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I CICLI DELLA VITA

Continuità e mutamenti
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ERIK ERIKSON

Capitolo Terzo

I PRINCIPALI STADI DELLO SVILUPPO PSICOSOCIALE

Sull'uso dei termini e dei quadri ricapitolativi

Ripresentare la sequenza degli stadi psicosociali che interessano l'intero corso della vita, significa assumersi la
responsabilità dei termini coi quali Joan Erikson ed io li abbiamo indicati e che com prendono parole sospette come
speranza, fedeltà e cura2. Tra le forze psicosociali emergenti dalle lotte delle tendenze sintoniche e distoniche 3sono
queste, secondo noi, quelle che si collocano a tre stadi cruciali della vita: la speranza dall'antitesi tra fiducia di fondo
vs. sfiducia di fondo, nell'infanzia; la fedeltà da quella dell'identità vs. confusione d'identità, nell'adolescenza; e la cura
da quella della generatività vs. preoccupazione esclusiva di sé, nell'età adulta. (Il vs. sta per "versus" (contro) e
tuttavia, alla luce della loro complementarità, anche per "viceversa"). La maggior parte di questi termini hanno la
legittima pretesa di rappresentare, in tempi lunghi, delle qualità di fondo e, in effetti, esse "qualificano" il giovane ad
entrare nel ciclo generazionale, e l'adulto a concluderlo.

In riferimento ai termini da noi usati e intesi nel loro significato più generale, citerò quello che è stato l'ultimo
arbitro della nostra teoria, David Rapaport, che, nel cercare di assegnarmi una ben definita posizione all'interno della
psicologia dell'io, mette in guardia i suoi lettori così: «La teoria di Erikson (come in larga parte quella di Freud) si
muove su proposizioni fenomenologiche e psico-logico-analitiche di natura essenzialmente clinica senza una loro in -
terna e sistematica differenziazione. Lo status concettuale di questa teoria fatta di parole, è di conseguenza assai poco
chiaro» (Rapaport in Erikson, 1959). Chi legge quest'affermazione capirà bene cosa voglia dire. Ma se si accetta il
principio che la ritualizzazione è l'anello di congiunzione tra l'io che sviluppa e l'ethos del suo ambiente comunitario,
allora le lingue vive devono essere considerate come una delle più rilevanti forme di ritualizzazione perché esprimono
sia ciò che è universalmente umano, sia ciò che è culturalmente specifico dei valori contenuti nel rapporto ritualizzato.

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ERIK H. ERIKSON è uno dei maggiori psicoanalisti americani. Formatosi a Vienna sotto la guida di Anna Freud e di August Aichorn, la sua
figura ha assunto un particolare rilievo per aver inserito i problemi della psicoanalisi infantile in un ampio contesto di ricerche antropologiche,
sociologiche e teoretiche. Ha svolto la sua attività di insegnamento e di ricerca in alcune delle più importanti università americane come Harvard,
Yale, Berkeley ed il Massachusetts Institute of Technology.

Il pensiero di Erik Erikson ha influenzato profondamente la psicologia ed ora, attraverso il lavoro della sua più stretta collaboratrice, copre
l'intero arco del ciclo della vita. Pubblicato come revisione della teoria psicosociale di Erik H. Erikson, I cicli della vita illustrava il contesto storico
e autobiografico in cui erano stati elaborati dallo psicoanalista americano gli ormai celebri concetti di crisi d'identità, interdipendenza tra storia
sociale e storia personale, ciclo della vita e, soprattutto, la convinzione che la maturità non rappresenti la fine della crescita psicologica. L'Autore
non era però riuscito a coprire, durante una vita di notevoli successi, il nono stadio, quello che segue l'età senile. Ma dal momento che la longevità
dell'uomo aumenta sempre più, si è reso ormai necessario considerare anche questo periodo della vita. Qui Joan Erikson, novantatreenne all'epoca
della stesura, ci guida con maestria attraverso le sfide di questa età, allargando l'orizzonte eriksoniano sulle fasi principali dello sviluppo umano.
Nella sua introduzione al nono stadio, Joan Erikson getta una luce nuova sulle sfide cui si trovano di fronte gli anziani, costretti a riconiugare i verbi
della propria autonomia fisica e delle scelte di vita davanti alle inevitabili conseguenze del tempo. Sottolinea, inoltre, il ruolo decisivo che la
speranza e la fiducia svolgono nella vita degli anziani e ridiscute con sensibilità il concetto stesso di saggezza. Questo volume offre ai lettori una
mappa della speranza per godere delle ricompense di una vita di saggezza.

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Nel senso di cure o capacità di prendersi cura degli altri (N.d.T. ).
3
L'A. usa i termini "syntonic" e "dystonic" nel senso di due tendenze in opposizione delle quali la prima è ovviamente positiva, la seconda negativa.
In italiano "sintonico" sta per «in concordanza reciproca tra manifestazioni omologhe», mentre "distonico" sta per «alterato», «non normale».
Avremmo potuto tradurre con «consonante» e «dissonante», ma l'uso frequente e generico che l'A. fa dei due termini e del loro significato ci ha
indotto a preferire una traduzione letterale di cui questa nota chiarisce, una volta per tutte, il senso (N.d.T.).
1
Così, quando ci si accosta ai fenomeni delle forze di cui l'uomo dispone, le comuni parole delle lingue vive, arricchite
dall'uso che ne hanno fatto le varie generazioni, sono le più idonee a costituire le basi di un discorso.

Per dirla in termini ancor più specifici, se considerazioni di natura evolutiva c'inducono a parlare di speranza,
fedeltà e cura come di forze umane o qualità dell'io emergenti dagli strategici stadi dell'infanzia, dell'adolescenza, e
dell'età adulta, non dovrebbero sorprenderci (anche se di fatto ci sorprende quando ne diventiamo consapevoli) il fatto
ch'esse corrispondano a quei più alti valori mistici che chiamiamo speranza, fede e carità. Il lettore che si è formato

nella scettica "scuola" di Vienna ricorderà certamente l'episodio di quell'imperatore austriaco che, invitato ad esprimere
un giudizio su un nuovo, vistoso, barocco monumento, rispose con tono autoritario: «Dovete mettere un po' più di fede,
di speranza e di carità nell'angolo basso, a sinistra!». Quando certi valori scontati e tradizionali esprimono le più alte
aspirazioni spirituali dell'uomo, vuol dire che fin dai loro più oscuri esordi essi sono serviti da protettivo ricettacolo ai
primi e rudimentali processi evolutivi della forza umana; e sarebbe oltremodo istruttivo e illuminante se, nelle diverse
lingue e nelle diverse tradizioni, tenessimo conto di questi collegamenti.
Per la mia relazione sul ciclo delle generazioni, chiesi a Sudhir Kakar quale fosse il termine indù equivalente
all'inglese curare, prendersi cura. Mi rispose che non esisteva una vera e propria parola che potesse esprimerlo, ma che
un adulto risponde compiutamente a tali compiti quando pratica il Dama (controllo), il Pària (carità nel senso di
amore), e il Daya (pietà). Queste tre parole, non ho che da ripeterlo, vengono comunemente tradotte in inglese con
«essere premurosi, attenti», «prendersi cura di» e «provvedere a» (Erikson, 1980).
A questo punto può essere utile ricordare la sequenza degli stadi com'è indicata dalla prospettiva epigenetica del
Quadro 2.

Visto poi che è mia intenzione dare avvio alla discussione sugli stadi psi cosociali partendo dal più alto livello
dell'età adulta anziché «cominciare sempre e di nuovo dal principio», è bene dare subito un rapido sguardo all'insieme
della scala che a quel livello ci porta. Nel completare l'elenco delle forze sarà facile constatare come tra quelle della
speranza e della fedeltà siano stati indicati (in stretto rapporto con le più significative tappe evolutive) i livelli della vo-
lontà, della finalità e della competenza e, tra la fedeltà e la cura, quello dell'amore. Oltre alla cura consideriamo poi
essenziale quello della saggezza. Ma il quadro ricapitolativo dimostra chiaramente, nelle sue linee verticali, come
ciascun livello (compresa la saggezza) trovi il suo fondamento in tutti i precedenti, mentre, in ogni linea orizzontale, la
maturazione evolutiva (e le crisi psicosociali) di ciascuna di queste qualità offre nuove connotazioni a tutti gli stadi "più
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bassi" e già sviluppati come a quegli "più alti" in via di sviluppo. Su questo principio, che deve restare un punto fermo
da tenere costantemente presente, non insisteremo mai abbastanza.
D'altra parte potremmo anche chiederci quale sia la ragione che rende così facile e pratica al principio genetico la
descrizione della struttura complessiva dei fenomeni psicosociali. Significa forse attribuire al processo somatico un
potere esclusivo e organizzante sui processi sociali? Rispondiamo subito che gli stadi della vita restano sempre "legati"
ai processi organici, anche se dipendono dai processi psichici che regolano lo sviluppo della personalità e dal pote re
morale del processo sociale. La natura epigenetica di questa scala va dunque ricercata nella sua capacità di riflettere

una coerenza linguistica (semantica) di tutti i suoi termini. Infatti, parole come speranza, fedeltà e cura dispongono di
una logica interna che conferma il carattere dinamico dei loro significati. Speranza è "l'attesa di un desiderio", una
frase che ben si accorda con quella vaga e istintiva propensione sottesa alle esperienze che risvegliano delle precise
attese; e si accorda bene anche con l'assunto secondo il quale la forza di fondo e la radice prima dello sviluppo dell'io
nasce dal superamento della prima antitesi evolutiva, e cioè quello della fiducia di fondo vs. sfiducia di fondo. E grazie
a queste suggestive connotazioni semantiche, speranza sembra essere in relazione anche con "salto" che richiama poi il
saltare, il far saltare, il lanciarsi avanti: né dobbiamo dimenticare l'ipotesi platonica che vedeva nel salto dei cuccioli
d'animale l'esempio e il modello di ciò che si deve intendere per gioco. La speranza dona dunque all'anticipato futuro
un senso d'indugio che invita a compiere i voluti salti nelle anticipazioni dell'immagina zione come nelle azioni appena
intraprese. Questa coraggiosa determinazione deve però poter contare sulla fiducia di fondo nel senso di una profonda
sicurezza che, letteralmente e figurativamente, dev'essere alimentata dalle cure materne e che - se messa in peri colo da
un forte e disperato sconforto - dev'essere ristabilita da un'adeguata consolazione, il tedesco Trost.
Analogamente, la parola cura esprime in sé l'istintivo impulso ad "amare", ad "accarezzare" chiunque, in stato di
abbandono, renda manifesta la sua disperazione. E se nell'adolescenza - fascia intermedia tra la fanciullezza e l'età
adulta - consideriamo come emergente la forza della fedeltà, non è solo per rinnovare a un più alto livello la capacità di
fiducia negli altri (e in se stessi), è anche l'esigenza d'essere degni di fiducia e capaci d'impegnare tutta la nostra lealtà
(il tedesco Treune) verso una causa qualunque ne sia la confessione ideologica che la sottende. Il venir meno di un
consolidato senso di fiducia potrà invece dar luogo a quei diffusi e indicativi atteggiamenti d'insicurezza o di
spavalderia, o risolversi nell'ostinato attaccamento a cause e a gruppi altrettanto insicuri e spavaldi. Fiducia di fondo e
fedeltà sono dunque in stretta relazione tra loro sia in senso linguistico che epigenetico e durante l'adolescenza è facile
riconoscere nei giovani più compromessi una quasi volontaria regressione a precedenti stadi dello sviluppo nell'intento
di recuperare - se non l'hanno del tutto perdute - le basi prime di quella originaria Speranza senza la quale non è
possibile compiere nuovi salti per riprendersi ed andare avanti.
Ma fondare una logica evolutiva sui valori universali della fede, della speranza e della carità, non significa ridurre
questi stessi valori alle loro radici infantili: significa, invece, tener conto di come e quanto le emergenti forze dell'uomo
siano intrinsecamente e di volta in volta messe in pericolo, non solo da ricorrenti vulnerabilità che impongono un
continuo ricorso alle nostre riparatrici introspezioni, ma anche da più oscure radici del male che chiedono d'essere
riscattate dai valori di sistemi e di ideologie capaci di esprimere un credo universale.
Con questo incoraggiamento possiamo ora presentare gli stadi psicosociali e, come ho già detto, comincerò questa
volta con l'ultimo, quello più alto nel quadro ricapitolativo, non per il gusto di una contraddizione metodologica ma per
rendere esplicita la logica dello stesso criterio ricapitolativo. Come si è visto la sua lettura vuole che ogni linea -
orizzontale o verticale - venga dinamicamente considerata in rapporto l'una all'altra sia come condizione prelimi nare,
sia come necessità di una successiva e consequenziale necessità. E, a quanto pare, l'impresa dev'essere portata a buon
fine, specie nel caso di uno stadio che, ai giorni nostri, impone con particolare urgenza una nuova attenzione e un
rinnovato interesse.

L'ultimo stadio

Col termine integrità vs. disperazione abbiamo indicato la principale antitesi e l'ultima crisi dell'età senile. Tenuto
conto del fatto che la linea più alta segna il limite estremo (imprevedibile nel tem po e nel genere) di un determinato
corso di vita, verrebbe fatto di pensare che a questo livello l'elemento distonico sia quello facilmente e più direttamente
riconoscibile. L'integrità sembra però portare con sé - come fa del resto quella specifica forza che secondo noi emerge
da quest'ultima antitesi - un'altra esigenza, quella della saggezza. Come vuole un vecchio adagio e come si ritrova
indirettamente espressa nei più semplici e concreti riferimenti alla vita di tutti i giorni, abbiamo voluto definire la
saggezza come una specie di «consapevole e distaccato interesse per la vita stessa, anche di fronte alla stessa morte».
Ma, ancora una volta, un più o meno manifesto disprezzo verrebbe allora a costituire, in senso opposto - il
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complemento della saggezza, una forma di reazione che si prova nel sentire (e nel vedere) gli altri nelle condizioni di
un progressivo declino dove tutto sembra essere finito, confuso e senza speranza.
Prima di provare a dare un senso a queste contraddizioni terminologiche, dobbiamo però riflettere bene e ancora
una volta sulla relatività storica di tutto lo sviluppo e, in particolare, di tutte le teorie su di esso formulate. Si consideri
quest'ultimo stadio: lo abbiamo formulato in una "età di mezzo", quando cioè non avevamo né l'intenzione, né la
capacità di immaginare noi stessi veramente vecchi. E successo solo pochi decenni fa eppure la predominante im-
magine dell'età senile era allora completamente diversa da quella attuale. A qualcuno potrebbero però venire in mente

quelle rare figure di "vecchi", uomini e donne che sono riusciti a vivere tranquillamente e in perfetta armonia col ruolo
proprio della loro età, e che hanno saputo morire dignitosamente entro ambiti culturali nei quali la lunga sopravvivenza
era considerata un dono divino e un particolare diritto riservato a pochi. Ma è possibile ragionare così in un'epoca come
la nostra in cui l'età senile è rappresentata da una massa ormai numerosa, in costante aumento e in discreta salute di
semplici "anziani"? E, d'altra parte, è possibile ipotizzare che le modificazioni indotte dal mutare dei tempi riescano a
trasformare quella che una volta era l'immagine dell'età senile, un'immagine fissata nel corso della nostra vita in pieno
accordo con quel filtrato bagaglio di conoscenze che è sopravvissuto nel buon senso e nella saggezza della tradizione
popolare?
Non ci sono dubbi: il ruolo dell'età senile ha bisogno d'essere riconsiderato, rivisto. A questo fine cercheremo di
dare il nostro contributo solo attraverso un riesame dello schema proposto. Torniamo allora al quadro ricapitolativo:
qual è lo spazio che longitudinalmente e trasversalmente abbiamo assegnato all'età senile? Posta com'è dal punto di
vista cronologico nell'angolo superiore destro, il suo ultimo elemento distonico è, come abbiamo visto, la disperazione;
e se diamo un rapido sguardo all'angolo inferiore di sinistra, vi troviamo il primo elemento sintonico, e cioè la
speranza. Almeno nella lingua spagnola i due elementi, esperanza e desesperanza, sono tra loro collegati. E, in effetti,
in qualsiasi lingua, la speranza connota sempre quella che è la qualità di fondo dell'"Io" (inteso come piena
consapevolezza) senza la quale non avrebbe senso né l'inizio né la fine della vita. E risalendo negli spazi vuoti verso
l'angolo superiore a sinistra, ci rendiamo conto della necessità di trovare una parola per l'ultima, possibile forma di
speranza quale può essere maturata lungo tutta la prima linea verticale in ascesa: questa parola può essere una sola:
fede.
Se alla fine il ciclo vitale ritorna ai suoi esordi, vuol dire allora che anche nell'anatomia di una matura speranza e
nella varietà delle fedi qualcosa è rimasto («Finché non ti volgerai indietro e diventerai come i fanciulli»'), il che fa del
bisogno di speranza la più infantile delle qualità umane. In realtà sembra proprio che l'ultimo stadio della vita assuma
un'enorme, potenziale importanza per il primo; nelle culture più vitali i bambini maturano mentalmente e in maniera
singolare dal rapporto che vengono ad avere con le persone anziane; e dovremmo riflettere a lungo sull'importanza che
avrà e dovrà avere in futuro questo rapporto quando una matura età senile verrà a costituire il bagaglio di un'esperienza
'"mediamente prevedibile" e perciò suscettibile d'essere facilmente anticipato. Le modificazioni indotte dal tempo,
com'è il caso del prolungamento medio della vita, richiedono allora nuove e profonde ri-ritualizza- zioni capaci di
assicurare un più significativo interscambio tra l'inizio e la fine, una più definita sintesi degli stadi e, possibilmente, una
più attiva e anticipata partecipazione di fronte alla morte. Per tutte queste cose penso che la parola giusta sarà proprio
saggezza, come lo sarà disperazione.
Ritornando di nuovo all'angolo superiore destro e facendo un passo indietro lungo la diagonale, ritroviamo lo stadio
generativo che precede l'età senile. Ma in uno schema epigenetico - come abbiamo già detto - "dopo" significa solo la
successiva versione di un precedente livello, non la sua perdita. E, in effetti, le persone anziane possono e hanno
bisogno di conservare una importante funzione generativa. A questo proposito diciamo subito che l'attuale disorga-
nizzazione della vita familiare, conseguente a una sua difettosa stabilità, contribuisce in larga misura, alla perdita
nell'età senile di quel minimo di vitale coinvolgimento che è necessario per sentirsi veramente vivi. E la mancanza di
questo coinvolgimento sembra essere il tema nostalgico nascosto nei sintomi manifesti che spingono le persone anziane
a far ricorso alla psicoterapia. Il motivo più frequente della loro disperazione è infatti un ricorrente e prolungato senso
di stagnazione, di ristagno. Ciò può indurre alcune persone anziane a prolungare le loro terapie (King, 1980), un nuovo
sintomo che può essere facilmente ed erroneamente interpretato come una semplice regressione a precedenti stadi; e
questo avviene soprattutto quando i pazienti anziani si lamentano non solo per il tempo perduto e per lo spazio non più
occupato, ma anche (per seguire la linea superiore del quadro ricapitolativo da sinistra a destra) per la ridotta
autonomia, la perduta capacità d'iniziativa, la mancanza d'intimità, la trascurata generatività, per non parlare dei ridotti
potenziali dell'identità o un vissuto d'identità davvero troppo limitato. Il tutto potrebbe essere - come abbiamo detto -
«una regressione al servizio dello sviluppo» (Bios, 1967), cioè un tentativo per risolvere (alla lettera) un conflitto
specifico dell'età.

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Ma torneremo su questi problemi nell'ultimo capitolo. Ora, seppure di sfuggita, preferiamo mettere l'accento sul
fatto che nell'età senile tutte le qualità del passato si arricchiscono di nuovi valori che possiamo studiare per quello che
effettivamente sono e non solo per quanto di normale o di patologico li aveva preceduti. In termini esistenziali, cioè, il
fatto che l'ultimo stadio ci renda relativamente meno sottoposti all’ansia nevrotica, non ci libera dalla paura della vita-
e-della-morte; la più acuta interpretazione del senso di colpa infantile non annulla quel senso del male che ciascuno di
noi vive come intima, personale esperienza, così come la più completa identità psicosociale non cancella il senso
dell'io" esistenziale. Un miglior funzionamento dell'io non elimina, insomma, la consapevolezza dell'"Io". E l'èthos

sociale non può non sentirsi responsabile nei riguardi di obiettivi così importanti e decisivi che nel corso della storia
sono stati profeticamente considerati e affrontati dalle ideologie religiose e politiche.
Ma completiamo l'esame degli esiti psicosociali: se il disprezzo è l'opposto della saggezza, vuol dire che (come
avviene per tutte le forme di contrapposizione) ad un certo punto lo si deve considerare come una naturale e necessaria
reazione nei riguardi della debolezza umana e dell'implacabile ripetersi della perversione morale e della falsità. Si può
infatti negare del tutto ogni forma di disprezzo degli altri solo in preda a una qualche mania distruttiva e a un più o
meno palese disprezzo di sé.
Qual è il fine dell'ultima ritualizzazione che sia coerente ai caratteri dell'età senile? Penso non possa essere che di
natura filosofica; e infatti, se si vuol mantenere un po' d'ordine e dare un minimo di significato alla dis-integrazione del
corpo e della mente, bisogna per forza trovare un sostegno nella costante speranza della saggezza. Il rischio ritualistico
a cui però si va incontro è costituito questa volta dal dogmatismo, una sorta di ossessiva pseudointegrità che, se legata
ad abuso di potere, può diventare una forma di coatto conformismo.
E quale può essere l'ultima condizione psicosessuale dell'età senile? Credo non possa essere che quella di una
generalizzazione dei processi sensuali in virtù della quale sarà possibile conservare il senso della maturata esperienza
fisica e mentale, nonostante l'indebolirsi di molte funzioni e il declino della vitalità genitale. (Va da sé che queste
estensioni della teoria libidica possono essere oggetto di discussione ed è per questo motivo che sono state messe tra
parentesi nel primo quadro ricapitolativo).
Ritorniamo così a quello che abbiamo considerato come il tratto sintonico di maggior rilievo dell'ultimo stadio, e
cioè l’integrità. Nel suo significato più semplice questo tratto esprime senza dubbio un senso di coerenza e di
completezza, cioè di caratteri che nell'età senile corrono il rischio di affievolirsi giacché siamo di fronte ad una perdita
di collegamento in tutti e tre i processi organizzativi: nel Corpo per il sempre più diffuso indebolirsi dei rapporti tonici
nell'interconnessione dei tessuti, dei processi vascolari e dell'apparato muscolare; nella Psiche, per la graduale perdita
di coerenza mnemonica dell'esperienza passata e presente; e nell'Ethos, per il timore di una rapida e pressoché totale
perdita di una funzione responsabile nella reciproca azione generativa. In queste condizioni occorre allora qualcosa che,
in parole semplici, possiamo chiamare "integralità", ovvero la tendenza a tenere le cose insieme. In realtà dobbiamo
riconoscere che nell'età senile può anche manifestarsi il bisogno di mitizzare il passato e questo può generare forme di
pseudointegrazione che sono poi una difesa contro l'agguato del disprezzo. (Tale uso difensivo può tuttavia esprimersi
secondo tutte le qualità positive indicate nella diagonale del quadro ricapitolati- vo). Né si può del tutto escludere che le
potenziali capacità dell'individuo umano possano manifestarsi, sotto favorevoli condizioni e in forme più o meno attive,
nel senso della proficua utilizzazione integrativa delle esperienze vissute negli stadi precedenti; ecco perché il nostro
quadro ricapitolativo prevede nella verticale alta dell'estremo lato destro la possibilità di una graduale maturazione del
senso d'integrità.
Consentitemi ora di ritornare brevemente sui criteri coi quali formulai per la prima volta il concetto d'integrità: se
l'anziano torna in qualche modo ad essere bambino, il problema è di sapere se questo "ritorno" va nel senso di un
maturo e saggio comportamento fanciullesco, o in quello di un vero e proprio infantilismo. (L'anzia no può diventare o
voler diventare vecchio prima del tempo o voler rimanere giovane troppo a lungo). In questi casi solo il senso del -
l'integrità può tenere le cose insieme; e dicendo integrità non intendiamo riferirci solo a quella rara qualità che può
essere presente nel singolo, ma soprattutto a quella comune e partecipata disposizione a capire o ad "ascoltare" coloro
che conoscono le vie che portano all'integrazione della vita umana: sono le vie indicate, nei tempi passati e in diverse
circostanze, dai rapporti di solidarietà e di mutua fiducia quali si trovano ancora espressi nei loro semplici effetti e nei
loro proverbi. Ma qui emerge anche un diverso e infinito amore per quei pochi "Altri"' che sono stati i principali
partners della nostra vita. La vita del singolo è infatti la coincidenza di un solo ciclo vitale con un unico frammento
della storia; e qualsiasi forma d'integrità umana vive o muore con l'unica modalità integra tiva alla quale ciascuno di noi
partecipa.

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L'anello di congiunzione generazionale: l'età adulta

Dopo aver esaminato l'ultima parte del ciclo vitale com'era consentito dagli intenti di questo saggio, sento ora il
bisogno di sviluppare il discorso su uno stadio molto "concreto", quello che si pone come mediatore tra altri due e dello
stesso ciclo generazionale. Questo bisogno sembra bene espresso dalla storia di quel vecchio che era sul punto di
morire; mentre giaceva sul letto con gli occhi chiusi la moglie gli bisbigliava i nomi di tutti i membri della fami glia che
erano lì per dargli l'estremo saluto. «E chi» - chiese improvvisamente alzandosi di colpo - «chi baderà al negozio?». La

storia riassume nel migliore dei modi quello spirito dell'età adulta che gli Indù chiamano «la conservazione del
mondo».
Le nostre due età adulte, quella adulta in senso stretto, e quella della giovinezza, non stanno certo a significare
l'esaurirsi in esse di tutti i possibili sottostadi del periodo che va dall'adolescenza all'età senile; ciononostante e fermo
restando il nostro apprezzamento per le articolazioni alternative proposte da altri studiosi, ripetiamo qui le nostre
conclusioni generali, specie al fine di mettere in evidenza la logica d'insieme di ciascuno schema. Il che sta a signi -
ficare, all'interno di questa rassegna, che via via che si risale allo stadio precedente ci si deve per prima cosa assicurare
di aver detto tutto quello che c'era da dire in senso evolutivo dello stadio già descritto. E poiché ad ogni fascia d'età
corrispondono adeguatamente i relativi stadi, viene anche fatto di pensare che, fatte salve alcune necessarie condizioni,
essi siano circoscritti da due momenti fondamentali: quello iniziale in cui una certa qualità evolutiva può assumere una
relativa prevalenza e una significativa crisi, e quello conclusivo in cui, per la sicurezza di tutto lo sviluppo, questa
stessa qualità deve lasciare questa prevalenza alla qualità che viene dopo. In questa successione sono naturalmente
possibili ampie varietà di natura temporale, ma la sequenza degli stadi resta così predeterminata.
All'età adulta (il nostro settimo stadio) abbiamo attribuito l'antitesi critica della generatività vs. stagnazione e
preoccupazione esclusiva di sé. La generatività, lo avevamo già detto, assorbe in sé anche i caratteri della procreatività,
della produttività e della creatività, e quindi la capacità di generare nuovi individui, nuovi prodotti e nuove idee inclusa
una sorta di potere auto-generativo relativo all'ulteriore sviluppo dell'identità. Un senso di stagnazione può però essere
avvertito anche da chi riesce ad essere intensamente produttivo e creativo, mentre la stagnazione può avere un completo
sopravvento su chi si trovi del tutto impreparato a comportarsi in modo generativo. La nuova "virtù" emergente da
questa antitesi, e cioè la Cura, è una forma d'impegno in costante espansione che si esprime nel prendersi cura delle
persone, dei prodotti e delle idee che ci siamo impegnati di curare. Tutte le forze che dai primi sviluppi nell'ordine
ascendente che va dall'infanzia alla giovinezza (speranza e volontà, finalità e competenza, fedeltà e amore) vengono
alla luce, si dimostrano ora e ad un esame più attento come elementi essenziali alla realizzazione del compito
generazionale: quel- lo di saper accrescere la forza nella nuova generazione. Questo è, in effetti, "il negozio" della vita.
Allora la procreatività (ci siamo chiesti) è un ulteriore passo avanti e non un sottoprodotto della genitalità (1980 ca)?
Visto che ogni rapporto genitale mobilita gli organi procreativi in un'attivazione che per principio potrebbe risolversi in
concepimento, sembra difficile ignorare l'esistenza di un fondamento psicobiologico verso la procreazione. Ad ogni
modo, la capacità dei giovani adulti (acquisita nel precedente stadio dell' intimità vs. isolamento) a perdersi come a
ritrovarsi l'uno nell'altro nell'incontro dei corpi e delle menti, è quanto occorre per portare prima o poi verso una ricca
espansione di reciproci interessi e verso un investimento libidico su quanto può essere generato e curato insieme.
Quando l'arricchimento generativo, nelle sue varie forme, fallisce del tutto è facile riscontrare regressioni a stadi
precedenti, sia nella forma di un ossessivo bisogno di falsa-intimità, sia in quello di un'eccessiva ed esclusiva
preoccupazione per l'immagine del proprio sé e, in entrambi i casi, in un diffuso senso di stagnazione.
La stagnazione, come del resto tutte le polarità antitetiche degli altri stadi, caratterizza il nucleo patologico di
questo stadio e darà inevitabilmente luogo a regressioni verso precedenti stati conflittuali. Essa va però capita anche
nella specifica importanza del suo stadio. Questo, come è stato detto, è particolarmente rilevante oggi, in un momento
cioè in cui la frustrazione sessuale è riconosciuta come causa patogena, mentre la frustrazione generativa non è al-
trettanto riconoscibile perché coperta dal dominante èthos tecnologico del controllo delle nascite. La sublimazione,
nella sua più ampia applicazione, resta comunque l'uso migliore che si possa fare delle spinte libidiche frustrate. Così
oggi - e lo abbiamo anticipato prima - un nuovo èthos generativo può farci sentire la necessità di una più universale
cura centrata sul miglioramento qualitativo delle condizioni di vita di tutti i bambini. Questa nuova forma di carità
<amore del prossimo) può consentire ai popoli a più avanzato sviluppo di offrire a quelli in via di sviluppo, non solo
contraccettivi e generi alimentari, ma altre occasioni per un loro vitale accrescimento e per la sopravvivenza di ogni
bambino che nasce.
Ora devo però continuare a descrivere gli altri gruppi di fenomeni. caratteristici di ogni stadio vitale, che hanno
importanti conseguenze per la vita dei gruppi e per la sopravvivenza della stessa umanità. Se la cura (come le altre

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forze citate) è espressione di una disposizione comprensiva (simpatia) che ha a sua disposizione una forte energia
istintuale, esiste anche una disposizione opposta (antipatia)4. Nell'età senile abbiamo definito questa tendenza col
termine disprezzo; nello stadio della generatività il suo contrario è la negazione (il negarsi), cioè il rifiuto ad includere
certe persone o certi gruppi nel proprio interesse generativo, non curare di curarsi di loro. C'è naturalmente una
qualche logica nel fatto che nell'uomo la (istintuale) elaborazione della (istintiva) tendenza alla cura degli altri tenda ad
essere altamente selettiva in favore di ciò che è già o brano pericolosamente diversi da noi e perciò capaci di nutrire gli
stessi sentimenti di ostilità nei nostri riguardi. Il conflitto tra la generatività e la negazione viene così ad essere la più

forte àncora ontogenetica dell'universale, umana propensione che ho chiamato pseudo-specismo. Konrad Lorenz l'ha
giustamente tradotta come Quasi- Artenbildung (1973), cioè il convincimento (e gli impulsi e le azioni su di esso
basate) che un altro tipo o gruppo di persone sia per natura, per storia o per volontà divina un gruppo diverso dal nostro
e un pericolo per la stessa umanità 5. Uno dei maggiori dilemmi della natura umana è proprio costituito dal fatto che lo
pseudo-specismo (questo specifico senso di elezione) se da un lato ha spinto i gruppi umani in una storia caratterizzata
da reciproca rivalità e distruzione, dall'altro è stato ed è la fonte delle più nobili e sincere manifestazioni di lealtà e di
eroismo, di cooperazione e di inventiva. Il problema della negazione umana ha allora implicazio ni di più larga portata
per la sopravvivenza dei gruppi come per lo sviluppo psicosociale di ciascun individuo; se la negazione viene ad essere
del tutto inibita, può facilmente verificarsi una negazione o un rifiuto del proprio sé.
Per tener fede alla promessa dobbiamo anche attribuire a ciascuno stadio una specifica forma di ritualizzazione. Un
adulto può avere tutte le carte in regola per diventare agli occhi della nuova generazione una specie di sacro modello, e
può assumere il ruolo di giudice del bene e del male e di trasmettitore di valori ideali. L'a dulto può e deve dunque
assumersi anche il compito di avviare alla ritualizzazione i nuovi adepti; ed è un bisogno e una usanza antica quella di
prendere parte a rituali che, attraverso particolari cerimoniali, sanzionano e rinforzano tale ruolo. A questo compito
riservato agli adulti nel processo di ritualizzazione possiamo dare il nome di generativo; e in esso sono da includere
alcune ritualizzazioni ausiliarie, com'è il caso di quella parentale, educativa, produttiva e relativa alla cura.
A mio avviso nell'età adulta il ritualismo predominante è costituito dall’autoritarismo, e cioè dall'uso ingeneroso e
non generativo del puro e semplice potere esercitato della regolamentazione della vita economica e familiare. Va da sé
che la vera generatività ha già in sé il carattere di un 'autentica autorità.
La maturità dell'età adulta, però, deriva dalla giovinezza la quale. dal punto di vista psicosessuale, dipende da una
reciprocità genitale post-adolescenziale quale modello libidico della più autentica intimità. Un potere enorme di
controllo investe quest'incontro di corpi e di temperamenti dopo la lunga e rischiosa fase pre-adulta.
Ma i giovani adulti che vengono dalla ricerca adolescenziale della propria identità, possono essere desiderosi e
impazienti di fondere le loro identità in una reciproca intimità per condividerle con quelle persone che nel lavoro, nella
sessualità e nell'amicizia si sono dimostrate disposte e sensibili a questo ruolo complementare. Ci si può spesso
"innamorare" o darsi da fare per avere rapporti intimi, ma l'intimità che ora è in gioco è la capacità d'impegnarsi in
concreti obiettivi di rapporto con gli altri che richiedono spesso sacrifici e compromessi non trascurabili.
L'antitesi psicosociale dell' intimità è però l’isolamento, la paura di restare divisi e "non riconosciuti", il che
alimenta una profonda motivazione al realizzarsi di un'estatica ritualizzazione dell'esperienza "Io"-"Tu" (resa ora
genitalmente matura) quale era stata quella vissuta agli inizi della nostra esistenza. Il senso dell'isolamento viene allora
a costituire il potenziale nucleo patologico della giovinezza. Vi sono infatti rapporti che si risolvono in un isolamento a
due, dove i partners si proteggono a vicenda dalla necessità di affrontare la successiva e critica fase evolutiva, quella
della generatività. Ma il maggior pericolo dell'isolamento è costituito da un regressivo e ostile risveglio del conflitto
d'identità e, in caso di rapida regressione, da quello di una fissazione all'ancor più precoce conflitto col primo Altro. Ne
può scaturire una patologia "di confine". Dal superamento dell'antitesi tra l'intimità e l'isolamento scaturisce però
l’amore, quella reciprocità di matura devozione che ci consente di risolvere l'antagonismo insito nella divisione delle
funzioni.
La parte avversa all'intimità e all'amore della giovinezza è la esclusività che, per forma e per funzioni, è certamente
in stretto rapporto con la negazione che si manifesterà nell'età adulta. Ancora una volta si deve però dire che una certa
esclusività è essenziale all'intimità come lo è la negazione rispetto alla generatività; eppure entrambe possono diventare

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Nell'originale, sympathic e antipathic sono usati come termini contrapposti che. in italiano, trovano un corrispettivo nel senso di
inclinazione istintiva di gradimento (simpatia) e in quello di una non motivata avversione istintiva (antipatia). D'ora in poi tradurremo il
primo con "disposizione comprensiva" e il secondo con "disposizione avversativa" (N.d.T.).
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La parola "pseudo". nel suo significato naturalistico, non implica necessariamente una deliberata falsità. Esprime piuttosto la
pretenziosa tendenza, tipicamente umana, di crearsi più o meno consapevolmente delle immagini che fanno della propria razza o gruppo
culturale un'unica grandiosa visione nella creazione e nella storia; una potenziale tendenza creativa, dunque, che può però portare agli
estremismi più pericolosi (N.d.A.).
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decisamente distruttive e autodistruttive. L'assoluta incapacità di negarsi o di escludere qualcosa può infatti portare o
essere la conseguenza di un'eccessiva negazione ed esclusione di sé.
Intimità e generatività sono strettamente e naturalmente correlate tra loro, ma l'intimità deve prima di tutto
assicurare la presenza di una modalità di ritualizzazione basata sul bisogno di rapporto con gli altri, una modalità
capace, di alimentare stili di vita all'interno di gruppi la cui unità è compromessa da comportamenti e linguaggi spesso
profondamente incompatibili. L'intimità resta dunque la più sicura salvaguardia di quell'elusivo e tuttavia diffuso potere
nell'evoluzione psicosociale che è il potere di uno stile individuale, e, nello stesso tempo, comunitario: esso, infatti,

offre e richiede che vengano condivisi con pieno convincimento i sistemi di vita: assicura la presenza di una qualche
identità individuale anche nei rapporti fondati sull'intimità; tiene infine uniti in un sistema di vita la solidarietà di un
impegno congiunto ad uno stile di produzione. Sono questi, almeno in linea di principio, i più alti obiettivi verso i quali
è diretto e armonizzato tutto il processo di sviluppo. Questo è allora lo stadio nel quale persone di diversa estrazione
devono fondere i loro modi abituali per formare un nuovo ambiente per se stessi e per i loro discendenti: un ambiente
capace di riflettere la (graduale o radicale) trasformazione dei costumi e gli avvicendamenti nei prevalenti modelli
d'identità determinati dalle mutate condizioni storiche.
11 ritualismo adatto ad esprimere bene l'improduttiva caricatura delle ritualizzazioni della giovinezza è l’elitarismo,
qualcosa che regge e alimenta tutte quelle bande e combriccole basate sullo snobismo più che su un vero e proprio stile
di vita.

Adolescenza ed età scolare

Ma continuiamo a tornare indietro:


la possibilità e attendibilità degli impegni che il giovane deve assumere dipendono in larga parte dall'esito della lotta
vissuta dall'adolescente per acquisire la propria identità.
Certo, per dirla in termini epigenetici, nessuno può "sapere" con sicurezza chi è quel lui o quella lei finché i futuri
partners non si sono incontrati e conosciuti.
Tuttavia, i modelli fondamentali dell'identità devono imporsi da
(1) l'affermazione selettiva e il ripudio delle identificazioni proprie della fanciullezza;
(2) dal modo in cui il processo sociale proprio di un determinato tempo riesce ad identificarsi coi giovani accettandoli
nel migliore dei modi, e cioè come persone che devono diventare quelle che sono e alle quali, proprio per il fatto
d'essere quelle che sono, dev'essere data fiducia e credibilità.
La comunità, da parte sua, finisce per essere riconosciuta e accettata da chi si è preoccupato di richiedere il proprio
riconoscimento.
Per la stessa ragione la società può però anche essere profondamente e vendicativamente respinta da chi non ha avuto
questa preoccupazione, nel qual caso la società condanna ingiustamente e avventatamente tutti coloro che nella
disgraziata ricerca di un rapporto comunitario (trovato, magari, nella fedeltà ad una ban da) non è riuscita ad
individuare e ad assorbire in sé.

In altre parole:
-un adolescente cerca la propria identità e richiede alla società di essere riconosciuto e accettato
-una società ideale, di rimando, sapendosi identificare con i giovani, sente l’importanza del fatto che essi diventino ciò
che sono, e proprio per questo, li accetta nel migliore dei modi dando fiducia e credibilità-
-i giovani, così inseriti socialmente, finiscono presto per riconoscere e accettare il sistema sociale che li ha accolti.
-una società che invece, ingiustamente non riesce ad individuare e ad assorbire in sé parte di questi giovani, perché
ritenuti sbagliati, non adatti, negativi, provocherà in loro una disperata ricerca di un rapporto comunitario pur negativo
che sia (una banda, un’associazione a delinquere). Questo facilmente sfocerà in qualche malefatta e la condanna
diventerà così ancora più grande: non solo sei sbagliato, ma non sei neanche degno di far parte della società civile.
-da parte loro, i giovani respinti, ripagano la società che li circonda con la stessa moneta, respingendone le leggi e i
modi profondamente e vendicativamente.

L'antitesi dell'identità è la confusione d'identità che, pur essendo un'esperienza comune e necessaria, può però
formare un nucleo patologico destinato ad aggravarsi o già aggravato da fenomeni regressivi.

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Ma, in che senso e in che modo esiste un rapporto tra il sé (questo concetto-chiave della psicologia individuale) e il
concetto psicosociale dell'identità? Come è già stato sottolineato, un diffuso senso di identità finisce col mettere a poco
a poco d'accordo la varietà delle mutevoli immagini di sé vissute durante la fanciullezza (e che nell'adolescenza
possono avere una loro drammatica ripetizione) e le occasioni di ruolo che vengono offerte al giovane perché faccia le
opportune scelte e assuma i conseguenti impegni. D'altra parte non si può avere uno stabile senso del sé senza la
continuativa esperienza di un "Io" consapevole che è come il centro sacro dell'esistenza: una sorta di identità
esistenziale, quindi, che (come è stato detto nei riguardi dell'età senile) deve "alla fine" andare oltre quella psicosociale.

L'adolescenza ha dunque in sé un sensibile anche se fugace senso dell'esistenza, come ha un appassionato interesse per
qualsiasi valore ideologico, sia esso di natura religiosa, intellettuale o politica, inclusa a volte un'ideologia
dell'adattamento a quelli che sono i modelli adattivi e di successo di un determinato tempo. In questo caso tutti gli
sconvolgimenti che avevano caratterizzato l'adolescenza di altri tempi possono restare stranamente assopiti. E ancora
una volta l'adolescenza può incorrere in preoccupazioni esistenziali tipo quella di "diventare maggiorenne^' solo
nell'età senile.

La forza specifica che si manifesta nell'adolescenza, cioè la fedeltà, conserva un saldo rapporto sia con
l'infantile fiducia di fondo, sia col più maturo sentimento di fede. Dato che la fedeltà trasferisce il bisogno di
guida dalle figure parentali a quelle di capi e di altri idealizzati consiglieri, essa accetta volentieri la loro
mediazione ideologica sia nel caso che l'ideologia sia quella implicita in un qualche "modello di vita", sia che
assuma la forma di un'esplicita militanza. L'opposto della fedeltà è però il rifiuto di ruolo: una spinta attiva e
selettiva tesa a separare ruoli e valori che sembra realizzarsi nel processo di formazione dell'identità da ciò che
può aver opposto resistenza o che è stato trattato come estraneo al sé. Il rifiuto di ruolo può presentarsi sotto
forme di diffidenza caratterizzate da lentezza e debolezza nei riguardi di qualche valido potenziale d'identità, o in
quelle di un sistematico atteggiamento di sfida. Quest'ultimo non è che la perversa preferenza per la (sempre
possibile) identità negativa, e cioè un misto di elementi d'identità socialmente inaccettabili e tuttavia -
testardamente riconosciuti come tali. Se il sistema sociale non riesce ad offrire delle possibili alternative, tutto
questo può portare ad una rapida regressione, al limite del patologico, verso situazioni conflittuali risalenti alle
primissime esperienze del senso dell'"Io" come disperato tentativo di far rinascere il proprio sé.
Ancora una volta - come per le bipolarità psicosociali già considerate – la formazione dell'identità è però
impossibile senza un qualche rifiuto di ruolo, specie dove i ruoli disponibili mettono in pericolo la potenziale
capacità di sintesi dell'identità di un giovane. Il rifiuto di ruolo serve in questo caso a delimitare la propria iden-
tità e induce anche a sperimentare delle forme di lealtà che possono così essere "confermate" e trasformate in
duraturi bisogni affettivi a mezzo di adeguate ritualizzazioni e rituali. Né si può pensare che il rifiuto di ruolo
possa essere utilizzato nel processo societario; il costante riadattamento alle mutevoli circostanze può infatti
essere mantenuto solo con l'aiuto di fedeli ribelli che rifiutino di "adattarsi" alle "condizioni" e che fomentino
l'indignazione nel nome di un assoluto, totale rinnovamento della ritualizzazione senza il quale l'evoluzione
psicosociale verrebbe ad essere condannata.
In sintesi, il processo di formazione d'identità scaturisce come una configurazione che va evolvendosi, una
configurazione (o struttura) che gradualmente tende ad integrare tra loro i dati costitu zionali, i bisogni libidici
incompatibili, le capacità privilegiate, le identificazioni più significative, le difese più stabili, le sublimazioni riuscite e i
ruoli più consistenti. Tutte queste cose, però, possono imporsi solo se esiste un reciproco adattamento fra i potenziali
individuali, le prospettive tecnologiche e le ideologie religiose o politiche.
Certo, nell'ambiguità dei primi tentativi compiuti dagli adolescenti per ritualizzare la loro interazione coi coetanei e
creare rituali adatti ai piccoli gruppi, le spontanee ritualizzazioni di questo stadio possono sembrare sorprendenti,
confuse e talora esasperate. Di fatto, però, esse incoraggiano la partecipazione agli eventi pubblici nel campo dello
sport, della musica, o dove si discutono problemi religiosi e politici. In queste circostanze è frequente vedere i giovani
impegnati nella ricerca di una qualche conferma ideologica, ed è qui che vengono a fondersi i riti spontanei e i più
formali rituali. Questa ricerca può tuttavia risolversi anche in una fanatica partecipazione a forme di ritualismo
militante contraddistinto dai caratteri del totalismo, e cioè da una totalizzazione dell'immagine del mondo così illusoria
da perdere del tutto il potere dell'auto-rinnovamento e diventare distruttivamente preda del fanatismo.

L'adolescenza e le esperienze che vengono ad essere vissute negli anni della scuola superiore e del college, possono
essere considerate, come abbiamo visto, una sorta di moratorium psicosociale: un periodo cioè di maturazione sessuale
e cognitiva che tuttavia è sanzionato dal rinvio di un definitivo impegno. Si tratta di un periodo che accorda un certo
indugio alla sperimentazione del ruolo, compresa quella dei ruoli sessuali, e si tratta di esperienze che acquistano un
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ricco significato al fine dell'auto-rinnovamento della società in termini adattivi. La precedente età scolare (fanciullezza)
acquista a sua volta il carattere di moratorium psicosessuale perché il suo inizio coincide con quel periodo che la
psicoanalisi chiama "di latenza" e che è caratterizzato da una sorta di assopimento della sessualità infantile e un
differimento della maturità genitale. Così il futuro coniuge e genitore viene messo in grado di sperimentare i metodi
scolastici propri della società cui appartiene e di apprendere i rudimenti tecnici e sociali di una situazione lavorativa. A
questo periodo abbiamo attribuito la crisi psicosociale dell' industriosità vs. senso d'inferiorità, dove l'industriosità può
essere definita come il fondamentale senso di una competente attività adattata sia alle leggi meccaniche del mondo, sia

alle regole della cooperazione stabilite secondo procedure programmate e pianificate. Anche qui si può dire che a
questo stadio il fanciullo impara ad amare sia l'apprendere che il giocare e ad imparare con maggior lena quelle tecniche
che sono in linea con l’èthos della produzione. Una certa gerarchia dei ruoli lavorativi è intanto già penetrata
nell'immaginazione del fanciullo che impara e che gioca grazie ad esempi ideali, reali o mitici che siano, e che si
presentano ora nelle persone degli adulti che istruiscono e negli eroi delle leggende, delle storie e dei romanzi.
Come antitesi all'industriosità abbiamo indicato il senso di inferiorità, un altro elemento distonico che aiuta a progredire
anche se può (temporaneamente) bloccare i più sprovveduti.
Come nucleo patologico di questo stadio l'inferiorità è però anche capace di nascondere in sé più marcate situazioni
conflittuali: può spingere il fanciullo a un'eccessiva competitività o indurlo a regredire, il che può solo portare alla
ricomparsa di un conflitto genitale-infantile ed edipico e, di conseguenza, a fantasie che ripropongono lo scontro con
figure conflittuali anziché l'incontro con quelle capaci di assi curare fiducia ed aiuto.
La prima forza che si sviluppa a questo stadio è comunque la competenza, una forza che ti fa capire come nella sua
crescita l'uomo debba a poco a poco integrare i più maturi metodi per verificare e padroneggiare il fattuale, nonché per
condividere il reale con quanti partecipano alla stessa situazione produttiva.
Abbiamo finora cercato di sottolineare quale sia il nesso che lega le forze istintuali coi processi organici nel
contesto della sequenza degli stadi psicosociali e la successione delle generazioni. Per prima cosa si sono voluti mettere
in rilievo alcuni princìpi fondamentali dello sviluppo, nonché l'analisi interdisciplinare di quanto è apparso essenziale al
momento delle loro formulazioni, anche se non possiamo ritornare ora sul preciso numero degli stadi elencati o su tutti
i termini utilizzati; va da sé che ai fini di una completa conferma del nostro schema dobbiamo fare i conti con tutta una
serie di discipline che in queste pagine non sono state considerate.
Dal punto di vista psicologico si può far ricorso al potere verificante che ci viene dallo sviluppo cognitivo giacché
esso precisa ed estende in ciascuno stadio la capacità di stabilire un'accurata interazione concettuale col mondo del
reale. Quello cognitivo viene allora ad essere un importante "apparato dell'io", nel senso voluto da Hartmann (1939).
Può risultare così utile mettere a confronto gli aspetti "senso-motori" dell'intelligenza proposti da Piaget con la fiducia
di fondo dell'infanzia: quelli "intuitivo-simbolici" col gioco e con l'iniziativa; quelli "operatorio-concreti" con
l'industriosità; e. infine, quelli delle "operazioni formali" e delle "manipolazioni logiche" con lo sviluppo dell'identità
(si veda Greenspan, 1979). Piaget, che in uno dei nostri primi incontri interdisciplinari ebbe la pazienza di ascoltare
quanto ho fin qui esposto, dichiarò successivamente che, se non altro, non vedeva contraddizione alcuna tra i suoi e i
nostri stadi. «Piaget - scrive Greenspan - è del tutto in sintonia con lo sviluppo in senso psicosociale operato da Erikson
nei riguardi della teoria freudiana» (1979). Lo stesso Greenspan cita Piaget là dove scrive: «Il grande merito degli stadi
proposti da Erikson... sta nel fatto ch'egli ha cercato di collocare i meccanismi freudiani all'interno di più generali
modalità comportamentali (il camminare, l'esplorare, ecc.) per formulare una continuità integrativa delle prime
esperienze con quelle dei successivi livelli» (Piaget, 1960).
L'opposto dell' industriosità, intesa come competente padronanza da acquisire negli anni della scuola, è l’inerzia
che costantemente cerca di paralizzare la vita produttiva dell'individuo e che è fatalmente in relazione con l’inibizione
dell'età precedente, quella ludica.

Gli anni della pre-scolarità

Gli stadi della fanciullezza sono già stati discussi in relazione all'epigenesi, alla pregenitalità e alla ritualizzazione.
Resta da presentare ora solo una breve esposizione dei loro elementi antitetici ed oppositivi.
Torniamo dunque all'età ludica nella quale il momento di crisi è costituito dall'opposizione tra l'iniziativa e il senso
di colpa. A questo punto dobbiamo ricordare che l'attività ludica è una componente essenziale alla manifestazione di
tutti gli stadi. Proprio nel momento in cui le implicazioni edipiche determinano una forte limitazione dell'iniziativa nei
rapporti del bambino con le figure dell'ambiente familiare, il gioco si esprime infatti in tutta la sua ricchezza
consentendo al bambino stesso di realizzare una drammatizzazione nella microsfera di un ampio numero di
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identificazioni e di attività. L’età ludica, inoltre, viene “prima” di quella scolare che comincia ad imporre dei ruoli ben
definiti, e viene prima dell’adolescenza, che obbliga a compiere sperimentazioni sui potenziali d’identità.
Non è dunque un caso che l'origine infantile del dramma edipico venga a collocarsi proprio a questo stadio, uno
stadio che con tutta la sua mitologia e soprattutto con la perfezione propria di una scena recitata in palcoscenico,
viene ad essere il primo esempio della ricca capacità ludica che l'uomo riuscirà ad esprimere in numerose
circostanze e per tutto il corso della sua vita. La capacità ludica affonda del resto le sue radici in quell'attitudine
all'umorismo che è dono specifico a mezzo del quale l'uomo può ridere di se stesso e degli altri.

Tutto questo, però, rende plausibile il perché nell'età ludica l’inibizione venga ad essere il polo opposto
dell'iniziativa, un polo d'altra parte necessario in una creatura (l'uomo) così portata al gioco e all'immaginazione.
L'inibizione viene anche ad essere il nucleo patologico di possibili, successivi disturbi psiconevrotici (a partire da
quelli isterici) le cui radici sono da ricercare nello stadio del conflitto edipico.
Lo stadio che precede l'età ludica è quello del conflitto "anale" che è già stato riconosciuto come punto di "fissazione"
infantile nelle turbe nevrotiche di tipo coatto. Dal punto di vista psicosociale lo abbiamo considerato come polo critico
dell’ autonomia vs. senso di vergogna e di dubbio dal superamento del quale viene ad imporsi una prima forma di
volontà. Se consideriamo di nuovo il posto che occupa questo stadio tra quello che lo precede e quelli che lo seguono,
appare del resto "ragionevole" che, in una concezione dinamica, ciò che abbiamo indicato finora col nome di iniziativa
non possa svilupparsi se non si verifica un salto decisivo dalla dipendenza orale-sensoriale verso un'auto-volontà di
tipo anale-muscolare, nonché verso una prima capacità di auto-controllo.
Abbiamo visto precedentemente come ai bambini sia possibile passare da una impulsività volontaria ad una dipendenza
passiva a stimoli esterni di tipo coercitivo; la volontà del bambino, infatti, a volte cerca di agire in maniera del tutto
indipendente identificandosi nei propri impulsi ribelli, altre volte tende a ricadere in uno stato di dipendenza facendo
propria e in forma coercitiva la volontà degli altri. Nell'equilibrio di queste due tendenze una prima manifestazione di
volontà viene a fare da sostegno alla maturazione e delle libere scelte, e dell'auto-controllo. L'individuo umano deve
infatti imparare presto a desiderare quello che può avere, a rinunciare (non valendone la pena) a ciò che non può avere,
e a credere di aver desiderato quanto per legge e per necessità era lecito desiderare. Ad ogni modo, in armonia coi due
processi (ritentivo ed eliminativo) che sono dominati in questa età, la coercizione e l’impulsività sono in contraddizione
con la volontà e, se unite insieme e consistenti, possono anche bloccarla.
Anche procedendo dall'alto verso il basso, dovrebbe ormai risultare chiaro che quanto viene così e di volta in volta a
svilupparsi è veramente un insieme epigenetico nel quale nessuno stadio nessuna forza possono fare a meno dei loro
primi rudimenti, delle loro crisi "naturali", e del loro potenziale potere di rinnovamento in tutti i successivi stadi. Così,
nell'infanzia, la speranza deve già avere in sé un elemento di desiderio anche se esso non può rivelarsi perché ancora
incerto sul modo in cui dovrà manifestarsi quando, nella prima giovinezza, si verificherà una crisi della volontà. D'altra
parte, se diamo uno sguardo all’”ultima linea" risulterà chiaro come nella speranza di un bambino ci sia già un
elemento destinato a crescere e a diventare fede, anche se sarà poi più difficile il difendere questo concetto contro i
tanti fanatici sostenitori dell'infanzia6. D'altro canto, il nome Lao Tse non significa forse «vecchio bambino» in
riferimento a quel neonato venuto al mondo con una minuscola barba bianca?
Come avevamo già detto, la speranza nasce dal conflitto della fiducia di fondo vs. la sfiducia di fondo. La speranza
è, per così dire, semplice futuro, e se la sfiducia prevale precocemente ogni possibilità di sviluppo tende, come
sappiamo, ad affievolirsi sia sul versante cognitivo che su quello emotivo. Ma se è la speranza a prevalere, allora
prevale con essa la possibilità che venga ad emergere la sacra immagine del "primo altro" attraverso le variegate forme
ch'essa può assumere negli stadi intermedi lungo la strada che porta ad un confronto con l"'ultimo altro" nella sua forma
più completa e con la promessa di riguadagnare per sempre un paradiso quasi perduto. Per la stessa ragione,
l'autonomia e la volontà, l'industriosità e la finalità vanno verso un futuro che resterà aperto nel gioco e nella
preparatoria attività lavorativa per le scelte proprie di un'era culturale, economica e storica. L'identità e la fedeltà, a loro
volta, devono cominciare ad impegnarsi in scelte che coinvolgono precise connessioni di attività e di valori. La
giovinezza, se sostenuta da valide ideologie, può avere davanti a sé un ampio spettro di possibilità di "salvazione" e di
"dannazione"; mentre l'amore dei giovani adulti è ispirato dai sogni di quanto si può essere capaci di fare per se stessi e
per gli altri, insieme agli altri. Con l'amore e la cura dell'età adulta s'impone, però, il più critico fattore di un mo mento
intermedio di vita, e cioè l'evidenza di una progressiva riduzione delle possibilità di scelta in ragione di condizioni
ormai irreversibili deliberatamente scelte o imposte dal destino. A questo punto, condizioni, circostanze e vincoli sono
diventati una volta per tutte la propria realtà di vita. Le disposizioni alla cura dell'adulto d evono allora concentrarsi sia
su quegli aspetti della vita per i quali è stata fatta una scelta, sia su quelli che ci sono stati imposti: e in entrambi i casi
esse vanno adattate alle esigenze tecnologiche del momento storico in cui viviamo. Lentamente, dunque, e con sempre

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Presumibilmente, nel senso di coloro che attribuendo all'infanzia caratteri rigidamente determinati e circoscritti ne hanno fatto un mito
che mal si concilia con la dinamica evolutiva delle successive fasi della vita (N.d.T.).
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maggior forza un nuovo senso del tempo e una decisiva identità vengono ad imporsi; lentamente si diventa quello che
si è voluto essere e finalmente ognuno sarà quello che è stato. Lifton (1970) ha messo bene in luce cosa significhi
essere un superstite, un sopravvissuto, ma nell'età adulta si deve capire (come fece Laio) che chi è stato "generatore",
sopravvivrà attraverso coloro che ha generato. Né è possibile avere piena consapevolezza di questo; sembra, al
contrario, che ove si sia riusciti ad arginare il minaccioso rischio della stagnazione, lo stadio della generatività sia
diffusamente caratterizzato da un decisione di supremo disprezzo della morte. La giovinezza, da parte sua, ha invece
maggior consapevolezza della morte; anche se gli adulti, occupati come sono alla “conservazione del mondo”

partecipano ai grandi rituali della religione, della politica e dell’arte –ciascuno quali fa della morte un evento ricco di
cerimoniali e di mitologia - essi vivono questa partecipazione nel suo vero significato di rito dando ad essa il valore di
una estesa presenza sociale. Giovinezza ed età adulta sono allora i periodi in cui si cullano sogni di rinascita, mentre
l'età adulta è troppo presa ad occuparsi delle vere nascite e trova compenso a questo compito nella forza che proviene
da un ben definito senso della convulsa e infinita realtà storica, un senso che ai giovani e agli anziani può perfino
sembrare irreale giacché nega l'ombra del non-essere.
Il lettore può essere ora interessato a riconsiderare le categorie elencate nel primo quadro ricapitolativo.
Per ciascuno stadio psicosociale, "localizzato" com'è tra i processi psicosessuali (A) e il raggio delle sempre
più estese relazioni sociali (C), abbiamo posto il nucleo critico (B) durante il quale lo sviluppo di uno
specifico potenziale sintonico (dalla fiducia di fondo [I] fino all' integrità [VIII]) deve superare quello
distonico e antitetico (dalla sfiducia di fondo alla senile disperazione). Il superamento di ciascun momento
critico avviene attraverso la comparsa di una forza di base o qualità dell'io (dalla speranza alla saggezza) (D).
Ma anche la forza sintonica ha il suo corrispettivo antitetico (dal ritiro al disprezzo) (E).
Elementi sintonici e distonici e potenziali di disposizione comprensiva e avversi va sono necessari
all'adattamento umano perché l'uomo non condivide con gli animali il destino di svilupparsi secondo un tipo
di adattamento istintivo in un ben circoscritto ambiente naturale che consente una netta separazione e
un'interna suddivisione di reazioni positive e negative. È vero, invece, che l'uomo dev'essere guidato per un
lungo periodo dell'infanzia e della fanciullezza perché possa sviluppare modelli reattivi istintuali d'amore o di
aggressività, capaci d'essere diversamente associati in
una varietà di ambienti culturali spesso profondamente diversi per tecnologia, stile e immagine del mondo, anche se
ciascuno di essi è sostenuto da quelle condizioni che Hartmann (1939) ha definito come «mediamente prevedibili».
Quando le tendenze distoniche e avversive prendono il sopravvento su quelle sintoniche e comprensive ne consegue
uno specifico nucleo patologico (dal rifiuto psicotico alla depressione senile).
Le sintesi di cui è capace l'io e l'ethos dei gruppi comunitari tendono di regola a fare da supporto alle tendenze
sintoniche e di disposizione comprensiva, e lo fanno riuscendo ad adattare le tendenze opposte alla grande variabilità
delle dinamiche umane. Le tendenze negative restano tuttavia una costante minaccia per l'individuo e per l'ordine
sociale, ed è per questo che nel corso della storia dei ben definiti sistemi di credenze e di fede (religioni, ideologie,
teorie cosmologiche) hanno cercato di universalizzare le positive tendenze dell'uomo rendendole praticabili in una
ampia varietà di utili e importanti "iniziative". Tali sistemi di fede diventano a loro volta parte essenziale nello sviluppo
di ciascun individuo giacché il loro ethos («che muove le abitudini e i costumi, gli atteggiamenti morali e ideali») viene
ad essere trasferito nella vita di tutti i giorni attraverso i caratteri specifici dell'età e le ritualizzazioni adeguate ai vari
stadi (G). Queste impegnano l'energia della crescita nel rinnovamento di certi principi assoluti (dal sacro al filosofico).
Dove io e èthos perdono la loro capacità di inter-connessione, allora queste ritualizzazioni rischiano di disperdersi in
inutili e negativi ritualismi (dall'idolismo al dogmatismo) (H). A motivo delle loro comuni radici genetiche, esiste
indubbiamente una dinamica affinità tra i nuclei patologici che riguardano l'individuo e i ritualismi sociali (Cfr. E e H).
Così, ogni nuovo essere umano riceve ed interiorizza la logica e la forza dei principi di natura sociale (dal cosmico
attraverso il legale e il tecnologico verso l'ideologico ed oltre) (F), e sviluppa la propria disponibilità sotto favorevoli
condizioni. Tutto questo dev'essere comunque riconosciuto come uno dei momenti essenziali nell'edificazione dei
potenziali di sviluppo e di recupero, anche se l'esperienza clinica e la comune osservazione ci mettono spesso di fronte
a sintomi di crisi non risolte sia nei singoli come nella patologia sociale della decomposizione ritualistica.
Quanto detto finora ci porta ai limiti di un altro studio complementare qui non considerato: quello che dovrebbe
coinvolgere le strutture e i meccanismi istituzionali idonei alla politica delle comunità. A dire il vero, qualcosa
abbiamo detto sulle ritualizzazioni della vita quotidiana che assicurano un rapporto tra lo sviluppo individuale e la
struttura sociale: la loro "politica" è facilmente riconoscibile in ogni registrazione o analisi clinica dell'intima intera-
zione sociale. E, sia pure di sfuggita, qualcosa abbiamo detto su quelle particolari forze che emergono dalla fiducia e
dalla speranza con la religione; dall'autonomia e la volontà con la legge; dall'iniziativa e la finalità con le arti;

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dall'industriosità e competenza con la tecnologia; e dall'identità e fedeltà con l'ordine ideologico. Biso gna però far
ricorso alle scienze sociali per valutare come e quanto, in certi sistemi e periodi storici, individui che hanno avuto
funzioni di guida e gruppi elitari che hanno esercitato il potere si siano adoperati per preservare, rinnovare o
ricomporre il loro intimo ethos in fatti di vita e in realtà politiche, e come siano riusciti a tenere vivi i potenziali
generativi degli adulti e la disponibilità alla crescita e allo sviluppo che in questi stessi stava maturando. Nei miei
lavori sono stato capace solo di avvicinarmi alle esperienze di vita e agli stadi critici presenti in queste stesse
esperienze di due grandi leaders religiosi e politici, e cioè Martin Luther e Mahatma Gandhi (1958; 1969) che

riuscirono a trasferire i loro conflitti personali in metodi di rinnovamento spirituale e politico nelle esperienze di vita di
un cospicuo numero di loro contemporanei.
Questo ci porterebbe dunque ad una prospettiva psicostorica. Ma in quella che sarà la conclusione di questo saggio,
credo sia meglio chiedersi in qual modo il metodo psicoanalitico può avvalersi dell'introspezione psicosociale e
ottenerne indicazioni che ci riportino ad essa. Il che ci fa tornare al punto di partenza di questa nostra rassegna.

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