mamma o un bambino che litiga con un altro, la piacevolezza di una gioia di una ragazza

Tutti questi processi sono strettamente collegati tra di loro e attraverso questo stretto collegamento
concorrono alla crescita e allo sviluppo  per esempio il sorriso del bambino come risposta ad una carezza
della mamma; questo sorriso dipende da un processo biologico (la natura fisica della carezza e l’abilità di
essa), da un processo cognitivo (capacità di comprendere che la carezza della mamma è un’azione
intenzionale) e da un processo socio-emotivo perché la risposta del sorriso riflette un’emozione positiva
che il bambino prova per la carezza della mamma.
Il bambino mano a mano sviluppa la capacità di comprendere e di rispondere alle azioni dell’altra persona,
in primo luogo la capacità di comprendere e di rispondere alle azioni della persona che a lui è più vicina (in
questo caso la mamma).

Natura-cultura
La contrapposizione tra natura e cultura è alla base del dibattito che cerca di stabilire se lo sviluppo è
influenzato maggiormente dalla natura o dalla cultura; la natura fa riferimento all’eredità biologica
dell’organismo e la cultura indica le esperienze vissute in un certo ambiente.
I sostenitori della natura affermano che le persone si comportano in maniera prestabilita a meno che non si
trovino in un ambiente ostile; altri psicologi affermano che le esperienze derivate dall’ambiente
coinvolgono ogni aspetto della vita di un individuo, dalle circostanze biologiche, fisiche e sociali.
La posizione a favore delle determinanti naturali è stata rafforzata dagli studi di neuroscienze dello sviluppo
ma in realtà è l’interazione tra biologia e ambiente che contribuisce a determinare lo sviluppo.

Continuità-discontinuità
Questo dibattito vuole determinare se lo sviluppo sia costituito da cambiamenti graduali e cumulativi
(continuità) oppure da fasi distinte tra loro (discontinuità); generalmente gli studiosi che evidenziano
l’aspetto culturale tendono a considerare lo sviluppo un processo graduale e continuo mentre quelli della
natura tendono a considerarlo come discontinuo.
Se consideriamo la continuità la prima parola di un bambino è in realtà il risultato di settimane e mesi di
crescita e pratica, la pubertà è un altro processo che si sviluppa lungo un periodo di molti anni; dal punto di
vista della discontinuità ciascuna persona viene considerata in transizione attraverso una serie di fasi in cui
il cambiamento è qualitativo  ad un certo punto il bambino passa da una fase dello sviluppo in cui non è
in grado di formulare pensieri astratti sul mondo, ad una fase in cui è capace di farlo.

Prime esperienze-esperienze successive


Questo dibattito si concentra sulla misura in cui le prime esperienze e quelle successive siano fattori chiave
nello sviluppo infantile, cioè se i bambini vivono esperienze negative durante la prima infanzia è possibile
offuscarle da esperienze successive positive o non possono essere annullate?
Per coloro che accentuano l’importanza delle prime esperienze la vita è un percorso ininterrotto in cui una
qualità psicologica può essere ricostruita a partire dalle sue origini; per coloro che danno importanza alle
esperienze successive lo sviluppo è come un fiume che scorre continuamente.
Alcuni studiosi affermano che se il bambino non riceve calore e attenzioni durante il suo primo anno di vita
non riuscirà a svilupparsi in maniera ottimale; gli studiosi delle esperienze successive sostengono che i
bambini sono malleabili durante tutto il loro sviluppo e che le cure sensibili durante la prima infanzia non
sono più importanti di quelle successive.
Kagan evidenzia come perfino i bambini che dimostrano di possedere un temperamento inibito, collegato
all’ereditarietà, hanno la capacità di cambiare il loro comportamento.
La maggior parte delle persone occidentali hanno appoggiato l’idea che le prime esperienze sono più
importanti di quelle successive mentre la maggioranza delle persone nel resto del mondo non condivide
questa opinione.

Tutti gli autori della psicologia dello sviluppo descrivono lo sviluppo considerando delle tappe che
corrispondono ad un determinato spazio di tempo e tutti iniziano partendo dal periodo del concepimento:
1. Periodo prenatale  va dal concepimento alla nascita, dura circa 9 mesi
2. Periodo della prima infanzia  va dalla nascita ai 18/24 mesi, in questo periodo il bambino ha una
completa dipendenza dagli adulti che si prendono cura di lui e molte attività psicologiche del
bambino iniziano proprio in questa fase (cominciare a parlare, a coordinare le azioni, ad imitare i
gesti che vedono negli adulti  neuroni specchio)
3. Periodo della seconda infanzia o età prescolare  va dai 2 anni fino ai 5/6 e in questo periodo i
bambini iniziano a diventare più autosufficienti, imparano il gioco con i coetanei, cominciano le
prime relazioni al di fuori della famiglia d’origine, cominciano a sviluppare le capacità cognitive che
serviranno per apprendere nel periodo scolastico
4. Periodo dell’età scolare o fanciullezza (secondo alcuni autori) i ragazzi imparano a leggere,
scrivere, contare, hanno maggiori rapporti con il mondo esterno e sono esposti alla cultura della
società nella quale vivono
5. Adolescenza  va generalmente da 11 anni fino ai 18/20, avvengono dei cambiamenti fisici molto
rapidi, ormonali, c’è lo sviluppo delle caratteristiche sessuali; il pensiero diventa più astratto, più
logico, è l’età in cui manca la possibilità di vedere i colori intermedi, cresce anche un desiderio di
indipendenza dalla famiglia d’origine, c’è una ribellione nei confronti del mondo adulto, delle
regole e delle imposizioni che vengono dagli adulti

Per alcuni autori il periodo dello sviluppo è considerato fino all’adolescenza mentre per altri, ad esempio
Erikson, lo sviluppo perdura per tutta la vita; al giorno d’oggi è considerato un processo che si estende per
tutta la vita.
La connessione tra questi tre processi risulta evidente in due campi di studio emergente: le neuroscienze
cognitive dello sviluppo (esplorano i collegamenti tra sviluppo, processi cognitivi e cervello) e le
neuroscienze sociali (esaminano le connessioni tra sviluppo, processi socio-emotivi e il cervello).
Il nostro cervello è costituito da una parte rigida che deriva dalla nostra eredità genetica e una parte che è
plastica e che si struttura attraverso le esperienze che facciamo nel corso della nostra vita; ciò che dà
plasticità al cervello è il fatto che ogni nuova esperienza crea una nuova connessione tra i neuroni e quindi
arricchisce i collegamenti e le connessioni neuronali creandone di nuove e per questo la plasticità del
cervello dura tutta la vita e di conseguenza anche lo sviluppo.
La personalità invece ad un certo punto si struttura e rimane quella senza subire cambiamenti.
Esistono varie teorie dello sviluppo, alcune delle quali sono rappresentate dalla teoria psico-analitica; i due
rappresentanti maggiori della teoria psico-analitica sono Freud ed Erikson.
Altre teorie sono quelle cognitive e le due più importanti sono la teoria di Piaget e la teoria di Vygotskij.

Il periodo prenatale – Otto Rank


In questo primo periodo si considera tutto quello che accade sia da un punto di vista psicologico (teorie e
ipotesi) che medico-organico (cosa accade dal concepimento alla nascita).
Una delle teorie è quella di Otto Rank, uno psicanalista austriaco che è stato il primo a considerare il
periodo prenatale e a parlare di trauma della nascita; nella sua teoria il postulato centrale è che nascere è il
primo trauma che ogni essere umano vive in quanto nascere significa separarsi in modo brusco dalla madre
e affrontare un passaggio immediato e drammatico da un contesto protettivo (ventre materno) ad un
contesto più ostile come il mondo esterno.
Al momento della nascita ci sono diversi cambiamenti: la luminosità differente, dentro all’utero è filtrata e
l’ambiente è molto più in ombra, la differenza di rumori ma soprattutto la modalità della respirazione
(all’interno dell’utero il bambino vive in un ambiente liquido in cui gli alveoli polmonari sono chiusi e nel
momento in cui nasce passando all’ambiente aereo il bambino piange e questo pianto rappresenta il sibilo
dell’aria che entra negli alveoli polmonari e li dilata, l’ossigeno brucia gli alveoli polmonari e il dolore
provoca il pianto). Un’altra sofferenza che il bambino prova è il passaggio attraverso il canale che porta
all’uscita e alla nascita.
Rank pensava anche che il trauma della nascita rappresentasse un’angoscia tale da essere la riserva di tutte
le nevrosi successive che il bambino crescendo incontra nella vita, cioè al momento della nascita si
accumula un’angoscia (di cui non si ha un ricordo cosciente) proprio per questi cambiamenti e
quest’angoscia costituisce come un nucleo da cui si distaccano delle schegge che rappresentano le nevrosi e
le angosce (l’angoscia o l’ansia sorge quando ci sono dei cambiamenti, sia positivi che negativi) successive
che nella vita si possono incontrare  più la nascita è traumatica più è probabile l’accumulo di angoscia
secondo Otto Rank; secondo lui non esistono tante ansie ma esiste una mamma di tutte le ansie successive
che è il trauma della nascita.
Questa teoria non è stata accolta da tutti ma comunque Rank e altri ricercatori sono arrivati ad una
conclusione che addirittura prima del momento della nascita l’utero materno non rappresenta un paradiso
neutrale in cui il feto non sente nulla ma invece il feto viene fisiologicamente stimolato dalla madre e
percepisce all’interno della mamma i cambiamenti e gli stati d’animo della madre  tutto questo si
ripercuote sul comportamento del feto, ad esempio ha percezione degli stimoli esterni: in alcune tribù c’è
una tradizione per cui quando una madre desidera che il bambino diventi un musicista gli fa ascoltare delle
musiche o si siede vicino ad un musicista e gli fa ascoltare quella musica.
C’è quindi un rapporto tra madre e feto, tra le sensazioni che la madre prova e le sensazioni del feto, anche
il fatto stesso di parlare al bambino dentro la pancia è una relazione che giova al feto.
Otto Rank nella psicologia dello sviluppo considera quindi anche il periodo prenatale.

SIGMUND FREUD – TEORIA PSICODINAMICA


Sigmund Freud è considerato il padre della psicanalisi, nasce come medico organico che ad un certo punto
scopre l’inconscio e diventa psicanalista presentando la sua teoria basata sull’inconscio.
I freudiani ortodossi sostengono anche che il nostro inconscio è talmente potente che non abbiamo
nemmeno la capacità del libero arbitrio delle scelte nel senso che tutte quelle scelte che noi pensiamo di
fare da un punto di vista razionale sono in realtà sotto la guida dell’inconscio; ad oggi nessuno dubita
dell’esistenza dell’inconscio.
Alcuni autori criticano Freud per aver dato troppa importanza all’aspetto della sessualità nella crescita e
nello sviluppo del bambino.
Freud è il padre della teoria psicanalitica e della teoria dello sviluppo psicosessuale e dunque
dell’importanza della libido nello sviluppo e nella crescita del bambino; l’importanza di questa concezione
di Freud sta nell’aver identificato non più la sessualità come esclusiva degli individui adulti ma riconoscendo
anche la presenza di una sessualità infantile non genitale che si manifesta secondo altre caratteristiche e
basandosi sulla presenza di altre zone erogene al di fuori delle aree genitali.
Freud definisce il bambino come perverso polimorfo, definizione in cui non c’è nessun giudizio morale
positivo o negativo ma secondo lui il bambino è perverso in quanto ricerca il piacere senza una finalità
riproduttiva perché non ha ancora la capacità di utilizzare le aree genitali per il suo piacere; è polimorfo
perché ricerca il piacere attraverso vari organi e zone erogene che sono distanti dalle aree genitali e riceve
una gratificazione piacevole sia dal contatto con il padre che con la madre.
Distingue nello sviluppo psicosessuale del bambino 5 fasi successive:
 Fase orale  va dalla nascita fino a circa i 18 mesi
 Fase anale  va dai 18 ai 3 anni
 Fase fallica  dai 3 ai 6 anni
 Fase di latenza  il bambino reprime i suoi interessi sessuali e sviluppa abilità sociali e intellettuali,
va dai 6 anni alla pubertà
 Fase genitale  va dalla pubertà fino al resto della vita, è la fase in cui c’è la supremazia dell’area
genitale dal punto di vista del piacere

Freud interpreta queste 5 fasi come le più importanti per lo sviluppo del bambino e quindi pone maggiore
importanza in queste prime fasi dello sviluppo rispetto a tutto il resto della vista differenziandosi ad
esempio da Erikson secondo cui tutte le fasi dell’arco della vita hanno la stessa importanza e considera fasi
di sviluppo fino alla vecchiaia.
In ognuna di queste fasi secondo Freud il bambino fa due esperienze: la relazione d’oggetto, varia a
seconda delle fasi e il bambino fa esperienza del rapporto con l’altro (il primo rapporto con l’altro è un
rapporto parziale perchè è il seno della mamma o il sostituto del seno) e il rapporto con le fonti pulsionali,
cioè l’esperienza con le zone erogene, zone attraverso cui prova piacere e sono zone diverse per ogni stadio
dello sviluppo.
Queste fasi secondo Freud non sono nettamente separate una dall’altra ma sono separate da una
continuità, cioè confluiscono mano a mano l’una nell’altra con un passaggio graduale.

La fase orale
La fase orale è la prima fase dello sviluppo psicosessuale infantile secondo la teoria froidiana e in questo
primo stadio le zone erogene sono la cavità orale, le labbra e generalmente tutto l’apparato respiratorio e
digerente  cioè tutte le zone che traggono piacere nel momento dell’alimentazione.
In questa prima fase la bocca è l’organo con cui il bambino prova piacere, esplora il mondo e con cui entra
in relazione con l’altro anche se ancora l’altro non è distinto da sé  il bambino non ha ancora la coscienza
dell’Io, diverso e distinto dall’altro e non si è nemmeno formato il Super-io ma in questa prima fase esiste
solo l’Es (il bambino percepisce e vive solo il principio del piacere, non esiste in lui il principio di realtà
perché non ha conoscenza dei suoi confini e dell’altro ma considera il seno materno non come
appartenente alla mamma ma come un prolungamento di se stesso e per questo può usare questo seno in
tutti i momenti in cui ne sente il bisogno).
Il bambino pensa che tutto il mondo appartenga a se stesso, domina l’egocentrismo infantile, l’egoismo
(pensa che tutto il mondo appartenga alla sua bocca) e durante la fase orale la modalità che il bambino ha
per conoscere e rapportarsi con il mondo esterno è di tipo nutritivo; la libido si concentra nella zona orale
che diventa la zona erogena, il bambino tende a portare qualsiasi cosa alla bocca e attraverso la bocca
conosce. È importante anche il tatto perché quando il bambino porta gli oggetti alla bocca lo fa attraverso il
tatto.
Nella fase orale si pongono anche le basi per la relazione e i rapporti attraverso l’apprendimento di questa
tecnica di pausa-attività che avviene tra la madre e il bambino (quando il bambino è in attività, succhia, la
mamma sta ferma e lo guarda stringendolo a sè).
In questo primo stadio c’è anche una sotto-fase che viene definita da Abrams come fase cannibalica o fase
sadico-orale e fa riferimento al momento in cui spuntano i primi dentini e di conseguenza il bambino
comincia a mordicchiare tendendo ad un ulteriore passaggio nell’assimilazione  comincia a provare
piacere nel mordere e nel masticare ma secondo Freud il mordicchiare fa nascere anche una paura nel
bambino, cioè quella di distruggere l’oggetto amato attraverso il morso; questa paura genere un’angoscia
che è quella di essere mangiato e secondo Freud questa angoscia caratterizza la fase orale.
Non c’è una durata precisa di quanto una madre dovrebbe allattare un bambino, oggi lo svezzamento tende
ad essere fatto intorno ai 6-8 mesi ma l’allattamento può comunque essere continuato.
Quando si parla della fase orale, delle zone erogene e del latte ingerito, insieme al nutrimento passa anche
la relazione, l’affetto e quindi il seno della mamma viene distinto da un altro studioso, Lacan, in seno
oggetto (il seno che dà il latte) e seno segno (il seno che dà nutrimento affettivo).

La fase anale
La seconda fase è la fase anale e in questo stadio il bambino sviluppa alcune delle capacità di autonomia,
comincia a camminare, a parlare e a sperimentare una relativa indipendenza; anche qui si parte sempre
dalle due esperienze che il bambino fa: la zona erogena del bambino è la mucosa ano-rettale ma c’è anche
quello che Freud chiama oggetto libidico intermedio, ovvero le feci, che per il bambino rappresentano
anche una parte di se stesso (il bambino può decidere se regalarle alla madre oppure trattenerle per sé e
questo oggetto libidico intermedio costituisce una parte della relazione con la madre) e attraverso le sue
feci potrà avere un rapporto donativo o sadico.
In questa fase il bambino proverà due esperienze gratificanti, sia nel trattenerle che nel lasciarle andare
fuori di sé; in questo caso l’angoscia provata dal bambino è quella di essere svuotato bruscamente dalla
madre.
Infine le feci rappresentano anche una moneta di scambio che contiene anche una sfida nei confronti dei
genitori (il bambino può dare le feci o trattenerle) e allora la relazione oggettuale non sarà più solo con la
madre ma con la madre e le sue feci intese come una parte importante di sé; il fatto di essere in grado di
lasciare le proprie feci o no rappresenta anche un potere affettivo che il bambino ha con la madre tanto che
in questo stadio c’è anche un aspetto aggressivo chiamato anche sadico-anale.

La fase fallica e il complesso di Edipo


La terza fase, quella fallica, è per Freud quella più importante e viene definita in questo modo perché non
c’è ancora una differenziazione sessuale in quanto per il bambino non esistono ancora i due sessi ma esiste
solo il fallo (distinguono i bambini dalle bambine in base a chi ha il fallo e chi no); nei maschietti si avrà un
iperinvestimento del fallo mentre nelle femmine un’invidia del pene che loro non hanno.
In questo stadio inizia anche la curiosità sessuale infantile perché il bambino si chiede perché ha il pene e le
bambine no e questa curiosità farà sì che si pongano delle domande, delle curiosità su come nascono i
bambini, la gravidanza e cominceranno quelle che Freud definisce le teorie sessuali infantili sulla nascita dei
bambini  per Freud ci sono tantissime fantasie sessuali infantili: i bambini nascono attraverso un bacio, i
bambini nascono facendo la pipì addosso ad una bambina, i bambini nascono analmente, c’è una
concezione sadica della sessualità che è interpretata come una lotta in cui c’è un vincitore e uno che
soccombe.
In questa fase c’è anche l’esibizionismo, un mostrarsi e l’angoscia tipica di questo stadio per il bambino
secondo Freud è la castrazione che è la conseguenza della constatazione dell’assenza del pene nella
bambina (cosa ha fatto la bambina perché il pene sia stato tolto?) mentre nella bambina c’è il desiderio di
acquisirlo; inizialmente di fronte all’evidenza che la bambina non ha il pene il maschietto cerca di negare la
realtà ma poi scatta una sorta di desiderio magico secondo cui crescerà anche alle femmine, la terza
fantasia riguarda il fatto che tutte le donne non hanno il pene tranne la mamma che ce l’ha (con la mamma
il bambino ha un rapporto anaclitico, dal greco “appoggiarsi su”, cioè ha un rapporto totalmente
dipendente dalla madre che ha un potere che in questo stadio deriva dal fallo).
La bambina invece, alla constatazione che lei non ha il pene, inizialmente attraversa un periodo di
negazione e di speranza ma quando poi vede che non cresce è costretta ad abbandonare questa fantasia e
ad accettare la realtà  questa accettazione è estremamente importante perché permetterà alla bambina
di entrare poi nel complesso di Edipo e la mancanza del pene verrà comunque vissuta come una ferita
narcisistica dalla quale si difende con una rivendicazione nei confronti della mamma (perché tu mamma
non mi hai dato il pene) e un avvicinamento alla figura paterna.
Questo accade perché mentre il bambino per entrare nell’Edipo non ha bisogno del cambiamento
dell’oggetto d’amore (la mamma), la bambina si (da mamma a papà); per la bambina si può definire anche
complesso di Elettra secondo alcuni autori.
La bambina si difende dalla ferita narcisistica avvicinandosi al padre e attraverso il desiderio di avere un
bambino e per questo scopo sceglie il padre come oggetto d’amore abbandonando la madre che diventerà
invece l’oggetto di gelosia perché la madre possiede il padre.
Secondo Freud questo complesso non è reale ma è ciò che il bambino fantastica nell’inconscio.
Freud ha fatto un’auto-analisi e ad un certo punto scrive “la mia libido è rivolta verso matrem mentre
provavo per mio padre nello stesso tempo un conflitto per l’affetto che sentivo per lui”  l’oggetto
d’amore era la mamma mentre per il papà c’era un’ambivalenza tra affetto e gelosia ma questo è il
complesso di Edipo nella forma definita positiva.
Per la teoria froidiana il complesso di Edipo rappresenta l’organizzatore centrale nella strutturazione della
personalità, è l’asse di riferimento centrale della psicogenetica umana per tutti gli psicanalisti froidiani
perché dal punto di vista delle zone erogene segna il primato della genitalità (con il complesso le zone
erogene cominciano a conoscere gli organi genitali come zone erogene primarie) e quindi la sessualità
comincia ad entrare nella sua maturità.
Nel complesso di Edipo si maturano le due esperienze del bambino, la genitalità diventa prevalente nella
prima esperienza (rapporto con le fonti pulsionali) mentre nella seconda esperienza (relazione con l’altro)
diventa matura perché se prima era diadica tra la madre e il bambino, ora diventa completa perché la
relazione si amplia diventando triangolare.
L’Edipo rappresenta la proibizione dell’incesto, presente in ogni cultura; la presenza e questa proibizione
secondo Freud è la condizione minima perché la cultura si differenzi dalla natura.
Freud riprende il mito di Edipo dalla letteratura greca introducendo il complesso nella sua teoria  Tebe ha
un re (Laio) e una regina (Giocasta) che aspettano un figlio (Edipo) che, secondo l’indovino, ucciderà il
padre; quando Edipo nasce lo allontanano da Tebe e lui viene adottato da un pastore che non sapeva che
quello era il figlio del re.
Ad un certo punto quando Edipo cresce a Tebe scoppia una terribile pestilenza per cui si reca lì e durante il
viaggio incontra Laio; ad un tratto arrivano ad una discussione ed Edipo uccide Laio non sapendo che fosse
suo padre.
Arrivato a Tebe deve confrontarsi con la sfinge che propone un indovinello che Edipo riesce a risolvere, la
finge si suicida, Edipo entra a Tebe e sposa Giocasta non sapendo che fosse sua madre; dopo anni scopre di
aver ucciso il padre e di aver sposato la madre e quindi per espiare questa colpa si accieca.
Nella sua teoria Freud mette il complesso all’interno di un rapporto triangolare e oggi come oggi, proprio da
un punto di vista delle diversità delle famiglie, ci sono altri autori che riprendono il complesso allargandolo
e situandolo all’interno di una relazione circolare considerando anche il contesto sociale che li circonda.
Rappresenta il nodo originario di tutti i rapporti umani, ha un ruolo fondamentale nello strutturare la
personalità e nell’orientare il desiderio.
Il complesso di Edipo si può presentare in tre forme:
 Il complesso di Edipo nella forma positiva, descritta da Freud  amore nei confronti della madre
(aspetto positivo propriamente detto) e “odio per il padre” (aspetto aggressivo)
 Il complesso di Edipo nella forma negativa o inversa  può succedere che l’aspetto positivo è
rappresentato da un atteggiamento femminile tenero del bambino nei confronti del padre e
accanto a questo ci sarà un’ostilità gelosa nei confronti della madre; in una coppia omosessuale un
bambino può provare questa forma nei confronti del padre
 Il complesso di Edipo nei casi misti  prevale l’ambivalenza, c’è una contemporaneità di amore e
odio nei confronti di entrambi i genitori e questo fa sì che i bambini comincino poi ad avere una
percezione di conflittualità nei confronti dell’autorità e delle figure genitoriali che si manifesterà
completamente nella pubertà (ultimo stadio froidiano) in cui ci sarà anche la ribellione nei confronti
della famiglia

La risoluzione del complesso di Edipo comporta la scelta dell’oggetto d’amore definitivo che non sarà più
endogamico, cioè l’oggetto d’amore definitivo non sarà più uno dei due genitori ma sarà al di fuori della
famiglia d’origine (esogamico), porterà ad un accesso alla genitalità piena e avrà degli effetti sulla
costituzione del Super-io.
Il superamento dell’Edipo avviene in modo diverso nel bambino e nella bambina: nel bambino c’è una
rinuncia ai desideri sessuali nei confronti della madre e una rinuncia all’ostilità verso il padre e tutto questo
per paura della castrazione; nella bambina la risoluzione è più graduale e meno completa, la rinuncia
avviene per una paura di poter perdere l’amore da parte della mamma e c’è anche il cambio d’oggetto.
La risoluzione porta alla formazione del Super-io, cioè l’interiorizzazione delle norme e delle proibizioni e in
particolare l’interiorizzazione della proibizione della pulsione sessuale nei confronti del genitore del sesso
opposto.

Il periodo di latenza
È una fase di riposo delle pulsioni sessuali, non perché non ci siano ma le energie della sessualità vengono
indirizzate altrove; c’è la sublimazione delle pulsioni sessuali verso le attività scolastiche, i giochi, gli amici, i
bambini cominciano a quest’età una maggiore socializzazione. Ci sarà anche una identificazione con i
genitori.

La fase genitale o pubertà


È caratterizzata da una maturità sessuale e fisica e da una ribellione nei confronti del mondo degli adulti e
dei genitori soprattutto.
In questo ultimo stadio inizia anche la masturbazione (non che prima non sia presente ma quella infantile
non riguarda i genitali) sia nel maschio che nella femmina a livello genitale, cosa che può portare ad un
senso di colpa.
Per quanto riguarda le fonti pulsionali le zone erogene sono le zone genitali e le zone erogene delle fasi
precedenti in questo ultimo stadio si riuniscono sotto il predominio della genitalità e saranno tutte quelle
zone che servono al piacere dei preliminari nella sessualità adulta.
Nella relazione d’oggetto si avrà il rigetto delle figure genitoriali, ci saranno attaccamenti molto esclusivi di
un’amica/o e le gelosie che vengono fuori; i rapporti saranno transitori, sia quelli amorosi che quelli amicali
e ci sarà la formazione di gruppi (tendono a formarsi soprattutto dei gruppi separati, cioè o tutti gruppi
maschili o tutti femminili per poi arrivare a gruppi omosessuali).

Questa teoria di Freud ha subito delle critiche perché è accusata di porre un’eccessiva enfasi sugli aspetti e
istinti sessuali, per alcuni autori inoltre il pensiero cosciente è più importante di quanto sostenga Freud e
un’altra critica è rappresentata dall’eccessiva importanza che Freud dà ai primi anni di vita dicendo che lo
sviluppo avviene nei primi anni della vita e dando minore importanza al resto della vita.

ERIC ERIKSON (1902 - 1994)


Un altro autore che fa parte della teoria psicanalitica è Eric Erikson, allievo di Freud, che parte dalla teoria di
Freud e la amplia collegandola alla sociologia.
È di origine austriaca ma poi migra negli Stati Uniti e proprio questo rappresenta una specie di ponte tra la
concezione psicanalitica dello sviluppo europea (soprattutto freudiana) e le teorie dello sviluppo americane
e la psicanalisi americana.
Freud non accetta la visione di Erikson tanto che verrà invitato negli Stati Uniti dove ha tenuto una
conferenza ma poi non è più tornato perché non accettava il modo in cui gli americani trattavano la
psicanalisi; Erikson invece ci si trasferisce e morirà lì.
La teoria dello sviluppo di Erikson prende il nome di teoria psicosociale perché laddove Freud sosteneva che
lo sviluppo di un individuo deriva da fasi psicosessuali, Erikson sosteneva che lo sviluppo derivasse da
aspetti psicosociali  secondo lui la molla dello sviluppo è di natura sociale e si riflette nel desiderio di
stare insieme agli altri, cioè nella relazione e nel rapporto con l’altro.
Erikson parla di 8 fasi di sviluppo e afferma che lo sviluppo di un individuo prosegue per tutto l’arco della
vita, per cui sono importanti sia le prime esperienze che quelle successive (a differenza di Freud); ognuna
delle 8 fasi pone l’individuo di fronte ad una crisi che deve essere risolta e più il soggetto è in grado di
superarle con successo, più sano sarà il suo sviluppo.
Queste crisi rappresentano un punto di svolta caratterizzato da una maggiore vulnerabilità se il soggetto
non supera la crisi ma ogni crisi è caratterizzata anche da una potenzialità che fa sì che, superata quella
crisi, l’individuo passi alla fase successiva nella sua crescita; queste fasi sono caratterizzate da un binomio e
sono:
1. Fiducia di base/sfiducia di base  avviene nel primo anno di vita, il bambino deve sperimentare la
fiducia altrimenti vivrà una sfiducia e questo dipende dal rapporto con la figura materna e perché
sperimenti fiducia è necessario che la madre non deluda le aspettative inconsce del bambino
dandogli le cure e l’affetto di cui ha bisogno; se questo non accade il bambino sperimenta sfiducia
mentre se il bambino percepisce una cura materna sufficiente sperimenterà un senso di fiducia che
darà al bambino una sensazione di benessere fisico, un’assenza di angoscia e paura e vivrà il mondo
come un luogo piacevole in cui poter vivere (questo fa sì che il bambino superi questa prima crisi e
passi in maniera positiva alla seconda fase)
2. Autonomia/vergogna  va da 1 fino a circa 3 anni, questa fase arriva dopo che il bambino ha
sviluppato fiducia nei genitori e il bambino comincia a sperimentare l’autonomia (cammina), il
controllo e quindi il bambino sviluppa un’indipendenza rendendosi conto che può cominciare a fare
delle cose volontariamente; è importante che i genitori non limitino l’indipendenza che il bambino
comincia a sperimentare per le proprie ansie o paure perché se i bambini vengono limitati troppo o
puniti possono sviluppare un senso di vergogna e quindi questa seconda fase non venga superata in
modo positivo
3. Iniziativa/senso di colpa  va dai 3 ai 5/6 anni e riguarda gli anni prescolari, i bambini si trovano
davanti ad un mondo sociale che è sempre più ampio e rappresenta una sfida maggiore nelle
relazioni e nei rapporti perché il bambino entra nella scuola materna e quindi la sua socializzazione
si arricchisce ma crescono anche i conflitti, i bambini tra di loro litigano, si sottraggono i giochi; in
questa fase ai bambini vengono fatte anche delle richieste diverse dalle fasi precedenti, ad esempio
viene chiesto di cominciare ad essere responsabili dei loro corpi, comportamenti, dei loro giocattoli
e questo è importante per aumentare l’iniziativa nei bambini. Se il bambino non riesce a soddisfare
le richieste può provare senso di colpa e viene spinto a sentirsi in ansia, per questo i rimproveri e le
punizioni di fronte alle non prese di responsabilità vanno dosati molto bene dopo aver tentato più
volte di spiegare al bambino verbalmente quali siano gli atteggiamenti corretti e quelli non corretti
4. Industriosità/senso di inferiorità  è l’età di passaggio dai 6 agli 11 anni, è l’età della scuola
primaria ma è anche l’età del passaggio tra scuola elementare e scuola media; è importante per un
sano sviluppo il rapporto che in questo cambiamento il bambino sperimenta tra le maestre e i
professori, è il momento in cui i bambini sono entusiasti nei confronti dell’apprendimento e le loro
energie sono impiegate nella scoperta delle cose nuove. Il rischio di questa fase è che il bambino
sviluppi un senso di inferiorità sentendosi poco produttivo e non capace di apprendere cose nuove
e anche qui è importante la capacità degli educatori di fare in modo che nessuno resti indietro, è
importante che ci sia una coordinazione tra famiglia e scuola, è fondamentale per gli educatori
trovare degli strumenti idonei per cui nessuno resti indietro promuovendo la crescita verso l’alto. È
necessaria una ricerca di strumenti che siano adatti alla conoscenza, all’apprendimento e allo
sviluppo di ciascuno e quindi anche la cooperazione tra docenti e famiglia
5. Identità/diffusione dell’identità  riguarda l’adolescenza, è quel periodo in cui ogni adolescente
deve scoprire chi è, come è fatto, quello che desidera fare, quello che vuole fare nella vita ed è
quella fase in cui ogni adolescente si trova di fronte nuovi ruoli che riguardano ad esempio le
relazioni, il giovane comincia anche a confrontarsi con il lavoro e sperimenta un’identità positiva se
riesce a vivere questi ruoli in maniera sana e anche qui dovrà essere aiutato dagli adulti, dai genitori
e dagli educatori; avrà una diffusione di identità nel caso in cui i genitori o gli insegnanti lo forzino
ad assumere particolari scelte o identità, lo costringano e non lo guidino
6. Intimità/isolamento  comprende i primi anni della vita adulta (18-25/28 anni), i giovani adulti
devono affrontare il compito di stabilire delle relazioni intime tra di loro, c’è anche un
cambiamento nell’entrare in relazione con l’altro; l’intimità è l’atto di trovarsi e
contemporaneamente di perdersi l’uno con l’altro, cioè l’intimità è l’atto di trovare se stessi
consolidando ciò che si è trovato nella fase precedente e allo stesso tempo la capacità di donarsi
all’altro entrando in una relazione profonda. Il traguardo dell’acquisizione dell’intimità verrà
raggiunto se il giovane adulto sarà in grado di stabilire delle amicizie sane e una relazione intima
con un altro individuo, se questo non accade porta all’isolamento e ad una difficoltà nello stabilire
rapporti sani; anche in questa fase è necessario che ci sia l’aiuto della famiglia e dell’adulto
7. Generatività/stagnazione  riguarda la seconda fase della vita adulta (25-40 anni circa), è il
momento in cui in uno sviluppo sano la persona costruisce la propria carriera, le proprie relazioni,
la propria famiglia se lo desidera, è la fase in cui si è chiamati ad aiutare la generazione successiva a
maturare e a condurre una vita produttiva
8. Integrità/disperazione  corrisponde agli ultimi anni di vita, la persona anziana si trova a riflettere
sul suo passato, sulle esperienze vissute e o a ricavarne un’immagine positiva o concludere che la
propria vita non è stata ben spesa, che ciò che ha fatto non è stato sufficiente e se questo accade si
avrà una disperazione; se invece la riflessione porta ad un’immagine positiva si avrà una capacità di
integrità

Le teorie psicanalitiche (Freud e Erikson) si concentrano ed esplorano i processi socio-emotivi dello


sviluppo, Freud prendendo in considerazione i processi sessuali inconsci ed Erikson sui processi sociali ma
entrambe le teorie si concentrano sui processi socio-emotivi dicendo molto poco degli aspetti biologici e
cognitivi.
Le critiche che vengono mosse sono relative al fatto che si dà troppa importanza all’inconscio tralasciando
l’aspetto cosciente e che queste teorie non hanno la possibilità di essere ripetute in un ambiente
controllato come il laboratorio.

TEORIE COGNITIVE
Mentre le teorie psicanalitiche sottolineano l’importanza del pensiero inconscio per quanto riguarda lo
sviluppo e la crescita del bambino, le teorie cognitive si concentrano sui pensieri consci.
I due autori più rappresentativi delle teorie cognitive sono Piaget e Vygotskij.
Piaget affermava che la conoscenza è un processo di costruzione continua  per lui ogni bambino
costruisce attivamente la propria visione del mondo e che il bambino cresce attraverso le esperienze che fa;
ogni esperienza produce una crescita attraverso 4 fasi di sviluppo cognitivo e alla base di queste ci sono due
processi che permettono l’attraversamento di ogni fase:
1. Processo di organizzazione  per dare un senso al mondo che ci circonda dobbiamo organizzare le
nostre esperienze; per esempio dobbiamo separare le idee importanti da quelle meno importanti,
dobbiamo collegare un’idea ad un’altra idea, organizzazione significa la costruzione di un filtro che
fa sì che ci sia una separazione tra idee importanti rispetto a quelle meno importanti in modo che ci
sia un ordine
2. Processo di adattamento  oltre ad organizzare le esperienze che ognuno di noi fa bisogna
adattare il pensiero in modo che ci sia la possibilità di includere delle nuove idee

Piaget sostiene che lo sviluppo del bambino sia un processo attivo che attraversa 4 fasi, ognuna delle quali
corrisponde ad una determinata fascia di età ed è caratterizzata da dei modi di pensare differenti tra di loro
nella conoscenza del mondo; quindi la conoscenza del bambino è diversa qualitativamente per ogni fase
che attraversa:
 Stadio senso-motorio  va dalla nascita ai 2 anni e in questa fase il bambino costruisce la sua
visione del mondo, la sua crescita e il suo sviluppo attraverso la coordinazione dei sensi con le
azioni motorie che fa; le esperienze sensoriali sono quelle collegate ai 5 sensi e usa questi sensi in
coordinazione con le azioni che riesce a compiere (comincia a muoversi, gattonare, camminare)
 Stadio pre-operatorio  va dai 2 ai 7 anni e in questa fase il bambino comincia a conoscere e
rappresentare il mondo con delle parole, le immagini, i disegni, la scrittura
 Stadio operatorio concreto  va dai 7 agli 11 anni e in questa fase il ragazzo inizi a sperimentare il
ragionamento logico anche se non è ancora possibile immaginare per esempio di poter risolvere
un’equazione algebrica perché non c’è ancora un pensiero astratto e logico
 Stadio operatorio formale  va dagli 11 anni fino all’età adulta e in questa fase il pensiero diventa
più logico, c’è la capacità di un pensiero astratto (e quindi maggiori risoluzioni di fronte a problemi
matematici e della vita); il giovane comincia anche ad immaginare le proprie possibilità per il futuro
a partire da ciò che è nel presente

Vygotskij è il fondatore della teoria cognitiva socio-culturale che mette in evidenza il modo in cui la cultura
e le interazioni sociali guidano lo sviluppo cognitivo; anche per lui i bambini costruiscono attivamente le
loro conoscenze e secondo Vygotskij lo fanno grazie alla relazione, cioè all’interazione sociale, alla
cooperazione e alle attività culturali.
Lo viluppo di un bambino secondo lui avviene attraverso la relazione con un adulto oppure con un pari più
competente di lui e quindi lo sviluppo è collegato con la relazione interpersonale e con la cultura, cioè si
sviluppa dentro la cultura con cui cresce.
Lo sviluppo della memoria, dell’attenzione e del ragionamento secondo lui avvengono se il bambino impara
ad utilizzare gli strumenti e le competenze della società in cui vive; per quanto riguarda la relazione, se una
persona è abile nella lettura e aiuta un bambino ad imparare a leggere, insieme all’abilità trasmette al
bambino anche il piacere per la lettura.
L’interazione con un adulto fa sì che un bambino cresca, si sviluppi, apprenda e sperimenti anche
l’esperienza del piacere (la scoperta che quella cosa mi piace).
Sulla base di questa teoria si può affermare che la conoscenza è situata, perché il bambino apprende e
cresce nella società in cui vive e collaborativa perché si ha la cooperazione con un adulto o con l’altro;
nell’ottica della teoria di Vygotskij la conoscenza non è generata dall’interno del bambino ma è costruita
attraverso l’interazione con le persone nel rapporto e l’interazione con gli oggetti nell’uso degli strumenti
messi a disposizione dalla società in cui il bambino vive.
Diversamente da Piaget ma analogamente a Vygotskij la teoria dell’elaborazione delle informazioni (mette
in evidenza come gli individui manipolino le informazioni, le controllino e creino delle strategie sulla base di
esse) non descrive lo sviluppo come suddiviso in stadi; secondo questa teoria gli individui sviluppano una
crescente abilità nell’elaborazione delle informazioni che consente loro di acquisire conoscenze e capacità
sempre più complesse.

Teorie comportamentiste e socio-cognitive


Il fondamento di questo gruppo di teorie è rappresentato dalla frase “noi possiamo studiare
scientificamente solo quello che osserviamo e che possiamo misurare direttamente in un ambiente
controllato (cioè in laboratorio)”.
Questo approccio allo sviluppo è opposto alle teorie psicanalitiche; nelle teorie precedenti venivano
considerati degli stadi di sviluppo mentre in queste teorie non ci sono stadi ma una continuità nello
sviluppo (cioè senza nessuno stadio).
La prima di queste teorie è il condizionamento classico di Pavlov  studiò in laboratorio il comportamento
di alcuni cani e notò che i cani istintivamente producono saliva quando mangiano e che cominciavano a
farlo anche prima di mangiare il cibo in presenza di stimoli visivi o sonori: se appena prima di dare al cane il
cibo suonava una campanella, al suono della campanella il cane cominciava a salivare.
Questo tipo di comportamento viene definito condizionamento classico: se uno stimolo neutro viene
associato ad uno stimolo che produce una reazione automatica, la reazione sarà causata anche solo dallo
stimolo che in precedenza era neutro.
Un ricercatore contemporaneo di Pavlov, Watson, agli inizi del XX secolo dimostrò che il condizionamento
classico funziona anche con gli esseri umani: fece vedere ad un bambino (Albert) un topo bianco che
inizialmente non provocò nessuna reazione in quanto il bambino cominciò a giocarci, poi Watson produsse
un forte rumore dietro la testa di Albert che immediatamente si mise a piangere spaventato.
Dopo un po’ di volte che Watson aveva associato il rumore al topo, il bambino cominciava ad aver paura del
topo anche in assenza del rumore.
Molte delle paure che noi continuiamo ad avere da grandi nascono da un condizionamento che c’è stato,
per esempio avere paura dell’altezza può essere data da un’esperienza avuta da piccoli e che non si ricorda.
Può accadere che un’esperienza avuta induca un condizionamento che porta al cambiamento del nostro
comportamento in una maniera patologica, cioè può accadere che un’esperienza dovuta ad un
condizionamento possa dar origine ad una psico-patologia che si definisce come disturbo da stress post-
traumatico (quell’esperienza ha provocato un trauma che produce uno stress che porta ad un
comportamento patologico).
In questo caso accade che l’individuo rivive questa esperienza traumatica con dei sintomi, per esempio
sotto forma di flashback (ricordi vividi, incubi, risvegli improvvisi), con una difficoltà di controllo delle
emozioni, con l’ansia, con l’evitamento (evitare il luogo del trauma), una ipersensibilità, ecc.
Nelle teorie comportamentiste rientra anche il condizionamento operante di Skinner; per condizionamento
operante si intende che le conseguenze di un comportamento producono dei cambiamenti nella probabilità
che questo comportamento si ripeta.
I comportamenti di questa teoria sono determinati da rinforzi o da punizioni, cioè lo sviluppo consiste nella
possibilità che il bambino ha di modificare il comportamento sulla base delle risposte che riceve
dall’ambiente esterno e dalle persone che gli stanno intorno.
Una risposta seguita da esiti positivi si rafforza mentre una risposta seguita da esiti negativi si indebolisce.
Accanto alle teorie comportamentiste ci sono le teorie socio-cognitive e lo studioso più conosciuto in
questo ambito è Bandura, il quale è d’accordo con l’approccio comportamentista utilizzato da Pavlov e
Skinner ma ritiene che lo sviluppo del bambino sia fortemente influenzato dalle interazioni con l’ambiente e
ritiene che la cognizione sia altrettanto importante per lo sviluppo.
La teoria socio-cognitiva di Bandura sostiene che il comportamento, l’ambiente e la cognizione sono fattori
ugualmente importanti nello sviluppo e nella crescita del bambino e quindi è l’interazione tra questi tre
fattori che porta allo sviluppo perché i processi cognitivi hanno un collegamento con l’ambiente e il
comportamento.
La crescita e lo sviluppo avvengono attraverso quello che viene definito come l’apprendimento osservativo
o imitazione, cioè l’apprendimento si struttura sull’osservazione di quello che fanno gli altri; se un bambino
sperimenta ad esempio un insegnante sarcastica o aggressiva probabilmente sarà portato ad utilizzare nei
suoi comportamenti gli stessi metodi che ha sperimentato su se stesso.
Di fronte a tutte queste teorie dobbiamo porci nei confronti dei bambini con un approccio teorico eclettico,
cioè non seguire un’unica teoria ma selezionare e utilizzare gli aspetti migliori di ognuna in base anche ai
bambini con cui interagiamo.

La teoria etologica
La maggior parte degli psicologi dello sviluppo iniziò a prestare attenzione alle basi biologiche dello sviluppo
grazie al lavoro di zoologi europei nel campo dell’etologia; la teoria etologica sostiene che il
comportamento è fortemente influenzato dalla biologia e dall’evoluzione ed è caratterizzato da periodi
critici o sensibili  periodi in cui la presenza o l’assenza di certe esperienze hanno un’influenza a lungo
termine sugli individui.
Uno studioso, Lorenz, ha scoperto l’imprinting, ovvero il rapido e innato processo di apprendimento
limitato ad un breve periodo critico che produce attaccamento nei confronti del primo oggetto in
movimento visto.
L’attuale prospettiva etologica propone il concetto di un periodo sensibile più esteso e il lavoro di Bowlby
rappresenta un’applicazione della teoria etologica allo sviluppo umano in quanto sostiene che
l’attaccamento alla persona che si prende cura di noi nel primo anno di vita ha importanti conseguenze
lungo tutto l’arco della vita.
LO SVILUPPO PRENATALE
La durata tipica dello sviluppo prenatale inizia con la fecondazione e finisce con la nascita e dura dalle 38
alle 40 settimane; nei 9 mesi in cui il bambino si trova nella pancia della mamma il bambino vive comunque
una relazione con il mondo esterno e può correre dei rischi.
Il tempo in cui il bambino sta nella pancia della mamma va dalle 38 alle 40 settimane più o meno e quindi la
durata della gestazione ruota intorno ai 280 giorni; la gestazione inizia con l’unione di un ovulo con uno
spermatozoo che avviene nelle tube di Falloppio attraverso la fecondazione.
Dopo la fecondazione inizia lo sviluppo prenatale che si divide in tre periodi:
1. Periodo germinale  ha una durata di due settimane e avviene nelle prime due settimane dopo il
concepimento, è rappresentato dalla creazione dell’ovulo fecondato che viene chiamato zigote; in
queste due settimane c’è l’attaccamento dello zigote alla parete uterina e la divisione cellulare.
Dalla divisione si viene a formare un gruppo di cellule costituito da una massa interna (blastocisti)
dalla quale successivamente si svilupperà l’embrione e dal trofoblasto, uno strato di cellule di
rivestimento esterno che sarà quello che produce il nutrimento per l’embrione

2. Periodo embrionale  ha una durata di circa 2 mesi dopo la fecondazione e in questo periodo si
forma l’embrione e cominciano a svilupparsi gli organi; si formano tre strati di cellule che
costituiscono l’embrione (endoderma da cui si formano apparato digerente e respiratorio,
mesoderma da cui si formano il sistema circolatorio, le ossa, i muscoli, il sistema escretore e
riproduttivo, ectoderma da cui si formano l’apparato cutaneo, i recettori sensoriali e il sistema
nervoso). Contemporaneamente allo sviluppo dell’embrione si sviluppano anche dei sistemi che lo
tengono in vita, cioè l’amnio, il cordone ombelicale e la placenta.
L’amnio è una sacca che contiene un liquido trasparente dentro al quale galleggia l’embrione
(liquido amniotico): il cordone ombelicale è un cordone che contiene due arterie e una vena e che
collega l’embrione alla placenta, ovvero dei tessuti a forma di dischi all’interno dei quali si trovano i
vasi sanguigni dell’embrione e della mamma che si incrociano tra di loro ma non si congiungono; lo
scambio che avviene attraverso la placenta, il cordone ombelicale e l’amnio è uno scambio di
sostanze nutritive ma possono entrare anche delle sostanze dannose perché qualsiasi tipo di
sostanza ingerita dalla mamma attraversa la placenta e può danneggiare l’embrione.
In questo periodo avviene l’organogenesi.

3. Periodo fetale  ha inizio a due mesi dal concepimento e ha una durata di circa 6 mesi nei quali
continua la crescita e lo sviluppo del bambino fino ad arrivare in media al momento del parto ad un
peso intorni ai 3 kg e ad una lunghezza di 48-52 cm; all’inizio di questo periodo il bambino comincia
a diventare attivo, nel senso che comincia a muoversi e la mamma lo percepisce, comincia ad aprire
e chiudere la bocca e a muovere la testa.
Intorno al terzo/quarto mese si può identificare il sesso del bambino.
Alla fine del quinto mese le strutture dell’apparato cutaneo si sono formate, il feto è più attivo e
mostra una certa preferenza per una posizione nell’utero; alla fine del sesto mese gli occhi e le
palpebre sono completamente formati e c’è un sottile strato di capelli, c’è il riflesso di prensione e
si verificano movimenti respiratori irregolari.
A circa 6 mesi il feto ha la possibilità di sopravvivere fuori dall’utero ma i bambini che nascono
prematuramente hanno inizialmente bisogno di aiuto per respirare.
Durante gli ultimi due mesi dello sviluppo il tessuto adiposo si sviluppa e il funzionamento di vari
organi si intensifica; il feto cresce in lunghezza e il suo peso aumenta fino alla nascita.
Uno dei più importanti aspetti che riguardano lo sviluppo prenatale è lo sviluppo del cervello; alla nascita i
neonati hanno 100 miliardi di neuroni che processano le informazioni all’interno del cervello.
Durante lo sviluppo prenatale i neuroni si muovono verso la loro sede corretta e iniziano a far partire le
connessioni e la base del cervello umano viene assemblata durante i primi tre mesi.
Mentre l’embrione si sviluppa all’interno dell’utero materno, il sistema nervoso inizia a formarsi a partire
da un tubo con una cavità centrale chiamato tubo neurale; due difetti alla nascita sono collegati a
malformazioni di questo tubo che non si chiude come dovrebbe e sono anencefalia e spina bifida.
In una gravidanza normale da quando il tubo neurale si è chiuso si inizia ad avere una proliferazione e una
continua migrazione di neuroni e questo processo è chiamato neurogenesi.

AGENTI TERATOGENI
Durante la gravidanza possono esserci dei rischi nello sviluppo prenatale e quindi può accadere che lo
sviluppo si interrompa, che sia anomalo o che si verifichi un parto prematuro (non c’è più nutrimento).
Il feto non è completamente immune dall’influenza del mondo esterno ma ha dei rapporti e quindi
l’ambiente esterno (inteso sia come mondo che la stessa mamma) può incidere sullo sviluppo del bambino
in molti modi.
Ci sono dei fattori e delle sostanze chiamate agenti teratogeni che vanno ad incidere sul sano sviluppo del
feto e quindi causano un difetto nello sviluppo del bambino; l’effetto che un agente teratogeno può avere
sul feto dipende dalla dose (più alta sarà la dose, più dannoso sarà l’effetto), da una predisposizione
genetica (cioè dal modo in cui la mamma metabolizza l’agente), dal sesso del bambino in quanto i maschi
sono più sensibili all’effetto dannoso degli agenti teratogeni e dal momento dell’esposizione all’agente (il
periodo più rischioso è il periodo embrionale perché c’è l’organogenesi).
Il teratogeno è un agente che causa un difetto alla nascita e sono agenti così numerosi che diventa difficile
determinare quale sia stato il responsabile del difetto.
Gli agenti teratogeni che possono danneggiare il feto sono le sostanze psicoattive  sono sostanze che
agiscono sul sistema nervoso e vengono assunte per alterare gli stati di coscienza, sono: alcol, nicotina,
caffeina, cocaina, eroina, oppioidi.

Alcol e nicotina
L’abuso di alcol da parte della madre può dar luogo alla sindrome alcolica fetale e quindi il bambino può
nascere con malformazioni agli arti, difetti cardiaci o con disturbi cognitivi (ad esempio con un QI basso); la
nicotina può essere causa di un parto prematuro, il bambino può essere sottopeso alla nascita, può
presentare problemi respiratori alla nascita o ci può anche essere la sindrome della morte neonatale
improvvisa (cioè possono andare incontro alla morte in culla di cui non si conosce la causa specifica).

Cocaina, eroina e cannabis


Da una madre cocainomane possono nascere bambini sottopeso, con una riduzione della lunghezza e della
circonferenza del cranio al momento della nascita, con dei riflessi rallentati e ci possono essere anche dei
deficit dell’attenzione.
Con l’eroina il bambino può presentare dei sintomi di astinenza come tremori, irritabilità, pianti anomali,
sonno disturbato e un’alterazione del controllo motorio.
Quando si parla di cannabis si intendono tutte quelle sostanze che si ottengono dai fiori femminili della
cannabis sativa e comprendiamo circa 60 sostanze attive, tra cui la più importante è l’HTC (tetra-idro-
cannabinolo) che nel fumo è in costante aumento e può essere tagliato anche con allucinogeni o sostante
più pericolose.
L’assunzione di queste sostanze produce sia effetti collaterali a breve termine che a lungo termine; tra gli
effetti a breve termine c’è una diminuzione della capacità della memoria e dell’attenzione, una mancanza di
ascolto, difficoltà ad apprendere, bocca secca, alterazione della capacità motoria (non ci si muove più
bene), stato d’ansia e paranoia, modificazione della percezione spazio-temporale.
Gli effetti a lungo termine riguardano una dipendenza psicologica, riduzione delle capacità cognitive,
problemi comportamentali (iperattività, difficoltà cognitive) nei bambini le cui madri hanno assunto
cannabis in gravidanza.
La tossicità diretta della cannabis è molto bassa anche se gli effetti collaterali possono portare ad esiti molto
rischiosi per la vita.
C’è uno stato fisico e emozionale che la cannabis induce e che varia in base alla personalità di chi la assume,
in base alla quantità e al modo d’uso e quindi questo stato non è mai prevedibile.
La cannabis non è così innocua come si credeva in precedenza perché comporta una dipendenza psicologica
accompagnata ad un rischio della personalità, di perdita di contatto con la realtà, può portare a danni fisici
e mentali, per esempio danni cromosomici e dunque ad una sterilità temporanea nel periodo in cui se ne fa
uso oppure ad un’impotenza che spesso non è reversibile, oppure può portare ad una crescita del seno
negli uomini, danni alle vie respiratorie e anche a danni cerebrali a lungo termine.
La cannabis produce euforia, rilassamento, benessere, fa socializzare e dà una sensazione di maggiore
sensibilità; i segni di riconoscimento per capire se si è fumata una canna sono occhi arrossati, aumento del
battito cardiaco, alterazioni dell’appetito, euforia, attacchi di panico, difficoltà mnemoniche.

Farmaci
Anche alcuni farmaci possono dar luogo a delle malformazioni perché attraverso la placenta passa nel feto
ciò che la madre metabolizza e anche i farmaci possono rappresentare agenti teratogeni; negli anni ’60 in
America ci sono state delle malformazioni chiamate focomelìe che riguardavano arti superiori (ad esempio
mani attaccate direttamente alle spalle) e arti inferiori e queste erano legate all’utilizzo di un antidepressivo
chiamato Talidomide.
Generalmente si consiglia alla donna madre di non prendere farmaci durante la gravidanza.

Le malattie della madre


Un altro fattore di rischio sono le malattie della madre: le malattie che con maggiore frequenza possono
portare a malformazioni nel feto sono la rosolia (in genere si fa un esame per vedere se nella madre ci sono
gli anticorpi nella madre o no), l’herpes genitale che può dare nel bambino dei danni cerebrali, la sifilide,
l’AIDS.

Dieta e nutrizione della madre


Un altro rischio può essere rappresentato dalla dieta e dalla nutrizione della madre, per esempio un’obesità
può dar luogo al diabete che potrebbe provocare la nascita di un bambino macrosomico, cioè un bambino
che pesa più di 4 kg al momento della nascita e con un rischio maggiore di essere affetto da diabete nel
corso della sua vita; è importante che durante i 9 mesi nella dieta della madre ci sia un maggiore apporto di
vitamina B, acido folico perché un deficit di questi elementi può dare delle alterazioni nella formazione del
tubo neurale (futura spina dorsale) del bambino  malformazione definita spina bifida.

Età della madre


Un elemento importante è l’età della futura madre, ad esempio dopo i 35 anni c’è il rischio di una maggiore
interruzione della gravidanza e che il bambino possa nascere con la sindrome di down, dopo i 50 anni un
neonato su 10 rischia di nascere down; nell’adolescenza (15-16 anni) c’è un rischio doppio di mortalità
infantile perché c’è una minore capacità di cura per mancanza di strumenti idonei per vivere un periodo
sufficientemente sereno.

Stati emotivi e stress della madre


Un altro fattore di rischio sono gli stati emotivi negativi e la presenza di stress nella madre; in queste
situazioni c’è il rischio che il bambino possa avere delle problematiche cognitive, emozionali, dei deficit di
attenzione associata ad un’iperattività e dei ritardi nel linguaggio.
Ci sono anche dei rischi ambientali possono incidere negativamente sulla salute del nascituro, ad esempio
le radiazioni, i raggi X oppure gli inquinamenti ambientali  nel 1986 ci fu la tragedia di Chernobyl
nell’Unione Sovietica e ci fu un aumento di tumori e leucemie dovute a questo inquinamento e soprattutto
nei bambini.

Fattori legati al padre


Anche alcuni fattori legati al padre possono influenzare lo sviluppo del bambino: ad esempio il contatto
dell’uomo con il piombo, le radiazioni e alcuni pesticidi possono causare anomalie negli spermatozoi che a
loro volta provocano aborti spontanei e malattie.
Se il padre fuma durante la gravidanza della madre può causare problemi nei figli; quando il padre fuma si
ha un maggior rischio di interruzione precoce della gravidanza e se il padre fuma nel periodo del
concepimento del figlio aumenta il rischio di sviluppo di leucemia.

LA NASCITA
L’ambiente perinatale è l’ambiente che circonda il momento della nascita e comprende diversi fattori:
medicine date alla madre durante il travaglio, pratiche usate per far avvenire il parto e il tipo di parto,
l’ambiente sociale che circonda il bambino appena nato.
Nel momento in cui il bambino nasce vengono fatti degli accertamenti sulla sua salute; esistono due
metodologie per valutare la salute del neonato, una che si fa dopo 1 minuto dalla nascita e si ripete dopo 5
minuti dalla nascita e la seconda metodologia che si attua dopo 24/36 ore dalla nascita.
La prima tecnica utilizzata si chiama indice di Apgar, una tecnica che prende in considerazione 5 elementi
fondamentali e vitali che servono a valutare la salute del neonato e cioè il battito cardiaco, la respirazione, il
tono muscolare, il colorito della pelle e i riflessi; ad ognuno di questi elementi viene dato un punteggio da 0
a 2 e da 7 punti a 10 il bambino ha buone condizioni di salute.
La seconda tecnica è rappresentata dalla scala di valutazione del comportamento del neonato di Brazelton
ed è uno strumento che si utilizza dopo le 24/36h dalla nascita e serve per valutare lo sviluppo neurologico
del bambino, i riflessi e le reazioni nei confronti di altre persone.
Viene attribuito un punteggio in riferimento a 27 item in quattro categorie: fisiologiche, motorie, relative
agli stati e all’interazione.
Recentemente Brazelton ha sviluppato un nuovo sistema di valutazione del neonato che è la scala neuro-
comportamentale della rete di terapia intensiva neonatale e che permette un’analisi più dettagliata del
comportamento del neonato, delle risposte neurologiche, delle reazioni allo stress e delle capacità di
regolazione; è stata creata per valutare soprattutto i bambini a rischio, come quelli nati prematuramente o
che sono venuti a contatto con qualche sostanza.

LA TEORIA DI PIAGET
Piaget pensava che così come i nostri corpi hanno strutture che permettono loro di adattarsi al mondo, allo
stesso modo noi costruiamo delle strutture mentali che cu aiutano ad adattarci al mondo; l’adattamento
comporta un adeguamento alle nuove richieste dell’ambiente esterno.
Sostiene che il bambino costruisce attivamente la propria conoscenza e quindi secondo la sua teoria i
meccanismi messi in atto dai bambini per costruire la loro conoscenza del mondo sono gli schemi, cioè un
modello di pensiero o di azione che il bambino utilizza per organizzare, rappresentare e comprendere la
realtà che lo circonda.
Oltre agli schemi altri processi importanti per costruire il mondo sono l’assimilazione, l’accomodamento,
l’organizzazione e l’equilibrazione.
Gli schemi secondo Piaget sono delle azioni o rappresentazioni della mente che servono al bambino per
organizzare la propria conoscenza della realtà e di se stesso e dunque attraverso gli schemi il bambino entra
attivamente in relazione con il mondo.
Distingue due tipi di schemi e nella sua teoria parla di:
1. Schemi di azione  sono presenti nella prima infanzia, si manifestano con delle azioni che il
bambino esegue su degli oggetti (ad esempio la suzione, cioè il bambino che ciuccia il biberon,
oppure il bambino che prende un dito della mamma o del papà); sono indispensabili per conoscere
ed entrare in relazione con il mondo
2. Schemi simbolici  si sviluppano nella seconda infanzia, sono delle strategie che il bambino
comincia ad utilizzare per risolvere dei problemi (ad esempio intorno ai 4/5 anni il bambino
comincerà ad utilizzare uno schema simbolico per classificare dei giocattoli sulla base della
grandezza o della forma)

Alla base dei processi cognitivi ci sono gli invarianti funzionali, ovvero dei meccanismi biologicamente
predeterminati di funzionamento generale dell’organismo che governano tutte le azioni di una persona,
non variano con l’età e sono presenti in tutti gli esseri viventi.
Sono principi generali che sottostanno ai comportamenti e agiscono in forma immutata lungo tutta la vita.

Assimilazione e accomodamento
L’assimilazione è un processo con cui il bambino incorpora ogni nuova informazione proveniente
dall’ambiente esterno o acquisita per mezzo dell’esperienza negli schemi già esistenti.
L’accomodamento è il meccanismo con cui i bambini modificano i propri schemi per adattarli alle
caratteristiche delle informazioni ed esperienze nuove assimilate.
Assimilazione e accomodamento operano anche in bambini molto piccoli, i neonati succhiano in modo
riflesso qualsiasi cosa tocchi la propria bocca e assimilano qualunque tipo di oggetto nel loro schema di
suzione.

Equilibrazione
Secondo Piaget è il meccanismo più importante dello sviluppo cognitivo e indica il processo che permette di
raggiungere l’equilibrio cognitivo integrando la varietà di esperienze vissute.
Per Piaget il sistema cognitivo è tendenzialmente in disequilibrio per effetto dell’assimilazione che lo
vincola ad interagire con l’ambiente appropriandosene ma lo stato di disequilibrio è temporaneamente
eliminato dalla riorganizzazione della struttura interna operata dall’accomodamento.
L’equilibrazione è il processo continuo e dinamico in cui il sistema si autocorregge e il passaggio da uno
stadio all’altro avviene nel momento in cui il bambino fa esperienza di un conflitto cognitivo nel suo
tentativo di comprendere il mondo; quando i bambini risolvono il conflitto e raggiungono un nuovo
equilibrio cognitivo significa che sono approdati ad un livello cognitivo superiore.

Organizzazione
È il raggruppamento di comportamenti e pensieri isolati in sistemi di ordine superiore e buona parte dello
sviluppo consiste nel continuo raffinamento di questa organizzazione.
Grazie all’organizzazione le abilità e le competenze disponibili sono omogenee e ciò che il bambino fa non è
frutto del caso perché le sue risposte riflettono sempre la struttura sottostante; il fine dell’organizzazione è
promuovere l’adattamento attraverso l’assimilazione e l’accomodamento.
Stadi di sviluppo
Gli schemi sono alla base dello sviluppo e della crescita del bambino, che Piaget divide in 4 stadi: senso-
motorio, pre-operatorio, operatorio concreto e operatorio formale.
Nella teoria di Piaget il concetto di stadio è definito da alcuni criteri:
1. Lo stadio individua cambiamenti qualitativi (la cognizione è qualitativamente diversa nei vari stadi)
2. Ad ogni stadio gli schemi si trasformano in quanto durante la transizione verso un nuovo stadio gli
schemi si preparano, si modificano e consolidano per mezzo di assimilazione e accomodamento e,
raggiunta la maturità funzionale, lasciano spazio ad una nuova organizzazione schematica
3. Gli stadi si integrano gerarchicamente (passando ad un nuovo stadio io vecchi schemi non vengono
eliminati ma si integrano nei nuovi)
4. Gli stadi rispettano un ordine logico
5. Il passaggio da uno stadio all’altro è graduale

Nello stadio senso-motorio il bambino utilizza i sensi coordinandoli con le azioni fisiche che sa fare nel
periodo tra zero e 2 anni; in questa fase secondo Piaget c’è la comparsa di un’intelligenza ma si tratta di
un’intelligenza pratica perché il bambino conosce il mondo attraverso le attività del movimento e dei sensi
e quindi ha una conoscenza pratica del mondo.
Il primo stadio viene diviso da Piaget in 6 sottostadi:
 Sottostadio dei riflessi innati  avviene nel primo mese di vita, il bambino comincia a scoprire il
mondo attraverso i comportamenti riflessi come la suzione; questi riflessi sono innati perché non
gli vengono insegnati e nel caso della suzione all’inizio il bambino inizia a ciucciare solo quando il
seno o il biberon gli viene appoggiato sulla bocca finchè questo riflesso verrà rivolto anche alla
mano (quindi il riflesso innato verrà utilizzato anche per sperimentare una cosa che ha fatto per
caso)
 Sottostadio delle prime abitudini e delle reazioni circolari primarie  è situato tra 1 mese e i 4
mesi, il bambino è concentrato sul proprio corpo e presenta due tipi di schemi: le prime abitudini e
le reazioni circolari primarie; nelle abitudini il riflesso diventa indipendente dallo stimolo, per
esempio mentre nel sottostadio precedente il bambino cominciava a succhiare quando il biberon
era vicino, in questo stadio il bambino comincerà a ciucciare anche in assenza del biberon.
Le reazioni circolari primarie sono delle azioni che il bambino compie e sono orientate verso se
stesso e il proprio corpo; vengono ripetute dopo che il bambino ha provocato a caso una cosa che
per lui era piacevole, ad esempio ha ciucciato a caso il pollice, l’ha trovato piacevole e questo
diventa un abitudine.
 Sottostadio delle reazioni circolari secondarie  va dai 4 mesi agli 8, in questa fase la curiosità del
bambino prima rivolta verso il proprio corpo, va verso gli oggetti esterni (non è ancora una
curiosità intenzionale); il bambino comincia a fare delle azioni verso l’ambiente, ad esempio
quando urta i giochini attaccati sopra alla culla che fanno un rumore che gli piace e quindi continua
a ripetere questa azione.
Il bambino imita anche i gesti fisici che vede dagli adulti e che è in grado di ripetere; comincia
anche un’osservazione verso l’ambiente e gli oggetti da cui è circondato.
 Sottostadio della coordinazione delle reazioni circolari secondarie  va dagli 8 mesi fino ad 1
anno, le azioni del bambino diventano sempre più dirette verso l’esterno cominciando a
coordinare ad esempio due sensi (vista e tatto); questi sono i cambiamenti più significativi che il
bambino ha e che coinvolgono la coordinazione (guarda il sonaglino sulla culla, alza la mano e lo
afferra) e l’intenzionalità.
In questa fase il bambino può far cadere intenzionalmente un gioco perché si è stufato e
prenderne un altro oppure può avvicinare la mano del genitore ad un gioco perché magari da solo
non riesce a farlo funzionare.
 Sottostadio delle reazioni circolari terziarie  va da 1 anno ad 1 anno e mezzo, c’è la novità e la
curiosità e quindi il bambino comincia ad esplorare intenzionalmente nuove possibilità con gli
oggetti
 Sottostadio dell’interiorizzazione degli schemi  va da 1 anno e mezzo fino ai 2 anni, comincia da
parte del bambino l’utilizzo dei simboli; Piaget fa un esempio con una delle sue figlie per spiegare
l’utilizzo dei simboli e dice che una delle sue figlie lo aveva visto aprire e chiudere una scatola di
fiammiferi, più tardi Piaget vide che la figlia apriva e chiudeva la bocca cercando di simbolizzare
quello che prima faceva il padre aprendo e chiudendo la scatola di fiammiferi.
Il simbolo è un’immagine sensoriale interiorizzata o una parola che rappresenta un evento;
interiorizzare un’immagine sensoriale significa poterla rievocare sapendo che esiste fisicamente e
che attraverso un lavoro psicologico e cognitivo rimane scolpita nella mente (quando ci si
innamora, quando non stiamo fisicamente insieme continuiamo comunque a percepire l’altra
persona).
Il bambino percepisce con i sensi che ha una mamma, l’ha vista, l’ha toccata, riconosce l’odore e la
capacità della simbolizzazione consente poi di vivere la separazione dalla madre in quanto la
mamma non è sempre presente e quindi il bambino si trova a confrontarsi con l’assenza della
madre; per questo è importante che ci sia stata l’interiorizzazione di una figura materna
sufficientemente buona.

La permanenza d’oggetto
È fondamentale che attraverso l’uso del simbolo il bambino viva l’esperienza della permanenza
dell’oggetto, ovvero la conquista più grande che un bambino può fare perché se non c’è la conquista della
permanenza dell’oggetto non ci può essere una crescita sufficientemente sana in quanto questa esperienza
rappresenta la comprensione del fatto che gli oggetti e le persone continuano ad esistere anche quando
non possono essere rilevati con gli organi di senso.
L’oggetto continua ad esistere anche nel momento in cui non è più percepibile dai sensi e questo perché
l’oggetto è stato interiorizzato; un bambino può arrivare anche a non sperimentare una permanenza
d’oggetto ad esempio se non vive una sufficiente sicurezza del legame con i genitori.
Il primo rapporto che il bambino vive è quello con la madre e fa da modello a tutte le altre relazioni, perciò
se il bambino non sperimenta la sicurezza e la fiducia e il fatto che il mondo è sufficientemente buono, avrà
poi difficoltà a sperimentare una permanenza di oggetto positiva e avrà difficoltà a vivere relazioni solide e
durature (in alcune situazioni questa difficoltà può portare a disturbi di personalità come il disturbo
borderline in cui l’individuo non riesce a vivere dei rapporti duraturi).
La permanenza d’oggetto è la conquista più importante dello sviluppo del bambino che la acquisisce
attraverso il primo stadio e i suoi 6 sottostadi fino ad arrivare alla scoperta dell’utilizzo dei simboli riuscendo
a rappresentare internamente quell’immagine o quella persona che ha visto con i sensi.
Ciò che permette di proseguire in una crescita sana è che nel bambino ci siano degli oggetti interiorizzati
che siano sufficientemente buoni perché questo permetterà di vivere un attaccamento sicuro che favorirà
uno sviluppo sano; in caso contrario il bambino incorrerà in un attaccamento insicuro che non permetterà
uno sviluppo sano.
L’assenza della madre è necessaria in alcuni momenti perché il bambino cresca e si sviluppi in modo sano
perché l’assenza della mamma permette al bambino di sperimentare la fantasia e la creatività; Lackane dice
che il rischio di una donna che diventa mamma è quello di trasformarsi in tutta mamma  l’essere mamma
è un ruolo, non l’essenza di quella donna.
Stadio pre-operatorio
La seconda fase è lo stadio pre-operatorio (dai 2 anni ai 7) e in questo arco di tempo il bambino comincia a
rappresentare e a percepire il mondo attraverso le parole, le immagini, i disegni e i giochi e man mano che
cresce comincerà a fare sempre dei giochi diversi che coinvolgono maggiormente i coetanei (in particolare
quello del “far finta”) cominciando a costruire il gruppo e l’appartenenza del bambino ad un gruppo.
Inoltre emerge il ragionamento mentale con un pensiero che è ancora prelogico e intuitivo (prendono in
considerazione un aspetto alla volta e questo è un limite che si riflette nel modo in cui i bambini
interpretano la realtà che li circonda) tanto che affiora l’egocentrismo e si costituiscono quelle che Piaget
definisce come credenze magiche.
Si divide in due sottostadi:
 Sottostadio della funzione simbolica  va dai 2 ai 4 anni, è una fase in cui il bambino ha la capacità
di rappresentare mentalmente un oggetto che non è presente (costanza d’oggetto acquisita nello
stadio senso motorio) e comincia a disegnare, inizialmente degli scarabocchi; comincia ad utilizzare
sempre più il linguaggio, si impegna sempre più nel gioco che diventa un gioco di gruppo in cui si
coinvolgono i coetanei ma il pensiero rimane ancora limitato da alcune caratteristiche:
l’egocentrismo infantile (impedisce al bambino di considerare il punto di vista dell’altro),
l’animismo (il bambino crede che tutti gli oggetti inanimati abbiano una vita), il finalismo (ogni
fenomeno naturale ha lo scopo di garantire all’uomo le migliori condizioni per vivere una vita
serena: ad esempio la luna sorge perché è ora di andare a dormire), l’artificialismo (ogni cosa che si
vede è costruita dall’uomo)
 Sottostadio del pensiero intuitivo  va dai 4 ai 7 anni, è l’arco di tempo in cui il bambino comincia a
utilizzare dei ragionamenti anche se ancora rudimentali e vuole risposte a tutti i tipi di domande;
Piaget definisce questa fase intuitiva perché da una parte i bambini sembrano così sicuri del loro
sapere e della loro conoscenza e dall’altra sembrano inconsapevoli di come sappiano ciò che sanno,
in pratica sanno le cose senza utilizzare il pensiero razionale.

Uno dei limiti del pensiero preoperatorio è l’irreversibilità, cioè l’incapacità di annullare, invertire o
compensare un certo risultato; inoltre il bambino non è in grado di attivare più azioni interiorizzate perché
centra la sua attenzione su una sola caratteristica alla volta escludendo le altre (centrazione).
L’irreversibilità del pensiero preoperatorio è responsabile della mancanza di conservazione dei bambini,
ovvero la consapevolezza che una data quantità rimane inalterata al di là di come il suo contenitore cambia;
per la conservazione Piaget ha fatto un esperimento in cui ai bambini venivano presentati due recipienti
identici riempiti con la stessa quantità di liquido e i bambini dovevano dire se il liquido fosse nella stessa
quantità oppure no.
Poi il liquido veniva trasferito in un terzo contenitore più alto e più stretto e i bambini sotto i 7/8 anni
dicevano che la quantità del liquido era diversa mentre quelli più grandi giustificavano la risposta con
ragionamenti appropriati.
Un altro limite del modo di pensare del bambino preoperatorio è rappresentato dalla trasduzione, ovvero il
ragionamento tipico che si verifica quando il bambino ricava erronee conclusioni di carattere causale tra
eventi contigui nello spazio o nel tempo; è un ragionamento che procede dal particolare al particolare.

Stadio operatorio concreto


A questo punto si entra nel terzo stadio della teoria di Piaget, quello operatorio concreto, che va dai 7 agli
11 anni circa (può arrivare anche ai 14/15 anni); comincia il ragionamento logico che va gradualmente a
sostituire l’intuito.
C’è la reversibilità, cioè la capacità di annullare un’azione con un’azione opposta ma di per sé è la capacità
di comprendere che io posso fare un’azione opposta a quella di prima (ad esempio cambiare la forma di
una sfera in un quadrato) che mi permette di utilizzare sempre il ragionamento logico  ad esempio se
faccio vedere ad un ragazzino due palle di creta uguali e chiedo quale delle due è più grande, il ragazzo
risponderà che sono uguali perché sono fatte con la stessa quantità di creta; se poi una delle due la
trasformo in un quadrato e pongo la stessa domanda, il ragazzo continua comunque a dire che la quantità
di creta è la stessa.
I bambini non operano la conservazione su tutte le quantità e in tutti i compiti simultaneamente e Piaget
osservò che alcune forme di conservazione sono comprese prima di altre; l’ordine di acquisizione della
conservazione rispetto a compiti diversi è il seguente: numero, lunghezza, quantità di liquido, massa, peso e
volume.
In riferimento a questo fenomeno di sfasamento temporale nell’acquisizione di nozioni diverse all’interno
dello stesso periodo di sviluppo Piaget parlò di decalage orizzontale.
La reversibilità di questo periodo concorre alla genesi del pensiero logico che consiste nella coordinazione
di punti di vista differenti tra loro che possono appartenere ad individui diversi o anche allo stesso
individuo; in questo periodo scompaiono i fenomeni di animismo, finalismo e artificialismo causati
dall’egocentrismo.

Stadio delle operazioni formali


Tra gli 11 e i 15 anni si entra secondo Piaget nel quarto e ultimo stadio della sua teoria, ovvero lo stadio
delle operazioni formali: qui il pensiero diventa ipotetico-deduttivo, cioè ancora più logico, ideale, astratto,
con la capacità di prospettarsi e risolvere i problemi.
È l’età in cui un adolescente comincia a sviluppare delle ipotesi che passano attraverso delle deduzioni e
arrivano a concludere quale possa essere la via migliore da seguire per raggiungere la soluzione di un
determinato problema.
Accanto al pensiero c’è anche l’egocentrismo adolescenziale, cioè quei comportamenti che l’adolescente
mette in atto per richiamare l’attenzione su se stesso e che rappresentano la necessità di essere notati e
visibili; gli sguardi da un lato possono scatenare un atteggiamento positivo (sono bello/a) ma possono
creare anche un timore (mi guardano e non sono all’altezza).
In questo stadio ci possono essere quelle situazioni, soprattutto nelle adolescenti, di dismorfofobia (vedere
il proprio corpo come imperfetto e di vederlo in maniera diversa rispetto a come è) che può sfociare nei casi
più gravi in anoressia.
L’egocentrismo adolescenziale è anche caratterizzato dalla sensazione di unicità e di invincibilità;
quest’ultima fa sì che si corrano dei rischi.
Elkind pensa che questo tipo di egocentrismo può essere suddiviso in due tipi di pensiero:
1. Il pubblico immaginario  si riferisce alla tendenza tipica dell’egocentrismo adolescenziale ad
assumere comportamenti per attirare l’attenzione a sé
2. La fiaba personale  è quella parte dell’egocentrismo adolescenziale che comprende la sensazione
di unicità e di invincibilità dell’adolescente; il senso di unicità fa pensare di essere diversi da tutte le
altre persone, con interessi e sentimenti che nessuno può realmente comprendere.
Viene esplicitata con la compilazione dei diari

Alcuni ricercatori hanno messo in dubbio il fatto che l’invulnerabilità sia un concetto unitario e hanno
sostenuto piuttosto che sia costituito da due dimensioni:
 Invulnerabilità al pericolo  coinvolge il senso di indistruttibilità degli adolescenti e la loro
tendenza ad assumersi dei rischi fisici (guida spericolata, ecc.)
 Invulnerabilità psicologica  comprende l’invulnerabilità nei sentimenti di un adolescente
correlata al disagio personale o psicologico
Piaget e l’educazione
Piaget non era un educatore ma ha fornito uno scenario per delle prospettive sull’apprendimento e la
formazione; secondo lui ci sono delle idee che possono essere applicate all’insegnamento, ovvero:
1. Assumere un approccio costruttivista  i bambini apprendono meglio quando sono parte attiva e
quando trovano le risposte in se stessi; gli allievi imparano meglio facendo scoperte e riflettendo su
esse invece di imitare ciecamente l’insegnante
2. Facilitare l’apprendimento piuttosto che dirigerlo  insegnanti di successo definiscono situazioni
che permettono agli studenti di imparare mettendo in pratica la teoria e queste situazioni
promuovono il pensiero e la scoperta da parte dei soggetti; gli insegnanti osservano i bambini con
attenzione per capire come pensano e pongono loro domande rilevanti
3. Considerare le conoscenze e il livello di pensiero del bambino  gli studenti non arrivano in classe
con la mente vuota ma hanno molte idee sul mondo fisico e naturale e possiedono idee sui concetti
di tempo, spazio, quantità e causalità; gli insegnanti devono essere in grado di interpretare ciò che
uno studente dice
4. Utilizzare valutazioni continue  per valutare i progetti invece di utilizzare dei test standardizzati si
possono utilizzare conferenze individuali tenute da studenti che espongono le loro strategie di
pensiero e spiegazioni scritte e orali dei loro ragionamenti
5. Promuovere la salute intellettuale degli studenti  l’apprendimento nei bambini deve avvenire in
maniera naturale e non devono essere messi sotto pressione
6. Trasformare l’aula in un setting di esplorazione e scoperta  ad esempio una lezione di
matematica può essere costruita intorno al conteggio dei soldi per il pranzo o nel dividere le
provviste tra gli studenti

LA COSTANZA D’OGGETTO
La costanza d’oggetto non è stata trattata solo da Piaget ma anche da altri autori come Margaret Mahler.
Secondo la Mahler al momento della nascita ogni bambino è dotato di un bagaglio genetico sul quale poi si
impianteranno le relazioni e i rapporti; ogni bambino vivrà il modo di entrare in relazione in una maniera
personale, poiché ogni bagaglio genetico è individuale.
Dal modo in cui il bambino vive le relazioni, scopre man mano che cresce il mondo e il suo modo di
rapportarsi con l’altro.
Mahler si è soffermata soprattutto nello studio dell’interazione madre-bambino e in questo rapporto ha
scoperto due passaggi:
 La fase simbiotica  va dalla nascita fino ai 4 mesi; in questo arco di tempo il bambino vive in
simbiosi con la figura materna: non ha coscienza di sé come separato dalla mamma ma vive la
figura materna come un tutt’uno con se stesso.
In questi primi 4 mesi il bambino cresce attraverso le coccole, le attenzioni, il contatto fisico e questi
fattori faranno sviluppare il senso psicologico della sicurezza e della fiducia nel bambino; sarà la
mamma che rappresenterà l’Io organizzatore verso il mondo esterno: il bambino, cioè, avrà
l’esperienza del mondo esterno attraverso il comportamento della mamma.
Se questi atteggiamenti mancano, il bambino non avrà l’esperienza di un mondo esterno
sufficientemente buono e positivo nel quale vale la pena vivere.
 Processo di separazione-individuazione  è rappresentata da un percorso in cui avviene la
separazione da parte del bambino dalla figura materna, grazie alla quale nasce l’individuazione,
ossia il riconoscimento di se stesso come diverso e separato dalla figura materna; in questo
percorso il bambino affronta la differenziazione dalla figura materna e man mano riesce a trovare il
proprio posto nel mondo esterno.
Questo percorso parte dal quinto mese di vita e dura fino al terzo anno di età.
Nella separazione, cioè il distacco dal rapporto simbiotico, Margaret individua altre 4 fasi:
1. Tra il 4° e l’8° mese il bambino sviluppa la propria immagine corporea
2. Tra l’8° e il 14° mese il bambino inizia a camminare e quindi comincia a decidere se allontanarsi
dalla mamma o rimanerle vicino e questa possibilità gli permette di gestire l’angoscia da
separazione dalla mamma
3. Tra i 14 mesi e i 2 anni il bambino passa da momenti di allontanamento volontari e momenti di
avvicinamento dalla figura materna
4. Fino ai 3 anni di vita è presente nel bambino la costanza dell’oggetto libidico: il bambino è
veramente separato dalla mamma perché ne ha una rappresentazione stabile che gli permette di
vivere in autonomia il mondo esterno.

Queste tappe sono fondamentali per una crescita e uno sviluppo psicologico sano; se il bambino vive in
termini positivi la prima fase (simbiotica) e se sperimenta risposte adeguate ai suoi bisogni, potrà vivere il
processo di separazione-individuazione in modo sicuro.
Grazie all’individuazione e alla separazione il bambino scopre il limite della sua onnipotenza e le proprie
capacità ma per raggiungere questa meta il bambino deve imparare a tollerare la mancanza dell’oggetto
d’amore (cioè l’assenza della madre).
Il bambino riesce a tollerare la mancanza della madre quando attraverso il pensiero riesce ad immaginare
l’oggetto d’amore (cioè quando sente dentro di sé la madre pur non percependola fisicamente) e renderlo
disponibile quando vuole per sé stesso.
Per Mahler la costanza d’oggetto permette al bambino di sperimentare che non è onnipotente ma allo
stesso tempo dona al bambino un sostegno perché comunque questo oggetto, che fisicamente non c’è, lo
conserva dentro di sé.
Il radicamento di tali consapevolezze genera una base sicura che consentirà di affrontare le ulteriori fasi
della crescita.

LA TEORIA DI VYGOTSKIJ
È l’ultimo autore delle teorie dello sviluppo psicologico e cognitivo, tanto che prende il nome di teoria dello
sviluppo cognitivo.
Questa teoria si concentra in primo luogo sugli aspetti cognitivi dello sviluppo perché anche per Vigotskj
sottolinea il fatto che il bambino costruisce attivamente la conoscenza del mondo e di sé ma secondo lui a
questo si devono aggiungere anche le connessioni sociali, cioè strumenti messi a disposizione dalla società
e la mente si forma a partire dal contesto culturale in cui il bambino vive.
L’evoluzione della mente, per Vygotskij, avviene attraverso l’acquisizione di strutture psichiche definite:

● Funzioni psichiche inferiori  esprimono lo sviluppo biologico del bambino e sono la capacità di
movimento, le emozioni primarie, la percezione, l’attenzione spontanea. Grazie all’acquisto della
capacità del linguaggio queste funzioni inferiori si trasformano in superiori.
● Funzioni psichiche superiori  attenzione volontaria, pensiero, calcolo, memoria e ragionamento.
Attraverso il linguaggio il bambino guida e organizza le sue azioni e quindi, per Vygotskij, il
linguaggio è strettamente correlato alla crescita e allo sviluppo e non è solo un mezzo di
comunicazione ma rappresenta uno strumento per guidare il pensiero e organizzare le azioni
(all’inizio linguaggio e pensiero sono separati, poi man mano che il bambino cresce si uniscono tra
loro finchè il linguaggio guida e fa crescere il pensiero).
Nella teoria di Vygotskij intorno ai 2 anni il bambino comprende che le cose hanno un nome e usano le
parole per rappresentare dei simboli; man mano che crescono il linguaggio è sempre più collegato al
pensiero, per esempio intorno ai 3 anni i bambini hanno il linguaggio privato, il quale guida il pensiero.
Intorno ai 6-8 anni i bambini hanno il linguaggio interiore (parlare tra sé e sé), cioè un modo per pianificare
e guidare poi il proprio comportamento; in pratica, si suggerisce i passaggi che deve fare per svolgere
un’attività.
La cosa più importante nella teoria di Vygotskij è che il linguaggio guida il pensiero ma allo stesso modo è
importante la condivisione del linguaggio, cioè Vygotskij sostiene che i bambini sviluppano concetti più
logici in seguito al dialogo con un interlocutore più abile di loro.
La sua teoria allora sostiene che le relazioni, rappresentate dall’interazione del dialogo con l’altro e il
linguaggio, rappresentano un ruolo fondamentale nello sviluppo cognitivo del bambino; quindi lo sviluppo
cognitivo è il risultato delle interazioni tra linguaggio e relazione, strumenti fondamentali per la crescita e lo
sviluppo.
L’interazione con le altre persone (coetanei o persone più abili) trasmette gli strumenti culturali necessari
per l’attività intellettuale.
Per cui lo sviluppo cognitivo può essere definito come un’impresa cooperativa tra un individuo più
competente e il bambino, in cui il bambino è l’apprendista che si sviluppa seguendo la guida di un adulto.
Questa cooperazione viene definita Zona di sviluppo prossimale (ZSP), che esprime la modalità di sviluppo
cognitivo di ogni individuo e indica la differenza tra il livello di sviluppo effettivo che si manifesta in un
individuo quando risolve un compito da solo e il livello di sviluppo potenziale che quell’individuo avrebbe
sotto la guida di un soggetto più competente (ritorna la relazione, la cooperazione con l’altro).
Nella zona di sviluppo prossimale ci sono quindi due livelli che possono essere chiamati anche limiti e cioè:
1. Limite inferiore  livello di capacità di risoluzione dei problemi che il bambino raggiunge da solo.
2. Limite superiore  limite che il bambino raggiunge con l’aiuto e l’assistenza di un’altra persona più
competente.

È stato introdotto il concetto di scaffolding (impalcatura) che va a significare che l’adulto che assiste il
bambino e interagisce con lui per la crescita cognitiva deve graduare il livello di supporto che offre al
bambino attraverso la modulazione  cioè si deve tenere conto del bambino che si ha davanti e questo è
fondamentale ad esempio per gli insegnanti che devono considerare ogni singolo bambino.
È importante riconoscere l’unicità della relazione in quanto ogni relazione è diversa e fondamentale;
nell’interazione il bambino mette quello che può e l’altro mette tutto il resto.
Non è un concetto diretto di Vygotskij ma deriva dalla sua teoria.
L’uso del dialogo come strumento di scaffolding è solo un esempio del ruolo del linguaggio nello sviluppo
del bambino; per Vygotskij all’inizio linguaggio e pensiero sono indipendenti, verso i 2 anni i bambini
capiscono che le cose hanno un nome ecc…
Tutte le teorie dello sviluppo presentano una complessità di fattori per cui gli autori affermano che i
bambini non crescono solo attraverso uno sviluppo cognitivo ma vengono considerati diversi aspetti:
psicologico, sessuale, razionale, inconscio, cognitivo.

Strategie di insegnamento
Ecco alcuni dei modi in cui la teoria di Vygotskij può essere utilizzata in classe:
1. Valutazione della zona di sviluppo prossimale del bambino  la valutazione si deve concentrare
sulla determinazione della zona di sviluppo prossimale del bambino; la guida esperta presenta al
bambino compiti di varia difficoltà per determinare il punto da cui far partire l’istruzione
2. Utilizzo della zona di sviluppo prossimale del bambino nell’insegnamento  l’insegnamento
dovrebbe partire più o meno dalla soglia più alta della zona di sviluppo prossimale del bambino in
modo che il bambino possa raggiungere gli obiettivi con un aiuto e procedere a livelli superiori di
conoscenza
3. Uso di compagni di classe più abili come insegnanti
4. Monitoraggio e incoraggiamento all’uso del linguaggio interiore negli allievi
5. Localizzazione delle istruzioni in contesti significativi  gli educatori devono fornire agli studenti la
possibilità di sperimentare l’apprendimento in contesti di vita reale
6. Trasformazione dell’aula secondo le idee di Vygotskij  una metodologia sono le flipped classroom
(classi capovolte) in cui attività di apprendimento incentrate sullo studente hanno priorità rispetto
all’attività incentrata sull’insegnante che dispensa informazioni; dapprima si ha l’apprendimento
autonomo dello studente e poi l’insegnante in aula impiegherà le ore per mettere in pratica le
conoscenze precedentemente apprese attraverso la collaborazione degli studenti

CASO CLINICO:
Vengono presi in considerazione l’aspetto cognitivo e psichico.
Soggetto: ragazzo di 24 anni, chiamato A

Sintomi: Arriva all’istituto con il padre presentando una sintomatologia rappresentata da “scarsa
concentrazione, poca costanza nel fare le cose, pesantezza alla testa, difficoltà a stare in gruppo,
insoddisfazione della vita, depressione, difficoltà a fare le scelte ecc”.

Presentazione della famiglia: La famiglia è una famiglia “normale”, agiata economicamente, che soddisfa i
desideri del figlio, probabilmente eccessivi sì, mai no e dunque questo scatenerà la paura del rifiuto.
Durante il primo incontro parla il padre dei sintomi del figlio, limitandosi il figlio a dei cenni della testa.
Descrive anche attacchi di rabbia nei confronti della ragazza, è una famiglia normale, ma una famiglia
ansiogena, che inculca ansia e oppressione
Il ragazzo presenta attacchi di rabbia incontrollata, di cui si pente subito dopo, lo fa per paura di rimanere
solo.

Storia: Tutto lo sviluppo avviene nella norma, nell’adolescenza viene operato al setto nasale a causa di una
caduta, ha sempre giocato a calcio fino ad arrivare in serie C; “anche nel calcio ha avuto delle delusioni, non
gli sembra di fare progressi, ha paura che gli altri lo giudichino, non si sente sicuro di me, la stessa difficoltà
di apprendimento che aveva nella scuola, alle superiori la scuola è diventato un incubo”
A riferisce anche una difficoltà nello svolgere un discorso perché si perde nei suoi pensieri, stessa cosa
accade nella lettura, bisognava indagare anche l’aspetto DSA.
A non ha mai avuto un amico intimo con cui confidarsi, si sentiva il primo in classifica a dire fesserie, ha
paura che la gente rida di lui, è molto timido.
Parlando del suo carattere si ritiene timido ma anche superficiale, da piccolo rompeva cose o bestemmiava,
non riusciva a divertirsi, in questo periodo si sente inutile, mette in discussione la sua vita ma allo stesso
tempo ha paura della morte, insoddisfatto del corpo e della sua personalità.
L’aggressività potrebbe dipendere dalle alterazioni a livello del sistema nervoso centrale o alla mancanza di
qualche sostanza chimica a livello della sinapsi  la serotonina è la principale sostanza chimica che manca
in queste condizioni, nei disturbi depressivi non trattati può essere presente aggressività nei propri
confronti come suicidio.
La depressione maggiore, quella endogena, può manifestarsi come aggressioni verso gli altri, es. madri
depresse che uccidono i loro figli.
Indaghiamo questi effetti: Organicamente c’è qualcosa in questo ragazzo?
TEST ORGANICI: Tac, Rx cranico, elettroencefalogramma e test tiroideo (ipo o iper tiroidismo possono dare
delle manifestazioni psicologiche); risultati:
- Tac: qualcosa ma niente di che
- Rx cranico: calcificazioni circolari, piccole alterazioni che non danno però ragione dei
comportamenti
- Elettroencefalogramma: eseguito sia con sonno normale che in depressione del sonno per 24h,
nella norma
- Test tiroideo: tutto nella norma

TEST COGNITIVI, c’è qualcosa a livello del QI?


Il QI è del 93% (livelli medi) e l’indice di deterioramento mentale è pari al 12,8% ; in base ai risultati il
paziente non presenta problematiche cognitive.

TEST PSICOLOGICI – Risultati:


-MMPI: il candidato ha riposto sinceramente al test poiché incapace di costruirsi un’immagine di facciata; il
paziente ha la depressione, presenta stanchezza psichica, carenza di iniziativa, rallentamento del quadro
psico-motorio, momenti anancastici (appoggiarsi sugli altri) vissuti in modo passivo, bassa autostima, è
introverso, ruolo passivo nei momenti sociali. Il paziente può essere rigido, tende a preferire il mondo delle
proprie fantasie al mondo reale, problemi ad accettare la sessualità e le difficoltà che ne comporta,
comportamento incontrollato data l’insufficienza dei sistemi di difesa.
-ROSHACK: risposta nella media con poca iniziativa, conformismo ideativo con tono dell’umore depresso,
aspetto cognitivo nella norma, soggetto ambizioso e incapace di realizzare le proprie volontà, affettività
instabile, vengono espresse scarse affettività, paura del rifiuto, impulsività incontrollata, nel corso dello
sviluppo psicosessuale non avvenuta in modo adeguato.
PROGETTO TERAPEUTICO:
Terapia psicodinamica, a base analitica, terapia a lungo termine costituita da incontri terapeutici settimanali
e una terapia farmacologica del controllo dell’umore.
Dopo un mese dalla terapia non ci sono state esplosioni di violenza, è continuata per un anno passato il
quale il farmaco è stato gradualmente sospeso; la terapia è continuata per altri 2 anni che ha avuto una
cadenza settimanale nel primo anno e poi quindicinale nel secondo anno; è riuscito a diplomarsi e ha
iniziato a lavorare.
Ci sono due tipi di modelli di terapia:
 Psicoterapie a breve termine: modelli di terapia cognitivo-comportamentali  alcune situazioni che
riguardano dipendenze rispondono meglio a questo tipo di terapia, a volte terminata questo tipo di
terapia i pazienti vengono affidati ad una terapia psicodinamica
 Psicoterapie a lungo termine: modello psicodinamico, psicoterapia ad orientamento analitico

L’INTELLIGENZA
Nella considerazione dello sviluppo del bambino si devono prendere in esame due elementi che sono
strettamente collegati tra loro e cioè l’aspetto emotivo/affettivo e l’aspetto cognitivo e quindi uno sviluppo
sano è rappresentato da una crescita armonica di questi due aspetti.
Nello studio della psicologia dell’infanzia non c’è una definizione dell’intelligenza ma ci sono tentativi di
definizione:
1. L’intelligenza è rappresentata dall’abilità nel risolvere i problemi
2. L’intelligenza è la capacità di adattarsi e di apprendere dall’esperienza
3. L’intelligenza include delle caratteristiche che sono rappresentate dalla creatività e dalle
competenze di relazione  la creatività è una caratteristica unica della nostra specie e fa sì che con
un numero finito di parole, che noi utilizziamo nel nostro linguaggio, abbiamo una generatività
infinita; anche nelle relazioni e nei rapporti è necessaria una competenza perché fa sì che
all’interno della relazione in cui ci troviamo implicati ci siano dei ruoli.
Ad esempio in ogni gruppo c’è un leader, c’è un capro espiatorio (quello su cui si riversano le
colpe), c’è quello che fa ridere, c’è il neofita (l’ultimo arrivato) e questi ruoli sono fondamentali
perché si sviluppi la relazione all’interno del gruppo.

Come definizione di intelligenza si utilizzano tutte queste caratteristiche.


Recentemente (7/8 anni fa circa) Cornoldi ha definito l’intelligenza come l’aspetto che distingue l’uomo
dall’animale, il bambino grande da quello più piccolo e la persona a sviluppo tipico da un disabile
intellettivo.
Tutte le definizioni affrontate finora non ci danno una visione complessiva di ciò che l’intelligenza
realmente è ma queste sono le definizioni che da un punto di vista psicologico abbiamo.
Un altro aspetto da tenere in considerazione è la quantità dell’intelligenza che ognuno di noi ha; ad oggi
non esiste nessuno strumento valido per misurare direttamente l’intelligenza ma possiamo solo averne una
misurazione indiretta.
Possiamo misurare l’intelligenza indirettamente studiando e confrontando ciò che le persone fanno e
quindi si vedrà che le persone presentano delle differenze individuali dell’intelligenza che possono essere
misurate attraverso l’utilizzo di test.
I test che vengono utilizzati per misurare indirettamente l’intelligenza vengono definiti test di livello poiché
misurano il livello dell’intelligenza di ciascuno; sono molteplici e i test che vengono maggiormente
somministrati ai bambini sono il test di Binet, le matrici progressive di Raven e le scale di Wechsler.
Il primo utilizzo del test di Binet risale al 1904; il ministro francese nel 1904 chiese a Binet di studiare un
metodo per capire quali studenti non fossero in grado di apprendere a scuola e quindi Binet creò questo
test, sulla base del quale un bambino nella norma è un bambino in cui l’età mentale corrisponde all’età
cronologica.
Nel 1912 Stern introdusse l’espressione di quoziente intellettivo, calcolabile dividendo l’età mentale per
l’età cronologica e moltiplicando per 100 (EM/EC X 100); secondo questo calcolo il QI che rientra nella
norma è uguale a 100.
La distribuzione normale è una curva simmetrica a campana in cui la maggior parte dei punteggi ricade al
centro di una gamma di risultati possibili e pochi risultati si trovano ai punti estremi della gamma.
Il test di Binet è stato modificato diverse volte in collaborazione con l’università di Standford e attualmente
prende il nome di test di Standford-Binet; il test può essere somministrato dai 2 anni in poi e comprende
una varietà di domande, alcune verbali e altre no.
Il test di Binet può essere somministrato da psicologi o operatori dell’infanzia che hanno acquisito una
buonissima pratica; è composto da 30 items ma non viene mai applicato per intero e si inizia
dall’applicazione degli items che corrispondono all’età cronologica del soggetto  ad un bambino di 8 anni
gli vengono somministrate le domande previste per quell’età; se il soggetto supera tutte le domande che
corrispondono alla sua età cronologica si procede somministrando le domande relative agli intervalli di età
successivi e si procede finchè il bambino non sbaglia tutte le domande di un range di età.
Se invece un bambino sbaglia tutti i quesiti previsti per la sua età si torna indietro finchè si raggiunge un
livello di età nel quale quel bambino supera tutti i quesiti previsti; si avrà quindi una distribuzione a
campana dell’intelligenza in cui nella parte sinistra ci saranno i bambini meno dotati, nella parte centrale ci
saranno le intelligenze “nella norma” e nella parte destra i bambini con un quoziente intellettivo superiore
alla media.
Ad un certo punto si avranno dei valori numerici che permetteranno una valutazione quantitativa
dell’intelligenza di un bambino.
Secondo il DSM (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) ci sono 4 gradi di gravità del ritardo
mentale:
o Lieve  si può ritrovare nei bambini con un livello di QI da 70 a 55/50
o Moderato  ha un livello di QI che va da 50/55 fino a 35/40
o Grave  il livello di QI va da 35/40 fino a 20/25
o Gravissimo  il livello di QI è al di sotto di 25

Le matrici progressive di Raven e la scala di Wechsler


Un altro tipo di test è rappresentato dalle matrici progressive di Raven; è un test composto da 60 matrici
disposte in serie da 12 matrici ognuna.
Le matrici sono una sorta di disegno geometrico in cui in ognuno manca un pezzo: il soggetto deve
completare la parte mancante scegliendo il pezzo tra 6 o 8 alternative che gli vengono presentate e solo
una è quella corretta.
Man mano che il soggetto risolve la prima serie gli viene presentata quella successiva che ha una difficoltà
maggiore; per questo test non ci sono dei limiti di tempo prefissati.
Attualmente esistono tre forme di questo test che può essere sottoposto testando tre forme:
o Forma SPM (matrici progressive standard)  è la forma standard che viene utilizzata nella fascia di
età che va dai 6 anni ai 65 anni
o Forma APM (matrici progressive avanzate)  serve per valutare soggetti con livelli di sviluppo
cognitivo che presentano delle abilità superiori
o Forma CPM (matrici progressive colorate)  sono matrici colorate che generalmente vengono
somministrate nei soggetti compresi tra i 4 e gli 11 anni

La scala di Wechsler è un test utilizzato per la valutazione dell’intelligenza degli studenti e viene
somministrato individualmente a bambini di età compresa tra i 2 anni e 6 mesi e i 7 anni e 3 mesi; ci sono
poi anche le scale per bambini e adolescenti dai 6 ai 16 anni e quelle per adulti.
Al termine della somministrazione, oltre al quoziente intellettivo totale, si hanno 4 punteggi aggiuntivi:
indice di comprensione verbale, indice di ragionamento percettivo, indice di memoria di lavoro, indice di
velocità di elaborazione.
Accanto ai test di livello esistono anche i test di personalità che dovrebbero servire a raccontarci degli
aspetti e delle caratteristiche inerenti alla personalità del soggetto che abbiamo davanti; ci sono alcuni di
questi test che vengono utilizzati anche nel corso di perizie giuridiche, cioè può accadere che in alcune
cause il giudice richieda nel corso del processo una perizia psichiatrica.
Ci sono molti test di personalità, ad esempio il gruppo dei test carta e matita eseguiti su un foglio di carta
con una matita (matita n° 2) dal tratto medio perché anche il tratto ha una sua espressione; tra questi
ricordiamo il test di Bender o il test della figura umana della McKuhler.
I test di personalità che hanno anche una rilevanza in sede di processo civile e penale sono principalmente
due: MMPI-2 (Minnesota Multifasic Personality Inventory) e il test di Rorschach.
MMPI-2 è un questionario che si compone di 567 items, accanto ad ognuna delle quali c’è un vero o falso e
quando quella situazione per il soggetto è vera metterà vero oppure falso; è un test che si fa da soli, è
accettato nei tribunali perché è oggettivo, non è un test di intelligenza ma serve a valutare alcune
caratteristiche della personalità e quindi non esistono risposte giuste o sbagliate.
C’è poi un programma computerizzato in cui vengono inserite le risposte del soggetto e dal quale viene
fuori un profilo di personalità.
Questo è un test strutturato perché è binario (vero-falso) ed esplora gli strati più esterni della personalità; è
composto da 13 scale, 3 di validazione e 10 che esplorano altrettanti aspetti della nostra personalità.
Le 3 scale di validazione servono per capire se il soggetto sottoposto al test ha mentito, le 10 scale sono
cliniche.
Gli strati di personalità più profondi vengono analizzati attraverso i test di personalità proiettivi, chiamati
così perché proiettano le parti profonde della nostra personalità in superficie; sono dei test poco strutturati
proprio per permettere che parti profonde vengano alla luce e quello più utilizzato è il test di Rorschach.
È un test che propone delle figure con delle caratteristiche poco definite e questo fa sì che parti profonde,
nell’interpretazione che diamo di ogni figura, vengano alla luce; anch’esso va bene nelle sedi giuridiche
perché è un test oggettivo.
Alcune di queste figure sono monocromatiche, cioè nero-grigio, altre sono bicromatiche, cioè nero e rosso
e poi ci sono figure policromatiche che contengono molti più colori.
In queste figure ognuno ci vede quello che ci vuole vedere e infatti non si troveranno due test uguali
proprio per la varietà di risposte che ogni figura può suggerire; non esistono delle risposte giuste o sbagliate
ma ci sono delle risposte che ci permettono di accedere ad aspetti profondi della personalità.
In questo test l’esaminatore prepara dei fogli e scrive poi le risposte date, divide i fogli in colonna e in cima
alla prima colonna viene scritto “Van”, nella seconda “Pin”, nella terza “Inc” e l’ultima colonna viene
lasciata in bianco; la prima colonna sta per Vangelo e cioè tutte le risposte che quella persona dà per ogni
figura che le viene mostrata vanno trascritte fedelmente, dopo che la persona ha visto tutte le figure si
passa alla seconda colonna.
La seconda colonna sta per pinacoteca, si dice alla persona di immaginare di trovarsi in una galleria d’arte e
che tutte le immagini che sta per rivedere sono dei quadri ai quali si deve dare un titolo; superate le due
colonne il test è finito ma continua per consentire all’esaminatore di comprendere meglio e la terza
colonna sta per inchiesta in quanto si chiede alla persona di descrivere ciò che ha visto nell’immagine
motivando la sua risposta.
Accanto ai fogli preparati inoltre, ci si mette anche un timer perché anche il tempo è un parametro che
servirà per la quarta colonna; la quarta colonna serve a trasformare le risposte in sigle perché il programma
computerizzato le richiede  bisogna considerare la localizzazione della risposta (cioè dove si trova
nell’immagine la cosa vista dal soggetto), l’originalità e la banalità della risposta.
Una volta che le risposte sono state siglate vengono effettuati dei calcoli statistici che vanno a compilare il
cosiddetto psicogramma e alla fine dalle percentuali emerse, si delinea il profilo della personalità.
Il test di Rorschach è stato fatto sulla base della differenza di risposte date da 500 pazienti ricoverati nel
manicomio di Ginevra rispetto ad altri 500 soggetti ritenuti sani.
La diagnosi non si fa mai con i test ma serve eventualmente a convalidare una diagnosi clinica già fatta.
Per quanto riguarda l’aspetto cognitivo dei bambini c’è un uso di test specifici ma a volte l’uso può
diventare anche un abuso, cioè si dimentica che i test sono degli strumenti e possono essere prese in
considerazione delle generalizzazioni esagerate sulla base di un risultato del quoziente intellettivo.
Se ad esempio mi ritrovo davanti ad un ragazzino con un QI di 70 e ad un altro con 69 non posso dedurre
che il bambino con un QI di 69 è portatore di un ritardo e l’altro nella norma.
I test devono essere utilizzati accanto ad altri strumenti e perché siano efficaci devono essere affiancati da
una serie di informazioni sul soggetto (nel caso di un bambino va preso in considerazione il suo sviluppo, i
suoi risultati scolastici, le competenze sociali nelle relazioni, le esperienze familiari ecc.).

Le intelligenze multiple
Esistono diversi tipi di intelligenza che non possono essere riassunti in un numero che fornisce un quoziente
intellettivo; le teorie sulle intelligenze multiple parlano di modalità differenti nell’essere intelligenti.
Prima che Wechsler analizzasse l’intelligenza in termini di abilità generali Spearman elaborò la teoria
bifattoriale, secondo cui l’intelligenza è costituita da due fattori: un fattore generale g equivalente ad una
capacità mentale generale che condiziona le prestazioni dell’individuo in quasi tutti i compiti cognitivi e un
insieme di fattori specifici s che condizionano le prestazioni relative ad un compito.
Tra queste teorie le principali sono la teoria triarchica di Sternberg e i moduli mentali di Gardner.
Sternberg parla di una teoria triarchica secondo cui l’intelligenza si manifesta sotto tre forme differenti:
 Intelligenza analitica  caratterizzata soprattutto da un’abilità di analisi, giudizio e valutazione e da
una capacità di comparazione e contrapposizione
 Intelligenza creativa  rappresentata da un’abilità di creare, di disegnare, inventare in cui è molto
presente la capacità immaginativa
 Intelligenza pratica  predomina all’interno della modalità del soggetto di risolvere le
problematiche con cui si confronta, è l’abilità di applicare, usare e mettere in pratica

Sternberg ritiene che queste tre forme abbiano anche delle differenze nell’apprendimento, per cui gli
studenti che hanno prevalentemente un’abilità e un’intelligenza analitica tendono ad essere favoriti nei
compiti scolastici tradizionali, mentre gli studenti con un’intelligenza creativa saranno quelli che
mostreranno maggiori capacità nel dare risposte creative e avranno una minore tendenza a conformarsi
alle richieste degli insegnanti; infine gli studenti con una maggiore intelligenza pratica sono quelli che
mostreranno maggiori abilità sociali e che sembrano quelli maggiormente predisposti ad avere maggior
successo come imprenditori o manager.
La maggior parte dei compiti richiede una combinazione di queste tre modalità di intelligenza.
La teoria dei moduli mentali di Gardner invece ritiene che ci siano diversi tipi specifici di intelligenza che
derivano da distinti moduli mentali che sono 8:
1. Abilità verbali  caratterizzato dall’abilità di pensare attraverso le parole e utilizzare un linguaggio
per esprimere il pensiero e i soggetti che possiedono queste abilità faranno una migliore riuscita
nelle professioni di giornalista, presentatore, ecc.
2. Abilità matematiche  rappresentato dall’abilità nello svolgere operazioni logico-matematiche e le
professioni in cui questi soggetti riusciranno saranno quelle di ingegnere, scienziato, contabile, ecc.
3. Abilità spaziali  capacità di pensare in termini tridimensionali e le professioni maggiormente
adatte sono quelle dell’architetto, dell’artista, ecc.
4. Abilità corporeo-cinestetiche  abilità di manipolare gli oggetti e muoversi fisicamente nello spazio
e le professioni in cui i soggetti avranno successo sono quelle dell’artista ballerino, del chirurgo o
atleta.
5. Abilità musicali  rappresentato da intonazioni, sensibilità al ritmo e al tono e le professioni sono
quelle di musicista, compositore e psicoterapeuta
6. Abilità intrapersonali  è la capacità di comprendere se stessi e dirigere la propria vita e le
professioni sono lo psicologo e teologo
7. Abilità interpersonali  abilità di comprendere e relazionarsi in maniera efficacie con gli altri, le
professioni in cui maggiormente si avrà successo sono quella di insegnante e tutti quei mestieri che
ruotano intorno al prendersi cura della salute mentale.
8. Abilità naturalistiche  rappresentato dall’abilità di osservare la natura capendo i sistemi naturali e
quelli fatti dall’uomo e le professioni in cui si avrà maggiore successo sono quelle di ecologista,
botanico, ecc.

Gardner ritiene che ogni individuo possieda tutti gli 8 moduli anche se in misura diversa.
Recentemente Gardner ha considerato accanto a questi 8 moduli quello che potremmo definire un nono
tipo di intelligenza e cioè l’esigenza esistenzialistica  rappresentata dalla capacità di esplorare e trovare
significati nella vita; ci si pongono domande esistenziali sulla morte, sulla vita, sul senso dell’esistenza.
Inoltre ritiene che ognuna di queste forme di intelligenza può subire delle lesioni (ad esempio dalla
presenza di un danno cerebrale), ognuna ha delle implicazioni, cioè ognuna implica delle abilità cognitive
uniche (ognuno di noi possiede questi moduli in maniera diversa e unica e quindi ognuno di noi ha le
proprie abilità cognitive).
L’intelligenza si esplica in modo unico sia nel caso in cui ci troviamo di fronte a bambini plus-dotati, sia nel
caso in cui ci troviamo di fronte a bambini con dei deficit intellettivi ma che eccellono in uno dei moduli: per
esempio ci sono soggetti con un QI basso che possono eccellere in uno degli 8 moduli.
I bambini plusdotati hanno un quoziente intellettivo al di sopra della media (maggiore di 130) o hanno un
talento eccezionale in uno specifico dominio; i bambini plusdotati sono precoci, imparano in un modo
qualitativamente diverso dagli altri e sono motivati verso il dominio in cui sono abili.

L’intelligenza emotiva
Accanto alle teorie delle intelligenze multiple esiste anche un’altra teoria che riguarda l’intelligenza
emotiva; il concetto di intelligenza emotiva è stato creato da Jhon Mayer che l’ha definita come la capacità
di percepire e di esprimere le emozioni in modo accurato.
Ad esempio la capacità di prendere in considerazione la prospettiva dell’altro e di comprendere le sue
emozioni, di rispondere in maniera adeguata all’emozione che l’altro esprime, la capacità di monitorare le
proprie emozioni (soprattutto nel caso della rabbia).
Da un punto di vista neurologico la correlazione tra le dimensioni del cervello e l’intelligenza è poca; fino a
qualche decennio fa si pensava che l’area cerebrale in cui è localizzata l’intelligenza fosse il lobo frontale,
oggi si è visto che il lobo frontale non è l’unica area implicata nell’intelligenza in quanto c’è anche il lobo
parietale e in misura minore del lobo temporale, occipitale e del cervelletto  una lesione in queste aree
rappresenta anche un riscontro nelle capacità intellettive.
Non c’è una correlazione certa e sicura tra la velocità con cui il cervello immagazzina le informazioni che
vengono dall’esterno e la capacità intellettiva.
Indubbiamente l’ereditarietà e il corredo genetico hanno una loro importanza per quanto riguarda
l’intelligenza ma si è visto che anche l’ambiente, la cultura e l’educazione hanno un ruolo nello sviluppo
dell’intelligenza: questi aspetti sono rappresentati dallo status socio-economico, dal modo in cui i genitori
parlano con i figli, il supporto che i genitori danno ai propri figli, lo stile della vita familiare (i genitori
leggono, ecc.) e il tipo di scuola che i figli frequentano  una ricerca condotta in un paese africano ha
dimostrato che alcuni bambini fino ai 4 anni non sono potuti andare a scuola per mancanza di insegnanti;
quando sono tornati a scuola si è fatto un confronto tra questi bambini e altri che invece sono andati a
scuola e si è visto che il non essere andati a scuola per 4 anni ha inciso in maniera negativa sulle capacità
intellettive di quei bambini.

Test di intelligenza infantile


I test infantili contengono molti più item legati allo sviluppo percettivo motorio e comprendono inoltre
misure dell’interazione sociale; il primo studioso di test infantili fu Gesell che creò un metodo per aiutare a
distinguere i bambini a sviluppo tipico da quelli a sviluppo atipico.
La versione attuale del test di Gesell consiste in 4 categorie di comportamento: motorio, linguistico,
adattivo e personale-sociale.
Il quoziente di sviluppo assembla risultati ottenuti in queste categorie o subscale per ottenere un punteggio
generale.
Altre scale ampiamente utilizzate sono le scale dello sviluppo infantile di Bayley che servono a valutare il
comportamento dell’infante e predire lo sviluppo successivo; la versione attuale comprende 5 scale:
cognitiva, linguaggio, motoria, socioemozionale e comportamento adattivo.
Le prime tre scale sono somministrate interagendo direttamente con il bambino e le altre due attraverso un
questionario dato ai genitori; secondo queste scale un bambino di sei mesi dovrebbe riuscire a verbalizzare
piacere e sconforto, cercare di raggiungere oggetti appena fuori dalla sua portata e avvicinarsi ad uno
specchio posto di fronte a lui.
Entro i 12 mesi d’età il bambino dovrebbe riuscire ad inibire un comportamento se questo gli viene
ordinato e imitare le parole pronunciate dall’esaminatore rispondendo a semplici richieste.
La disabilità intellettiva è una condizione di limitata capacità mentale per cui l’individuo ha un basso valore
di QI, solitamente al di sotto dei 70 in un test standard di intelligenza, ha difficoltà di adattamento nella vita
di tutti i giorni e comincia a mostrare queste caratteristiche entro i 18 anni.

IL LINGUAGGIO
Nel 1799, finita la rivoluzione francese, fu ritrovato in Francia un bambino nudo e si considerò che avesse
un’età di circa 11 anni e venne chiamato “il ragazzo selvaggio” e coloro che lo studiarono stimarono che per
6 anni avesse vissuto nei boschi da solo; non ci fu nessuno sforzo da parte sua per imparare a comunicare
perché non aveva mai imparato a comunicare con qualcuno in modo efficace.
Nel 1970 nei dintorni di Los Angeles venne trovata una bambina, Giny, che era una ragazza selvaggia del
mondo moderno e nonostante con lei i ricercatori avessero fatto un buon lavoro, non riuscì mai a
sviluppare un linguaggio sufficientemente capace ma acquisì solo una forma molto limitata del linguaggio.
Attraverso questi due casi si capisce che il linguaggio è strettamente correlato alla capacità della
comunicazione e della relazione.
Il linguaggio può essere definito come una forma di comunicazione che può essere parlata, scritta, a gesti e
che è basata su un sistema di simboli; è rappresentato e consiste di parole usate in una data comunità ed è
caratterizzato da delle regole per modificare e combinare le parole tra di loro per formare delle frasi.
Il linguaggio serve a comunicare, a pensare e a ragionare.
Quando parliamo di linguaggio spesso allarghiamo il concetto anche al linguaggio del corpo ma è un uso
improprio perché nel corpo e nella gestualità c’è una comunicazione e non un linguaggio.
È impossibile una vita priva di linguaggio perché è lo strumento principale che ci permette di ricordare
avvenimenti passati, di parlare e immaginare il nostro futuro, di trasmettere informazioni da una
generazione all’altra e quindi di creare un’eredità culturale.
Il linguaggio è caratterizzato da diverse forme: verbale, non verbale, del corpo.
Si esprime attraverso la voce che può trasmettere anche le emozioni e i sentimenti con le varie intonazioni
(una voce paurosa, una voce di una persona depressa).
Il linguaggio presenta delle caratteristiche che lo distinguono:
1. La semanticità  il linguaggio non è rappresentato solo da suoni ma ai segni linguistici
corrispondono anche dei significati in quanto ogni suono ha un significato
2. L’arbitrarietà  la relazione tra suoni e significati è arbitraria nel senso che il significato di quello
che si dice non può essere ricavato dalla forma del suono a meno che non si utilizzano le parole
onomatopeiche; ad esempio la parola “gatto” non ha nessuna somiglianza con l’animale ma
arbitrariamente io a questa parola associo quell’animale a 4 zampe ecc. ma tra il suono e l’animale
non c’è nessuna relazione.
Se la relazione tra suoni e significati è arbitraria, il linguaggio deve essere imparato e trasmesso
culturalmente.
3. La convenzionalità  è legata alla trasmissione del linguaggio nel contesto socio-culturale al quale
si appartiene: per convenzione quella parola (alla quale la società in cui vivo ha dato quel
significato) considero che a gatto corrisponde quel determinato animale perché mi è stato
trasmesso dalla società.

Tutti i linguaggi umani hanno delle caratteristiche in comune ma di queste una caratteristica importante è la
generatività infinita  capacità di produrre un numero infinito di frasi comprensibili di senso compiuto
partendo da un numero finito di regole e di parole.
Ogni linguaggio ha anche 5 regole attraverso cui si produce:
1. La fonologia  sistema di suoni di una lingua e il fonema è l’unità di suono più piccola di una
lingua; rappresenta i tipi di suoni esistenti in quella lingua e il modo in cui vengono combinati tra di
loro
2. La morfologia  è la parte della linguistica che studia la struttura delle parole, i loro cambiamenti
di forma e i loro processi di formazione, per cui il suo oggetto di studio è l’insieme delle unità di
significato implicate nella formazione di una parola/sistema di unità di significato che opera nella
formazione delle parole, cioè unendo i diversi fonemi tra loro si arriva a formare delle parole
attraverso la morfologia.
Un morfema è un’unità minima dotata di significato, non può essere suddivisa in parti più piccole
3. La sintassi  modalità con cui le parole si combinano tra loro per formare delle frasi comprensibili
con un significato; per sintagma si intende un raggruppamento o un gruppo di parole che
costituiscono la frase
4. La semantica  ci dice qual è il significato di una parola o di una frase; ogni parola ha una serie di
caratteristiche semantiche legate al significato come ad esempio “ragazza” e “donna”: sono due
parole che contengono caratteristiche comuni ma dal punto di vista della semantica si distinguono
tra loro in relazione all’età (ragazza intende una giovane donna, donna intende una donna di età
avanzata)
5. La pragmatica  sistema che regola l’uso appropriato del linguaggio da utilizzare nella
conversazione e riguarda la conoscenza di come usare efficacemente il linguaggio in un
determinato contesto

Nel bambino c’è uno sviluppo del linguaggio che parte già al momento della nascita e i primi suoni della
formazione e dello sviluppo del linguaggio sono rappresentati dal pianto.
Tra il primo e il secondo mese di vita c’è un ulteriore sviluppo del linguaggio per cui il bambino comincia a
tubare (suoni in uu) e utilizza questo tipo di linguaggio nelle interazioni che ha con chi si prende cura di lui;
intorno a 6 mesi inizia la lallazione (o babbling), cioè il balbettio e il ripetere delle sillabe nell’intento del
bambino di attirare l’attenzione nei suoi confronti.
Nelle prime 2/3 settimane dalla nascita il bambino produce suoni di natura vegetativa e suoni legati al
pianto; questi suoni vengono definiti prepianto.
Si parla di vocalizzazioni non di pianto per definire le situazioni in cui il bambino inizia a giocare con i suoni
ripetendoli in modo sistematico; tra i 2 e i 3 mesi compaiono le imitazioni vocaliche, cioè i suoni che si
inseriscono tra i turni verbali del genitore.
Tra i 6 e i 12 mesi c’è un cambiamento nei bambini da linguisti universali ad ascoltatori specializzati; questo
cambiamento si è visto attraverso un esperimento fatto da Patricia Kuhl  tra i 6 e 12 mesi i bambini sono
in grado di distinguere i suoni di una lingua e quindi Patricia analizzò il modo in cui i bambini percepiscono i
suoni sottoponendoli ad ascoltare dei fonemi pronunciati da speaker di lingue diverse; ogni speaker
pronunciava la stessa sillaba ma nella sua lingua e quindi il suono cambiava a seconda della lingua.
Vicino al bambino veniva messa una scatola che conteneva un orsacchiotto di peluche e, se il bambino
girava la testa verso la scatola, la scatola si illuminava e l’orsacchiotto usciva; l’esperimento era concentrato
sul vedere se il bambino riusciva a percepire il cambiamento del suono e se di conseguenza girava la testa
verso la scatola.
L’esperimento dimostrò che i bambini percepivano il cambiamento del suono nella sillaba pronunciata.
Fino ai 6 mesi quindi i bambini sono dei cittadini del mondo perché riconoscono il cambiamento dei suoni
nella maggior parte dei casi; successivamente riescono a porre maggiore attenzione verso i suoni
pronunciati nella lingua in cui parlano i genitori e quindi diventano ascoltatori specializzati.
I bambini giapponesi fino ai 6/7 mesi sono in grado di riconoscere la differenza tra la r e la l, intorno ai
10/12 mesi questa differenza non la percepiscono più perché nella loro lingua originale il suono r non
esiste.
Tra gli 8 e i 12 mesi i bambini iniziano ad usare i gesti (gesti performativi o deittici) che esprimono
l’intenzione comunicativa del bambino e che vengono usati ad esempio per indicare oggetti, a mostrare
giocattoli; si tratta di tre gesti: indicare, mostrare e richiedere.
Per Vygotskij il pointing può derivare da un’abbreviazione del gesto di afferrare; nel caso della funzione
richiestiva il bambino indica per chiedere, nella funzione dichiarativa il bambino indica per richiamare
l’attenzione dell’adulto su un oggetto. La mancanza di pointing è da considerare un indicatore importante
di problemi nel sistema comunicativo del bambino.
Altri gesti (gesti simbolici, referenziali, rappresentativi o iconici) compaiono tra i 12 e i 18 mesi e hanno un
referente specifico indipendente dal contesto, ossia il loro contenuto semantico non varia al variare del
contesto.
L’attenzione condivisa è il fenomeno per cui il bambino e l’adulto guardano lo stesso oggetto esterno alla
diade e allo stesso tempo mantengono un coinvolgimento sociale reciproco.
Tra gli 8 e i 12 mesi inoltre i bambini cominciano a manifestare una maggiore comprensione delle parole
che gli vengono dette e intorno ai 13 mesi cominciano a pronunciare le prime parole.
Quando si arriva a circa 18 mesi c’è quella che viene definita come l’esplosione del vocabolario, in quanto
da qui fino ai 2 anni i bambini iniziano ad usare delle espressioni con frasi di due parole (olofrase o frase
monorematica) e c’è un ampliamento della comprensione delle parole.
Per quanto riguarda la lettura, lo sviluppo è meno rapido di quanto accade per l’acquisizione del linguaggio.

Apprendimento: lettura e scrittura


La consapevolezza metalinguistica si riferisce alla conoscenza del linguaggio che permette ai bambini di
capire cosa siano le parole e persino definirle.
Così come il bambino non impara il linguaggio di colpo, lo stesso accade per il leggere e lo scrivere in
quanto apprende attraverso degli stadi che sono consequenziali e connessi l’uno con l’altro.
Per quanto riguarda la lettura l’apprendimento avviene attraverso 5 stadi, ognuno dei quali è caratteristico
di un arco cronologico; le soglie che contraddistinguono ogni stadio non sono rigide ma ci sono delle
variabili.
Le soglie sono approssimative e non possono essere applicate a tutti i bambini, cioè se il bambino non
impara a leggere in un determinato arco di tempo non significa che abbia un disturbo in quanto c’è
un’elasticità nelle soglie di età e negli stadi; i 5 stadi della lettura sono:
 Stadio zero  va dalla nascita all’ingresso nella scuola primaria, in questo periodo i bambini
possiedono molti prerequisiti che li porteranno poi a poter leggere: ad esempio imparano che c’è
una progressione per leggere che va da sinistra a destra (per gli occidentali), hanno la capacità di
riconoscere le lettere dell’alfabeto, i bambini fanno anche il loro ingresso alla scuola materna e
quindi un altro prerequisito è quello di cominciare a scrivere i loro nomi e leggere le insegne,
cominciano ad associare le parole scritte alle immagini
 Stadio uno  va dal primo al secondo anno di scuola primaria, in questo periodo molti bambini
imparano a leggere e completano la loro conoscenza delle lettere, dei nomi e dei suoni da associare
ad ogni segno grafico, cioè cominciano ad associare un suono specifico alla lettera che vedono
scritta
 Stadio due  è compreso tra il secondo e il terzo anno della scuola primaria, in questo arco di
tempo i bambini diventano più abili nella lettura (maggiore fluidità, scioltezza) ma ancora i bambini
non riescono ad utilizzare la lettura per apprendere perché le sue energie sono indirizzate nel
riconoscimento di quello che c’è scritto
 Stadio tre  rappresenta il quarto e il quinto anno di scuola primaria, in questo periodo i bambini
iniziano a leggere per imparare, cioè riescono a legare la lettura all’apprendimento e quindi hanno
anche la capacità di ricordare e riassumere quello che hanno letto
 Stadio quattro  corrisponde all’arco d’età in cui il bambino entra nella scuola media, in questo
stadio molti bambini vengono definiti “lettori competenti” in quanto sviluppano la capacità di
comprendere le informazioni che un brano presenta e riescono a sviluppare la capacità di
comprendere le informazioni dal brano associandole a più prospettive e facendole proprie; questo
fa sì che si impegnino in discussioni più approfondite riguardo ciò che hanno letto perché hanno
una maggiore capacità di elaborazione del contenuto

Per far sì che il bambino apprenda la lettura si possono seguire due approcci: olistico o integrale al
linguaggio e il secondo è definito approccio sulle abilità di base e sulla fonologia.
L’approccio olistico o integrale (o globale) in Italia viene utilizzato nella scuola primaria; questo approccio
dice che per imparare a leggere le istruzioni dovrebbero andare di pari passo con l’apprendimento naturale
della lingua nei bambini e cioè il materiale di lettura che si dà ai bambini dovrebbe essere completo nella
sua forma (ad esempio una storia o una poesia) così che i bambini possano cominciare ad imparare che
leggere significa comunicare.
Si dà al bambino una frase che abbia un senso che serve per comunicare un’azione e con la quale il
bambino deve imparare la lettura e poi la scrittura
La lettura è collegata alla scrittura e alla capacità di ascolto ed è importante anche che accanto all’utilizzo di
queste frasi vengano proposte al bambino delle piccole poesie; si è visto che imparare a memoria delle
poesie aiuta nella comprensione della lettura e nell’unificare due aspetti cognitivi importanti, cioè lettura e
comunicazione/rievocazione.
Lo sviluppo cognitivo del bambino passa anche attraverso l’apprendimento a memoria e attraverso la
capacità di apprendere e poi di rievocare e quindi è importante anche la poesia a memoria proprio perché
serve a comprendere la funzione comunicativa del linguaggio  a cognizione e l’emozione sono in realtà
collegate perché la lettura comunica anche delle emozioni.
L’approccio sulle abilità di base e sulla fonologia sostiene che per iniziare a leggere bisogna insegnare la
fonetica e le regole principali per poi tradurre i simboli scritti in suoni; a partire dall’apprendimento della
fonologia e dell’associazione del fonema (parte più piccola di una parola) scritto al suono, si passa alla
lettura di testi completi.
Generalmente questi due approcci possono essere complementari e quindi non c’è una prevalenza di uno
sull’altro ma c’è la possibilità di arricchire l’uno con l’altro utilizzandoli insieme.
Per i bambini italiani e tedeschi risulta più facile associare il fonema scritto con la pronuncia perché sono
due lingue trasparenti, nel senso che la pronuncia delle parole può essere ricavata quasi sempre
dall’applicazione di un insieme di regole che permette la conversione tra grafema e fonema: il segno scritto
corrisponde a come lo pronuncio.

Scrittura
Accanto alla lettura c’è anche la scrittura; i bambini iniziano a scarabocchiare già intorno ai 2-3 anni,
quando le abilità motorie sono abbastanza sviluppate da permetterglielo.
Anche per scrivere è necessario un tempo per imparare a scrivere, intorno ai 4 anni iniziano a scrivere il
proprio nome e a 5 anni la maggior parte dei bambini è in grado anche di avere la capacità di leggere delle
paroline; con l’ingresso nella scuola primaria iniziano a scrivere e ci saranno molti errori, ad esempio alcuni
bambini invertiranno delle lettere speculari come la b e la d ed è naturale che questo avvenga perché
l’apprendimento e la crescita si sviluppano anche attraverso l’errore.
Di fronte a questi errori è importante che genitori e insegnanti mostrino anche un incoraggiamento,
notando l’errore ma senza preoccuparsi troppo; dopo anni il bambino diventerà uno scrittore competente.
Il linguaggio, l’apprendimento della lettura e della scrittura sono aspetti che appartengono allo sviluppo e
alla crescita del bambino e Vygotskij addirittura collega in maniera molto diretta linguaggio e sviluppo
cognitivo.
Riguardo il rapporto tra linguaggio e aspetti cognitivi: da adolescente Wendy pensava di poter diventare
una scrittrice professionista e diceva che avrebbe scritto palate di libri, pagina dopo pagina; già da piccola
mostrava interesse per la scrittura e per raccontare le storie, aveva un vocabolario ricco e probabilmente
da questi elementi non si riuscirebbe a capire che Wendy ha un QI pari a 49, che non riesce ad allacciarsi le
scarpe, ad attraversare la strada e che non riesce a scrivere parole al di là del primo anno scolastico perché
ha la sindrome di Williams.
La sindrome di Williams è una condizione genetica che colpisce un bambino ogni 20.000 nati; i sintomi sono
rappresentati da abilità espressive e narrative uniche ma unite ad un QI molto basso che non le permette di
poter fare gesti che riguardano la propria autosufficienza.
Questa sindrome ci indica che il linguaggio sembra essere, a livello del nostro sistema nervoso centrale,
sotto il controllo di moduli neuronali di aree cerebrali diverse e indipendenti rispetto ad altre aree che
invece sono deputate ad elaborare informazioni di altro tipo; il linguaggio dipende dalla conformazione
anatomica (corde vocali e apparato faringeo) che permette la fonazione ma quello che noi diciamo, cioè il
contenuto del linguaggio, dipende da delle aree del nostro cervello.
In primo luogo dipende da due aree che si trovano nell’emisfero sinistro del cervello e sono l’area di Broca
(zona del lobo frontale sinistro che controlla il movimento muscolare coinvolto con l’articolazione delle
parole e che quindi rende il nostro linguaggio intellegibile) e l’area di Wernicke che è coinvolta nella
comprensione del linguaggio.

LE EMOZIONI
L’enciclopedia Treccani definisce l’emozione come un processo interiore suscitato da un evento-stimolo
rilevante per gli interessi di un individuo; l’emozione si accompagna a sentimenti, cambiamenti fisiologici e
comportamenti espressivi, all’impulso, all’azione e ad alcune risposte interne.
Da un punto di vista psicologico l’emozione è vista come un allontanamento dello stato di quiete che si
accompagna ad impulsi e a risposte interne.
Alcune delle nostre emozioni sono innate e sono tutte quelle forme di interazione nei primi mesi di vita che
vengono definite “dialoghi sociali” e sono caratterizzati da cambi di sguardi, sorrisi tra madre e figlio,
vocalizzazioni, ecc.; il neonato comincia a provare emozioni già alla nascita e un esempio è il pianto dopo il
parto.
Darwin sosteneva che le emozioni umane sono innate, universali e a base evoluzionistica, cioè servono alla
sopravvivenza dell’individuo e della specie; la cultura di appartenenza influenza l’espressione delle
emozioni; l’espressione delle emozioni è l’abilità di comunicare gli stati emozionali sttraverso il linguaggio
verbale e non verbale.
Tutte le emozioni che troviamo hanno la stessa importanza e vengono distinte in due gruppi:
 Emozioni primarie o semplici  sono stati emotivi presenti fin dalla nascita e sono essenziali
perché permettono la sopravvivenza dell’individuo e della specie; permettono inoltre al neonato di
formare una relazione con chi si prende cura di lui. Le emozioni primarie sono delle emozioni che la
specie umana condivide anche con le altre specie viventi (mammiferi). Queste emozioni sono:
- Rabbia
- Paura: si dice che sia la madre delle emozioni e ha l’obiettivo di sostenere la sopravvivenza
di fronte ad una situazione pericolosa
- Tristezza: si origina dalla presenza di una perdita o perché ci si è prefissati un obiettivo che
non è possibile raggiungere
- Gioia
- Sorpresa: si origina da un evento che non ci aspetta
- Disgusto

 Emozioni secondarie o complesse  cominciano a manifestarsi tra i 18 e i 26 mesi, vengono


definite anche emozioni sociali in quanto nascono dall’emergere della consapevolezza di sé in
quanto il bambino comincia a considerarsi differente dall’altro; le emozioni sono:
- Vergogna
- Orgoglio
- Colpa
- Gelosia

Le emozioni nascono insieme all’uomo e con la storia dell’umanità e infatti tutte le rappresentazioni
artistiche dell’umanità sono intrise di emozioni; le emozioni colorano tutte le esperienze della vita e
occupano una posizione centrale, accompagnano ogni nostra azione e sono al centro delle relazioni con noi
stessi e con gli altri.
Se le relazioni rappresentano il senso della vita, allora le emozioni sono importanti nel rapporto tra
educatore e bambino ed è importante riconoscere e accoglierle per poter riconoscere e comprendere le
emozioni di un bambino o di uno studente.
Noi possiamo guidare e portare l’altro nel rapporto, sia nel rapporto educativo della scuola che in un
percorso di psicoterapia, fin dove noi stessi siamo arrivati altrimenti si rischia di andare entrambi fuori
strada; la conoscenza delle proprie emozioni è quindi fondamentale per le professioni lavorative.
È quindi importante che ciascuno di noi possa restare in contatto con se stesso, possa conoscere se stesso
mantenendo la propria autenticità perché è questo che permette di ascoltare l’altro e di entrare in empatia
con l’altro; l’ascolto e l’empatia sono gli aspetti senza i quali non è possibile entrare in rapporto con gli altri.
Anche nel silenzio passano le emozioni come la frustrazione, la gratitudine perché l’altro mi sta rispettando
e quindi anche il silenzio è rappresentato da emozioni.
Soprattutto i bambini e gli adolescenti non sanno nominare i sentimenti e le emozioni e quello che provano
è un’esplosione di emozioni che devono imparare a distinguere, devono capire che la gioia è differente
dalla rabbia; questo apprendimento può essere raggiunto con il rapporto con l’adulto e con l’osservazione
dei modi in cui gli adulti esprimono i loro sentimenti in modo che potranno manifestare le proprie emozioni
differenziandole  di conseguenza è importante che gli adulti non nascondano le loro emozioni davanti ai
bambini.
Crescere vuol dire imparare a modulare la propria emotività senza soffocarla ma trovando il modo per
esprimere le proprie emozioni e ogni età ha un modo differente di farlo: a 3/4 anni un bambino esprimerà il
proprio desiderio e la propria frustrazione di fronte ai genitori che non lo accontentano attraverso il pianto
e il capriccio.
Insegnare ai bambini e agli adolescenti che ci sono dei confini che il mondo mette di fronte al desiderare
una realizzazione immediata, farà sì che quel bambino o adolescente tollererà la frustrazione e raggiungerà
un equilibrio nel relazionarsi con se stesso e con l’altro oltre a sviluppare un’empatia nei confronti
dell’altro.
Occorre trasformare le emozioni in dialogo, in parole e questo significa anche costruire una relazione in cui
l’adulto diventa la figura di riferimento nel rapporto con la quale i bambini e gli adolescenti possano sentirsi
compresi, protetti e sufficientemente sicuri; più un bambino sente che le sue emozioni sono comprese, più
impara a regolare se stesso e le proprie emozioni.
Oggi i ragazzi vivono in un contesto sregolante a causa della tecnologia in cui molto spesso ci sono dei
videogiochi molto eccitanti in cui si sta lì per ore e quindi la generazione attuale di adolescenti rappresenta
una difficoltà quando si tratta di regolare le emozioni; per portarli verso la regolazione delle emozioni
bisogna sciogliere mano a mano la zona ultra eccitante (dove invece sono abituati a vivere) dettando alcune
regole.
Un genitore/educatore presente è anche un genitore/educatore contenitivo, che riconosce l’emozione del
ragazzo, la legittima ma allo stesso la contiene e si pone come guida nei confronti del bambino; è quindi
fondamentale che esista uno stile genitoriale, educativo e un modello psicoterapeutico per poter far
crescere e confrontare i bambini e gli adolescenti con le loro emozioni.
Caso clinico (un’emozione rappresentata dall’amore e dalla tristezza):
Queste due emozioni si accavallano in un individuo che sta subendo un cambiamento negativo che porta
all’espressione di queste emozioni con la mancanza di una competenza emotiva; il soggetto è B, un uomo di
44 anni, sposato e con due figlie adolescenti.
Dopo 14 anni di convivenza la moglie decide di chiedere la separazione, in seguito alla quale B entra in un
periodo depressivo caratterizzato da crisi di pianto, indifferenza per l’ambiente circostante, assenza dal
posto di lavoro e pensieri autolesionistici (comunicati anche alla moglie con il tentativo di farla tornare
indietro e ne parla anche ai figli); in questa situazione B si rivolge allo psichiatra.
La sua richiesta non riguarda il suo stato emotivo ma chiede che il medico possa intervenire con la moglie
consigliandole di rimanere insieme a lui.

Presentazione di se stesso e della sua famiglia d’origine e terapia:


Afferma di venire da una famiglia unita in cui era figlio unico e i suoi genitori sono rimasti insieme fino alla
morte di suo padre, dice di sapere cosa si prova a stare da soli perché lo ha visto in sua madre e di
conseguenza non vuole vivere come lei.
Nel primo incontro gli viene somministrato l’MMPI e non viene stabilita nessuna terapia farmacologica ma
si fa un contratto che prevede dei colloqui di sostegno con frequenza settimanale; nella settimana seguente
B si chiude in bagno e si taglia le vene dei polsi ma viene soccorso in tempo dalla moglie che stava tornando
dal lavoro.
La moglie faceva l’insegnante e B sapeva benissimo quali fossero gli orari della moglie e quindi diciamo che
si era trattato di una manifestazione di una richiesta d’aiuto.
Nel secondo incontro viene stabilita una terapia farmacologica che si utilizza nel caso di comportamenti
violenti autodiretti associati ad un calo del tono dell’umore; emergono poi anche i risultati del test di
personalità che mettono in evidenza uno spiccato individualismo, rigidità e difficoltà nell’accettare le
critiche, tendenza ad essere sospettoso nei confronti degli altri fino a considerarli ostili, una mancanza di
energia mentale collegata al calo del tono dell’umore, tratti di carattere ossessivo che si presentano sotto
forma di precisione e coesistono manifestazioni ansiose.
Nelle sedute successive B continua a dire di volersi togliere la vita anche se via via si dimostra meno triste e
con qualche progetto per il proprio futuro (una grave depressione toglie anche la capacità di pensare e
progettare il proprio futuro) anche se rimane restìo a lasciare l’abitazione coniugale.
Nel giro di 2/3 mesi B comincia a riprendere le sue abitudini: torna al lavoro, allo stadio e alla fine decide di
rivolgersi ad un avvocato per la separazione; “attualmente” B vive nella casa con la madre nell’attesa di
trovare un appartamento in affitto e non ha più agito intenzioni suicide.
Dopo circa un anno ha trovato un appartamento, è uscito dall’isolamento sociale e ha ricominciato ad avere
una vita sufficientemente positiva.

Questo caso clinico è caratterizzato da molte emozioni e va a sottolineare il fatto che le emozioni sono gli
aspetti che colorano la vita e sono al centro della relazione con noi stessi e con gli altri; le emozioni sono
fondamentali ma per molti anni nello studio dello sviluppo dei bambini gli specialisti non le hanno
considerate abbastanza, cosa che negli ultimi decenni è cambiata perché anche i bambini mostrano
differenti stili emotivi.
Esibiscono infatti dei temperamenti variabili e costruiscono dei legami affettivi con chi si prende cura di
loro.

Perché le emozioni sono importanti per lo sviluppo?


Un’altra definizione di emozione è quella che la qualifica come uno stato affettivo che si presenta quando
una persona si trova nel corso di un evento piacevole o meno: l’innamoramento è un’emozione nel
momento in cui la persona si trova in quell’evento, la paura è un’emozione quando una persona si trova al
centro di un evento (trauma, catastrofe, ecc.).
La presenza dell’emozione si vede dalla manifestazione del comportamento che quella persona dimostra; il
comportamento può riflettere il piacere che deriva dall’emozione o può riflettere un momento che la
persona sta vivendo  possiamo dire quindi che l’emozione è un fenomeno complesso che deriva da
un’interazione tra fattori soggettivi e oggettivi.
Uno dei fattori che indicano la presenza dell’emozione è rappresentato dalle risposte fisiologiche (la
sudorazione soprattutto delle mani, rossore del viso), dalla comunicazione non verbale (espressione del
volto, la postura) e dalle reazioni soggettive che ognuno ha e che sono caratteristiche differenti che
troviamo in ogni persona.
Questi tre fattori si manifestano quando una persona prova una determinata emozione.
Le emozioni vanno distinte dagli stati d’animo perché questi ultimi corrispondono ad un umore diffuso e
non sono accompagnati dalle risposte fisiologiche; lo stato d’animo inoltre è una modalità di essere di
ciascuno di noi che perdura nel tempo, mentre l’emozione si spegne rapidamente.
Si potrebbe fare un’ulteriore distinzione delle emozioni classificandole in:
 Emozioni positive  ci fanno stare bene e sono la gioia, l’amore, l’entusiasmo, ecc.
 Emozioni negative  ci fanno stare male e sono la rabbia, la tristezza, il senso di colpa, ecc.

Gli aspetti che influenzano le emozioni


Le emozioni sono influenzate da due aspetti: la base biologica che tutti abbiamo e dall’esperienza che è
collegata con la cultura nella quale ciascuno di noi vive.
La base biologica di ognuno è connessa al sistema nervoso centrale; riguardo a questo Darwin affermava
che le espressioni facciali delle emozioni nella nostra specie sono innate, sono universali e su base
evoluzionistica (cioè servono alla sopravvivenza dell’individuo e della specie).
Ancora oggi si ritiene valida la teoria di Darwin in quanto si ritiene che le emozioni e le espressioni facciali
delle emozioni abbiano un fondamento biologico che coinvolge lo sviluppo del sistema nervoso centrale e
in particolare lo sviluppo del cervello  le espressioni sono collegate con il cervello e cambiano con la
maturazione del nostro sistema nervoso centrale.
Le emozioni sono collegate soprattutto a quelle regioni del cervello che hanno uno sviluppo precoce come il
sistema limbico, cioè la zona situata nella sostanza bianca del cervello; durante l’infanzia e l’età prescolare
vengono interessate anche altre aree del cervello nell’espressione delle emozioni e sono rappresentate
dalle regioni prefrontali della corteccia (sostanza grigia del cervello)  se c’è una lesione a livello dell’area
prefrontale si perdono delle inibizioni e quindi esprimiamo le emozioni in modo inappropriato.
Le regioni che sono situate nella corteccia esercitano quindi un controllo sul sistema limbico che invece è
più primitivo e non ha la capacità di regolare le nostre emozioni ma si limita ad originarle; man mano che i
bambini si sviluppano la maturazione della corteccia porta ad un aumento della regolazione
dell’espressione delle emozioni, tranne nell’adolescenza in cui i cambiamenti dell’umore possono essere
repentini e numerosi perché in questo periodo all’interno del sistema limbico raggiunge il massimo sviluppo
l’amigdala.
L’amigdala è una ghiandola del cervello che ha la forma di una mandorla ed è situata nel sistema limbico;
man mano che l’amigdala cresce le aree cerebrali nella corteccia hanno meno autocontrollo nella capacità
dell’espressione delle emozioni.
Per quanto riguarda l’esperienza culturale, ogni cultura di appartenenza influenza l’espressione delle
emozioni: i bambini cresciuti nella cultura orientale mostrano molto meno frequentemente le espressioni
delle loro emozioni rispetto invece all’intensità con cui le dimostrano i bambini che sono cresciuti e vivono
nella cultura occidentale.
Questo perché nelle culture orientali i genitori incoraggiano i bambini alla riservatezza sia nel caso di
emozioni positive che negative.
L’evoluzione biologica ci ha dato la possibilità di essere emotivi ma la cultura in cui cresciamo e i rapporti
interpersonali determinano le differenze nella modalità di esprimere le emozioni; tutti abbiamo le stesse
emozioni perché sono innate ma la modalità di espressione cambia.

L’approccio funzionalistico
Un tipo di approccio teorico alle emozioni è quello funzionalista: alcuni teorici tendono a vedere le
emozioni come il risultato dei tentativi degli individui di adattarsi a ciò che richiede uno specifico contesto
in un determinato momento.
Si potrebbe quindi dire che le risposte emotive di un bambino non possono essere separate dai contesti e
dalle situazioni che le hanno provocate e molto spesso queste situazioni rappresentano dei contesti
interpersonali, ovvero momenti in cui si svolge una relazione, un rapporto.
Le emozioni e il modo in cui noi le esprimiamo hanno una funzione importante che è quella di segnalare a
chi ci è vicino come noi ci sentiamo e cosa proviamo in quel momento  le emozioni quindi giocano anche
un ruolo importantissimo nelle relazioni e ci permettono di scoprire l’empatia attraverso gli scambi sociali,
cioè così come noi comunichiamo all’altro come ci sentiamo, riusciamo anche a capire come si sente l’altro
nel rapporto con noi.
L’approccio funzionalistico implica un’enunciazione e cioè che le emozioni sono dei fenomeni relazionali
piuttosto che fenomeni interni e intrapsichici; sulla base di questo approccio l’emozione è percepita più
come aspetto di un fenomeno relazionale che non come un fenomeno strettamente interno all’individuo.
Nella relazione genitore-bambino la risposta emotiva che il bambino dà al genitore e viceversa, deriva da
uno scambio relazionale dentro il quale si manifestano e si esprimono le emozioni sia da parte del bambino
che da parte dei genitori.
Inoltre da questo approccio emerge che le emozioni che si provano sono collegate in vari modi a degli
obiettivi individuali che ciascuno si è proposto: ad esempio in un bambino che si è proposto di superare un
ostacolo, l’emozione collegata al superamento sarà la gioia; nel caso della rabbia, questa emozione viene
manifestata a seconda dell’età del bambino perché la vita emotiva cambia e si sviluppa con il cambiare
dell’età.
Ci sono degli indicatori dello sviluppo emotivo che avviene in un bambino e sono:
 Competenza emotiva  è l’indicatore chiave e si definisce come l’abilità di affrontare in maniera
funzionale le proprie emozioni e quelle altrui nell’ambito della vita quotidiana mantenendo o
modificando in modo adeguato e socialmente appropriato gli scambi con l’ambiente circostante;
c’è un adeguarsi nelle relazioni e questa capacità è determinata dalla cultura (in ogni cultura ci sono
delle modalità diverse di rapportarsi adeguatamente con gli altri) e dal livello cognitivo che il
bambino ha raggiunto (per manifestare disapprovazione o rabbia un bambino di 3 anni si
comporterà in modo diverso da un ragazzo di 20 anni).
Una ricercatrice, Saarni, ritiene che per diventare emotivamente competenti sia necessario
sviluppare delle abilità collegate con gli archi di età in cui il bambino si trova in un determinato
momento; queste abilità sono:
- L’autoefficacia emozionale che il bambino raggiunge nella prima infanzia
- La consapevolezza che l’esprimere le emozioni gioca un ruolo importante nelle relazioni e si
acquista da 1 a 3 anni
- La capacità di affrontare in maniera adattiva le emozioni negative utilizzando delle strategie
di autoregolazione che possono ridurre l’intensità e la durata degli stati emotivi e viene
scoperta nella seconda infanzia (periodo prescolare: dai 3 ai 5 anni)
- La comprensione che differenzia lo stato emotivo interno dall’espressione esterna, cioè è la
scoperta e la comprensione di poter differenziare l’emozione che internamente provo e
come la esprimo e il bambino lo scopre nel periodo della scuola elementare
- La sensibilità empatica e solidale alle esperienze emotive degli altri e il bambino la
raggiunge nell’adolescenza (10-20 anni) ed è la capacità di comprendere lo stato emotivo
dell’altro
- La conoscenza e l’utilizzo di un lessico emozionale appropriato da un punto di vista
culturale e sociale e questo avviene all’inizio dell’età adulta (tra i 20 e i 30 anni)
- La capacità di comprendere meglio le emozioni dell’altro e si raggiunge tra i 40 e i 50 anni
- La consapevolezza degli stati emotivi che si raggiunge nella vecchiaia

Man mano che i bambini acquisiscono queste abilità nei vari contesti in cui vivono e si relazionano
potranno vivere con maggiore efficacia i loro rapporti e potranno sviluppare una maggiore capacità di
resilienza di fronte ad eventi stressanti che possono accadere nella vita di ciascuno.
La resilienza è un termine che nasce all’interno della scienza dei materiali e va ad indicare la proprietà che
hanno alcuni materiali di conservare la propria struttura o di riacquistare la propria forma originaria dopo
essere stati sottoposti ad uno schiacciamento o deformazione; nell’ambito della biologia e dell’ecologia la
resilienza esprime la capacità di un sistema di ritornare al proprio stato di equilibrio dopo che ha subito un
evento perturbante.
Dal punto di vista psicologico la resilienza è la capacità delle persone di riuscire ad affrontare gli eventi
stressanti o traumatici e di riorganizzare in maniera positiva la propria vita di fronte alle difficoltà e quindi
consente all’individuo di adattarsi alle avversità che incontra nel corso della vita.
Essere resilienti non significa solo opporsi alle resistenze dell’ambiente ma indica anche una dinamica
positiva che è la capacità di andare avanti permettendo la ricostruzione di un percorso di vita; si possono
anche attraversare dei momenti in cui ciò che accade è estremamente pesante da sopportare e questo può
generare un’instabilità più o meno duratura che ci pervade e fa venir meno la capacità di resilienza  ogni
essere umano ha una resilienza anche se in gradi diversi.
Le persone con un alto livello di resilienza possiedono tre caratteristiche, cioè:
1. Impegno  tendenza che questi soggetti hanno nel lasciarsi coinvolgere maggiormente nelle
attività e quindi sono più attivi anche nelle relazioni
2. Locus of control interno  la convinzione di poter governare ciò che accade al punto di non sentirsi
in balia di questi eventi; anche qui emerge il dualismo attività-passività in quanto sono dei soggetti
convinti di potersi imporre attivamente sugli eventi che si verificano piuttosto che lasciarsi
dominare passivamente
3. Gusto per la sfida  rappresenta un’elasticità ad accogliere i cambiamenti non vivendoli come un
problema

Di fronte ad ogni cambiamento ci viene un po’ d’ansia poiché siamo posti davanti alla necessità di uscire da
un equilibrio che si era trovato nella situazione precedente e costruire un equilibrio nuovo e quindi bisogna
avere consapevolezza di queste tre caratteristiche che possono essere incoraggiate e coltivate  in tutti gli
individui c’è la resilienza che può essere accresciuta con la consapevolezza e l’acquisizione di queste tre
caratteristiche.
Avere un’alta resilienza non significa essere infallibili ma significa essere disposti al cambiamento,
affrontare le difficoltà senza farsi sopraffare, essere disposti a pensare di poter sbagliare e di poter
correggere.
Nella resilienza ci sono anche dei fattori di rischio che la indeboliscono e dei fattori protettivi che fanno sì
che si consolidi; tra i fattori di rischio ci sono:
o Fattori emozionali personali  un bambino che è stato sottoposto a degli abusi, uno scarso
controllo emozionale, un’autostima bassa
o Fattori emozionali interpersonali  minore resilienza se si riceve un rifiuto da parte dei pari, se si è
stati vittima di bullismo o di isolamento, se si è vissuta un’esperienza di chiusura nei rapporti
o Fattori familiari  bambini che provengono da una bassa classe sociale sono più a rischio di avere
un basso livello di resilienza, bambini che hanno vissuto l’esperienza di famiglie altamente
conflittuali, bambini che hanno vissuto in una famiglia con dei disturbi nella comunicazione
o Fattori di sviluppo individuale  bambini con un ritardo mentale, bambini con dei disturbi nella
lettura o nell’attenzione possono avere meno resilienza

Tra i fattori protettivi invece troviamo:


o Fattori individuali  aumenta la resilienza il fatto di essere il primogenito, un buon temperamento,
la sensibilità individuale, l’autonomia, possedere un buon vocabolario, la fiducia in sè
o Fattori familiari e sociali  il parenting dato al bambino nel primo anno di vita (Ericson diceva che
nel primo anno di vita il bambino sperimenta il binomio fiducia-sfiducia) e quindi un fattore
protettivo è il fatto che il caregiver sia in grado di trasmettere al bambino che il mondo è un posto
buono, un altro fattore è la qualità del rapporto della coppia genitoriale, il sostegno che il padre dà
alla madre nell’accudimento del bambino, la coerenza nel dare e nel far rispettare le regole perché
il rapporto genitore-figlio non deve essere un rapporto orizzontale e amicale ma deve essere un
rapporto verticale, un altro fattore è il rapporto con i parenti e i vicini di casa

Ci sono poi delle componenti che fanno sì che la nostra resilienza si sviluppi e cioè:
 Ottimismo  disposizione a cogliere e visualizzare maggiormente l’aspetto positivo delle cose
perché chi è ottimista in qualche modo tende a sviluppare di più la capacità di sminuire le difficoltà
della vita e l’ottimista riesce anche a mantenere una lucidità sufficiente per riuscire a trovare una
soluzione nella situazione di stress o evento traumatico in cui si trova ad essere coinvolto
 Autostima  livello della stima che abbiamo per noi stessi e questo perché un bassa
considerazione di sé ci induce ad essere più autocritici e a dare un maggior valore al giudizio degli
altri su noi stessi e questo può associarsi ad una quota maggiore di dolore; un basso livello di
autostima rappresenta anche un fattore di rischio nella possibilità di sviluppare dei sintomi
depressivi
 Robustezza psicologica (ardines)  è rappresentata dalla capacità di controllo, cioè avere la
convinzione di essere in grado di poter rispondere ad eventuali fattori stressanti mobilitando delle
risorse personali, è rappresentata dall’impegno, cioè riuscire a definire gli obiettivi significativi per
la propria vita e il proprio futuro e poi è data anche dalla sfida (possibilità di vedere i cambiamenti
come delle opportunità e non come una minaccia delle proprie sicurezze)
 Emozioni positive  cioè focalizzarsi su quello che si ha invece che rimpiangere ciò che ci manca e
ricavare da questo avere una sufficiente positività
 Supporto sociale  l’esperienza di sentirsi oggetto d’amore e di essere sufficientemente stimati e
apprezzati quindi è importante l’ascolto perché l’ascolto significa anche essere compresi con affetto

Pertanto possiamo dire che la resilienza si sviluppa sia sulla base delle proprie risorse personali che sulla
capacità che abbiamo avuto di costruire legami prima dell’evento traumatico; questi due aspetti, personale
e sociale, nel momento in cui sono positivi rappresentano due componenti necessarie per sviluppare la
resilienza e per far sì che ci possa essere il superamento dell’evento dal quale si è stati colpiti.
Ci sono differenti tipi di vittime di questi eventi e la psicologia sociale ne distingue 6 tipi: vittime di primo
tipo, secondo tipo, terzo, quarto, quinto e sesto tipo.
Le vittime di primo tipo sono tutti quei soggetti che subiscono direttamente l’evento traumatico: ad
esempio in questo momento potremmo considerare vittime di primo tipo rispetto alla pandemia tutti i
soggetti che si ammalano di covid; le vittime di secondo tipo sono i parenti o le persone care delle vittime di
primo tipo.
Le vittime di terzo tipo sono rappresentate dal personale di soccorso, le vittime di quarto tipo sono
costituite dalla comunità coinvolta nel disastro e che in qualche modo se ne può anche ritenere
responsabile; le vittime del quinto tipo sono dei soggetti psicologicamente fragili per cui questa fragilità fa sì
che, anche se non sono direttamente coinvolti nell’evento, possono manifestare un disturbo emozionale
come la paura e infine le vittime del sesto tipo sono tutte le persone che per un fortuito corso di eventi
avrebbero dovuto essere presenti nel luogo in cui è accaduta la catastrofe ma per qualche motivo hanno
cambiato programma.
Di fronte ad un evento stressante/catastrofico (es. la pandemia) i sentimenti che si possono vivere sono
angoscia e paura, perdita di energia, fragilità, debolezza, nostalgia, disagio, rabbia, solitudine, alternanza tra
speranza e disperazione; accanto alle sensazioni emotive ci sono anche le sensazioni fisiche come
l’insonnia, la presenza di incubi, l’alternanza del ritmo sonno-veglia, la stanchezza, diminuzione della
capacità di concentrazione, palpitazioni, tremori, pesantezza al collo e alla schiena, variazioni della libido.
Davanti alla presenza di queste sensazioni fisiche ed emotive si può uscire da queste situazioni oppure nel
momento in cui non riescono ad essere risolte, possono portare a disturbi psicologici o psichiatrici.
Ci possono essere dei traumi talmente gravi per cui non si riesce a ritrovare il controllo, nemmeno con una
capacità di resilienza di alto livello perché sono degli stress e dei traumi così pesanti e gravi che la resilienza
non ce la fa a tenerli sotto controllo  da un punto di vista si interrompe lo sviluppo sereno e possono
verificarsi tre eventi principali rappresentati da tre disturbi psichici e psichiatrici: disturbo da stress post-
traumatico, disturbo da stress acuto e disturbo d’ansia generalizzato.
Disturbo da stress post-traumatico: l’evento traumatico viene vissuto in maniera persistente in uno o più
dei seguenti modi: ricordi spiacevoli ricorrenti che comprendono immagini, pensieri e percezioni, avere
sogni spiacevoli e ricorrenti dell’evento, agire o sentire nel presente l’evento vissuto che si ripresenta (ci
possono anche essere delle allucinazioni), evitare in maniera continuativa tutti gli stimoli che ricordano il
trauma, la presenza di sforzi per cercare di evitare pensieri, sensazioni o conversazioni associate al trauma,
incapacità di ricordare qualche elemento importante del trauma, sentimenti di distacco nella
socializzazione, ridotta affettività, difficoltà nel sonno e nella concentrazione, irritabilità; per diagnosticare
un disturbo di questo tipo è fondamentale che la durata di questi sintomi sia presente e persista per
almeno un mese e che questi sintomi rappresentino un significativo disagio nel funzionamento sociale,
lavorativo o scolastico.
Disturbo acuto da stress: generalmente il disturbo si presenta durante l’esperienza dell’evento stressante,
cioè i sintomi compaiono mentre si sta ancora vivendo quell’evento traumatico/stressante e sono la
sensazione soggettiva di diminuzione o assenza della reattività delle emozioni, riduzione della
consapevolezza verso l’ambiente in cui ci si trova, de-realizzazione (non riconoscere il posto in cui ci si trova
pur essendo un posto familiare); nella maggior parte dei casi il disturbo inizia insieme all’evento traumatico
e può durare da un minimo di due giorni fino a massimo un mese dall’evento traumatico e poi si dissolve.
Disturbo d’ansia generalizzato: c’è un’ansia e una preoccupazione eccessiva che si manifestano per la
maggior parte del giorno per almeno 6 mesi, c’è una difficoltà nel controllare la preoccupazione, accanto
all’ansia c’è anche un sentirsi tesi, una facile affaticabilità, difficoltà di concentrarsi e vuoti di memoria,
irritabilità, tensione muscolare soprattutto a livello del collo, alterazioni nel sonno; quando causano un
minore funzionamento significativo siamo di fronte a questo disturbo.

Tornando alla competenza emotiva, le abilità descritte dalla Saarni sono rappresentate da tre dimensioni
che portano a costituire una competenza emotiva positiva:
1. L’espressione delle emozioni  ovvero la capacità di esprimere le proprie emozioni che è
rappresentata dall’abilità di comunicare agli altri gli stati emozionali che stiamo vivendo sia
attraverso il linguaggio verbale che non verbale.
A partire dal linguaggio non verbale, in particolare dalle espressioni facciali, Izard spiega la sua
teoria dello sviluppo emotivo; Izard è un innatista e la sua teoria riguarda la nascita e la formazione
delle emozioni.
Secondo lui le emozioni sono dei pacchetti innati e ciascuno di essi ha una sua configurazione
specifica sia di sintomi fisiologici sia per le espressioni facciali in quanto ad ogni emozione innata
corrisponde un’espressione facciale innata; sulla base di questa teoria c’è una corrispondenza tra
l’esperienza che si ha di quell’emozione e l’espressione facciale che si fa, per ogni emozione sono
presenti dei programmi neurali innati e universali (gli stessi per tutte le persone e in tutte le
culture) e nel corso dello sviluppo le espressioni che compaiono per le diverse emozioni
corrispondono ad una maturazione del sistema nervoso.
Secondo un altro ricercatore, Sroufe, si tratta invece della teoria della differenziazione per cui le
emozioni non sono pacchetti innati ma si sviluppano da una differenziazione di sistemi precursori
delle emozioni: il piacere è un sistema precursore di un’emozione che maturerà dopo e sarà la
gioia, la circospezione sarà un sistema precursore della futura paura, la frustrazione lo sarà della
rabbia.
In questa teoria il neonato non esprime con le espressioni facciali delle emozioni vere e proprie ma
esprime i precursori delle emozioni.
2. La comprensione delle emozioni  è la capacità che ognuno di noi ha di dare un significato agli
eventi emotivi propri e degli altri e serve per partecipare a degli scambi sociali adeguati; la capacità
della comprensione è anche legata alla capacità di riconoscere quali possono essere le cause
principali che portano a quell’emozione.
3. La regolazione delle emozioni  come esprimo le emozioni? Come le regolo nel manifestarle? La
regolazione delle emozioni consiste nel riuscire a controllare o ad attenuare in maniera socialmente
efficacie il proprio stato di eccitazione che quell’emozione dà per adattarsi, per raggiungere uno
scopo; significa la scoperta della modalità di manifestare le emozioni in modo socialmente
accettabile.

La divisione delle emozioni


Tutto questo è una premessa al fatto che le emozioni si sviluppano con lo svilupparsi della cultura, del
livello cognitivo, della crescita, delle relazioni ma per capire se la vita emotiva di un neonato/bambino è
uguale o differente a quella di un adolescente si deve risalire alla divisione delle emozioni.
Le prime emozioni sono quelle della prima infanzia che vengono definite emozioni primarie o fondamentali
e si trovano sia negli esseri umani che in alcuni mammiferi; compaiono nei primi 6 mesi di vita e sono
rappresentate dalla sorpresa, dalla tristezza, dalla gioia, dalla rabbia, dalla paura e dal disgusto.
Ognuna di queste emozioni primarie è collegata al comportamento verbale e non verbale e soprattutto alle
espressioni del viso.
Dopo i 6 mesi ci sono le emozioni secondarie o sociali o emozioni auto-consapevoli, definite così proprio
perché queste emozioni per nascere e per svilupparsi richiedono un’autoconsapevolezza che significa una
coscienza e una conoscenza di sé diverso rispetto all’altro; queste emozioni sono l’empatia, la gelosia,
l’imbarazzo, l’orgoglio, il senso di colpa e la vergogna.
Secondo Lewis queste emozioni appaiono per la prima volta intorno ai 18 e i 24 mesi e sono quelle
emozioni che implicano la coscienza dell’altro.
Il modo di esprimere le emozioni è una parte integrante delle interazioni in cui i bambini si trovano coinvolti
e quindi l’abilità dei neonati nel comunicare le loro emozioni permette che si instaurino delle relazioni con
chi si prende cura di loro e l’espressione emotiva del neonato crea anche l’inizio di un legame emotivo con
chi si prende cura di lui; queste interazioni sono regolate e descritte come interazioni reciproche o
sincronizzate ed esistono fin dal primo momento in cui il bambino ha la sua prima interazione
(generalmente con la madre).
Le prime espressioni emotive con cui il bambino inizia a comunicare e ad esprimere le proprie emozioni
sono:
 Il pianto  è il meccanismo più importante che i neonati hanno a disposizione per comunicare con
il mondo; il primo pianto che avviene al momento della nascita è quello che permette ai polmoni di
espandersi e al bambino di respirare.
Non esiste un solo tipo di pianto ma ce ne sono diversi tipi e proprio attraverso questa diversità il
bambino trasmette a chi gli sta vicino i propri stati d’animo ma il pianto permette anche di fornire
delle informazioni sul sistema nervoso centrale; ci sono il pianto di base che è un pianto ritmico
che consiste in un pianto seguito da un breve silenzio prima del pianto successivo (uno dei bisogni
che lo stimolano è la fame), poi c’è il pianto di rabbia che si manifesta con una maggiore quantità
d’aria che il neonato spinge attraverso le corde vocali e quindi sarà molto più acuto e a volte è
senza pausa (la maggior parte delle volte è collegato ad un bisogno che non riceve una risposta
come l’avere fame, avere il pannolino sporco ecc.) e poi c’è il pianto di dolore che è caratterizzato
da un improvviso e lungo pianto seguito dal trattenimento del respiro (è provocato da stimoli
dolorosi molto intensi che generalmente sono le coliche).
Generalmente la mamma riesce a distinguere e comprendere i differenti tipi di pianto del bambino
e a dare una risposta adeguata ai suoi bisogni.
 Il sorriso  esistono più tipi di sorriso: il primo è il sorriso endogeno (riguarda qualcosa che viene
da dentro, probabilmente la sensazione di rilassatezza) o riflesso ed è autonomo, cioè è un sorriso
che non avviene in risposta a degli stimoli esterni ma generalmente avviene nel sonno e questo
accade soprattutto nel primo mese di vita del bambino, poi c’è il sorriso esogeno che avviene
quando il bambino è sveglio ed è la risposta a stimoli visivi o uditivi che sono ancora indifferenziati
e infine il sorriso sociale che appare dal secondo mese in poi ed è un sorriso che rappresenta una
risposta specifica alle persone familiari; intorno ai 6 mesi insieme al sorriso sociale compare anche
il segno di Duchenne che si accompagna al sorriso, cioè il bambino non sorride più solo con la
bocca ma compare anche questo segno che è rappresentato dalla contrazione dei muscoli oculari e
dall’apertura della bocca.

La prima emozione che ognuno di noi ha provato è la paura; la paura è nata con l’uomo e la sua espressione
più comune è la paura dell’estraneo.
Il bambino mostra paura e diffidenza verso le persone estranee che non conosce e questa paura compare
intorno ai 6 mesi sotto forma di diffidenza e arrivati ai 9 mesi diventa più intensa fino a circa il primo anno
di vita; l’intensità della paura dell’estraneo dipende anche dall’ambiente in cui il bambino si trova (se il
bambino si trova in casa in braccio alla mamma ed entra un estraneo avrà meno paura perché con la
mamma si sente protetto), da chi è l’estraneo (cioè se l’estraneo è un adulto o un bambino: il bambino avrà
meno paura di fronte al bambino estraneo) e da come si comporta l’estraneo (se è sorridente e amichevole
il bambino avrà meno paura).
Accanto alla paura dell’estraneo, un’altra espressione della paura che il bambino presenta è data dall’ansia
di separazione  cioè la paura che il bambino ha di essere separato da chi si prende cura di lui, la paura di
perdere il legame di attaccamento.
Questa angoscia di separazione si manifesta attraverso il pianto o con altri segni di sofferenza che il
bambino dimostra quando la madre si allontana da lui; è una paura che si presenta intorno ai 6 mesi,
aumenta verso i 14 mesi e raggiunge l’apice intorno ai 15 mesi.
Non è legata all’ambito socio-culturale in cui il bambino vive in quanto si è visto attraverso degli studi
comparati che in tutte le culture esiste l’angoscia di separazione e che l’apice di questa paura compare
intorno ai 15 mesi nei bambini di tutte le culture  reazione emotiva universale.
Una volta che la paura dell’estraneo e della separazione ha raggiunto il massimo gradualmente decresce
permettendo al bambino di creare delle relazioni al di fuori della famiglia d’origine.
Nel periodo della seconda infanzia (periodo tra i 18 e i 24 mesi) compaiono le emozioni autoconsapevoli o
secondarie e in particolare compaiono quando il bambino acquista la consapevolezza di sentire se stesso
come differente dagli altri.
Durante gli anni prescolari (dai 3 ai 5 anni) compare anche il lessico emotivo, costituito dall’insieme dei
vocaboli che il bambino utilizza per riferirsi a se stesso e per riferirsi alle emozioni che in un determinato
momento sta provando o per riferirsi all’emozione che vede nell’altro; attraverso l’acquisizione di questo
lessico comincerà ad esprimere le sue emozioni.
Successivamente nell’età scolare (6-10 anni) i bambini mostrano dei forti miglioramenti nel comprendere e
nel gestire le proprie emozioni e quindi anche nell’espressione delle emozioni che provano e ci sono dei
cambiamenti importanti:
1. Abilità aumentata nel comprendere alcune emozioni secondarie (orgoglio, vergogna) che il
bambino interiorizza integrandole ad un senso di responsabilità personale
2. Capacità di comprendere che in una certa situazione può sperimentare contemporaneamente più
di un’emozione
3. Capacità di riconoscere maggiormente gli eventi che portano ad avere reazioni emotive
4. Abilità nel riuscire a nascondere le reazioni emotive negative
5. Capacità di trovare delle strategie per controllare le proprie emozioni
6. Maggiore capacità empatica, cioè riuscire a scoprire in se stesso degli strumenti in grado di capire le
emozioni e gli stati d’animo dell’altro

Strategie di coping
Nella vita di ciascuno di noi possono essere presenti periodi di stress o eventi traumatici e una delle difese
per riacquistare il sufficiente equilibrio psicologico è rappresentata dalla capacità di resilienza; oltre alla
resilienza però c’è anche un altro strumento che è rappresentato dal coping.
Il coping è strettamente legato allo stress e indica l’insieme di strategie che il bambino/adulto utilizza per
fronteggiare una situazione di stress o evento traumatico; esistono due tipi di coping, attivo e passivo.
Il coping si riferisce sia a quello che un individuo fa effettivamente per affrontare una situazione difficile
(coping attivo) che al modo in cui quel soggetto si adatta emotivamente alla situazione che sta vivendo
(coping passivo).
La capacità di utilizzare strategie di coping è collegata allo sviluppo cognitivo del bambino, man mano che il
bambino cresce dimostrerà di migliorare questa capacità e generalmente la dimostrazione si raggiunge
nell’arco di età che va dai 6 anni ai 10 anni circa.
È importante che, perché i bambini riescano in questa capacità, ci siano anche delle famiglie che diano
supporto; se le famiglie sono caratterizzate da maltrattamento o traumi i bambini possono essere talmente
travolti dallo stress da non riuscire a usare queste strategie.
Soprattutto condizioni di disastri o sciagure possono nuocere allo sviluppo dei bambini e produrre problemi
di adattamento; tra gli esiti evolutivi dei bambini che sperimentano disastri vi sono reazioni acute di stress,
depressione, panico e disturbo post-traumatico da stress.
Il rischio che i bambini sviluppino questi problemi conseguenti ad un disastro dipende da fattori come la
natura e la gravità dell’evento ma anche dal supporto disponibile per il bambino all’interno della famiglia.
Gli studi in psicologia dell’emergenza evidenziano il fatto che la risposta adattiva di un individuo agli eventi
potenzialmente traumatici a cui è sottoposto è influenzata da alcuni aspetti come la natura dell’evento, il
grado di esposizione all’evento, le conseguenze percepite e immaginate, le strategie di coping adottate, la
disponibilità di una rete sociale che lo riaccolga dopo l’evento, rete rappresentata dalla famiglia e dal
contesto comunitario.
Di fronte ad un bambino che sia stato vittima di un evento traumatico, il compito di un genitore è quella di
rassicurare i bambini circa la salvezza e la sicurezza (passato l’evento dire ai bambini che è tutto finito e ora
è al sicuro), per i bambini più piccoli raccontare e spiegare l’evento sotto forma di racconto fiabesco; un
altro compito che gli adulti devono fare è quello di permettere ai bambini di ri-raccontare gli eventi e avere
la pazienza di ascoltarli, quello di incoraggiarli a parlare dei loro sentimenti confusi, proteggere i bambini da
un’ulteriore esposizione a eventi stressanti e dal ricordo del trauma, aiutarli dando un senso a ciò che è
successo e tenendo presente che i bambini possono non aver capito cosa è accaduto.
La resilienza e le strategie di coping sono strumenti che possiedono tutti e possono essere sviluppati e
accresciuti all’interno di un ambiente che fornisce supporto.

IL TEMPERAMENTO
Accanto alle emozioni c’è anche il temperamento, che è diverso dalle emozioni, è collegato con l’aspetto
emotivo di ciascuno e con la personalità di ognuno e di conseguenza ha anche un collegamento con le
modalità di rispondere agli eventi positivi o negativi che accadono nella vita di ognuno ma il temperamento
non corrisponde alle emozioni.
I bambini fin dalla nascita hanno differenti stili emotivi, ci sono quelli che piangono quasi sempre e quelli
che invece sono sorridenti per la maggior parte del tempo; queste tendenze dei bambini riflettono il
temperamento.
Il temperamento è lo stile comportamentale e il modo di rispondere caratteristico di un individuo;
rappresenta il comportamento e la relazione con l’altro che ognuno ha e quindi implica differenze
individuali nella velocità e nell’intensità con cui sono manifestate le emozioni e nella velocità con cui
svaniscono.
È strettamente connesso alla personalità, ossia all’insieme delle caratteristiche personali durature di un
individuo; il temperamento di un bambino lo dispone verso un particolare stile di sentimenti e di reazioni,
che rende più probabile per la sua personalità prendere una forma piuttosto che un’altra.
Due autori, Chess e Thomas, ritengono che ci siano tre tipi di temperamento e quindi tre modalità di essere
dei bambini e cioè:
 Il bambino facile  ha un temperamento facile caratterizzato da un umore positivo, questo
bambino stabilisce rapidamente una routine quotidiana regolare (sono costanti negli orari dei pasti
e del sonno), si adatta facilmente alle nuove esperienze
 Il bambino difficile  è un bambino che reagisce negativamente e piange spesso, costringe il
caregiver a routine quotidiane irregolari, è lento ad accettare i cambiamenti e di fronte ad essi
mostra una difficoltà ad adattarsi
 Il bambino “lento a scaldarsi” o a lenta attivazione  questo bambino ha un basso livello di attività,
qualche volta è negativo e mostra un umore piatto

Un altro modo per classificare il temperamento si focalizza sulle differenze tra un bambino timoroso,
pacato, timido e un bambino socievole, estroverso e sicuro di sé; Kagan considera la timidezza verso gli
estranei come facente parte della categoria dell’inibizione verso l’estraneo.
Rothbart e Bates hanno concluso che il temperamento può essere rappresentato da tre categorie:
1. Estroversione/disinibizione  include l’anticipazione positiva, l’impulsività, il livello di attività e la
ricerca di sensazioni
2. Affettività negativa  include irritabilità, frustrazione, tristezza e paura
3. Capacità di controllo (autocontrollo o autoregolazione)  include focalizzazione dell’attenzione e
spostamento, controllo inibitorio, piacere a bassa intensità e sensitività percettiva

L’ATTACCAMENTO
Le emozioni sono l’essenza della vita e in prima fila tra queste relazioni ce ne è una indispensabile alla
sopravvivenza della specie e dell’individuo che è l’attaccamento.
L’attaccamento è uno stretto legame emotivo tra due persone, in senso generale il termine “attaccamento”
indica il legame particolare che unisce stabilmente il bambino al caregiver che generalmente è la madre ma
non necessariamente; l’attaccamento è quel legame particolare che unisce il bambino alla persona che si
prende cura di lui fin dal momento della nascita.
Non è un legame di dipendenza del bambino al caregiver ma è un legame affettivo, intimo, costante e
duraturo che lega i due membri della diade (bambino e caregiver) in modo da garantirne a vicenda
vicinanza, protezione e sicurezza e si basa sulla tendenza a cercare una base sicura; se questo legame di
attaccamento viene interrotto dà luogo ad un’ansia da separazione.
A proposito della teoria dell’attaccamento possiamo parlare di tre autori: Freud, Erikson e Bowlby.
Freud riteneva che i neonati si attaccassero alla persona o all’oggetto che forniva loro soddisfazione orale,
cioè il nutrimento (nella fase orale il piacere del bambino passa attraverso la bocca e l’apparato digestivo;
inoltre il bambino non ha la concezione dell’altro come persona e non riconosce la madre come oggetto
intero a sé stante ma la relazione che il bambino sviluppa è con l’oggetto parziale, cioè seno o biberon).
Ma per il legame dell’attaccamento il nutrimento è così importante come pensava Freud?
Un esperimento di Harlow rivela che la risposta è no in quanto la soddisfazione orale è importante ma il
nutrimento non è tutto e non è l’elemento più importante per far sì che si stabilisca il legame
dell’attaccamento.
Nel suo esperimento Harlow tolse alla nascita dei neonati di scimmia alle madri per sei mesi e per sei mesi
furono allevati da quelle che Harlow chiamò “madri surrogato” (cioè un sostituto materno) ed erano due:
una era costituita da un cilindro fatto con filo di ferro e ricoperto da cavi elettrici, l’atra era rappresentata
da un cilindro ma ricoperta da stoffa soffice.
Metà dei neonati di scimmia veniva nutrita dalla madre fatta di cavi elettrici e metà della madre di stoffa.
È stata calcolata periodicamente la quantità di tempo che i neonati passavano o con la mamma di cavi o
con quella di stoffa e si è visto che, indipendentemente da quale madre li nutrisse, i neonati passavano
molto più tempo con la madre di stoffa  questo studio dimostra che il nutrimento non è l’elemento
cruciale nel processo di attaccamento e che il piacere della vicinanza e del contatto con qualcosa di
morbido è importante.
Il benessere fisico gioca un ruolo chiave anche nell’opinione di Erikson riguardo allo sviluppo del neonato.
Erikson ritiene che sia importante che il benessere fisico venga sviluppato durante il primo anno di vita e
nello stadio rappresentato dalla diade fiducia-sfiducia; il benessere fisico e le cure che il neonato riceve
sono le chiavi perché il neonato riesca a stabilire una fiducia di base in chi si prende cura di lui e nel mondo.
Inoltre secondo la sua teoria il senso di fiducia del neonato è la base per l’attaccamento e costituisce il
presupposto per un’aspettativa duratura che il mondo sia un posto sufficientemente buono e piacevole
dove vivere; se il neonato sperimenta una sfiducia nel primo anno di vita, svilupperà un attaccamento non
sicuro.
Colui che è stato definito il padre della teoria dell’attaccamento è Bowlby, il quale parte dalla prospettiva
etologica di Lorentz e pone l’accento sull’importanza dell’attaccamento durante il primo anno di vita e sulla
sensibilità del caregiver.
Bowlby ipotizza che sia i neonati che chi si prende cura di loro siano biologicamente predisposti a sviluppare
degli attaccamenti; questa predisposizione biologica del bambino verso il caregiver si basa secondo Bowlby
sul bisogno degli scambi sociali, cioè il bambino per svilupparsi e crescere in modo sano ha bisogno della
relazione.
Inoltre Bowlby ritiene che la specie umana sia dotata fin dalla nascita di sistemi comportamentali specie-
specifici di cui il sistema di attaccamento è un esempio, cioè la specie umana è dotata di un’organizzazione
interna di comportamenti innati che vengono attivati da fattori interni (fame, fatica, disagio) ed esterni
(partenza, presenza, assenza del caregiver) e che sono indispensabili per stabilire la relazione e quindi
l’attaccamento.
I comportamenti di attaccamento che il bambino utilizza sono azioni programmate messe in atto dal
bambino per conquistare e mantenere la prossimità e il contatto con la madre; alcuni di questi
comportamenti sono distali perché quando il caregiver è distante servono al bambino per richiamare la sua
attenzione (seguire, gattonare, piangere), altri prossimali perché la mamma è vicino a lui 7(succhiare,
sorridere, aggrapparsi).
Tutto ciò ha un unico fine, cioè quello di mantenere vicino a sé la persona che si prende cura di lui (effetto
immediato di questi atteggiamenti; l’effetto a lungo termine è la sopravvivenza perché più il caregiver sta
vicino a lui, più lui sopravvive) e di mantenere il rapporto con esso.
Il legame dell’attaccamento non emerge all’improvviso (alla nascita questo legame non è pieno) ma si
sviluppa gradualmente e passa attraverso una serie di fasi che iniziano con una generica preferenza del
neonato verso tutti gli esseri umani e poi piano piano arriva a riconoscere e a stabilire un legame con il
caregiver primario (figura che maggiormente si prende cura di lui).
Secondo la teoria di Bowlby le fasi attraverso cui si costruisce il legame dell’attaccamento sono 4:
1. Va dalla nascita fino ai 2 mesi di vita  in questo periodo il bambino comincia a mettere in atto i
comportamenti dell’attaccamento ma non lo fa in maniera selettiva in quanto non indirizza
l’attaccamento verso una persona specifica ma anche gli estranei hanno la stessa probabilità di
sollecitare nel lattante il sorriso o il pianto
2. Va dai 2 mesi fino ai 7 mesi  in questo arco di tempo il bambino comincia a produrre dei segnali
che sono orientati in misura maggiore verso una persona in particolare, che generalmente è il
caregiver primario; questa fase si costituisce man mano che il bambino impara gradualmente a
riconoscere le differenze tra le persone familiari e quelle non familiari però non si può ancora
parlare della presenza di un’ansia da separazione e quindi non si può nemmeno parlare di un vero e
proprio attaccamento
3. Va dai 7 mesi fino ai 2 anni  in questa fase il bambino sviluppa degli attaccamenti specifici,
comincia inoltre a gattonare e poi a camminare e con l’aumento della capacità di muoversi
aumenta anche la ricerca di un contatto con il caregiver primario; da questa fase si può iniziare a
vedere un vero e proprio attaccamento in quanto il bambino manifesta un’ansia da separazione e
protesta nel momento in cui il caregiver si allontana.
Accanto all’ansia da separazione il bambino comincia anche ad esplorare i luoghi in cui vive e
sperimenta anche la paura dell’estraneo poiché distingue molto più nettamente le figure familiari
da quelle che non lo sono.
4. Va dai 2 anni in poi  è il periodo in cui i bambini cominciano a prestare attenzione ai sentimenti
degli altri, agli obiettivi da raggiungere, diventa più profondo il rapporto tra bambino e caregiver
che cooperano per uno scopo comune, ovvero mantenere la vicinanza (che non significa che la
madre deve essere sempre presente) e darsi reciproco conforto e c’è anche la scoperta della
costanza d’oggetto; a partire da questa fase si stabilizza il rapporto di attaccamento e il bambino si
forma delle rappresentazioni della relazione attraverso i modelli operativi interni (MOI).

I MOI sono dei modelli mentali del caregiver, della relazione che ha con il caregiver che il bambino mette
dentro se stesso e tra questi c’è anche il modello di se stesso come meritevole di ricevere del bene e le cure
del caregiver.
Questi modelli operativi interni influenzano anche le modalità di relazione del bambino con le altre persone
e sono rappresentativi anche di un ruolo centrale nella scoperta e nella comprensione delle emozioni e
nello sviluppo della coscienza e del concetto di sé.
Secondo Bowlby l’attaccamento emerge e si crea dallo sviluppo di competenze socio-cognitive che
permettono al bambino di sviluppare delle aspettative sul comportamento del caregiver e di determinare
qual è la qualità affettiva della relazione; i progressi che il bambino fa attraverso le competenze socio-
cognitive li fa attraverso l’esplorazione del volto, del tono della voce, del sorriso del caregiver e questi
progressi gli permetteranno poi, laddove il bambino ha avuto un rapporto con il caregiver sufficientemente
buono, di avere successo nelle relazioni interpersonali che avrà in seguito.

La teoria di Mary Hemsworth


Non tutti i bambini sperimentano l’attaccamento allo stesso modo e secondo Mary Hemsworth ci sono dei
bambini che hanno un attaccamento più positivo rispetto ad altri.
Questa ricercatrice ha condotto degli studi sia negli Stati Uniti che dall’altra parte del mondo sul rapporto
bambino – caregiver e da questo è emerso un modello che lei ha definito strange situation (situazione
strana o sconosciuta) in cui studiare le modalità dell’attaccamento e le differenze nel modo di attaccamento
che i bambini dimostrano; questo esperimento è basato sull’osservazione sistematica del rapporto nel
corso della prima infanzia.
È un’osservazione che va fatta durante la prima infanzia (12-24 mesi) e l’obiettivo della strange situation è
quello di attivare e intensificare i comportamenti di attaccamento del bambino nei confronti del caregiver
sottoponendo il bambino ad una situazione di stress crescente.
È un esperimento che non si svolge in un ambiente familiare ma in un ambiente estraneo che è il
laboratorio ed è prevista anche la presenza di una persona adulta sconosciuta al bambino; nel corso di
questa situazione ci sono una serie di episodi di separazione e di ricongiungimento del bambino con il
caregiver e la strange situation è rappresentata da 8 momenti che si svolgono con un ordine predefinito e
complessivamente tutto l’esperimento dura circa 21 minuti.
Gli 8 episodi sono:
 Il primo episodio ha una durata di circa 30 secondi (c’è un’elasticità perché se un episodio produce
troppo stress nel bambino, la durata si diminuisce) e prevede la presenza del caregiver, del
bambino e dell’estraneo; l’operatore fa entrare il caregiver e il bambino nella sranza
dell’esperimento e poi esce.
La stanza è un ambiente in cui ci sono molti giocattoli sparsi casualmente
 Il secondo episodio ha una durata di circa 3 minuti e sono presenti solo il caregiver e il bambino; il
caregiver rimane fermo, cioè non partecipa all’esplorazione che il bambino fa della stanza e se il
bambino non è attirato da nessun giocattolo, dopo 2 minuti può stimolare il bambino a giocare
 Il terzo episodio dura circa 3 minuti e c’è il rientro dell’estraneo che nel primo minuto rimane in
silenzio e nel secondo minuto comincia a parlare con il caregiver mentre il bambino gioca e nel
terzo minuto l’estraneo si avvicina al bambino; dopo 3 minuti il caregiver se ne va cercando di non
farsi vedere dal bambino che rimane da solo con l’estraneo
 Il quarto episodio dura 3 minuti o meno e ci sono solo il bambino e l’estraneo; può avere anche una
durata minore perché il bambino può presentare un livello di stress molto alto essendo solo con
l’estraneo.
In questo episodio avviene la prima separazione del bambino dal caregiver e la modalità con cui
l’estraneo si comporta con il bambino si adeguerà al modo che il bambino ha di stare con lui
 Il quinto episodio dura 3 minuti o più, l’estraneo esce, il caregiver rientra nella stanza e quindi
questo è il primo momento in cui il bambino si riunisce con il caregiver; il caregiver entra, saluta il
bambino, se ce n’è bisogno lo consola, poi prova a rimettere il bambino a giocare e alla fine si
allontana di nuovo dal bambino salutandolo e uscendo dalla stanza
 Il sesto episodio dura 3 minuti o meno a seconda del grado di stress del bambino e il bambino
rimane nella stanza da solo e sperimenta il secondo momento di separazione dal caregiver
 Il settimo episodio dura 3 minuti o meno, nella stanza rientra l’estraneo che adatta il suo
comportamento a quello del bambino ma non il caregiver e quindi il bambino continua la seconda
separazione
 L’ottavo episodio dura circa 3 minuti e si ha il ritrovo del bambino con il caregiver e quindi
sperimenta il secondo momento di riunione; il careviger entra, saluta il bambino, lo prende in
braccio, se c’è bisogno lo coccola e mentre entra il caregiver l’estraneo esce dalla stanza senza farsi
notare

A partire dall’osservazione del comportamento del bambino nel setting si arriva ad una classificazione di
diversi tipi di attaccamento che il bambino manifesta nei confronti del caregiver; le manifestazioni che
questo esperimento prende in considerazione sono la presenza di una funzione di base sicura per
l’esplorazione del mondo esterno che la madre ha per il bambino (cioè un bambino che vede la madre
come base sicura esplorerà l’ambiente esterno circostante in modo sufficientemente sicuro), la risposta che
il bambino ha nei confronti dell’estraneo, la risposta del bambino alla separazione e alla successiva riunione
con il caregiver e si considera la qualità dell’esplorazione dell’ambiente e del gioco che il bambino
manifesta.
Esaminando questi fattori Hemsworth e Main rilevano l’esistenza di 4 differenti tipi di attaccamento che il
bambino manifesta:
 Attaccamento sicuro  evidenzia la presenza di bambini sicuri che usano il caregiver come una
base sicura da cui partire per esplorare l’ambiente in cui si trovano; nella strange situation i
bambini che presentano questo tipo di attaccamento esplorano la stanza, i giochi e quando la
madre esce protestano debolmente e poi continuano a giocare per poi ristabilire un rapporto
positivo con lei al suo rientro.
Dopo che la madre è rientrata ritornano a giocare anche insieme all’estraneo quando gli va vicino e
la madre è presente nella stanza
 Attaccamento insicuro  viene distinto in tre tipi: attaccamento insicuro evitante, resistente o
ambivalente e disorganizzato.
I bambini insicuri evitanti mostrano un’insicurezza nel rapporto evitando il caregiver, nella strange
situation si dedicano solo a delle piccole relazioni con la madre, non si sentono stressati quando la
madre lascia la stanza e non ristabiliscono un contatto quando la madre rientra.
I bambini insicuri resistenti o ambivalenti spesso si aggrappano al caregiver e poi però lo
respingono quando lui tenta di avvicinarsi magari anche colpendolo, nella strange situation si
aggrappano con ansia al caregiver quando è presente, non esplorano la stanza e non giocano e
quando il caregiver si allontana spesso piangono per poi tentare di spingerlo via quando ritorna per
ricevere una consolazione.
I bambini insicuri disorganizzati si presentano disorientati, nella strange situation possono apparire
confusi o spaventati e nei confronti del caregiver manifestano un’estrema timidezza.

Oltre ai 4 tipi di attaccamento, la strange situation ci permette anche di valutare e sostenere che quando
l’esperimento misura la modalità dell’attaccamento del bambino al caregiver, è influenzato dall’aspetto
socio-culturale in cui il bambino vive; i bambini tedeschi esibiscono più modelli di attaccamento evitante, i
bambini giapponesi hanno un atteggiamento contrario, cioè un attaccamento insicuro resistente.
Si è visto che l’attaccamento prevalente in ogni cultura finora studiata è l’attaccamento sicuro, quindi la
maggior parte dei bambini sperimenta con il caregiver un rapporto sicuro.
Secondo la teoria di Bowlby l’attaccamento che si sviluppa durante il primo anno di vita è molto importante
per il futuro sviluppo psicologico del bambino e i bambini con un attaccamento sicuro rispondono in
maniera positiva se vengono presi in braccio da un estraneo e quando vengono messi giù si allontanano
serenamente andando a giocare; i bambini con un attaccamento insicuro invece eviterà o proverà
ambivalenza nei confronti del caregiver e nel rapporto con lui, avrà timore degli estranei e quindi
manifesterà una resistenza se un estraneo prova a prenderlo in braccio e si sentirà turbato anche dalle
piccole separazioni che vivrà nei confronti del caregiver.
Riguardo la teoria di Bowlby ci sono stati anche degli studi longitudinali, ovvero questi bambini sono stati
seguiti nel tempo con delle scadenze precise e in uno di questi studi l’attaccamento sicuro era legato ad
un’emozionalità positiva, ad un’alta autostima, alla presenza di una competenza sociale nella relazione con
i pari e con gli adulti e alla competenza sociale riguardo l’affettività; altri studi invece riportano che non c’è
una stretta continuità tra il tipo di attaccamento che i bambini hanno vissuto nella prima infanzia e la futura
competenza sociale.
Uno di questi studiosi è Kagan, il quale ritiene che non ci sia questa stretta correlazione perché pone
l’accento sulla resilienza che i bambini hanno e sull’adattività dei bambini; secondo lui i neonati sono più
forti di quello che pensiamo e che siano attrezzati evolutivamente per avere uno sviluppo psicologico
positivo anche di fronte ad un’ampia varietà di cure genitoriali e che sono predisposti ad uno sviluppo
positivo anche se hanno vissuto l’esperienza di un attaccamento insicuro.
Secondo Kagan giocano un ruolo importante le caratteristiche genetiche e il temperamento dei bambini
nelle competenze sociali e questi due elementi sono molto più importanti dell’attaccamento; se ad esempio
i bambini ereditano una bassa tolleranza allo stress sarà questo a non far trovare il bambino a proprio agio,
non l’attaccamento che ha vissuto (anche se fosse quello insicuro).
Nonostante queste critiche nei confronti della teoria di Bowlby, in letteratura prevale l’idea che l’esperienza
di un attaccamento sicuro nella prima infanzia è importante perché riflette un rapporto genitore-bambino
positivo e adattativo e rappresenta poi anche una base che sarà di supporto ad uno sviluppo sociale ed
emotivo negli anni successivi.
Accanto al bambino nella relazione c’è anche l’adulto e quindi anche lui deve avere delle precise
caratteristiche per poter stabilire il legame di attaccamento: dalla maggior parte degli studi eseguiti emerge
che non necessariamente il caregiver è un genitore biologico, non necessariamente è di sesso femminile,
non necessariamente è la persona che soddisfa le necessità fisiologiche del bambino (nelle critiche alla
teoria psicanalitica freudiana emerge questo), non necessariamente è la persona che segue con continuità
il bambino.
Sembra che per il caregiver sia importante la qualità della relazione che riesce a stabilire con il bambino;
riveste importanza il fatto che il caregiver sia responsivo, sensibile e che provochi nel bambino delle
sensazioni positive.
la sensibilità è usata per indicare la capacità del caregiver di essere in sincronia con i bisogni del bambino e
nella risposta rispetto alla richiesta che il bambino fa in un determinato momento; è un concetto che
comprende tre aspetti del comportamento dell’adulto in risposta ad una richiesta del bambino: la
tempestività, la coerenza e l’adeguatezza.
La sensibilità del caregiver sta nel riconoscere i diversi tipi di pianto e la madre generalmente lo riconosce;
l’abilità dell’adulto sta nell’essere in grado di dare una risposta tempestiva e adeguata ai bisogni del
bambino ma per farlo deve poter riconoscere.
Un caregiver responsivo risponde prontamente al pianto del bambino intuendo che è un segnale di disagio,
consola il bambino se è di malumore, si rende disponibile ad interagire e ad attribuire un significato idoneo
al comportamento che il bambino ha in quel momento, ecc.

Lo stile di cura è legato alla qualità dell’attaccamento del neonato? Cioè la capacità del caregiver di essere
responsivo oppure no è collegata al modo in cui il bambino vive e sperimenta l’attaccamento?

I bambini che sviluppano un attaccamento sicuro avranno un caregiver sensibile ai segnali che i bambini
mandano e disponibile a rispondere ai bisogni del bambino; i caregiver dei bambini che sperimentano un
attaccamento insicuro evitante tendono ad essere poco disponibili o addirittura possono essere rifiutanti
nei confronti del bambino, spesso non rispondono ai segnali che il bambino manda, hanno poca capacità di
contatto fisico nei confronti del bambino, possono avere un atteggiamento arrabbiato quando si
relazionano con i bambini e difficilmente sono sereni.
I caregiver dei bambini con un attaccamento insicuro resistente invece tendono ad essere poco coerenti,
cioè a volte rispondono ai bisogni dei bambini e a volte no, tendono a non essere troppo affettuosi e
mostrano poca sincronia quando interagiscono con i bambini (sincronia della risposta al bisogno
manifestato).
I caregiver dei bambini che sperimentano un attaccamento insicuro disorganizzato sono spesso trascuranti
nei confronti dei bisogni dei bambini, possono aver abusato fisicamente dei propri figli o in altri casi
manifestano un calo del tono dell’umore, cioè sono depressi.
La famiglia
Generalmente queste prime esperienze il bambino le vive all’interno della famiglia d’origine e infatti
generalmente (ma non necessariamente) il caregiver primario è la madre e quindi bisogna analizzare anche
la famiglia.
Storia di Giovanna  Giovanna è un’adolescente che fa una seduta con un terapeuta:
Giovanna è sul divano, mentre parla non riesce a stare ferma, tira fuori dalla borsa due cellulari, un mp3, un
fermaglio e una bustina di fazzoletti di carta; dice che è stata una settimana fighissima perché è stata a due
rave party, uno di un giorno e mezzo e l’altro di due giorni e dice che si è limitata a farsi qualche canna.
Afferma che i genitori hanno capito che lei fuma ma fanno finta di niente, che non gli hanno mai detto cosa
si fa e cosa non si fa.
Descrizione dello psicologo: Giovanna ha 14 anni e mezzo, ha due genitori che non le fanno mancare nulla e
le danno il massimo della libertà, le regalano viaggi e le permettono di stare fuori la notte; i genitori l’hanno
mandata dallo psicologo perché la ragazza piange senza motivo e hanno paura che lei si possa suicidare.
Lo psicologo afferma che ciò che manca a Giovanna sono i punti di riferimento in quanto i genitori sono
presenti fisicamente ma assenti quando lei avrebbe bisogno di un consiglio o di regole.

La teoria ecologica del bronfenbrenner


Questa teoria analizza i contesti sociali dello sviluppo del bambino considerando 5 sistemi ambientali:
1) Il microsistema  è l’ambiente in cui il bambino vive, cioè la famiglia, il mondo dei pari, la scuola,
quando cresce il lavoro, ecc.
2) Il mesosistema  comprende le relazioni tra i differenti microsistemi, ad esempio la connessione
tra i processi familiari e le relazioni tra pari (cioè la famiglia che è il microsistema e che ad un certo
punto invita a giocare a casa un componente di un altro microsistema, ovvero di un’altra famiglia, e
che è un compagno di scuola del proprio figlio)
3) L’esosistema  è rappresentato da delle influenze che vengono esercitate da ambienti differenti
che l’individuo non sperimenta direttamente, ad esempio un bambino non sperimenterà
direttamente l’ambiente lavorativo ma il mondo del lavoro, sperimentato direttamente dai genitori,
in qualche modo avrà delle influenze anche sul bambino; l’esositema è rappresentato dal modo in
cui le esperienze di lavoro dei genitori vanno ad influenzare il loro modo di essere genitori a casa,
se ogni sera che il papà torna dal lavoro e il figlio si attacca alla sua gamba e il papà dice sempre che
è stanco, la stanchezza del lavoro che questo padre porta in casa influenzano il rapporto del padre
con il figlio e quindi avranno un’influenza sul modo in cui il figlio conosce e si relazione con il padre
4) Il macrosistema  è la società e la cultura in cui l’individuo vive e anche qui ci sono determinate
modalità che entrano nel rapporto genitore-bambino; in alcune culture esiste la poligamia (più
mogli), in altre culture esiste la poliandria (più mariti) e anche questo inciderà nelle relazioni che si
sviluppano all’interno della famiglia
5) Il cronosistema  è il sistema di eventi ambientali come le circostanze storico-sociali in cui
l’individuo si trova a vivere, ad esempio in questo momento si assiste ad un incremento di madri
che lavorano (fino a metà del 900 generalmente stavano in casa), ad un aumento di genitori
separati e divorziati, ad un aumento delle famiglie allargate e questo incide sulle relazioni familiari

La famiglia non è un qualcosa di isolato ma risente di tutti i sistemi che le stanno intorno e si interseca con
essi perché è necessario tenerne conto; tutti questi sistemi hanno dei punti di contatto importanti tra di
loro e che entrano nelle modalità delle relazioni familiari.
Sulla base di questa teoria si può affermare che ogni famiglia rappresenta un sistema all’interno di altri
sistemi.
Il sistema è un insieme complesso, fatto di parti che interagiscono tra di loro e che sono collegate tra di loro
e questo collegamento è fatto da relazioni; le relazioni all’interno di una famiglia non sono mai
unidirezionali ma sono sempre rappresentate da un rapporto bidirezionale, il rapporto madre-bambino non
è mai unidirezionale ma c’è uno scambio sincronizzato, è un rapporto reciproco.

Ogni famiglia è un sistema collegato ad altri sistemi con cui è in rapporto e ogni famiglia è un sistema
all’interno del quale si svolgono delle relazioni dirette che sono reciproche, si influenzano l’una con l’altra,
sono rapporti bidirezionali.
La famiglia dal punto di vista della psicologia sociale può essere considerato un gruppo, in particolare un
gruppo primario, dentro al quale ci sono dei rapporti diretti e circolano le emozioni (solitamente le
emozioni all’interno della famiglia sono rapporti affettivi positivi).
La psicologia sociale definisce il gruppo come un insieme formato da 2 o più individui, quindi è famiglia
anche una coppia.
Nella famiglia esiste uno scambio relazionale, cioè una socializzazione reciproca e bidirezionale nel senso
che mentre i genitori interagiscono con i propri figli, stanno interagendo anche tra di loro come coppia e
nello stesso tempo anche i figli interagiscono con i genitori.
Si può pensare alla famiglia come un insieme di sottosistemi definiti in termini di generazione, di genere e
di ruolo.
Nel sottosistema generazionale i genitori appartengono ad una relazione diversa rispetto a quella dei propri
figli; il sottosistema di genere è rappresentato del fatto che nella coppia c’è una identità di genere diversa
rappresentata da un maschio e una femmina.
Il sottosistema di ruolo è costituito dal fatto che i ruoli genitoriali sono dei ruoli differenti, non perchè un
ruolo prevale sull’altro ma sono ruoli paritari ma diversi tra di loro: il ruolo materno dovrebbe essere
maggiormente un ruolo che accoglie e il ruolo paterno (il termine padre deriva dal sanscrito e significa
recinto) sarebbe quello di dare delle regole e dei confini all’interno dei quali i figli possano trovare cibo
(affettivo).
Se si intende il sistema famiglia formato da un insieme di sottosistemi si può dire che ogni membro della
famiglia partecipa a diversi sottosistemi, alcuni dei quali sono definiti diadici e altri sono definiti poliadici.
Il rapporto papà bambino è un sottosistema diadico, come quello mamma e papà; il rapporto mamma,
papà e bambino è un sottosistema poliadico (o sistema triangolare).
Questi sottosistemi si influenzano e interagiscono l’uno con l’altro e questo ha una ricaduta importante —>
la relazione di coppia, il ruolo di genitori e il comportamento dei figli hanno degli effetti sia diretti che
indiretti l’uno sull’altro.
Recentemente dei ricercatori hanno messo l’attenzione sul legame esistente tra rapporto matrimoniale e la
genitorialità, cioè tra la qualità del rapporto di coppia e il modo di essere genitori; questa relazione ha
evidenziato che rispetto ai genitori che vivono una situazione matrimoniale infelice, i genitori che invece
vivono un rapporto di coppia sufficientemente felice sono più sensibili, attenti e calorosi nel rapporto con i
figli.
La qualità del rapporto di coppia quindi va ad influenzare anche la qualità del rapporto dei genitori con i
propri figli, perciò incentivare la relazione matrimoniale spesso conduce ad una genitorialità
sufficientemente buona e puó essere utile anche una terapia di coppia nel caso in cui ci sia una
conflittualità.
In tutti i rapporti ci sono delle conflittualità e il rapporto con la conflittualità più elevata è proprio il
rapporto di coppia perché c’è una quantità di tempo maggiore che i due passano insieme.
Un rapporto di coppia sufficientemente sereno e affiatato conduce anche ad una buona genitorialità.
Qualche tempo fa accadeva anche che quando una coppia era in crisi dal punto di vista dell’affettività la
coppia volesse un figlio, in realtà in una coppia in crisi un figlio non unisce ma divide ancora di più; i figli si
fanno se la coppia è già sufficientemente unita.
I cambiamenti socio-culturali e storici in cui la famiglia vive
La famiglia non nasce e non si sviluppa in un vuoto sociale ma si sviluppa all’interno di una società, di un
determinato periodo storico e all’interno di una determinata cultura.
Le influenze sociali, culturali e il momento storico agiscono sulla famiglia e sui processi familiari, ad esempio
la depressione degli anni ’30 negli Stati Uniti portó a danneggiare anche delle famiglie dell’alta borghesia
che diventarono povere.
Un altro fattore che può sfaldare l’unità della famiglia e i rapporti all’interno della famiglia sono le
emigrazioni: colui che emigra non provoca solo uno sradicamento sociale e culturale di lui stesso ma anche
uno sradicamento delle relazioni familiari.
Attualmente dobbiamo considerare anche il cambiamento del concetto di famiglia in quanto si tende a
parlare di famiglie al plurale

Gli stili genitoriali


All’interno della famiglia esistono dei rapporti che sono diretti e si manifestano e vengono vissuti anche
attraverso i differenti stili genitoriali e il tipo di disciplina e di educazione tra i membri della famiglia.
Essere genitori costa tempo e fatica perché si è genitori a vita; ai fini di questo sviluppo, per far sì che i figli
si sviluppino in maniera sana non conta solo la quantità di tempo che i genitori passano con i propri figli, ma
conta soprattutto la qualità.
Ovviamente la qualità della genitorialità è importante perché ad ogni età del figlio i genitori devono fare
delle scelte su quello che risponde ai bisogni dei figli in quella determinata età che stanno vivendo, ad ogni
età i genitori devono fare delle scelte su quanto e su come controllare i figli.
È chiaro che il controllo che un genitore esercita su un bambino di 3 anni è diverso dal controllo esercitato
su un bambino di 12 anni, in quanto è cambiato il rapporto. Il controllo che il genitore esercita nei confronti
dei figli è un suo dovere e da questo ne deriva anche che i genitori non sono degli amici dei propri figli,
anche perché ogni figlio si sceglie gli amici e si trova i genitori.
Non è un rapporto amicale, è affettivo, profondo e unico ma genitoriale e per questo non può essere
nemmeno un rapporto orizzontale ma verticale in quanto il genitore dà dei confini, delle norme, delle
regole interiori, il genitore educa insieme agli altri educatori; anche un educatore non può avere un
rapporto paritario con gli alunni ma un rapporto verticale e autorevole che non è alla pari.
Riguardo a questo la studiosa Diana Baumrind ha descritto degli stili genitoriali, individuandone 4 tipi:
1. Genitorietà autoritaria  è rappresentato da una restrittività, è uno stile genitoriale punitivo in cui
i genitori dicono ai propri figli di eseguire le loro direttive: il figlio diventa un esecutore delle
direttive dei genitori, viene esortato a rispettare gli sforzi e il lavoro dei genitori.
Il genitore con uno stile autoritario mette dei limiti e dei confini rigidi, è disponibile a poco dialogo
con il bambino e solitamente questi scambi verbali son rappresentati da imposizioni; il genitore
autoritario potrebbe anche ricorrere certe volte a punizioni di tipo fisico, per esempio sculacciare
frequentemente il bambino, imporre le proprie regole senza spiegarle e nel momento in cui il figlio
richiede delle spiegazioni il genitore può mostrare insofferenza e rabbia nei confronti del figli.
I bambini cresciuti con questo stile autoritario spesso poi crescono ansiosi, apprensivi, infelici nei
confronti dei coetanei, sono dei bambini che possono avere anche delle scarse abilità comunicative
in quanto non sono abituati al dialogo; inoltre è possibile che i figli maschi ripercorrano nel loro
comportamento ciò che hanno appreso e cioè che possano comportarsi a loro volta, soprattutto
con i pari, in maniera aggressiva.
2. Genitorialità autorevole  è uno stile che incoraggia i bambini ad essere dipendenti ma mette
anche dei limiti ed esercita un controllo sulle azioni dei figli, quindi non è un’indipendenza in cui i
genitori lasciamo fare ciò che vogliono ai figli ma è un incoraggiamento verso i figli ad acquistare
un’autonomia e indipendenza esercitando anche un controllo su ciò che i figli fanno. In questo stile
gli scambi verbali sono ricchi e importanti, i genitori saranno attenti alle richieste dei figli, diranno
sia si che no in base alle richieste, saranno genitori attenti e calorosi, mostrando sostegno a dei
comportamenti costruttivi e si aspettano che i figli abbiano un comportamento maturo e adeguato
all’età che stanno attraversano. I bambini solitamente possiedono autocontrollo, sono sicuri di sé e
sereni, e sono orientati verso una cooperazione con gli adulti e hanno strumenti per far
adeguatamente fronte ad eventuali stress.
3. Genitorialità negligente o trascurata  è uno stile nel quale l’adulto è poco coinvolto nella vita dei
propri figli e quindi quest’ultimi tenderanno a crescere come socialmente incompetenti, avranno
uno scarso autocontrollo, non riusciranno a gestire bene l’indipendenza, avranno una bassa
autostima e potranno dimostrare anche una immaturità e da adolescenti possono rischiare di
mostrare di atteggiamenti di tipo delinquenziale/deviante.
4. Genitorialità indulgente  è uno stile in cui i genitori son molto coinvolti nel rapporto con i figli,
anche troppo e in questi rapporto fanno poche richieste ed esercitano uno scarsissimo controllo su
ciò che i figli fanno; i genitori lasciano che i figli facciano ciò che vogliono, con il rischio che i figli
non imparino mai a controllare il loro comportamento e si aspettano sempre di ottenere sempre
ciò che vogliono.
I figli tendono a diventare egocentrici, prepotenti, disobbedienti e avere difficoltà nel rapporto con i
pari.

All’interno degli stili genitoriali si inseriscono anche le punizioni; per molti secoli la punizione fisica veniva
considerata un metodo necessario, positivo e auspicabile per l’educazione dei bambini (ad esempio negli
anni ‘60 e ‘70 la maestra quando un bambino faceva qualcosa doveva fargli stendere le mani ed essere
bacchettato o prendersi uno schiaffo).
Uno studio crossculturale ha visto che gli americani e i canadesi sono una delle culture più favorevoli verso
le punizioni corporali perché c’è l’esperienza e il ricordo del fatto che venivano usate dai loro genitori o dai
loro educatori e l’uso delle punizioni corporali negli Stati Uniti è legale.
Una ricerca su bambini che sono stati oggetto di punizioni corporali ha concluso che la punizione corporale
regolare da parte dei genitori è associata a dei livelli di più alta remissività immediata da parte del bambino
(cioè nell’immediatezza il bambino dopo il ceffone si fa più remissivo) ma è anche fonte di aggressività nei
bambini; anche uno studio recente (2007) ha anche dimostrato che una disciplina fatta prevalentemente di
punizioni corporali violente è correlata o alla manifestazione di una depressione nell’adolescente o a
problemi come la delinquenza/devianza adolescenziale.
Ci sono quindi delle ragioni di tipo psicologico e pratico che consigliano i genitori ad evitare punizioni
corporali nei confronti dei propri figli.
Quali sono queste ragioni?
 Solitamente quando un adulto punisce lo fa urlando, gridando o sculacciandolo e nel fare questo
esibendo nei confronti del bambino un modello di gestione di una situazione stressante fuori controllo
e i bambini crescendo possono mettere in atto questo comportamento non controllato e aggressivo.
 La punizione fisica può mettere paura, rabbia o addirittura può far sì che il bimbo sperimenti un
comportamento di tipo evitante, cioè che il bambino tenda ad allontanarsi dal genitore che usa quel
tipo di stile educativo (se ad esempio il genitore sculaccia il bambino, il bambino può allontanarsi da lui
per paura).
 La punizione fisica indica ai figli ció che non va fatto invece di ció che va fatto; al posto della punizione
quando il figlio fa qualcosa si potrebbe dire “ma perché non hai fatto così? Avresti potuto risolvere
quel problema così” e quindi dare delle soluzioni al figlio.
 La punizione potrebbe anche trasformarsi in abuso.
La maggior parte degli educatori e degli psicologi dello sviluppo consigliano di usare come metodo
migliore, nella gestione dei comportamenti negativi, il ragionamento (specialmente per spiegare le
conseguenze delle loro azioni sugli altri) o delle forme di punizione che non siano corporali ma punizioni
che rappresentano delle limitazioni come:
- Costo della risposta  sottrarre al figlio qualcosa che era stato dato in precedenza come la metà
della paghetta settimanale
- Tecnica del time out  proibire per un certo tempo la TV o qualche programma

Quando i genitori utilizzano la punizione in modo calmo e ragionato, ossia usando lo stile genitoriale
autorevole, i figli ne traggono beneficio per uno sviluppo sufficientemente sano e sereno.

I maltrattamenti infantili
Esistono 4 tipi di maltrattamento infantile:
 Abuso fisico  è un tipo di abuso che è caratterizzato dal provocare delle ferite fisiche che nel
bambino sono causate da pugni, botte, calci, scottature, ecc.
 Trascuratezza  è l’incapacità di soddisfare i bisogni di base del bambino come ad esempio il
mangiare, il bere, l’essere lavato, oppure può essere una trascuratezza educativa o emotiva; la
trascuratezza fisica comprende anche il cercare un’assistenza medica, il rifiuto di riaccogliere in
casa un figlio che sia scappato, una supervisione inadeguata del bambino.
La trascuratezza educativa riguarda ad esempio il fatto che i genitori non si interessano se il
bambino vada o meno a scuola, non occuparsi di bisogni educativi speciali (il bambino che ha
bisogno di un sostegno e non occuparsi di questo); la trascuratezza emotiva avviene con delle
azioni di mancato interesse da parte dei genitori verso i bisogni affettivi del bambino e tra queste
azioni c’è ad esempio il rifiuto di cercare delle cure psicologiche laddove si veda che il bambino ne
necessita, gli abusi di un coniuge sull’altro in presenza dei figli o anche il disaccordo educativo tra i
genitori.
La trascuratezza è la forma più comune di maltrattamento
 Abuso sessuale  è quell’abuso che include tutti gli atti sessuali che un adulto compie nei confronti
di un bambino, include accarezzare i genitali del bambino o farli accarezzare a lui, include i rapporti
sessuali, l’incesto, lo stupro, l’esibizionismo (mostrare i propri genitali ad un bambino), la
produzione e l’utilizzo di materiale pedo-pornografico, sfruttamento commerciale della
prostituzione minorile
 Abuso emotivo  viene anche definito come oltraggio psicologico verbale o mentale ed è un tipo
di maltrattamento del minore che comprende o degli atti o delle omissioni emotive da parte dei
genitori che hanno causato o potrebbero causare nel bambino delle problematiche
comportamentali gravi; uno di questi atti è ad esempio utilizzare punizioni troppo forti, oppure
sminuire il proprio figlio

L’abuso non si ferma al momento in cui è stato attuato ma ci sono delle conseguenze future che il bambino
che l’ha subito vivrà nel periodo dello sviluppo e nella sua vita; potranno presentare un’emotività
scarsamente regolata, hanno emozioni eccessivamente negative (irritabilità, pianto) oppure emozioni
positive fioche (raramente sorridono).
Un’altra conseguenza dell’abuso può essere un problema nell’attaccamento perché hanno vissuto un
attaccamento insicuro evitante e quindi avranno problematiche nel relazionarsi con i pari, difficoltà
nell’adattamento a scuola, potranno avere un’ansia generalizzata, la presenza di una depressione.

L’abuso di sostanze
A partire dai comportamenti chiave dei genitori, educatori o insegnanti si possono prevenire o rilevare delle
situazioni di dipendenza; ciò che gli adulti devono fare è stare attenti, nel senso che devono sintonizzarsi
con il bambino/adolescente per ascoltare in maniera verbale e non.
Un altro elemento chiave è il dialogo in quanto tutti gli adolescenti apprezzano molto di più l’adulto che
riesce a dialogare in modo autorevole piuttosto che l’adulto che si può manovrare o che dice sempre di sì;
un altro aspetto importante è la comprensione, non per giustificare quello che è stato fatto ma per capire il
perché l’adolescente ha provato la canna.
Infine l’ascolto, inteso come un interessamento a comprendere lo stato d’animo che quell’adolescente ha
in quel momento e per fare questo è importante partecipare, interessarsi e avere conoscenze sufficienti
sulla dipendenza per poterne discutere con l’adolescente trasmettendogli quelle cose.
Nel 2015 l’INSTAT ha pubblicato dei dati relativi all’età in cui gli adolescenti iniziano ad avvicinarsi a queste
sostanze (da questo rapporto emerge addirittura che i primi passi di avvicinamento sono fatti dai pre-
adolescenti) ed emerge che il 13,5% dei ragazzi tra gli 11 e i 15 anni inizia a porre le basi per possibili
consumi problematici di alcol nel corso della vita; la fascia di età più a rischio di binge-drinking (bere più di 6
bevande alcoliche in un’unica occasione) è quella tra i 18 e i 24 anni con il 17%.
A 16-17 anni il 16% degli adolescenti fa un uso socializzante dell’alcol in quanto inizialmente libera dalle
inibizioni e fa socializzare con una maggiore facilità, il 2% dei ragazzini delle medie ha già provato qualche
sostanza stupefacente (l’età del primo contatto con le sostanze si è abbassato in una maniera
pericolosissima), il 3% di studenti scolastici afferma di aver provato almeno una volta nella vita la cocaina, 1
studente italiano su 8 tra i 15 e i 19 anni ha sperimentato un consumo abituale di cannabis; tra i giovani c’è
un aumento nel consumo di allucinogeni o sostanze stimolanti.
Viste queste percentuali ci si chiede come mai gli adolescenti cerchino le droghe.
Gli adolescenti si buttano sulle droghe in primo luogo perchè la droga sta diventando una moda, una
seconda causa può essere data dal fatto che il gruppo di pari con cui l'adolescente esce dà delle
informazioni false e poco attendibili riguardo le conseguenze dell'uso di droghe e alcol; attualmente le
droghe sono molto più disponibili, ci può essere la voglia di divertirsi facendo qualcosa di nuovo.
Nel periodo dell'adolescenza ci sono due aspetti importanti:
1. Egocentrismo adolescenziale --> l'adolescente si sente osservato ma anche capace di fare, si sente
quasi invincibile, mette dei confini sempre più ampi
2. Desiderio --> c'è il desiderio di sperimentare senza considerare le conseguenze e i rischi della
sperimentazione, questo desiderio è dato anche dalla crescita dell'amigdala che in qualche modo è
responsabile anche dell'aumento delle pulsioni e di un abbassamento dei limiti e dei confini

L'assunzione di droga può rappresentare anche una ribellione e una protesta nei confronti degli adulti;
inoltre la droga è piacevole, mette artificialmente e posto un problema psichico laddove esista e quindi
risulta essere apparentemente utile.
Spesso l'adolescente sperimenta anche degli stati ansiosi, una timidezza, un'insicurezza, possono esserci
delle problematiche scolatische per cui sperimentare droghe aiuta a sentirsi accettati nel gruppo di pari,
aiuta a vincere la noia, le insicurezze, disinibisce, attutisce il dolore emotivo --> di fondo la droga è
funzionale.
Questi aspetti sono tutti elementi che avvicinano l'adolescente all'utilizzo di sostanze; la funzione di queste
sostanze è quella di produrre effetti che vengono apprezzati dal consumatore, possono migliorare
temporaneamente le performance fisiche e psichiche e possono migliorare anche i rapporti con l'altro sesso
perchè disinibiscono.
Dopo aver sperimentato l'utilizzo di sostanze quindi il soggetto può scoprire che la sostanza è funzionale
per rispondere a quei bisogni psichici che sente dentro se stesso e quindi la sostanza diventa una auto-
medicazione nelle situazioni frustranti o in quelle situazioni emozionali non gradite.
La tossicodipendenza
Non tutti coloro che vengono a contatto con sostanze d'abuso diventano dipendenti.
La tossicodipendenza è un disturbo con dei sintomi cognitivi, comportamentali e fisiologici e si parla di
tossicodipendenza nel momento in cui viene perso il controllo dell'uso della sostanza, cioè non è più la
persona che decide quando utilizzare la sostanza ma tutta la giornata comincia a girare intorno alla ricerca
di quella sostanza.
La dipendenza da sostanze non è un vizio ma è una patologia grave che può diventare addirittura cronica e
anche nel momento in cui un dipendente da una sostanza non fa più uso di quella sostanza, non è un ex
dipendente ma rimane sempre un dipendente che in quel momento non fa uso della sostanza che gli dà
dipendenza (un alcolista non sarà mai un ex alcolista ma semplicemente un alcolista che sono tot mesi/anni
che non beve ma non va considerato un ex dipendente perché basterà un goccio d’alcol per non riuscire più
a fermarsi).
Ci sono dei fattori sociali e ambientali che possono favorire un rischio maggiore di cadere in una
dipendenza:
 Ambienti particolarmente stressanti  può essere anche il gruppo di pari perché vengono chieste
delle prestazioni ad ogni componente di quel gruppo, un altro ambiente stressante può essere la
scuola, un altro fattore sono delle problematiche in famiglia (relazioni conflittuali), modelli educativi
incostanti che i genitori e gli educatori forniscono con delle alternanze tra una iper-criticità e un
lassismo; anche il non superamento di un lutto può rappresentare un fattore socio-ambientale di
rischio che ci si possa avvicinare all’uso e all’abuso di sostanze.
Un altro fattore potrebbe essere la pressione da parte del resto del gruppo oppure la disponibilità
delle sostanze davanti alle scuole per esempio, di fronte a luoghi di ritrovo abituali come le
discoteche.
 Fattori di rischio psichici individuali  ad esempio con una bassa autostima la sostanza può riuscire
ad aumentarla artificialmente (alcune sostanze favoriscono la socializzazione), un altro fattore di
rischio psichico può essere uno scarso controllo di una impulsività; essere a rischio non vuol dire
essere predestinati.

Le sostanze d’abuso maggiormente utilizzate possono essere quelle stimolanti come la cannabis, la cocaina,
l’extasi, l’alcol (aumenta la capacità di colloquiare e di socializzare) e gli allucinogeni; ci sono poi anche delle
sostanze deprimenti come l’oppio e i suoi derivati (eroina) e altre sostanze sono rappresentate dagli
ipnotici come i funghetti allucinogeni.

La cannabis
Gli effetti immediati della cannabis sono tachicardia, disorientamento, mancanza di coordinazione fisica; il
fumo di marijuana contiene dal 50 al 70% di sostanze cancerogene ma la viscosità del fumo si attacca
maggiormente agli alveoli polmonari per cui è più rischiosa anche nello sviluppo di un cancro.
L’utilizzo prolungato può portare alla luce, in chi è predisposto, una psicosi o una nevrosi da ansia; il fumo
abituale di cannabis modifica la struttura degli spermatozoi deformandoli e nella donna può portare a delle
alterazioni del ciclo mestruale, nei fumatori abituali alcune funzioni mentali tendono a diminuire perché il
principio attivo della cannabis va a distruggere le cellule nervose del cervello danneggiando anche la
memoria e la cannabis è una delle poche sostanze che può causare una divisione cellulare anomala con il
rischio di provocare nel feto dei gravi difetti ereditari.
Si può uscire dall’utilizzo di droghe.

La cocaina
La dipendenza da cocaina è il desiderio di usare regolarmente la cocaina e ci può essere anche un’overdose
da cocaina che crea dei danni cardio-vascolari cerebrali come una vasocostrizione dei vasi sanguigni del
cervello che provoca un ictus oppure può provocare una costrizione delle arterie del cuore causando
un’ischemia.
Gli effetti della cocaina sono euforia, grande quantità di energia e se si assume in quantità elevate può
provocare anche sbalzi d’umore, insonnia, aumento della pressione e della frequenza cardiaca, attacchi di
panico; i sintomi di astinenza sono la depressione, la stanchezza, l’ansia, un prurito soprattutto alle braccia,
irritabilità, desiderio di assumere nuovamente cocaina, in alcuni casi ci possono essere nausea e vomito.
Questi sintomi possono durare delle settimane ma anche dei mesi e anche dopo che questi sono passati, chi
ha consumato cocaina può sentire di nuovo il desiderio di consumare questa sostanza e questo desiderio
può durare per anni e avere dei picchi nei periodi di stress.

L’eroina
La dipendenza da eroina è abbastanza diffusa ancora soprattutto per il costo relativamente accessibile;
esistono diversi tipi di eroina che si differenziano per la qualità, la purezza, le sostanze da taglio utilizzate sia
durante la preparazione che dopo la produzione e i tipi più comuni sono l’eroina bianca e l’eroina base
(brown sugar).
L’eroina bianca è la più pura tra quelle esistenti nel mercato ed è molto più forte rispetto all’eroina base
che invece è più adatta ad essere fumata piuttosto che iniettata; l’eroina può essere fumata, iniettata e
aspirata e il metodo più diffuso è quello dell’iniezione (la più usata è quella in vena).
Gli altri metodi, inalazione e fumo, vengono talvolta utilizzati anche nell’errata convinzione che inducano
più difficilmente la dipendenza ma non è così perché la dipendenza da eroina si sviluppa molto
velocemente.
Gli effetti dell’eroina dipendono anche dalla modalità con cui viene assunta: l’iniezione endovena provoca il
massimo raggiungimento dell’euforia anche dopo 7-8 secondi dall’iniezione mentre un’iniezione
intramuscolare produce un effetto molto più lento (ci vogliono dai 5 agli 8 minuti), se viene inalata o fumata
l’effetto maggiore si ottiene dopo 10/15 minuti; gli effetti percepiti dipendono anche dalle caratteristiche
della persona che la assume, dal momento dell’assunzione.
Quando si arriva ad un uso quotidiano di eroina si entra nella dipendenza che provoca anche assuefazione,
cioè per raggiungere gli stessi effetti bisogna sempre aumentare il dosaggio.
L’effetto euforizzante che inizialmente l’eroina dà viene chiamato rush, viene paragonato ad un orgasmo e
dura da pochi secondi fino a qualche minuto; passato il rush c’è uno stato di semi-vigilanza in cui c’è un
distacco dalla realtà e un effetto sedativo sul sistema nervoso centrale, la concentrazione e la coordinazione
sono ridotte, l’eloqui è molto lento e questi effetti durano per parecchie ore.
In questo stato il consumatore avverte un profondo stato di benessere, una tranquillità interiore estrema e
una soddisfazione profonda.
L’eroina provoca una dipendenza molto più rapida rispetto alle altre sostanze e dopo il periodo definito
“luna di miele” inizia una dipendenza fisica da eroina che è caratterizzata da un aumento della sostanza per
ottenere gli stessi effetti e da una sindrome da astinenza se non si assume la sostanza; ad un certo punto si
arriva ad un momento in cui il rush scompare ma il fisico e la parte psicologica si sono abituate alla
presenza della droga e quindi richiedono la sostanza per continuare a funzionare.
Per quanto riguarda la dipendenza psicologica da eroina, si manifesta con un costante desiderio di
assumere la sostanza seguito da un umore negativo e il comportamento del paziente spesso è irrazionale
perché è un comportamento indirizzato solo al raggiungimento dello scopo: trovare, comprare e
consumare la sostanza.
L’astinenza fisica dura circa 2 settimane mentre quella psicologica dura tutta la vita.
I sintomi più comuni dell’astinenza fisica sono la dilatazione della pupilla, dolore muscolare, dolore alla
spina dorsale, dolore alle articolazioni, nausea, vomito, dissenteria, insonnia, sudorazione, estrema
irrequietezza e sono dei sintomi dolorosissimi; molto spesso per evitare questi sintomi si tende a ricadere
nel consumo della sostanza.
Per provare ad uscire da questa dipendenza ci vuole un progetto terapeutico che prevede 3 fasi di
disintossicazione:
1. Disintossicazione  implica anche uno psichiatra perché comprende l’utilizzo di farmaci, in
particolare il metadone; bisogna vedere se c’è anche una presenza di malattie infettive come HIV e
in quel caso occorre anche un infettivologo che prescrive una terapia anti-infettiva
2. Trattamento intensivo  il modello teorico di psicoterapia più efficacie in queste situazioni è la
terapia cognitivo-comportamentale che si concentra sull’individuazione delle situazioni che sono
state e che sono a rischio per la dipendenza; fa leva anche sull’utilizzo di strategie per far fronte agli
stati negativi generalmente associate all’uso e all’abuso
3. Prevenzione della ricaduta

Inizialmente erano interventi a sé ma con il tempo si sono intrecciati e prima di stabilire la terapia corretta
si fanno delle valutazioni sulla salute fisica, psicologica, sulle varie problematiche che ha causato la sostanza
e sull’età; in un adulto si tende a fare una riabilitazione che lo aiuti ad immettersi nuovamente in un ambito
lavorativo e ad avvicinarsi al supporto della famiglia.
Per un adolescente si fa un’abilitazione in quanto la tossicodipendenza può intaccare lo sviluppo cognitivo,
affettivo e la formazione della propria identità; gli interventi si presentano più complicati perché uno
sviluppo danneggiato alimenta la sfiducia verso gli adulti e verso un sostegno esterno, alimentando
esponenzialmente problematiche psicopatologiche.

Le dipendenze new addiction


Esistono anche delle dipendenze definite “senza sostanze” che sono la dipendenza da internet (IAD) e la
dipendenza del gioco d’azzardo (GAP).
La dipendenza da internet non deve andare a demonizzare gli strumenti tecnologici perché sono utili ma ad
essere negativi e pericolosi sono gli usi distorti che se ne possono fare; internet, soprattutto per gli
adolescenti, rappresenta l’altro in quanto in una società in cui “l’altro” adulto ha difficoltà nell’ascolto
dell’adolescente, per lui chi risponde e ascolta nell’immediato è internet.
L’utilizzo inappropriato di internet può anche presentare dei rischi perché è come l’acqua per i pesci: i
ragazzi e i preadolescenti hanno tutte le competenze tecniche della rete ma non ne hanno la conoscenza
critica.
I sintomi della dipendenza da internet sono crisi di astinenza quando la linea non prende, modificazione del
tono dell’umore, perdita di interesse, appetito, sonno, ci possono essere problemi scolastici e isolamento.
La dipendenza da internet può essere generale quando non si proietta verso un particolare sito o specifica
se è indirizzata ad una particolare attività online; alcuni casi sono:
1. Negli anni ’90 in Giappone prende larga diffusione la dipendenza da giochi online negli adolescenti,
nominati hikikomori (significa stare in disparte, isolarsi) che commettono un suicidio dalla realtà per
rintanarsi completamente nella dimensione online; sono persone tendenzialmente fragili,
introverse, che subiscono eccessive richieste che non si sentono in grado di soddisfare e si creano
una dimensione artificiale, ogni intento di dialogo con questi soggetti diventa un monologo.
La terapia psicologica per dipendenti da giochi online è spesso accompagnata da medicinali
ansiolitici e anti-depressivi dato che il tono dell’umore subisce un grave calo derivato
dall’isolamento sociale; questo fenomeno da circa un decennio si è sviluppato anche in Europa.
2. Un’altra dimensione pericolosa sono i siti Pro-Ana, in cui persone con tendenze verso i disturbi
alimentari possono fare affidamento; all’interno di essi viene proposta una scheda alimentare per
rimanere magri e vengono creati degli spazi di conversazione in cui persone con disturbi (spesso
anoressia grave) esprimono il loro desiderio di tendere ad una perfezione fisica totalmente
snaturata.
Vengono proposte schede con “strategie” per non mangiare come ad esempio procurarsi del
dolore per distrarsi dalla fame e dei copioni con frasi prestabilite da utilizzare nei contesti in cui è
richiesto mangiare.

Due ricercatrici dell’american psichologist association, Emily Stasko e Pamela Geller, hanno svolto una
ricerca sui rischi che gli adolescenti corrono in rete se cadono nella dipendenza dalla sessualità; in questa
ricerca hanno visto che l’82% del campione (va dai 18 agli 82 anni e sono state coinvolte più donne che
uomini) nell’ultimo anno ha fatto sexting minimo per una volta.
Per gli adolescenti il rischio di dipendenza è estremamente maggiore perché gli adolescenti attraversano
una fase particolare in cui ancora non hanno avuto uno sviluppo completo; il rischio di dipendenza da
sexting può avere delle ricadute sul corso del loro sviluppo.
Il termine “sexting” è un neologismo inglese che deriva dall’unione di “sex” e “testing” (scambiarsi messaggi
o immagini con contenuti sessuali espliciti) e nella maggior parte dei casi il dispositivo utilizzato è un
cellulare.
Questa attività già esisteva nell’antichità attraverso ritratti o lettere usate per mantenere attiva l’intinimità
in periodi di lontananza e si limitava agli adulti; ad oggi con la diffusione della tecnologia nelle mani di
bambini rischia di diventare un vero e proprio pericolo che espone bambini/adolescenti.
Accanto e spesso conseguenza del sexting, c’è il ciber-sesso  il sesso simulato o praticato virtualmente al
quale possono partecipare due o più persone.
Uno studio dell’università degli studi di Padova afferma che i giovanissimi sono stregati dalla rete, da chat e
da siti pornografici e tutto questo comporta un grande pericolo per la loro salute psicologica e per la
propria incolumità fisica e i rischi reali che possono provenire dal ciber-sesso: questi incontri virtuali si
possono infatti anche trasformare in incontri reali che sottopongono gli adolescenti a dei rischi.
La ricerca delle due psicologhe aveva l’obiettivo di valutare le ragioni del sexting e il grado di soddisfazione
sessuale che questa pratica dava a chi la metteva in atto e la domanda rivolta ai partecipanti era se
avessero mai fatto sexting; l’82% ha risposto affermativamente, di questi il 75% ha dichiarato di averlo fatto
nel contesto di una relazione consolidata considerandolo come una parte divertente del rapporto e il 43%
ha risposto di aver fatto sexting all’interno di rapporti occasionali.
I ricercatori hanno anche scoperto che nelle coppie consolidate questa pratica rappresenta anche un modo
per migliorare l’intimità e viene vissuta come una parte giocosa della relazione; l’utilizzo del mezzo internet
in questo senso è molto più diffuso di quello che si pensi.
Questa ricerca riguardava il mondo anglosassone ma in Europa è stato calcolato che le persone che
utilizzano internet quotidianamente rappresentano il 70% della popolazione e in Italia lo utilizzano 30
milioni di persone tutti i giorni; fino ai primi anni 2000 gli utenti di internet cercavano maggiormente
informazioni e usavano le email, negli ultimi anni è cresciuto il numero di persone che utilizzano chat, social
network, giochi e la visione di siti pornografici.
Anche l’età nell’ultimo decennio si è notevolmente abbassata: il 52% degli adolescenti tra gli 11 e i 15 anni
hanno uno smartphone e il 25% usa il telefono per andare su internet.
Nel 2012 era già stato segnalato questo problema e il rischio di pericolosità del sexting e del ciber-sesso
perché circa il 9% degli adolescenti trasferiscono poi nella realtà gli incontri fatti in rete.
Il sexting in Europa coinvolge il 15% degli adolescenti di età compresa tra gli 11 e i 16 anni; il 35% degli
adolescenti italiani (11-17 anni) invia o pubblica sui social messaggi, foto o video a sfondo esplicitamente
sessuale.

Le ricadute del fenomeno


In tutte le situazioni in cui un rapporto virtuale si sposta dalla rete ed entra nella realtà, un adolescente può
avere il rischio di rapporti sessuali non protetti perché manca (maggiormente nell’adolescente)
un’educazione sessuale e questo li può portare anche a rischiare delle malattie sessuali o una gravidanza
indesiderata e un aborto.
Un secondo rischio è rappresentato dalla dipendenza perché la dipendenza è un passaggio molto rapido
soprattutto in età evolutiva in cui la parte fisica, psicologica dell’individuo si sta strutturando ed è il periodo
in cui gli adolescenti si avvicinano ai primi rapporti sessuali, per cui diventare dipendenti da ciber-sesso è un
rischio concreto.
Un altro rischio è che alla fine possono diventare più importanti i rapporti virtuali che i rapporti reali e da
qui nasce la dipendenza perché la sessualità vissuta in maniera virtuale diventa il canale principe se non
l’unico canale attraverso il quale può provare e trovare soddisfazione e piacere; in queste situazioni la
fantasia sostituisce la realtà e tutto questo può portare alla dematerializzazione del corpo.
Il corpo non è più percepito come fatto di pelle, ossa, carne ma diventa un qualcosa di virtuale che è un
corpo perfetto, la pelle è liscia  accade quindi che il corpo reale, che non è perfetto, non interessa più e
crea una difficoltà di erezione da parte del maschio.
La perdita di contatto con il proprio corpo e con quello reale altrui o lo sviluppo incompleto di questo
contatto può portare negli adolescenti il rischio della cristallizzazione, ovvero un arresto dello sviluppo della
sessualità  la sessualità può diventare autoreferenziale perché si può verificare un arresto dello sviluppo
della sessualità all’interno di una dimensione puramente virtuale in cui non si percepisce più il corpo
dell’altro e viene a mancare l’esperienza della relazione.
C’è anche il rischio di estraniarsi dai sentimenti e dalle emozioni.
A differenza di altre dipendenze, quella da ciber-sesso può riguardare non solo ragazzi problematici ma
anche adolescenti sani, cioè può avere effetti negativi anche su un ragazzo effettivamente equilibrato
soprattutto se non trova un appoggio su cui poter contare e dal quale poter essere seguito per tornare alla
realtà.
In queste situazioni gli aiuti che si possono dare è soprattutto l’informazione e la formazione: i ragazzi
devono essere informati su cosa siano il sexting e il ciber-sesso e i rischi che comportano, occorre un
ascolto e un dialogo aperto e sincero, la presenza di un controllo discreti, i ragazzi devono essere educati
sulla sessualità anche a scuola; nei casi in cui la dipendenza è già in atto bisogna rivolgersi ad uno
psicoterapeuta che intervenga in maniera precoce.

La dipendenza sessuale
Le dipendenze le trattiamo all’interno del discorso della famiglia perché alcuni fattori di rischio che possono
far sviluppare le dipendenze nascono all’interno delle famiglie che sono famiglia disfunzionali, ovvero non
hanno relazioni adeguate che permettono uno sviluppo psicologico del bambino sufficientemente sano.
La dipendenza sessuale viene anche definita come desiderio sessuale eccessivo ed atipico e negli ultimi 30
anni questa dipendenza è stata oggetto di parecchie discussioni nell’ambito degli studiosi che si interessano
di dipendenze e di sessualità e il dibattito si è sviluppato soprattutto intorno a se sia legittimo parlare di una
dipendenza sessuale e se possa essere considerata una vera e propria malattia medica o no.
Nella comunità scientifica ancora oggi non c’è un consenso unanime sull’esistenza effettiva di una
dipendenza sessuale; ci sono degli esperti che ne sostengono la dipendenza e che la descrivono come una
dipendenza al pari di una dipendenza da sostanze e quindi i soggetti che ne soffrono sono considerati al pari
degli alcolisti e dei tossicodipendenti.
Sono stati descritti come persone che non si controllano e che ignorano le conseguenze fisiche, emotive e
intrapersonali che la dipendenza comporta.
Altri gruppi di studiosi ritengono che la dipendenza sessuale esista ma che appartenga alla categoria dei
disturbi ossessivo-compulsivi e la considerano come una compulsione sessuale.
Infine altri studiosi dicono che la dipendenza sessuale è qualcosa che di per sé non esiste ma è un
sottoprodotto di influenze sociali o culturali; questa discordanza riguarda anche il termine più appropriato
da utilizzare per definirla  per alcuni è “dipendenza sessuale”, per altri è “impulsività sessuale”, per altri
ancora è “ipersessualità non parafialaca” (le parafilie sono delle modalità patologiche di vivere la sessualità
e sono descritte nel manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), per altri è “comportamento
sessuale compulsivo” o “sessualità disregolata”.
I due manuali che descrivono le psicopatologie, il DSM-5 e ICD-10, parlano di satiriasi negli uomini e di
ninfomania nelle donne; questi due aspetti sono considerati come una diagnosi medica all’interno di questi
due manuali.
Non tutti i comportamenti sessuali non tradizionali hanno problematiche legate alla sessualità; si parla di
dipendenza sessuale quando il comportamento diventa dominante nella vita dell’individuo e sfugge al suo
controllo volontario.
Karns definisce la dipendenza sessuale come un comportamento compulsivo legato al vivere la sessualità
che interferisce con la vita quotidiana fino al punto da diventare ingestibile e stima che questa dipendenza
sessuale sia presente tra il 3 e il 6% della popolazione sia maschile che femminile; i ricercatori che si sono
occupati di definire la presenza di dipendenza sessuale hanno tutti rilevato la presenza di alcuni
comportamenti caratteristici:
 Correlazione molto forte con la presenza di abusi infantili e lo sviluppo di una dipendenza sessuale
in età adulta
 L’attaccamento insicuro, la presenza di relazione caotiche vissute in famiglia, l’assenza di regole
chiare
 Disturbo nel controllo degli impulsi  quei soggetti che presentano deficit dell’attenzione o
disturbo di iperattività e quando questi disturbi non vengono trattati sembrano un fattore di rischio
per sviluppare una dipendenza sessuale
 Compresenza con altre dipendenze, cioè c’è una interconnessione tra le altre dipendenze e quella
sessuale come ad esempio la correlazione tra la dipendenza sessuale e quella da sostanze

Le conseguenze di un eccessivo comportamento sessuale sono serie, possono portare le persone che ne
sono affette alla perdita delle relazioni affettive, a gravi problemi coniugali e familiari, a difficoltà lavorative,
a problemi finanziari perché per riuscire a soddisfare questa dipendenza ci può essere anche un ricorso alla
prostituzione, una perdita di interesse per tutto ciò che riguarda il sesso; un’altra conseguenza grave che si
verifica con il passare del tempo è che gli individui sviluppano una tolleranza e quindi non traggono più
soddisfazione dall’attività sessuale e la tolleranza li costringerà ad aumentare la frequenza con cui
intrattengono le loro esperienze sessuali e ad andare alla ricerca di attività sessuali insolite (es. bondage).
Ci può essere anche una connessione tra la dipendenza sessuale e internet e nei casi in cui si crea questo
collegamento si può parlare di dipendenza da sessualità online  si fa riferimento a tutte le modalità di
utilizzo della rete con lo scopo di raggiungere l’eccitazione e la soddisfazione sessuale; queste attività
possono comprendere la visione e lo scambio di contenuti sessuali, entrare nelle chat rooms con dei giochi
di ruolo, lettura di romanzi erotici online e la ricerca di persone che si prostituiscono.
Cooper nel 1998 ha suggerito che ci sono 3 fattori primari che facilitano la sessualità online, ovvero
l’accessibilità 24h su 24h, la convenienza economica e l’anonimato.
L’identikit di chi utilizza la sessualità online è:
- età = tutte le fasce di età
- cultura = tutte le tipologie di culture
- razza = tutte le razze
- livello socio-economico = tutti i livelli
- livello di istruzione = tutti i livelli

Hung, una ricercatrice, fornisce dei dati per un recupero integrato che è rappresentato da un percorso di
psicoterapia (il più idoneo è la terapia cognitivo-comportamentale) che tende ad un cambiamento del
comportamento del soggetto, tende a far sì che l’individuo eviti le situazioni che poi lo portano ad usufruire
di un sito hard, tende a far recuperare i rapporti reali al paziente e infine tende a creare un’immagine
positiva di sé dopo un processo di auto-esplorazione; un’altra terapia efficace è quella di gruppo (può
essere anche online per mantenere l’anonimato).

MODELLI FAMILIARI
Negli ultimi 7-8 anni in Italia ci si è ritrovati ad affrontare un argomento da un punto di vista politico,
religioso, legislativo ecc., ovvero quello delle unioni civili e delle famiglie arcobaleno; sembra un qualcosa
che si può liquidare velocemente ma si deve considerare da dove si parte.
Si parte dal 1952, anno in cui esce la prima edizione del DSM (manuale diagnostico e statistico) e tra le
psicopatologie risultava anche l’omosessualità che viene considerata come tale fino al 1974; nella comunità
scientifica e nelle discussioni all’interno di convegni di psichiatria si continua però ancora a parlare del fatto
che ci siano dei soggetti omosessuali che però non accettano la loro condizione e quindi alcuni continuano a
sostenere che in quei casi possa esistere ancora una psicopatologia non più legata all’aspetto omosessuale
ma al fatto di accettare o di non accettare la propria situazione.
Da psicopatologia l’omosessualità diventa una situazione normale in cui l’innamoramento avviene verso
una persona dello stesso sesso invece che del sesso opposto; si arriva poi al 17 maggio del 1990 in cui
l’organizzazione mondiale della sanità riconosce anch’essa il fatto che l’omosessualità non è più una
psicopatologia e la definisce come una variante naturale del comportamento umano.
L’Italia non è tra i paesi più avanzati nella questione dei matrimoni gay ma non è nemmeno una delle più
arretrate; in Danimarca fin dal 1989 erano consentite le unioni civili, l’Olanda nel 2001 è stata la prima
nazione ad aprire la possibilità del matrimonio alle coppie gay con gli stessi diritti e gli stessi doveri delle
coppie eterosessuali e tra questi diritti c’era anche quello dell’adozione (veniva quindi preso in
considerazione anche il tema dell’omogenitorialità), in Spagna nel 2005 sono stati approvati i matrimoni
gay.
È vero anche che in alcuni paesi le pratiche omosessuali sono considerate illegali e sono punite con
l’incarcerazione o addirittura con la pena di morte (ad esempio alcuni paesi dell’Africa e del Medio Oriente);
in Italia da un’indagine è emerso che su 7000 persone omosessuali il 18% di gay e il 21% di lesbiche ha
dichiarato di avere figli da unioni eterosessuali precedenti e da qui si è arrivati a stimare che in Italia siano
presenti circa 100.000 minori che vivevano con almeno un genitore omosessuale.
Nel 2016 in Italia viene approvata la legge Cirinnà che ha permesso a persone dello stesso sesso di poter
essere riconosciute come famiglia attraverso l’unione civile; il fatto che coppie omosessuali siano
riconosciute civilmente come famiglie è importante sia dal punto di vista giuridico che sociale ma ci sono
delle differenze rispetto alle coppie eterosessuali.
Le unioni civili non sono equiparate al matrimonio tra uomo e donna perché il matrimonio è specificato e
sancito dall’articolo 29 della costituzione italiana mentre l’unione civile è una specifica formazione sociale
composta da persone dello stesso sesso; nel matrimonio c’è l’obbligo della fedeltà mentre nell’unione civile
no, nelle unioni civili non è prevista la non unibilità del coniuge in caso di falsa testimonianza nei confronti
dell’altro coniuge (se il marito finisce in tribunale imputato di un reato, il giudice dà alla moglie la possibilità
di poter non testimoniare contro il marito ma se la moglie testimonia dicendo falsità non è punibile, se uno
dei due membri di un unione civile dice una falsa testimonianza per aiutare l’altro è punibile).
Per quanto riguarda il divorzio nelle unioni civili può essere concesso dopo 3 mesi dalla richiesta mentre in
un matrimonio ci vogliono 6 mesi e infine non è possibile chiedere l’annullamento dell’unione in caso di
mancata consumazione mentre nel matrimonio è possibile.
Un’ultima differenza è rappresentata dall’impossibilità nelle unioni civili della stepchild adoption, ovvero la
possibilità di adottare un figlio del coniuge che ha avuto da una precedente unione eterosessuale.
Esiste una parte della società che ancora considera l’omosessualità come una malattia perché forze la
società ci ha abituato alla naturalezza dell’eterosessualità; ci possono essere delle persone omosessuali che
hanno una specie di omofobia interiorizzata che viene descritta come un insieme di sentimenti negativi che
una persona può provare più o meno consapevolmente nei confronti della propria omosessualità.
Le caratteristiche associate all’omofobia interiorizzata sono una scarsa stima di sé che può raggiungere la
forma dell’odio di sé (incertezza, vergogna, incapacità di comunicare agli altri il proprio orientamento,
identificazione con stereotipi denigratori).

BAMBINI DIVERSAMENTE ABILI


Il gruppo di bambini/studenti con disabilità che di gran lunga superano in percentuale tutti gli altri tipi di
disabilità è rappresentato dai disturbi dell’apprendimento; uno studio negli Stati Uniti riporta che:
1) Il 5,6% di bambini che frequentano la scuola pubblica sono affetti da disturbo dell’apprendimento
2) I bambini che presentano dei disturbi della parola e del linguaggio sono il 3%
3) I bambini con ritardo mentale sono l’1%
4) I bambini che presentano disturbi della sfera emotiva sono lo 0,9%

Quando si parla di disturbi dell’apprendimento si deve tenere presente che nel fare la diagnosi nei bambini
con disturbo specifico dell’apprendimento, occorre fare una distinzione tra i disturbi dell’apprendimento
(chiamati anche disturbi non specifici dell’apprendimento o difficoltà dell’apprendimento) e i disturbi
specifici dell’apprendimento; i bambini che presentano disturbi non specifici dell’apprendimento
presentano la difficoltà di acquisire competenze in più ambiti di settori specifici delle competenze
scolastiche.
Il disturbo non specifico dell’apprendimento rappresenta uno dei problemi più rilevanti che si incontrano
nella pratica clinica perché interessa una percentuale elevata della popolazione scolastica; le cause che
possono dare luogo a queste difficoltà dell’apprendimento sono il fatto che questi bambini presentino un
ritardo mentale, il fatto che i bambini possono avere dei deficit sensoriali (ad esempio sono ipovedenti o
hanno un problema uditivo), la presenza di lesioni cerebrali organiche che possono dar luogo ad esempio
ad una patologia neurologica o a delle manifestazioni cliniche patologiche (epilessia, piccolo male o
assenze), la presenza di una patologia psichiatrica, la presenza di una distimia cioè il disturbo dell’umore, la
presenza di disturbi d’ansia o autismo ad alto funzionamento, uno svantaggio socio-culturale (cioè bambini
che provengono dalle famiglie socialmente svantaggiate, culturalmente svantaggiate, non necessariamente
un bambino che proviene da una famiglia svantaggiata presenti un disturbo non specifico
dell’apprendimento).
Una di queste cause o più cause, sono i motivi alla base di una presenza di un disturbo non specifico
dell’apprendimento.
I DSA sono i disturbi specifici dell’apprendimento e il sospetto di questi disturbi in un bambino riguarda in
primo luogo la famiglia stessa (che molto spesso tace per vergogna) e gli insegnanti anche perché la
diagnosi viene effettuata nei primi anni della scuola; si può sospettare di un DSA e poi procedere alla
diagnosi quando:
 Un bambino ha difficoltà nell’apprendere (non presenta un deficit intellettivo ma ha un QI nella
norma)
 Un bambino ha delle difficoltà notevoli rispetto ai coetanei in un’area legata all’apprendimento
avendo prestazioni inferiori rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare dal QI e dal campione di
riferimento  se un bambino con QI di 100 presenta delle difficoltà notevoli in un’area di
apprendimento e presenta un gap importante nei confronti dei suoi compagni di classe;
generalmente le due aree più interessate sono la lettura e quella logico-matematica)
 Un bambino non presenta gravi disturbi emotivi, non ha problemi sensoriali e non ha deficit
neurologici specifici per compiere i movimenti fini che servono per scrivere

La diagnosi di DSA si può porre solo se ci sono queste condizioni.


I maschi sono classificati come portatori di un disturbo dell’apprendimento circa 3 volte più spesso delle
femmine e questa disparità può essere fondamentalmente collegata ad una vulnerabilità biologica (il
maschio può essere più vulnerabile biologicamente) o ad un pregiudizio.
Le aree di apprendimento maggiormente implicate nella presenza di un disturbo specifico
dell’apprendimento sono rappresentate dalla lettura e dall’area logico-matematica; il DSA può manifestarsi
come dislessia, disortografia, disgrafia e con una discalculia.
Questi aspetti possono essere separati tra loro oppure possono presentarsi insieme; il DSA è un disturbo
dello sviluppo neurologico del bambino e ha un’origine biologica che sta alla base delle anomalie che il
bambino presenta a livello cognitivo.
Il disturbo neurologico del bambino può avere delle cause prenatali:
1) Malattie della mamma
2) Influenze ambientali —> ad esempio l’abuso da parte della mamma di alcol, droghe
3) Presenza di agenti teratogeni

Il disturbo dello sviluppo neurologico del bambino può avere anche una causa perinatale, cioè al momento
della nascita del bambino e sono ad esempio un travaglio faticoso, particolarmente lungo oppure il parto;
sono tutte cause che possono portare ad una encefalopatia neonatale.
Ci sono anche le cause postanatali che sono quelle dovute ad esempio ad un’ischemia, ad un trauma
cerebrale, alla presenza di infezioni e di convulsioni infantili.
Tutte queste cause colpiscono le capacità cerebrali di processare in maniera precisa le informazioni verbali
e non che arrivano al bambino; il DSA si manifesta con una difficoltà persistente di apprendimento che il
bambino manifesta nelle abilità scolastiche chiave.
Queste difficoltà vengono riconosciute nel periodo scolastico e cioè nell’età dello sviluppo e le aree
scolastiche chiave sono rappresentate da una difficoltà nella lettura di parole in modo preciso e fluente,
una difficoltà nella comprensione di quello che il bambino ha letto, una difficoltà nella scrittura (grafia e
ortografia), per i bambini stranieri una difficoltà nello spelling, una difficoltà nel calcolo aritmetico e infine
una difficoltà nel ragionamento matematico, cioè nella risoluzione dei problemi matematici.
Queste abilità scolastiche devono essere apprese e insegnate in maniera esplicita e la manifestazione
clinica più comune del DSA è la dislessia, cioè la difficoltà nell’imparare a mettere in connessione le lettere
con i suoni della propria lingua; le difficoltà persistono nel corso della vita e le relative manifestazioni
cliniche variano a seconda dell’età.
Negli adolescenti la persistenza della difficoltà è rappresentata dal fatto che nell’adolescente c’è una
ristretta capacità di progresso e apprendimento rispetto ai suoi coetanei in un tempo superiore ai 6 mesi
nonostante la scuola metta a disposizione strumenti extra (ad esempio un computer, scrivere tutto con le
lettere maiuscole ecc.); negli Stati Uniti la percentuale di presenza di DSA sta tra il 5 e il 15% di bambini in
età scolare (da noi sta intorno al 3,5%) —> una motivazione puó essere che la lingua italiana ha una
struttura diversa, cioè il fonema scritto nella maggior parte dei casi corrisponde alla pronuncia della parola
e l’altro motivo può essere dovuto ad una difficoltà maggiore che c’è in Italia nel fare la diagnosi.
La percentuale negli adulti è sconosciuta ma si stima che si aggiri intorno al 4%.

Inizio, sviluppo e decorso del DSA


L’esordio e il riconoscimento del DSA in genere avviene durante i primi anni della scuola primaria quando
viene richiesto ai bambini di imparare a leggere, a scrivere e quando si comincia a richiedere ai bambini la
capacità di risolvere operazioni matematiche; ci sono però dei sintomi precursori che si verificano prima
dell’inizio della scuola e possono essere dei ritardi o deficit del linguaggio, difficoltà con le rime o con le
abilità motorie fini richieste per la scrittura.
Il DSA si sviluppa e dura tutta la vita ma lo sviluppo, il decorso, le manifestazioni cliniche sono variabili
perché dipendono dalla gravità delle difficoltà di apprendimento che il bambino presenta e poi dai sistemi
di sostegno che il bambino riceve; man mano che il bambino cresce avvengono dei cambiamenti nella
manifestazione dei sintomi.
 In età prescolare i bambini possono avere una mancanza di interesse nel praticare dei giochi
linguistici (ad esempio ripetere quello che l’adulto dice), una difficoltà nell’imparare poesie o
filastrocche, difficoltà a ricordare o a riconoscere la scrittura delle lettere
 In età scolastica i bambini della scuola materna possono non essere capaci di scrivere il proprio
nome in lettere stampatelle, possono avere difficoltà a riconoscere le rime
 I bambini delle prime tre classi primarie possono non essere capaci di leggere parole composte da
una sola sillaba, di riconoscere parole comuni che hanno una pronuncia irregolare (non riescono a
riconoscere la differenza della sillaba -gli tra conigli e glicine), possono avere delle difficoltà nel
ricordare come procedere per fare un’addizione o una sottrazione
 I bambini delle ultime due classi della scuola primaria possono pronunciare in modo scorretto delle
parole o saltare delle sillabe di una parola, possono confondere parole che hanno un suono simile,
impiegano più tempo nel completare i compiti a casa, possono manifestare un’ansia in pubblico nel
leggere ad alta voce
 Nell’adolescenza i sintomi possibili sono una lettura con caratteristiche lente e faticose, problemi
nella comprensione della lettura e nell’espressione scritta, presenza di errori ortografici, difficoltà di
soluzione dei problemi matematici
 In età adulta si continuerà ad avere problemi ortografici, problemi sulla lettura (faticosa e lenta,
sulla comprensione, difficoltà nel padroneggiare il linguaggio

Disturbo da deficit di attenzione e disturbo da iperattività


Questi disturbi vengono definiti DDAI.
Questi soggetti presentano un modo persistente di disattenzione, incapacità di rimanere attenti o di
iperattività e associata ad un’impulsività, tutte caratteristiche che ostacolano un sano funzionamento e
interferiscono con un sano sviluppo.
Queste caratteristiche emergono nella quotidianità ma in maniera particolare a scuola e sono:
1. Disattenzione che si manifesta concretamente come un divagare dal compito  non è un sintomo
causato da un atteggiamento di sfida nei confronti degli insegnanti o da una mancanza di
comprensione di quello che le insegnanti hanno spiegato
2. Mancanza di perseveranza
3. Difficoltà nel mantenere l’attenzione ed essere disorganizzati

L’impulsività è caratterizzata da azioni improvvise senza che ci sia una premeditazione e sono delle azioni
che hanno un altissimo potenziale di danno per se stessi; può essere collegata ad una forte difficoltà o
addirittura ad un’incapacità di ritardare la gratificazione, cioè non riuscire a vivere il tempo dell’attesa ma
avere e fare tutto subito; in questi bambini l’attesa crea frustrazione e il DDAI inizia nell’infanzia prima dei
12 anni, generalmente la diagnosi avviene intorno ai 6/7/8 anni.
Ci sono dei fattori che possono comportare poi la presenza di un disturbo da deficit di attenzione e
iperattività e sono dei fattori personali interni a questi bambini, ambientali e genetici.
I fattori interni sono quelli che vengono chiamati fattori temperamentali, cioè riguardano il temperamento
del bambino e sono una ridotta inibizione del comportamento (cioè una mancanza o un non sufficiente
autocontrollo) e un’emotività elevata che è sempre alla ricerca di novità; i fattori ambientali sono ad
esempio un basso peso alla nascita (inferiore a 1,5 kg), il fumo di sigaretta in gravidanza, la storia di un
abuso che un bambino ha subito, un parenting di trascuratezza, situazioni in cui un bambino ha avuto
l’esperienza di adozioni multiple (cioè è stato adottato più volte), l’esposizione a sostanze tossiche che sono
delle neurotossine (il piombo).
I fattori genetici fisiologici sono ad esempio l’ereditarietà, cioè se in famiglia esistono già dei parenti con
DDAI, le compromissioni sensoriali e l’epilessia.
Ovviamente non è un comportamento conscio ma è un disturbo che il bambino ha e che può essere
favorito anche da questi fattori di rischio ambientali, come se inconsciamente nasca il bisogno di essere
notato anche in maniera negativa.
Come non tutti i bambini che hanno dei momenti di impulsività o iperattività sono affetti da DDAI, così nel
momento in cui si pone la diagnosi c’è da fare una diagnosi differenziale con altre possibili psicopatologie
che possono somigliare al DDAI ma che sono diverse:
 Disturbo oppositivo-provocatorio  si manifesta in quei soggetti che possono opporsi a compiti
scolastici, a compiti lavorativi che richiedono un’applicazione perché la motivazione inconscia è che
si oppongono al soddisfacimento delle richieste altrui
 Disturbo esplosivo-intermittente  i soggetti che lo presentano sono quelli che mostrano dei seri
episodi di aggressione nei confronti degli altri, generalmente nei confronti dei pari
 DSA
 Disturbo dello spettro dell’autismo
 Disturbi d’ansia
 Disturbi depressivi  i disturbi depressivi danno anche un’incapacità nella concentrazione e a
porre attenzione
 Disturbi di personalità  tra questi ce ne sono due con cui affrontare una diagnosi differenziale e
cioè il disturbo narcisistico e il disturbo borderline di personalità

È necessario fare la diagnosi in modo sicuro perché sulla base della diagnosi si calcola il trattamento e la
terapia.

I disturbi di personalità
I disturbi di personalità non sono delle nevrosi d’ansia o da attacchi di panico né tanto meno sono delle
schizofrenie o delle psicosi ma sono dei disturbi importanti perché incidono in maniera negativa sia sulla
sfera affettiva che sulla sfera relazionale.
La definizione che il DSM-5 ne dà è che un disturbo di personalità è un modo costante di esperienza
interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo,
cioè è un modo di comportarsi non consono con la cultura e la società alla quale un soggetto appartiene; è
pervasivo, cioè quel modo di comportarsi è rigido e si manifesta in tutte le situazioni della vita del soggetto
ed è inflessibile.
È un disturbo che esordisce nell’adolescenza anche se poi le manifestazioni sintomatologiche sono diverse
crescendo, è stabile nel tempo e determina un disagio in quel soggetto che ne è affetto.
Due di questi disturbi di personalità sono il disturbo borderline di personalità e il disturbo narcisistico di
personalità.
Il disturbo borderline è un modo pervasivo di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e
dell’umore e di una marcata impulsività che inizia nell’adolescenza, è presente in vari contesti come
indicato da 5 o più dei seguenti elementi:
1) Sforzi disperati per l’abbandono reale o immaginario
2) Un modo di relazioni interpersonali instabile e intenso caratterizzato dall’alternanza tra iper-
idealizzazione e svalutazione
3) Alterazione dell’identità, cioè un’immagine di se stesso instabile
4) Impulsività in almeno due aree che sono potenzialmente dannose per il soggetto (ad esempio
abuso di sostanze, guida spericolata, sessualità, ecc.)
5) Hanno ricorrenti comportamenti, gesti o minacce suicide o automutilanti, difficoltà a controllare la
rabbia, sentimenti cronici di vuoto

I fattori di rischio che possono far sì che si manifesti nell’adolescenza il disturbo borderline sono la
negligenza, la perdita precoce di uno dei genitori o un divorzio conflittuale.
Il disturbo narcisistico di personalità invece è una modalità pervasiva di grandiosità nella fantasia o nel
comportamento reale, una necessità di ammirazione e una mancanza di empatia che inizia
nell’adolescente, è presente in svariati contesti come indicato da 5 o più elementi:
1. Ha un senso grandioso di importanza di sè (ad esempio esagera risultati e talenti)
2. È assordito da fantasie di successo, bellezza illimitati o di amore ideale
3. Crede di essere speciale e unico e di poter essere compreso solo da altre persone speciali, uniche o
di classe sociale elevata e crede di poter frequentare solo persone speciali, uniche, ecc.
4. Richiede un’ammirazione eccessiva
5. Ha un senso di diritto, cioè un’aspettativa irragionevole di trattamenti di favore (es. sono in fila alla
posta, arrivo per ultimo e mi aspetto che tutti mi facciano passare) perché c’è un bisogno di
soddisfazione immediata, una difficoltà nel procrastinare la gratificazione

C’è uno sfruttare i rapporti interpersonali per i propri scopi, manca di empatia, è incapace di riconoscere e
identificarsi con i sentimenti e le necessità dell’altro, è spesso invidioso degli altri o crede che gli altri lo
invidino e mostra dei comportamenti arroganti o presuntuosi; c’è la vergogna e la paura di essere feriti.
I disturbi di personalità sono una scoperta abbastanza recente della psicopatologia (prima era costituita
solo dalle categorie della nevrosi e della psicosi).
I disturbi da deficit di attenzione e iperattività possono essere anche prodotti da alcuni farmaci, cioè ci sono
dei farmaci che come effetti collaterali danno questi disturbi come ad esempio alcuni farmaci bronco-
dilatatori oppure i farmaci sostitutivi della funzione tiroidea.
PSICOLOGIA DELL’ADOLESCENZA:

La pubertà e i suoi collegamenti con lo sviluppo fisico e psicologico


Il passaggio dall’infanzia all’adolescenza appartiene biologicamente ad ognuno di noi e apporta sia dei
cambiamenti fisici che delle trasformazioni biologiche; la pubertà è caratterizzata da uno sviluppo fisico che
si caratterizza perché è uno dei primi sviluppi dal punto di vista cronologico e perché è un cambiamento che
può essere percepito anche dagli osservatori esterni.
Le trasformazioni fisiche sono le trasformazioni che riguardano il corpo, cioè un insieme di organi che
sviluppano delle funzioni ma anche una costruzione mentale complessa che porta poi ad essere la base
dell’identità individuale; questa costruzione mentale viene definita schema corporeo.
Lo schema corporeo è precisamente un modello permanente infracosciente essenzialmente tattile, visivo e
posturale che ci serve da riferimento costante nelle nostre relazioni con lo spazio, con il tempo e con il
mondo che ci circonda; è il modo che noi abbiamo di costruire le relazioni.
Lo schema corporeo non è presente al momento della nascita ma inizia a svilupparsi fin dal periodo
prenatale e una volta che è giunto alla sua pienezza, resta un riferimento costante per tutta la vita.
In ambito psicologico viene largamente utilizzata la nozione di “immagine corporea” intesa come la
rappresentazione che ogni persona ha del proprio corpo nelle sue dimensioni percettive, cognitive, affettive
e comportamentali.
L’elemento con cui ci presentiamo all’altro e attraverso cui l’altro ha la prima conoscenza di noi è la nostra
pelle e data la sua importanza, anche una cosa come il razzismo è legato al colore della pelle.
Parlando dell’adolescenza e della pubertà, i primi cambiamenti avvengono tra gli 11 e i 15/16 anni e in
questo arco di età si realizzano dei cambiamenti somatici, avviene una sorta di rimaneggiamento
dell’immagine corporea; questi cambiamenti sono rapidi (qualche mese ma per il completamento qualche
anno), profondi, molteplici (morfologici, sessuali, organici) e si compiono in un soggetto che ne è
consapevole.
I cambiamenti che avvengono nella pubertà sono tra i primi cambiamenti ma non sono i primi in quanto fin
da bambini avvengono dei cambiamenti nel corpo ma il bambino non ne ha una consapevolezza sufficiente;
la consapevolezza di assistere ai propri cambiamenti è un’esperienza complessa.
Un ricercatore, Lewin, definisce questi cambiamenti come un qualcosa che scuote la fiducia dell’individuo
circa la stabilità del terreno su cui poggia e forse sul mondo in generale.
La pubertà è caratterizzata anche da una transizione sociale in quanto è un cambiamento visibile anche
dall’esterno e quindi dal punto di vista sociale, è un evento di vita che cambia il rapporto dell’adolescente
con l’ambiente sociale in cui vive.
Ovviamente tutto questo implica anche una ristrutturazione del sé: vari autori hanno sottolineato che
questa transizione sociale può essere più o meno difficile a seconda di com’è stata preparata e annunciata
dagli interventi educativi da parte degli adulti: ad esempio la prima mestruazione può essere vissuta in
modo positivo o estremamente negativo se non ne sono state prima informate.
Queste trasformazioni fisiche sono anche correlate a degli aspetti psicologici in quanto i cambiamenti che la
pubertà porta riguardano anche delle ripercussioni che possono essere psicologiche individuali, negli
aspetti del sociale prossimo (ripercussioni legate alle relazioni dirette con l’ambiente umano circostante)
oppure del sociale allargato, cioè ripercussioni anche sulla cultura di appartenenza e sul come questi
cambiamenti vengono rappresentati nei mass media.
Queste ripercussioni influenzano gli adolescenti in due direzioni:
 L’accettazione fisica
 Non accettazione fisica

Il livello di accettazione sociale della nuova corporeità che la pubertà porta con sé è un elemento cruciale
per la crescita e uno sviluppo psicologici sani o no dell’adolescente perché i cambiamenti che avviene nel
momento della pubertà possono portare alla dismorfofobia evolutiva, che è diversa da quella patologica e
viene superata se queste trasformazioni vengono accolte (altrimenti rappresenta un fattore di rischio per
innescare una crescita non sufficientemente sana).
Ci possono essere degli anticipi e dei ritardi puberali per cui si parla di pubertà anticipata o precoce
(quando è prima degli 11 anni) e di una pubertà ritardata o tardiva; ovviamente questi ritardi e anticipi
vanno distinti dalla pubertà precoce patologica e dagli impuberismi che sono patologici e che sono dovuti a
delle endocrinopatie o alla presenza di tumori.
Per le femmine la pubertà precoce può avvenire intorno ai 9 anni, nei maschi versi i 10 anni; per la pubertà
tardiva alle femmine arriva verso i 15-17 anni e per i maschi intorno ai 16-18 anni.
Per i maschi la pubertà precoce può avere dei vantaggi, uno di questi è la soddisfazione per i cambiamenti
del pene, possono avere una maggiore popolarità tra i pari e una maggiore possibilità nel poter avere una
leadership nel gruppo dei pari; una pubertà tardiva invece può essere svantaggiosa in quanto può portare
insoddisfazione rispetto al proprio corpo e addirittura alcuni possono presentare delle crisi di identità,
possono avere un comportamento di dipendenza, delle manifestazioni d’ansia, meno popolarità nel gruppo
dei pari e una paura di non essere virile.
Per le femmine alcuni studiosi concludono che ci siano delle caratteristiche opposte rispetto a quello che
avviene nel sesso maschile, per cui una pubertà precoce porta a degli svantaggi: maggiori problemi di
adattamento, rischio di essere oggetto di bullismo, rischio di alcune violazioni di norme (stare fuori casa la
sera fino a tardi, ubriacarsi, predisposizione a frequentare ragazzi più grandi, compiere atti di bullismo) 
tutto questo non porta poi a delle devianze.
L’età puberale risente anche dei modelli culturali in cui gli adolescenti vivono e che possono portare i
ragazzi ad essere soddisfatti o insoddisfatti della propria corporeità; l’insoddisfazione, soprattutto nelle
femmine, può rappresentare un fattore di rischio per lo sviluppo di disturbi dell’alimentazione.
L’insoddisfazione corporea è strettamente legata all’ambito culturale, sociale, storico in cui l’adolescente
nasce e cresce perché ci sono dei messaggi e dei modelli ideali di perfezione e di bellezza che vengono
veicolati dalla cultura, dall’ambiente sociale e dall’epoca storica in cui si vive; sono dei modelli che
veicolano delle immagini costrittive e questo vale soprattutto per le ragazze.
Nell’antica Grecia l’ideale di bellezza era differente rispetto a quella che abbiamo oggi, la statua greca della
dea della bellezza che si chiama “Venere callipigia” (sta letteralmente a significare venere dalle belle
natiche) per cui la bellezza era fianchi larghi e sedere formoso; fino agli anni ‘700-800 l’ideale era donna
con i fianchi larghi in quanto veniva considerata fertile, negli anni ’60 invece nel mondo della moda c’era la
modella “Twiggy” molto magra che rappresentava l’ideale di bellezza.
L’adolescente può vivere un’insoddisfazione corporea legata alla società nella quale vive che porta ad un
abbassamento dell’autostima, ad un non piacersi, ad un timore e paura di non piacere agli altri e quindi è
un aspetto che incide profondamente non solo sulla visione di sé ma anche sull’aspetto psicologico di sé.
Queste influenze sociali incidono anche nei maschi in cui l’insoddisfazione può portare ad un disturbo
dell’immagine corporea che viene detta “dismorfismo muscolare” o “anoressia inversa”: una percezione
distorta del proprio corpo che viene visto troppo magro e poco muscoloso; questo può portare alla pratica
del culturismo o al bodybuilding o all’utilizzo di faramci dopanti.
La soddisfazione corporea invece porta ad un aumento dell’autostima, ad una maggiore sicurezza, ad una
maggiore apertura nella relazione con l’altro e con il mondo.
Questa fase di pubertà viene definita da Freud come unica fase di crisi.
Ci sono ulteriori aspetti psicologici legati alle trasformazioni fisiche legate a questo periodo e alcuni autori si
sono chiesti quanto questo periodo possa incidere sul rendimento scolastico, sull’attenzione,
sull’apprendimento, sulla voglia di studiare; questo perché questo momento rappresenta quello che gli
autori definiscono un tipo di rottura biologica tra quello che il bambino era prima rispetto a quello che
diventa nel periodo della pubertà.
Anche il linguaggio cambia nell’indicazione della stessa persona, per esempio prima delle mestruazioni le
femmine erano indicate come delle bambine, successivamente saranno delle ragazze e lo stesso vale per i
ragazzi.
In questo periodo il ragazzo si confronta con un periodo profondamente critico della sua crescita.
Un altro cambiamento importante è la rottura del cambiamento scolastico in quanto è proprio in questo
periodo che i bambini diventati ragazzi passano dalla scuola primaria a quella secondaria in cui affrontano
un cambiamento significativo e importante, incontrano dei professori e non più delle maestre.
Questo passaggio rappresenta un altro cambiamento quindi diciamo che i cambiamenti che accadono in
questo periodo sono molteplici e ogni cambiamento porta un’ansia e uno stress.
Lo sviluppo puberale di per sè ha anche un costo energetico elevato perché lo sviluppo puberale comporta
la crescita corporea, muscolare, la distribuzione diversa delle zone adipose nella femmina (ingrassamento),
la maturazione delle forme e degli organi e delle funzioni.
Si richiede anche una maggiore cura di se stessi e dei propri oggetti e quindi il costo energetico di queste
trasformazioni si accompagna poi anche a dei costi adattativi (ad esempio sia nei ragazzi che nelle ragazze
c’è un cambiamento nella postura) che possono riflettersi anche sfavorevolmente sul rendimento
scolastico; è necessario quindi che ne siano consci i genitori e gli insegnanti che questo può accadere.
Tale sviluppo puberale è una crescita universale ed è molto stressante per l’individuo che lo sta vivendo
perché è associato a molti cambiamenti individuali, per esempio nelle ragazze può capitare un
ingrassamento inziale e questo può portare a un forte stress e insoddisfazione personale, mentre nei
ragazzi è vissuto con più leggerezza.
Ci sono poi anche cambiamenti relazionali che sono portati da questi cambiamenti dovuti alla pubertà
perché c’è una teoria dell’accumulo di eventi stressanti; ci sono cioè una serie di cambiamenti che portano
ad un accumulo di eventi stressanti che incidono sull’aspetto cognitivo e affettivo-relazionale.
È infatti in questo periodo che inizia il conflitto inter-generazionale, per esempio una figlia che inizia a
chiedere di uscire, ad andare in discoteca… tutto questo può portare ad un conflitto in famiglia.
Un moderato livello di conflitto ha un valore adattivo, è buono e positivo perché spinge gli adolescenti a
cercare al di fuori della famiglia e poi perché è la molla che spinge l’adolescente verso la ricerca e il
raggiungimento della propria autonomia.
Questo conflitto con il mondo adulto e in primo luogo con il proprio mondo familiare, è mossa per esempio
dalle variazioni della concentrazione ormonale, che possono portare ad un’influenza nel determinare le
variazioni nei comportamenti aggressivi; inoltre c’è lo sviluppo totale di una ghiandola, l’amigdala, che
porta ad un’amplificazione delle emozioni  verranno con il tempo controllate dall’aspetto emotivo.
È necessario che il mondo adulto lo sappia, che sappia che è diritto dell’adolescente cercare di allargare la
sua autonomia, è necessario che dall’altra parte l’adulto metta dei confini, perché il ragazzo non si faccia
male ed è dovere dell’adulto che lo aiuti a rialzarli nel caso di necessità.

LA NASCITA DELLE RELAZIONI ALL’INTERNO DEI GRUPPI


Secondo la psicologia sociale le due definizioni date di gruppo sono:
1) Il gruppo psicologico è un insieme di due o più persone che hanno tra di loro relazioni psicologiche
esplicite, è costituito da un qualsiasi numero di individui che sono in reciproca interazione, sono
psicologicamente consapevoli l’uno dell’altro, percepiscono se stessi come un gruppo.
2) Un gruppo può essere definito come un insieme formato da due o più persone che interagiscono
tra di loro e che dividono delle mete e norme comuni che stanno a capo della loro attività,
sviluppando una rete di ruoli e di relazioni affettive.

I gruppi che ogni individuo incontra nella propria vita sono:


 Madre-bambino
 Gruppo famiglia (madre-bambino-padre)
 Gruppo dei pari
 Gruppo di lavoro
 Gruppo della nuova famiglia (quella che costruiremo)

Non necessariamente incontreremo e faremo parte di ognuno di questi gruppi ma ci sono dei gruppi ai
quali necessariamente apparteniamo, come il gruppo che comporta il ruolo di figlio, per cui i gruppi madre-
bambino e madre-padre-bambino sono gruppi ai quali tutti noi apparteniamo.
Una prima divisione è tra gruppi primari e secondari:
 Gruppi primari caratterizzati da maggiori interazioni dirette, cioè da rapporti faccia a faccia, sono
caratterizzati da una maggiore cooperazione tra i membri e da una presenza di sentimenti più
profondi di appartenenza, generalmente positivi; un gruppo primario è per esempio la famiglia,
oppure il gruppo di amici.
L’appartenenza ad un gruppo è fondamentale perché qualunque società è formata da gruppi
primari ed è fondata su un insieme di gruppi primari.
 Gruppi secondari sono limitati ad un obiettivo condiviso da tutti i membri del gruppo, ad esempio
una squadra sportiva e non ci sono generalmente sentimenti profondi ma sentimenti soprattutto
d’appartenenza.

Oltre ai gruppi primari e secondari si possono individuare anche i gruppi spontanei e i gruppi obbligati; i
gruppi spontanei sono quelli che si scelgono, come nel caso di un gruppo di cacciatori che si riunisce
insieme per una caccia, i gruppi obbligati sono quelli che non si scelgono come ad esempio un gruppo di
lavoro.
Il gruppo non è qualcosa di statico, il gruppo ha una vita, cioè come le persone, il gruppo nasce, cresce e
muore e ogni gruppo ha delle caratteristiche:
1. L’ampiezza  il numero dei componenti del gruppo
2. Interazione prolungata  ad esempio 100mila persone che allo stadio si riuniscono per un
concerto non costituiscono un gruppo perché non c’è un’interazione prolungata e dunque questa
caratteristica è fondamentale
3. Percezione che il gruppo ha di se come un’unità assestante  questo gruppo è diverso da un altro
4. Gli obiettivi  ogni gruppo ha degli obiettivi da raggiungere, quello che viene definito compito
primario del gruppo
5. Presenza di norme interne  queste norme possono essere esplicite o implicite, centrali o
periferiche; le norme esplicite possono essere anche norme scritte
6. Presenza di ruoli e sistemi di status  cioè una gerarchia
7. Deve essere riconosciuto come gruppo almeno da una persona esterna al gruppo.

La struttura del gruppo è data dalle norme e dai ruoli: il primo componente della struttura del gruppo è il
sistema di status che si riferisce alla posizione, e cioè al ruolo, che un individuo occupa all’interno di un
gruppo e si riferisce anche alla valutazione della posizione che occupa su una scala di prestigio: il leader del
gruppo sarà all’apice di questa scala di prestigio.
All’interno del sistema di status sono inseriti i ruoli che vengono definiti come le aspettative di tutti i
membri del gruppo circa come dovrebbe comportarsi chi occupa una data posizione: in ogni gruppo
esistono dei ruoli all’interno del sistema di status.
Ci sono dei ruoli fondamentali senza i quali nessun gruppo potrebbe nascere e crescere: il leader, il clown, il
capro espiatorio e il ruolo del neofita (ultimo arrivato); il leader è la figura a cui tutto il gruppo si affida, è al
vertice del sistema di status, riveste il ruolo più importante nel gruppo, deve essere attento a far sì che il
gruppo svolga l’attività per cui è nato e deve stare attento al clima che c’è all’interno del gruppo.
Ci sono varie modalità che il leader ha per esercitare la leadership:
1. Modalità autocratica/autoritaria  il compito primario del gruppo sarà raggiunto ma il clima sarà
molto teso e non c’è cooperazione e collaborazione, ciascuno deve fare la propria parte senza
sapere i compiti degli altri e dunque le relazioni tra i componenti saranno molto povere
2. Modalità lassista  il raggiungimento del compito primario corre dei seri rischi, in quanto il clima
del gruppo è festaiolo ed amichevole ma ci sarà una grossa confusione per quanto riguarda lo
svolgimento del compito del gruppo ed il rischio concreto che poi quel compito non venga svolto
bene
3. Modalità democratica  tutti i membri del gruppo sono informati sul compito primario che il
gruppo deve svolgere, tutti sanno cosa devono fare e ci sarà una cooperazione e collaborazione
dalla quale nasce un clima sufficientemente sereno e tranquillo con cui il gruppo potrà lavorare
sereno

Generalmente il leader viene scelto sulla base del compito che il gruppo è chiamato a svolgere e
raggiungere, il leader sarà la persona più competente tra tutti i membri del gruppo per far sì che il compito
che il gruppo si è prefissato venga portato a termine; altre teorie sostengono invece che leader si nasce per
delle caratteristiche fisiche o verbali (come il saper parlare meglio).
Nel gruppo possono verificarsi anche momenti di tensione, di litigate e in queste situazioni è fondamentale
l’importanza del clown.
Il clown è colui che avendo la capacità della battuta può dire le cose che non si potrebbero dire in altra
maniera, è quindi colui che dice le cose che non vanno all’interno del gruppo ma o fa con la battuta e lo
scherzo perché altrimenti si rischia di sfasciare il gruppo.
L’altra figura fondamentale nei momenti di tensione è il capro espiatorio, ovvero la persona a cui si dà la
colpa quando le cose non vanno bene o quando non si raggiunge il compito primario; nelle culture medio-
orientali il capro espiatorio era veramente un capro, era un ariete.
Il neofita, cioè l’ultimo arrivato, è ogni nuovo membro che entra nel gruppo e nell’accogliere un nuovo
membro il gruppo si deve riorganizzare e ricostituirsi nelle relazioni e nei rapporti; perché questo avvenga è
fondamentale che il nuovo arrivato si scelga e si appoggi ad un ‘’mentore’’ del gruppo in modo tale che
questo mentore lo possa far accettare a tutti i membri.
Questi 4 ruoli possono cambiare a seconda di come si muove e di come cresce il gruppo (es: il neofita non
sarà per sempre neofita).

Le norme del gruppo


Il secondo elemento essenziale della struttura del gruppo sono le norme: ogni gruppo ha delle norme e la
norma rappresenta una scala di valori che definiscono tutta una serie di atteggiamenti e comportamenti
accettabili e inaccettabili per i membri di un determinato gruppo.
Possono essere norme esplicite, implicite (non scritte ma valide), norme centrali e periferiche: sia le norme
esplicite che implicite fanno parte delle norme centrali  le norme centrali del gruppo sono quelle che
vanno accolte, rispettate e condivise da tutti i membri, se trasgredite si può essere cacciati dal gruppo.
Le norme periferiche sono delle norme meno importanti, meno stringenti e che se trasgredite non
escludono dal gruppo.
Perché ogni gruppo deve avere anche delle norme? A che servono?
1) Servono a far avanzare la conoscenza del gruppo
2) Servono per il mantenimento del gruppo, per farlo restare compatto
3) Rappresentano anche un manifesto di un determinato gruppo nei confronti dell’ambiente, cioè le
norme definiscono le relazioni che quel gruppo ha con l’ambiente, ovvero con coloro che non
appartengono al gruppo.

Il gruppo dei pari


È il gruppo dei coetanei e nel periodo dell’adolescenza conquista un’importanza centrale nella vita e
nell’esperienza di ogni adolescente; in questo periodo la spinta che ogni ragazzo sente verso l’ambiente
esterno dalla famiglia è molto forte: si ha la volontà di esplorare l’ambiente esterno e di
scoprire/sperimentare le relazioni che si possono vivere all’esterno della famiglia.
I teorici dello sviluppo hanno distinto cinque categorie di bambini a partire dalle scelte o nomine dei pari:
 Bambini popolari  sono nominato spesso come migliori amici e raramente non piacciono ai
compagni
 Bambini medi  ricevono un numero medio simile di nomine positive e negative da parte dei
compagni
 Bambini trascurati  vengono raramente nominati come migliore amici ma non sono rifiutati dai
compagni
 Bambini rifiutati  sono raramente nominati come migliore amico di qualcuno e sono respinti dai
loro compagni
 Bambini controversi  sono spesso nominati sia in qualità di migliori amici di qualcuno sia in
qualità di bambini rifiutati

Nel relazionarsi con i propri coetanei i ragazzi cercano di soddisfare i bisogni e i desideri che riguardano
diversi aspetti del sè che nel rapporto con l’altro questi bisogni possono trovare un accoglimento, un rifiuto,
delle conferme o delle disconferme.
L’importanza del gruppo di pari risiede anche nel bisogno che l’adolescente ha di scoprire nuovi punti di
riferimento diversi dalle figure genitoriali: l’adolescenza è anche un periodo di ribellione nei confronti del
mondo adulto e in primo luogo dei genitori e queste figure di riferimento possono essere gli insegnanti (la
figura dell’insegnante è molto importante in questo periodo perché fa sperimentare la fiducia,
l’autorevolezza), gli allenatori.
La ricerca di punti di riferimento tra pari avviene attraverso la scoperta dell’amicizia con i propri coetanei
che diventa uno dei valori fondanti attraverso cui l’adolescente fa esperienza delle alleanze, delle sfide e dei
confronti con i propri coetanei.
Per arrivare ad una maggiore scoperta di sé il gruppo di pari rappresenta il terreno e il ‘’laboratorio sociale’’
in cui l’adolescente può sperimentarsi e può mettersi in relazione con l’altro: ad esempio c’è il confronto
con i coetanei attraverso cui l’altro mi restituisce un’immagine di me stesso che può essere diversa da
quella che ho io di me stesso  ciò è importante nell’autostima, nell’apprezzamento e nel scoprire che si
ha un valore.
Dunque il gruppo è importante nel supportare l’adolescente per la creazione della sua identità , è infatti
importante che l’adolescente possa scegliere il gruppo giusto, il gruppo più vicino a lui, il gruppo che può
rispondere maggiormente ai suoi bisogni e ai suoi desideri.
Il gruppo diventa un microcosmo nel quale possono avvenire aspetti in contraddizione: l’adolescente può
sperimentare l’aggressività ma anche la solidarietà, sperimenta la sfida con l’altro ma anche l’alleanza con
l’altro.
Può anche capitare di sentirsi male all’interno del gruppo e questo può dar luogo successivamente a delle
chiusure nelle relazioni, ad una timidezza, ad una introversione, ad un’autostima vacillante; è importante
quindi che la famiglia continui a rappresentare quel porto sicuro nel quale tornare.
I gruppi devianti
Accanto ai gruppi dei pari esistono anche i gruppi devianti: l’adolescenza è quel periodo in cui emergono
l’impulsività, l’aggressività, la violenza e generalmente questi aspetti vengono vissuti in maniera
‘’fantastica’’ ma può accadere che nei membri di questi gruppi devianti, questi aspetti traslochino dalla
stanza della fantasia a quella della realtà e quando ciò accade ci si riferisce a questo gruppo come
‘’aggregazione patologica’’.
Questi gruppi sono stati studiati soprattutto negli Stati Uniti per le numerose gang adolescenziali.
La fascia di età di questi gruppi patologici è dai 12 ai 24 anni e all’interno di questi gruppi la presenza
femminile è molto bassa (le ragazze rappresentano il 10% d’appartenenza a questi gruppi).
Ci sono dei fattori di rischio che possono portare agli adolescenti ad aderire ai gruppi devianti e sono
prevalentemente quattro:
 La società  fattore rappresentato da un basso livello di integrazione sociale, cioè adolescenti che
faticano ad integrarsi nella società e questo vale sia per gli adolescenti che provengono da una
società diversa ma anche per quelli che provengono dalla stessa società (adolescenti autoctoni)
 La famiglia e i vari tipi di famiglia  una famiglia disagiata economicamente, una famiglia che sia al
di sotto della soglia di povertà (ovviamente non tutte le famiglie disagiate hanno adolescenti che
entreranno in gang o gruppi devianti), l’assenza di genitori biologici, l’avere vissuto un
attaccamento non adeguato, cioè non avere avuto l’esperienza di un attaccamento sicuro poiché si
è vissuto uno dei 3 tipi di attaccamento insicuro
 L’ambiente scolastico  non è tanto la scuola in sé per sé ad essere un rischio ma piuttosto quando
nell’ambito scolastico, sia da parte dei genitori sia da parte dello studente, ci sono delle basse
aspettative che riguardano il successo scolastico (tanto non ci riesci, vai a lavorare che è meglio)
oppure perché questi studenti non riescono ad avere un attaccamento sufficiente con gli
insegnanti, dovuto da vari motivi che possono dipendere sia dallo studente che dall’insegnante
 Fattori individuali  ad esempio una bassa autostima e che quindi cercandola, la possono trovare
proprio nei gruppi devianti; oppure dei ragazzi che hanno disagi psicologici o psicopatologie
(sindromi depressive, o aver vissuto degli eventi esistenziali che hanno portato sofferenza e
dolore); oppure l’utilizzo di sostanze perché l’uso può generare dipendenza non solo dalle sostanze,
ma anche da atteggiamenti e comportamenti violenti ed aggressivi che non riescono ad essere
controllati

Tra i comportamenti devianti esiste un comportamento particolare che è il bullismo: il termine deriva dalla
parola bullying che significa ‘’potere sull’altro’’ ed è l’insieme dei comportamenti con cui qualcuno fa o dice
cose per avere potere su un’altra persona.
Il termine bullismo è inclusivo sia dei comportamenti del persecutore sia di quelli della vittima, cioè designa
il rapporto che c’è tra il carnefice e la vittima; il bullismo è un’intenzione di fare del male associato ad una
mancanza di compassione e di empatia nei confronti della vittima, ha un’intensità profonda che colpisce
nell’intimo la vittima e una durata prolungata nel tempo.
Manifesta il potere che il bullo ha sulla vittima e manifesta allo stesso tempo la vulnerabilità della vittima; la
vittima generalmente non riceve sostegno, viene isolata.
Se ai bambini viene permesso di compiere atti di bullismo è molto probabile che poi crescendo questi stessi
bambini avranno delle abitudini a compiere delle prepotenze nei confronti dei futuri figli e del futuro
partner.
Ci sono tre tipologie di bullismo:
1. Bullismo diretto  si realizza nella vita reale tra il bullo e la vittima
2. Bullismo indiretto  può essere espletato ad esempio sotto forma di isolamento sociale, isolando
dunque la vittima
3. Cyber bullismo  si sviluppa in rete e ha gli stessi effetti che il bullismo ha sulla vittima nella vita
reale
È importante prevenire il bullismo perché può fare danni seri, può essere il substrato di comportamenti
aggressivi quando il bullo cresce e per la vittima essere oggetto di bullismo può destrutturare la sua
personalità; la famiglia, gli educatori e gli insegnanti devono intervenire ripetutamente per lungo tempo su
tutti i livelli dell’esperienza soggettiva degli adolescenti e bambini  livello cognitivo, livello emotivo,
affettivo e livello socio relazionale, sulle esperienze dunque che ognuno di noi fa su questi 4 livelli.
Le figure coinvolte nel bullismo sono il bullo, la vittima, l’aiutante del bullo (prende parte agli episodi di
bullismo ma occupa una posizione secondaria), il sostenitore del bullo (agisce in modo da rinforzare il
comportamento del bullo), il difensore della vittima (prende le difese della vittima e tende a consolarla) e
l’esterno (si tiene in disparte e fa in modo di non essere coinvolto).

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