Sei sulla pagina 1di 667

STORIA DELLA

PSICOLOGIA I: DAI
PROGENITORI AL
FUNZIONALISMO
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia I:
dai progenitori al Funzionalismo

Indice

1. I PROGENITORI DELLA PSICOLOGIA .................................. 3

2. DAL CERVELLO ALLA MENTE ................................................ 5

3. STRUTTURALISMO E FUNZIONALISMO .............................. 8

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 11

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633 )

Pag. 2 di 11
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia I:
dai progenitori al Funzionalismo

1. I PROGENITORI DELLA PSICOLOGIA

La psicologia può essere definita come lo studio scientifico della


mente e del comportamento. Con il termine ‘mente’ ci si riferisce alla
nostra personale esperienza interiore, all’incessante flusso di coscienza
fatto di percezioni, pensieri, ricordi e sentimenti. Con il termine
‘comportamento’ si fa invece riferimento alle azioni osservabili degli
esseri umani, alle cose che facciamo nel mondo, da soli o con altri. La
psicologia è dunque il tentativo di usare il metodo scientifico per
rispondere agli interrogativi fondamentali che riguardano la mente e il
comportamento.
Il desiderio di capire chi siamo non è certamente nuovo: le radici
della psicologia moderna vanno infatti ricercate nella filosofia di
duemila anni fa. I pensatori greci come Platone (428-347 a.C.) ed
Aristotele (384-322 a.C.) furono tra i primi a confrontarsi con gli
interrogativi fondamentali su come funziona la mente. Questi filosofi
esaminarono la maggior parte delle questioni di cui gli psicologi
continuano ad occuparsi anche oggi. Ad esempio, le capacità cognitive
e le cognizioni sono innate o si acquisiscono con l’esperienza?
Platone era un fervido sostenitore dell’innatismo, secondo cui
certi tipi di conoscenza sono innati o connaturati. Per esempio, è noto
che i bambini di tutte le culture acquisiscono la padronanza degli
aspetti fondamentali della lingua molto precocemente, ben prima di
ricevere alcuna istruzione formale: essi imparano che i suoni hanno dei
significati e che possono essere combinati per formare delle parole, le
quali a loro volta possono essere utilizzate per formare delle frasi. In
effetti, queste evidenze sembrano indicare che la propensione

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633 )

Pag. 3 di 11
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia I:
dai progenitori al Funzionalismo

all’apprendimento di una lingua è come l’hardware di un computer,


ossia qualcosa che i bambini possiedono fin dalla nascita.
Al contrario, Aristotele era un sostenitore dell’empirismo
filosofico, secondo cui tutta la conoscenza si acquisisce mediante
l’esperienza. Questo filosofo riteneva che la mente del bambino fosse
come una tabula rasa (una lavagna vuota) su cui venivano scritte le
esperienze. Secondo tale visione anche la capacità di apprendere una
lingua dipende dall’esperienza del bambino (per esempio, gli psicologi
moderni hanno dimostrato che diversi fattori ambientali, tra i quali la
presenza di fratelli o sorelle più grandi, possono favorire
l’apprendimento linguistico dei bambini).
Naturalmente, pochi psicologi moderni credono nella totale
fondatezza dell’innatismo o dell’empirismo: tuttavia, la controversia
relativa a quanta parte abbiano la ‘natura’ e la ‘cultura’ nello spiegare
i comportamenti umani è ancora oggi aperta. Per certi versi, è
sorprendente come questi filosofi antichi siano stati in grado di
sollevare molte delle questioni fondamentali della psicologia ed offrire
intuizioni eccellenti senza avere alcun accesso all’evidenza scientifica.
Infatti, le idee di Platone e Aristotele provenivano da osservazioni
personali, dall’intuizione e dalla riflessione. Per quanto essi fossero
molto bravi ad argomentare gli uni contro gli altri, era impossibile
giungere ad una risoluzione delle dispute teoriche in quanto il loro
approccio non prevedeva alcun metodo empirico di verifica delle teorie.
Oggi, tutti gli studiosi sono d’accordo sul fatto che la capacità di
verificare una teoria sul piano empirico (osservativo) costituisce il
fondamento dell’approccio scientifico nella psicologia moderna e la base
per giungere a conclusioni affidabili.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633 )

Pag. 4 di 11
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia I:
dai progenitori al Funzionalismo

2. DAL CERVELLO ALLA MENTE

Tutti concordiamo sul fatto che il cervello e il corpo sono oggetti


fisici, mentre i contenuti della mente (le percezioni, i pensieri e le
emozioni) non sono osservabili: l’esperienza interiore è perfettamente
reale ma dove ha sede? Il filosofo francese Descartes (1596-1650)
asseriva che corpo e mente sono cose fondamentalmente diverse: il
corpo e il cervello sono fatti di una sostanza materiale, mentre la mente
(o anima) è fatta di una sostanza incorporea (spirituale). Ma se la
mente e il corpo sono fatti di sostanze diverse, in che modo
interagiscono? Questo è l’annoso problema del dualismo – ovvero, il
problema di come l’attività mentale possa trovare accordo e
coordinazione con il comportamento fisico: come fa la mente a dire al
corpo di muovere un piede? Descartes sosteneva che la mente influenza
il corpo attraverso una piccola struttura cerebrale, nota come ghiandola
pineale. Al contrario, il filosofo inglese Hobbes (1588-1679) asseriva che
mente e corpo non sono affatto cose diverse: piuttosto, la mente è ciò
che il cervello fa.
Anche il medico francese Gall (1758-1828) pensava che cervello
e mente fossero collegati. Egli esaminò i cervelli di persone morte e
concluse che l’abilità mentale spesso aumentava con l’aumentare delle
dimensioni cerebrali, mentre diminuiva se il cervello era danneggiato
(questo aspetto dei suoi studi fu ampiamente accettato). Tuttavia, Gall
andò molto oltre le evidenze sperimentali e propose una teoria nota
come frenologia, secondo cui specifiche abilità e caratteristiche mentali
sono localizzate in specifiche aree del cervello. In effetti, l’idea della
specializzazione cerebrale si dimostrò corretta. La frenologia, però,
spinse questa ipotesi fino a conseguenze estreme ed irragionevoli. Ad

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633 )

Pag. 5 di 11
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia I:
dai progenitori al Funzionalismo

esempio, Gall sosteneva che la dimensione delle protuberanze o delle


rientranze del cranio rifletteva la dimensione delle aree cerebrali
sottostanti e che toccandole si poteva stabilire se una persona era
amichevole, prudente, assertiva e così via.
La frenologia si basava su prove aneddotiche e osservazioni
casuali, e ciò portò al suo rapido abbandono. Tuttavia, altri scienziati
cominciarono a collegare mente e cervello in maniera più convincente.
Il chirurgo Paul Broca (1825-1880), in particolare, esaminò un paziente
che aveva subito una lesione in una piccola area dell’emisfero sinistro
del cervello: egli era del tutto incapace di parlare, anche se capiva
perfettamente quello che gli veniva detto ed era in grado di comunicare
attraverso i gesti. Broca concluse che il danno di quella particolare area
cerebrale intaccava una funzione mentale specifica, il linguaggio
espressivo: ciò ebbe un’importanza fondamentale in quanto dimostrava
in modo inconfutabile che mente e cervello sono strettamente collegati,
in un epoca in cui molti seguivano ancora le idee di Descartes.
Contemporaneamente, la psicologia beneficiò del lavoro di alcuni
scienziati tedeschi specializzati nella fisologia, una disciplina che
studia i processi biologici che avvengono nel corpo umano. Tra questi,
il contributo più importante fu probabilmente quello di Hermann von
Helmholtz (1821-1894), il quale adatto allo studio degli esseri umani
un metodo per misurare la velocità degli impulsi nervosi nella zampa
delle rane. Egli addestrò i partecipanti a reagire quando veniva
somministrato uno stimolo in diverse parti della gamba e trovò che il
tempo di reazione ad uno stimolo somministrato all’alluce era più lento
del tempo di reazione ad uno stimolo somministrato alla coscia: così
facendo, riuscì a misurare il tempo che occorreva ad un impulso nervoso
per giungere al cervello. All’epoca, la maggior parte degli scienziati
ritenevano che i processi neurologici sottostanti agli eventi mentali

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633 )

Pag. 6 di 11
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia I:
dai progenitori al Funzionalismo

dovessero essere istantanei per rendere il comportamento così


perfettamente sincronizzato: Helmholtz dimostrò per la prima volta
che questo assunto non era vero.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633 )

Pag. 7 di 11
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia I:
dai progenitori al Funzionalismo

3. STRUTTURALISMO E FUNZIONALISMO

Nel 1879, un assistente di Helmholtz, Wilhelm Wundt (1832-


1920) aprì il primo laboratorio di psicologia all’Università di Lipsia:
secondo gli storici, questo avvenimento segnò la nascita ufficiale della
psicologia come campo di studi indipendente.
Wundt era convinto che la psicologia dovesse occuparsi
dell’analisi della coscienza, intesa come l’esperienza soggettiva che una
persona ha del mondo. Per fare ciò, egli adottò un approccio detto
strutturalismo, che prevedeva l’analisi degli elementi di base che
costituiscono la mente. Come i chimici tentavano di comprendere la
struttura della materia scomponendo le sostanze naturali nei loro
elementi di base, così l’approccio di Wundt consisteva nello scomporre
la coscienza in sensazioni ed emozioni elementari. Il metodo da
utilizzare a tale scopo era quello dell’introspezione, che implicava
l’osservazione soggettiva della propria esperienza personale. In un
tipico esperimento dell’epoca, si presentava agli osservatori uno stimolo
( quasi sempre un colore o un suono) e si chiedeva loro di riferire le
proprie introspezioni, focalizzandosi sulle esperienze sensoriali ‘nude e
crude’ (senza fornire interpretazione soggettive).
Utilizzando questa tecnica, Edward Titchener (1867-1927) si
concentrò sull’identificazione degli elementi di base della coscienza.
Egli addestrò i suoi studenti a fornire descrizioni dettagliate delle
proprie immagini e sensazioni soggettive. Come risultato, nel suo
manuale (intitolato Aspetti essenziali della psicologia, 1896), elencò più
di 44000 qualità elementari dell’esperienza cosciente, per la maggior
parte visive o uditive.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633 )

Pag. 8 di 11
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia I:
dai progenitori al Funzionalismo

Nonostante gli sforzi di Titchener, l’interesse per lo


strutturalismo diminuì molto rapidamente, fino ad essere
completamente abbandonato. La causa di questo fallimento era da
ricercare soprattutto nella eccessiva soggettività del metodo
introspettivo. Anche osservatori ben addestrati fornivano resoconti
contraddittori riguardo alle loro esperienze coscienti, rendendo
prasticamente impossibile a psicologi diversi concordare sugli elementi
di base della coscienza. A molti studiosi era ormai chiaro che la
psicologia, in quanto scienza, richiedeva osservazioni replicabili e che
l’introspezione non poteva soddisfare tale requisito.
William James (1842-1910) concordava con Wundt e Titchener
sulla necessità di concentrarsi sull’esperienza immediata, ma, a loro
differenza, riteneva che la coscienza non potesse essere scomposta in
elementi separati. Egli riteneva che cercare di isolare e analizzare un
momento particolare della coscienza distorcesse la natura essenziale
della coscienza stessa, la quale era più simile ad un flusso incessante
che a un complesso di sensazioni distinte. Queste idee portarono James
a sviluppare un approccio completamente diverso noto come
funzionalismo, ossia lo studio dello scopo a cui adempiono i processi
mentali nel permettere alle persone di adattarsi al proprio ambiente.
Il funzionalismo si ispirava al principio della selezione naturale
proposto da Darwin nel celeberrimo libro L’origine della specie (1859).
Secondo questo principio, le caratteristiche di un organismo utili alla
sua sopravvivenza e riproduzione hanno maggiori probabilità, rispetto
ad altre caratteristiche, di essere trasmesse alle generazioni
successive. Analogamente, James riteneva che le capacità mentali si
erano evolute in quanto adattive: esse aiutavano gli esseri umani a
risolvere problemi e aumentavano le loro probabilità di sopravvivenza.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633 )

Pag. 9 di 11
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia I:
dai progenitori al Funzionalismo

Pertanto, il compito degli psicologi consisteva nel capire quali fossero


le funzioni biologiche e adattive della coscienza.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633 )

Pag. 10 di 11
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia I:
dai progenitori al Funzionalismo

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014). Psicologia


generale. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633 )

Pag. 11 di 11
STORIA DELLA
PSICOLOGIA II:
DALLA GESTALT
ALLA PSICOLOGIA
UMANISTICA
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia II:
dalla Gestalt alla Psicologia umanistica

Indice

1. LA PSICOLOGIA DELLA GESTALT ......................................... 3

2. I DISTURBI MENTALI E LA PERSONALITÀ MULTIPLA .. 6

3. LA PSICOANALISI E LA PSICOLOGIA UMANISTICA ........ 8

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 10

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 10
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia II:
dalla Gestalt alla Psicologia umanistica

1. LA PSICOLOGIA DELLA GESTALT

All’incirca nello stesso periodo in Wundt e James sviluppavano


lo strutturalismo e il funzionalismo, altri psicologi si resero conto che
le illusioni e i disturbi di personalità potevano servire a chiarire il
funzionamento psicologico.
Gli esseri umani sono molto sensibili alle illusioni, ovvero agli
errori di percezione, di memoria o di giudizio in cui l’esperienza
soggettiva differisce dalla realtà oggettiva. Per esempio, nell’illusione
di Mueller-Lyer (Figura 1), la linea in alto sembra più lunga della linea
in basso, nonostante esse abbiano la medesima lunghezza. Questo
accade in quanto le linee oblique alle due estremità influenzano la
nostra percezione delle linee orizzontali.

Figura 1. L’illusione di Mueller-Lyer.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 10
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia II:
dalla Gestalt alla Psicologia umanistica

Analogamente, Max Wertheimer (1880-1943) condusse un


esperimento in cui mostrava ai partecipanti due luci che
lampeggiavano velocemente su uno schermo, una dopo l’altra. Quando
l’intervallo di tempo tra le luci era abbastanza lungo, le persone
vedevano due luci che lampeggiavano alternativamente. Tuttavia,
quando l’intervallo tra le due luci fu ridotto a 20 millisecondi, i
partecipanti percepivano un’unica luce che si muoveva avanti e
indietro. Wertheimer concluse che simili illusioni non possono essere
spiegate tramite gli elementi separati che le causano (le due luci);
Il lampo di luce mobile viene infatti percepito come un tutt’uno,
anziché come la somma delle parti;
Questa intuizione portò allo sviluppo della Psicologia della
Gestalt, un approccio psicologico che evidenzia come l’intero sia più
della semplice somma delle parti e come gli esseri umani spesso
tendano a percepire l’intero piuttosto che la somma delle parti. In altre
parole, gli psicologi della Gestalt assumono che la mente imponga una
organizzazione a ciò che percepisce: questo è il motivo per cui i soggetti
non vedono ciò che effettivamente lo sperimentatore mostra loro (due
luci distinte), ma vedono piuttosto gli elementi come un insieme
unificato (un’unica luce che si muove in maniera continua).
Si può facilmente comprendere come le tesi degli psicologi della
Gestalt fossero diametralmente opposte a quelle degli strutturalisti,
secondo cui l’esperienza cosciente doveva essere analizzata attraverso
un processo di scomposizione in elementi separati. Studiosi come K.
Koffka (1886-1941) e W. Kohler (1887-1967) svilupparono
ulteriormente la teoria e aggiunsero nuove dimostrazioni ed illusioni
che confermavano la propensione della mente umana a percepire

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 10
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia II:
dalla Gestalt alla Psicologia umanistica

l’intero piuttosto che la somma delle parti. Il risultato di questo lavoro


fu la formulazione di una serie di regole di organizzazione percettiva
valide ancora oggi. Così, ad esempio, il principio della chiusura afferma
che contorni interrotti da spazi vuoti sono percepiti come appartenenti
ad oggetti completi, mentre il principio della vicinanza sostiene che
oggetti che si trovano vicini tendono ad essere raggruppati insieme.
Oggi la psicologia della Gestalt non esiste più come scuola di
pensiero indipendente: tuttavia, le sue tesi hanno influenzato in
maniera profonda tutti gli studi percettivi successivi; in particolare,
l’idea secondo cui la mente imponga struttura e organizzazione alla
realtà è divenuta uno dei principi fondamentali della psicologia
moderna.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 10
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia II:
dalla Gestalt alla Psicologia umanistica

2. I DISTURBI MENTALI E LA PERSONALITÀ


MULTIPLA

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, alcuni psicologi
si resero conto che lo studio dei comportamenti bizzarri di pazienti con
disturbi psicologici poteva essere di aiuto nel comprendere il normale
funzionamento della mente.
Tali studiosi furono particolarmente attratti dai pazienti con
disturbo dissociativo dell’identità, una patologia che implica la
presenza di due o più identità distinte all’interno dello stesso individuo.
Uno dei primi casi di dissociazione fu descritto nel 1876: si trattava di
una donna, Felida X, normalmente timida e tranquilla, che talvolta
diventava all’improvviso molto più spavalda ed estroversa; poi, senza
preavviso e altrettanto improvvisamente, la donna tornava al suo stato
abituale di timidezza. L’elemento peculiare della sua patologia era che
la Felida timida non ricordava nulla di ciò che aveva fatto la Felida
esuberante: la barriera tra i due stati era talmente forte che la Felida
timida dimenticò di essere rimasta incinta durante uno dei suoi
momenti di eccessiva espansività.
I medici francesi J.-M. Charcot (1825-1893) e P. Janet (1859-
1947) riportarono osservazioni analoghe su pazienti affetti da una
patologia nota come isteria, la quale implicava una temporanea perdita
delle funzioni cognitive o motorie, di solito in seguito a esperienze
emotivamente sconvolgenti. I pazienti diventavano ciechi, paralizzati o
perdevano la memoria, anche se non vi era alcuna causa fisica evidente
dietro ai loro problemi. I sintomi scomparivano quando essi venivano
sottoposti ad ipnosi (uno stato alterato della coscienza caratterizzato
da elevata suggestionabilità); tuttavia, una volta usciti dallo stato di

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 10
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia II:
dalla Gestalt alla Psicologia umanistica

trance ipnotica, i pazienti dimenticavano quello che era accaduto e


ricominciavano a mostrare i loro sintomi.
Questi singolari disturbi furono completamente ignorati da
Wundt e colleghi, i quali non li consideravano oggetto d’indagine
appropriato per la psicologia scientifica. Al contrario, James riteneva
che essi svelassero l’operare di un importante errore mentale, il quale
poteva essere sfruttato per comprendere il normale funzionamento
della mente. In condizioni normali, ciascuna persona è consapevoli di
un unico ‘io’ o ‘sé’; tuttavia, i pazienti isterici dimostravano in maniera
molto chiara che il cervello può creare molti ‘sé’ consci, ognuno
inconsapevole dell’esistenza degli altri.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 10
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia II:
dalla Gestalt alla Psicologia umanistica

3. LA PSICOANALISI E LA PSICOLOGIA
UMANISTICA

I sintomi mostrati dai pazienti affetti da disturbo dissociativo


della personalità colpirono l’attenzione di un medico viennese, S. Freud
(1856-1939), il quale aveva lavorato alla clinica parigina di Charcot.
Egli cominciò a studiare per conto suo alcuni pazienti isterici e sviluppò
delle teorie per spiegare i loro bizzarri sintomi che ebbero un impatto
duraturo nel campo della psicologia clinica. In sostanza, Freud
ipotizzava che molti dei problemi mostrati dai pazienti isterici
potevano essere ricondotti a esperienze infantili dolorose che la persona
non riusciva a ricordare, e si convinse che il potente influsso di questi
ricordi apparentemente perduti rivelava la presenza di una mente
inconscia.
Secondo Freud, l’inconscio è la parte della mente che opera al di
fuori della consapevolezza conscia ma che influenza azioni, pensieri e
sentimenti consci. Questa idea, rivoluzionaria per l’epoca, portò Freud
a sviluppare la teoria psicoanalitica, un approccio che sottolinea
l’importanza dei processi mentali inconsci nel plasmare sentimenti,
pensieri e comportamenti. Secondo la prospettiva psicoanalitica, è
fondamentale svelare le prime esperienze di un individuo e fare luce
sulle ansie, i conflitti e i desideri inconsci.
La teoria psicoanalitica costituì la base di una terapia che Freud
chiamò psicoanalisi, la quale si proponeva di far emergere il materiale
inconscio alla consapevolezza cosciente. All’inizio del XX secolo, queste
idee furono sviluppate, e in parte modificate, da altri studiosi, quali C.
G. Jung (1875-1961) e A. Adler (1870-1937). Nonostante questi sforzi,
la teoria psicoanalitica diventò ben presto molto controversa,

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 10
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia II:
dalla Gestalt alla Psicologia umanistica

soprattutto in America. Ciò era dovuto al fatto che Freud e colleghi


sostenevano che per comprendere pensieri, emozioni e comportamenti
di una persona fosse necessaria un’esplorazione approfondita delle sue
prime esperienze sessuali e dei suoi desideri sessuali inconsci,
argomenti che all’epoca erano considerati troppo scabrosi per il
dibattito scientifico.
In effetti, dopo un periodo iniziale di ampia diffusione, l’impatto
e l’interesse per la psicoanalisi si ridussero notevolmente. Il motivo
principale era che Freud aveva una visione pessimistica della natura
umana, che ne poneva in risalto limiti e problemi anziché possibilità e
potenzialità. Le persone erano considerate come ostaggi di esperienze
infantili dimenticate e di impulsi sessuali primitivi. Questa visione
piuttosto cupa non si adattava molto bene al clima americano del
dopoguerra, che era invece positivo, pieno di energia ed ottimismo: la
povertà e la malattia furono notevolmente ridotte dallo sviluppo della
tecnologia e il tenore di vita dell’americano medio stava rapidamente
aumentando. L’epoca era quindi caratterizzata dalle realizzazioni, e
non dalle debolezze della mente umana, e il punto di vista freudiano
non era più al passo con i tempi.
Fu proprio in questo periodo che gli psicologi A. Maslow (1908-
1970) e C. Rogers (1902-1987) svilupparono la psicologia umanistica,
un approccio alla comprensione della natura umana che pone in risalto
il potenziale positivo degli esseri umani. Questi psicologi concentrarono
la loro attenzione sulle aspirazioni più elevate delle persone, le quali
erano considerati come liberi agenti dotati di un bisogno innato di
svilupparsi, crescere e realizzarsi. In linea con questa visione,
l’obiettivo primario dei terapeuti umanistici era quello di aiutare le
persone a realizzare il loro pieno potenziale.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 10
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia II:
dalla Gestalt alla Psicologia umanistica

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014). Psicologia


generale. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 10
STORIA DELLA
PSICOLOGIA III: DAL
COMPORTAMENTISMO
ALLE NEUROSCIENZE
COGNITIVE
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia III:
dal Comportamentismo alle
Neuroscienze Cognitive

Indice

1. IL COMPORTAMENTISMO ........................................................ 3

2. IL COGNITIVISMO ....................................................................... 6

3. LE NEUROSCIENZE COGNITIVE ............................................ 9

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 11

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 11
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia III:
dal Comportamentismo alle
Neuroscienze Cognitive

1. IL COMPORTAMENTISMO

Le scuole di pensiero psicologico sorte tra la fine del XIX secolo e


i primi decenni del XX secolo (lo strutturalismo, il funzionalismo, la
psicologia della Gestalt e la psicologia umanistica) avevano l’obiettivo
comune di studiare il funzionamento della mente, esaminandone i
contenuti coscienti o cercando di far affiorare ricordi inconsci.
Tuttavia, con il procedere del XX secolo, alcuni psicologi
cominciarono a mettere in discussione l’idea che la psicologia dovesse
concentrare l’indagine sulla vita mentale e svilupparono un nuovo
approccio, noto come comportamentismo: con esso si affermava che gli
psicologi dovevano limitarsi allo studio scientifico del comportamento
oggettivamente osservabile. B. Watson (1878-1958) conosceva bene la
tradizione funzionalista, ma riteneva che l’esperienza mentale avesse
un carattere troppo vago e soggettivo per essere presa ad oggetto di
indagine scientifica. Egli era convinto che la scienza richiedesse
misurazioni oggettive e replicabili di fenomeni accessibili a tutti gli
osservatori, e che l’introspezione, essendo un metodo altamente
soggettivo, non fornisse garanzie sufficienti in tal senso. Perciò,
sostenne che, anziché descrivere le sensazioni coscienti, gli psicologi
dovevano dedicarsi allo studio del comportamento, in quanto esso può
essere osservato da tutti e misurato oggettivamente. Secondo Watson,
lo scopo della psicologia doveva essere quello di prevedere e controllare
il comportamento umano in modo tale che la società ne traesse
beneficio.
Watson fu molto influenzato dagli esperimenti condotti da
fisiologo russo I. Pavlov (1849-1936). Questo studioso aveva sviluppato
un procedimento semplice ma ingegnoso, in cui ogni volta che dava da

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 11
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia III:
dal Comportamentismo alle
Neuroscienze Cognitive

mangiare a dei cani faceva sentire loro un suono; dopo un po’ di volte
in cui i due stimoli (cibo e suono) venivano presentati insieme, i cani
salivavano al solo sentire il suono. In questi esperimenti, il suono
fungeva da stimolo (un input sensoriale proveniente dall’ambiente
esterno) che influenzava la risposta di salivazione dei cani, la quale
costituiva la risposta (un’azione o una modificazione fisiologica evocata
da uno stimolo). Watson e i comportamentisti fecero di questi due
concetti gli elementi costitutivi delle loro teorie e ciò spiega il motivo
per cui il comportamentismo venga spesso definito come la psicologia
dello ‘stimolo-risposta’ (o ‘S-R’).
Negli esperimenti di condizionamento classico di Pavlov gli
animali erano dei partecipanti passivi, che ascoltavano suoni e
producevano risposte di salivazione. B. F. Skinner (1904-1990) notò
invece che, nel loro ambiente naturale, gli animali sono attivi e
agiscono per trovare cibo, riparo e per accoppiarsi; di conseguenza, egli
si chiese se potesse individuare dei principi comportamentali in grado
di spiegare come gli animali imparavano ad agire in quelle situazioni.
A tale scopo, Skinner costruì un’apparecchiatura che in seguito divenne
nota a tutti come ‘gabbia di Skinner’. La gabbia era piuttosto semplice,
in quanto era dotata di una leva e un vassoio in cui poteva essere fatto
cadere del cibo. All’inizio, quando il ratto era messo nella gabbia per la
prima volta, il suo comportamento era del tutto casuale (annusava ed
esplorava la gabbia); tuttavia, dopo aver premuto la barra per caso e
aver ottenuto il rilascio di cibo nel vassoio, la frequenza di pressione
della leva aumentava notevolmente e rimaneva alta fino a quando
l’animale non era sazio. Per Skinner, il comportamento del ratto era
una dimostrazione di quello che egli chiamava principio del rinforzo:

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 11
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia III:
dal Comportamentismo alle
Neuroscienze Cognitive

ovvero, le conseguenze di un comportamento determinano se esso avrà


maggiori o minori probabilità di essere prodotto in futuro.
Il nuovo approccio di Skinner al comportamentismo ebbe un
notevole successo, tanto che egli iniziò ad applicare le sue idee sul ruolo
del rinforzo per contribuire a migliorare la qualità della vita quotidiana
(ad esempio, per migliorare l’apprendimento in bambini di quarta
elementare). Tuttavia, in una serie di libri controversi (Oltre la libertà
e la dignità e Walden II), l’autore propose la visione di una società
utopistica in cui il comportamento umano era rigidamente controllato
dalla scrupolosa applicazione del principio del rinforzo. Egli credeva
che il nostro senso soggettivo di libera volontà non era altro che un
illusione e propose che gli esseri umani rispondono in base a schemi di
rinforzo passati. In altre parole, nel presente facciamo cose che sono
state premiate in passato, e la nostra sensazione di ‘scegliere’ di farle è
soltanto un’illusione. Non sorprende che queste affermazioni
suscitarono forti proteste: secondo molti, Skinner intendeva rinunciare
ad uno degli attributi più caratteristici del genere umano (il libero
arbitrio) e auspicava una società repressiva che manipolasse il
comportamento delle persone per i propri scopi.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 11
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia III:
dal Comportamentismo alle
Neuroscienze Cognitive

2. IL COGNITIVISMO

Il comportamentismo dominò la psicologia americana dagli anni


Trenta agli anni Cinquanta del Novecento: la mente era considerata
come una ‘scatola oscura’ che non poteva essere studiata e la natura
dei processi mentali fu quasi completamente ignorata. Questo stato di
cose fu sostanzialmente modificato dall’avvento dei computer, i quali
potevano essere considerati come sistemi di elaborazione delle
informazioni. Analogamente, alcuni psicologi cominciarono a pensare
ai processi mentali come a un flusso di informazioni che percorre la
mente e che quindi poteva essere studiato e analizzato
scientificamente. Questo rinnovato interesse diede vita ad un nuovo
approccio, detto psicologia cognitiva, che è lo studio scientifico dei
processi mentali, come la percezione, la memoria e il ragionamento.
Tra i pionieri del cognitivismo vi fu certamente Sir F. Bartlett
(1886-1969), uno psicologo britannico che studiò analiticamente gli
errori commessi dai soggetti nel tentativo di rievocare delle storie e si
accorse che spesso essi ricordavano ciò che sarebbe dovuto accadere o
ciò che si aspettavano accadesse, anziché ciò che era effettivamente
accaduto. Questi errori indussero Bartlett a proporre che la memoria
non è una riproduzione fotografica dell’esperienza passata: i nostri
tentativi di ricordare sono fortemente influenzati dalle nostre
conoscenze, convinzioni, speranze, aspirazioni e desideri (un’intuizione
ritenuta valida ancora oggi). In maniera simile, lo psicologo svizzero J.
Piaget (1896-1980) studiò gli errori percettivi e cognitivi dei bambini
nel tentativo di comprendere lo sviluppo della mente umana. In uno dei
suoi esperimenti, Piaget presentò ad alcuni bambini due mucchietti di
creta di uguali dimensioni: poi, ridusse uno dei due mucchietti in pezzi

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 11
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia III:
dal Comportamentismo alle
Neuroscienze Cognitive

più piccoli e chiese ai bambini di indicare quale mucchietto contenesse


più creta. Egli scoprì che i bambini di tre anni indicavano come più
grande il mucchietto ridotto in molte parti, mentre i bambini di 6-7
anni non commettevano questo errore. Piaget concluse che ai bambini
di 3 anni manca una capacità cognitiva che consente a quelli più grandi
di rendersi conto che la massa di un oggetto rimane costante anche
quando viene suddivisa.
L’importanza della psicologia cognitiva aumentò notevolmente
durante la Seconda Guerra Mondiale, quando i militari fecero ricorso
alla psicologia per capire quale fosse il modo migliore per far
apprendere ai soldati l’uso di nuove tecnologie come il radar e per
minimizzare i loro errori. D. Broadbent (1926-1993) fu il primo ad
osservare che i piloti non riuscivano ad occuparsi allo stesso tempo di
molti strumenti diversi e dovevano spostare la loro attenzione dall’uno
all’altro. Egli dimostrò in maniera convincente che la limitata capacità
di gestire il flusso di informazioni in entrata è una caratteristica
fondamentale della cognizione umana. Questa idea fu confermata dagli
studi condotti più o meno nello stesso periodo da G. Miller (1920-2012),
il quale rivelò tutti i limiti della capacità di elaborazione umana:
infatti, i soggetti potevano mantenere in memoria per breve tempo
soltanto sette (più o meno 2) elementi di informazione.
Altri studiosi, come Newell (1927-1997) e Simon (1916-2001),
notarono che la mente umana e i computer hanno molte somiglianze,
in quanto entrambi registrano, memorizzano e recuperano
informazioni, e cominciarono a chiedersi se il computer non potesse
essere considerato come modello della mente umana. Questi psicologi
proposero che la mente poteva essere paragonata al software di un
computer e cominciarono a scrivere programmi per computer per

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 11
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia III:
dal Comportamentismo alle
Neuroscienze Cognitive

vedere se questi software riuscivano ad imitare il linguaggio e il


comportamento umano.
Nel complesso, questi sviluppi aprirono la strada ad una
esplosione di studi cognitivi durante gli anni Sessanta e Settanta del
XX secolo, i quali furono descritti da U. Neisser (1928-2012) in un testo
di fondamentale importanza, intitolato ‘Psicologia cognitiva’.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 11
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia III:
dal Comportamentismo alle
Neuroscienze Cognitive

3. LE NEUROSCIENZE COGNITIVE

Se da un lato gli psicologi cognitivisti studiavano il software


della mente, dall’altra parte non avevano molto da dire sull’hardware
del cervello. Eppure, come gli scienziati informatici sanno bene, il
rapporto tra hardware e software ha una importanza fondamentale. Le
attività mentali ci sembrano così naturali e spontanee che spesso non
ci rendiamo conto che esse dipendono da operazioni molto complesse
eseguite dal cervello. L’intima relazione tra mente e cervello era già in
parte stata dimostrata dagli studi di Broca, il quale aveva evidenziato
come persino i processi cognitivi più semplici dipendono dall’integrità
del cervello: all’inizio del XX secolo molti psicologi erano interessati a
comprendere il legame tra mente e cervello.
In questo clima, K. Lashley (1890-1958) sviluppò una procedura
in cui addestrava i ratti a percorrere un labirinto, rimuoveva alcune
parti del loro cervello e in seguito misurava la loro capacità di
percorrere il labirinto una seconda volta. Lashley voleva scoprire il
punto esatto del cervello in cui si verifica l’apprendimento: i risultati
furono negativi, in quanto egli trovò solo una correlazione positiva tra
l’ampiezza dell’area cerebrale rimossa e le difficoltà del ratto
nell’apprendere il labirinto; tuttavia, i suoi sforzi diedero impulso ad
un’area di ricerca che in seguito fu chiamata psicologia fisiologica.
Oggi, questa disciplina si è evoluta nelle neuroscienze
comportamentali, un settore di studio che collega i processi psicologici
alle attività del sistema nervoso e ad altri processi organici.
I neuroscienziati comportamentali osservano le risposte degli
animali mentre sono impegnati a svolgere compiti appositamente
studiati: essi registrano le risposte elettriche o chimiche del cervello

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 11
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia III:
dal Comportamentismo alle
Neuroscienze Cognitive

durante l’esecuzione del compito oppure rimuovono parti specifiche del


cervello per verificare come ciò alteri l’esecuzione del compito.
Negli esseri umani la chirurgia cerebrale sperimentale non era
ovviamente praticabile: la conseguenza fu che, per molti anni, gli
studiosi dovettero limitarsi ad esaminare casi di incidenti o di malattie
che implicavano dei danni in particolari regioni del cervello. Se questi
danni compromettevano una capacità cognitiva, allora gli psicologi ne
deducevano che quella regione era coinvolta nel produrre il processo
cognitivo in questione. Ad esempio, la storia del paziente amnesico
H.M. fornì agli scienziati importanti indizi sul ruolo dell’ippocampo nei
processi di memorizzazione (Scoville & Milner, 1957). Tuttavia, alla
fine degli anni Ottanta del Novecento, l’avvento delle tecniche di
scansione cerebrale non invasive cambiò nuovamente il quadro della
situazione, in quanto consentì agli psicologi di osservare ciò che accade
nel cervello quando una persona legge, immagina o ricorda. Di fatto, la
neurovisualizzazione è oggi diventata uno strumento indispensabile
per osservare il cervello in azione e vedere quali parti sono coinvolte in
determinate operazioni, e le neuroscienze cognitive costituiscono un
campo di ricerca in rapida crescita che tenta di comprendere i legami
tra processi cognitivi e attività cerebrale.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 11
Universitas Mercatorum Storia della Psicologia III:
dal Comportamentismo alle
Neuroscienze Cognitive

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 11
I METODI
DELLA PSICOLOGIA
I: EMPIRISMO E
MISURAZIONE
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia I:
Empirismo e misurazione

Indice

1. EMPIRISMO E DOGMATISMO .................................................. 3

2. LA MISURAZIONE ....................................................................... 6

3. VALIDITÀ, AFFIDABILITÀ E SENSIBILITÀ ......................... 9

BIBLIOGRAFICI ................................................................................ 11

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 11
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia I:
Empirismo e misurazione

1. EMPIRISMO E DOGMATISMO

Nell’antica Grecia, una persona che manifestava una malattia


poteva scegliere di affidarsi a due tipi di dottori, che seguivano due
scuole di pensiero molto diverse:
i dogmatisti [da dogmatikos: «che segue le credenze»], i quali
pensavano che il modo migliore per comprendere la malattia fosse
quello di sviluppare teorie sulle funzioni dell’organismo;
e gli empiristi [da empeirikos: «che segue le esperienze»], i quali
pensavano che il modo migliore per comprendere la malattia
consistesse nell’osservare le persone malate.
Con il passare del tempo, l’empirismo si rivelò un metodo molto
più valido ed efficace per curare le persone, per cui il dogmatismo venne
abbandonato. Oggi, con il termine ‘dogmatismo’ ci si riferisce in genere
a persone che aderiscono a delle convinzioni prestabilite, anche quando
esse sono in netto contrasto con l’evidenza empirica. D’altra parte, il
termine ‘empirismo’ viene comunemente utilizzato per descrivere la
convinzione che una conoscenza accurata del mondo richieda
un’attenta osservazione. Il ruolo dell’empirismo, e quindi
dell’osservazione, nello sviluppo della conoscenza può sembrare ovvio
agli occhi di una persona del XX secolo: tuttavia, occorre ricordare che,
per millenni, le persone si sono affidate alle credenze dettate dalle
autorità (ad esempio, dalla Chiesa) per rispondere ai quesiti
fondamentali sul mondo. In effetti, il passaggio dal dogmatismo
all’empirismo ha gettato le fondamenta della scienza moderna.
Purtroppo, l’empirismo non è affatto infallibile: per molti secoli
gli uomini hanno creduto che la terra fosse piatta, in quanto si
affidavano a ciò che potevano percepire coi loro occhi. Essenzialmente,

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 11
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia I:
Empirismo e misurazione

gli esseri umani non sono in grado di percepire la realtà così come essa
è: se guardate fuori non vedrete mai un buco nero, un atomo, un germe,
o la vera forma del pianeta su cui abitate. La conseguenza di questo
discorso è semplice: l’empirismo rappresenta un approccio proficuo;
tuttavia, per utilizzarlo c’è bisogno di un metodo, ovvero un insieme di
regole e tecniche per l’osservazione che consentono agli osservatori di
evitare le illusioni, gli errori e le conclusioni erronee che la semplice
osservazione può produrre.
In molte scienze, con il termine metodo si fa spesso riferimento
alle apparecchiature e alle tecnologie che consentono di vedere ciò che
è invisibile ad occhio nudo: così, il biologo utilizza il microscopio per
indagare la struttura delle cellule. D’altro canto, il comportamento
umano è relativamente facile da osservare e ciò potrebbe indurre a
ritenere che i metodi della psicologia debbano essere alquanto semplici.
In realtà, questa convinzione è sbagliata, in quanto le sfide empiriche
che essa deve affrontare sono di fatto enormi. In particolare, tre fattori
rendono il comportamento delle persone difficile da studiare:
la complessità: il cervello è probabilmente l’oggetto più
complesso dell’universo conosciuto; gli scienziati possono descrivere nei
minimi dettagli la struttura delle galassie o l’interazione tra protoni e
neutroni in un atomo, ma sono appena in grado di dire in che modo le
milioni di interconnessioni neurali presenti nel nostro cervello danno
luogo a pensieri, emozioni, sentimenti e azioni.
la variabilità: gli oggetti studiati dalla fisica o dalla medicina
sono relativamente costanti; ad esempio, due batteri di Eschericia Coli
sono, sotto tutti gli aspetti, molto simili tra loro; al contrario, le persone
presentano una estrema variabilità, un fattore che in psicologia viene
spesso indicato con il termine “differenze individuali” (raramente due
persone dicono o fanno la stessa cosa nelle medesime circostanze).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 11
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia I:
Empirismo e misurazione

la reattività: gli atomi e le galassie si comportano sempre allo


stesso modo, indipendentemente da chi li osserva; al contrario, le
persone spesso tendono a comportarsi in modo diverso dal solito quando
sanno di essere oggetto di studio.
Dunque, i metodi sviluppati dagli psicologi devono essere in
gradi di affrontare i problemi dovuti al fatto che gli esseri umani sono
estremamente complessi, variabili e reattivi.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 11
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia I:
Empirismo e misurazione

2. LA MISURAZIONE

Per molti secoli, gli esseri umani non hanno avuto a disposizione
strumenti che consentissero loro di tenere traccia del tempo, del peso,
del volume, o della densità. Oggi, invece, viviamo in un mondo di
righelli, calendari, termometri e orologi: di fatto, la misurazione è la
base della vita moderna e il fondamento della scienza.
Tutte queste misurazioni hanno due cose in comune. Per
misurare l’intensità di un terremoto o la distanza tra due molecole,
dobbiamo:

 in primo luogo, definire la proprietà che si vuole misurare;


 in secondo luogo, trovare un modo per rilevare tale
proprietà.

Spesso utilizziamo parole come peso, velocità o lunghezza senza


renderci conto che ciascuno di questi termini ha una definizione
operativa, la quale corrisponde alla descrizione di una proprietà in
termini misurabili. Forse sarete sorpresi nell’apprendere che la
definizione operativa di lunghezza è «il cambiamento della posizione
della luce nel corso del tempo», ovvero il tempo che un fotone impiega
per spostarsi da una estremità all’altra di un oggetto. In altre parole,
quando diciamo che un oggetto è lungo un metro, stiamo misurando il
tempo impiegato da una particella di fotone per percorrere l’intero
oggetto (maggiore è il tempo, maggiore sarà la lunghezza). Dunque, le
definizioni operative specificano gli eventi concreti che costituiscono la
proprietà che si vuole misurare.
Stabilita una definizione operativa, occorre trovare un modo per
rilevare gli eventi concreti che la definizione stessa descrive. A questo
scopo, dobbiamo usare uno strumento di misura, ossia un dispositivo in

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 11
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia I:
Empirismo e misurazione

grado di rilevare gli eventi (ovvero, le modificazioni fisiche) ai quali si


riferisce la definizione operativa. Per la lunghezza, potremmo usare un
rilevatore di fotoni e un orologio: successivamente, una volta stabilito
di quanto si sposta un fotone in un determinato lasso di tempo,
possiamo semplificare la misurazione e segnare la distanza su una
sbarra di platino-iridio che chiameremo ‘metro’ (in effetti, tale sbarra è
conservata nell'Archivio internazionale dei pesi e delle misure di Sèvre,
presso Parigi).
È importante ribadire che i dispositivi di misurazione rilevano
gli eventi concreti descritti dalle definizioni operative. Così, un metro
corrisponde alla distanza percorsa dalla luce nel vuoto in un intervallo
di tempo pari a 1/299 792 458 di secondo. Tuttavia, gli strumenti di
misurazione non individuano la proprietà in sé stessa. Concetti come
forma, colore e lunghezza devono essere intese come idee astratte che
non possono mai essere misurate direttamente.
Definire e rilevare sono i due compiti che consentono di misurare
anche le proprietà psicologiche. Ad esempio, se volessimo definire il
concetto di “felicità”, dovremmo prima sviluppare una definizione
operativa di quella proprietà, che specifichi gli eventi concreti che
devono essere misurati. In pratica, potremmo definire la felicità come
una serie di contrazioni muscolari che fanno assumere al volto la tipica
espressione di una persona che sorride ed utilizzare un elettromiografo
(uno strumento che misura la contrazione muscolare) per misurarle.
Ma è questo il modo giusto di misurare la felicità? In generale, vi sono
molti modi diversi di definire la stessa proprietà e molti modi per
rilevare gli eventi concreti corrispondenti: così, potremmo definire la
felicità tramite l’autovalutazione dei soggetti. Ovviamente, alcune
misure sono migliori (cioè, più valide) di altre e, come vedremo nel

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 11
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia I:
Empirismo e misurazione

prossimo paragrafo, il compito dello psicologo è esattamente quello di


costruire misure valide.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 11
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia I:
Empirismo e misurazione

3. VALIDITÀ, AFFIDABILITÀ E SENSIBILITÀ

Per validità si intende la caratteristica di una osservazione che


consente di trarre da essa inferenze accurate. Come abbiamo visto, le
misurazioni consistono di due compiti: definire la proprietà e rilevare
gli eventi concreti ad essa corrispondenti. Dunque, una misura può
mancare di validità per due motivi diversi:

 perché la definizione operativa non definisce la proprietà


in maniera adeguata;
 perché lo strumento di misura non rileva in maniera
accurata gli eventi specificati dalla definizione operativa.

Per quanto riguarda il primo punto, una definizione operativa


deve avere validità di costrutto: con questo termine si intende la
tendenza di una definizione operativa e di una proprietà concreta a
condividere significato. Ad esempio, la ricchezza può essere lecitamente
definita come la quantità di denaro posseduta da una persona, in
quanto è sensato ritenere che l’oggetto concreto denaro sia correlato al
concetto astratto di ricchezza. D’altra parte, non avrebbe senso definire
la ricchezza come il numero di mentine che una persona riesce ad
ingoiare in un colpo solo, in quanto evidentemente questa abilità non
ha nulla a che fare con il costrutto astratto di ricchezza.
Oltre alla validità di costrutto, una definizione operativa deve
avere validità predittiva: con questo termine, si intende la tendenza di
una definizione operativa ad essere collegata ad altre definizioni
operative della stessa proprietà. Per esempio, se definiamo la felicità
come la frequenza con cui una persona sorride durante un determinato
periodo di tempo, allora questa misura dovrà essere correlata a quanto
la persona riferisce di essere felice in un questionario di

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 11
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia I:
Empirismo e misurazione

autovalutazione. In altre parole, la conoscenza delle condizioni


specificate da una definizione (la quantità di volte con cui la persona
ha sorriso) dovrebbe permettere di predire le condizioni specificate da
un’altra definizione (il fatto che la persona affermi di essere felice in un
questionario).
Per quanto riguarda il secondo punto, una misura può mancare
di validità in quanto lo strumento di misura non rileva in maniera
accurata gli eventi specificati dalla definizione operativa. Con il
termine “affidabilità” (o attendibilità) ci si riferisce alla tendenza di uno
strumento di misura a produrre lo stesso risultato ogniqualvolta venga
utilizzato per misurare la stessa cosa. Così, ad esempio, se usiamo un
metro per misurare un tavolo in due occasioni diverse ad una certa
distanza di tempo l’una dall’altra, ci dovremmo aspettare di trovare
sempre lo stesso valore; se i valori sono diversi, allora il metro manca
di affidabilità: ovvero, lo strumento individua differenze che non
esistono nella realtà.
Oltre all’affidabilità, una seconda caratteristica che un buon
strumento di misura deve possedere è la sensibilità: ovvero, la
tendenza dello strumento a produrre risultati diversi quando viene
utilizzato per misurare cose diverse. In altre parole, se usiamo un
metro per misurare due tavoli di diversa lunghezza, ci aspettiamo di
trovare valori diversi; se trovassimo che i valori sono uguali, allora
dovremmo concludere che il metro manca di sensibilità, in quanto non
è in grado di rilevare differenze che esistono nella realtà.
In sintesi, uno strumento di misura è affidabile e sensibile se
individua le condizioni specificate dalla definizione operativa: (a)
quando esse hanno luogo - ovvero quando si verificano; e (b) solo quando
esse hanno luogo – ovvero non le rileva quando effettivamente non si
verificano.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 11
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia I:
Empirismo e misurazione

BIBLIOGRAFICI

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014). Psicologia


generale. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 11
I METODI
DELLA PSICOLOGIA
II: CAMPIONI,
DISTRIBUZIONI E
DISTORSIONI
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia II:
Campioni, distribuzioni e distorsioni

Indice

1. POPOLAZIONI, CAMPIONI E LEGGI DEI GRANDI


NUMERI ........................................................................................ 3

2. DISTRIBUZIONI DI FREQUENZA ............................................ 5

3. DISTORSIONI SISTEMATICHE ................................................ 9

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 13

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 13
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia II:
Campioni, distribuzioni e distorsioni

1. POPOLAZIONI, CAMPIONI E LEGGI DEI


GRANDI NUMERI

Per millenni, i filosofi si sono avvalsi delle proprie osservazioni


relative ai comportamenti di singole persone per trarre conclusioni
generali sulla natura della mente umana. In effetti, a volte gli individui
fanno cose degne di nota che meritano di essere studiate con attenzione;
a tale scopo, gli psicologi moderni ricorrono allo studio di casi singoli,
inteso come un metodo per acquisire conoscenze scientifiche studiando
un singolo individuo. Come abbiamo visto in precedenza, l’esame delle
persone con capacità inconsuete, con esperienze non comuni o con
deficit insoliti hanno spesso premesso agli psicologi di avere una
migliore comprensione dei meccanismi di funzionamento della mente
umana (in particolare dei meccanismi cerebrali alla base dei processi
cognitivi).
Nonostante la sua indubbia utilità, lo studio di singole persone
con abilità straordinarie rappresenta l’eccezione alla regola: in genere,
gli psicologi osservano persone comuni e cercano di spiegare perché
esse pensano, sentono e agiscono in un certo modo. In questo caso, gli
psicologi osservano di norma molte persone e cercano di spiegare la
media delle osservazioni (piuttosto che il singolo caso individuale).
Questa semplice operazione che consiste nel fare la media di molte
osservazioni rappresenta uno dei più potenti strumenti metodologici a
disposizione dello psicologo.
In termini statistici, una popolazione è l’insieme completo degli
oggetti o degli eventi che potrebbero essere teoricamente misurati. Un
campione è invece l’insieme parziale, o sottoinsieme, di oggetti ed
eventi che viene effettivamente misurato. Così, se un ricercatore

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 13
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia II:
Campioni, distribuzioni e distorsioni

volesse sapere quanto sono mediamente felici le persone in Florida, la


popolazione sarebbe l’insieme dei 15 milioni di persone che abitano in
Florida. È chiaro che se un eventuale questionario per misurare la
felicità venisse somministrato ad un campione molto piccolo di abitanti
della Florida (ad esempio, 10 persone), la media potrebbe essere poco
rappresentativa della media dell’intera popolazione. In effetti, la legge
dei grandi numeri afferma che con l’aumentare delle dimensioni di un
campione aumenta anche la fedeltà con cui gli attributi del campione
riflettono gli attributi della popolazione dalla quale esso è tratto. In
pratica, questo significa che se somministriamo il questionario per
misurare la felicità a 10000 abitanti della Florida, possiamo essere
ragionevolmente sicuri che la media delle nostre osservazioni (ovvero
la media del campione) costituirà un’ottima approssimazione alla
felicità media di tutti gli abitanti della Florida (ovvero alla media della
popolazione).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 13
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia II:
Campioni, distribuzioni e distorsioni

2. DISTRIBUZIONI DI FREQUENZA

Come discusso nel paragrafo precedente, l’attenzione del


ricercatore è spesso focalizzata sulla media della prestazione dei
soggetti appartenenti al campione: ciò è ovviamente giustificato, in
quanto essa può fornire informazioni molto utili sulla media della
popolazione. Tuttavia, un problema inerente all’uso della media
campionaria consiste nel fatto che essa spesso non rispecchia il
comportamento dei singoli individui. Così, se uno psicologo afferma che
le donne hanno migliori capacità motorie rispetto ai maschi (oppure che
i maschi hanno migliori abilità spaziali rispetto alle donne), è evidente
che le sue affermazioni non possono essere valide per tutti gli individui
delle due popolazioni.
Ciò che lo psicologo intende dire è che, se si misurano le abilità
motorie di un vasto campione di donne e uomini, la media delle misure
delle donne sarà attendibilmente più alta della media delle misure dei
maschi. Naturalmente, ciò non esclude che possano esserci delle donne
che hanno una prestazione inferiore alla media o degli uomini che
hanno una prestazione superiore alla media.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 13
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia II:
Campioni, distribuzioni e distorsioni

Figura 1. L’illusione di Mueller-Lyer.

In generale, gli psicologi fanno sempre riferimento a


distribuzioni di frequenza, ossia distribuzioni in cui viene
rappresentato il numero di volte che ciascuna misura è stata osservata
nel campione. Come illustrato nella Figura 1, sull’asse orizzontale di
una distribuzione di frequenza vengono riportati tutti i valori della
variabile misurata (nel caso della Figura 1, si tratta delle altezze di
uomini e donne), mentre sull’asse verticale viene riportato il numero di
volte (o frequenza) con cui ciascun valore è stato osservato nel
campione. In psicologia, la distribuzione più nota è senza dubbio la
distribuzione normale, in cui le misure sono per la maggior parte
concentrate attorno alla media e diminuiscono verso le due estremità.
Le distribuzioni normali, come quelle osservabili nella Figura 1, sono
simmetriche (la metà sinistra è speculare alla metà destra), hanno un
picco nel mezzo e vanno scemando alle estremità.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 13
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia II:
Campioni, distribuzioni e distorsioni

Le distribuzioni di frequenza raffigurano tutte le misure


ottenute in un campione: pertanto, esse forniscono un quadro
esauriente e completo del campione stesso. D’altra parte,
l’inconveniente è che si tratta di un metodo terribilmente scomodo per
comunicare i risultati di un esperimento (o di un test): questo è il
motivo per cui, in molti casi, gli psicologi si avvalgono di alcuni indici
sintetici di più facile comprensione, chiamati statistiche descrittive: si
tratta di misure riassuntive che colgono le informazioni essenziali di
una distribuzione di frequenza.
Le statistiche descrittive possono essere di due tipi. Le misure di
tendenza centrale riguardano i valori delle misure che si trovano vicino
al centro della distribuzione. Tra queste, le più importanti sono:

 la moda: ovvero, il valore della misura con la più alta


frequenza;
 la media: ovvero, il valore medio di tutte le misure;
 e la mediana: ovvero il valore che divide la distribuzione
in due parti uguali (in altri termini, il valore al di sotto del
quale cade il 50% dei soggetti del campione).

Un secondo tipo di statistiche descrittive sono le cosiddette


misure di variabilità, le quali riguardano il grado in cui le misure di
una distribuzione di frequenza differiscono le une dalle altre. Una
misura molto semplice dal punto di vista matematico è il campo o
intervallo di variazione, rappresentato dall’intervallo tra il valore più
alto e il valore più basso della distribuzione. Altre misure, quali la
varianza o la deviazione standard sono matematicamente più
complesse, in quanto si basano sul calcolo degli scarti dei singoli
punteggi dalla media campionaria.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 13
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia II:
Campioni, distribuzioni e distorsioni

Come è possibile dedurre dalla Figura 1, le misure di tendenza


centrale e di variabilità determinano congiuntamente le conclusioni
che è possibile trarre dai dati. Così, le misure di tendenza centrale
possono suggerire che in media le donne hanno capacità motorie
migliori degli uomini; tuttavia, entrambe le distribuzioni
presenteranno una notevole variabilità, il che significa che molti
uomini avranno punteggi uguali o addirittura più alti rispetto alle
donne. Quindi, bisogna sempre ricordare che ciò che è vero in media
riguardo alle persone non è sempre vero nel singolo caso. Ciò è una
conseguenza inevitabile del fatto che le persone differiscono tra loro in
molti modi, per cui non vi è quasi niente che sia vero per ognuna di esse
e in tutte le occasioni. I metodi sviluppati dagli psicologi consentono di
tenere in considerazione la variabilità individuale ed eventualmente di
andare oltre, per scoprire gli eventuali pattern di similarità.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 13
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia II:
Campioni, distribuzioni e distorsioni

3. DISTORSIONI SISTEMATICHE

Come accennato in una lezione precedente, gli esseri umani sono


reattivi: ciò implica che essi tendono a comportarsi diversamente dal
normale quando sanno di essere sotto i riflettori dell’attenzione altrui.
Questa caratteristica rende lo studio di soggetti umani
particolarmente difficile, in quanto lo psicologo tenta di capire come
davvero le persone si comportano, mentre queste spesso si comportano
come pensano di doversi comportare. In psicologia, questo problema è
noto come caratteristiche della domanda (o effetti dell’aspettativa): con
questo termine sono indicati quegli aspetti di un setting sperimentale
che inducono le persone a comportarsi così come esse pensano che
l’osservatore desideri o si aspetti che esse si comportino.
Le caratteristiche della domanda ostacolano i tentativi degli
psicologi di misurare il comportamento così come esso si manifesta
spontaneamente, per cui essi hanno sviluppato svariati metodi per
evitare questo problema. Un primo approccio consiste nell’evitare che
le persone sappiano di essere osservate. L’osservazione naturalistica è,
per l’appunto, la tecnica che consiste nell’osservare le persone nei loro
ambienti naturali senza farsi notare. I biologi utilizzano questo metodo
in maniera estesa per studiare gli animali. In ambito psicologico,
l’osservazione naturalistica ha consentito, tra le altre cose, di stabilire
che i gruppi più numerosi tendono a lasciare le mance più basse nei
ristoranti (Freeman et al., 1975) o che gli uomini di solito non
approcciano la donna più bella in un bar per single (Glenwick et al.,
1978). Un secondo metodo deriva dalla nozione che gli effetti
dell’aspettativa diminuiscono quando le persone non possono essere
identificate come autrici delle loro azioni. Gli psicologi hanno sfruttato

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 13
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia II:
Campioni, distribuzioni e distorsioni

questo fatto consentendo ai partecipanti di fornire risposte in forma


privata (per esempio, permettendo loro di completare i questionari
quando sono da sole) o anonima (non richiedendo ai soggetti di indicare
le proprie generalità). Infine, una terza tecnica adottata dagli psicologi
consiste nel misurare comportamenti o reazioni involontarie; ad
esempio, essi possono dedurre che una persona è eccitata in quanto
questo stato emotivo induce una dilatazione misurabile delle pupille:
eventi fisiologici come questi possono essere difficilmente influenzati
dalle caratteristiche della domanda, in quanto non sono sotto il
controllo cosciente (volontario).
Tutti questi espedienti sono certamente utili. Tuttavia, il modo
migliore di risolvere il problema delle caratteristiche della domanda
consiste nell’evitare di comunicare ai partecipanti il vero scopo
dell’osservazione (o dell’esperimento). Il ragionamento è molto
semplice: se i soggetti non conoscono le aspettative del ricercatore, non
possono darsi da fare per esaudirle. Il difetto di questo metodo è che le
persone sono naturalmente curiose e, anche quando il ricercatore non
comunica loro lo scopo dell’esperimento, cercano di scoprirlo da sole:
questo è il motivo principale per il quale spesso gli psicologi usano
storie di copertura (ovvero, spiegazioni fuorvianti il cui scopo è
impedire ai partecipanti di comprendere il vero obiettivo dello studio).
Finora è stato trattato il caso in cui le aspettative influenzano il
comportamento dei partecipanti alla ricerca; tuttavia, lo stesso
problema può essere ugualmente riferito anche a coloro che conducono
la ricerca. Sperimentatori, osservatori e codificatori sono essere umani
e, come tali, tendono a vedere ciò che si aspettano di vedere. Il ruolo
delle aspettative fu dimostrato in un esperimento classico di Rosenthal
& Fode (1963) in cui degli studenti dovevano misurare la velocità con
cui un ratto apprendeva a percorrere un labirinto. Ad alcuni studenti

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 13
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia II:
Campioni, distribuzioni e distorsioni

fu detto che i loro ratti erano stati selezionati per essere molto ‘svegli’
(ovvero molto intelligenti e veloci ad apprendere), mentre ad altri
studenti fu detto che i loro ratti erano stati selezionati per essere molto
‘ottusi’ (ovvero poco intelligenti e lenti ad apprendere). In realtà, i due
gruppi di ratti appartenevano allo stesso ceppo. Nonostante ciò,
Rosenthal e Fode (1963) dimostrarono che gli studenti che pensavano
di avere ratti ‘ottusi’ riportarono tempi di apprendimento superiori
rispetto agli studenti che pensavano di avere ratti ‘svegli’: in altre
parole, i ratti sembravano fare ciò che gli studenti si aspettavano che
facessero.
Vi sono almeno due modi in cui le aspettative possono
influenzare le osservazioni. In primo luogo, le aspettative possono
influenzare le osservazioni: ciò significa che essere possono
determinare il tipo e la direzione degli errori di misura commessi dagli
osservatori. Per esempio, mettere una zampa sopra la linea del
traguardo potrebbe contare come ‘imparare il labirinto’ per un
osservatore che valuta i ratti ‘svegli’, mentre potrebbe essere scartato
come una risposta non valida dall’osservatore che valuta i ratti ‘ottusi’.
In secondo luogo, le aspettative possono influenzare la realtà: così, gli
studenti che pensavano di avere a che fare con i ratti ‘svegli’ potrebbero
aver agito inconsapevolmente in modo tale da favorire
l’apprendimento, per esempio mostrandosi più affettuosi rispetto agli
studenti che pensavano di avere ratti ‘ottusi’.
Per evitare gli effetti dovuti alle aspettative degli osservatori, gli
psicologi utilizzano una tecnica nota come ‘osservazione in doppio
cieco’: si tratta di un’osservazione il cui vero scopo resta celato sia
all’osservatore sia al partecipante. Così, per esempio, se agli studenti
esaminati da Rosenthal e Fode (1963) non fosse stato detto quali ratti
erano intelligenti e quali ottusi, essi non avrebbero modo di distorcere

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 13
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia II:
Campioni, distribuzioni e distorsioni

le osservazioni in un senso o nell’altro. In effetti, nella psicologia


sperimentale le misurazioni (e la codifica dei dati) vengono quasi
sempre eseguite da assistenti del tutto ignari riguardo allo scopo
dell’esperimento; in questo modo, essi non possono fare ipotesi su ciò
che ci si aspetta che un partecipante faccia o dica. Questi assistenti
vengono informati sulla natura dello studio solo alla fine della fase di
raccolta dei dati. Inoltre, la maggior parte degli esperimenti moderni
sono effettuati attraverso il computer, il quale presenta le informazioni
e misura le risposte in maniera neutra (priva di aspettative).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 13
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia II:
Campioni, distribuzioni e distorsioni

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 13 di 13
I METODI
DELLA PSICOLOGIA
III: CORRELAZIONI,
CAUSALITÀ E
SPERIMENTAZIONE
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia III:
Correlazioni, causalità e
sperimentazione

Indice

1. LA CORRELAZIONE .................................................................... 3

2. CORRELAZIONE E CAUSALITÀ .............................................. 6

3. LA SPERIMENTAZIONE: MANIPOLAZIONE ........................ 8

4. LA SPERIMENTAZIONE: RANDOMIZZAZIONE ................. 10

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 13

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 13
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia III:
Correlazioni, causalità e
sperimentazione

1. LA CORRELAZIONE

La ricerca scientifica parte sempre dall’osservazione e dalla


misurazione di proprietà; ma il suo fine ultimo è di norma la scoperta
di relazioni causali tra due o più proprietà – ovvero, tra due o più
variabili, dove con il termine ‘variabile’ si intende una proprietà il cui
valore può variare da un individuo all’altro nel corso del tempo. Così,
ad esempio, se un ricercatore vuole sapere se i bambini che vengono
sculacciati hanno maggiori probabilità di diventare depressi, quello che
si sta effettivamente chiedendo è se il fatto di essere sculacciato causi
la depressione. In altre parole, egli vuole verificare se un bambino che
viene sculacciato spesso è più depresso, rispetto ad un bambino che
viene sculacciato raramente.
Le misure, di cui ci siamo occupati nella lezione precedente,
forniscono informazioni sulle proprietà di oggetti ed eventi; tuttavia,
per conoscere la relazione tra oggetti ed eventi, il ricercatore deve
mettere a confronto i pattern di variazione in una serie di misure. Un
pattern di covariazione o correlazione indica che le variazioni nel valore
di una variabile sono sincronizzate alle variazioni nel valore di un’altra
variabile. In questo senso, l’età è correlata all’altezza, in quanto man
mano che il valore dell’età varia da giovane a vecchio, il valore
dell’altezza varia da basso ad alto; analogamente, le persone che
mangiano mezzo chilo di spinaci al giorno vivono mediamente più a
lungo rispetto alle persone che non mangiano spinaci, in quanto man
mano che il valore dell’assunzione giornaliera di spinaci varia da zero
a mezzo chilo, il valore della longevità varia da basso ad alto. Oltre a
descrivere il passato, le correlazioni consentono anche di fare
previsioni: infatti, se due variabili sono correlate, conoscere il valore di

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 13
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia III:
Correlazioni, causalità e
sperimentazione

una variabile consente di stimare il valore dell’altra variabile. Ad


esempio, il fatto che l’età è positivamente associata all’altezza ci
consente di affermare che un soggetto di 18 anni sarà più alto di un
soggetto di 10 anni; in maniera simile, l’associazione tra consumo
giornaliero di spinaci e longevità ci consente di prevedere che un
soggetto che mangia mezzo chilo di spinaci al giorno vivrà più a lungo
di un soggetto che ne mangia solo 100 grammi.
Ogni correlazione tra variabili può essere in due modi diversi. La
correlazione è positiva se la relazione tra le misure può essere descritta
in termini ‘più-più’ o ‘meno-meno’: continuando con l’esempio
precedente, possiamo dire che mangiare più spinaci è associato a
maggiore longevità, mentre mangiare meno spinaci è associato a
minore longevità. D’altra parte, la correlazione è negativa se la
relazione può essere descritta in termini ‘più-meno’ o ‘meno-più’: così,
mangiare più pancetta è associato a minore longevità, mentre
mangiare meno pancetta è associato a maggiore longevità.

Figura 1. Esempi di correlazione positiva perfetta (sinistra) e


negativa perfetta (destra)

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 13
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia III:
Correlazioni, causalità e
sperimentazione

Il coefficiente di correlazione (indicato con il simbolo ‘r’) è una


misura della direzione e della forza di una correlazione il cui valore
varia tra −1 e +1. Il significato di questi valori può essere illustrato
come segue:
r = +1: rappresenta una correlazione positiva perfetta (si veda la
Figura 1): ogni volta che il valore di una variabile aumenta di una
quantità X, il valore della seconda variabile aumenta sempre di una
quantità Y (questo accade senza eccezioni);
r = −1: rappresenta una correlazione negativa perfetta (si veda
la Figura 1): ogni volta che il valore di una variabile aumenta di una
quantità X, il valore della seconda variabile diminuisce sempre di una
quantità Y;
r = 0: indica una totale assenza di correlazione: ovvero, non vi è
alcuna relazione sistematica tra le variabili;
Naturalmente, nella vita reale le correlazioni perfette sono
estremamente rare. In generale, una correlazione positiva elevata tra
età ed altezza (ad esempio, r = 0.70) indica che, nella maggior parte dei
casi, un bambino di 8 anni sarà più alto di un bambino di 6 anni.
Tuttavia, in alcuni casi la previsione sarà sbagliata: ovvero,
esisteranno delle eccezioni (due bambini di 6 e 8 anni che hanno la
stessa altezza, o un bambino di 6 anni che è più alto di un bambino di
8 anni). In questo caso, il valore del coefficiente di correlazione r si
collocherà in qualche punto tra 0 e +1: il valore esatto dipende proprio
dal numero delle eccezioni – maggiori sono le eccezioni, e minore sarà
il valore di r.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 13
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia III:
Correlazioni, causalità e
sperimentazione

2. CORRELAZIONE E CAUSALITÀ

Le correlazioni naturali sono le correlazioni che osserviamo nel


mondo attorno a noi: tra automobili e inquinamento, tra fumo e cancro
ai polmoni, tra alcol e incidenti stradali, e così via. Tali correlazioni
indicano che tra due variabili esiste una relazione, ma non specificano
il tipo di relazione che queste variabili hanno. Supponete di osservare
due persone chiacchierano in un bar; da questa semplice osservazione,
si può certamente concludere che le due persone hanno una relazione,
ma non si può concludere che sono coniugi. Infatti, se è vero che tutti i
coniugi hanno una relazione tra loro, è altrettanto vero che non tutte le
persone che sono in relazione tra loro sono anche coniugi (potrebbe
semplicemente essere buoni amici o due persone che si sono appena
conosciute per caso).
Il medesimo principio generale si applica anche al caso delle
correlazioni: tutte le variabili che sono legate da una relazione causale
sono correlate tra loro, ma non tutte le variabili che sono correlate sono
legate da una relazione causale. In altre parole, la causalità è solo uno
dei tanti tipi di relazione che le variabili correlate possono avere. Ad
esempio, molti studi hanno riscontrato una correlazione positiva tra la
quantità di violenza alla quale il bambino è esposto in televisione
(variabile X) e l’aggressività del suo comportamento (variabile Y).
Questo risultato suggerisce che le due variabili X e Y hanno una
relazione, ma qual è precisamente? Vi sono almeno tre diverse
possibilità:
X causa Y: una prima possibilità è che guardare programmi
violenti causi una maggiore aggressività (ad esempio, perché
l’esposizione a programmi violenti potrebbe indurre il bambino a

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 13
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia III:
Correlazioni, causalità e
sperimentazione

ritenere che la violenza sia un modo ragionevole di risolvere i


problemi);
Y causa X: una seconda possibilità è che la tendenza
all’aggressività spinga i bambini a guardare programmi violenti –
ovvero, i bambini che sono naturalmente aggressivi (in virtù di una
ipotetica predisposizione genetica) potrebbero mostrare un più alto
gradimento per i programmi televisivi violenti;
Z causa sia X che Y: infine, un'altra possibilità è che esista una
terza variabile, ad esempio la mancanza di supervisione da parte dei
genitori, che permette ai bambini di farla franca sia quando guardano
programmi violenti (X) sia quando si comportano in maniera
aggressiva con altri bambini (Y).
Nell’ultimo caso, il rapporto tra esposizione a programmi violenti
e aggressività sarebbe un esempio di correlazione spuria – un termine
con cui si indica che due variabili sono correlate tra loro solo perché
ciascuna di esse è causata da una terza variabile comune. Nella pratica,
alcune correlazioni spurie possono essere ragionevolmente scartate,
sulla base di considerazioni teoriche oppure di evidenze empiriche.
Tuttavia, il problema della terza variabile non può mai essere risolto
in maniera definitiva, in quanto, in teoria, potrebbero esserci un
numero infinito di variabili Z che spiegano la relazione tra X e Y. Per il
ricercatore, la conseguenza da tenere sempre in considerazione è che
non è mai possibile inferire una relazione causale tra due variabili sulla
base di una correlazione naturale tra di esse, proprio perché esiste
sempre la possibilità di una correlazione spuria.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 13
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia III:
Correlazioni, causalità e
sperimentazione

3. LA SPERIMENTAZIONE : MANIPOLAZIONE

Come abbiamo visto, il problema della terza variabile impedisce


di usare le correlazioni per stabilire rapporti di causa-effetto. Per
risolvere questi problemi, i ricercatori ricorrono agli esperimenti, intesi
appunto come tecniche che consentono di stabilire relazioni causali tra
le variabili. Le due caratteristiche chiave che consentono agli
esperimenti di affrontare la questione della causalità sono:

 la manipolazione della variabile indipendente;


 la randomizzazione (l’assegnazione casuale dei
partecipanti ai gruppi).

Il primo aspetto, la manipolazione, riguarda la creazione di un


pattern di variazione artificiale in una variabile indipendente al fine di
verificarne il potere causale. Nell’esempio precedente, il ricercatore che
voglia calcolare una correlazione naturale deve eseguire alcune
operazioni: misurare il numero di programmi televisivi violenti visti
dal bambino, misurare la sua aggressività e infine calcolare una
correlazione. Detto in altri termini, la natura offre bambini che
differiscono sia per la quantità di programmi televisivi violenti che
vedono sia per il loro comportamento aggressivo: il ricercatore ha
semplicemente misurato i pattern di variazione naturale di queste due
variabili e calcolato la loro correlazione. In un esperimento, invece, il
ricercatore manipola direttamente la quantità di programmi televisivi
violenti visti dal bambino e verifica gli effetti di tale variazione sul
livello di aggressività. Ad esempio, il ricercatore potrebbe selezionare
due gruppi di bambini che non differiscano tra loro in termini di
aggressività e manipolare la variabile indipendente in modo tale che i
bambini del primo gruppo vengano esposti a 2 ore di programmi

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 13
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia III:
Correlazioni, causalità e
sperimentazione

televisivi violenti per un mese, mentre i bambini dell’altro gruppo non


vengano esposti a nessun programma televisivo violento. Alla fine del
mese, il ricercatore misura l’aggressività dei bambini una seconda volta
e confronta le misure ottenute nei due gruppi, per verificare la
sincronia nei pattern di variazione delle due variabili. In questo modo,
se egli ottiene che i livelli di aggressività del primo gruppo sono
significativamente più alti di quelli del secondo gruppo, l’ipotesi che
l’esposizione a programmi violenti causa l’aggressività diventerebbe
molto plausibile.
Riassumendo, condurre un esperimento comporta tre fasi
cruciali:
In primo luogo, il ricercatore deve creare un pattern di
variazione artificiale in una variabile manipolata (detta, appunto,
variabile indipendente, in quanto, essendo controllata dallo studioso,
non dipende in alcuno modo da quello che i partecipanti fanno o dicono)
– in molti casi, ciò implica la creazione di un gruppo sperimentale e di
un gruppo di controllo;
In secondo luogo, il ricercatore deve misurare il pattern di
variazione in una seconda variabile (detta variabile dipendente, in
quanto viene misurata dallo sperimentatore ma è direttamente
dipende dai partecipanti);
Infine, il ricercatore deve controllare se i pattern di variazione
delle due variabili sono sincronizzati o meno.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 13
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia III:
Correlazioni, causalità e
sperimentazione

4. LA SPERIMENTAZIONE : RANDOMIZZAZIONE

La manipolazione diretta della variabile indipendente una delle


caratteristiche della sperimentazione che consentono al ricercatore di
superare il problema della terza variabile. Il secondo elemento
determinante è la randomizzazzione. Continuando a considerare
l’esempio precedente (la relazione di causalità tra esposizione a
programmi televisivi violenti e comportamenti aggressivi), si supponga
che il ricercatore selezioni un campione di bambini e chieda ad ogni
bambino se desidera essere inserito nel gruppo sperimentale o in quello
di controllo. Condotto l’esperimento, il ricercatore trova che i bambini
che hanno guardato programmi violenti sono più aggressivi rispetto a
coloro che non li hanno guardati. In questo caso, lo sperimentatore può
legittimamente concludere che i programmi televisivi causano
l’aggressività?
In realtà, il ricercatore non può trarre alcuna ragionevole
inferenza causale da un esperimento di questo tipo, in quanto
potrebbero esserci molte variabili che differenziano i bambini che si
offrono come volontari per il gruppo sperimentale da quelli che non lo
fanno (ad esempio, i bambini che si offrono di essere inseriti nel gruppo
sperimentale potrebbero essere emotivamente più instabili, e quindi
più aggressivi, rispetto ai bambini che non si offrono volontari).
Bisogna sempre ricordare che l’obiettivo di un esperimento è creare due
gruppi che differiscano per un solo aspetto - la variabile manipolata
(nel nostro esempio, il fatto di guardare o meno programmi violenti).
Consentendo ai bambini di scegliere il gruppo di appartenenza, il
ricercatore ha finito per creare due gruppi che potrebbero differire in
innumerevoli modi. Detto in altre parole, vi potrebbero essere

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 13
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia III:
Correlazioni, causalità e
sperimentazione

innumerevoli terze variabili che determinano la scelta del bambino di


offrirsi volontario per il gruppo sperimentale.
L’autoselezione è esattamente il problema che si verifica quando
l’inclusione di un partecipante nel gruppo sperimentale o nel gruppo di
controllo viene determinata dal partecipante stesso. Per essere certi
che esista una e una sola differenza tra i bambini dei due gruppi, la
loro assegnazione al gruppo sperimentale o a quello di controllo dovrà
essere determinata in maniera casuale, ad esempio attraverso il lancio
di una moneta. Questa procedura assicura che, in media, i bambini dei
due gruppi saranno uguali su tutte le innumerevoli terze variabili che
potrebbero confondere i risultati. La randomizzazzione è quindi una
procedura che sfrutta eventi casuali (come il lancio della moneta) in
modo tale che l’assegnazione di un partecipante al gruppo sperimentale
o al gruppo di controllo non sia determinata da alcuna terza variabile.
In genere, la randomizzazione è una procedura efficace: tuttavia,
in alcuni casi, essa può fallire. Se lanciate una moneta 100 volte, vi
potreste aspettare che esca testa all’incirca 50 volte. Tuttavia, vi
saranno alcuni casi (abbastanza rari) in cui l’esito ‘testa’ capiterà 80 (o
90) volte. Analogamente, quando si effettua una randomizzazione, può
capitare che la maggior parte dei bambini emotivamente instabili
vengano assegnati, per puro caso, al gruppo sperimentale. Purtroppo,
non vi è modo per il ricercatore di stabilire quando la randomizzazione
ha fallito: l’unica cosa che egli può fare è calcolare la probabilità che
essa sia fallita. Seguendo questa logica, gli psicologi accettano i
risultati di un esperimento quando vi è meno del 5% di probabilità che
la randomizzazione non sia riuscita – o, in altre parole, quando si può
essere certi che la randomizzazione sia andata a buon fine nel 95% dei

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 13
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia III:
Correlazioni, causalità e
sperimentazione

casi. In tal caso, si dice che il risultato dell’esperimento è


statisticamente significativo.
Le statistiche inferenziali sono appunto dei procedimenti
statistici che consentono agli psicologi di stabilire se essi possono trarre
conclusioni affidabili dal confronto tra il gruppo sperimentale e quello
di controllo. In particolare, il livello di probabilità p associato ad ogni
statistica inferenziale ci dice quante sono le probabilità che la
randomizzazione sia fallita: come accennato pocanzi, una statistica
inferenziale si dice significativa quando p < 0.05: ovvero, quando la
probabilità che la randomizzazione sia fallita è inferiore al 5%.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 13
Universitas Mercatorum I metodi della psicologia III:
Correlazioni, causalità e
sperimentazione

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014). Psicologia


generale. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 13 di 13
BASI
BIOLOGICHE DELLA
PSICOLOGIA I: I
NEURONI E LA
TRASMISSIONE DEL
SEGNALE
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia I:
I neuroni e la trasmissione del
segnale

Indice

1. I NEURONI ..................................................................................... 3

2. SEGNALI ELETTRICI: IL POTENZIALE D’AZIONE ............ 6

3. SEGNALI CHIMICI: LA TRASMISSIONE SINAPTICA......... 9

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 13

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 13
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia I:
I neuroni e la trasmissione del
segnale

1. I NEURONI

Tutti i pensieri, sentimenti e comportamenti degli esseri umani


hanno origine da miliardi di cellule, chiamate neuroni, che
costituiscono il cervello e sono specializzate nell’elaborazione e nella
comunicazione delle informazioni (Figura 1). Come tutte le altre
cellule, i neuroni hanno un corpo cellulare che coordina l’elaborazione
delle informazioni e mantiene viva la cellula: è qui che hanno luogo i
processi metabolici, di sintesi proteica e di produzione di energia.
Inoltre, il corpo cellulare contiene un nucleo che ospita i cromosomi (i
quali, a loro volta, contengono il DNA, ossia il nostro progetto genetico).

Figura 1. Componenti essenziali del neurone.

Ciò che differenzia i neuroni dalle altre cellule del nostro corpo è
che esse hanno delle estensioni che permettono loro di comunicare: i
dendriti e gli assoni. I dendriti ricevono informazioni dagli altri neuroni
e le trasmettono al corpo cellulare. L’assone, invece, trasmette
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 13
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia I:
I neuroni e la trasmissione del
segnale

informazioni ad altri neuroni, muscoli o ghiandole: nella maggior parte


dei casi, esso è rivestito da una guaina di mielina, uno strato isolante
di sostanza grassa che migliora l’efficienza della trasmissione delle
informazioni (nelle malattie demielinizzanti come la sclerosi multipla
la guaina di mielina si deteriora, provocando un rallentamento della
trasmissione nervosa). I dendriti e gli assoni non arrivano mai a
toccarsi: questo piccolo spazio tra l’assone di un neurone e i dendriti o
il corpo cellulare di una altro neurone viene chiamato sinapsi.
Vi sono fondamentalmente tre principali tipi di neuroni (Figura
2):

 i neuroni sensoriali ricevono informazioni dal mondo esterno


e le trasmettono al cervello: esse hanno sui loro dendriti delle
terminazioni specializzate a ricevere segnali luminosi,
sonori, tattili, gustativi e olfattivi;
 i neuroni motori trasmettono i segnali neurali dal cervello
fino ai muscoli per generare il movimento: essi hanno degli
assoni che possono essere anche molto lunghi e consentono
loro di raggiungere i muscoli più distanti del corpo umano;
 gli interneuroni costituiscono la maggior parte del sistema
nervoso: essi connettono tra loro neuroni sensoriali, neuroni
motori e altri interneuroni, e presiedono ad una varietà di
funzioni legate all’elaborazione delle informazioni.

Al di là di questa distinzione, la forma dei neuroni varia molto a


seconda della posizione (Figura 2).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 13
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia I:
I neuroni e la trasmissione del
segnale

Figura 2. Tipologie di neuroni presenti nel sistema nervoso


umano

Ad esempio, le cellule di Purkinje sono un tipo di interneurone


che veicola informazioni dal cervelletto al resto del cervello: esse hanno
dei dendriti molto fitti, che assomigliano a dei cespugli. Le cellule
piramidali, che si trovano nella corteccia (e in particolare
nell’ippocampo), hanno un corpo cellulare dalla forma triangolare e un
singolo, lungo dendrite dal quale hanno origine dendriti più corti.
Infine, le cellule bipolari sono un tipo di neurone sensoriale che si trova
nella retina dell’occhio: esse hanno un unico assone e un unico dendrite.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 13
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia I:
I neuroni e la trasmissione del
segnale

2. SEGNALI ELETTRICI: IL POTENZIALE


D’AZIONE

La membrana dei neuroni è porosa e ciò consente agli ioni,


piccole molecole cariche elettricamente, di fluire dall’interno della
cellula all’esterno o viceversa. Tutti i neuroni del corpo umano sono
dotati di una carica elettrica chiamata potenziale di riposo, che è la
differenza di carica elettrica tra l’interno e l’esterno della membrana
cellulare di un neurone. Nello stato di riposo, la concentrazione di
potassio, che è uno ione positivo (K+), è elevata all’interno del neurone
e bassa all’esterno e i canali che consentono a questa molecola di
muoversi attraverso la membrana dell’assone sono aperti (mentre i
canali che consentono il flusso di altri tipi di ioni sono chiusi): ciò
consente agli ioni di potassio di uscire dalla cellula, producendo una
carica negativa di circa −70 mV all’interno del neurone.
Nel 1939, i biologi britannici Hodgin e Huxley (successivamente
insigniti del premio Nobel) scorpirono che stimolando l’assone del
calamaro gigante con una breve scarica elettrica si produceva la
conduzione di un forte impulso elettrico. Questo impulspo, chiamato
potenziale d’azione, è un segnale elettrico che si propaga lungo tutto
l’assone di un neurone fino alla sinapsi ed ha alcune caratteristiche
peculiari:

 si genera solo quando la scarica raggiunge un valore soglia


(se la scarica è al di sotto di tale valore si generano solo
minuscoli segnali che si disperdono rapidamente);
 è di tipo tutto o niente: ovvero incrementi nella forza della
scarica al di sopra del valore soglia non aumentano
l’intensità del potenziale d’azione.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 13
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia I:
I neuroni e la trasmissione del
segnale

Durante il potenziale d’azione si verifica un cambiamento nello


stato dei canali della membrana dell’assone (si veda la Figura 3 per una
rappresentazione schematica). I canali del potassio (K+), normalmente
aperti nella fase di riposo, si chiudono. Al contrario, i canali del sodio
(Na+), un altro ione carico positivamente, si aprono: poiché la
concentrazione di questo ione è molto più alta all’esterno del neurone,
il sodio affluisce all’interno del neurone, aumentando la carica positiva
sulla faccia interna del neurone fino al valore massimo di +40 mV.
Dopo che il potenziale d’azione ha raggiunto il suo picco
massimo, i canali tornano al loro stato originario, gli ioni potassio
ricominciano a defluire fuori dall’assone e il neurone torna al potenziale
di riposo. A questo punto si ha una situazione di squilibrio
caratterizzata dalla presenza di molti ioni sodio (Na+) dentro l’assone
e molti ioni potassio (K+) all’esterno dell’assone. Gli studiosi si
riferiscono a tale fase con il termine ‘periodo refrattario’, in quanto il
neurone non può generare un altro potenziale d’azione. Lo squilibrio
viene infine rovesciato da una ‘pompa’ chimica (detta pompa
sodio/potassio), che spinge il sodio fuori dall’assone e il potassio al suo
interno.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 13
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia I:
I neuroni e la trasmissione del
segnale

Figura 3. Fasi schematiche del potenziale d’azione.

Quando un potenziale d’azione viene generato in una parte


iniziale dell’assone, esso si propaga a breve distanza, creando un
potenziale d’azione in una posizione adiacente che era
precedentemente inattiva; a sua volta, questo segnale si propagherà,
generando un nuovo potenziale d’azione in un’altra posizione
adiacente, e così via. In questo modo, il segnale elettrico viene
trasmesso lungo tutta la lunghezza dell’assone. Nella guaina mielinica
che ricopre l’assone vi sono piccoli punti di interruzione, chiamati nodi
di Ranvier: quando si sposta lungo l’assone, il segnale nervoso salta da
un nodo all’altro, una modalità caratteristica chiamata conduzione
saltatoria.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 13
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia I:
I neuroni e la trasmissione del
segnale

3. SEGNALI CHIMICI: LA TRASMISSIONE


SINAPTICA

Quando il potenziale d’azione raggiunge la fine dell’assone, la


carica elettrica genera una serie di reazioni chimiche che consentono
all’informazione di attraversare la fessura sinaptica. Questo processo è
noto, appunto, come trasmissione sinaptica.
La parte finale dell’assone contiene le terminazioni assoniche (o
bottoni sinaptici), strutture a forma di bottone che si diramano
dall’assone. Ciascuna terminazione assonica è piena di piccole vescicole
che contengono i neurotrasmettitori, sostanze chimiche che
trasmettono attraverso la sinapsi informazioni ai dendriti di un
neurone ricevente. I dendriti del neurone ricevente contengono i
recettori, strutture della membrana che ricevono i neurotrasmettitori
e producono un nuovo segnale elettrico.
Il processo della trasmissione sinaptica comprende una serie di
fasi successive (illustrate sinteticamente nella Figura 4):

 il flusso di ioni potassio (K+) e sodio (Na+) fanno passare


il neurone presinaptico dal potenziale di riposo al
potenziale d’azione;
 il potenziale d’azione raggiunge le terminazioni assoniche,
dove stimola il rilascio di neurotrasmettitori dalle
vescicole entro lo spazio sinaptico;
 i neurotrasmettitori si diffondono nella sinapsi e si legano
ai recettori posti sul dendrite del neurone postsinaptico –
occorre notare che i neurotrasmettitori e i recettori
funzionano come un sistema a chiave e serratura, nel
senso che la struttura molecolare del neurotrasmettitore

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 13
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia I:
I neuroni e la trasmissione del
segnale

dovrà adattarsi in maniera specifica alla struttura del


recettore;
 l’arrivo del neurotrasmettitore genera un nuovo
potenziale d’azione nel neurone postsinaptico, il quale
viaggia lungo l’assone fino alla successiva sinapsi e al
successivo neurone.

Dopo la trasmissione del messaggio chimico, entrano in azione


tre differenti processi che impediscono ai neurotrasmettitori di
continuare ad agire sui neuroni all’infinito (altrimenti non vi sarebbe
fine ai segnali che essi inviano):

 in primo luogo, si ha riassorbimento o ricaptazione, in


quanto i neurotrasmettitori sono in parte riassorbiti dalle
terminazioni assoniche del neurone presinaptico;
 in secondo luogo, si ha disattivazione enzimatica, in
quanto i neurotrasmettitori possono essere degradati da
enzimi presenti nella sinapsi;
 infine, i neurotrasmettitori possono legarsi a dei recettori
presenti sui neuroni presinaptici, detti autorecettori.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 13
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia I:
I neuroni e la trasmissione del
segnale

Figura 4. Schema del processo di trasmissione sinaptica.

Oggi sappiamo che esistono circa 60 sostanze chimiche che


giocano un ruolo nel trasmettere le informazioni all’interno del sistema
nervoso e producono effetti diversi su pensieri, sentimenti e
comportamenti. Tra queste, alcuni neurotrasmettitori ampiamente
studiati sono:
l’acetilcolina: sostanza coinvolta in numerose funzioni, tra cui il
controllo motorio volontario. L’acetilcolina è infatti abbondante nelle
sinapsi in cui gli assoni dei neuroni motori si connettono ai muscoli e
agli organi del corpo come il cuore. Essa attiva i muscoli in modo tale
da avviare il comportamento volontario. Contribuisce inoltre alla
regolazione dell’attenzione, dell’apprendimento, del sonno e della
memoria. La sindrome di Alzheimer, una malattia che determina una
netta compromissione della memoria, è associata al deterioramento dei
neuroni che producono acetilcolina.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 13
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia I:
I neuroni e la trasmissione del
segnale

la dopamina: regola il comportamento motorio, la motivazione,


il piacere e l’attivazione emozionale. Questo neurotrasmettitore è
attivamente coinvolto nella ricerca del piacere e nell’associazione tra
comportamento e ricompense; in particolare, livelli elevati di dopamina
sono stati associati ad emozioni positive, mentre la perdita di neuroni
dopaminergici sembra essere un fattore determinante nel morbo di
Parkinson.
l’acido gamma-amminobutirrico (GABA): si tratta del principale
neurotrasmettitore inibitorio presente nel cervello e la sua funzione
consiste nel bloccare la trasmissione del segnale tra neuroni,
impedendo all’eccitazione delle sinapsi di prolungarsi in maniera
incontrollata. È stato ampiamente utilizzato come anticonvulsivante
per combattere attacchi epilettici e per ridurre l’ansia.
la noradrenalina: un neurotrasmettitore che influenza l’umore e
l’attivazione fisiologica, ed è particolarmente coinvolto negli stati di
vigilanza.
la serotonina: sostanza che gioca un ruolo centrale nella
regolazione del sonno e della veglia, dell’alimentazione e dei livelli di
aggressività. Bassi livelli di serotonina e di noradrenalina sono spesso
rilevati in pazienti che soffrono di disturbi dell’umore.
le endorfine: una classe di messaggeri chimici che agiscono nelle
vie di trasmissione del dolore e nei centri emozionali del cervello. Il loro
effetto consiste nell’attenuare l’esperienza del dolore e nell’elevare il
tono dell’umore.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 13
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia I:
I neuroni e la trasmissione del
segnale

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 13 di 13
BASI
BIOLOGICHE DELLA
PSICOLOGIA II:
ORGANIZZAZIONE
DEL SISTEMA
NERVOSO
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia II:
Organizzazione del sistema nervoso

Indice

1. SUDDIVISIONI DEL SISTEMA NERVOSO ............................. 3

2. IL SISTEMA NERVOSO CENTRALE ........................................ 6

3. PROSENCEFALO E CORTECCIA CEREBRALE ................. 10

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 14

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 14
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia II:
Organizzazione del sistema nervoso

1. SUDDIVISIONI DEL SISTEMA NERVOSO

Il sistema nervoso piò essere definito come una rete di neuroni


interagenti che trasmettono informazioni elettrochimiche in tutto il
corpo. Come illustrato nella Figura 1, esso viene generalmente
suddiviso in sistema nervoso centrale e sistema nervoso periferico, il
quale viene ulteriormente suddiviso in sistema nervoso autonomo e
sistema nervoso somatico.

Figura 1. Suddivisioni del sistema nervoso umano.

Il sistema nervoso centrale (SNC) riceve informazioni sensoriali


dal mondo esterno, elabora queste informazioni e invia comandi al
sistema muscolare allo scopo di compiere azioni volontarie. Esso
comprende:

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 14
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia II:
Organizzazione del sistema nervoso

 il cervello, il quale contiene le strutture che svolgono le più


complesse funzioni percettive, emotive e cognitive tipiche
dell’essere umano;
 il midollo spinale, al quale si connettono i nervi (fasci di
assoni) che elaborano informazioni sensoriali e
trasmettono comandi al corpo.

Il sistema nervoso periferico (SNP) collega il sistema nervoso


centrale agli organi e ai muscoli del corpo. Si suddivide a sua volta in
sistema nervoso somatico e sistema nervoso autonomo. Il sistema
nervoso somatico è l’insieme dei nervi che trasmettono informazioni in
entrata e in uscita dal sistema nervoso centrale. Gli esseri umani
esercitano un controllo consapevole su questo sistema e lo usano per
percepire, pensare e coordinare le loro azioni. Ad esempio, ordinare alla
mano di protendersi per afferrare una tazzina di caffè chiama in causa
molteplici operazioni controllate dal sistema nervoso somatico: le
informazioni visive viaggiano dall’occhio al cervello per registrare che
una tazzina di caffè si trova sul tavolo; i comandi motori viaggiano dal
cervello fino ai muscoli del braccio e della mano, e così via.
Il sistema nervoso autonomo è l’insieme dei nervi che
trasmettono comandi involontari e automatici (indipendenti dal
controllo conscio) che controllano i vasi sanguigni, gli organi interni e
le ghiandole. Esso comprende il sistema nervoso simpatico e il sistema
nervoso parasimaptico. Il sistema nervoso simpatico prepara il corpo
per l’azione nelle situazioni minacciose: esso si connette ad una varietà
di organi (tra cui occhi, ghiandole salivari, cuore e polmoni, apparato
digerente e organi sessuali); al contrario, il sistema nervoso
parasimaptico aiuta il corpo a tornare al normale stato di riposo. I
sistemi nervosi simpatico e parasimpatico controllano in maniera

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 14
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia II:
Organizzazione del sistema nervoso

coordinata molte funzioni corporee. Ad esempio, in una situazione di


pericolo (come percepire qualcuno che si avvicina dietro di noi in un
vicolo oscuro), è il sistema simpatico ad entrare in azione: esso dilata le
pupille (per migliorare la visione), aumenta la frequenza del battito
cardiaco e della respirazione (per pompare più sangue nei muscoli),
devia il flusso sanguigno verso il cervello e i muscoli, ecc. Tuttavia, una
volta terminato il pericolo, è il sistema nervoso parasimpatico ad essere
attivato per ripristinare lo stato di normalità: i suoi effetti sono
esattamente opposti a quelli prodotti dal sistema simpatico (restringe
le pupille, rallenta il battito cardiaco e la respirazione, e così via).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 14
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia II:
Organizzazione del sistema nervoso

2. IL SISTEMA NERVOSO CENTRALE

Come accennato in precedenza, il sistema nervoso centrale


comprende midollo spinale e cervello. Il midollo spinale è una struttura
relativamente semplice che tuttavia svolge una varietà di funzioni
essenziali per la sopravvivenza, tra cui respirare, reagire al dolore,
muovere i muscoli e camminare. Inoltre, senza il midollo spinale, il
cervello non potrebbe inviare comandi motori ai muscoli.
Per alcuni comportamenti molto basilari, il midollo non ha
bisogno dell’intervento del cervello. Tali comportamenti sono infatti
mediati dai riflessi spinali, i quali sono semplici vie del sistema nervoso
che collegano i neuroni sensoriali ai neuroni motori presenti all’interno
del midollo stesso e quindi generano contrazioni muscolari molto
rapide. Sono questi riflessi che ci consentono, ad esempio, di ritirare
velocemente la mano da un forno che scotta.
D’altra parte, l’esecuzione di processi e comportamenti più
complessi richiedono che midollo spinale e cervello collaborino
attivamente tra loro. Si ricordi che attraverso il midollo spinale il
cervello:

 riceve le informazioni sensoriali provenienti dal sistema


nervoso periferico;
 invia i comandi per i movimenti volontari ai neuroni
motori.

La conseguenza di questa complessa interazione è che le lesioni


del midollo spinale recidono queste connessioni, causando gravi
conseguenze. La localizzazione della lesione spinale determina
l’estensione dell’area colpita, in quanto regioni diverse del midollo
spinale controllano apparati e muscoli diversi (ad esempio, le

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 14
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia II:
Organizzazione del sistema nervoso

connessioni che controllano i muscoli delle gambe si trovano nella


regione lombare del midollo spinale). I pazienti con lesioni ad un
particolare livello del midollo spinale presentano, nelle parti del corpo
controllate dalle porzioni di midollo al di sotto della lesione, due gravi
conseguenze

 la perdita della sensazione del tatto e del dolore;


 e la perdita del controllo motorio dei muscoli delle aree
interessate.

Per quanto riguarda il cervello, esso può essere suddiviso in tre


parti, seguendo una classificazione delle aree cerebrali “dal basso verso
l’alto”: romboencefalo, mesencefalo, e prosencefalo (Figura 2). Questa
classificazione implica che le funzione più semplici sono eseguite ai
livelli più bassi del cervello (ovvero, nel romboencefalo), mentre le
funzioni più complesse sono eseguite ai livelli più alti (ovvero, nel
prosencefalo, che contiene la corteccia cerebrale).
Il midollo spinale forma un continuo con il romboencefalo (anche
chiamato tronco encefalico), un’area del cervello che coordina le
informazioni dirette al midollo spinale e da esso provenienti. Esso
controlla e coordina le più basilari funzioni vitali, tra cui la
respirazione, lo stato di vigilanza e la capacità motoria. È a sua volta
formato da tre strutture anatomiche: il midollo allungato (o bulbo), il
cervelletto e il ponte (si veda la Figura 2).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 14
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia II:
Organizzazione del sistema nervoso

Figura 2. Suddivisioni del cervello umano.

Il midollo allungato è una estensione del midollo all’interno del


cranio: tra le altre funzioni, coordina il battito cardiaco, la circolazione
e la respirazione. Quest’area contiene inoltre la formazione reticolare,
un gruppo di neuroni che regolano il sonno, la veglia e i livelli di
attivazione (arousal). Nei gatti, la recisione delle connessioni tra la
formazione reticolare e il resto del cervello produce un coma
irreversibile. Analogamente, negli esseri umani, molti anestetici
generali funzionano riducendo l’attività della formazione reticolare,
rendendo così il paziente inconscio.
Il cervelletto è un’ampia struttura deputata al controllo delle
capacità motorie fini (coordinazione ed equilibrio). È al cervelletto che
si deve la coordinazione della sequenza di movimenti che ci consentono
di andare in bicicletta, di suonare il piano o di correre su un tapis
roulant. Le lesioni cerebellari compromettono la ‘sintonizzazione fine’
del comportamento, ma non causano la paralisi o l’immobilità, in

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 14
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia II:
Organizzazione del sistema nervoso

quanto la regione della corteccia che genera i comandi motori da inviare


ai muscoli (la corteccia motoria, di cui parleremo in seguito) è intatta.
Infine, il ponte è una struttura che trasmette informazioni dal
cervelletto al resto del cervello (funziona come una sorta di stazione di
raccordo che media l’interazione tra il cervelletto e le altre strutture
cerebrali).
Appena al di sopra del romboencefalo poggia il mesencefalo, il
quale contiene il tetto e il tegmento.
Il tetto orienta l’organismo nell’ambiente: riceve stimoli da occhi,
orecchie e pelle, e muove l’organismo in modo coordinato verso uno
stimolo (è questa struttura che ci consente, ad esempio, di ruotare il
corpo e orientarlo vero un rumore improvviso).
Il tegmento è coinvolto nel movimento e nell’attivazione
fisiologica (contribuisce ad orientare l’organismo verso uno stimolo
sensoriale), ma partecipa anche alla ricerca del piacere, alla
motivazione e alla regolazione dell’umore. In effetti, il tegmento
contiene la sostanza nera, un piccola struttura ricca di neuroni
dopaminergici – si ricordi che la dopamina contribuisce, tra le altre
cose, al controllo della motivazione, del piacere e dell’attivazione
emozionale.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 14
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia II:
Organizzazione del sistema nervoso

3. PROSENCEFALO E CORTECCIA CEREBRALE

Il prosencefalo costituisce il livello più elevato del cervello e


controlla tutte le più complesse funzioni cognitive, emozionali,
sensoriali e motorie tipiche dell’essere umano. È suddiviso in due
sezioni: la corteccia cerebrale e le strutture subcorticali. La corteccia
cerebrale è lo strato esterno del cervello, visibile ad occhio nudo e
suddiviso in due emisferi. Le strutture subcorticali sono invece
localizzate sotto la corteccia cerebrale e vicino al centro del cervello;
comprendono il talamo, l’ipotalamo, l’ipofisi, il sistema limbico e i
gangli della base (si veda la Figura 3), e svolgono un ruolo essenziale
nel trasmettere le informazioni in tutto il cervello.

Figura 3. Strutture subcorticali del prosencefalo

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 14
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia II:
Organizzazione del sistema nervoso

Il talamo è una struttura che riceve e filtra le informazioni


provenienti dai sistemi sensoriali e ritrasmette tali informazioni alla
corteccia. Esso riceve input da tutti i principali organi di senso e si
comporta come un server che smista le informazioni in tutte le altre
regioni del cervello. In particolare, svolge una funzione attiva di filtro
degli input sensoriali, dando maggiore peso ad alcuni stimoli e minore
ad altri. Durante il sonno il talamo chiude le vie sensoriali, impedendo
agli stimoli esterni di raggiungere il cervello e quindi di svegliarci.
L’ipotalamo è una struttura posizionata immediatamente sotto
il talamo che regola la temperatura corporea, la fame, la sete e il
comportamento sessuale. Lesioni di questa regione possono causare
sovralimentazione oppure una totale assenza di appetito, a seconda
della specifica area coinvolta nel danno. Olds e Milner (1954) trovarono
che, nei ratti, la stimolazione di una piccola area dell’ipotalamo
provocava una sensazione estremamente piacevole. Infatti, se potevano
premere una leva collegata ad un elettrodo che innescava
l’autostimolazione, i ratti lo facevano per diverse migliaia di volte
all’ora, fino a quando erano completamente esausti.
L’ipofisi, o ghiandola pituitaria, è una struttura chiave che,
stimolata dall’ipotalamo, rilascia ormoni che dirigono le funzioni di
molte altre ghiandole del corpo. Tra le altre funzioni, l’ipofisi coinvolta
nella risposta a situazioni di stress. Quando si avverte una minaccia i
neuroni sensoriali inviano segnali al midollo spinale e poi all’ipotalamo,
il quale stimola l’ipofisi a rilasciare l’ormone adrenocorticotropo
(ACTH). Questo ormone, a sua volta, stimola le ghiandole surrenali a
rilasciare una serie di sostanze che attivano il sistema nervoso
simpatico – il quale, come abbiamo visto, prepara il corpo ad affrontare
la minaccia (o a fuggire).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 14
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia II:
Organizzazione del sistema nervoso

Con il termine sistema limbico i neuroscienziati si riferiscono ad


un insieme di strutture prosencefaliche (comprendenti l’ipotalamo,
l’ippocampo e l’amigdala) coinvolte nella motivazione, nell’emozione e
nella memoria. L’ippocampo, in particolare, è una regione del cervello
a forma di ciambella che presiede alla creazione di nuovi ricordi e alla
loro integrazione in una rete di conoscenze più ampie (le tracce sono poi
immagazzinate in maniera permanente nella corteccia cerebrale). I
pazienti con danno dell’ippocampo possono ricordare le informazioni
per alcuni secondi, ma le dimenticano molto facilmente non appena
vengono distratti; tuttavia, alcune memorie procedurali sopravvivono:
in genere, tali pazienti sono in grado di guidare o andare in bicicletta.
L’amigdala è una struttura che gioca un ruolo fondamentale in
molti processi emozionali, e in particolare presiede alla formazione di
ricordi emozionali. Studi recenti suggeriscono che il ruolo dell’amigdala
consista nell’attribuire significato e importanza a eventi neutri che
sono stati precedentemente associati a paura e minaccia (diventando
così eventi negativi) o a piacere e ricompensa (diventando così eventi
positivi). Questo significa che, quando viviamo una situazione che
provoca in noi una forte attivazione emozionale, l’amigdala stimola
l’ippocampo a ricordare i dettagli delle esperienze negative (o positive)
associate a quella particolare situazione. Ad esempio, le persone che
vissero da vicino l’attacco terroristico dell’11 Settembre 2011 al World
Trade Center di New York ricordano con straordinaria precisione dove
erano, che cosa stavano facendo e che cosa provarono quando sentirono
la notizia per la prima volta.
Infine, i gangli della base rappresentano un insieme di strutture
sottocorticali (comprendenti lo striato e il globo pallido) che dirigono i
movimenti intenzionali: situati vicino al talamo e all’ipotalamo, essi
ricevono informazioni dalla corteccia e inviano segnali ai centri motori

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 14
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia II:
Organizzazione del sistema nervoso

nel tronco encefalico. Lo striato, in particolare, sembra essere coinvolto


nel controllo della postura e del movimento. I pazienti con morbo di
Parkinson, ad esempio, presentano tremori incontrollabili e scatti
improvvisi degli arti. In questi soggetti, i neuroni dopaminergici della
sostanza nera (localizzati nel tegmento) sono danneggiati: la carenza
di dopamina si ripercuote sul funzionamento dello striato, il che a sua
volta causa i sintomi visibili nel morbo di Parkinson.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 13 di 14
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia II:
Organizzazione del sistema nervoso

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 14 di 14
BASI
BIOLOGICHE DELLA
PSICOLOGIA III:
CORTECCIA
CEREBRALE E
NEUROVISUALIZZAZIONE
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia III:
Corteccia cerebrale e neurovisualizzazione

Indice

1. ORGANIZZAZIONE DELLA CORTECCIA CEREBRALE ..... 3

2. IL CERVELLO LESIONATO ....................................................... 8

3. REGISTRAZIONE E VISUALIZZAZIONE DELL’ATTIVITÀ


CEREBRALE ................................................................................ 12

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 16

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 16
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia III:
Corteccia cerebrale e neurovisualizzazione

1. ORGANIZZAZIONE DELLA CORTECCIA


CEREBRALE

La corteccia cerebrale è il livello più alto del cervello umano ed è


responsabile degli aspetti più complessi della percezione,
dell’emozione, del movimento e del pensiero. È la superficie rugosa che
vediamo quando guardiamo il cervello a occhio nudo: le superfici lisce
(in rilievo) vengono chiamate circonvoluzioni o giri, mentre gli
avvallamenti o fessure sono chiamati solchi. I giri e i solchi sono un
successo dell’evoluzione: infatti, essi permettono alla corteccia (la cui
estensione totale sarebbe circa 2500 cm2) di concentrare una grande
potenza cerebrale in un formato relativamente piccolo che si adatta
molto bene all’interno della scatola cranica umana.
La corteccia è suddivisa negli emisferi destro e sinistro, i quali
sono simmetrici nell’aspetto generale.
Tuttavia, ciascun emisfero controlla le funzioni del lato opposto
del corpo: dunque, l’emisfero cerebrale destro percepisce gli stimoli
provenienti dal lato sinistro del campo visivo e controlla i muscoli della
metà sinistra del corpo; analogamente, l’emisfero sinistro controlla il
lato destro del corpo. Questo fenomeno viene indicato con il termine
‘controllo controlaterale’.
I due emisferi sono connessi tramite commessure – fasci di
assoni che mettono in comunicazione aree parallele della corteccia in
ciascun emisfero: la più vasta di esse è il corpo calloso, il quale supporta
la comunicazione delle informazioni da un emisfero all’altro. Ciò
significa che le informazioni ricevute dall’emisfero destro possono
attraversare il corpo calloso ed essere simultaneamente registrate
anche nell’emisfero sinistro, e viceversa.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 16
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia III:
Corteccia cerebrale e neurovisualizzazione

Ciascun emisfero della corteccia è suddiviso in quattro grandi


aree o lobi: partendo dalla regione posteriore e procedendo verso quella
anteriore, troviamo il lobo occipitale, il lobo parietale, il lobo temporale
e il lobo frontale (Figura 1). Il lobo occipitale è situato nella parte
posteriore della corteccia cerebrale ed è specializzato nell’elaborazione
delle informazioni visive. I recettori sensoriali degli occhi inviano
informazioni al talamo, il quale a sua volta le invia alle aree primarie
del lobo occipitale, dove vengono estratte le caratteristiche elementari
dello stimolo (direzione, forma, colore, ecc.). Successivamente, le aree
associative (in parte localizzate anche nel lobo temporale) provvedono
ad integrare le varie caratteristiche in una ‘mappa’ dello stimolo più
complessa, consentendoci di percepire oggetti complessi. Lesioni delle
aree visive primarie possono causare cecità totale o parziale: questo
significa che le informazioni provenienti dagli occhi sono normalmente
trasmesse al lobo occipitale; tuttavia, esse non possono essere elaborate
e comprese, per cui vanno immediatamente perdute.

Figura 1. Suddivisione del cervello umano in lobi

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 16
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia III:
Corteccia cerebrale e neurovisualizzazione

Il lobo parietale è situato davanti al lobo occipitale e presiede,


tra le altre funzioni, all’elaborazione delle informazioni tattili. Esso
contiene la corteccia somatosensoriale, una sottile striscia di tessuto
che parte dalla sommità del cervello e scende lungo i suoi lati fino a
raggiungere la corteccia temporale. In ciascun emisfero, la corteccia
somatosensoriale rappresenta le aree dell’epidermide sulla superficie
controlaterale del corpo. Ad ogni parte del corpo corrisponde una
particolare area di questa corteccia: tuttavia, alle aree più sensibili (es.,
come il viso o le mani) corrisponde un’area più vasta della corteccia
somatosensoriale. Questo concetto viene spesso rappresentato
attraverso un omuncolo, una figura distorta nella quale l’estensione di
ciascuna parte del corpo è proporzionale all’area ad essa dedicata nella
corteccia somatosensoriale (si veda la Figura 2).

Figura 2. Localizzazione e rappresentazione della corteccia somatosensoriale


(omuncolo)

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 16
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia III:
Corteccia cerebrale e neurovisualizzazione

Appena davanti alla corteccia somatosensoriale, nel lobo


frontale, è situata la corteccia motoria, la quale avvia i movimenti
volontari e invia segnali ai gangli della base, al cervelletto e al midollo
spinale. Come per la corteccia somatosensoriale, anche la corteccia
motoria presenta una analoga organizzazione somatotopica – ovvero, è
organizzata in modo che differenti parti della corteccia corrispondono
a diverse aree del corpo e le regioni più sensibili occupano aree cerebrali
più estese.
Il lobo temporale è situato nella parte laterale di ciascun
emisfero ed è responsabile dell’udito e del linguaggio. In particolare, la
corteccia uditiva primaria riceve dall’orecchio informazioni elementari
basate sulla frequenza dei suoni; le aree associative elaborano poi tali
informazioni in unità dotate di significato, come le singole parole o un
discorso. Il lobo temporale contiene anche alcune aree associative visive
specificatamente dedicate al riconoscimento dei volti.
Infine, il lobo frontale, situato appena dietro la fronte, contiene
aree specializzate per il pensiero astratto, la progettazione, la memoria
e il giudizio. Esso coordina i processi cognitivi che ci consentono di
progettare e anticipare i nostri (o gli altrui) comportamenti e di
interagire socialmente. Più nel dettaglio, ciascun lobo frontale riceve
informazioni sensoriali (che riguardano il mondo esterno) dalle aree
associative situate nelle regioni posteriori della corteccia (soprattutto
nei lobi parietale e temporale) e informazioni relative allo stato interno
del corpo (compresi i processi emotivi in corso) dal sistema limbico; le
aree della corteccia prefrontale integrano tute queste informazioni allo
scopo di definire il piano generale d’azione, il quale viene poi attuato
attraverso le connessioni con la corteccia motoria, i gangli della base e
il cervelletto. A conferma di tutto ciò, lesioni del lobo frontale riducono
la capacità dell’individuo di servirsi efficacemente delle informazioni

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 16
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia III:
Corteccia cerebrale e neurovisualizzazione

interne ed esterne per controllare il proprio comportamento: queste


pazienti sono di norma incapaci di organizzare la propria giornata e,
più in generale, la propria vita.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 16
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia III:
Corteccia cerebrale e neurovisualizzazione

2. IL CERVELLO LESIONATO

Gli scienziati si avvalgono di un’ampia gamma di metodi per


comprendere il modo in cui il cervello influisce sul comportamento: tra
questi, il metodo più antico consiste nell’esaminare persone con lesioni
cerebrali e osservarne i deficit. In effetti, gran parte della ricerca in
neuroscienze si occupa di mettere in relazione la perdita di specifiche
funzioni percettive, motorie, emozionali o cognitive con il danno di
specifiche aree cerebrali. Studiando le aree cerebrali lesionate e i
problemi che ne derivano, i neuroscienziati possono avanzare teorie
sulle funzioni che quelle aree normalmente svolgono.
Già nel 1861, Paul Broca descrisse il caso di un paziente che
aveva perduto la capacità di produrre il linguaggio (ma non quella di
comprenderlo) a causa di una lesione in una piccola area nel lobo
frontale sinistro. Poco dopo, nel 1874, Carl Wernicke descrisse un
paziente che aveva perduto la capacità di comprendere il linguaggio
(ma non quella di produrlo) a causa di una lesione in una piccola area
nel lobo temporale sinistro. Queste aree furono successivamente
chiamate ‘area di Broca’ e ‘area di Wernicke’: esse fornirono le prime
evidenze a sostegno dell’ipotesi che la produzione e la comprensione del
linguaggio sono rappresentate in aree distinte del cervello, e che
l’emisfero sinistro è specializzato nell’elaborazione del linguaggio.
Analogamente, molte informazioni sulle funzioni svolte dai lobi
frontali si devono ad un evento sfortunato occorso ad una persona del
tutto comune. Nel 1848, Phineas Gage era un 25enne che lavorava
come caposquadra alla costruzione di una linea ferroviaria a
Cavendish, nel Vermont. Mentre stava sistemando una carica
esplosiva in un foro scavato nella roccia, il ragazzo ebbe un terribile

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 16
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia III:
Corteccia cerebrale e neurovisualizzazione

incidente: una sbarra di ferro attraversò la testa di Gage ad alta


velocità, entrando attraverso la mascella sinistra e uscendo dalla
sommità del cranio (si veda la Figura 3 per una illustrazione della
probabile traiettoria seguita dalla sbarra). Incredibilmente, Gage
sopravvisse all’incidente per altri 12 anni, ma la sua personalità
cambiò drasticamente. Prima dell’incidente egli era un uomo
tranquillo, coscienzioso e gran lavoratore, mentre dopo l’incidente
divenne irritabile, irresponsabile, irresoluto e bestemmiatore. Questi
cambiamenti, per quanto non auspicabili, costituirono un beneficio per
la psicologia, in quanto consentirono ai ricercatori di ipotizzare che il
lobo frontale è coinvolto nella regolazione delle emozioni, nella
progettazione e nei processi decisionali.

Figura 3. Probabile traiettoria della lancia che trapassò il cranio di Phineas Gage

Oltre che a comprendere il ruolo di specifiche aree cerebrali, lo


studio di pazienti con lesioni cerebrali servì anche a chiarire i ruoli
distinti degli emisferi sinistro e destro. Ciò fu possibile soprattutto

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 16
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia III:
Corteccia cerebrale e neurovisualizzazione

grazie ai cosiddetti ‘pazienti split-brain’: si tratta di pazienti affetti da


gravi forme di epilessia, ai quali veniva reciso il corpo calloso
(un’operazione nota come commissurotomia cerebrale) per impedire la
propagazione delle crisi convulsive tra i due emisferi. Roger Sperry e
colleghi eseguirono diversi esperimenti volti ad esaminare il
comportamento di questi pazienti, e i loro risultati rivelarono molte
informazioni utili sulle funzioni indipendenti dei due emisferi
cerebrali. In un soggetto normale (con corpo calloso intatto),
l’informazione registrata dall’emisfero destro (o sinistro) si trasmette
attraverso il corpo calloso anche all’emisfero sinistro (o destro), in modo
tale che entrambi gli emisferi possono elaborare in maniera simultanea
gli stessi stimoli percettivi. In un paziente split-brain, invece,
l’informazione che entra in un emisfero rimane confinata a
quell’emisfero, non avendo possibilità di essere trasmessa all’altro
emisfero attraverso il corpo calloso.
In uno dei suoi esperimenti, Sperry chiese ai pazienti di fissare
un punto al centro dello schermo (in modo tale da impedire loro
muovere la testa o gli occhi), poi presentava loro una faccia chimerica
– ovvero, una faccia composta dall’assemblaggio di due mezzi volti. Si
supponga, a puro titolo esemplificativo, che i volti in questione siano
quelli di Brad Pitt a sinistra e di Leonardo Di Caprio a destra. Se al
paziente si chiedeva di nominare la faccia che aveva visto, egli
rispondeva Di Caprio – ovvero il volto percepito dall’emisfero di
sinistra, che è quello specializzato nel linguaggio. Al contrario, se gli si
chiedeva di indicare con la mano sinistra il volto presentato tra due
opzioni, il paziente sceglieva Brad Pitt, in quanto la mano sinistra è
controllata dall’emisfero destro, il quale ha percepito solo la faccia
presentata a sinistra (la Figura 4 illustra un esemperimento analogo).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 16
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia III:
Corteccia cerebrale e neurovisualizzazione

Figura 4. Esempio di un possibile esperimento con pazienti split-brain. Ai


partecipanti vengono presentati due oggetti: una chiave nell’emicampo destro, e una
lente d’ingrandimento nell’emicampo sinistro. Quando la richiesta è di nominare
l’oggetto visto, il paziente split-brain risponde ‘chiave’, in quanto l’emisfero sinistro
(che è dominante per il linguaggio) percepisce gli oggetti presentati nel campo visivo
destro. Al contrario, quando la richiesta è di afferrare l’oggetto visto con la mano
sinistra, il paziente sceglie la lente d’ingrandimento, in quanto la mano sinistra è
controllata dall’emisfero destro, il quale può percepire soltanto l’oggetto presentato
nel campo visivo sinistro.

Dopo il lavoro pionieristico di Sperry, gli esperimenti sul cervello


diviso sono continuati per decenni e hanno avuto un ruolo
fondamentale nel migliorare la comprensione del funzionamento dei
due emisferi di cui è composto il nostro cervello.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 16
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia III:
Corteccia cerebrale e neurovisualizzazione

3. REGISTRAZIONE E VISUALIZZAZIONE
DELL’ATTIVITÀ CEREBRALE

Un secondo metodo per studiare la relazione tra cervello e


comportamento consiste nel registrare l’attività elettrica del cervello
utilizzando l’elettroencefalogramma (EEG), un dispositivo che sfrutta
degli elettrodi posizionati sul cuoio capelluto per rilevare l’attività
elettrica generata dalle sinapsi e dai potenziali d’azione che hanno
luogo in vaste aree cerebrali (tipicamente, gli elettrodi ricoprono tutto
il cranio). Avvalendosi di questa tecnica, i ricercatori possono
determinare la quantità di attività cerebrale che ha luogo durante i
diversi stati di coscienza. Tra le altre cose, l’EEG ha consentito di
effettuare fondamentali scoperte riguardo alla natura del sonno e della
veglia. Ad esempio, i ricercatori hanno compreso che: a) nello stato di
veglia il cervello presenta pattern di attività distinti rispetto a quelli
presenti nello stato di sonno; e b) le diverse fasi del sonno sono associate
alla comparsa di differenti tipi di onde cerebrali.
La registrazione dell’attività elettrica è possibile non soltanto a
livello globale, ma anche a livello cellulare. A questo proposito, Hubel
e Wiesel (1988) si avvalsero di una tecnica che, tramite l’inserimento di
elettrodi nei lobi occipitali di gatti anestetizzati, permetteva la
registrazione dei potenziali d’azione di singoli neuroni. L’uso di questo
metodo consentì loro di scoprire che i neuroni della corteccia visiva
funzionano come dei rilevatori di caratteristiche (feature detectors) che
rispondo in maniera selettiva a specifiche proprietà dello stimolo, come
il contrasto, la direzione, la forma o il colore. Per esempio, alcuni
neuroni si attivavano solo quando veniva presentata una linea
verticale bianca su sfondo scuro, mentre altri neuroni si attivavano

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 16
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia III:
Corteccia cerebrale e neurovisualizzazione

soltanto in risposta ad una linea disposta ad un’angolazione di 45 gradi.


Le dimensioni elementari elaborate da tali neuroni sono poi combinate
nelle aree associative della corteccia occipitale e temporale,
consentendo così la percezione e il pieno riconoscimento di uno stimolo
integrato.
Un terzo metodo per osservare il funzionamento del cervello
umano è stato sviluppato soltanto da qualche decennio e si deve
all’introduzione delle tecniche di neurovisualizzazione cerebrale (o
‘brain imaging’). Si tratta di un insieme di metodi che si avvalgono di
tecnologie avanzate per creare immagini del cervello in vivo: l’obiettivo
è quello di osservare l’attività del cervello durante lo svolgimento di
specifici compiti o comportamenti. La prima tecnica ad essere
sviluppata fu la Tomografia Assiale Computerizzata (TAC). In una
TAC, uno scanner ruota intorno alla testa ottenendo una serie di
immagini ai raggi x da diverse angolazioni: tali immagini sono
successivamente elaborate e combinate dal computer, in modo da
ottenere una visione completa delle principali strutture cerebrali.
L’importanza delle TAC è dovuta al fatto che esse mostrano le diverse
densità dei tessuti cerebrali e sono quindi utili per localizzare lesioni e
tumori, i quali, essendo meno densi della corteccia, appaiono più scuri.

Figura 5. Confronto tra le scansioni TAC (prima immagine a sinistra) e MRI


(immagini a destra)

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 13 di 16
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia III:
Corteccia cerebrale e neurovisualizzazione

Nella risonanza magnetica (MRI: Magnetic Resonance Imaging):


si applicano brevi ma potenti impulsi magnetici alla testa, i quali
inducono le molecole del tessuto cerebrale a ruotare per un tempo molto
breve, per poi tornare alla loro posizione originaria; questa rotazione
libera una piccola quantità di energia che viene rilevata da appositi
sensori. Poiché molecole dotate di carica diversa rispondono in maniera
diversa agli impulsi magnetici, il risultato è che segnali con energia
differente rivelano strutture cerebrali con composizioni differenti. Il
vantaggio è che le immagini MRI hanno una risoluzione molto più alta
rispetto alla TAC, il che consente una migliore visualizzazione delle
principali strutture cerebrali (si veda la Figura 5 per un confronto tra
TAC e MRI).
Sia la TAC che la MRI sono utili per localizzare lesione o tumori
cerebrali, ma non rivelano nulla sulle funzioni del cervello. Al
contrario, le tecniche di neurovisualizzazione funzionale (functional
brain imaging) consentono di osservare il cervello in azione durante
l’esecuzione di compiti cognitivi o percettivi. Esse si basano sul fatto
che le aree attive del cervello richiedono maggiore energia e quindi un
maggiore afflusso di sangue: sono proprio tali cambiamenti nel flusso
sanguigno ad essere rilevati dalle tecniche di neurovisualizzazione
funzionale.
Nella tomografia ad emissione di positroni (PET: positron
emission tomography), una innocua sostanza radioattiva viene
iniettata nel flusso sanguigno del soggetto durante l’esecuzione di
compiti quali leggere o parlare. Il maggiore afflusso di sangue nelle
aree attive del cervello causa una maggiore radioattività, che viene
rilevata da un apposito scanner. I sensori dello scanner rilevano il
livello di radioattività in ciascuna regione, producendo un’immagine
computerizzata delle aree del cervello più attive.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 14 di 16
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia III:
Corteccia cerebrale e neurovisualizzazione

Figura 6. Regioni attive in una serie di scansioni fMRI

Oggi, la PET è stata quasi completamente sostituita dalla


risonanza magnetica funzionale (fMRI: functional magnetic resonance
imaging), la quale rivela la risposta delle molecole di emoglobina
esposte a impulsi magnetici. L’emoglobina è la molecola deputata al
trasporto di ossigeno ai tessuti, incluso il cervello. Quando i neuroni
richiedono più energia, l’emoglobina ossigenata (detta ossiemoglobina)
si concentra nelle aree attive del cervello: l’fMRI rileva questo maggiore
accumulo e fornisce un immagine del livello di attivazione di ogni area
cerebrale (Figura 6). Rispetto alla PET, il vantaggio di questa tecnica
è che essa in grado di rilevare modificazioni dell’attività cerebrale in
un lasso di tempo molto più breve: ciò la rende particolarmente utile
per analizzare processi psicologici estremamente rapidi (come leggere
una parola o riconoscere un volto).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 15 di 16
Universitas Mercatorum Basi biologiche della Psicologia III:
Corteccia cerebrale e neurovisualizzazione

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014). Psicologia


generale. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 16 di 16
PROCESSI
SENSORIALI E
PERCETTIVI I:
PRINCIPI GENERALI
E CENNI DI
PSICOFISICA
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi I:
Principi generali e cenni di psicofisica

Indice

1. SENSAZIONE E PERCEZIONE ................................................. 3

2. SISTEMI SENSORIALI: PRINCIPI GENERALI ..................... 5

3. LA PSICOFISICA .......................................................................... 8

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 12

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 12
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi I:
Principi generali e cenni di psicofisica

1. SENSAZIONE E PERCEZIONE

In tutti gli animali i sistemi sensoriali si sono evoluti per


guidarne il comportamento. Per sopravvivere, un animale deve
rispondere agli oggetti del mondo in cui vive: deve avvicinarsi alle fonti
di cibo e ai possibili partner sessuali, e allontanarsi da pericoli e
predatori. Ciò significa che i sistemi sensoriali non si sono evoluti per
fornire una conoscenza completa e oggettiva del mondo, ma solo per
fornire all’animale quel tipo di informazioni di cui ha bisogno per
sopravvivere. Ad esempio, gli occhi delle rane contengono dei neuroni
che si sono evoluti in modo tale da funzionare come ‘rilevatori di
insetti’: essi rispondono in maniera selettiva a piccole macchie nere in
movimento e innescano i movimenti della lingua in direzione della
macchia.
In termini molto semplici è possibile affermare che:

 il termine ‘sensazione’ si riferisce: a) ai processi di base


con cui gli organi sensoriali e il sistema nervoso
rispondono agli stimoli esterni; e b) alle esperienze
psicologiche elementari che risultano da tali processi
(l’esperienza di un sapore amaro o la percezione di un sono
molto forte);
 il termine ‘percezione’ si riferisce ai più complicati
processi cerebrali di elaborazione dell’informazione
sensoriale e alle interpretazioni dotate di significato che
vengono estratte (il riconoscimento di una mela o
l’attribuzione del suono ad una autoambulanza).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 12
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi I:
Principi generali e cenni di psicofisica

In linea generale, il processo della sensazione può essere


rappresentato come una concatenazione di tre classi di eventi
completamente diversi tra loro:

 lo stimolo fisico: ovvero, la forma di materia o di energia


che proviene dal mondo fisico e colpisce gli organi di senso;
 la risposta fisiologica: ovvero, il quadro di attività
chimiche ed elettriche che si verificano negli organi di
senso, nei nervi e nel cervello come conseguenza della
stimolazione;
 l’esperienza sensoriale: ovvero, la sensazione psicologica
soggettiva o percezione (sapore, suono, visione) esperita
dall’individuo.

Nel considerare il ruolo della percezione, occorre sempre


ricordare che l’esperienza sensoriale ci fornisce informazioni utili sulle
qualità dello stimolo, ma si tratta di informazioni che non rispecchiano
necessariamente lo stimolo fisico in sé. Quando le molecole di caffeina
arrivano sulla nostra lingua, si genera la sensazione di un sapore
amaro: tuttavia, questo sapore non è una proprietà chimica delle
molecole di caffeina, bensì un fenomeno intrinseco alla nostra
percezione sensoriale. Analogamente, se una energia elettromagnetica
di una certa lunghezza d’onda raggiunge l’occhio, facciamo l’esperienza
del colore rosso: essa non è una proprietà intrinseca dell’energia
elettromagnetica, in quanto esiste soltanto nella nostra esperienza
sensoriale.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 12
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi I:
Principi generali e cenni di psicofisica

2. SISTEMI SENSORIALI : PRINCIPI GENERALI

Ogni senso ha un proprio sistema di recettori sensoriali: si tratta


di strutture che rispondono a stimoli fisici producendo variazioni
elettriche che danno poi origine a impulsi nervosi nei neuroni
sensoriali.
Sono chiamati ‘neuroni sensoriali’ quei neuroni specializzati che
veicolano l’informazione dai recettori al sistema nervoso centrale. In
alcuni casi i recettori sono semplicemente le terminazioni dei neuroni
sensoriali (ad esempio, i recettori del dolore); in altri casi, i recettori
sono cellule specializzate che formano sinapsi sui neuroni sensoriali e
si raggruppano all’interno di organi di senso quali il naso, l’occhio, la
bocca, e così via. I neuroni sensoriali formano specifiche vie neurali che
inviano impulsi alle aree sensoriali della corteccia cerebrale: come
illustrato nella Figura 1, esistono aree specializzate per la visione,
l’udito, il tatto e l’odorato.

Figura 1. Principali aree sensoriali nel cervello umano

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 12
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi I:
Principi generali e cenni di psicofisica

Con il termine trasduzione si indica il processo attraverso cui i


recettori generano una variazione di potenziale elettrico in risposta ad
uno stimolo fisico appropriato. Sebbene i dettagli molecolari di tale
processo siano diversi per ciascun sistema sensoriale, alcuni
meccanismi di base sono comuni. In particolare, ogni volta che l’energia
di uno stimolo appropriato agisce sulla cellula recettrice, la sua
membrana diventa più permeabile ad alcuni ioni dotati di carica
elettrica – come il sodio e il potassio. Il flusso di queste particelle
cariche verso l’interno oppure verso l’esterno della cellula modifica la
carica elettrica sulle due facce della membrana: questa variazione
prede il nome di potenziale di recettore. A loro volta, i potenziali di
recettore innescano altri eventi che culminano con la genesi di un
potenziale d’azione nei neuroni sensoriali.
Per esser utili, i sensi devono conservare, nei pattern di attività
neurale da essi prodotti, l’informazione relativa agli eventi fisici cui
rispondono. Questo processo che conserva l’informazione quantitativa
e qualitativa contenuta nello stimolo è noto come ‘codifica’. La
variazione quantitativa si riferisce alla quantità di energia convogliata
dallo stimolo: così, un suono (o una luce) può essere debole o forte. La
codifica della quantità dipende dal fatto che stimoli più forti generano
potenziali di recettore più grandi, i quali a loro volta generano nei
neuroni sensoriali potenziali d’azione con frequenza più elevata.
Quindi, il cervello interpreta una frequenza elevata dei potenziali
d’azione come uno stimolo forte e una frequenza bassa come uno
stimolo debole.
La variazione qualitativa si riferisce al tipo specifico di energia
che costituisce lo stimolo: così, luci di lunghezza d’onda diversa sono
considerate qualitativamente diverse, così come suoni di frequenza

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 12
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi I:
Principi generali e cenni di psicofisica

diversa (percepiti come toni differenti). La codifica della qualità


dipende dal fatto che stimoli qualitativamente diversi attivano gruppi
di neuroni diversi: ovvero, recettori dotati di sensibilità diversa
rispondono con la massima efficienza a forme leggermente diverse della
stessa energia. Ad esempio, è ben noto che nell’occhio umano vi sono
tre tipi di fotorecettori diversi, ognuno dei quali è particolarmente
sensibile ad una specifica banda di lunghezze d’onda della luce (ciò
costituisce di fatto la base della visione dei colori).
I nostri sensi sono costruiti in modo tale da: a) farci rilevare i
cambiamenti nell’ambiente sensoriale; e b) farci trascurare gli stati
stabili. Se entriamo in una stanza illuminata provenendo da un luogo
buio, essa ci apparirà dapprima molto luminosa, ma in seguito molto
meno. Questo processo di variazione della sensibilità che si verifica
quando un sistema sensoriale è sottoposto per un certo tempo ad una
stimolazione stabile e continua viene chiamato ‘adattamento
sensoriale’ ed è molto spesso mediato da un meccanismo che si verifica
a livello dei neuroni sensoriali: i potenziali di recettore e la frequenza
dei potenziali d’azione di tali neuroni sono molto elevati nei primi
momenti successivi alla variazione nella stimolazione sensoriale, ma
col tempo diminuiscono molto. In generale, comunque, quando l’entità
della stimolazione di un sistema sensoriale aumenta per un certo
periodo, il sistema sensoriale si adatta diventando meno sensibile di
quanto era prima; quando invece la quantità di stimolazione
diminuisce, il sistema si adatta diventando più sensibile di prima.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 12
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi I:
Principi generali e cenni di psicofisica

3. LA PSICOFISICA

La psicofisica, originariamente sviluppata da Gustav Fechner


(1801-1887), è un metodo che misura la forza di uno stimolo e la
sensibilità del soggetto a quello stimolo. In un tipico esperimento di
psicofisica, i ricercatori chiedevano al soggetto di formulare un giudizio
di presenza/assenza dello stimolo (ad esempio, se erano in grado di
vedere o no uno stimolo luminoso), poi mettevano in relazione
l’intensità dello stimolo (ad esempio, la luminosità di una luce) alla
risposta affermativa o negativa di ciascun soggetto.

Figura 1. Esempio di soglia assoluta in un esperimento di psicofisica

In genere gli psicofisici iniziano il processo di misurazione con


una serie di prove volte a determinare con precisione quanta energia
fisica è necessaria per suscitare una determinata sensazione in un
osservatore (ad esempio, quanta luminosità è necessaria affinché un
soggetto sia in grado di percepire lo stimolo). Questa misura

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 12
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi I:
Principi generali e cenni di psicofisica

quantitativa minima è nota, in psicofisica, come soglia assoluta: ovvero,


l’intensità minima di uno stimolo necessaria alla semplice rilevazione
sensoriale. Ad esempio, in un esperimento volto a misurare la soglia
assoluta di percezione del suono, il soggetto è seduto in una stanza
insonorizzata e indossa una cuffia collegata ad un computer. Lo
sperimentatore somministra un tono puro (un suono simile a quello che
si ottiene colpendo un diapason) e utilizza il computer per variare
l’intensità del tono e registrare la frequenza con cui il soggetto riferisce
di averlo udito. Solitamente, la soglia assoluta è definita come
l’intensità del suono necessaria al soggetto per rilevare correttamente
la sua presenza nel 50% dei casi (si veda la Figura 2).
La soglia assoluta è utile per stabilire la sensibilità del soggetto
a stimoli lievi, ma nella maggior parte dei casi l’utilità della percezione
consiste nel rilevare piccole differenze tra stimoli ben al di sopra della
soglia assoluta. In effetti, il sistema percettivo umano eccelle
nell’individuare i cambiamenti dello stimolo piuttosto che il suo
semplice comparire o scomparire. La soglia differenziale è il più piccolo
cambiamento nell’intensità di uno stimolo che il soggetto riesce a
rilevare (differenza appena individuabile o ‘JND: just noticeable
difference’). Ad esempio, per misurare la soglia differenziale visiva, il
soggetto viene posto in una stanza buia e gli viene mostrata una luce
di intensità fissa (detta S: standard); accanto viene mostrata una
seconda luce di confronto che è leggermente più luminosa o più tenue
di S. Il risultato più rilevante è che la soglia differenziale non è fissa,
ma proporzionale alla grandezza dello stimolo standard S: maggiore è
l’intensità di S, e maggiore sarà la variazione nello stimolo di confronto
necessaria per percepire la differenza. In pratica, questo significa che
quando S è molto tenue, i soggetti riescono a percepire differenze di
luminosità minime; al contrario, quando S è molto luminoso, occorre un

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 12
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi I:
Principi generali e cenni di psicofisica

aumento molto maggiore nella luminosità dello stimolo di confronto per


percepire la differenza.
In questo modo è possibile calcolare la differenza appena
individuabile relativa ad ogni senso. Essa è approssimativamente
proporzionale alla grandezza dello stimolo standard. questa relazione
fu notata per la prima volta nel 1834 da Weber. Fechner riprese gli
studi di questo fisiologo e formulò la legge di Weber, secondo cui la
differenza appena individuabile di uno stimolo rappresenta una
proporzione nonostante le variazioni d’intensità. Ad esempio, la
differenza appena percepibile per il peso è circa il 2%: se un soggetto
solleva un pacco da 2500 gr, poi un altro pacco da 2530 gr,
probabilmente non noterà la differenza, in quanto la differenza appena
percepibile è 50 gr (2% di 2500 gr). Al contrario, se il soggetto solleva
una busta che pesa 30 grammi e poi una seconda busta di 60 grammi,
è probabile che egli sarà in grado di rilevare la differenza in quanto la
differenza appena individuabile è di soli 0.6 grammi.
Nella vita reale, i sistemi sensoriali devono fronteggiare la
competizione prodotta dal rumore, dove con questo termine si
intendono tutti gli stimoli provenienti dall’ambiente interno e
dall’esterno. Questo rumore è in competizione con la nostra capacità di
individuare uno stimolo con perfetta attenzione focalizzata. La
conseguenza è che le persone possono percepire stimoli non presentati
(ovvero percepire cose che i loro sensi non hanno rilevato) o non
percepire stimoli presentati (ovvero non percepire cose che i loro sensi
hanno effettivamente rilevato. In un esperimento di rilevazione del
segnale, uno stimolo viene presentato più o meno a caso (ad esempio
una luce può essere fatta lampeggiare in vari punti del campo visivo) e
il compito del soggetto consiste nel rispondere ogni volta che vede lo
stimolo. In queste condizioni, vi sono quattro risposte possibili:

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 12
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi I:
Principi generali e cenni di psicofisica

 Successo: il soggetto risponde correttamente «si» quando


lo stimolo viene mostrato;
 Insuccesso: il soggetto risponde erroneamente «no»
quando lo stimolo viene mostrato;
 Falso allarme: il soggetto risponde erroneamente «si»
quando lo stimolo non viene mostrato;
 Rifiuto corretto: il soggetto risponde correttamente «no»
quando lo stimolo non viene mostrato.

Secondo la teoria della detezione del segnale, la risposta ad uno


stimolo dipende dalla sensibilità del soggetto allo stimolo in presenza
di rumore e dal suo criterio di risposta. In altre parole, i soggetti
valutano l’esperienza sensoriale evocata dallo stimolo e la confrontano
con un criterio interno di decisione. Alcuni soggetti usano un criterio di
risposta molto lasso (liberale): ovvero, rispondono «si» al minimo indizio
di comparsa dello stimolo. Questa strategia produce molti successi, ma
anche molti falsi allarmi. Al contrario, altri soggetti hanno un criterio
di risposta molto conservativo, in quanto rispondono «si» solo se lo
stimolo è forte e chiaro: questa strategia produce pochi falsi allarmi,
ma contemporaneamente ha il difetto di generare molti insuccessi.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 12
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi I:
Principi generali e cenni di psicofisica

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014). Psicologia


generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 12
PROCESSI
SENSORIALI E
PERCETTIVI II:
L’OLFATTO
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi II:
L’olfatto

Indice

1. L’OLFATTO .................................................................................... 3

2. OLFATTO E PSICOLOGIA I ....................................................... 6

3. OLFATTO E PSICOLOGIA II ..................................................... 9

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 12

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 12
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi II:
L’olfatto

1. L’OLFATTO

Gli stimoli odorosi sono molecole chimiche che penetrano nelle


cavità nasali insieme all’aria e si sciolgono nel muco che ricopre
l’epitelio olfattivo. L’epitelio olfattivo è il tessuto sensoriale per
l’odorato che riveste la volta delle cavità nasali: esso contiene le
terminazioni sensoriali di circa 6 milioni di neuroni olfattivi (Figura 1).
Ogni terminazione contiene numerosi recettori (anche detti ciglia), i
quali sono costituiti da grandi proteine inserite nella membrana
cellulare in grado di legare specifiche molecole di odoranti (sostanze
odorose). Il legame della molecola di odorante sul recettore produce una
serie di cambiamenti strutturali ed elettrici nella membrana che a loro
volta innescano i potenziali d’azione nell’assone del neurone. Quanto
più alto è il numero di recettori attivati dal legame con le molecole
odorose, tanto più alta è la frequenza dei potenziali d’azione lungo
l’assone dei neuroni olfattivi.

Figura 1. Illustrazione del sistema olfattivo umano

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 12
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi II:
L’olfatto

Il nervo olfattivo è composto dagli assoni di circa 350 tipi diversi


di neuroni olfattivi, ognuno dei quali possiede dei recettori di forma
caratteristica a livello dell’epitelio olfattivo. Un dato recettore è in
grado di legarsi a più odoranti, ma una determinata molecola di
odorante si legherà più velocemente a certi tipi di recettori piuttosto
che ad altri: quindi, ogni singolo neurone olfattivo differisce dagli altri
nel suo grado di sensibilità per particolari odoranti. Gli assoni dei
neuroni olfattivi raggiungono il bulbo olfattivo nel cervello, dove
formano delle sinapsi con altri neuroni a livello di strutture chiamate
glomeruli (Figura 2). L’organizzazione del bulbo olfattivo è
estremamente ordinata, in quanto esiste un diverso glomerulo
ricevente per ognuno dei 350 tipi di neuroni olfattivi.

Figura 2. Struttura del bulbo olfattivo e dei glomeruli

Come tutti gli altri sensi, l’utilità dell’olfatto risiede nella sua
capacità di codificare, e quindi mantenere, l’informazione quantitativa
e qualitativa contenuta negli stimoli odorosi. In particolare, gli studi

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 12
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi II:
L’olfatto

condotti sull’olfatto suggeriscono che ogni odorante produce uno


specifico pattern di attività neurale nei 350 tipi di neuroni olfattivi e
nei rispettivi glomeruli. Questo significa, per esempio, che un odorante
X produrrà un’attività intensa nei glomeruli di tipo A, un’attività
moderata nei glomeruli di tipo B, e un’attività bassa nei glomeruli di
tipo C. I ricercatori hanno scoperto che il rapporto tra l’attività dei vari
tipi di glomeruli indica al cervello il tipo di sostanza odorosa che è stata
percepità (codifica della qualità). Inoltre, l’attività totale di tutti i
glomeruli indica al cervello invece la quantità della sostanza odorosa
(codifica della quantità): ad una maggiore quantità di sostanza odorosa
corrisponde quindi una maggiore attività totale dei glomeruli.
I glomeruli del bulbo olfattivo inviano proiezioni nervose a
diverse aree del cervello e in primo luogo alla corteccia olfattiva
primaria o corteccia piriforme, localizzata sulla faccia ventrale del lobo
temporale, la quale a sua volta comunica con la corteccia orbitofrontale
(area olfattiva secondaria): queste due aree sono essenziali per
l’esperienza conscia degli odori e per distinguere consapevolmente le
differenze tra essi. Inoltre, il bulbo olfattivo presenta delle connessioni
molto forti con le strutture del sistema limbico e dell’ipotalamo: ciò
indica che l’olfatto svolge un ruolo fondamentale nelle pulsioni e nel
controllo degli stati motivazionali ed emozionali. In effetti, l’influenza
dell’olfatto sui processi emotivi è in molti casi superiore rispetto a
quella esercitata dalla ragione. Si pensi agli effetti positivi che
producono i cioccolatini, i profumi o i fiori, e agli effetti negativi causati
dal puzzo delle feci o della carne guasta.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 12
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi II:
L’olfatto

2. OLFATTO E PSICOLOGIA I

Le molecole odorose raggiungono l’epitelio olfattivo attraverso


due vie: dalle narici oppure dalla bocca attraverso il canale nasofaringe,
il quale connette la parte posteriore del cavo orale con le cavità nasali
(è questa seconda via che ci permette di ‘sentire’ l’odore dei cibi
introdotti in bocca; Figura 3). Ciò che noi chiamiamo ‘gusto’ (o ‘sapore’)
non dipende soltanto dall’attività dei recettori gustativi, ma in misura
notevole anche dall’attività dei neuroni olfattivi. Tappandosi le narici
con una mano si bloccano entrambe le vie che portano gli stimoli
all’epitelio olfattivo, in quanto l’aria esterna non può più entrare nelle
cavità nasali; inoltre, l’aria che era già all’interno del naso non può
uscire dalle narici e ciò blocca la via bocca-naso. In effetti, molti
esperimenti dimostrano che in queste condizioni la capacità delle
persone di riconoscere cibi e bevande dal loro sapore si riduce
notevolmente.

Figura 3. Anatomia dell’olfatto: cavità nasale e nasofaringe

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 12
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi II:
L’olfatto

In generale esistono ampie differenze individuali nella


sensibilità olfattiva. Le donne sono mediamente più sensibili degli
uomini agli odori e molte donne diventano particolarmente sensibili
durante la gravidanza. In entrambi i sessi, la capacità olfattiva declina
con l’età: a 65 anni, circa l’11% delle donne e il 25% degli uomini
presentano un serio deficit olfattivo, mentre a 85 anni le percentuali
salgono al 60% e 70%. Molte persone anziane lamentano la perdita
della capacità di sentire i sapori dei cibi, ma i test dimostrano che
solitamente il deficit riguarda l’olfatto (e non il gusto).
La sensibilità olfattiva è anche determinata da differenze
genetiche: infatti, molte persone sono incapaci di sentire odori che altri
soggetti percepiscono facilmente. Ciò sembra essere dovuto a fattori
genetici che influenzano la produzione di specifici tipi di recettori a
livello dei neuroni olfattivi. Uno dei casi più studiati è l’androstenone
(un derivato del testosterone). Nell’uomo, il gene che codifica la
proteina che funge da recettore dell’androstenone esiste in tre varianti.
I soggetti che hanno la variante più comune percepiscono un odore forte
e disgustoso; i soggetti che hanno la seconda variante trovano l’odore
debole e leggermente piacevole; infine, i portatori della variante meno
comune di tutte non sono in grado di avvertire l’odore di tale sostanza.
Infine, la sensibilità agli odori dipende molto dall’esperienza.
Dopo essere state sottoposte a numerose prove, le persone possono
apprendere a individuare particolari odori ad una concentrazione molto
più bassa di quella iniziale. In molti esperimenti, l’aumento della
sensibilità (ovvero l’abbassamento della soglia assoluta) con il ripetersi
delle prove si verificava soprattutto nelle donne, ma non negli uomini;
in altri studi l’aumento della sensibilità riguardava solo le donne in età
fertile (non le donne prepuberi o in postmenopausa). Questi risultati
confermano l’ipotesi che nelle donne l’olfatto potrebbe svolgere funzioni

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 12
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi II:
L’olfatto

essenziali collegate alla riproduzione (esso potrebbe essere coinvolto


nella scelta del partner sessuale, nella creazione del legame di
attaccamento con il bambino o nell’evitamento di sostanze tossiche
durante la gravidanza).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 12
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi II:
L’olfatto

3. OLFATTO E PSICOLOGIA II

Molti animali (ad esempio, i cani) riconoscono gli altri individui


della loro specie (ma anche di altre specie) in base all’odore. La cultura
contemporanea è molto ‘odorfobica’, per cui noi siamo spesso riluttanti
ad ammettere il ruolo degli odori. Tuttavia, alcuni esperimenti
dimostrano in maniera inequivocabile che anche gli esseri umani sono
in grado di identificare le persone dall’odore. In questi esperimenti si
chiede ai soggetti di portare per un giorno intero, senza lavarsi o usare
deodoranti, una maglietta: poi si chiede ad altri soggetti di identificare
chi l’aveva portata. I risultati indicano in maniera molto chiara che i
genitori sono in grado di identificare quale dei loro figli ha indossato la
maglietta, che i bambini sono in grado di distinguere tra i loro fratelli
e sorelle, e, più in generale, che le persone riescono a distinguere tra
due estranei in base all’odore.
In alcune specie di mammiferi, come le capre, il riconoscimento
dell’odore è una componente cruciale del legame che si stabilisce fra la
madre e i piccoli. Alcune evidenze sperimentali suggeriscono che, anche
nell’uomo, l’odore sembra avere un ruolo nello stabilirsi del legame di
attaccamento tra madre e bambino. In particolare, in un esperimento
condotto nel reparto maternità di un ospedale i ricercatori trovarono
che le madri che erano state in contatto con i loro bambini per 10-60
minuti erano in grado di riconoscere la maglia indossata dal loro
bambino fra centinaia di altre maglie con una accuratezza pari a circa
il 90% dei casi. In un altro studio, i risultati dimostrarono che neonati
di 6 giorni allattati al seno giravano la testa costantemente verso un
pezzo di stoffa che era stato premuto contro il seno della loro madre,

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 12
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi II:
L’olfatto

quando dovevano scegliere tra quel pezzo di stoffa e un altro identico


premuto contro il senso di un’altra donna in allattamento.
Alcune ricerche suggeriscono che l’odore potrebbe influenzare la
scelta del partner negli esseri umani. È ben noto che i topi preferiscono
accoppiarsi con individui il cui odore è il più differente possibile dal
proprio. In questi animali, le differenze di odore sono determinate da
un pool di circa 50 geni noti col nome di complesso maggiore di
istocompatibilità, i quali determinano anche la natura delle cellule
immunitarie che riconoscono le sostanze estranee e uccidono gli agenti
patogeni. Questo significa che, scegliendo partner molto diversi da loro
per l’odore, i topi si assicurano di accoppiarsi con individui che
aggiungeranno una quota considerevole di nuova variabilità genetica
nella produzione di cellule immunitarie da parte della progenie, la
quale avrà quindi una maggiore probabilità di sopravvivere. Il
complesso maggiore di istocompatibilità esiste anche nell’uomo e
sembra avere un qualche ruolo nella scelta del partner. Per esempio, in
una serie di esperimenti si chiedeva ai soggetti di assegnare un
punteggio di ‘gradevolezza’ (o di ‘sex appeal’) all’odore di magliette
indossate da persone del sesso opposto; il risultato fu che l’odore di una
maglietta fu giudicato più gradevole dai soggetti che più differivano
dalla persona che l’aveva indossata rispetto al complesso di
istocompatibilità. Altri esperimenti condotti su giovani coppie hanno
indicato che le donne più differenti rispetto al partner per il complesso
di istocompatibilità erano più interessate all’attività sessuale con il
compagno e le meno disposte a tradire. Al contrario, i desideri sessuali
degli uomini non mostravano alcuna correlazione con le differenze
genetiche nel complesso di istocompatibilità.
I mammiferi producono diversi tipi di feromoni – ovvero,
sostanze chimiche che agiscono sugli altri membri della stessa specie

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 12
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi II:
L’olfatto

in modo da provocare specifici comportamenti. Queste sostanze sono


coinvolte in una varietà di funzioni, tra cui l’attrazione sessuale e la
demarcazione del territorio e sono così importanti che, nelle cavità
nasali della maggior parte dei mammiferi, è presente una struttura
chiamata organo vomeronasale che contiene recettori specializzati nel
riconoscimento dei feromoni. Gli esseri umani hanno ghiandole che
secernono diverse sostanze odorose (compresi alcuni steroidi),
soprattutto nella regione ascellare e genitale; inoltre, possediamo un
organo vomeronasale molto rudimentale. In parte in risposta alle
pressioni esercitate dalle industrie che producono cosmetici e profumi,
i ricercatori hanno condotto numerosi esperimenti in cui è stato chiesto
ai soggetti di giudicare il grado di attrazione prodotto da vari tipi di
secrezioni prodotte da individui del sesso opposto: i risultati di questi
esperimenti sono nel complesso deludenti, in quanto non è stata
individuata alcuna secrezione in grado di attrarre costantemente
soggetti del sesso opposto (certamente alcune persone trovano piacevoli
certe sostanze prodotte da altre persone, ma le differenze individuali
sono così ampie da oscurare l’individuazione di pattern stabili).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 12
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi II:
L’olfatto

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014). Psicologia


generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 12
PROCESSI
SENSORIALI E
PERCETTIVI III: IL
GUSTO E L’UDITO
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi III:
Il gusto e l’udito

Indice

1. IL GUSTO ....................................................................................... 3

2. L’UDITO I ....................................................................................... 6

3. L’UDITO II .................................................................................... 11

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 15

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 15
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi III:
Il gusto e l’udito

1. IL GUSTO

I recettori del gusto non sono localizzati su neuroni sensoriali


(come accade per l’odorato), ma su cellule specializzate, dette cellule
gustative. Queste cellule formano strutture globulari, i calici gustativi,
contenenti tra 50 e 100 cellule gustative (Figura 1). All’apice di ogni
cellula gustativa vi sono numerose estensioni sensoriali simili a ciglia
che contengono i siti di legame per le sostanze introdotte nella bocca e
successivamente disciolte nella saliva. Il legame con tali sostanze
produce un potenziale d’azione nella cellula gustativa, il quale a sua
volta produce un potenziale d’azione nei neuroni sensoriali gustativi.
Gli esseri umani possiedono, in media, da 2000 a 10000 calici
gustativi situati sulla lingua, sul palato e all’ingresso della gola: in
generale, le persone che possiedono un maggior numero di calici
gustativi hanno anche una maggiore sensibilità ai sapori, soprattutto
a quelli amari.

Figura 1. Illustrazione di un calice gustativo

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 15
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi III:
Il gusto e l’udito

Per molto tempo, gli scienziati hanno ritenuto che le cellule


gustative fossero in grado di riconoscere quattro gusti fondamentali:
dolce, salato, acido e amaro. Recentemente, sono stati scoperti recettori
e aree cerebrali che rispondono in modo selettivo al glutammato
monosodico, una sostanza molto usata nella cucina asiatica come
esaltatore della sapidità. Il gusto prodotto dal glutammato monosodico
viene chiamato umami (‘saporito’ o ‘delizioso’) dagli scienziati
giapponesi ed è una delle componenti principali del sapore di cibi ricchi
di proteine (carne, pesce, formaggio). In seguito a queste scoperte, oggi
anche gli studiosi occidentali parlano di cinque gusti primari e di
altrettanti tipi di recettori.
I neuroni sensoriali gustativi proiettano all’area gustativa
primaria, localizzata nell’insula (una regione situata in profondità nel
solco che separa il lobo parietale da quello temporale). All’interno di
quest’area, le connessioni sono organizzate in modo ordinato, in quanto
gruppi diversi di neuroni rispondono in maniera selettiva a ciascuno
dei cinque gusti primari. La stimolazione dell’area gustativa primaria
produce sensazioni gustative anche in assenza di stimoli reali sulla
lingua. Inoltre, le persone con lesioni in quest’area perdono la capacità
dell’esperienza conscia dei sapori. L’area gustativa primaria proietta a
sua volta alla corteccia orbitofrontale, dove le connessioni neurali per
il gusto e l’odorato si mescolano, producendo la sensazione mista che
noi chiamiamo ‘sapore’.
Dal punto di vista evolutivo, la funzione del gusto è motivare un
individuo a mangiare alcuni cibi e non altri. Il dolce, il salato e l’umami
sono gusti piacevoli e producono sensazione che nel corso
dell’evoluzione sono state associate a sostanze ‘buone’ per essere usate
come alimenti. Ad esempio, i cibi dolci contengono zuccheri, i quali
erano certamente una valida fonte di energia per i nostri antenati. Al

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 15
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi III:
Il gusto e l’udito

contrario, l’amaro e l’acido sono gusti spiacevoli e producono sensazione


che nel corso dell’evoluzione sono state associate a sostanze a sostanze
nocive o velenose. Ad esempio, mangiare cibi in decomposizione può
causare malesseri anche gravi: il fatto di aver sviluppato un sistema
gustativo che esperisce le sostanze acide come spiacevoli ha quindi un
elevato valore adattivo che aumenta le probabilità di sopravvivenza
dell’individuo. Non è certo un caso che le cellule gustative umane
contengano 25 tipi diversi di recettori per l’amaro, in grado di legare la
gran parte delle sostanze tossiche presenti in natura.
Nella specie umana, le donne sono in genere più sensibili degli
uomini al gusto amaro, e la loro sensibilità aumenta ulteriormente
durante i primi tre mesi di gravidanza, probabilmente perché il feto
umano è molto sensibile ai danni provocati da sostanze tossiche, anche
in piccole quantità: dunque, evitare l’ingestione di sostanze di questo
tipo aumenta la probabilità di lasciare una progenie numerosa. Anche
i bambini piccoli sono molto sensibili al gusto amaro, il che spiega,
almeno in parte, perché sia così difficile abituarli a mangiare verdure
nutrienti ma leggermente amare (come gli spinaci). Dal punto di vista
evolutivo, è verosimile ritenere che tale sensibilità si sia evoluta allo
scopo di aiutare i bambini a proteggersi dall’ingestione di sostanze
nocive nelle prime fasi dello sviluppo, quando ancora non hanno
sviluppato la capacità di distinguere ciò che è sicuro mangiare da ciò
che non lo è.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 15
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi III:
Il gusto e l’udito

2. L’UDITO I

Il suono consiste nella vibrazione dell’aria (ovvero il movimento


di molecole di aria avanti e indietro) prodotta da un oggetto e viene
rappresentato come un’onda di pressione. L’altezza dell’onda è la
pressione massima esercitata dalle molecole di aria: è chiamata
ampiezza (o intensità) del suono e corrisponde a ciò che noi percepiamo
come volume del suono (suono forte vs. debole). L’ampiezza di un suono
si misura in unità logaritmiche della pressione chiamate decibel. La
velocità con cui le molecole di aria si spostano avanti e indietro
rappresenta la frequenza del suono e corrisponde a ciò che noi
percepiamo come tonalità (tono grave vs. acuto): la sua unità di misura
è l’hertz – ovvero, il numero di onde generate da una fonte sonora in un
secondo.
Come illustrato nella Figura 2, ogni onda sonora comprende aree
in cui le molecole di aria sono molto compresse (corrispondenti alle zone
scure nel diagramma) e aree in cui lo sono meno (corrispondenti alle
zone chiare nel diagramma). In ogni onda, il valore di picco indica
l’intensità del suono, mentre il numero di onde per unità di tempo
rappresenta la frequenza.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 15
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi III:
Il gusto e l’udito

Figura 2. Caratteristiche fisiche delle onde sonore

Dal punto di vista strutturale, l’organo di senso deputato alla


ricezione e alla codifica dei suoni è l’orecchio, il quale può essere
suddiviso in orecchio esterno, orecchio medio e orecchio interno.
L’orecchio esterno è costituito dal padiglione auricolare (ovvero il lembo
di pelle e cartilagine che forma la porzione visibile dell’orecchio) e dal
condotto uditivo, un canale che si dirige verso l’interno del cranio e
termina con la membrana timpanica. L’orecchio esterno può essere
considerato come una sorta di imbuto che raccoglie le onde sonore e le
incanala verso l’interno della testa. Le vibrazioni dell’aria esterna
producono analoghe vibrazioni dell’aria all’interno del canale uditivo, e
ciò a sua volta fa vibrare la membrana del timpano.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 15
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi III:
Il gusto e l’udito

Figura 3. Struttura dell’orecchio medio

L’orecchio medio (illustrato nella Figura 3) è costituito da tre


ossicini (detti martello, incudine e staffa per le loro forme
caratteristiche) i quali formano un ponte tra la membrana timpanica e
la finestra ovale. La vibrazione del timpano fa sì che la catena di
ossicini inizi a vibrare in sintonia e trasmetta la vibrazione alla finestra
ovale. Poiché la superficie della finestra ovale è molto inferiore rispetto
a quella della membrana timpanica, la pressione convogliata dagli
ossicini è circa 30 volte superiore alla pressione esercitata sul timpano.
Quindi la funzione dell’orecchio medio è quella di amplificare la
pressione meccanica esercitata dalle onde sonore.
Infine, l’orecchio interno (illustrato nella Figura 4) è costituito
dalla chiocciola o coclea, una struttura a spirale formata da un dotto
esterno che inizia dalla finestra ovale, arriva fino all’apice della
chiocciola e poi ridiscende per terminare su un’altra membrana, la
finestra rotonda. All’interno del dotto esterno è contenuto il dotto
interno: il pavimento di questo secondo dotto ospita la membrana
basilare, sulla quale si trovano i recettori uditivi, detti cellule ciliate.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 15
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi III:
Il gusto e l’udito

Dalle cellule ciliate sporgono nel dotto interno sottili prolungamenti,


detti ciglia, che terminano nella membrana tettoria. Inoltre, nella
membrana basilare ogni cellula ciliata entra in contatto con vari
neuroni uditivi, i cui assoni danno origine al nervo acustico.

Figura 4. Struttura dell’orecchio interno

Il processo di trasduzione del suono in impulsi nervosi avviene a


livello dell’orecchio interno, in particolare nella chiocciola (o coclea). In
breve, la vibrazione della finestra ovale viene trasmessa al fluido
contenuto nel dotto esterno, dove fa ondeggiare la membrana basilare
(la quale è molto elastica) in su è in giù. Al contrario della membrana
basilare, la membrana tettoria è piuttosto rigida: la conseguenza di
questa rigidità è che il movimento ondulatorio della membrana
basilare causa uno schiacciamento delle ciglia, le quali si piegano. Il
ripiegarsi delle ciglia causa l’apertura di alcuni canali ionici nella
membrana del recettore e ciò innesca una variazione di carica elettrica
tra i due lati della membrana. Tale variazione è nota con il termine
‘potenziale di recettore’: esso causa, a sua volta, il rilascio di

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 15
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi III:
Il gusto e l’udito

neurotrasmettitori nelle sinapsi con i neuroni uditivi, nei quali si


genera di conseguenza un potenziale d’azione.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 15
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi III:
Il gusto e l’udito

3. L’UDITO II

Negli anni 20 del Novecento, Georg von Békésy eseguì alcuni


studi volti ad esaminare la capacità delle cellule recettrici situate sulla
membrana basilare di rispondere in maniera differenziale alle diverse
frequenze dei suoni. Questo studioso scoprì che le onde sonore che
entrano nella coclea provocano la formazione di onde viaggianti che si
propagano lungo la membrana basilare, la quale si muove come un
lenzuolo scosso a uno solo dei suoi capi. Mentre avanza, l’onda sonora
aumenta di ampiezza fino a raggiungere un massimo (picco), dopo di
che si dissipa. La principale scoperta di Békésy fu che la posizione in
cui l’onda raggiunge il picco di ampiezza dipende dalla frequenza del
suono: i suoni con frequenza elevata producono onde che viaggiano
sulla membrana basilare per distanze brevi (ovvero, formano il picco in
prossimità della finestra ovale), mentre suoni a bassa frequenza
producono onde che viaggiano per distanze più lunghe (ovvero, formano
il picco in prossimità della finestra rotonda). Sulla base di questi dati,
Békésy ipotizzò che il cervello umano interpreti:
• come un suono di tonalità alta (acuto) una rapida scarica dei
neuroni connessi alla porzione prossimale della membrana
basilare, a fronte di un’attività scarsa o nulla dei neuroni
connessi con le regioni più distanti della membrana;
• come un suono di tonalità bassa (grave) una rapida scarica
dei neuroni connessi alla porzione distale della membrana
basilare, a fronte di un’attività scarsa o nulla dei neuroni
connessi con le regioni prossimali della membrana.
Queste ipotesi furono successivamente confermate da un gran
numero di studi eseguiti in vivo. Tra le altre cose, la risposta

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 15
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi III:
Il gusto e l’udito

differenziale della membrana basilare alle differenti frequenze dei


suoni consente di spiegare diversi fenomeni, tra cui l’asimmetria del
mascheramento acustico: con questo termine ci si riferisce al fatto che
i suoni a bassa frequenza mascherano quelli ad alta frequenza molto
meglio di quanto non succeda nel caso opposto. La spiegazione più
plausibile è che l’onda prodotta dal suono ad alta frequenza (acuto) non
può interferire con l’effetto prodotto dal suono a bassa frequenza
(grave) nelle porzioni distali della membrana basilare, poiché la sua
onda non arriva così lontano – infatti, essa raggiunge il picco nelle
porzioni prossimali della membrana.
I neuroni uditivi inviano segnali ai nuclei del tronco encefalico, i
quali a loro volta li inviano alla corteccia uditiva primaria (situata nel
lobo temporale). La corteccia uditiva ha un’organizzazione tonotopica:
ogni neurone produce la massima risposta per suoni di una specifica
frequenza e i neuroni che rispondono a toni ad alta e bassa frequenza
sono localizzati in estremità opposte della corteccia. L’elaborazione
delle informazioni uditive non è limitata alla corteccia uditiva, in
quanto essa proietta in un’area del lobo parietale detta solco
intraparietale. Il solco intraparietale è coinvolto sia nella percezione
della musica che nella percezione dello spazio: infatti, diversi
esperimenti hanno dimostrato che le persone che forniscono prestazioni
scarse in un test di discriminazione tra note musicali hanno prestazioni
scarse anche in test di rotazione mentale.
L’utilità dell’udito consiste soprattutto nella capacità di
localizzare la posizione di una sorgente sonora. Tale capacità si basa in
gran parte sulla differenza di tempo impiegata dall’onda sonora per
raggiungere ciascun orecchio. Alcuni neuroni del tronco encefalico
rispondono con forza alle onde che raggiungono i due orecchi
simultaneamente e che sono quindi prodotte da fonti sonore

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 15
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi III:
Il gusto e l’udito

esattamente poste di fronte all’uditore. Altri neuroni del tronco


encefalico sono invece più sensibili alle onde che presentano
un’asincronia nei tempi di arrivo alle due orecchie: questi neuroni
fanno probabilmente parte del meccanismo che consente al cervello di
identificare la direzione da cui proviene un suono.
In alcune situazioni, il sistema uditivo produce la percezione di
suoni che in realtà non esistono come stimoli fisici. Un’illusione uditiva
molto nota è la cosiddetta interpolazione di fonemi: si tratta di un
fenomeno per cui le persone odono dei fonemi (vocali o consonanti) che
sono stati eliminati come se fossero presenti in parole e frasi. Ad
esempio, in un esperimento condotto in lingua inglese, gli studiosi
sostituivano il suono di una s con un colpo di tosse nel punto
contrassegnato da un asterisco nella frase: The state governors met
with their respective legi*latures convening in the capital city [I
governatori degli stati si riunirono con i rispettivi organi legislativi
convenendo nella capitale]. I soggetti a cui fu fatto ascoltare la frase
udirono il colpo di tosse, ma non ebbero la sensazione che esso
eliminasse un preciso suono; e anche dopo numerose prove, non erano
in grado di identificare il fonema mancante. Come ci si può attendere,
studi successivi hanno dimostrato che il fenomeno è particolarmente
comune per le parole che il soggetto si aspetta di udire nella frase in
esame. Un modo per spiegare l’illusione parte dalla considerazione che
i suoni che udiamo nella vita normale sono sempre mascherati da
rumore: l’interpolazione potrebbe quindi essere un meccanismo
adattivo che ci consente di estrarre il significato del discorso anche in
condizioni molto rumorose. Quando un rumore maschera un fonema, il
nostro sistema uditivo ci permette comunque di sentire sequenze di
suoni dotate di significato: per fare ciò, il sistema sostituisce al suono
mancante il fonema che, in base alla nostra precedente esperienza

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 13 di 15
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi III:
Il gusto e l’udito

uditiva, è il più adatto a occupare quella posizione. In conclusione, il


fenomeno dell’interpolazione di fonemi illustra molto bene il principio
generale che i nostri sistemi percettivi spesso modificano l’input
sensoriale per agevolare l’estrazione del suo significato.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 14 di 15
Universitas Mercatorum Processi sensoriali e percettivi III:
Il gusto e l’udito

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 15 di 15
DOLORE,
TATTO ED
EQUILIBRIO
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Dolore, tatto ed equilibrio

Indice

1. IL DOLORE .................................................................................... 3

2. MODULAZIONE DEL DOLORE ................................................. 6

3. TATTO, POSIZIONE ED EQUILIBRIO .................................. 10

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 13

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 13
Universitas Mercatorum Dolore, tatto ed equilibrio

1. IL DOLORE

Il dolore è un senso somatico in quanto, al pari del tatto e della


propriocezione, i suoi recettori sono distribuiti su tutto il corpo (non
sono concentrati all’interno di specifici organi di senso). Inoltre, le
sensazioni che proviamo quando vediamo qualcosa o ascoltiamo una
musica sembrano provenire dall’esterno di noi (ad esempio, dall’oggetto
che stiamo vedendo); al contrario, le sensazioni associate al dolore
sembrano provenire dall’interno del nostro corpo. Il dolore non è solo
sensazione, ma anche emozione: come tale, esso ha una propria
espressione facciale caratteristica. Infin, il dolore è anche una pulsione
che motiva la persona sia a cercare di ridurne l’intensità sia ad evitare
(in futuro) i comportamenti che lo hanno provocato. Il valore evolutivo
del dolore è tragicamente dimostrato dai casi di persone portatrici di
un difetto genetico che le priva della sensibilità al dolore. Queste
persone non sono in grado di sentire il dolore conseguente ad un trauma
o ad una ferita – ad esempio, non sono motivati a ritirare la mano da
una stufa che scotta e non percepiscono il dolore provocato dal mordersi
la lingua. La conseguenza di tale patologia è che spesso i pazienti
muoiono in giovane età a causa delle complicazioni provocate dalle
ferite che essi stessi si procurano.
I recettori per il dolore sono i neuroni sensoriali stessi, i quali
hanno terminali recettivi nella pelle e inviano i loro lunghi assoni al
sistema nervoso centrale. Questi terminali non sono avvolti da capsule
né sono contenuti in organi specifici (come avviene per i recettori tattili
e termici): sono infatti chiamati terminazioni libere e si trovano nella
pelle, nella polpa dentaria (da cui proviene il mal di denti), nei muscoli
(con i conseguenti crampi e dolori muscolari), nelle membrane che

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 13
Universitas Mercatorum Dolore, tatto ed equilibrio

circondano ossa e giunture (da cui derivano i classici dolori artritici) e


nei visceri (di qui il mal di stomaco).
La risposta al dolore è mediata da due diversi tipi di neuroni
sensoriali:

 le fibre C, le quali sono costituite da neuroni con fibre


molto sottili, amieliniche, a lenta conduzione degli
impulsi;
 le fibre A-delta, le quali sono costituite da neuroni con
fibre leggermente più grosse, mieliniche, a conduzione
veloce;
 In effetti, una bruciatura o una ferita sulla pelle
provocano due tipi di dolore:
 un dolore immediato o primario, acuto e ben localizzato,
che è mediato dalle fibre veloci A-delta;
 e un dolore tardivo o secondario, sordo, bruciante, più
diffuso e duraturo, che è mediato dalle fibre lente C.

I neuroni sensoriali del dolore inviano i loro assoni al midollo


spinale e al tronco encefalico, dove terminano su appositi interneuroni.
Alcuni di questi interneuroni promuovono risposte riflesse, come il
ritiro automatico della mano da una fonte di calore. Altri interneuroni,
invece, inviano i loro assoni al talamo, il quale a sua volta ritrasmette
gli impulsi alle regioni cerebrali coinvolte nell’esperienza conscia del
dolore, caratterizzata da tre componenti distinte. In generale, vi sono
tre componenti nell’esperienza psicologica del dolore, ognuna delle
quali dipende da una specifica regione del cervello:

 La componente sensoriale dipende dalla corteccia


somatosensoriale ed è cruciale per percepire il dolore,

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 13
Universitas Mercatorum Dolore, tatto ed equilibrio

descriverne intensità e qualità, e per localizzarlo nel


corpo.
 La componente emozionale e motivazionale primaria
dipende da alcune aree del sistema limbico (in particolare,
la corteccia del cingolo e l’insula). Lesioni in queste aree
producono asimbolia per il dolore, un raro disturbo in cui
la persona percepisce l’intensità e la localizzazione del
dolore ma non prova il normale bisogno di evitarlo.
 La componente emozionale e motivazionale secondaria
comprendere la preoccupazione per il futuro o
l’interrograsi sul significato della sofferenza e dipende
soprattutto dipende dalla corteccia prefrontale. Le
persone con lesioni in quest’area percepiscono il dolore e
rispondono ad una minaccia immediata, ma non
utilizzano tali esperienze per pianificare comportamenti
atti ad evitarlo o più in generale per programmare la loro
esistenza.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 13
Universitas Mercatorum Dolore, tatto ed equilibrio

2. MODULAZIONE DEL DOLORE

L’esperienza del dolore dipende da molti fattori: una ferita della


stessa gravità può produrre un dolore terribile in alcune circostanze ed
essere a malapena avvertita in altre condizioni. La teoria del cancello
(proposta da Melzack e Wall nel 1965) propone che l’esperienza
soggettiva del dolore dipende dal grado con cui le informazioni
provenienti dai neuroni sensoriali riescono a passare attraverso un
‘cancello neurale’, per poi arrivare al sistema nervoso centrale che
controlla la sensazione del dolore. Il punto cruciale è che vari fattori
interni ed esterni (ambientali) possono facilitare l’apertura del cancello
(aumentando la sensazione di dolore) oppure indurre la sua chiusura
(diminuendo la sensazione di dolore).

Figura 1. Illustrazione di un calice gustativo

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 13
Universitas Mercatorum Dolore, tatto ed equilibrio

A livello anatomico, il cancello principale è rappresentato dalla


prima stazione lungo la via del dolore nel sistema nervoso centrale.
Come accennato nel paragrafo precedente, i neuroni sensoriali del
dolore terminano su interneuroni di secondo ordine (nel midollo spinale
e nel tronco encefalico), i quali a loro volta inviano i loro assoni alle
strutture cerebrali superiori. La responsività degli interneuroni è
modulata da altri neuroni che intensificano o inibiscono la sensazione
del dolore, i cui assoni discendono dalle strutture cerebrali superiori
verso quelle inferiori (via inibitoria discendente: Figura 1). Gli effetti
prodotti da questi impulsi eccitatori o inibitori sugli interneuroni
costituiscono metaforicamente il cancello neurale.
Alcuni meccanismi di intensificazione del dolore agiscono a
livello ‘locale’ (ovvero, a livello dei neuroni sensoriali e degli
interneuroni). Ad esempio, è ben noto che la sensibilità al dolore può
aumentare in sedi specifiche del corpo in seguito a una ferita o a un
trauma: ciò è in parte dovuto a cambiamenti nelle terminazioni libere
delle fibre C e A-delta (e/o a un aumento nella sensibilità degli
interneuroni del midollo spinale e del tronco encefalico), innescati da
alcune sostanze chimiche rilasciate dalle cellule danneggiate. I neuroni
sensoriali sensibilizzati rispondono a stimoli molto più deboli di quelli
che li avrebbero attivati prima del trauma: la conseguenza è che anche
un tocco leggero su una regione della pelle ferita risulta molto doloroso.
È verosimile che tale meccanismo si sia evoluto per motivare le persone
a proteggere le parti del corpo danneggiate.
Altri meccanismi di modulazione del dolore dipendono
dall’intervento delle strutture superiori del sistema nervoso, le quali
inviano segnali discendenti agli interneuroni del midollo spinale e del
tronco encefalico. In particolare, uno dei centri neurali deputati
all’inibizione del dolore è la sostanza grigia periacqueduttale

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 13
Universitas Mercatorum Dolore, tatto ed equilibrio

(localizzata nel mesencefalo). L’effetto analgesico della morfina e di


altri oppiacei è in parte dovuto al fatto che essa si lega ai neuroni della
sostanza grigia periacqueduttale, aumentandone l’attività nervosa (e
quindi l’effetto inibitorio). Dal canto loro, il cervello, l’ipofisi e le
ghiandole surrenali producono le endorfine, una classe di sostanze
chimiche che hanno un’azione simile alla morfina. Le endorfine
producono i loro effetti analgesici sia diminuendo l’eccitabilità dei
neuroni sensoriali e degli interneuroni situati nel midollo spinale e nel
tronco encefalico sia aumentando l’attività inibitoria della sostanza
grigia periacqueduttale.
Sia gli esseri umani che gli animali sono forniti di un
meccanismo che consente di non percepire il dolore nei momenti in cui
la cosa migliore per la sopravvivenza è ignorarlo: questa diminuita
sensibilità è indicata col termine ‘analgesia da stress’. Tale meccanismo
sembra essere in gran parte mediato dal rilascio di endorfine. Ad
esempio, ratti sottoposti a scariche elettriche alle zampe mostrano per
alcuni minuti analgesia (ovvero una mancata reazione alla scossa): il
ruolo delle endorfine è dimostrato dal fatto che l’effetto non si verifica
dopo l’iniezione di una sostanza che blocca l’azione di questi
neurotrasmettitori. Negli esseri umani, le endorfine vengono secrete
anche durante uno sforzo fisico molto intenso. Ciò spiega la riduzione
del dolore e lo stato di euforia che provano alcuni atleti; anche in questo
caso, l’effetto non si verifica dopo la somministrazione di un farmaco
che blocca le endorfine.
Nell’uomo si assiste talvolta ad una drastica riduzione del dolore
anche per effetto delle credenze o della fede. Un esempio è l’effetto
placebo: in queste condizioni, una pillola o un’iniezione che non
contiene alcuna sostanza attiva può ridurre il dolore, se il soggetto che
la assume è convinto che si tratti di un antidolorifico. Anche l’effetto

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 13
Universitas Mercatorum Dolore, tatto ed equilibrio

placebo sembra dipendere dal rilascio di endorfine. Infatti, in un


esperimento, i soggetti a cui era stato somministrato un placebo prima
di un’estrazione dentaria riferirono di provare meno dolore: tuttavia,
questo effetto non si verificò nei soggetti ai quali era stato
contemporaneamente somministrato un farmaco che inibiva l’azione
delle endorfine.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 13
Universitas Mercatorum Dolore, tatto ed equilibrio

3. TATTO, POSIZIONE ED EQUILIBRIO

La percezione tattile scaturisce dalla esplorazione attiva


dell’ambiente fatta toccando e afferrando gli oggetti con le mani. La
ricerca su questo sistema sensoriale ha dimostrato che vi sono quattro
diversi tipi di recettori collocati sotto la superficie della pelle che ci
consentono di percepire la pressione, la tessitura, il pattern e la
vibrazione di un oggetto contro la pelle. Inoltre, i termorecettori sono
fibre nervose che rispondo ai cambiamenti della temperatura corporea
e ci consentono di sentire il freddo e il caldo.
La percezione del tatto comincia con la trasduzione delle
sensazioni della pelle in segnali neurali. Come le cellule della retina, i
recettori per il tatto hanno zone di eccitazione circondate da zone
inibitorie a forma di ciambella, la cui stimolazione provoca un
cambiamento nella risposta della cellula. La rappresentazione del tatto
nel cervello segue uno schema topografico, in cui le diverse
localizzazioni nel corpo inviano segnali ad aree diverse nella corteccia
somatosensoriale. Tale rappresentazione segue due principi
fondamentali. In primo luogo, il controllo della sensazioni tattili è
controlaterale, nel senso che la parte sinistra del corpo è rappresentata
nel lobo destro del cervello e viceversa. In secondo luogo, regioni più
estese della corteccia somatosensoriale corrispondono a porzioni della
superficie cutanea con maggiore sensibilità (la punta delle dita o le
labbra): in queste parti del corpo vi è una elevata densità di recettori
tattili, il che implica che la capacità di discriminare dettagli spaziali
fini sarà molto alta.
Un aspetto fondamentale della sensazione e della percezione è
che il corpo ha bisogno di percepire la propria posizione nello spazio

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 13
Universitas Mercatorum Dolore, tatto ed equilibrio

(ovvero, di sapere dove si trovano le diverse parti del corpo stesso). I


recettori sensoriali presenti nei muscoli, nei tendini e nelle
articolazioni forniscono le informazioni necessarie per percepire la
posizione e il movimento degli arti, della testa e del corpo. Da tali
recettori dipende anche il feedback che ci permette di eseguire
correttamente un movimento volontario o di adattare la forza del
movimento alla resistenza proveniente dagli oggetti: ad esempio,
quando si utilizza una mazza da baseball, il peso della mazza influisce
sulla forza con cui i muscoli muovono le braccia.
Mantenere l’equilibrio dipende soprattutto dal sistema
vestibolare, il quale è costituito da tre canali semicircolari pieni di
liquido e dagli organi adiacenti situati nei pressi della coclea
nell’orecchio interno. I canali semicircolari sono orientati in tre
direzioni perpendicolari tra loro e contengono una miriade di cellule
ciliate, le quali rilevano il movimento del fluido quando la testa si
muove (si veda la Figura 2).

Figura 1. Illustrazione di un calice gustativo

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 13
Universitas Mercatorum Dolore, tatto ed equilibrio

Oltre alle informazioni provenienti dal sistema vestibolare,


anche le informazioni visive contribuiscono a mantenere l’equilibrio. In
particolare, quando vi è uno sfasamento tra l’informazione fornita dalla
visione e il feedback vestibolare si genera una sensazione di malessere
dovuta al movimento (è il tipico effetto che si prova, ad esempio, quando
si prova a leggere stando seduti sul sedile posteriore di un auto in
movimento).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 13
Universitas Mercatorum Dolore, tatto ed equilibrio

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 13 di 13
LA VISIONE:
STRUTTURA
DELL’OCCHIO E
FOTORECETTORI
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum La visione: struttura
dell’occhio e fotorecettori

Indice

1. STRUTTURA DELL’OCCHIO ..................................................... 3

2. CONI E BASTONCELLI: DUE TIPI DI VISIONE ................... 6

3. LA VISIONE DEI COLORI ........................................................ 10

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 13

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 13
Universitas Mercatorum La visione: struttura
dell’occhio e fotorecettori

1. STRUTTURA DELL’OCCHIO

L’occhio umano (illustrato nella Figura 1) è costituito da un


bulbo oculare, pieno di una sostanza gelatinosa trasparente che viene
facilmente attraversata dalla luce. I fotorecettori sono localizzati nella
retina, una membrana che ricopre il fondo del bulbo oculare.
Le parti anteriori dell’occhio hanno la funzione di raccogliere e
mettere a fuoco la luce riflessa dagli oggetti, in modo tale da formare
immagini sulla retina. In particolare, la cornea è un tessuto
trasparente e convesso che contribuisce a far convergere la luce sul
fondo del bulbo oculare. Subito dietro la cornea si trova l’iride, un sottile
tessuto pigmentato a forma di ciambella che non è attraversato dalla
luce (è opaco) e determina il colore degli occhi.

Figura 1. Struttura dell’occhio umano

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 13
Universitas Mercatorum La visione: struttura
dell’occhio e fotorecettori

La luce entra nell’occhio attraverso la pupilla, la parte centrale


nera dell’iride le cui fibre muscolari sono in grado di aumentare il
diametro pupillare (consentendo ad una maggiore quantità di luce di
entrare nell’occhio) o di restringerlo (diminuendo la quantità di luce
che entra nell’occhio). Dietro l’iride, si trova il cristallino, il quale
partecipa al processo di focalizzazione e, a differenza della cornea, può
variare in diametro: esso diventa più sferico nella messa a fuoco di un
oggetto vicino e più appiattito nella messa a fuoco di un oggetto lontano.
Nel loro complesso, i meccanismi di messa a fuoco della cornea e del
cristallino fanno convergere i raggi luminosi in un punto particolare
della retina, formando un’immagine dell’oggetto esterno. Tuttavia,
occorre notare che l’immagine che si forma sulla retina è sempre
capovolta: le connessioni tra il cervello e la retina sono organizzate in
modo tale che la corteccia attribuisce i segnali provenienti dalla parte
inferiore della retina alle parti superiori della scena visiva e viceversa.
Il processo di trasduzione della luce in segnali nervosi è svolto
da due tipi di fotorecettori presenti sulla retina:

• i coni, i quali consentono la visione nitida e a colori degli


oggetti in condizioni di luce vivida;
• e i bastoncelli, i quali consentono la visione quando la luce
è debole.

I coni si concentrano nella fovea, una piccola area che


rappresenta la linea di focalizzazione più diretta della luce sulla retina
ed è specializzata per l’acuità visiva (ovvero la capacità di distinguere
i dettagli fini degli oggetti). La concentrazione dei coni diminuisce
molto con l’aumentare della distanza dalla fovea. I bastoncelli sono
invece distribuiti su tutta la retina tranne che nella fovea e sono

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 13
Universitas Mercatorum La visione: struttura
dell’occhio e fotorecettori

particolarmente concentrati in una porzione retinica ad anello situata


a circa 20 gradi dalla fovea.
Il segmento esterno di ogni fotorecettore contiene un pigmento
fotosensibile, ovvero una sostanza chimica che reagisce alla luce (nel
caso dei bastoncelli tale pigmento è la rodopsina). Quando viene colpito
dalla luce, il pigmento subisce una modificazione strutturale che a sua
volta innesca una variazione di potenziale elettrico tra le due facce
della membrana del recettore. La variazione elettrica nei fotorecettori
provoca a sua volta una serie di reazioni nelle altre cellule della retina
che culminano con la formazione di un potenziale d’azione nei neuroni
del nervo ottico, che dal fondo dell’occhio si dirige al cervello. Il punto
della retina da cui emergono gli assoni che formano il nervo ottico è
detto punto cieco, in quanto in questa zona vi è una totale assenza di
fotorecettori.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 13
Universitas Mercatorum La visione: struttura
dell’occhio e fotorecettori

2. CONI E BASTONCELLI : DUE TIPI DI VISIONE

I coni e i bastoncelli formano la base di due sistemi visivi distinti


(ma comunque interagenti) nell’occhio umano. In particolare, la visione
dovuta ai coni (visione fotopica o in luce diurna) è specializzata per
l’acuità visiva (ovvero, la distinzione dei dettagli fini degli oggetti) e per
la visione dei colori. D’altra parte, la visione dovuta ai bastoncelli
(scotopica o in luce notturna) è specializzata per la sensibilità (ovvero,
la capacità di vedere con luce debole). Se la luce è così debole da non
riuscire ad attivare i coni, l’unica forma di visione possibile è quella
dovuta ai bastoncelli, la quale permette di percepire la forma generale
degli oggetti ma non il colore o i loro particolari.
Uno dei problemi che il sistema visivo umano deve affrontare
consiste nella necessità di adattarsi alle enormi variazioni di intensità
luminose che si verificano nell’arco delle 24 ore. Come tutti sappiamo
per esperienza, l’occhio impiega un po’ di tempo per adattarsi a un
cambiamento di luminosità cospicuo e repentino. Con il termine
‘adattamento al buio’ ci si riferisce al graduale aumento della
sensibilità che si verifica dopo l’ingresso in una stanza buia
(soprattutto se si proviene da un ambiente ben illuminato), mentre con
il termine ‘adattamento alla luce’ ci si riferisce alla rapida diminuzione
di sensibilità che si verifica quando si esce alla piena luce solare
provenendo da un ambiente molto più buio. Tali adattamenti sono in
parte dovuti all’iride, la quale dilata la pupilla in condizioni di oscurità
(permettendo ad una maggiore quantità di luce di entrare nell’occhio)
e la restringe in condizioni di piena luce (diminuendo la quantità di
luce che entra nell’occhio). Tuttavia, il fattore che più contribuisce

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 13
Universitas Mercatorum La visione: struttura
dell’occhio e fotorecettori

all’adattamento è la differente sensibilità alla luce dei coni e dei


bastoncelli.
I bastoncelli (i quali contengono rodopsina) sono molto più
sensibili alla luce dei coni. In condizioni di luce piena, la rodopsina si
scinde in due composti inattivi e i bastoncelli cessano di funzionare –
ciò significa che la visione diurna è mediata quasi esclusivamente
dall’attività dei coni. Entrando in una stanza buia, in un primo
momento non si riesce a vedere nulla in quanto i bastoncelli sono
ancora inattivi e la luce è troppo debole per attivare i coni. Tuttavia,
dopo poco tempo al buio, la rodopsina si rigenera e i bastoncelli
riacquistano la loro sensibilità: la conseguenza è che gradualmente si
comincia a vedere meglio. Se a questo punto si decide di tornare alla
luce solare, si rimarrà inizialmente accecati, in quanto i bastoncelli
altamente sensibili risponderanno in maniera indiscriminata e col
massimo della forza. Ma nel giro di pochi minuti la rodopsina si
degrada nuovamente, lasciando spazio alla visione dovuta ai coni, i
quali, essendo molto meno sensibili dei bastoncelli, consentono al
soggetto di tornare a vedere normalmente.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 13
Universitas Mercatorum La visione: struttura
dell’occhio e fotorecettori

Figura 2. Differenze nel grado di convergenza dei coni e dei bastoncelli

Le differenze tra coni e bastoncelli sono anche dovute a


differenze nel modo in cui tali recettori sono connessi ai neuroni
cerebrali. In generale, i fotorecettori formano delle sinapsi sulle cellule
bipolari, che a loro volta formano delle sinapsi sulle cellule gangliari (i
cui assoni formano il nervo ottico). Il punto cruciale è che il grado di
convergenza nel passare dai bastoncelli alle cellule bipolari e alle
cellule gangliari è molto alto: ciò significa che molti bastoncelli
convergono su una stessa cellula bipolare, e molte cellule bipolari
formano sinapsi sulla stessa cellula gangliare (si veda la Figura 2 per
un’illustrazione del concetto di convergenza). Al contrario, i coni
mostrano una bassa convergenza: ciò significa che ogni recettore forma
sinapsi su una singola cellula bipolare, la quale a sua volta si connette
ad una singola cellula gangliare.
L’elevata convergenza dei bastoncelli aumenta la sensibilità
della visione con luce debole, in quanto l’attività di ogni cellula

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 13
Universitas Mercatorum La visione: struttura
dell’occhio e fotorecettori

gangliare sarà determinata dalla sommatoria dei segnali generati da


centinaia di bastoncelli. D’altra parte, tale convergenza fa diminuire
l’acuità, in quanto due punti luminosi vicini che eccitano la parte
periferica della retina (dove dominano i bastoncelli) saranno percepiti
come un’unica macchia luminosa indistinta. Nella fovea, invece, i
recettori predominanti sono i coni, per i quali la convergenza è bassa o
nulla: la conseguenza è che in questa zona si ha un aumento dell’acuità
visiva in quanto ogni singolo stimolo luminoso attiva una distinta via
nervosa (due punti luminosi vicini attivano cellule bipolari e gangliari
differenti).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 13
Universitas Mercatorum La visione: struttura
dell’occhio e fotorecettori

3. LA VISIONE DEI COLORI

La luce è una forma di energia elettromagnetica che può essere


descritta in termini di onde o di particelle. Le particelle sono dette
fotoni e si propagano nel vuoto in forma d’onda, ad una velocità di circa
300000 km/sec. Con il termine ‘lunghezza d’onda’ si intende la distanza
che i fotoni percorrono tra l’inizio di una pulsazione e l’inizio di quella
successiva (ovvero tra due picchi consecutivi dell’onda). Per gli esseri
umani, la gamma di lunghezze d’onda che compongono lo spettro
visibile è compresa tra 400 e 700 nm (Figura 3). Le onde di energia
elettromagnetica più corte (al di sotto dello spettro visibile)
comprendono i raggi ultravioletti e i raggi X, mentre le onde di energia
elettromagnetica più lunghe (al di sopra dello spettro visibile)
comprendono i raggi infrarossi e le onde radio.

Figura 3. Lo spettro elettromagnetico visibile dall’occhio umano

La luce bianca (quella del sole) è una combinazione di tutte le


lunghezze d’onda dello spettro visibile. Separando le diverse lunghezze
d’onda che compongono un fascio di luce bianca (ad esempio, facendolo

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 13
Universitas Mercatorum La visione: struttura
dell’occhio e fotorecettori

passare attraverso un prisma), l’effetto che si osserva è quello di un


arcobaleno. Ciò è dovuto al fatto che gli esseri umani percepiscono le
differenti lunghezze d’onda come colori diversi: procedendo dalle
lunghezze d’onda più corte a quelle più lunghe dello spettro visibile, i
colori che osserviamo sono il violetto, il blu, il verdazzurro, il verde, il
giallo-verde, il giallo, l’arancio e il rosso (si veda la Figura 3).
Gli oggetti ci appaiono di colori diversi in quanto contengono dei
pigmenti che assorbono la luce di particolari lunghezze d’onda,
impedendo che questa venga riflessa (e quindi percepita dai nostri
occhi). Ad esempio, un oggetto contenente dei pigmenti che assorbono
le onde corte e medie ci sembrerà rosso, in quanto solo le onde più
lunghe vengono riflesse e dunque percepite dai nostri occhi. In altre
parole, il principio fondamentale è che i pigmenti contenuti negli
oggetti creano la percezione del colore sottraendo dalla luce incidente
alcune lunghezze d’onda. Da questo principio discende anche che una
miscela di pigmenti è una combinazione sottrattiva di colori: così,
mescolando un pigmento blu (che assorbe le lunghezze d’onda lunghe)
con un pigmento giallo (che assorbe le lunghezze d’onda corte), ciò che
si ottiene sarà una miscela che apparirà verde, in quanto essa rifletterà
soltanto le lunghezze d’onda intermedie.
Il fenomeno opposto si verifica quando si mescolano tra loro luci
colorate, un processo noto come combinazione additiva di colori. Gia
dagli inizi del XVIII secolo, gli studiosi avevano scoperto che la
combinazione additiva di colori obbedisce a due principi:

• la legge delle tre primarie stabilisce che tre luci di lunghezza


d’onda rispettivamente lunga (rosso), intermedia (giallo-
verde) e corta (blu-violetto), mescolate nelle opportune
proporzioni, possono combinarsi in modo da riprodurre
qualsiasi colore visibile al’occhio umano;
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 13
Universitas Mercatorum La visione: struttura
dell’occhio e fotorecettori

• la legge della complementarità stabilisce che è possibile


trovare coppie di luci che, combinate insieme, producono la
percezione visiva del bianco (le luci di queste coppie sono
dette complementari).

Un fatto importante da comprendere è i fenomeni descritti dalle


leggi delle tre primarie e della complementarità corrispondono ad
eventi psicologici e non fisici. La combinazione delle lunghezze d’onda
di tre luci primarie, che produce un colore corrispondente a una quarta
lunghezza d’onda, non comporta la loro mescolanza fisica (ovvero, il
loro combinarsi non produce una lunghezza d’onda di quel colore). Un
apparecchio per la misurazione delle lunghezze d’onda non avrebbe
problemi a distinguere una luce, poniamo, di 550 nm dalla
combinazione di tre luci primarie che produce la percezione dello stesso
colore. Dunque, i fenomeni di corrispondenza dei colori, per cui noi
percepiamo come identici stimoli che nella realtà fisica sono diversi,
dipendono da processi che avvengono nell’occhio e nel cervello umano,
piuttosto che nella realtà fisica esterna.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 13
Universitas Mercatorum La visione: struttura
dell’occhio e fotorecettori

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014). Psicologia


generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 13 di 13
LA VISIONE:
COLORI, FORME E
CARATTERISTICHE
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum La visione: colori, forme
e caratteristiche

Indice

1. TEORIE CLASSICHE DELLA VISIONE DEI COLORI ......... 3

2. VISIONE DELLE FORME E DEI PATTERN ........................... 7

3. LA TEORIA DELL’INTEGRAZIONE DELLE


CARATTERISTICHE .................................................................. 11

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 15

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 15
Universitas Mercatorum La visione: colori, forme
e caratteristiche

1. TEORIE CLASSICHE DELLA VISIONE DEI


COLORI

Le due teorie classiche dei colori, entrambe sviluppate nel XIX


secolo, sono la teoria tricromatica dei colori e la teoria dei processi
antagonisti.
La teoria tricromatica dei colori propone che la visione dei colori
sia mediata dalla combinazione dell’attività neurali di tre differenti tipi
di recettori, ognuno dei quali sarebbe sensibile ad una diversa banda
di lunghezze d’onda. Originariamente proposta da Young e Helmholtz
sulla base dei soli dati comportamentali per spiegare la legge delle tre
primarie, la teoria tricromatica assume che ogni colore visibile sarebbe
il risultato di una specifica proporzione (rapporto) tra le attività neurali
di tre tipi di recettori. In altre parole, sarebbe possibile riprodurre
qualsiasi colore visibile variando l’intensità relativa di tre luci
primarie, ognuna delle quali esercita il suo massimo effetto su un tipo
diverso di recettore. Le odierne ricerche di fisiologia hanno confermato
l’esistenza di tre diversi tipi di coni nella retina, ognuno dotato di un
caratteristico pigmento che lo rende particolarmente sensibile alla luce
di una specifica banda di lunghezze d’onda; tali coni sono chiamati coni
del blu, coni del verde e coni del rosso, a seconda della sensazione
cromatica che si sperimenta quando un particolare tipo di cono è molto
più attivo degli altri due.
La Figura 1 illustra la risposta relativa dei tre tipi di coni a luci
di lunghezza d’onda diverse. Si può facilmente notare che ogni
lunghezza d’onda corrisponde ad uno specifico rapporto tra le attività
dei tre tipi di coni. Ad esempio, una luce di lunghezza d’onda pari a 550
nm (la quale appare ai nostri occhi di colore verde-giallastro) produce

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 15
Universitas Mercatorum La visione: colori, forme
e caratteristiche

una risposta lievemente superiore nei coni del rosso rispetto ai coni del
verde, e una risposta molto bassa nei coni del blu.
Alcune persone, affette da dicromia, possiedono soltanto due tipi
di pigmenti nei coni. All’incirca il 5% degli uomini e lo 0,25% delle
donne manca del pigmento presente nei coni del rosso oppure del verde
a causa di un difetto nel gene che codifica il pigmento di norma presente
in quei due recettori. Queste persone sono affette da cecità al rosso-
verde, una forma di daltonismo che rende loro molto difficile
distinguere i colori nella gamma di lunghezza d’onda compresa tra 500
e 700 nm (dal verde al rosso). Come illustrato nella Figura 1, ciò è
dovuto al fatto che la capacità di distinguere i colori in questa gamma
dipende quasi esclusivamente dall’attività dei coni per il rosso e per il
verde.

Figura 1. Risposta dei tre tipi di coni a luci di lunghezza d’onda diverse

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 15
Universitas Mercatorum La visione: colori, forme
e caratteristiche

La teoria tricromatica spiega bene la legge delle tre primarie, ma


non è in grado di rendere ragione del fenomeno della complementarità
– ovvero, il fatto che mescolando due luci complementari (blu e giallo,
o rosso e verde) i colori sembrano annullarsi a vicenda, dando luogo ad
una luce bianca. A tale scopo, Hering (1878) propose la teoria dei
processi antagonisti, secondo la quale la percezione dei colori sarebbe
mediata da unità fisiologiche (oggi identificate nei neuroni) che possono
essere eccitate o inibite a seconda della lunghezza d’onda della luce
incidente. In altre parole, le lunghezze d’onda complementari
avrebbero effetti su queste unità opposti. Più precisamente, Hering
propose l’esistenza di un sistema per il blu-giallo (in cui i neuroni sono
eccitati da luci di lunghezza d’onda nella banda del blu e inibiti da luci
di lunghezza d’onda nella banda del giallo) e di un sistema per il rosso-
verde (in cui i neuroni sono eccitati da luci di lunghezza d’onda nella
banda del rosso e inibiti da luci di lunghezza d’onda nella banda del
verde).
Negli anni 50 e 60 del Novecento, le ricerche fisiologiche hanno
dimostrato la sostanziale correttezza di entrambe le teorie. Infatti, la
retina contiene tre tipi di coni (blu, verde, rosso), come ipotizzato da
Young e Helmholtz; tuttavia, i coni inviano i loro impulsi alle cellule
gangliari, il cui funzionamento sembra essere basato su processi
antagonisti, proprio come ipotizzato da Hering (Figura 2). Alcune
cellule gangliari si comportano come elementi di un sistema per il
rosso-verde, in quanto sono eccitate dall’input proveniente dai coni del
rosso e inibite dall’input proveniente dai coni del verde. Altre cellule si
comportano come un sistema per il blu-giallo, in quanto sono eccitate
dall’input proveniente dai coni per il blu e inibite dall’input proveniente
dai coni del verde e del rosso (la cui combinazione, come abbiamo visto,
risponde in modo massimale alla luce gialla).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 15
Universitas Mercatorum La visione: colori, forme
e caratteristiche

Figura 2. Illustrazione delle connessioni inibitorie ed eccitatorie tra coni e


cellule gangliari

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 15
Universitas Mercatorum La visione: colori, forme
e caratteristiche

2. VISIONE DELLE FORME E DEI PATTERN

Il fine ultimo della visione non è individuare la presenza/assenza


di una luce o distinguere le diverse lunghezze d’onda, ma piuttosto
identificare oggetti e azioni rilevanti per noi.
Gli oggetti risultano definiti soprattutto dai loro contorni (cioè
dai loro bordi o confini): è infatti grazie ai contorni che gli oggetti si
stagliano con chiarezza contro lo sfondo. Dal punto di vista della
percezione visiva, i contorni possono infatti essere definiti come
repentini cambiamenti di luminosità o di colore che consentono di
distinguere un oggetto dallo sfondo. Il sistema visivo umano si è
specificatamente evoluto in modo tale da amplificare l’entità delle
differenze fisiche a livello dei contorni. Per esempio, in una immagine
formata da strisce di colore grigio (si veda la Figura 3), ciascuna striscia
ha luminosità uniforme: tuttavia, ai nostri occhi essa appare più chiara
lungo il margine con una striscia più scura, e più scura lungo il margine
con una striscia più chiara.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 15
Universitas Mercatorum La visione: colori, forme
e caratteristiche

Figura 3. Esaltazione del contrasto in una immagine formata da strisce


grigie uniformi

L’esaltazione dei contrasti che si verifica nel nostro sistema


visivo è dovuta a meccanismi di inibizione laterale. Infatti, i neuroni
della retina e delle aree visive del cervello hanno connessioni inibitorie
con i neuroni ad essi adiacenti. Il risultato dell’esistenza di queste
connessioni inibitorie è che l’attività di un dato neurone declina quando
i neuroni vicini sono molto attivi, e l’entità di questa diminuzione è
proporzionale al grado di attività dei neuroni vicini. Un neurone A
attivato da un punto al centro di una banda grigia chiara sarà
circondato da altri neuroni molto attivi: ciò significa che esso riceve
molte connessioni inibitorie che diminuiscono la sua attività totale.
D’altra parte, un neurone attivato da un punto al confine con una
striscia grigia più scura riceve segnali sia dai neuroni molto attivi
appartenenti alla sua stessa striscia sia dai neuroni meno attivi
appartenenti alla striscia più scura: il risultato è che esso riceve (in
totale) meno impulsi inibitori e sembra più chiaro (ovvero, più attivo)

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 15
Universitas Mercatorum La visione: colori, forme
e caratteristiche

rispetto ad un punto centrale. Analogamente, un neurone attivato da


un punto al confine con una striscia grigia più chiara riceve segnali sia
dai neuroni appartenenti alla sua stessa striscia sia dai neuroni più
attivi del campo chiaro: quindi esso riceve (in totale) più impulsi
inibitori e sembra più chiaro (ovvero, meno attivo) rispetto ad un punto
centrale.
Al di là dei contorni, ogni oggetto è costituito da un insieme di
caratteristiche elementari: le linee del suo contorno, il movimento
dell’oggetto rispetto allo sfondo, o il colore della luce che esso riflette.
Per studiare il modo in cui il cervello identifica tali caratteristiche, gli
scienziati hanno registrato l’attività di singoli neuroni nell’area visiva
primaria della corteccia cerebrale di animali (di solito, gatti o scimmie)
anestetizzati mentre essi vedevano semplici stimoli bianchi e neri che
variavano per forma, dimensioni e orientamento. Gli studi classici di
Hubel e Wiesel (1962, 1979) hanno chiaramente dimostrato che
neuroni diversi rispondono in maniera preferenziale a pattern diversi.
In particolare, questi due scienziati hanno individuato neuroni visivi
che funzionavano come rilevatori di margini (in quanto rispondevano
con la massima forza a stimoli costituiti da un campo bianco separato
da un campo scuro da un contorno dritto) oppure come rilevatori di
barre (in quanto rispondevano con la massima forza a una sottile
striscia bianca su sfondo nero, o viceversa). In quest’ultimo caso, Hubel
e Wiesel trovarono che ogni dato rilevatore di barre rispondeva col
massimo della forza a specifici orientamenti della barra stessa
(verticale, orizzontale o inclinata di uno specifico angolo). Ulteriori
ricerche condussero i ricercatori all’individuazione di neuroni della
corteccia visiva che erano specificatamente sensibili al colore e alla
direzione del movimento: ad esempio, alcuni neuroni rispondevano con
forza ad una barra blu su sfondo giallo che si muoveva lentamente da

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 15
Universitas Mercatorum La visione: colori, forme
e caratteristiche

sinistra verso destra. Infine, i neuroni delle aree visive associative (al
di fuori della corteccia visiva primaria) sembrano essere specializzati
nell’identificazione di forme più complesse, come un cerchio con uno
specifico raggio.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 15
Universitas Mercatorum La visione: colori, forme
e caratteristiche

3. LA TEORIA DELL’INTEGRAZIONE DELLE


CARATTERISTICHE

In parte sulla base delle evidenze neurofisiologiche riguardanti i


neuroni rilevatori di caratteristiche, Anne Treisman (1986, 1998)
propose negli anni 80 del Novecento la teoria dell’integrazione delle
caratteristiche per spiegare la percezione visiva. Questa teoria sostiene
che qualunque stimolo consiste in un numero di caratteristiche
sensoriali primitive (quali il colore o inclinazione delle sue linee). Per
arrivare a percepire lo stimolo come un’entità integrata, il sistema
visivo deve prima rilevare le singole caratteristiche, quindi integrarle
in un insieme unico. Secondo la Treisman questi processi avvengono in
due stadi o fasi di elaborazione dell’informazione sostanzialmente
diversi tra loro, che richiedono processi che agiscono in parallelo oppure
processi che agiscono in modo seriale.
Più specificamente, la teoria della Treisman prevede:

 una fase iniziale di individuazione delle caratteristiche


fisiche, la quale sarebbe istantanea e basata su processi di
elaborazione in parallelo che agiscono simultaneamente,
individuando tutte le caratteristiche primarie di tutti gli
oggetti presenti nel campo visivo;
 una seconda fase di integrazione delle caratteristiche
fisiche, la quale sarebbe basata su processi di elaborazione
seriale, che richiedono più tempo e si applicano in modo
sequenziale, una posizione spaziale per volta, consentendo
al sistema visivo di percepire oggetti e pattern visivi
integrati.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 15
Universitas Mercatorum La visione: colori, forme
e caratteristiche

Allo scopo di verificare la sua teoria, la Treisman condusse


numerosi esperimenti in cui richiedeva ai soggetti di individuare uno
stimolo bersaglio tra molti distrattori. Nella Figura 4 sono
rappresentati due casi paradigmatici. Nel primo caso (riquadro a
sinistra), lo stimolo bersaglio, che è la X verde, balza subito agli occhi
indipendentemente dal numero di distrattori presenti, un fenomeno
che la Treisman chiamò effetto pop-out. Secondo la teoria
dell’integrazione delle caratteristiche, l’effetto si verifica in quanto il
colore è una delle proprietà primitive rilevate automaticamente dai
processi di elaborazione in parallelo che avvengono durante la prima
fase di elaborazione. Gli esperimenti condotti da questa ricercatrice
hanno dimostrato che, quando lo stimolo differisce dai distrattori per
una singola caratteristica elementare (ad esempio, il colore o
l’orientamento), il tempo di detezione è costante (molto breve) e
indipendente dal numero di distrattori.

Figura 4. Esempio degli stimoli utilizzati dalla Treisman nei suoi esperimenti

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 15
Universitas Mercatorum La visione: colori, forme
e caratteristiche

Nel secondo caso (riquadro a destra), la situazione è molto


diversa in quanto la X non balza subito agli occhi: per identificarla è
necessario che il soggetto esamini gli stimoli a uno a uno. Secondo la
teoria dell’integrazione delle caratteristiche, in queste condizioni il
riconoscimento del bersaglio si basa su processi di elaborazione seriali
che avvengono nel secondo stadio del modello proposto dalla Treisman.
Numerosi esperimenti hanno dimostrato che, quando lo stimolo
bersaglio differisce dai distrattori per la combinazione di due o più
caratteristiche elementari che compaiono in insiemi diversi di
distrattori, allora il tempo di detezione aumenta in modo proporzionale
al numero di distrattori (si confrontino i grafici riportati nella Figura
5).
In altri esperimenti, la Treisman notò che, proiettando per pochi
istanti su uno schermo dei semplici stimoli visivi, i partecipanti erano
in grado di identificarne le caratteristiche elementari, ma talvolta
commettevano errori negli abbinamenti, un fenomeno indicato con il
termine ‘congiunzioni illusorie’.
Ad esempio, se si proiettavano per poche centinaia di
millisecondi una linea retta rossa e una linea curva verde, talvolta i
soggetti riferivano di aver visto una linea retta verde. Sulla base di
questi dati, la Treisman concluse che la prima fase di individuazione
delle caratteristiche registra le proprietà elementari degli stimoli
indipendentemente dalla loro localizzazione spaziale.
Successivamente, la seconda fase opera assegnando le caratteristiche
elementari a specifiche posizioni spaziali e poi combinando tali
caratteristiche in pattern integrati che ne riflettono anche la posizione
spaziale.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 13 di 15
Universitas Mercatorum La visione: colori, forme
e caratteristiche

Figura 5. Illustrazione dei tempi di reazione registrati dalla Treisman nei


suoi esperimenti

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 14 di 15
Universitas Mercatorum La visione: colori, forme
e caratteristiche

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014). Psicologia


generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 15 di 15
LA VISIONE:
PRINCIPI
DELL’ORGANIZZAZIO
NE PERCETTIVA E
RICONOSCIMENTO
DEGLI OGGETTI
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum La visione: principi dell’organizzazione
percettiva e riconoscimento degli oggetti

Indice

1. LA PSICOLOGIA DELLA GESTALT: PRINCIPI DI


ORGANIZZAZIONE PERCETTIVA ........................................... 3

2. LA PSICOLOGIA DELLA GESTALT: L’INFERENZA


INCONSCIA .................................................................................... 6

3. IL RICONOSCIMENTO DEGLI OGGETTI .............................. 9

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 13

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 13
Universitas Mercatorum La visione: principi dell’organizzazione
percettiva e riconoscimento degli oggetti

1. LA PSICOLOGIA DELLA GESTALT: PRINCIPI DI


ORGANIZZAZIONE PERCETTIVA

Agli inizi del XX secolo, gli psicologi aderenti alla scuola della
Gestalt sostenevano che gli esseri umani percepiscono
automaticamente pattern e oggetti come entità integrate e organizzate
(gestalt significa infatti ‘forma globale’). La premessa fondamentale
alla base di questo approccio era che la mente doveva essere compresa
in termini di entità integrate, piuttosto che di parti elementari. Una
delle affermazioni preferite da questi studiosi era: «Il tutto è diverso (è
più) dalla somma delle sue parti». In altri termini, una melodia non è
semplicemente la somma delle singole note e un dipinto non è la somma
dei singoli punti di colore. Molte ricerche dei gestaltisti furono dedicate
alla percezione visiva. In questi studi, essi dimostrarono in maniera
convincente che nell’esperienza conscia la percezione di oggetti e scene
intere precede quella delle parti. Per esempio, quando guardiamo una
sedia, la riconosciamo come tale ben prima di notare come sono fatti i
braccioli e le singole parti.
Per gli psicologi della Gestalt, il sistema nervoso umano è
predisposto (per costituzione innata) a rispondere a pattern presenti
negli stimoli visivi sulla base di alcune regole fondamentali, o principi
dell’organizzazione percettiva, alcuni dei quali sono riportati di seguito
(Figura 1).
Vicinanza: si riferisce al fatto che noi tendiamo a vedere gli
elementi di uno stimolo tra loro vicini come parti dello stesso oggetto, e
quelli distanti come parti di oggetti differenti.
Somiglianza: si riferisce al fatto che noi tendiamo a vedere gli
elementi di uno stimolo che sono fisicamente simili tra loro come parti

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 13
Universitas Mercatorum La visione: principi dell’organizzazione
percettiva e riconoscimento degli oggetti

dello stesso oggetto, e gli elementi dissimili come parti di oggetti


diversi.
Chiusura: si riferisce al fatto che noi tendiamo a vedere le forme
come delimitate da contorni continui e ignoriamo le eventuali
interruzioni.
Buona continuazione: quando varie linee si intersecano, noi
tendiamo a riunire i segmenti in linee il più possibile continue, col
minimo cambiamento di direzione.
Movimento comune: quando gli elementi di uno stimolo si
muovono nella stessa direzione e alla stessa velocità, noi tendiamo a
vederli come parti di un unico oggetto.
Buona forma: il sistema percettivo cerca di produrre percezioni
il più possibile eleganti: semplici, ordinate, simmetriche, regolari e
prevedibili. Questa legge è relativamente aspecifica, in quanto, oltre a
racchiudere in sé molti dei principi precedenti, ne comprende altri in
base ai quali il sistema percettivo organizza gli stimoli nella forma più
semplice possibile.

Figura 1. Psicologia della Gestalt: principi di organizzazione percettiva

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 13
Universitas Mercatorum La visione: principi dell’organizzazione
percettiva e riconoscimento degli oggetti

Oltre a formulare i principi di organizzazione percettiva appena


illustrati, gli psicologici della Gestalt hanno evidenziato la tendenza
umana automatica a distinguere qualsiasi scena visiva in figura
(l’oggetto che attira la nostra attenzione) e sfondo (il campo su cui
risalta la figura). Non sempre, però, la relazione figura-sfondo può
essere facilmente stabilita sulla base delle caratteristiche dello stimolo
visivo. Quando gli indizi presenti nella scena sono scarsi o ambigui, la
nostra mente può trovare difficile decidere a quale forma attribuire il
ruolo di figura e a quale il ruolo di sfondo. Questo fenomeno è evidente
nelle cosiddette figure reversibili, come il vaso di Rubin (Figura 2). In
accordo con i principi della Gestalt, uno stesso stimolo non può essere
simultaneamente percepito come sfondo e come figura, per cui, in ogni
particolare istante, il soggetto vedrà un vaso nero o due profili neri.

Figura 2. Psicologia della Gestalt: esempi di figure reversibili

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 13
Universitas Mercatorum La visione: principi dell’organizzazione
percettiva e riconoscimento degli oggetti

2. LA PSICOLOGIA DELLA GESTALT:


L’INFERENZA INCONSCIA

Quando si guarda una scena visiva, è abbastanza scontato che le


caratteristiche elementari degli stimoli influenzano la nostra
percezione dell’intero. Tuttavia, anche il contrario è vero: infatti,
l’intero può influenzare la nostra percezione delle singole
caratteristiche. In pochi millisecondi e in maniera del tutto inconscia,
il nostro sistema percettivo utilizza l’informazione sensoriale che
giunge dalla scena visiva per trarre inferenze su ciò che in essa è
presente: tale processo è noto col termine inferenza inconscia. Una
volta che il sistema visivo ha stabilito cosa è presente nella scena
visiva, può facilmente distorcere la percezione delle caratteristiche
degli stimoli in modo tale da farle coincidere il più possibile con
l’inferenza inconscia. Gli effetti dell’inferenza inconscia sono
evidenziati da fenomeni quali i contorni illusori o le differenze illusorie
di luminosità.

Figura 3. Psicologia della Gestalt: contorni illusori

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 13
Universitas Mercatorum La visione: principi dell’organizzazione
percettiva e riconoscimento degli oggetti

Negli stimoli utilizzati per dimostrare il fenomeno dei contorni


illusori (Figura 3), la maggior parte delle persone vede un triangolo
bianco (o un quadrato bianco) al centro, posato su tre (o quattro) dischi
neri: i contorni di queste figure sembrano continuare anche nello spazio
che separa i dischi. I contorni illusori emergono dal tentativo del
cervello di dare un significato coerente all’input sensoriale. In accordo
con il principio della buona continuazione e con le aspettative dovute
alle esperienze quotidiane precedenti, il cervello assume in pochi
millisecondi che nella figura deve essere presente un triangolo (o un
quadrato) bianco, in quanto questa è la spiegazione più ragionevole.
Una volta tratta questa inferenza, il cervello crea il triangolo
distorcendo i processi di rilevazione dei contorni, in modo da produrre
un margine dove non c’è.

Figura 4. Psicologia della Gestalt: l’illusione di chiarezza

Analogamente, nella figura utilizzata per dimostrare il


fenomeno dell’illusione di chiarezza (Figura 4), la maggior parte delle
persone percepisce il piccolo quadrato a destra come più chiaro rispetto
al piccolo quadrato a sinistra (il quale sembra più scuro), nonostante
essi abbiano la stessa sfumatura di grigio. Una spiegazione plausibile
per questa illusione è basata sui meccanismi di inibizione laterale.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 13
Universitas Mercatorum La visione: principi dell’organizzazione
percettiva e riconoscimento degli oggetti

Il piccolo quadrato a sinistra è circondato da neuroni fortemente


stimolati dalla maggiore quantità di luce presente nel campo chiaro:
questo significa che i neuroni deputati alla sua rappresentazione
neurale ricevono più afferenze inibitorie, con il risultato che il quadrato
appare più scuro. Analogamente, il piccolo quadrato a destra è
circondato dai neuroni poco attivi del campo più scuro: ciò fa sì che i
neuroni deputati alla sua rappresentazione ricevano meno afferenze
inibitorie e il quadrato appaia più chiaro. Nonostante la plausibilità di
questa spiegazione, altri studiosi ritengono che il fenomeno
dell’illusione di chiarezza dipenda invece da meccanismi di inferenza
inconscia. Secondo tale ipotesi, la persona inferisce in maniera
automatica che la parte destra dell’immagine è in ombra: pertanto, per
compensare la minore illuminazione, il cervello accentua la luminosità
di tutti gli oggetti che compaiono a destra, incluso il piccolo quadrato
grigio.
È importante notare che questi fenomeni illusori sono il risultato
dell’attività delle aree cerebrali superiori (parietali e frontali), le quali
non solo ricevono l’input dalla corteccia visiva primaria, ma inviano
efferenze di ritorno a quell’area, influenzandone l’attività neurale.
Studi recenti hanno dimostrato che gli stimoli visivi che producono il
fenomeno dei contorni illusori attivano i neuroni rilevatori di margini
nella corteccia visiva primaria. Tuttavia, questa attivazione non è il
risultato di impulsi sensoriali provenienti dal nervo ottico, ma è dovuta
a connessioni discendenti dai centri visivi superiori, i quali comunicano
(in maniera errata) alla corteccia visiva che in quell’area dovrebbe
esserci un margine. Le forme di controllo proveniente dai centri
cerebrali superiori sono generalmente indicate con il termine ‘controllo
top-down’, mentre le forme di controllo guidate prevalentemente
dall’input sensoriale sono indicate con il termine ‘controllo bottom-up’.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 13
Universitas Mercatorum La visione: principi dell’organizzazione
percettiva e riconoscimento degli oggetti

3. IL RICONOSCIMENTO DEGLI OGGETTI

Riconoscere un oggetto significa classificarlo, ovvero attribuirlo


ad una determinata categoria (è un uccello; è un aeroplano). Di norma,
gli esseri umani eseguono questo compito con tale naturalezza e facilità
da sottovalutare la complessità dei meccanismi coinvolti. Per
riconoscere un oggetto, il cervello deve estrarre, dall’informazione
sensoriale veicolata dal nervo ottico, le caratteristiche elementari
dell’oggetto stesso e successivamente integrarle in un’unica entità
percettiva, che viene poi confrontata con le rappresentazioni di oggetti
familiari depositate in memoria. Nel 1987, Irving Biederman sviluppò
la teoria del riconoscimento degli oggetti in base alle loro componenti,
la quale specifica che cosa il cervello deve fare per riconoscere un
oggetto.
Uno dei fatti più difficili da spiegare riguardo alla percezione
visiva consiste nel fatto che il cervello è in grado di percepire che un
oggetto è sempre lo stesso nonostante il fatto che l’immagine proiettata
sulla retina varia molto a seconda della posizione dell’oggetto stesso
rispetto al nostro sguardo. Noi siamo in grado di riconoscere senza
difficoltà un aeroplano, sia che lo vediamo da dietro, di lato o di fronte.
La teoria di Biederman è un tentativo di spiegare in che modo il sistema
percettivo riesce a comprendere che un oggetto è sempre lo stesso
indipendentemente dal suo orientamento nello spazio.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 13
Universitas Mercatorum La visione: principi dell’organizzazione
percettiva e riconoscimento degli oggetti

Figura 5. Teoria del riconoscimento degli oggetti di Biederman: esempi di


geoni

Questo studioso propose che per riconoscere un oggetto il sistema


visivo deve prima scomporlo in un insieme di componenti
tridimensionali elementari, chiamati geoni. Il punto cruciale è che un
aeroplano consiste sempre dello stesso insieme di geoni, organizzati
allo stesso modo e nelle stesse relazioni reciproche, qualunque sia la
sua posizione rispetto ai nostri occhi (Figura 5). Se il cervello è in grado
di distinguere i singoli geoni e la loro organizzazione reciproca, allora,
nonostante la variabilità dell’immagine proiettata sulla retina,
possiede tutta l’informazione di cui ha bisogno per riconoscere l’oggetto.
In totale, Biderman identificò 36 diversi geoni: secondo la sua
teoria, qualunque oggetto (smussando i bordi e trascurando i dettagli)
sarebbe composto da un sottoinsieme di geoni organizzati in modo
peculiare. Come un numero finito di lettere può essere organizzato in
modo tale da formare un numero infinito di parole, così un numero
finito di geoni può dare luogo ad un numero infinito di oggetti. Dunque,

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 13
Universitas Mercatorum La visione: principi dell’organizzazione
percettiva e riconoscimento degli oggetti

per riconoscere un oggetto, il sistema visivo deve prima identificare i


singoli geoni che lo costituiscono e successivamente integrarli.

Figura 6. Esempi Degli stimoli utilizzati da Biederman nei suoi esperimenti

Per provare la bontà della sua teoria, Biederman condusse una


serie di esperimenti in cui mostrava ai partecipanti oggetti composti da
linee diradate secondo criteri diversi (Figura 6). Il risultato importante
fu che i partecipanti erano in grado di riconoscere correttamente gli
oggetti soltanto quando le linee consentivano ancora l’identificazione
dei geoni (si veda la colonna b della Figura 6 per alcuni esempi); al
contrario, gli oggetti non erano più riconoscibili se le linee, pur essendo
diradate nella stessa misura del caso precedente, non consentivano più
l’estrazione dei geoni e delle loro relazioni spaziali (si veda la colonna c
della Figura 6 per alcuni esempi).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 13
Universitas Mercatorum La visione: principi dell’organizzazione
percettiva e riconoscimento degli oggetti

La teoria di Biederman ha trovato ulteriori conferme negli studi


condotti su persone affette da agnosia visiva. Secondo il modello, il
riconoscimento di un oggetto è un processo che implica una sequenza
di almeno tre passaggi: a) la rilevazione delle caratteristiche sensoriali
dell’oggetto; b) l’individuazione dei singoli geoni; c) l’integrazione dei
geoni e il riconoscimento dell’oggetto (confronto con le rappresentazioni
depositate in memoria). L’interesse di Biederman fu particolarmente
attratto da due diverse categorie di pazienti. Le persone che presentano
agnosia visiva per le forme sono in grado di identificare le
caratteristiche elementari degli stimoli, come il colore o la chiarezza,
ma non riescono a percepire la forma degli oggetti: essi sono incapaci
di descriverlo o disegnarlo. Secondo la teoria del riconoscimento degli
oggetti in base alle loro componenti, questi pazienti sono affetti da un
deficit dei processi che consentono l’individuazione dei singoli geoni a
partire dalle informazioni sensoriali. D’altra parte, le persone affette
da agnosia visiva per gli oggetti sono in grado di descrivere e disegnare
le forme degli oggetti, ma non riescono a identificarli in maniera
cosciente. Secondo il modello di Biederman, questi pazienti sono affetti
da un deficit dei processi che consentono l’integrazione dei geoni in
oggetti integrati e il successivo confronto con le rappresentazioni
depositate in memoria.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 13
Universitas Mercatorum La visione: principi dell’organizzazione
percettiva e riconoscimento degli oggetti

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 13 di 13
LA VISIONE:
VIA VENTRALE, VIA
DORSALE E VISIONE
TRIDIMENSIONALE
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum La visione: via ventrale, via dorsale
e visione tridimensionale

Indice

1. LE DUE VIE PER L’ELABORAZIONE DELLE


INFORMAZIONI VISIVE ........................................................... 3

2. VISIONE TRIDIMENSIONALE: INDIZI BINOCULARI ........ 5

3. VISIONE TRIDIMENSIONALE: INDIZI MONOCULARI ...... 8

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 12

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 12
Universitas Mercatorum La visione: via ventrale, via dorsale
e visione tridimensionale

1. LE DUE VIE PER L’ELABORAZIONE DELLE


INFORMAZIONI VISIVE

La corteccia visiva primaria (situata nel lobo occipitale) invia i


suoi segnali – e riceve il feedback di ritorno – da aree visive superiori,
localizzate nei lobi parietale e temporale. Le aree visive situate al di
fuori della corteccia visiva primaria formano due vie o canali corticali
(‘stream’) che svolgono funzioni diverse e decorrono verso il basso nel
lobo temporale o verso l’alto nel lobo parietale (si veda la Figura 1 per
una illustrazione grafica).

Figura 1. Illustrazione schematica delle due vie della visione (ventrale e


dorsale)

La via ventrale (che si estende in basso nel lobo temporale) è


chiamata via del ‘what’, in quanto è specializzata nel riconoscimento
degli oggetti: i neuroni di questa via rispondono con forza a forme
geometriche complesse e ad oggetti interi (ad esempio, immagini di
volti). Lesioni alla via ventrale producono agnosia visiva, un disturbo

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 12
Universitas Mercatorum La visione: via ventrale, via dorsale
e visione tridimensionale

caratterizzato dal fatto che le persone sono incapaci di estrarre


consciamente il significato di ciò che vedono. Questi pazienti
conservano la capacità di afferrare con precisione gli oggetti e di
eseguire azioni che tengono conto della loro forma, grandezza, posizione
e movimento, anche se a livello cosciente non sono in grado di
riconoscerli. Un caso famoso è quello della paziente D.F., studiata da
Goodale e Milner (2004). Essa era completamente incapace di percepire
le forme in modo conscio: infatti, quando le fu mostrato un disco tenuto
in verticale con una fessura al centro, ella dichiarò di non vedere come
fosse orientata la fessura. Tuttavia, quando le fu chiesto di infilare un
cartoncino dentro la fessura, la donna eseguì il compito con grande
facilità e precisione. In altre parole, la mano della paziente era ancora
in grado di compiere i movimenti corretti quando non cercava di usare
la percezione conscia per guidarli. Nel complesso, tali deficit
suggeriscono che la via dorsale (l’unica intatta in questi pazienti) sia in
grado di calcolare la forma, la grandezza e la localizzazione degli
oggetti, ma non di rendere questa informazione accessibile alla
coscienza.
La via dorsale (che decorre in alto attraverso il lobo parietale) è
chiamata via del ‘where-and-how’ in quanto è specializzata:
Nel tenere una mappa dello spazio tridimensionale e nel
localizzare gli oggetti in tale spazio;
Nell’utilizzare l’informazione visiva come guida per i movimenti
verso bersagli esterni;
Le persone con lesioni in queste aree sono in grado di riconoscere
gli oggetti, ma hanno gravi difficoltà nel farsi guidare dalla vista nelle
proprie azioni: esse riescono ad afferrare gli oggetti solo andando a
tentoni, come farebbe una persona cieca, e spesso li mancano per pochi
centimetri.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 12
Universitas Mercatorum La visione: via ventrale, via dorsale
e visione tridimensionale

2. VISIONE TRIDIMENSIONALE: INDIZI


BINOCULARI

Gli esseri umani vedono automaticamente e senza sforzo il


mondo esterno in tre dimensioni. Gli oggetti che percepiamo
quotidianamente si trovano e si muovono in uno spazio che è definito,
oltre che dalle dimensioni verticale (alto-basso) e orizzontale (destra-
sinistra), anche dalla profondità, ovvero dalla distanza degli oggetti
stessi dai nostri occhi. Il problema che si sono posti molti studiosi è dato
dal fatto che le immagini che si formano sulla retina sono
bidimensionali: da esse il nostro sistema visivo può facilmente estrarre
tutte le informazioni necessarie a registrare le dimensioni verticale e
orizzontale; tuttavia, il modo con cui esso riesca a registrare la terza
dimensione (quella della profondità) è molto più complesso.
Per valutare la profondità, il sistema visivo può servirsi di due
indizi che derivano dalla visione binoculare. Il primo indizio è la
convergenza oculare, ovvero il fatto che gli assi oculari devono
necessariamente convergere verso il centro del campo visivo quando si
guarda un oggetto vicino. Quanto più l’oggetto è vicino, tanto più gli
occhi devono convergere per riuscire a metterlo a fuoco. Quindi, il
sistema percettivo potrebbe teoricamente valutare la distanza degli
oggetti dal grado di convergenza degli occhi nell’atto di guardarli. In
pratica, però, gli studi condotti in tal senso hanno dimostrato che la
convergenza oculare rappresenta un indizio di profondità debole anche
per oggetti vicini, mentre è del tutto inefficace per oggetti lontani.
Il secondo indizio, decisamente più importante, è la disparità
binoculare, termine con cui si indica la differenza tra le immagini
retiniche dello stesso oggetto che si formano nei due occhi. Infatti,

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 12
Universitas Mercatorum La visione: via ventrale, via dorsale
e visione tridimensionale

essendo distanziati di qualche centimetro l’uno dall’altro, gli occhi


vedono lo stesso oggetto da due angolazioni leggermente diverse
(Figura 2). Quanto più è lontano l’oggetto, tanto minore sarà la
disparità binoculare: ciò è dovuto al fatto che la differenza di
angolazione tra i due occhi è minore per oggetti lontani – ovvero, le due
linee che segnano la direzione dello sguardo tenderanno sempre più a
diventare parallele. Recentemente, si è trovato che alcuni neuroni della
corteccia visiva rispondono con forza a stimoli presentati ai due occhi
in posizioni leggermente sfalsate sulla retina: questi neuroni sono
potenzialmente ideali per la percezione della profondità.

Figura 2. Disparità binoculare: gli occhi vedono lo stesso oggetto da


angolazioni diverse.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 12
Universitas Mercatorum La visione: via ventrale, via dorsale
e visione tridimensionale

Nella normale visione binoculare, noi non ci rendiamo conto


dell’esistenza della disparità binoculare, in quanto il nostro cervello
opera una fusione tra le immagini provenienti dai due occhi, generando
la percezione della profondità in modo automatico. Tuttavia, possiamo
renderci conto del fenomeno guardando uno stesso oggetto prima solo
con l’occhio destro, poi solo con il sinistro, e continuando per un po' ad
alternare i due occhi. Col passare del tempo, ci si accorge che l’oggetto
sembra saltare da destra a sinistra contro lo sfondo della parete.
Lo stesso fenomeno accade quando si osservano due immagini
leggermente diverse della stessa scena in uno stereoscopio, un
apparecchio inventato da Wheatstone verso la fine dell’Ottocento.
Questo studioso disegnò due schizzi leggermente diversi di una stessa
scena, costruiti in modo tale che uno schizzo rappresentasse l’oggetto
come se fosse visto dall’occhio destro e l’altro dal sinistro. Quando i due
schizzi erano osservati in maniera simultanea, ciascuno con l’occhio
corrispondente, attraverso lo stereoscopio, l’effetto che si otteneva era
strabiliante: le due figure si fondevano in un’unica immagine dotata di
profondità, proprio come avviene nella visione binoculare.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 12
Universitas Mercatorum La visione: via ventrale, via dorsale
e visione tridimensionale

3. VISIONE TRIDIMENSIONALE: INDIZI


MONOCULARI

Sebbene la percezione della profondità sia ottimale nella visione


binoculare, essa è ugualmente presente anche nella visione monoculare
(come potete facilmente constatare chiudendo un occhio per un
momento).
L’indizio monoculare di profondità più importante è
probabilmente la parallasse di movimento, un fenomeno per cui la
percezione visiva di uno stesso oggetto cambia con lo spostamento
laterale della testa, in quanto l’oggetto viene osservato da angolazioni
via via diverse. Per una dimostrazione, basta tenere un dito davanti al
volto e guardarlo con un occhio solo mentre la testa viene fatta muovere
lateralmente da sinistra verso destra e viceversa. Quello che si ottiene
è che l’occhio coglie immagini leggermente diverse del dito, in modo che
il dito sembra spostarsi avanti e indietro lateralmente rispetto allo
sfondo. L’entità della variazione nella visione monoculare fornisce
informazioni sulla distanza, in quanto più lieve è la modificazione delle
immagini prodotta dallo spostamento della testa, maggiore è la
distanza dell’oggetto.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 12
Universitas Mercatorum La visione: via ventrale, via dorsale
e visione tridimensionale

Figura 3. Immagine che consente di apprezzare alcuni indizi pittorici di


profondità.

Altri indizi monoculari di profondità sono validi sia per immagini


bidimensionali sia per immagini tridimensionali e sono pertanto
chiamati indizi pittorici di profondità. Tra questi, ricordiamo:

 l’occlusione: oggetti più vicini all’osservatore impediscono


(parzialmente o totalmente) la vista di oggetti più lontani.
Così, nella Figura 3, i pali della luce occludono in parte la
visione delle montagne sullo sfondo.
 la grandezza relativa di oggetti familiari: gli oggetti più
vicini sembrano più grandi rispetto ad oggetti lontani, anche
se nelle realtà le proporzioni sono opposte. Nella figura 3, ad
esempio, il primo palo della luce sembra più alto delle
montagne all’orizzonte, il che sappiamo non essere vero nella
realtà fisica.
 la prospettiva lineare: nella Figura 3, le linee della strada
sembrano convergere man mano che si procede dalla base
della figura verso le colline; ciò indica al cervello che
procedendo verso le colline gli oggetti si allontanano.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 12
Universitas Mercatorum La visione: via ventrale, via dorsale
e visione tridimensionale

Figura 4. Esempio del gradiente di tessitura.

 il gradiente di tessitura: gli elementi che compongono la


tessitura (o grana visiva) diventano più piccoli e più
densamente raggruppati man mano che aumenta la distanza
dagli oggetti. Ad esempio, nella Figura 4, possiamo
facilmente distinguere i singoli petali dei fiori visibili in
primo piano; tuttavia, non siamo in grado di distinguere i
dettagli dei fiori più lontani, in quanto sono molto sfocati.
 la posizione rispetto all’orizzonte: nelle scene di esterni, gli
oggetti più vicini all’orizzonte sono di solito più lontani
rispetto agli oggetti che sono invece più distaccati dalla linea
dell’orizzonte (ovvero, si trovano sopra o sotto di essa).

La capacità di valutare la grandezza di un oggetto è strettamente


legata alla capacità di valutarne la distanza. Come illustrato dalla
Figura 5, la grandezza dell’immagine retinica di un oggetto è
inversamente proporzionale alla sua distanza dalla retina: se la
distanza dalla retina raddoppia, l’oggetto produce un’immagine sulla

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 12
Universitas Mercatorum La visione: via ventrale, via dorsale
e visione tridimensionale

retina che sarà la metà rispetto a prima. Ciononostante, noi non


vediamo l’oggetto come più piccolo, ma solo come più lontano: il
fenomeno per cui percepiamo le dimensioni di un oggetto come costanti
anche quando la grandezza dell’immagine retinica varia viene
chiamato costanza di grandezza. Nel caso di oggetti familiari, è
verosimile ritenere che le conoscenze acquisite sulla abituali
dimensioni degli oggetti contribuiscono a produrre l’effetto di costanza
della grandezza.

Figura 5. Variazione nella dimensione dell’immagine retinica in funzione


della distanza.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 12
Universitas Mercatorum La visione: via ventrale, via dorsale
e visione tridimensionale

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 12
L’APPRENDIMENTO:
IL
CONDIZIONAMENTO
CLASSICO
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum L’apprendimento: Il
condizionamento classico

Indice

1. APPRENDIMENTO E RIFLESSI ............................................... 3

2. IL CONDIZIONAMENTO CLASSICO ....................................... 6

3. ESTINZIONE, GENERALIZZAZIONE E
CONDIZIONAMENTO DISCRIMINATIVO .............................. 8

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 11

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 11
Universitas Mercatorum L’apprendimento: Il
condizionamento classico

1. APPRENDIMENTO E RIFLESSI

In termini generali possiamo definire l’apprendimento come


qualsiasi processo attraverso il quale l’esperienza vissuta da un
individuo in un qualsiasi momento è in grado di modificare il
comportamento dell’individuo stesso in un momento successivo. In
questa definizione, per ‘esperienza’ si intende qualsiasi effetto prodotto
dall’ambiente esterno e mediato dai sistemi sensoriali dell’individuo,
mentre per ‘comportamento in un momento successivo’ si intende
qualsiasi comportamento messo in atto dopo l’esperienza originaria e
che non rientra nella risposta immediata allo stimolo che ha provocato
l’apprendimento. L’apprendimento può essere consapevole (ad
esempio, apprendere i nomi di tutti i presidenti della Repubblica)
oppure inconsapevole. Alcune forme di apprendimento cominciano in
maniera consapevole (esplicita) ma col tempo diventano inconsapevoli
(implicite): così, quando si impara a guidare un’automobile o ad andare
in bicicletta, è probabile che il soggetto presti inizialmente molta
attenzione ai movimenti da compiere; tuttavia, col passare del tempo,
le procedure motorie diventano automatizzate e il compito viene svolto
quasi completamente in modalità automatica.
Il condizionamento classico è un processo di apprendimento che
produce nuovi riflessi. Un riflesso è una sequenza stimolo-risposta
semplice ed automatica. Ad esempio, se un medico batte un martelletto
di gomma contro il vostro ginocchio, la parte inferiore della vostra
gamba scatta in avanti (un fenomeno noto come riflesso patellare). In
ogni riflesso, vi è uno stimolo, ovvero un evento che accade
nell’ambiente esterno (il colpo del martelletto sul ginocchio), che
innesca una risposta, ovvero un comportamento ben definito (lo scatto

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 11
Universitas Mercatorum L’apprendimento: Il
condizionamento classico

della gamba). Per essere considerato un riflesso, la risposta allo stimolo


deve essere mediata dal sistema nervoso. Questo significa che i segnali
provenienti dagli organi di senso entrano nel midollo spinale e/o nel
cervello, dove agiscono in modo tale da produrre comandi motori che
vengono inviati ai muscoli e alle ghiandole del corpo (si veda la Figura
1).

Figura 1. Processi neurali che danno luogo al riflesso patellare .

In quanto mediati dal sistema nervoso, i riflessi possono essere


modificati dall’esperienza. Un semplice effetto prodotto dall’esperienza
sui riflessi è l’assuefazione, ovvero la progressiva diminuzione della
risposta riflessa che si verifica quando uno stimolo si ripete molte volte
di seguito. Uno dei riflessi più comunemente soggetto ad assuefazione
è la risposta di trasalimento (startle): un suono molto forte è probabile
che ci faccia trasalire la prima volta che lo udiamo; tuttavia, la risposta
di allerta tende ad affievolirsi ogni volta che il suono si ripete, fino a
scomparire del tutto. A differenza del condizionamento classico,

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 11
Universitas Mercatorum L’apprendimento: Il
condizionamento classico

l’assuefazione non produce una nuova sequenza stimolo-risposta


(ovvero, non produce un nuovo riflesso), ma ne indebolisce una già
esistente.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 11
Universitas Mercatorum L’apprendimento: Il
condizionamento classico

2. IL CONDIZIONAMENTO CLASSICO

La scoperta e l’approfondimento dei meccanismi alla base del


condizionamento classico si devono a Ivan Petrovich Pavlov (1849-
1936). Nel corso dei suoi esperimenti fisiologici sui riflessi digestivi nei
cani, questo studioso si rese conto che gli animali che avevano ricevuto
cibo negli esperimenti precedenti, iniziavano a salivare prima ancora
di ricevere il cibo quando venivano sottoposti a nuove prove. Ciò era
dovuto al fatto che i segnali che precedevano regolarmente la
somministrazione di cibo avvisavano il cane della stimolazione in
arrivo, provocando la salivazione.

Figura 2. Schema degli eventi che hanno luogo nel condizionamento classico.

Pavlov studiò il fenomeno a lungo, variando in maniera


sistematica i segnali che precedevano la presentazione di cibo. Ad
esempio, in un tipico esperimento, egli suonava un campanello prima
di introdurre il cibo nella bocca del cane: dopo molte prove, il cane

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 11
Universitas Mercatorum L’apprendimento: Il
condizionamento classico

iniziava a salivare in risposta al campanello, anche in assenza di cibo.


Pavlov definì questa forma di risposta ‘riflesso condizionato’, in quanto
dipendente dalle specifiche condizioni che erano state esperite dal cane
negli esperimenti precedenti. Egli definì lo stimolo che evocava il
riflesso condizionato (in questo caso il campanello) ‘stimolo
condizionato’ e la risposta appresa a tale stimolo (la salivazione)
‘risposta condizionata’. Inoltre, Pavlov chiamò ‘riflesso incondizionato’
il riflesso di salivazione originale, non appreso: in tal caso, lo ‘stimolo
incondizionato’ era il cibo mentre la ‘risposta incondizionata’ era la
salivazione (si veda la Figura 2 per uno schema riassuntivo).
Il condizionamento classico non è un fenomeno che si verifica
esclusivamente in laboratorio. Nella vita quotidiana, vi sono numerosi
esempi di effetti dovuti a meccanismi di condizionamento classico. Se
rabbrividiamo nel sentire il ronzio del trapano del dentista, questa è
una risposta condizionata dovuta al fatto che in passato quel suono è
stato associato al dolore. Se l’odore del caffè basta a risvegliarci, è
perché in passato quell’odore è stato associato agli effetti eccitanti della
caffeina. Infine, se entriamo in bagno a pettinarci, la vista del water
può provocare un bisogno di urinare non avvertito fino a quel momento,
in quanto quella vista è stata in passato associata alla stessa urgenza
fisiologica.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 11
Universitas Mercatorum L’apprendimento: Il
condizionamento classico

3. ESTINZIONE, GENERALIZZAZIONE E
CONDIZIONAMENTO DISCRIMINATIVO

Nel corso dei suoi esperimenti, Pavlov indagò la persistenza del


riflesso condizionato di salivazione nel tempo. In particolare, egli era
interessato a determinare se i cani che avevano appreso a salivare in
risposta ad un campanello continuavano a produrre la risposta
condizionata anche se per molte prove consecutive il campanello non
era più seguito dal cibo. I risultati dimostrarono che, se non abbinato
al cibo, il suono del campanello evocava una risposta di salivazione
progressivamente meno intensa ad ogni prova, fino a che la risposta
non scompariva del tutto: tale fenomeno fu chiamato ‘estinzione’.

Figura 3. Variazioni nella frequenza della risposta di salivazione in un tipico


esperimento di condizionamento classico.

Tuttavia, ben presto Pavlov si rese conto del fatto che l’estinzione
non riportava il cane allo stato incondizionato originale. Infatti, ad una
certa distanza di tempo dall’estinzione, la risposta condizionata poteva

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 11
Universitas Mercatorum L’apprendimento: Il
condizionamento classico

occasionalmente ripresentarsi in risposta allo stimolo condizionato


(anche se con intensità ridotta) – un fenomeno che egli chiamò
‘recupero spontaneo’. Inoltre, un’unica prova in cui lo stimolo
condizionato (il campanello) e lo stimolo incondizionato (il cibo)
comparivano di nuovo insieme era sufficiente a ripristinare il riflesso
condizionato – un processo noto come ‘riacquisizione’ (si veda la Figura
3 per un esempio di come la frequenza di risposta varia nel corso di un
tipico esperimento di condizionamento classico). Sulla base di questi
dati, Pavlov concluse che l’estinzione non elimina il riflesso
condizionato, ma lo inibisce temporaneamente: tale inibizione può
essere rimossa dal semplice passaggio del tempo o dalla ricomparsa,
anche una sola volta, dello stimolo incondizionato (il cibo).
In esperimenti successivi, l’équipe di Pavlov trovò che la risposta
condizionata veniva evocata non solo dallo stimolo condizionato, ma
anche da stimoli molto simili ad esso, un fenomeno chiamato
‘generalizzazione’. L’intensità della risposta condizionata dipendeva
dal grado di somiglianza con lo stimolo condizionato originale. Ad
esempio, un cane condizionato a salivare in risposta a suoni con
frequenza di 1000 Hz manifestava la risposta condizionata anche con
altri suoni, ma quanto più la frequenza era diversa da quella dello
stimolo condizionato originario tanto meno intensa era la risposta di
salivazione. Negli esseri umani, la generalizzazione sembra essere
basata su processi di somiglianza semantica. Razran (1939) utilizzò del
succo di limone spruzzato in bocca per condizionare studenti
universitari a rispondere con la salivazione a parole come ‘surf’. Il dato
interessante fu che l’intensità della risposta di salivazione gli studenti
era molto elevata quando essi vedevano parole che richiamavano il
significato originale dello stimolo condizionato (ad esempio, ‘wave’),

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 11
Universitas Mercatorum L’apprendimento: Il
condizionamento classico

mentre era relativamente debole quando vedevano parole che ne


richiamavano l’ortografia (ad esempio, ‘serf’).
La generalizzazione tra due stimoli poteva essere eliminata
tramite una procedura di condizionamento discriminativo, in cui si
rinforzava la risposta ad un solo stimolo e si estingueva la risposta
all’altro.
Utilizzando questo metodo, Pavlov condizionò un cane a salivare
in risposta ad un quadrato nero, che in seguito fu generalizzato ad un
quadrato grigio. Dopo molte prove in cui il quadrato grigio non fu mai
associato al cibo mentre il quadrato nero lo fu sempre, il cane cessò di
salivare al quadrato grigio, mentre continuò a salivare al quadrato
nero. La tecnica del condizionamento discriminativo rappresenta un
potente strumento per analizzare le capacità sensoriali degli animali:
in questo modo si è scoperto, ad esempio, che i cani sono in grado di
percepire suoni di frequenze tanto alte da non essere udibili dall’uomo.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 11
Universitas Mercatorum L’apprendimento: Il
condizionamento classico

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014). Psicologia


generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 11
L’APPRENDIMENTO:
IL
CONDIZIONAMENTO
CLASSICO NELLA
VITA QUOTIDIANA
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum L’Apprendimento: il
condizionamento classico
nella vita quotidiana

Indice

1. CHE COSA VIENE APPRESO NEL CONDIZIONAMENTO


CLASSICO? ..................................................................................... 3

2. CONDIZIONARE LA PAURA, LA FAME E L’ECCITAZIONE


SESSUALE ...................................................................................... 6

3. REAZIONI CONDIZIONATE ALLE SOSTANZE


FARMACOLOGICHE .................................................................. 10

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 13

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 13
Universitas Mercatorum L’Apprendimento: il
condizionamento classico
nella vita quotidiana

1. CHE COSA VIENE APPRESO NEL


CONDIZIONAMENTO CLASSICO?

Oltre a descrivere i meccanismi e i principi che regolano il


condizionamento classico, gli studiosi che si riconoscevano nella scuola
di pensiero del comportamentismo erano anche interessati a
comprendere che cosa veniva realmente appreso durante il
condizionamento.

Figura 1. Diagramma dei processi ipotizzati dalla Teoria stimolo-stimolo di


Pavlov (CS: stimolo condizionato; US: stimolo incondizionato).

Watson (1924) riteneva che nel condizionamento classico


l’animale apprende una nuova connessione stimolo-risposta. Secondo
questa ipotesi, nota come Teoria stimolo-risposta (S-R), nel cervello del
cane si formerebbe una connessione diretta tra la rappresentazione del
suono del campanello e la risposta motoria di salivazione. Per Pavlov,
invece, l’animale apprende una nuova connessione tra lo stimolo
condizionato e quello incondizionato. Secondo questa ipotesi, nota come

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 13
Universitas Mercatorum L’Apprendimento: il
condizionamento classico
nella vita quotidiana

Teoria stimolo-stimolo (S-S), nel cervello del cane si formerebbe un


legame tra le rappresentazioni mentali dei due stimoli: il suono del
campanello evoca la rappresentazione mentale del cibo (ovvero, attiva
le stesse aree cerebrali attivate dal cibo) e ciò stimola la salivazione (si
veda la Figura 1 per una rappresentazione schematica).
Le teorie S-R e S-S di Watson e Pavlov portano a predizioni
diverse su come gli animali dovrebbero comportarsi in determinate
situazioni e possono quindi essere sottoposte a verifica empirica. A
questo proposito, Rescorla (1973) condusse un esperimento divenuto
ormai classico in cui lo stimolo incondizionato era un suono molto forte:
nel ratto, questo tipo di stimolazione produce una risposta
incondizionata di freezing (l’animale si blocca e resta immobile).
Rescorla abbinò al suono un segnale luminoso e condizionò i ratti ad
immobilizzarsi alla vista della sola luce. Successivamente, allo scopo di
verificare le due teorie, lo studioso sottopose metà dei ratti ad una
procedura di assuefazione al suono che consisteva nel presentare il
suono molte volte di seguito (da solo), fino a quando i ratti non smisero
di emettere la risposta di immobilizzazione. La domanda che Rescorla
si pose a questo punto era la seguente: i ratti che non si
immobilizzavano più al suono avrebbero continuato a farlo in risposta
alla luce? Per la teoria S-R, i ratti avrebbero dovuto continuare ad
immobilizzarsi, in quanto essi avevano appreso una nuova connessione
tra la luce e il comportamento di freezing, la quale (verosimilmente)
non era stata influenzata dalla procedura di assuefazione. Al contrario,
per la teoria S-S, i ratti non avrebbero dovuto immobilizzarsi in quanto
la luce evocava la rappresentazione del suono, la quale, dopo la
procedura di assuefazione, non era più associata alla risposta di
immobilizzazione. I risultati favorirono la teoria S-S, in quanto la

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 13
Universitas Mercatorum L’Apprendimento: il
condizionamento classico
nella vita quotidiana

risposta di freezing alla luce era notevolmente ridotta nel gruppo di


ratti sui quali era stata eseguita la procedura di assuefazione.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 13
Universitas Mercatorum L’Apprendimento: il
condizionamento classico
nella vita quotidiana

2. CONDIZIONARE LA PAURA , LA FAME E


L’ECCITAZIONE SESSUALE

In una prospettiva evolutiva, il condizionamento classico è un


processo attraverso il quale gli individui apprendono a prepararsi, in
modo riflesso, al prossimo verificarsi di eventi che hanno per loro un
elevato valore biologico. Così, uno stimolo condizionato che precede in
modo regolare un evento doloroso può evocare reazioni corporee che
aiutano l’individuo a prepararsi alla sofferenza (ad esempio, il rilascio
di endorfine può ridurre gli effetti nocivi associati al dolore).
Analogamente, uno stimolo condizionato che precede un possibile
rapporto sessuale può provocare forte eccitazione e risposte fisiologiche
che preparano il corpo all’accoppiamento.

Figura 2. L’esperimento del piccolo Albert in una foto dell’epoca.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 13
Universitas Mercatorum L’Apprendimento: il
condizionamento classico
nella vita quotidiana

Seguendo questa linea di pensiero, Watson fu il primo psicologo


a dimostrare la possibilità di condizionare una risposta emotiva
umana, e più precisamente la paura, in un esperimento celeberrimo e
assai controverso noto come ‘esperimento del piccolo Albert’. Egli
sfruttò il fatto che, nei bambini piccoli, un suono molto forte ed
improvviso è in grado di evocare una risposta di paura. Watson e
Rayner (1920) usarono questo metodo per condizionare un bambino di
11 mesi (Albert, appunto) ad avere paura dei ratti. Inizialmente, Albert
giocava tranquillo con i ratti di laboratorio. Tuttavia, dopo soli quattro
abbinamenti tra il ratto e un rumore improvviso molto forte (ottenuto
battendo con un martello su una sbarra d’acciaio), il bambino iniziò a
rispondere con forte paura alla sola vista del ratto (Figura 2). Inoltre,
in test successivi, i due studiosi trovarono che la reazione di paura si
era generalizzata ad altri animali pelosi, come un coniglio o un cane.
Oltre alla paura, è possibile condizionare anche la sensazione di
fame. Nello specifico, un segnale che precede regolarmente l’arrivo di
cibo può diventare uno stimolo condizionato per una serie di risposte
riflesse che servono a preparare il corpo all’assunzione di cibo. Tra
queste, figurano la secrezione di succhi gastrici che facilitano la
digestione e la secrezione di specifici ormoni che inducono un forte stato
di fame. Questo fenomeno può spiegare il cosiddetto ‘effetto
stuzzichino’: ovvero, il fatto che l’odore di un cibo, il suono della
campanella della ricreazione nelle scuole, un orologio che indica che è
ora di cena possono causare una sensazione di fame molto più intensa
rispetto a quella avvertita subito prima della presentazione del
segnale.
In alcuni esperimenti, ratti affamati furono sottoposti ad una
procedura di condizionamento in cui un suono precedeva sempre la

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 13
Universitas Mercatorum L’Apprendimento: il
condizionamento classico
nella vita quotidiana

presentazione di un particolare tipo di cibo. In seguito, quando i ratti


tornarono al loro regime alimentare normale, la presentazione del
suono condizionato induceva i ratti a cercare e mangiare solo quel tipo
di cibo e non altri. In altre parole, il suono suscitava un forte desiderio
di consumare quel particolare tipo di cibo che era stato presentato
durante la fase di condizionamento. Questo fenomeno aiuta a spiegare
perché le catene di fast food investono molto denaro nel tappezzare le
strade con i simboli del loro marchio: infatti, vedere gli archi dorati
dell’insegna di McDonald può causare l’improvviso desiderio di
mangiare esattamente quel tipo di cibo che è stato consumato altre
volte da McDonald.
Infine, numerosi esperimenti hanno dimostrato che è possibile
condizionare l’eccitazione sessuale anche in soggetti umani. In questi
esperimenti lo stimolo condizionato è neutro (ad esempio, l’immagine
di un vaso pieno di monete), mentre lo stimolo incondizionato può
essere un filmato con scene erotiche esplicite. Il livello di eccitazione
sessuale viene misurato attraverso strumenti in grado di rilevare
l’erezione del pene (nei maschi) o l’aumento del flusso sanguigno nella
vagina (per le femmine). Tipicamente, quello che si trova in questi
esperimenti è che, dopo ripetuti abbinamenti, lo stimolo condizionato
neutro finisce col produrre una eccitazione sessuale anche quando non
è seguito dalla visione del filmato erotico. Queste risposte sono
funzionali in quanto preparano il corpo all’accoppiamento e aumentano
la probabilità di avere figli. Ciò è particolarmente evidente negli
esperimenti condotti su animali, nei quali i soggetti utilizzati sono
maschi e lo stimolo incondizionato è la vista di una femmina
sessualmente ricettiva (o la possibilità di accoppiarsi con essa). I
risultati indicano che un segnale che precede regolarmente la

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 13
Universitas Mercatorum L’Apprendimento: il
condizionamento classico
nella vita quotidiana

presentazione della femmina diventa uno stimolo condizionato che


evoca una serie di risposte che preparano il maschio al corteggiamento
e all’accoppiamento. Tale condizionamento è biologicamente adattivo
nel senso più diretto del termine, in quanto fa aumentare il numero di
figli generati dal maschio.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 13
Universitas Mercatorum L’Apprendimento: il
condizionamento classico
nella vita quotidiana

3. REAZIONI CONDIZIONATE ALLE SOSTANZE


FARMACOLOGICHE

L’équipe di Pavlov dimostrò che è possibile condizionare le


reazione fisiche a sostanze farmacologiche. In particolare, in un
esperimento un cane venne condizionato ad un suono che precedeva
l’iniezione di una sostanza farmacologica che provocava irrequietezza e
vomito. Come atteso, dopo varie prove, il cane cominciò a produrre le
stesse reazioni fisiche in risposta al solo suono. Da allora in poi,
numerosi esperimenti hanno dimostrato che le reazioni fisiche a
sostanze farmacologiche possono essere condizionate anche in soggetti
umani.
Molte sostanze farmacologiche producono due tipi di effetti: un
effetto diretto, cui fa seguito una reazione di compensazione che tende
a ripristinare lo stato corporeo normale. In tali casi, solo la reazione di
compensazione può essere condizionata, in quanto si tratta di una
risposta evocata in maniera riflessa e mediata dal sistema nervoso
centrale (dal midollo spinale o dal cervello). Quindi, uno stimolo neutro
che precede regolarmente l’assunzione di una sostanza farmacologica
produce, nella maggior parte dei casi, una risposta condizionata che si
contrappone all’effetto diretto della sostanza. Ad esempio, l’effetto
diretto della morfina è quello di ridurre la sensibilità al dolore, un
effetto al quale si contrappongono risposte riflesse che tendono a
ristabilire la normale sensibilità. Quando un ratto riceve numerose
iniezione di morfina in uno stesso ambiente, quell’ambiente diventa
uno stimolo condizionato che innesca automaticamente le risposte di
compensazione. In seguito, se il ratto viene posto nello stesso ambiente
senza ricevere l’iniezione, la risposta compensatoria ha luogo in

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 13
Universitas Mercatorum L’Apprendimento: il
condizionamento classico
nella vita quotidiana

assenza degli effetti diretti: ciò provoca una temporanea ipersensibilità


del ratto al dolore. Siegel e collaboratori (1984) hanno dimostrato che,
anche in soggetti umani, il fenomeno della tolleranza alle droghe
dipende, in parte, dal condizionamento delle risposte di compensazione.
Con il termine ‘tolleranza ad una sostanza’ ci si riferisce al
declino dei suoi effetti fisiologici e comportamentali quando la sostanza
stessa viene assunta in maniera ripetuta. Le persone che assumono
una sostanza regolarmente possono aver bisogno, col tempo, di dosi
sempre più forti per mantenere gli stessi effetti iniziali. In una certa
misura, la tolleranza è dovuta a processi di condizionamento, in quanto
gli stimoli ambientali normalmente associati all’assunzione di una
sostanza farmacologica producono reazioni di compensazione che
iniziano ben prima dell’assunzione effettiva e contrastano gli effetti
diretti della sostanza. Siegel e collaboratori trovarono che molti casi di
overdose in tossicomani dipendenti dall’eroina erano in realtà casi in
cui la dose abituale era stata assunta in un ambiente diverso dal solito.
Quando la dose è assunta nell’ambiente abituale, gli indizi esterni
innescano una serie di reazioni condizionate di compensazione che
permettono al corpo di tollerare dosi elevate. Se però la dose è assunta
in un ambiente diverso da quello abituale, la reazione di
compensazione non si verifica e la sostanza può sviluppare a pieno i
suoi effetti prima che si instauri una reazione fisiologica di contrasto:
ciò può portare a forti sensazioni di malessere o addirittura alla morte.
Anche la ricaduta nelle droghe dopo un periodo di astinenza può
essere in parte spiegata con il condizionamento delle reazioni di
compensazione. Molto spesso i tossicomani riescono ad astenersi dalle
droghe durante il periodo di permanenza in un centro specializzato, in
quanto esso offre un ambiente molto diverso da quello a cui sono

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 13
Universitas Mercatorum L’Apprendimento: il
condizionamento classico
nella vita quotidiana

abituati. Tuttavia, quando fanno ritorno al loro ambiente abituale, i


tossicomani sono di nuovo circondati da tutti gli indizi che hanno
imparato ad associare all’assunzione della droga: tali indizi provocano
reazioni di compensazione molto simili ai sintomi di astinenza e tali da
indurre un forte bisogno di assumere la droga – bisogno che in molti
casi si rivela irresistibile.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 13
Universitas Mercatorum L’Apprendimento: il
condizionamento classico
nella vita quotidiana

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014). Psicologia


generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 13 di 13
L’APPRENDIMENTO:
IL
CONDIZIONAMENTO
OPERANTE
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum L’Apprendimento:
Il condizionamento operante

Indice

1. THORNDIKE E LA LEGGE DELL’EFFETTO ......................... 3

2. LA GABBIA DI SKINNER............................................................ 6

3. I PRINCIPI DEL RINFORZO ..................................................... 9

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 13

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 13
Universitas Mercatorum L’Apprendimento:
Il condizionamento operante

1. THORNDIKE E LA LEGGE DELL’EFFETTO

Gli animali e gli esseri umani non si limitano a reagire agli


stimoli esterni: essi si impegnano attivamente in azioni finalizzate ad
ottenere determinati stimoli o cambiamenti ambientali (il cane gratta
alla porta per farsi aprire; noi premiamo un interruttore per accendere
la luce in una stanza). Queste azioni sono definite risposte operanti, in
quanto operano sul mondo in modo da produrre particolari effetti,
oppure risposte strumentali, poiché fungono da strumenti per ottenere
un particolare cambiamento. Il processo attraverso il quale uomini e
animali apprendono a produrre tali risposte è detto condizionamento
operante (o, talvolta, condizionamento strumentale). Esso può essere
definito come un processo di apprendimento mediante il quale gli effetti
(conseguenze) di una risposta influenzano la probabilità che essa sia
prodotta di nuovo in futuro.

Figura 1. La gabbia-problema di Thorndike e tempo necessario per uscire in


funzione del numero di prove.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 13
Universitas Mercatorum L’Apprendimento:
Il condizionamento operante

I primi studi sul condizionamento operante furono pubblicati da


Thorndike (1898), il quale utilizzava una procedura molto diversa da
quella di Pavlov. Egli si serviva di una particolare apparecchiatura
nota come gabbia-problema (puzzle box): si trattava di una piccola
gabbia che l’animale poteva aprire dall’interno sollevando un gancio o
premendo una leva (si veda la Figura 1). Nei suoi esperimenti,
Thorndike introduceva dei gatti affamati (uno per volta) dentro la
gabbia, con il cibo bene in vista all’esterno. Non appena rinchiusi nella
gabbia, i gatti eseguivano molte azioni diverse nel tentativo di uscire
(graffiare le sbarre o fare pressione contro il coperchio), finché,
casualmente, riuscivano a sollevare il gancio o a premere la leva che
apriva la porta e gli permetteva di raggiungere il cibo. Ripetendo
questa procedura molte volte, lo studioso notò che, in media, il tempo
necessario per compiere l’azione appropriata e uscire dalla gabbia
diminuiva in maniera costante, finché i gatti erano in grado di far
scattare il gancio (o la leva) subito dopo essere stati rinchiusi dentro la
gabbia (si veda la Figura 1).

Figura 2. Meccanismi alla base della legge dell’effetto.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 13
Universitas Mercatorum L’Apprendimento:
Il condizionamento operante

Basandosi sui risultati degli esperimenti effettuati con la gabbia-


problema, Thorndike formulò la cosiddetta legge dell’effetto, la quale
assume che le risposte che in una particolare situazione producono un
effetto soddisfacente acquistano maggiori probabilità di essere prodotte
in futuro nella stessa situazione, mentre le risposte che producono
effetti insoddisfacenti hanno minori probabilità di essere prodotte di
nuovo nella stessa situazione. Negli studi di Thorndike, la situazione
presumibilmente consisteva nell’insieme di immagini, suoni e odori
esperiti dall’animale quando veniva rinchiuso nella gabbia: all’inizio
tali stimoli evocavano molte risposte diverse (ad esempio, grattare
contro le sbarre della gabbia), una sola delle quali era in grado di aprire
la gabbia; tuttavia, una volta aperta la gabbia, l’effetto soddisfacente
prodotto dall’accesso al cibo rafforzava la risposta corretta, per cui le
probabilità che il gatto, trovandosi nella stessa situazione, producesse
la stessa risposta aumentavano rapidamente gabbia (si veda la Figura
3 per uno schema).

Figura 2. Meccanismi alla base della legge dell’effetto .

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 13
Universitas Mercatorum L’Apprendimento:
Il condizionamento operante

2. LA GABBIA DI SKINNER

Lo studioso che più di tutti ha contribuito ad approfondire e a


divulgare i principi del condizionamento operante è stato Burrhus
Skinner (1904-1990). Intorno al 1930, egli ideò un’apparecchiatura che
ben presto divenne nota come ‘gabbia di Skinner’: essa consisteva in
una gabbia contenente una leva su cui l’animale poteva agire in modo
da ricevere un pezzetto di cibo. Rispetto alla gabbia-problema di
Thorndike, i vantaggi ottenuti con questo semplice metodo erano
notevoli:

 in primo luogo, dopo aver risposto la prima volta, l’animale


rimaneva chiuso nella gabbia e poteva quindi continuare a
fornire altre risposte (al contrario, utilizzando la gabbia-
problema, l’animale doveva essere costantemente
riposizionato all’interno della gabbia);
 in secondo luogo, poiché la quantità di cibo dispensata ad
ogni risposta era piccola, un animale affamato doveva
produrre molte risposte prima di saziarsi;
 in terzo luogo, le risposte potevano essere registrate
attraverso dispositivi automatici e il processo di
apprendimento poteva essere descritto in termini di
variazione nella frequenza di risposta (si veda la Figura 3).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 13
Universitas Mercatorum L’Apprendimento:
Il condizionamento operante

Figura 3. Tipica curva di frequenza delle risposte di un gatto che apprende


a premere la leva in una gabbia di Skinner.

Skinner non si limitò soltanto a creare un’apparecchiatura più


efficiente per lo studio dell’apprendimento negli animali, ma coniò
anche una nuova terminologia. Secondo questo studioso:

 il termine risposta operante indica qualunque atto


comportamentale in grado di produrre un effetto
sull’ambiente;
 il termine condizionamento operante indica il processo
attraverso il quale l’effetto di una risposta operante modifica
la probabilità che essa sia nuovamente prodotta in futuro;
 inoltre, il termine rinforzo si riferisce al cambiamento dello
stimolo che è prodotto dalla risposta operante e che fa
aumentare la frequenza della risposta stessa.

Così, in un tipico esperimento con la gabbia di Skinner si ha che:


a) la pressione della leva è la risposta operante; b) l’aumento della
frequenza con cui la risposta viene prodotta è un esempio di

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 13
Universitas Mercatorum L’Apprendimento:
Il condizionamento operante

condizionamento operante; c) il rilascio di un pezzetto di cibo costituisce


un rinforzo. Analogamente, in un esperimento con la gabbia-problema
(Throndike), l’azione di sollevare il gancio corrisponde alla risposta
operante, l’aumento della rapidità con cui l’animale esegue la risposta
a ogni nuova prova è un esempio di condizionamento operante, e
l’uscita dalla gabbia e l’accesso al cibo rappresentano i rinforzi.
Secondo Skinner, alcuni stimoli, come il cibo per un animale
affamato o l’acqua per un animale assetato, rappresentano rinforzi
naturali. D’altra parte, negli esseri umani, determinati stimoli possono
acquisire il valore di rinforzo anche in seguito ad un precedente
apprendimento: Skinner chiamò utilizzò il termine ‘rinforzi
condizionati’ per riferirsi a questo secondo tipo di rinforzi. Un esempio
classico è il denaro: una volta compreso ciò che è possibile comprare con
il denaro, la maggior parte degli esseri umani apprende a comportarsi
in modo da guadagnarne il più possibile.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 13
Universitas Mercatorum L’Apprendimento:
Il condizionamento operante

3. I PRINCIPI DEL RINFORZO

Skinner e i suoi collaboratori hanno studiato molti fenomeni


legati al condizionamento operante. In primo luogo, nella gabbia di
Skinner, il rinforzo viene emesso soltanto dopo una risposta corretta.
Tuttavia, in alcuni casi, il ratto messo in una gabbia di Skinner non
preme mai la leva, o un gatto rinchiuso in una gabbia-problema non
riesce mai ad alzare il chiavistello. In questi casi, il rinforzo non viene
mai emesso e quindi la risposta corretta non può essere condizionata.
Per ovviare a questo problema, Skinner ideò un procedura nota come
‘tecnica del modellamento’ (o shaping), che consiste nel rinforzare ogni
risposta che si avvicina a quella desiderata (ad esempio, si potrebbe
rinforzare il gatto ogni volta che si avvicina al lato della gabbia che
contiene la leva), finché quest’ultima viene prodotta e può essere
rinforzata. In effetti, le persone che addestrano animali (ad esempio, in
un circo) si servono di questa tecnica per insegnare loro ad eseguire
particolari compiti.
Al pari del condizionamento classico, Skinner scoprì che, se non
porta più a ottenere un rinforzo, una risposta operante condizionata
diminuisce di frequenza in maniera graduale, fino a scomparire del
tutto (i ratti cessano di premere la leva se non ricevono più cibo e le
persone smettono di sorridere a chi non contraccambia). Il mancato
rinforzo di una risposta operante e il conseguente declino nella sua
frequenza sono indicati col termine ‘estinzione’. Anche in questo caso,
l’estinzione non è mai totale: il semplice passare del tempo può portare
ad un recupero spontaneo, e una singola risposta rinforzata può
riportare la frequenza di risposta al livello precedente all’estinzione.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 13
Universitas Mercatorum L’Apprendimento:
Il condizionamento operante

All’inizio della procedura di condizionamento, è preferibile


adottare uno schema di rinforzo continuo, in cui la risposta operante è
costantemente rinforzata. Tuttavia, in seguito è spesso proficuo
utilizzare uno schema di rinforzo parziale, in cui la risposta viene
rinforzata solo alcune volte. Skinner e colleghi hanno identificato
quattro principali schemi di rinforzo parziale:
Schemi a rapporto fisso: il rinforzo si verifica sempre dopo n
risposte (dove ‘n’ è un numero intero maggiore di 1); per esempio, in
uno schema a rapporto fisso 5, il rinforzo viene sempre fornito in
corrispondenza della quinta risposta, dopo quattro risposte non
rinforzate.
Schema a rapporto variabile: il numero di risposte necessarie ad
ottenere il rinforzo varia in modo tale che la media sia pari a n; per
esempio, in uno schema a rapporto variabile 5, il rinforzo può essere
fornito dopo 7 risposte non rinforzate e successivamente dopo 3 risposte
non rinforzata (la media di 7 e 3 è pari a 5).
Schema a intervallo fisso: tra due risposte rinforzate successive
deve passare un intervallo di tempo fisso; ad esempio, in uno schema a
intervallo fisso di 30 secondi, viene rinforzata una risposta emessa dopo
almeno 30 secondi di distanza dall’ultima risposta.
Schema a intervallo variabile: il tempo che deve trascorrere tra
due risposte rinforzate successive varia in modo che la media sia pari
a n; ad esempio, in uno schema a intervallo variabile di 30 secondi, la
risposta può essere rinforzata dopo 10 secondi e poi dopo 50 secondi di
distanza dalla risposta precedente, in modo che la media sia pari a 30.
Un vantaggio connesso all’uso di schemi di rinforzo parziale è
dato dal fatto che essi rendono la risposta condizionata molto resistente
all’estinzione. Infatti, ratti che passano da uno schema a rapporto
continuo ad uno schema a rapporto parziale in cui i rinforzi sono

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 13
Universitas Mercatorum L’Apprendimento:
Il condizionamento operante

sempre più rari fino ad annullarsi del tutto, spesso producono centinaia
di risposte non rinforzate prima di smettere di rispondere. Secondo
Skinner (1953), questo fenomeno aiuta a spiegare perché i giocatori
d’azzardo continuano a scommettere anche quando non vincono da
parecchio tempo: essi sono vittime degli schemi ad intervalli variabili
che caratterizzano praticamente tutte le slot machine e in cui le vincite
ricorrono ad intervalli variabili. Secondo questa interpretazione
cognitiva, i giocatori d’azzardo continuano a giocare perché hanno
appreso che la prossima scommessa potrebbe essere quella che li farà
vincere.
Come accennato pocanzi, nella terminologia adottata da
Skinner, un ‘rinforzo’ è qualsiasi processo che aumenta la probabilità
che una certa risposta venga emessa: esso può essere positivo o
negativo. Un rinforzo positivo si ha quando l’arrivo di uno stimolo
gradito (ad esempio il cibo, il denaro, o dei complimenti) in seguito ad
una risposta aumenta la probabilità di produrre la stessa risposta in
futuro. D’altra parte, un rinforzo negativo si ha quando la rimozione di
uno stimolo spiacevole in seguito ad una risposta rende la risposta
stessa più probabile in futuro. Tipici rinforzi negativi sono le scosse
elettriche, le compagnie sgradevoli, i rimproveri, i rumori forti, e
qualsiasi altra cosa che un organismo cerchi attivamente di evitare.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 13
Universitas Mercatorum L’Apprendimento:
Il condizionamento operante

Figura 4. Significato di rinforzo positivo, rinforzo negativo, punizione positiva


e punizione negativa.

Utilizzando la stessa terminologia, una ‘punizione’ può essere


considerata come un processo opposto al rinforzo, in cui le conseguenze
di una risposta fanno diminuire (anziché aumentare) la probabilità di
emettere la stessa risposta in futuro. Anche la punizione può essere
positiva o negativa. Una punizione positiva si ha quando l’arrivo di uno
stimolo sgradito (una scossa elettrica per un ratto o un rimprovero per
una persona) diminuisce la frequenza di risposta; al contrario, una
punizione negativa si ha quando la rimozione di uno stimolo gradito (la
sottrazione di cibo ad un ratto affamato o di denaro ad una persona) fa
diminuire la frequenza di risposta (si veda la Figura 4 per un
riassunto).
È importante notare che uno stesso stimolo può agire sia da
rinforzo che da punizione: ad esempio, un genitore che rimprovera il
figlio assume che il bambino consideri il rimprovero come una
punizione; tuttavia, esso potrebbe rappresentare anche un rinforzo per
il bambino, se il suo scopo era quello di attirare l’attenzione su di sé.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 13
Universitas Mercatorum L’Apprendimento:
Il condizionamento operante

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 13 di 13
Universitas Mercatorum Condizionamento operante:
Discriminazione, generalizzazione
e apprendimento di aspettative

CONDIZIONAMENTO
OPERANTE:
DISCRIMINAZIONE,
GENERALIZZAZIONE
E APPRENDIMENTO
DI ASPETTATIVE
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Condizionamento operante:
Discriminazione, generalizzazione
e apprendimento di aspettative

Indice

1. L’APPRENDIMENTO DISCRIMINATIVO NEL


CONDIZIONAMENTO OPERANTE ............................................. 3

2. GENERALIZZAZIONE E COMPRENSIONE DEI CONCETTI 5

3. CONDIZIONAMENTO OPERANTE COME


APPRENDIMENTO DI ASPETTATIVE ...................................... 7

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 10
Universitas Mercatorum Condizionamento operante:
Discriminazione, generalizzazione
e apprendimento di aspettative

1. L’APPRENDIMENTO DISCRIMINATIVO NEL


CONDIZIONAMENTO OPERANTE

Che cosa apprende un ratto durante una procedura di


condizionamento operante? La risposta più semplice è che un ratto
condizionato in una gabbia di Skinner apprende a premere una leva in
risposta ad una particolare ‘situazione’, che include il trovarsi
all’interno della gabbia. La pressione della leva viene rinforzata solo
quando è presente l’insieme di stimoli abitualmente esperiti dentro la
gabbia: quindi, la risposta operante diventa quindi più probabile in
presenza degli stessi stimoli. La specificità dell’associazione tra gli
stimoli presenti all’interno della gabbia e la risposta condizionata è
evidenziata dal fatto che il ratto non preme la leva quando si trova in
una gabbia diversa da quella utilizzata per il condizionamento o in un
altro luogo in cui la risposta non è mai stata rinforzata.
La procedura di condizionamento discriminativo consente di
condizionare un animale a produrre una specifica azione in risposta a
stimoli molto più specifici rispetto all’ambiente interno della gabbia.
Essenzialmente, questo metodo consiste nel rinforzare le risposte
dell’animale in presenza di un determinato stimolo e nell’estinguerle in
assenza dello stimolo stesso (ovvero, in presenza di qualsiasi altro
stimolo). Quindi, per esempio, per addestrare un ratto a premere la
leva ogni volta che sente uno specifico suono, occorre alternare periodi
in cui il suono è presente e la risposta viene rinforzata a periodi in cui
il suono è assente e la risposta non è rinforzata. Dopo numerose prove,
il ratto imparerà a rispondere premendo la leva non appena sente il
suono e smettendo quando il suono cessa.
In questo esempio, il suono è denominato ‘stimolo
discriminativo’, in quanto segnala la disponibilità del rinforzo: infatti,
il suono è presente quando la risposta viene rinforzata, mentre è
assente quando la risposta non viene rinforzata. Uno stimolo
Universitas Mercatorum Condizionamento operante:
Discriminazione, generalizzazione
e apprendimento di aspettative

discriminativo nel condizionamento operante è per certi versi analogo


allo stimolo condizionato nel condizionamento classico, in quanto è in
grado di evocare una specifica risposta come risultato di un precedente
apprendimento. La differenza fondamentale con il condizionamento
classico è che la risposta operante non è di natura riflessa: piuttosto, lo
stimolo crea una situazione ottimale perché la risposta venga
spontaneamente prodotta dall’animale.
Il condizionamento operante discriminativo, al pari della
medesima procedura nel condizionamento classico, è uno strumento
utile per studiare le capacità sensoriali di animali e bambini molto
piccoli che non possono esprimere le proprie sensazioni a parole. Ad
esempio, in un esperimento i ricercatori utilizzarono come rinforzo un
sorso di acqua zuccherata per condizionare neonati di appena un giorno
a girare il capo da un lato quando sentivano un certo suono, e a girarlo
dall’altra parte quando sentivano il ronzio di un cicalino. Questi
neonati appresero dunque a produrre due azioni diverse in risposta a
due stimoli discriminativi diversi: ciò dimostra, tra le altre cose, che
essi erano in grado di percepire la differenza tra i due suoni.
Universitas Mercatorum Condizionamento operante:
Discriminazione, generalizzazione
e apprendimento di aspettative

2. GENERALIZZAZIONE E COMPRENSIONE DEI


CONCETTI

Nelle lezioni precedenti, abbiamo visto che, in una procedura di


condizionamento classico, gli animali che hanno appreso a rispondere
ad un determinato stimolo condizionato risponderanno anche a stimoli
molto simili ad esso: questo fenomeno è noto come generalizzazione.
Analogamente, nel condizionamento operante, si ha che, dopo una
procedura di condizionamento discriminativo, gli animali
risponderanno anche a nuovi stimoli che percepiscono come simili allo
stimolo discriminativo. Questa procedura è stata proficuamente
utilizzata per analizzare la comprensione dei concetti da parte degli
animali.
In una serie di esperimenti classici, Herrnstein (1979) condizionò
dei piccioni a beccare un tasto per ottenere dei semi utilizzando come
stimoli discriminativi diapositive con immagini naturalistiche. Lo
studioso selezionò due diverse categorie di immagini: le diapositive di
una serie contenevano sempre l’immagine di un albero (o di una parte
di esso), mentre le diapositive dell’altra serie non comparivano alberi.
I piccioni ricevevano i semi come ricompensa solo se beccavano il tasto
quando la diapositiva conteneva un albero, mentre non ottenevano
nulla se beccavano il tasto quando l’immagine non conteneva alberi. I
risultati dimostrarono che, dopo 5 giorni di addestramento, tutti i
piccioni erano in grado di discriminare perfettamente tra le due
categorie di immagini.
Ora, la domanda che si pose Herrnstein (1979) era la seguente: i
piccioni imparavano a riconoscere ogni immagine come uno stimo a sé
stante, oppure apprendevano una regola in base alla quale
distinguevano le immagini in due categorie? Per rispondere a questa
domanda, Herrnstein presentò ai piccioni delle diapositive
completamente nuove, che non avevamo mai visto prima, senza mai
Universitas Mercatorum Condizionamento operante:
Discriminazione, generalizzazione
e apprendimento di aspettative

fornire loro alcun rinforzo (ovvero, senza mai fornire i semi come
ricompensa). I risultati dimostrarono che i piccioni beccavano con
frequenza maggiore quando la nuova diapositiva conteneva l’immagine
di un albero. Questi dati suggeriscono che, apparentemente, i piccioni
basavano le loro risposte su un concetto di ‘albero’ (dove con il termine
‘concetto’ si intende una regola per raggruppare gli stimoli in categorie
diverse).
Esperimenti successivi hanno dimostrato che i piccioni possono
formarsi concetti su automobili, sedie, volti umani femminili e
maschili, e perfino su simboli astratti. Wasserman (1995), ad esempio,
addestrò dei piccioni a beccare uno di quattro tasti, a seconda che la
diapositiva rappresentava un’automobile, un gatto, una sedia o un fiore
(Figura 1).

Figura 1. Esempio di setting sperimentale nell’esperimento di Wasserman (1995).


Universitas Mercatorum Condizionamento operante:
Discriminazione, generalizzazione
e apprendimento di aspettative

3. CONDIZIONAMENTO OPERANTE COME


APPRENDIMENTO DI ASPETTATIVE

Come per il condizionamento classico, i primi comportamentisti


era favorevoli alla teoria stimolo-risposta, secondo la quale nel
condizionamento operante si stabilisce un forte legame tra la risposta
condizionata e gli stimoli presenti subito prima di emettere la risposta.
Nel caso specifico degli studi condotti con la gabbia di Skinner, quindi,
il ratto apprenderebbe una connessione tra gli stimoli presenti
all’interno della gabbia (o, in alternativa, tra uno specifico stimolo
discriminativo) e la pressione della leva. Tuttavia, altri studiosi hanno
sostenuto che durante il condizionamento operante l’animale apprende
molto più che la semplice associazione stimolo-risposta. Secondo questa
ipotesi alternativa, il ratto apprenderebbe anche la relazione S-S tra
stimolo discriminativo e stimolo rinforzante (ovvero, apprendono il
fatto che il suono segnala la disponibilità di cibo) e la relazione R-S tra
risposta e stimolo rinforzante (ovvero, apprendono il fatto che la
pressione della leva produce il rilascio di cibo).
In particolare, per Tolman (1959) l’animale sottoposto ad una
procedura di condizionamento operante apprende una aspettativa
mezzo-fine: in altre parole, il ratto apprende che una particolare
risposta, prodotta al momento appropriato (in presenza degli stimoli
esperiti all’interno della gabbia, oppure in presenza dello stimolo
discriminativo) porterà ad una certa conseguenza. Secondo questa
teoria, il suono non attiva direttamente la risposta: piuttosto, il suono
genera nell’animale l’aspettativa che premendo la leva otterrà un certo
cibo – cioè la leva è vista come il mezzo per ottenere un certo fine.
L’animale può poi decidere se premere o meno la leva, a seconda di
quanto sia affamato e di quanto desidera quel particolare cibo.
Prove a favore dell’ipotesi di Tolman derivano da studi che hanno
esaminato gli effetti del divario nella ricompensa. In questi
Universitas Mercatorum Condizionamento operante:
Discriminazione, generalizzazione
e apprendimento di aspettative

esperimenti, i ratti di un primo gruppo apprendono a premere la leva


per ricevere una ricompensa di grande valore (ad esempio, un cibo
molto saporito), mentre i ratti di un secondo gruppo apprendono a
premerla per ricevere una ricompensa di minor valore (ad esempio, un
cibo poco saporito). Come prevedibile, i ratti del primo gruppo tendono
a rispondere con frequenza maggiore rispetto ai ratti del secondo
gruppo. Ma cosa succede se, dopo un po’ di prove, le condizioni
sperimentali vengono invertite e i ratti del primo gruppo cominciano a
ricevere la ricompensa minore?
Per la teoria S-R, i ratti del primo gruppo dovrebbero continuare
a rispondere con maggiore frequenza, almeno per qualche tempo, in
virtù della forte connessione che si è stabilita nella prima fase
dell’addestramento tra la pressione della leva e il rilascio di cibo. In
realtà, i risultati che si osservano sono molto diversi. Nei ratti che
passano dalla ricompensa maggiore a quella minore, il tasso di risposta
mostra un drastico declino, fino a diventare inferiore rispetto al livello
medio mostrato dal secondo gruppo: si parla in questo caso di effetto di
divario negativo. Al contrario, nei ratti che passano dalla ricompensa
minore a quella maggiore, il tasso di risposta aumenta velocemente,
fino a superare il livello medio del primo gruppo: si parla di effetto di
divario positivo. Da un punto di vista cognitivo, tali effetti si spiegano
solo se l’animale: a) ha appreso ad aspettarsi una certa ricompensa; e
b) è in grado di confrontare la ricompensa che riceve con quella che si
aspettava. Se il confronto è positivo, la frequenza di risposta aumenta;
se invece il confronto è negativo, la risposta diventa meno frequente.
Negli esseri umani, le ricompense possono avere effetti diversi,
a seconda del significato che assumono per chi le riceve. In un celebre
esperimento di Lepper & Greene (1978), i bambini del gruppo
sperimentale ricevevano degli attestati di ‘bravo in disegno’ come
ricompensa per i loro lavori con i pennarelli. L’effetto immediato fu di
aumentare il tempo dedicato al disegno, rispetto ad un gruppo di
controllo che non era mai stato ricompensato per l’attività di disegno.
Universitas Mercatorum Condizionamento operante:
Discriminazione, generalizzazione
e apprendimento di aspettative

Tuttavia, in una fase successiva, quando gli attestati non furono più
consegnati, la frequenza dell’attività di disegno diminuì bruscamente
nel gruppo sperimentale, fino a diventare molto meno frequente che tra
i bambini del gruppo di controllo.
Il rapido declino di una attività dopo un periodo di ricompensa
viene indicato col termine ‘effetto della sovragiustificazione’ ed è
particolarmente probabile per i compiti a cui il soggetto si dedica
inizialmente per puro divertimento. L’interpretazione più accreditata
assume che la ricompensa aggiunga una giustificazione non necessaria
per mettere in atto quel comportamento: di conseguenza, il soggetto
arriva a considerare il compito come un lavoro (ovvero un’attività che
intraprende per ottenere una ricompensa esterna), anziché come un
gioco (ovvero un’attività intrapresa per puro piacere). Quando i soggetti
arrivano a considerare una certa attività come un lavoro, smettono di
impegnarsi nel compito quando esso non viene più ricompensato;
invece, se non avessero mai ricevuto ricompense, avrebbero continuato
a svolgerlo per puro piacere.
Universitas Mercatorum Condizionamento operante:
Discriminazione, generalizzazione
e apprendimento di aspettative

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.
L’APPRENDIMENTO:
GIOCO,
ESPLORAZIONE E
OSSERVAZIONE
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum L’Apprendimento: gioco,
esplorazione e osservazione

Indice

1. IL GIOCO ........................................................................................ 3

2. L’ESPLORAZIONE ....................................................................... 6

3. OSSERVAZIONE E IMITAZIONE .............................................. 9

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 12

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 12
Universitas Mercatorum L’Apprendimento: gioco,
esplorazione e osservazione

1. IL GIOCO

Nei paradigmi del condizionamento classico e operante il


ricercatore induce cambiamenti prevedibili nel comportamento
dell’animale, il quale ha un ruolo prevalentemente passivo. Tuttavia,
in natura gli animali sono soggetti attivi nell’apprendimento.
Attraverso il gioco gli animali più giovani apprendono a controllare con
efficienza i propri comportamenti. Attraverso l’esplorazione gli animali
di ogni età registrano i cambiamenti significativi avvenuti nel loro
ambiente. Infine, attraverso l’osservazione e l’imitazione dei loro simili
gli animali apprendono nuove abilità.
Il gioco, l’esplorazione e l’osservazione/imitazione sono tendenze
comportamentali innate, istintive, che si sono stabilite attraverso
l’evoluzione in quanto facilitano e promuovono l’apprendimento di
nuove informazioni. Il gioco, in particolare, è un comportamento che
non ha apparentemente alcuno scopo utile immediato e al quale sia gli
animali sia gli esseri umani si dedicano esclusivamente per il piacere
che ne deriva. A ben vedere, il gioco può avere dei costi elevati, in
quanto consuma energia (che deve essere rimpiazzata mangiando altro
cibo) e talvolta può comportare dei pericoli. Poiché la selezione naturale
non dà origine a istinti o piaceri privi di scopo, è chiaro che il valore e
l’utilità del gioco deve essere superiore a questi costi, altrimenti
sarebbe stato eliminato nel corso dell’evoluzione.
A questo proposito, il filosofo e naturalista tedesco Groos (Il gioco
degli animali, 1898) affermava che lo scopo primario del gioco consiste
nel fornire agli animali giovani un mezzo per apprendere ad usare le
loro abilità istintive. Gli animali vengono al mondo con pulsioni e
tendenze biologiche a comportarsi in certi modi (istinti): tuttavia, per

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 12
Universitas Mercatorum L’Apprendimento: gioco,
esplorazione e osservazione

essere efficaci, questi comportamenti devono essere praticati a lungo e


affinati. Questa teoria è ancora oggi la più accreditata tra gli studiosi,
in quanto supportata da numerose osservazioni:
In primo luogo, gli animali giovani giocano più degli adulti della
loro specie, proprio perché hanno più cose da apprendere e più abilità
da sviluppare;
In secondo luogo, gli animali delle specie che devono imparare di
più giocano con maggiore frequenza. I mammiferi dipendono, per
sopravvivere, dall’apprendimento più di qualsiasi altra classe di
animali: coerentemente, i giovani mammiferi giocano di più rispetto ai
giovani di qualsiasi altro gruppo animale. Tra i mammiferi, i primati
(in particolare gli scimpanzé e i bonobo) sono, dopo l’uomo, l’ordine in
cui il gioco è più diffuso, in quanto questi animali sono molto flessibili,
adattabili e dipendente dall’apprendimento. Analogamente, i carnivori
giocano molto di più rispetto agli erbivori, il che è in accordo con il fatto
che il successo nella caccia richiede una pratica maggiore rispetto al
semplice pascolare.
In terzo luogo, gli animali giovani si impegnano soprattutto nei
giochi in cui sono coinvolte le abilità di cui hanno più bisogno per
sopravvivere. Così, i giovani carnivori giocano a inseguirsi, tendersi
agguati e saltarsi addosso, tutte abilità di cui avranno bisogno nella
caccia; al contrario, gli erbivori giocano soprattutto a correre e a
scartare nella corsa, abilità di cui avranno bisogno per sfuggire ai
predatori. I giovani di tutte le specie giocano a fare la lotta e questo
comportamento è particolarmente diffuso tra i maschi, i quali, in
futuro, dovranno lottare per conquistare il territorio e per avere accesso
alle femmine.
In quarto luogo, il gioco implica molte ripetizioni: per sviluppare
una determinata abilità è necessario ripetere la stessa attività più e

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 12
Universitas Mercatorum L’Apprendimento: gioco,
esplorazione e osservazione

più volte, e infatti la ripetizione è un tratto distintivo del gioco. I


cuccioli di orso che giocano a rincorrersi lo fanno ripetutamente,
alternandosi, cioè passando dal ruolo di inseguito a quello si
inseguitore. Ogni ripetizione presenta leggere differenze rispetto a
quella precedente: è come se il giovane animale stesse provando, ogni
volta, un modo diverso di dare la caccia, di scappare via o di dondolarsi
dai rami degli alberi.
Infine, il gioco è una sfida: i giovani animali tendono a mettersi
deliberatamente in situazioni che rappresentano una sfida per le loro
abilità. Ad esempio, i piccoli di capra delle nevi che sanno già correre
in paino tendono a concentrare i loro giochi su pendii ripidi, dove la
corsa e lo scatto sono più difficili.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 12
Universitas Mercatorum L’Apprendimento: gioco,
esplorazione e osservazione

2. L’ESPLORAZIONE

L’apprendimento può essere approssimativamente suddiviso in


due categorie: l’apprendimento di abilità, che è favorito soprattutto dal
gioco, e l’apprendimento di informazioni, che è favorito soprattutto
dall’esplorazione. In termini generali, l’esplorazione rappresenta una
categoria del comportamento più primitiva e diffusa rispetto al gioco.
Anche gli animali delle classi inferiori, il cui comportamento è
rigidamente determinato dagli istinti, devono comunque esplorare
l’ambiente allo scopo di apprendere informazioni su dove trovare cibo,
riparo, partner con cui accoppiarsi e tutti gli elementi necessari per la
vita e la riproduzione.
Diversamente dal gioco, l’esplorazione si mescola spesso alla
paura: ciò è dovuto al fatto che l’esplorazione si concentra soprattutto
su stimoli e ambienti nuovi, i quali possono provocare paura. Lo scopo
dell’esplorazione è in effetti proprio quello di determinare se un oggetto
o un luogo non familiare è sicuro oppure no. Spesso l’animale che
esplora si sente diviso tra due sensazioni: la curiosità, che lo spinge
verso l’oggetto o il luogo sconosciuto, e la paura, che lo spinge lontano
da quell’oggetto o da quel luogo. Ad esempio, un ratto messo in un
labirinto non familiare pieno di oggetti nuovi presenterà un insieme di
comportamenti prevedibili. Dapprima il ratto si rannicchierà in un
angolo della gabbia; successivamente, comincerà a fare qualche passo
fuori dall’angolino ed esplorerà le parti più vicine del labirinto, per
tornare subito indietro nel suo angolo. Con il passare del tempo il ratto
diventerà più audace e si avventurerà sempre più lontano, finché non
avrà esplorato l’intero labirinto e tutti gli oggetti che esso contiene.
Quando l’ambiente è diventato finalmente familiare, il ratto ridurrà i

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 12
Universitas Mercatorum L’Apprendimento: gioco,
esplorazione e osservazione

movimenti di esplorazione in maniera sensibile ma farà


periodicamente il giro dell’arena, come se stesse controllando se
qualcosa è cambiato (un comportamento indicato con il termine
perlustrazione).
In un esperimento ormai classico, Tolman & Honzik (1930)
dimostrarono che i topi possono apprendere a percorrere un labirinto
anche se non ricevono alcuna ricompensa (cibo o altro). Questi
ricercatori osservarono il comportamento di tre gruppi diversi di ratti,
sottoposti a diverse condizioni di ricompensa, mentre cercavano di
raggiungere una meta prefissata all’interno di un complicato labirinto.
I ratti del Gruppo 1 (nessuna ricompensa) erano sottoposti ad una
prova al giorno, senza mai trovare il cibo alla meta: come prevedibile,
questi animali non mostrarono alcuna riduzione nel numero di errori
nel corso dei giorni. I ratti del Gruppo 2 (ricompensa costante) erano
sottoposti ad una prova al giorno e trovavano sempre il cibo alla meta:
come prevedibile, per questi animali il numero di errori nel raggiungere
la meta diminuiva drasticamente di giorno in giorno. Infine, i ratti del
Gruppo 3 (ricompensa all’11° giorno), che era il gruppo più interessante
dal punto di vista teorico, non ricevevano alcuna ricompensa per i primi
dieci giorni, ma a partire dall’undicesimo giorno trovavano il cibo alla
meta. Come illustrato nella Figura 1, i ratti di quest’ultimo gruppo
mostravano uno straordinario miglioramento tra l’11° e il 12° giorno:
infatti, gli errori diminuivano fino a raggiungere il livello del gruppo 2
(ovvero, il livello dei ratti ricompensati in maniera costante).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 12
Universitas Mercatorum L’Apprendimento: gioco,
esplorazione e osservazione

Figura 1. Numero di errori commessi dai ratti dei tre gruppi


nell’esperimento di Tolman e Honzik (1930).

Sulla base di questi dati, Tolman e Honzik conclusero che le


ricompense non influenzano ciò che gli animali apprendono, ma
piuttosto ciò che essi fanno. Attraverso l’esplorazione i ratti
apprendono l’organizzazione dei vari siti del labirinto in maniera
latente, anche se non ricevono alcuna ricompensa; questo
apprendimento è dimostrato dal fatto che, in una fase successiva, essi
si dirigono velocemente verso uno specifico sito se hanno fatto
l’esperienza di trovarvi il cibo. Tolman coniò il termine apprendimento
latente per indicare un apprendimento che non si manifesta in modo
immediato nel comportamento dell’animale. Nell’esperimento appena
descritto, i ratti del gruppo 3 avevano appreso l’organizzazione spaziale
del labirinto durante le prime dieci prove, ma questo apprendimento
era rimasto latente, cioè non si era manifestato nel comportamento,
fino a quando la somministrazione di cibo non fornì loro una
motivazione per correre subito verso la met

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 12
Universitas Mercatorum L’Apprendimento: gioco,
esplorazione e osservazione

3. OSSERVAZIONE E IMITAZIONE

Per la maggior parte degli esseri umani, le altre persone sono


spesso oggetto di intensa esplorazione: ciò è dovuto al fatto che
guardando gli altri possiamo apprendere una grande quantità di
informazioni.
Così, quando ci troviamo in un nuovo ambiente sociale,
osserviamo gli altri per capire quali sono i comportamenti attesi
(normali) in quell’ambiente. Analogamente, per apprendere una nuova
abilità, il primo passo è di solito osservare in azione una persona che
già padroneggia quella specifica abilità. Questo tipo di apprendimento
che si verifica tramite l’osservazione degli altri è indicato col termine
apprendimento osservativo.
Numerosi esperimenti dimostrano che anche gli animali possono
apprendere, del tutto o parzialmente, come eseguire un compito
osservando gli altri. Ad esempio, dei gattini piccoli imparano in fretta
a premere una leva per ottenere cibo se hanno visto la madre compiere
quell’azione, e dei cani apprendono più velocemente a saltare una
barriera per raggiungere del cibo se hanno visto un altro cane farlo. In
effetti, questi risultati sembrano suggerire che i mammiferi in generale
sono in grado di apprendere per imitazione guardando ciò che fanno i
loro simili. Tuttavia, studi più accurati indicano che la vera imitazione
non si verifica nei mammiferi al di fuori dei primati e che
l’apprendimento imitativo nei mammiferi diversi dai primati implica
processi più semplici, quali il rafforzamento dello stimolo e il
rafforzamento dello scopo. Per rafforzamento dello stimolo si intende
un aumento di rilevanza dell’oggetto su cui l’individuo osservato sta
agendo, mentre per rafforzamento dello scopo si intende un aumento

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 12
Universitas Mercatorum L’Apprendimento: gioco,
esplorazione e osservazione

della pulsione a ricevere la stessa ricompensa ottenuta dall’individuo


osservato;
Secondo questa interpretazione, il gattino che vede la madre
premere la leva per ottenere pezzetti di cibo può diventare fortemente
attratto dalla leva (rafforzamento dello stimolo) e molto motivato a
ottenere lo stesso tipo di cibo (rafforzamento dello scopo). Combinati
insieme, questi due fattori aumenta la probabilità che il gattino si
rivolga alla leva e la prema in maniera più o meno accidentale; quindi,
mangerà i pezzetti di cibo perché anche quelli hanno acquisito
rilevanza.
Al contrario dei gattini, i primati non umani come gli scimpanzé
sono capaci di vera imitazione: diversi esperimenti di laboratorio hanno
infatti dimostrato che queste scimmie osservano dei ‘modelli’ (sia gli
esseri umani sia altri scimpanzé) allo scopo di apprendere nuove e
talvolta complesse sequenze di azioni finalizzate a ottenere una
ricompensa. Di recente, è stato scoperto che il cervello degli esseri
umani e di alcuni primati non umani contiene un sistema di neuroni
appositamente dedicato a facilitare l’imitazione: queste cellule nervose
sono chiamate neuroni specchio, in quanto si attivano sia quando i
soggetti compiono un particolare movimento sia quando essi osservano
un altro individuo compiere lo stesso movimento. In pratica, per questi
neuroni osservare equivale a fare: essi consentono un nuovo
apprendimento attraverso gli stessi sistemi neurali coinvolti
nell’esecuzione di un’azione.
Negli esseri umani l’apprendimento di nuove abilità fa grande
affidamento sulla cultura, intesa come un insieme di credenze e
tradizioni trasmesse di generazione in generazione. Grazie alla cultura
non dobbiamo reinventare la ruota ad ogni generazione e non dobbiamo
riapprendere ex novo le tecniche per allevare le mucche: possiamo

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 12
Universitas Mercatorum L’Apprendimento: gioco,
esplorazione e osservazione

semplicemente apprendere ciò che è stato scoperto da chi ci ha


preceduto e concentrarci su come migliorarlo. La specie seconda a noi
per importanza della cultura è probabilmente quella degli scimpanzé.
Le ricerche hanno infatti trovato che gruppi di scimpanzé che vivono in
gruppi isolati possiedono tradizioni culturali diverse che vengono
trasmesse di generazione in generazione. Ad esempio, alcune colonie di
scimpanzé possiedono l’abilità di rompere il guscio delle noci servendosi
di pietre; i giovani all’interno di queste colonie apprendono tale abilità
osservando gli adulti e sperimentando i vari gesti per parecchio tempo.
Per questi animali, l’importanza dell’osservazione e della cultura è
stata ampiamente dimostrata da alcune ricerche che hanno trovato che
l’introduzione di uno scimpanzé che conosceva questa tecnica in una
colonia che non sapeva rompere le noci portò alla rapida diffusione di
quella abilità in tutto il gruppo.
Quando osserviamo una persona i nostri occhi si spostano
automaticamente nella stessa direzione in cui si sposta il suo sguardo:
perciò finiamo per guardare lo stesso oggetto che l’altra persona sta
guardando. Questo comportamento di seguire lo sguardo (gaze
following) ci aiuta a capire cosa l’altra persona sta guardando o, in una
conversazione, a capire di cosa sta parlando. La sua importanza è
dimostrata dal fatto che bambini piccoli mostrano questo
comportamento già a partire dalla seconda metà del primo anno di vita.
Tra le altre funzioni, esso sembra facilitare l’apprendimento del
linguaggio. Infatti, quando la madre pronuncia una nuova parola, il
bambino può capire il suo significato semplicemente guardando lo
stesso oggetto che la madre sta guardando: le ricerche indicano che i
bambini che manifestano più spesso questo comportamento
apprendono il linguaggio più in fretta.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 12
Universitas Mercatorum L’Apprendimento: gioco,
esplorazione e osservazione

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 12
LA MEMORIA:
IL MODELLO
MODALE DELLA
MENTE
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum La memoria: il modello
modale della mente

Indice

1. IL MODELLO MODALE DELLA MENTE ................................ 3

2. IL MODELLO MODALE DELLA MENTE ................................ 5

3. MEMORIA A LUNGO TERMINE E PROCESSI DI


CONTROLLO ................................................................................. 7

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 10

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 10
Universitas Mercatorum La memoria: il modello
modale della mente

1. IL MODELLO MODALE DELLA MENTE

Come accennato in alcune lezioni precedenti, gli psicologi


cognitivi considerano la mente, e quindi il cervello, come un elaboratore
di informazioni, analogo ad un computer. L’informazione giunge al
cervello attraverso i sistemi sensoriali, può essere elaborata e
immagazzinata in un deposito a lungo termine e infine recuperata per
risolvere un problema. In questo contesto, la memoria può essere
genericamente definita come l’insieme di tutte le informazioni
contenute nella mente di una persona; inoltre, con questo termine si
intende la capacità della mente di immagazzinare e recuperare tali
informazioni.
Notevoli progressi nello studio della memoria sono stati ottenuti
suddividendola in componenti, suscettibili di essere studiate e descritte
separatamente. Naturalmente, tali suddivisioni devono essere basate
su modelli o teorie ampiamente condivise dalla comunità scientifica. In
effetti, nella psicologia cognitiva le teorie coincidono spesso con i
modelli, i quali sono rappresentati attraverso diagrammi di flusso, in
cui i riquadri simboleggiano le diverse componenti della mente, mentre
le frecce indicano il movimento delle informazioni da una componente
all’altra. Ogni componente che compare nel modello viene considerata
come la sede di un particolare insieme di operazioni o processi, che
servono a manipolare le informazioni in entrata.
Il modello più famoso in assoluto è sicuramente il modello
modale della mente, proposto alla fine degli anni ’60 del Novecento da
Atkinson e Shiffrin (1968) e da Waugh e Norman (1965) (si veda la
Figura 1). In sintesi, il modello prevede tre diversi magazzini di
memoria (la memoria sensoriale, la memoria a breve termine e la

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 10
Universitas Mercatorum La memoria: il modello
modale della mente

memoria a lungo termine), ognuno caratterizzato da una propria


capacità (la quantità di informazioni che possono essere
simultaneamente mantenute ed elaborate) e da una propria durata (il
tempo per cui può essere trattenuta l’informazione). Inoltre, il modello
include una serie di processi di controllo (l’attenzione, la reiterazione,
la codifica e il recupero) che governano l’elaborazione delle informazioni
all’interno di ciascun magazzino e il loro passaggio da un deposito
all’altro.

Figura 1. Il modello modale della mente (Atkinson e Shiffrin, 1968).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 10
Universitas Mercatorum La memoria: il modello
modale della mente

2. IL MODELLO MODALE DELLA MENTE

Quando un lampo squarcia il buio della notte, noi possiamo


continuare a vedere il lampo e gli oggetti da esso illuminati per una
frazione di secondo oltre la sua durata. Questo e altri fenomeni
analoghi dimostrano che i sistemi sensoriali trattengono una traccia
dell’input sensoriale per un breve periodo (meno di 1 secondo per
stimoli visivi, qualche secondo per gli stimoli uditivi): questa traccia e
la capacità di trattenerla sono genericamente indicate con il termine
‘memoria sensoriale’. Si ritiene che esistano memorie sensoriali
specifiche per la visione, l’udito, l’olfatto, il gusto e il tatto; tuttavia,
solo le memorie sensoriali relative alla visione e all’udito sono state
studiate in maniera approfondita. Nel complesso, tali studi
suggeriscono che ogni memoria sensoriale trattiene tutti gli input in
entrata in quello specifico sistema sensoriale, indipendentemente dal
grado di attenzione prestata loro (ciò significa che anche gli stimoli al
di fuori del focus dell’attenzione possono avere accesso al magazzino
sensoriale). La loro funzione sembra essere quella di trattenere
l’informazione abbastanza a lungo da permettere ad altri processi
mentali di analizzarla e decidere se trasferirla o meno alla memoria a
breve termine. La maggior parte delle informazioni contenute nella
memoria sensoriale in ogni dato istante non giungono alla coscienza:
invece, noi diventiamo consapevoli soltanto degli stimoli trasferiti al
magazzino a breve termine attraverso il processo selettivo
dell’attenzione.
I contenuti del deposito sensoriale selezionati dall’attenzione
passano nella memoria di lavoro (anche detta memoria a breve
termine). Questo comparto è la sede del pensiero conscio in cui

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 10
Universitas Mercatorum La memoria: il modello
modale della mente

avvengono tutte le percezioni, i sentimenti, le elaborazioni e i


ragionamenti di cui siamo coscienti. Come indicato nella Figura 2, le
informazioni possono entrare nella memoria di lavoro provenendo sia
dal magazzino sensoriale sia dalla memoria a lungo termine (la quale
contiene le conoscenze acquisite in passato): in tal senso, la memoria di
lavoro è molto simile all’unità centrale di elaborazione di un computer,
la quale riceve informazioni sia dalla tastiera sia dal disco rigido. Il
termine più obsoleto memoria a breve termine sottolinea la breve
durata dell’informazione in questo magazzino: se non viene reiterato o
rielaborato, qualsiasi contenuto di questo comparto svanisce (ovvero,
decade) molto rapidamente. Inoltre, la memoria a breve termine ha una
capacità molto limitata: in ogni dato istante, soltanto poche unità
d’informazione possono essere percepite o elaborate
contemporaneamente – la quantità esatta è stata oggetto di dibattito:
7 ± 2 unità di informazione secondo Miller (1956), ma soltanto 4 ± 2
unità secondo Cowan (2001).

Figura 2. Nel modello modale, la memoria di lavoro ha un ruolo centrale in quanto


riceve informazioni sia dalla memoria sensoriale sia dalla memoria a lungo termine.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 10
Universitas Mercatorum La memoria: il modello
modale della mente

3. MEMORIA A LUNGO TERMINE E PROCESSI


DI CONTROLLO

Una volta raggiunta la memoria di lavoro, un’informazione può


(o non può) essere codificata nella memoria a lungo termine. Essa è il
comparto che meglio corrisponde alla nozione comune di memoria in
quanto vi è contenuta una rappresentazione di tutto ciò che una
persona conosce (di conseguenza, deve avere una capacità enorme). In
genere, noi non siamo consapevoli dei contenuti presenti nella memoria
a lungo termine, se non dopo che sono stati attivati e trasferiti nella
memoria di lavoro. Secondo il modello modale, i contenuti della
memoria a lungo termine rimangono quiescenti, in maniera analoga ai
volumi negli scaffali di una libreria, finché non vengono richiamati
nella memoria di lavoro e qui utilizzati.
Il modello prevede che la memoria a breve termine (MBT) e a
lungo termine (MLT) siano nettamente differenziate (si veda la Figura
3). In particolare, esso assume che:

 la MLT è passiva (un deposito di informazioni), mentre la


MBT è attiva (un luogo dove le informazioni sono
attivamente elaborate);
 la MLT è duratura (molti dei suoi contenuti si
mantengono per tutta la vita), mentre la MBT ha una
natura fugace (i suoi contenuti decadono in pochi secondi
se non vengono reiterati);
 la MLT ha una capacità praticamente illimitata (contiene
tutte le conoscenze personali), mentre la MBT ha una
capacità molto limitata (contiene solo le informazioni
elaborate nel momento presente).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 10
Universitas Mercatorum La memoria: il modello
modale della mente

Secondo il modello modale, i processi di controllo regolano il


flusso dell’informazione da un comparto di memoria all’altro. Tre
processi sono particolarmente importanti:

 l’attenzione è il processo che seleziona le informazioni che


devono essere trasferite dai magazzini sensoriali (i quali
hanno una capacità molto grande) alla MBT (la quale ha
una capacità molto piccola;
 la codifica è il processo che controlla il trasferimento
dell’informazione dalla MBT alla MLT: la sua natura può
essere intenzionale (come quando si impara a memoria
una poesia o una lista di nomi) oppure incidentale (un
effetto collaterale del particolare interesse che certe
informazioni assumono per la persona);
 il recupero è il processo che controlla il trasferimento
dell’informazione dalla MLT alla MBT: corrisponde a ciò
che si intende comunemente per ricordare o richiamare
alla mente; anch’esso può essere intenzionale (come
quando ci sforziamo di ricordare il nome di una persona
che siamo sicuri di conoscere) oppure automatico (ogni
immagine o pensiero presente nella memoria di lavoro
sembra evocare il richiamo di altri contenuti in maniera
spontanea).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 10
Universitas Mercatorum La memoria: il modello
modale della mente

Figura 3. Differenze tra la memoria a breve termine e la memoria a lungo termine.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 10
Universitas Mercatorum La memoria: il modello
modale della mente

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014). Psicologia


generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 10
LA MEMORIA
SENSORIALE:
MEMORIA ECOICA,
MEMORIA ICONICA E
PRIMING
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum La Memoria Sensoriale:
Memoria ecoica, memoria
iconica e priming

Indice

1. MEMORIA SENSORIALE: ASCOLTO SELETTIVO E


VISIONE SELETTIVA .................................................................. 3

2. LO SPOSTAMENTO DELL’ATTENZIONE NELLA


MEMORIA ECOICA E ICONICA ................................................ 7

3. ELABORAZIONE INCONSCIA ED ELABORAZIONE


AUTOMATICA.............................................................................. 10

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 13

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 13
Universitas Mercatorum La Memoria Sensoriale:
Memoria ecoica, memoria
iconica e priming

1. MEMORIA SENSORIALE : ASCOLTO SELETTIVO


E VISIONE SELETTIVA

La selezione naturale ci ha dotati di meccanismi e processi


attentivi in grado di soddisfare due esigenze fra loro opposte. Da una
parte vi è l’esigenza di concentrare l’attenzione, e quindi le nostre
risorse cognitive, sul compito da svolgere, senza farsi distrarre da
stimoli irrilevanti. Dall’altra parte, vi è la necessità di monitorare gli
stimoli irrilevanti e spostare l’attenzione in maniera veloce su
eventuali segnali di pericolo, o su altri eventi ambienti salienti per
l’individuo.
La Figura 1 illustra un modello molto generale in cui l’attenzione
rappresenta una sorta di cancello posto tra i magazzini di memoria
sensoriale e la memoria a breve termine (MBT o memoria di lavoro).
Secondo questo modello, tutta l’informazione registrata dai sensi
entra nel magazzino sensoriale, dove viene analizzata per
determinarne la rilevanza rispetto al compito in corso e l’importanza ai
fini della sopravvivenza. Questa analisi avviene quasi sempre a livello
inconscio ed è definita come elaborazione preattentiva. Ciò significa
che, in ogni dato istante, soltanto un numero limitato di item potranno
passare nella memoria di lavoro, comparto conscio e a capacità
limitata.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 13
Universitas Mercatorum La Memoria Sensoriale:
Memoria ecoica, memoria
iconica e priming

Figura 1. Modello generale dell’attenzione.

In generale, gli esseri umani sono molto abili nel prestare


attenzione in modo selettivo agli stimoli rilevanti, ignorando gli stimoli
irrilevanti. Le prime ricerche in tal senso (svolte negli anni ’40 e ’50 del
Novecento) hanno riguardato l’ascolto selettivo e si sono incentrate sul
fenomeno del cocktail party, il quale si riferisce alla capacità di udire e
comprendere la voce di una particolare persona ignorando al tempo
stesso altre voci di uguale intensità o più forti. In laboratorio, questa
abilità è stata classicamente analizzata attraverso esperimenti di
shadowing (Cherry, 1953), in cui il soggetto ascolta simultaneamente
due messaggi e deve ripetere ad alta voce le parole di un solo
messaggio, ignorando l’altro. I risultati di questi esperimenti
dimostrano che le prestazioni dei soggetti sono buone se le due voci
differiscono per qualche caratteristica fisica – ad esempio, il tono della
voce (femminile/maschile) o la localizzazione spaziale (orecchio
destro/sinistro). Se, alla fine del compito, si pongono domande sul

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 13
Universitas Mercatorum La Memoria Sensoriale:
Memoria ecoica, memoria
iconica e priming

messaggio disatteso, si trova in genere che i soggetti sono in grado di


riferire alcune caratteristiche fisiche del messaggio stesso (ad esempio,
se il messaggio era letto da una voce maschile o femminile), ma non
hanno afferrato quasi nulla sul significato.

Figura 2. Esempio di stimoli utilizzati negli esperimenti di Rock e Gutman


(1981) sulla visione selettiva.

Anche la visione può essere molto selettiva, come dimostrano gli


esperimenti condotti da Rock e Gutman (1981). Questi ricercatori
presentavano una serie di immagini contenenti due forme sovrapposte,
una rossa e l’altra verde: la maggior parte delle forme erano prive di
senso, ma alcune riproducevano oggetti familiari (una casa o un albero:
si veda la Figura 2). Ai partecipanti era chiesto di concentrarsi su un
solo colore, ignorando l’altro. Dopo la presentazione di tutte le
diapositive, la capacità di riconoscimento delle singole forme veniva
verificata in un test di riconoscimento finale. I risultati dimostrarono
che i partecipanti erano in grado di riconoscere quasi tutte le forme

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 13
Universitas Mercatorum La Memoria Sensoriale:
Memoria ecoica, memoria
iconica e priming

presentate con il colore rilevante, mentre la prestazione per le


immagini irrilevanti era del tutto casuale.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 13
Universitas Mercatorum La Memoria Sensoriale:
Memoria ecoica, memoria
iconica e priming

2. LO SPOSTAMENTO DELL ’ATTENZIONE NELLA


MEMORIA ECOICA E ICONICA

Oltre a concentrarsi sul compito in corso, gli esseri umani sono


molto abili nello spostare l’attenzione su stimoli improvvisi che
segnalano pericoli o altri eventi significativi. Questa capacità di
spostare l’attenzione sembra dipendere, almeno in parte, dalla capacità
di riascoltare o rivedere, tornando indietro di qualche secondo, stimoli
uditivi o visivi registrati nella memoria sensoriale. In effetti, la
funzione della memoria sensoriale sembra essere proprio quella di
trattenere stimoli fugaci a cui non si presta attenzione per un tempo
sufficiente a consentirci poi, quando concentriamo su di essi la nostra
attenzione, di portarli alla coscienza nel caso siano significativi.
La memoria sensoriale uditiva è detta memoria ecoica in quanto
la traccia è simile ad un’eco, la cui intensità si attenua nell’arco di pochi
secondi, fino a scomparire dopo un massimo di 10 secondi. In un tipico
esperimento sulla memoria ecoica, il soggetto deve concentrarsi su un
compito (ad esempio, leggere un brano di prosa) e allo stesso tempo
ignorare una lista di parole o numeri che viene presentata in modalità
uditiva. Ogni tanto il compito è interrotto da un segnale che indica ai
soggetti che devono ripetere le ultime parole (o numeri) che hanno
udito. Di solito, ciò che si trova è che i soggetti sono in grado di ripetere
con esattezza le ultime parole udite quando il segnale viene
somministrato subito dopo la presentazione dell’ultima parola;
tuttavia, la prestazione diminuisce all’aumentare dell’intervallo tra
l’ultima parola e il segnale, fino ad azzerarsi dopo 8-10 sec.
Talvolta il segnale che innesca lo spostamento di attenzione non
viene somministrato dall’esterno, ma piuttosto deriva dall’elaborazione

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 13
Universitas Mercatorum La Memoria Sensoriale:
Memoria ecoica, memoria
iconica e priming

preattentiva degli stimoli disattesi. Come illustrato in precedenza,


negli esperimenti sull’ascolto dicotico selettivo i soggetti devono
ripetere ad alta voce il messaggio presentato ad uno dei due orecchi, e
contemporaneamente ignorare il messaggio presentato all’altro
orecchio. In genere, i risultati dimostrano che i partecipanti non
ricordano nulla del messaggio disatteso: tuttavia, se in questo
messaggio compare il proprio nome, i soggetti lo notano e lo riportano
allo sperimentatore quasi sempre (Moray, 1959). Ciò dimostra che tutte
le parole disattese accedono alla memoria sensoriale dove sono soggette
ad un certo grado di elaborazione preattentiva che ne estrae il
significato: in base alla loro rilevanza, alcune parole possono poi essere
trasferite alla MBT e quindi accedere alla consapevolezza conscia.

Figura 3. Paradigma sperimentale utilizzato negli esperimenti di Sperling (1960)


sulla memoria iconica.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 13
Universitas Mercatorum La Memoria Sensoriale:
Memoria ecoica, memoria
iconica e priming

La memoria sensoriale visiva è detta memoria iconica, in quanto


la traccia di breve durata prodotta da uno stimolo visivo è detta
appunto ‘icona’. I primi studi (ormai divenuti classici) su questo
sistema si devono a Sperling (1960). Come illustrato nella Figura 3, ai
partecipanti a tali esperimenti venivano presentate tre file di quattro
lettere per 50 ms: quando si utilizzava una procedura di richiamo
classica (ovvero si chiedeva di ricordare tutte le lettere presentate), i
soggetti erano in grado di ricordare meno della metà delle 12 lettere
presentate. Se però un suono (di intensità alta, media o bassa) subito
dopo la presentazione indicava ai partecipanti di richiamare soltanto
lettere di una particolare fila, allora le persone ricordavano con
accuratezza quasi tutte le lettere. Poiché i soggetti non conoscevano in
anticipo la riga selezionata, Sperling concluse che tutte e 12 le lettere
dovevano essere state codificate e mantenute nella memoria iconica per
circa 250 ms: se l’intervallo tra la fine della presentazione delle lettere
e il segnale sonoro superava i 250 ms, la prestazione diminuiva
notevolmente, confermando la natura assai fugace delle
rappresentazioni elaborate da questo sistema.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 13
Universitas Mercatorum La Memoria Sensoriale:
Memoria ecoica, memoria
iconica e priming

3. ELABORAZIONE INCONSCIA ED ELABORAZIONE


AUTOMATICA

Un limite intrinseco nel modello modale della mente è dato dal


fatto che una data informazione può influenzare il comportamento solo
se viene selezionata dal processo dell’attenzione e trasferita dalla
memoria sensoriale alla memoria di lavoro. Tuttavia, numerosi studi
indicano che, in specifiche condizioni, un input sensoriale può
modificare il comportamento anche se non raggiunge il livello della
coscienza. Il termine “priming” si riferisce al fatto che uno stimolo non
percepito a livello cosciente può attivare un’informazione già
immagazzinata nella MLT, la quale diventa più accessibile e può
quindi modificare i processi cognitivi e percettivi in corso.
Uno dei primi esperimenti che hanno dimostrato il fenomeno del
priming ha utilizzato una procedura di ascolto dicotico (McKay, 1973).
Il messaggio che i soggetti dovevano ripetere ad alta voce (inviato ad
uno dei due orecchi) conteneva frasi le cui parole ammettevano
significati ambigui, per esempio: They threw stones at the bank [Essi
lanciarono pietre contro la banca/contro la riva]. Simultaneamente,
all’altro orecchio veniva somministrata una parola che risolveva
l’ambiguità, essendo congruente con uno solo dei due significati (river
per fiume o money per denaro). Alla fine di questo compito, nella fase
test, si presentavano ai soggetti due frasi e si chiedeva loro di scegliere
la più simile a quella ripetuta ad alta voce. Nell’esempio, le frasi
potevano essere: ‘Essi lanciarono pietre contro la cassa di risparmio’
oppure ‘Essi lanciarono pietre verso la sponda del fiume’. I risultati
dimostrarono che, sebbene i soggetti non fossero in grado di riferire la
parola presentata nel messaggio disatteso, essi sceglievano più spesso

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 13
Universitas Mercatorum La Memoria Sensoriale:
Memoria ecoica, memoria
iconica e priming

la frase il cui significato era congruente con la parola disattesa. Sulla


base di questi dati, McKay (1973) concluse che la parola disattesa
aveva influito sull’interpretazione della frase, anche se i partecipanti
non erano consapevoli di averla udita.
Una straordinaria e assai utile capacità della mente consiste
nell’eseguire compiti di routine in modo automatico: ciò permette alla
limitata e conscia memoria di lavoro di impegnarsi in attività cognitive
più complesse. Un esempio di questo meccanismo adattivo è la lettura:
infatti, quando si legge una frase, il riconoscimento delle singole lettere
procede in automatico e il soggetto può dedicare tutta la sua attenzione
alla comprensione e all’elaborazione del significato veicolato dal testo.
In effetti, le ricerche psicologiche dimostrano che, in alcuni casi, la
lettura non è soltanto automatica ma anche obbligata: ovvero, i soggetti
non possono fare a meno di leggere le parole, anche se si sforzano di
non farlo. Una dimostrazione classica di questo fenomeno è data
dall’effetto di interferenza Stroop (1935). In questo paradigma si
presentano ai soggetti parole stampate in colori diversi (si veda la
Figura 4) e si chiede loro di nominare il più velocemente possibile il
colore in cui ciascuna parola è stampata. La manipolazione critica è che
la parola può corrispondere al colore in cui è stampata (‘red’ scritto in
rosso) o essere incongruente (‘red’ scritto in blu). Il risultato tipico è che
il tempo di latenza per pronunciare la parola è maggiore nella
condizione incongruente, rispetto a quella congruente. Sono state
proposte diverse spiegazioni per l’effetto Stroop: tuttavia, esse
concordano sul fatto che all’origine del fenomeno vi sia il fatto che i
soggetti non possono evitare di leggere i nomi delle parole presentate,
anche quando ciò è irrilevante per il compito da svolgere.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 13
Universitas Mercatorum La Memoria Sensoriale:
Memoria ecoica, memoria
iconica e priming

Figura 4. Esempio degli stimoli utilizzati per dimostrare l’effetto di


interferenza Stroop.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 13
Universitas Mercatorum La Memoria Sensoriale:
Memoria ecoica, memoria
iconica e priming

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014). Psicologia


generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 13 di 13
LA MEMORIA
DI LAVORO: IL
CIRCUITO
FONOLOGICO E IL
TACCUINO
VISUOSPAZIALE
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum La Memoria di Lavoro: Il circuito
fonologico e il taccuino visuospaziale

Indice

1. IL MODELLO DELLA MEMORIA DI LAVORO ...................... 3

2. IL CIRCUITO FONOLOGICO ..................................................... 5

3. IL TACCUINO VISUOSPAZIALE .............................................. 9

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 12

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 12
Universitas Mercatorum La Memoria di Lavoro: Il circuito
fonologico e il taccuino visuospaziale

1. IL MODELLO DELLA MEMORIA DI LAVORO

Come già accennato nella lezione precedente, la memoria di


lavoro, o memoria a breve termine, è il centro della percezione e del
pensiero coscienti. Questo significa che la memoria di lavoro è quella
parte della mente che pensa, prende decisioni e controlla processi come
l’attenzione e il recupero delle informazioni dalla memoria a lungo
termine. In termini più tecnici, la memoria di lavoro può essere
considerata come un deposito in cui le informazioni possono essere
mantenute per più di qualche secondo ma meno di un minuto (le stime
si aggirano intorno ai 15-20 secondi).
Il modello di memoria di lavoro ad oggi più accreditato è stato
proposto da A. Baddeley e G. Hitch nel 1974 e successivamente
modificato e aggiornato da Baddeley (2000, 2012). Essenzialmente, il
modello assume che la memoria di lavoro sia composta da varie
componenti separate ma interagenti (si veda la Figura 1). Tali
componenti comprendono:

 il circuito fonologico (phonological loop), responsabile del


mantenimento di informazioni verbali;
 il taccuino visuo-spaziale (visuospatial sketchpad),
responsabile del mantenimento di informazioni visive e
spaziali;
 l’esecutivo centrale (central executive), responsabile del
coordinamento di tutte le attività mentali e dell’ingresso
di nuove informazioni provenienti dalla memoria
sensoriale o dalla memoria a lungo termine.

Recentemente, al sistema è stata aggiunto un quarto


componente chiamato Buffer Episodico (Episodic Buffer), che gestisce

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 12
Universitas Mercatorum La Memoria di Lavoro: Il circuito
fonologico e il taccuino visuospaziale

e coordina la memorizzazione e l’integrazione delle informazioni che


provengono dal circuito fonologico e dal taccuino visuospaziale con
quelle provenienti dalla memoria a lungo termine. Secondo Baddeley,
2000, il buffer episodico sarebbe deputato a trattenere le informazioni
elaborate dalle diverse componenti del modello per collegarle in un
unico codice “multi-modale” e va considerato come un sistema
differenziato dall’Esecutivo Centrale il cui compito è quello di elaborare
e manipolare tali rappresentazioni integrate. In generale,
l’introduzione di questo servo-sistema corrisponde ad uno spostamento
dell’attenzione sui processi di integrazione delle informazioni, piuttosto
che sull’isolamento dei sotto-sistemi.

Figura 1. Modello generale della memoria di lavoro.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 12
Universitas Mercatorum La Memoria di Lavoro: Il circuito
fonologico e il taccuino visuospaziale

2. IL CIRCUITO FONOLOGICO

In generale, il numero di elementi (numeri, lettere, parole o


sillabe senza senso) che una persona può tenere a mente e riferire con
precisione dopo un breve intervallo di tempo prende il nome di capacità
della memoria a breve termine (MBT). Nella maggior parte delle
persone la capacità della MBT è di circa 7 ± 2 unità di informazione
(Miller, 1956). Alcuni test di intelligenza comprendono una misura del
numero di cifre che una persona è in grado di riferire (nell’ordine
corretto) subito dopo averle udite: questa capacità di memoria per le
cifre è comunemente nota come ‘digit span’. Il test consiste di coppie di
sequenze di numeri di diversa lunghezza (in genere si va da 2 a 9
numeri: si veda la Figura 2); l'esaminatore legge la sequenza numerica
alla velocità di un numero al secondo: il compito dei partecipanti
consiste nel ripetere la sequenza nello stesso ordine in cui è stata
presentata. Quando una coppia di sequenze di una data lunghezza è
ripetuta correttamente dal soggetto, l'esaminatore legge la coppia di
sequenze successiva, che è più lunga di un numero rispetto alla
precedente, e continua così fino a che il soggetto fallisce entrambe le
coppie di una sequenza: il digit span è dato dall’ultima lunghezza alla
quale il soggetto ha ripetuto correttamente entrambe le sequenze di
numeri.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 12
Universitas Mercatorum La Memoria di Lavoro: Il circuito
fonologico e il taccuino visuospaziale

Figura 2. Esempio di sequenze di numeri presentate nel digit span test.

Le ricerche hanno dimostrato che la capacità della memoria a


breve termine dipende dalla rapidità con cui si riescono a pronunciare
gli elementi da tenere a mente: come regola generale, le persone
possono trattenere nella memoria di lavoro un numero di item verbali
pari a quelli che riescono a pronunciare ad alta voce in 2 secondi. Ciò
spiega il cosiddetto effetto della lunghezza delle parole (word length
effect), ovvero il fatto che la memoria per parole corte (composte da 1-2
sillabe) è migliore rispetto alla memoria per parole lunghe (composte
da 4-5 sillabe: si veda la Figura 3). Inoltre, un risultato classico è che
qualsiasi compito che interferisce con la capacità del soggetto di
articolare le parole da ricordare diminuisce la capacità della MBT. Un
tecnica spesso utilizzata è quella della soppressione articolatoria, in cui
si chiede al soggetto di articolare in maniera ripetuta una parola come
‘cola-cola’ durante la presentazione dei numeri (o delle parole) da
ricordare: poiché la ripetizione impegna il circuito fonologico, il soggetto

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 12
Universitas Mercatorum La Memoria di Lavoro: Il circuito
fonologico e il taccuino visuospaziale

ha meno risorse a disposizione per codificare i numeri, il che ridurrà la


sua prestazione di memoria.

Figura 3. Effetto della lunghezza delle parole.

Più in generale, l’effetto negativo di compiti interferenti è stato


dimostrato in un celebre esperimento condotto da Peterson & Peterson
(1959), nel quale ai partecipanti vennero date da ricordare triplette di
consonanti senza senso (es., DBX o HVM). Dopo la presentazione di
ciascuna tripletta, si chiedeva ai soggetti di contare all’indietro per tre
partendo da 100 per intervalli di diversa durata, quindi si chiedeva di
riportare la tripletta. I risultati di questo studio, illustrati nella Figura
4, dimostrano come il ricordo delle sequenze diminuiva rapidamente,
da circa l’80% dopo 3 secondi a meno del 20% dopo 20 secondi.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 12
Universitas Mercatorum La Memoria di Lavoro: Il circuito
fonologico e il taccuino visuospaziale

Figura 4. Risultati dell’esperimento condotto da Peterson e Peterson (1959).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 12
Universitas Mercatorum La Memoria di Lavoro: Il circuito
fonologico e il taccuino visuospaziale

3. IL TACCUINO VISUOSPAZIALE

Come detto, il taccuino visuospaziale trattiene informazioni


visive e spaziali sotto forma di immagini mentali. Tipicamente, noi
utilizziamo le immagini mentali soprattutto quando dobbiamo valutare
l’organizzazione spaziale degli oggetti: ad esempio, per decidere se
ruotando di 180° in senso orario la seconda lettera dell’alfabeto
otteniamo una p o una q, è molto probabile che un soggetto debba
crearsi e ruotare un’immagine mentale della lettera b. Sebbene gli
psicologi cognitivi siano consci del fatto che le immagini mentali non
corrispondono a fotografie nella mente, numerosi dati suggeriscono che
l’esame di tali immagini è per molti versi simile al modo in cui un
soggetto esaminerebbe una fotografia reale.

Figura 5. Esempi dei disegni utilizzati da Kosslyn (1973).

Prove a sostegno di questa ipotesi sono state fornite dai celebri


esperimenti di Kosslyn (1973), in cui i soggetti vedevano dei disegni

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 12
Universitas Mercatorum La Memoria di Lavoro: Il circuito
fonologico e il taccuino visuospaziale

molto semplici (ad es., una barca, un faro o un aeroplano: si veda la


Figura 5 per alcuni esempi); subito dopo, dovevano concentrarsi
mentalmente sull’estremità destra o sinistra del disegno e indicare, il
più velocemente possibile, se era presente o meno un certo oggetto
nominato dal ricercatore (ad esempio, ‘ancora’ o ‘motore’). I risultati,
illustrati nella Figura 6, suggeriscono in modo molto evidente che
quanto più l’oggetto era distante dal focus dell’attenzione, tanto più
lungo era il tempo necessario per decidere se esso faceva o meno parte
del disegno originale.

Figura 6. Esempi dei disegni utilizzati da Kosslyn (1973).

Nel complesso, tali risultati suggeriscono che, per poter


rispondere, i soggetti dovevano esaminare (ovvero, scansionare)
l’immagine mentale alla ricerca dell’oggetto nominato. Per Kosslyn,
quindi, il ritardo nella risposta dimostra che le immagini mentali sono
dotate di una organizzazione spaziale, proprio come le foto reali. In
accordo con questa interpretazione, studi successivi hanno trovato che
quando le persone si formano un’immagine mentale di una figura vista

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 12
Universitas Mercatorum La Memoria di Lavoro: Il circuito
fonologico e il taccuino visuospaziale

precedentemente, esse muovono gli occhi in maniera molto simile al


modo con cui hanno guardato l’immagine originale.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 12
Universitas Mercatorum La Memoria di Lavoro: Il circuito
fonologico e il taccuino visuospaziale

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 12
LA MEMORIA
DI LAVORO:
ESECUTIVO
CENTRALE E
ORGANIZZAZIONE
CORTICALE
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum La Memoria di Lavoro: Esecutivo
centrale e organizzazione
corticale

Indice

1. I LIMITI DELLA MEMORIA: LA PRESTAZIONE NEL


DOPPIO COMPITO....................................................................... 3

2. L’ESECUTIVO CENTRALE E IL MODELLO DEL SAS......... 7

3. LA MEMORIA DI LAVORO NEL CERVELLO ...................... 10

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 13

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 13
Universitas Mercatorum La Memoria di Lavoro: Esecutivo
centrale e organizzazione
corticale

1. I LIMITI DELLA MEMORIA: LA PRESTAZIONE


NEL DOPPIO COMPITO

Molti studi che hanno indagato la memoria di lavoro hanno


utilizzato la tecnica del doppio compito, in cui si chiede ai partecipanti
di eseguire due compiti mentali simultanei, uno dei quali implica un
test di memoria. In genere, il risultato classico è che la prestazione
nella condizione di attenzione divisa è significativamente inferiore
rispetto a quella che si ottiene nella condizione di attenzione unitaria,
la quale prevede l’esecuzione separata dei due compiti. L’ipotesi più
accreditata è che questo effetto di interferenza sia dovuto al fatto che i
due compiti competono per le stesse risorse attenzionali e cognitive. I
risultati ottenuti nell’ambito della memoria di lavoro sono congruenti
con questa ipotesi, in quanto indicano che l’interferenza prodotta dalla
divisione dell’attenzione è minore se uno dei compiti coinvolge il
circuito fonologico e l’altro il taccuino visuospaziale, rispetto a quando
entrambi i compiti coinvolgono la stessa componente della memoria di
lavoro. Ciò conferma il modello di memoria di lavoro proposto da
Baddeley e Hitch (1974), secondo cui il circuito fonologico e il taccuino
visuospaziale sono due componenti distinte, basate su processi e risorse
differenti.
In un esperimento esemplificativo (Cocchini et al., 2002), ai
soggetti era richiesto di eseguire due compiti impegnativi per la
memoria di lavoro:

 tenere a mente una serie di cifre che dovevano essere


ricordare più tardi (‘digit recall’);

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 13
Universitas Mercatorum La Memoria di Lavoro: Esecutivo
centrale e organizzazione
corticale

 tenere a mente matrici di quadrati neri e bianchi che


dovevano essere riprodotte in un secondo momento
(‘pattern recall’; si veda la Figura 1 per un esempio);

Poiché questi due compiti impegnano componenti distinte della


memoria di lavoro (il circuito fonologico per la memorizzazione di cifre,
il taccuino visuospaziale per la memorizzazione delle matrici), non
sorprende che gli autori trovarono che l’esecuzione contemporanea dei
due compiti produceva una interferenza minima: i soggetti
commettevano lo stesso numero di errori quando eseguivano i due
compiti separatamente o simultaneamente. Tuttavia, in una seconda
fase i due compiti di memoria di lavoro furono combinati con un compito
interferente verbale (la soppressione articolatoria, che consisteva nel
ripetere ad alta voce in maniera continua l’espressione ‘cola-cola’) o
visivo (un compito di tracking in cui il soggetto doveva mantenere un
punto luminoso in contatto con un bersaglio mobile). In accordo con il
modello teorico della memoria di lavoro, i risultati evidenziarono una
doppia dissociazione:

 la soppressione articolatoria causava un aumento del


numero di errori nel compito di memorizzazione di cifre,
mentre aveva scarso effetto sul compito di
memorizzazione delle matrici;
 al contrario, il compito di tracking causava un aumento
del numero di errori nel compito di memorizzazione di
matrici, mentre aveva scarso effetto sul compito di
memorizzazione di cifre.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 13
Universitas Mercatorum La Memoria di Lavoro: Esecutivo
centrale e organizzazione
corticale

Figura 1. Esempi di stimoli utilizzati per il compito di pattern recall.

Nella vita reale, pochi compiti sono puramente visivi o verbali


(come la soppressione articolatoria o il compito di tracking). Ad
esempio, guidare è un compito in larga misura visivo, ma non del tutto:
bisogna leggere i cartelli e i segnali stradali (un compito sia visivo che
verbale), e talvolta occorre pensare al percorso o alle manovre da
compiere in termini verbali. Analogamente, parlare al cellulare è un
compito verbale, ma qualsiasi conversazione può talvolta richiedere
l’uso di immagini mentali (ad esempio, quando il soggetto deve
descrivere ad un interlocutore una località che ha visitato). Non
sorprende quindi che dalle ricerche emerga che parlare al cellulare
mentre si è alla guida contribuisce ad aumentare il numero di incidenti
in misura notevole. In particolare, in un esperimento di guida simulata
condotto in laboratorio (si veda la Figura 2 per un esempio del setting
sperimentale), Strayer e Johnston (2001) trovarono che parlare al
cellulare faceva raddoppiare il numero di errori nella guida (Strayer &
Johnston, 2001). Studi successivi hanno dimostrato che i guidatori con
la mente impegnata in una conversazione spesso non vedevano i
segnali stradali.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 13
Universitas Mercatorum La Memoria di Lavoro: Esecutivo
centrale e organizzazione
corticale

Figura 2. Setting sperimentale nell’esperimento di Strayer e Johnston (2001).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 13
Universitas Mercatorum La Memoria di Lavoro: Esecutivo
centrale e organizzazione
corticale

2. L’ESECUTIVO CENTRALE E IL MODELLO


DEL SAS

L’esecutivo centrale è, in senso asoluto, il sistema meno studiato


nell’ambito della memoria di lavoro. Baddeley e colleghi ritengono che
una base utile per concettualizzare tale componente sia fornita dal
modello del SAS proposto da Norman e Shallice (1986). In sintesi, il
modello cerca di spiegare:

 il modo in cui vengono controllate le attività del soggetto;


 e il perché a volte questo controllo si interrompe, portando
ad errori del comportamento.

Al contrario di altri modelli, che tendono ad essere basati su


un’ampia fase di sperimentazione in laboratorio, molti dati a supporto
del modello del SAS provengono dall’osservazione di lapsus mentali
nella vita di tutti i giorni o dall’esame di disturbi del comportamento in
pazienti con disturbi neuropsicologici.

Figura 3. Modello del SAS di Norman e Shallice (1986).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 13
Universitas Mercatorum La Memoria di Lavoro: Esecutivo
centrale e organizzazione
corticale

Una rappresentazione semplificata di questo modello è mostrata


nella Figura 3. Esso assume che le azioni in corso possano essere
controllate in due modi diversi. Il primo si verifica nel caso di abilità
consolidate, per le quali l’apprendimento precedente consente
l’esecuzione di schemi d’azione automatici. Esempi di comportamenti
largamente automatizzati sono guidare, camminare e parlare. Secondo
Norman e Shallice, due attività automatiche possono essere eseguite in
parallelo senza eccessiva interferenza: così, è abbastanza facile guidare
e contemporaneamente parlare con una persona seduta al nostro fianco
(si noti che le conversazioni con i passeggeri a bordo non producono gli
stessi effetti deleteri delle conversazioni al cellulare, in quanto i
passeggeri sperimentano le stesse condizioni del guidatore, per cui
tendono a sincronizzare la conversazione con la guida: quando
insorgono difficoltà, essi interrompono la conversazione).
Occasionalmente, due attività automatiche in corso possono
entrare in conflitto e può essere necessario dare la priorità ad una di
esse. Ad esempio, quando si parla e si guida, è preferibile smettere di
parlare per evitare di investire un ciclista che sbuca all’improvviso da
una curva. Nel modello del SAS, queste decisioni sono eseguite da un
processo relativamente automatico chiamato ‘contention scheduling’ (si
veda la Figura 3), il quale consente al sistema di implementare alcune
semplici regole riferite all’importanza relativa delle varie azioni: in
pratica, esso inibisce alcune azioni a favore di altre che hanno la
precedenza in un determinato momento.
La seconda componente del modello è il Sistema Attenzionale
Supervisore, il quale, secondo Norman e Shallice, sarebbe paragonabile
alle operazioni della volontà. La funzione essenziale del SAS è quella
di interrompere il comportamento in atto, in modo tale da consentire al

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 13
Universitas Mercatorum La Memoria di Lavoro: Esecutivo
centrale e organizzazione
corticale

soggetto di prendere una decisione critica oppure di progettare in modo


volontario la sequenza delle azioni da compiere. Esso è soprattutto
coinvolto quando la situazione è nuova, difficile o pericolosa; quando
insorgono problemi o è necessario correggere un errore. Nell’esempio in
cui il soggetto guida e parla contemporaneamente, il SAS dovrà
interrompere entrambe le azioni se la strada che si percorre di solito è
interrotta e bisogna pianificare un percorso alternativo.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 13
Universitas Mercatorum La Memoria di Lavoro: Esecutivo
centrale e organizzazione
corticale

3. LA MEMORIA DI LAVORO NEL CERVELLO

Negli ultimi anni, le ricerche condotte nel campo delle


neuroscienze hanno permesso di chiarire le basi cerebrali della
memoria di lavoro. In particolare, questi studi hanno dimostrato che il
mantenimento dell’informazione nel circuito fonologico implica l’azione
di processi simili a quelli coinvolti nell’articolare le parole e
nell’ascoltare le parole pronunciate da altri. I ricercatori hanno così
scoperto che, quando si chiede ad un soggetto di ricordare una lista di
parole, si verifica un aumento di attività nelle regioni dell’emisfero
sinistro coinvolte nella produzione e nell’ascolto di parole – nello
specifico, l’area di Broca e l’area di Wernicke (Paulesu et al., 1993; si
veda la Figura 4). Inoltre, lesioni cerebrali che interferiscono con la
capacità di articolare o di comprendere le parole udite riducono anche
la capacità di trattenere le parole nel circuito fonologico.

Figura 4. Illustrazione delle attivazioni cerebrali che si osservano in compiti di


memoria di lavoro verbale (A) e visiva (B).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 13
Universitas Mercatorum La Memoria di Lavoro: Esecutivo
centrale e organizzazione
corticale

Analogamente, mantenere l’informazione visiva nel taccuino


visuospaziale implica processi mentali simili a quelli coinvolti nella
visione (Jonides et al., 2005). Come già illustrato in precedenza, le aree
visive della corteccia hanno origine nel lobo occipitale (si veda la Figura
4) e comprendono la via del «what» (specializzata nel riconoscimento di
forme, pattern e oggetti) e la via del «where-and-how» (specializzata
nella localizzazione spaziale degli oggetti e nel controllo dei movimenti
diretti verso tali oggetti). Gli studi indicano che le persone che soffrono
di deficit della percezione visiva mostrano deficit comparabili della
memoria di lavoro visiva. Ad esempio, una lesione della via del «what»
impediva ad un paziente di riconoscere le forme degli oggetti nella vita
reale, benché egli avesse mantenuto intatta la capacità di localizzare
la loro posizione relativa in una scena visiva. In test finalizzati a
verificare la memoria per informazioni apprese prima della lesione
cerebrale, il paziente commetteva molti errori quando doveva
rispondere ad una domanda come “L’orso ha la coda lunga oppure
corta?”. Quindi, questo paziente era sostanzialmente incapace di
‘vedere’ le forme degli oggetti richiamati nella memoria di lavoro sotto
forma di immagini mentali.
Come illustrato nella Figura 4, mantenere e manipolare
informazioni verbali o visive nella memoria di lavoro attiva sempre,
oltre alla aree corticali visive e verbali, anche la corteccia prefrontale.
Quest’area è considerata da Norman e Shallice come il fulcro neurale
dell’esecutivo centrale: si tratta di una regione che organizza le
operazioni delle altre parti della corteccia e le tiene focalizzate sul
compito. In accordo con questa interpretazione, lesioni alla corteccia
prefrontale causano incapacità di organizzare il comportamento in

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 13
Universitas Mercatorum La Memoria di Lavoro: Esecutivo
centrale e organizzazione
corticale

modo coerente con i propri obiettivi, in quanto i pazienti non riescono a


rimanere concentrati su un progetto o non sono in grado di richiamare
le informazioni nella sequenza corretta per svolgere un compito.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 13
Universitas Mercatorum La Memoria di Lavoro: Esecutivo
centrale e organizzazione
corticale

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 13 di 13
LA MEMORIA:
ELABORAZIONE,
ORGANIZZAZIONE E
VISUALIZZAZIONE
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum La Memoria: elaborazione,
organizzazione e visualizzazione

Indice

1. LIVELLI DI ELABORAZIONE.................................................... 3

2. ORGANIZZAZIONE E CHUNKING ........................................... 5

3. ORGANIZZAZIONE GERARCHICA E VISUALIZZAZIONE . 8

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 10

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 10
Universitas Mercatorum La Memoria: elaborazione,
organizzazione e visualizzazione

1. LIVELLI DI ELABORAZIONE

Una volta raggiunta la memoria di lavoro, una parte


dell’informazione può essere o meno trasferita (ovvero, codificata) nella
Memoria a Lungo Termine (MLT). Perché non tutte le informazioni
elaborate dalla memoria di lavoro sono poi codificate e immagazzinate
in maniera permanente nella MLT? Ciò dipende, almeno in parte, dal
tipo di elaborazione eseguita sullo stimolo: oggi, gli psicologi cognitivi
distinguono tra reiterazione di mantenimento (il processo che mantiene
l’informazione nella memoria di lavoro per un breve periodo di tempo)
e reiterazione di codifica (il processo per cui l’informazione viene
codificata nella MLT). Il punto importante è che non necessariamente
le attività mentali efficaci per il mantenimento nella memoria di lavoro
lo sono anche per la codifica del materiale nella MLT. Ad esempio, in
un test di digit span, ripetere una lista di cifre più e più volte consente
di trattenere l’informazione nel circuito fonologico per qualche secondo;
tuttavia, raramente le cifre vengono ricordate a distanza anche solo di
pochi minuti dalla conclusione del test.
Molto di ciò che apprendiamo non dipende da uno sforzo
cosciente di memorizzazione, ma piuttosto dal fatto che
un’informazione ha catturato il nostro interesse e stimolato il nostro
pensiero. Più è profonda la riflessione su una certa informazione, e
maggiore è la probabilità di ricordarla successivamente. Riflettere
profondamente su un’informazione comporta, oltre alla semplice
ripetizione, anche e soprattutto la possibilità di collegare uno stimolo
ad una struttura di significati e informazioni già immagazzinate nella
MLT. Gli psicologi cognitivi chiamano questo processo elaborazione o
reiterazione elaborativa.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 10
Universitas Mercatorum La Memoria: elaborazione,
organizzazione e visualizzazione

Il ruolo fondamentale dell’elaborazione per la memoria è stato


documentato da un esperimento ormai classico condotto da Craik &
Tulving (1975). Questi autori presentarono ai soggetti una lunga lista
di parole; ogni parola era associata ad una domanda che richiedeva un
diverso tipo di elaborazione:

 Elaborazione visiva: la domanda riguardava le


caratteristiche di stampa della parola («La parola è scritta
in maiuscolo o in minuscolo?»);
 Elaborazione acustica: domanda riguardava il suono della
parola («La parola fa rima con treno?»);
 Elaborazione semantica: la domanda riguardava il
significato della parola («Potrebbe completare la frase La
ragazza mise il … sul tavolo?»).

Come illustrato nella Figura 1, le parole che erano state


elaborate a livello semantico furono ricordate meglio rispetto alle
parole elaborate a livello visivo o acustico.

Figura 1. Risultati ottenuti nell’esperimento di Craik & Tulving (1975).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 10
Universitas Mercatorum La Memoria: elaborazione,
organizzazione e visualizzazione

2. ORGANIZZAZIONE E CHUNKING

L’organizzazione è strettamente collegata all’elaborazione:


organizzare le informazioni da mantenere in memoria è di per sé stessa
una forma di elaborazione, in quanto, per poter essere organizzate, le
informazioni devono essere attivamente elaborate (e non
semplicemente ripetute). Da questo punto di vista, l’organizzazione può
facilitare la memoria creando associazioni o collegamenti tra
informazioni diverse, che altrimenti sarebbero percepite come
scollegate.
Un modo per migliorare la memorizzazione è il chunking, un
metodo che consiste nel raggruppare in unità più grandi informazioni
che in origine erano percepite come elementi separati. Il chunking
migliora la codifica dell’informazione nella MLT in quanto aumenta la
quantità d’informazione contenuta in ciascuna unità, ma fa diminuire
il numero di elementi da ricordare. Ad esempio, ricordare una serie di
numeri (181127882) è più facile se essi sono organizzati e memorizzati
come tre numeri composti da tre cifre (181-127-882). Analogamente,
ricordare una serie molto lunga di lettere (RIPTVTBHTTP) è più facile
se esse sono organizzate in sigle dotate di significato (RIP-TVTB-
HTTP). Nello studio della geografia nelle scuole elementari, per
memorizzare le catene delle Alpi in ordine da ovest verso est
(Marittime, Cozie, Graie, Pennine, Lepontine, Retiche, Carniche,
Giulie) gli alunni sono soliti memorizzare la frase: “Ma Con Gran Pena
Le Reca Giù”.
Il chunking ha un ruolo molto importante nella formazione dei
ricordi a lungo termine. È noto, infatti, che la memorizzazione di
informazioni è più facile se esse riguardano un campo di cui si è esperti.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 10
Universitas Mercatorum La Memoria: elaborazione,
organizzazione e visualizzazione

Ai giocatori di scacchi esperti, per esempio, bastano pochi secondi per


memorizzare una particolare disposizione di scacchi. Allo scopo di
spiegare questo fenomeno, Ericsson e Kintsch (1995) hanno proposto
l’esistenza di una memoria di lavoro a lungo termine, la quale può
essere considerata come una memoria per insiemi di elementi tra loro
correlati (come i pezzi di una scacchiera). Si tratterebbe, secondo gli
autori, di contenuti codificati nella MLT in modo da rendere facilmente
accessibile alla memoria di lavoro l’intero costrutto informazionale.
Per riuscire a memorizzare una particolare disposizione di pezzi,
lo scacchista deve necessariamente possedere nella MLT una grande
quantità di informazioni su tutti i possibili schemi in cui questi
elementi possono essere organizzati. Tali informazioni forniscono la
base per il raggruppamento efficiente di nuove disposizioni di pezzi.
L’importanza del chunking è dimostrata dal fatto che le differenze tra
scacchisti esperti e principianti variano a seconda del contesto in cui
sono esaminate. Di solito, le partite reali seguono uno sviluppo logico e
le configurazioni sulla scacchiera sono determinate da relazioni logiche
tra i pezzi: in queste condizioni, un giocatore esperto può facilmente
raggruppare i pezzi in configurazioni a lui familiari. Tuttavia, quando
la disposizione dei pezzi è casuale, il vantaggio degli scacchisti si
annulla: come illustrato nella Figura 2, in questo caso non si rileva
nessuna differenza significativa tra esperti e principianti nella capacità
di ricordare le posizioni dei pezzi sulla scacchiera.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 10
Universitas Mercatorum La Memoria: elaborazione,
organizzazione e visualizzazione

Figura 2. Risultati dello studio di Gobet et al. (2001). Differenze tra scacchisti
esperti e principianti nel ricordo della posizione dei pezzi sulla scacchiera in due
contesti: una partita reale (condizione ‘game’) e una condizione di controllo in cui la
disposizione dei pezzi è del tutto casuale (‘random’). il livello di abilità scacchistica è
misurato con punteggi del sistema ELO, dove un punteggio maggiore di 2200 punti
indica il livello ‘maestro’, mentre un punteggio di 1600 o inferiore indica il livello
‘principiante’.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 10
Universitas Mercatorum La Memoria: elaborazione,
organizzazione e visualizzazione

3. ORGANIZZAZIONE GERARCHICA E
VISUALIZZAZIONE

Per alcuni tipi di informazione, il criterio di organizzazione più


funzionale è l’ordinamento gerarchico, in cui elementi tra loro correlati
sono raggruppati in categorie, le quali a loro volta sono riunite in
categorie di ordine superiore, e così via. In un esperimento volto a
dimostrare i vantaggi dell’organizzazione gerarchica, Halpern (1986)
presentò ai soggetti un elenco di 54 canzoni famose da memorizzare.
Per alcuni soggetti l’elenco era organizzato secondo un criterio
gerarchico: ovvero, le canzoni erano suddivise per genere musicale (ad
esempio, ‘rock’, ‘reggae’, ‘blues’, ‘classical’, etc.); per altri soggetti,
invece, l’ordine di presentazione delle canzoni era del tutto casuale. In
un test di memoria successivo, Halpern trovò che i soggetti a cui aveva
presentato l’elenco organizzato ricordavano molte più canzoni rispetto
ai soggetti ai quali aveva fornito l’elenco disposto a caso.
Nel caso di materiale visivo, la mente umana ha la possibilità di
memorizzare immagini o scene visive nel magazzino a lungo termine
in forma non verbale; tali immagini possono poi essere richiamate e
manipolate nel taccuino visuospaziale della memoria di lavoro. Nella
vita quotidiana, la memoria verbale e quella visiva interagiscono
spesso e si completano a vicenda (se vi venisse chiesto di fornire una
descrizione del vostro salotto, prima richiamereste dalla memoria
un’immagine mentale della stanza e poi trovereste le parole per
descriverla). In effetti, numerose ricerche condotte in laboratorio
indicano che la memoria di informazioni verbali può migliorare se esse
vengono contemporaneamente codificate anche in forma visiva. Per
esempio, gli studi classici di Paivio (1986) dimostrano che la

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 10
Universitas Mercatorum La Memoria: elaborazione,
organizzazione e visualizzazione

memorizzazione e il successivo ricordo di parole presentate in forma


verbale è migliore se i soggetti sono istruiti a formare immagini mentali
di ciascuna parola durante la fase di codifica. Analogamente, la
memoria per il contenuto di articoli giornalistici migliora se il testo è
accompagnato da fotografie illustrative (Prabu, 1998).
La visualizzazione può migliorare la memoria verbale in molti
modi. In primo luogo, questo metodo può aggiungere una traccia
mnestica visiva distinta come informazione supplementare alla traccia
verbale, aumentando la possibilità di richiamare l’elemento dalla
memoria in futuro (Paivio, 1986). In secondo luogo, la visualizzazione
può essere un mezzo efficace per raggruppare insieme vari elementi
presentati verbalmente – la descrizione di una persona che non
abbiamo mai incontrato può contenere vari elementi d’informazione
separati (ad esempio, ha gli occhi blu, il naso aquilino, etc.), che noi
possiamo combinare in un’unica immagine visiva. Infine, la costruzione
di immagini mentali può collegare insieme elementi nuovi con
contenuti già stabilmente codificati nella MLT. Ad esempio, il metodo
dei loci consiste nel chiedere loro di immaginare di fare una passeggiata
lungo una strada conosciuta e di collocare ogni stimolo da ricordare nei
pressi di un particolare luogo o punto di riferimento; al momento di
richiamare gli elementi, i partecipanti ripercorrono la stessa strada,
ispezionando ogni ‘luogo’ per ‘vedere’ mentalmente l’oggetto che vi
hanno depositato in precedenza.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 10
Universitas Mercatorum La Memoria: elaborazione,
organizzazione e visualizzazione

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 10
LA MEMORIA:
CODIFICA E
RECUPERO DELLE
INFORMAZIONI
DALLA MEMORIA A
LUNGO TERMINE
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum La Memoria: Codifica e recupero
delle informazioni dalla
memoria a lungo termine

Indice

1. MECCANISMI CEREBRALI DELLA CODIFICA A LUNGO


TERMINE ........................................................................................ 3

2. RUOLO DEL RECUPERO E DEL SONNO NEL


CONSOLIDAMENTO .................................................................... 6

3. IL RECUPERO DELL’INFORMAZIONE DALLA MEMORIA


A LUNGO TERMINE .................................................................... 9

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 12

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 12
Universitas Mercatorum La Memoria: Codifica e recupero
delle informazioni dalla
memoria a lungo termine

1. MECCANISMI CEREBRALI DELLA CODIFICA A


LUNGO TERMINE

Nel 1953, H.M. (al secolo, Henry Molaison) fu sottoposto ad un


intervento per il trattamento di una grave forma di epilessia, il quale
comportò l’asportazione di una porzione del lobo temporale e di alcune
parti del sistema limbico sottostante. L’intervento riuscì ad eliminare i
sintomi dell’epilessia ma sfortunatamente privò H.M. della capacità di
codificare nuovi contenuti nella memoria a lungo termine. Dal
momento in cui subì l’intervento fino alla sua morte (avvenuta nell
2008), H.M. fu sottoposto a centinaia di esperimenti che hanno
contribuito a svelare alcuni dei meccanismi alla base della codifica delle
informazioni nella memoria a lungo termine. Nel complesso, questi
esperimenti hanno dimostrato che H.M. era in grado di conversare,
leggere, risolvere problemi e anche mantenere in memoria nuove
informazioni finché la sua attenzione era concentrata su di esse;
tuttavia, non appena veniva distratto, egli perdeva tutte le
informazioni a cui stava pensando un attimo prima, senza possibilità
di recuperarle. Questo deficit ha impedito ad H.M. di vivere una
esistenza normale. Veniva accompagnato ovunque andasse, in quanto
aveva costantemente bisogno di una persona che gli ricordasse ciò che
stava facendo. In partica, egli viveva in un eterno presente: prima un
momento, poi un altro, staccato, senza alcuna memoria dei momenti
precedenti.
Il disturbo manifestato da H.M. e da altri pazienti con lesioni
simili fu chiamato amnesia del lobo temporale: le aree coinvolte sono in
genere l’ippocampo e le strutture corticali e subcorticali ad esso
connesse. Il ruolo critico di questa particolare struttura del sistema

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 12
Universitas Mercatorum La Memoria: Codifica e recupero
delle informazioni dalla
memoria a lungo termine

limbico è stato confermato da studi di neuroimmagine, i quali hanno


dimostrato che, quando persone sane cercano di memorizzare nuove
informazioni, si verifica un aumento di attività neurale nell’ippocampo
e nelle regioni adiacenti; inoltre, il grado di attivazione dell’ippocampo
è correlato positivamente con la prestazione in successivi test di
memoria. Tutti questi risultati suggeriscono che l’attività
dell’ippocampo è essenziale per la formazione di alcuni tipi di ricordi
nella memoria a lungo termine.
Più in generale, con il termine amnesia si indica qualsiasi deficit
della memoria a lungo termine dovuto ad alterazioni fisiche o lesioni
cerebrali. L’amnesia anterograda (la forma da cui era affetto H.M.)
comporta l’incapacità di formare ricordi a lungo termine degli eventi
successivi alla lesione. L’amnesia retrograda comporta invece
l’incapacità di ricordare eventi verificatisi prima della lesione. In
quest’ultimo caso, si osserva di solito un cosiddetto gradiente di
amnesia retrograda, per cui la gravità del disturbo diminuisce man
mano che gli eventi da ricordare sono più lontani nel tempo. Questo
significa che i pazienti spesso conservano la memoria per eventi
accaduti molto tempo prima della lesione: ad esempio, i ricordi di H.M.
per gli eventi della sua infanzia erano sostanzialmente intatti.
Il gradiente di amnesia retrograda suggerisce che i ricordi a
lungo termine sono codificati nel cervello in due forme:

 una forma labile, che si degrada facilmente e che dipende


da connessioni neurali nell’ippocampo;
 e una forma stabile, che resiste alla degradazione e che
dipende da connessioni distribuite in varie parti della
corteccia cerebrale.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 12
Universitas Mercatorum La Memoria: Codifica e recupero
delle informazioni dalla
memoria a lungo termine

Tutti i contenuti della MLT sono dapprima codificati nella forma


labile; poi, con il passare del tempo, sono ricodificati nella forma stabile
(oppure vanno perduti). Questo processo di conversione dalla forma
labile a quella stabile prende il nome di consolidamento ed è provato
che esso implichi la modifica di connessioni sinaptiche esistenti e la
formazione di nuove sinapsi a livello della corteccia cerebrale.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 12
Universitas Mercatorum La Memoria: Codifica e recupero
delle informazioni dalla
memoria a lungo termine

2. RUOLO DEL RECUPERO E DEL SONNO NEL


CONSOLIDAMENTO

Ricerche recenti suggeriscono che i ricordi presenti nella MLT


non sono entità statiche, ma dinamiche, soggette a cambiamento ad
ogni nuovo utilizzo. In particolare, è stato dimostrato che, quando un
ricordo viene richiamato, la sua traccia neurale entra
temporaneamente in una nuova fase labile, in cui è suscettibile di
essere modificata. In questa fase, il ricordo può essere rafforzato,
indebolito, o modificato dall’aggiunta di nuovi contenuti. Non è ancora
del tutto chiaro il motivo per cui alcuni ricordino si consolidino molto
in fretta, mentre altri vanno perduti nel giro di pochi minuti e non
vengono mai consolidati. Tuttavia, diverse prove indicano che i ricordi
richiamati ripetutamente nell’arco di periodi di tempo relativamente
lunghi sono quelli che hanno maggiori probabilità di essere consolidati
in forma stabile.
Le ricerche dimostrano che dormire a breve distanza da una
seduta di apprendimento aiuta a consolidare in memoria nuove
informazioni, rendendole meno suscettibili di essere perdute. In molti
di questi esperimenti sono stati utilizzati compiti di associazione di
parole, in cui i soggetti memorizzano coppie di parole e devono, in un
secondo momento, ricordare la seconda parola in seguito alla
presentazione (da parte dello sperimentatore) della prima parola. Per
questi compiti di memoria espliciti (che implicano il richiamo cosciente
del materiale codificato), il tipo di sonno che produce effetti più positivi
è il sonno non REM ad onde lente. Infatti, il grado di apprendimento
dei soggetti correla positivamente con la durata del sonno ad onde
lente, ma non con quella del sonno REM. Inoltre, vi sono prove che

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 12
Universitas Mercatorum La Memoria: Codifica e recupero
delle informazioni dalla
memoria a lungo termine

l’ippocampo si attiva in vari momenti durante il sonno a onde lente:


seconda una teoria accreditata, questa attività rifletterebbe
l’attivazione della traccia mnestica e consentirebbe il consolidamento
dei ricordi in una forma più stabile.
Il sonno migliora non soltanto la durata dei ricordi, ma anche la
loro qualità, con modalità che permettono lo sviluppo di nuove
intuizioni. In uno studio di Wagner et al. (2004), i partecipanti erano
addestrati a risolvere un problema matematico applicando una
sequenza di sette passaggi. Ai soggetti non fu detto che il problema
poteva essere risolto con un metodo più semplice, che richiedeva due
soli passaggi. Otto ore dopo la fase iniziale di addestramento, i
partecipanti furono sottoposti ad un test in cui dovevano risolvere
numerosi problemi dello stesso tipo. Ciò che fu manipolato dai
ricercatori era l’attività svolta dai soggetti durante l’intervallo di otto
ore. In particolare, l’esperimento prevedeva 5 gruppi diversi:

 Gruppo 1 (wake-day): i soggetti furono addestrati nella


mattinata e sottoposti al test di sera, senza dormire;
 Gruppo 2 (wake-night): i soggetti furono addestrati la
sera, tenuti svegli per tutta la notte, e sottoposti al test la
mattina dopo;
 Gruppo 3 (sleep): i soggetti furono addestrati la sera,
dormivano per tutta la notte, ed erano poi sottoposti al
test la mattina dopo.

Inoltre, due altri gruppi di controllo furono sottoposti ad


addestramento e poi al test senza interruzione: di mattina dopo una
notte di sonno (Gruppo 4: after sleep) oppure di sera dopo una giornata
di veglia (Gruppo 5: after wake). Come illustrato nella Figura 1, i
risultati dimostrarono che i soggetti che avevano dormito tra

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 12
Universitas Mercatorum La Memoria: Codifica e recupero
delle informazioni dalla
memoria a lungo termine

l’addestramento e la fase test (Gruppo 3) mostravano una capacità


doppia di scoprire il metodo più semplice per risolvere il problema,
rispetto agli altri gruppi.

Figura 1. Risultati ottenuti nell’esperimento di Wagner et al. (2004).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 12
Universitas Mercatorum La Memoria: Codifica e recupero
delle informazioni dalla
memoria a lungo termine

3. IL RECUPERO DELL’INFORMAZIONE DALLA


MEMORIA A LUNGO TERMINE

Una volta che le informazioni sono stata codificate nella MLT,


possiamo o meno essere in grado di recuperarle: questa capacità
dipende, almeno in parte, dal modo in cui esse sono state organizzate.
Infatti, nella mente umana, i ricordi non sono immagazzinati come
elementi separati: piuttosto, essi formano reti neurali in cui ogni
elemento è collegato agli altri concetti mediante associazioni. Quando
un ricordo viene attivato da uno stimolo o da un pensiero (chiamato
indizio per il recupero), altri ricordi ad esso associati vengono
temporaneamente attivati e diventano quindi più facilmente
recuperabili: nell’ambito della ricerca scientifica, questo fenomeno è
comunemente chiamato priming.
Oggi, la maggior parte degli psicologi cognitivi rappresentano il
deposito mentale delle conoscenze come una vasta rete di concetti
collegati tra loro. Il modello più famoso è stato proposto da Collins e
Loftus (1975) per interpretare i risultati derivanti da una serie di
esperimenti in cui i partecipanti dovevano riconoscere una parola
target dopo la presentazione di altre parole. Ad esempio, la parola
‘mela’ era riconosciuta più velocemente se preceduta da ‘pera’ o da
‘rosso’, piuttosto che da ‘autobus’. Sulla base di questi dati, Collins e
Loftus ipotizzarono che il grado in cui una parola facilita il
riconoscimento o il recupero di un’altra parola riflette la forza
dell’associazione mentale tra i due concetti.
Nel modello proposto da questi studiosi, illustrato nella Figura
2, la forza dell’associazione tra due concetti è rappresentata dalla
lunghezza del percorso che li collega: quanto più breve è la distanza tra

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 12
Universitas Mercatorum La Memoria: Codifica e recupero
delle informazioni dalla
memoria a lungo termine

due parole, tanto più forte è l’associazione che le lega. Inoltre, il


modello prevede che l’associazione tra i vari elementi sia fondata su
proprietà comuni. Le parole ‘rose’, ‘mele’, ‘ciliegie’, e ‘tramonto’ sono
tutte collegate al concetto di ‘rosso’ e, attraverso di esso, sono tutte
interconnesse. Un modello come quello ipotizzato da Collins e Loftus
(1975) è detto modello della diffusione dell’attivazione, in quanto
l’attivazione di un concetto innesca il diffondersi dell’attivazione ai
concetti vicini della rete, i quali diventano temporaneamente più
accessibili e più facili da recuperare (un tipico effetto di priming).
Poiché la forza dell’associazione tra due concetti declina con
l’aumentare della distanza, l’effetto di priming è più forte sui concetti
più vicini, e quindi più strettamente associati, al concetto inizialmente
attivato.

Figura 2. Modello della diffusione dell’attivazione di Collins e Loftus (1975).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 12
Universitas Mercatorum La Memoria: Codifica e recupero
delle informazioni dalla
memoria a lungo termine

Il modo in cui un’informazione viene inserita nella rete di


associazioni mentali ha un effetto decisivo sulla capacità di
recuperarla. In termini generali, è possibile affermare che quanto più
è alto il numero di associazioni mentali generate durante
l’apprendimento di un elemento, tanto più alto sarà il numero dei
possibili modi per recuperarlo in seguito. In un esperimento volto a
dimostrare l’utilità della codifica elaborativa, Mäntylä (1986) presentò
ai soggetti 500 nomi, chiedendo loro di scrivere tre proprietà
dell’oggetto; in un successivo test di memoria a sorpresa, i soggetti
ricevettero come indizi per il recupero le proprietà generate da loro
stessi o quelle generate da altri soggetti. Come illustrato nella Figura
3, i soggetti che ricevettero come indizi le tre proprietà generate da loro
stessi ricordarono oltre il 90% dei nomi; d’altra parte, la prestazione fu
molto inferiore quando i soggetti ricevettero come indizi le proprietà
generate da altri.

Figura 3. Risultati dell’esperimento di Mäntylä (1986).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 12
Universitas Mercatorum La Memoria: Codifica e recupero
delle informazioni dalla
memoria a lungo termine

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 12
LA MEMORIA:
COSTRUZIONE DEL
RICORDO COME
FONTE DI
DISTORSIONI
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum La Memoria: Costruzione
del ricordo come fonte di
distorsioni

Indice

1. RUOLO DEGLI SCHEMI NELLA DISTORSIONE DEI


RICORDI ......................................................................................... 3

2. FALSI RICORDI NEI TESTIMONI OCULARI ........................ 5

3. FALSI RICORDI DI ESPERIENZE INFANTILI ..................... 7

BIBLIOGRAFIA ................................................................................... 9

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 9
Universitas Mercatorum La Memoria: Costruzione
del ricordo come fonte di
distorsioni

1. RUOLO DEGLI SCHEMI NELLA DISTORSIONE


DEI RICORDI

Il cervello non è un registratore o una videocamera, che registra


informazioni con elevata fedeltà, e ricordare non vuol dire
semplicemente trovare la cassetta o il disco giusto e riascoltarli.
Ricordare è invece un processo d’inferenza attivo, guidato dalle
conoscenze generali che una persona ha sul mondo, sia dagli indizi
presenti in quel momento nell’ambiente esterno. Quando sentiamo
raccontare una storia o viviamo un’esperienza, la nostra mente codifica
solo una parte dell’informazione; in seguito, quando raccontiamo
quell’esperienza o quella storia, la nostra mente recupera i frammenti
codificati e riempie i vuoti con ciò che la logica e le nostre conoscenze ci
suggeriscono che deve essere accaduto, anche se non riusciamo a
ricordarlo con sicurezza. Quindi, ricordare una storia o un’esperienza
non equivale ad una semplice rilettura dell’informazione originale, ma
in un vero e proprio processo di costruzione. Questa capacità è
ovviamente adattiva, in quanto ci consente di trarre un senso logico da
informazioni e ricordi frammentari; tuttavia, può anche portare a delle
serie distorsioni del ricordo.
Uno dei primi psicologi ad evidenziare l’effetto delle conoscenze
e delle credenze sui ricordi fu Bartlett, il quale adottò il termine schema
(o script) per indicare la rappresentazione mentale di specifici eventi,
oggetti o scene. In particolare, egli usò questo termine per riferirsi ad
un concetto mentale che può variare tra culture diverse e che implica
relazioni spaziali o temporali ben precise tra le unità dell’oggetto, della
scena o dell’evento. Ad esempio, la maggior parte di noi condivide uno
schema standard di una stanza da soggiorno, che probabilmente

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 9
Universitas Mercatorum La Memoria: Costruzione
del ricordo come fonte di
distorsioni

include un divano e una poltrona comoda rivolti verso un televisore,


con un tavolino basso davanti al divano. Analogamente, un esempio di
script è la festa di compleanno di un bambino, la quale implica una
serie di eventi prefissati: prima ci si diverte con i giochi, poi arriva la
torta, si canta «Buon compleanno», il festeggiato spegne le candeline,
si mangia la torta, si aprono i regali, etc.
Per Bartlett, gli schemi influenzano il ricordo di oggetti ed
eventi, in quanto noi tendiamo a riempire i vuoti della traccia mnestica
con le informazioni derivanti dagli script. Così, un particolare
soggiorno o una determinata festa di compleanno ci sembrano più
simili al soggiorno o alla festa standard di quanto in realtà non fossero.
In un esperimento classico, Bartlett (1932) fece ascoltare a studenti
inglesi una storia della tradizione degli indiani d’America (intitolata
«La guerra dei fantasmi»), chiedendo in seguito di rievocarla in base a
quanto ricordavano. I risultati dimostrarono che la storia originale
veniva spesso cambiata, ad esempio eliminando i dettagli non
essenziali ai fini della trama. Inoltre, i passaggi della storia che
riflettevano le credenze degli indiani venivano modificati in modo da
corrispondere alle credenze tipiche degli studenti occidentali (l’obbligo
morale verso gli spiriti, che era una componente essenziale del racconto
indiano, tendeva ad essere trasposto nell’obbligo morale nei confronti
dei genitori). In altre parole, sebbene gli studenti si sforzassero di
ripetere la storia con esattezza, inevitabilmente facevano ricorso al
proprio personale bagaglio culturale per colmare le lacune della
memoria.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 9
Universitas Mercatorum La Memoria: Costruzione
del ricordo come fonte di
distorsioni

2. FALSI RICORDI NEI TESTIMONI OCULARI

Il ricordo di un’esperienza è influenzato non solo da schemi


preesistenti, ma anche dagli eventi che si verificano dopo che
l’esperienza è stata codificata in memoria. Questi effetti possono avere
conseguenze gravi in ambiti particolari come i dibattimenti processuali
o le psicoterapie. Il caso più eclatante fu quello dei falsi ricordi che
hanno portato molte persone innocenti in prigione o addirittura alla
pena di morte. Negli anni ’90, negli Stati Uniti d’America,
l’introduzione del test del DNA consentì di identificare decine di
persone che erano state ingiustamente condannate e incarcerate per
crimini che non avevano commesso. Uno studio commissionato dal
Ministero della giustizia concluse che in molti casi la causa di questi
errori era la certezza del riconoscimento da parte di un testimone
oculare. Spesso il testimone non si era dimostrato sicuro
dell’identificazione all’inizio delle indagini, ma col tempo lo era
diventato. Il caso più eclatante fu quello di Larry Mayes, il quale
trascorse 21 anni in carcere per uno stupro che non aveva commesso.
La vittima non riconobbe Mayes nei primi due confronti, ma si convinse
della sua colpevolezza solo dopo che la polizia la sottopose ad alcune
sedute di ipnosi volte a ‘recuperare’ il ricordo dell’accaduto (Loftus,
2004).
L’ipnosi è uno stato di elevata suggestionabilità in cui è
relativamente facile indurre falsi ricordi fornendo suggerimenti
fuorvianti. Tuttavia, molti studi indicano che i ricordi possono essere
alterati da suggestioni o incoraggiamenti anche senza ricorso all’ipnosi.
In uno di questi esperimenti, una semplice affermazione da parte dello
sperimentatore («Molto bene, ha fatto davvero un ottimo lavoro come

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 9
Universitas Mercatorum La Memoria: Costruzione
del ricordo come fonte di
distorsioni

testimone») era sufficiente ad aumentare enormemente la sicurezza del


testimone sull’autore di un crimine simulato, indipendentemente dalla
correttezza o meno del ricordo (Wells & Bradfield, 1999). In altre
parole, il testimone diventava molto sicuro dell’identificazione anche
quando essa era in realtà sbagliata.
Altri esperimenti hanno dimostrato che anche le domande
tendenziose possono alterare i ricordi relativi all’identità delle persone
o alla dinamica degli avvenimenti stessi. In una serie di esperimenti
ormai classici, Loftus e Palmer (1974) presentarono ai soggetti il
filmato di un indicente stradale; al termine della presentazione,
chiesero loro di valutare la velocità delle auto «nel momento in cui si
erano scontrate» oppure «nel momento in cui si erano schiantate». I
risultati mostrarono che le persone che aveva udito la parola
‘schiantate’ fornirono una stima della velocità significativamente più
alta, rispetto alle persone che avevano udito la parola “scontrate”. Una
settimana dopo, queste stesse persone furono sottoposte ad un secondo
test in cui dovevano rievocare il filmato e dire se ricordavano di aver
visto dei vetri rotti. Anche in questo caso, le persone che avevano udito
la parola “schiantate” erano più inclini a rispondere di aver visto dei
vetri rotti, anche se questo dettaglio non era presente nel video
originale.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 9
Universitas Mercatorum La Memoria: Costruzione
del ricordo come fonte di
distorsioni

3. FALSI RICORDI DI ESPERIENZE INFANTILI

Se nel corso di una psicoterapia iniziano ad emergere ricordi di


abusi subiti nell’infanzia, quei ricordi riflettono fatti reali, oppure sono
stati costruiti a partire da idee suggerite da un terapeuta mosso dalle
migliori intenzioni ma completamente fuori strada? Negli anni ‘80 negli
Stati Uniti questo problema fu al centro di molti dibattimenti
processuali in cui dei genitori furono ingiustamente accusati di aver
commesso abusi orribili sui propri figli e dei genitori citarono in
giudizio gli psicoterapeuti, accusandoli di aver inculcato nei figli falsi
ricordi. Questi processi stimolarono decine di ricerche, le quali hanno
in generale confermato il fatto che le suggestioni, gli incoraggiamenti e
l’immaginazione possono generare falsi ricordi di esperienze infantili.
In uno studio esemplificativo, Loftus e Pickrell (1995) portarono
soggetti adulti a credere che all’età di 5 anni si erano smarriti in un
centro commerciale ed erano stati aiutati e confortati da una signora
anziana. Sebbene l’evento descritto non fosse mai accaduto (a quanto
affermavano i genitori), in una intervista condotta a una e a due
settimane di distanza, circa il 25% dei soggetti sostenne di ricordare
quell’episodio; alcuni soggetti addirittura lo elaborarono, arricchendolo
di ulteriori particolari rispetto a quelli forniti dai ricercatori.
Studi successivi hanno dimostrato che l’immaginazione può
favorire la costruzione di falsi ricordi. In particolare, Hyman e
Pentland (1996) dissero ai loro soggetti che da bambini erano stati
protagonisti di un incidente imbarazzante in cui, durante un pranzo di
nozze, avevano rovesciato della sangria sui genitori della sposa. Ai
soggetti nella condizione d’immaginazione fu chiesto di formare vivide
immagini mentali dell’evento, mentre ai soggetti nella condizione di

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 9
Universitas Mercatorum La Memoria: Costruzione
del ricordo come fonte di
distorsioni

controllo fu solo chiesto di pensare all’evento così da ricordarlo. In una


intervista successiva, il risultato principale fu che l’immaginazione
contribuì a creare un falso ricordo dell’evento: infatti, il 38% dei
soggetti nella condizione d’immaginazione sostenne di ricordare
l’episodio, contro il 12% dei soggetti nella condizione di controllo.
L’immaginazione da sola basta a generare falsi ricordi, anche in
assenza di suggestioni fuorvianti da parte del ricercatore. In uno studio
(Mazoni & Memon, 2003) si chiese ai soggetti di immaginare una
procedura medica dolorosa, che in realtà non venne mai eseguita; in un
secondo momento si chiese ai soggetti di ricordare se da bambini
avevano subito proprio quella procedura oppure no. Il risultato fu che
oltre il 20% dei soggetti nella condizione d’immaginazione disse di
ricordare di essere stato sottoposto alla procedura, contro il 5% dei
soggetti nella condizione di controllo.
Una delle cause all’origine dei falsi ricordi infantili è certamente
la confusione delle fonti. La mente acquisisce informazioni da più parti
(esperienze reali, storie ascoltate, scene immaginate) e le riorganizza
in modi che hanno senso ma che occultano i collegamenti tra ciascun
elemento e la sua fonte originale. La conseguenza è che eventi
concettualmente associati, ma derivanti da fonti diverse, possono
arrivare a confondersi nella memoria. Quindi, il ricordo di un evento
realmente accaduto può finire per confondersi con una storia udita da
altri o con un evento solo immaginato. Analogamente, nel ricordo di chi
ha assistito ad un incidente automobilistico, le informazioni codificate
nella memoria possono confondersi con le informazioni veicolate dalle
domande di chi in seguito indaga sull’incidente.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 9
Universitas Mercatorum La Memoria: Costruzione
del ricordo come fonte di
distorsioni

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014). Psicologia


generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 9
RAGIONAMENTO
INDUTTIVO E
DEDUTTIVO
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Ragionamento induttivo
e deduttivo

Indice

1. RAGIONAMENTO PER ANALOGIA ......................................... 3

2. RAGIONAMENTO INDUTTIVO E DISTORSIONI ................. 6

3. RAGIONAMENTO INDUTTIVO E DISTORSIONI ................. 9

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 11

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 11
Universitas Mercatorum Ragionamento induttivo
e deduttivo

1. RAGIONAMENTO PER ANALOGIA

Con il termine ragionamento si intende la capacità di usare le


informazioni immagazzinate in memoria per comprendere la nostra
situazione attuale, riconoscere e risolvere i problemi che essa pone,
prevedere ciò che può avvenire in futuro e fare piani che ci aiutino a
prepararci per quel futuro e possibilmente a modificarlo in senso
positivo per noi. Quindi, noi ragioniamo in larga misura usando la
memoria di esperienze precedenti per dare significato alle esperienze
presenti o per programmare il futuro. Quest’abilità di ragionamento
dipende in maniera critica dalla capacità di cogliere le somiglianze tra
i diversi eventi che abbiamo sperimentato. Ad esempio, quando
vediamo delle nuvole nere in cielo e udiamo un tuono, sappiamo dalle
nostre passate esperienze che probabilmente verrà a piovere e
prendiamo precauzioni per non bagnarci.
In effetti, l’identificazione di analogie è alla base del
ragionamento analogico e del ragionamento induttivo. Con il termine
analogia si intende una somiglianza di funzione, comportamento o
relazione fra entità o situazioni che sono per altri aspetti piuttosto
diverse tra loro. Così, per esempio, possiamo dire che un guantone da
baseball è analogo ad una rete per farfalle, in quanto entrambi questi
oggetti vengono utilizzati per prendere qualcosa ed entrambi hanno
una forma che ricorda un po' quella di un imbuto. Biologi, avvocati,
politici e persone comuni fanno continuamente ricorso ad analogie per
convincere gli altri di qualche loro affermazione o per sostenere una
certa linea d’azione.
Inoltre, i test che misurano le abilità di ragionamento utilizzano
spesso problemi analogici: un esempio è il Miller Analogy Test (MAT).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 11
Universitas Mercatorum Ragionamento induttivo
e deduttivo

Negli Stati Uniti d’America, il superamento di questo test è spesso


richiesto a coloro che si iscrivono a corsi di dottorato o che presentano
certe domande di lavoro, e diversi studi hanno dimostrato che il
punteggio al MAT predice in maniera ragionevolmente buona il
rendimento di un soggetto negli studi universitari o in un lavoro che
richiede di tener conto di sempre nuove informazioni e di risolvere
problemi complessi. Un esempio di un problema contenuto nel MAT è
il seguente:
AEREO sta ad ARIA come NAVE sta a (1) sottomarino; (2) acqua;
(3) ossigeno; (4) pilota
Per risolvere questo problema, è necessario comprendere la
relazione che lega i primi due concetti, quindi applicarla alla seconda
coppia di concetti in modo da rispecchiare la stessa relazione. In questo
particolare caso, la relazione tra AEREO e ARIA è che il primo oggetto
si muove attraverso il secondo: quindi, l’abbinamento corretto è tra
NAVE e ACQUA.
Un altro test mentale basato su analogie è il test delle Matrici
progressive di Raven, spesso utilizzato per misurare l’intelligenza
fluida. Come illustrato nella Figura 1, il compito consiste
nell’esaminare i tre stimoli visivi che compaiono nelle prime due file in
alto, per individuare la regola che lega i primi due stimoli di ogni fila
al terzo stimolo. Una volta trovata la regola, essa deve essere applicata
agli stimoli presenti nella terza fila in modo da scegliere, tra 8
alternative, lo stimolo che completa la fila in maniera corretta.
Nell’esempio, la regola è che la sovrapposizione del primo stimolo col
secondo produce il terzo stimolo; quindi, la risposta corretta è la
numero 8.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 11
Universitas Mercatorum Ragionamento induttivo
e deduttivo

Figura 1. Esempio di un problema contenuto nel test delle matrici progressive di


Raven.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 11
Universitas Mercatorum Ragionamento induttivo
e deduttivo

2. RAGIONAMENTO INDUTTIVO E DISTORSIONI

Il ragionamento induttivo consiste nel tentativo di inferire un


nuovo principio, o enunciato, a partire da un insieme di osservazioni o
fatti che fungono da indizi. Gli psicologi si servono continuamente
dell’induzione per formulare congetture sul funzionamento della mente
umana basandosi sull’osservazione di determinati comportamenti.
Analogamente, gli investigatori si servono dell’induzione quando
mettono insieme tutti gli elementi di prova per trarre inferenze
sull’autore di un crimine. In generale, gli esseri umani sono piuttosto
bravi nel ragionamento induttivo: tuttavia, gli psicologi si sono
concentrati sui loro errori, individuando varie forme di distorsione
sistematica del ragionamento.
La distorsione sistematica da disponibilità dell’informazione si
verifica quando i soggetti tendono a fare eccessivo ricorso alle
informazioni che sono più facilmente disponibili, e a ignorare quelle che
lo sono meno. In un esperimento ormai celebre, Tversky & Kahneman
(1973) chiesero a soggetti anglofoni di giudicare se la lettera ‘d’ era più
frequente nella prima oppure nella terza posizione delle parole inglesi.
Sebbene la risposta corretta fosse ‘in terza posizione’, la maggioranza
dei soggetti rispose in prima posizione, in quanto generare parole che
iniziano con la ‘d’ è molto più facile che generare parole in cui la ‘d’ è in
terza posizione. A livello più pratico, Groopman (2007) ha evidenziato
il fatto che molti casi di diagnosi mediche errate sono dovuti alla
distorsione sistematica da disponibilità. Ad esempio, un medico che
abbia recentemente incontrato molti casi di una determinata malattia,
tende a diagnosticare quella stessa malattia più frequentemente di
quanto non facciano medici non esposti a casi recenti. Ciò accade in

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 11
Universitas Mercatorum Ragionamento induttivo
e deduttivo

quanto il medico tende a porre domande sui sintomi che sono più
congruenti con la malattia di cui ha avuto esperienza, e dimentica di
porre le domande che porterebbero invece ad escludere quella
patologia.
La distorsione sistematica da propensione alla conferma è
dovuta alla tendenza delle persone a cercare di confermare, anziché
confutare, le ipotesi che ritengono valide. In un esperimento
esemplificativo, Wason (1960) chiese ai soggetti di scoprire la regola
usata dallo sperimentatore per costruire una serie di numeri come 6-8-
10. Quindi, nelle prove successive, i soggetti dovevano produrre
sequenze di tre numeri basati sulla regola che avevano ipotizzato: lo
sperimentatore rispondeva si o no a seconda che la serie rispettasse o
meno il suo criterio. Wason trovò che quasi tutti i soggetti producevano
sequenze che tendevano a confermare la regola ‘una serie di numeri
pari crescenti per due’ (ad esempio, 2-4-6 o 14-16-18) e, ricevendo
sempre risposte positive dallo sperimentatore, in breve tempo si
convincevano della validità della loro ipotesi. Questi soggetti non
furono in grado di scoprire che la regola usata dallo sperimentatore era
in realtà: qualsiasi serie crescente di numeri. I pochi soggetti che
riuscirono a individuare la regola corretta furono quelli che produssero
sequenze tali da contraddire l’ipotesi formulata: ad esempio, un
soggetto poteva produrre la sequenza 5-7-9 (che avrebbe confutato
l’idea che la regola si basava sull’uso di numeri pari) oppure la
sequenza 4-7-10 (che avrebbe confutato l’idea che la regola si basava su
un incremento costante di due unità).
In un altro esperimento, ai soggetti era richiesto di rivolgere
domande ad un’altra persona allo scopo di scoprire la sua personalità.
A seconda del loro gruppo di appartenenza, il compito dei soggetti era
verificare se la persona intervistata era estroversa oppure introversa.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 11
Universitas Mercatorum Ragionamento induttivo
e deduttivo

Il risultato più importante fu che i soggetti mostravano una forte


tendenza a formulare domande in modo tale da confermare la loro
ipotesi di partenza. Per esempio, i soggetti che dovevano verificare
l’estroversione dell’intervistato tendevano a rivolgere domande quali:
«Le fa piacere conoscere gente nuova?»; al contrario, i soggetti che
dovevano verificare l’introversione dell’intervistato tendevano a
rivolgere domande quali: «Si sente timido nell’incontrare nuove
persone?».

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 11
Universitas Mercatorum Ragionamento induttivo
e deduttivo

3. RAGIONAMENTO INDUTTIVO E DISTORSIONI

Il ragionamento deduttivo consiste nel tentativo di derivare da


alcune premesse assunte come vere delle conclusioni che ne discendano
per necessità logica e che perciò siano altrettanto vere. Tutti noi ci
serviamo spesso della deduzione nella vita quotidiana: per esempio, se
qualcuno dice che nella sua famiglia tutti sono più alti di 1 metro e 70,
allora sappiamo per deduzione che tutti i membri di quella famiglia
sono anche più alti di 1 metro e 50. Analogamente, buona parte della
matematica si fonda sulla deduzione, in quanto si cerca di dimostrare,
o confutare, certi corollari sulla base di assiomi assunti per veri.
In ambito psicologico, un tipico problema deduttivo è il
sillogismo, in cui i soggetti devono combinare mentalmente due
premesse, una maggiore e una minore, in modo da verificare se una
certa conclusione è vera, falsa o indeterminata (cioè, la risposta non
può essere determinata a partire dalle premesse date). Un esempio di
sillogismo è il seguente:
Tutti i cuochi sono violinisti
Mary è una cuoca
Mary è una violinista
Piaget era convinto che, dai 13 anni in su, le persone ragionino
in modo deduttivo applicando principi astratti di logica, che possono
essere espressi in forma matematica. Tuttavia, pochi psicologi
contemporanei accettano questa conclusione: le ricerche indicano,
infatti, che l’efficacia con cui risolviamo i sillogismi è maggiore se il
problema è posto in termini concreti, piuttosto che sotto forma di
simboli logici astratti. Ciò è dovuto al fatto che gli esseri umani
possiedono una naturale tendenza a risolvere i sillogismi basandosi

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 11
Universitas Mercatorum Ragionamento induttivo
e deduttivo

sulle loro conoscenze del mondo reale, e non riflettendo sulle leggi della
logica.
In tal senso, diversi studi hanno dimostrato che la probabilità di
risolvere un sillogismo varia a seconda che le affermazioni contenute
nel problema siano coerenti o meno con l’esperienza quotidiana. Ad
esempio, in un esperimento (Stanovich, 2003), si chiede a dei soggetti
di risolvere il seguente sillogismo:
Tutti gli insetti hanno bisogno di ossigeno
I topi hanno bisogno di ossigeno
Quindi i topi sono insetti
In questo caso, il fatto di sapere che i topi non sono insetti
portava quasi tutti i soggetti a rispondere che la conclusione non era
valida. I risultati furono però molto diversi quando lo sperimentatore
chiese agli stessi soggetti di risolvere il seguente sillogismo:
Tutti gli esseri viventi hanno bisogno di acqua
Le rose hanno bisogno di acqua
Quindi le rose sono esseri viventi
Anche in questo sillogismo (come nel precedente), la conclusione
non è logicamente valida, in quanto le premesse non affermano che
tutte le cose che hanno bisogno di acqua sono esseri viventi: quindi, in
base alle premesse, tutto ciò che un soggetto può dedurre è che le rose
potrebbero essere esseri viventi, ma non lo sono necessariamente.
Nonostante ciò, soltanto il 30% dei soggetti rispose correttamente. Ciò
è dovuto al fatto che i soggetti non potevano fare a meno di essere
influenzati dalle loro conoscenze del mondo reale: in questo specifico
caso, il sapere che le rose sono esseri viventi li portava a ritenere la
conclusione logicamente valida (anche in realtà non lo era).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 11
Universitas Mercatorum Ragionamento induttivo
e deduttivo

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 11
RAGIONAMENTO
INDUTTIVO E
DEDUTTIVO
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Ragionamento induttivo
e deduttivo

Indice

1. RAGIONAMENTO PER ANALOGIA ......................................... 3

2. RAGIONAMENTO INDUTTIVO E DISTORSIONI ................. 6

3. RAGIONAMENTO INDUTTIVO E DISTORSIONI ................. 9

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 11

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 11
Universitas Mercatorum Ragionamento induttivo
e deduttivo

1. RAGIONAMENTO PER ANALOGIA

Con il termine ragionamento si intende la capacità di usare le


informazioni immagazzinate in memoria per comprendere la nostra
situazione attuale, riconoscere e risolvere i problemi che essa pone,
prevedere ciò che può avvenire in futuro e fare piani che ci aiutino a
prepararci per quel futuro e possibilmente a modificarlo in senso
positivo per noi. Quindi, noi ragioniamo in larga misura usando la
memoria di esperienze precedenti per dare significato alle esperienze
presenti o per programmare il futuro. Quest’abilità di ragionamento
dipende in maniera critica dalla capacità di cogliere le somiglianze tra
i diversi eventi che abbiamo sperimentato. Ad esempio, quando
vediamo delle nuvole nere in cielo e udiamo un tuono, sappiamo dalle
nostre passate esperienze che probabilmente verrà a piovere e
prendiamo precauzioni per non bagnarci.
In effetti, l’identificazione di analogie è alla base del
ragionamento analogico e del ragionamento induttivo. Con il termine
analogia si intende una somiglianza di funzione, comportamento o
relazione fra entità o situazioni che sono per altri aspetti piuttosto
diverse tra loro. Così, per esempio, possiamo dire che un guantone da
baseball è analogo ad una rete per farfalle, in quanto entrambi questi
oggetti vengono utilizzati per prendere qualcosa ed entrambi hanno
una forma che ricorda un po' quella di un imbuto. Biologi, avvocati,
politici e persone comuni fanno continuamente ricorso ad analogie per
convincere gli altri di qualche loro affermazione o per sostenere una
certa linea d’azione.
Inoltre, i test che misurano le abilità di ragionamento utilizzano
spesso problemi analogici: un esempio è il Miller Analogy Test (MAT).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 11
Universitas Mercatorum Ragionamento induttivo
e deduttivo

Negli Stati Uniti d’America, il superamento di questo test è spesso


richiesto a coloro che si iscrivono a corsi di dottorato o che presentano
certe domande di lavoro, e diversi studi hanno dimostrato che il
punteggio al MAT predice in maniera ragionevolmente buona il
rendimento di un soggetto negli studi universitari o in un lavoro che
richiede di tener conto di sempre nuove informazioni e di risolvere
problemi complessi. Un esempio di un problema contenuto nel MAT è
il seguente:
AEREO sta ad ARIA come NAVE sta a (1) sottomarino; (2) acqua;
(3) ossigeno; (4) pilota
Per risolvere questo problema, è necessario comprendere la
relazione che lega i primi due concetti, quindi applicarla alla seconda
coppia di concetti in modo da rispecchiare la stessa relazione. In questo
particolare caso, la relazione tra AEREO e ARIA è che il primo oggetto
si muove attraverso il secondo: quindi, l’abbinamento corretto è tra
NAVE e ACQUA.
Un altro test mentale basato su analogie è il test delle Matrici
progressive di Raven, spesso utilizzato per misurare l’intelligenza
fluida. Come illustrato nella Figura 1, il compito consiste
nell’esaminare i tre stimoli visivi che compaiono nelle prime due file in
alto, per individuare la regola che lega i primi due stimoli di ogni fila
al terzo stimolo. Una volta trovata la regola, essa deve essere applicata
agli stimoli presenti nella terza fila in modo da scegliere, tra 8
alternative, lo stimolo che completa la fila in maniera corretta.
Nell’esempio, la regola è che la sovrapposizione del primo stimolo col
secondo produce il terzo stimolo; quindi, la risposta corretta è la
numero 8.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 11
Universitas Mercatorum Ragionamento induttivo
e deduttivo

Figura 1. Esempio di un problema contenuto nel test delle matrici progressive di


Raven.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 11
Universitas Mercatorum Ragionamento induttivo
e deduttivo

2. RAGIONAMENTO INDUTTIVO E DISTORSIONI

Il ragionamento induttivo consiste nel tentativo di inferire un


nuovo principio, o enunciato, a partire da un insieme di osservazioni o
fatti che fungono da indizi. Gli psicologi si servono continuamente
dell’induzione per formulare congetture sul funzionamento della mente
umana basandosi sull’osservazione di determinati comportamenti.
Analogamente, gli investigatori si servono dell’induzione quando
mettono insieme tutti gli elementi di prova per trarre inferenze
sull’autore di un crimine. In generale, gli esseri umani sono piuttosto
bravi nel ragionamento induttivo: tuttavia, gli psicologi si sono
concentrati sui loro errori, individuando varie forme di distorsione
sistematica del ragionamento.
La distorsione sistematica da disponibilità dell’informazione si
verifica quando i soggetti tendono a fare eccessivo ricorso alle
informazioni che sono più facilmente disponibili, e a ignorare quelle che
lo sono meno. In un esperimento ormai celebre, Tversky & Kahneman
(1973) chiesero a soggetti anglofoni di giudicare se la lettera ‘d’ era più
frequente nella prima oppure nella terza posizione delle parole inglesi.
Sebbene la risposta corretta fosse ‘in terza posizione’, la maggioranza
dei soggetti rispose in prima posizione, in quanto generare parole che
iniziano con la ‘d’ è molto più facile che generare parole in cui la ‘d’ è in
terza posizione. A livello più pratico, Groopman (2007) ha evidenziato
il fatto che molti casi di diagnosi mediche errate sono dovuti alla
distorsione sistematica da disponibilità. Ad esempio, un medico che
abbia recentemente incontrato molti casi di una determinata malattia,
tende a diagnosticare quella stessa malattia più frequentemente di
quanto non facciano medici non esposti a casi recenti. Ciò accade in

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 11
Universitas Mercatorum Ragionamento induttivo
e deduttivo

quanto il medico tende a porre domande sui sintomi che sono più
congruenti con la malattia di cui ha avuto esperienza, e dimentica di
porre le domande che porterebbero invece ad escludere quella
patologia.
La distorsione sistematica da propensione alla conferma è
dovuta alla tendenza delle persone a cercare di confermare, anziché
confutare, le ipotesi che ritengono valide. In un esperimento
esemplificativo, Wason (1960) chiese ai soggetti di scoprire la regola
usata dallo sperimentatore per costruire una serie di numeri come 6-8-
10. Quindi, nelle prove successive, i soggetti dovevano produrre
sequenze di tre numeri basati sulla regola che avevano ipotizzato: lo
sperimentatore rispondeva si o no a seconda che la serie rispettasse o
meno il suo criterio. Wason trovò che quasi tutti i soggetti producevano
sequenze che tendevano a confermare la regola ‘una serie di numeri
pari crescenti per due’ (ad esempio, 2-4-6 o 14-16-18) e, ricevendo
sempre risposte positive dallo sperimentatore, in breve tempo si
convincevano della validità della loro ipotesi. Questi soggetti non
furono in grado di scoprire che la regola usata dallo sperimentatore era
in realtà: qualsiasi serie crescente di numeri. I pochi soggetti che
riuscirono a individuare la regola corretta furono quelli che produssero
sequenze tali da contraddire l’ipotesi formulata: ad esempio, un
soggetto poteva produrre la sequenza 5-7-9 (che avrebbe confutato
l’idea che la regola si basava sull’uso di numeri pari) oppure la
sequenza 4-7-10 (che avrebbe confutato l’idea che la regola si basava su
un incremento costante di due unità).
In un altro esperimento, ai soggetti era richiesto di rivolgere
domande ad un’altra persona allo scopo di scoprire la sua personalità.
A seconda del loro gruppo di appartenenza, il compito dei soggetti era
verificare se la persona intervistata era estroversa oppure introversa.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 11
Universitas Mercatorum Ragionamento induttivo
e deduttivo

Il risultato più importante fu che i soggetti mostravano una forte


tendenza a formulare domande in modo tale da confermare la loro
ipotesi di partenza. Per esempio, i soggetti che dovevano verificare
l’estroversione dell’intervistato tendevano a rivolgere domande quali:
«Le fa piacere conoscere gente nuova?»; al contrario, i soggetti che
dovevano verificare l’introversione dell’intervistato tendevano a
rivolgere domande quali: «Si sente timido nell’incontrare nuove
persone?».

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 11
Universitas Mercatorum Ragionamento induttivo
e deduttivo

3. RAGIONAMENTO INDUTTIVO E DISTORSIONI

Il ragionamento deduttivo consiste nel tentativo di derivare da


alcune premesse assunte come vere delle conclusioni che ne discendano
per necessità logica e che perciò siano altrettanto vere. Tutti noi ci
serviamo spesso della deduzione nella vita quotidiana: per esempio, se
qualcuno dice che nella sua famiglia tutti sono più alti di 1 metro e 70,
allora sappiamo per deduzione che tutti i membri di quella famiglia
sono anche più alti di 1 metro e 50. Analogamente, buona parte della
matematica si fonda sulla deduzione, in quanto si cerca di dimostrare,
o confutare, certi corollari sulla base di assiomi assunti per veri.
In ambito psicologico, un tipico problema deduttivo è il
sillogismo, in cui i soggetti devono combinare mentalmente due
premesse, una maggiore e una minore, in modo da verificare se una
certa conclusione è vera, falsa o indeterminata (cioè, la risposta non
può essere determinata a partire dalle premesse date). Un esempio di
sillogismo è il seguente:
Tutti i cuochi sono violinisti
Mary è una cuoca
Mary è una violinista
Piaget era convinto che, dai 13 anni in su, le persone ragionino
in modo deduttivo applicando principi astratti di logica, che possono
essere espressi in forma matematica. Tuttavia, pochi psicologi
contemporanei accettano questa conclusione: le ricerche indicano,
infatti, che l’efficacia con cui risolviamo i sillogismi è maggiore se il
problema è posto in termini concreti, piuttosto che sotto forma di
simboli logici astratti. Ciò è dovuto al fatto che gli esseri umani
possiedono una naturale tendenza a risolvere i sillogismi basandosi

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 11
Universitas Mercatorum Ragionamento induttivo
e deduttivo

sulle loro conoscenze del mondo reale, e non riflettendo sulle leggi della
logica.
In tal senso, diversi studi hanno dimostrato che la probabilità di
risolvere un sillogismo varia a seconda che le affermazioni contenute
nel problema siano coerenti o meno con l’esperienza quotidiana. Ad
esempio, in un esperimento (Stanovich, 2003), si chiede a dei soggetti
di risolvere il seguente sillogismo:
Tutti gli insetti hanno bisogno di ossigeno
I topi hanno bisogno di ossigeno
Quindi i topi sono insetti
In questo caso, il fatto di sapere che i topi non sono insetti
portava quasi tutti i soggetti a rispondere che la conclusione non era
valida. I risultati furono però molto diversi quando lo sperimentatore
chiese agli stessi soggetti di risolvere il seguente sillogismo:
Tutti gli esseri viventi hanno bisogno di acqua
Le rose hanno bisogno di acqua
Quindi le rose sono esseri viventi
Anche in questo sillogismo (come nel precedente), la conclusione
non è logicamente valida, in quanto le premesse non affermano che
tutte le cose che hanno bisogno di acqua sono esseri viventi: quindi, in
base alle premesse, tutto ciò che un soggetto può dedurre è che le rose
potrebbero essere esseri viventi, ma non lo sono necessariamente.
Nonostante ciò, soltanto il 30% dei soggetti rispose correttamente. Ciò
è dovuto al fatto che i soggetti non potevano fare a meno di essere
influenzati dalle loro conoscenze del mondo reale: in questo specifico
caso, il sapere che le rose sono esseri viventi li portava a ritenere la
conclusione logicamente valida (anche in realtà non lo era).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 11
Universitas Mercatorum Ragionamento induttivo
e deduttivo

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 11
RAGIONAMENTO:
INSIGHT E
INFLUENZE
CULTURALI E
LINGUISTICHE SUL
PENSIERO
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Ragionamento: insight e influenze
culturali e linguistiche sul pensiero

Indice

1. INSIGHT E FISSITÀ FUNZIONALE ......................................... 3

2. INFLUENZE DELLA CULTURA SUL PENSIERO ................. 6

3. INFLUENZE DEL LINGUAGGIO SUL PENSIERO ............. 10

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 13

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 13
Universitas Mercatorum Ragionamento: insight e influenze
culturali e linguistiche sul pensiero

1. INSIGHT E FISSITÀ FUNZIONALE

A volte un problema ci assilla per ore o giorni, poi all’improvviso


troviamo la soluzione: in ambito psicologico, questo fenomeno è noto
come insight (che letteralmente significa ‘intuizione’). Per studiare i
meccanismi alla base di questa intuizione, gli psicologi usano i
cosiddetti problemi di insight, pensati appositamente per risultare
difficili da risolvere finché il soggetto non considera il problema con
un’ottica diversa. La soluzione di questi problemi richiede una
comprensione del tutto nuova degli enunciati di un problema o dei
passaggi che possono portare alla soluzione. Un esempio classico è il
problema della candela: come illustrato nella Figura 1, i soggetti
ricevono una candela, una scatola di fiammiferi e una scatola di
puntine, e il loro compito consiste nell’attaccare la candela a un
tabellone appeso al muro in modo che la candela possa essere accesa.

Figura 1. Illustrazione del problema della candela.

I problemi di insight sono difficili da risolvere in quanto occorre


rompere un’abitudine consolidata nel modo di percepire o di pensare –
un’abitudine chiamata ‘set mentale’. Nel problema della candela, i
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 13
Universitas Mercatorum Ragionamento: insight e influenze
culturali e linguistiche sul pensiero

soggetti vedono le puntine e i fiammiferi come oggetti potenzialmente


utili e si sforzano di trovare un modo per attaccare la candela alla
bacheca con le puntine, oppure usano i fiammiferi per fondere la
candela e farla così aderire al tabellone. Nella maggior parte dei casi,
questi metodi non funzionano.
I soggetti non vedono nella scatola delle puntine parte della
soluzione: essi sono prigionieri di un set mentale che fa vedere loro la
scatola unicamente come un contenitore di fiammiferi, e non come un
possibile sostegno per la candela. Duncker (1945) coniò il termine
fissità funzionale per indicare l’incapacità di vedere che un oggetto può
avere una funzione diversa da quella che ha di solito. In questo
problema, il superamento della fissità funzionale richiede un
cambiamento nel modo di pensare. Infatti, i soggetti trovano la
soluzione quando smettono di chiedersi ‘come posso risolvere il
problema con il materiale dato?’, e cominciano a chiedersi: ‘di cosa avrei
bisogno per risolvere il problema?’. A questo punto, i soggetti capiscono
che hanno bisogno di qualcosa che funzioni come una mensola, da
fissare al tabellone e riescono a vedere nella scatola di puntine un
valido supporto. Quindi, pensare al problema in termini differenti ha
permesso loro di notare l’analogia tra la scatola di fiammiferi e la
mensola.
I meccanismi alla base dell’insight non sono completamente
chiari; tuttavia, molti studiosi hanno ipotizzato che processi mentali
inconsci che non coinvolgono la memoria di lavoro abbiano un ruolo
importante nella risoluzione dei problemi di insight. In particolare, è
noto che la probabilità di successo aumenta se i soggetti si prendono
una pausa durante il compito, fanno qualcos’altro e poi ritornano a
svolgere il compito: il tempo di pausa è detto periodo di incubazione.
Per analogia con i processi che danno luogo al priming, gli studiosi

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 13
Universitas Mercatorum Ragionamento: insight e influenze
culturali e linguistiche sul pensiero

hanno ipotizzato che, durante questo periodo, i concetti collegati al


problema rimangono attivati (a livello inconscio) e possono essere
riorganizzati.
Mentre la persona svolge altre attività, alcuni dei concetti
attivati possono formare nuove associazioni, da cui infine può scaturire
la soluzione. Per esempio, un soggetto che non abbia risolto il problema
della candela può, durante il periodo di incubazione, venire a contatto
con una mensola, e ciò consente il formarsi di una associazione tra
questa e il concetto della scatola di puntine.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 13
Universitas Mercatorum Ragionamento: insight e influenze
culturali e linguistiche sul pensiero

2. INFLUENZE DELLA CULTURA SUL PENSIERO

Gli esperimenti sul ragionamento sono stati condotti in larga


misura in paesi di cultura occidentale e utilizzando molto spesso
studenti universitari come soggetti. Tuttavia, le ricerche che hanno
messo a confronto il ragionamento in culture diverse hanno evidenziato
importanti differenze culturali. Una conclusione generale a cui queste
ricerche hanno portato è che il modo in cui i soggetti affrontano i test
di ragionamento dipende dalla cultura di appartenenza. In particolare,
gli studi indicano che soggetti di cultura non occidentale tendono a
rispondere a quesiti di logica in termini pratici, funzionali, anziché in
termini di proprietà astratte. Per esempio, nel risolvere problemi di
categorizzazione, i soggetti di cultura occidentale tendono a classificare
gli oggetti in categorie tassonomiche (ovvero, in insieme di oggetti
simili per qualche proprietà o caratteristica), mentre per i soggetti di
altre culture la classificazione è basata soprattutto su categorie
funzionali (ovvero, essi raggruppano oggetti che nel mondo reale
tendono a presentarsi insieme in quanto legati da una relazione
funzionale).
In un esperimento esemplificativo, Luria (1971) chiese a dei
soggetti di cultura occidentale e a dei contadini uzbechi di indicare
quale oggetto era estraneo agli altri tra: ascia, ciocco di legno, badile, e
sega. Per la maggior parte dei soggetti di cultura occidentale, la
risposta corretta era ‘ciocco di legno’, in quanto esso è l’unico oggetto
che non può essere classificato come un utensile (classificazione
tassonomica). Al contrario, la maggior parte dei contadini uzbechi
rispondevano ‘badile’, in quanto sia l’ascia che la sega (ma non il badile)

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 13
Universitas Mercatorum Ragionamento: insight e influenze
culturali e linguistiche sul pensiero

possono essere utilizzati per tagliare un ciocco di legno (classificazione


funzionale).
Nisbett e colleghi (2001, 2006) hanno evidenziato differenze nel
modo di percepire e ragionare tra soggetti occidentali (in particolare,
del Nord America) e soggetti orientali (in particolare, di Cina e
Giappone). In un esperimento, essi mostrarono ai partecipanti
animazioni di scene subacquee, simili a quelle mostrate nella Figura 2,
e successivamente chiesero loro di fornire resoconti dettagliati di ciò
che avevano visto. Ciò che trovarono fu che gli studenti occidentali
(americani) spesso si limitavano a parlare dei pesci grossi e attivi che
dominavano la scena; al contrario, gli studenti cinesi e giapponesi
fornirono descrizioni molto più dettagliate: essi descrivevano anche i
pesci piccoli, le piante acquatiche, il flusso della corrente e altri
elementi della scena.

Figura 2. Illustrazione degli stimoli utilizzati da Nisbett e colleghi (2001, 2006).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 13
Universitas Mercatorum Ragionamento: insight e influenze
culturali e linguistiche sul pensiero

Oltre a fornire descrizione più dettagliate, gli studenti cinesi e


giapponesi ricordavano meglio anche le relazioni tra i diversi elementi
della scena: per esempio, essi riferirono che i pesci grossi nuotavano
contro corrente e che alla base delle piante acquatiche si vedeva un
piccolo ranocchio nero. In un test successivo, gli sperimentatori
presentarono alcune immagini di grossi pesci e chiesero ai soggetti di
identificare quelli che avevano già visto nelle animazioni. Alcuni pesci
erano rappresentati contro lo sfondo della scena originale, mentre altri
pesci apparivano contro uno sfondo completamente nuovo.
Sorprendentemente, Nisbett e colleghi trovarono che gli studenti cinesi
e giapponesi avevano una prestazione migliore quando lo sfondo era lo
stesso dell’animazione originale; al contrario, per gli studenti
americani non vi erano differenze tra i due tipi di sfondi.
Nel complesso, quindi, i risultati suggeriscono che i soggetti di
cultura orientale tendono a ricordare le scene intere e le interrelazioni
tra gli oggetti, mentre i soggetti di cultura occidentale tendono a
focalizzare l’attenzione sugli elementi più rilevanti della scena e a
considerarli come elementi a sé stanti, separati dallo sfondo. Queste
differenze percettive sembrano contribuire a creare differenze anche
nel modo di ragionare. Per esempio, nello spiegare il successo di una
persona, gli studenti asiatici citano soprattutto elementi del contesto
(il sostegno della famiglia di origine, l’ottima educazione ricevuta, la
ricchezza ereditata, etc.), mentre gli studenti occidentali citano
soprattutto fattori interni all’individuo (l’intelligenza o la capacità di
lavorare sodo).
I meccanismi che determinano queste differenze di percezione e
di ragionamento non sono del tutto chiari; tuttavia, esse non sembrano
avere un’origine genetica: infatti, i figli di emigrati asiatici in America
mostrano, in poche generazioni, tendenze percettive molto simili a

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 13
Universitas Mercatorum Ragionamento: insight e influenze
culturali e linguistiche sul pensiero

quelle degli studenti occidentali. Secondo Nisbett e colleghi, la


differenza potrebbe risiedere nei diversi atteggiamenti filosofici alla
base delle due culture. Infatti, le filosofie occidentali enfatizzano la
natura separata, indipendente, di ciascuna entità, persone comprese;
al contrario, le filosofie asiatiche enfatizzano la visione della natura e
della società umana come un tutto integrato.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 13
Universitas Mercatorum Ragionamento: insight e influenze
culturali e linguistiche sul pensiero

3. INFLUENZE DEL LINGUAGGIO SUL PENSIERO

Il linguaggio non è soltanto un veicolo di comunicazione che ci


permette di apprendere gli uni dagli altri, ma è anche un veicolo per le
idee. In larga misura, noi pensiamo tramite le parole. Se il linguaggio
è alla base del pensiero, allora è possibile che le persone che parlano
lingue diverse pensino in modo diverso per via dell’influenza del
linguaggio. Sapir (1941) e Whorf (1956) coniarono il termine relatività
linguistica per indicare l’idea che il linguaggio ha una forte influenza
sui nostri modi di percepire, ricordare e pensare il mondo fisico.
Un esempio di relatività linguistica molto studiato riguarda l’uso
di termini relativi allo spazio e i loro effetti sul ragionamento spaziale.
Per chi parla una lingua europea (inglese, italiano, etc.) è normale
rappresentare lo spazio secondo un sistema di riferimento egocentrico:
ovvero, un sistema che ha al centro il soggetto stesso. Questi soggetti
utilizzano termini spaziali quali ‘destra’, ‘sinistra’, ‘davanti’ e ‘dietro’.
Tuttavia, alcune lingue non hanno termini egocentrici: per riferirsi a
concetti spaziali, i soggetti appartenenti a tali culture si servono di un
sistema di riferimento assoluto, basato sui punti cardinali (nord, sud,
est, ovest). Diversi studi dimostrano l’esistenza di forti differenze nel
modo in cui tali soggetti rispondono in test non verbali basati sul
ragionamento spaziale.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 13
Universitas Mercatorum Ragionamento: insight e influenze
culturali e linguistiche sul pensiero

Figura 3. Illustrazione dell’esperimento di Majid et al. (2004).

In particolare, in un esperimento (Majid et al, 2004), ai soggetti


era mostrata una carta con un piccolo cerchio nero e un grande cerchio
bianco; essi dovevano poi girarsi di 180 gradi e guardare su un altro
tavolo 4 carte identiche all’originale ma orientate in modo diverso. Il
compito consisteva nell’indicare la carta più simile a quella che
avevano visto sul tavolo precedente (si veda la Figura 3 per
un’illustrazione). I risultati dimostrarono che i soggetti di lingua
olandese scelsero la carta orientata come l’originale rispetto al corpo
del soggetto (indicata come ‘relative solution’ nella Figura 3); al
contrario, i soggetti di lingua Tzeltal (una lingua che utilizza un
sistema di riferimento assoluto) scelsero la carta che aveva lo stesso
orientamento nello spazio della carta originale (indicata come ‘absolute
solution’ nella Figura 3).
In un altro esempio, i teorici della relatività linguistica hanno
notato come la parola ‘uomo’ indichi sia gli esseri umani in generale sia
la singola persona di sesso maschile. Secondo questi autori, essendo
rappresentati dalla medesima parola, questi due concetti potrebbero
arrivare a fondersi in un unico schema mentale. In un esperimento
ideato per verificare questa proposta, Schneider e Hacker (1973)
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 13
Universitas Mercatorum Ragionamento: insight e influenze
culturali e linguistiche sul pensiero

presentarono ai partecipanti due liste di titoli per i capitoli di un


ipotetico testo di sociologia e chiesero loro di trovare immagini per
illustrare l’argomento di ciascun capitolo. Come predetto dall’ipotesi di
partenza, i risultati furono che il 65% delle immagini raccolte dai
soggetti a cui furono assegnati titoli contenenti la parola uomo (L’uomo
sociale, L’uomo politico, L’uomo urbano, etc.) raffiguravano soltanto
uomini, contro il 50% di un gruppo di controllo a cui furono assegnati
titoli neutri (La società, La vita urbana, Il comportamento economico,
etc.).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 13
Universitas Mercatorum Ragionamento: insight e influenze
culturali e linguistiche sul pensiero

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 13 di 13
RAGIONAMENTO: I
TEST DI
INTELLIGENZA
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Ragionamento: I test
di intelligenza

Indice

1. L’APPROCCIO DI FRANCIS GALTON..................................... 3

2. L’APPROCCIO DI ALFRED BINET E LE SCALE DI


INTELLIGENZA DI WECHSLER ............................................... 5

3. IL FATTORE G E LA DISTINZIONE TRA INTELLIGENZA


FLUIDA E CRISTALLIZZATA .................................................... 7

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 10

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 10
Universitas Mercatorum Ragionamento: I test
di intelligenza

1. L’APPROCCIO DI FRANCIS GALTON

Con il termine intelligenza si intende la capacità mentale (così


variabile) da cui dipendono le differenze individuali nelle abilità di
ragionamento, nella risoluzione di problemi e nell’acquisizione di nuove
conoscenze. L’interesse per l’intelligenza è soprattutto dovuto a
interessi pratici. Per esempio, nel sistema scolastico i test di
intelligenza sono utilizzati per individuare i bambini che apprendono
in maniera più lenta rispetto alla norma, mentre i datori di lavoro li
usano per scegliere e assumere le persone più adatte per lavori che
richiedono notevoli capacità intellettive. Tuttavia, l’interesse per
questo argomento è anche teorico, in quanto gli psicologi sono
interessati a scoprire i fattori biologici ed esperienziali che
contribuiscono ad una maggiore intelligenza.
Le attuali idee e controversie sull’intelligenza e la sua
misurazione hanno le loro radici nelle visioni molto diverse di due
scienziati che lavorarono tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del
Novecento, Francis Galton (1822-1911) e Alfred Binet (1857-1911).
Galton (il quale era molto influenzato dall’approccio evoluzionistico di
Darwin) sosteneva che la capacità di raggiungere le più alte vette
intellettive è innata nella persona e si trasmette per via biologica e
genetica. In particolare, Galton riteneva che l’intelligenza dipende da
certe caratteristiche fondamentali del sistema nervoso che si
manifestano nella rapidità dei processi mentali e nell’acuità sensoriale,
ovvero nella velocità e nella precisione con cui le persone rilevano gli
stimoli ambientali e rispondono ad essi. Per verificare questa idea,
Galton sviluppò varie misure di abilità sensoriali e motorie di base,
come la capacità di reagire rapidamente a un segnale ambientale o la

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 10
Universitas Mercatorum Ragionamento: I test
di intelligenza

capacità di individuare piccole differenze tra due suoni, due lunghezze


o due pesi. Allo scopo di valutare le relazioni tra queste diverse misure,
Galton inventò un metodo statistico, in seguito sviluppato e affinato da
Karl Pearson (1920), noto come metodo della correlazione, il quale è
molto utilizzato ancora oggi. Sfortunatamente, quando applicò il
metodo della correlazione alle misure da lui sviluppate, Galton riuscì a
trovare solo deboli correlazioni tra le varie misure dei tempi di reazione
e delle abilità sensoriali, il che suggeriva che questi metodi non
misurassero una capacità biologica unitaria sottostante. Inoltre, studi
successivi conclusero che non vi era nessuna correlazione significativa
tra le misure dei tempi di reazione o di acuità sensoriale e il rendimento
accademico degli studenti (Wissler, 1901). A causa di questi risultati
insoddisfacenti, la maggior parte degli studiosi persero rapidamente
interesse in queste misure.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 10
Universitas Mercatorum Ragionamento: I test
di intelligenza

2.L’APPROCCIO DI ALFRED BINET E LE SCALE DI


INTELLIGENZA DI WECHSLER

I moderni test di intelligenza non derivano dalle misure ideate


da Galton, ma piuttosto dalla scala d’intelligenza di Binet-Simon,
sviluppata in Francia nel 1905 da Alfred Binet e Théophile Simon.
Binet aveva una visione dell’intelligenza molto diversa da quella di
Galton e respingeva nettamente l’ipotesi che l’intelligenza fosse
strettamente correlata all’acuità sensoriale: egli riteneva, piuttosto,
che l’intelligenza dovesse essere considerata come un insieme di abilità
mentali di ordine superiore unite tra loro da una debole correlazione.
Inoltre, Binet sosteneva che l’intelligenza non è innata, ma viene
nutrita dall’interazione con l’ambiente: in effetti, uno degli scopi
dell’istruzione scolastica doveva essere, secondo questo studioso,
proprio quello di accrescere il livello di intelligenza dei bambini.
In accordo con questa visione, lo scopo principale della scala
d’intelligenza di Binet-Simon (commissionata dal ministero della
pubblica istruzione francese) era quello di individuare i bambini che
non beneficiavano a sufficienza dell’istruzione, e che quindi avevano
bisogno di essere seguiti con particolare attenzione. Il test valutava le
capacità ritenute necessarie per la formazione scolastica e consisteva
di quesiti e problemi formulati per valutare, tra le altre cose, la
memoria, il vocabolario, le conoscenze generali, le abilità di calcolo, e
la capacità di collegare tra loro idee diverse. L’individuazione dei
problemi da inserire nel test richiese una procedura di selezione molto
lunga: in particolare, un problema veniva mantenuto nel test solo se ad
esso rispondevano in maniera corretta prevalentemente i ragazzi con
profitto scolastico elevato.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 10
Universitas Mercatorum Ragionamento: I test
di intelligenza

Attualmente, i test di intelligenza più utilizzati sono varianti di


un scala sviluppata da David Wechsler negli anni 30’ del Novecento: in
particolare, hanno avuto e continuano ad avere oggi larga diffusione la
Wechsler Adult Intelligence Scale (WAIS-III) e la Wechsler Intelligence
Scale for Children (WISC-IV). I subtest che compongono la WAIS-III
sono raggruppati in subtest verbali e subtest di performance. I subtest
verbali valutano, tra l’altro, la padronanza del vocabolario, la capacità
di spiegare la somiglianza tra concetti, le conoscenze generali, la
capacità della memoria a breve termine (span) e le abilità di calcolo
aritmetico. I subtest di performance valutano, tra l’altro, la capacità di
organizzare figure in modo da raccontare una storia, di riprodurre col
disegno stimoli visivi, di comporre le tessere di un puzzle in modo da
formare un’immagine completa, di trasformare cifre in simboli secondo
le regole di un codice e di individuare rapidamente stimoli bersaglio
entro insiemi di stimoli visivi. Il punteggio full scale è basato sulla
somma dei punteggi di tutti i subtest, sia verbali sia di performance.
Sia nella WAIS-III che nella WISC-IV, l’assegnazione dei
punteggi si basa sui risultati ottenuti da vasti campioni di soggetti
sottoposti al test in precedenza: i risultati ottenuti da tali soggetti sono
utilizzati come dati normativi per trasformare i punteggi grezzi in
valori di QI (quoziente di intelligenza). In breve, se un soggetto ha
ottenuto un punteggio equivalente alla media del gruppo di controllo,
si assegna un QI pari a 100; alle persone con punteggi grezzi superiori
o inferiori alla media del gruppo di controllo si assegnano QI
rispettivamente superiori o inferiori a 100.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 10
Universitas Mercatorum Ragionamento: I test
di intelligenza

3. IL FATTORE G E LA DISTINZIONE TRA


INTELLIGENZA FLUIDA E CRISTALLIZZATA

Negli anni 20’ del Novecento, lo psicologo e matematico inglese


Charles Spearman (1863-1945) somministrò decine di test intellettivi
ad un vasto campione di soggetti provenienti dallo stesso gruppo
culturale. I risultati dimostrarono che, quando il campione era
sufficientemente ampio, i punteggi nei vari test erano sempre correlati
positivamente (con valori che oscillavano tra 0.3 e 0.6). Per esempio, i
punteggi nei test che valutano la capacità della memoria correlavano
positivamente con i punteggi nei test che valutavano la conoscenza del
vocabolario, i quali a loro volta correlavano positivamente con i
punteggi nei test che richiedevano il completamento di pattern visivi,
e così via. Un soggetto che otteneva un punteggio alto in uno di questi
test otteneva punteggi mediamente alti anche negli altri test. Sulla
base di questi dati, e utilizzando un metodo statistico da lui inventato
(oggi noto come analisi fattoriale), Spearman concluse che ogni test
intellettivo misura un fattore comune, che egli chiamò fattore g o
intelligenza generale. Dunque, per Spearman e i suoi seguaci,
l’intelligenza è la capacità di base che contribuisce al rendimento di un
soggetto in tutti i test d’intelligenza. Più specificatamente, secondo
questo studioso, ogni test intellettivo include una misura del fattore g
e una misura di abilità più specifica, peculiare di quel dato test.
In seguito, Raymond Cattell (1905-1998), che fu prima allievo e
poi collaboratore di Spearman, propose che il fattore g era in realtà
costituito da due fattori distinti (ma non completamente indipendenti),
che egli chiamò intelligenza fluida e intelligenza cristallizzata.
L’intelligenza fluida consiste nella capacità di percepire e comprendere

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 10
Universitas Mercatorum Ragionamento: I test
di intelligenza

le relazioni fra stimoli, indipendentemente da specifiche esperienze o


da apprendimenti precedenti. Le migliori misure di intelligenza fluida
richiedono di identificare somiglianze o differenze tra stimoli a cui i
soggetti non sono mai stati esposti in precedenza: un esempio classico
in tal senso è il test delle matrici progressive di Raven, il quale si basa
su stimoli visivi poco familiari. D’altra parte, l’intelligenza
cristallizzata è un’abilità mentale che deriva direttamente dalle
esperienze passate. Le misure migliori per valutarla sono i test sulle
conoscenze generali, per esempio i test di vocabolario che richiedono la
comprensione del significato delle parole.
Utilizzando la tecnica dell’analisi fattoriale, Cattell trovò che le
due misure di intelligenza cambiano in modo diverso in funzione
dell’età: l’intelligenza fluida mostra un picco intorno ai 20-25 anni, per
poi declinare gradualmente; al contrario, l’intelligenza cristallizzata
continua a crescere fino a 50 anni e anche oltre. Ad esempio, in uno
studio relativamente recente (i cui risultati sono illustrati nella Figura
1), Salthouse (2004) evidenziò che la conoscenza del vocabolario
(misurata attraverso un test che richiedeva di identificare sinonimi)
aumentava costantemente fino a circa 55 anni, per poi mantenersi
stabile o diminuire leggermente. Invece, le prestazioni in test che
valutavano l’intelligenza fluida, come il test delle matrici progressive
di Raven, lo span di memoria a breve termine e il completamento di
figure, diminuivano costantemente durante tutta l’età adulta.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 10
Universitas Mercatorum Ragionamento: I test
di intelligenza

Figura 1. Risultati dello studio di Salthouse (2004): andamento dei punteggi in


quattro test intellettivi in funzione dell’età.

Oltre ad evidenziare il diverso andamento in funzione dell’età,


Cattell dimostrò anche che, sebbene le due misure di intelligenza
potessero essere considerate come distinte l’una dall’altra, esse erano
legate da una moderata correlazione positiva in ogni gruppo di età.
Secondo la sua interpretazione, ciò si verifica in quanto le persone con
maggiore intelligenza fluida apprendono e ricordano dalle loro
esperienze passate più informazioni di quanto non facciano le persone
con minore intelligenza fluida.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 10
Universitas Mercatorum Ragionamento: I test
di intelligenza

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014). Psicologia


generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 10
INTELLIGENZA:
EREDITABILITÀ E
INFLUENZE
CULTURALI
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Intelligenza: ereditabilità
e influenze culturali

Indice

1. LA CONTROVERSIA NATURA-CULTURA E IL CONCETTO


DI EREDITABILITÀ ..................................................................... 3

2. EREDITABILITÀ DEL QI E STUDI SU GEMELLI ................ 5

3. INFLUENZE CULTURALI SULLE DIFFERENZE DI QI ...... 9

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 13

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 13
Universitas Mercatorum Intelligenza: ereditabilità
e influenze culturali

1.LA CONTROVERSIA NATURA-CULTURA E IL


CONCETTO DI EREDITABILITÀ

Le ricerche di Galton e Binet sull’intelligenza segnarono la


nascita di quella che viene definita la controversia natura-cultura. In
questo contesto, con il termine natura si fa riferimento al patrimonio
genetico e biologico ereditato dai genitori; mentre con il termine cultura
si fa riferimento al complesso delle condizioni ambientali alle quali
ciascuna persona è esposta. In sostanza, la questione al centro della
controversia è la seguente: le differenze psicologiche tra le persone sono
in primo luogo il risultato di differenze nel loro patrimonio genetico
(natura), oppure nel loro ambiente (cultura)?
Le differenze psicologiche che sono state più spesso al centro di
questa controversia sono le differenze nella personalità, le differenze
nella suscettibilità a sviluppare malattie mentali e le differenze
nell’intelligenza (ovvero, nei punteggi di QI). Un equivoco molto
frequente è credere che la controversia riguardi il grado con cui un
particolare carattere o tratto sia il risultato dell’azione dei geni oppure
dell’ambiente. La maggior parte degli psicologi cognitivi ritiene che non
abbia senso domandarsi se l’intelligenza di una persona è
maggiormente influenzata dai suoi geni o dall’ambiente in cui essa
vive. Infatti, senza i geni non esisterebbe nessuna persona, e quindi
nessuna intelligenza; allo stesso modo, senza l’ambiente non
esisterebbe nessuna persona, e quindi nessuna intelligenza. Dunque,
entrambi i fattori sono assolutamente essenziali per lo sviluppo di
qualsiasi caratteristica psicologica.
La domanda, del tutto sensata, che gli psicologi si pongono è
invece la seguente: le differenze individuali rispetto ad una certa

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 13
Universitas Mercatorum Intelligenza: ereditabilità
e influenze culturali

caratteristica cognitiva derivano in misura maggiore da differenze


individuali nel patrimonio genetico oppure nell’ambiente? È chiaro che
l’importanza di questi due fattori dipende in maniera critica dal tipo di
individui presi in considerazione. Le influenze ambientali saranno più
rilevanti quando si esaminano persone provenienti da ambienti molto
diversi tra loro: per esempio, le differenze di QI tra una persona
cresciuta nel tipico ambiente della classe media e l’altra rinchiusa in
uno stanzino dipenderanno in primo luogo dal diverso contesto
ambientale in cui sono cresciute; d’altra parte, le differenze genetiche
avranno un impatto decisamente maggiore quando si esaminano
persone cresciute in ambienti molto simili tra loro.
Con il termine ereditabilità si intende il grado in cui la
variabilità di un carattere, all’interno di una determinata popolazione,
deriva da differenze genetiche (piuttosto che da differenze ambientali).
La misura utilizzata per quantificare questo concetto è il coefficiente di
ereditabilità, il quale rappresenta la proporzione di varianza di un
carattere che è dovuta alla variabilità genetica:
h^2=V_G⁄V_T
Dove 𝑉𝐺 rappresenta la varianza spiegata dalle differenze
genetiche, mentre 𝑉𝑇 è la varianza totale, ovvero una stima del grado
in cui gli individui esaminati differiscono tra loro rispetto alla
caratteristica misurata (essa corrisponde alla somma tra la varianza
dovuta a differenze genetiche e la varianza dovuta a differenze
ambientali). Come il coefficiente di correlazione, anche il coefficiente di
ereditabilità varia tra 0 (la variabilità osservata è del tutto
indipendente da differenze genetiche) e 1 (tutta la varianza osservata
è spiegata da differenze genetiche). Quindi, un coefficiente pari a 0.40
indica che il 40% della varianza di un carattere è dovuto a differenze
genetiche, mentre il 60% è dovuto a differenze ambientali.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 13
Universitas Mercatorum Intelligenza: ereditabilità
e influenze culturali

2. EREDITABILITÀ DEL QI E STUDI SU


GEMELLI

Un problema insito nel calcolo del coefficiente di ereditabilità è


che non esiste un metodo diretto per misurare 𝑉𝐺. Esso deve essere
stimato indirettamente confrontando gruppi di persone che differiscono
rispetto al grado di parentela genetica e che sono cresciuti o nella stessa
casa o in ambiente diverso (in quanto adottati), e stimare poi di quanto
differiscono rispetto al tratto in questione.
In particolare, nel tentativo di distinguere i contributi relativi
dei geni e dell’ambiente, i genetisti utilizzano spesso coppie di gemelli,
in quanto in alcuni casi si tratta di individui geneticamente identici
(gemelli monovulari), mentre in altri casi si tratta di individui che
condividono solo il 50% del patrimonio genetico (gemelli biovulari o
fraterni). Un metodo per stimare l’ereditabilità del QI consiste proprio
nel confrontare la correlazione fra i punteggi di QI in gemelli identici e
in gemelli fraterni cresciuti nello stesso ambiente (stessa casa). La
Figura 1 mostra l’andamento della correlazione, in varie classi di età,
per gemelli identici e fraterni cresciuti nella stessa casa. Come si può
vedere, le correlazioni sono nettamente più alte per i gemelli identici,
il che indica che il ruolo dei geni nel determinare l’intelligenza è
certamente importante.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 13
Universitas Mercatorum Intelligenza: ereditabilità
e influenze culturali

Figura 1. Correlazioni tra i valori di QI in gemelli identici e fraterni.

Un altro metodo utilizzato dai genetisti per stimare


l’ereditabilità consiste nell’esaminare coppie di gemelli identici
separati molto presto in età infantile e cresciuti in famiglie adottive
differenti. In questo caso, l’assunto di base è che per gemelli identici
cresciuti in case diverse le condizioni ambientali non siano più simili di
quanto non lo siano per due individui scelti a caso dalla popolazione.
Come illustrato nella Figura 2, nel complesso questi studi suggeriscono
che le differenze genetiche spieghino una percentuale di varianza del
QI compresa tra il 30% e il 50% nei bambini e negli adolescenti, ma
considerevolmente superiore al 50% negli adulti.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 13
Universitas Mercatorum Intelligenza: ereditabilità
e influenze culturali

Figura 2. Correlazioni tra i valori di QI in gemelli identici cresciuti in ambienti


diversi.

Dunque, la conclusione più accreditata è che la famiglia eserciti


un’influenza precoce molto forte sul QI, ma che l’effetto diminuisca
molto quando i ragazzi diventano adulti. Per spiegare questo fenomeno,
gli studiosi hanno ipotizzato che, una volta diventati adulti, le persone
geneticamente simili tra loro (in quanto gemelli) scelgano di vivere in
ambienti più simili rispetto a individui geneticamente diversi. Ciò
implica che in età adulta vi sia diminuzione della quantità di varianza
spiegata dalle differenze ambientali.
Il carattere transitorio dell’influenza esercitata dalla famiglia in
cui si cresce è stato dimostrato anche studiando coppie di fratelli
adottivi, ovvero individui cresciuti insieme senza essere imparentati.
Poiché i fratelli adottivi non sono geneticamente più simili di due
persone scelte a caso dalla popolazione, si può assumere che una
correlazione tra i loro QI superiore a 0 sia quasi interamente dovuta
alla condivisione dello stesso ambiente. Nel complesso, questi studi
indicano che la correlazione tra i QI dei fratelli adottivi è circa 0.25

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 13
Universitas Mercatorum Intelligenza: ereditabilità
e influenze culturali

nell’infanzia (quando essi condividono lo stesso ambiente), ma diventa


0.01 durante l’età adulta (quando, presumibilmente, i fratelli hanno
lasciato la casa adottiva e hanno scelto di vivere in ambienti diversi).
Questi risultati smentiscono l’idea, molto diffusa, che i piccoli vantaggi
o svantaggi derivanti dal crescere in un particolare ambiente sarebbero
poi mantenuti per tutta la vita: in realtà, la ricerca dimostra che gli
effetti della famiglia di appartenenza sull’intelligenza sono transitori e
tendono a scomparire non appena si raggiunge l’età adulta.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 13
Universitas Mercatorum Intelligenza: ereditabilità
e influenze culturali

3. INFLUENZE CULTURALI SULLE DIFFERENZE


DI QI

La maggior parte degli studi illustrati finora sono stati condotti


su soggetti nordamericani o europei bianchi appartenenti a classi
socioeconomiche medio-alte. Tuttavia, gli studi che hanno eseguito
confronti tra gruppi razziali diversi hanno in genere rivelato
importanti differenze nei valori medi del QI. In particolare, una
differenza che storicamente ha suscitato forte interesse e un ampio
dibattito è quella tra popolazione bianca e nera degli Stati Uniti
d’America: nel complesso, le ricerche indicano che, per la popolazione
americana di colore il punteggio medio di QI è di circa 12 punti inferiore
alla media della popolazione bianca.
Partendo dall’assunto che all’interno di un determinato gruppo
umano il QI sia altamente ereditabile, si potrebbe facilmente supporre
che le differenze tra i QI di due diversi gruppi umani derivino
soprattutto da differenze genetiche. Tuttavia, questa conclusione non è
in alcun modo supportata dai dati. Ad esempio, molti studi hanno
cercato di comprendere se le differenze di QI tra bianchi e neri erano
dovute a differenze genetiche legate all’ascendenza. In una ricerca
esemplificativa, Witty e Jenkins (1935) cercano di determinare se
bambini neri con QI elevato avevano fra i loro ascendenti un maggior
numero di antenati europei (bianchi), rispetto a bambini neri con basso
QI. I risultati di questo studio (e di molti altri successivi) furono
negativi: negli alberi genealogici dei bambini neri con QI elevato il
numero degli antenati europei non era né maggiore né minore rispetto
alla media della popolazione nera.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 13
Universitas Mercatorum Intelligenza: ereditabilità
e influenze culturali

Secondo John Ogbu, gli afroamericani (o gli indiani d’America)


sono una minoranza involontaria: essi sono stati conquistati,
colonizzati o ridotti in schiavitù, e pertanto sono stati trattati per lungo
tempo come inferiori ed emarginati. Questo studioso ritiene che,
ovunque nel mondo, le minoranze involontarie presentano rendimenti
inferiori in test d’intelligenza e ha proposto che il divario nel QI sarebbe
dovuto alla sensazione che queste persone hanno di essere socialmente
emarginati e di avere precluse tutte le strade di avanzamento sociale.
Ad esempio, Ogbu studiò a lungo i Buraku, una minoranza giapponese
che mostra un divario di QI rispetto alla maggioranza sociale
giapponese era simile a quello tra bianchi e neri americani. A conferma
della sua teoria, egli trovò che la differenza di QI scompariva quando i
Buraku si trasferivano dal Giappone negli USA, dove la differenza era
sconosciuta e i due gruppi venivano di conseguenza trattati allo stesso
modo.
Le influenze culturali sul QI sono anche evidenziate dal continuo
miglioramento delle prestazioni nei test di intelligenza, illustrato nella
Figura 3. Una rassegna relativamente recente condotta da James
Flynn (2007) ha concluso che il QI aumenta di 9-15 punti ogni 30 anni
circa, a seconda del tipo di test intellettivo considerato. Il fenomeno non
sembra avere a che fare con il miglioramento dell’istruzione scolastica,
in quanto il grado di aumentano è sensibilmente inferiore proprio in
quei subtest che dovrebbero maggiormente riflettere l’impatto
dell’istruzione scolastica – ad esempio, i subtest di Vocabolario e
Ragionamento aritmetico nella WAIS-III (si veda la Figura 3).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 13
Universitas Mercatorum Intelligenza: ereditabilità
e influenze culturali

Figura 3. Correlazioni tra i valori di QI in gemelli identici cresciuti in ambienti

diversi.

Secondo Flynn, invece, il fenomeno diventa facilmente


comprensibile se si assume che i test di intelligenza non misurino
abilità stabili e immutabili, ma piuttosto certe forme abituali di
pensiero il cui utilizzo è divenuto più frequente nelle culture odierne.
In particolare, i test di intelligenza fluida come il test delle matrici
progressive di Raven, in cui l’aumento del QI con il tempo appare più
marcato, richiedono di rispondere con immediatezza ad una serie di
domande o di risolvere problemi sulla base di informazioni mutevoli.
Nel mondo di oggi, noi siamo costantemente esposti a nuove idee, nuove
informazioni e nuovi problemi attraverso la televisione, il computer e i
videogiochi, i quali sollecitano la nostra attenzione e la memoria di
lavoro (le due componenti che più contribuiscono all’intelligenza fluida)
in maniera continua. In altre parole, secondo Flynn, noi non siamo

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 13
Universitas Mercatorum Intelligenza: ereditabilità
e influenze culturali

necessariamente più intelligenti dei nostri antenati: siamo soltanto


diventati più bravi a risolvere il tipo di problemi che si incontrano più
spesso nei test di intelligenza fluida.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 13
Universitas Mercatorum Intelligenza: ereditabilità
e influenze culturali

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 13 di 13
LO SVILUPPO
DEL LINGUAGGIO
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Lo sviluppo del linguaggio

Indice

1. CARATTERISTICHE UNIVERSALI DEL LINGUAGGIO ..... 3

2. FASI PRECOCI DI SVILUPPO DEL LINGUAGGIO .............. 6

3. COMPRENSIONE E PRODUZIONE DELLE PRIME


PAROLE .......................................................................................... 9

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 12

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 12
Universitas Mercatorum Lo sviluppo del linguaggio

1. CARATTERISTICHE UNIVERSALI DEL


LINGUAGGIO

Imparare a comprendere e parlare una lingua è un’operazione


complessa che richiede l’apprendimento di migliaia di vocaboli e di un
numero sterminato di regole grammaticali per combinare le parole
all’interno delle frasi. Eppure, nonostante queste difficoltà, quasi tutti
gli esseri umani raggiungono una buona competenza linguistica già a
partire dai 3-4 anni di vita, quindi ben prima di ricevere un’istruzione
formale. Gli psicologi cognitivi sono concordi nel ritenere che
l’apprendimento del linguaggio nei bambini dipende dall’azione
combinata di meccanismi innati che li predispongono a questo compito
e di un ambiente sociale che fornisce loro modelli adeguati e occasioni
di pratica.
Si stima che nel mondo esistano circa 3000 lingue, differenti
quanto basta per impedire a persone che parlano lingue diverse di
capirsi tra loro. Comunque, al di là delle discrepanze, tutte queste
lingue condividono una struttura simile, tanto che è corretto parlare di
linguaggio umano al singolare. Ogni lingua possiede un vocabolario che
consiste di simboli, ovvero entità che rappresentano altre entità. I
simboli di una lingua sono detti morfemi: essi sono le più piccole unità
linguistiche dotate di significato - ovvero, un morfema è la più piccole
unità di una lingua che indica un oggetto, un evento, un’idea, una
caratteristica o una relazione. In qualsiasi lingua, i morfemi si possono
distinguere in due diverse classi:
La prima classe è costituita dai morfemi lessicali, i quali
comprendono nomi, verbi, aggettivi e avverbi – in pratica, si tratta di
tutti i morfemi che veicolano il significato della frase;

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 12
Universitas Mercatorum Lo sviluppo del linguaggio

La seconda classe è costituita dai morfemi grammaticali, i quali


comprendono articoli, congiunzioni, preposizioni, prefissi e suffissi: essi
servono principalmente a completare la struttura grammaticale della
frase (non contribuiscono al suo significato).
Una caratteristica essenziale dei morfemi è che sono
completamente arbitrari. Questo significa che non vi è nessuna
relazione necessaria di somiglianza che lega un simbolo all’oggetto o al
concetto che esso rappresenta (così, la parola ‘cane’ non ha alcuna
relazione con l’animale a quattro zampe che essa rappresenta). Proprio
questa proprietà fa sì che sia possibile inventare nuovi morfemi ogni
volta che sia necessario trovare il modo di indicare oggetti appena
scoperti o nuove idee.
Oltre a condividere la natura di sistemi di simboli, tutte le lingue
hanno una struttura gerarchica fondamentale illustrata nella Figura
1. In questo sistema, si ha che il livello più alto della gerarchia è
occupato dalle frasi (che sono le unità più grandi). Le frasi possono
essere suddivise nelle singole parole, le quali a loro volta vengono
scomposte in morfemi lessicali e morfemi grammaticali; infine, i
morfemi possono essere suddivisi nei singoli fonemi (i quali
corrispondono ai suoni elementari delle consonanti e delle vocali). La
potenza di questa struttura gerarchica consiste nel fatto che un numero
relativamente piccolo di fonemi possono essere combinati in modo da
formare un numero enorme di parole, le quali a loro volta possono
essere organizzate in un numero praticamente illimitato di frasi.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 12
Universitas Mercatorum Lo sviluppo del linguaggio

Figura 1. La struttura gerarchica del linguaggio.

Inoltre, ogni lingua possiede un insieme specifico di regole (che


nel loro insieme vengono chiamate la grammatica della lingua) che
specificano i modi in cui le entità di ciascun livello possono essere
combinate tra loro in modo da formare le unità dell’ordine
immediatamente superiore. La fonologia specifica il modo in cui i
fonemi possono essere combinati per formare i morfemi; la morfologia
specifica il modo in cui i morfemi possono essere combinati per formare
le parole; e, infine, la sintassi specifica il modo in cui le parole possono
essere combinate per formare le frasi.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 12
Universitas Mercatorum Lo sviluppo del linguaggio

2. FASI PRECOCI DI SVILUPPO DEL LINGUAGGIO

Molti esperimenti dimostrano che i neonati attribuiscono un


valore speciale ai suoni del linguaggio umano. In un esperimento
esemplificativo, i neonati potevano produrre dei suoni succhiando una
tettarella: i risultati dimostrarono che i bimbi di 1-4 giorni succhiavano
più vigorosamente per produrre il suono di una voce umana che non
per produrre altri suoni. In altri esperimenti, si trovò che i bambini nati
da appena 2 ore preferivano ascoltare la voce della madre piuttosto che
la voce di un’altra donna: ciò è probabilmente legato al fatto che il feto
può udire la voce della madre nel grembo materno ed essa produce un
effetto tranquillizzante sul nascituro.
Molti esperimenti dimostrano che i bambini molto piccoli sono in
grado di percepire le differenze tra i suoni di fonemi diversi. La tecnica
utilizza in questi studi prevede che il bambino succhi una tettarella
collegata ad un dispositivo che produce dei suoni (corrispondenti a dei
fonemi). Quando la frequenza di suzione in risposta ad un suono
diminuisce molto (il che indica che il bambino si è annoiato di udire lo
stesso suono), esso viene cambiato (ad es., da pa a ba). In genere, dopo
il cambiamento, la frequenza di suzione aumenta immediatamente, il
che indica che il neonato percepisce il nuovo suono come differente dal
precedente.
Utilizzando questa tecnica, è stato dimostrato che bambini di età
inferiore a 6 mesi sono in grado di percepire la differenza tra i suoni di
due fonemi diversi in una qualunque delle lingue del mondo. Tuttavia,
dopo i 6 mesi, questa capacità va incontro a due importanti
cambiamenti: la capacità di discriminare tra suoni che rappresentano
fonemi diversi nella lingua madre aumenta; al contrario, la capacità di

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 12
Universitas Mercatorum Lo sviluppo del linguaggio

discriminare tra suoni diversi che nella lingua madre rappresentano lo


stesso fonema diminuisce. Ad esempio, i bambini anglofoni diventano
sempre più precisi nel distinguere tra /l/ e /r/, in quanto essi sono fonemi
distinti in inglese; al contrario, i bambini giapponesi perdono la
capacità di distinguere tra questi due fonemi, in quanto nel giapponese
le due lettere sono rappresentate dallo stesso fonema.
Fin dalla nascita il bambino può piangere ed emettere altri suoni
che segnalano condizioni di difficoltà. Tuttavia, intorno ai 2 mesi, il
bambino comincia a produrre suoni più simili al linguaggio: si tratta
del cosiddetto tubare (o cooing), che consiste nella produzione di una
serie di vocali prolungate (oooh-oooh, eeeh-eeeh). Poco dopo, intorno ai
6 mesi, compare la lallazione (o babbling), la quale consiste nella
ripetizione di suoni di consonanti e vocali abbinate (paa-paa-paa o
tuda-tuda). La comparsa di questi suoni non dipende dal fatto di sentire
parlare intorno a sé, in quanto essi sono prodotti, con modalità simili a
quelle evidenziate dai bambini con udito normale, anche da neonati
sordi dalla nascita: piuttosto, si tratta di forme di gioco vocale che
permettono al bambino di praticare affinare i movimenti muscolari che
saranno necessari, di lì a poco, per produrre il linguaggio.
Una caratteristica universale nello sviluppo del linguaggio è
data dal fatto che la comprensione delle parole precede la loro
produzione. In un esperimento, bambini di 6 mesi vedevano un video
in cui i genitori comparivano su due schermi affiancati: i risultati
dimostrarono che, quando udivano le parole ‘mamma’ o ‘papà’, essi
rivolgevano lo sguardo più spesso verso lo schermo in cui appariva il
genitore nominato. Esperimenti successivi che hanno usato la stessa
tecnica indicano che bambini di 9 mesi possono rispondere ad un gran
numero di parole comuni guardando l’oggetto giusto quando viene
nominato e sono in grado di eseguire semplici comandi (come ‘Prendi la

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 12
Universitas Mercatorum Lo sviluppo del linguaggio

palla!’). Quando arrivano a pronunciare la prima parola, intorno agli


11-12 mesi, i bambini probabilmente conoscono già il significato di
decine di vocaboli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 12
Universitas Mercatorum Lo sviluppo del linguaggio

3. COMPRENSIONE E PRODUZIONE DELLE PRIME


PAROLE

La produzione delle prime parole compare intorno ai 10-12 mesi,


prima per indicare oggetti presenti o semplicemente per gioco (il
bambino si diverte a dirne il nome), poi per chiedere gli oggetti stessi.
L’acquisizione di nuove parole procede dapprima con lentezza, ma
verso i 15-20 mesi, il ritmo di comparsa si fa molto accelerato (un
fenomeno noto come ‘esplosione del vocabolario’ o ‘vocabulary spurt’).
Si stima che tra i 2 e i 17 anni una persona apprenda circa 60000 parole,
in media 11 nuove parole al giorno. Nella maggioranza dei casi,
l’apprendimento non deriva da un insegnamento esplicito: piuttosto, il
bambino inferisce il significato della parola dal contesto in cui essa
viene utilizzata dagli adulti. il modo in cui i bambini riescano a
compiere questa inferenza è al centro di intensi dibattiti teorici.
La maggior parte delle prime parole apprese sono nomi concreti
che si riferiscono ad oggetti presenti nell’ambiente del bambino. La
tendenza a guardare nella stessa direzione dell’adulto (un
comportamento indicato con il termine ‘gaze following’) certamente può
aiutare il bambino a identificare gli oggetti a cui l’adulto si sta riferendo
mentre parla. In effetti, è stato riscontrato che, nei bambini piccoli, la
tendenza a seguire lo sguardo è particolarmente forte quando l’adulto
sta nominando un oggetto presente nell’ambiente circostante. Inoltre,
diverse ricerche hanno trovato che i bambini che a 10-11 mesi mostrano
il comportamento di gaze following con maggiore frequenza sono quelli
che nei mesi successivi mostrano un maggiore sviluppo del vocabolario.
Al di là del comportamento di gaze following, i bambini sembrano
possedere alcune predisposizioni cognitive, o assunti innati, che li

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 12
Universitas Mercatorum Lo sviluppo del linguaggio

aiutano a restringere il campo dei possibili referenti di una nuova


parola che ascoltano. In particolare, uno di questi meccanismi è la
tendenza molto forte ad associare parole nuove ad oggetti di cui il
bambino non conosce il nome. A parità di altre cose, i bambini
assumono che una nuova parola non sia un sinonimo di una parola che
già conosce, ma piuttosto l’etichetta per qualcosa di cui ancora ignora
il nome. In un esperimento che ha elegantemente dimostrato questo
fenomeno, si presentarono a bambini di 3-4 anni tre animali di stoffa
di cui conoscevano il nome (un maiale, una pecora e una mucca), più un
altro animale di stoffa per loro sconosciuto (un tapiro). Quando, in
presenza di questi oggetti, i bambini udirono pronunciare la parola
‘gombe’ (un parola senza senso mai udita prima), quasi tutti indicarono
l’animale sconosciuto. Il ruolo importante di questa tendenza è
dimostrato dal fatto che i bambini cominciano a manifestarla proprio
nel periodo (il secondo anno di vita) in cui si ha un netto incremento del
vocabolario espressivo.
Oltre ad associare le parole a referenti concreti, i bambini devono
anche imparare a estendere il loro significato a nuovi referenti. I nomi
concreti come ‘palla’ si riferiscono a categorie di oggetti e i bambini
dimostrano di averne compreso pienamente il significato quando li
applicano a tutti gli oggetti appartenenti a quella specifica categoria.
Le ricerche indicano che, a partire dai 12 mesi, i bambini assumono che
una nuova parola appena udita non si riferisca solo all’oggetto presente
in quel momento, ma anche ad altri oggetti percettivamente simili ad
esso. Questa tendenza porta talvolta ad errori di sovraestensione: essi
si verificano soprattutto quando il bambino definisce una nuova parola
in base ad una sola caratteristica rilevante del referente originale – ad
esempio, usa la parola ‘papà’ per indicare tutti gli uomini adulti o la

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 12
Universitas Mercatorum Lo sviluppo del linguaggio

parola ‘palla’ per riferirsi a tutti gli oggetti rotondi (comprese le arance
e la luna piena).
Tutti i bambini attraversano una fase in cui la lunghezza degli
enunciati non supera la singola parola. Più tardi, tra i 18 e 24 mesi,
cominciano a combinare le parole, producendo sequenze di voci
lessicali. Nella maggior parte dei casi, si tratta di semplici frasi in
forma attiva in cui il soggetto precede il verbo, il quale a sua volta
precede l’oggetto: ad esempio, il bambino può dire ‘Billy calcio’ per
indicare che Billy sta calciando qualcosa. In questo periodo, quando il
bambino acquisisce una nuova regola grammaticale, mostra la
tendenza invariabile ad applicarla in maniera eccessivamente
generalizzate: ad esempio, in inglese i bambini utilizzano il suffisso ‘–
ed’ per formare il passato anche nel caso di verbi irregolari (‘goed’,
‘thinked’, etc.). Analogamente, in italiano si verificano spesso delle
iperregolarizzazioni, per cui i bambini che hanno imparato a flettere i
verbi producono ‘mangiano’ (che è corretto), ma anche ‘salono’ (al posto
di ‘salgono’). Nel complesso, questi errori dimostrano che il bambino ha
correttamente inferito la regola sottostante e la applica in modo
spontaneo; infatti, se si limitasse ad applicarla solo nei casi previsti
dall’uso adulto, si potrebbe pensare ad una semplice imitazione. Come
si vedrà nella lezione successiva, l’esistenza di questi fenomeni inficia
la validità della teoria comportamentista dello sviluppo del linguaggio.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 12
Universitas Mercatorum Lo sviluppo del linguaggio

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 12
FATTORI
INTERNI ED ESTERNI
NELLO SVILUPPO
DEL LINGUAGGIO
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Fattori interni ed esterni
nello sviluppo del linguaggio

Indice

1. LA SPIEGAZIONE COMPORTAMENTISTA DELLO


SVILUPPO DEL LINGUAGGIO ................................................. 3

2. CHOMSKY E IL DISPOSITIVO INNATO PER


L’APPRENDIMENTO DEL LINGUAGGIO............................... 6

3. LA SPIEGAZIONE INTERAZIONISTA E IL RUOLO


DELL’AMBIENTE ......................................................................... 9

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 11

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 11
Universitas Mercatorum Fattori interni ed esterni
nello sviluppo del linguaggio

1. LA SPIEGAZIONE COMPORTAMENTISTA
DELLO SVILUPPO DEL LINGUAGGIO

Come fanno i bambini ad acquisire il linguaggio senza alcuno


sforzo volontario e senza ricevere un addestramento specifico? Non vi è
dubbio che gli esseri umani nascono già equipaggiati di molti elementi
che favoriscono lo sviluppo del linguaggio. Come già accennato nella
lezione precedente, noi nasciamo dotati di:

 Strutture anatomiche localizzate nella gola (laringe e


faringe) che consentono la produzione di una gamma di
suoni più ampia di quella prodotta da qualsiasi altro
mammifero;
 Aree cerebrali specializzate per il linguaggio (in
particolare, l’area di Broca perla produzione del
linguaggio e l’area di Wernicke per la comprensione del
linguaggio);
 Una preferenza innata per il suono del linguaggio umano;
 Un’abilità innata a distinguere tra i suoni di qualsiasi
lingua.

Inoltre, non vi è dubbio che quasi tutti gli esseri umani nascono
in contesti sociali che stimolano e favoriscono lo sviluppo del
linguaggio. Nonostante questi elementi in comune, differenti
ricercatori hanno proposto diverse teorie per spiegare l’acquisizione di
questa complessa abilità.
Per Skinner e i suoi seguaci comportamentisti, gli esseri umani
apprendono il linguaggio attraverso gli stessi principi che regolano
qualsiasi altro apprendimento – ovvero, i principi del condizionamento
operante quali il rinforzo, l’imitazione e l’apprendimento per tentativi

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 11
Universitas Mercatorum Fattori interni ed esterni
nello sviluppo del linguaggio

ed errori. All’inizio, i bambini molto piccoli cominciano ad emettere dei


semplici vocalizzi. Le vocalizzazioni che non vengono rinforzate dai
genitori o dagli altri caregivers si riducono (ad esempio, se il bambino
produce un suono come ‘prah’, che assomiglia poco al linguaggio
parlato, i genitori possono rimanere indifferenti), mentre le
vocalizzazioni che vengono rinforzate si mantengono e sono affinate
(così, se il bambino produce suoni che si avvicinano al linguaggio
adulto, come ‘da-da’ o ‘pa-pa’, sarà rinforzato da sorrisi, grida e risatine
di incoraggiamento).
Inoltre, tutti i bambini in fase di maturazione imitano le
strutture linguistiche ascoltate nel proprio ambiente sociale. In
seguito, i genitori o altri adulti plasmeranno queste imitazioni,
ignorando o punendo le strutture sgrammaticate, e rinforzando le
strutture grammaticalmente corrette. Ad esempio, la produzione di
una frase primitiva e sgrammaticata come ‘Io no volere latte’ sarà
corretta e inibita dalla disapprovazione dei genitori, mentre la
produzione di una frase grammaticalmente corretta ed avanzata come
‘Niente latte per me’ sarà approvata e incoraggiata.
La visione comportamentista è attraente, in quanto offre una
spiegazione relativamente semplice per un fenomeno assai complesso.
Tuttavia, essa non è in grado di spiegare alcune caratteristiche tipiche
dello sviluppo del linguaggio:
In primo luogo, le ricerche indicano che i genitori non dedicano
molto tempo ad insegnare ai figli a parlare in modo grammaticalmente
corretto. I dati disponibili sembrano indicare che il significato della
maggior parte delle parole viene inferito dai bambini in maniera
indiretta, semplicemente ascoltando il linguaggio prodotto dagli adulti.
I bambini generano molte più frasi grammaticali di quante ne
hanno udite. È molto difficile pensare che tutte le svariate frasi

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 11
Universitas Mercatorum Fattori interni ed esterni
nello sviluppo del linguaggio

prodotte dai bambini di 3-4 anni siano state ascoltate e riprodotte in


maniera passiva. Piuttosto, la maggior parte degli psicologi cognitivi
ritiene che la produttività dei bambini sia un indizio a favore
dell’ipotesi che essi non si limitino ad imitare le frasi ascoltate, ma
inferiscano le regole del linguaggio e imparino ad applicarle in maniera
attiva per generare nuove frasi;
I bambini commettono errori dovuti alla ipergeneralizzazione di
regole grammaticali (si veda la lezione precedente). Questi errori sono
difficili da spiegare se il bambino si limitasse ad imitare le frasi,
presumibilmente, corrette prodotte dagli adulti. Anche in questo caso,
sembra che i bambini siano in grado di inferire delle regole astratte, le
quali sono poi applicate in maniera errata anche in contesti inadatti.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 11
Universitas Mercatorum Fattori interni ed esterni
nello sviluppo del linguaggio

2. CHOMSKY E IL DISPOSITIVO INNATO PER


L’APPRENDIMENTO DEL LINGUAGGIO

Lo studioso che più di tutti ha contribuito a spostare l’attenzione


degli psicologi cognitivi sul linguaggio è stato Noam Chomsky. Egli ha
sostenuto che l’uomo è dotato di una speciale abilità per il linguaggio,
distinta dall’intelligenza generale. Secondo la teoria innatista, lo
sviluppo del linguaggio sarebbe dovuto ad un’abilità biologicamente
innata. Più nello specifico, Chomsky ha proposto l’idea secondo cui il
cervello umano sarebbe dotato di un dispositivo di acquisizione del
linguaggio (LAD: language acquistion device) che facilita
l’apprendimento del linguaggio; inoltre, le regole grammaticali sono
considerate alla stregua di proprietà innate della mente umana che
seguono una grammatica universale che sarebbe comune a tutti i
linguaggi umani.
L’ipotesi innatista, e in particolare la separazione tra linguaggio
e intelligenza, sono state confermate dall’analisi di una condizione nota
come disfasia congenita, la quale si trasmette di famniglia in famiglia
ed è dovuta ad un singolo gene dominante. I bambini colpiti da questa
sindrome sono incapaci di apprendere la struttura grammaticale del
linguaggio nonostante il possesso di un’intelligenza per il resto
normale. Questo deficit fa sì che essi producano frasi
grammaticalmente scorrette come: ‘Carol ha piange nella chiesa’.
Analogamente, in letteratura sono noti casi di bambini che mostrano
una spiccata abilità nell’acquisizione delle lingue, pur avendo un QI
molto inferiore rispetto a quello dei coetanei. Nel complesso, questi
studi confermano che i bambini normali imparano con facilità le regole

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 11
Universitas Mercatorum Fattori interni ed esterni
nello sviluppo del linguaggio

grammaticali del linguaggio in quanto sono dotati, fin dalla nascita, di


appositi circuiti cerebrali per farlo.
Coerente con l’approccio innatista è anche il fatto che il
linguaggio viene più facilmente acquisito durante un ristretto periodo
dello sviluppo, all’incirca nei primi 10 anni di vita. In questo senso, il
caso di Genie è emblematico: questa bambina fu isolata dal resto del
mondo da un padre autoritario e gravemente squilibrato, e rimase
chiusa in una minuscola stanzetta fino all’età di 13 anni, senza mai
avere la possibilità di udire o scambiare dei discorsi. Quando fu salvata,
la ragazzina comprendeva soltanto poche parole, non era in grado di
combinare vocaboli per formare delle frasi, e non aveva imparato
nessuna regola grammaticale. In seguito, ella fu affidata ad una
famiglia adottiva e istruita al linguaggio da specifici insegnanti di
sostegno. In queste condizioni, Genie sviluppò un vocabolario
sufficientemente ampio; tuttavia, dopo ben 7 anni dalla liberazione, le
sue abilità rimanevano molto primitive e ampiamente al di sotto dei
livelli raggiunti da soggetti della stessa età. Infatti, Genie produceva
frasi telegrafiche molto primitive dal punto di vista grammaticale,
come: ‘I hear music ice screm truck’ [Sento musica furgone dei gelati].
Il fatto che, raggiunta la pubertà, l’acquisizione del linguaggio diventi
più difficile è confermato dagli studi condotti sugli immigrati negli
Stati Uniti d’America: globalmente, queste ricerche indicano che gli
immigrati dopo la pubertà non raggiungono mai la stessa padronanza
linguistica mostrata dagli immigrati arrivati da bambini.
Oltre a queste evidenze empiriche, l’ipotesi della predisposizione
biologica avanzata da Chomsky e collaboratori è in grado di spiegare
perché i neonati con età inferiore ai 6 mesi sono capaci di distinguere
tra i fonemi presenti in tutte le lingue: se essi imparassero la lingua
soltanto attraverso l’imitazione, allora dovrebbero distinguere solo i

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 11
Universitas Mercatorum Fattori interni ed esterni
nello sviluppo del linguaggio

fonemi della lingua madre – ovvero solo i fonemi presenti nella lingua
alla quale sono esposti. La teoria innatista è anche congruente con
l’osservazione che i bambini sordi dalla nascita producono, attraverso
la lallazione, suoni verbali che non hanno mai udito e che sono del tutto
simili a quelli prodotti da bambini con udito normale. Infine, la teoria
dell’eredità biologica consente di spiegare perché il pattern temporale
di acquisizione del linguaggio è molto simile nei bambini di tutto il
mondo.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 11
Universitas Mercatorum Fattori interni ed esterni
nello sviluppo del linguaggio

3. LA SPIEGAZIONE INTERAZIONISTA E IL RUOLO


DELL’AMBIENTE

Anche se l’ipotesi innatista è congruente con molti dati


sperimentali e osservazionali, è tuttavia chiaro che una teoria completa
dell’acquisizione del linguaggio richiede una spiegazione del processo
mediante il quale la predisposizione innata al linguaggio si combina
con l’esperienza ambientale, in quanto questo apprendimento non
avviene mai nel vuoto sociale. In tal senso, l’ipotesi interazionista
sottolinea che lo sviluppo del linguaggio implica la funzione non solo
del LAD, ma anche del LASS (language acquisition support system),
ovvero il sistema di supporto dell’acquisizione del linguaggio. In
sostanza, i fautori di questa ipotesi ritengono che le interazioni sociali
e il supporto fornito dall’ambiente sociale in cui il bambino vive siano
fattori determinanti per l’apprendimento linguistico.
Tra le altre cose, gli psicologi interazionisti hanno evidenziato
come, in tutte le culture, gli adulti usino un linguaggio molto
semplificato per rivolgersi ai bambini piccoli, allo scopo di aiutarli ad
apprendere le parole e la grammatica. Questo linguaggio viene definito
mammese in quanto gli adulti:

 Scandiscono le parole con maggiore chiarezza;


 Usano un tono di voce più musicale;
 Usano frasi brevi riferite alle circostanze concrete
immediate;
 Ripetono più volte le parole più importanti del discorso;
 Fanno ampio uso della gestualità per illustrare il
significatio della frase e facilitare la comprensione.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 11
Universitas Mercatorum Fattori interni ed esterni
nello sviluppo del linguaggio

Vi sono prove sperimentali che hanno dimostrato come il


mammese effettivamente aiuti i bambini piccoli a imparare a
distinguere le singole parole e a collegarle ai loro referenti concreti.
Infatti, numerose ricerche hanno trovato una correlazione positiva tra
la frequenza con cui le madri usano un linguaggio semplificato e la
precocità con cui i bambini sviluppano il linguaggio. Tuttavia, un
problema intrinseco di queste ricerche è che la correlazione osservata
potrebbe essere dovuta a somiglianze genetiche fra madri e figli:
ovvero, madri con una forte predisposizione genetica al linguaggio
potrebbero generare figli con la stessa predisposizione.
In questo senso, prove più convincenti derivano da studi condotti
su bambini adottati alla nascita. Complessivamente, queste ricerche
hanno dimostrato che la velocità di sviluppo del linguaggio nei bambini
presentava una correlazione più forte con le abilità verbali delle madri
biologiche che con quelle delle madri adottive (si noti come questo dato
sia in accordo con l’ipotesi innatista); d’altra parte, anche l’ambiente
creato dalla madre adottiva era importante: infatti, i bambini le cui
madri adottive tendevano a rispondere verbalmente alle prime
vocalizzazioni sviluppavano il linguaggio più rapidamente dei bambini
le cui madri adottive mostravano una minore responsività verbale. Più
in generale, la capacità della madre (o degli altri adulti che si occupano
del bambino) di rispondere in modo contingente e appropriato ai
bisogni e alle richieste del bambino si è rilevato come un fattore decisivo
per l’acquisizione del linguaggio.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 11
Universitas Mercatorum Fattori interni ed esterni
nello sviluppo del linguaggio

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 11
SVILUPPO DEL
PENSIERO E
APPRENDIMENTO
DELL’AMBIENTE
FISICO
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Sviluppo del pensiero e
apprendimento dell’ambiente
fisico

Indice

1. LA PREFERENZA PER STIMOLI NUOVI E IL DESIDERIO


DI CONTROLLO .............................................................................. 3

2. IL BAMBINO COME ESPLORATORE ........................................ 5

3. LA CONOSCENZA DEI PRINCIPI FISICI ................................. 8

BIBLIOGRAFIA ................................................................................... 12

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 12
Universitas Mercatorum Sviluppo del pensiero e
apprendimento dell’ambiente
fisico

1. LA PREFERENZA PER STIMOLI NUOVI E IL


DESIDERIO DI CONTROLLO

Il pensiero e il linguaggio sono abilità umane straordinariamente


complesse e gli psicologi hanno appreso molto su di esse osservandone lo
sviluppo nei bambini. Alla nascita, tutti i sistemi sensoriali sono attivi
(benché in parte immaturi) e il bambino dimostra di rispondere ad una
vasta gamma di stimoli esterni: ad esempio, i neonati ruotano la testa in
direzione di un suono, girano la faccia dall’altra parte per evitare un
odore sgradevole e rivolgono lo sguardo verso stimoli con forti contrasti
di luce o in movimento. Le modalità con cui i bambini rispondono agli
stimoli esterni non sono casuali: piuttosto, esse sembrano essere
specificamente predisposte per favorire l’apprendimento.
In particolare, decine di esperimenti hanno dimostrato che i
bambini molto piccoli fissano lo sguardo più a lungo sugli stimoli nuovi,
piuttosto che su quelli già conosciuti. Quando osservano uno stimolo
nuovo, i neonati lo guardano dapprima intensamente ma, col passare del
tempo, gli prestano sempre meno attenzione, un fenomeno definito
assuefazione (habituation). La diminuzione dell’interesse verso l’oggetto
esterno non è causata da affaticamento, in quanto il bambino aumenta
immediatamente il tempo di osservazione se lo stimolo ormai familiare
viene sostituito con uno stimolo completamente nuovo. Allo stesso modo,
se si presentano insieme uno stimolo conosciuto e uno stimolo nuovo, di
solito il neonato dedica più tempo ad osservare l’oggetto nuovo.
La preferenza per oggetti nuovi ha perfettamente senso dal punto
di vista evolutivo se si assume che i bambini siano impegnati nel compito
di apprendere a conoscere il mondo esterno; da questo punto di vista, è
legittimo pensare che i bambini guardino più a lungo gli stimoli nuovi in

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 12
Universitas Mercatorum Sviluppo del pensiero e
apprendimento dell’ambiente
fisico

quanto sanno che da essi hanno più cose da imparare, rispetto a stimoli
già familiari. Questa tendenza è talmente nota agli psicologi che diversi
metodi l’hanno sfruttata per valutare le capacità del bambino di
percepire e ricordare le differenze tra due o più stimoli. Il principio
sotteso è che, se un bambino dedica più tempo ad osservare uno stimolo
nuovo piuttosto che uno stimolo familiare, ciò significa che li deve
percepire come entità differenti e che in qualche modo egli deve ricordare
di aver già visto lo stimolo familiare. In uno di questi esperimenti
(Friedman, 1972), è stato dimostrato che bambini nati da appena un
giorno riuscivano a distinguere tra due scacchiere contenenti caselle di
diversa grandezza e a ricordare la differenza per un breve intervallo di
tempo (alcuni secondi).
Oltre a preferire oggetti nuovi, a poche settimane dalla nascita, i
bambini mostrano una spiccata preferenza per oggetti ed eventi che
riescono a controllare. Ad esempio, bambini di appena 2 mesi
guardavano più a lungo un giocattolo che si muoveva in risposta ai loro
movimenti, piuttosto che un giocattolo azionato da una batteria elettrica
che era completamente al di fuori del loro controllo (Watson, 1972). In
un altro esperimento, bambini di 4 e 5 mesi mostravano espressioni di
rabbia e tristezza quando perdevano la possibilità di controllare con i
loro movimenti l’avvio di un registratore musicale, anche se
l’apparecchio continuava a suonare con la stessa frequenza di prima ma
era sotto il controllo dello sperimentatore (Sullivan & Lewis, 2003). Nel
complesso, questi risultati suggeriscono che il desiderio di controllare
l’ambiente esterno è una caratteristica della natura umana presente fin
dalle fasi più precoci dello sviluppo.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 12
Universitas Mercatorum Sviluppo del pensiero e
apprendimento dell’ambiente
fisico

2. IL BAMBINO COME ESPLORATORE

Nei primi 3-4 mesi di vita, i bambini si mettono in bocca


qualunque oggetto che arrivi a portata delle loro mani. L’esplorazione
che poi compiono con la bocca sembra essere orientata a saggiare le
proprietà dell’oggetto stesso. Col tempo, questi comportamenti lasciano
spazio a modalità di esplorazione tipicamente umane, basate sull’uso
simultaneo di mani e occhi.
All’età di 5-6 mesi circa, i bambini manipolano ed esplorano gli
oggetti in un modo altamente sofisticato, che gli studiosi hanno chiamato
‘esame dell’oggetto’ (o examining; Ruff, 1986). Un bambino impegnato in
quest’attività tiene l’oggetto dritto davanti agli occhi, lo rigira da ogni
lato, lo passa da una mano all’altra, lo sfrega, lo schiaccia e lo sottopone
a vari altri trattamenti utili a scoprirne le proprietà. Questo insieme di
comportamenti declinano rapidamente quando il bambino ha acquisito
familiarità con un determinato oggetto, ma torna a manifestarsi al
massimo non appena esso viene sostituito da un oggetto nuovo.
Le specifiche modalità con cui i bambini esaminano gli oggetti
dipendono dalle sue particolari proprietà: di solito, i bambini guardano
oggetti colorati, scuotono quelli che producono un suono, schiacciano
quelli pieghevoli e flessibili, e usano gli oggetti duri per battere.
Numerose ricerche hanno dimostrato che questi comportamenti sono
specificatamente orientati ad apprendere le proprietà degli oggetti. Ad
esempio, in un esperimento, bambini di 9 mesi mostravano una netta
preferenza per oggetti che producevano effetti interessanti e non ovvi,
per esempio un barattolo che rovesciato emetteva un suono lamentoso. I
bambini apprendevano in fretta ad ottenere da ogni giocattolo il suo
specifico effetto. Se veniva dato loro un giocattolo simile a quello già

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 12
Universitas Mercatorum Sviluppo del pensiero e
apprendimento dell’ambiente
fisico

esplorato, essi cercavano immediatamente di ottenere lo stesso effetto;


al contrario, se veniva dato loro un oggetto nuovo, i bambini
ricominciavano l’esplorazione da capo (Baldwin et al., 1993).
Il comportamento di esame dell’oggetto non ha bisogno di un
addestramento specifico, si verifica in tutte le culture (anche in tribù
relativamente primitive in cui non esistono giocattoli per bambini) ed è
indipendente dal fatto che gli adulti lo incoraggino o meno. Tuttavia, i
bambini piccoli si servono regolarmente degli indizi che ricavano dagli
adulti come guida per le loro attività di esplorazione. A 6 mesi, i bambini
imitano spesso le azioni che vedono compiere dagli adulti sugli oggetti.
Più o meno allo stessa età, i bambini mostrano comportamenti di
inseguimento dello sguardo (gaze following): ovvero, guardano gli occhi
dell’adulto e rivolgono lo sguardo nella stessa direzione in cui sta
guardando l’adulto. Questi comportamenti fanno sì che l’attenzione del
bambino si concentri sugli oggetti di maggior interesse per gli adulti, i
quali sono spesso i più importanti ai fini della sopravvivenza. Inoltre,
essi facilitano l’apprendimento del linguaggio, in quanto il bambino è in
grado di identificare il referente concreto di parole nuove semplicemente
rivolgendo lo sguardo nella stessa direzione in cui sta guardando
l’adulto. Come illustrato in una lezione precedente, gli esperimenti
indicano che i bambini che mostrano il comportamento di inseguimento
dello sguardo con maggiore costanza apprendono il linguaggio più
rapidamente rispetto ai bambini che lo usano in maniera infrequente
(Brooks & Meltzoff, 2008).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 12
Universitas Mercatorum Sviluppo del pensiero e
apprendimento dell’ambiente
fisico

Figura 1. Uso del riferimento sociale nell’esperimento di Sorce et al., 1985.

Infine, quando cominciano a gattonare e camminare da soli, i


bambini mostrano il comportamento di riferimento sociale: ovvero,
utilizzano le espressioni emotive degli adulti come indizi circa la
sicurezza delle proprie azioni (Walden, 1991). Ad esempio, in un celebre
esperimento illustrato nella Figura 1, si trovò che bambini di 12 mesi
superavano uno spazio apparentemente vuoto coperto da una lastra di
vetro solo se la madre aveva un’espressione gioiosa e tranquillizzante; al
contrario, nessuno di essi lo attraversò quando la madre aveva una
espressione spaventata (Sorce et al., 1985). In un altro esperimento,
bambini della stessa età evitano di manipolare un nuovo giocattolo se la
madre aveva un’espressione facciale di disgusto verso quell’oggetto.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 12
Universitas Mercatorum Sviluppo del pensiero e
apprendimento dell’ambiente
fisico

3. LA CONOSCENZA DEI PRINCIPI FISICI

Tutte le persone condividono alcuni assunti fondamentali sulla


natura fisica del mondo. Per esempio, tutti noi assumiamo che un
oggetto continui ad esistere anche quando scompare dalla nostra vista o
che due oggetti non possono occupare lo stesso spazio nello stesso
momento. Molte ricerche nel campo della psicologia hanno cercato di
comprendere a che età i bambini cominciano a sviluppare questi assunti.
In parte, questo interesse è dovuto ad un dibattito filosofico che va avanti
da secoli tra filosofi empiristi e filosofi innatisti. In breve, i filosofi
empiristi sostengono che i bambini acquisiscono la conoscenza dei
principi fisici fondamentali in maniera graduale, attraverso l’esperienza;
al contrario, i filosofi innatisti ritengono che la conoscenza di questi
principi sia innata, in quanto fondamentale per la percezione e il
pensiero, e propedeutica per qualsiasi altro apprendimento futuro.
Le ricerche psicologiche non hanno risolto questa controversia, ma
hanno dimostrato che una rudimentale conoscenza dei principi fisici si
manifesta a partire da un’età molto precoce. In particolare, molti
esperimenti hanno dimostrato che i bambini guardano gli eventi inattesi
più a lungo di quelli attesi; questa tendenza è stata sfruttata dagli
psicologi per valutare che cosa i bambini si aspettano di veder accadere
in una specifica condizione ambientale. Così, in un classico esperimento
di violazione dell’aspettativa (illustrato nella Figura 2), al bambino viene
ripetutamente mostrato un certo evento fisico: ad esempio, uno schermo
che può ruotare indietro descrivendo un arco di 180°. Dopo questa fase
di assuefazione, al bambino vengono presentate due varianti dell’evento
originale: un evento impossibile (in cui lo schermo sembra attraversare
e far scomparire un oggetto solido posto dietro lo schermo) e un evento

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 12
Universitas Mercatorum Sviluppo del pensiero e
apprendimento dell’ambiente
fisico

possibile (in cui lo schermo si blocca nel punto in cui ci si attende che
esso effettivamente colpisca l’oggetto retrostante). Utilizzando questo
apparato sperimentale, Baillargeon (1987) ha trovato che bambini di 3
mesi guardavano l’evento impossibile più a lungo di quello possibile: in
altre parole, essi sembrano sapere, a livello implicito, che gli oggetti
solidi non passano attraverso altri oggetti solidi.

Figura 2. L’esperimento di violazione dell’aspettativa di Baillargeon, 1987.

I risultati di Baillargeon (1987) suscitarono grande sorpresa, in


quanto studi precedenti, che avevano utilizzato procedure assai
differenti, sembravano indicare che prima dei 5 mesi i bambini non
avevano alcuna conoscenza dei principi fisici più elementari, come quello
della permanenza dell’oggetto. Nel problema del nascondiglio semplice
(ideato dal grande psicologo svizzero J. Piaget, 1936) si mostra al
bambino un giocattolo che attira la sua attenzione, poi, mentre il
bambino sta guardando, lo si nasconde sotto un pezzo di stoffa.
Tipicamente, quello che si verifica è che i bambini prima dei 5 mesi

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 12
Universitas Mercatorum Sviluppo del pensiero e
apprendimento dell’ambiente
fisico

seguono il giocattolo con lo sguardo, ma, quando esso scompare sotto la


stoffa, non cercano di prenderlo e il loro interesse diminuisce quasi
immediatamente. Secondo Piaget, questo comportamento indicherebbe
che i bambini di questa età non possiedono ancora la conoscenza del
principio fisico della permanenza dell’oggetto.
Tra 6 e 9 mesi, la maggioranza dei bambini riesce a risolvere il
problema del nascondiglio semplice, ma non sono ancora in grado di
superare il problema del cambio di nascondiglio. Questo test prevede
una fase iniziale in cui l’oggetto viene nascosto sotto una stoffa e il
bambino lo trova sempre; in una fase successiva, il giocattolo viene
nascosto sotto un’altra stoffa, che si trova a lato della prima. Il risultato
classico è che, benché abbia visto lo spostamento, il bambino continua a
cercare l’oggetto sotto la prima stoffa. Piaget interpretò questi dati come
un indice del fatto che la comprensione del principio della permanenza
dell’oggetto è ancora così debole da non riuscire a prevalere su
un’abitudine motoria consolidata. La maggioranza dei bambini diventa
in grado di risolvere questo problema all’incirca a 10-12 mesi.
Diversi ricercatori hanno suggerito che la difficoltà insita in questi
problemi non sia dovuta alla scarsa conoscenza dei principi fisici della
permanenza dell’oggetto, ma piuttosto alle scarse abilità dei bambini al
di sotto dei 5 mesi nel programmare e coordinare i movimenti delle
braccia e delle mani necessari per recuperare gli oggetti nascosti. In
particolare, è possibile che bambini così piccoli non siano ancora in grado
di servirsi delle immagini mentali degli oggetti nascosti per guidare i
loro movimenti
Le abilità di ricerca migliorano quando i bambini cominciano a
muoversi in modo autonomo. In un esperimento, tre gruppi di bambini
di 8 mesi furono sottoposti a varie prove, tra cui una versione del

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 12
Universitas Mercatorum Sviluppo del pensiero e
apprendimento dell’ambiente
fisico

problema piagetiano del cambio di nascondiglio. I bambini del primo


gruppo avevano iniziato a gattonare prima di essere sottoposti
all’esperimento; i bambini del secondo gruppo non gattonavano, ma si
muovevano indipendentemente attraverso il girello; infine, i bambini del
terzo gruppo non gattonavano e non usavano il girello. I risultati
indicarono che il 75% dei bambini che avevano iniziato a gattonare o che
usavano il girello risolvevano il problema del cambio di nascondiglio,
contro il 13% dei bambini che non gattonavano e non usavano il girello
(Campos et al., 2000). La spiegazione più plausibile è che, quando
iniziano a muoversi da soli, i bambini sviluppano ed affinano molte
abilità necessarie per coordinare la visione con i movimenti muscolari,
per evitare di cadere o andare a sbattere. Queste esperienze possono poi
aiutarli nel programmare i movimenti coinvolti nel recupero di oggetti
nascosti.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 12
Universitas Mercatorum Sviluppo del pensiero e
apprendimento dell’ambiente
fisico

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014). Psicologia


generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 12
TEORIE
SULLO SVILUPPO
MENTALE NEL
BAMBINO
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Teorie sullo sviluppo
mentale nel bambino

Indice

1. LA TEORIA DI PIAGET ............................................................... 3

2. LA TEORIA DI VYGOTSKIJ ....................................................... 8

3. L’APPROCCIO DELL’ELABORAZIONE DELLE


INFORMAZIONI .......................................................................... 11

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 15

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 15
Universitas Mercatorum Teorie sullo sviluppo
mentale nel bambino

1. LA TEORIA DI PIAGET

Man mano che i bambini crescono, dall’infanzia al


raggiungimento dell’età adulta, il loro pensiero diventa sempre più
logico e più efficace nella risoluzione dei problemi pratici e teorici.
Diversi studiosi hanno proposto teorie differenti allo scopo di
comprendere come si possano caratterizzare questi cambiamenti e
quali siano i processi attraverso i quali essi avvengono.
Nell’arco di tutta la sua lunga carriera, Jean Piaget ha cercato
di capire come si sviluppa la mente adulta, a partire dalle abilità più
primitive dei bambini. L’idea fondamentale di Piaget è che lo sviluppo
mentale derivi dalle azioni compiute dal bambino sull’ambiente fisico
che lo circonda. Egli evidenziò il fatto che, nei loro giochi, i bambini
cercano sempre di capire cosa possono fare con gli oggetti: in questo
modo, essi sviluppano degli schemi, che sarebbero una sorta di copia
mentale delle azioni eseguite sugli oggetti stessi. Nella concezione di
Piaget, uno schema non va considerato come una rappresentazione
mentale che riunisce tutto ciò che un individuo conosce sulle proprietà
di una determinata categoria di oggetti (questa è la classica definizione
che ne danno gli psicologi cognitivi); piuttosto, esso deve essere
concettualizzato come la rappresentazione mentale di un’azione che il
bambino può eseguire su un oggetto.
Secondo Piaget, lo sviluppo degli schemi si basa su due processi
complementari: l’assimilazione e l’accomodamento. L’assimilazione è il
processo per cui ogni nuova esperienza viene incorporata in schemi
preesistenti. Come i cibi non digeriti non portano ad alcuna crescita
fisica, così le esperienze che sono troppo diverse dagli schemi che il
bambino possiede in un determinato periodo della sua vita non sono

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 15
Universitas Mercatorum Teorie sullo sviluppo
mentale nel bambino

assimilate e non producono alcuna crescita mentale: ad esempio, una


calcolatrice in mano ad un bambino piccolo non porterà ad alcun
miglioramento delle sue abilità aritmetiche, in quanto il bambino non
ha ancora sviluppato degli schemi di calcolo in cui poter assimilare le
funzioni della calcolatrice. D’altra parte, ben poche esperienze si
adattano perfettamente agli schemi preesistenti: in genere, perché vi
sia assimilazione, è necessario ampliare o modificare tali schemi in
modo da includere il nuovo oggetto o evento. Questo processo di
continua modificazione è noto come accomodamento. Piaget individuò
quattro diversi tipi di schemi d’azione che rappresenterebbero
altrettanti livelli di sofisticazione nella comprensione del mondo fisico.
Secondo questo studioso, i diversi tipi di schemi d’azione si sviluppano
in sequenza, dando luogo a quattro stadi approssimativamente
correlati con l’età del bambino.
Nello stadio sensomotorio (che va dalla nascita fino a 2 anni), i
bambini possiedono degli schemi sensomotori molto primitivi, i quali
consentono al bambino di agire sugli oggetti presenti, ma non di
pensare ad oggetti assenti. In questo stadio, il bambino sviluppa
schemi specifici per diverse categorie di oggetti: ad esempio, succhiare,
scuotere, battere, torcere, far cadere e così via.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 15
Universitas Mercatorum Teorie sullo sviluppo
mentale nel bambino

Figura 1. Il classico test di conservazione dei liquidi ideato da Piaget.

Nello stadio preoperatorio (che va dai 2 ai 7 anni), il bambino


comprende che può utilizzare gli schemi come simboli per
rappresentare gli oggetti anche in loro assenza. Questa abilità è
evidenziata dal gioco simbolico, in cui, per esempio, il bambino diventa
facilmente in grado di trasformare una padella in una chitarra o in
un’arma a raggi laser. Nonostante questa abilità, la loro comprensione
è ancora basata sulle apparenze immediate: infatti, essi non superano
il classico test di conservazione della materia illustrato nella Figura 1.
In questo compito, ideato da Piaget, al bambino vengono mostrati due
bicchieri bassi che contengono la stessa quantità di liquido (latte).
Successivamente, lo sperimentatore versa il latte da uno dei bicchieri
bassi in un bicchiere più alto. Il risultato tipico è che, sebbene abbia
attentamente osservato lo spostamento del latte, un bambino nello
stadio preoperatorio risponderà alla domanda “Quale dei due bicchieri
contiene più latte?” indicando il bicchiere più alto. Ciò evidenzia che il
suo ragionamento è basato più sulla percezione visivsa che sulla logica.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 15
Universitas Mercatorum Teorie sullo sviluppo
mentale nel bambino

Figura 2. Il test di conservazione della massa di Piaget.

Nello stadio operatorio concreto (che va approssimativamente


dai 7 ai 12 anni), i bambini sviluppano degli schemi operatori che
consentono loro di pensare alle conseguenze reversibili delle proprie
azioni – ovvero, il fatto che gli effetti di alcuni tipi di azione possono
essere eliminati dagli effetti di altre azioni. In questa fase, il bambino
comprendere il principio di conservazione della massa, per cui una
palla di creta può essere lavorata in modo da farle assumere la forma
di un salsicciotto e poi può essere riportata alla forma originale (si veda
la Figura 2). Il bambino ha afferrato i concetti fondamentali per capire
che la quantità di creta rimane la stessa, anche se la forma varia: la
conseguenza è che, alla domanda “Quale dei due oggetti contiene più
creta?”, egli risponderà correttamente che i due oggetti contengono la
stessa quantità di creta. Questa comprensione è tuttavia legata a
specifiche esperienze: il bambino non riesce ancora a capire che la
conservazione della materia è un principio generale.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 15
Universitas Mercatorum Teorie sullo sviluppo
mentale nel bambino

Infine, nello stadio operatorio formale (che va dai 12 anni in poi),


il bambino sviluppa gli schemi operatori formali, i quali rappresentano
principi astratti che si possono applicare a una vasta gamma di oggetti,
sostanze e situazioni. Così, il bambino comprende che la quantità di
creta resta la stessa qualunque forma essa assuma, e che la quantità
di acqua è la stessa qualunque sia la forma del bicchiere in cui viene
versata.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 15
Universitas Mercatorum Teorie sullo sviluppo
mentale nel bambino

2. LA TEORIA DI VYGOTSKIJ

La paternità dell’approccio socioculturale allo studio dello


sviluppo cognitivo viene di solito attribuita a Vygotskij, uno psicologo
russo che morì a soli 38 anni (1896-1934). Vygotskij e Piaget
condividevano l’idea che la principale forza propulsiva dello sviluppo
cognitivo fosse l’interazione del bambino con l’ambiente. Tuttavia, i
fattori ritenuti fondamentali erano molto diversi. Piaget sottolineava
l’importanza dell’interazione con l’ambiente fisico, mentre Vygotskij
enfatizzava l’interazione con l’ambiente sociale: secondo questo
studioso, lo sviluppo cognitivo sarebbe il frutto dell’interiorizzazione di
simboli, conoscenze, idee e modi di pensare che sono radicati nella
cultura in cui il bambino nasce.
Questi due studiosi differivano anche rispetto al modo di
concettualizzare la relazione tra linguaggio e pensiero. Per Piaget, il
linguaggio è un effetto collaterale dello sviluppo cognitivo del bambino.
Al contrario, Vygotskij sosteneva che il linguaggio è esso stesso il
fondamento per sviluppare le abilità intellettive superiori. I bambini
dapprima apprendono il linguaggio come mezzo per comunicare con gli
altri, ma successivamente cominciano ad utilizzare le parole a livello
simbolico per pensare. In questo modo il loro pensiero diventa pensiero
verbale, una forma di pensiero molto più potente rispetto al pensiero
non verbale utilizzato in precedenza.
A sostegno della sua teoria, Vygotskij fece notare che i bambini
dai 4 ai 6 anni spesso parlano da soli a voce alta. Questi bambini hanno
scoperto che possono usare le parole non solo per comunicare, ma anche
per progettare le proprie azioni e organizzare il proprio
comportamento. Per Vygotskij, parlare da soli mentre sono impegnati

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 15
Universitas Mercatorum Teorie sullo sviluppo
mentale nel bambino

in un compito aiuta i bambini a mantenere l’attenzione concentrata e a


focalizzare i problemi ad esso collegati. Questo fenomeno declina verso
i 7 anni, quando viene sostituito dal discorso interiore. Nel corso del
tempo, il discorso interiore diventa sempre più abbreviato, finchè, negli
adolescenti e negli adulti, le parole non vengono più articolate neppure
interiormente e diventano puri simboli mentali.
Le ricerche sperimentali condotte dopo la morte di Vygotskij
hanno confermato la validità di molte delle sue idee. In particolare, è
stato osservato che:

 il discorso a voce alta è più frequente quando i bambini


sono impegnati in compiti difficoltosi (piuttosto che in
compiti facili);
 i bambini risolvono i problemi con più facilità quando
possono pensare a voce alta, anziché quando devono
lavorare in silenzio;
 i bambini di prima e seconda elementare che borbottavano
e muovevano le labbra di più mentre risolvevano problemi
aritmetici, mostrarono nel corso dell’anno scolastico il più
ampio miglioramento dell’abilità aritmetica.

L’idea centrale nella teoria di Vygotskij è che lo svilupo avvenga


prima a livello sociale, poi a livello individuale. In accordo con questa
ipotesi, lo studioso osservò che, nella maggior parte dei casi, i bambini
apprendono a risolvere i problemi collaborando con adulti (o bambini)
più competenti di loro, prima di essere in grado di risolverli da soli. La
zona di sviluppo prossimale (un termine coniato proprio da Vygotskij)
rappresenta la gamma di attività che un bambino non riesce a svolgere
da solo, ma che è in grado di fare collaborando con altre persone più
esperte. L’approccio socioculturale assume che lo sviluppo cognitivo sia

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 15
Universitas Mercatorum Teorie sullo sviluppo
mentale nel bambino

promosso in modo più efficace dai comportamenti che rientrano nell’


area di sviluppo prossimale.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 15
Universitas Mercatorum Teorie sullo sviluppo
mentale nel bambino

3. L’APPROCCIO DELL’ELABORAZIONE DELLE


INFORMAZIONI

Gli psicologi che adottano l’approccio dell’elaborazione delle


informazioni spiegano lo sviluppo in termini di cambiamenti nelle
componenti fondamentali della mente. La mente viene vista come un
sistema di elaborazione analogo ad un computer, deputato all’analisi
delle informazioni provenienti dall’esterno. Come illustrato in una
lezione precedente, nel modello modale della mente, le componenti
fondamentali sono l’attenzione (la quale consente l’ingresso
dell’informazione nel sistema), la memoria di lavoro (la quale consente
la manipolazione dell’informazione) e la memoria a lungo termine (un
magazzino in cui conservare le informazioni per poi richiamarle ed
usarle in un secondo momento).

Figura 3. Apparato spèerimentale nello studio di Rovee-Collie e Cuevas (2009).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 15
Universitas Mercatorum Teorie sullo sviluppo
mentale nel bambino

Come abbiamo già visto, la memoria a lungo termine può essere


ulteriormente suddivisa in memoria esplicita (dichiarativa) e memoria
implicita (non dichiarativa). Per definizione, la memoria esplicita non
può essere saggiata nei bambini che non hanno ancora imparato a
parlare, in quanto essa richiede che il soggetto riporti l’esperienza
vissuta in maniera verbale. Al contrario, le ricerche attuali
suggeriscono che anche bambini molto piccoli dimostrano, tramite il
comportamento, di poter formare ricordi impliciti. Per esempio, in un
esperimento di Rovee-Collier e Cuevas (200), bambini di 2 mesi che
avevano appreso ad azionare una giostra con un calcio, rispondevano
calciando non appena vedevano la giostra, anche a distanza di qualche
giorno (si veda la Figura 3).
Una seconda distinzione è tra memoria semantica ed episodica.
La memoria semantica è cruciale, tra le altre cose, per l’acquisizione
del vocabolario. La prima dimostrazione pratica di memoria semantica
si ha intorno ai 10-12 mesi, quando i bambini iniziano a produrre parole
come mamma, pappa, e palla. La memoria episodica si sviluppa invece
lentamente: intorno ai 20-24 mesi i bambini cominciano a fare
commenti su cose accadute loro qualche ora prima, ma è soltanto verso
i 3-4 anni che essi cominciano a dare risposte affidabili a domande sulle
loro esperienze passate. Molte ricerche hanno dimostrato che la
capacità di formare ricordi a lungo termine nella memoria episodica
aumenta in modo graduale durante tutta l’infanzia, per raggiungere un
plateau verso la fine dell’adolescenza, ed è strettamente legata alla
maturazione del cervello (in particolare, dei lobi prefrontali).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 15
Universitas Mercatorum Teorie sullo sviluppo
mentale nel bambino

Figura 4. Sviluppo della memoria di lavoro tra 4 e 15 anni di età.

Nel modello modale della mente, la memoria di lavoro è la sede


del pensiero conscio e il luogo dove le informazioni vengono manipolate
e combinate allo scopo di risolvere dei problemi. Decine di esperimenti
condotti con materiali diversi hanno concluso che la quantità
d’informazione verbale o visiva che il soggetto è in grado di trattenere
nel circuito fonologico (o nel taccuino fonologico) aumenta durante tutta
l’infanzia e raggiunge il livello adulto a 15 anni. Per esempio, nella
Figura 4 è possibile vedere che il numero di cifre che un soggetto riesce
a tenere a mente e ripetere dopo averli uditi una sola volta (il cosiddetto
digit span) aumenta da circa due-tre all’età di 4 anni fino a sette a 15
anni (Gathercole et al., 2004).
L’incremento nello span della memoria di lavoro è in parte
collegato all’aumento nella velocità di elaborazione delle informazioni,
il quale si protrae anch’esso fino a 15 anni circa. In genere, questa
capacità viene saggiata attraverso test sui tempi di reazione che

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 13 di 15
Universitas Mercatorum Teorie sullo sviluppo
mentale nel bambino

richiedono di formulare giudizi molto semplici (ad esempio, giudicare


se due lettere proiettate per pochi istanti sono uguali o diverse). Il
collegamento con la capacità della memoria di lavoro è dovuto al fatto
che, quanto più è alta la velocità di elaborazione, tanto più è rapida la
mente nello spostarsi da un’informazione all’altra: ciò fa aumentare il
numero di elementi che possono essere contemporaneamente elaborati
e trattenuti nella memoria di lavoro in ogni dato momento.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 14 di 15
Universitas Mercatorum Teorie sullo sviluppo
mentale nel bambino

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 15 di 15
LA
COMPRENSIONE
DELLA MENTE NEL
BAMBINO
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum La comprensione della
mente nel bambino

Indice

1. I BAMBINI SPIEGANO IL COMPORTAMENTO IN


TERMINI MENTALI ..................................................................... 3

2. IL RITARDO NELLA COMPRENSIONE DELLE FALSE


CREDENZE .................................................................................... 5

3. IL GIOCO DI FINZIONE E L’AUTISMO ................................... 8

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 11

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 11
Universitas Mercatorum La comprensione della
mente nel bambino

1. I BAMBINI SPIEGANO IL COMPORTAMENTO IN


TERMINI MENTALI

Per avere un pieno sviluppo delle proprie potenzialità, ciascun


essere umano deve imparare a conoscere non soltanto il mondo fisico,
ma anche il mondo sociale che lo circonda. La maggioranza delle
persone (sia adulti che bambini) dedica più tempo a cercare di capire le
persone che non gli oggetti inanimati, e applica a queste due entità
concetti esplicativi differenti. Nella vita quotidiana, noi cerchiamo
continuamente di comprendere il comportamento delle persone
interpretando la loro mente: di conseguenza, attribuiamo emozioni,
motivazioni, sentimenti e credenze, e usiamo tali attribuzioni per
spiegare le loro azioni.
David Premack (1990) ha avanzato l’ipotesi che, a partire da
un’età molto precoce, i bambini distinguono automaticamente tra due
tipi di entità fisiche – quelle che si muovono da sole e quelle che non
possono farlo – e attribuiscono proprietà psicologiche alle prime ma non
alle seconde. Ad esempio, quando osservavano un video in cui alcune
palline da biliardo si muovevano in maniera normale in risposta ad
impatti fisici da parte di altre palline, la maggior parte dei bambini di
3-5 anni descrivevano il fenomeno in termini puramente fisici. Al
contrario, quando le palline si muovevano cambiando direzione da sole,
la maggioranza dei bambini interpretavano le palline come persone o
animali e descrivevano il movimento in termini mentali.
A partire da 2-3 anni (quando cominciano a parlare), i bambini
descrivono i comportamenti delle persone in termini di costrutti
mentali, soprattutto percezioni, emozioni e desideri. Per esempio, di
una persona che piange dicono che è triste, mentre di una persona che
si riempie il bicchiere di acqua dicono che ha sete. Le ricerche indicano

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 11
Universitas Mercatorum La comprensione della
mente nel bambino

che bambini di appena 2 anni sono in grado di comprendere il fatto che


le altre persone possono avere desideri diversi dai loro. Così, in un
esperimento condotto da Repacholi & Gopnik (1997), avendo saputo che
un adulto preferiva mangiare un piatto di broccoli piuttosto che dei
cracker, la maggior parte dei bambini di 2 anni offrivano a quella
persona dei broccoli, anche quando questa scelta era contraria alle loro
preferenze personali.
Altri studi indicano che perfino bambini di soli 12 mesi possono
mostrare una buona comprensione degli stati mentali delle altre
persone. In un esperimento di Tomasello & Haberl (2003), il bambino
aveva la possibilità di giocare con 2 adulti e 3 giocattoli diversi, i quali
venivano dati uno per volta. Ad un certo punto, un adulto usciva dalla
stanza mentre il bambino giocava con un particolare giocattolo, senza
poter vedere il giocattolo stesso. Successivamente, quando rientrava
nella stanza, l’adulto vedeva tutti e tre i giocattoli insieme ed
esclamava: ‘Oh, che bello! Me lo dai?’. Il risultato sorprendente fu che
la maggior parte dei bambini porgevano all’adulto il giocattolo con cui
non aveva potuto giocare quando era uscito. Questa risposta suggerisce
che i bambini dovevano sapere quale dei tre giocattoli era nuovo per
l’adulto; inoltre, essi assumevano implicitamente che le persone sono
più eccitate da cose nuove che da quelle che già conoscono.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 11
Universitas Mercatorum La comprensione della
mente nel bambino

2. IL RITARDO NELLA COMPRENSIONE DELLE


FALSE CREDENZE

Gli adulti sono soliti interpretare il comportamento delle persone


in termini di credenze e sono perfettamente consapevoli del fatto che
esse possono essere errate (ovvero, possono differire dalla realtà
oggettiva dei fatti). Se, per esempio, vediamo un uomo in giro con un
ombrello in una giornata di sole, la spiegazione che ci diamo è che
l’uomo credeva che quel giorno sarebbe piovuto. Al contrario degli
adulti, i bambini di 2-3 anni sono in grado di comprendere gli stati
emotivi e i desideri delle persone, ma raramente spiegano il loro
comportamento in termini di credenze. Inoltre, i test di falsa credenza
dimostrano che essi non si rendono ancora conto del fatto che le
credenze delle persone possono essere completamente false.

Figura 1. Il classico test di falsa credenza di Sally e Anne (Wellman et al., 2001).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 11
Universitas Mercatorum La comprensione della
mente nel bambino

In un classico test di falsa credenza (Wellman et al., 2001; si veda


la Figura 1), si racconta al bambino una storia (illustrata da vignette o
rappresentata con pupazzi) in cui un personaggio di nome Maxi mette
una barretta di cioccolato dentro un armadio blu, dopo di che esce dalla
stanza. A questo punto entra sua madre trova la barretta e la sposta in
un armadietto rosso. Quando Maxi rientra nella stanza, lo
sperimentatore chiede al bambino: ‘Quale sarà il primo posto dove Maxi
cercherà la barretta?’. Il risultato tipico, illustrato nella Figura 2, è che
la maggior parte dei bambini di 4 e 5 anni rispondono correttamente
che Maxi cercherà la barretta nell’armadietto blu (dove l’aveva
effettivamente lasciata); al contrario, la maggior parte dei bambini di
3 anni rispondono che la cercherà nell’armadietto rosso (come se il
personaggio sapesse che la madre l’aveva spostata).

Figura 2. Prestazione dei bambini di 3, 4 e 5 anni in vari test di falsa credenza.

L’incapacità di comprendere che le credenze possono essere false


non riguarda soltanto le altre persone, ma si estende anche alle proprie

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 11
Universitas Mercatorum La comprensione della
mente nel bambino

false credenze. In uno studio di Atance & O’Neill (2004), lo


sperimentatore mostrava ai bambini una scatola di matite colorate
chiusa e chiedeva loro cosa pensavano che contenesse: come atteso,
tutti i bambini rispondevano ‘matite colorate’. Successivamente, si
diceva a ciascun bambino (il test era sempre individuale) di andare a
prendere dei fogli di carta in un’altra stanza per colorare. Quando il
bambino ritornava con i fogli, la scatola veniva aperta ed egli poteva
vedere che conteneva delle candele. Se a questo punto si chiedeva loro
di dire cosa avevano pensato che la scatola contenesse la prima volta,
la maggior parte dei bambini di 3 anni rispondeva: ‘Candele’. Inoltre,
se gli si chiedeva il motivo per cui era andato a prendere i fogli, il
bambino non sapeva dare una spiegazione consistente.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 11
Universitas Mercatorum La comprensione della
mente nel bambino

3. IL GIOCO DI FINZIONE E L’AUTISMO

I bambini di 3 anni hanno difficoltà nel comprendere la falsa


credenza, ma comprendono benissimo la finzione, che infatti è un
elemento preponderante del loro gioco. Le ricerche dimostrano che già
ad un 1 anno e mezzo i bambini sono perfettamente in grado di
distinguere tra finzione e realtà. Così, un bambino di 18 mesi che versa
su una bambola una immaginaria tazza di acqua e dice: ‘Oh, la bambola
tutta bagnata’, sa benissimo che in realtà non lo è.
Alan Leslie (1987, 1994) ha proposto che la comprensione delle
false credenze emerge nei bambini come sviluppo della comprensione
della finzione, che di solito la precede. Finzione e falsa credenza sono
molto simili tra loro, in quanto entrambe implicano dei concetti mentali
che non corrispondono alla realtà. A sostegno di questo legame, è ben
noto che bambini di 3 anni che non passano il test standard di falsa
credenza sono tuttavia in grado di rispondere correttamente ad una
domanda che richieda loro di indicare cosa loro stessi o un’altra persona
avevano immaginato o finto che ci fosse dentro la scatola, prima che
questa venisse aperta (Lillard & Flavell, 1992).
Secondo Leslie, i meccanismi cognitivi e cerebrali che consentono
il gioco di finzione si sono evoluti in quanto forniscono le basi necessarie
per comprendere gli stati mentali non corrispondenti alla realtà, come
le false credenze. In effetti, un bambino che è in grado di comprendere
che la finzione differisce dalla realtà ha acquisito i fondamenti per
comprendere che le convinzioni delle persone non corrispondono
sempre al vero. Evidenze empiriche in linea con questa ipotesi derivano
dall’osservazione che i bambini che hanno più esperienza nel gioco di
finzione superano i test di falsa credenza più facilmente, rispetto ai

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 11
Universitas Mercatorum La comprensione della
mente nel bambino

bambini con minore esperienza in questo tipo di giochi. Altre ricerche


hanno trovato che i bambini che vivono insieme a fratelli più grandi
superano i test di falsa credenza con più facilità rispetto ai coetanei che
non hanno fratelli maggiori. Una possibile spiegazione è che i bambini
che hanno fratelli più grandi si impegnano in giochi di ruolo molto più
frequentemente rispetto ai bambini senza fratelli. Il gioco sociale e il
gioco di finzione facilitano la comprensione della falsa credenza in
quanto i bambini devono rispondere in modo appropriato, oltre che alle
proprie, anche alle invenzioni dei loro compagni di gioco (si pensi, per
esempio, ad un bambino che si lascia cadere a terra quando, durante il
classico gioco di guardie e ladri, il fratello maggiore esclama: ‘Bang! Sei
morto’). In questo modo, attraverso il gioco di ruolo, il bambino si abitua
all’idea che le altre persone possono talvolta avere delle convinzioni che
non corrispondono alla realtà oggettiva.

Figura 3. Prestazione di bambini sani di 4 anni e bambini autistici di 12 anni


in un test di falsa credenza (rappresentato in rosso).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 11
Universitas Mercatorum La comprensione della
mente nel bambino

Altri dati a favore della teoria proposta da Leslie derivano dallo


studio di bambini autistici. L’autismo è un disturbo congenito che può
avere origine genetica, oppure può derivare da lesioni cerebrali
avvenute nella fase prenatale. Tra i sintomi più rilevanti vi sono gravi
deficit nell’interazione sociale e nell’acquisizione del linguaggio, la
tendenza a compiere azioni ripetitive, e la relativa mancanza di
interesse per gli stimoli esterni. Durante l’infanzia, questi bambini
hanno difficoltà a sostenere un contatto visivo prolungato, a seguire lo
sguardo dell’adulto, e a sincronizzare le espressioni emotive con quelle
di un’altra persona. In accordo con la teoria di Leslie, i bambini autistici
hanno prestazioni basse in test di falsa credenza. Ad esempio, in uno
studio di Leslie & Thaiss (1992), i cui risultati sono illustrati nella
Figura 3, si trovò che bambini autistici di 12 anni avevano una
prestazione in un test di falsa credenza (rappresentato in blu nella
Figura 3) molto peggiore rispetto a bambini sani di soli 4 anni. Inoltre,
i bambini autistici non mostrano il gioco di finzione: essi esplorano le
proprietà fisiche degli oggetti, ma non sono in grado di trasformare un
oggetto in un altro usando la fantasia e non fingono che un oggetto
abbia proprietà diverse da quelle che possiede realmente.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 11
Universitas Mercatorum La comprensione della
mente nel bambino

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 11
LO SVILUPPO
SOCIALE:
LA PRIMA INFANZIA
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Lo sviluppo sociale:
La prima infanzia

Indice

1. IL CONCETTO DI ATTACCAMENTO ....................................... 3

2. GLI STUDI DI HARLOW E LA TEORIA


EVOLUZIONISTICA DI BOWLBY ............................................. 6

3. LA STRANGE SITUATION E L’ATTACCAMENTO SICURO9

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 12

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 12
Universitas Mercatorum Lo sviluppo sociale:
La prima infanzia

1. IL CONCETTO DI ATTACCAMENTO

Per tutta la durata della nostra esistenza siamo immersi in una


rete di relazioni con altre persone, relazioni che sostengono e
arricchiscono la nostra vita. La selezione naturale ci ha dotati di
meccanismi cerebrali e cognitivi che ci permettono di stabilire, a ogni
stadio della nostra vita, relazioni sociali che sono fondamentali per la
nostra sopravvivenza e riproduzione.
Tuttavia, la natura di queste relazioni varia a seconda del
periodo considerato. Il termine ‘sviluppo sociale’ indica proprio il
continuo trasformarsi della qualità delle nostre relazioni con gli altri
nel corso della nostra esistenza. In linea generale, è possibile
identificare almeno quattro fasi distinte:

 nella prima infanzia dipendiamo fisicamente ed


emotivamente dagli adulti che si prendono cura di noi
(detti ‘caregiver’);
 nella seconda infanzia apprendiamo a rapportarci con gli
altri e a seguire le regole e le norme della società in cui
viviamo;
 durante l’adolescenza esploriamo l’aspetto romantico
delle relazioni e iniziamo a delineare il nostro spazio nel
mondo adulto;
 infine, durante l’età adulta, ci prendiamo la responsabilità
di accudire altri esseri umani e contribuiamo con il lavoro
alla vita della società.

Verso la meta del XX secolo, Erik Erikson (1963) propose una


complessa teoria dello sviluppo sociale secondo cui ogni stadio della
nostra vita sarebbe associato ad uno specifico problema o un insieme di

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 12
Universitas Mercatorum Lo sviluppo sociale:
La prima infanzia

problemi che devono essere risolti attraverso l’interazione con altre


persone. Questa teoria assume che le modalità con cui ogni persona
risolve questi problemi influenzeranno in maniera decisiva il modo in
cui egli affronterà gli stadi successivi. Il problema principale della
prima infanzia, secondo Erikson, consiste nello sviluppo di un senso di
fiducia, ovvero un sentimento di sicurezza nel fare affidamento su
alcune persone, con la certezza di riceverne cure e aiuto in qualsiasi
momento ne abbiano bisogno.
Più o meno nello stesso periodo, altre teorie hanno preso in
considerazione il bisogno di cure che il bambino ha nelle prime fasi dello
sviluppo e hanno formulato ipotesi sugli effetti psicologici che queste
cure avrebbero sul suo successivo sviluppo. In particolare, John Bowlby
(1907-1990) propose una teoria evoluzionistica dello sviluppo infantile
secondo cui lo stabilirsi del legame emotivo tra il bambino e l’adulto
(specialmente la madre) che lo accudisce sarebbe basato su un
complesso di tendenze innate, presenti in entrambi i partner della
relazione. Tra questi comportamenti innati rientrerebbero secondo
Bowlby:

 i pianto con cui il bambino segnala uno stato di disagio;


 l’urgente bisogno di intervenire provato dall’adulto
quando sente il pianto del proprio bambino;
 il sorriso e i suoni di gioia prodotti dal bambino quando
viene confortato e accudito, e il piacere provato dall’adulto
nel ricevere questi segnali.

Sebbene nei primi anni di vita i bambini siano totalmente


dipendenti dagli adulti che li accudiscono, il loro ruolo non sarebbe del
tutto passivo secondo Bowlby. Infatti, i bambini nascono dotati di
predisposizioni biologiche che gli permettono di riconoscere i loro

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 12
Universitas Mercatorum Lo sviluppo sociale:
La prima infanzia

caregiver e di indurli a fornire le cure necessarie. Si è già visto in


precedenza come, nel giro di pochi giorni dalla nascita, i bambini
mostrino una forte preferenza per la voce, l’odore e la vista della madre.
All’età di 3 mesi, i bambini sono in grado di manifestare con chiarezza,
attraverso le espressioni facciali, una serie di emozioni fondamentali
quali la rabbia, la tristezza, la gioia e l’interesse, e producono risposte
differenziate alle espressioni di questi sentimenti nelle altre persone.
Attraverso queste predisposizioni e tendenze innate, i bambini
sono parte attiva nel processo di costruzione del legame emozionale che
li unisce ai loro caregiver, un legame indicato da Bowlby con il termine
‘attaccamento’.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 12
Universitas Mercatorum Lo sviluppo sociale:
La prima infanzia

2. GLI STUDI DI HARLOW E LA TEORIA


EVOLUZIONISTICA DI BOWLBY

Nello stesso periodo in cui Bowlby formulava la sua teoria


evoluzionistica dello sviluppo infantile (negli anni ‘50 del Novecento),
Harry Harlow avviò un programma di ricerche finalizzate allo studio
dell’attaccamento in piccoli di macaco rhesus, che egli faceva crescere
in totale isolamento sia dalla madre che dalle altre scimmie.
Particolarmente importanti sono gli studi in cui egli allevò piccoli
macachi in presenza soltanto di surrogati inanimati delle madri.
In uno di questi esperimenti, Harlow allevò i macachi in una
gabbia che conteneva due madri artificiali, l’una formata soltanto da
fili metallici, l’altra ricoperta con un morbido tessuto spugnoso. I piccoli
potevano nutrirsi poppando il latte da un biberon che in alcune gabbie
era appeso alla madre metallica, mentre in altre gabbie era appeso alla
madre di tessuto morbido (si veda la Figura 1).

Figura 1. Le scimmie allevate da Harlow in isolamento.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 12
Universitas Mercatorum Lo sviluppo sociale:
La prima infanzia

Gli obiettivi di Harlow erano essenzialmente due:

 determinare se i piccoli di macaco avrebbero sviluppato


una forma di attaccamento verso l’uno o l’altro tipo di
madre;
 verificare quale caratteristica era più efficace nell’indurre
l’attaccamento: il biberon o la stoffa morbida del
rivestimento.

Il risultato più importante fu che, indipendentemente da quale


madre portasse il biberon, tutti i piccoli macachi trattarono come
madre il surrogato ricoperto di stoffa morbida. Le scimmiette
trascorrevano buona parte della giornata abbracciate a questo
surrogato e si rifugiavano su di esso ogni volta che si sentivano
minacciate da stimoli esterni che non conoscevano; nell’esplorare
un’ambiente nuovo, i piccoli macachi si dimostravano più
intraprendenti in presenza della madre artificiale, piuttosto che in sua
assenza.
Il lavoro di Harlow dimostrò l’importanza che il conforto da
contatto ha nello sviluppo dell’attaccamento durante la prima infanzia;
le madri non assolvono solo la funzione di nutrire i piccoli e soddisfare
le loro necessità fisiche: esse offrono anche il confortante contatto fisico
di cui i bambini e i piccoli di tutti i mammiferi hanno bisogno. Bowlby
fu molto influenzato dalle ricerche di Harlow e osservò che
l’attaccamento nei bambini tra gli 8 mesi e i 3 anni di vita si manifesta
con comportamenti molto simili a quelli osservati da questo studioso
nei macachi. Per esempio, in questo periodo, i bambini mostrano
evidenti segni di angoscia quando le madri li lasciano soli, soprattutto
se si trovano in ambienti sconosciuti; producono espressioni di gioia

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 12
Universitas Mercatorum Lo sviluppo sociale:
La prima infanzia

quando esse ritornano; mostrano segni di disagio nell’avvicinarsi ad


una persona estranea, a meno che non siano rassicurati dal caregiver;
sono più pronti ad esplorare un ambiente nuovo in presenza della
madre, piuttosto che in sua assenza.
Secondo Bowlby, l’attaccamento deve essere considerato come un
fenomeno universale della specie umana che deriverebbe da
meccanismi biologici che si sono evoluti per selezione naturale. Quando
sono fuori dal controllo del caregiver, i bambini sono potenzialmente
esposti a numerosi pericoli. È dunque verosimile ritenere che i piccoli
che affrettavano il ritorno della madre piangendo, o che evitavano di
avvicinarsi a oggetti e persone sconosciute in assenza della madre,
potrebbero aver avuto maggiori probabilità di sopravvivere, rispetto a
quei piccoli che invece si mostravano incuranti del fatto che la madre
fosse presente o assente. In accordo con questa interpretazione, i
comportamenti di attaccamento si rafforzano proprio nel periodo (tra 6
e 8 mesi di età) in cui i bambini cominciano a muoversi da soli e hanno
quindi maggiori probabilità di venirsi a trovare in pericolo. In questa
fase, la naturale pulsione ad esplorare l’ambiente esterno deve essere
necessariamente controbilanciata dalla tendenza innata a restare
vicino ad un adulto che può prontamente intervenire in suo soccorso.
Infatti, come accennato nelle lezioni precedenti, l’acquisizione della
capacità di spostarsi da soli va di pari passo con lo sviluppo dei
comportamenti di riferimento sociale, grazie ai quali i bambini
rivolgono spesso lo sguardo verso il caregiver allo scopo di ottenere
indizi sulla pericolosità di ciò che sta facendo.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 12
Universitas Mercatorum Lo sviluppo sociale:
La prima infanzia

3. LA STRANGE SITUATION E L ’ATTACCAMENTO


SICURO

Per studiare sistematicamente le caratteristiche


dell’attaccamento, Mary Ainsworth (che fu collaboratrice di Bowlby)
sviluppò la procedura della Strange situation (Situazione sconosciuta).
Durante questa procedura, il bambino viene accompagnato dalla madre
e introdotto in una stanza a lui sconosciuta dove si trovano alcuni
giocattoli. Mentre il bambino rimane nella stanza, la madre e un adulto
sconosciuto al bambino entrano ed escono dalla stanza secondo una
sequenza prefissata; in questo modo, il bambino viene a trovarsi nella
stanza in tre condizioni differenti (in momenti diversi): può rimanere
soltanto con la madre, soltanto con la persona sconosciuta oppure
completamente da solo (senza né la madre né la persona sconosciuta).
A seconda dei comportamenti mostrati dal bambino nelle diverse fasi
della Strange situation, l’attaccamento madre-bambino viene
classificato come sicuro, evitante o ansioso.
L’attaccamento sicuro corrisponde al caso in cui il bambino
esplora con sicurezza la stanza e i giocattoli in presenza della madre,
si agita e diminuisce i comportamenti esplorativi in assenza della
madre, e al suo ritorno produce chiare manifestazioni di gioia. Pattern
di risposta molto diversi da quello sicuro sono considerati indici di
forme di attaccamento insicuro. In particolare, l’attaccamento evitante
si ha quando il bambino evita la madre, si comporta con freddezza e
non mostra gioia al suo ritorno. L’attaccamento ansioso si ha quando il
bambino continua a piangere ed agitarsi nonostante i tentativi della
madre di confortarlo. Per quanto riguarda la distribuzione di questi tre
tipi di attaccamento, diverse ricerche indicano che il 70% dei bambini

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 12
Universitas Mercatorum Lo sviluppo sociale:
La prima infanzia

nordamericani tra 12 e 24 mesi mostrano un attaccamento sicuro, il


20% mostra un attaccamento evitante e il 10% un attaccamento
ansioso.
Secondo la Ainsworth, lo sviluppo dell’attaccamento sicuro
durante la prima infanzia dipenderebbe da un complesso di
comportamenti della madre indicati col termine ‘cure sensibili’
(sensitive care). Le madri con elevati livelli di sensibilità sono costanti
nel fornire al bambino un contatto fisico confortante, rispondono con
prontezza e sensibilità ai suoi segnali di malessere e stabiliscono con
lui una buona sincronia emotiva. In accordo con questa ipotesi, gli
esperimenti condotti dalla Ainsworth e da altri ricercatori dopo di lei
hanno riportato correlazioni positive tra la frequenza con cui le madri
offrono cure sensibili ai bambini e la probabilità di sviluppare forme di
attaccamento sicuro.
Un’altra ipotesi avanzata dalla Ainsworth è che l’attaccamento
sicuro avrebbe effetti positivi e duraturi nelle fasi successive dello
sviluppo. Questa idea era perfettamente in accordo con la teoria
formulata da Bowlby, secondo il quale il bambino svilupperebbe una
rappresentazione cognitiva della relazione di attaccamento primaria
(indicata con il termine ‘modello operativo interno’) che influenzerebbe
tutte le altre relazioni nel corso della sua vita. Anche in questo caso, le
ricerche successive hanno fornito un supporto empirico alle ipotesi
della Ainsworth dimostrando che i bambini con attaccamento sicuro si
rivelano, negli anni successivi, più sicuri di sé, più stabili
emotivamente e più socievoli rispetto ai bambini con attaccamento
insicuro.
L’esistenza di un legame positivo tra cure parentali e
attaccamento sicuro è stata ulteriormente confermata da una serie di
studi recenti che hanno utilizzato specifici programmi di

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 12
Universitas Mercatorum Lo sviluppo sociale:
La prima infanzia

addestramento. Uno studio di questo tipo è stato condotto su bambini


con temperamento irritabile – ovvero, bambini nervosi, facili ad
arrabbiarsi e difficili da confortare. Tipicamente, le madri di questi
bambini tendono a ritirarsi dal contatto emotivo con il figlio,
innescando un processo di deterioramento della relazione madre-
bambino. Van den Boom (1994) reclutò 100 coppie madre-figlio in cui il
bambino era stato giudicato come fortemente irritabile. All’età di 6
mesi, metà delle coppie fu sottoposta ad un addestramento di 3 mesi
volto ad aiutare le madri a comprendere i segnali dei figli e a rispondere
ad essi in modo appropriato. Quando l’attaccamento fu valutato a 6
mesi di distanza (ovvero, quando i bambini avevano 12 mesi), il
risultato fu che il 62% dei bambini del gruppo di madri addestrate
mostrava un attaccamento sicuro, contro solo il 22% nel gruppo di
madri non addestrate. Studi simili sono stati condotti su madri affette
da depressione e su genitori adottivi.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 12
Universitas Mercatorum Lo sviluppo sociale:
La prima infanzia

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 12 di 12
ATTACCAMENTO:
GENETICA E
DIFFERENZE
CULTURALI NELLE
PRATICHE
EDUCATIVE
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Attaccamento: Genetica e
differenze culturali nelle
pratiche educative

Indice

1. ATTACCAMENTO, GENETICA E QUALITÀ DELLE CURE


NEI NIDI D’INFANZIA ................................................................. 3

2. DIFFERENZE INTERCULTURALI NEL MODO DI


ACCUDIRE I BAMBINI ................................................................ 6

3. CONDISCENDENZA, DIPENDENZA E
INTERDIPENDENZA ................................................................... 8

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 10

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 10
Universitas Mercatorum Attaccamento: Genetica e
differenze culturali nelle
pratiche educative

1. ATTACCAMENTO, GENETICA E QUALITÀ


DELLE CURE NEI NIDI D’INFANZIA

Vari studi hanno dimostrato che la relazione tra qualità delle


cure parentali e qualità dell’attaccamento dipende, almeno in parte,
dalla costituzione genetica del bambino.
Le differenze maggiori sono state riscontrate in bambini che
differivano rispetto ad un gene coinvolto nell’utilizzo del
neurotrasmettitore serotonina nel cervello (il gene 5-HTTLLPR).
Questo gene si presenta in due forme (o alleli): una forma breve (detta
s) e una forma lunga (detta l). Ricerche precedenti indicano che i
bambini omozigoti per la forma l (detti ‘ll’: bambini che sono portatori
del gene l su entrambi i cromosomi della stessa coppia) presentano un
maggiore assorbimento di serotonina da parte dei neuroni cerebrali e
sono meno vulnerabili alle esperienze ambientali negative (per
esempio, sono meno soggetti a sviluppare depressione per il fatto di
vivere in ambienti familiari in cui subiscono maltrattamenti).
In uno studio specificatamente volto ad esaminare il ruolo della
genetica nello sviluppo di forme di attaccamento sicuro, Barry e
colleghi (2008) hanno valutato la qualità delle cure fornite dai genitori
ai bambini quando essi avevano 7 mesi. Successivamente, gli autori
hanno misurato la qualità dell’attaccamento attraverso la procedura
della Strange situation quando i bambini avevano 15 mesi. I risultati,
illustrati nella Figura 1, suggeriscono che nei bambini con genotipo ss
o sl l’attaccamento aumentava in funzione della sensibilità della madre
(maggiore la sensibilità materna, maggiore la sicurezza
dell’attaccamento), mentre nei bambini ll non vi era alcun effetto

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 10
Universitas Mercatorum Attaccamento: Genetica e
differenze culturali nelle
pratiche educative

(questi bambini mostravano un attaccamento sicuro qualunque fosse il


livello delle cure che ricevevano dalla madre).
La maggior parte degli studi condotti sull’attaccamento si sono
concentrati sul ruolo della madre, poiché essa è la figura più coinvolta
nel prendersi cura del bambino nei primi mesi di vita. Tuttavia, le
ricerche indicano che un attaccamento sicuro può svilupparsi verso il
padre, i nonni, i fratelli più grandi e anche verso gli assistenti
d’infanzia. Al giorno d’oggi, la pratica di affidare i bambini alle cure dei
nidi ha avuto un’enorme diffusione. Negli Stati Uniti, per esempio,
circa l’80% dei bambini in età prescolare viene affidata a una struttura
per l’infanzia, per una media di 40 ore settimanali. Data la frequenza
di questa pratica, molte ricerche hanno avuto come scopo quello di
valutare la correlazione tra la qualità delle cure offerte da tali strutture
e il successivo sviluppo comportamentale del bambino: il risultato
generale è stato che l’elevata qualità delle cure prestate dagli assistenti
d’infanzia correla positivamente con lo sviluppo armonioso del bambino
negli anni successivi.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 10
Universitas Mercatorum Attaccamento: Genetica e
differenze culturali nelle
pratiche educative

Figura 1. Risultati dell’esperimento di Barry et al., 2008.

Le cure fornite dai nidi per l’infanzia sono definite di alta qualità
se: a) il bambino viene accudito ogni giorno dalle stesse persone; b) gli
assistenti sono persone affettuose, sensibili, e pronte a rispondere ai
bisogni del piccolo; c) le attività proposte al bambino sono interessanti
e appropriate al loro livello di sviluppo. Maggiore è la qualità delle cure
(valutata in base a questi parametri) fornite ai bambini nei primi 2-3
anni di vita, e migliore sarà il loro successivo adattamento, sia in
termini di livello di socializzazione con i compagni che in termini di
rendimento scolastico nelle scuole elementari.
Inoltre, queste ricerche hanno dimostrato che ricevere cure di
elevata qualità nei nidi d’infanzia non interferisce con la capacità del
bambino di sviluppare un attaccamento sicuro verso i genitori; infatti,
la qualità dell’attaccamento ai genitori rimane un predittore più forte
del successivo adattamento di quanto non lo sia l’attaccamento agli
assistenti del nido.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 10
Universitas Mercatorum Attaccamento: Genetica e
differenze culturali nelle
pratiche educative

2. DIFFERENZE INTERCULTURALI NEL MODO


DI ACCUDIRE I BAMBINI

Le pratiche per accudire i bambini, e le convinzioni che le


sottendono, variano molto da cultura a cultura. In senso generale, la
cultura occidentale e quella nordamericana tendono ad essere meno
indulgenti nel soddisfare i bisogni dei bambini.
Un aspetto peculiare della cultura occidentale è l’aspettativa che
i bambini dormano da soli fin da molto piccoli. Una ricerca condotta su
90 culture diverse da quella occidentale ha rivelato che questa pratica
educativa è assai poco frequente. Al contrario, in quasi tutte le culture
analizzate, è costume che i piccoli dormano nella stessa stanza in cui
dorme la madre (o un altro familiare di riferimento), di solito nello
stesso letto, almeno fino a 2-3 anni di età. Analogamente, i piccoli di
scimpanzé, bonobo e gorilla (i nostri parenti più stretti tra i primati)
durante i primi anni di vita dormono a diretto contatto col corpo della
madre.
Una ricerca condotta su madri di etnia maya (che vivevano in
zone rurali del Guatemala) e madri statunitensi ha rivelato che le
differenze nelle pratiche utilizzate per sistemare i bambini durante la
notte erano radicate in convinzioni e valori profondamente diversi. Le
madri maya (le quali dormono con i figli fino a 2-3 anni) mettevano in
risalto soprattutto l’effetto rassicurante del contatto fisico con il corpo
materno. Invece, le madri statunitensi (nessuna delle quali dormiva
con i figli) si preoccupavano che, dormendo con loro, i bambini
prendessero un’abitudine difficile da togliere e che ciò potesse favorire
l’instaurarsi di una pericolosa dipendenza. Inoltre, le madri
nordamericane tendevano a considerare la notte come un periodo in cui

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 10
Universitas Mercatorum Attaccamento: Genetica e
differenze culturali nelle
pratiche educative

concedersi maggiore intimità col marito, mentre le madri maya


tendevano a considerarlo come un momento di unione di tutta la
famiglia.
In effetti, fino a poco tempo fa, molti psicologi e pediatri
ritenevano che l’abitudine di dormire con i genitori potesse risultare
dannosa per lo sviluppo del bambino. Tuttavia, la maggior parte delle
ricerche condotte su questo tema sono giunte a conclusioni esattamente
opposte. In uno di questi studi, donne spagnole adulte che avevano
dormito con i genitori fino a 4-5 anni mostravano personalità più
equilibrate e mature rispetto a donne che avevano dormito da sole
durante l’infanzia (Crawford, 1994). In un altro studio condotto negli
Stati Uniti, si è visto che bambini che erano stati abituati a dormire
regolarmente con i genitori dimostravano in seguito più fiducia in sé
stessi, migliori relazioni sociali con i compagni, ed erano meno soggetti
a problemi comportamentali e psicologici (rispetto a bambini che erano
stati abituati a dormire da soli) (Keller & Goldberg, 2004).
Nella cultura occidentale, un’interessante conseguenza del fatto
di imporre ai bambini piccoli di dormire da soli è l’elevata frequenza
con cui essi sviluppano un attaccamento verso oggetti inanimati
(l’orsacchiotto o una bambola particolare). Ricerche condotte su culture
diverse o tra famiglie diverse in una stessa cultura dimostrano che i
bambini che dormono da soli hanno maggiori probabilità di sviluppare
questo tipo di attaccamento (rispetto ai bambini che dormono con i
genitori). È possibile che per alleviare le paure notturne i bambini si
attacchino al più soffice e rassicurante sostituto materno che hanno a
disposizione – proprio come le scimmiette di Harlow.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 10
Universitas Mercatorum Attaccamento: Genetica e
differenze culturali nelle
pratiche educative

3. CONDISCENDENZA, DIPENDENZA E
INTERDIPENDENZA

Per lungo tempo, i nostri progenitori hanno vissuto in piccoli


gruppi composti da individui legati da stretti vincoli di parentela, la cui
sopravvivenza dipendeva dalla cooperazione reciproca nelle attività di
caccia o nella raccolta di cibo nelle foreste o nelle savane. I fondamenti
biologici dei comportamenti e delle pratiche utilizzate ancora oggi dai
genitori per accudire i bambini si sono evoluti in questo particolare
contesto sociale. Per questa ragione, molti psicologi moderni hanno
rivolto la loro attenzione al modo in cui vengono accuditi i bambini
presso le poche società di cacciatori-raccoglitori ancora esistenti.
M. Konner (2002, 2005), in particolare, ha studiato la
popolazione dei !Kung Sun, che vivono nel deserto africano del
Kalahari. Egli ha potuto osservare che, in questa società, i bambini
trascorrono gran parte del loro primo anno di vita a diretto contatto con
il corpo materno. Infatti, ciascuna madre dorme con il proprio bambino
e di giorno lo porta sempre con sé, tenendolo in una fascia che poggia
sul fianco: la fascia permette il libero accesso al seno, per cui il bambino
può poppare a suo piacimento. Quando non è con la madre, il bambino
passa nelle braccia di altre persone che lo cullano, lo baciano, lo
vezzeggiano e giocano con lui.
In generale, negli studi condotti su popolazioni di cacciatori-
raccoglitori emergono sempre un elevato livello di condiscendenza
verso i desideri dei bambini e una condivisione degli oneri
dell’accudimento. Per esempio, nella popolazione degli Efe (un gruppo
di cacciatori-raccoglitori dell’Africa centrale), i bambini sono in contatto
fisico con la madre per metà giornata; nell’altra metà vengono accuditi

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 10
Universitas Mercatorum Attaccamento: Genetica e
differenze culturali nelle
pratiche educative

da sorelle, zie o donne non imparentate. I bambini Efe vengono allattati


ogni volta che lo desiderano, non solo dalla madre ma anche dalle altre
donne che allattano nello stesso periodo.
In tutte le culture studiate finora, il coinvolgimento del padre
nella cura dei figli è sempre risultato inferiore rispetto a quello delle
madri; tuttavia, esso appare in genere più alto presso le società di
cacciatori-raccoglitori che in quelle rurali o industriali.
Molti psicologi ritengono che la condiscendenza verso i bambini
possa far aumentare il loro livello di richiesta e impedire che imparino
ad affrontare le frustrazioni. Lo studio di Konner, invece, evidenzia che
presso i !Kung la condiscendenza non porta a dipendenza: al contrario,
tutti i dati suggeriscono che questi bambini sono più collaborativi e
coraggiosi rispetto ai coetanei di cultura occidentale. Infatti, una
ricerca interculturale ha dimostrato che i bambini !Kung di 4 anni
esposti ad un ambiente sconosciuto erano più pronti a esplorare e
volgevano lo sguardo verso la madre meno frequentemente rispetto ai
coetanei inglesi. Inoltre, la condiscendenza favorisce la creazione di
legami affettivi forti e duraturi. Il risultato delle pratiche educative dei
!Kung non è l’incapacità di azione autonoma (dipendenza dall’adulto),
ma la creazione di una forte senso di lealtà e responsabilità nei
confronti della comunità (interdipendenza). In società come quelle dei
!Kun o degli Efe, in cui il benessere dei singoli dipende dagli sforzi
cooperativi di tutti i membri del gruppo, lo sviluppo di questi legami ha
un’importanza molto maggiore di quanta ne abbia nella cultura
occidentale, in cui le famiglie vivono in relativo isolamento l’una
dall’altra.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 10
Universitas Mercatorum Attaccamento: Genetica e
differenze culturali nelle
pratiche educative

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014). Psicologia


generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 10
LA SECONDA
INFANZIA: LO
SVILUPPO DEL
SENSO MORALE
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum La seconda infanzia: Lo
sviluppo del senso morale

Indice

1. I FONDAMENTI COMPORTAMENTALI DELLA


MORALITÀ ..................................................................................... 3

2. EMPATIA E SENSO DI COLPA ................................................. 5

3. DISCIPLINA E STILI GENITORIALI ....................................... 8

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 11

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 2 di 11
Universitas Mercatorum La seconda infanzia: Lo
sviluppo del senso morale

1. I FONDAMENTI COMPORTAMENTALI DELLA


MORALITÀ

Man mano che crescono, i bambini acquisiscono una sempre


maggiore capacità di movimento e di azione nel loro ambiente fisico e
sociale. Per Erikson (uno psicologo di cui abbiamo già parlato nelle
lezioni precedenti), il periodo che va dai 2 ai 12 anni può essere
suddiviso in tre stadi successivi, in cui il bambino acquisisce autonomia
(capacità di autocontrollo), iniziativa (volontà di iniziare le azioni
spontaneamente) e industriosità (competenza nell’esecuzioni dei
compiti). Questo psicologo sottolineò anche come le maggiori possibilità
di azione dei bambini li portino spesso ad entrare in conflitto con i
caregiver (le persone che li accudiscono). Secondo la sua teoria, il modo
in cui gli adulti rispondono alle azioni dei bambini, e quindi il modo in
cui essi risolvono i conflitti, influenza in maniera determinante lo
sviluppo sociale del bambino. Se l’interazione è positiva, i bambini
possono sviluppare la capacità di comportarsi in modo appropriato (con
fiducia in sé stessi), con effetti soddisfacenti sia per sé che per gli altri.
In senso generale, una persona si può definire psicologicamente
sana e dotata di senso morale se risponde in modo appropriato ai
bisogni degli altri, senza tuttavia sacrificare sé stessa. Molte ricerche
hanno cercato di studiare l’influenza che l’interazione con gli adulti che
lo accudiscono produce sullo sviluppo morale del bambino durante la
seconda infanzia. Queste ricerche hanno confermato il ruolo essenziale
del feedback fornito dai genitori; tuttavia, esse suggeriscono anche che
i bambini sono agenti attivi del loro sviluppo morale e sociale: infatti,
essi presentano alcune tendenze innate che sembrano essere state

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 3 di 11
Universitas Mercatorum La seconda infanzia: Lo
sviluppo del senso morale

forgiate dalla selezione naturale in modo da favorire lo sviluppo del


bambino in un individuo dotato di senso sociale e di moralità.
In particolare, verso la fine del primo anno di vita i bambini
cominciano, senza nessun incoraggiamento, a dare oggetti agli adulti
che li accudiscono e a divertirsi con giochi di dare-e-prendere. In un
esperimento condotto negli Stati Uniti, praticamente tutti i 100
bambini esaminati (tra 12 e 18 mesi di vita) diedero spontaneamente
un giocattolo ad un adulto nel corso di una breve sessione sperimentale
(Hay & Murray, 1982). Cosa notevole, le persone a cui venivano dati gli
oggetti non erano solo la madre o il padre, ma anche persone con cui il
bambino non aveva alcuna familiarità (ad esempio, il ricercatore), e il
gesto si verificava anche quando l’adulto non faceva alcuna esplicita
richiesta dell’oggetto. In effetti, l’atto del dare è stato osservato in tutte
le società umane: nelle società di cacciatori-raccoglitori (come quella dei
!Kung), l’acquisizione di questi gesti di dono sono trattati come una
tappa fondamentale nello sviluppo del bambino – probabilmente
perché in questi popoli la condivisione del cibo e dei mezzi di
sostentamento è fondamentale per la sopravvivenza individuale e
dell’intero gruppo.
Oltre che nell’atto del dare, i bambini piccoli trovano piacere
anche nell’atto di aiutare gli adulti. In uno studio, si è visto che bambini
tra 18 e 30 mesi spesso si univano alla madre (la quale non ne faceva
alcuna richiesta esplicita) nello svolgere lavori domestici come rifare i
letti, apparecchiare la tavola e piegare la biancheria (Rheingold, 1982).
La presenza e la frequenza di questi comportamenti spontanei
suggeriscono che nella nostra specie si sono evolute pulsioni prosociali
le quali ci motivano a impegnarci in interazioni positive con le altre
persone, senza procurarci alcuna sensazione di sacrificio e senza
apparente bisogno di ricompensa.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 4 di 11
Universitas Mercatorum La seconda infanzia: Lo
sviluppo del senso morale

2. EMPATIA E SENSO DI COLPA

I comportamenti del dare e dell’aiutare diventano sempre più


frequenti man mano che si associano ad un’altra capacità innata del
bambino, l’empatia, ovvero la capacità di sentire e provare le stesse
emozioni che un’altra persona sta provando. Tra le prime dimostrazioni
di questa capacità, è stato ripetutamente osservato che bambini di
appena 2-3 giorni manifestano comportamenti di pianto riflesso e segni
di disagio in risposta al pianto di un altro bambino (Hoffman, 2000).
Analogamente, bambini poco più grandi (di 6 mesi) rivolgono la loro
attenzione al bambino che sta piangendo, assumono espressioni tristi
e iniziano a piagnucolare. Secondo Hoffman, questi comportamenti
costituiscono la base su cui si sviluppa l’empatia.

Figura 1. Risposta empatica di un bambino di 2 anni.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 5 di 11
Universitas Mercatorum La seconda infanzia: Lo
sviluppo del senso morale

All’inizio, è verosimile ritenere che il disagio provato dal


bambino in risposta alla sofferenza altrui rappresenti una forma di
empatia egocentrica: il bambino cerca conforto per sé, piuttosto che per
l’altra persona. Tuttavia, a partire dai 15 mesi, i bambini iniziano a
rispondere al disagio di un altro bambino o di un adulto cercando di
confortare in maniera attiva l’altra persona. La Figura 1 illustra una
sequenza di questo tipo in cui un bambino di 2 anni vede la mamma
mentre simula un’espressione di tristezza (a); la esamina più da vicino
(b); cerca di confortarla dandole un pupazzo (c); e infine la abbraccia
emettendo suoni e parole di consolazione (d) (Zhan-Waxler & Radke-
Yarrow, 1990). Naturalmente, i bambini si trovano spesso nella
situazione di coloro che ricevono aiuto e conforto dagli altri, per cui
hanno molte opportunità per osservare questi comportamenti e per
provarne gli effetti piacevoli e rassicuranti. Da questo punto di vista,
non sorprende che i bambini che hanno ricevuto cure più sensibili dai
genitori e hanno sviluppato un attaccamento più sicuro sono in media
più propensi ad aiutare gli altri e a mostrare comportamenti empatici
(Bretherton et al., 1997).
Come tutti i genitori sanno, i bambini piccoli non sono sempre
propensi a dare, ad aiutare e a confortare gli altri. In effetti, tra i 2 e i
3 anni di età, i bambini mostrano spesso comportamenti egoistici e
atteggiamenti di sfida nei confronti dell’autorità, e possono arrivare a
fare del male alle persone che hanno intorno. Un passaggio evolutivo
importante, che serve a temperare i comportamenti egoistici di questa
fase e agisce da potente forza propulsiva dello sviluppo morale, è il
graduale emergere della capacità di provare il senso di colpa. Molti
psicologi ritengono che il senso di colpa sia un sentimento negativo
derivante da interazioni problematiche tra il bambino e i suoi
caregiver: ciò è in parte vero, soprattutto quando i bambini arrivano a

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 6 di 11
Universitas Mercatorum La seconda infanzia: Lo
sviluppo del senso morale

sentirsi in colpa per eventi che sono al di fuori del loro controllo.
Tuttavia, Hoffman (1998) distingue tra un senso di colpa basato
sull’ansia (che può in effetti essere dannoso per lo sviluppo) e un senso
di colpa basato sull’empatia (che può essere invece costruttivo per lo
sviluppo). Il senso di colpa basato sull’empatia emerge dalla capacità
di sentire empaticamente, abbinato alla crescente comprensione della
relazione tra le proprie azioni e i sentimenti degli altri. Così, un
bambino che è in grado di capire che il dolore altrui può essere
provocato dalle proprie azioni sarà probabilmente più in grado di
contenere i propri comportamenti aggressivi ed egoistici – rispetto ad
un bambino che non ha ancora sviluppato tale comprensione. In
accordo con questa ipotesi, gli studi indicano che la frequenza con cui i
bambini mostrano un senso di colpa quando rompono qualcosa o fanno
del male a qualcuno correla positivamente con uno stile genitoriale
sensibile e un attaccamento sicuro (Kochanska et al., 2002).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 7 di 11
Universitas Mercatorum La seconda infanzia: Lo
sviluppo del senso morale

3. DISCIPLINA E STILI GENITORIALI

Con il termine ‘disciplina’ si intende l’insieme dei metodi di cui i


caregiver si servono per correggere un comportamento sbagliato del
bambino. Molte interazioni tra genitori e figli hanno a che fare con la
disciplina, e gran parte della controversia su cosa rappresenti uno stile
genitoriale buono o cattivo ruota sui modi co i quali viene esercitata la
disciplina.
Hoffman (2000) ha classificato i metodi adottati dai genitori per
imporre la disciplina in tre diverse tipologie. Il primo tipo è la
cosiddetta induzione, la quale utilizza il ragionamento verbale per
indurre il bambino a riflettere sulle possibili conseguenze negative
delle sue azioni e ad assumere il punto di vista dell’altra persona.
Questo metodo fa evidentemente leva sulla capacità del bambino di
provare il senso di colpa basato sull’empatia (concetto illustrato nel
paragrafo precedente). Secondo Hoffman, l’induzione aiuta il bambino
a sviluppare un suo personale insieme di principi morali, tali da
favorire il buon comportamento del bambino anche in assenza dei
caregiver o di altre figure che rappresentano l’autorità. Il secondo stile
è definito affermazione del potere: esso consiste nel frequente ricorso
da parte del genitore alla forza fisica, o a punizioni e ricompense, per
controllare il comportamento del bambino in modo coercitivo. Per
Hoffman, questo metodo può avere effetti dannosi, in quanto concentra
l’attenzione del bambino sulla punizione o sulla ricompensa, piuttosto
che sulle ragioni che rendono un comportamento sbagliato. Infatti, un
bambino educato in questo modo può comportarsi bene solo quando
qualcuno può notarlo e ricompensarlo, e invece continuare a mostrare
i comportamenti più negativi quando pensa di non poter essere

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 8 di 11
Universitas Mercatorum La seconda infanzia: Lo
sviluppo del senso morale

scoperto. Infine, un terzo stile di esercizio della disciplina, anch’esso


dannoso, è il cosiddetto rifiuto dell’affetto, attraverso il quale il genitore
esprime disapprovazione nei confronti del bambino (piuttosto che del
cattivo comportamento). La disapprovazione può assumere la forma di
affermazioni verbali («Sei un buono a nulla») oppure di azioni (ignorare
freddamente il bambino). Secondo Hoffman, questo stile può evocare
nel bambino emozioni negative (rabbia o ansia), le quali interferiscono
con la capacità di provare empatia e di utilizzare questa esperienza per
la propria crescita morale. Inoltre, le emozioni negative possono
indebolire la relazione genitore-figlio e provocare ulteriori
comportamenti sbagliati.
In accordo con le previsioni ricavabili dalla teoria di Hoffman,
molte ricerche hanno rilevato correlazioni tra lo stile educativo dei
genitori e il comportamento dei figli. Una delle prime ricerche in questo
senso fu condotta da Baumrind (1967, 1971), la quale analizzò il
comportamento di bambini piccoli a casa e all’asilo e valutò lo stile
educativo dei genitori attraverso interviste e osservazioni dirette
nell’ambiente domestico. Sulla base di queste valutazioni, la studiosa
classificò i genitori in tre diversi tipi:

 il tipo autoritario, il quale fa largo uso delle punizioni e


della forza fisica come mezzi per controllare il
comportamento dei figli;
 il tipo autorevole, il quale fa largo uso dell’induzione e dà
molta importanza al fatto che i figli apprendano dei
principi morali di base;
 e il tipo permissivo, il quale è eccessivamente tollerante
verso i comportamenti sbagliati dei figli ed è incapace di
imporre la disciplina.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 9 di 11
Universitas Mercatorum La seconda infanzia: Lo
sviluppo del senso morale

Come ci si attendeva, i risultati mostrarono che i figli dei genitori


autorevoli presentavano i comportamenti più positivi: essi erano più
amichevoli e cooperativi, e meno propensi a disturbare gli altri, rispetto
ai figli dei genitori che seguivano gli altri due stili educativi.
Altre prove a favore dell’ipotesi che lo stile educatuivo dei
genitori influenza lo sviluppo sociale e morale dei bambini sono venuti
da studi che hanno modificato i comportamenti dei genitori attraverso
uno specifico addestramento (Fargatch & DeGarmo, 1999). Uno di
questi esperimenti ha preso in considerazione donne divorziate da poco
con bambini di età compresa tra 6 e 8 anni. Metà delle madri furono
assegnate al gruppo sperimentale e addestrate a esercitare la
disciplina con metodi gentili ma fermi; l’altra metà fu assegnata al
gruppo di controllo e non ricevettero alcun addestramento. Valutazioni
condotte un anno più tardi dimostrarono che i bambini delle madri
addestrate mostrarono una migliore relazione con la madre, riferivano
di essere più felici ed erano giudicati più socievoli e cooperativi dagli
insegnanti, rispetto ai bambini delle madri non addestrate.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 10 di 11
Universitas Mercatorum La seconda infanzia: Lo
sviluppo del senso morale

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

Pag. 11 di 11
LA SECONDA
INFANZIA: GIOCO E
IDENTITÀ DI
GENERE
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum La seconda infanzia:
gioco e identità di genere

Indice

1. ATTACCAMENTO, GENETICA E QUALITÀ DELLE CURE


NEI NIDI D’INFANZIA ............................................................... 3

2. DIFFERENZE DI GENERE NELL’INTERAZIONE CON I


CAREGIVER................................................................................. 7

3. IDENTITÀ DI GENERE ED EFFETTI SUL


COMPORTAMENTO DEI BAMBINI ..................................... 10

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 13

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 2 di 13
Universitas Mercatorum La seconda infanzia:
gioco e identità di genere

1. ATTACCAMENTO, GENETICA E QUALITÀ DELLE


CURE NEI NIDI D ’INFANZIA

I genitori hanno un ruolo importante nello sviluppo sociale dei


bambini, ma altrettanto importanti sono i coetanei. Nella maggior
parte delle culture studiate, i bambini di età superiore ai 4-5 anni
trascorrono molte più ore della giornata con altri bambini che con
adulti (Whiting & Edwards, 1988). Dal punto di vista evolutivo, il fatto
che il centro dell’attenzione dei bambini siano soprattutto i coetanei ha
perfettamente senso, in quanto è da questo gruppo di persone (e non da
quello dei genitori) che verranno i futuri partner coinvolti più
direttamente con loro nelle attività riguardanti la sopravvivenza e la
riproduzione.
In effetti, il mondo sociale dei bambini è ed è sempre stato
composto in larga parte da altri bambini ed essi dedicano al gioco gran
parte del tempo che trascorrono con i coetanei. I bambini giocano ogni
volta che ne hanno la possibilità e il loro gioco presenta forme e
caratteristiche universali (Konner, 1975). Inoltre, in tutte le culture
esaminate finora, i bambini tendono a separarsi nei loro giochi a
seconda del genere: i maschi tendono a giocare con i maschi, le femmine
con le femmine; attraverso il gioco con coetanei dello stesso sesso, i
bambini sviluppano le abilità e gli atteggiamenti specifici del loro
genere nella cultura di appartenenza.
In una lezione precedente si è visto come nei mammiferi, il gioco
permetta ai piccoli di acquisire le abilità di cui avranno bisogno in
seguito, nella vita da adulti (essi giocano spesso a rincorrersi e a darsi
la caccia, o ad accudire i cuccioli). Per molti versi, il gioco dei bambini
è simile a quello dei mammiferi e assolve funzioni analoghe: il

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 3 di 13
Universitas Mercatorum La seconda infanzia:
gioco e identità di genere

rincorrersi e il giocare a prendersi sono attività universali che


sviluppano la resistenza fisica e l’agilità. Un altro gioco umano
universale è quello di far finta di accudire un piccolo (spesso con
bambole o altri sostituti) e il fare la lotta; inoltre, in tutte le culture, il
primo gioco è più frequente tra le femmine, mentre il secondo è più
frequente tra i maschi [Eibl-Eibesfeldt, 1989]. Altre forme universali
del gioco nella nostra specie aiutano i bambini ad acquisire abilità
tipicamente umane (Power, 2000). Così, ovunque nel mondo i bambini
diventano bravi a creare con le mani attraverso giochi in cui si
costruisce qualcosa, si impratichiscono nell’uso del linguaggio
attraverso giochi di parole, ed esercitano l’immaginazione mediante
giochi di finzione.
In uno studio condotto su due villaggi messicani, lo psicologo
Douglas Fry (1992) ha dimostrato che il gioco infantile riflette in modo
fedele i valori e le abilità proprie della specifica cultura di
appartenenza, e può contribuire a trasmetterle. I dati ottenuti in
questa ricerca suggeriscono che nelle culture in cui i bambini hanno la
possibilità di osservare direttamente gli adulti mentre sono impegnati
a svolgere le attività necessarie al sostentamento, i giochi si incentrano
con maggiore frequenza su tali attività. In accordo con questa ipotesi,
Fry (1992) trovò che, in un villaggio in cui i bambini potevano osservare
spesso i genitori arrivare alle mani durante una lite o in cui gli adulti
parlavano spesso di risse e di delitti, la frequenza dei giochi di lotta nei
bambini era tripla rispetto ad un villaggio in cui la violenza era molto
meno diffusa (Fry, 1992). In sostanza, quando in una cultura la lotta è
un elemento comune, i bambini sembrano apprendere in maniera
intuitiva che si tratta di un’attività importante, da praticare spesso
anche per gioco.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 4 di 13
Universitas Mercatorum La seconda infanzia:
gioco e identità di genere

Oltre ad impratichirsi nelle abilità specie-specifiche, il gioco


serve anche ad acquisire una comprensione più profonda delle regole e
dei ruoli sociali, e un maggiore autocontrollo. Sia Piaget che Vigotskij
hanno proposto teorie che vanno in questa direzione. Per Piaget (1932),
il gioco è un fattore fondamentale per lo sviluppo morale del bambino.
Infatti, in assenza di adulti, i bambini risolvono le dispute discutendo
a fondo dei punti su cui sono in disaccordo: così facendo, arrivano a
concepire delle regole di comportamento fondate sulla razionalità
(piuttosto che sull’autorità). Dati a favore di questa ipotesi sono stati
riportati da Ann Kruger (1992), la quale trovò che i bambini compivano
i maggiori progressi nel ragionamento morale se avevano avuto la
possibilità di discutere certi dilemmi sociali con i coetanei, piuttosto che
con i genitori. La differenza era in larga parte dovuta al fatto che nelle
discussioni con i coetanei i bambini si impegnavano con grande
attenzione e partecipazione, cosa che li portava a sviluppare
ragionamenti morali più sofisticati; al contrario, nelle discussioni con i
genitori, i bambini avevano perlopiù un atteggiamento passivo.
Per Vygotskij (1933), i bambini apprendono attraverso il gioco a
controllare i propri impulsi e a rispettare le regole e i ruoli concordati
con il gruppo – un’abilità che sarà in seguito cruciale in tutte le future
interazioni sociali. Secondo questo psicologo, il gioco si sarebbe evoluto
principalmente come mezzo per esercitare l’autodisciplina necessaria
per attenersi alle regole sociali. In effetti, il gioco dei bambini non è
completamente libero; piuttosto, esso è spesso definito da regole che
definiscono in modo preciso il tipo di azioni consentite a ciascun
partecipante. Ciò significa che durante il gioco i bambini devono spesso
reprimere i loro impulsi spontanei e comportarsi in conformità con le
regole stabilite dal gruppo. In accordo con questa ipotesi, la maggior
parte delle ricerche condotte su questo argomento indicano che i

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 5 di 13
Universitas Mercatorum La seconda infanzia:
gioco e identità di genere

bambini pongono molto impegno nello stabilire e nel far rispettare le


regole nel gioco di finzione (Furth, 1996), e i bambini che non le
rispettano sono subito ripresi dagli altri bambini, che ricordano loro
cosa dovrebbero fare. Inoltre, numerosi studi hanno riscontrato
correlazioni positive tra il tempo dedicato al gioco di finzione e la
valutazione sperimentale della competenza sociale e dell’autocontrollo
dei bambini (Elias & Berk, 2002).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 6 di 13
Universitas Mercatorum La seconda infanzia:
gioco e identità di genere

2. DIFFERENZE DI GENERE NELL’INTERAZIONE


CON I CAREGIVER

In tutte le culture esaminate, i comportamenti dei maschi e delle


femmine differiscono spesso in misura notevole, e molti studi hanno
cercato di esaminato i fattori che determinano le differenze di genere
nello sviluppo sociale dei bambini. Nelle ricerche psicologiche, il
termine ‘sesso’ viene di solito utilizzato per riferirsi alle differenze
biologiche che distinguono maschi e femmine, mentre il termine
‘genere’ fa riferimento all’intero complesso delle differenze ascrivibili a
maschi e femmine, le quali sono variabili da cultura a cultura (Deaux,
1985). Infatti, già la psicologa Margaret Mead (1935) sottolineava il
fatto che le differenze di genere sono fortemente influenzate, oltre che
dalle differenze biologiche e ormonali, anche e soprattutto dai modelli
e dalle attese di una determinata cultura, le quali riguardano i tratti,
le attività e i comportamenti che sono considerati tipici delle femmine
o dei maschi.
Le ricerche condotte in questo ambito dimostrano che, fin da
piccolissimi, maschi e femmine si comportano in modo molto diverso
tra loro. Subito dopo la nascita, i maschi sono più irritabili e meno
reattivi alle voci e ai volti degli adulti che li accudiscono rispetto alle
femmine di pari età (Hittelman & Dickes, 1979). A 6 mesi, i maschi si
agitano di più e mostrano espressioni di rabbia più intense se costretti
a stare seduti su un seggiolino per lungo tempo; all’incirca alla stessa
età, le femmine mostrano più interesse nell’interagire con la madre e
sono più pronte a soddisfare le sue richieste (Weinberg et al., 1999). A
17 mesi, i maschi mostrano un’aggressività fisica maggiore rispetto a
quella riscontrata nelle femmine (Baillargeon et al., 2007).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 7 di 13
Universitas Mercatorum La seconda infanzia:
gioco e identità di genere

Se queste differenze precoci possono, in linea teorica, essere


attribuite a differenze biologiche tra i due sessi, è d’altra parte
altrettanto vero che genitori e gli adulti si comportano con i maschi e le
femmine in modo molto diverso. In generale, gli studi suggeriscono che
gli adulti tendono a mostrarsi più delicati con le femmine, a parlare di
più con le bambine e a giocare in modo più rude con i maschi (Maccoby,
1998). È verosimile ritenere che queste differenze riflettano le
aspettative degli adulti, indipendentemente dal comportamento e dalle
tendenze innate dei bambini. Infatti, uno studio ha dimostrato che le
madri tendevano ad avere un’interazione più stretta e a conversare più
intensamente con le figlie femmine che non con i figli maschi, benché i
ricercatori non siano stati in grado di individuare differenze nel
comportamento o nel temperamento dei bambini (Clearfield & Nelson,
2006)
Altre ricerche suggeriscono che, indipendentemente dall’età dei
bambini, gli adulti si dimostrano più pronti a confortare e ad aiutare le
femmine che non i maschi, e tendono ad aspettarsi che i maschi
risolvano i problemi da soli più spesso rispetto alle femmine. Alcuni
studiosi hanno avanzato l’ipotesi che il trattamento più affettuoso
riservato alle femmine e invece la maggiore aspettativa di autonomia
nei confronti dei maschi possano portare le bambine a diventare più
affettuose e socievoli, e i maschi ad essere più autonomi di quanto non
sarebbero se ricevessero un trattamento diverso (MacDonald, 1992).
Oltre ad influenzarne il comportamento, è possibile che le
convinzioni degli adulti sulle differenze di abilità tra maschi e femmine
possono arrivare ad influenzare la scelta della professione delle
persone.
In particolare, genitori e insegnanti spesso si rivelano convinti
che la matematica e le scienze risultino più difficili e meno interessanti

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 8 di 13
Universitas Mercatorum La seconda infanzia:
gioco e identità di genere

per le femmine che per i maschi. Queste diverse aspettative


influenzano il modo in cui gli adulti parlano di matematica e scienza
con i bambini. Infatti, uno studio condotto in un museo della scienza ha
riscontrato che i genitori erano più propensi a dare spiegazioni sugli
strumenti esposti e sui principi sottostanti al loro funzionamento ai
figli maschi che non alle figlie femmine (Crowley et al., 2001). Ciò si
verificava a dispetto del fatto che misurazioni oggettive non furono in
grado di trovare alcuna evidenza che i maschi avessero un interesse
maggiore delle femmine per gli strumenti esposti e il loro
funzionamento. In linea teorica, queste differenze potrebbero spiegare
il motivo per cui i maschi intraprendono una carriera nelle scienze
fisiche più spesso rispetto alle femmine.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 9 di 13
Universitas Mercatorum La seconda infanzia:
gioco e identità di genere

3. IDENTITÀ DI GENERE ED EFFETTI SUL


COMPORTAMENTO DEI BAMBINI

Lo sviluppo dell’identità di genere può essere influenzato dal


trattamento ricevuto dai genitori e dagli adulti. Tuttavia, i dati
disponibili indicano che i bambini sono parte attiva nel modellare i
propri comportamenti in modo da conformarli ai concetti di maschio e
femmina tipici della loro cultura di appartenenza. Già a 4-5 anni, i
bambini hanno ben chiari gli stereotipi dei ruoli sessuali nella loro
cultura (Martin & Ruble, 2004): essi sono ben consci di appartenere ad
uno specifico genere e che ciò resterà immutato per tutta la vita. Questa
consapevolezza viene indicata col termine ‘identità di genere’
(Kohlberg, 1996).
Una volta acquisita tale consapevolezza, i bambini si mostrano
fortemente interessati a proiettare all’esterno un’immagine di sé
sempre più definita in termini maschili e femminili. Essi osservano
attentamente le persone dello stesso sesso e modellano su di esse i loro
comportamenti, spesso esagerando le differenze maschio-femmina. Dal
punto di vista biologico, il genere non è un concetto arbitrario, ma è
l’espressione dell’appartenenza a uno dei due sessi, a sua volta
associata alla riproduzione. È quindi probabile che questa tendenza a
proiettare all’esterno un’immagine di sé fortemente connotata in
termini maschili o femminili si sia evoluta come mezzo per affermare
attivamente l’appartenenza ad uno specifico sesso: comportandosi
sempre più da maschi o da femmine, i bambini comunicano che stanno
per diventare uomini o donne mature.
In tutte le culture studiate finora, i bambini tendono a giocare
con altri bambini dello stesso sesso. Questa preferenza si osserva già in

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 10 di 13
Universitas Mercatorum La seconda infanzia:
gioco e identità di genere

bambini di 3 anni (Maccoby & Jacklin, 1987), ma la segregazione di


genere raggiunge il picco tra gli 8 e gli 11 anni (Gray & Feldman, 1997).
Nei loro gruppi di gioco separati, i maschi tendono a praticare quelle
attività che sono ritenute più ‘maschili’ nella loro cultura, mentre le
femmine praticano le attività ritenute più ‘femminili’. Inoltre, i
bambini tra 8 e 11 anni spesso rafforzano tale segregazione mettendo
in ridicolo coloro che violano la linea di separazione tra i generi: questo
effetto è fortemente asimmetrico, in quanto un maschio che gioca con
le femmine ha maggiori probabilità di essere deriso e attaccato, rispetto
ad un femmina che mostra comportamenti maschili. In effetti, le
bambine che preferiscono giocare con i maschi sono chiamate
“maschiacci”, ma mantengono intatta la loro popolarità fra i bambini
di entrambi i sessi. Al contrario, i maschi che preferiscono giocare con
le femmine sono additati con termini quali “donnicciola” o
“femminuccia” e tendono ad essere esclusi dal gruppo dei coetanei.
Questo stereotipo è così diffuso nella nostra cultura che persino gli
adulti esprimono più preoccupazione per un maschio che adotta
comportamenti effeminati che non per una femmina che abbia modi di
fare mascolini (Martin, 1990).
Oltre a giocare in gruppi separati, maschi e femmine tendono a
farlo in modi così diversi tra loro che alcuni sociologi considerano i
gruppi separati di maschi e di femmine come due sottoculture distinte,
ciascuna con un proprio sistema di valori in grado di indirizzare i propri
appartenenti su linee di sviluppo e di comportamento differenti
(Maccoby, 1998, 2002). Il mondo dei maschi è stato descritto come un
insieme di gruppi abbastanza numerosi organizzati secondo una
precisa gerarchia, in cui singoli o coalizioni di più individui si sforzano
di provare la propria superiorità attraverso giochi di natura
competitiva. Al contrario, il mondo delle femmine è stato descritto come

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 11 di 13
Universitas Mercatorum La seconda infanzia:
gioco e identità di genere

un insieme di gruppi più piccoli dove i rapporti sono improntati a


maggiore intimità e dove predominano forme di gioco cooperative.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 12 di 13
Universitas Mercatorum La seconda infanzia:
gioco e identità di genere

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 13 di 13
L’ADOLESCENZA:
L’USCITA DAL
BOZZOLO
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum L’adolescenza:
l’uscita dal bozzolo

Indice

1. L’ADOLESCENZA COME TRANSIZIONE GRADUALE


VERSO IL MONDO ADULTO ..................................................... 3

2. L’ADOLESCENZA COME TRANSIZIONE GRADUALE


VERSO IL MONDO ADULTO ..................................................... 5

3. INCREMENTO DEI COMPORTAMENTI


DELINQUENZIALI NEGLI ADOLESCENTI ........................... 8

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 12

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 2 di 12
Universitas Mercatorum L’adolescenza:
l’uscita dal bozzolo

1. L’ADOLESCENZA COME TRANSIZIONE


GRADUALE VERSO IL MONDO ADULTO

L’adolescenza rappresenta il periodo di transizione dall’infanzia


all’età adulta; ha inizio con le trasformazioni fisiche tipiche della
pubertà e termina nel momento in cui la persona viene ritenuta, da sé
stessa e dagli altri, un membro effettivo della comunità di adulti. Così
definita, nella cultura occidentale l’adolescenza inizia prima e finisce
più tardi di quanto non avvenisse in passato.
Tra i cambiamenti fisici più importanti che caratterizzano la
pubertà vi sono una rapida crescita in altezza e i cambiamenti nel corpo
e negli organi sessuali, i quali maturano raggiungendo la piena
capacità riproduttiva. Attualmente, in Europa e nel Nord America, la
pubertà inizia verso i 10 anni nelle femmine e verso i 12 anni nei
maschi; tuttavia, all’incirca 125 anni fa, essa era spostata in avanti di
circa 4 anni, sia per i maschi che per le femmine (Eveleth & Tanner,
1990). Analogamente, nelle civiltà industrializzate, il menarca (ovvero
la prima mestruazione) compare fra 12 e 13 anni, mentre nel XIX secolo
si verificava tra 16 e 17 anni (Worthman, 1999). Si ritiene che questa
anticipazione del menarca nella civiltà occidentale sia dovuta in gran
parte alla maggiore alimentazione e alla minore incidenza di malattie.
Nelle società preindustriali, in cui i ruoli adulti chiaramente
definiti e vengono appresi attraverso il diretto coinvolgimento del
bambino nel mondo adulto, la transizione dalla pubertà all’età adulta
coincide con le prime trasformazioni fisiche e viene spesso riconosciuta
ufficialmente e celebrata con riti iniziatici o cerimonie particolari. Nelle
culture occidentali, invece, l’ingresso nell’età adulta avviene
gradualmente e non è segnato da nessun evento particolare; infatti, le

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 3 di 12
Universitas Mercatorum L’adolescenza:
l’uscita dal bozzolo

leggi distribuiscono diritti e responsabilità degli adulti su un vasto arco


di tempo, in modo incoerente. Ad esempio, negli USA, l’età minima per
il rilascio della patente di guida è 16 anni, per arruolarsi come militare
è 17 anni, per l’esercizio del diritto di voto è 18 anni, mentre per
l’acquisto di alcolici è 21 anni. Sempre negli USA, l’età minima per
sposarsi varia tra 13 e 21 anni, a seconda dello stato di residenza.
A questo proposito, risulta particolarmente rilevante il fatto che,
nella culture occidentali, l’età in cui si intraprende una carriera
professionale o si forma una propria famiglia (due eventi che spesso
segnano l’ingresso dell’individuo nell’età adulta) è molto variabile.
Negli USA, l’età media in cui ci si sposa è intorno ai 28 anni; in Italia,
l’età media di uscita di casa dei genitori è di circa 30 anni, contro una
media europea di 26 anni (ma in alcuni paesi, come la Svezia e la
Finlandia, scende fino a 20-21 anni). Questo dato è in continua crescita,
in quanto, nel 2015, circa il 65.4% dei giovani italiani tra 18 e 34 anni
ha dichiarato di vivere ancora con i genitori.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 4 di 12
Universitas Mercatorum L’adolescenza:
l’uscita dal bozzolo

2. L’ADOLESCENZA COME TRANSIZIONE


GRADUALE VERSO IL MONDO ADULTO

Secondo Erikson (1968), l’adolescenza corrisponde allo stadio


della crisi d’identità, in cui l’individuo deve abbandonare l’identità
della fanciullezza e costruire una nuova identità (che comprenda i suoi
orientamenti professionali e un preciso sistema di valori) appropriata
all’ingresso nell’età adulta. Oggi, molti psicologi dello sviluppo non
concordano con l’idea che la ricerca di una propria identità debba
necessariamente implicare una ‘crisi’, ma la maggior parte di loro sono
d’accordo che essa implichi una notevole dose di conflittualità.
In effetti, l’adolescenza viene spesso dipinta come un periodo di
aperta ribellione contro i genitori: tuttavia, questa ribellione ha
raramente il carattere di un rifiuto totale. Molte ricerche basate su
sondaggi indicano che la maggioranza degli adolescenti ammira i
propri genitori, ne accetta le convinzioni politiche e religiose, e dichiara
di avere con loro una relazione più o meno tranquilla (Steinberg, 2001).
L’atteggiamento di ribellione, quando è presente, è rivolto
specificamente contro alcuni mezzi adottati dai genitori allo scopo di
controllare il comportamento dei ragazzi. Nel momento in cui i figli
cominciano a chiedere di essere trattati da adulti, i genitori possono
essere spaventati dai nuovi pericoli associati all’adolescenza e all’inizio
della vita adulta (i rapporti sessuali, l’uso di droghe e alcol, l’uso
dell’automobile), per cui cercano di esercitare un controllo ancora più
stretto sull’adolescente, anziché allentarlo. Questi comportamenti
possono sfociare in un elevato livello di conflittualità con i genitori che,
per la maggioranza dei giovani, raggiunge il picco nei primi anni
dell’adolescenza e coincide con i cambiamenti fisici conseguenti

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 5 di 12
Universitas Mercatorum L’adolescenza:
l’uscita dal bozzolo

all’entrata nella fase della pubertà: infatti, già vero i 16-17 anni, la
maggior parte degli adolescenti dichiara di aver raggiunto un equilibrio
ottimale tra dipendenza e indipendenza.
L’adolescenza è il periodo in cui i giovani cominciano a
sviluppare un senso di indipendenza dai genitori ed iniziano a
rivolgersi sempre di più ai coetanei per trovare supporto emotivo. In
uno studio, i ricercatori hanno trovato che i bambini di quarta
elementare indicavano i genitori come sostegno emotivo, i ragazzi di
seconda media davano uguale importanza ai genitori e agli amici,
mentre gli studenti di seconda superiore assegnavano agli amici il ruolo
prominente di supporto emotivo (Furman & Buhrmester, 1992). Alla
domanda su quale significato abbia per loro l’amicizia, gli adolescenti
parlano quasi sempre di condivisione di pensieri, sentimenti e segreti,
mentre i bambini più piccoli parlano di condivisione di giochi o altri
oggetti materiali (Damon & Hart, 1992).
Un’altra tendenza tipica dell’adolescenza consiste nel cercare di
assomigliare il più possibile ai loro coetanei sia nell’aspetto che nel
comportamento. Studi basati su autovalutazioni indicano che questa
tendenza raggiunge il picco tra 10 e 14 anni, dopo di che inizia
gradualmente a diminuire (Steinberg & Monahan, 2007). In effetti,
numerose ricerche hanno dimostrato che gli adolescenti che
appartengono allo stesso gruppo di amici tendono ad essere più simili
tra loro rispetto agli adolescenti di altre compagnie, specialmente in
relazione alla frequenza di comportamenti a rischio (il fumo, il bere,
l’uso di droghe e la promiscuità sessuale) (Curran et al., 1997; Jaccard
et al., 2005). Questa somiglianza è in parte il frutto di una scelta,
piuttosto che di semplice conformismo: infatti, le persone tendono a
scegliere amici con interessi e comportamenti simili ai propri.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 6 di 12
Universitas Mercatorum L’adolescenza:
l’uscita dal bozzolo

Gli anni dell’adolescenza sono, a ragione, quelli in cui i genitori


sono maggiormente preoccupati dei possibili effetti negativi dovuti alla
pressione esercitata dai coetanei sui propri figli. Infatti, i genitori
occidentali tendono a sottolineare le influenze negative che derivano
dalla frequentazione dei coetanei. Al contrario, quando si pongono agli
adolescenti domande dirette su questo tema, essi parlano
prevalentemente di influenze positive: per esempio, parlano
dell’incoraggiamento ad evitare comportamenti dannosi per la salute e
di come i coetanei rappresentino spesso uno stimolo ad impegnarsi in
comportamenti positivi (Steinberg, 2008). In altre culture, i genitori
non manifestano queste stesse preoccupazioni. Per esempio, in Cina
l’influenza dei coetanei è valutata positivamente sia dai ragazzi che da
genitori ed educatori (Chen, 2003). In questo paese, gli adolescenti
attribuiscono grande valore ai buoni risultati scolastici e hanno
l’abitudine di svolgere i compiti insieme, agendo da stimolo reciproco
ad andare bene a scuola. Negli USA, invece, questa azione di
incitamento da parte dei coetanei è piuttosto rara tra i ragazzi
(Steinberg, 1996).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 7 di 12
Universitas Mercatorum L’adolescenza:
l’uscita dal bozzolo

3. INCREMENTO DEI COMPORTAMENTI


DELINQUENZIALI NEGLI ADOLESCENTI

Le statistiche indicano che, in tutto il mondo, la probabilità di


mettere in atto comportamenti pericolosi o disturbanti è maggiore
durante l’adolescenza che in qualsiasi altro periodo della vita. In
particolare, nei paesi occidentali, l’incidenza di comportamenti quali il
furto, l’aggressione, l’omicidio, la guida pericolosa, il sesso non protetto,
e l’uso di droghe presenta un picco tra 15 e 25 anni (Archer, 2004;
Arnett, 2000; si veda la Figura 1). Inoltre, un dato che si riscontra in
tutte le culture studiate finora è che la frequenza dei comportamenti
spericolati e delinquenziali è molto più marcata tra gli adolescenti
maschi che tra le adolescenti femmine (Campbell, 1995).

Figura 1. Incidenza di vari tipi di comportamenti delinquenziali negli USA, in


funzione dell’età.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 8 di 12
Universitas Mercatorum L’adolescenza:
l’uscita dal bozzolo

Nel tentativo di comprendere le cause alla base dell’aumento dei


comportamenti violenti durante l’adolescenza, alcuni studiosi hanno
analizzato le differenze cognitive, motivazionali o cerebrali che
distinguono gli adolescenti dagli adulti. Nel complesso, questi studi
suggeriscono che gli adolescenti:

 hanno il mito dell’invulnerabilità: ovvero, la falsa


sensazione di essere protetti contro qualunque disgrazia o
malattia che possa capitare alle altre persone (Elkind,
1978);
 sono sempre a caccia di sensazioni: ovvero, amano l’ondata
di adrenalina che si associa al fatto di mettere in atto
comportamenti pericolosi;
 presentano maggiore irritabilità o aggressività, per cui
sono facile preda delle provocazioni;
 presentano un’immaturità dei centri di controllo inibitori
situati nel lobo frontale (Martin et al., 2004).

Tutte queste caratteristiche sono state confermate da studi


sperimentali. Tuttavia, non è chiaro il motivo per cui questi
comportamenti non sono stati eliminati dalla selezione naturale, visto
che in molti casi possono condurre anche alla morte. Una prima ipotesi
è stata avanzata da Terrie Moffitt (1993), secondo cui l’alto tasso di
delinquenza tra gli adolescenti sarebbe un effetto collaterale dell’inizio
precoce della pubertà e dell’ingresso ritardato nel mondo degli adulti,
due fenomeni che si verificano nella maggior parte delle civiltà
occidentali (si veda il primo paragrafo). In effetti, l’inizio prematuro
della pubertà è tipico delle civiltà industrializzate, in cui gli atti violenti
e criminosi commessi durante l’adolescenza sono molto più diffusi
rispetto a società tradizionali, in cui la pubertà giunge più tardi e i

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 9 di 12
Universitas Mercatorum L’adolescenza:
l’uscita dal bozzolo

giovani sono pienamente integrati nelle attività degli adulti. Secondo


questa studiosa, dopo la pubertà, che li rende biologicamente adulti, i
giovani si sentono motivati ad entrare nel mondo degli adulti in
qualunque modo abbiano la possibilità di farlo: il sesso, l’alcol e il
crimine sarebbero percepiti come attività da adulti che conferiscono
all’adolescente uno status simil-adulto. La teoria di Moffitt è sensata
ed in linea con il senso comune: tuttavia, essa non fornisce una
spiegazione plausibile per quelle attività rischiose (come viaggiare
abusivamente sui tetti dei treni della metropolitana negli USA) che non
hanno affatto il carattere di azioni da adulti e che tuttavia vengono
spesso messe in atto dagli adolescenti.
Una spiegazione per certi versi opposta a quella di Moffitt è stata
proposta da Judith Harris (1995), la quale ha ipotizzato che gli
adolescenti si impegnino in attività criminali e/o rischiose per
affermare la propria estraneità rispetto al mondo degli adulti, piuttosto
che per unirsi ad esso. Questa teoria parte dall’idea che ciò che
interessa maggiormente ai ragazzi non è l’accettazione da parte degli
adulti, quanto piuttosto quella da parte dei coetanei. Sia la Moffitt che
la Harris concordano sul fatto che una delle cause del comportamento
delinquenziale tipico dell’adolescenza sia da ricercarsi nella
segregazione tra adolescenti e adulti che si verifica tipicamente nelle
culture occidentali. Tuttavia, secondo la Harris, questa segregazione
non stimolerebbe l’adolescente a cercare nei comportamenti devianti
una via per entrare nel mondo degli adulti; piuttosto, essa favorirebbe
invece la formazione tra i giovani di sottoculture relativamente
impermeabili ai valori degli adulti, basate sulla violenza e
l’aggressività.
La teoria di Harris non può dare risposta al perché i giovani
maschi tendano a compiere azioni spericolate e apparentemente

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 10 di 12
Universitas Mercatorum L’adolescenza:
l’uscita dal bozzolo

insensate anche nelle società tradizionali e poco industrializzate, in cui


la segregazione tra gli adolescenti e gli adulti è molto meno marcata. A
questo proposito, Wilson e Daly (1985) hanno proposto una teoria
evoluzionistica che hanno definito ‘sindrome del giovane maschio’.
Questa proposta si basa sulla constatazione che, nei mammiferi, il
numero di figli generati dai maschi è strettamente connesso con lo
status sociale. Nella storia evolutiva della specie umana, è possibile che
i maschi che si esposero a rischi maggiori per raggiungere uno status
elevato abbiano generato, in media, più figli rispetto a coloro che non
lo fecero. In altre parole, nelle società primitive di cacciatori-
raccoglitori, la volontà di assumersi rischi maggiori durante la caccia o
la lotta con altre tribù potrebbe aver rappresentato un tratto di speciale
valore, in grado di conferire ai maschi uno status elevato e un più facile
accesso alle femmine. In questo modo, i geni che promuovono tali
comportamenti rischiosi sarebbero stati trasmessi alla progenie.
Secondo questi studiosi, gli atti spericolati e violenti commessi dagli
adolescenti non sarebbero altro che un modo in cui i giovani maschi
cercano di dimostrare il proprio coraggio e valore, al fine di avanzare di
status. A sostegno della loro ipotesi, gli autori sottolineano che i
comportamenti aggressivi compiuti da giovani maschi sono in gran
parte scatenati da gesti di mancanza di rispetto che ne mettono in
discussione lo status sociale. Anche tra le femmine, Anne Campbell
(2002) ha sostenuto che, quando arrivano allo scontro fisico, le ragazze
(al pari dei maschi) lo fanno in risposta a pettegolezzi o dicerie offensive
che potrebbero infrangerne la loro reputazione presso i ragazzi, o più
in generale presso la comunità dei coetanei.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 11 di 12
Universitas Mercatorum L’adolescenza:
l’uscita dal bozzolo

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 12 di 12
SVILUPPO
MORALE E
SESSUALITÀ
DURANTE
L’ADOLESCENZA
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Sviluppo morale e sessualità
durante l’adolescenza

Indice

1. IL MODELLO DI SVILUPPO MORALE DI KOHLBERG ...... 3

2. L’EMERGERE DELLA SESSUALITÀ ....................................... 7

3. DIFFERENZE TRA I GENERI NEL DESIDERIO


SESSUALE .................................................................................... 10

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 14

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 2 di 14
Universitas Mercatorum Sviluppo morale e sessualità
durante l’adolescenza

1. IL MODELLO DI SVILUPPO MORALE DI


KOHLBERG

Tra le altre cose, l’adolescenza è una fase di rapida crescita vero


un maggiore affinamento del ragionamento morale; infatti, è in questa
fase che gli adolescenti sviluppano un’immagine di sé in termini morali
alla quale conformare il proprio comportamento da adulti.
Storicamente, la maggior parte delle ricerche sullo sviluppo
morale degli adolescenti sono state basate sul modello proposto da L.
Kohlber (1984). Il suo metodo consisteva nel sottoporre ai soggetti
storie incentrate su ipotetici dilemmi morali e nel chiedere il loro
personale giudizio su cosa il protagonista avrebbe dovuto fare e perché.
In uno dei questi dilemmi, per esempio, il protagonista deve scegliere
se rubare o no una medicina per salvare la vita della moglie. Kohlberg
era interessato non tanto alle risposte affermative o negative fornite
dagli adolescenti, quanto alle ragioni che essi portavano per
giustificare la loro scelta. Sulla base dei dati raccolti durante le sue
ricerche, Kohlberg ha elaborato un modello di sviluppo morale che
prevede 5 diversi stadi. La sequenza parte da una concezione
totalmente individualista (Stadio 1) e progredisce fino a prendere in
considerazione i principi universali che investono l’intera umanità
(Stadio 5). In particolare, i cinque stadi possono essere sinteticamente
descritti come segue:
Stadio 1: Orientamento punizione-obbedienza: in questa fase le
persone si concentrano sulle conseguenze dirette, positive o negative,
delle proprie azioni; un’azione è buona se conduce ad una ricompensa,
negativa se porterà l’individuo a subire una punizione. Nel caso del
dilemma della medicina, il partecipante potrebbe rispondere:

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 3 di 14
Universitas Mercatorum Sviluppo morale e sessualità
durante l’adolescenza

‘Dovrebbe rubare la medicina perché, se la moglie muore, lui si troverà


nei guai’.
Stadio 2: Orientamento individualistico: in questa fase
l’individuo comprende che le altre persone possono avere interessi
diversi dai propri e che, per arrivare a ciò che si vuole, può essere
necessario stabilire un compromesso. Nel caso del dilemma della
medicina, il partecipante potrebbe giustificare il furto affermando che:
‘Non sarà per lui un grave problema passare un po’ di tempo in carcere,
se quando esce troverà la moglie ad aspettarlo’.
Stadio 3: Accordo interpersonale e conformismo: in questa fase
l’individuo cerca di vivere conformandosi alle aspettative delle persone
che sono per lui importanti. Un’azione viene considerata positiva se
migliora la relazione con le persone significative. Il furto della medicina
potrebbe essere giustificato affermando che: ‘La sua famiglia penserà
di lui che è un marito disumano, se lascia morire la moglie’.
Stadio 4: Morale legge e ordine: in questa fase l’individuo
sviluppa la convizione che, per mantenere l’ordine sociale, ogni persona
dovrebbe resistere alle pulsioni personali e rispettare le leggi e le
norme della società. Il soggetto potrebbe rispondere che è giusto rubare
la medicina in quanto: ‘È dovere di un marito salavare la moglie;
quando l’ha sposata, ha giurato di proteggerla’.
Stadio 5: Morale dei diritti umani e del benessere sociale: la
persona arriva a concepire l’idea che il rispetto delle leggi è bilanciato
da principi etici superiori: le leggi che non garantiscono il benessere
generale o violano principi etici fondamentali possono essere modificate
o addirittura trasgredite. L’individuo potrebbe giustifcare il furto della
medicina sostenendo che: ‘La legge (di non rubare) non è stata fatta per
circostanze come queste. Salvare una vita umana è più importante che
rispettare una legge’.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 4 di 14
Universitas Mercatorum Sviluppo morale e sessualità
durante l’adolescenza

Per Kohlberg, questi cinque stadi di ragionamento morale


costituiscono una vera e propria sequenza evolutiva, nel senso che, per
raggiungere uno qualsiasi di questi stadi, la persona deve essere prima
passata attraverso tutti gli stadi precedenti. Tuttavia, Kohlberg non ha
mai sostenuto che ogni persona passi necessariamente attraverso tutti
gli stadi della sequenza. In effetti, le ricerche condotte finora indicano
che poche persone arrivano oltre lo stadio 4, e molte non superano mai
gli stadi 2 o 3. Inoltre, Kohlberg non ha associato ogni stadio ad una
età specifica, pur riconoscendo che l’avanzamento verso gli stadi
superiori è più probabile durante l’adolescenza e l’inizio della vita
adulta. La Figura 1 illustra i risultati di uno studio longitudinale
condotto da Colby et al. (1983), il quale riporta la percentuale di
soggetti attribuiti a ciascuno degli stadi di ragionamento morale
previsti dalla teoria di Kohlberg. Come si può notare, vi è un rapido
declino dei due stadi più primitivi (stadio 1 e 2) all’inizio
dell’adolescenza; lo stadio 3 mostra un aumento fino a circa 18 anni,
seguito da un decrememnto; infine lo stadio 4 mostra un costante
aumento per tutta l’adolescenza e i primi anni dell’età adulta (un
leggero aumento si nota anche per lo stadio 5, sebbene il numero di
soggetti che raggiungono questa fase sia minimo).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 5 di 14
Universitas Mercatorum Sviluppo morale e sessualità
durante l’adolescenza

Figura 1. Risultati dello studio longitudinale di Colby et al. (1983).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 6 di 14
Universitas Mercatorum Sviluppo morale e sessualità
durante l’adolescenza

2. L’EMERGERE DELLA SESSUALITÀ

L’adolescenza è innanzitutto il tempo della fioritura sessuale: in


questa fase gli ormoni portano a completo sviluppo la capacità
riproduttiva e agiscono sul cervello in modo da esaltare il desiderio
sessuale in entrambi i sessi. I ragazzi e le ragazze, prima confinati ai
gruppi di coetanei, cominciano a sentire una forte motivazione ad
avvicinarsi, a conoscersi e ad avere contatti fisici più frequenti. Queste
trasformazioni implicano nuovi modi di pensare e di agire, i quali
possono far emergere sentimenti di paura, eccitazione, vergogna,
confusione e disorientamento.
In particolare, gli adolescenti cresciuti in modo relativamente
separato nel ‘mondo dei maschi’ e nel ‘mondo delle femmine’, devono
ora imparare a comunicare con coetanei dell’altro sesso. In effetti, la
comunicazione tra adolescenti di sesso opposto sembra essere
particolarmente faticosa. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che i
maschi devono imparare a prestare maggiore attenzione ai bisogni
dell’altra persona e ad essere più accomodanti, mentre le femmine
devono imparare ad essere più assertive. Uno studio ha trovato che le
comunicazioni tra quindicenni che stavano insieme causavano molte
più difficoltà rispetto alle discussioni con gli amici dello stesso sesso o
con la madre, in quanto spesso caratterizzate da negatività e assenza
di comunicazione (Furman & Shomaker, 2008). Tuttavia, quando si
facevano loro domande dirette, questi stessi adolescenti consideravano
la relazione col proprio ragazzo/a come la più intima tra le loro relazioni
e la fonte principale di sostegno emotivo (Collins et al., 2009). Non è
dunque sorprendente ricordare come diverse ricerche abbiano
dimostrato che la capacità di costruire e mantenere una relazione

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 7 di 14
Universitas Mercatorum Sviluppo morale e sessualità
durante l’adolescenza

sentimentale intima durante l’adolescenza rappresenta un fattore che


predice in maniera affidabile il successo nella futura relazione
matrimoniale (Karney et al., 2007).
La cultura occidentale esalta il sesso e immagini di adolescenti
dalle forme attraenti compaiono frequentemente in film e spot
pubblicitari; eppure, nella vita reale la nostra cultura disapprova i
rapporti sessuali tra adolescenti. Nell’opinione comune, il sesso tra
adolescenti è spesso associato alla delinquenza minorile e, in effetti, i
ragazzi che cominciano più presto ad avere rapporti sessuali sono
spesso coinvolti in attività criminali o antisociali (Capaldi et al., 1996).
Spesso, i primi rapporti sessuali avvengono di nascosto, senza avvalersi
dei consigli degli adulti, senza l’uso del preservativo o di altri mezzi di
contraccezione e di protezione contro le malattie trasmesse
sessualmente.
Negli USA, ogni anno circa l’8% delle adolescenti di età compresa
tra 15 e 19 anni incorre in una gravidanza imprevista, la metà delle
quali viene interrotta da un aborto. Nella maggior parte dei casi, queste
gravidanze avvengono al di fuori del matrimonio e le giovani madri non
sono in grado di mantenere il nascituro. La buona notizia è che il tasso
è sceso rispetto al 12% registrato verso la fine degli anni 80’. Il declino
sembra derivare da un aumento dell’uso del preservativo e di altri
metodi contraccettivi tra gli adolescenti, il quale a sua volta deriva da
una maggiore diffusione dell’educazione sessuale nelle scuole
americane e di una maggiore disponibilità di genitori a discutere i temi
legati alla sessualità con i propri figli (Abma et al., 2004).
Nonostanteciò, gli USA rimangono ancora molto indietro per quanto
riguarda l’educazione sessuale e il tasso di gravidanze tra le adolescenti
si mantiene ancora relativamente alto rispetto a quello registrato in
altri paesi industrializzati come la Germania, l’Olanda, o la Francia.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 8 di 14
Universitas Mercatorum Sviluppo morale e sessualità
durante l’adolescenza

Un’altra fonte di problemi è il permanere di un doppio standard


morale, rispetto alla sessualità, per i ragazzi e le ragazze. In quasi tutte
le culture studiate finora, i ragazzi sono incoraggiati ad avere
esperienze sessuali e ad andarne orgogliosi più di quanto non lo siano
le ragazze (Michael et al., 1994). Inoltre, i ragazzi sono più propensi a
dichiarare di desiderare il rapporto sessuale per il piacere fisico che ne
traggono, mentre le ragazze tendono ad equiparare il sesso all’amore e
a dichiarare di voler avere rapporti sessuali soltanto con la persona che
sposeranno.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 9 di 14
Universitas Mercatorum Sviluppo morale e sessualità
durante l’adolescenza

3.DIFFERENZE TRA I GENERI NEL DESIDERIO


SESSUALE

L’esistenza di un doppio standard morale per ragazzi e ragazze


è stato confermato da un’indagine condotta negli USA nel 2002, la
quale ha riscontrato che molte più ragazze dichiaravano che, nel
momento in cui hanno avuto il loro primo rapporto, in realtà non lo
desideravano affatto o avevano sentimenti contrastanti (si veda la
Figura 2); inoltre, quanto più la ragazza era giovane al momento del
suo primo rapporto sessuale, tanto minori erano le probabilità che lo
avesse desiderato veramente (Abma et al., 2004). D’altra parte, la
maggior parte dei ragazzi dichiaravano di avere desiderato il loro primo
rapporto sessuale.

Figura 2. Percentuali di ragazzi e ragazze che, al momento del primo rapporto


sessuale, dichiaravano di volere il rapporto, di avere sentimenti ambivalenti o di
non desiderarlo affatto (Abma et al., 2004).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 10 di 14
Universitas Mercatorum Sviluppo morale e sessualità
durante l’adolescenza

Una conseguenza di questa differenza di genere nel desiderio


sessuale è l’alto tasso di violenze sessuali che si registrano tra le
adolescenti. In una indagine, è emerso che circa il 6% delle ragazze che
si immatricolavano all’università per la prima volta dichiaravano di
aver subito violenza alle scuole medie o superiori, e un altro 33%
dichiarava di aver vissuto una grave esperienza di aggressione sessuale
che sfiorava lo stupro vero e proprio (Himelein et al., 1994). Questi
comportamenti sono in parte dovuti alla pressione che la società
esercita sui maschi affinché abbiano rapporti sessuali. Inoltre, i ragazzi
possono essere influenzati dai messaggi fuorvianti trasmessi dalla
società nel suo complesso, secondo cui sarebbe normale che le ragazze
oppongano resistenza o addirittura che le donne in fondo
desidererebbero essere costrette al rapporto sessuale con la forza.
Oltre a desiderare il sesso con maggiore intensità, in tutte le
specie e le culture umane, i giovani uomini tendono molto più delle
donne a soddisfare il desiderio sessuale tramite rapporti che non
implicano un impegno a lungo termine. Una spiegazione
evoluzionistica di questa differenza si basa sulla teoria
dell’investimento personale di Trivers, la quale propone che, in
qualsiasi specie, il sesso che sostiene i costi più bassi nel generare e
allevare la prole sarà il più aggressivo nel cercare di accoppiarsi con
molti partner diversi; al contrario, il sesso che sostiene i costi più alti
sarà quello più selettivo nella scelta del partner con cui accoppiarsi.
Poiché il rapporto sessuale può provocare la gravidanza, l’interesse di
una donna sta nel moderare la propria attività sessuale fino a quando
non abbia trovato un compagno affidabile, in grado di aiutare sia che
lei che il nascituro per un lungo periodo di tempo. D’altra parte, un
uomo ha poco da perdere e molto da guadagnare dall’avere rapporti

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 11 di 14
Universitas Mercatorum Sviluppo morale e sessualità
durante l’adolescenza

sessuali con molti partner diversi, in quanto ciò aumenta la probabilità


che i suoi geni siano trasmessi alle generazioni future.
Gli studi indicano che la promiscuità prevale nelle culture in cui
gli uomini si impegnano poco nella cura della prole, mentre la
moderazione prevale nelle culture in cui gli uomini dedicano molto
tempo alla cura della prole. A questo proposito, Draper & Harpending
(1982) hanno elaborato una teoria secondo la quale la presenza o
l’assenza di un padre premuroso costituirebbe un indizio fondamentale
che consente ai ragazzi e alle ragazze di scegliere quale strategia
sessuale avrà le maggiori probabilità di successo. In assenza di un
padre premuroso, le bambine crescerebbero pensando che gli uomini
sono mascalzoni inaffidabili e sfrutterebbero la loro sessualità per
ricavare il massimo possibile dagli uomini in relazioni di breve durata;
analogamente, i maschi crescerebbero pensando che impegnarsi con
una compagna e prendersi cura dei figli non rientra tra le loro
responsabilità e quindi sarebbero più propensi a passare da una
relazione all’altra. Secondo Draper & Harpending (1982), queste
convinzioni non sono quasi mai coscienti, ma possono rivelarsi
attraverso il comportamento.
A sostegno di questa teoria vi sono dati che indicano:

 Che, nell’ambito di una stessa cultura, gli adolescenti


allevati da una sola madre tendono ad essere più
promiscui rispetto agli adolescenti allevati da entrambi i
genitori;
 che le ragazze allevate soltanto dalla madre tendono ad
avere rapporti sessuali più precoci ed una maggiore
probabilità di rimanere incinte in età adolescenziale,

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 12 di 14
Universitas Mercatorum Sviluppo morale e sessualità
durante l’adolescenza

rispetto slle ragazze allevate da coppie stabili (si veda la


Figura 3).

Figura 3. Percentuali di ragazze che incorrevano in una gravidanza non desiderata


in età adolescenziale, in funzione del tipo di ambiente familiare (famiglie senza
padre vs. famiglie con entrambi i genitori).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 13 di 14
Universitas Mercatorum Sviluppo morale e sessualità
durante l’adolescenza

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014). Psicologia


generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 14 di 14
L’ETÀ ADULTA
E
L’INVECCHIAMENTO
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum L’età adulta e l’invecchiamento

Indice

1. L’ATTACCAMENTO ADULTO E LA FELICITÀ


CONIUGALE .................................................................................. 3

2. TROVARE SODDISFAZIONE NEL LAVORO.......................... 7

3. CAMBIAMENTI COGNITIVI ASSOCIATI


ALL’INVECCHIAMENTO .......................................................... 10

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 14

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 2 di 14
Universitas Mercatorum L’età adulta e l’invecchiamento

1. L’ATTACCAMENTO ADULTO E LA FELICITÀ


CONIUGALE

Secondo Erikson (1963), la capacità di stabilire relazioni basate


sull’intimità e sulla cura degli altri, e la capacità di trarre soddisfazione
dal proprio lavoro sono i principali compiti che la persona deve
affrontare durante le fasi iniziali e intermedie della vita adulta.
La nostra è una specie romantica: l’esperienza
dell’innamoramento è stata descritta in tutte le culture di cui si abbia
notizia (Fisher, 2004), e, anche se amore e matrimonio non vanno
sempre insieme, nella maggior parte di esse gli adulti in età
riproduttiva stabiliscono unioni durature sancite dalla legge o dalle
tradizioni sociali in cui i due partner si promettono, esplicitamente o
implicitamente, di prendersi cura l’uno dell’altro e dell’eventuale prole
che risulterà dalla loro unione (Rodseth et al., 1991). In questo senso,
molte richerche hanno cercato di esaminare gli elementi psicologici
sottostanti all’amore romantico e ad un matrimonio felice.
Ciò che è emerso con forza da tali studi è il fatto che l’amore
romantico è simile nella forma e nei meccanismi all’attaccamento che i
bambini piccoli sviluppano verso i genitori (Hazan & Shaver, 1994).
Entrambe le relazioni si basano sul contatto fisico, sulle carezze, sul
fissarsi intensamente negli occhi, e sull’uso di un linguaggio infantile e
affettuoso. Quando la relazione funziona bene, tra i partner prevale un
sentimento di reciproca fusione e di esclusività – ovvero, la sensazione
che la persona amata sia insostituibile. I due partner si sentono sicuri
e fiduciosi quando stanno insieme, e la separazione può causare segni
fisiologici di sofferenza (Feeney & Kirkpatrick, 1996). In effetti, in molti
casi il legame rivela tutta la sua forza solo dopo la separazione, il

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 3 di 14
Universitas Mercatorum L’età adulta e l’invecchiamento

divorzio o la morte di uno dei due partner. In tal caso, si osservano


spesso gravi stati di ansia e depressione, associati a sentimenti di
solitudine e vuoto affettivo (Stroebe et al., 1996).
Analogamente a quanto avviene nella prima infanzia, anche
nelle relazioni amorose dell’età adulta lo stile di attaccamento viene
classificato come sicuro (caratterizzato da un senso di fiducia e
benessere), ansioso (caratterizzato da un’eccessiva preoccupazione
sull’essere o meno amati), o evitante (caratterizzato da scarse
espressioni di intimità o sentimenti di ambivalenza affettiva). I
risultati di numerose ricerche indicano che esiste continuità tra la
qualità dell’attaccamento nella relazione amorosa e quella che, nel
ricordo dei soggetti, caratterizzava la loro relazione con i genitori nella
prima infanzia: le persone che ricordano come calda e sicura la
relazione con i genitori descrivono in termini simili anche la relazione
amorosa; analogamente, coloro che ricordano la relazione con i genitori
come caratterizzata da ansia e ambiguità tendono a descrivere in modo
simile anche la relazione che vivono da adulti (Fraley, 2002). Nel
complesso, questi dati confermano l’ipotesi proposta da Bowlby,
secondo cui le persone si formano modelli mentali delle relazioni intime
basate sulle esperienze vissute con i caregiver nella prima infanzia e in
seguito trasferiscono tali modelli alle relazioni che stabiliscono durante
l’età adulta.
L’unione e la relazione amorosa tra due partner adulti non è
sempre coronata da buon esito. Nel Nord America, circa la metà dei
matrimoni finisce in un divorzio, e una buona parte dei matrimoni che
non finiscono nel divorzio sono comunque infelici. Molte psicologi
hanno tentato di esaminare i fattori che differenziano i matrimoni che
funzionano da quelli che finiscono male. In generale, ciò che è stato
riportato con frequenza è che i membri delle coppie felici affermano di

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 4 di 14
Universitas Mercatorum L’età adulta e l’invecchiamento

piacersi a vicenda e descrivono l’altro non solo come il proprio marito o


la propria moglie, ma anche come il miglior amico e confidente
(Buehlman et al., 1992). Nel descrivere le proprie attività, questi
partner usano il pronome ‘noi’ più spesso del pronome ‘io’ e
attribuiscono più valore alla reciproca interdipendenza che
all’indipendenza individuale (Lauer & Lauer, 1985). Entrambi i coniugi
affermano di aver riversato un notevole impegno nel matrimonio e di
essere disposti a sopportare delle rinunce, pur di far sopravvivere il
rapporto alle difficoltà.
Divergenze e discussioni sembrano essere ugualmente frequenti
sia nelle coppie infelici che in quelle felici: tuttavia, in quest’ultimo caso
sono condotte in modo più costruttivo (Gottman, 1994). I partner delle
coppie felici si ascoltano e prestano attenzione al punto di vista
dell’altro: essi concentrano gli sforzi sul mettere a fuoco il problema,
anziché sul voler ‘vincere’ o sul dimostrare che l’altro è in errore.
Inoltre, evitano di rinfacciarsi torti o offese subite in passato che non
hanno alcuna attinenza con il problema attuale. In questo modo, il
conflitto diventa un elemento in grado di avvicinare ulteriormente i due
coniugi, in quanto essi riescono a risolvere il problema e a darsi conforto
a vicenda (Murray et al., 2003).
Nelle coppie felici, entrambi i partner sono sensibili ai
sentimenti e ai bisogni dell’altro, anche se inespressi (Mirgain &
Cordova, 2007). Al contrario, nelle coppie infleici si registra spesso
un’asimmetria: la moglie percepisce i bisogni del marito e cerca di
soddisfarli, mentre non avviene lo stesso da parte del marito (Gottman,
1994, 1998). Questo aspetto non è tuttavia esclusivo della relazione
amorosa: infatti, gli studi hanno evidenziato come, in tutti i tipi di
relazioni, le donne sono in media più capaci dei maschi di prestare

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 5 di 14
Universitas Mercatorum L’età adulta e l’invecchiamento

attenzione e capire le emozioni e i bisogni del partner (Thomas &


Fletcher, 2003).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 6 di 14
Universitas Mercatorum L’età adulta e l’invecchiamento

2. TROVARE SODDISFAZIONE NEL LAVORO

Il lavoro occupa una porzione enorme della vita adulta ed è il


primo mezzo per guadagnarsi da vivere. In alcuni casi il lavoro è noioso
e ripetitivo, mentre in altri casi esso è eccitante e uno stimolo per
l’intelligenza. Nel complesso, gli studi condotti in questo ambito
indicano che le persone sono soddisfatte del proprio lavoro se esso è: (a)
complesso piuttosto che semplice; (b) vario piuttosto che ripetitivo; (c)
non sottoposto a rigido controllo da parte di altri. Questa costellazione
di caratteristiche desiderabili è stata denominata autogestione del
lavoro dal sociologo Kohn (1980). I dati relativi alla salute mentale e
fisica dei lavoratori suggeriscono che gli impieghi in cui bisogna
compiere molte scelte e prendere decisioni autonome sono in genere
meno stressanti rispetto a quelli in cui la persona deve compiere meno
scelte ed è sottoposto ad un controllo rigido, anche quando i primi
implicano un maggior impegno intellettivo (Spector, 2002).
In uno studio a lungo termine condotto negli USA e in Polonia,
Kohn e Slomczynski (1990) hanno trovato che le persone che passavano
da un lavoro con un basso livello di autogestione ad uno in cui tale
livello era alto manifestavano importanti cambiamenti psicologici.
Queste persone diventavano più flessibili intellettualmente, non
soltanto sul lavoro ma anche nell’approccio verso tutti gli altri aspetti
della vita. Esse diventavano meno autoritarie e più democratiche
nell’educazione dei figli: davano meno importanza all’obbedienza e ne
attribuivano molta di più alla capacità dei figli di prendere decisioni
indipendenti. A loro volta, i figli di queste persone dimostravano di
essere più capaci di gestirsi autonomamente ed erano meno conformisti
rispetto ai figli di persone che godevano di una minore autonomia sul

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 7 di 14
Universitas Mercatorum L’età adulta e l’invecchiamento

lavoro. È importante sotolineare che questi effetti si verificavano


indipendentemente dal livello di retribuzione e prestigio sociale del
lavoro: in generale, i lavori manuali comportavano un grado di
autogestione inferiore rispetto ai lavori intellettuali; tuttavia, quando
queste caratteristiche erano presenti, gli effetti psicologici erano molto
simili.
Oggi, molte donne svolgono un doppio lavoro: uno fuori casa e
uno tra le mura domestiche. Inoltre, sebbene gli uomini dedichino più
tempo ai lavori di casa e alla cura dei figli di quanto non facessero in
passato, le donne hanno ancora un ruolo preponderante in questi
compiti (Barnett & Hyde, 2001). A differenza di quanto potrebbero
suggerire i classici stereotipi maschili e femminili, alcune ricerche
indicano che le donne sposate traggono maggiore soddisfazione dal
lavoro fuori casa, mentre per gli uomini è vero il contrario (essi
traggono più soddisfazione dal lavoro casalingo). Larson et al. (1994),
in particolare, chiesero ad un campione di persone sposate di portare
con sé un cercapersone mentre svolgevano le normali attività
quotidiane. Ogni volta che il cercapersone squillava (in momenti scelti
a caso), i partecipanti dovevano riportare su una scheda ciò che stavano
facendo e il loro stato emotivo. I risultati evidenziarono che, in media,
le donne si sentivano più contente quando erano al lavoro fuori casa,
mentre gli uomini lo erano di più quando si occupavano delle faccende
domestiche. In altre parole, quando erano a casa a fare la lavatrice o a
passare l’aspirapolvere, gli uomini dichiaravano di stare bene, mentre
le donne dichiaravano di essere annoiate o arrabbiate.
Larson e colleghi (1994) hano proposto che queste differenze
potrebbero derivare dalla diversa percezione che uomini e donne hanno
dei propri doveri e delle proprie scelte. Secondo questa ipotesi, gli
uomini traggono più soddisfazione dai lavori domestici in quanto non li

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 8 di 14
Universitas Mercatorum L’età adulta e l’invecchiamento

considerano come un obbligo, ma piuttosto come un’attività


liberamente scelta; invece, essi vivono il lavoro fuori casa come un
dovere, in quanto si sentono obbligati a mantenere la famiglia. Per le
donne sembra valere esattamente il contrario: esse considerano le
faccende domestiche come un dovere, mentre sono più propense a
ritenere che il lavoro fuori casa rappresenti una loro scelta autonoma.
In sintesi, quindi, gli uomini si sentono ‘schiavi’ del lavoro e tornano a
casa per rilassarsi, mentre le donne si sentono ‘schiave’ a casa e ne
escono per rilassarsi.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 9 di 14
Universitas Mercatorum L’età adulta e l’invecchiamento

3. CAMBIAMENTI COGNITIVI ASSOCIATI


ALL’INVECCHIAMENTO

Secondo le ultime stime pubblicate dall’Istat, ad oggi gli over 65


rappresentano un quarto della popolazione italiana, ma già nel 2050
diventeranno più di un terzo, vale a dire 20 milioni di persone, di cui
oltre 4 milioni avranno più di 85 anni. Considerando questo rapido
incremento, il fatto che molte ricerche psicologiche abbiano avuto come
scopo quello di caratterizzare i cambiamenti cognitivi che
caratterizzano il passaggio dall’età adulta alla vecchiaia non è certo
sorprendente.
Molti giovani hanno paura d’invecchiare, in quanto questa fase
della vita è innegabilmente associata a molte perdite: si perde parte
della forza fisica, della memoria, e delle abilità cognitive in generale; si
possono perdere i ruoli sociali associati al lavoro, e infine si possono
perdere le persone amate che muoiono prima di noi. Tuttavia, se si
domanda a persone anziane com’è la vecchiaia, vi diranno che non è poi
così terribile come sembra. In una ricerca gli studiosi chiesero a giovani
adulti di quantificare con un punteggio la soddisfazione di cui, secondo
le loro aspettative, avrebbero goduto nella vecchiaia. I risultati furono
che i punteggi forniti dai giovani risultarono molto più bassi rispetto a
quelli forniti da un gruppo di anziani in merito alla loro attuale
soddisfazione (Borges & Dutton, 1976). Più in generale, diverse
ricerche hanno confermato che le persone anziane riferiscono di godersi
la vita più spesso rispetto a quanto non faccianno gli adulti, e gli adulti
più spesso rispetto a quanto non faccianno i giovani (Sheldon & Kasser,
2001).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 10 di 14
Universitas Mercatorum L’età adulta e l’invecchiamento

Questo risultato costituisce il cosiddetto ‘paradosso


dell’invecchiamento’: la soddisfazione soggettiva aumenta, anche se dal
punto di vista oggettivo la qualità della vita diminuisce. La teoria della
selettività socioemotiva (Cartensen, 1992) cerca di spiegare perché
nelle persone anziane il piacere di vivere si mantenga inalterato, o
addirittura aumenti, nonostante le perdite. Questa teoria sostiene che,
man mano che le persone invecchiano, si concentrano di più sul godere
il momento presente e sempre meno su attività proiettate verso il
futuro. I giovani sono motivati ad esplorare nuove strade, a conoscere
nuove persone, e ad acquisire nuove abilità e conoscenze che possono
rivelarsi utili in futuro. Al contrario, le persone anziane, e in generale
le persone che hanno una aspettativa di vita inferiore (ad esempio, i
pazienti che soffrono di malattie incurabili: Cartensen & Fredrickson,
1998), sono meno disposte a sacrificare abitudini, comodità e piaceri
presenti per andare alla ricerca di possibili vantaggi futuri.
Questa ipotesi può aiutare a spiegare molti dei cambiamenti che
si verificano durante la vecchiaia. Le persone anziane dedicano sempre
meno attenzione alle conoscenze occasionali, e sempre di più alle
persone con cui hanno già sviluppato stretti legami emotivi: in
particolare, i rapporti con i figli, i nipoti e i vecchi amici diventano più
forti e più importanti (Lockenhoff & Carstensen, 2004). Nelle coppie
sposate, si verifica un aumento dell’intimità, in quanto marito e moglie
diventano entrambi più interessati a godere della reciproca compagnia,
piuttosto che a tentare di correggersi e/o dominarsi a vicenda (Henry et
al., 2007; Levenson et al., 1993). Infine, le persone che continuano a
lavorare da anziane riferiscono di trarre da esso più soddisfazione, in
quanto danno meno importanza alla corsa al successo e al fare buona
impressione sugli altri.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 11 di 14
Universitas Mercatorum L’età adulta e l’invecchiamento

Almeno una parte di questo aumento nella soddisfazione


personale sembra essere collegato a cambiamenti nei processi cognitivi
che sottendono l’attenzione e la memoria. Infatti, Carstensen e colleghi
hanno dimostrato in vari studi che le persone anziane concentrano
l’attenzione e ricordano maggiormente gli stimoli positivi piuttosto che
quelli neutri o negativi. In un esperimento, i ricercatori mostrarono ad
adulti giovani (18-29 anni), di mezza età (41-53 anni) o anziani (65-80
anni) una serie di immagini che rappresentavano scene positive,
negative o neutre; in seguito, i partecipanti dovevano richiamare tali
immagini alla memoria e descriverle brevemente (Charles et al., 2003).
Come illustrato nella Figura 1, i risultati dimostrarono che gli anziani
ricordavano meno immagini rispetto ai giovani: tuttavia, il declino
riguardava le scene negative più di quelle neutre e positive. La
conseguenza di questa differenza era che gli anziani ricordavano le
immagini positive meglio di quelle neutre o negative, mentre i giovani
e gli adulti di mezza età ricordavano sia le immagini negative che
quelle positive meglio di quelle neutre. Quindi, la selettività
dell’attenzione e della memoria potrebbe essere un mezzo con cui gli
anziani regolano le emozioni orientandole in senso positivo.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 12 di 14
Universitas Mercatorum L’età adulta e l’invecchiamento

Figura 1. Risultati dello studio di Charles et al. (2003) sul ricordo di immagini
negative, neutre e positive.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 13 di 14
Universitas Mercatorum L’età adulta e l’invecchiamento

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 14 di 14
PRINCIPI
GENERALI DELLA
MOTIVAZIONE
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Principi generali della motivazione

Indice

1. MOTIVAZIONE, PULSIONI E INCENTIVI .............................. 3

2. OMEOSTASI E PULSIONI REGOLATIVE............................... 5

3. LE PULSIONI COME STATI DEL CERVELLO ...................... 8

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 11

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 2 di 11
Universitas Mercatorum Principi generali della motivazione

1. MOTIVAZIONE, PULSIONI E INCENTIVI

L’insieme delle attività mentali che formano la vita psichica di


un essere umano comprende sia componenti veloci che componenti
lente. Le sensazioni, le percezioni, i pensieri attraversano la coscienza
a velocità misurabili in millisecondi. Invece i cambiamenti lenti, i quali
intervengono nel controllo e nella modulazione delle componenti veloci,
si misurano in minuti o in ore e consistono in variazioni di motivazione,
emozione e livelli di attivazione fisiologica.
Dal punto di vista etimologico, il significato del termine motivare
è ‘mettere in moto’. In ambito psicologico, il termine motivazione viene
utilizzato per indicare l’intera costellazione di fattori, interni o esterni
all’organismo, che causano un determinato comportamento di un
individuo in un determinato momento. Secondo questa definizione, il
concetto di motivazione è piuttosto ampio, tanto da abbracciare quasi
tutto il campo della psicologia. Un termine dal significato più
circoscritto è stato motivazionale o pulsione, due termini impiegati in
maniera interscambiabile per indicare una condizione interna che
orienta l’individuo verso una precisa categoria di scopi. Pulsioni diverse
orientano l’individuo verso scopi diversi. La fame spinge l’individuo
verso il cibo, la pulsione sessuale verso la ricerca di un partner, la
curiosità verso la ricerca di stimoli nuovi e così via.
Le pulsioni rappresentano costrutti mentali ipotetici: gli
psicologi non possono osservare lo stato di fame, di sete o di curiosità,
ma ne inferiscono l’esistenza a partire dal comportamento manifesto
dell’individuo. Se un animale manifesta dei comportamenti orientati
alla ricerca di cibo, si dice che è affamato. Se invece manifesta dei
comportamenti che lo portano in contatto con potenziali partner, si dice

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 3 di 11
Universitas Mercatorum Principi generali della motivazione

che ha una pulsione sessuale. Oltre ad essere costrutti ipotetici, le


pulsioni cambiano nel tempo in maniera reversibile (possono
aumentare o diminuire): ciò significa che l’individuo sarà più pronto in
certi momenti che in altri ad affrontare fatiche o disagi per raggiungere
un determinato scopo. L’assunto di fondo è che qualcosa si modifica
all’interno dell’individuo, facendolo comportare in modo diverso in
momenti diversi nello stesso ambiente.
Lo stato interno di un individuo interagisce costantemente con
l’esterno. Il comportamento motivato è sempre diretto verso incentivi,
vale a dire verso oggetti desiderati presenti nell’ambiente esterno
(spesso chiamati rinforzi, ricompense o scopi). Così, ad esempio, la
pulsione che ci fa stare in fila alla cassa di un bar è la fame; tuttavia,
l’incentivo per farlo è il panino che vogliamo acquistare. Pulsioni e
incentivi si complementano a vicenda nel controllo del comportamento:
se l’uno è debole, l’altro deve essere forte per motivare l’azione diretta
verso uno scopo. Se sapeste che i panini di un bar sono pessimi
(incentivo debole), stareste in fila solo se la pulsione della fame fosse
molto forte; d’altra parte, se sapeste che i panini di quel bar sono
buonissimi (incentivo forte), stareste in fila anche se la pulsione della
fame fosse debole. Pulsioni e incentivi non solo si complementano nel
controllo del comportamento, ma si rafforzano a vicenda. Una pulsione
molto forte può aumentare il valore d’incentivo di un oggetto: se siete
affamati, anche un pessimo panino può sembrare allettante.
Analogamente, un incentivo molto forte può intensificare una pulsione:
l’aroma gustoso che arriva da un panino caldo può far aumentare la
vostra fame, al punto da indurvi a comporarlo.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 4 di 11
Universitas Mercatorum Principi generali della motivazione

2. OMEOSTASI E PULSIONI REGOLATIVE

Come accennato nel paragrafo precedente, molte pulsioni ci


motivano ad ottenere scopi che favoriscono la nostra sopravvivenza e
riproduzione. Altre pulsioni, invece, favoriscono la sopravvivenza
aiutandoci a mantenere le condizioni interne essenziali per la vita
In un celebre libro, dal titolo La saggezza del corpo [The wisdom
of body] (1932), il fisiologo Walter Cannon propose che, perché la vita
possa continuare, certe sostanze e proprietà del corpo devono rimanere
entro uno stretto intervallo di valori – cioè non possono salire troppo al
di sopra o scendere troppo al di sotto di determinati limiti. Rientrano
in questi fattori la temperatura corporea, l’ossigeno, l’acqua e le
sostanze nutritive che sono fonte di energia. I processi fisiologici come
la respirazione e la digestione tendono a raggiungere lo stato che
Cannon definì di omeostasi – ovvero, la costanza delle condizioni
interne che il corpo deve attivamente sforzarsi di mantenere. Tra gli
aspetti sottolineati da Cannon, un punto fondamentale per la psicologia
è che il mantenimento dell’omeostasi non coinvolge solo processi
interni, ma anche comportamenti diretti verso l’esterno. Così, per
tenersi in vita, gli animanli devono continuamente cercare e consumare
cibo; inoltre, devono mantenere la temperatura corporea entro certi
limiti, per esempio cercando un riparo per la notte. Cannon ipotizzò che
il meccanismo alla base di alcune pulsioni fosse un perturbamento
dell’equilibrio omeostatico, il quale agirebbe sul sistema nervoso in
modo da indurre comportamenti finalizzati al ripristino dell’equilibrio
(si veda la Figura 1 per un semplice schema).
A conferma della teoria di Cannon, molti psicologi e fisiologi
hanno dimostrato sperimentalmente che gli animali si comportano

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 5 di 11
Universitas Mercatorum Principi generali della motivazione

davvero in accordo con i bisogni metabolici dei loro tessuti. Ad esempio,


se si aumenta o si diminuisce il contenuto calorico (l’energia) del cibo,
l’animale compensa questa variazione mangiando una quantità di cibo
minore oppure maggiore, in modo da mantenere costante l’apporto
giornaliero di calorie. Analogamente, la rimozione chirurgica delle
ghiandole surrenali provoca un’eccessiva perdita di sali attraverso le
urine: ciò, a sua volta, aumenta la pulsione dell’animale a cercare e
mangiare cibi salati (Stricker, 1973).

Figura 1. Illustrazione schematica del funzionamento di un sistema omeostatico.

Il concetto di omeostasi è certamente utile per comprendere la


sete, la fame, il bisogno di ossigeno o di una temperatura corporea
costante, ma non può spiegare altri tipi di pulsioni. Per fare un
esempio, la maggior parte delle persone sono fortemente motivate verso
l’attività sessuale. Ovviamente, il sesso svolge una chiara funzione
riproduttiva: tuttavia, alla base di questa pulsione non c’è un bisogno
metabolico a livello dei tessuti. L’attività sessuale non influisce su
nessuna sostanza essenziale per il corpo e nessuno muore per la sua

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 6 di 11
Universitas Mercatorum Principi generali della motivazione

mancanza. Date queste considerazioni, gli psicologici ritengono utile


distinguere tra due tipi di pulsioni diverse: pulsioni regolative (che,
come la fame, contribuiscono a mantenere l’omeostasi) e pulsioni non
regolative (che, come la pulsione sessuale, sono funzionali al
raggiungimento di altri scopi).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 7 di 11
Universitas Mercatorum Principi generali della motivazione

3. LE PULSIONI COME STATI DEL CERVELLO

Un metodo per classificare le pulsioni consiste nel distinguerle


in base al ruolo che esse assolvono nel favorire la sopravvivenza e la
riproduzione. Da un punto di vista evoluzionistico, è possibile
distinguere nei mammiferi cinque diversi tipi di pulsioni:
Pulsioni regolative: Come già detto, sono le pulsioni che
contribuiscono a mantenere l’omeostasi corporea ̶ fame e sete ne sono
due esempi fondamentali.
Pulsioni di sopravvivenza: sono le pulsioni che motivano
l’animale a fuggire ed evitare pericoli e minacce, come i precipizi, i
predatori e i nemici in generale. Due pulsioni di questo tipo sono la
paura e la rabbia (quest’ultima si manifesta quando l’animale deve
lottare per sopravvivere e favorisce il reclutamento di tutte le energie
disponibili). Anche il sonno è una pulsione di sopravvivenza, in quanto
tiene gli animali nascosti e al sicuro nelle ore notturne, durante le quali
andare in giro li esporrebbe a pericoli maggiori.
Pulsioni riproduttive: le più ovvie sono la pulsione sessuale e la
pulsione a prendersi cura dei piccoli. Gli animali (compreso l’uomo)
possono addirittura arrivare a mettere in gioco la propria vita pur di
riuscire ad accoppiarsi col partner o proteggere la prole. Anche la
gelosia può essere considerata come una pulsione riproduttiva, in
quanto promuove la fedeltà coniugale.
Pulsioni sociali: in molti mammiferi, e in particolare nell’uomo,
la collaborazione degli altri è necessaria e spesso indispensabile alla
sopravvivenza. Le pulsioni sociali comprendono l’amicizia e la ricerca
di accettazione e approvazione da parte dei gruppi sociali a cui
l’individuo appartiene.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 8 di 11
Universitas Mercatorum Principi generali della motivazione

Pulsioni educative: includono le pulsioni al gioco e


all’esplorazione (curiosità). Come discusso nelle lezioni precedenti, in
quasi tutti i mammiferi, il gioco consente all’individuo di acquisire una
serie di abilità che si riveleranno fondamentali nella vita da adulto; allo
stesso modo, l’esplorazione e la curiosità consentono di acquisire
informazioni sull’ambiente esterno essenziali alla sopravvivenza.
Anche se le pulsioni rappresentano costrutti ipotetici non
osservabili, la maggior parte degli psicologi sarebbe d’accordo nel
ritenere che esse sono il prodotto di processi fisici che avvengono nel
cervello. Secondo la teoria degli stati pulsionali centrali, pulsioni
differenti corrispondono all’attività di gruppi differenti di neuroni.
L’insieme di neuroni che controllano una data pulsione viene definito
sistema pulsionale centrale. Benchè i sistemi neurali che presiedono a
pulsioni differenti devono essere almeno in parte distinti, è tuttavia
possibile che essi condividano qualche componente la cui azione
produce effetti comportamentali comuni a due o più pulsioni, come
l’aumento dello stato di vigilanza. Per poter essere considerato come un
sistema pulsionale centrale, un gruppo di neuroni deve possedere due
caratteristiche:

 per quanto riguarda le informazioni in entrata, il sistema


deve ricevere e integrare tutti i segnali in grado di
intensificare o attenuare lo stato pulsionale; nel caso della
fame, tali segnali includono il tasso ematico di alcune
sostanze, la presenza o assenza di cibo nello stomaco, e la
vista e l’odore del cibo;
 per quanto riguarda le informazioni in uscita, il sistema
deve agire su tutti i processi neurali coinvolti
nell’attuazione del comportamento motivato – ovvero,

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 9 di 11
Universitas Mercatorum Principi generali della motivazione

orientare i sistemi percettivi verso l’analisi degli stimoli


che fungono da incentivi, dirigere i sistemi cognitivi che
elaborano strategie per il raggiungimento dello scopo, e
controllare i centri motori per produrre azioni
appropriate. Questo significa che in un modello gerarchico
del controllo motorio come quello illustrato nella Figura 2,
i meccanismi legati alla motivazione e alla progettazione
devono occuparne il vertice, in quanto preposti a dirigere
l’attività dei sistemi motori situati ai livelli più bassi della
gerarchia.

Vi sono numerosi ragioni per ritenere che l’ipotalamo potrebbe


essere il fulcro di molti sistemi pulsionali centrali; infatti, questa
struttura:

 occupa una posizione ideale per assolvere a questa


funzione: si trova al centro della base del cervello, appena
sopra il tronco encefalico, e ha forti connessioni con le aree
corticali superiori;
 ha connessioni dirette con i nervi che veicolano i segnali
provenienti dagli organi interni, e da esso partono fibre
che trasmettono a questi organi gli impulsi motori
vegetativi;
 è uno degli organi cerebrali più sensibili agli effetti degli
ormoni e in generale alle sostanze circolanti nel sangue;
 infine, controlla il rilascio di numerosi ormoni tramite le
sue connessioni con l’ipofisi.

Quindi, l’ipotalamo è dotato di tutte le capacità di ricezione e


trasmissione di segnali che un sistema pulsionale centrale deve
possedere per essere tale.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 10 di 11
Universitas Mercatorum Principi generali della motivazione

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 11 di 11
MECCANISMI
CEREBRALI DELLA
RICOMPENSA
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Meccanismi cerebrali della ricompensa

Indice

1. LE TRE COMPONENTI DELLA RICOMPENSA .................... 3

2. IL CIRCUITO CEREBRALE DELLA RICOMPENSA ............ 6

3. TOSSICODIPENDENZA E GIOCO D’AZZARDO .................. 10

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 13

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 2 di 13
Universitas Mercatorum Meccanismi cerebrali della ricompensa

1. LE TRE COMPONENTI DELLA RICOMPENSA

Come illustrato nella lezione precedente, il comportamento


motivato implica quasi sempre il perseguimento di ricompense
(chiamate anche incentivi, scopi o rinforzi). Dal punto di vista
psicologico, il termine ‘ricompensa’ racchiude in sé tre significati che,
pur essendo distinti, sono comunque interrelati tra loro. In primo luogo,
la ricompensa è qualcosa che ci procura piacere; in secondo luogo, la
ricompensa è qualcosa che vogliamo; infine, la ricompensa ha funzione
di rinforzo dell’apprendimento.
Il termine ‘piacere’ fa riferimento alla sensazione soggettiva di
soddisfazione che proviamo nell’ottenere una ricompensa. Questa
sensazione ci è ben nota, per esperienza personale. Proviamo piacere
nel mangiare un buon cibo quando siamo affamati, nel bere acqua
quando abbiamo sete, e nell’attività sessuale quando siamo eccitati. Ma
negli esseri umani, il piacere non è limitato alla soddisfazione di bisogni
fisici: infatti, proviamo piacere anche per un guadagno, una lode, la
compagnia di buoni amici, il gioco, la musica, o semplicemente per la
convinzione personale di aver svolto bene un determinato lavoro.
Il termine ‘volere’ fa invece riferimento al desiderio di ottenere
una determinata ricompensa. È questa la componente più strettamente
legata al concetto di motivazione: infatti, volere qualcosa significa
essere motivati ad ottenerla. Mentre il piacere si sperimenta dopo
l’ottenimento della ricompensa, il volere è qualcosa che la precede e che
motiva l’individuo a compiere degli sforzi per ottenerla. In effetti, il
desiderio viene di norma misurato valutando la quantità di impegno
profuso dal soggetto o l’entità delle rinunce che si dimostra disposto a
sopportare pur di ottenere una certa ricompensa. Nella maggior parte

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 3 di 13
Universitas Mercatorum Meccanismi cerebrali della ricompensa

dei casi, le cose che desideriamo corrispondono a quelle che ci procurano


piacere: tuttavia, i due aspetti possono essere separati, sia a livello
esperienziale che a livello cerebrale (come vedremo nei paragrafi
seguenti).
Infine, il termine ‘rinforzo’ fa riferimento agli effetti prodotti
dalle ricompense sull’apprendimento. Gli animali e le persone
imparano a prestare attenzione agli stimoli che segnalano la possibilità
di una ricompensa, e apprendono a produrre le risposte che portano
alla ricompensa in presenza di quegli stimoli. In altre parole,
attraverso i suoi effetti sul cervello, la ricompensa rafforza la memoria
degli stimoli e delle azioni che si sono verificati subito prima che
l’individuo ottenesse la ricompensa: questo effetto è chiaramente
adattivo, in quanto aumenta l’efficienza dell’individuo nel trovare e nel
procurarsi la stessa ricompensa in futuro.

Figura 1. Illustrazione del dispositivo utilizzato da Olds e Milner (1954).

Gli studi sui meccanismi cerebrali della ricompensa iniziarono


quando James Olds e Peter Milner (1954) scoprirono per caso che i
ratti, dopo aver ricevuto una stimolazione elettrica in certe aree

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 4 di 13
Universitas Mercatorum Meccanismi cerebrali della ricompensa

cerebrali attraverso degli elettrodi impiantati nel cervello, si


comportavano come se cercassero attivamente di ottenere di nuovo la
stessa stimolazione. Per esempio, se avevano ricevuto la stimolazione
mentre esploravano un certo angolo della gabbia, i ratti tornavano
ripetutamente in quell’angolo. Allo scopo di studiare questo fenomeno
in modo più accurato, Olds e Milner costruirono un apparecchio che
consentiva ai ratti di autostimolarsi il cervello attraverso la pressione
di una leva (si veda la Figura 1). Quando l’elettrodo era inserito in
determinate aree del cervello, i ratti apprendevano rapidamente a
premere la leva per ricevere la stimolazione e continuavano a farlo con
una frequenza molto elevata (a volte molte ore di seguito).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 5 di 13
Universitas Mercatorum Meccanismi cerebrali della ricompensa

2. IL CIRCUITO CEREBRALE DELLA RICOMPENSA

Studi successivi, i quali hanno utilizzato una metodologia simile


a quella messa a punto da Olds e Milner (1954), hanno chiarito che i
ratti si impegnano al massimo e a lungo per stimolare uno specifico
tratto cerebrale, il fascicolo prosencefalico mediale (chiamato in inglese
‘medial forebrain bundle’). I neuroni che formano questo tratto si
raggruppano in nuclei del mesencefalo (in particolare, nell’area
tegmentale ventrale) e terminano su un grande nucleo nei gangli della
base, il nucleus accumbens (si veda la Figura 2), il quale presenta
estese connessioni con il sistema limbico, l’ipotalamo e la corteccia
cerebrale.

Figura 2. Localizzazione cerebrale del nucleus accumbens e del fascicolo


prosencefalico mediale.

Il fascicolo prosencefalico mediale e il nucleus accumbens si


attivano in tutte le situazioni in cui l’individuo ottiene una ricompensa,

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 6 di 13
Universitas Mercatorum Meccanismi cerebrali della ricompensa

che si tratti di cibo, di opportunità di accoppiamento, o di un premio


per la vittoria in una gara (Breiter et al., 2001; Damsma et al., 1992).
Inoltre, una lesione in una di queste due strutture cerebrali distrugge
ogni tipo di comportamento motivato (Koop et al., 2008; Grossman,
1979): l’animale smette di cercare cibo e finisce per morire, a meno di
non essere alimentato in maniera artificiale. Tutti questi dati hanno
portato gli scienziati a ritenere che il nucleus accumbens sia un centro
di cruciale importanza per gli effetti cerebrali e comportamentali della
ricompensa, sia nell’uomo che negli altri mammiferi.
Molti neuroni del fascicolo prosencefalico mediale i cui assoni
terminano nel nucleus accumbens rilasciano dopamina. Questo
neurotrasmettitore sembra essere essenziale per la componente del
‘volere’ nella ricompensa, ma non per quella del ‘piacere’. Per esempio,
negli animali addestrati a premere una leva per ottenere una
ricompensa (un pezzetto di cibo), si osserva il rilascio di dopamina nel
nucleus accumbens subito prima che l’animale eserciti la pressione
sulla leva, ma non dopo aver ricevuto la ricompensa (Phillips et al.,
2003). Questo pattern è in accordo con l’ipotesi secondo cui la dopamina
motiverebbe l’animale a cercare attivamente la ricompensa, mentre
non sarebbe essenziale per l’esperienza di piacere che ricava
dall’ottenerla. Altre prove a favore di questa tesi provengono
dall’osservazione che i ratti trattati con sostanze che bloccano l’effetto
della dopamina nel nucleus accumbens continuano a godere delle
ricompense attualmente presenti nel loro ambiente – mangiano se è
disponibile del cibo e si accoppiano se è disponibile un partner sessuale;
tuttavia, questi animali non cercano né si danno da fare per ottenere
ricompense non immediatamente presenti (non premono la leva per
ottenere un altro pezzetto di cibo). Al contrario, ratti trattati con
sostanze che aumentano l’attività della dopamina nel nucleus

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 7 di 13
Universitas Mercatorum Meccanismi cerebrali della ricompensa

accumbens mostrano un aumento della frequenza con cui si impegnano


nella ricerca di cibo o di altre ricompense.
Il rilascio di dopamina nel nucleus accumbens ha un ruolo
centrale non soltanto nel motivare l’animale a impegnarsi per ottenere
la ricompensa, ma anche nell’apprendimento – ovvero, nell’aumentare
la sua capacità di usare gli indizi ambientali per prevedere dove e
quando le ricompense diventeranno disponibili. Questo fenomeno è
stato dimostrato da ricerche in cui la quantità di dopamina rilasciata
nel nucleo accumbens veniva misurata mentre l’animale prevedeva
l’arrivo di una ricompensa (Day et al., 2007; Schultz, 1998). Quando
l’animale è affamato e si presenta del cibo in modo occasionale e non
prevedibile, si osserva un massiccio rilascio di dopamina nel nucleus
accumbens. Questo rilascio contribuisce a rafforzare l’associazione tra
la ricompensa e qualsiasi stimolo o azione che l’abbia preceduta.
Infatti, se si modifica la situazione in modo che il cibo venga
ripetutamente preceduto da un segnale luminoso, dopo alcune prove si
osserva che il rilascio di dopamina avviene alla comparsa della luce, e
non più alla presentazione del cibo: ciò indica che l’animale ha imparato
a prevedere l’arrivo della ricompensa ogni volta che appare lo stimolo
luminoso.
Se la dopamina è responsabile della componente del ‘volere’ nella
ricompensa, quale sostanza è responsabile della componente del
‘piacere’? Alcuni neuroni del fascicolo prosencefalico mediale rilasciano
una sostanza che appartiene alla famiglia delle endorfine –
neurotrasmettitori con effetti simili a quelli della morfina e di altri
oppiacei (ad esempio, l’eroina). Numerosi esperimenti indicano che il
rilascio di endorfine nel nucleus accumbens è cruciale per la sensazione
di piacere esperita nel momento in cui si ottiene una ricompensa. Negli
animali, l’iniezione di sostanze che attivano i recettori delle endorfine

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 8 di 13
Universitas Mercatorum Meccanismi cerebrali della ricompensa

nel nucleus accumbens fa aumentare la reazione facciale di ‘piacere’ al


saccarosio (Smith & Berridge, 2007); analogamente, nell’uomo è stato
dimostrato che le sostanze che riducono l’efficacia delle endorfine
diminuiscono anche il piacere percepito nel consumare un cibo o
nell’ottenere altri tipi di ricompense (Yeomans & Gray, 1996).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 9 di 13
Universitas Mercatorum Meccanismi cerebrali della ricompensa

3. TOSSICODIPENDENZA E GIOCO D’AZZARDO

Quando le persone si autosomministrano droghe come la


cocaina, l’amfetamina, l’eroina o l’oppio, si comportano per certi versi
in maniera simile a ciò che facevano i ratti osservati da Olds e Milner.
Infatti, tutte queste droghe esercitano i loro effetti euforici attraverso
il sistema cerebrale della ricompensa: esse simulano, o aumentano, gli
effetti della dopamina e delle endorfine sul nucleus accumbens (Koop
et al., 2008).
I ricercatori hanno sviluppato dei modelli animali allo scopo di
studiare in modo sperimentale il fenomeno della dipendenza,
utilizzando ratti o altri animali. Collegati ad apparecchi che pompano
droghe nel circolo sanguigno o direttamente nel nucleus accumbens, i
ratti imparano molto presto ad autosomministrarsi cocaina e altre
droghe (Hoebel et al., 1983). Cosa importante, questo comportamento
compulsivo cessa totaslmente in seguito alla distruzione o all’inibizione
chimica del nucleo accumbens (Wise, 1996), dimostrando come questo
nucleo abbia un ruolo fondamentale nello sviluppo della dipendenza da
droghe.
La conoscenza dei meccanismi cerebrali della ricompensa ci
aiuta anche a spiegare i meccanismi attraverso i quali queste droghe
causano dipendenza. Infatti, la cocaina attiva i neuroni dopaminergici
del nucleus accumbens che sono responsabili dell’apprendimento degli
stimoli ambientali associati alla presentazione della ricompensa.
Questi neuroni si attivano ogni volta che la droga viene assunta e ciò
causa un super-apprendimento (Hyman et al., 2006) – un fenomeno per
cui, ad ogni assunzione, la dopamina rafforza ulteriormente
l’associazione tra gli indizi ambientali e le sensazioni e i comportamenti

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 10 di 13
Universitas Mercatorum Meccanismi cerebrali della ricompensa

legati al desiderio della droga. Il risultato di questo processo è lo


stabilirsi di un fortissimo bisogno della droga, che si scatena ogni volta
che nell’ambiente sono presenti gli stessi indizi e stimoli associati alle
precedenti assunzioni.
Spesso nei tossicodipendenti si osserva che la componente del
‘piacere’ tende ad affievolirsi col tempo, mentre il desiderio della droga
(ovvero, la componente del ‘volere’) aumenta (Kelley & Berridge, 2002).
La perdita di piacere è verosimilmente dovuta al fatto che la droga
produce dei cambiamenti cerebrali che riducono la risposta di piacere
mediata dal rilascio di endorfine nel nucleus accumbens. Al contrario,
la risposta della dopamina e i suoi effetti cerebrali non si riducono col
tempo, e anzi aumentano: ciò implica che il bisogno della droga diventa
sempre più forte ad ogni nuova assunzione (Nestler & Malenka, 2004).
Una volta raggiunto questo stadio, la ragione principale per assumere
la droga non è più il piacere prodotto dalla sostanza, quanto il bisogno
e il desiderio di assumerla: la ricerca della droga acquista così un
carattere compulsivo.
In Italia, una percentuale della popolazione generale compresa
tra lo 0.5% e il 2.2% soffre di un bisogno compulsivo per il gioco
d’azzardo. Questa patologia è molto simile alla tossicodipendenza
(Holden, 2001): i giocatori dichiarano di provare una forte sensazione
di euforia ogni volta che giocano e vincono, mentre presentano sintomi
di astinenza (quali irrequietezza, sudorazione e insonnia) quando
cercano di non giocare. Inoltre, gli indizi ambientali che sono stati in
precedenza associati al gioco e alla vincita provocano in queste persone
un forte, e spesso irresistitbile, bisogno di giocare. In accordo con questa
somiglianza, diversi studi di neuroimmagine hanno dimostrato che i
giochi d’azzardo con premi in denaro sono potenti attivatori del nucleus
accumbens (Breiter et al., 2001; Knutsen et al., 2001).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 11 di 13
Universitas Mercatorum Meccanismi cerebrali della ricompensa

Poiche in quasi tutti i giochi d’azzardo le vincite non sono mai


prevedibili, ogni vincita porta ad un nuovo, massiccio rilascio di
dopamina nel nucleus accumbens. La persona può essere conscia del
fatto che non può fare niente per prevedere le vincite; tuttavia, il
sistema di ricompensa del cervello si comporta come se stesse
costantemente tentando di apprendere a prevedere la ricompensa. Ciò
causa, come detto, il ripetuto rafforzamento, mediato dalla dopamina,
delle associazioni tra le vincite e gli indizi e i comportamenti che le
hanno precedute e quindi allo stabilirsi di un vizio del gioco molto forte.
Il ruolo fondamentale della dopamina in questo processo è dimostrato
dal fatto che le persone che, per ragioni genetiche, hanno una maggiore
quantità di recettori della dopamina (Sabbatini da Silva Lobo et al.,
2007) o che assumono farmaci che potenziano la trasmissione
dopaminergica (ad esempio, per il trattamento della sindrome di
Parkinson: Giladi et al., 2007) sono particolarmente vulnerabili al gioco
d’azzardo compulsivo.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 12 di 13
Universitas Mercatorum Meccanismi cerebrali della ricompensa

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 13 di 13
MECCANISMI
DI REGOLAZIONE
DELLA FAME
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Meccanismi di regolazione
della fame

Indice

1. CONTROLLO NEURALE DELLA FAME ................................. 3

2. CONTROLLO ORMONALE DELLA FAME E RUOLO


DEGLI STIMOLI SENSORIALI .................................................. 6

3. L’OBESITÀ E I PROBLEMI DELLE DIETE .......................... 10

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 14

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 2 di 14
Universitas Mercatorum Meccanismi di regolazione
della fame

1. CONTROLLO NEURALE DELLA FAME

Durante la storia evolutiva della nostra specie, la difficoltà a


trovare cibo in quantità adeguata ha rappresentato uno degli ostacoli
principali per la sopravvivenza. Il risultato è che la selezione naturale
ci ha dotato di meccanismi molto potenti che ci fanno sentire la fame,
ci spingono a cercare cibo, a mangiarlo quando è disponibile e a provare
piacere quando lo mangiamo. La selezione naturale ci ha inoltre dotato
di meccanismi innati per la sazietà, che hanno lo scopo di impedirci di
sovralimentarci e diventare obesi. Tuttavia, la loro efficacia non è forte
come quella dei meccanismi responsabili della fame: ciò è dovuto al
fatto che, storicamente, la scarsità di cibo ha rappresentato un
problema molto più grave della sovrabbondanza. Al giorno d’oggi, le
cose sono molto diverse per coloro che vivono nei paesi occidentali
industrializzati: in questo contesto, il cibo è ampiamente e facilmente
disponibile, per cui l’obesità è diventata una patologia molto diffusa e
uno dei più gravi problemi di salute pubblica.
Lo scopo della fame e della sazietà è di regolare la quantità di
cibo introdotta nel corpo, in modo che sia adeguata a garantire la
sopravvivenza. In generale, tutti i sistemi di regolazione, incluso quello
della fame, si basano su un controllo a feedback: con questo termine ci
si riferisce ad un processo in cui la sostanza regolata agisce su un
meccanismo di controllo inibendo l’ulteriore produzione di quella
sostanza, una volta che essa abbia raggiunto un livello appropriato. Un
esempio di meccanismo con controllo a feedback è dato dalla
regolazione della temperatura ambientale da parte di un termostato.
Quando la temperatura scende al di sotto di una soglia prestabilita, un
interruttore all’interno del termostato si chiude, causando l’accensione

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 3 di 14
Universitas Mercatorum Meccanismi di regolazione
della fame

della caldaia; analogamente, quando la temperatura sale al di sopra di


un valore prestabilito, il termostato si attiva provocando lo
spegnimento della caldaia.
Il cervello dei mammiferi, compreso l’uomo, regola l’introduzione
di cibo nel corpo con un sistema che ricorda il funzionamento di un
termostato. Gruppi di neuroni nell’ipotalamo fanno aumentare o
diminuire la pulsione dell’animale a mangiare. Tali neuroni
costituiscono una sorta di ‘cibostato’, in quanto sono a loro volta regolati
dalla carenza o dal surplus di sostanze nutritive presenti nel circolo
sanguigno. La scarsità di sostanze nutritive attiva il ‘cibostato’, il quale
stimola l’appetito e motiva l’animale a cercare e consumare cibo; d’altra
parte, l’abbondanza di sostanze nutritive nel corpo viene segnalata da
un insieme di indicatori che agiscono a feedback sul ‘cibostato’,
riducendo l’appetito.
I neuroni che regolano l’appetito si concentrano nel nucleo
arcuato dell’ipotalamo, il quale occupa la porzione inferiore
dell’ipotalamo, molto vicino all’ipofisi. Questo nucleo è stato definito dai
ricercatori il ‘centro generale di controllo’ per la regolazione
dell’appetito e della fame (Marx, 2003), e contiene due tipi di neuroni
che hanno effetti opposti. Una prima classe di neuroni è deputata a
stimolare l’appetito e promuove tutti gli effetti associati all’aumento
della fame, tra cui l’incremento di attenzione verso qualsiasi indizio
correlato al cibo, l’aumentata attività di esplorazione dell’ambiente alla
ricerca di cibo, e l’accresciuto piacere derivante dal sapore del cibo. Al
contrario, l’altra classe di neuroni sopprime l’appetito, producendo in
varie parti del cervello effetti opposti rispetto a quelli appena elencati.
Entrambi i tipi di neuroni esercitano i loro effetti su altre aree
del cervello attraverso il rilascio di neurotrasmettitori ad azione lenta.
Questi neurotrasmettitori alterano l’attività neurale per un periodo di

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 4 di 14
Universitas Mercatorum Meccanismi di regolazione
della fame

tempo più lungo rispetto ai neurotrasmettitori ad azione veloce (per


periodi che vanno da qualche minuto fino a parecchie ore). Il più noto
neurotrasmettitore ad azione lenta rilasciato dai neuroni del nucleo
arcuato è il neuropeptide Y, che rappresenta il più potente stimolatore
dell’appetito finora scoperto. Iniettata in qualsiasi area dell’ipotalamo,
questa sostanza causa l’insorgere di un’intensa voracità in animali
precedentemente sazi (Stanley & Gillard, 1994).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 5 di 14
Universitas Mercatorum Meccanismi di regolazione
della fame

2. CONTROLLO ORMONALE DELLA FAME E


RUOLO DEGLI STIMOLI SENSORIALI

Consumare un pasto innesca tutta una serie di cambiamenti


fisiologici, tra cui un moderato innalzamento della temperatura
corporea, un aumento del livello ematico di glucosio, la distensione
delle pareti dello stomaco e dell’intestino e il rilascio di una serie di
ormoni prodotti dalle ghiandole endocrine dello stomaco e
dell’intestino. Tutti questi cambiamenti agiscono, in modo diretto o
indiretto, sul nucleo arcuato dell’ipotalamo, in modo da attivare i
neuroni che sopprimono la sensazione di fame ed inibire i neuroni che
la stimolano (Berthoud & Morrison, 2008).
Uno degli ormoni più studiati dai ricercatori è il peptide YY3-36
(abbreviato PYY), che è prodotto nell’intestino crasso e agisce sul
nucleo arcuato dell’ipotalamo in modo da sopprimere l’appetito.
L’ingestione di cibo stimola la secrezione di PYY nel circolo sanguigno:
i livelli ematici di questo ormone cominciano ad aumentare circa 15
minuti dopo la fine del pasto, arrivano al picco dopo 60 minuti e si
mantengono elevati fino a 6 ore dopo un pasto abbondante (Batterham
et al., 2003). Sia nei ratti che negli esseri umani, l’iniezione in circolo
di una dose aggiuntiva di PYY riduce il consumo di cibo per alcune ore
(Gardiner et al., 2008). In un esperimento, l’iniezione di PYY ridusse di
circa il 30% l’ingestione di cibo a un buffet, sia da parte di soggetti
magri che di soggetti obesi (Batterham et al., 2003). Lo stesso gruppo
di ricerca ha scoperto che i soggetti magri hanno livelli basali di PYY
mediamente più alti dei soggetti obesi (si veda la Figura 1): inoltre,
dopo un pasto i soggetti magri mostrano un maggior aumento dei livelli

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 6 di 14
Universitas Mercatorum Meccanismi di regolazione
della fame

ematici di PYY. Questi dati suggeriscono che una scarsa produzione di


PYY possa essere una delle cause alla base dell’obesità.
Sul lungo periodo, mangiare più di quello che è necessario fa
aumentare i depositi di grasso che si accumulano nelle cellule adipose,
presenti in vari tessuti del corpo. I depositi di grasso costituiscono una
fonte di energia extra a cui il corpo può attingere quando il cibo
scarseggia. Tuttavia, un eccesso di grasso ostacola il movimento,
sottopone a stress tutti gli organi interni ed è associato a varie malattie
cardiache e metaboliche. Non è dunque sorprendente che il meccanismo
di regolazione della fame sia anche sensibile alla quantità di grasso
accumulata nelle cellule adipose. Negli esseri umani e in tutti gli altri
mammiferi, le cellule adipose secernono un ormone chiamato leptina,
ad un tasso direttamente proporzionale alla quantità di grasso in esse
presente (Woods et al., 2000). La leptina viene assorbita dal cervello,
dove stimola i neuroni del nucleo arcuato che riducono l’appetito: ciò è
dimostrato dal fatto che animali privi del gene per la sintesi della
leptina o del gene per la sintesi del suo recettore nell’ipotalamo
diventano estremamente obesi (Friedman, 1997). Negli anni ’90 la
scoperta dell’effetto di soppressione della fame da parte della leptina
generò un grande entusiasmo riguardo alla possibilità di portare le
persone obese a perdere peso mediante semplici iniezioni di leptina.
Tuttavia, le ricerche successive hanno evidenziato un quadro ben
diverso: infatti, i dati indicano che le persone in sovrappeso non hanno
un deficit di leptina; anzi, esse producono livelli di questo ormone che
sono molto superiori rispetto ai livelli che normalmente producono una
riduzione dell’appetito (Marx, 2003). Dunque, le persone obese si
sentono cronicamente affamate non perché manchino di leptina in
circolo, ma perché il loro cervello è poco sensibile agli effetti di questo
ormone (Berthoud & Morrison, 2008; Friedman, 2003).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 7 di 14
Universitas Mercatorum Meccanismi di regolazione
della fame

Figura 1. Livelli ematici dell’ormone PYY in soggetti magri (lean) ed obesi (obese).

La fame non è provocata solo da eventi interni, ma anche da


stimoli sensoriali esterni. Per esempio, anche se non siamo affamati, la
vista o l’odore di un buon cibo possono farci venire fame. Dal punto di
vista evoluzionistico ciò ha perfettamente senso, in quanto la nostra
specie ha spesso affrontato periodi di carestia in cui la disponibilità di
cibo era scarsa; ciò ha portato gli esseri umani, così come tutti gli altri
mammiferi, a sviluppare un notevole opportunismo rispetto al cibo: la
nostra fame aumenta quando il cibo è disponibile e non tralasciamo di
mangiare ogni volta che ne abbiamo l’opportunità. Per lo stesso motivo,
qualsiasi indizio che in passato ha segnalato l’opportunità di mangiare
(ad esempio, la vista di un orologio che segna l’ora di pranzo) può
acquisire la capacità di stimolare un improvviso appetito attraverso
processi di condizionamento classico. Questo condizionamento si
manifesta non soltanto in un’accresciuta sensazione di fame, ma anche
nella comparsa di risposte fisiologiche riflesse, come la secrezione di
Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 8 di 14
Universitas Mercatorum Meccanismi di regolazione
della fame

saliva e succhi gastrici che preparano il corpo all’ingestione di cibo


(Woods et al., 2000).
Dopo che una persona ha iniziato a mangiare, la varietà nel
sapore del cibo a disposizione può influenzare la riduzione o il protrarsi
dell’appetito nel corso del pasto. Le persone che mangiano un unico tipo
di cibo fino a sazietà, manifestano un rinnovato appetito quando si
presenta loro un cibo differente, che ha un sapore diverso. Questo
fenomeno è definito sazietà sensoriale specifica e vari indizi
suggeriscono che l’effetto sia mediato dal senso del gusto (Raynor &
Epstein, 2001). Infatti, le persone che hanno mangiato un unico tipo di
cibo dichiarano che la gustosità di tale cibo è inferiore rispetto a quella
di cibi diversi. In questo senso, gli esperimenti condotti su animali
giunti a sazietà dimostrano che la vista e l’odore di un cibo nuovo
possono innescare una ripresa nell’attività dei neuroni ipotalamici che
stimolano l’appetito (Rolls et al., 1986). Altre ricerche indicano che gli
animali che possono scegliere tra una grande varietà di cibi diversi
mangiano di più e diventano più grassi rispetto ad animali che possono
mangiare un unico tipo di cibo, anche quando il contenuto nutrizionale
è lo stesso (Raynor & Epstein, 2001). Analogamente, negli esseri umani
è stato trovato che le persone mangiano di più quando possono scegliere
tra diversi tipi di cibi (Temple et al., 2008).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 9 di 14
Universitas Mercatorum Meccanismi di regolazione
della fame

3. L’OBESITÀ E I PROBLEMI DELLE DIETE

Come accennato pocanzi, l’evoluzione ci ha dotato di meccanismi


innati per la sazietà, che dovrebbe impedirci di diventare obesi.
Tuttavia, questi meccanismi sono molto meno efficaci rispetto a quelli
che governano la fame. In effetti, l’obesità è una malattia specifica dei
nostri tempi, in quanto in passato la scelta dei cibi era molto più
limitata e il loro contenuto di zuccheri e grassi era molto inferiore. Per
valutare l’obesità, l’Organizzazione mondiale della sanità ha adottato
un indice di massa corporea o BMI (body mass index), il quale è definito
come il peso della persona (in kg) diviso per il quadrato dell’altezza in
metri. Un BMI uguale o superiore a 25 è indice di sovrappeso, mentre
un BMI uguale o superiore a 30 è indice di obesità. Stando a questi
criteri, negli USA circa il 66% della popolazione adulta è in sovrappeso
(in Italia circa il 35%), e circa la metà delle persone in sovrappeso è
obesa (in Italia circa il 10%). Il confronto tra questi dati e quelli emersi
in ricerche precedenti dimostra chiaramente che il tasso di obesità sta
aumentando rapidamente in tutti i paesi industrializzati, e con esso
anche l’incidenza di malattie quali il diabete di tipo 2, la coronaropatia,
l’ictus e alcuni tipi di cancro (Marx, 2001).
Molti dati suggeriscono che, negli Stati Uniti (così come in tutti
gli altri paesi di cultura occidentale), il fattore principale nel
determinare se una persona diventerà o meno obesa è quello genetico
(Barsh et al., 2000). In particolare, le ricerche hanno trovato che: a) il
peso dei bambini adottati presenta una correlazione molto più alta con
il peso dei genitori biologici che con quello dei genitori adottivi; b)
gemelli identici (monozigoti) sono molto simili rispetto al peso, anche
quando crescono in famiglie diverse; c) la correlazione tra il peso di

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 10 di 14
Universitas Mercatorum Meccanismi di regolazione
della fame

fratelli biologici cresciuti in case diverse è molto simile a quella che si


ottiene in coppie di fratelli cresciuti nella stessa casa (Stunkard et al.,
1986).
Ciò non significa che le differenze ambientali non hanno alcun
peso nel determinare l’incidenza dell’obesità nella popolazione
generale. Infatti, se si confrontano culture diverse, emerge che anche
le differenze ambientali possono influenzare il peso corporeo. I geni che
promuovono l’obesità svolgono la propria azione in vari modi:
aumentando la propensione delle persone a consumare cibi grassi ricchi
di calorie, diminuendo il feedback che un consumo elevato di cibo o
l’alto livello di grassi producono sui neuroni ipotalamici che regolano la
fame, oppure diminuendo la capacità del corpo di bruciare rapidamente
le calorie in eccesso. Il risultato è che, quando non sono disponibili cibi
altamente calorici, questi geni da soli non portano allo sviluppo
dell’obesità. A sostegno di questa ipotesi, uno studio ha trovato che tra
gli indiani Pima del Messico (che si nutrono soprattutto di cereali e
vegetali) l’obesità era molto più rara che tra gli indiani Pima,
geneticamente imparentati, che vivono in Arizona (tra i quali la
disponibilità di cibi calorici era molto maggiore) (Gibbs, 1996).
Una volta acquistato e depositato nelle cellule adipose, il peso in
eccesso è molto difficile da perdere. Ciò è dovuto al fatto che una
diminuzione drastica della quantità di cibo assunta, oltre ad attivare i
meccanismi cerebrali della fame, provoca un rallentamento del
metabolismo basale (il tasso al quale le calorie sono bruciate
nell’individuo a riposo), per cui il cibo viene convertito in grasso con
efficienza maggiore (Leibel et al., 1995). Malgrado ciò, alcune persone
riescono a perdere peso senza riacquistarlo: per esempio, uno studio
condotto su circa 3000 persone che avevano perso almeno 30 chili e che,
dopo la diminuzione, avevano mantenuto il nuovo peso per una media

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 11 di 14
Universitas Mercatorum Meccanismi di regolazione
della fame

di 5 anni ha trovato che esse erano riuscite a dimagrire soprattutto


evitando i cibi grassi e aumentando notevolmente l’attività fisica
(Butler, 2004). Molti altri studi hanno successivamente confermato che
la combinazione tra dieta ed esercizio fisico è molto più efficace nel
determinare una perdita di peso rispetto alla sola dieta (Cudjoe et al.,
2007).
Gli studi sull’appetito e sul metabolismo sono una fonte di ottimi
consigli per chi ha intenzione di perdere peso. Tra i punti di maggiore
importanza ricordiamo i seguenti:

 Non cercare di perdere peso in fretta: il peso perduto con


diete drastiche e insostenibili sul lungo periodo viene
rapidamente riacquistato al termine della dieta;
 Selezionare il cibo: i cibi dolci e grassi altamente calorici
(incluse bibite gassate e patatine) andrebbero eliminati e
sostituiti con carboidrati complessi (pane e cereali integrali),
frutta e verdure, che saziano ma sono a basso contenuto
calorico;
 Sfruttare la sazietà sensoriale specifica a proprio vantaggio:
bisognerebbe sempre cercare di avere a disposizione
un’ampia varietà di frutta e verdure (ciò aumenta la
sensazione di sazietà), mentre la scelta di cibi altamente
calorici e di latticini dovrebbe essere molto ristretta;
 Dare al corpo il tempo di attivare i meccanismi della sazietà:
ogni pasto andrebbe consumato lentamente, in modo da
assaporarlo e gustarlo; se si è ancora affamati al termine del
pasto, bisognerebbe attendere almeno 15 minuti prima di
decidere se mangiare ancora oppure no – questo è il tempo

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 12 di 14
Universitas Mercatorum Meccanismi di regolazione
della fame

medio che impiega l’ormone PYY e altri fattori che causano


la sazietà ad agire sul nucleo arcuato dell’ipotalamo;
 Aumentare l’attività fisica: in caso di lavoro sedentario (ad
esempio, se siete studenti), bisognerebbe trovare qualche
hobby che comporti una discreta attività fisica, almeno
qualche ora a settimana; inoltre, bisognerebbe evitare di
usare l’ascensore o l’automobile per gli spostamenti brevi.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 13 di 14
Universitas Mercatorum Meccanismi di regolazione
della fame

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 14 di 14
PULSIONI
NON REGOLATIVE:
LA PULSIONE
SESSUALE
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Pulsioni non regolative:
la pulsione sessuale

Indice

1. EFFETTI ORMONALI SULLA PULSIONE SESSUALE NEI


MASCHI........................................................................................... 3

2. EFFETTI ORMONALI SULLA PULSIONE SESSUALE


NELLE FEMMINE ........................................................................ 7

3. DIFFERENZIAMENTO E ORIENTAMENTO SESSUALE .. 10

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 14

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 2 di 14
Universitas Mercatorum Pulsioni non regolative:
la pulsione sessuale

1. EFFETTI ORMONALI SULLA PULSIONE


SESSUALE NEI MASCHI

La pulsione sessuale rappresenta di gran lunga la più studiata


tra le pulsioni non regolative – ovvero, quelle pulsioni che non
contribuiscono al raggiungimento dell’omeostasi. Come per la fame, la
maggior parte degli studi sui meccanismi fisiologici sottostanti alla
pulsione sessuale sono stati condotti su animali di laboratorio.
Ovviamente, esistono delle nette differenze nel modo in cui una stessa
pulsione si manifesta negli esseri umani e nei mammiferi di rango
inferiore, e questo comporta dei limiti nel grado di conoscenza che è
possibile raggiungere studiando una pulsione in ratti o in cani. Per
esempio, negli esseri umana la pulsione sessuale non è limitata all’atto
dell’accoppiamento, ma include tutti i comportamenti legati
all’esperienza dell’innamoramento (ad esempio, guardarsi
intensamente negli occhi, scambiarsi dei gesti affettuosi, etc.). Anche
per quanto riguarda l’atto della copulazione vi sono chiare differenze
tra noi e gli altri mammiferi: nella maggior parte delle specie,
l’accoppiamento è un atto stereotipato in cui il maschio e la femmina
producono una serie definita di posture e movimenti; al contrario, negli
esseri umani la varietà dei modi in cui può avvenire l’accoppiamento è
limitata solo dall’immaginazione. Pur considerando tutte queste
differenze, gli studi su animali di laboratorio sono comunque utili per
comprendere i meccanismi fisiologici fondamentali che noi
condividiamo con la maggioranza dei mammiferi.
Nei maschi, l’ormone cruciale per il mantenimento e la
regolazione della pulsione sessuale è il testosterone, prodotto dai
testicoli. La castrazione (ovvero, l’asportazione chirurgica dei testicoli)

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 3 di 14
Universitas Mercatorum Pulsioni non regolative:
la pulsione sessuale

determina un notevole declino della pulsione sessuale, che non è


immediato ma graduale (nei ratti si verifica entro qualche giorno, nei
cani entro qualche settimana, mentre nei primati ci vogliono alcuni
mesi) (Feder, 1984). Inoltre, l’iniezione di testosterone nel circolo
sanguigno di un animale castrato ristabilisce completamente la
pulsione sessuale.
Un altro metodo per ristabilire la pulsione sessuale in animali
castrati consiste nell’iniettare testosterone nell’area preottica mediale
dell’ipotalamo (Davidson, 1980; si veda la Figura 1 per la localizzazione
anatomica nell’uomo). I neuroni dell’area preottica mediale contengono
molti recettori per il testosterone, e anche piccole lesioni in questa zona
sono in grado di sopprimere il comportamento sessuale nei ratti maschi
(Meisel & Sachs, 1994). L’area preottica mediale dell’ipotalamo sembra
quindi essere una componente fondamentale del sistema pulsionale
centrale che controlla la pulsione sessuale nella maggior parte dei
mammiferi. Su quest’area l’effetto del testosterone è prolungato (a
lungo termine), tale da aumentare l’attività neurale e mantenere la
pulsione ad un livello stabile per periodi relativamente lunghi.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 4 di 14
Universitas Mercatorum Pulsioni non regolative:
la pulsione sessuale

Figura 1. Aree e nuclei dell’ipotalamo nell’uomo.

Il testosterone ha un ruolo fondamentale nel mantenere la


pulsione sessuale anche negli esseri umani.
Infatti, gli uomini che, per ragioni mediche o a causa di incidenti,
hanno subito la castrazione mostrano una riduzione della pulsione e
del comportamento sessuale (che nella maggior parte dei casi non è
completa); come nei ratti, anche nell’uomo la pulsione sessuale nei
maschi castrati viene completamente ristabilita da iniezioni di
testosterone (Money & Ehrhardt, 1972). Altri studi hanno dimostrato
che iniettando testosterone era possibile stimolare il comportamento
sessuale in maschi non castrati che producono livelli molto bassi di
questo ormone (Reyes-Vallejo et al., 2007). Queste iniezioni influiscono
sul desiderio sessuale, non sulla capacità sessuale; infatti, in genere i
soggetti che presentano una bassa produzione di testosterone non
presentano problemi negli aspetti meccanici del comportamento

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 5 di 14
Universitas Mercatorum Pulsioni non regolative:
la pulsione sessuale

sessuale e dell’accoppiamento: piuttosto, essi non sentono il bisogno


sessuale finché non viene somministrato loro l’ormone (Davidson &
Myers, 1988).
I dati ottenuti dai ricercatori suggeriscono che, negli uomini, la
quantità di testosterone secreta è influenzata da numerose condizioni
psicologiche. In generale, le condizioni che promuovono l’autostima e la
fiducia in sé (ad esempio, la vittoria di una gara o un piacevole incontro
con una donna) tendono a far aumentare la produzione di testosterone
(Archer, 2006; Roney et al., 2007). Non si sa con certezza quali
potrebbero essere gli scopi di queste fluttuazioni temporanee del
testosterone. Come detto in precedenza, gli effetti del testosterone
sull’ipotalamo e sulla pulsione sessuale sono quasi sempre a lungo
termine, e non vi sono prove che la pulsione sessuale aumenti o
diminuisca in accordo con le variazioni occasionali nel livello ematico
di testosterone. D’altra parte, numerose evidenze sperimentali
indicano che le fluttuazioni temporanee del testosterone influenzano le
tendenze aggressive e competitive degli uomini, più che l’intensità
della loro pulsione sessuale. In media, gli uomini che presentano alti
livelli naturali di testosterone sono più aggressivi, e più interessati alla
competizione e allo status sociale; inoltre, l’iniezione di testosterone fa
aumentare gli indici di aggressività e competitività (sebbene non tutti
i dati convergono con questa conclusione: Archer, 2006). In un
interessante esperimento, è stato dimostrato che gli uomini che
mostravano un aumento di testosterone dopo una sconfitta erano più
inclini a chiedere la rivincita, rispetto a uomini in cui la sconfitta
produceva una classica diminuzione nella produzione di testosterone
(Mehta & Josephs, 2006).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 6 di 14
Universitas Mercatorum Pulsioni non regolative:
la pulsione sessuale

2. EFFETTI ORMONALI SULLA PULSIONE


SESSUALE NELLE FEMMINE

Dopo la pubertà, gli ovai delle femmine cominciano a secernere


estrogeni e progesterone con un andamento ciclico regolare nel tempo
che dà luogo alla sequenza di eventi nota come ciclo mestruale nella
specie umana, e in generale ciclo estrale nei mammiferi. Nella gran
parte delle specie, il ciclo ormonale controlla sia l’ovulazione sia la
pulsione sessuale.
Nella maggioranza dei mammiferi diversi dall’uomo, il
comportamento sessuale è strettamente controllato dal ciclo estrale.
Infatti, la femmina cerca attivamente un partner e si rende disponibile
all’accoppiamento soltanto durante il periodo del ciclo in cui avviene
l’ovulazione (ovvero, il periodo in cui può restare gravida). In questi
animali, l’asportazione degli ovai elimina il comportamento sessuale
nelle femmine, mentre l’iniezione di ormoni lo ristabilisce. Gli studi
condotti sui ratti dimostrano che l’area ventromediale dell’ipotalamo
svolge un ruolo centrale nel comportamento sessuale delle femmine
(analogo a quello svolto dall’area preottica mediale nei maschi).
L’iniezione di minime quantità di estrogeno o progesterone in
quest’area ristabilisce il comportamento sessuale nelle femmine di
ratto che hanno subito l’asportazione degli ovai; inoltre, lesioni in
quest’area cerebrale eliminano il comportamento sessuale in femmine
di ratto normali (non castrate: Pleim & Barfield, 1988).
Nelle femmine dei primati (a differenza dei non primati),
l’attività sessuale è parzialmente indipendente dal ciclo estrale: infatti,
esse possono accoppiarsi con un maschio anche nei periodi del ciclo in
cui non sono fertili – anche se l’attività sessuale continua ad essere più

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 7 di 14
Universitas Mercatorum Pulsioni non regolative:
la pulsione sessuale

frequente nel periodo fertile (Wallen, 2001). In questi primati, la


pulsione sessuale nelle fasi non fertili del ciclo è regolata non dagli
ormoni ovarici, ma piuttosto dal testosterone e da altri androgeni –
ormoni tipicamente maschili che vengono però prodotti (in quantità
minori) anche dalle ghiandole surrenali delle femmine (sia nelle
scimmie che nell’uomo).
Nella femmina della specie umana l’indipendenza del
comportamento sessuale dal controllo ormonale del ciclo mestruale è
ancora più accentuata: esse possono provare una pulsione sessuale più
o meno forte in qualsiasi momento del ciclo mestruale. Nella donna,
l’attivazione della pulsione sessuale è ampiamente sotto il controllo
degli androgeni della surrenale. Infatti, studi condotti su donne
ovariectomizzate dimostrano che esse non riferiscono quasi mai una
diminuzione della pulsione sessuale, cosa che invece accade nelle donne
a cui sono state asportate le ghiandole surrenali. Inoltre, trattamenti a
lungo termine con testosterone producono un aumento del desiderio
sessuale in donne che in precedenza ne riferivano una netta
diminuzione (Guay, 2001; Sherwin & Gelfand, 1987).
Nonostante questa marcata indipendenza dal ciclo mestruale,
anche nelle donne della specie umana il ciclo mestruale continua ad
esercitare una certa influenza sulla pulsione sessuale. Numerosi studi
hanno infatti dimostrato che, durante la fase fertile del ciclo, le donne
tendono in media a vestirsi in modo più provocante, a parlare con toni
di voce più morbidi, sono più attratte verso uomini dai caratteri molto
mascolini, e intraprendono l’attività sessuale con frequenza maggiore
rispetto alle fasi non fertili del ciclo (Pipitone & Gallup, 2008; Schwarz
& Hassenbrauck, 2008). In questo ambito di ricerca, è importante
distinguere tra eccitabilità (ovvero, la capacità di giungere
all’eccitamento sessuale in risposta a stimoli appropriati) e procettività

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 8 di 14
Universitas Mercatorum Pulsioni non regolative:
la pulsione sessuale

(ovvero, la motivazione soggettiva a cercare e iniziare l’attività


sessuale, anche in assenza di stimoli sessuali) (Diamond, 2006). I dati
disponibili in letteratura suggeriscono che l’eccitabilità rimane stabile
per tutta la durata del ciclo mestruale, mentre la procettività aumenta
nel periodo fertile. Questo incremento potrebbe essere dovuto, almeno
in parte, alla produzione di ormoni androgeni surrenali, in quanto essa
aumenta notevolmente durante la fase fertile del ciclo mestruale
(Salonia et al., 2008).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 9 di 14
Universitas Mercatorum Pulsioni non regolative:
la pulsione sessuale

3. DIFFERENZIAMENTO E ORIENTAMENTO
SESSUALE

Gli ormoni sessuali influenzano la pulsione e il comportamento


sessuale attraverso due diversi tipi di effetti. Gli effetti di attivazione
sono gli effetti di cui si è parlato nei paragrafi precedenti: gli ormoni
agiscono su strutture cerebrali già sviluppate in modo da innescare
(attivare, appunto) la pulsione sessuale. Gli effetti di differenziamento,
invece, si verificano in genere prima della nascita e fanno in modo che
il cervello si sviluppi in senso maschile o femminile.
All’inizio, l’unica differenza tra maschi e femmine è che la
femmina possiede due cromosomi X, mentre nel maschio vi è un
cromosoma Y, più piccolo rispetto al cromosoma X. In particolare, un
gene localizzato sul cromosoma Y è responsabile dello sviluppo dei
testicoli. Durante il periodo fetale, i testicoli cominciano a produrre
testosterone, il quale agisce sul cervello e sulle strutture corporee in
modo da stimolarne lo sviluppo in senso maschile. Infatti, il
testosterone agisce in modo che gli abbozzi dei genitali esterni del feto
si differenziano nei genitali maschili; in assenza di dell’ormone, gli
abbozzi formano le strutture genitali femminili, che includono il
clitoride e la vagina (Page et al., 1987). Inoltre, il testosterone agisce
sul cervello in modo da promuovere lo sviluppo dei sistemi neurali
coinvolti nella pulsione maschile, e inibire lo sviluppo dei sistemi
neurali coinvolti nella pulsione femminile. Un esempio degli effetti
precoci del testosterone sul cervello è dato dal nucleo sessualmente
dimorfico, un insieme di neuroni che fanno parte dell’area preottica
mediale dell’ipotalamo (si veda la Figura 2). Nei ratti, questo nucleo è
circa cinque volte più grande che nelle femmine (Gorski et al., 1980), e

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 10 di 14
Universitas Mercatorum Pulsioni non regolative:
la pulsione sessuale

tale differenza è interamente dovuta alla presenza o all’assenza di


testosterone nelle primissime fasi dello sviluppo fetale.
Per produrre questi effetti di differenziamento sulle strutture
corporee, il testosterone deve agire durante un periodo chiaramente
definito dello sviluppo, detto periodo critico. Nei ratti, tale periodo va
da pochi giorni prima della nascita a circa un giorno dopo la nascita;
nella specie umana, invece, esso termina prima della nascita. D’altra
parte, il periodo critico per gli effetti del testosteroni sulle strutture
cerebrali è molto più esteso nel tempo. Questo sfasamento fa sì che,
agendo al momento opportuno sugli ormoni, è possibile ottenere
animali che hanno i genitali di un sesso, ma le strutture cerebrali e il
comportamento tipico dell’altro sesso (Ward, 1992).

Figura 2. Il nucleo sessualmente dimorfico nel cervello dei ratti.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 11 di 14
Universitas Mercatorum Pulsioni non regolative:
la pulsione sessuale

La capacità del testosterone di mascolinizzare il cervello


femminile è dimostrato dalle bambine affette da iperplasia surrenale
congenita, una rara malattia caratterizzata dal fatto che le ghiandole
surrenali producono un eccesso di androgeni, compreso il testosterone,
nel feto in via di sviluppo. Tali bambine mostrano una parziale
mascolinizzazione dei genitali, per cui alla nascita vengono sottoposte
a trattamenti ormonali con estrogeni e progesterone, spesso abbinati a
interventi chirurgici per modificare i genitali in senso femminile.
Nonostante ciò, molti studi hanno dimostrato che queste ragazze
mantengono comunque molte caratteristiche maschili: tendono a
essere più attive e aggressive nei giochi infantili, mostrano una
preferenza a giocare con i maschi e con giocattoli per maschi (Paterski
et al., 2007), e da adulte hanno più probabilità di essere omosessuali o
bisessuali (Hines et al., 2004). Tali effetti sono chiaramente
riconducibili all’esposizione agli androgeni nella fase prenatale.
Secondo statistiche recenti, una percentuale compresa tra il 2%
e il 5% di uomini, e tra l’1% e il 2% di donne, dichiara di essere
esclusivamente omosessuale (Rahman & Wilson, 2003). Inoltre, si
ritiene che una percentuale molto più alta di persone sia bisessuale
(Diamond, 2006). Le differenze genetiche hanno certamente un ruolo
nel determinare l’orientamento sessuale: infatti, diversi studi indicano
che i gemelli identici di uomini o donne omosessuali sono anch’essi
omosessuali in circa il 50% dei casi – una percentuale che scende però
al 15% in coppie di fratelli o gemelli non identici (Hyde, 2005). A questo
proposito, si ricordi che se l’omosessualità fosse completamente
determinata da fattori genetici, allora i gemelli identici dovrebbero
essere entrambi omosessuali nel 100% dei casi.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 12 di 14
Universitas Mercatorum Pulsioni non regolative:
la pulsione sessuale

Per quanto riguarda i fattori non genetici, un elemento che


sembra essere importante per l’orientamento sessuale è l’effetto
dell’ordine di nascita tra fratelli (Blanchard, 2008). Più alto è il numero
di fratelli maschi maggiori che un uomo ha, e più alte sono le sue
probabilità di essere omosessuale. L’effetto è piuttosto forte, in quanto
la probabilità di essere omosessuale aumenta dal 2% per il primo figlio
maschio al 6% per il quinto figlio maschio (Blanchard, 2001). D’altra
parte, il numero di sorelle maggiori non ha alcun effetto sulla
probabilità di un uomo di essere omosessuale, e per le donne non è stato
rilevato alcun effetto dovuto all’ordine di nascita tra sorelle.
Attualmente, la spiegazione più accreditata per questo effetto propone
che esso derivi da un cambiamento nell’ambiente prenatale indotto dai
figli maschi nati in precedenza, il quale porterebbe alla parziale
inattivazione di particolari proteine prodotte dai geni sul cromosoma
Y, le quali contribuirebbero alla mascolinizzazione del cervello del feto
da parte degli androgeni (Blanchard, 2001, 2008).
È bene ricordare che, all’incirca trenta o quaranta anni fa, molti
psicologi e psichiatri erano convinti che l’omosessualità fosse dovuta in
primo luogo alle esperienze vissute dalle persone in età giovanile. Tra
i fattori ambientali chiamati in causa vi erano lo stile genitoriale,
l’assenza della figura paterna o materna, l’aver subito in età infantile
abusi sessuali da parte di persone dello stesso sesso, o l’aver vissuto
particolari esperienze sessuali nell’adolescenza. Gli studi condotti in
questo campo (attraverso la somministrazione di migliaia di interviste
e questionari in cui furono raccolte le esperienze giovanili di soggetti
omosessuali ed eterosessuali) hanno fornito prove scarse, se non nulle,
del fatto che tali fattori abbiano un effetto sull’orientamento sessuale
(Bell et al., 1981; Dawood et al., 2000).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 13 di 14
Universitas Mercatorum Pulsioni non regolative:
la pulsione sessuale

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 14 di 14
LA PULSIONE
DEL SONNO
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum La pulsione del sonno

Indice

1. IL SONNO COME STATO FISIOLOGICO ................................ 3

2. LE FUNZIONI DEL SONNO: CONSERVAZIONE E


PROTEZIONE ................................................................................ 7

3. LA TEORIA DEL RECUPERO FISICO E LE FUNZIONI


DEL SONNO REM ....................................................................... 10

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 14

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 2 di 14
Universitas Mercatorum La pulsione del sonno

1. IL SONNO COME STATO FISIOLOGICO

Il bisogno di dormire è chiaramente una pulsione. Infatti, una


persona assonnata è fortemente motivata a dormire e a trovare un
posto sicuro dove farlo; inoltre, raggiungere tale scopo e lasciarsi
scivolare nel sonno produce un senso di piacere analogo a quello che si
prova nel mangiare quando si ha fame o nel bere quando si ha sete. Per
certi versi, il sonno funziona come una pulsione regolativa: come nel
caso della fame o della sete, quanto più una persona resiste al bisogno
di dormire, tanto più forte diventa l’impulso. Ma, a differenze delle
altre pulsioni regolative, non è molto chiaro che cosa venga regolato
dalla pulsione del sonno, a parte il sonno stesso.
Il sonno è uno stato di relativa inattività. Di conseguenza, per
chi si dedica allo studio di tale condizione, l’indice più valido degli
eventi che caratterizzano il sonno è l’elettroencefalogramma
(abbreviato EEG). L’EEG è una registrazione amplificata dell’attività
elettrica del cervello, raccolta da elettrodi posizionati sullo scalpo del
soggetto: il tracciato che si ottiene rappresenta una sorta di media
dell’attività di miliardi di neuroni (naturalmente, i neuroni più vicini
agli elettrodi hanno un’influenza maggiore).
Quando una persona è sveglia ma rilassata, con gli occhi chiusi,
senza pensare a nulla in particolare, l’EEG consiste di grandi onde
regolari, dette onde alfa, che si susseguono ad una frequenza di circa 8-
13 cicli al secondo (si veda la Figura 1). Queste onde sono originate
dall’attività spontanea, sincronizzata e ritmica dei neuroni del talamo
e della corteccia cerebrale, che si verifica in assenza di attività mentale
focalizzata e di eccitazione emotiva. D’altra parte, quando una persona
concentra l’attenzione su uno stimolo esterno o si eccita per qualche

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 3 di 14
Universitas Mercatorum La pulsione del sonno

ragione, le onde dell’EEG diventano meno ampie, più frequenti e


irregolari – un tipo definite onde beta. La scarsa ampiezza di queste
onde indica che la scarica dei neuroni non è sincronizzata: di
conseguenza, i loro contributi al tracciato dell’EEG tendono ad
annullarsi reciprocamente.

Figura 1. Esempi di onde dell’EEG caratteristiche della veglia e del sonno.

Quando una persona si addormenta, il suo EEG si modifica


secondo una sequenza regolare, che è stata suddivisa dagli studiosi in
4 stadi del sonno. Lo stadio 1 è una fase di transizione corrispondente
alla fase di addormentamento, mentre negli stadi dal 2 al 4 si verifica
una graduale progressione verso un sonno sempre più profondo. In
particolare, gli stadi 3 e 4 si caratterizzano per la presenza sempre più
frequente di onde lente, irregolari e molto ampie, dette onde delta (si
veda la Figura 2).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 4 di 14
Universitas Mercatorum La pulsione del sonno

Figura 2. Tracciato EEG durante gli stadi 1, 2 e 3 del sonno.

Una volta raggiunto lo stadio 4, una persona non lo mantiene per


il resto della notte: dopo circa 80-100 minuti il sonno diventa in breve
più leggero, ripassando attraverso le fasi 3 e 2. A questo punto si
instaura un nuovo, affascinante stadio del sonno che dura in media 10
minuti: le onde dell’EEG appaiono desincronizzate, molto simili alle
onde beta che caratterizzano lo stato di veglia. In accordo con la
presenza di queste onde, in questa fase si registrano vari indici di
attivazione fisiologica: la frequenza del battito cardiaco e del respiro si
fanno più rapide e meno regolari; i piccoli muscoli della faccia e delle
dita si contraggono; inoltre – sintomo più interessante di tutti - gli occhi
si muovono rapidamente sotto le palpebre, in tutte le direzioni. A causa
di tali movimenti, questo stadio è stato definito sonno REM (rapid-eye-
movement), mentre gli stadi 2, 3 e 4 sono indicati collettivamente come
sonno non REM, o sonno a onde lente. Nel corso di una notte, una
persona attraversa quattro o cinque cicli del sonno, ciascuno della
durata di circa 90 minuti. Ogni ciclo implica una graduale discesa verso

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 5 di 14
Universitas Mercatorum La pulsione del sonno

stadi sempre più profondi del sonno non REM, seguita da una rapida
risalita verso stadi meno profondi, fino all’instaurarsi della fase REM.
A ogni ciclo, la durata degli stadi più profondi del sonno non REM
diminuisce, mentre aumenta la durata degli stadi più leggeri del sonno
non REM e quella del sonno REM.
Le persone svegliate nella fase REM riferiscono in circa il 90%
dei casi che stavano facendo un’esperienza mentale definita dagli
studiosi ‘vero sogno’ (Foulkes, 1985). Il vero sogno viene esperito dalla
persona come un evento realmente vissuto e di solito si compone di
un’intera sequenza di esperienze, tra loro intrecciate a formare una
trama coerente, benché spesso bizzarra. Chi sogna ha la sensazione di
vedere veramente, o di sentire attraverso gli altri sensi, gli oggetti e le
persone del sogno, e crede di muoversi e di agire davvero nell’ambiente
che è la scena del sogno. Gli studi dimostrano che praticamente tutti
sognano varie volte durante la notte. Anche le persone convinte di
sognare molto di rado o che al mattino ricordano poco o nulla dei sogni
notturni, quando vengono svegliate durante la fase REM riportano
sogni dalle immagini molto vivide e ricche di particolari.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 6 di 14
Universitas Mercatorum La pulsione del sonno

2. LE FUNZIONI DEL SONNO : CONSERVAZIONE E


PROTEZIONE

Il sonno deve essersi evoluto per assolvere una o più funzionali


necessarie alla sopravvivenza e/o alla riproduzione, altrimenti non
sarebbe una pulsione così forte e universale. In effetti, sono state
avanzate varie teorie per spiegare perché l’evoluzione abbia portato
allo sviluppo del sonno.
La teoria della conservazione e della protezione propone che il
sonno si sarebbe evoluto come meccanismo per conservare l’energia e
proteggere l’individuo nel periodo in cui essere attivo porta pochi
benefici a fronte di molti pericoli (Meddis, 1977). Gli animali hanno
bisogno soltanto di un certo numero di ore per compiere le attività
necessarie alla sopravvivenza; per il resto del tempo, secondo questa
teoria, sarebbe più conveniente mettersi a dormire in un posto
tranquillo, a riparo da predatori e pericoli. I dati su cui essa si fonda.
Questa teoria è supportata dai dati che derivano dal confronto
tra le modalità del sonno nelle diverse specie animali, da cui emerge
che il tempo trascorso nel sonno è in relazione con diverse abitudini
alimentari e i mezzi a disposizione dell’animale per proteggersi dai
predatori, e non con differenze nell’entità dell’attività fisica svolta
durante le ore di veglia (Lima et al., 2005). Ad un estremo vi sono i
grandi erbivori come il bisonte e il cavallo, che dormono solo 2/3 ore su
24. A causa delle loro grandi dimensioni e del fatto che si nutrono
soprattutto di erba e vegetali, che hanno un contenuto calorico molto
basso, questi animali devono trascorrere gran parte del tempo
mangiando. Inoltre, cavalli e bisonti hanno difficoltà a trovare un posto
sicuro dove dormire in quanto non sanno costruire tane o arrampicarsi

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 7 di 14
Universitas Mercatorum La pulsione del sonno

sugli alberi: la conseguenza è che per loro è molto meglio rimanere


svegli.
Anche tra gli animali di medie dimensioni, vi sono nette
differenze nella quantità di ore trascorre nel sonno. Le pecore e le capre
(che si nutrono di erba e hanno molti predatori) dormono soltanto 4/5
ore per notte, mentre leoni e tigri (che si nutrono di carne e hanno pochi
nemici naturali) dormono dalle 14 alle 16 ore (Campbell & Tobler,
1984). All’altro estremo di questa gamma di variazione, abbiamo
animali come l’opossum e il pipistrello, che dormono circa 20 ore su 24.
Date le dimensioni ridotte, a questi animali basta poco per procurarsi
cibo sufficiente – il quale, consistendo soprattutto in vermi o insetti, ha
un elevato contenuto calorico. Inoltre, questi animali si sono adattati a
vivere in luoghi riparati e nascosti (grotte): essendo protetti dalla
maggior parte dei predatori, non hanno praticamente alcun motivo per
restare svegli a lungo.
Oltre alle differenze tra specie diverse, la teoria della
conservazione e protezione spiega anche perché, in quasi tutti i
mammiferi, i piccoli dormono molto di più degli adulti. Poiché sono gli
adulti a prendersi cura di loro, i piccoli non hanno bisogno di dedicare
tempo alla ricerca del cibo. Inoltre, il sonno fa sì che essi non si
allontanino dalla tana esponendosi a potenziali pericoli. In questa
prospettiva, è interessante formulare qualche ipotesi sulle condizioni
che, nel corso dell’evoluzione, possono aver portato all’attuale
strutturazione del sonno nella specie umana. L’uomo è una creatura
guidata principalmente dalla vista: quindi ha bisogno di luce per
trovare cibo e tutto ciò di cui necessita per la sopravvivenza. Per gran
parte della nostra storia evolutiva, la cosa migliore che un uomo poteva
fare di notte era dormire riparato in fondo a una grotta o in altri luoghi
nascosti, evitando di andare in giro col pericolo di precipitare in un

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 8 di 14
Universitas Mercatorum La pulsione del sonno

dirupo o essere attaccato dai predatori. Solo negli ultimi secoli


l’illuminazione artificiale ha reso la notte relativamente sicura per gli
esseri umani. Alla luce di queste considerazioni, la strutturazione del
sonno nella nostra specie potrebbe essere un residuo vestigiale di
un’epoca in cui la notte era il tempo del maggior pericolo.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 9 di 14
Universitas Mercatorum La pulsione del sonno

3. LA TEORIA DEL RECUPERO FISICO E LE


FUNZIONI DEL SONNO REM

La teoria del recupero fisico propone che durante il giorno il


corpo esaurisce le proprie risorse e il sonno è necessario per recuperare
le energie e rimettersi in forma. Questa ipotesi, abbastanza intuitiva,
trova conferma nel semplice fatto che il sonno è un periodo di riposo e
di recupero delle energie. Durante il sonno i muscoli sono rilassati, il
tasso metabolico è basso e l’ormone della crescita, che promuove
processi di riparazione, viene prodotto a livelli più alti che nella veglia
(Douglas, 2002). In accordo con questa teoria è anche il fatto che, nei
ratti, la deprivazione completa e prolungata di sonno causa la
degenerazione dei tessuti e la morte in circa tre settimane (Everson,
1993). Infine, l’ipotesi permette di spiegare la tendenza mostrati dai
piccoli mammiferi a dormire di più rispetto ai grandi mammiferi. A
causa del fatto che perdono calore corporeo più rapidamente, i piccoli
mammiferi devono mantenere un metabolismo più alto rispetto ai
mammiferi di medie dimensioni, il che implica una maggiore usura dei
tessuti (Siegel, 2005).
D’altra parte, vi sono diversi dati che non supportano la teoria
del recupero fisico. Le ricerche condotte sugli uccelli non hanno rilevato
nessuna correlazione tra tasso metabolico e durata del sonno, mentre è
stata trovata una forte correlazione tra durata del sonno e rischio di
predazione: gli uccelli che durante il sonno sono maggiormente protetti
dai predatori tendono a dormire di più, indipendentemente dalle
dimensioni e dal tasso metabolico (Roth et al., 2006). La teoria non
spiega nemmeno le nette differenze nella durata del sonno che esistono
tra erbivori (pecore e capre) e carnivori (tigri e leoni) di medie

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 10 di 14
Universitas Mercatorum La pulsione del sonno

dimensioni, che hanno un tasso metabolico simile; infine, la teoria


prevede l’esistenza di una forte correlazione tra la durata del sonno e
la quantità di energia consumata durante il giorno – correlazione che
non è mai stata osservata dai ricercatori. Certamente, il fatto che tutti
i vertebrati dormano almeno 1/2 ore al giorno, indipendentemente
dall’entità dei rischi a cui possono essere esposti mentre dormono,
suggerisce che una minima quantità di sonno è necessaria per i processi
riparativi del corpo: tuttavia, la teoria non è in grado di spiegare tutte
le differenze che si rilevano tra specie nella durata del sonno.
Perché il sonno non REM, quieto e profondo, viene interrotto da
periodi di sonno REM in cui vi è una maggiore attività cerebrale?
Questa domanda è al centro di un notevole dibattito. Secondo una
teoria, il sonno REM avrebbe la funzione di tenere in esercizio alcuni
gruppi di neuroni cerebrali (Hobson, 1988). Le sinapsi possono andare
incontro a degenerazione se restano inattive troppo a lungo (Edelman,
1987), il che suggerisce che l’elevata attività neurale che si verifica
durante la fase REM potrebbe contribuire a mantenere la funzionalità
dei circuiti cerebrali. In accordo con questa ipotesi, è stato trovato che
più lunga è la durata totale del sonno e maggiore è la quantità di tempo
occupata dalla fase REM: in altre parole, più tempo dedichiamo a
dormire e più diventa necessario interrompere il sonno non REM con
l’esercizio.
Questa teoria fornisce una spiegazione plausibile per il fatto che
la fase REM è molto più estesa nei feti e nei bambini che negli adulti,
indipendentemente dalla specie di appartenenza. In effetti, nella specie
umana il picco di estensione della fase REM si osserva nei feti di 30
giorni, i quali trascorrono in questo stadio quasi tutte le 24 ore del
giorno. Probabilmente, mentre il loro cervello si sta sviluppando, i feti
hanno bisogno di cominciare a mettere in funzione i circuiti sensoriali

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 11 di 14
Universitas Mercatorum La pulsione del sonno

e motori, e il sonno REM, che si associa a movimenti del corpo (come


tirar calci o girarsi), può essere il mezzo con cui lo fanno (Hobson, 1988).
Al momento della nascita, il sistema inibitorio che blocca i motoneuroni
durante il sonno REM sarebbe già maturo, eliminando così gran parte
dei movimenti che si verificherebbero in questa faste. Da questo
controllo inibitorio sarebbero però esclusi gli occhi e gli organi interni,
come il cuore: da qui il persistere dei movimenti oculari e l’aumento
della frequenza cardiaca che si verificano durante la stadio REM.
Se il sonno REM sembra avere delle funzioni utili, nessuno sa
con esattezza a cosa servono i sogni. Una delle teorie proposte propone
che essi sarebbero un mezzo per rielaborare e risolvere esperienze
negative realmente accadute o che potrebbero accadere alla persona
(Valli et al., 2008). In effetti, l’analisi dei contenuti di centinaia di sogni
ha rivelato che i sogni in cui si esperiscono paura, preoccupazione,
imbarazzo sono molto più frequenti rispetto ai sogni gioiosi (Domhoff,
2003). Tuttavia, altre ricerche suggeriscono che i sogni non assolvano
ad alcuna funzione utile alla sopravvivenzsa: essi sarebbero
semplicemente effetti collaterali dei cambiamenti fisiologici che si
verificano nella fase REM (Hobson, 2002, 2004). I neuroni delle aree
visive e motorie del cervello si attivano durante il sonno REM e ciò
potrebbe produrre allucinazioni e movimenti del corpo. Anche i neuroni
coinvolti nei processi emotivi e nei processi di recupero della memoria
possono diventare attivi, il che avrebbe come conseguenza l’emergere
di oggetti familiari e forti emozioni nella mente della persona che sta
sognando. Gli studi coindotti da Penfield e Perot (1963) hanno
dimostrato molto chiaramente che la stimolazione elettrica di alcune
aree della corteccia cerebrale è in grado di produrre allucinazioni simili
a quelle che si verificano nei sogni. Un fenomeno analogo potrebbe
verificarsi anche durante il sonno REM.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 12 di 14
Universitas Mercatorum La pulsione del sonno

Ciò non significa necessariamente che i sogni non abbiano alcun


valore a livello clinico. Di certo, i sogni contengono elementi derivanti
dalle esperienze vissute dalla persona che sta sognando, e poiché la loro
produzione avviene in una fase in cui la capacità mentale è ridotta, è
possibile che in essi emergano idee e sentimenti solitamente repressi
dai processi inibitori superiori: questo materiale potrebbero essere
certamente utile nel campo della pscoanalisi (Reiser, 1991). In linea
con questa posibilità, un esperimento ha rivelato che la frequenza con
cui i soggetti sognavano una determinata persona era maggiore se,
prima di dormire, si chiedeva loro di reprimere ogni pensiero
riguardante tale persona – rispetto ad una condizione in cui si chiedeva
loro di pensare attivamente a quella persona (Wegner et al., 2004).
Quindi, l’analisi dei sogni potrebbe essere comunque utile per rivelare
idee e preoccupazioni che il soggetto reprime durante il giorno.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 13 di 14
Universitas Mercatorum La pulsione del sonno

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 14 di 14
I
FONDAMENTI
DELLE EMOZIONI
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum I fondamenti delle emozioni

Indice

1. NATURA DELLE EMOZIONI: SENSAZIONE, AFFETTO E


UMORE............................................................................................ 3

2. CLASSIFICAZIONE DELLE EMOZIONI E VALORE


ADATTIVO ...................................................................................... 6

3. CLASSIFICAZIONE DELLE EMOZIONI E VALORE


ADATTIVO ....... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 13

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 2 di 13
Universitas Mercatorum I fondamenti delle emozioni

1. NATURA DELLE EMOZIONI : SENSAZIONE,


AFFETTO E UMORE

Definire il concetto di emozione ha rappresentato un problema


che ha dato parecchio filo da torcere a molti studiosi. Si stima infatti
che, nel campo della psicologia, siano state elaborate circa 90
definizioni differenti di emozione (Plutchik, 2001). Una definizione che
si avvicina molto al significato con cui usiamo questo termine nella vita
quotidiana è la seguente: un’emozione è la sensazione soggettiva di
coinvolgimento nei confronti di un particolare oggetto. Questa
definizione implica che l’emozione ha due componenti: il sentire
soggettivo (sensazione soggettiva) e un oggetto. L’oggetto dell’emozione
può essere una persona, una cosa o un evento reale o immaginario, ma
si tratta sempre di qualcosa di significativo per la persona che esperisce
l’emozione. Nel linguaggio quotidiano, il sentire soggettivo e l’oggetto
sono inestricabilmente intrecciati nell’esperienza dell’emozione, e
l’oggetto viene percepito come la causa dell’emozione stessa. Si dice
infatti che ‘John odia la guerra perché la guerra è detestabile’, oppure
che ‘John ha paura dei serpenti perché i serpenti fanno paura’. In
questi due esempi, la guerra e i serpenti sono gli oggetti e la causa delle
emozioni provate dalla persona. Nelle emozioni autocoscienti (orgoglio,
vergogna, senso di colpa e imbarazzo), l’oggetto è rappresentato dalla
persona stessa o dal suo comportamento.
Il sentire associato con l’emozione, indipendentemente da quale
ne sia l’oggetto, è indicato in psicologia col termine affetto. Nel modello
circomplesso di Russell (2003; Figura 1), l’affetto può variare lungo due
dimensioni: l’una ha a che fare con il grado di
piacevolezza/spiacevolezza della sensazione, mentre l’altra ha a che

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 3 di 13
Universitas Mercatorum I fondamenti delle emozioni

fare con il grado di attivazione fisica e mentale. Muovendosi verso l’alto


o verso il basso lungo l’asse verticale, il livello di attivazione aumenta
oppure diminuisce; invece spostandosi verso destra o verso sinistra si
ha un aumento o una diminuzione del grado di piacevolezza della
sensazione. Si noti che i termini riportati in questo modello non
descrivono le emozioni, ma sensazioni scollegate dall’oggetto. Come
detto pocanzi, un’emozione dipende sempre dall’oggetto, oltre che dalla
sensazione: così, la sensazione del piacere può accompagnare
l’emozione dell’orgoglio quando l’oggetto è la persona stessa, oppure
l’emozione dell’amore quando l’oggetto è la persona amata.

Figura 1. Il modello circomplesso degli affetti (o sensazioni) di Russell (2003).

Le sensazioni non sono sempre legate a oggetti specifici. Talvolta


una sensazione può essere esperita come uno stato generalizzato,
indefinito. In questo caso si parla di stato umorale. Gli stati umorali
possono durare qualche ora, qualche giorno, o più o a lungo, e sono in

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 4 di 13
Universitas Mercatorum I fondamenti delle emozioni

grado di modulare qualsiasi aspetto del pensiero e del comportamento


della persona. Per esempio, la sensazione soggettiva di sentirsi tesi e
agitati può essere chiamata ansia se riferita ad un umore generale,
oppure paura se associata ad un particolare oggetto (un serpente);
analogamente, la sensazione di sentirsi tristi e angosciati può essere
chiamata depressione se riferita ad un umore generale, o dolore se
associata ad una perdita specifica.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 5 di 13
Universitas Mercatorum I fondamenti delle emozioni

2. CLASSIFICAZIONE DELLE EMOZIONI E


VALORE ADATTIVO

Quante emozioni esistono? La risposta a questa domanda è


alquanto arbitraria, e dipende dal grado di precisione della
classificazione effettuata. Per esempio, la paura dei serpenti, la paura
della morte e la paura del giudizio altrui possono essere raggruppate
in un’unica emozione generale (la paura, appunto), oppure possono
essere considerate come emozioni qualitativamente differenti che
hanno alcuni elementi in comune.
Alcuni psicologi hanno cercato di identificare un insieme di
emozioni primarie analizzando le etichette verbali che si utilizzano
nelle varie lingue per indicare le emozioni. In tutte le lingue, compreso
l’Inglese e l’Italiano, esistono centinaia di vocaboli diversi per indicare
le emozioni, molti dei quali sono sinonimi. Gli psicologi hanno sfruttato
questa proprietà chiedendo ai soggetti di attribuire un punteggio a
coppie di etichette verbali in base al grado di somiglianza tra le
emozioni che esse descrivono. Utilizzando questo metodo, Plutchik
(2003) ha identificato otto emozioni primarie, organizzate in quattro
coppie di opposti: gioia contro dolore, rabbia contro paura, accettazione
contro disgusto, sorpresa contro attesa. Nel modello proposto da
Plutchik, lo spettro delle emozioni può essere rappresentato come un
cono composto da otto settori (Figure 2-3). La dimensione verticale del
cono rappresenta l’intensità dell’emozione, mentre gli otto settori
rappresentano le otto emozioni primarie, organizzate in modo che
emozioni simili sono tra loro vicine, mentre emozioni opposte si trovano
sui lati opposti del cono. Nella rappresentazione del cono aperto, le
emozioni comprese negli spazi tra settori diversi (ovvero nel cerchio

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 6 di 13
Universitas Mercatorum I fondamenti delle emozioni

centrale) sono una mescolanza di due emozioni primarie adiacenti.


Infatti, secondo questo autore, le otto emozioni primarie possono
mescolarsi fra loro in qualunque modo, producendo una varietà
sostanzialmente infinita di esperienze emozionali diverse.
La capacità di provare emozioni deve essersi stabilita attraverso
la selezione naturale per il suo valore adattivo, altrimenti esse non
sarebbero così pervasive nella vita e nel comportamento delle persone.
La dimensione positiva/negativa delle emozioni mette in risalto la
qualità di motivazione che caratterizza le emozioni. In questo senso, è
chiaro che le emozioni positive favoriscono la nostra sopravvivenza in
quanto ci motivano ad avvicinare gli oggetti potenzialmente utili,
mentre le emozioni negative fanno lo stesso motivandoci ad evitare o
respingere gli oggetti dannosi. Per esempio, quando amiamo qualcuno,
facciamo di tutto (anche cose che in altre situazioni sembrerebbero
assurde) per stare vicino alla persona amata, che è anche ilnostro
potenziale partner riproduttivo. Se invece abbiamo paura scappiamo o
cerchiamo un altro modo per evitare un nemico o un predatore. In
generale, la maggior parte delle emozioni forti restringono il campo
della nostra attenzione all’oggetto che suscita l’emozione e in questo
modo ci consentono di ignorare gli eventi e le pulsioni che potrebbero
distrarci.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 7 di 13
Universitas Mercatorum I fondamenti delle emozioni

Figura 2. Il modello delle emozioni primarie di Plutchik (2003).

Le emozioni favoriscono la sopravvivenza anche attraverso la


capacità di comunicare ad altre persone le nostre intenzioni. Così, la
paura può segnalare la nostra sottomissione a chi ci sta attaccando e
questo può servire ad evitare un combattimento potenzialmente
pericoloso; quando ci sentiamo arrabbiati, esibiamo gesti e parole di
minaccia e queste manifestazioni possono essere funzionali a
convincere le persone a modificare i loro comportamenti verso di noi nel
senso desiderato. Infine, le espressioni mimiche associate alle emozioni
fanno parte della risposta del corpo alla situazione che suscita
l’emozione. Nell’espressione di paura, gli occhi si spalancano e le narici
si dilatano, e ciò porta a un ampliamento del campo visivo e un aumento
della sensibilità agli odori. È verosimile ritenere che l’aumentata
sensibilità agli stimoli visivi e olfattivi che ne risulta possa essere stata
utile ai nostri progenitori ancestrali per individuare potenziali minacce

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 8 di 13
Universitas Mercatorum I fondamenti delle emozioni

nell’ambiente esterno. All’estremo opposto, l’emozione del disgusto


provoca un restringimento del campo visivo e olfattivo, il che ci
consente di tagliare fuori dalla percezione gli stimoli che ci disgustano.

Figura 3. Il cono delle emozioni primarie di Plutchik (2003).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 9 di 13
Universitas Mercatorum I fondamenti delle emozioni

3. L’UNIVERSALITÀ DELLE ESPRESSIONI


FACCIALI DELLE EMOZIONI

Darwin notò che gli esseri umani, al pari di tutti gli altri animali,
comunicano reciprocamente e automaticamente sentimenti e
intenzioni comportamentali attraverso posture, movimenti del corpo ed
espressioni mimiche del viso. Nel suo libro L’espressione delle emozioni
nell’uomo e negli animali, Darwin (1872) sostenne che nell’uomo
espressioni facciali specifiche si associano costantemente a stati
emotivi specifici e che tali espressioni sono universali, in quanto si
manifestano allo stesso modo in tutto il mondo e persino in persone
nate cieche (il che indica che non sono apprese attraverso
l’osservazione).

Figura 4. Espressione di sei emozioni umane fondamentali tratte dall’atlante di


Ekman e Friesen (dall’alto verso il basso: rabbia, paura, disgusto, sorpresa, felicità,
tristezza).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 10 di 13
Universitas Mercatorum I fondamenti delle emozioni

In uno studio più recente, Ekman e Friesen (1975) raccolsero in


un atlante descrizioni verbali e immagini delle espressioni facciali di
sei emozioni fondamentali: sorpresa, paura, disgusto, rabbia, felicità e
tristezza (Figura 4). I due ricercatori mostrarono poi le fotografie a
individui appartenenti a culture diverse, tra cui i membri di una tribù
indigena della Nuova Guinea che fino a quel momento avevano avuti
scarsi contatti con altre culture. I risultati di questo esperimento
mostrarono che le persone di tutte le culture descrivevano le emozioni
rappresentate nelle fotografie negli stessi termini in cui venivano
descritte negli Stati Uniti (Ekman, 1973; Ekman et al., 1987).
Analogamente, studenti universitari americani erano in grado di
identificare con una buona accuratezza le emozioni mostrate,
attraverso la mimica facciale, dai membri della tribù della Nuova
Guinea.

Figura 5. L’espressione denominata ‘guizzo delle sopracciglia’ .

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 11 di 13
Universitas Mercatorum I fondamenti delle emozioni

In un ulteriore ampliamento di questo filone di ricerca, Eibl-


Eibesfeldt (1989) ha documentato l’universalità di molti segnali della
comunicazione non-verbale. Uno di questi segnali, il cosiddetto ‘guizzo
delle sopracciglia’ consiste nell’inarcarsi temporaneo delle sopraccigia,
accompagnato da un sorriso e da un lieve cenno del capo verso l’alto
(Figura 5). Eibl-Eibesfeldt osservò questa risposta in tutte le culture
esaminate (le quali comprendevano popolazioni provenienti da varie
regioni dell’Africa, dell’Asia, del Sud America e dell’Europa) e concluse
che essa ha valore universale di saluto tra persone che si conoscono. In
particolare, l’inarcare delle sopracciglia accompagnato da un sorriso fa
parte dell’espressione mimica della sorpresa e può quindi essere
interpretato come un segnale non verbale per comunicare il messaggio
di stupore e felicità nel vedere una persona amica. In altre ricerche,
Eibl-Eibesfeldt filmò bambini nati ciechi, o ciechi e sordi, e trovò che
manifestavano le emozioni con le stesse espressioni facciali
fondamentali prodotte anche dai bambini vedenti. Queste osservazioni
forniscono la prova più diretta che almeno alcune espressioni delle
emozioni umane non devono essere apprese osservando gli altri o
ascoltandone la descrizione.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 12 di 13
Universitas Mercatorum I fondamenti delle emozioni

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 13 di 13
TEORIE
DELLE EMOZIONI
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum Teorie delle emozioni

Indice

1. LA TEORIA DEL SENSO COMUNE .......................................... 3

2. LA TEORIA DI JAMES O DEL FEEDBACK PERIFERICO . 6

3. LA TEORIA DEI DUE FATTORI DI SCHACTER ................... 9

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 14

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 2 di 14
Universitas Mercatorum Teorie delle emozioni

1. LA TEORIA DEL SENSO COMUNE

Gli stati emozionali sono quasi sempre accompagnati da


cambiamenti corporei periferici – ovvero, cambiamenti che avvengono
a livello fisico al di fuori del sistema nervoso centrale. Tali cambiamenti
includono la variazione nella frequenza del battito cardiaco e nella
pressione sanguigna, la diversione del sangue da certi tessuti verso
altri, l’attivazione di certe ghiandole, la tensione di alcuni muscoli e
l’espressione facciale delle emozioni. Come accennato nella lezione
precedente, tutte queste variazioni sono adattive per via della loro
funzione comunicativa o per il ruolo che svolgono nel preparare il corpo
alla possibile azione (ad esempio, alla fuga oppure alla lotta).

Figura 1. Schema della sequenza di eventi che si verificano quando si prova


un’emozione secondo la teoria del senso comune.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 3 di 14
Universitas Mercatorum Teorie delle emozioni

Il senso comune e il linguaggio quotidiano suggeriscono che


questi cambiamenti periferici sono direttamente causati dalle
emozioni. Infatti, si utilizzano spesso espressioni come le seguenti:

 «Ho il cuore che mi batte forte e le gambe che mi tremano


perché ho paura»;
 «Ho il viso arrossato e i denti digrignati perché sono
arrabbiato»;
 «Ho gli occhi pieni di lacrime e un nodo alla gola perché
provo dolore»

In tutte queste espressioni, è evidente che l’emozione (ho paura)


viene considerata come la causa diretta delle reazioni corporee (il cuore
mi batte forte). In sostanza, quindi, a teoria del senso comune propone
che la percezione di uno stimolo (es., un cane che ringhia) produce una
determinata emozione (es., la paura), la quale a sua volta provoca una
serie di cambiamenti periferici che preparano il corpo all’azione (si veda
la Figura 1).
Nei paragrafi seguenti, si vedrà come le teorie scientifiche
abbiano in realtà sovvertito questo modo comune di pensare sostenendo
che le reazioni corporee precedono e causano le emozioni, piuttosto che
il contrario (si veda la Figura 2 per uno schema della sequenza di eventi
che si verificano quando si prova un’emozione secondo le teorie di
James-Lange, Cannon-Bard e Schacter-Singer).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 4 di 14
Universitas Mercatorum Teorie delle emozioni

Figura 2. Schema della sequenza di eventi che si verificano quando si prova


un’emozione secondo le teorie di James-Lange, Cannon-Bard e Schacter-Singer.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 5 di 14
Universitas Mercatorum Teorie delle emozioni

2. LA TEORIA DI JAMES O DEL FEEDBACK


PERIFERICO

Più di un secolo fa, nel suo famo libro Principi di psicologia,


William James (1890) sovvertì il modo comune di pensare sostenendo
che in realtà le reazioni corporee precedono le emozioni e le causano.
Le prove con cui James sosteneva questa teoria derivavano non da
esperimenti controllati, ma piuttosto dall’introspezione (ovvero,
dall’autoesame dei propri stati emotivi). Da questo lavoro di
autoanalisi delle proprie esperienze emotive, James giunse alla
conclusione che le emozioni che provava erano, in realtà, le sensazioni
prodotte dai cambiamenti che si verificavano a livello corporeo.
Così, ad esempio, il sentimento della paura era la sensazione
prodotta dal battito accelerato del cuore, dal respiro affannoso, e dal
tremito delle gambe. Analogamente, l’emozione della collera
corrispondeva alla sensazione derivante dal viso in fiamme, dalle narici
dilatate e dai denti digrignati (si veda la Figura 3). In pratica, James
riteneva di poter identificare una diversa gamma di cambiamenti fisici
per ciascuna emozione; inoltre, sosteneva che, se la persona non avesse
potuto sentire i cambiamenti fisici, non avrebbe potuto sentire neppure
l’emozione corrispondente.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 6 di 14
Universitas Mercatorum Teorie delle emozioni

Figura 3. Schema della sequenza di eventi che si verificano quando si prova


un’emozione secondo la teoria di James-Lange. La vista dell’orso innesca una serie di
reazione corporee automatiche, mentre la valutazione cognitiva dello stato emotivo
avviene in un secondo momento.

Il punto essenziale della teoria di James è che la reazione


corporea a uno stimolo che provoca un emozione è automatica e si
verifica senza che la persona ne abbia o la consapevolezza. Secondo
questo studioso, la valutazione dello stato emozionale avviene in un
secondo momento ed è basato sullo stato corporeo. Quindi, se
all’improvviso ci troviamo di fronte ad un orso inferocito, il cervello
formula istantaneamente (a livello inconscio) il giudizio che l’orso può
rappresentare un pericolo; questo giudizio automatico, inconscio,
innesca una serie di cambiamenti corporei che mobilitano le energie e
preparano la persona alla lotta. Si tratta chiaramente di un’emergenza,
in cui non c’è tempo per il pensiero conscio – il corpo reagisce
immediatamente. In un secondo momento, quando il pericolo è passato,
la persona può sentire il proprio cuore che batte in fretta, le gambe che
tremano e il sudore sulla fronte, e può concludere di aver avuto paura.
Nel corso del tempo, la teoria di James è stata supportata da una
notevole mole di prove sperimentali. In particolare, gli studi condotti
in questo senso hanno rivelato che, in qualsiasi parte del mondo e in

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 7 di 14
Universitas Mercatorum Teorie delle emozioni

tutte le culture, le persone descrivono le proprie emozioni in termini di


modificazioni fisiche e sono molto concordi nel definire l’insieme di
cambiamenti che si associano a ciascuna emozione (Cacioppo et al.,
1992; Rime et al., 1990). Si è inoltre trovato che le persone che
mostrano una maggiore abilità nel rilevare il cambiamento delle
proprie condizioni corporee interne (ad esempio, l’accelerazione del
battito cardiaco) hanno maggiori probabilità di rilevare e riferire i
propri stati emozionali con accuratezza (Critchely et al., 2004; Wiens
et al., 2000). D’altra parte, altri risultati sperimentali sono
difficilmente conciliabili con la teoria di James-Lange. Per esempio,
Cannon (1927) operò alcuni gatti recidendo le vie nervose afferenti che
consentono all’animale di percepire i cambiamenti fisiologici che
avvengono a livello periferico. L’attesa era che, in presenza di uno
stimolo che di norma suscita un’emozione, qualsiasi espressione
emotiva avrebbe dovuto essere assente in questi gatti. Al contrario,
Cannon trovò che i gatti operati continuavano ad esibire reazioni
emotive normali – simili a quelle dei gatti sani.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 8 di 14
Universitas Mercatorum Teorie delle emozioni

3. LA TEORIA DEI DUE FATTORI DI SCHACTER

Negli anni ’60 del Novecento, Schacter e Singer svilupparono


una teoria delle emozioni che può essere considerata come una variante
della teoria di James. L’idea centrale è che l’emozione che l’individuo
prova non dipende solo dal feedback sensoriale connesso con la risposta
corporea, ma anche dalla percezione e dai pensieri (cognizioni) del
soggetto sull’evento ambientale che ha evocato la risposta (si veda la
Figura 4). Più in particolare, Schacter ha proposto che la percezione e
la valutazione cognitiva dello stimolo ambientale influenzano il tipo di
emozione che l’individuo prova, mentre il feedback sensoriale prodotto
dal grado di attivazione corporea influenza l’intensità dell’emozione.

Figura 4. Schema della sequenza di eventi che si verificano quando si prova


un’emozione

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 9 di 14
Universitas Mercatorum Teorie delle emozioni

secondo la teoria di Schacter. L’intensità dell’emozione dipende


dal grado di attivazione fisiologica, mentre il tipo di emozione esperita
dipende dalla valutazione cognitiva dello stimolo emotigeno.
Così, se vediamo un orso, è il nostro giudizio che si tratti di un
pericolo a determinare la natura dell’emozione provata (in questo caso
la paura). D’altra parte, la percezione della velocità del battito cardiaco,
della quantità di sudore profuso, e così via, determinano quanta paura
sentiamo. Schacter ha anche proposto che l’intensità dell’emozione
influenza a sua volta l’interpretazione cognitiva. In altre parole, se il
nostro grado di attivazione era già alto (magari per aver bevuto del
caffè), questa attivazione influisce sul livello di intensità che l’emozione
può raggiungere, portandoci a percepire l’orso come ancora più
pericoloso che in una condizione con minore attivazione.
Per verificare la validità della sua teoria, Schacter (1971)
condusse esperimenti su soggetti umani ai quali iniettava adrenalina
(una sostanza che provoca forti effetti di attivazione fisiologica) o un
placebo (una sostanza inattiva); quindi li espose a condizioni
ambientali che evocavano una specifica emozione. Nel complesso, i
risultati di questi esperimenti dimostrano che adrenalina di per sé non
produceva alcuna emozione: i soggetti riferivano soltanto di sentirsi
agitati senza un motivo apparente. Tuttavia, associata a condizioni che
evocavano reazioni emotive (ad esempio, assistere ad un film
dell’orrore), l’adrenalina rendeva l’emozione del soggetto più intensa.
Come predetto dalla teoria, il tipo di emozione provata dipendeva dalla
situazione ambientale: rispetto a coloro che avevano ricevuto il placebo,
i partecipanti a cui era stata somministrata adrenalina provavano più
rabbia se venivano insultati, ma più ilarità se vedevano un film comico.
Questi effetti si verificavano solo se i soggetti non erano stati
precedentemente informati degli effetti fisiologici dell’adrenalina –

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 10 di 14
Universitas Mercatorum Teorie delle emozioni

ovvero, solo se credevano che l’attivazione fisiologica fosse


completamente causata dalla situazione esterna.
Più recentemente, Ekman (1984) ha proposto una teoria che,
come quella di James-Lange, enfatizza il ruolo del feedback periferico:
tuttavia, questo autore si è concentrato sul ruolo dei muscoli facciali.
Come accennato in altre lezioni, Ekman e collaboratori avevano già
trovato che alcune emozioni fondamentali si associano in maniera
stabile e universale a specifiche espressioni del volto (Ekman &
Friesen, 1971). Ekman propose quindi che il feedback sensoriale
derivante dalle espressioni facciali contribuisce sia alla sensazione
soggettiva dell’emozione sia alle reazioni fisiche che l’accompagnano.
In un esperimento volto a verificare la validità di questa teoria, si
chiese ai soggetti di guardare un film con scene divertenti mentre
tenevano una matita fra i denti (cosa che costringeva il volto ad
assumere una espressione sorridente) o fra le labbra (cosa che non
produceva un sorriso; si veda la Figura 5). Il risultato importante fu
che i soggetti del primo gruppo riferivano di aver provato più
divertimento a guardare il film, rispetto ai soggetti del secondo gruppo
(Soussignan, 2002). In altri esperimenti si chiese ai partecipanti di
contrarre i muscoli del viso in modo da riprodurre l’espressione facciale
tipica della paura, della rabbia, del dolore o della felicità. Quello che si
trovò fu che le persone che mantenevano queste espressioni per qualche
tempo riferivano di avere provato con maggiore intensità l’emozione
corrispondente, anche quando non erano consapevoli di stare mimando
l’espressione di una determinata emozione (es., Flack, 2006).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 11 di 14
Universitas Mercatorum Teorie delle emozioni

Figura 5. Esempio delle espressioni prodotte nell’esperimento di (Soussignan, 2002).

Ekman e colleghi (1984) hanno trovato che, oltre ad alterare


l’emozione riferita, le espressioni facciali indotte possono provocare
risposte corporee coerenti con l’espressione stessa. In un esperimento,
i ricercatori chiesero ad alcuni soggetti di muovere specifici muscoli
facciali in modo da riprodurre l’espressione di sei emozioni
fondamentali, mentre ad altri soggetti chiesero di rivivere
un’esperienza in cui avevano provato ciascuna emozione. Mentre il
soggetto era impegnato a riprodurre l’espressione facciale o a rivivere
episodi specifici, Ekamn registrò vari indici di attivazione fisiologica. Il
risultato principale fu che ad ogni emozione corrispondevano diversi
quadri di attivazione fisiologica; tuttavia, all’interno di una stessa
emozione, il quadro di attivazione causato dall’espressione indotta era
identico a quello che si aveva quando il soggetto riviveva l’esperienza
emotiva. La rabbia, per esempio, era accompagnata da un
innalzamento della temperatura cutanea sia che venisse mimata con i
muscoli facciali sia che venisse rivissuta mentalmente (Levenson,

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 12 di 14
Universitas Mercatorum Teorie delle emozioni

1992). Analogamente, la paura era associata ad un aumento della


frequenza cardiaca in entrambe le condizioni (si veda la Figura 6).

Figura 6. Cambiamenti nella frequenza cardiaca e nella temperatura cutanea


nell’esperimento di Ekman et al. (1983). La rabbia (anger)si associa ad un forte
aumento della temperatura cutanea, mentre sia la rabbia che la paura (fear) si
associano ad un aumento della frequenza cardiaca.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 13 di 14
Universitas Mercatorum Teorie delle emozioni

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 14 di 14
I MECCANISMI
CEREBRALI
DELL’EMOZIONE
Pietro Spataro
Universitas Mercatorum I meccanismi cerebrali dell’emozione

Indice

1. L’AMIGDALA E LA DOPPIA VIA DI ELABORAZIONE ........ 3

2. L’AMIGDALA VALUTA IL SIGNIFICATO EMOZIONALE


DEGLI STIMOLI............................................................................ 7

3. LA CORTECCIA PREFRONTALE E L’ESPERIENZA


CONSCIA DELL’EMOZIONE .................................................... 10

BIBLIOGRAFIA ................................................................................. 14

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 2 di 14
Universitas Mercatorum I meccanismi cerebrali dell’emozione

1. L’AMIGDALA E LA DOPPIA VIA DI


ELABORAZIONE

Finora la discussione è stata incentrata sulla percezione


soggettiva delle emozioni e sulle modificazioni corporee che le
accompagnano, mentre è stato detto ben poco sui meccanismi cerebrali
che sottendono il vissuto emozionale. Tuttavia, il cervello è il centro da
cui dipendono sia i cambiamenti corporei periferici sia l’esperienza
soggettiva dell’emozione. le ricerche condotte in questo campo si sono
focalizzate in particolare su due strutture: l’amigdala e la corteccia
prefrontale.
Nel classico esempio di James, una persona che vede un orso
reagisce in una maniera veloce e automatica che viene in seguito
interpretata come paura. Ma che cos’è che causa la reazione iniziale?
Per rispondere a questa domanda, James ipotizzò che il cervello sia in
grado di valutare il significato degli stimoli in maniera molto rapida e
inconscia, e di produrre reazioni corporee appropriate. Oggi sappiamo
che questa capacità dipende in maniera cruciale dall’amigdala.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 3 di 14
Universitas Mercatorum I meccanismi cerebrali dell’emozione

Figura 1. Localizzazione cerebrale e funzioni dell’amigdala.

L’amigdala è una struttura che consiste in un insieme di nuclei


localizzati in profondità nel lobo temporale, sotto la corteccia, e fa parte
del sistema limbico (si veda la Figura 1). Essa funziona come il primo
sistema di allarme del cervello, in quanto riceve segnali da tutti i
sistemi sensoriali in ogni parte del corpo; l’amigdala esegue una
continua, rapida, valutazione di questi segnali sensoriali, per poi
allertare il cervello quando giudica necessaria una reazione
comportamentale a livello dell’intero organismo.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 4 di 14
Universitas Mercatorum I meccanismi cerebrali dell’emozione

Figura 2. La doppia via di elaborazione dell’informazione visiva:


la via sottocorticale (in rosso) e la via corticale (in blu).

Gli studi hanno evidenziato che l’amigdala riceve i segnali


sensoriali attraverso due vie: una via sottocorticale (molto rapida) e
una via corticale (più lenta) (LeDoux, 1996). Attraverso la via
sottocorticale, l’amigdala analizza l’informazione sensoriale in ingresso
prima ancora che essa sia elaborata dalle cortecce sensoriali.
Attraverso la via corticale, l’amigdala analizza e valuta in maniera più
dettagliata l’informazione che è già stata processata dalla corteccia
cerebrale. In particolare, nel caso del sistema visivo, la maggior parte
dell’informazione proveniente dal nervo ottico raggiunge il talamo, per
poi essere inviata alla corteccia visiva primaria (situata nel lobo
occipitale). Tuttavia, una parte di questa informazione va direttamente
dal talamo all’amigdala, senza passare per la corteccia cerebrale: si

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 5 di 14
Universitas Mercatorum I meccanismi cerebrali dell’emozione

ritiene che questa via diretta talamo-amigdala sia responsabile delle


risposte emozionali veloci, inconsce, agli stimoli visivi (si veda la Figura
2). Dopo aver analizzato l’informazione sensoriale, l’amigdala invia i
suoi segnali a molte altre strutture cerebrali; attraverso queste
efferenze, essa allerta il cervello in modo che l’attenzioni della persona
si concentri sullo stimolo emozionale e nel resto del corpo genera
reazioni come l’aumento del battito cardiaco e della tensione muscolare
(Davis, 1992).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 6 di 14
Universitas Mercatorum I meccanismi cerebrali dell’emozione

2. L’AMIGDALA VALUTA IL SIGNIFICATO


EMOZIONALE DEGLI STIMOLI

In una serie di esperimenti divenuti ormai classici e condotti su


scimmie, si trovò che la rimozione bilaterale dell’amigdala, e di porzioni
adiacenti del lobo temporale, produceva un insieme di drastici
cambiamenti nel comportamento degli animali, globalmente definito
cecità psichica (Klüver & Bucy, 1937; Weiskrantz, 1956). Le scimmie
erano perfettamente in grado di percepire gli oggetti e di eseguire
movimenti coordinati verso di essi, ma sembravano indifferenti al
significato psicologico (emozionale) degli oggetti stessi. Non
rispondevano con paura a ciò che prima le spaventava, né attaccavano
ciò che prima provocava la loro reazione aggressiva. Inoltre, questi
animali non erano più in grado di discriminare tra cibi buoni e cibi
immangiabili, né fra oggetti appropriati o inappropriati delle loro
attenzioni sessuali (si veda la Figura 3).

Figura 3. Manifestazioni di ipersessualismo in gatti con lesione bilaterale


dell’amigdala.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 7 di 14
Universitas Mercatorum I meccanismi cerebrali dell’emozione

Più nello specifico, i sintomi conseguenti alla rimozione


bilaterale dell’amigdala si traducono in una serie di alterazioni
emotive, tra cui la perdita della paura e, in generale, l’incapacità di
valutare il significato affettivo e/o biologico degli stimoli e delle
situazioni ambientali, la tendenza esagerata all'esplorazione orale e
tattile degli oggetti, l’ipersessualità, la bulimia, la diminuzione
dell'aggressività, disordini della memoria e difficoltà a riconoscere
oggetti e persone (Lilly,et al., 1983).
Negli esseri umani, le osservazioni cliniche documentano un
ruolo dell’amigdala nelle emozioni paragonabile a quello osservato
negli animali, anche se le alterazioni dell’affettività sembrano essere,
nel caso dell’uomo, meno marcate e spesso transitorie. Le persone che
hanno subito un danno dell’amigdala esibiscono una notevole perdita
della capacità di manifestare paura e rabbia, ma non mostrano tutti gli
altri sintomi tipicamente associati alla cecità psichica negli animali
(Berridge, 2003). Alcuni esperimenti hanno dimostrato che questi
soggetti non rispondono agli stimoli che di norma evocano una risposta
emozionale nelle persone con cervello intatto (ad esempio, immagini
che evocano paura o disgusto: Helmuth, 2003). Inoltre, studi condotti
con tecniche di neuroimmagine su soggetti umani hanno dimostrato
che le risposte di paura, rabbia e disgusto sono fortemente correlate con
un aumento di attività neurale nell’amigdala (Whalen, 1998).
L’attivazione dell’amigdala (in particolare, dell’amigdala sinistra) si
riscontra, seppure con minore intensità, anche ad opera di stimoli che
provocano emozioni positive (ad esempio, immagini di donne seminude
o di cibi invitanti: Hamann et al., 2002).
Diversi studi hanno evidenziato come soggetti umani producano
risposte emozionali anche a stimoli (parole o volti che esprimono

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 8 di 14
Universitas Mercatorum I meccanismi cerebrali dell’emozione

rabbia) presentati su uno schermo in maniera subliminale – ovvero per


un intervallo di tempo troppo breve perché il soggetto possa percepirli
in maniera conscia (Öhmann, 1999; Ruys & Stapel, 2008): tale effetto
è verosimilmente mediato dal segnale che raggiunge l’amigdala
attraverso la via sottocorticale. LeDoux e collaboratori hanno trovato
che ratti con lesioni della corteccia visiva o uditiva, ma non
dell’amigdala, continuavano a rispondere emotivamente a stimoli visivi
o uditivi che erano stati in precedenza associati a shock dolorosi; al
contrario, ratti a cui era stata rimossa completamente l’amigdala non
mostravano più queste risposte emotive (LeDoux, 1996).
Analogamente, persone con danni alla corteccia visiva continuano a
produrre risposte emotive a stimoli che non sono in grado di vedere
consciamente: il fatto che le risposte emotive possano essere evocate
per via sottocorticale spiega perché le nostre emozioni spesso sfuggano
al controllo razionale.
Analogamente, persone con danni alla corteccia visiva
continuano a produrre risposte emotive a stimoli che non sono in grado
di vedere consciamente (Anders et al., 2004): ciò indica che le cortecce
sensoriali sono essenziali per la percezione conscia degli stimoli,
mentre non mediano la risposta emotiva inconscia a quegli stessi
stimoli. Il fatto che le risposte emotive possano essere evocate in
maniera automatica per via sottocorticale spiega, almeno in parte,
perché le nostre emozioni sfuggano spesso al controllo della razionalità
conscia.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 9 di 14
Universitas Mercatorum I meccanismi cerebrali dell’emozione

3. LA CORTECCIA PREFRONTALE E L’ESPERIENZA


CONSCIA DELL’EMOZIONE

Se l’amigdala è essenziale per le risposte emotive inconsce, la


corteccia prefrontale (ovvero la porzione più anteriore del lobo frontale)
è essenziale per l’esperienza soggettiva conscia dell’emozione e per la
capacità di agire in modo deliberato, pianificato, sulla base di questa
esperienza. Le prove più chiare provengono da osservazioni su pazienti
psichiatrici che avevano subito lobotomia prefrontale – un intervento
che comportava il taglio delle connessioni tra la corteccia prefrontale e
il resto del cervello. Questo intervento era un trattamento
relativamente comune per i disturbi mentali gravi, prima dello
sviluppo dei moderni trattamenti farmacologici. Nella maggior parte
dei casi, la lobotomia frontale riusciva a liberare i pazienti dai loro
problemi emotivi, ma li lasciava totalmente incapaci di pianificare e
organizzare la propria vita in modo razionale (Valenstein, 1986). La
corteccia prefrontale riceve afferenze dirette dall’amigdalae dal
sistema limbico, e attraverso di esse riceve le informazioni sulla
valutazione dello stimolo e sullo stato di attivazione corporea prodotto
dall’amigdala (si veda la Figura 4).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 10 di 14
Universitas Mercatorum I meccanismi cerebrali dell’emozione

Figura 4. Il circuito che collega la corteccia prefrontale con l’amigdala e il sistema


limbico.

Oltre che da pazienti psichiatrici, dati che evidenziano il ruolo


della corteccia prefrontale nella regolazione delle emozioni provengono
anche da casi di pazienti neuropsicologici che presentano lesioni della
corteccia prefrontale. Uno dei casi più celebri è quello Phineas Gage.
L'episodio si svolge nel 1848 quando Phineas, capocantiere degli operai
addetti alla costruzione di un tratto di ferrovia nel Vermont, ebbe uno
sfortunato incidente mentre lavorava con la polvere da sparo per far
saltare le rocce sul tratto di ferrovia da costruire. La barra di ferro
utilizzata per pressare la polvere da sparo diede accidentalmente vita
ad una scintilla e la conseguente esplosione proiettò in alto il lungo palo
(alto 1,10 m e del diametro di 3 cm) che si introdusse nella guancia del
malcapitato, attraversò l’orbita di sinistra e, trapassando i lobi frontali,
uscì dalla volta cranica, ricadendo a circa 25 m di distanza (si veda la
Figura 5 per la localizzazione anatomica della lesione).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 11 di 14
Universitas Mercatorum I meccanismi cerebrali dell’emozione

Figura 5. Localizzazione anatomica della lesione subita da Phineas Gage nel 1848.

Phineas miracolosamente sopravvisse all'incidente e dopo poco


più di un mese di convalescenza si riprese del tutto dal trauma,
recuperando in pieno le sue capacità fisiche. Tuttavia, la sua
personalità cambiò in maniera radicale. Il suo medico, tale John Martin
Harlow, nei suoi articoli e rapporti sul caso descriveva Phineas Gage
prima dell'incidente come un uomo di statura media, con una robusta
costituzione fisica, temperamento mite e in possesso di un carattere
particolarmente energico. Ma il quadro che egli stesso riportò a seguito
dell'incidente era molto diverso: “Egli è sregolato, irriverente, indulge
talvolta nella bestemmia più volgare (che in precedenza non era suo
costume), manifestando poco rispetto per i suoi compagni, intollerante
verso limitazioni o avvertimenti quando questi vanno in conflitto con i
suoi desideri, talora tenacemente ostinato, capriccioso ed esitante,

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 12 di 14
Universitas Mercatorum I meccanismi cerebrali dell’emozione

progetta molti piani per il futuro, che vengono tuttavia abbandonati,


anziché essere organizzati, in favore di altri piani che sembrano più
facilmente attuabili […]. La sua mente era cambiata radicalmente, in
modo così marcato che i suoi amici e conoscenti dissero che «non era più
Gage»”. Grazie a casi come questo, oggi sappiamo che le lesioni dei lobi
frontali producono un’insolita gamma di cambiamenti emotivi e
cognitivi. In particolare, questi pazienti presentano comportamenti
impulsivi e poco rispettosi delle convenzioni sociali, dove predominano
spacconeria e apparente stupidità e, talvolta, un comportamento
sessuale disinibito.
Una mole ormai notevole di dati provenienti da studi che hanno
utilizzato le tecniche dell’EEG e della fMRI suggeriscono che i due
emisferi sono coinvolti nell’elaborazione di emozioni diverse (Davidson
et al., 2003; Haller et al., 1998). L’attività neurale nella corteccia
prefrontale destra prevale nell’esperienza di emozioni negative
(soprattutto la paura e il disgusto) che implicano risposte di ritiro –
ovvero, risposte di allontanamento dallo stimolo emozionale. Al
contrario, l’attività neurale nella corteccia prefrontale sinistra prevale
nell’esperienza di emozioni positive che implicano risposte di approccio
– ovvero, risposte di avvicinamento allo stimolo emozionale (; Maxwell
& Davidson, 2007). Un caso limite è rappresentato dalla rabbia, un
emozione negativa che tuttavia evoca risposte di approccio (volte al
confronto e alla lotta fisica): la maggior parte degli studi ha trovato che
essa si associa ad una maggiore attivazione della corteccia prefrontale
destra, soprattutto se il soggetto ha la posibilità di visualizzare
possibili risposte comportamentali allo stimolo emozionale (Harmon-
Jones et al., 2006).

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 13 di 14
Universitas Mercatorum I meccanismi cerebrali dell’emozione

BIBLIOGRAFIA

 Schacter, D. L., Gilbert, D. T., & Wegner, D. M. (2014).


Psicologia generale. Bologna: Zanichelli.
 Gray, P. (2012). Psicologia. Bologna: Zanichelli.

Atten zione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studen te ed è coperto
da copyrigh t. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anch e parziale,
ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n . 633)

Pag. 14 di 14

Potrebbero piacerti anche