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Riassunto - PSICOLOGIA GENERALE

CAPITOLO 1
La psicologia scientifica. Sviluppo storico e metodi di ricerca

La psicologia può essere considerata una tra le scienze più antiche, e allo stesso tempo una tra le più recenti.
Da sempre il comportamento umano ha attratto l’attenzione di numerosi studiosi. Già Platone (427-347 a.C.) e
Aristotele (384-322 a.C.) e altri filosofi greci si interessavano di fenomeni di cui oggi si occupa la psicologia:
memoria, apprendimento, sogni, emozioni.. C’è dunque una continuità sorprendente tra passato e presente
nello studio di queste tematiche. Sebbene la psicologia si fondi sul pensiero di intellettuali e studiosi di diversi
periodi storici, viene riconosciuta come scienza autonoma solo nel 1879 con la fondazione del laboratorio di
Lipsia da parte di Wilhelm Wundt (1832-1920). La separazione tra filosofia e psicologia fu quindi l’esito di un
processo che portò allo studio della mente attraverso la sperimentazione e l’osservazione controllata.

- 1.1 Che cos’è la psicologia?


La psicologia è lo studio scientifico del comportamento degli individui e dei loro processi mentali. L’aspetto
scientifico della psicologia richiede che le conclusioni a cui essa approda siano basate su dati raccolti secondo
un metodo scientifico. Il metodo scientifico utilizza informazioni raccolte in maniera oggettiva, in modo da
formulare conclusioni a partire da evidenze basate sui fatti.
Il comportamento è l’insieme delle azioni attraverso cui gli organismi rispondono a stimoli interni e
interagiscono con il loro ambiente. Il comportamento è azione. Gli psicologi esaminano cosa fa l’individuo e
come l’individuo si comporta nel farlo, considerando che ciascun fenomeno comportamentale calato
nell’ambiente sociale e culturale in cui è prodotto.
Nella maggior parte dei casi, l’oggetto di analisi psicologica sono gli esseri umani (un neonato che fa le sue
prime esperienze nel mondo, un atleta alla ricerca di motivazioni, uno studente universitario che si inserisce
nella vita del campus..) altre volte però può essere uno scimpanzé che impara a usare i simboli per comunicare
o un ratto in un labirinto. Ciascun individuo può essere studiato nel suo ambiente naturale o nelle condizioni
controllate di un laboratorio di ricerca.
Molti ricercatori inoltre sostengono che sia impossibile comprendere le azioni umane senza conoscerne anche i
processi mentali, i meccanismi della mente. La maggior parte delle attività umane si svolge nel privato, interno
(pensare, ragionare, creare, sognare), dunque numerosi studiosi partono dal presupposto che i processi
mentali rappresentano l’aspetto più importante nell’indagine psicologica.

All’interno delle scienze umane:


 Gli psicologi si concentrano sul comportamento degli individui nei diversi ambienti,
 I sociologi studiano il comportamento sociale dei gruppi e delle istituzioni,
 Gli antropologi si focalizzano sul più ampio contesto del comportamento nelle diverse culture.
La psicologia si confronta anche con altre scienze come la biologia, l’informatica, la filosofia, la linguistica e le
neuroscienze.

- 1.2 Le basi della scienza psicologica


La psicologia scientifica nasce in Europa nella seconda metà dell'800 e si è successivamente diffusa negli Stati
Uniti d’America e in altre vaste aree del mondo. Essa ha le sue radici nel pensiero classico dell’occidente le
quali a loro volta sono riconducibili ad a molti anni addietro.
In occidente, filosofi, uomini di scienza e di cultura si sono spesso occupati delle conoscenze sulle psiche. Tra i
filosofi dell’antica Grecia psyché ha rappresentato una nozione importante:

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 Platone ha teorizzato la separazione tra psyché e soma, tra anima (da intendersi come principio di vita)
e corpo (da intendersi come materia inanimata), dando inizio ad una concezione dualista che perdurerà
nei secoli. Il mito platonico della caverna stabilisce una suddivisione tra la conoscenza delle cose
sensibili del mondo (doxa), priva di qualsiasi certezza, e la conoscenza dell’intelletto, consistente in una
reminiscenza che la psyché ha del mondo delle idee.
 Aristotele non accettò il dualismo platonico e nel suo testo intitolato Psyché ritiene che l’anima sia
inscindibile dal corpo e che la sua essenza consista in quelle capacità che consentono all’organismo di
sopravvivere.
La classicità romana non ha dato contributi particolarmente significativi della conoscenza della psyché:
 Lucrezio (94 – 50 a.C) dichiara esplicitamente la sua incompetenza sulla natura dell’uomo
 Seneca (4 a.C – 65 d.C) separa l’anima dal corpo e vede la ragione come ratio, logos greco che è il
principio divino che regge il mondo a cui l'uomo deve obbedire oltre che conformarsi alla natura
 l’imperatore Marco Aurelio Antonino (121 – 189) mantiene la distinzione tra anima e corpo di Seneca e
vede nell’intelletto, particella che accomuna tutti gli individui, il principio che guida l’azione dell’uomo.
Nel Medioevo:
 alcuni pensatori tra cui Averroè (1126 – 1198) pongono l’accento sull’inscindibile unità tra corpo e
anima e ne negano l’immortalità, altri come Avicenna (980 – 1037) sono di pensiero opposto.
 Alberto Magno (1205 – 1280) e il suo allievo Tommaso d’Aquino (1225 – 1274) si rifanno alla
concezione aristotelica. Entrambi affermano che tuttavia l’anima è anche una forma spirituale,
autonoma dal corpo nella sua essenza.
La netta separazione tra anima e corpo sarà riproposta da Cartesio (1595 – 1650). Per Cartesio, l’anima ( res
cognitas) e il corpo (rex extensa) sono unite nell’uomo dalla “ghiandola pineale”, un organo di raccordo tra le
due sostanze situato nel cervello. Cartesio scienziato ha fornito un contributo significativo allo sviluppo della
scienza moderna. Di tale sviluppo, Galileo è considerato un riferimento fondamentale, poiché ha indicato le
linee guida del metodo scientifico della nuova scienza: il metodo scientifico è in intreccio di sensate esperienze
e di certe dimostrazioni (di tipo matematico).
Dal 600 in poi si assistette ad un numero sempre crescente di lavori nell’ambito di scienze empiriche, sul
sistema nervoso, sull’anatomia e sulla fisiologia. Studi pioneristici sulle strutture cerebrali furono condotti dal:
 Medico inglese Thomas Willis, le cui ricerche influenzarono a lungo le indagini successive;
 Medico scozzese Bell e fisiologo francese Magendie: i loro studi dimostrarono che le fibre nervose con
funzioni sensitive (1) e motorie (2) si trovavano le prime nelle radici posteriori e le seconde in quelle
anteriori dei nervi della spina dorsale.
 Müller formulò la teoria delle “energie specifiche dei sensi”, secondo la quale per ogni tipo di
sensazione (visiva, tattile, uditiva…) esistono differenti e specifici tipi di recettori, nervi e centri nervosi.
Si deve poi giungere al 19esimo secolo perché si affermi pienamente l’esigenza della misura in ambito
neurologico e psicologico. Contrariamente a Muller secondo il quale non sarebbe stato possibile misurare la
velocità di trasmissione dell’impulso nervoso a causa della sua estrema velocità, il fisico e fisiologo Helmholtz
sostenne invece la sua misurabilità e la quantificò in circa 26,4m al secondo nelle sue ricerche sulle fibre
nervose della rana. Inoltre, sperimentazioni di rilevanza psicologica furono condotte da:
 Il fisiologo e oculista olandese Donders, sui tempi di reazione
 Weber e Fechner, sui rapporti tra caratteristiche fisiche degli stimoli e corrispondenti sensazioni
 Ebbinghaus , sulla memoria
A distanza di due secoli dagli esperimenti di Galileo, si avvertì quella esigenza di utilizzare il metodo
sperimentale anche in psicologia. Tale nuovo interesse fu alla base della fondazione del primo laboratorio
fondato da Wundt a Lipsia nel 1879.
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- 1.3 Wundt e l’introspezione
Nel 1879, insieme ai suoi studenti (tra cui Friedrich e Hall), Wundt (1832 – 1920) diede inizio nel suo laboratorio
a un programma di ricerche di psicologia e già nel 1833 il laboratorio acquisì lo status di un istituto di ricerca
universitario. La psicologia sperimentale praticata Wundt applicava i metodi della fisiologia ai processi e ai
contenuti della coscienza umana. Per Wundt l’oggetto di studio della psicologia era l’esperienza diretta, o
immediata, e il metodo elettivo per rilevarla era costituito dall’introspezione.
Secondo Wundt, l’introspezione come metodo scientifico richiedeva:
1. Il controllo accurato dello stimolo in grado di produrre l’evento mentale, oggetto di osservazione
2. L’elaborazione e la stesura di un resoconto subito dopo l’osservazione dell’evento
Wundt stabilì anche delle linee guida per garantire la validità dell’introspezione:
1. L’osservatore, se possibile, doveva avere la possibilità di stabilire quando attivare il processo
2. L’osservatore doveva essere in una condizione di sforzo attentivo
3. Doveva essere possibile ripetere diverse volte la medesima osservazione
4. La condizione sperimentale deve prendere in considerazione variazioni di intensità e qualità della
stimolazione
La qualità dei risultati del metodo introspettivo dipendeva dall’abilità e dall’esperienza dell’osservatore, che
doveva raccogliere dati attendibili attraverso le sue risorse attentive e la sua rapidità in fase di osservazione e
stesura del resoconto. Secondo Wundt, l’auto osservazione era in grado di rivelare l’esistenza di processi
mentali come l’appercezione (un processo attentivo che organizzerebbe le percezioni), la volontà e le emozioni,
mentre i processi mentali superiori potevano essere studiati solo dall’osservazione naturalistica e la storia.
Le convinzioni di Wundt e dai suoi collaboratori sono state ampiamente superate dai successivi sviluppi della
ricerca psicologica, ma il contributo fondamentale di Wundt sta nell’aver intuito le potenzialità della psicologia
scientifica e di aver mosso i primi e fondamentali passi per legittimarla come disciplina scientifica.

- 1.4 Lo strutturalismo
Spesso si attribuisce la paternità dello strutturalismo alla psicologia di Wundt, ma in realtà il termine compare
per la prima volta in un articolo del 1898 dello psicologo inglese Edward B. Titchener (1867 – 1927), allievo di
Wundt e propugnatore delle sue idee negli Stati Uniti. Secondo Titchener, il primo passo per comprendere la
mente consisteva nello scoprirne la struttura, scomponendola nei suoi elementi primari. Era dunque necessario
evidenziare come si combinano tali elementi e poi comprendere perché si configurano tali combinazioni. Per
Titchener tali configurazioni potevano essere spiegate facendo riferimento ai processi fisiologici soggiacenti.
Secondo Titchener l’esperienza cosciente è costituita da percezioni, idee, emozioni (o sentimenti) a cui
corrispondono tre componenti fondamentali: sensazioni, immagini e stati affettivi. Questi componenti
sarebbero gli elementi semplici sui quali si strutturano rispettivamente le percezioni, le idee e le emozioni o
sentimenti. In particolare, Titchener si concentra sulle sensazioni: alle due qualità essenziali identificate da
Wundt (qualità e intensità) egli aggiunge durata e chiarezza. Per esempio una luce può essere descritta come
rossa (qualità), fioca (intensità), presente per 5 secondi (durata) o distinta da altri simboli luminosi (chiarezza).
Il metodo utilizzato da Titchener era quello dell’introspezione, ma l’addestramento che richiedeva ai suoi
soggetti era più rigoroso. Titchener inoltre indicò con l’espressione “errore dello stimolo” l’attribuzione di
significati e valori soggettivi ai dati oggettivi dell’esperienza.
Dunque, lo strutturalismo si fondava sul presupposto che tutte le esperienze mentali degli esseri umani
potessero essere comprese attraverso la combinazione delle componenti di base. Molti psicologi però
criticarono lo strutturalismo principalmente per tre motivi:
1. era riduzionista (riconduceva le complessità dell’esperienza umana ad alcune componenti sottostanti)
2. era elementarista (concepiva la mente come il risultato del combinarsi di elementi semplici piuttosto
che studiare il comportamento nella sua globalità)
3. era mentalista (analizzava solo resoconti verbali della consapevolezza umana cosciente ignorando chi
era nell’impossibilità di descrivere le proprie introspezioni.

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- 1.5 James e il funzionalismo
Il pensiero di Titchener si opponeva in modo manifesto a una psicologia “funzionale” e “descrittiva” interessata
più alle funzioni della mente che alla sua struttura. Era invece questa direzione che si orientavano sia in Europa
sia negli Stati Uniti le maggiori critiche alla psicologia wundtiana. In Europa i primi attacchi alla psicologia
strutturalista furono condotti in particolare da Brentano, secondo cui i processi psichici sono contraddistinti
dall’intenzionalità e l’oggetto di studio della psicologia è l’attività mentale.
Negli Stati Uniti spicca la figura di William James, a cui si ispirò la psicologia funzionalista. Il punto di partenza
della sua impostazione ea la teoria dell’evoluzione e in particolare lo stretto legame tra individuo e ambiente. Il
funzionalismo attribuì un’importanza sostanziale alle abitudini apprese che permettevano ad un organismo di
adattarsi all’ambiente e di funzionare con efficacia. Secondo i funzionalisti, la domanda alla quale i ricercatori
dovevano rispondere è: qual è la funzione o lo scopo di ogni atto di comportamento?
Il funzionalismo fornì un contributo determinante al formarsi di un nuovo concetto di esperimento in
laboratorio, a partire dall’oggetto di indagine, che non era più la coscienza ma il comportamento nella sua
totalità. Mentre lo strutturalismo affermava la necessità di una psicologia “pura”, esclusivamente sperimentale,
i funzionalisti sostenevano l’esigenza di una psicologia impegnata anche sul versante applicativo.

- 1.6 La prospettiva psicodinamica


Secondo l’approccio psicodinamico, il comportamento è guidato o motivato da potenti forze interiori. In
quest’ottica, le azioni umane sono il risultato di istinti ereditarie, di impulsi di natura biologica e di tentativi di
soluzione di conflitti tra i bisogni personali e le richieste della società. Stati di deprivazione, attivazione
fisiologica e conflitti sono gli stimoli del comportamento. Secondo questo modello, una volta soddisfatti bisogni
e pulsioni l’organismo torna ad uno stato di equilibrio.
I principi psicodinamici della motivazione furono sviluppati soprattutto dal medico viennese Sigmund Freud tra
la fine del 19esimo e gli inizi del 20esimo secolo. Le idee di Freud derivano dal suo lavoro con pazienti
mentalmente disturbati, tuttavia egli pensava che potessero essere estese anche a persone senza particolari
disturbi psichici. La teoria psicoanalitica di Freud considera quindi la persona in balia di una complessa rete di
forze esterne ed interne. Il modello di Freud il primo a rilevare che la natura umana non è sempre razionale e
che le azioni possono essere la risultante di motivi inconsci. Inoltre ha sostenuto che la prima infanzia è il
periodo in cui si forma la personalità.
Dopo Freud altri psicologi hanno impresso nuovi sviluppi al modello psicodinamico così da includere gli influssi
sociali e le interazioni dell’individuo nel corso del suo intero ciclo di vita.

- 1.7 La psicologia della Gestalt


Il termine Gestalt, tradotto in italiano con la parola “forma”, fu introdotto per la prima volta da Christian von
Ehrenfels il quale constatò che la stessa melodia, composta in due tonalità differenti, è comunque riconoscibile,
nonostante le note siano diverse. Egli suggerì che la combinazione di elementi produce una Gestaltqualitat, o
qualità-insieme. La data di nascita della psicologia della Gestalt risale al 1912, anno in cui Max Wertheimer
pubblicò i risultati delle sue ricerche sul movimento apparente. Gli altri principali esponenti furono Koffka e
Köhler.
Quanto al movimento apparente, esso si ottiene per esempio proiettando su uno sfondo scuro uno stimolo
luminoso e dopo un piccolo intervallo di tempo un secondo stimolo luminoso vicino alla posizione del primo;
l’osservatore percepirà un unico stimolo in movimento. Questo tipo di movimento apparente, detto
stroboscopico, è alla base della percezione del movimento cinematografico. Questo fenomeno, risulterebbe del
tutto inspiegabile sulla base di una teoria elementaristica della percezione incapace di dare conto della
percezione di un movimento continuo se esso è formato da singoli elementi statici.
In sintesi, l’approccio gestaltista enfatizza tre aspetti fondamentali per spiegare i fatti psicologici:
1. Innanzitutto, i gestaltisti rifiutano l’elementarismo, ossia ogni analisi che parta dal basso, nella
convinzione che non si possano comprendere e spiegare le proprietà di un evento o fi un atto
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complesso limitandosi a sommare o a combinare le proprietà delle sue parti elementari. Gli psicologi
della Gestalt centrano l’attenzione sui concetti di struttura e organizzazione, quindi su processi dall’alto
la cui direzione va dall’intero alle sue parti costituenti. Da ciò deriva il riferimento al metodo
fenomenologico e al continuo rimando all’esperienza diretta. i gestaltisti studiavano ciò che accade nel
mondo fenomenico dell’individuo mentre ritenevano erroneo pensare a un mondo della realtà al di là
dei fenomeni.
2. In secondo luogo, la psicologia della Gestalt fa riferimento al concetto di isomorfismo, secondo cui
l’organizzazione degli eventi psicologici rispecchia o è riconducibile alle proprietà strutturali degli eventi
neurofisiologici corrispondenti.
3. Infine, il modello gestaltista rinvia ad una autodistribuzione dinamica di processi entro un “campo”
cerebrale, che avviene secondo principi strutturali specifici.
Come vedremo nel cap. 3, la psicologia della Gestalt continua ad avere una forte influenza sullo studio della
percezione.

- 1.8 Il comportamentismo
Contemporaneamente alla nascita della Gestalt, in Germania e negli Stati Uniti, esordiva sulla scena scientifica
il comportamentismo, l’altra grande scuola psicologica che avrebbe segnato tutta la psicologia fino al secondo
dopoguerra. Un articolo pubblicato da John B. Watson nel 1913 è considerato il manifesto del movimento
comportamentista. Secondo Watson, la psicologia è “una branca sperimentale puramente oggettiva delle
scienze naturali”, essa non deve occuparsi della mente o della coscienza ma del comportamento osservabile.
Inoltre la psicologia non doveva avvalersi di metodi che non fossero suscettibili degli stessi controlli utilizzati in
tutte le scienze naturali. Di conseguenza, rifiuta il metodo dell’introspezione poiché l’unica psicologia scientifica
possibile era quella basata sull’indagine, condotta con metodi rigorosamente obbiettivi, delle manifestazioni
del comportamento osservabili dall’esterno, in modo diretto o con l’ausilio di strumenti.
Per i comportamentisti la mente è una scatola nera (black box) in cui lo psicologo non poteva e non era tenuto
a entrare. Obiettivo dello psicologo comportamentista era lo studio delle associazioni S(stimolo) – R(risposta).
In pochi anni il comportamentismo conquistò una posizione dominante nel panorama della psicologia
americana. Le ricerche del filosofo russo Pavlov sui riflessi condizionati anticiparono l’approccio a Watson,
ponendo l’enfasi sull’analisi del comportamento (animale o umano) senza dover ricorrere a costrutti mentalisti.
Analogamente, la “legge dell’effetto” di Thorndike secondo la quale la risposta comportamentale era da
considerarsi esclusivamente in funzione allo stimolo, forniva un’ulteriore conferma alla possibilità di ignorare i
processi che coinvolgono la mente.
Un’eredità importante del comportamentismo è la sperimentazione sugli animali e poi sugli esseri umani, in
particolare sull’educazione (valorizzando i rinforzi positivi piuttosto che le punizioni) e sui disordini
comportamentali.

1.8.1 Il neocomportamentismo
Tra gli anni 30 3 50, subentrò al comportamentismo una seconda fase, il neocomportamentismo. Pur
assumendo stimolo e risposta, alcuni neocomportamentisti introdussero delle variabili intermedie, o
intervenienti, nella descrizione del comportamento. Queste corrispondevano a eventi “interni” non
direttamente osservabili. Sugli sviluppi del neocomportamentismo ebbero un influsso significativo due
importanti correnti di pensiero:
1. Neopositivismo logico: sorto a Vienna intorno agli anni 20 e diffuso negli Stati Uniti, si segnalò per le
sue istanze di rigore formale degli enunciati scientifici, compresi quelli psicologici, inaccettabili se non
fossero stati regolati da principi logici.
2. Operazionismo: il requisito di ogni concetto scientifico doveva essere quello della sua “traducibilità” in
un insieme di operazioni, empiricamente controllabili, che permettessero di definirli. Per esempio per
la psicologia ciò significava definire la fame in termini di operazioni quali le ore di deprivazioni di cibo, o

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la misura dello zucchero nel sangue; tali operazioni sono indicatori osservabili della condizione non
osservabile e ipotizzata della fame.
Tra i neocomportamentisti, Edwin R. Guthrie formulò una teoria dell’apprendimento secondo cui l’associazione
temporale fra uno stimolo e un movimento era la condizione sufficiente perché alla ripresentazione dello
stimolo seguisse lo stesso movimento. Se per Watson e Guthrie i comportamenti appresi potevano essere
descritti attraverso meccanismi associativi S – R, altre ricerche tra cui quelle di Hull (con il concetto di pulsione)
e di Tolman (con i concetti di apprendimento latente e mappa cognitiva) portarono al superamento della teoria
S – R e al conseguente affermarsi della teoria S – O – R (stimolo-organismo-risposta), dove l’organismo è
tradotto nei termini di variabili intervenienti. Un noto sostenitore del comportamento radicale fu Burrhus
Skinner (1904 – 1990) che legò il suo nome al modello di apprendimento noto come condizionamento
operante. Secondo Skinner l’obbiettivo primario della psicologia rimaneva quello di stabilire relazioni funzionali
tra S e R indipendentemente dal riferimento a qualsiasi concetto “mentalista”.

- 1.9 Il cognitivismo
Lo sviluppo dell’orientamento cognitivista, risale alla seconda metà degli anni 50 del 900, tuttavia una
prospettiva precognitivista può essere colta anni prima nei lavori di diversi studiosi tra cui Bartlett, Jean Piaget
o Lev S. Vygotskij (1896 – 1934). Un significativo contributo in campo cognitivista fu quello del linguista Noam
Chomsky (1928 - ); egli sostenne che ogni lingua naturale non è un copione di frasi fisse ma un sistema aperto
all’infinita creatività di quanti la usano, a partire dai bambini. Questi ultimi, sulla base di una “competenza”
innata, acquisiscono , in pochi anni, la capacità di comprendere e di produrre strutture frasali mai udite prima.
La posizione di Chomsky dunque si contrappone nettamente all’associazionismo di Skinner che riduce il
linguaggio a un insieme di apprendimenti S – R .
La piena consapevolezza della nuova ottica cognitivista si è fatta strada lentamente; nel 1960, autori di un testo
di riferimento del cognitivismo come Miller, Galanter e Pribam, si autodefiniscono “comportamentisti
soggettivi”. Al centro di questo teso vi è l’unità TOTE (test-Operation-Test-Exit), una spiegazione circolare del
comportamento; essa è formata da fasi di retroazioni (= informazione che ritorna al soggetto sulle cose che sta
facendo nello stesso momento in cui la compie) ed è nettamente divergente dallo schema unidirezionale S – R.
per i cognitivisti, l’uomo è un elaborare di informazioni e la mente non è una scatola nera, poiché i processi
mentali (attenzione, memoria, linguaggio…) possono essere indagati con tecniche sperimentali. Oltre a
ricorrere al metodo introspettivo, i cognitivisti si avvalsero dei progressi fatti registrare dalla tecnologia dei
computer attraverso i quali fu possibile realizzare simulazioni del comportamento. Una panoramica delle
tematiche e delle ricerche cognitiviste è contenuta nel testo di Neisser, lo stesso autori che anni dopo criticò
non solo le ricerche cognitiviste ma tutta la psicologia di laboratorio a causa della sua scarsa rilevanza
ecologica, cioè della sua distanza dal modo di operare della mente nella vita quotidiana.

- 1.10 La scienza cognitiva


Nasce nella seconda metà degli anni 70 del secolo scorso. Due eventi ne hanno segnato la data di nascita:
1. la fondazione della rivista Cognitive Science nel 1977 (ad opera di R. Schank, A.M. Collins e E. Charniak)
2. la costituzione della relativa società che tenne il suo primo congresso a La Jolla, California.
Nell’articolo Why Cognitive Science uscito nel primo numero della rivista, Collins dichiara che vi è una insieme
di temidi ricerca relativi all’intelligenza naturale e artificiale su cui convergono gli interessi di ricercatori di
diverse aree disciplinari: psicologia cognitiva e sociale, tecnologie dell’educazione, intelligenza artificiale e
linguistica computazionale.
I paradigmi della neonata scienza sono:
 Modularismo: prospettiva secondo cui la mente è organizzata in moduli specializzati
 Connessionismo: prospettiva che pone in relazione l’architettura biologica del cervello con
l’architettura funzionale dell’attività cognitiva.
I modelli del funzionamento mentale secondo la scienza cognitiva possono essere suddivisi in modelli:

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 Computer-style: fondati sull’idea che per spiegare la processazione dell’informazione da parte della
mente umana occorre tenere conto della modalità di funzionamento di un computer.
 Brain-style: partono dal presupposto che, per formare ipotesi sulla mente umana, si deve far
riferimento al modo di operare del cervello umano. Questi modelli hanno una comune struttura di base
costituita da aggregazioni (dette “reti”) di elementi semplici (“neuroni artificiali” o “unità” o “nodi” o
“processori”). Allo stesso modo delle sinapsi che mettono in collegamento i neuroni fra loro, la
trasmissione di un segnale da un nodo all’altro è modulata da sinapsi, cioè da componenti che possono
amplificare o ridurre il segnale.

1.10.1 Il modularismo e la mente computazionale


Dopo la costruzione dei primi computer digitali (“digitale” indica tutto ciò che viene rappresentato attraverso
numeri o che opera utilizzando numeri) fra gli anni 40 e 50, Herbert A Simon e Allen Newell elaborano i primi
programmi che consentivano ai computer di fornire prestazioni “intelligenti” nella processazione delle
informazioni e nella soluzione di problemi. Nacque così ufficialmente il filone di ricerca denominato
intelligenza artificiale (IA) in cui veniva proposta l’analogia tra computer e mente umana, poiché condividono
due attività basilari: la capacità di usare simboli e la capacità di eseguire calcoli e operazioni a partire da una
serie di regole o istruzioni.
Secondo Fodor (1975) la mente computazionale è proposizionale, espressa in un codice simbolico che non
corrisponde al comune linguaggio verbale, ma ne è una forma condensata e astratta che Foder stesso ha
definito “linguaggio della mente”. Il modello a cui Fodor si ispira è la macchina di Turing, ideata nel 1936 per
poter sviluppare una procedura di calcolo in base a un programma prefissato. Essa è costituita da un’unità di
controllo in cui è inserito un programma, un nastro di lunghezza illimitato suddiviso in celle e un’unità di
controllo del nastro, per andare avanti e indietro nel nastro e per scrivere un simbolo in una cella. Questa
macchina, rispetto al cognitivismo umano, è indipendente dall’ambiente, mentre gli esseri umani interagiscono
continuamente con esso. Dunque Fodor ipotizza che il sistema cognitivo dell’uomo sia costituito da tre tipi di
strutture gerarchicamente organizzate:
1. I trasduttori: meglio definiti da Fodor “trasduttori compilati” (“compilato” indica che esiste una
struttura computazionale interna), registrano le informazioni sul mondo e producono rappresentazioni
degli stati ambientali, in forme tali da renderle disponibili per l’elaborazione successiva.
2. Sistemi di input: costituiti dai i 5 sensi percettivi più il linguaggio, elaborano le informazioni molto
velocemente e in modo seriale, non sotto il controllo cosciente dell’individuo. Essi sono
“informazionalmente incapsulati”, nel senso che non sono influenzati né dagli altri sistemi di input né
dai processi centrali.
3. Processi centrali: non sono “informazionalmente incapsulati” poiché interagiscono tra di loro, non sono
modulari e cercano di produrre una rappresentazione del mondo la più pertinente possibile. Essi hanno
il compito di collegare e di integrare tra loro i prodotti dei singoli sistemi di input.

1.10.2 Il connessionismo e la mente situata


Più che parlare di mente adattata, bisogna partale di mente che sa adattarsi. Il connessionismo agli inizi degli
anni 80 pone in relazione l’architettura biologica del cervello con quella funzionale dell’attività cognitiva.
Inoltre, esso fa riferimento alle reti neuronali artificiali, modelli ispirati alla struttura neuronale del cervello. Le
reti neuronali sono simulazioni che riproducono approssimativamente e in modo semplificato le proprietà e i
processi di funzionamento del sistema nervoso. Secondo il connessionismo, le informazioni sono elaborate
all’interno di queste reti, ciascuna delle quali composta da molte unità che procedono in parallelo anziché in
modo seriale (come nel computer). In tal modo, la conoscenza, distribuita in tutta la rete, avviene sulla base di
meccanismi di associazione. Di conseguenza, il connessionismo pone le basi per una concezione dinamica e
attiva della mente, in grado di adattarsi di volta in volta alle condizioni del momento e di autocorreggersi. Oggi
disponiamo di diverse evidenze rispetto all’ipotesi di una mente situata, costantemente immersa in un

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contesto immediato. Più che essere impegnata nell’elaborazione, archiviazione e connessione tra idee e
pensieri, la mente sarebbe una guida di controllo per il comportamento. L’importanza che il connessionismo e
la mente situata attribuiscono al contesto rimanda a una concezione della conoscenza che si ipotizza fondata
sulle pratiche di vita quotidiana. Di conseguenza, il significato di un oggetto non è una verità conoscibile a priori
ma dipende radicalmente dal suo contesto immediato.

1.10.3 La mente radicata


Una mente situata è una mente radicata nel corpo (embodied mind). Secondo tale prospettiva, ogni
conoscenza ha il suo fondamento nell’esperienza e procede non sulla base di simboli astratti e amodali, bensì
sulla scorta delle informazioni tratte dai diversi sistemi sensoriali, immaginativi e affettivi, nonché derivate dalle
azioni compiute dall’organismo in una data circostanza. In particolare, le rappresentazioni mentali di un
oggetto o evento consisterebbero nell’elaborazione di mappe della situazione che consentono di effettuare
simulazioni. Entrano in gioco dunque la capacità di riprodurre o prevedere un fenomeno, ma anche di creare
nuovi modi possibili a partire dagli elementi conoscitivi a disposizione. È questa la mente simulativa.

- 1.11 La ricerca in psicologia


In questo paragrafo illustreremo l’importanza del metodo scientifico per affrontare i molteplici aspetti della vita
quotidiana, allontanandoci dalle credenze della cosiddetta psicologia ingenua o del senso comune. Il senso
comune spiega il comportamento tramite teorie ingenue, vale a dire teorie non fondate sul controllo scientifico
ma sull’esperienza personale. Il processo di ricerca in psicologia risponde all’esigenza di determinare quali
supposizioni sul comportamento siano corrette, verificarle e approfondirle.
 Domanda di ricerca
Come nascono le domande dei ricercatori? L’osservazione, le credenze, le informazioni a disposizione, gli
aspetti contestuali e cultuali sono tutti elementi che contribuiscono alla formulazione di un’idea innovativa, di
un modo diverso di pensare a un dato fenomeno. Spesso i ricercatori combinano in modo originale le idee già
formulate, fornendo così una diversa interpretazione. Grazie alle informazioni raccolte sui fenomeni, gli
psicologi propongono teorie. Gran parte delle teorie sono intese da un’ottica deterministica (secondo cui tutti
gli eventi fisici, mentali o comportamentali sono il risultato di specifici fattori causali). I ricercatori sostengono
che il comportamento e i processi mentali seguono degli schemi regolari e che questi possono essere scoperti e
rivelati tramite la ricerca.
 Ipotesi di ricerca
Quando in psicologia viene formulata una teoria, ci si aspetta che essa tenga in considerazione sia ciò che già si
conosce sull’argomento, sia che generi nuove ipotesi. Un’ipotesi è una affermazione provvisoria e verificabile
sulla relazione tra fenomeni. Le ipotesi sono spesso espresse con enunciati ipotetici nella forma “se… allora” e
la ricerca ha il compito di verificare il legame tra l’antecedente “se…” e il conseguente “allora”. Per essere
verificata, ogni ipotesi deve essere formulata in maniera tale da poter essere falsificata.
 Metodo di ricerca
Il metodo scientifico consiste in un insieme di procedure per la raccolta e l’interpretazione dei dati, che
permette di limitare le fonti di errore e di trarre conclusioni verificabili. La psicologia viene dunque considerata
una scienza quando rispetta i vincoli del metodo scientifico. A partire dal proprio oggetto di indagine, il
ricercatore può stabilire quale metodo di ricerca preferirà utilizzare per verificare la sua ipotesi.
 Raccolta dei dati
Le ricerche della psicologia scientifica si basano sui dati che i ricercatori devono raccogliere secondo modalità
diverse, in funzione degli obbiettivi della loro ricerca. I dati vengono ottenuti tramite protocolli sperimentali,
cioè delle procedure prestabilite, e possono essere prodotti come “prove” a sostegno delle ipotesi dei
ricercatori. Un ricercatore può disporre di dati comportamentali (cioè collegati alla rilevazione del
comportamento animale o umano) o dati di self-report.

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 Analisi dei dati, accettazione o falsificazione delle ipotesi
Una volta raccolti i dati, i ricercatori procederanno alla loro analisi e alla successiva discussione. L’analisi
statistica contribuisce a verificare se le ipotesi sperimentali sono corrette. Gli psicologi si servono di:
1. Statistiche descrittive: utilizzate per dar conto in modo sintetico di insieme di punteggi raccolti su un
singolo soggetti sperimentale o, più spesso, su gruppi di soggetti.
2. Statistiche inferenziali: ci permettono di capire quali inferenze possiamo trarre a partire dai nostri dati
campionari e quali conclusioni possono essere ricavate. Questo tipo di statistica utilizza la teoria della
probabilità per determinare se i nostri risultati sono dovuti al caso oppure no.
 Divulgazione dei risultati
Se i dati possono avere una rilevanza scientifica si passa alla divulgazione dei risultati attraverso l’invio di un
articolo a una rivista. Nello scritto è necessario riportare sia la procedura utilizzata sia il metodo di analisi dei
dati. I dati inoltre devono essere conservati ed essere accessibili a una eventuale verifica pubblica. Una volta
inviato ad una rivista, l’articolo viene sottoposto a un processo di revisione (peer review) da parte di colleghi
esperti (2/5) e se la valutazione degli esperti è positiva, l’articolo viene pubblicato.
 Questioni aperte
Dopo che i dati e risultati sono resi noti, la comunità scientifica esamina il lavoro e identifica le questioni
rimaste irrisolti. Quando i dati non supportano un’ipotesi in modo adeguato, il ricercatore deve rimettere in
discussione le ipotesi teoriche. Saranno gli autori stessi del lavoro oppure altri ricercatori a intervenire sulle
questioni aperte dando così il via a un nuovo ciclo di ricerca. Per questa ragione il rapporto fra la teoria e la
ricerca è continuo e ricorsivo.

- 1.12 I metodi della psicologia


1.12.1 L’osservazione
L’osservazione è una delle modalità principali per studiare le persone; esse si focalizzano sia sul processo sia
sull’esito del comportamento. Le osservazioni dirette possono costituire una prima fondamentale tappa di
ricerca. Nell’osservazione naturalistica, il ricercatore osserva un comportamento in natura, senza cercare di
influenzarlo o cambiarlo; per esempio Cheney e Seyfarth nel 1922 osservano i babbuini neri nel loro habitat
naturale poiché “ogni animale intrattiene una complessa rete di relazioni sociali con i familiari e non familiari
che sono allo stesso tempo cooperative e competitive”. I loro studi hanno permesso di chiarire importanti
aspetti di come i babbuini sviluppano la loro intelligenza sociale. L’osservazione naturalistica permette ai
ricercatori di osservare un fenomeno in tutta la sua estensione e i dati che ne provengono permettono di
formulare ipotesi specifiche o un piano di ricerca.
Nell’osservazione clinica, utilizzata soprattutto a scopi diagnostici e psicoterapeutici, l’osservatore interagisce
con la persona osservata e cercano di ottenere informazioni attraverso opportune domande. Il metodo clinico
dello svizzero Jean Piaget si caratterizza per un’intrusività che è estranea al metodo clinico propriamente detto.

1.12.2 Il metodo sperimentale


L’obiettivo del metodo sperimentale consiste nella formulazione di leggi scientifiche sulle relazioni causali tra
variabili. Si definisce “variabile” qualsiasi caratteristica che può assumere diversi valori quantitativi o
qualitativi; in questo secondo caso è più appropriato il termine “mutabile”. Quando usa il metodo
sperimentale, il ricercatore manipola una o più variabile indipendenti e ne studia gli effetti su una o più variabili
dipendenti. Le conclusioni sono accurate quando non risultano influenzate da bias attribuibili al ricercatore, ai
soggetti sperimentali, o alla procedura di ricerca.
 Standardizzazione e definizioni operazionali
Standardizzare significa utilizzare procedure uniformi in ogni fase della sperimentazione e per ogni
partecipante. Ovviamente le condizioni saranno diverse a seconda che il partecipante sia assegnato al gruppo
sperimentale o al/ai gruppo/i di controllo. Inoltre, la standardizzazione implica l’uniformità nell’attribuzione
dei punteggi e nella valutazione dei dati (standardizzazione delle norme). Le osservazioni stesse devono essere

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standardizzate. Gli scienziati devono tradurre le loro teorie in concetti che abbiano un significato univoco. La
strategia con cui si standardizzano i significati dei concetti si chiama operazionalizzazione. La definizione
operazionale di un concetto scientifico corrisponde all'insieme delle operazioni utilizzate per determinarne il
significato. In un esperimento, ad ogni variabile deve essere data una definizione operazionale. Il setting
sperimentale è il contesto dove si svolge l’esperimento.
 Variabili confondenti
La confusione delle variabili è una delle maggiori minacce alla validità degli esperimenti. Quando il
comportamento dei partecipanti a un esperimento viene modificato da una o più variabili, oltre a quella
introdotta dallo sperimentatore, si crea confusione nell’interpretazione dei dati; questi elementi non previsti
sono chiamati variabili confondenti. Due fonti di confusione sono:
1. L’effetto aspettativa (o effetto Rosenthal): può comportare una distorsione dei risultati, provocata
dall’attesa che lo sperimentatore e/o i soggetti sperimentati hanno in merito ai risultati stessi. Questo
effetto fu osservato e descritto da Rosenthal che studiò in che modo le convinzioni dei ricercatori e dei
soggetti sperimentali potessero influenzare la realtà e dare origini ad una profezia che si autoavvera:
per esempio Rosenthal e Fode assegnarono a 12 studenti alcuni gruppi di ratti da addestrare per
percorrere un labirinto e i ratti inizialmente definiti come abili risultarono migliori nell’apprendimento
del percorso rispetto a quelli classificati come non adatti.
2. L’effetto placebo: si verifica quando i partecipanti ad un esperimento modificano le loro risposte in
assenza di qualsiasi tipo di trattamento sperimentale. Questo si osserva da tempo in ambito medico,
dove è utilizzato per spiegare i casi in cui la salute di un paziente migliora dopo l’assunzione di farmaci
chimicamente inerti. In questo contesto, per “effetto placebo” si intende un miglioramento della salute
o del benessere legato alla convinzione dell’individuo che il trattamento sia efficace e funzioni.
 Procedure di controllo
I comportamenti degli esseri umani e degli animali sono complessi e spesso sono dovuti a molteplici cause; per
questo un buon disegno di ricerca anticipa le possibili variabili confondenti e progetta strategie per eliminarle.
Le strategie di difesa utilizzate sono chiamate procedure di controllo, cioè procedure finalizzate a tenere
costanti tutte le variabili e le condizioni, tranne quelle collegate all’ipotesi che deve essere testata:
1. Controllo a singolo cieco: i partecipanti dell’esperimento non sono a conoscenza delle condizioni
sperimentali in cui si trovano non sappiano di far parte di un esperimento così da eliminare le
distorsioni prodotte dall’effetto dell’aspettativa;
2. Controllo a doppio cieco: oltre i partecipanti anche lo sperimentatore non sa a quale condizione
sperimentale sono stati assegnati i soggetti che sta esaminando;
3. Controllo placebo: per controllare l’effetto placebo, i ricercatori inseriscono una condizione
sperimentale in cui non viene somministrato il trattamento (o non vi è manipolazione della variabile
dipendente). Per esempio, uno studio aveva dimostrato che gli studenti che avevano assunto una
compressa per la memoria ogni mattina per sei settimane avevano effettivamente migliorato le loro
prestazioni cognitive. Tuttavia, si evidenziò un miglioramento anche negli studenti che avevano
inconsapevolmente assunto un placebo (pillola priva di principi attivi).
 Disegni di ricerca
È una procedura che dovrebbe consentire un’interpretazione non ambigua dei risultati, escludendo a priori
tutte le possibili interpretazioni alternative derivate dall’influenza di eventuali variabili confondenti. È uno
strumento fondamentale poiché rappresenta la struttura di base di tutta la ricerca. il ricercatore deve stabilire
quale disegno si adatti meglio ai suoi obiettivi:
1. Disegno tra soggetti (between subjects): prevede che i partecipanti siano assegnati casualmente alla
condizione sperimentale (in cui sono sottoposti al trattamento) e alla condizione di controllo
(condizione in assenza di trattamento sperimentale). L’assegnazione casuale è una delle strategie più
importanti che i ricercatori possono usare per eliminare le variabili confondenti legate alle differenze
individuali tra i partecipanti della ricerca. Questa è una strategia che attribuisce ad ogni partecipante la

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stessa possibilità di trovarsi nella condizione sperimentale o nella condizione di controllo. Quindi non ci
si dovrebbe preoccupare di una differenza sistematica tra gruppo sperimentale e gruppo di controllo.
Immaginate di voler verificare l’ipotesi secondo cui i bambini di 6 anni mentono di più rispetto a quelli
di 4 anni; alla fine dell’esperimento vorreste che i risultati siano generalizzabili all’intera popolazione di
bambini tra i 4 e i 6 anni. Nel laboratorio potete portare solo una piccolissima parte, un campione di
soggetti, ossia un gruppo che sia il più possibile simile, per quanto riguarda le caratteristiche rilevanti al
fine dell’esperimento, alla popolazione che si vuole prendere in esame. Deve essere considerato per
esempio il sesso e il gruppo etnico. Per selezionare un campione rappresentativo, i ricercatori utilizzano
il campionamento casuale, in cui ogni membro della popolazione studiata ha la stessa probabilità di
partecipare all’esperimento.
2. Disegno entro i soggetti (within subjects): utilizza ogni partecipante come controllo di se stesso. Per
esempio il comportamento di ciascun partecipante prima del trattamento viene confrontato con il suo
comportamento dopo il trattamento.
Tutti i metodi finora affrontati richiedono la manipolazione di una variabile indipendente, per verificare gli
effetti sulla variabile dipendente, ma ci sono situazioni in cui questo metodo non è il migliore da utilizzare:
1. In gran parte degli esprimenti il comportamento è studiato in ambiente artificiale, dunque l’ambiente
stesso così drasticamente controllato può provocare distorsioni al corso naturare del comportamento;
2. I partecipanti sanno di trovarsi all’interno di un esperimento dunque possono reagire modificando il
loro comportamento rispetto a quanto avverrebbe se fossero inconsapevoli di essere monitorati;
3. Alcuni filoni di ricerca non possono essere riconducibili a situazioni sperimentali per questioni etiche
(per esempio non posso cercare di capire se la tendenza all’abuso di minori sia trasmessa di
generazione in generazione creando un gruppo sperimentale di bambini vittime di abuso e un gruppo
di controllo senza vittime di abuso).
 Quasi-esperimenti
Quando non sono soddisfatti i requisiti che definiscono il vero e il proprio esperimento, si parla di quasi
esperimento. Le inferenze basate sui dati di un quasi-esperimento non sono affidabili, poiché non tengono
conto di tutte le variabili confondenti. Ciò è dovuto al fatto che non è possibile manipolare a piacimento la
variabile indipendente, non si possono scegliere in modo casuale dalla popolazione i partecipanti e non si
possono assegnare i soggetti ai gruppi sperimentali e di controllo in modo randomizzato. Spesso il quasi-
esperimento rappresenta l’unico modo in cui è possibile condurre uno studio sperimentale di un dato
fenomeno. I quasi-esperimenti inducono i ricercatori a trarre conclusioni di tipo casuale più deboli rispetto a
quanto farebbero con un vero esperimento. Per contro, hanno caratteristiche “ecologiche” in quanto sono
condotti sul campo, cioè in un contesto naturale di vita quotidiana.

1.12.3 Metodo correlazionale


L’intelligenza è associata alla creatività? C’è una relazione tra un’esperienza di abuso e la successiva insorgenza
di una patologia mentale? Domande di questo tipo riguardano variabili che uno psicologo potrebbe non essere
in grado di manipolare facilmente e nel rispetto delle norme etiche. In questi casi, gli psicologi usano il metodo
correlazionale per determinare fino a che punto le variabili sono associate tra di loro. Per farlo i ricercatori
calcolano, quando le variabili sono misurate su scala a intervalli o su scala a rapporti, il coefficiente di
correlazione r di Bravais-Pearson. Questo valore è compreso tra +1, 0 e -1, dove +1 e 0 rappresenta una
perfetta correlazione, -1 e 0 una perfetta correlazione inversa, e 0 e 0 l’assenza di correlazione. Una
correlazione lineare positiva indica che, all’aumentare dei punteggi relativi a una variabile, aumentano i
punteggi relativi all’altra variabile. Nella correlazione negativa, all’aumentare dei punteggi relativi una variabile
corrisponde la diminuzione dei punteggi relativi all’altra variabile. Supponiamo per esempio di voler indagare la
relazione tra il bisogno di sonno degli studenti e il loro rendimento scolastico. Un punteggio fortemente
positivo indicherebbe che gli studenti più dormono e più hanno la media alta. Ma un’elevata correlazione
indica solo che due serie di dati sono associate in modo sistematico e non implica che una variabile sia la causa

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dell’altra. La correlazione non implica causalità. L’alta correlazione potrebbe essere determinata da una terza
variabile, come per esempio il fatto che gli studenti ottengano voti alti e dormano bene quando frequentano
corsi facili, oppure può darsi che chi studia in maniera efficace vada a letto prima, oppure chi è particolarmente
ansioso non riesca a prendere sonno.

1.12.4 Studi di casi


Piuttosto che coinvolgere un elevato numero di partecipanti, qualche progetto di ricerca concentra tutte le sue
misure su un singolo individuo o su un piccolo gruppo. Nello studio di un caso, un’analisi approfondita di
particolari individui può talvolta condurre a importanti rivelazioni rispetto a caratteristiche generali
dell’esperienza umana.

11.12.5 Ricerche d’archivio


Talvolta i ricercatori fanno riferimento a ricerche di dati in archivi, biblioteche o web. Ciascuna di queste
informazioni può rivelarsi utile per verificare determinate ipotesi.

- 1.13 La misurazione in psicologia


Data la loro varietà e complessità, i fenomeni psicologici costituiscono una sfida impegnativa per i ricercatori
che intendono misurarli. Sebbene alcune azioni e processi siano osservabili con facilità, molti altri come l’ansia
e i sogni non lo sono.

1.13.1 Scale di misurazione


Il termine “misura” richiama alla mente un operazione di tipo misurativo, cioè che richiama l’uso dei numeri. In
tale ottica, per “misura” si intende un numero usato per indicare il valore del rapporto di una grandezza
rispetto a una grandezza assunta come unità di misura. A partire dall’osservazione delle caratteristiche delle
variabili tipicamente utilizzate nella ricerca psicologica, Stanley Stevens (1951) ha distinto quattro tipi di scale:
1. Scale nominali: raggruppano oggetti o eventi in categorie; a ciascuna di esse si attribuisce un numero o
un’etichetta. Oggetti o eventi alla stessa categoria devono avere lo stesso valore numerico (o la stessa
etichetta), inoltre il numero o assegnato a una categoria sia diverso da quello di un’altra categoria.
2. Scale ordinali: in questo caso i numeri attribuiti alle categorie sono considerati simboli distinti in grado
non solo di indicare se due oggetti sono uguali o meno ma anche di dar conto della direzione in cui si
configura la diversità, sulla base di una dimensione data. Tali numeri sono sostanzialmente dei ranghi,
in cui il rango 4 è inferiore al rango 5 che è inferiore al rango 6 e così via.
3. Scala a intervalli (o scala a intervalli uguali): comporta uno 0 fissato arbitrariamente e la suddivisione
dei valori che la compongono in intervalli uguali tra loro. È il caso della temperatura, se la temperatura
di ieri era di 4 gradi e oggi di 8 non posso dire che la temperatura di oggi è il doppio di quella di ieri.
4. Scala a rapporti: costituisce il livello di misurazione di variabili come le varabili di lunghezza e di peso il
cui punto 0 indica l’indica l’origine del continuo misurativo. In questo caso il punto 0 è definito sia sul
piano concettuale e/o sul piano fisico. Pertanto è esatto dire che se due oggetti pesano 20kg e 40kg è
corretto dire che il secondo pesa il doppio del primo.
Facciamo un esempio: la scala dei voti scolastici in decimi, che tipo di scala è? Non può essere una scala
nominale perché i voti hanno lo scopo nominale. Non può essere una scala a rapporti perché è impossibile
stabilire un’origine assoluta, cioè un livello di conoscenza pari a zero. Se si trattasse di una scala a intervalli,
significherebbe che la distanza che separa ciascun voto è costante, ma tra il 2 e il 3 non c’è la stessa distanza tra
5 e 6 (5+, 6-,..). Dunque è una scala ordinale, poiché i voti servono a formare una graduatoria e sono dei ranghi.

1.13.2 Attendibilità e validità


La misurazione psicologica ha l’obiettivo di generare risultati che siano attendibili e validi. L’ attendibilità si
riferisce alla coerenza di dati comportamentali risultanti dalla somministrazione di test psicologici e dalla
ricerca sperimentale. Un risultato è attendibile se a partire da condizioni simili si ripeterà in tempi differenti.
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Uno strumento di misurazione è attendibile se permette di ottenere punteggi analoghi quando viene utilizzato
ripetutamente e l’oggetto che si vuole misurare è il medesimo.
Per validità si intende il livello di precisione con cui un test o uno strumento utilizzato in una ricerca misura la
variabile psicologica che si intende misurare. Si distinguono quattro tipi di validità:
1. Interna: ossia il grado in cui si ha ragione di ritenere che esista una relazione causa-effetto tra variabile
dipendente e variabile indipendente
2. Esterna: consistente nel livello di generalizzabilità dei risultati ad altri soggetti e altre situazioni
3. Di costrutto: relativa all’accuratezza con cui i risultati sono conformi alla teoria che ne è alla base
4. Statistica: riferita alla probabilità che la relazione tra variabili sia significativa e non ottenuta per caso.
Un esperimento valido consente al ricercatore di generalizzare i propri risultati a contesti più ampi, passando
dal laboratorio al mondo reale. Test ed esperimenti possono essere però attendibili senza essere validi;
utilizzare la statura di una persona come indice del suo grado di felicità sarebbe attendibile poiché si
otterrebbero valori pressoché simili, ma non valido, perché non ci direbbe nulla sul livello di felicità.

1.13.3 Misure self-report


Spesso i ricercatori sono interessati a ottenere dati relativi a esperienze che non possono osservare
direttamente. Talvolta queste esperienze sono legate a stati psicologici interni (credenze o affetti) altre volte
sono comportamenti esterni, ma come nel caso degli abusi sessuali, si tratta di dati la cui osservazione è
inappropriata o sconveniente. In questi casi le ricerche si basano su dati di autovalutazione. Le misure self
report sono risposte verbali, scritte o orali, a domande poste dai ricercatori. Gli strumenti possono essere:
a) Questionari: consiste in una serie di domande scritte che variano, nel contenuto, da domande fattuali
(“sei un lavoratore a tempo pieno?”) a che indagano il comportamento passato o presente (“quante
sigarette fumi al giorno?”) a domande relative ad abitudini o stati affettivi (“quanto sei soddisfatto della
tua vita?”). Possono essere domande aperte in cui il soggetto può rispondere liberamente o domande
chiuse in cui si presentano un numero prefissato di alternative.
b) Interviste: è un colloquio tra un ricercatore e un individuo, finalizzato alla raccolta di informazioni
dettagliate. Invece di essere completamente standardizzata come il questionario, l’intervista è
interattiva. L’intervistatore può variare la tipologia delle domande per approfondire una particolare
risposta dell’intervistato. È fondamentale costruire una relazione positiva con l’intervistato che lo
incoraggi alla fiducia e alla condivisione di informazioni personali.
Anche quando questi strumenti sono utilizzati, attendibilità e validità non sono garantite; gli intervistati
possono fraintendere le domande, non ricordare le esperienze effettive, possono fornire risposte false o
ingannevoli o può essere imbarazzante fornire i propri stati inferiori e le proprie esperienze ad un estraneo.

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CAPITOLO 2
Basi biologiche ed evolutive del comportamento

Che cosa rende unica una persona? Nel presente capitolo ci concentreremo sugli aspetti biologici della nostra
individualità. Di certo è possibile rilevare queste differenze soltanto partendo da ciò che ognuno Ha in comune
con gli altri: il potenziale biologico. Uno degli aspetti straordinari del nostro potenziale biologico è il cervello.
L’obiettivo di queste pagine è di aiutare a capire come la biologia contribuisce alla formazione di individui unici
ma con un potenziale di fondo condiviso.

- 2.1 Ereditarietà e comportamento


Un aspetto importante della spiegazione psicologica è definito dalla contrapposizione tra natura e cultura o tra
ereditarietà e ambiente. Consideriamo ad esempio la questione delle radici del comportamento aggressivo: si
potrebbe ipotizzare che certi individui sono aggressivi per qualche aspetto del loro corredo biologico (per
esempio genitori aggressivi) oppure per delle caratteristiche dell’ambiente in cui crescono. È necessario
dunque essere in grado di distinguere le forze dell’ereditarietà dalle forze dell’ambiente. Siccome le
caratteristiche ambientali sono osservabili direttamente, è spesso più semplice comprendere il modo in cui il
comportamento delle persone ne è influenzato. Per rendere la biologia del comportamento più comprensibile,
il capitolo inizierà prendendo in rassegna alcuni fondamenti della teoria dell’evoluzione.

2.1.1 Evoluzione e selezione naturale


Nel 1831 Charles Darwin salpò dall’Inghilterra sul brigantino reale Beagle per intraprendere una spedizione
esplorativa della costa del sud America che sarebbe durata 5 anni. Durante il viaggio raccolse qualunque cosa
incrociasse nel suo percorso (piante, fossili, pietre…) e i suoi dettagliati appunti costituirono le basi per i suoi
libri. Il volume più famoso è L’origine delle specie (1859) in cui Darwin espose la teoria dell’evoluzione della
vita.
 Selezione naturale
Darwin elaborò la teoria dell’evoluzione riflettendo sulle specie animali che aveva incontrato nel suo viaggio.
Uno dei numerosi luoghi visitati furono le isole Galàpagos, le quali ospitavano una fauna molto diversificata di
cui fanno parte tredici specie di fringuelli. Darwin si chiese come fosse possibile e dedusse che non potevano
essere migrate dalla terraferma perché là quelle specie non esistevano. Suggerì pertanto che la varietà di
specie rifletteva lo svolgersi di un processo, quello di selezione naturale. La teoria di Darwin suggerisce che
tutte le specie di fringuello derivano da in solo gruppo di ascendenti: in principio un piccolo stormo arrivò in
quelle isole, si accoppiarono tra loro e si moltiplicarono. Nel tempo, alcuni fringuelli migrarono verso le altre
isole dell’arcipelago; quanto seguì fu il processo di selezione naturale. Le risorse di cibo e le condizioni di vita
(gli habitat) variano da isola a isola. Date le risorse di cibo limitate, un uccello aveva maggiori possibilità di
sopravvivere e riprodursi se il suo becco era adatto alle risorse (per esempio, su isole ricche di bacche, l’uccello
sopravviveva se aveva un becco spesso). Nel tempo, ciò portò ogni isola ad avere una popolazione molto
diversa dalle altre. In generale, la teoria della selezione naturale suggerisce che gli organismi ben adattati al
loro ambiente, qualunque esso sia, avranno più figli rispetto a quelli meno adattati.
 Genotipi e fenotipi
Per esaminare il processo di selezione naturale in modo più approfondito, è necessario introdurre alcuni
termini propri dell’evoluzione. Consideriamo un singolo fringuello: al concepimento l’animale ha ereditato dai
genitori un genotipo, o struttura genetica. All’interno di un particolare ambiente, questo genotipo ha
determinato lo sviluppo e il comportamento dell’animale, cioè il suo fenotipo. Nel nostro esempio di prima, il
genotipo può aver interagito con l’ambiente producendo il fenotipo del becco spesso. Se tutti i semi di cibo
fossero abbondanti, il fenotipo non inciderebbe sulla sopravvivenza del fringuello; se il cibo scarseggia, i
fringuelli entrerebbero in competizione per le risorse. Quando le specie vivono in competizione, i fenotipi

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contribuiscono a determinare quali membri sono più adatti a garantirsi la sopravvivenza. Ecco dunque come le
forze ambientali possono modellare per la specie un repertorio di possibili comportamenti.
 Evoluzione umana
Nell’evoluzione della nostra specie, la selezione naturale ha favorito due principi di adattamento:
1. Bipedismo: termine con cui si indica la capacità di camminare in posizione eretta che emerse nei nostri
antenati dai 5 ai 7 milioni di anni fa. Quando questi svilupparono la capacità di camminare in posizione
eretta, furono in grado di esplorare nuovi ambienti e sfruttare nuove risorse.
2. Encefalizzazione: l’incremento della dimensione del cervello. I primi progenitori umani, che
comparvero circa 4 milioni di anni fa (per esempio l’australopiteco) avevano cervelli simili per
dimensione a quelli degli scimpanzé. Nel periodo tra 1,9 milioni di anni fa e 200.000 anni fa, la
dimensione del cervello si triplicò: i nostri progenitori diventarono più intelligenti e svilupparono
capacità complesse di pensiero, ragionamento, ricordo e pianificazione.
Oltre al bipedismo e all’encefalizzazione, la pietra miliare della nostra specie è stata la comparsa del linguaggio.
Anziché apprendere le lezioni di vita in prima persona, gli esseri umani potevano trarre vantaggio dalla
condivisione delle esperienze altrui. Soprattutto, il linguaggio permise la trasmissione delle conoscenze
accumulate nel tempo alle generazioni successive. Il linguaggio è alla base dell’evoluzione culturale, che ha
prodotto progressi fondamentali nella realizzazione di strumenti, miglioramento delle pratiche agricole e il
perfezionamento industriale e tecnologico. Inoltre l’evoluzione culturale permette anche alla nostra specie di
adattarsi molto rapidamente ai cambiamenti delle condizioni ambientali.

2.1.2 Variazioni nel genotipo umano


Nostra madre e nostro padre ci hanno dotati di una parte di ciò che i loro genitori, i loro nonni e tutte le
generazioni precedenti della famiglia hanno trasmesso a loro, producendo un’impronta e programmi biologici
unici per il nostro sviluppo. Lo studio dei meccanismi dell’ereditarietà, l’acquisizione dei caratteri fisici e
psicologici dagli antenati, prende il nome di genetica.
La prima ricerca tesa ad esplorare la relazione tra genitori e figli, fu pubblicata nel 1866 da Gregor Mendel.
Mendel condusse i suoi studi su semplici piselli da giardino e fu in grado di dimostrare che le caratteristiche
fisiche di piselli provenienti da diversi semi (per esempio lisci o rugosi) potevano essere previste analizzando le
piante da cui quei semi erano ottenuti. Sulla base di tale osservazioni, Mendel suggerì che le caratteristiche dei
figli erano determinate da coppie di “fattori”, che oggi chiamiamo geni.
Lo studio della genetica del comportamento (un campo di ricerca che unisce psicologia e genetica per
esplorare il rapporto causale tra ereditarietà e comportamento) umano, si focalizza soprattutto sulle origini
delle differenze individuali. A complemento di questa genetica sono emersi altri due campi:
1. Sociobiologia: in cui i ricercatori offrono spiegazioni di tipo evolutivo del comportamento sociale e sui
sistemi sociali degli esseri umani e delle specie animali.
2. Psicologia evoluzionistica: in cui i ricercatori includono in queste spiegazioni di tipo evolutivo altri
aspetti dell’esperienza umana, come ad esempio le modalità di funzionamento della mente.
 Basi di genetica
Nel nucleo di ognuna delle nostre cellule si trova materiale genetico si trova materiale genetico chiamato DNA,
organizzato in minuscole chiamate geni. I geni contengono le istruzioni per la produzione delle proteine, le
quali regolano i processi fisiologici del corpo e l’espressione dei caratteri fenotipici: struttura e forza fisica,
intelligenza e numerosi pattern comportamentali. I geni si trovano in strutture a forma di bastoncello
conosciute con il nome di cromosomi. Nell’istante in cui siamo concepiti, ereditiamo dai genitori 46 cromosomi
(23 dalla madre e 23 dal padre) e ognuno di questi cromosomi contengono migliaia di geni. I cromosomi
sessuali contengono i geni che fungono da codice per lo sviluppo di caratteri fisici maschili o femminili.
Ereditiamo un cromosoma X dalla madre e un cromosoma Y dal padre. La combinazione XX funge da codice
genetico per lo sviluppo di caratteri femminili, XY per quelli maschili.

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Se iniziamo a considerare la base genetica di aspetti più complessi dell’esperienza umana, è importante
osservare che alla manifestazione di un particolare attribuito contribuiscono più geni, quindi non solo una
coppia. Questi tratti sono noti come caratteri poligenici.
A partire dagli anni 90, il governo statunitense finanziò una ricerca internazionale chiamata Progetto genoma
umano. Il genoma di un organismo è l’intera sequenza di geni che si trovano nei cromosomi. Nel 2003 questo
progetto raggiunse lo scopo di fornire una mappatura completa del genoma umano.
 Ereditabilità
Per comprendere le funzioni dei geni, la ricerca sulla genetica del comportamento umano si concentra spesso
sulla valutazione dell’ereditabilità di particolari caratteri e comportamenti. L’ereditabilità si misura su una scala
da 0 a 1; una stima prossima a 1 suggerisce che l’attributo preso in considerazione è in larga misura il prodotto
di influenze genetiche. Per distinguere le influenze ambientali da quelle genetiche, i ricercatori si servono degli:
 Studi di adozione: in cui i ricercatori raccolgono quante più informazioni possibili sui genitori naturali di
bambini allevati in famiglie adottive. Quando i bambini crescono, i ricercatori valutano le somiglianze
con la famiglia naturale (che rappresenta la genetica) e la famiglia adottiva (che rappresenta la cultura)
 Studi sui gemelli: in cui i ricercatori esaminano il livello di somiglianza in particolari tratti
comportamentali dei gemelli monozigoti (detti anche gemelli identici) e dei gemelli dizigoti (o gemelli
fraterni). I fratelli monozigoti nascono dalla fecondazione di una sola cellula uovo e i ricercatori
credevano che condividessero il 100% del materiale genetico; recenti evidenze hanno tuttavia
evidenziato che non sono propriamente identici dal punto di vista genetico.
La possibilità per i ricercatori di associare geni e comportamenti mette in rilievo alcune questioni etiche emerse
sulla scia dei successi del Progetto genoma umano. Per esempio, esistono diverse tecniche che permettono ai
genitori di scegliere se avere un maschio o una femmina, ma è giusto desiderare e poter fare questa scelta?
Dopo aver appreso che i ricercatori sono spesso in grado di valutare l’ereditabilità di importanti aspetti
dell’esperienza umana, analizzeremo perché anche l’ambiente è fondamentale.
 Interazioni di geni e ambienti
I ricercatori hanno documentato sempre di più che sia la genetica che l‘ambiente svolgono ruoli fondamentali
nel determinare i comportamenti degli organismi. Consideriamo un esempio in cui le circostanze nelle quali i
bambini crescono hanno un impatto fondamentale sugli effetti dei geni da loro ereditati. Lo studio seguì un
gruppo di bambini di età compresa tra i 15 e i 67 mesi. Per quanto concerne la genetica, furono valutate le
differenze in un gene che incide sul neurotrasmettitore serotonina. Il gene si presenta si in forma breve (s) sia
lunga (l). lo studio mise a confronto bambini che ne ereditarono due versioni lunghe (ll) con bambini che ne
ereditarono almeno una versione breve (sl o ss). Per quanto riguarda l’ambiente, lo studio valutò le differenze
nel trattamento dei bambini da parte delle rispettive madri in una serie di contesti realistici (gioco o le faccende
domestiche). Quando i bambini raggiunsero i 67 mesi, i ricercatori ne valutarono le competenze scolastiche.
Per i bambini nati con almeno una variante breve del gene, la responsività materna aveva un impatto
considerevole: una maggiore responsività produceva maggiori competenze scolastiche. Per i bambini nati con
due varianti lunghe invece, la responsività materna non aveva, di fatto, alcun impatto sui risultati. Da questo
esempio, appare chiaro perché i ricercatori cercano di capire in che modo e per quali motivo certi ambienti
permettono ai geni di esercitare i loro effetti e, a loro volta, certi geni influenzano la componente ambientale. È
quindi fondato ipotizzare che il comportamento molto raramente è il prodotto della natura o della cultura ma
è, invece, frequentemente il prodotto congiunto di natura e cultura.

- 2.2 Il sistema nervoso in azione


Volgeremo ora la nostra attenzione agli straordinari esiti del genotipo umani: i sistemi biologici che rendono
possibile l’intera gamma dei pensieri e delle azioni. I ricercatori che studiano queste leggi naturali sono detti
neuroscienziati, e oggi il campo delle neuroscienze è uno dei campi della ricerca in più rapida ascesa.

2.2.1 Neurone

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Il neurone è una cellula del sistema nervoso specializzata nel ricevere, elaborare e/o trasmettere le
informazioni ad altre cellule. I neuroni variano nella forma, nelle dimensioni, nella composizione chimica e nella
funzione svolta, ma hanno tutti la stessa
struttura fondamentale. Nel nostro cervello
è presente un numero di neuroni compreso
tra 100 miliardi e 1000 miliardi. Solitamente
i neuroni ricevono informazioni a
un’estremità e inviano messaggi da un’altra.
La parte della cellula che riceve i segnali è
formata da un insieme di fibre ramificate
chiamate dendriti, che si prolungano dal
corpo cellulare verso l’esterno. Il compito
fondamentale dei dendriti è ricevere
stimolazioni dai recettori sensoriali o da altri neuroni. Il corpo cellulare è chiamato soma e contiene il nucleo
della cellula e il citoplasma. Il soma integra l’informazione ricevuta dai dendriti e la trasmette attraverso
l’assone, una lunga e sottile fibra spesso rivestita di guaina mielinica. All’estremità opposta degli assioni ci sono
delle strutture rigonfie a forma di bulbo chiamate bottoni terminali, attraverso le quali il neurone è in grado di
stimolare neuroni vicini., ghiandole e muscoli. I neuroni generalmente si trasmettono le informazioni soltanto
in una direzione: dai dendriti all’assone attraverso il soma e dall’assone ai bottoni terminali.
Esistono tre classi fondamentali di neuroni:
1. Neuroni sensoriali: neurone che trasmette i messaggi dai recettori sensoriali verso il sistema nervoso
centrale. Sono altamente specializzati e sensibili (per esempio alla luce, suono o posizione del corpo)
2. Neuroni motori: neurone che trasmette i messaggi del sistema nervoso centrale in direzione dei
muscoli e delle ghiandole.
3. Interneuroni: neuroni cerebrali più numerosi che trasmettono i messaggi dai neruoni sensoriali ad altri
interneuroni o ai neuroni motori.
Per osservare in che modo questi tre tipi di neuroni collaborano, prendiamo per esempio in considerazione il
riflesso di allontanamento del dolore; quando i recettori del dolore sono stimolati da un oggetto pungente,
inviano messaggi a un interneurone presente nel midollo spinale attraverso i neuroni sensoriali. L’interneurone
risponde stimolando i neuroni motori i quali, a loro volta, stimolano i muscoli presenti nella zona del corpo
interessata ad allontanarsi dall’oggetto che è fonte di dolore. Soltanto dopo questa successione di eventi
naturali e il corpo si è allontanato dall’oggetto, l’informazione arriva al cervello. Ovviamente questa viene
immagazzinata nella memoria in modo che in seguito si eviterà l’oggetto dannoso.
A metà degli anni 90, Giacomo Rizzolatti e i suoi colleghi, scoprirono un nuovo tipo di neuroni osservando delle
scimmie. I ricercatori scoprirono che alcuni neuroni si attivavano anche quando le scimmie si limitavano ad
osservare il ricercatore compiere la medesima azione. Chiamarono dunque questo tipo di neurone, neurone
specchio, perché si attivano quando un individuo ne osserva un altro eseguire un’azione. Ci sono evidenze che i
neuroni specchio sono presenti anche nel cervello umano e che questi permettano di farci capire le intenzioni
legate al comportamento di altre persone.
Tra l’enorme rete di neuroni del cervello, c’è un numero di cellule gliali dalle 5 alle 10 volte superiore. Il
termine glia viene dal greco che significa “colla” dunque possiamo immaginare che una delle sue funzioni
principali è quella di tenere insieme i neuroni. Nei vertebrati queste cellule svolgono diverse altre funzioni:
1. Non appena formati, i neuroni vengono aiutati da queste cellule a trovare la propria collocazione
all’interno del cervello.
2. Pulizia: quando i neuroni sono danneggiati e muoiono le cellule gliali presenti nell’area si moltiplicano e
spazzano via i residui cellulari.
3. Formano uno strato isolante, detto guaina mielinica, attorno ad alcuni tipi di assone, che incrementa la
velocità di trasmissione del segnale nervoso.

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4. Impediscono alle sostanze tossiche che circolano nel sangue di arrivare al cervello.
Inoltre alcuni scienziati ritengono che la glia possa svolgere un ruolo attivo nella comunicazione neuronale
poiché può incidere sulla concentrazione di ioni che permettono la trasmissione degli impulsi nervosi.
2.2.2 Potenziali d’azione
Finora abbiamo detto che i neuroni inviano e ricevono messaggi o che si stimolano reciprocamente, dunque è
arrivato il momento descrivere in modo più dettagliato i differenti tipi di segnali elettrochimici usati dal sistema
nervoso per elaborare e trasmettere le informazioni. Per ciascun neurone, la domanda è: attivarsi (cioè
produrre una risposta) oppure no? Ogni neurone prende questa decisione associando le informazioni
provenienti ai dendriti e al soma e determinando se questi impulsi segnalano di attivarsi o non attivarsi. In
termini specifici, ogni neurone riceve una combinazione di input eccitatori (di attivazione) e input inibitori (non
attivazione). La corretta sequenza di input eccitatori nel tempo e nello spazio porta alla produzione di un
potenziale d’azione, ovvero l’attivazione.
 Base biochimica dei potenziali d’azione
Tutta la comunicazione neuronale è prodotta dal flusso di particelle dotate di carica elettrica (positiva o
negativa), dette ioni, attraverso la membrana neuronale, una sottile pellicola che separa l’interno dall’esterno.
Ci sono ioni sodio (Na+), ioni cloro (Cl-) e ioni potassio (K+). La membrana svolge un ruolo fondamentale nel
mantenere i componenti nel giusto equilibrio.
Quando una cellula è inattiva, si verifica una maggiore concentrazione di ioni potassio dentro l’assone e una
maggiore concentrazione di ioni sodio al suo esterno. La membrana non è perfettamente impermeabile, perciò
lascia entrare un po’ di ioni sodio e lascia uscire un po’ di ioni potassio. Per ovviare a ciò, la membrana possiede
dei meccanismi di trasporto interni che pompano sodio all’esterno e potassio all’interno. L’azione di queste
pompe fa si che nel liquido interno alla cellula ci sia una tensione leggermente negativa, rispetto al liquido
esterno. Ciò significa che il liquido all’interno sia polarizzato. Questa leggera polarizzazione è detta potenziale
di riposo e fornisce il contesto chimico in cui una cellula nervosa può produrre un potenziale d’azione.
Gli input provocano delle modifiche nel funzionamento dei canali ionici cioè le parti eccitabili della membrana
cellulare che consentono solo a determinati ioni di fluire verso l’interno e verso l’esterno. Gli input inibitori
portano i canali ionici a lavorare più intensamente per mantenere la carica negativa all’interno e per impedire
alla cellula di attivarsi; gli input eccitatori fanno si che i canali ionici lascino entrare ioni sodio permettendo alla
cellula di attivarsi. Un potenziale d’azione inizia a manifestarsi quando gli input eccitatori, rispetto agli inibitori,
hanno abbastanza forza da depolarizzare la cellula. Il sodio dunque penetra nel neurone facendogli assumere
una carica positiva rispetto all’esterno. Per effetto domino, la spinta data dalla depolarizzazione porta i canali
ionici presenti nella regione adiacente dell’assone ad aprirsi e a permettere l’ingresso del sodio. In questo
modo, tramite successiva depolarizzazione, il segnale progredisce lungo l’assone.
Dopo l’attivazione, in che modo il neurone torna all’originale stato di riposo? Quando l’interno del neurone
diventa positivo, i canali che fanno affluire il sodio si chiudono, mentre quelli che fanno defluire il potassio si
aprono. Il deflusso degli ioni potassio ripristina la carica negativa del neurone. Pertanto, mentre il segnale
raggiunge l’estremità dell’assone, le parti della cellula in cui il potenziale d’azione ha avuto origine ritornano
allo stato di riposo, pronte alla successiva stimolazione.

1. Nello stato di riposo, 2. Quando arriva 3. L’impulso si trasmette 4. Quando il potenziale


l’ambiente all’interno è l’impulso nervoso, gli lungo l’assone gli ioni di equilibrio è
polarizzato rispetto a ioni di sodio affluiscono potassio defluiscono ripristinato, il segmento

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quello esterno all’interno nuovamente nell’assone dell’assone è pronto per
(potenziale di riposo) (depolarizzazione) trasmettere un altro
impulso.
 Proprietà del potenziale d’azione
La modalità biochimica attraverso cui il potenziale d’azione si trasmette mostra diverse importanti proprietà.
Innanzitutto il potenziale d’azione obbedisce alla legge del tutto o nulla. Esso non è influenzato dall’
incremento di intensità della stimolazione oltre la soglia: quando l’input eccitatorio raggiunge il livello-soglia, si
genera un potenziale d’azione che non varia d’intensità; se la soglia non è raggiunta non si verifica alcun
potenziale di azione. Una conseguenza di questa legge è che l’intensità del potenziale d’azione non diminuisce
per tutta la lunghezza dell’assone. In questo, il potenziale d’azione si dice autopropagantesi: una volta avviato
non richiede alcuna stimolazione esterna per mantenersi in moto.
Neuroni differenti conducono i potenziali d’azione lungo i propri assoni a velocità differenti; gli assoni dei
neuroni più veloci sono ricoperti da una guaina mielinica che li avvolge. Le minuscole interruzioni fra questi
tubicini sono i nodi Ranvier. Nei neuroni con assoni mielinizzati, il potenziale d’azione “salta” da un nodo
all’altro risparmiando tempo ed energia richiesti per aprire e chiudere i canali ionici in ogni punto dell’assone.
Danni alla guaina mielinica compromettono la tempistica del potenziale d’azione, causando gravi problemi (es.
sclerosi multipla). Quando il potenziale d’azione ha superato un segmento dell’assone la regione del neurone
interessata entra in un periodo refrattario; durante il periodo refrattario assoluto, una successiva stimolazione
non può generare un altro potenziale d’azione. Durante il refrattario relativo: il neurone si attiverà soltanto in
risposta ad uno stimolo più forte di quello solitamente necessario. Il periodo refrattario assicura, in parte, che il
potenziale d’azione scorra lungo l’assone soltanto in una direzione: non può dunque procedere a ritroso perché
le precedenti parti dell’assone si trovano nello stato refrattario.

2.2.3 Trasmissione sinaptica


Dopo aver completato il suo percorso, il potenziale d’azione deve passare le informazioni al neurone
successivo. Due neuroni non entrano mai in contatto: sono connessi da una sinapsi, un piccolo spazio tra la
membrana presinaptica e quella postsinaptica. Quando il potenziale d’azione raggiunge il bottone terminale,
mette in moto una serie di eventi che prendono il nome di trasmissione sinaptica; questa ha inizio quando
l’arrivo del potenziale d’azione a un bottone terminale fa si che piccole sacche, dette vescicole sinaptiche, si
dirigano e si fissino alla membrana interna del bottone terminale.
Dentro ogni vescicola si trovano neurotrasmettitori, sostanze biochimiche che stimolano altri neuroni. Il
potenziale d’azione porta inoltre all’apertura dei canali ionici e al conseguente ingresso di ioni calcio all’interno
dei bottoni terminali. L’afflusso di ioni calcio provoca la rottura delle vescicole sinaptiche e il rilascio di
neurotrasmettitori in esse contenuti, i quali si disperdono nella fessura sinaptica, lo spazio esistente tra il
bottone terminale di un neurone e la membrana cellulare nel neurone successivo. I neurotrasmettitori si
uniranno alle molecole recettrici a patto che si verifichino due condizioni:
1. Nessun altro neurotrasmettitore o sostanza chimica può unirsi alla molecola recettrice
2. La forma del neurotrasmettitore deve corrispondere alla forma del recettore.
Se una o l’altra condizione non è soddisfatta, il neurotrasmettitore non sarà in grado di stimolare la membrana
post sinaptica. Se il neurotrasmettitore si unisce al recettore, è in grado di fornire al neurone successivo
l’informazione (di attivarsi o no). Una volta completato il suo compito, si stacca dal recettore e ritorna nello
spazio sinaptico. A seconda del recettore, un neurotrasmettitore può avere un effetto eccitatorio o inibitorio,
cioè, lo stesso neurotrasmettitore può avere un effetto eccitatore in una sinapsi e inibitore in un’altra.

2.2.4 Neurotrasmettitori e le loro funzioni


Decine di sostanze chimiche, secondo quanto è stato dimostrato o ipotizzato, agiscono nel cervello come
neurotrasmettitori. Per dare un’idea degli effetti di differenti neurotrasmettitori sulla regolazione del
comportamento, ne esamineremo ora alcuni che da quanto è stato dimostrato svolgono un ruolo importante
nel funzionamento quotidiano del cervello.

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33
 Acetilcolina
Si trova sia nel sistema nervoso centrale che periferico. La perdita della memoria dei pazienti affetti dalla
malattia di Alzheimer si ritiene causata dal deterioramento dei neuroni che secernono tale neurotrasmettitore.
L’acetilcolina svolge una funzione eccitatoria anche nelle connessioni tra nervi e muscoli, dove provoca la
contrazione muscolare. Le sue funzioni sinaptiche sono influenzate da numerose tossine, come il botulino,
tossina spesso rilevata nel cibo conservata in modo scorretto, avvelena un individuo impedendo il rilascio
dell’acetilcolina; questo tipo di avvelenamento noto come botulismo può causare morte per soffocamento.
 GABA
Il GABA (acido gamma-aminobutirrico) è il neurotrasmettitore inibitorio più comune nel cervello. I neuroni
sensibili al GABA si trovano in particolare nel talamo, ipotalamo e lobi occipitali e sembra svolgere un ruolo
fondamentale in alcune forme di psicopatologia attraverso l’inibizione dell’attività neuronale. Quando nel
cervello i livelli di questo neurotrasmettitore diventano bassi, è possibile sperimentare ansia o depressione. I
disturbi di natura ansiosa sono spesso trattati con benzodiazepine, come Valium o Xanax che aumentano
l’attività del GABA. Le benzodiazepine non si uniscono direttamente ai recettori del GABA ma permettono a
quest’ultimo di legarsi con maggiore efficacia alle molecole recettrici.
 Glutammato
È il neurotrasmettitore più comune nel cervello e svolge un ruolo fondamentale nei processi di risposta
emotiva, apprendimento e memoria. L’apprendimento procede con maggiore lentezza quando i recettori del
glutammato non funzionano in modo appropriato; inoltre, l’alterazione dei livelli di questo neurotrasmettitore
nel cervello sono stati associati a diversi disturbi psicologici tra cui la schizofrenia. Il glutammato ha un ruolo
anche nella dipendenza da sostanze, come alcol e nicotina.
 Dopamina, norepinefrina e serotonina
Le catecolamine sono una classe di sostanze chimiche che comprende due importanti neurotrasmettitori: la
norepinefrina e la dopamina. Si è dimostrato che entrambe svolgono ruoli importanti in disturbi psicologici
come i disturbi di ansia, umore e schizofrenia. I farmaci che aumentano i livelli di norepinefrina migliorano
l’umore; per contro, in individui affetti da schizofrenia sono stati rilevati livelli di dopamina superiori alla norma
(quindi per trattare questo disturbo bisogna somministrare farmaci che riducono i livelli di dopamina).
Tutti i neuroni che producono serotonina si trovano nel tronco encefalico coinvolto in molti processi involontari
e risposta agli stimoli. LSD sembra produrre i propri effetti annullando quelli dei neuroni della serotonina. La
presenza nel cervello di livelli anomali di serotonina è associata ai disturbi dell’umore: livelli ridotti d tale
sostanza per esempio possono essere la causa di depressione (il Prozac è un antidepressivo che incrementa
l’azione della serotonina).
 Endorfine
Sono un gruppo di sostanze chimiche classificate come neuromodulatori, cioè una sostanza che modifica o
modula l’attività del neurone postsinaptico. Le endorfine svolgono un importante ruolo nel controllo del
comportamento emotivo e del dolore. Grazie alle loro proprietà di controllo del piacere e del dolore, le
endorfine sono state definite “le chiavi del Paradiso”.

- 2.3 Biologia e comportamento


È giunto il momento di collocare i neuroni all’interno dei sistemi più generali che guidano il nostro corpo e il
nostro cervello. Si passerà quindi alla struttura del sistema nervoso e del cervello.

2.3.1 Monitorare il cervello


I neuroscienziati cercano di comprendere il funzionamento del cervello a molteplici livelli: dalle funzioni di
grandi strutture visibili a occhio nudo alle caratteristiche di singole cellule nervose visibili soltanto attraverso
potenti microscopi.

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 Interventi sul cervello
Diversi metodi di ricerca neuroscientifici comportano un intervento diretto sulle strutture cerebrali. Questi
metodi affondano le loro radici storiche in casi come quello di Phineas Gage: nel 1848 in seguito ad
un’esplosione, la sua testa fu attraversata da una barra di metallo di un metro. Il danno fisico fu lieve ma dal
punto di vista psicologico divenne un altro uomo: prima dell’incidente era ammirato, intelligente ed energico,
dopo l’incidente divenne incostante, irriverente e irrispettoso verso i compagni.
All’incirca nello stesso periodo in cui Gage era convalescente, Paul Broca studiava il ruolo del cervello in
relazione al linguaggio. Le sue prime ricerche inclusero l’autopsia di un uomo il cui nome deriva dall’unica
parola che riusciva a pronunciare, Tan. Broca rilevò che l’aera frontale sinistra del cervello era stata
gravemente danneggiata e questo risultato lo portò a studiare il cervello di altre persone che soffrivano di
disturbi del linguaggio. In tutti i casi furono rilevati danni simili nella stessa area, ora nota come area di Broca.
Per studiare i cervelli danneggiati, agli scienziati servono metodi che permettano di identificare con precisione
le zone cerebrali lesionate. I ricercatori hanno sviluppato diverse tecniche per produrre lesioni localizzate con
precisione. Possono per esempio asportare chirurgicamente specifiche aree del cervello, tagliare le connessioni
neuronali in quelle aree o distruggerle con il calore, freddo o stimoli elettrici. In anni recenti, è stata sviluppata
dagli scienziati una tecnica chiamata stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (RTMS) che usa impulsi di
stimolazione magnetica per produrre effetti che stimolano lesioni temporanee, reversibili, nei soggetti umani
(senza danneggiarne i tessuti). Questa nuova tecnica permette ai ricercatori di affrontare una gamma di
questioni che non sarebbe possibile trattare conducendo esperimenti sugli animali; per esempio, un gruppo di
ricercatori usò la RTMS per verificare l’ipotesi secondo cui quando si producono due differenti parti del
discorso, si attivano due differenti aree del cervello. Nell’esperimento i partecipanti dovevano completare
semplici frasi per esempio “oggi cammino” e dovevano completare “ieri….” (camminavo) oppure “un bambino”
e “molti….” (bambini). Con l’uso della RTM ci aspetteremmo che il completamento delle frasi subisca un
rallentamento, ma in realtà i ricercatori individuarono una regione cerebrale (vicina all’area di Broca) che se
stimolata dalla RTMS produceva prestazioni più lente per i verbi ma non per i nomi. È facile capire che questo
esperimento non sarebbe possibile con gli animali perché non sono in grado di produrre nomi e verbi.
In altri casi, i neuroscienziati analizzano le funzioni delle regioni cerebrali attraverso la stimolazione diretta. a
metà degli anni 50, Walter Hess sperimentò l’uso della stimolazione elettrica allo scopo di esaminare strutture
localizzate in profondità nel cervello. Lo studioso inserì degli elettrodi nel cervello di 500 gatti lasciati liberi di
muoversi. Premendo un pulsante veniva trasmessa una piccola scossa elettrica nel punto in cui era posizionato
l’elettrodo. Hess registrò le conseguenze comportamentali: a seconda della collocazione dell’elettrodo, la
pressione dell’interruttore poteva provocare sonno, attivazione sessuale, ansia o terrore.

 Registrazione e imaging dell’attività cerebrale


Alcuni scienziati mappano le funzioni cerebrali attraverso microelettrodi ultrasensibili in grado di registrare
l’attività elettrica di una singola cellula nervosa.
 Elettroencefalogramma (EEG): i ricercatori collocano questi elettrodi sulla superficie del cuoio
capelluto che forniscono i dati per un tracciamento amplificato dell’attività cerebrale. L’EEG può essere
usato per studiare la relazione tra le attività psicologiche e le risposte del cervello. In un esperimento
per esempio i ricercatori usarono EEG per dimostrare che il cervello delle persone risponde in modo
diverso alla visione di immagini emotivamente connotate: i partecipanti sembravano dedicare
un’attenzione maggiore alle immagini gradevoli e a quelle sgradevoli che perdurava dopo che
l’immagine era scomparsa dallo schermo.
 Tomografia assiale computerizzata (TAC): quando un individuo si sottopone alla TAC posiziona la testa
in una struttura a forma di ciambella contenete una fonte e un rilevatore di raggi X. Fasci concentrati di
raggi X attraversano il cervello da angolazioni differenti; il computer integra queste immagini ottenute
dai raggi per formare immagini tridimensionali del cervello. È spesso usata per determinare la
posizione e la dimensione dei danni o anomalie cerebrali.

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 Tomografia a emissione di positroni (PET): negli studi condotti con la PET sono somministrati differenti
tipi di sostanze radioattive (ma sicure) che raggiungono il cervello per essere assorbite dalle cellule
cerebrali attive. Strumenti di registrazione collocati all’esterno del cranio sono in grado di rilevare la
radioattività emessa dalle cellule attive durante differenti funzioni cognitive o comportamentali. Le
informazioni sono quindi immagazzinate da un computer che elabora una rappresentazione dinamica
del cervello mostrando le aree in cui si realizzano differenti tipi di attività psicologica.
 Imaging con risonanza magnetica (MRI): usa campi magnetici e onde radio per generare immagini
tridimensionali del cervello. L’analisi del campo magnetico alcuni nuclei di idrogeno si allineano con
esso e sotto l’azione delle onde radio vengono “eccitati”. Alla sospensione dell’impulso radio, i nuclei
ritornano allo stato di base rilasciando un segnale che viene rilevato dalla stessa antenna che ha
emesso l’impulso radio. La somma e la combinazione di segnali ottenuti attraverso magnetizzazioni ed
eccitazioni con sequenze diverse di onde radio permette di ottenere le immagini di MRI.
La MRI è utile soprattutto per ottenere immagini chiare di dettagli anatomici, le scansioni PET forniscono
informazioni migliori sulle funzioni. Un’evoluzione della MRI, chiamata risonanza magnetica funzionale (fMRI),
abbina i vantaggi di entrambe le tecniche, rendendo così possibili osservazioni più complete perché di tipo sia
strutturale sia funzionale. I ricercatori hanno iniziato a usare la fMRI per scoprire la distribuzione delle regioni
cerebrali responsabili di molte delle nostre più importanti attività cognitive come l’attenzione, la percezione la
memoria e l’elaborazione del linguaggio.

2.3.2 Sistema nervoso


Il sistema nervoso è suddiviso in:
1. Sistema nervoso centrale (SNC): è composto da tutti i neuroni dell’encefalo e del midollo spinale
(collocato in una porzione cava della colonna vertebrale). Il suo compito è quello di integrare e
coordinare tutte le funzioni corporee, elaborare tutti i messaggi neuronali in entrata e inviare comandi
a differenti parti del corpo. Riceve e invia i messaggi neuronali attraverso il SNP. I nervi spinali hanno
origine nel midollo spinale e lo mettono in comunicazione con il tronco, gli arti e i visceri (in
quest’ultimo caso, per mezzo delle connessioni con i gangli del sistema nervoso autonomo (SNA). Il
midollo spinale integra le informazioni che gli provengono dalle vie nervose sensitive ed è la sede degli
archi riflessi, che non coinvolgono il cervello. Danni ai nervi del midollo spinale possono provocare la
paralisi del tronco e/o gambe. Nonostante la sua posizione di comando, il SNC è isolato da ogni
contatto diretto con il mondo esterno.
2. Sistema nervoso periferico (SNP): è composto da tutti i neuroni che collegano il SNC al corpo. Fornisce
al SNC le informazioni provenienti dai recettori sensoriali (come quelli localizzati in occhi e orecchie) e
trasmette i comandi dal cervello agli organi e ai muscoli del corpo. Il SNP si divide a sua volta in:
 Sistema nervoso somatico: regola le azioni dei muscoli scheletrici del corpo. Per esempio, se
devo scrivere una mail, il movimento delle dita è regolato dal sistema somatico: mentre
decidiamo cosa scrivere, il cervello invia alle dita il comando di premere determinati tasti.
 Sistema nervoso autonomo (SNA): regola le funzioni del corpo che di solito non si controllano
in modo conscio (respirazione, digestione o la risposta agli stimoli). Il SNA deve funzionare
anche nel sonno e garantisce la conservazione dei processi vitali durante anestesia e coma. Ha
a che fare con due tipi di questioni: quelle che coinvolgono le minacce all’organismo e quelle
che riguardano il suo mantenimento. Dunque il SNA si divide ulteriormente in:
o Sistema simpatico: regola le risposte alle situazioni di emergenza. Può essere
considerato come un risolutore di problemi che attiva le strutture cerebrali che
preparano l’organismo a combattere la minaccia.
o Sistema parasimpatico: monitora le procedure ordinarie delle funzioni interne al corpo
(come l’eliminazione dei rifiuti organici, la conservazione a lungo termine dell’energia
corporea e la protezione del sistema visivo).

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2.2.2 Strutture cerebrali
La componente principale del SNC è l’encefalo, che è costituito da tre componenti interconnesse: tronco
encefalico, sistema limbico (che si trova adiacente al tronco encefalico), e il telencefalo (che avvolge il sistema
limbico e il tronco encefalico). La mente umana è in questa regione.
 Tronco encefalico
Si trova in tutte le specie di vertebrati. Contiene le strutture
coinvolte principalmente in processi autonomi che regolano lo stato
interno del corpo (battito cardiaco, respirazione, deglutizione e
digestione). Il midollo allungato, collocato alla sommità del midollo
spinale, è il centro della respirazione, della pressione sanguigna e del
battito cardiaco. Dunque, danni al midollo allungato possono essere
fatali. Sopra il midollo allungato è situato il ponte. Che trasmette
informazioni dalla corteccia cerebrale al cervelletto. Contiene inoltre
una parte della formazione reticolare, una fitta rete di cellule
nervose che agisce da sentinella del cervello: attiva la corteccia
cerebrale in modo da renderla attiva ai nuovi stimoli e mantiene il
cervello attivo anche durante il sonno. Danni di rilievo a questa area
sono spesso causa di coma. La formazione reticolare invia stimoli
eccitatori al talamo, dai quali si dirigono verso la corteccia cerebrale
dove le informazioni vengono elaborate. Unito al tronco encefalico, alla base del cervello, si trova il
cervelletto, che coordina i movimenti del corpo, controlla la postura e l’equilibrio. Tuttavia, ricerche più recenti
hanno suggerito che il cervelletto possa svolgere un ruolo importante anche nell’apprendimento e
nell’esecuzione di sequenze di movimenti corporei. Inoltre si stanno raccogliendo evidenze secondo le quali il
cervelletto è coinvolto in alcune funzioni cognitive di più alto livello: l’elaborazione del linguaggio e
l’esperienza del dolore.
 Sistema limbico
Regola i comportamenti motivati, gli stati emotivi, i processi della
memoria ma anche la temperatura corporea, la pressione
sanguigna o il livello glicemico. Alcune parti del sistema limbico
sono costituite da:
 ippocampo: è la più grande struttura del sistema limbico,
svolge un’importante funzione nell’acquisizione dei ricordi.
 amigdala: controlla le emozioni. Data questa funzione, i
danni che coinvolgono l’amigdala compromettono la
capacità di riconoscere espressioni facciali che comunicano
emozioni negative (come tristezza e paura). Svolge anche
un ruolo fondamentale nella formazione e nel recupero dei
ricordi dotati di connotazione emotiva. Per questo motivo,
le persone con l’amigdala danneggiata hanno spesso
difficoltà a prendere decisioni corrette in situazioni che
presentano una componente emotiva (per esempio le risposte alla vincita o perdita di denaro).
 ipotalamo: pur essendo una delle strutture più piccole nel cervello, ha un ruolo fondamentale in molte
delle nostre azioni quotidiane. È composto da diversi nuclei, piccoli fasci di neuroni che regolano
processi fisiologici coinvolti nel comportamento motivato (nutrizione, regolazione della temperatura,
attivazione sessuale). L’ipotalamo mantiene inoltre l’equilibrio all’interno del corpo (omeostasi):
quando le riserve energetiche sono scarse, stimola l’organismo a trovare cibo e quando la temperatura
scende, provoca la costrizione dei vasi sanguigni causando quei minimi movimenti involontari definiti
brividi. L’ipotalamo regola inoltre l’attività del sistema endocrino.

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 Telencefalo
Negli esseri umani, sovrasta per dimensioni tutto l’encefalo,
occupando due terzi della sua intera massa. Io suo ruolo è di
regolare le funzioni cerebrali cognitive ed emotive di livello
superiore. La superficie più esterna del telencefalo è chiamata
corteccia cerebrale. Il telencefalo è inoltre diviso in due metà
quasi simmetriche, gli emisferi cerebrali (par.2.3.4) collegati tra
loro da una spessa massa di fibre nervose conosciuta come
corpo calloso. I neuroscienziati hanno individuato per ogni
emisfero quattro aree o lobi:
1. Lobo frontale: coinvolto nel controllo motorio e in
attività cognitive come la pianificazione, il processo
decisionale e la definizione degli obbiettivi, si trova sopra
la scissura laterale e davanti al solco centrale. Un danno
al lobo frontale può avere effetti devastanti sulla
personalità (ecco il caso di Phineas Gage).
2. Lobo parietale: responsabile delle sensazioni tattili, dolorifiche e termiche, è situato dietro il lobo
frontale e sopra la scissura laterale.
3. Lobo occipitale: si occupa delle informazioni visive e si trova nella parte posteriore del cranio.
4. Lobo temporale: si occupa dei processi uditivi e si trova sotto la scissura laterale. Comprende una
regione chiamata area di Wernicke la quale prende il nome dal neurologo tedesco che nel 1874 scoprì
che i pazienti con lesioni a questa zona producevano discorsi fluenti ma privi di significato.
Le azioni dei muscoli volontari del corpo sono controllate dalla corteccia motoria, situata nei lobi frontali,
davanti al solco centrale. Le due più grandi aree della corteccia motoria sono dedicate alle dita della mano (in
particolare i pollici) e ai muscoli coinvolti nella produzione del linguaggio. Va detto che i comandi provenienti
dalla corteccia motoria sinistra sono diretti ai muscoli del corpo di destra e viceversa.
La corteccia somatosensoriale è situata dietro il solco centrale nei lobi parietali. Essa elabora le informazioni
riguardanti la temperatura, il tatto, la posizione del corpo e il dolore. La maggior parte di quest’area è dedicata
alle labbra, alla lingua, ai pollici e agli indici, cioè alle parti che forniscono gli input sensoriali più importanti.
Le informazioni uditive sono elaborate nella corteccia uditiva che si trova nei lobi temporali, mentre l’input
visivo è elaborato nella corteccia visiva collocata nei lobi occipitali. Anche in questo caso, la parte destra
comunica con il lato sinistro del corpo mentre la parte sinistra comunica con il lato destro.
Non tutta la corteccia cerebrale è dedicata a elaborare le informazioni sensoriali e a comandare ai muscoli di
agire. La maggior parte di essa in realtà è coinvolta nell’interpretazione e integrazione delle informazioni. I
processi come quello decisionale e della pianificazione, avvengono nella corteccia associativa, che permette di
combinare le informazioni provenienti da differenti regioni sensoriali per pianificare risposte adeguate agli
stimoli presenti nell’ambiente.

2.3.4 Lateralizzazione emisferica


Ricorderete che quando Broca sottopose all’autopsia Tan, osservò che il suo emisfero sinistro era danneggiato.
Proseguendo sulla scorta di questa scoperta, Broca scoprì che altri pazienti con un deficit simile delle abilità
linguistiche (oggi conosciuto come afasia di Broca) presentavano lesioni al lato sinistro del cervello. Eventuali
danni alle stesse aree nel lato destro, non avevano gli stessi effetti. La possibilità di esaminare le differenze tra
gli emisferi si manifestò per la prima volta nell’ambito dell’epilessia grave che prevedevano l’interruzione
mediante sezione del corpo calloso. I pazienti sottoposti a questo tipo di intervento sono spesso indicati come
pazienti split-brain (o commissurotomizzati).

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Per verificare nei pazienti epilettici le funzioni degli emisferi separati, Roger Sperry e Michael Gazzaniga
idearono alcune situazioni che comportavano delle informazioni visive separatamente a ciascun emisfero dei
pazienti split-brain. Poiché nella maggior parte delle persone il linguaggio è controllato dall’emisfero sinistro,
soltanto quest’ultimo era in grado di rispondere ai ricercatori. Perciò, la comunicazione con l’emisfero destro
era possibile attraverso compiti manuali che implicavano riconoscimento, abbinamento e assemblaggio di
oggetti, compiti cioè che non richiedevano l’uso delle parole.
Grazie a molteplici metodi di ricerca, oggi sappiamo che molte funzioni del linguaggio sono lateralizzate
nell’emisfero sinistro. Una funzione si dice lateralizzata quando per la sua realizzazione un emisfero cerebrale
svolge un ruolo primario. Per la maggior parte delle persone il linguaggio è la funzione lateralizzata
dell’emisfero sinistro, di conseguenza lesioni in quest’area possono provocare disturbi di linguaggio alle
persone. È interessante notare che chi usa la lingua americana dei segni, le lesioni all’emisfero sinistro hanno
un analogo effetto disabilitante. Ciò che è lateralizzato dunque non è il linguaggio verbale di per sé ma la
capacità di produrre sequenze di simboli (manuali o verbali) che comunicano significato.
Non si deve però concludere che l’emisfero sinistro sia migliore del destro, che svolge un ruolo predominante
per altre funzioni come per esempio formulare giudizi sulle relazioni spaziali e sulle espressioni facciali nella
maggior parte delle persone. Tuttavia è l’azione dei due emisferi a dare pienezza alle nostre esperienze.

2.3.5 Il sistema endocrino


È importante ora analizzare un altro sistema regolatore ad alta complessità che opera in stretta connessione
con il sistema nervoso: il sistema endocrino, una rete di ghiandole che produce e secerne ormoni nel flusso
sanguigno. Importanti per lo svolgimento di azioni quotidiane, gli ormoni lo diventano ancora di più in
determinate fasi della vita e in determinate situazioni: influenzano la crescita del corpo, l’umore e i caratteri
sessuali primari e secondari e regolano il metabolismo. Il sistema endocrino promuove la sopravvivenza di un
organismo aiutandolo a lottare contro infezioni e malattie, quindi senza un efficace sistema endocrino sarebbe
impossibile sopravvivere. Gli ormoni quindi sono secreti nel sangue e viaggiano in direzione delle cellule
bersaglio distanti, che possiedono recettori specifici, esercitando la loro influenza sul programma di regolazione
chimica del corpo soltanto nei luoghi geneticamente predeterminati a rispondere.
Cosa succede in situazioni critiche? Il sistema endocrino rilascia nel flusso sanguigno ormoni come l’adrenalina
che a loro volta favoriscono alcuni processi per la produzione di energia in modo che l’individuo possa
rispondere alle sfide in modo rapido.
L’ipotalamo funge da stazione di raccordo tra il sistema endocrino e il SNC. Cellule specializzate nell’ipotalamo
ricevono messaggi da altre cellule cerebrali e gli impartiscono il comando di rilasciare nell’ipofisi numerosi
ormoni di diverso tipo che stimolano o inibiscono il rilascio di ulteriori ormoni. Gli ormoni sono prodotti in
differenti aree del corpo e ognuno regola differenti processi; l’ipofisi è spesso chiamata “ghiandola maestra”
perché secerne circa 10 differenti tipi di ormoni, oltre all’ormone della crescita (l’assenza di questo ormone è
causa di nanismo, l’eccesso il gigantismo). Negli uomini le secrezioni dell’ipofisi attivano nei testicoli il rilascio di
testosterone, ormone sessuale maschile secreto dai testicoli che stimola la produzione di spermatozoi ed è
responsabile dello sviluppo di caratteri secondari maschili (come i peli sul viso, il timbro più grave e la
maturazione fisica). Nelle donne, un ormone dell’ipofisi stimola la produzione di estrogeno, ormone sessuale
femminile secreto dalle ovaie responsabile dello sviluppo e mantenimento di strutture riproduttive e caratteri
secondari sessuali femminili e regolatore del ciclo mestruale.

2.3.6 Plasticità e neurogenesi: il nostro cervello cambia


Ciò che rende il cervello ancora Ciò che rende il cervello ancora più interessante è il suo cambiare nel corso del
tempo. Basta imparare una qualsiasi nuova informazione e avrete prodotto un cambiamento nel vostro
cervello. I ricercatori definiscono i cambiamenti delle prestazioni cerebrali con il termine di plasticità.
Poiché la plasticità del cervello dipende dalle esperienze di vita, non deve sorprendere che il cervelli pesi
l’impatto di differenti ambienti e attività. Una linea di ricerca avviata da Mark Rosenzweig, ha dimostrato le

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conseguenze del crescere un ambienti impoveriti o arricchiti basandosi sull’osservazione dei ratti. Le prime
ricerche dimostrarono che la corteccia media dei ratti allevati in ambienti arricchiti era più pesante e spessa di
quella dei ratti deprivati appartenenti alla stessa famiglia. Le ricerche più recenti hanno dimostrato che
l’arricchimento ambientale continua ad influenzare il cervello degli animali anche quando sono diventati adulti.
Un tema importante della ricerca sulla plasticità, coinvolge le situazioni in cui gli esseri umani o animali hanno
subito lesioni al cervello o al midollo spinale. Numerose evidenze cliniche confermano che la mente, talvolta, è
in grado di guarire spontaneamente; talaltra le funzioni delle aree danneggiate sono assunte da altre aree cin li
scopo di aiutare il cervello nel processo di guarigione. In anni recenti l’attenzione si è spostata sulle cellule
staminali, cellule non specializzate che in condizioni appropriate possono essere spinte ad agire come nuovi
neuroni. La speranza dei ricercatori è che queste cellule possano arrivare a fornire un mezzo per sostituire, con
una nuova crescita neuronale, un tessuto del sistema nervoso danneggiato. Poiché le cellule staminali più
flessibili provengono dagli embrioni e dai feti abortiti, la ricerca sulle cellule staminali è stata oggetto di
controverse discussioni etiche e politiche. Tuttavia i ricercatori sostengono che la ricerca su queste cellule
possa produrre cure per la paralisi grave e altri gravi malfunzionamenti del sistema nervoso.
Per circa cento anni i neuroscienziati hanno ritenuto che nel cervello dei mammiferi adulti i neuroni non
possano aumentare ma solo morire, ma dati recenti hanno messo in discussione questo punto di vista. La
ricerca sul recupero cerebrale ha registrato un’accelerazione grazio a nuovi, importanti dati che rivelano il
verificarsi della neurogenesi (la produzione di nuove cellule cerebrali a partire da cellule staminali animali) nei
cervelli dei mammiferi adulti, esseri umani compresi.

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CAPITOLO 3
Sensazione e percezione

Sensazione e percezione non solo forniscono i materiali grezzi per i nostri processi cognitivi, e le nostre
percezioni non si limitano a registrare gli stimoli sensoriali. Il materiale raccolto attraverso gli stimoli sensoriali
viene elaborato in tempo reale da processi cognitivi molto complessi che generano, a partire dalle conoscenze
precedenti, interpretazioni del mondo in base agli stimoli esterni. Il primo aspetto problematico della
percezione è l’ambiguità, poiché gli stimoli sensoriali non contengono abbastanza informazioni da spiegare le
nostre percezioni. Il mondo ci fornisce in modo continuativo un numero elevato di stimoli sensoriali che
devono essere integrati in modo coerente nelle nostre percezioni ed è il processo di attenzione selettiva che ci
consente di selezionare una parte dello stimolo sensoriale per un’accurata elaborazione.

- 3.1 Che cosa sono la sensazione e la percezione


Il termine percezione, nel suo uso più comune, si riferisce al generale processo di individuazione di oggetti ed
eventi nell’ambiente, volto ad attribuire loro un senso, a comprenderli, riconoscerli e categorizzarli e a
prepararsi a reagire ad essi. Un percetto è ciò che è percepito, il risultato fenomenico di cui viene fatta
esperienza tramite il processo della percezione. È possibile suddividere il processo della percezione in tre fasi:
1. Sensazione: che può essere definita come l’impressione soggettiva, immediata e semplice che
corrisponde ad una data intensità dello stimolo fisico. È il processo attraverso cui la stimolazione dei
recettori sensoriali (le strutture presenti per esempio nei nostri occhi e orecchie) produce impulsi
neuronali che riproducono le esperienze vissute dentro e fuori dal corpo. Per esempio, la sensazione
permette di cogliere gli elementi base del campo visivo.
2. Organizzazione percettiva: si riferisce alla fase in cui il cervello integra i segnali raccolti dagli organi
recettori grazie alla conoscenza pregressa del mondo per formare una rappresentazione interna di uno
stimolo esterno. In relazione alla visione, questi processi forniscono valutazioni di un dato oggetto
come la dimensione, la forma, il movimento, la distanza e l’orientamento. Queste attività mentali
avvengono il più delle volte in modo rapido ed efficiente, senza che ne siamo consapevoli.
3. Processo di identificazione e di riconoscimento: ovvero processi che consentono di attribuire
significato ai percetti. Le prime fasi della percezione rispondono alla domanda “Che aspetto ha
l’oggetto?” invece in questa fase le domande sono relative all’identificazione e al riconoscimento
dell’oggetto (“Che oggetto è? Che funzione ha?”). In questo modo si possono identificare oggetti
circolari, persone e via di seguito.

3.1.1 Stimoli prossimali e distali

Immaginate di essere seduti su una poltrona e di stare osservando la stanza in cui vi


trovate. Parte della luce riflessa dagli oggetti presenti nella stanza colpisce i vostri
occhi e forma delle immagini sulla retina. Come si presenta questa immagine retinica
rispetto all’ambiente che l’ha prodotta? Una differenza molto importante è che
l’immagine retinica è bidimensionale mentre l’ambiente è tridimensionale. Questo
comporta molte conseguenze; è possibile per esempio confrontare le forme degli
oggetti fisici con le forme delle loro immagini retiniche corrispondenti. Il tavolo, il
tappeto, il quadro, la finestra nella scena reale sono tutti di forma triangolare, ma
nell’immagine retinica solo la finestra è un rettangolo (il quadro è un trapezoide, il
tavolo una figura irregolare a quattro lati, il tappeto è formata da tre regioni con lati
differenti). La situazione, in realtà, è ancora più complicata. Si può notare che molti
elementi della stanza non sono realmente presenti nell’immagine retinica. Per

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esempio, nell’immagine retinica una parte del tappeto è nascosta dietro il tavolo, tuttavia, ciò non impedisce di
percepire correttamente la forma rettangolare del tappeto.
Le differenze tra un oggetto fisico e la sua immagine sulla retina sono così profonde che gli psicologi
distinguono due differenti stimoli percettivi:
1. Stimolo distale: oggetto fisico e reale percepito, distante dall’osservatore;
2. Stimolo prossimale: l’immagine sulla retina (vicina all’osservatore).
Ciò che percepiamo è lo stimolo distale, mentre lo stimolo da cui ottenere le informazioni è quello prossimale.
A livello percettivo, i processi di elaborazione sono volti a determinare lo stimolo distale a partire dalle
informazioni contenute in quello prossimale (questo vale all’interno dei diversi domini percettivi, come gusto,
udito e gli altri sensi).
Esaminiamo il quadro all’interno delle tre fasi della percezione:
 Sensazione: il quadro corrisponde ad un trapezoide bidimensionale all’interno dell’immagine retinica;
 Organizzazione percettiva: il trapezoide è visto come un rettangolo collocato in una direzione opposta
rispetto all’osservatore in uno spazio tridimensionale.
 Processi di identificazione: si identifica l’oggetto rettangolare come quadro.

3.1.2 Processi dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso


I sistemi percettivi sono caratterizzati da una profonda complessità sia funzionale sia strutturale. Dal punto di
vista fisiologico, per esempio, molte aree visive nel cervello inviano informazioni in uscita ad altre aree e
ricevono informazioni in entrata dalle medesime aree. Di conseguenza, la percezione è l’esito di processi:
 Dal basso verso l’alto (bottom - up): sono guidati dalle informazioni sensoriali provenienti dal mondo
fisico. Consistono nel recepire i messaggi sensoriali dall’ambiente e inviarli al cervello affinché siano
elaborati in modo da individuare le informazioni rilevanti. Questo processo è basato sui dati in quanto il
punto di partenza dell’identificazione è l’evidenza sensoriale che si rileva dal contesto.
 Dall’alto verso il basso (top - down): ricercano ed estraggono attivamente le informazioni sensoriali e
sono guidati dalle conoscenze, credenze, aspettative e obiettivi di ciascuno di noi. L’identificazione in
questo caso è guidato dai concetti già immagazzinati in passato.
Consideriamo questa figura. I processi dal basso verso l’alto, vi consentono di
distinguere alcune linee e di definire regioni distinte. Se ora provate a giocare un
po’ con l’immagine e a considerare quali significati potrebbero assumere le
diverse regioni che la compongono, state applicando un processo dall’alto verso il
basso.
In molti casi, le informazioni relative all’ambiente di cui siamo già in possesso possono
contribuire a realizzare un’identificazione percettiva. Quando le aspettative
influenzano la percezione, entrano in gioco i processi dall’alto verso il basso. Essi
coinvolgono nella percezione del mondo le esperienze passate, la conoscenza, le motivazioni e il background
culturale. Il processo di identificazione in questo caso è guidato dai concetti in quanto le rappresentazioni
mentali che abbiamo immagazzinato nella nostra memoria influenzano l’interpretazione dei dati sensoriali.
Vi sarà di certo capitato di provare a parlare con qualcuno ad una festa in un ambiente molto rumoroso. In
queste circostanze, le persone raramente si accorgono della presenza di interruzioni di segnale acustico che
stanno ricevendo. Questo fenomeno è chiamato ripristino fonemico. Come i processi bottom-up e top-down
interagiscono per produrre il ripristino fonemico? Immaginate che un amico vi stia dicendo “devo portare fuori
il [rumore]ane”. Anche se il rumore copre il fonema /c/ è probabile che avete sentito l’intera parola cane.
Quando i fonemi /a/, /n/ ed /e/ raggiungono il sistema uditivo, forniscono delle informazioni che, secondo un
processo bottom-up, raggiungono il livello di parola (esiste solo un determinato sottoinsieme finito di parole
che termina con /ane/). Questo permette di selezionare una parola tra un numero finito di elementi coerenti. A
questo punto si attivano i processi top-down e il contesto vi aiuta a selezionare la parola cane. Quando questo
processo accade velocemente, non ci si accorge nemmeno della mancanza del fonema /c/.

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- 3.2 Processi dal basso verso l’alto: conoscenza sensoriale del mondo
Nel volume La psicologia della percezione, Stadler, Seeger e Raeithel distinguono tra sensazione e percezione:
la prima è il vissuto di un semplice contenuto della coscienza, la seconda è l’interpretazione di un complesso di
sensazioni che rappresentano un determinato oggetto. Ne consegue che la percezione risulterebbe costituita
da una sensazione più una oggettivazione. In altri termini, la sensazione riguarda l’aspetto sintattico
dell’assimilazione di una determinata informazione che proviene dalla coscienza mentre la percezione quello
semantico. Le sensazioni sono eventi personali e soggettivi dei quali ciascuno di noi ha un’esperienza diretta,
ma possono essere comunicate agli altri e possono essere agevolmente comprese. In questo modo avviene un
confronto tra le sensazioni proprie e quelle altrui; nella maggioranza dei casi le sensazioni di un individuo sono
simili a quelle di un altro quando entrambi sono posti a uno stesso stimolo nelle medesime condizioni.
 La psicofisica
Quanto zucchero devo mettere nel caffè prima che inizi a diventare dolce? Quanto luminosa deve essere una
spia per risaltare nel pannello rispetto alle altre? Per rispondere a queste domande dobbiamo essere in grado
di misurare l’intensità delle esperienze sensoriali. Questo è il compito della psicofisica, lo studio della relazione
tra gli stimoli fisici e il comportamento o le esperienze mentali evocate dagli stimoli. La figura più significativa
nella storia della psicofisica è Gustav Fechner che coniò il termine e sviluppò una serie di procedure per
mettere in relazione l’intensità di uno stimolo fisico con l’intensità dell’esperienza personale. Le sue tecniche
rimangono invariate indipendentemente dalla natura dello stimolo: i ricercatori determinano le soglie e
costruiscono le scale psicofisiche per mettere in relazione la forza della sensazione con l’intensità dello stimolo.
 Soglia assoluta e abituazione sensoriale
Qual è l’intensità minima che uno stimolo deve avere per essere rilevato? La domanda fa riferimento alla soglia
assoluta, cioè quantità minima di energia fisica necessaria per produrre un’esperienza sensoriale. I ricercatori
misurano questa soglia chiedendo ai partecipanti agli esperimenti di eseguire attività di rilevazione, per
esempio provare a scorgere una luce fioca. Nel corso di una serie di prove si presentano stimoli di intensità
variabile e in ciascuna prova i partecipanti indicano se sono riusciti a rilevarli. I risultati degli studi sulla soglia
assoluta possono essere espressi tramite una funzione psicometrica: un grafico mostra le percentuali di
rilevazione (asse verticale) che corrispondo a ciascun livello di intensità dello stimolo (asse orizzontale). Per luci
a intensità molto bassa la rilevazione è pari allo 0% per quelle a intensità molto alta, 100%. Se ci fosse una
singola reale soglia assoluta ci si potrebbe aspettare che il passaggio da 0 a 100 sia netto, ma questo non
succede perché (1) la sensibilità dei partecipanti cambia ogni volta che provano a rilevare uno stimolo (per
esempio si modificano attenzione o maggiore sforzo fisico) e (2) perché talvolta essi rispondono anche in
assenza di stimoli. Pertanto, la curva psicometrica si presenta come una curva a S. Poiché uno stimolo non è
chiaramente rilevabile in modo costante a una specifica intensità, la definizione operazionale di soglia assoluta
è il livello dello stimolo in cui il segale sensoriale è rilevato nel 50% dei casi.
Sebbene sia impossibile rilevare la soglia assoluta, i sistemi sensoriali sono sensibili alla presenza di
cambiamenti in un dato ambiente sensoriale. I sistemi si sono evoluti in un modo tale da favorire la percezione
di stimoli ambientali nuovi rispetto a quelli precedenti attraverso un processo chiamato abituazione.
L’abituazione sensoriale è la responsività diminuita di un sistema sensoriale sottoposto ad una stimolazione
prolungata. Per questo il sole ci sembra meno abbagliante dopo un po’ che si sta all’aperto. Spesso l’esperienza
sensoriale olfattiva è quella più soggetta all’abituazione.
 La teoria della detezione del segnale e le distorsioni di giudizio
Finora abbiamo assunto che tutti gli individui esprimano giudizio in modo simile. In realtà, le misurazioni della
soglia possono essere influenzate da distorsioni di giudizio (bias), tendenze sistematiche dell'osservatore a
rispondere in un modo particolare per cause non inerenti alle caratteristiche sensoriali dello stimolo.
La teoria della detezione del segnale (TDS) è un approccio sistematico al problema delle distorsioni di giudizio.
Supponete di trovarvi in questa situazione: occorre stabilire se ci si trova in presenza o meno di un segnale
rispetto ad un rumore di fondo. Al posto di focalizzarsi strettamente sui processi sensoriali, la TDS enfatizza i

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processi di formulazione di giudizio circa la presenza o assenza del segnale. Mentre la psicofisica si è
concentrata sulla determinazione di una singola soglia assoluta, la TDS ha identificato due processi distinti:
1. Un iniziale processo sensoriale che riflette la sensibilità dell’osservatore nella sua finezza discriminativa
degli stimoli
2. Un successivo processo decisionale che è legato agli errori di giudizio dell’osservatore.
La TDS offre una procedura per valutare tanto i processi sensoriali quanto quelli decisionali. Nella prima parte
delle prove è presentato uno stimolo debole mentre nella seconda parte non viene presentato nessuno
stimolo. In ogni prova gli osservatori sono chiamati a rispondere si, se pensano che lo stimolo sia presente o no
se pensano che non lo sia. Ogni risposta rientra in una di queste quattro possibilità.
1. Hit: se indica che il segnale è presente quando questo è effettivamente comparso
2. Omissione: se indica che il segnale non è presente quando questo è effettivamente comparso
3. Falso allarme: se indica che il segnale è presente quando questo non è effettivamente comparso
4. Rifiuto corretto: se indica che il segnale è assente quando questo non è effettivamente comparso
Lavorando con le percentuali di hit e falsi allarmi, i ricercatori utilizzano procedure matematiche per calcolare
misure separate della sensibilità percettiva degli osservatori e delle distorsioni di giudizio. Questa procedura
permette di individuare se due osservatori possiedono la stessa sensibilità nonostante le differenti modalità di
risposta individuale. La teoria della detenzione del segnale permetto allo sperimentatore di separare gli stimoli
sensoriali dai criteri di giudizio individuale identificando le componenti che concorrono nel determinare la
risposta finale.
 Soglia differenziale
Immaginate di essere stati assunti da una compagnia di bibite che vuole produrre una cola che sia percepita più
dolce rispetto a quelle sul mercato ma riducendo al minimo la quantità di zucchero aggiuntivo impiegata. La
richiesta è quindi quella di misurare una soglia differenziale, la più piccola differenza fisica tra due stimoli che
può essere riconosciuta come differenza minima rilevabile. Per misurala, si utilizzano coppie di stimoli e si
chiede ai soggetti se i due stimoli sono percepiti come differenti.
Per risolvere il problema della bibita, i soggetti dovrebbero bere due cole a ogni prova, una realizzata con una
ricetta standard e una un po’ più dolce e dovranno affermare se le bevande sono uguali o differenti. Dopo
molte prove si potrà costruire una funzione psicometrica che riflette geograficamente la percentuale delle
risposte differenti collocate sull’asse verticale che corrispondono alle reali differenze posizionate su quello
orizzontale. Dunque la soglia differenziale è operazionalmente definita come il punto in cui gli stimoli sono
riconosciuti come differenti nel 50% dei casi. Questo valore della soglia differenziale è definito come differenza
minima rilevabile, cioè un’unità quantitativa che misura la grandezza della differenza psicologica tra due date
sensazioni. Ernst Weber realizzò per la prima volta alcuni studi sulla soglia differenziale e scoprì un’importante
relazione riassunta dalla legge di Weber: la differenza minima rilevabile tra due stimoli è una frazione costante
dell’intensità dello stimolo standard. Quindi più è elevata l’intensità dello stimolo standard, più deve essere
elevato l’incremento necessario per ottenere una differenza minima rilevabile.

3.2.2 Dall’evento fisico all’evento mentale


In che modo le energie fisiche possono attivare un’esperienza psicologica? La trasformazione dell'energia fisica
in impulso neurale è chiamata trasduzione. Poiché tutte le informazioni sensoriali sono trasdotte o convertite
in impulsi neuronali corrispondenti, il cervello discrimina l’esperienza sensoriale e assegna specifiche aree della
corteccia cerebrale a ciascun dominio sensoriale. I sistemi sensoriali condividono lo stesso flusso di
informazioni di base. Il meccanismo di attivazione di ogni sistema sensoriale parte dalla rilevazione di un
evento ambientale o stimolo. Gli stimoli ambientali sono rilevati da specifici recettori sensoriali, che
trasformano la forma fisica del segnale sensoriale in un segnale cellulare che può essere elaborato dal sistema
nervoso. Questi segnali cellulari sono inviati a neuroni di livello superiore che integrano le informazioni
provenienti dalle diverse unità di rilevazione. In questa fase i neuroni estraggono le informazioni relative alla
qualità come dimensione, forma, intensità e distanza. A un livello più profondo l’informazione è combinata con

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codici ancora più complessi che sono trasmessi da specifiche aree della corteccia sensoriale associativa del
cervello. È in questa fase che si attua propriamente il processo di percezione. Secondo la neurofisiolgia, la
percezione si basa sull’integrazione delle attività svolte da milioni di neuroni localizzate in aree diverse della
corteccia cerebrale.

- 3.3 Processi dal basso verso l'alto: l’organizzazione percettiva


Il mondo sarebbe molto confuso se non fossimo in grado di organizzare le informazioni prodotte dall’attività
dei recettori sensoriali. Per questo motivo si attivano processi di integrazione delle informazioni sensoriali che
permettono una percezione coerente denominati collettivamente processi di organizzazione percettiva. Tali
processi furono descritti per la prima volta dalla teoria della Gestalt, secondo la quale la percezione è governata
da leggi che ne controllano l’organizzazione.

3.3.1 Articolazione figura-sfondo


Se si osserva l’immagine, nella maggioranza dei casi si vedrà un vaso, identificato come
figura su uno sfondo. Ma è possibile invertire la relazione tra figura e sfondo e vedere
due facce piuttosto che un vaso. Uno dei compiti principali svolti dai processi percettivi è
quello di decidere, all’interno di una determinata scena, quale elemento sia da
considerare come figura e quale come sfondo. In che modo? Secondo Rubin,
l’articolazione figura-sfondo è un processo percettivo universale e costante poiché non
esiste una figura senza sfondo: la figura ha una forma mentre lo sfondo è amorfo.
Alla base dell’articolazione figura-sfondo vi stanno diversi fattori:
a) Inclusione: a parità di altre condizioni, diventa figura la regione inclusa;
b) Convessità: a parità di altre condizioni, diventa figura la regione convessa
rispetto a quella concava;
c) Area relativa: a parità di altre condizioni, diventa figura la regione di area
minore;
d) Orientamento: a parità di altre condizioni, diventa figura la regione i cui
assi sono orientati secondo le direzioni principali dello spazio percettivo.
Se questi fattori non intervengono, si creano le condizioni per ottenere delle
figure reversibili, in cui c’è una inversione tra figura e sfondo. Sono configurazioni
instabili e ambigue, nelle quali figura e sfondo si alternano regolarmente. In virtù
di questa fluttuazione spontanea, non è possibile percepire nello stesso momento entrambi gli elementi come
figura, poiché il contorno appartiene, di volta in volta a uno di essi.
Inoltre, l’organizzazione percettiva degli stimoli comporta la comparsa di fenomeni percettivi particolari.
Nell’effetto di Kanizsa i contorni della figura nono sono “fisicamente” presenti, pur essendo “percettivamente”
colti; essi sono definiti contorni anomali e illusori e sono determinati dalla distribuzione e organizzazione degli
elementi dello stimolo. Basta modificare tale distribuzione per ottenere un esito totalmente diverso.

Esempio di figura reversibile Esempio di effetto di Kanizsa.

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3.3.2 Principi di raggruppamento percettivo
I principi del raggruppamento percettivo sono stati studiati in modo approfondito dai sostenitori della
psicologia della Gestalt come Koffka, Kohler e Wertheimer. Nei loro esperimenti, hanno studiato in che modo
gli insiemi di elementi percettivi si organizzano in configurazioni unitarie: hanno dimostrato che il tutto è
diverso dalla somma delle parti. Variando un singolo fattore e osservando come questo influenza il modo in cui
le persone percepiscono la struttura della configurazione, Wertheimer formulò i seguenti principi:
1. Principio della vicinanza: a parità di altre condizioni, si unificano gli elementi vicini. Per questo nella
seguente figura si tende a percepire cinque colonne di oggetti piuttosto che quattro righe.
2. Principio della somiglianza: a parità di altre condizioni, si unificano gli elementi simili. Per questo nella
figura si tende ad individuare un quadro di O all’interno di un quadro di X piuttosto che semplici X e O.
3. Principio della buona direzione: a parità di altre condizioni, si unificano gli elementi che presentano
continuità di direzione. Per questo nella figura si tende a riconoscere una freccia che attraversa un
cuore piuttosto che un disegno formato da tre parti differenti.
4. Principio della chiusura: a parità di altre condizioni, si unificano gli elementi che tendono a chiudersi tra
di loro. Per questo nella figura si tende a completare la parte mancante e a percepire l’immagine come
un cerchio chiuso o come la lettera O.
5. Principio del destino comune: a parità di altre condizioni, si unificano gli elementi che condividono la
medesima direzione di movimento. Per questo si tende ad interpretare la figura come formata da righe
alternate che si muovono in opposte direzioni.

3.3.3 Integrazione spaziale e temporale


I principi di raggruppamento suggeriscono che gran parte dei processi percettivi si basino sui riuscire a mettere
insieme le informazioni nel “modo giusto” ma a volte capita che non siamo in grado di cogliere l’intera scena
attraverso una singola occhiata, una singola fissazione oculare. Si percepisce soltanto una visuale ristretta
rispetto a un mondo percepibile che si estende in tutte le direzioni, fino alle aree più nascoste e meno visibili
dell’ambiente. Per avere un’idea esaustiva di ciò che ci circonda è necessario combinare le informazioni relative
alle fissazioni oculari di diverse collocazioni spaziali attraverso l’integrazione temporale e di quella spaziale.
È sorprendente come il nostro sistema visivo sia in grado di creare fotografie dell’ambiente momento per
momento. Tuttavia, le ricerche sull’argomento suggeriscono che la memoria visiva per ciascuna fissazione sul
mondo non sia in grado di trattenere dettagli precisi. In una serie di studi, i partecipanti osservano tre foto in
rapida successione; in seguito si mostrava loro una versione delle tre fotografie o in primo piano o in
grandangolo. Essi dovevano indicare se l’inquadratura era la stessa e i partecipanti fecero molti errori nei loro
giudizi: giudicarono le foto identiche. I ricercatori hanno definito questo errore estensione dei confini. A cosa
può essere dovuto? Immaginate di guardare fuori dalla finestra; il mondo non finisce li, ma prosegue. Per molti
aspetti, guardare le fotografie è come guardare fuori dalla finestra. Per lo stesso motivo per il quale si tende a
completare la scena che va oltre i bordi della fotografia, si tendono a ricordare molti più particolari di quelli
effettivamente inclusi in essa. I ricercatori hanno identificato diversi casi in cui le persone hanno difficoltà a
notare cambiamenti tra diverse prospettive di una stessa scena. Questo effetto si chiama cecità al
cambiamento, tecnica che sfruttano i prestigiatori per i loro trucchi.

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3.3.4 Percezione del movimento
È un tipo di percezione che richiede confronti fra diverse osservazioni visive. Immaginate di vedere un vostro
amico in mezzo all’aula; se rimanesse lì e vi avvicinaste a lui, la dimensione della sua immagine sulla retina
aumenterebbe. La velocità con cui questa immagine aumenta, vi consente di capire quanto velocemente vi
state avvicinando. La percezione di movimento richiede la capacità di combinare informazioni provenienti da
differenti osservazioni visive. È possibile comprendere questi processi di integrazione quando su assiste al
fenomeno phi. Questo fenomeno si osserva quando due unti di luci statici posti in differenti punti del campo
visivo vengono accesi e spenti in modo alternato. Ci sono molti modi per immaginare il percorso che va dalla
localizzazione del primo punto al secondo, ma nella maggioranza dei casi gli osservatori vedono il percorso più
semplice, ovvero una linea retta. Questa modalità semplicistica è assente quando vengono mostrate differenti
immagini di un corpo umano in movimento, poiché in questo caso il sistema visivo completa mentalmente i
movimenti dell’uomo anche se non sono mostrati per intero.

3.3.5 Percezione della profondità


Nel mondo reale abbiamo a che fare con oggetti collocati in uno spazio tridimensionale. Percepire le tre
dimensioni è vitale per ottenere risorse desiderate, interagire con persone interessanti o per evitare ciò che è
pericoloso. Questa percezione richiede accurate informazioni circa la profondità dell’oggetto, che si ottengono
a partire dalla distanza dell’oggetto percepito e la sua direzione rispetto alla posizione di chi osserva.
L’interpretazione della profondità si basa su numerose fonti informative relative alla distanza, spesso definite
come indizi di profondità.
 Indizi binoculari e indizi di movimento
La presenza di due occhi consente di avere a disposizione interessanti informazioni circa la profondità. Gli indizi
di profondità che implicano confronti tra le informazioni visive fornite dagli occhi, sono detti indizi binoculari di
profondità. Le due sorgenti da cui provengono queste informazioni sono:
 Disparità retinica: poiché gli occhi distano da loro circa 5/6 cm, osservano la realtà da punti
leggermente diversi. Lo scarto tra posizioni orizzontali di immagini corrispondenti nei due occhi è
chiamato disparità retinica; se sulle due retine la disparità tra due immagini è contenuta, il sistema
visivo è in grado di integrarle nella percezione di un singolo oggetto collocato in profondità. Se le
immagini sono troppo distanti tra loro, si vedono le immagini doppie. Ciò che fa il nostro sistema visivo
è sorprendente: a partire da due diverse immagini retiniche, confronta lo spostamento orizzontale dlle
parti corrispondenti e produce una percezione unitaria di un singolo oggetto in profondità.
 Convergenza: quando si osserva un dato oggetto, gli occhi si girano verso l’interno. Quando l’oggetto è
molto vicino all’osservatore, gli occhi devono sforzarsi di convergere l’uno verso l’altro affinché la
stessa immagine cada su entrambe le fovee. Il cervello utilizza queste informazioni per la percezione di
profondità solo per oggetti collocati fino a circa 3 metri.
Per verificare come il movimento costituisca un’altra fonte di informazione della profondità, chiudete un occhio
e allineate i due indici con un oggetto distante. Poi muovete la testa da un lato continuando a fissare l’oggetto e
mantenendo le dita nella stessa posizione. Appena spostate la testa, vedete entrambe le dita muoversi, ma il
dito più vicino sembra muoversi più rapidamente. Questa fonte di informazione di profondità è chiamata
movimento di parallasse. Esso fornisce informazioni di profondità in quanto, se vi muovete, le distanze relative
degli oggetti determinano la velocità e la direzione del loro movimento relativo sull’immagine retinica.
 Indizi monoculari
Anche la visione monoculare può fornire informazioni di profondità. Queste fonti informative sono chiamate
indizi monoculari di profondità perché sono relative alle informazioni ottenute da un solo occhio. Gli artisti che
creano immagini in apparenza tridimensionali fanno uso degli indizi monoculari di profondità:
 L’occlusione si ha quando un oggetto opaco si sovrappone parzialmente ad un altro oggetto dando un
senso di profondità di quest’ultimo. L’oggetto opaco inoltre interrompe la luce, creando ombre che
possono essere utilizzate come ulteriore fonte di profondità.

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 La dimensione relativa implica una regola base della proiezione della luce: oggetti della stessa
dimensione collocati a distanze differenti proiettano immagini di dimensioni diverse sulla retina)
 La relazione dimensione/distanza: l’oggetto più vicino proietta immagini più grandi, mentre quello più
lontano proietta immagini più piccole.
 La prospettiva lineare: quando due linee parallele si allontanano dall'osservatore, convergono in un
punto dell’orizzonte nell’immagine retinica. Il sistema di interpretazione visiva di linee convergenti
determina l’illusione di Ponzo; la linea orizzontale superiore, pur essendo uguale a quella inferiore, è
interpretata come più lunga perché secondo la prospettiva lineare le linee convergenti sono percepite
come linee parallele che si allontanano. In questo modo la linea superiore è percepita come più lontana
e dunque più lunga.
 I gradienti di trama: forniscono indizi di profondità in quanto la densità della trama aumenta quanto
più la superficie si allontana. In questo caso, le unità che compongono la trama diventano più piccole
quanto più ci si allontana nello spazio (come in un campo di grano) e il sistema visivo interpreta tale
riduzione come indizio di una maggiore distanza nello spazio tridimensionale.
A questo punto dovrebbe essere chiaro che ci sono molteplici fonti di informazione relative alla profondità e
che il nostro sistema visivo utilizza questi indizi per compiere complessi calcoli che permettono di avere una
percezione della profondità in uno spazio tridimensionale.

3.3.6 Le costanze percettive


Il mondo è percepito come invariante, costante e stabile al di là dei cambiamenti nella stimolazione dei propri
recettori sensoriali. Gli psicologi chiamano questo fenomeno costanza percettiva. In generale, si percepiscono
le proprietà dello stimolo distale, che sono solitamente costanti, piuttosto che le proprietà di quello prossimale.
Queste ultime cambiano ogni volta che la testa o gli occhi si muovono. Il compito critico della percezione è
quello di scoprire le proprietà invarianti dell’ambiente al di là delle nostre impressioni retiniche.
 Costanza di forma e di grandezza
Cosa determina la percezione della grandezza di un oggetto? Come abbiamo visto, l’informazione sulla distanza
è data da una varietà di indici di profondità. Il nostro sistema visivo integra l’informazione disponibile sulla
profondità con quella retinica relativa alla dimensione dell’immagine, per fornire una percezione della
grandezza dell’oggetto che solitamente corrisponde alla dimensione reale dello stimolo distale. La costanza di
grandezza è la capacità di percepire le dimensioni effettive di oggetto al di là delle variazioni di grandezza della
sua immagine retinica. Se la dimensione di un oggetto è percepita prendendo in considerazione indizi di
distanza, si dovrebbe essere ingannati sulle dimensioni ogni volta che si è ingannati sulla distanza. Un’illusione
di questo tipo è la stanza di Ames. La ragione alla base di questa illusione è che la forma sembra rettangolare
ma in realtà è composta da superfici non rettangolari poste ad angoli non corrispondenti in altezza e
profondità. Qualsiasi persona sulla destra determinerà un’immagine retinica più grande in quanto lui o lei sarà
due volte più vicino all’osservatore.
Un altro modo in cui il sistema percettivo può valutare le dimensioni di un oggetto è utilizzare la propria
conoscenza precedente circa la grandezza di oggetti simili; una volta che riconosco la forma di una casa ho una
certa idea di quanto sia grande, anche se non ho idea della distanza che mi separa dalla casa. Quando
l’esperienza non è in grado di fornire informazioni su come potrebbe presentarsi un oggetto a grande distanza
dall’osservatore, la costante di grandezza potrebbe venire meno. La costante di forma è fortemente legata a
quella di grandezza, ed è la capacità di percepire la forma effettiva di un oggetto anche quando l’oggetto è
inclinato verso l’osservatore, modificando così la forma dell'immagine retinica in modo sostanzialmente
differente da quello dell’oggetto fisico. Per esempio, un cerchio inclinato rispetto all’osservatore proietta
un’immagine ellittica. Quando è disponibile un’informazione corretta di profondità, il sistema visivo può
determinare le dimensioni effettive di un oggetto valutando la distanza dagli elementi che lo compongono.
 Costanza di luminosità

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Quando si guarda un muro di mattoni per metà in ombra, non si percepiscono i mattoni rosso scuro e quelli
rosso chiaro, ma si percepisce un muro in cui tutti i mattoni hanno lo stesso colore, ma qualcuno è in ombra.
Questo è un esempio di costante di luminosità, cioè la tendenza a percepire il bianco, il grigio o il nero degli
oggetti come costanti al di là delle variazioni di illuminazione.
Supponete di indossare una maglietta bianca e di passare da una stanza poco illuminata ad un ambiente all’aria
aperta. Al sole, la maglietta riflette più luce piuttosto che nella stanza. In realtà, la costante di luminosità deriva
dal fatto che la percentuale di luce che un oggetto riflette rimane la stessa anche se cambia la quantità assoluta
di luce presente. La maglietta bianca rifletterà l’80-90% della luce presente, un paio di pantaloni neri rifletterà il
5% di luce presente. Questo è il motivo per il quale la maglietta sembrerà più luminosa dei pantaloni.

- 3.4 Processi dall’alto verso il basso: quando ciò che si sa guida ciò che si percepisce
Possiamo pensare ai processi percettivi descritti finora come a processi che ci consentono di aumentare la
conoscenza relativa alle proprietà fisiche di un oggetto (forma, colore, distanza..) ma non saremmo in grado di
riconoscere di quale oggetto si tratti o di affermare di averlo già visto in precedenza. In realtà siamo in grado di
riconoscere e identificare la maggior parte degli oggetti come stimoli già visti prima o come elementi di
categorie dotate di significato già esperiti nella nostra esperienza passata.

3.4.1 L’importanza dei contesti e delle aspettative


L’obiettivo principale della percezione è quello di fornire una visione accurata del mondo. La sopravvivenza
dipende anche dalla capacità di compiere valutazioni affidabili, tuttavia ci sono occasioni in cui i processi
bottom-up non permettono di formulare alcuna ipotesi interpretativa. In queste circostanze, i processi top-
down utilizzano il contesto e le aspettative per contribuire a determinare il significato di ciò che è percepito.
La figura fornisce due esempi di figure ambigue in cui la
stessa informazione sensoriale consente di compiere due
interpretazioni. L’ambiguità è un concetto importante nella
comprensione della percezione in quanto mostra come
possono essere attribuite molteplici interpretazioni alla
stessa immagine. Molti artisti hanno utilizzato l’ambiguità
percettiva: per esempio, Dalì nel suo quadro Mercato di
schiavi con busto di Voltaire, rivela una complessa ambiguità
in cui un’intera area del dipinto deve essere reinterpretata per percepire il busto nascosto. Una volta
identificato il busto non sarete più in grado di guardare il dipinto senza sapere dove si trovi.
 Illusioni percettive
Abbiamo appena trattato alcuni processi che il sistema percettivo utilizza per fornire informazioni accurate
rispetto al mondo. Esistono situazioni però, in cui il sistema percettivo inganna: quando si percepisce uno
stimolo in modo non corretto si sta percependo un’illusione. Le illusioni visive dimostrano che possiamo
percepire proprietà che non appartengono ad un immagine; per esempio possiamo percepire i bordi di un
rettangolo anche se non sono realmente presenti nell’immagine. Questo fenomeno, chiamato contorni illusori,
è un esempio di come la percezione completi le parti mancanti per ottenere un’interpretazione comprensibile.
Gli studi sulle illusioni visive, hanno evidenziato come il contesto influenzi le nostre assunzioni relative alle
caratteristiche visive dello stimolo; nell’illusione di luminosità ci aspettiamo che il muro sia tutto dello stesso
colore, nonostante la percezione visiva (un cambio di illuminazione, l’ombra) ci dica il contrario.
Le illusioni percettive sono un’importante componente della vita quotidiana; per esempio, noi vediamo il sole
sorgere e il tramontare, anche se in realtà non si muove. Allo stesso modo, quando la luna è alta nel cielo
sembra che ci segua ovunque, ma in realtà stiamo sperimentando un’illusione creata dalla grande distanza
della luna dagli occhi. Anche architetti o designer per esempio controllano queste illusioni per determinati
effetti; un piccolo appartamento diventa più grande se tinteggiato con colori luminosi e se arredato con divani
piccoli e bassi. Anche registi e scenografi creano di proposito illusioni sul set o sul palcoscenico.

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 Effetti contestuali sul raggruppamento percettivo
Il processo di raggruppamento percettivo è un fenomeno che avviene in modo automatico. Più elementi sono
presenti nel contesto, più diventa complesso percepire un elemento separatamente dagli altri. Nel disegno di
Escher, il raggruppamento genera una figura ambigua: alle estremità è possibile
vedere distintamente pesci o uccelli, ma verso il centro gli oggetti diventano meno
simili ed è difficile vederli entrambi simultaneamente. Il raggruppamento complica la
possibilità di vedere i singoli oggetti, ma ci consente di percepire insieme gli attributi
comuni a diversi elementi, ne consegue che è più facile operare trasformazoni sul
gruppo che sul singolo elemento. Per esempio sarà meno impegnativo seguire il
movimento dello stormo di quello dei singoli uccelli.
Che cosa sarebbe successo se un uccello fosse stato diverso
dagli altri? Nell’illusione di Ebbinghaus, i cerchi centrali nei due gruppi sono delle stesse
dimensioni, ma quello al centro dei gruppi dei cerchi più piccoli sembra più grande
dell’altro.
 Effetti contestuali sul riconoscimento degli oggetti:
Quando l’ambiente fornisce informazioni ambigue, utilizziamo gli indizi contestati e le nostre aspettative
precedenti per sviluppare un’interpretazione. Leggi le seguenti parole: Se si osserva la figura
intermedia, si nota che in realtà è la stessa ma nella prima parola è percepita come una H, nella seconda come
una A. Chiaramente in questo caso la percezione è influenzata dalla nostra conoscenza dell’inglese, poiché il
contesto C_T si porta a ipotizzare la presenza della lettera A piuttosto che la lettera H.
Ci sono però casi in cui l’analisi del contesto è necessaria per raggiungere risultati più difficili. Osserva la figura:
cosa vedi? Immaginate che vi dicano che si tratti del giardino del vicino con un
dalmata che si stia avvicinando ad annusare un albero. In questo caso il
procedimento di riconoscimento del dalmata si basa sull’utilizzo di top-down di
informazioni mnestiche. Se non avete mai visto un cane che annusa il terreno
probabilmente non sarete in grado di percepire la figura.
Dunque, il contesto e le aspettative giocano un ruolo fondamentale nella vita
quotidiana. Avete mai incontrato persone in posti in cui non vi sareste aspettati di
trovarle e di non riconoscerle? Il problema non sta nell’aspetto esteriore ma nel contesto. Il contesto spaziale e
temporale in cui sono riconosciuti gli oggetti fornisce un’importante fonte di informazione in quanto, proprio a
partire dal contesto, si generano le aspettative relative a ciò che è maggiormente probabile percepire.

3.4.2 Percezione e azione


Il legame fra mente, corpo e contesto è evidente nei fenomeni che integrano i processi percettivi e motori. Il
termine affordance (traducibile con “invito all’uso”) indica quelle caratteristiche degli oggetti che invitano ad
utilizzarli in un certo modo, oppure a compiere azioni piuttosto che altre. Percepire un affordance, implica
conoscere il significato di un ambiente, oggetto o evento rispetto le abilità di un individuo. Per esempio, una
superficie la cui consistenza e pendenza sono compatibili con la locomozione umana, consente all’uomo di
camminare o correre, ed è percepita in quanto tale. Il termine è stato introdotto da Gibson (1979) per cogliere
la complementarietà tra individuo e ambiente, e l’interdipendenza tra percezione e azione. L’uso di un oggetto
non è né una caratteristica intrinseca dell’oggetto indipendente dall’individuo, né un’imposizione esterna
dell’individuo o del gruppo sociale. Al contrario, le affordance sono percepite attraverso il riconoscimento di
informazioni altamente strutturate su aspetti quantificabili di un determinato sistema di percezione-azione in
relazione ad aspetti quantificabili di un determinato oggetto, evento, superficie, ecc. In tal senso, la percezione
di un’affordance sarebbe diretta e non mediata da processi inferenziali. Esse sono altresì proprietà peculiari
specie-specifiche all’interno del sistema individuo-ambiente. Ciò che un oggetto, evento o superficie consente
di fare a una specie, è diverso da ciò che consente di fare a un’altra specie. Inoltre, il riconoscimento dei confini

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di un affordance consente l’organizzazione dinamica del sistema di azioni a disposizione di un individuo, cioè
consente l’adozione da parte dell’individuo di un nuovo modo di agire.

- 3.5 Considerazioni conclusive


Ora avete le conoscenze necessarie per comprendere l’intero diagramma:

L’esame della figura permetterà inoltre che la percezione è un’esperienza in risposta a un dato stimolo che
coinvolge l’intera persona. Oltre all’informazione fornita quando i nostri recettori sensoriali sono attivati, la
percezione finale dipende da chi siete, da quali persone vi circondano in quel momento, dalle vostre
aspettative e da ciò che volete e considerate.
Se i processi percettivi fossero completamente dal basso verso l’alto, saremmo legati alla stessa realtà
contingente e concreta del qui e ora; saremmo in grado di registrare l’esperienza ma non potremmo usarla in
occasioni future, né percepire il mondo in modo differente a seconda delle circostanze. Se i processi percettivi
fossero completamente dall’alto verso il basso, potremmo perderci nel nostro mondo di fantasie personali
relative a ciò che ci aspettiamo di ricevere o che speriamo di percepire. Il giusto equilibrio tra questi due
estremi permette di realizzare il principale obbiettivo della percezione: sperimentare la realtà nel modo più
efficace al dine di rispondere alle nostre necessità di esseri biologici e sociali, muovendoci e adattandoci
all’ambiente fisico e sociale.

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CAPITOLO 4
Attenzione e coscienza

Coscienza e attenzione sono due dimensioni psicologiche fondamentali per l’uso di numerose capacità
psichiche, dalla percezione, all’apprendimento alle emozioni. Saranno approfonditi i processi attentivi e il loro
ruolo nell’elaborazione delle informazioni prima di discutere i contenuti e le funzioni della coscienza nel
quotidiano. Successivamente, verranno analizzati i cambiamenti nella coscienza durante il ciclo di una giornata
(dal risveglio al sonno) e i diversi approcci allo studio dei sogni nelle culture occidentali e non. L’ultima parte del
capitolo è dedicata alle diverse situazioni in cui le persone alterano in modo volontario il proprio stato di
coscienza come la meditazione o l’uso di droghe.

- 4.1 L’attenzione
Dal punto di vista cognitivo, l’attenzione è l’insieme dei dispositivi e meccanismi che consentono di
concentrare e focalizzare le proprie risorse mentali su alcune informazioni, definendo ciò di cui siamo
consapevoli in un dato momento. La valorizzazione ci permette di selezionare determinate informazioni da
sottoporre a ulteriori elaborazioni, mentre l’ inibizione ci permette di trascurare altre informazioni considerate
irrilevanti. Nell’arco della giornata, siamo continuamente bombardati di informazioni percettive ma le nostre
capacità di elaborare le informazioni non sono in grado di attribuire significato a tutti gli stimoli che ci troviamo
di fronte. Allora come ce la caviamo? Una possibile soluzione è quella di focalizzarsi su alcune parti delle
informazioni a disposizione piuttosto che su altre e di selezionarle per un’ulteriore elaborazione sulla base
dell’importanza attribuita loro in un dato contesto e in un dato periodo di tempo. Tuttavia, anche conoscendo
benissimo le vostre intenzioni e i vostri obiettivi, e sapendo quali informazioni vi interessano, ci sono diversi
aspetti dello stimolo che possono attirare la vostra attenzione e distrarvi.

4.1.1 Attenzione selettiva


I processi attentivi sono in grado di selezionare le informazioni sulla base della loro salienza, e di elaborarle con
particolare efficienza. Questa operazione prende il nome di attenzione selettiva, e riguarda non solo la
posizione di uno stimolo nello spazio ma tutte le proprietà degli oggetti e eventi (colore, forme, dimensioni..).
In tal senso, l’attenzione è basata sugli oggetti, poiché essa procede selezionando gli oggetti piuttosto che le
coordinate spaziali. Studi recenti hanno dimostrato che quando l’attenzione è diretta verso un oggetto, tutte le
parti dell’oggetto sono selezionate simultaneamente per essere elaborate.
 Il fuoco dell’attenzione
In tali situazioni, l’individuo mette a fuoco di volta in volta un certo oggetto o stimolo dell’ambiente. Il fuoco
dell’attenzione, descritto metaforicamente come “fascio di luce” o “fuoco di una lente”, consente di
concentrare le risorse attentive su uno specifico stimolo dell’ambiente. Esso può variare di dimensioni (a volte
si può concentrare su particolari, altre volte è più esteso). Inoltre, il fuoco attentivo presenta una relazione
inversa con l’efficienza di elaborazione delle informazioni: tanto più è ristretta l’area di attenzione, tanto
maggiore è l'efficienza cognitiva e viceversa. Come si muove il fuoco dell’attenzione?
 Secondo la metafora del fascio di luce, il fuoco si muove in modo continuo occupando tutte le posizioni
intermedie. Tale movimento può essere effettuato sia a velocità costante che a tempo costante.
 Secondo la metafora del fuoco di una lente, il diametro del fuoco si allarga finché in esso non compare
lo stimolo, quindi si restringe sul bersaglio. In questo caso si avrà una specie di “salto” tra la posizione
di partenza e quella di arrivo, senza passare per quelle intermedie.
 Informazioni a cui non si presta attenzione
In ogni momento siamo circondati da un vasto numero di stimoli. I ricercatori si sono a lungo interrogati su
quanto a fondo le persone elaborino le informazioni percettive sulle quali non hanno diretto attenzione
cosciente. Secondo Broadbent (1958) la mente opera solo su alcuni stimoli in entrata grazie all’intervento di un
sistema di filtraggio. In quest’ottica, l’elaborazione degli stimoli ai cui non si presta attenzione, fallisce prima del
33
momento in cui le persone riescono a identificare gli stimoli stessi. Tra i fenomeni che sembrano contraddire
questa idea rientra il cosiddetto effetto cocktail party; le persone spesso riferiscono di aver udito il proprio
nome in una stanza rumorosa anche se in quel momento erano impegnate in una conversazione. La ricerca in
laboratorio ha confermato che le persone sono molto sensibili a percepire il proprio nome tra le informazioni a
cui non stanno prestando attenzione. Tuttavia, altri ricercatori hanno criticato questi esperimenti sostenendo
che i partecipanti in realtà stessero facendo molta attenzione a queste informazioni “trascurate”. Nel loro
insieme, questi risultati suggeriscono che Broadbent avesse ragione: le persone hanno bisogno dell’attenzione
cosciente per identificare immagini, suoni e altri percetti dell'ambiente.

4.1.2 Attenzione divisiva


In molte situazioni, l’attenzione è divisa e distribuita su diversi stimoli. In questi casi, la selezione
dell’informazione è meno accurata. In un esperimento di Duncan (1984) i partecipanti vedevano, al centro di
un monitor, un rettangolo con una piccola apertura su un lato ed una linea che lo attraversava. Quando erano
invitati a rispondere se il rettangolo era grande o piccolo rispetto al monitor e se era a sinistra o a destra,
l’accuratezza delle risposte era molto elevata. Al contrario quando i partecipanti dovevano rispondere a
domande sia sul rettangolo, sia sulla linea, l’accuratezza delle risposte calava. In questi casi, invece di
considerare l’attenzione come un processo di selezione, è più opportuno considerarla come un processo che
agisce a partire da una quantità di risorse cognitive, che in questo caso sono limitate. Al di là dell’esperimento
di Duncan, è esperienza comune il fatto che, di norma, è più difficile compiere bene più compiti nel medesimo
momento che uno dopo l’altro.
Gli sviluppi recenti della ricerca sui processi neuronali coinvolti nell’attenzione hanno contribuito ad
approfondire i meccanismi del funzionamento dell’attenzione sul piano cognitivo. Secondo Duncan,
l’attenzione è l’esito di una competizioni fra diversi stimoli che può verificarsi in ogni fase del processo di
elaborazione delle informazioni: lo stimolo sui cui si concentra la maggior parte delle risorse sarà analizzato in
maniera più completa rispetto ad altri. La salienza degli attributi è rilevata attraverso processi che operano dal
basso verso l’alto. Tuttavia, la competizione è un meccanismo che può operare a partire da stimoli provenienti
da ogni modalità sensoriale. Dunque, la competizione tra stimoli può subire distorsioni (bias) a causa
dell’intervento di diversi sistemi cognitivi. Secondo Desimone e Duncan, l’attenzione è parte integrante dei
processi percettivi e cognitive. La competizione è conseguenza del fatto che non si possono elaborare più
stimoli contemporaneamente; di conseguenza, l’atto attentivo agirebbe come una distorione in grado di
risolvere la competizione tra stimoli diversi.

- 4.2 Che cos’è la coscienza?


Il termine “coscienza” è un po’ ambiguo. Può essere utilizzato per riferirsi a uno stato generale della mente o ai
suoi contenuti specifici. A volte si usa il termine cosciente in contrapposizione a incosciente; altre volte si
sostiene di essere coscienti o consapevoli di certe informazioni o azioni. In questo contesto definiamo la
coscienza come la consapevolezza degli stimo interni ed esterni da parte del soggetto. Essa è uno stato più che
un processo e di norma si accompagna ad una manifestazione fenomenologica, un’esperienza che riflette un
determinato processo di elaborazione delle informazioni.

4.2.1 I contenuti della coscienza


Negli ultimi anni si è affermata la concezione secondo cui le operazioni mentali si svolgono, di consuetudine, in
modo inconscio e solo in casi particolari, grazie all’intervento dei processi attentivi, le rappresentazioni
prodotte dall’elaborazione dell’informazione possono diventare consce.
Nell’ambito dell’elaborazione delle informazioni, la coscienza sarebbe presente:
 Nelle conoscenze dichiarative: ossia nelle proposizioni che stabiliscono una relazione tra due o più idee
(o eventi) e riguardano i contenuti della vita quotidiana.

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 Nelle conoscenze procedurali: che concernono le procedure con le quali si svolgono i compiti della vita
quotidiana e che si basano sull’esercizio e sull’esecuzione di un determinato compito. La coscienza può
essere operante nella prima fase di apprendimento (per esempio quando si impara a nuotare o ad
andare in bicicletta) e con l’esercizio invece, queste attività diventano automatiche e immediate.
Per questo motivo si distingue tra:
 Elaborazione automatica: che opera in modo molto rapido, non richiede risorse attentive e avviene
senza l’intervento della coscienza. Di conseguenza, diversi processi automatici possono svolgersi
contemporaneamente, in parallelo e sembrano avvenire senza il controllo del soggetto;
 Elaborazione controllata: è lenta, richiede l’intervento delle risorse attentive ed è consapevole. Il
soggetto esercita un controllo diretto e continuo su quello che sta facendo; di conseguenza, questa
elaborazione non consente di svolgere un altro compito nel medesimo momento (esecuzione in serie).
In realtà, non esiste un processo totalmente automatico, poiché è sempre richiesta una certa quantità di
risorse cognitive per il suo svolgimento. Pertanto, qualsiasi processo automatico può ritornare a essere
controllato in caso di necessità.

4.2.2 Consapevolezza e coscienza


Gran parte della ricerca recente in psicologia riguarda i contenuti della coscienza. Siamo consci sia di quello che
state facendo sia del fatto che lo stai facendo. A volte si è consci della percezione che altri stiano osservando,
valutando, reagendo a quello che stiamo facendo. Dall’esperienza privilegiata di osservarsi all’interno deriva da
un senso di sé. Queste varie attività mentali costituiscono nel loro insieme i contenuti della coscienza, cioè tutte
le esperienze di cui siamo coscientemente consapevoli in un dato momento.
Ma cosa determina ciò che è conscio? Per esempio eravate consapevoli del vostro respiro un attimo fa?
Probabilmente no, il suo controllo fa parte dei processi inconsci. Ci sono diversi tipi di informazione che
possono essere inconsce, come le regole grammaticali che vi permettono la comprensione di questa frase.
Eravate consapevoli del rumore di fondo del traffico o dell’orologio? Potrebbe essere difficile essere
consapevoli di tutte queste cose e continuare a fare attenzione al significato di ciò che state leggendo; questi
stimoli fanno parte delle informazioni a cui non si prestano attenzione (di cui abbiamo discusso nel par. 4.1.1).
 Processi inconsci
La coscienza, pur essendo una funzione autonoma, si fonda e si radica sui processi inconsci, come aveva già
messo in luce Freud con la metafora dell’iceberg (secondo la quale la parte sommersa è l’inconscio e solo la
parte visibile è il conscio). Alla luce delle teorie più recenti, i contenuti della coscienza costituirebbero l’esito
funzionale dei processi nervosi elaborati in modo inconscio. Di conseguenza non siamo consapevoli dei processi
motori, sensoriali, emotivi in se stessi, ma solo dei risultati finali di questi processi. A tale proposito, di norma si
distingue tra inconscio cognitivo e inconscio emotivo. Entrambi sono costituiti dai processi mentali di
elaborazione degli stimoli che si concludono in atti di conoscenza (informazioni) o di risposta emotiva. La
coscienza concerne gli esiti di tali processi, cioè i contenuti delle conoscenze o delle emozioni.

4.2.3 Studiare i contenuti della coscienza


Per studiare la coscienza, i ricercatori hanno dovuto sviluppare metodologie che rendessero misurabili
apertamente esperienze che sono profondamente private. Uno di questi metodi rappresenta un’evoluzione
della pratica di introspezione di Titchener e Wundt; ai partecipanti è richiesto di parlare ad alta voce mentre
sono impegnati nello svolgimento di compiti complessi. Essi riportano, nel modo più dettagliato possibile, la
sequenza di pensieri durante il completamento dei compiti. I resoconti dei partecipanti, chiamati protocolli di
verbalizzazione del pensiero (TAP, think-aloud protocols), sono utilizzati per documentare le strategie mentali e
le rappresentazioni della conoscenza che i partecipanti impiegano nello svolgimento di un compito. Per
esempio, i ricercatori hanno raccolto questi protocolli per capire le diverse strategie messe in atto da esperti e
novizi nel dare giudizi sui progetti relativi ad un prodotto.

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Nel metodo di valutazione dell’esperienza (ESM, experience-sampling method) i partecipanti forniscono
informazioni sui loro pensieri e sentimenti durante l’arco di una normale giornata. In queste ricerche i
partecipanti spesso sono dotati di un dispositivo (come cercapersone) che segnala loro il momento di produrre
resoconti sui contenuti della loro coscienza.
Tecniche come i TAP o i ESM permettono ai ricercatori di determinare, per particolari compiti e momenti, quale
sottoinsieme di tutte le informazioni che l’individuo ha a disposizione sia presente nella coscienza.

- 4.3 Le funzioni della coscienza


Quando ci si riferisce alla questioni delle funzioni della coscienza, si cerca di capire perché abbiamo bisogno
della coscienza; che cosa aggiunge all’esperienza umana?
Secondo una prospettiva biologica, la coscienza probabilmente si è evoluta perché aiutava gli individui a dare
un senso alle informazioni che provenivano dall’ambiente e a utilizzare queste informazioni nella pianificazione
delle azioni più appropriate ed efficaci.
1. In primo luogo, la coscienza riduce il flusso degli stimoli in ingresso, limitando quello che notate e
quello su cui vi focalizzate. Riconoscerete questa funzione restrittiva della coscienza tra le cose dette in
precedenza sull’attenzione. La coscienza vi aiuta a ignorare la maggior parte delle informazioni non
rilevanti per i vostri scopi o obiettivi immediati.
2. Una seconda funzione della coscienza è l’immagazzinamento selettivo: anche all’interno della categoria
delle le informazioni a cui prestate attenzione consapevolmente, non tutte sono rilevanti per quello
che state facendo in quel momento. La coscienza permette di immagazzinare in modo selettivo
informazioni che vogliamo analizzare, interpretare e mettere in atto nel futuro e consente di
classificare eventi ed esperienze come rilevanti o irrilevanti per i bisogni personali, selezionandone
alcuni e ignorandone altri.
3. Una terza funzione è quella di farci fermare, pensare e considerare le diverse alternative basandoci
sulle conoscenze passate e immaginando le varie conseguenze. Questa funzione di pianificazione, ci
rende capaci di sopprimere desideri molto forti quando questi siano in contrasto con la moralità, l’etica
o le questioni pratiche.

4.3.1 studiare le funzioni della coscienza


Il comportamento delle persone è spesso influenzato da processi sia consci sia inconsci. Per indagare le funzioni
della coscienza, gli studiosi spesso conducono ricerche che mettano in luce diversi esiti dei processi consci e
inconsci. Per esempio, ricercatori hanno dimostrato che per prendere decisioni, le persone possono utilizzare
sia processi consci sia inconsci. Come rispondere al dilemma del “bambino che piange” nel quale “dovete
soffocare il vostro stesso bambino per evitare che i soldati nemici vi trovino e vi uccidano”? Per dimostrare il
differente uso dei processi consci, gli scienziati hanno chiesto ai partecipanti di risolvere dilemmi di questo tipo
in due diverse situazioni;
1. I partecipanti leggono il dilemma e devono rispondere si o no il più velocemente possibile.
2. Anche in questa situazione i partecipanti leggono e rispondono. Tuttavia, contemporaneamente,
devono controllare un flusso di numeri che scorre sullo schermo del computer e premere un tasto
quando il numero arriva a 5. Lo scopo è quello di sovraccaricare i processi consci del partecipante;
infatti essi impiegano più tempo a rispondere.
Quindi un modo di studiare le funzioni della coscienza è dimostrare come le risposte delle persone cambino
quando non è consentito il funzionamento normale ai processi consci. Un altro modo di studiare le funzioni
della coscienza è determinare quali tra i diversi compiti affrontati ogni giorno richieda l’intervento dei processi
consci. Per esempio, cercate nella stanza un oggetto rosso; probabilmente vi dovreste essere sentiti come se i
vostri occhi fossero stati attirati verso quell’oggetto senza nessuno sforzo. Diversi studi confermano che le
persone possono portare a termine una ricerca per alcune caratteristiche base di un oggetto (colore, forma,
grandezza) con poca o nessuna attenzione conscia. Immaginate ora di cercare un oggetto blu e rosso; in questo

33
caso dovreste avere una percezione differente della quantità dello sforzo consapevole richiesta. La maggior
parte di voi infatti avrà dovuto utilizzare l’attenzione consapevole per trovare un oggetto che possedesse la
combinazione delle due caratteristiche.

- 4.4 Sonno e sogni


Un terzo della nostra vita è dedicato al sonno, durante il quale i muscoli sono in uno stato di “paralisi benigna”
e il vostro cervello ferve di attività. Questo paragrafo inizia prendendo in considerazione i ritmi biologici del
sonno e della veglia, poi si concentra più specificatamente sulla fisiologia del sonno. Infine sarà esaminata la
più importante attività mentale che accompagna il sonno: il sogno.

4.4.1 Ritmi circadiani


Il nostro corpo è regolato da un ciclo temporale conosciuto come ritmo circadiano: i livelli di attivazione, il
metabolismo, il battito cardiaco, la temperatura corporea, il fluire e refluire dell’attività ormonale si
sincronizzano sul ticchettio dell’orologio interno. In gran parte queste attività raggiungono il loro picco di giorno
e il punto più basso di notte, durante il sonno. La ricerca suggerisce che l’orologio del corpo non sua in
sincronia esatta con quello appeso alla parete; il “pacemaker” umano sarebbe impostato su un ciclo di 24h e
18min. L’esposizione giornaliera alla luce solare aiuta a fare quel piccolo aggiustamento che porta alle 24h. Le
circostanze che portano a un allontanamento tra l’orologio interno e il ciclo del sonno influenzano il modo in
cui ci si sente e si agisce. Chi fa il turno di notte per esempio ha esperienza di difficoltà sia fisiche che cognitive,
perché i suoi cicli circadiani sono alterati. Sensazioni simili si provano con il jet-leg, che si verifica perché il ritmo
circadiano interno è asincrono rispetto all’ambiente temporale esterno. I ritmi circadiani sono fortemente
influenzati dall’esposizione alla luce; per questo gli studiosi hanno lavorato alla possibilità di aiutare le persone
nella regolazione dei loro ritmi circadiani proprio attraverso l’esposizione alla luce.

4.4.2 Il ciclo del sonno


La tecnologia EEG (1937) fornì una misura oggettiva e continua del variare dell’attività cerebrale in condizioni di
sonno e di veglia. Attraverso EEG, i ricercatori scoprirono che le onde cerebrali mutano forma quando ci si
addormenta e mostrano alcuni cambiamenti sistematici e prevedibili durante tutto il periodo del sonno. La
successiva scoperta significativa in questo ambiente fu che, ad intervalli periodici durante il sonno, si verifica
una scarica di movimenti oculari rapidi (REM, rapid eye mouvement). Il periodo di sonno che non mostra REM si
chiama sonno non-REM.
Quando ci si presta ad andare a letto l’EEG registra delle onde cerebrali che si aggirano intorno ai 14 cicli al
secondo (cps, cycles per second). Quando ci si mette a letto, inizia il rilassamento e le onde cerebrali rallentano,
portandosi in un range che varia 12 e gli 8 cps. Una volta che ci si addormenta, si entra nel ciclo del sonno e
ognuna delle sue fasi presenta un andamento EEG distinto:
1. Fase 1 del sonno: le onde variano dai 7 e i 3 cps.
2. Fase 2: l’EEG è caratterizzato dai fusi del sonno, piccole scariche di attività elettriche, dai 12 e i 16 cps.
3. Fase 3 e 4: Sonno profondo. Le onde cerebrali rallentano fino a raggiungere i 1 o 2 cps, e nello stesso
tempo rallentano anche respirazione e battito cardiaco.
4. Sonno REM: l’attività elettrica cerebrale aumenta e l’EEG è molto simile a quello registrato nelle prime
due fasi. È durante questa fase che iniziano i sogni vividi. Poiché il pattern dell’EEG somiglia a quello
registrato in fase di veglia, il sonno REM fu inizialmente chiamato sonno paradosso.
In media ogni ciclo completo dura 100 minuti (90 min per le prime 4 fasi + 10 min di sonno REM) e durante una
notte il ciclo si può ripetere dalle 4 alle 6 volte. Al passare di ogni ciclo, diminuisce il tempo in sonno profondo e
aumenta quello in fase REM; durante l’ultimo ciclo si può passare in fase REM anche un’ora.
Non tutti gli individui dormono lo stesso numero di ore; l’ammontare di sonno effettivo dipende:
 Dalle azioni svolte durante la veglia.

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 La lunghezza del sonno è influenzata anche dai ritmi circadiani; una quantità adeguata di sonno REM e
non-REM è possibile solo quando l’ora in cui si va dormire e quella in cui ci si alza sono costanti lungo
tutta la settimana. In questo modo è probabile che il tempo trascorso a letto corrisponda con la fase di
sono del ritmo circadiano.
 Dal ciclo della vita; il neonato dorme 16 ore al giorno (metà delle quali in fase REM), verso i 50 anni è
possibile dormire solo 6 ore (il 20% delle quali in fase REM) e i giovani adulti dormono dalle 7 alle 8 ore
(il 20% in fase REM).
Il cambiamento nella quantità di sonno che avviene con l’età non significa che questo perda di importanza
crescendo. Un studio che ha seguito un gruppo di adulti sani tra i 60 e 80 anni ha evidenziato come i soggetti
con una più alta efficienza di sonno hanno una maggiore probabilità di vivere più a lungo.
Ma perché le persone hanno bisogno di dormire?

4.4.3 Perché dormiamo?


Le funzioni generali del sonno non-REM sono il risparmio energetico e il riposo. Il sonno non-REM potrebbe
dunque essersi evoluto per permetter agli animali di risparmiare energia nei momenti in cui non c’era bisogno
di lavorare o procurarsi del cibo. Tuttavia, il sonno espone gli animali al pericolo dei predatori. I ricercatori
ipotizzano che i cicli dell’attività cerebrale durante un periodo di sonno potrebbero essersi evoluti per aiutare
gli animali a minimizzare il rischio di predazione; alcuni pattern cerebrali potrebbero permettere agli animali di
mantenere una consapevolezza relativamente alta di ciò che accade nell’ambiente. Ma perché non evitare del
tutto il rischio? La risposta a questa domanda, sta nelle proprietà ristorative del sonno non-REM. Per esempio,
quando il cervello è sottoposto a duro lavoro, nello stato di veglia il metabolismo dell’ossigeno produce delle
sostanze dannose per i neuroni del tronco cerebrale, dell’ippocampo e dell’ipotalamo. Il sonno non-REM aiuta
il cervello fornendogli l’opportunità di interrompere questi danni e di riparare i danni alle cellule neuronali.
Se una notte siete deprivati di sonno REM, ne avrete di più in quella successiva; questo è un segno del fatto che
anche il sonno REM ha delle funzioni fondamentali. Per esempio, sembra che durante l'infanzia l’attività
neuronale che definisce il sonno REM sia necessaria per lo sviluppo normale del sistema visivo, e forse di altri
sistemi sensoriali e quello motorio. Per quanto riguarda gli adulti, la ricerca si è focalizzata su ruolo del sonno
REM nell’apprendimento e memoria. In un esperimento, 24 partecipanti trascorsero una notte in laboratorio e
i ricercatori ne ricavarono una baseline della loro quantità di sonno. La mattina successiva, 6 furono assegnati al
gruppo di controllo, agli altri 18 fu chiesto di partecipare ad un attività di problem solving. In seguito ad una
seconda notte in laboratorio, fu misurata nuovamente la quantità di sonno REM. Si scoprì che i partecipanti
impiegati nell’apprendimento del nuovo compito avevano incrementato la quantità di sonno REM rispetto alla
baseline registrata la prima notte. Questo esperimento suggerisce che il sonno REM fornisce al cervello un
contesto in cui solidificare il raggiungimento di nuovi apprendimenti.
La deprivazione di sonno ha una serie di effetti negativi sulle prestazioni cognitive, come difficoltà di attenzione
e problemi con la memoria di lavoro. Essa danneggia, inoltre, abilità di tipo motorio.

4.4.4 Sogni: il teatro della mente


Sebbene gli individui riportino un numero di sogni maggiori quando vengono risvegliati da una fase REM, si
sogna anche nella fase non-REM. In questa ultima i sogni hanno una probabilità minore di contenere storie ad
alto coinvolgimento ma sono più simili al pensiero diurno e contengono meno immagini sensoriali.
 Freud e l'interpretazione dei sogni
Nel suoi famoso libro L’interpretazione dei sogni (1900), Freud sosteneva che i sogni fossero l’appagamento di
un desiderio; secondo questo punto di vista i sogni permetterebbero alle persone di esprimere desideri
inconsci molto forte in una forma mascherata, simbolica. Il mascheramento avviene per dare rifugio a quei
desideri altrimenti proibiti, come l’attrazione sessuale per il genitore di sesso opposto. Le due forze dinamiche
che operano in un sogno sono dunque il desiderio e la censura. La censura trasforma il significato nascosto, il
contenuto latente (la verità integrale, socialmente o personalmente inaccettabile) del sogno, in contenuto

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manifesto (la versione accettabile della storia) che appare al sognatore dopo un processo che Freud chiama
lavoro onirico. Secondo quanto sostiene Freud, l’interpretazione dei sogni richiede un lavoro a ritroso,
partendo dal contenuto manifesto per arrivare a quello latente. Freud credeva sia in significati idiosincratici
(specifici in ciascun individuo) sia universali; la maggior parte di natura sessuale.
 Approcci non occidentali all'interpretazione dei sogni
La maggior parte delle persone non pensa seriamente ai propri sogni finché non diventa uno studente di
psicologia o entra in terapia. Al contrario, in molte culture non occidentali, la condivisione e interpretazione dei
sogni fanno parte del tessuto culturale:
 Indiani Archur in Ecuador: si radunano tutti insieme la mattina e ognuno racconta il proprio sogno e gli
altri offrono la loro interpretazione, sperando di arrivare ad una spiegazione condivisa sul significato
del sogno stesso.
 In altre culture, specifici gruppi di individui sono indicati come possessori di speciali poteri che li
aiutano nell’interpretazione dei sogni (come per esempio gli sciamani nel popolo dei Maya).
 Al contrario di Freud che rivolge le interpretazioni dei sogni al passato (verso le esperienze di infanzia e
i desideri repressi) ci sono culture che credono che i sogni rappresentino visioni future (per esempio
per il popolo che vive sulle colline Ingessana).
 Altri gruppi hanno sistemi di relazione culturalmente condivisi tra i simboli presenti nei sogni e il loro
significato (per esempio negli indiani Kalapalo)
 Teorie contemporanee sul contenuto dei sogni
Il punto di contatto tra i diversi approcci all’interpretazione dei sogni, è che essi forniscono informazioni di
autentico valore per la persona o la comunità. Lo studio della base biologica del sogni ha messo in discussione
questa visione. Per esempio, il modello attivazione-sintesi sostiene che i segnali emessi dal tronco cerebrale
stimolino il proencefalo e le aree associative della corteccia nella produzione di memorie casuali e di
connessioni con le esperienze passate. Secondo questo punto di vista non ci sono legami logici, significati
intrinsechi o andamenti coerenti in questi improvvisi e casuali picchi di “segnali” elettrici.
La ricerca contemporanea sui sogni tuttavia, contraddice questa visione secondo cui il contenuto del sogno
emerge da segnali elettrici casuali. Gli studi di neuroimaging suggeriscono che l’ippocampo e l’amigdala siano
attive durante la fase REM la fase. Questo suggerisce che una delle funzioni del sonno sia mettere insieme “le
recenti esperienze di un individuo con i suoi obiettivi, desideri e problemi”. Secondo questo punto di vista, il
contenuto dei sogno riflette il tentativo del cervello di tessere una trama narrativa attorno ai vari fatti della vita
recente di una persona che emergono in fase di sonno REM.
Le ricerche sul contenuto dei sogni evidenziano che esso mostra una buona continuità con le preoccupazioni
del sognatore al risveglio. Allo stesso modo, persone che hanno passato molto tempo della veglia in attività
particolari (sport o lettura) riportano una percentuale più alta di sogni riguardanti questa età.
Alcune persone hanno più difficoltà di altre nel ricordare i propri sogni ed è più facile ricordarli al risveglio di
una fase REM o vicino a essa.

- 4.5 Stati di coscienza alterati


Ogni cultura ha sviluppato pratiche che permettono di andare oltre la coscienza e di sperimentare stati di
coscienza alterati. Alcune di queste sono individuali, come la meditazione, altre, come un certi riti religiosi,
sono tentativi condivisi di trascendere i confini della normale esperienza consapevole.

4.5.1 Ipnosi
Secondo la psicologia del senso comune, l’ipnotizzatore esercita un potere molto vasto sui soggetti consapevoli
o meno. Il termine ipnosi deriva da Ipno, il dio greco del sonno. Il sonno tuttavia non c’entra nulla con l’ipnosi,
tranne per il fatto che alcune persone in stato di estrema rilassatezza possono dare l’impressione di essere
addormentate. Una definizione generale di ipnosi è quella di uno stato di consapevolezza alternativo,
caratterizzato dalla speciale abilità di rispondere alle suggestioni con cambiamenti di percezione, memoria,

33
motivazione e senso di controllo di sé. I ricercatori sono spesso in disaccordo sui meccanismi psicologici
coinvolti nell’ipnosi; alcuni studiosi hanno sostenuto che gli individui ipnotizzati entrino in uno stato di trance,
altri hanno ipotizzato che l’ipnosi non fosse nulla di più che una motivazione accresciuta. In definitiva, la ricerca
ha escluso che l’ipnosi coinvolga un’alterazione della coscienza simile allo stato di trance.
 Induzione ipnotica e ipnotizzabilità
L’Ipnosi ha inizio con l’induzione ipnotica, un insieme di attività preliminari (come immaginare certe esperienze
o visualizzare eventi e reazioni) che minimizzano le distrazioni esterne e incoraggiano i partecipanti a
concentrarsi esclusivamente sugli stimoli suggeriti o a credere che stiano per entrare in un particolare stato di
coscienza. Quando praticata ripetutamente, la procedura di induzione funge da segnale appreso e permette ai
partecipanti di entrare più velocemente nello stato ipnotico.
L’ipnotizzabilità è il grado di responsività dell’individuo alla suggestione
ipnotica. Il grafico indica le percentuali dei vari livelli di ipnotizzabilità
degli individui al loro primo tentativo di induzione ipnotica. Chi ha un
basso punteggio in questa scala sentì poco le sensazioni suggerite, o nulla
(per esempio di immaginare le braccia come delle sbarre di ferro).
L’ipnotizzabilitàè un attributo relativamente stabile; i bambini tendono ad
essere più responsivi degli adulti e il picco dell’ipnotizzabilità si raggiunge
durante l’adolescenza e inizia a calare subito dopo.
Alcuni risultati, evidenziano una base genetica alla responsività; una ricerca ha mostrato come due gemelli
identici su una scala di ipnotizzabilità siano più simili rispetto a quelli eterozigoti. Altri studi hannno identificato
un gene, noto come COMT, che influenza l’utilizzo della dopamina nel cervello.
 Effetti dell’ipnosi
Come si può essere sicuri che questi comportamenti derivino da speciali proprietà dell’ipnosi e non dalla
volontà degli individui? Per rispondere a questa domanda sono stati condotti numerosi esperimenti che
confrontassero l’efficacia dei suggerimenti in stato di veglia o ipnosi; un gruppo di ricercatori crearono tre
gruppi da 12 persone e a ciascun partecipante ricevette gli stessi suggerimenti per mitigare il dolore. In ogni
fase dell’esperimento i partecipanti dovevano indicare la quantità di dolore: ne risultò che gli individui ad alta
ipnotizzabilità dichiararono che i suggerimenti per mitigare il dolore agivano in maniera molto più efficace sotto
ipnosi che in stato di veglia. I ricercatori inoltre registrarono i tracciati EEG per determinar se l’attività cerebrale
dei partecipanti fosse influenzata dalle suggestioni ipnotiche; effettivamente, quando i soggetti ad alta
ipnotizzabilità ricevevano le suggestioni ipnotiche per la riduzione del dolore, producevano un numero
maggiore di risposte cerebrali attenuate nelle aree sensoriali. Questo esperimento dimostra dunque il
potenziale dell’ipnosi nel controllo del dolore (analgesia ipnotica).
I ricercatori stanno cercando di capire perché i soggetti ad alta ipnotizzabilità ottenevano sollievo maggiore
durante l’ipnosi; uno studio di neuroimaging, per esempio, mostra che questi soggetti presentano anche una
maggiore estensione nella parte anteriore del corpo calloso (importante nell’inibizione degli stimoli
indesiderati e nell’attenzione). Questo consente dunque di utilizzare al meglio l’ipnosi per controllare il dolore.

4.5.2 Meditazione
La meditazione è una forma di alterazione della coscienza utile per migliorare la conoscenza di sé e il benessere
attraverso il raggiungimento di uno stato di profonda tranquillità. Nella meditazione concentrativa una persona
può regolare il respiro, minimizzare gli stimoli e liberarsi da tutti i pensieri; nella meditazione mindfulness,
l’individuo impara a lasciare che i ricordi e i pensieri gli attraversano la mente senza reagire ad essi (e uno
studio ha dimostrato come questa tecnica abbia per esempio capacità di alleviare l’ansia).
Le tecniche di neuroimaging hanno mostrato come la meditazione influenzi gli schemi di attività cerebrale; con
l’avanzare dell’età, la corteccia cerebrale perde spessore. Uno studio, mise in relazione 13 individui con 3 o più
anni di esperienza di meditazione zen e 13 individui di controllo, e dimostrò che negli individui che praticavano
la meditazione regolarmente non si rilevava alcun deterioramento neuronale con l’avanzare dell’età.

33
CAPITOLO 5
Apprendimento ed esperienza

Gli psicologi si sono interessati a lungo all’apprendimento e alle modalità con cui gli organismi imparano dalle
esperienze. Negli anni 40 e 50 la psicologia sperimentale si identificava prevalentemente con lo studio
dell’apprendimento, per tentare di integrare entro leggi simili a quelle delle scienze naturali l’apprendimento
umano, al fine di poterlo prevedere con certezza. In questo capitolo presenteremo i vari tipi di apprendimento,
dal condizionamento classico alle nuove forme di apprendimento che hanno a che fare con i new media, intesi
come modalità differenti attraverso cui gli organismi acquisiscono e utilizzano le informazioni relative al proprio
ambiente.

- 5.1 Che cos’è l’apprendimento


L’apprendimento può essere definito come un processo continuo, basato sull’esperienza, che si traduce in un
cambiamento relativamente stabile e duraturo nel comportamento o nel comportamento potenziale.
 Processo basato sull'esperienza
L’apprendimento può avvenire solo attraverso l’esperienza, che include una fase di raccolta di informazioni (di
valutazione e di rielaborazione delle stesse) e una fase di azione volta a produrre risposte in grado di
modificare l’ambiente. L’apprendimenti consiste dunque in risposte che sono influenzate dalle informazioni
contenute nella memoria. Il comportamento appreso non riguarda i cambiamenti determinati dalla
maturazione del soggetto né da quelli causati da malattie o danni cerebrali. I cambiamento duraturi nel
comportamento richiedono una certa pratica che si può mettere in atto solo a seguito di un processo di
maturazione già avvenuto (per esempio, quando un bambino deve imparare a camminare, nessun tipo di
allenamento o pratica produrrà questo comportamento prima che sia sufficientemente maturo per farlo).
 Un cambiamento nel comportamento o nel comportamento potenziale
È ovvio che l'apprendimento è facilmente riscontrabile quando si possono osservarne i risultati. Tuttavia è
possibile analizzare l’apprendimento anche in modo più diretto, osservando i cambiamenti all’interno del
cervello. Studiando il sistema nervoso di una lumaca marina, Kandel e Antonov hanno messo in evidenza che
durante i fenomeni di abituazione e sensibilizzazione, i collegamenti sinaptici si modificano, si rafforzano e si
indeboliscono. Secondo LeDoux la maggior parte delle strutture cerebrali è in grado di apprendere l’esperienza
dal momento che le proprietà delle loro sinapsi possono essere modificate dall’esperienza.
Tuttavia, l’apprendimento può essere facilmente rilevabile da un cambiamento a livello delle prestazioni, anche
se da sola la prestazione non è sempre in grado di dimostrare ciò che si è appreso; per esempio una maggiore
comprensione della filosofia orientale potrebbe non essere evidente in azioni concretamente misurabili o se
non si presenta l’occasione di esibire ciò che è stato appreso. Questo è un esempio della distinzione tra
apprendimento e prestazione, la differenza tra ciò che si è appreso, le potenzialità che abbiamo e quello che è
realmente messo in atto tramite il comportamento osservabile.
 Un cambiamento relativamente stabile e duraturo
Per essere appreso, un cambiamento nel comportamento deve mantenersi costante nelle diverse circostanze.
Se una persona si allena nel tiro con l’arco, diventa molto brava ma se smette di allenarsi può regredire fino al
livello di partenza. A questo punto, se il soggetto decidesse di riprendere, gli sarebbe più facile tornare a un
livello competitivo rispetto a una persona che si cimenta per la prima volta, perché gli sarebbe rimasto
qualcosa della precedente esperienza. In questo senso, il cambiamento è considerato come permanente.
 Un processo continuo
L’apprendimento inoltre è un processo continuo. Esso rappresenta una tappa fondamentale nel processo di
evoluzione delle specie animali. In particolare l’apprendimento è intrinseco nell’esperienza degli esseri umani,
che sono nella condizione di apprendere in ogni situazione. L’apprendimento ha un carattere storico
nell’autobiografia di ciascuno di noi. Grazie a questa contingenza, siamo nella condizione di imparare sempre,
in modo esplicito o attraverso percorsi impliciti. Se la nostra vita è esperienza (e quindi apprendimento
33
continuo) ne consegue che ciò che impariamo in modo accidentale e inconsapevole è molto più di quello che
impariamo in modo volontario o intenzionale. Tale apprendimento continuo, pur non essendo esclusivo della
nostra specie, ha ricevuto un’accelerazione esponenziale negli esseri umani. Esso si fonda direttamente
sull’esperienza, intesa come “tutto ciò che accade”. In quanto tale, essa è la fonte di tutte le conoscenze e le
competenze attraverso la sequenza dei successi e, soprattutto, degli insuccessi.
Per essendo ubiquitario e perenne, l’apprendimento è selettivo, in quanto si basa sulla ricerca di conferme di
apprendimenti precedenti (conservazione) o è orientato all’acquisizione di nuove competenze (innovazione).

5.1.1 Abituazione e sensibilizzazione


Immaginate di guardare una fotografia piacevole: alla prima osservazione potreste provare un’emozione
piacevole ma se si osserva la stessa immagine molte volte, la risposta emotiva sarà sempre più debole. Questo
è un esempio di abituazione: quando uno stimolo è ripresentato continuamente si ha una diminuzione della
risposta comportamentale. L’abituazione aiuta a focalizzare l’attenzione su eventi nuovi presenti nell’ambiente,
dato che permette di contenere lo sforzo comportamentale impiegato per rispondere più volte a stimoli già
incontrati. Notate come il processo di abituazione si adatti alla definizione di apprendimento: c’è un
cambiamento nel comportamento (la risposta emotiva diventa più debole) che è basata sull’esperienza
(l’immagine osservata ripetutamente) e questo cambiamento comportamentale è stabile (non ritorneremo al
livello originario di risposta emotivo). È improbabile che il cambiamento della risposta sia permanente; se
osserviamo di nuovo l’immagine dopo un certo tempo, la potremmo nuovamente trovare piacevole.
Quando si attiva il processo di sensibilizzazione, la risposta a un dato stimolo che si presenta ripetutamente
diventa più forte. Lo stimolo doloroso ad esempio, anche se rimanesse costante, provereste molto più dolore
durante l’ultima somministrazione dello stimolo rispetto alla prima. Il concetto di sensibilizzazione si adatta a
quello di apprendimento perché ripetute esperienze di uno stimolo doloroso portano a un cambiamento
costante nella risposta comportamentale. In generale è più probabile una risposta di sensibilizzazione se gli
stimoli sono intensi o fastidiosi, mentre in altri casi è più frequente il meccanismo di abituazione.

- 5.2 Condizionamento classico


Perché il nostro cuore batte più forte quando la colonna sonora di un film horror suggerisce che sta per
succedere qualcosa di spaventoso? In qualche modo il corpo impara a produrre una risposta fisiologica (battito
cardiaco) quando un evento situazionale (musica paurosa) è associato ad un altro evento (stimolo visivo
spaventoso). Questo tipo di apprendimento è definito condizionamento classico, una forma base di
apprendimento in cui uno stimolo o evento predice il verificarsi di un secondo stimolo o evento. L’organismo
dunque apprende una nuova associazione tra due stimoli.

5.2.1 L’esperimento di Pavlov


Il fisiologo russo Ivan Pavlov stava fu il primo studioso del condizionamento classico (e per questi studi vinse il
premio Nobel nel 1904). Pavlov aveva sviluppato una tecnica per studiare i processi digestivi nei cani inserendo
alcune fistole nelle ghiandole salivari e negli organi digestivi al fine di deviare le secrezioni corporee in
contenitori esterni e poterle così analizzare. Per attivare queste secrezioni, i cani venivano nutriti con carne
liofilizzata. Dopo un certo numero di volte, Pavlov osservò che i cani iniziavano a salivare prima di essere
nutriti: inizialmente la salivazione compariva alla vista del cibo, poi alla vista dell'assistente che portava il cibo e
poi al rumore dei suoi passi. Pavlov continuò a studiare le variabili che influenzano il comportamento
condizionato, chiamato anche condizionamento pavloviano in onore della sua scoperta.
Pavlov seguì una strategia semplice volta a scoprire le condizioni necessarie che determinavano la salivazione
nei cani: i cani venivano collocati in imbracature che impedivano loro di muoversi. A intervalli regolari, uno
stimolo acustico precedeva la presentazione di cibo al cane. Lo stimolo acustico era neutro, cioè non aveva
alcun significato per il cane. La prima reazione del cane allo stimolo fu solo una risposta di orientamento
(rizzarono le orecchie verso il suono), ma dopo ripetute associazioni tra suono e cibo, la risposta di

33
orientamento lasciò il posto alla salivazione. Dunque Pavlov dimostrò che non era frutto del caso ma che il
fenomeno poteva essere replicato in condizioni controllate.
Un riflesso è una risposta innescata naturalmente, attivata o elicitata, da stimoli specifici biologicamente
rilevanti per l’organismo. Qualsiasi stimolo che attiva un riflesso sul piano fisiologico è definito stimolo
incondizionato (SI), poiché il comportamento di risposta si verifica in presenza dello stimolo senza necessità di
apprendimento. Il comportamento attivato da uno SI è definito risposta incondizionata (RI).
Uno stimolo inizialmente neutro, chiamato stimolo condizionato (SC), è in grado di attivare un comportamento
a condizione che sia associato ad un SI. Dopo diverse prove sperimentali, lo SC produsse una risposta che
Pavlov chiamò risposta condizionata.
In sintesi, la biologia fornisce le connessioni SI-RI, mentre l’apprendimento prodotto dal condizionamento
classico crea le connessioni SC-RC.

5.2.2 Processi di condizionamento


 Acquisizione ed estinzione
L’acquisizione è il processo attraverso cui la RC è inizialmente attivata e aumentata gradualmente di frequenza
in seguito a prove ripetute. In generale, SC e SI devono essere accoppiati molte volte prima che lo SC attivi una
RC affidabile. Nel condizionamento classico, la contiguità temporale (timing) è fondamentale; SC e SI devono
essere presentati in tempi abbastanza vicini per essere percepiti dall’organismo come associati. I ricercatori
hanno individuato quattro tipologie di marche temporali tra i due stimoli:
1. Condizionamento ritardato: SC compare prima di SI e rimane fino a quando quest’ultimo viene
presentato. Questo modello è quello maggiormente utilizzato e il più efficace.
2. Condizionamento a traccia: lo SC è discontinuo o scompare prima che appaia lo SI.
3. Condizionamento simultaneo: SC e SI sono presentati nello stesso momento.
4. Condizionamento retrogrado: SC è presentato dopo lo SI.
Cosa succede quando lo SC non è più associato allo SI? In tale circostanza, la RC diventa più debole nel tempo
fino a scomparire. Quando la RC non compare più in presenza dello SC (e in assenza di SI) siamo di fronte ad un
fenomeno di estinzione. Dunque le RC non sono necessariamente un aspetto permanente.
La RC ricompare in forma debole quando lo SC è presentato nuovamente. Pavlov ha definito questa parziale
ricomparsa della RC dopo un periodo di riposo, senza ulteriori esposizioni a SI, come recupero spontaneo.
Quando dopo l’estinzione l’associazione SC-SI è rinnovata, l’apprendimento è molto più rapido. Questo veloce
riapprendimento è un esempio di risparmio: è necessario molto meno tempo per acquisire nuovamente una
risposta rispetto ad acquisirla per la prima volta.
 Generalizzazione dello stimolo
Supponiamo di aver addestrato il cane ad associare uno stimolo acustico alla comparsa di cibo; la risposta del
cane sarà specifica a quel determinato stimolo? In realtà, una volta che una RC è stata associata a un dato SC,
stimoli simili potrebbero attivare la medesima risposta. Questa estensione della risposta agli stimoli che non
sono mai stati associati con l’originale SI, è chiamato generalizzazione dello stimolo. L’esistenza di gradienti di
generalizzazione indica il modo in cui il condizionamento classico svolge la sua funzione nell’esperienza
quotidiana. Poiché in nauta raramente gli stimoli significativi si presentano ogni volta nella stessa modalità, la
generalizzazione dello stimolo produce un margine di flessibilità che estende la portata dell’apprendimento
oltre la specifica esperienza di partenza. Grazie a questa funzione, è possibile individuare, nonostante le
differenze apparenti, eventuali comunanze di senso, o significatività comportamentali tra eventi nuovi ma
analoghi. Per esempio anche quando un predatore produce un suono leggermente differente, la sua preda è
comunque in grado di riconoscerlo.
 Discriminazione dello stimolo
In alcune circostanze, è importante che una risposta possa essere attivata esclusivamente per una serie di
stimoli molto limitata. La discriminazione dello timolo è il processo attraverso il quale un organismo impara a
rispondere in modo diverso a stimoli in qualche modo distinti da SC per qualche dimensione (per esempio

33
differenze di tonalità o altezza del suono). La capacità di un organismo di discriminare fra stimoli simili può
essere affinata tramite esercizi in cui solo uno di essi è associato allo SI e gli altri sono presentati da soli. Nelle
prime fasi di condizionamento, stimoli simili al SC attivano una risposta simile, anche se non altrettanto forte.
Con il proseguire degli esercizi di discriminazione, le risposte agli stimoli differenti si indeboliscono: l’organismo
apprende gradualmente quale specifico segnale predice la comparsa dello SI e quali segnali sono invece
irrilevanti. Per un organismo che deve agire in modo ottimale con l’ambiente, generalizzazione e
discriminazione devono trovare un equilibrio; non si deve essere troppo selettivi perché si potrebbe non
riuscire a individuare un predatore, ma non si deve generalizzare troppo per non sprecare tempo ed energie.

5.2.3 Il processo di acquisizione


Pavlov credeva che il condizionamento classico derivasse dalla semplice contiguità di SC e SI e questa teoria
dominò fino alla metà degli anni 60 quando Robert Rescorla (1966) condusse un esperimento molto
importante ancora con i cani. Nella prima fase dell’esperimento, Rescorla addestrò i cani a saltare una barriera
all’interno di una gabbia: chi non saltava prendeva la scossa. Una volta che i cani impararono a saltare
regolarmente la barriera, Rescorla divise i cani in due gruppi:
 In un gruppo lo SI (scossa elettrica) era inviato in modo causale e indipendente dallo SC (stimolo
acustico). Sebbene SC e SI spesso comparissero casualmente ravvicinanti nel tempo, lo SI era
presentato con la stessa probabilità in assenza dello SC o in sua presenza, pertanto lo SC non aveva
alcun valore predditivo.
 Nell’altro gruppo lo SI seguiva sempre lo SC. Per questo gruppo dunque, il suono dello stimolo era un
predditore affidabile alla comparsa della scossa.
Una volta completato questo addestramento, i cani vennero collocati di nuovo quella gabbia ma questa volta lo
stimolo acustico appariva soltanto occasionalmente. I cani sottoposti alla relazione SC-SI contingente saltavano
più frequentemente in presenza dello stimolo rispetto a quelli sottoposti alla relazione SC-SI occasionale.
Pertanto, oltre al fatto che SC deve essere contiguo (comparire in un tempo ravvicinato) allo SI, per
determinare l’attivazione del condizionamento classico, il primo deve essere un predittore affidabile
dell’occorrenza del secondo. Già questo risultato fu di notevole importanza.
Inoltre lo stimolo deve essere informativo rispetto all’ambiente. Consideriamo la situazione in cui alcuni ratti
hanno imparato che uno stimolo acustico predice una scossa elettrica; aggiungiamo poi uno stimolo luminoso,
in modo che entrambi (suono e luce) predicano la scossa. Quando lo stimolo luminoso è presente da solo, i ratti
non sembrano aver appreso che la luce predice la scossa. Per questi animali, il precedente condizionamento
per lo stimolo acustico realizzato nella prima fase, ha bloccato ogni condizionamento successivo relativo alla
presenza dello stimolo luminoso. Dal punto di vista del ratto il secondo stimolo potrebbe non essere mai
esistito, dato che non fornisce alcuna informazione oltre a quella già fornita dallo stimolo acustico. Dunque,
uno stimolo tende ad essere notato più rapidamente quanto più è intenso e quanto più si mostra in contrasto
con altri stimoli. In questo caso parliamo di salienza dello stimolo.
Il condizionamento classico dunque è più complesso rispetto a quello che Pavlov aveva inizialmente pensato:
uno stimolo neutro diventerà un effettivo SC solo se sarà allo stesso tempo contingente e informativo.

- Condizionamento operante
5.3.1 La legge dell’effetto
Approssimativamente nello stesso periodo in cui Pavlov scopriva il condizionamento classico per indurre la
salivazione nei cani, Thorndike osservava il comportamento dei gatti che cercavano di uscire da una gabbia-
problema: per uscire dalla gabbia e ottenere il cibo, il gatto doveva agire su un meccanismo che, rilasciando un
peso, avrebbe aperto la porta. Inizialmente i gatti si dibattevano contro la situazione di prigionia ma, una volta
che azioni “impulsive” permisero loro di aprire la porta, “tutti gli altri impulsi privi di effetti furono estinti, e
l’impulso particolare che aveva portato al successo venne fissato grazie al piacere che ne risultò”.
L’apprendimento era derivato dall’associazione tra lo stimolo fornito dalla situazione e la risposta che l’animale

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aveva imparato a dare: una connessione stimolo risposta (S-R). I gatti quindi avevano imparato a produrre una
risposta adeguata (agganciare con la zampa un bottone o un occhiello) che in questa situazione (la prigionia)
portava ad un esito desiderato (temporanea libertà). Si noti che l’apprendimento di queste connessioni S-R
avveniva gradualmente e in modo automatico man mano che l’animale, attraverso un meccanismo di prove ed
errori, sperimentava le conseguenze delle sue azoni. Pian piano i comportamenti che avevano portato a
conseguenze soddisfacenti aumentavano la loro frequenza; essi infine diventavano la risposta dominante
quando l’animale era chiuso nella gabbia-problema. Thorndike chiamò legge dell’effetto questa relazione tra il
comportamento e le sue conseguenze: una risposta seguita da esiti (effetti) soddisfacenti diventa più probabile,
mentre una risposta seguita da conseguenze spiacevoli diventa meno probabile.

5.3.2 Analisi sperimentale del comportamento


Skinner condivideva la prospettiva di Thorndike secondo cui le conseguenze ambientali esercitano un forte
effetto sul comportamento. Per analizzare sperimentalmente il comportamento, Skinner sviluppò le procedure
del condizionamento operante, nelle quali manipolò le conseguenze del comportamento di un organismo al
fine di valutarne l’effetto sul comportamento successivo. Un comportamento operante è qualunque tipo di
comportamento messo in atto dall’organismo in grado di produrre effetti osservabili sull’ambiente.
Letteralmente “operante” significa “che opera sull’ambiente” e in quanto tale ha un effetto su di esso. I
comportamenti operanti non sono attivati da riflessi come quelli previsti dal condizionamento classico. I
piccioni beccano, i ratti cercano il cibo, i bambini piangono e fanno versi… la probabilità che questi
comportamenti si verifichino in futuro può essere aumentata o ridotta manipolando gli effetti che hanno
sull’ambiente: se il vocalizzo di un bambino produce come effetto il contatto desiderato con i genitori, egli
produrrà quel vocalizzo più spesso in futuro. Il condizionamento operante quindi, modifica le probabilità del
verificarsi di diversi tipi di comportamento operante in funzione delle conseguenze che essi producono
sull’ambiente.
Per portare avanti la sua analisi sperimentale, Skinner inventò un apparecchio che gli
permetteva di manipolare le conseguenze del comportamento: la Skinner box o camera
operante. Quando, dopo aver prodotto un comportamento adeguato definito dallo
sperimentatore, un ratto preme una leva, il meccanismo fornisce una porzione di cibo.
Questo strumento permette allo sperimentatore di studiare le variabili che portano i ratti
a imparare il comportamento da loro definito.
In molti esperimenti operanti, la misura dell’interesse da parte dell’animale è rappresentata da quante volte si
verifica un suo particolare comportamento in un dato periodo di tempo. I ric4ercatori registrano gli schemi e la
quantità di comportamento prodotti nel corso dell’esperimento. Questa metodologia permise a Skinner di
studiare l’effetto del rinforzo sul comportamento dell’animale.

5.3.3 Il meccanismo di rinforzo


Il meccanismo di rinforzo si genera grazie ad un’associazione ripetuta tra una risposta e il cambiamento che
essa produce nell’ambiente. Immaginiamo un esperimento nel quale la beccata di un piccione su un bottone (la
risposta) sia generalmente seguita dall’emissione di cibo (il corrispondente cambiamento nell’ambiente). Tale
relazione costante, o rinforzo, sarà solitamente accompagnato da un aumento della frequenza delle beccate.
Affinché l’erogazione di cibo provochi un aumento della probabilità limitata alle beccate, deve essere
contingente soltanto alla risposta del beccare: il cibo deve essere fornito regolarmente dopo questa risposta
ma non dopo altre risposte.
 Rinforzi positivi e negativi
I rinforzi sono sempre definiti empiricamente, nei termini dei loro effetti nel modificare la probabilità di una
risposta. Esistono tre classi di stimoli:
1. Quelli verso cui si è neutrali
2. Quelli che ci risultano appetitivi perché piacevoli

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3. Quelli avversivi (che si vogliono evitare)
Chiaramente la composizione di queste tre classi non è la stessa per tutti gli individui: cosa sia piacevole o
spiacevole è definito da un singolo organismo.
Quando un comportamento è seguito dall’erogazione di uno stimolo piacevole, si parla di rinforzo positivo;
quando un comportamento è seguito dalla rimozione di uno stimolo spiacevole, si parla di rinforzo negativo. Ci
sono due circostanze al quale si applica il rinforzo negativo:
 Nel condizionamento operante di fuga: gli organismi imparano che una risposta permetterà loro di
scappare ad uno stimolo avversivo (per esempio usare l’ombrello durante un acquazzone)
 Nel condizionamento operante di evitamento: gli organismi imparano le risposte che consentono loro
di evitare gli stimoli spiacevoli prima ancora che appaiano (per esempio se la macchina emette un
segnale acustico quando non allacciate la cintura di sicurezza, avrete imparato di allacciarla prima di
sentire quel suono fastidioso).
Per distinguere tra rinforzo positivo e negativo è bene ricordare che entrambi aumentano la probabilità del
verificarsi della risposta che li precede, ma il rinforzo positivo aumenta la probabilità facendo seguire la risposta
di uno stimolo piacevole mentre quello negativo fa lo stesso attraverso la riduzione, la rimozione o
l’evitamento preventivo di uno stimolo spiacevole.
Come nel condizionamento classico, se si rimuove il rinforzo nel condizionamento operante avviene
l’estinzione della risposta operante. Quindi, se un comportamento smette di produrre conseguenze prevedibili,
si estingue. Inoltre, anche nel condizionamento operante si verifica il recupero spontaneo. Immaginate di aver
rinforzato il comportamento di un piccione quando ha beccato la luce verde. Se smettiamo di rinforzare questo
comportamento, questo si estinguerà. Tuttavia, la volta successiva se riaccendiamo la luce verde, esso
ricomincerà spontaneamente a beccare il pulsante, manifestando così un recupero spontaneo.
 Punizioni positive e negative
Esiste un’altra tecnica che porta alla diminuzione della probabilità che una risposta si verifichi: la punizione.
Uno stimolo punitivo è qualunque stimolo che, somministrato in modo contingente ad una risposta,
diminuisce la probabilità che quella risposta si verifichi. Esistono due tipi di punizione:
 Punizione positiva: quando un comportamento è seguito dalla somministrazione di uno stimolo
spiacevole; così la probabilità di quel comportamento diminuisce (toccare una stufa bollente produce
dolore quindi impareremo a non toccare le stufe bollenti)
 Punizione negativa: quando un comportamento è seguito dalla rimozione di uno stimolo piacevole;
così la probabilità di quel comportamento diminuisce (il genitore toglie la paghetta al figlio per aver
picchiato il fratellino minore. Il bambino impara che non deve più picchiare il fratellino).
Sebbene punizioni e rinforzi siano operazioni strettamente legate, ci sono importanti differenze. Un buon modo
per distinguerli è categorizzarli sulla base che hanno sul comportamento: la punizione riduce la probabilità che
una risposta si verifichi nuovamente, il rinforzo la aumenta.
 Stimoli discriminativi e generalizzazione
In genere non vogliamo cambiare la probabilità del verificarsi di un certo comportamento allo stesso modo in
tutte le situazioni ma vogliamo piuttosto modificarla all’interno di un determinato contesto. Attraverso
l’associazione con rinforzi e punizioni, alcuni stimoli che precedono una particolare risposta creano il contesto
per quel comportamento: si tratta degli stimoli discriminativi. Gli
organismi imparano che, in presenza di alcuni stimoli ma non di
altri, il loro comportamento produrrà un particolare effetto
sull’ambiente. Skinner chiamò contingenza a tre termini la
sequenza composta da stimolo discriminativo-comportamento-
conseguenza. Egli sostenne che questa sequenza potesse spiegare
la maggior parte dell’agire umani, un concetto fondamentale nelle
teorie comportamentiste. La tabella descrive come la contingenza
a tre termini spieghi diversi tipi di comportamento.

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Gli organismi spesso generalizzano le risposte a stimoli che somigliano a quelli discriminativi. Una volta che una
risposta è stata rinforzata in presenza di uno stimolo discriminativo, uno stimolo simile potrebbe diventare
discriminativo per la stessa risposta. Per esempio se i piccioni sono addestrati a beccare un bottone in presenza
di una luce verde, beccheranno anche in presenza di luci con tonalità di verde chiaro o scuro.

5.3.4 Proprietà dei rinforzi


I rinforzi sono i mediatori più potenti del condizionamento operante: cambiano o mantengono inalterato il
comportamento. Essi hanno una serie di proprietà interessanti e complesse. Possono essere appresi con
l’esperienza o possono essere biologicamente determinati, possono essere attività oppure oggetti. In alcune
situazioni anche i rinforzi più potenti possono non essere sufficienti a modificare uno schema comportamentale
dominante.
 Rinforzi condizionati
Quando veniamo al mondo, esiste una serie di rinforzi primari come cibo o acqua, le cui proprietà di rinforzo
biologicamente determinate. Con il passare del tempo tuttavia, stimoli altrimenti neutri si associano ai rinforzi
primari e fungono da rinforzi condizionati per le risposte operanti. Questi possono diventare fini a se stessi:
denaro, voti, sorrisi di approvazione e diverse forme di status symbol, rientrano tra i rinforzi condizionanti più
potenti e influenzano la maggior parte del nostro comportamento.
Teoricamente qualsiasi stimolo può diventare uno rinforzo condizionato se lo si associa ad un rinforzo primario;
Cowles in un esperimento (1937), usò l’uva passa come rinforzo primario per addestrare gli scimpanzé a
risolvere alcuni problemi. In seguito oltre all’uva passa, gli furono forniti dei gettoni. Quando furono presentati
solo i gettoni gli scimpanzé continuavano a lavorare per ottenere la loro “paga” perché i gettoni guadagnati
potevano successivamente essere depositati in un dispositivo che permetteva di scambiare gettoni con l’uva.
Gli sperimentatori considerarono i rinforzi condizionati più facili da usare rispetto ai primari perché:
1. I rinforzi primari immediatamente disponibili in una situazione sperimentali sono pochi;
2. I rinforzi condizionati possono essere dispensati con rapidità;
3. I rinforzi condizionati sono facilmente replicabili;
4. L’effetto rinforzante dei rinforzi condizionati è più immediato perché dipende solo dalla percezione di
averli ricevuti e non da processi biologici come nel caso dei rinforzi primati.
 Deprivazione della risposta e rinforzi positivi
Secondo la teoria della deprivazione della risposta, se ad un individuo viene vietato di mettere in atto un dato
comportamento al livello desiderato, tale comportamento diventa desiderabile e, di conseguenza la
deprivazione funziona da rinforzo. Per esempio, ratti deprivati dell’acqua imparano a correre di più nella ruota
quando la corsa è seguita dall’opportunità di bere; al contrario, ratti deprivati della possibilità di correre
impareranno a bere di più quando questa risposta è seguita dalla possibilità di correre.
Queste osservazione suggeriscono due conclusioni importanti:
1. Non si può presupporre che la medesima attività funga da rinforzo per ogni animale in qualunque
situazione; è necessario sapere per esempio se l’animale si trova in uno stato di deprivazione di cibo
prima di decidere di usare il cibo come rinforzo.
2. Teoricamente, ogni attività può funzionare come rinforzo.

5.3.5 Schemi di rinforzo


Durante un fine settimana, Skinner rimase isolato in laboratorio senza cibo sufficiente per i suoi animali. Fece
dunque economia dando le ricompense ai ratti solo dopo un certo intervallo di tempo, non importava quanto
premessero il pulsante. Con questo schema di rinforzo parziale, osservò che i ratti ebbero un tasso di risposta
equivalente a quello che ottenevano con il rinforzo continuo. Che cosa sarebbe successo quando si sottoposero
questi animali a un trattamento di estinzione , quindi, le loro riesposte non furono seguite da nessuna
ricompensa? Ratti, il cui comportamento era stato parzialmente rinforzato, continuarono a rispondere più a
lungo e più intensamente rispetto a quelli che avevano ricevuto un rinforzo continuativo.

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La scoperta importante di Skinner riguardo l’efficacia dei rinforzi parziali, portò allo studio sistematico degli
effetti dei diversi schemi di rinforzo sul comportamento umano. Nella vita reale o in laboratorio, i rinforzi
possono essere somministrati secondo:
 Uno schema a rapporto (dopo un certo numero di risposte)
 Uno schema a intervallo (in seguito alla prima risposta dopo un intervallo di tempo specifico).
In ognuno dei due casi può verificarsi:
 Uno schema di rinforzo fisso (costante)
 Uno schema di rinforzo variabile (irregolare)
Le combinazioni danno vita in tutto a quattro tipi principali di schema di rinforzo.
 Schemi a rapporto fisso
Negli schemi a rapporto fisso (RF), il rinforzo è somministrato alla prima risposta seguita dopo un determinato
numero di risposte. Quando il rinforzo segue la singola risposta è chiamato RF-1, quando il rinforzo viene
erogato per esempio ogni 25 risposte, è chiamato RF-25 e così via. Questi schemi producono tassi di risposta
molto alti perché esiste una correlazione diretta tra la risposta e il rinforzo. Un piccione in un dato periodo di
tempo, può ricevere quanto cibo vuole, purché becchi con frequenza sufficiente. Gli schemi RF generano una
pausa dopo che viene somministrato ogni rinforzo; più alto è il rapporto, più lunga è la pausa. Allungare
eccessivamente il rapporto (richiedere un numero troppo alto di risposte prima dell’erogazione del rinforzo)
senza aver allenato prima l’animale a produrre così tante risposte, può portare all’estinzione.
 Schemi a rapporto variabile
Negli schemi a rapporto variabile (RV), il rinforzo è somministrato in seguito alla prima risposta fornita dopo un
numero variabile di risposte la cui media è prestabilita. Uno schema RV-10 significa che in media il rinforzo
viene somministrato ogni 10 risposte. Questi schemi producono il tasso di risposta in assoluto più alto e la più
forte resistenza all’estinzione. Un esempio di RV è il gioco d’azzardo: la risposta “inserire i gettoni nelle slot-
machine” è mantenuta alta e costante dalla vincita, che è erogata solo dopo un numero sconosciuto e variabile
ma prestabilito di gettoni inseriti. Gli schemi RV lasciano la libertà di indovinare quando verrà elargito il premio.
 Schemi a intervallo fisso
Negli schemi a intervallo fisso (IF), il rinforzo è somministrato in seguito alla prima risposta fornita dopo un
intervallo di tempo costante e prestabilito. In uno schema IF-10 il soggetto, dopo aver ricevuto il rinforzo,
dovrà attendere 10 secondi prima che un’altra risposta sia rinforzata. Il tasso di risposta all’interno di uno
scema IF segue un andamento a smerlo. Subito dopo ogni rinforza rinforzata l’animale rende meno, e
all’avvicinarsi del rinforzo successivo le risposte aumentano progressivamente.
In una partita di basket, si osserva uno schema IF-24, poiché ogni azione di gioco ha un limite massimo di
durata pari a 24 secondi. Con l’approssimarsi dello scadere del tempo, i giocatori sono costretti ad aumentare i
ritmi di gioco per cercare di andare a canestro.
 Schemi a intervallo variabile
Negli schemi a intervallo variabile (IV), il rinforzo è somministrato in seguito alla prima risposta fornita dopo un
intervallo di tempo variabile, la cui media è prestabilita. Per esempio uno schema IV-20, i rinforzi sono forniti a
un tasso medio di 1 ogni 20 secondi. Il tasso di risposta è moderato ma costante e l’estinzione è più lenta e
graduale di quanto avviene in uno schema IF. Un esempio di IV sono i test a sorpresa a scuola; probabilmente
se non studiavate di volta in volta gli appunti, avete cambiato abitudini.

5.3.6 Modellamento (shaping)


Finora si è parlato di ratti che premevano una leva per ottenere cibo, tuttavia anche premere la leva è un
comportamento appreso. Per addestrare il ratto all’esecuzione di comportamenti nuovi e complessi, dovrete
utilizzare un metodo chiamato modellamento: si rinforza ogni risposta che in modo progressivo si avvicina e
infine ricalca il comportamento desiderato. Questo processo dunque consiste nel definire che cosa costituisce
un progresso verso il risultato desiderato e nell’utilizzare un rinforzo per perfezionare ogni passaggio lungo il
percorso di apprendimento.

33
Le due forme di apprendimento che abbiamo visto, condizionamento classico e condizionamento operante,
sono le modalità fondamentali attraverso cui si è espresso l’approccio dell’apprendimento associativo, che ha
contraddistinto le prime teorie comportamentiste. Si tratta di una teoria meccanicistica poiché la contiguità
temporale e spaziale e la contingenza fra stimoli e risposte agiscono in modo automatico e di necessità. In
questo quadro teorico, l’apprendimento è misurato come variazione delle risposte comportamentali dopo la
situazione di stimolazione è l’organismo è essenzialmente passivo nel processo di apprendimento.
Fino a qualche decennio fa si ipotizzava che l’apprendimento associativo potesse spiegare ogni forma di
apprendimento, ma come vedremo è stato dimostrato che tale presupposto è limitato e parziale.

- 5.4 Imprinting e apprendimento


L’apprendimento spesso è un processo sociale fondato sull’interazione fra due o più organismi. Fra i diversi
fenomeni osservati in ambito etologico, quello probabilmente più noto è il tipo di apprendimento chiamato
imprinting. L’imprinting è un apprendimento precoce da parte degli animali appena nati (come i pulcini) che
dimostrano una relazione di inseguimento verso il primo oggetto mobile che vedono e sentono.
 L’oca di Lorenz e il pulcino intelligente
La storia dell’oca di Lorenz è passata alla storia per aver riconosciuto come madre l’etologo austriaco. Con i
suoi esperimenti sugli uccelli, Lorenz dimostrò che il fenomeno dell’imprinting funziona solo in un periodo
critico, periodo breve che corrisponde alle prime fasi di sviluppo del neonato. Questi assimila l’informazione di
“mamma” per un lunghissimo periodo di tempo se non per tuta la vita. Secondo Lorenz, l’imprinting è un
apprendimento qualitativamente diverso da quello associativo, e la costruzione di questo legame sociale
sarebbe guidata da meccanismi predisposti geneticamente.
Attraverso studi condotti in laboratorio, ricercatori hanno mostrato che l’approccio classico di Lorenz era
incompleto o perfino non corretto, dato che questo tipo di apprendimento non avviene né rapidamente né in
maniera irreversibile. Inoltre, al contrario di quanto sostenuto da Lorenz, sembra che l’imprinting non sia
circoscrivibile a un vero periodo critico; in particolare il concetto di periodo critico è stato rinominato periodo
sensibile, per indicare il periodo in cui le influenze ambientali sono più efficaci per l’apprendimento di
conoscenze e abilità. Tale concetto è esteso almeno in parte anche alla specie umana; per esempio, Bowlby ha
osservato che il secondo semestre di vita è un periodo sensibile per lo sviluppo di un legame di attaccamento
da parte del bambino nei confronti della madre.
In un altro esperimento, l’imprinting è stato usato per studiare le capacità di apprendimento nei pulcini. Dopo
la schiusa, i pulcini erano esposti al fenomeno dell’imprinting con una pallina rossa, che riconoscevano come
“mamma”. Spostando la pallina dietro uno schermo opaco, i pulcini seguivano e raggiungevano la mamma. Poi
si chiudeva il pulcino in un box trasparente dal quale poteva osservare la pallina rossa andare a nascondersi
dietro uno schermo opaco (diverso da quello usato in precedenza). Dopo un certo intervallo di tempo, il
pulcino veniva liberto e riusciva immediatamente a trovare la sua “mamma”. Questo esperimento ha
dimostrato che il pulcino è in grado di ricordarsi l’informazione “posizione dietro lo schermo opaco” e che è in
grado di aggiornare prova dopo prova tale informazione. Il test ha inoltre evidenziato che i pulcini sono in
grado di mantenere un ricordo per intervalli di tempo fino a 60 secondi. Questo comportamento prende il
nome di risposta ritardata ed è stato osservato anche in molte specie di primati, compreso l’uomo.

- 5.5 Apprendimento cognitivo


Nell’opera La doppia Elica, Watson e Crick raccontano come un giorno riuscirono a scoprire la forma del DNA
grazie ad una intuizione (insight). Questi fenomeni costituiscono una difficoltà per il comportamentismo perché
sono manifestazioni difficili da spiegare nei termini di condizionamento skinneriano o pavloviano. Molti
psicologi ritengono che queste intuizioni siano causate da un processo totalmente differente, noto come
aprendimento cognitivo. Secondo la psicologia, alcune forme di apprendimento devono spiegate in termini di
cambiamenti relativi a processi mentali piuttosto che di cambiamenti comportamentale.

33
5.5.1 Apprendimento per insight
Relegato sull’isola di Tenerife durante la prima guerra mondiale, Kohler ebbe molto tempo per pensare al tema
dell’apprendimento. Egli riteneva che la psicologia dovesse riconoscere i processi mentali come una
composizione essenziale dell’apprendimento, anche se gli eventi mentali erano stati rifiutati dai
comportamentisti in quanto ritenuti semplici speculazioni soggettive. Per sostenere tale prospettiva, Kholer si
insediò presso una struttura di ricerca sui primati costruita a Tenerife dal governo tedesco. Lì sottopose a
verifica sperimentale la sua concezione cognitiva dell’apprendimento a partire dall’osservazione del
comportamento stesso. In una serie di studi, Kohler mostrò che gli scimpanzé potevano imparare a risolvere
problemi complessi non solo per prove ed errori ma anche attraverso intuizioni. Uno di questi esperimenti
coinvolse Sultan, uno scimpanzé che aveva imparato sia ad ammucchiare le scatole per raggiungere la frutta in
alto sia ad utilizzare un bastone per prenderla. Quando Kohler sottopose Sultan a un nuovo scenario che
richiedeva di combinare i due apprendimenti (perché la frutta era più in alto), Sultan prima fece qualche
tentativo, poi calciò il muro e si sedette, poi dopo un momento di apparente riflessione (si grattò la testa), riuscì
a raggiungere la frutta. Sultan non aveva mai visto o utilizzato pima di allora queste tecniche. Tale
comportamento, argomentò Kohler, mostrava che gli animali non si limitavano ad utilizzare meccanicamente
risposte condizionate, ma potevano imparare attraverso il processo da lui definito apprendimento per insight,
ossia attraverso la riorganizzazione della propria percezione dei problemi in una data situazione. Secondo
Kohler le scimmie, così come gli esseri umani, imparano a risolvere i problemi percependo improvvisamente
oggetti familiari attraverso nuove forme o relazioni: un processo più mentale che comportamentale.

5.5.2 Le mappe cognitive


Poco dopo gli esperimenti di Kohler, anche i ratti nel laboratorio di Tolman e Berkeley iniziarono ad evidenziare
comportamenti che contrastavano la dottrina comportamentista. Infatti, i ratti riuscivano a esplorare i labirinti
come se seguissero una “mappa” mentale piuttosto che eseguendo meccanicamente una serie di
comportamenti appresi.
 Immagini mentali
A livello psicologico, una mappa cognitiva genera un’immagine mentale che un organismo usa per poter
muoversi all'interno di un ambiente familiare. Una mappa cognitiva, argomentò Tolman, è l’unico modo di
rendere conto di come un ratto riuscisse a selezionare velocemente un percorso alternativo in un labiritno
quando la strada usuale per raggiungerlo era bloccata. Di fatto, i ratti spesso sceglievano la deviazione più
breve introno ad una barriera anche se la scelta di quel particolare percorso non era stata precedentemente
rinforzata. Piuttosto che esplorare ciecamente le diverse parti del labirinto per prove ed errori (come
prevedeva il comportamentismo) i ratti di Tolman si comportavano come se fossero in possesso di una
rappresentazione mentale del labirinto. Per supportare ulteriormente l’ipotesi che l’apprendimento fosse
mentale anziché comportamentale, Tolman compì un altro esperimento: dopo che i suoi ratti ebbero imparato
a percorrere un labirinto, lo riempì d’acqua e dimostrò che i ratti erano capaci di nuotare nel labirinto. Ancora
una volta questo evidenziò che gli animali avevano appreso dei concetti, non solo comportamentali.
 Apprendimento in assenza di rinforzo
In uno studio ulteriore che scorre ancora di più le fondamenta del comportamentismo, Tolman permise ai suoi
ratti di vagare liberamente per molte ore all’interno di un labirinto. Durante questo periodo i ratti non
ricevettero rinforzi (essenziali per l’apprendimento secondo i comportamentisti), questi ratti impararono a
muoversi all’interno del labirinto per cercare cibo più rapidamente di altri ratti che non avevano mai esplorato
il labirinto prima. Dunque, anche se la prima esperienza non era stato possibile individuare nessun indice di
apprendimento, i ratti avevano imparato qualcosa. Tolman definì questo processo apprendimento latente.
 L’importanza del lavoro di Tolman
Se da un lato, accettò che gli psicologi avrebbero dovuto studiare il comportamento osservabile, dall’altro
dimostrò che le semplici associazioni tra stimolo e risposta non erano in grado di spiegare il comportamento
osservato nei suoi esperimenti. Le sue teorie dunque rappresentarono una sfida al comportamentismo.

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- 5.6 Apprendimento situato, simulazione ed esperienza
Secondo il senso comune, l’apprendimento è una sorta di “contenitore” da riempire con gli insegnamenti
formali compiuti da chi è esperto (genitori, insegnanti, scienziati..). Questa visione racchiude una netta
dicotomia tra chi è attivo con la funzione di docente (l’esperto) e chi è passivo con la posizione di ricezione di
informazione (il novizio). Quest’ultimo è considerato una specie di lavagna sui cui l’esperto traccia le
conoscenze o le attività che sono oggetto di insegnamento. Da questo punto di vista l’apprendimento sarebbe
una fotocopia e si riduce alla ripetizione fedele di ciò che l'insegnante ha trasmesso. Tale concezione
meccanicistica oggi è radicalmente superata. In particolare l’apprendimento avviene sempre in un contesto
fisico e relazionale in cui esperto e novizio sono entrambi protagonisti nel tessere in modo sinergico la tela
dell’apprendimento. Essi sono necessariamente interdipendenti, poiché gli esperti insegnno per quanto gli
utenti sono in grado di assimilare e viceversa. Si parla in tal senso di apprendimento situato, intreso come un
apprendimento legato ad una specifica situazione e immerso in un dato contesto immediato. In particolare, il
contesto va considerato come la matrice dei significati: l’insieme delle condizioni che rendono intelligibili i
contenuti delle attività proposte, in grado di attribuire versatilità alle conoscenze, di volta in volta, apprese.
L’apprendimento situato garantisce un’esperienza interattiva e aperta, dotata di ricchezza discorsiva e
argomentativa, dove il fruitore vi partecipa con identità, con il proprio livello di conoscenze e quindi secondo il
proprio background. È un’attività dunque individualizzata ma anche socializzata poiché implica la condivisione
dei risultati e delle eventuali difficoltà.
 Apprendimento latente, conoscenza tacita e apprendimento riflessivo
L’apprendimento situato è un apprendimento contingente, ossia legato a determinate circostanze (contesti)
che pongono in modo inevitabile vincoli e opportunità. L’apprendimento contingente (ubiquitario e perenne),
accanto a forme esplicite e formali, comporta ampie zone di apprendimento latente (o nascosto), esaminato in
modo sistematico da Tolman. Come abbiamo visto, egli ha osservato che i ratti apprendono la mappa del
labirinto senza alcun tipo di rinforzo. Duque, l’osservazione dell’ambiente, l’esposizione ed esplorazione,
l’esecuzione di azioni anche casuali, costituiscono premesse rilevanti per l’apprendimento latente. Esso emerge
in modo esplicito e robusto di fronte a una necessità.
Un risultato rilevante dell’apprendimento latente, è l’acquisizione di una mole rilevante di conoscenze tacite. In
effetti noi conosciamo molto più di quel che riusciamo a dire. Si tratta di una conoscenza individuale implicita,
non facile da codificare, trasmettere e condividere. È assai difficile (in alcuni casi impossibile) da descrivere per
iscritto in modo dettagliato. Essa fa riferimento alle conoscenze procedurali (come eseguire un certo
procedimento produttivo o confezionare un prodotto) assai diverse dalle conoscenze dichiarative ed esplicite.
La conoscenza tacita è una conoscenza “in pratica”, immersa nell’esperienza, fondamentale per avere successo
nell’ambiente di riferimento. Essa si fonda su training e può essere appresa e condivisa solamente attraverso
l’apprendistato. Durante tale periodo, l’osservazione attenta, l’imitazione accurata di modelli (esperti) e una
profonda interazione con loro consentono al novizio di appropriarsi e produrre strategie e accorgimenti. Per
secoli, l’educazione ha seguito questo modello, quando il maestro bottega rappresentava l’enciclopedia delle
conoscenze da imparare.
A questo riguardo, l’apprendimento situato consente di condividere le conoscenze tacite nella comunità
(ospedale, azienda, esercito..). Esso facilita altresì l’esplicitazione di tali forme di conoscenza, promuovendo
così importanti percorsi di apprendimento riflessivo. Già Dewey (1909) sosteneva che imparare dall’esperienza
significa stabilire una connessione all’indietro (relativa al passato) e in avanti (rivolta al futuro) fra ciò che
facciamo con le cose e ciò per cui siamo soddisfatti o insoddisfatti delle cose fatte. Abbiamo così un ciclo di
apprendimento nel quale lo svolgimento delle attività è seguito da una fase di valutazione prima di ritornare
alle attività stesse e all’esperienza. Tale ciclo favorisce l’elaborazione di strategie mentali per incrementare gli
apprendimenti stessi e i cambiamenti a essi connessi. Questo apprendimento riflessivo conduce a sua volta a
forme avanzate di pensiero critico, inteso come la considerazione attiva, scrupolosa e continua di ogni forma di
conoscenza alla luce dei fondamenti che le supportano e delle conclusioni cui esse conducono. Il pensiero
critico è caratterizzato dalla coscienza che la propria azione è inserita in una traiettoria, che concerne lo

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svolgimento di qualsiasi azione nel tempo come pure l’insieme delle azioni e interazioni che contribuiscono alla
sua realizzazione. La consapevolezza della traiettoria attribuisce senso a ciò che facciamo.
 Partecipazione guidata
Questa immersione nella situazione implica una partecipazione profonda dei fruitori nell’apprendimento.
L’apprendimento situato, attraverso questa partecipazione, non è casuale né caotico, bensì ben guidato.
Questa partecipazione guidata implica non solo la distinzione tra esperto e novizio ma anche la condivisione
reciproca di significati e la strutturazione reciproca delle attività di apprendimento. È un apprendimento
partecipe e attivo fondamentale in ogni ambito, soprattutto quello culturale.

- 5.7 Nuove frontiere dell’apprendimento


5.7.1 E-Learning
Con l’avvento delle nuove tecnologie, l’apprendimento ha notevolmente allargato i propri orizzonti. In
particolare oggi si parla di apprendimento elettronico, o e-learning, ovvero la forma di apprendimento che
sceglie come strumento privilegiato la tecnologia. All’interno di questa categoria rientrano:
 Apprendimenti delle tecnologie (per esempio imparare come usare internet)
 Apprendimenti attraverso le tecnologie, come l’apprendimento a distanza (corsi online per esempio)
 Apprendimento online (apprendere e usare un’informazione agendo interamente con il sistema
multimediale)
 Apprendimento delle tecnologie
Di norma, quando si parla di apprendere le tecnologie, l’attenzione è focalizzata sull’esito finale
dell’apprendimento. Tuttavia, l’apprendimento delle tecnologie è un processo che genera cambiamenti
cognitivi interni e che conduce da un lato, all’acquisizione di nuove conoscenze, dall’altro, ad azioni immediate
sul mezzo elettronico. L’apprendimento delle tecnologie fa riferimento un insieme di processi cognitivi di
natura esplicita e implicita, deducibili dalle azioni eseguite sul prodotto tecnologico. Mays e Fowler (1999)
analizzando i vantaggi educativi che propone la tecnologia, hanno individuato alcuni principi:
1. L’apprendimento delle tecnologie implica un cambiamento permanente nella prestazione tecnologica
dell'individuo (fatta eccezione per i casi in cui c’è un rapido declino dell’apprendimento, come quando
si apprende una tecnologia e poi non si mette in pratica);
2. È un apprendimento che avviene in sinergia con altri processi cognitivi, in particolare la memoria;
3. L’ apprendimento delle tecnologie si basa sull’esperienza passata (la velocità con cui riusciamo a
mandare un messaggio da un nuovo cellulare dipende anche da quanto si è appreso dal vecchio);
4. Apprendere le tecnologie comporta una performance sul mezzo, ossia la prestazione su quel particolare
strumento tecnologico determinata dall’insieme delle azioni tecnologiche dell’utente.
La prestazione non viene valutata sulla base di uno standard raggiunto; ciò distingue chiaramente l’
apprendimento delle tecnologie dalle situazioni convenzionali di apprendimento, che si concludono
abitualmente con una valutazione formale. La prestazione tecnologica invece, implica il confronto con i nuovi
prodotti consentendo di creare interazione fra individui e mezzi, ma senza bisogno di valutazioni formali.
 Apprendere attraverso le tecnologie
L’e-learning è un esempio particolare di apprendimento mediato dalle tecnologie che è in parte esterno alla
scuola, in parte interno, in parte una combinazione delle due cose. In particolare, l’apprendimento esterno
risulta essere fortemente contestualizzato (ambiente specifico con uno strumento specifico, piuttosto che in
classe), concreto (si imparano operazioni da applicare al caso specifico piuttosto che a regole astratte), basato
sull’imitazione o sull’esperienza condivisa con un esperto piuttosto che sull’esposizione di una lezione frontale.
Infatti il lavoro individuale richiesto fa riflettere sulla possibilità che il discente impari attraverso l’esperienza.
Inoltre, l’elevata motivazione e la possibilità di scelta di un percorso rispondente ai propri interessi, mette in
luce il ruolo della curiosità e delle emozioni positive nel contesto di e-learning.

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 E-learning e apprendimento tradizionale
Considerato come un apprendimento a distanza, l’e-learning si distingue da forme di autoapprendimento non
guidato. Anche se la figura del tutor o del docente non è presente fisicamente, questa svolge un ruolo
fondamentale nell’e-learning. La mancanza di interazione in uno spazio reale tra lo studente o il gruppo di
studenti e il docente, è sostituita da un’interazione virtuale. Se ben seguita, può non essere un limite ma un
arricchimento. Rispetto all'apprendimento tradizionale, l'e-learning presenta una maggiore frammentazione
dei contenuti, poiché è solitamente costituita dagli oggetti di apprendimento (learning objects), ovvero unità
autonome da assemblarsi in forme molteplici. Tale impostazione, utile e vantaggiosa, si adatta poco però alla
formazione universitaria, dove è richiesta innanzitutto la comprensione dei fondamenti epistemologici di una
disciplina in relazione ad altri campi da sapere.
Inoltre, un altro vantaggio dell’e-learning è la flessibilità e la possibilità di autoregolazione dell’apprendimento,
dal momento che lo studente non è vincolato alla frequentazione di lezioni o incontri con il docente. Questa
assenza di vincoli può essere interpretata anche come assenza di regolarità nel percorso: prova ne è l’alta
percentuale di abbandoni come conseguenza delle sensazioni di isolamento provate dagli studenti ma anche
della loro difficoltà a programmare e monitorare il processo di studio.

5.7.2 Serious Games


La mente simulativa costituisce una disposizione generale che consente agli individui della nostra specie di
riprodurre e anticipare fenomeni dell’esperienza al fine di intervenire opportunatamente secondo quanto
richiesto dalla situazione. I Serious Games rappresentano una manifestazione innovativa e fondamentale della
mente simulativa poiché, essendo in grado di simulare qualsiasi espetto dell’esperienza, sono lo strumento
principale per acquisire e perfezionare competenze in qualsiasi settore dell’esperienza umana. I Serious Games
sono definiti come attività digitali interattive che attraverso la simulazione virtuale consentono ai partecipanti
di fare esperienze precise e accurate, in grado di promuovere attraverso il gioco percorsi attivi, partecipativi e
coinvolgenti di apprendimento nei vari domini dell'esistenza umana. Essi possono riguardare contenuti e
competenze psicologiche molto diverse: in particolare sono in grado di incrementare sia le conoscenze
dichiarative esplicite (storia, fisica, ecc..) sia quelle procedurali in riferimento a “come” si applicano specifiche
conoscenze dichiarative nell’affinamento di una gamma estesa di abilità professionali. I Serious Games hanno
anche la possibilità di promuovere funzioni psichiche fondamentali quali il ragionamento, la presa di decisioni,
la leadership, il governo delle emozioni, la capacità di cooperazione, il lavoro in gruppo, la creatività e
l'innovazione. La combinazione fra simulazione, apprendimento e gioco è la piattaforma di base che consente la
creazione di Serious Games efficaci, idonei a promuovere importanti processi di apprendimento e formazione.
 Componente simulativa
Gli aspetti simulativi dei Serious Games hanno un grado di fedeltà variabile. Essi si distinguono in:
 Alta fedeltà: modellano e producono i fenomeni reali in una modalità attendibile e accurata,
possibilmente completo. Si tratta in particolare di Serious Games “scientifici” (per esempio destinati a
rappresentare organi del corpo o sistemi stellari)
 Bassa fedeltà: riproducono in modo fedele alcuni aspetti dei fenomeni reali tralasciandone altri. Con
Serious Games a bassa fedeltà non conta tanto sulla ripetizione dell’esperienza, bensì la formazione di
competenze generali e trasversali tra di loro (per esempio i Serious Games per il controllo del bullismo)
 Componente ludica
I serious games trovano nel gioco la loro ragione d’essere e un supporto fondamentale. La componente ludica
rappresenta il motore motivazionale in grado di alimentare lo svolgimento dell’apprendimento poiché è fonte
di emozioni positive. Al contempo, il carico cognitivo implicato, diventa occasione di sfida per raggiungere il
traguardo finale e provare la sensazione del successo. Dunque, l’eventuale presenza di un sistema di punteggi e
la valutazione dinamica rafforzano l’impegno e sostengono il livello di gioco, soprattutto quando diventa
complesso.

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 Serious games e apprendimento
I Serious Games sono finalizzati all’apprendimento, anzi si propongono di diventare un nuovo e rilevante
percorso per apprendere conoscenze, competenze, capacità in vari domini dell’esperienza. Per questo motivo,
a differenza dei videogiochi, i Serious Games sono integrati da informazioni che forniscono elementi guida (una
sorta di consegna) in grado di spiegare e illustrare il senso del percorso. Anche la condivisione tra i partecipanti
in un’esperienza multi utente in classe può aumentare la consapevolezza dei processi di apprendimento grazie
agli scambi e ai commenti reciproci. Infine, alcuni aspetti didattici inseriti (come suggerimenti, domande di
riflessione, momenti di approfondimento..) concorrono ad incrementare la consapevolezza
dell’apprendimento.

- 5.8 Valutazione dell'apprendimento


La valutazione è un momento essenziale e critico per ogni forma di apprendimento. Senza di essa è impossibile
accertare i progressi delle persone, fare confronti tra gruppi di allievi o controllare in che modo essi hanno
completato un percorso di apprendimento. In genere, nei sistemi valutativi tradizionali la valutazione
comprende l’interrogazione, il colloquio e vari tipi di test. Queste modalità però presentano il rischio di
distorsioni dovuti ai limiti dell'attendibilità, della validità, degli stati emotivi e della consapevolezza degli
individui della situazione di verifica. I Serious Games hanno offerto un nuovo metodo di valutazione; oltre a
poter impiegare tecniche tradizionali, essi sono in grado di offrire forme più complesse di misurazione, prima
non disponibili, come la valutazione in itinere (alla conclusione di una fase per consentire agli utenti di fare il
punto della situazione) al termine del gioco tramite un punteggio. In questo modo, apprendimento e
valutazione avvengono allo stesso tempo: questa è la valutazione dinamica nella quale al fruitore è fornito
feedback in tempo reale nell’atto stesso in cui sta imparando. L'interdipendenza tra apprendimento e
valutazione consente non solo di correggere eventuali nell’istante in cui si presentano, ma anche di potenziare
gli stessi processi di apprendimento grazie al feedback costante. Di conseguenza, metodi di valutazione
possono essere impiegati nella fase iniziale dell’attività di apprendimento al fine di accertare un livello di
partenza (baseline), nella fase conclusiva per verificare i progressi e in quali settori si sono verificati, e a
distanza di tempo per controllare la durata, la persistenza e l’efficacia dell’apprendimento stesso (follow-up).
Anche la valutazione effettuata durante il corso e al termine dello svolgimento dell’apprendimento, assume un
importante valore motivazionale, poiché costituisce un potente incentivo a ripetere l’attività. In questo modo si
innesca un meccanismo di auto-competizione, un meccanismo di “prova di nuovo” autocorrettivo poiché
consente una migliore comprensione di ciò che si è sbagliato e favorisce l’adozione di nuove soluzioni.

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CAPITOLO 6
La memoria

- 6.1 Che cos’è la memoria


La memoria può essere definita come la capacità di codificare, immagazzinare e recuperare le informazioni. Se
non avete mai dedicato molta attenzione alla memoria, è perché essa tende a fare il proprio dovere senza che
ve ne accorgiate. Prestate attenzione alla memoria solo quando c’è qualcosa che non funziona, per esempio
non trovate le chiavi della macchina o avete dimenticato una ricorrenza importante. Queste situazioni possono
generare imbarazzo o sconforto. Pensate che il cervello umano è in grado di immagazzinare 100 miliardi di bit
(unità binarie) di informazione. Pertanto non dovreste essere sorpresi quando una risposta non è disponibile
nell’esatto momento in cui ne avete bisogno.

6.1.1 Funzioni della memoria


Una delle funzioni principali della memoria è quella di consentire un accesso consapevole agli eventi passati
personali e collettivi. Ma la memoria è in grado di fare molto di più. Garantisce senza sforzo una percezione di
continuità in relazione alle proprie esperienze. Quando state guidando nel vostro quartiere per esempio, è
questa seconda funzione della memoria che rende familiari negozi e case.
 Memoria implicita ed esplicita
Immaginate di osservare un’immagine di un coniglio in una cucina; certo vi farà strano vedere un coniglio in
cucina. Questo semplice esempio vi permette di comprendere la differenza tra:
 Uso esplicito della memoria: richiede uno sforzo consapevole per codificare e recuperare le
informazioni.
 Uso implicito della memoria: memoria in cui la codifica o il recupero delle informazioni avvengono
senza che ce ne rendiamo conto.
La scoperta del coniglio in cucina è implicita perché i processi mnestici confrontano la propria conoscenza
passata relativa alla cucina con l’interpretazione dell’immagine senza alcun sforzo particolare. Immaginate ora
che vi chiedessero “che cosa manca in questa immagine?” Per rispondere a questa domanda metterete a
lavoro la memoria esplicita per capire quale utensile o elettrodomestico manca.
 Memoria dichiarativa e procedurale
Sapete fischiare? Se sapete farlo, provate a fischiare e a schioccare le dita allo stesso tempo. Gli esempi prima
citati relativi alla memoria implicita ed esplicita, riguardano il recupero di fatti o eventi, ciò che è chiamato
memoria dichiarativa. Con questo esempio, abbiamo osservato che esiste an che una memoria relativa al
come fare le cose, che è definita memoria procedurale. La memoria procedurale si riferisce al ricordo relativo
al modo in cui le cose vanno fatte. Con un po’ di pratica potete acquistare, recuperare e impiegare memorie
procedurali per abilità percettive, cognitive e motorie. Gli studi sulla memoria procedurale spesso riguardano
l’intensità o la durata del periodo di apprendimento: perché dopo aver appreso un’abilità spesso è difficile
procedere a ritroso? Possiamo osservare questo fenomeno all’opera anche in un’attività molto semplice come
quella di digitare un numero di telefono; all’inizio si presta attenzione ai tasti da digitare, quando il numero
viene digitato frequentemente, ben presto lo digiterete in una rapida sequenza di azioni. Questo processo,
definito metodo KC (knowledge compilation method) implica l’applicazione di processi inferenziali per
l’elaborazione di conoscenze. Come conseguenza di questa pratica, sarete in grado di svolgere lunghe sequenze
di attività senza uno sforzo mentale consapevole e non sarete in grado di accedere in maniera consapevole alle
singole unità di azione.

6.1.2 I processi mnestici


La capacità di fare ricorso alle proprie esperienze pregresse richiede l’intervento di tre processi differenti:
1. Codifica: fase iniziale dell’elaborazione dell'informazione, che porta ad una rappresentazione nella
memoria.
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2. Immagazzinamento: conservazione nel tempo del materiale codificato.
3. Recupero: reperimento, in un tempo successivo, delle informazioni immagazzinate.
In altre parole, la codifica permette l’ingresso delle informazioni, l’immagazzinamento le conserva e il recupero
le estrae al momento necessario. Nello specifico, la codifica richiede di costruire alcune rappresentazioni
mentali di informazioni relative al mondo esterno. Supponete di dover descrivere il regalo più bello che abbiate
mai ricevuto senza averlo davanti. Ciò che direte sono rappresentazioni interne dell’oggetto originario che
sostituiscono la realtà fornendo delle informazioni su di essa e tralasciandone altre. Esse conservano le
caratteristiche salienti delle esperienze passate in modo da poterne rievocare il ricordo.
Se l’informazione è codificata correttamente, sarà immagazzinata per un certo periodo di tempo (e attraverso
tecniche di neuroimaging i ricercatori stanno tentando di localizzare le strutture cerebrali che sono responsabili
dell’immagazzinamento delle informazioni vecchie e nuove). Il recupero è ciò che avviene in seguito allo sforzo
iniziale. Quando funziona consente di avere accesso, spesso in una frazione di secondo, all’informazione che
avrete immagazzinato precedentemente.
Nonostante sia semplice definire questi tre processi, la loro interazione è molto complessa.

- 6.2 Utilizzo della memoria nel breve periodo


Quali sono i limiti delle nostre capacità di memorizzazione? La maggior parte delle informazioni in cui ci si
imbatte non rimane conservata all’interno della memoria; al contrario, l’utilizzo delle informazioni è
generalmente disponibile per un breve periodo. In questo paragrafo analizzeremo le proprietà di tre tipi di
utilizzo non permanente della memoria.

6.2.1 Memoria iconica


Se immaginate di osservare una figura per 10 secondi e poi di coprirla, avrete l’impressione di continuare a
vedere l’intera figura anche dopo averla coperta. Questa sensazione è dovuta dalla vostra memoria iconica, un
sistema di memoria relativa al dominio visivo che permette di immagazzinare una grande quantità di
informazioni per un lasso di tempo molto breve. La memoria iconica è un esempio di memoria sensoriale: i
ricercatori hanno ipotizzato che ogni sistema sensoriale sia dotato di un dispositivo di memoria che conserva le
rappresentazioni delle caratteristiche fisiche degli stimoli ambientali per pochi secondi.
L’esistenza della memoria iconica è stata dimostrata in esperimenti che hanno richiesto ai partecipanti il
recupero di informazioni a partire da stimoli visivi proiettati soltanto per un ventesimo di secondo. George
Sperling per esempio ha presentato ai partecipanti una serie di tre righe per un brevissimo tempo. Poi chiese a
loro di svolgere due compiti: nella procedura di recupero totale era richiesto di elencare tutti gli elementi che
erano in grado di ricordare, nella procedura di recupero parziale i soggetti erano invitati a riportare il contenuto
di una sola riga. La presentazione degli stimoli era seguita da un segnale acustico per indicare la riga da
ricordare. Poiché tutti i partecipanti erano in grado di riportare qualunque delle tre righe indicate dal segnale
acustico, Sperling concluse che tutte le informazioni somministrate erano state acquisite dalla memoria iconica.
Per trarre vantaggio da questa memoria, i processi mnestici devono trasferire le informazioni molto
velocemente e collocarle in depositi che riescano a garantire un immagazzinamento più duraturo.
Bisogna notare che la memoria iconica è diversa dalla “memoria fotografica” (il termine tecnico è immagine
eidetica): le persone che hanno una percezione di immagini eidetiche sono in grado di ricordare i dettagli di un
immagine per un periodo di tempo considerevolmente lungo della memoria iconica.

6.2.2 Memoria a breve termine


La memoria a breve termine (MBT) consente di focalizzare le proprie risorse cognitive su un limitato numero di
rappresentazioni mentali. Per verificare la capacità massima della memoria a breve termine, i ricercatori hanno
elaborato il test dello span di memoria (span memory) per le cifre. Provate a leggere la seguente lista di numeri
casuali 8 1 7 3 4 9 4 2 8 5, coprire i numeri e scrivere su un foglio quelli che vi ricordate. La maggior parte delle
persone riesce a ricordare un numero di elementi che varia da 5 a 9. Geroge Miller (1956) ha affermato che 7

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(più o meno 2) è il “numero magico” che caratterizza le prestazioni di memoria delle persone chiamate a
ricordare liste di lettere, parole, numeri o qualsiasi elemento dotato di significato.
Nonostante la sua capacità limitata, la codifica delle informazioni nella MBT può essere rafforzata attraverso
due processi: ripetizione (rehearsal) e la creazione di unità di informazione (chunking).
 Ripetizione
Un buon modo per tenere a mente il numero di telefono di un amico è continuare a ripeterlo. Questa tecnica di
memorizzazione è chiamata mantenimento per ripetizione. Se nella ripetizione si colloca un compito distrattore,
la qualità della prestazione diminuisce, poiché le informazioni non possono essere ripetute e a causa
dell’interferenza delle informazioni in competizione con il compito distrattore. La ripetizione dunque impedisce
all’informazione di essere eliminata dalla MBT. Supponete ora che la vostra informazione sia troppo
ingombrante per essere ripetuta; in tal caso dovreste creare delle unità di informazione.
 Creare delle unità di informazioni
Un’unità d’informazione (chunk) è un’organizzazione di più bit di informazione. Un’unità può essere una
singola lettera o un numero, o un gruppo di lettere o altri elementi, o anche un gruppo di parole o un’intera
frase. Per esempio, la sequenza 1-9-8-4 è composta da 4 cifre che potrebbero riempire tutto il vostro spazio
nella MBT. Se vedete la sequenza come 1984, una data o il titolo del libro di Orwell, le cifre sono in grado di
formare una singola unità, consentendo di lasciare più spazio libero per altre unità di informazione. Osservate
quante unità di informazione contiene questa sequenza: 1914191819391945. Potete rispondere “16” se vedete
la sequenza come una lista di unità indipendenti oppure “4” se individuate le date delle due guerre mondiali.
È possibile dunque strutturare l’informazione in accordo con significati personali (come date di compleanno) o
combinare nuovi stimoli con codici differenti che sono già memorizzati nella memoria a lungo termine.

6.2.3 Memoria di lavoro


In base alle analisi sulle funzioni della memoria necessarie per la vita quotidiana, i ricercatori hanno articolato
le teorie della memoria di lavoro, il tipo di memoria che concerne il presente, ha la funzione di connettere il
passato con il presente e di integrare il presente con i ricordi precedenti. È il tipo di memoria che usiamo per
compiere compiti quale ragionare e comprendere il linguaggio. Immaginate di cercare di ricordare un numero
di telefono mentre state cercando un foglio per scriverlo; i processi della MBT vi permettono di ricordare il
numero, le risorse della memoria di lavoro vi permettono di compiere azioni mentali per effettuare una ricerca
adeguata degli oggetti. La memoria di lavoro fornisce la fluidità istantanea di pensiero e di azione.
Alan Baddeley (2002) ha fornito le prove dell’esistenza di quattro componenti della memoria di lavoro:
1. Circuito fonologico: consente di ricordare e manipolare le informazioni acustiche basate sulla
produzione verbale. Esso si sovrappone a gran parte della MBT. Ascoltandovi mentre ripetete a mente
un numero telefonico, state utilizzando il circuito fonologico.
2. Taccuino visuospaziale: consente di ricordare e manipolare l’informazione visiva e spaziale. Se
qualcuno vi dovesse chiedere quanti banchi ha l’aula di Psicologia, potreste utilizzare le risorse del
taccuino per formare un’immagine mentale dell’aula e poi calcolare il numero di banchi in essa.
3. Esecutivo centrale: controlla l'attenzione e la coordinazione di informazioni proveniente dal circuito
fonologico e dal taccuino visuospaziale. Ogni volta che portate a termine un compito che richiede
l’integrazione di processi mentali differenti, per esempio descrivere un’immagine della vostra memoria,
vi affidate all’esecutivo centrale per destinare le vostre risorse mentali ad aspetti differenti del compito.
4. Buffer episodico: è un sistema di immagazzinamento con capacità limitata che è controllato
dall’esecutivo centrale. Permette di recuperare informazioni dalla memoria a lungo termine e
combinarle con le informazioni della situazione attuale
Questa integrazione della memoria a breve termine nel contesto più ampio della memoria di lavoro dovrebbe
contribuire a rinforzare l’idea che la MBT non è un luogo ma un processo.
I ricercatori hanno dimostrato che la capacità della memoria di lavoro si differenzia molto da persona a
persona. Essi hanno sviluppato molteplici procedure per misurare queste differenze. Una di queste misure è

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chiamata span di operazione. Osservate la tabella: per determinare lo span di
operazione, i ricercatori chiedevano ai partecipanti di leggere i problemi
matematici e di rispondere “si” o “no” indicando se il risultato è esatto. Poi
chiedevano loro di memorizzare le parole che seguono le operazioni. Dopo, si
chiede ai partecipanti di ripetere le parole memorizzate. Lo span di operazione
richiede ai soggetti di portare a termine un compito (risolvere i problemi) svolgendo allo stesso tempo un
secondo compito (memorizzare le parole). Per questa ragione, fornisce un indice delle differenze individuali
nell’efficienza dell’esecutivo centrale in relazione alla sua capacità di destinare la giusta quantità di risorse
mentali alle varie operazioni.
Poiché lavorare sullo span di memoria è una misura delle risorse individuali disponibili per compiere processi
cognitivi nel breve periodo, i ricercatori possono utilizzarlo per prevedere la prestazione del soggetto in un gran
numero di compiti. Per esempio, la memoria di lavoro permette ai soggetti di mantenere la loro attenzione
focalizzata sui compiti che devono eseguire. In generale, quanto più è elevata la capacità della memoria di
lavoro, tanto più i soggetti dovrebbero essere in grado di mantenere la concentrazione.
Infine la memoria di lavoro contribuisce a mantenere il vostro presente psicologico. Consente di creare un
contesto dove inserire nuove eventi e di collegare insieme episodi indipendenti all’interno di una storia
continua. Tutto ciò è vero perché la memoria di lavoro funziona come un canale per il passaggio di informazioni
che vanno e vengono dalla memoria a lungo termine.

- 6.3 Memoria a lungo termine: codifica e recupero


Quando gli psicologi parlano di memoria a lungo termine, si riferiscono ai ricordi che ci accompagnano per
molto tempo, se non per tutta la vita. La memoria a lungo termine (MLT) è il magazzino di tutte le conoscenze,
(esperienze, eventi, informazioni, emozioni, capacità, regole e i giudizi) che ogni persona ha di sé e del mondo,
acquisite dalla memoria sensoriale e da quella a breve termine.

6.3.1. Indizi di recupero


Come si recupera un ricordo? La risposta di base concerne l’utilizzo degli indizi di recupero. Essi possono essere
forniti dall’ambiente esterno (come una domanda di un test: “che cosa ricordi delle ricerche di Sperling?”)
oppure generati internamente (“dove ho già visto questa persona?”). Ogni volta che proverete a recuperare un
ricorso esplicito è perché esso vi serve per un determinato scopo e quello scopo spesso costituisce l’indizio per
il recupero. Il recupero del ricordo avviene in funzione della qualità degli indizi a disposizione.
 Recupero e riconoscimento
Per recupero si intende la riproduzione dell’informazione a cui si è stati esposti in precedenza (“quali sono le
componenti della memoria a breve termine?”). Il riconoscimento è la realizzazione che un dato evento o
stimolo è già stato esperito in passato (“qual è il termine che si riferisce alla parola chunk?”).
Recupero e riconoscimento sono collegabili tra di loro nelle esperienze quotidiane della memoria esplicita.
Quando si cerca di identificare un criminale e la polizia chiede alla vittima di ricordare alcune caratteristiche
distintive dell’aggressore, sta utilizzando un metodo basato sul recupero. Al contrario, se si mostra alla vittima
una serie di fotografie di sospettati e si chiede di evidenziare il criminale, si utilizza il riconoscimento.
Sia il recupero sia il riconoscimento richiedono una ricerca attraverso l’utilizzo di indizi di recupero; per il
recupero è necessario che l’indizio consenta di recuperare l’informazione; per il riconoscimento l’indizio è
costituito da una serie di opzioni a scelta tra cui è presene quella corretta.
 Memoria episodica e semantica
All’inizio, abbiamo fatto una distinzione tra memoria dichiarativa e memoria procedurale. A sua volta, la
memoria dichiarativa assume diverse forme in funzione degli inizi necessari per il recupero:
 Memoria episodica: memoria che consente di conservare gli eventi specifici di cui un individuo ha fatto
personalmente esperienza. Per esempio il ricordo dei vostri compleanni più felici sono immagazzinati
nella memoria episodica. Per riattivare questi ricordi è necessario che gli indizi del contesto vi facciano

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venire in mente qualcosa legato al momento in cui è accaduto quel dato evento e qualcosa relativo al
contenuto degli eventi.
 Memoria semantica: memoria generale e categoriale che organizza le conoscenze di una persona circa
le parole e gli altri simboli, i significati e i referenti concettuali, nonché le relazioni esistenti fra loro. Per
la maggior parte delle persone, per richiamare alla mente la capitale della Francia non necessitano di
alcun indizio di contesto che si riferisca al contesto o al momento di apprendimento originario in cui il
ricordo è stato memorizzato. Questo non significa che questi ricordi siano infallibili, poiché si possono
comunque dimenticare molti fatti che sono stati dissociati dai contesti in cui li avete memorizzati.

6.3.2 Contesto e codifica


Immaginate di vedere in una stanza affollata una persona che sapete di aver già incontrato ma non vi ricordate
dove. Dopo che l’avete riconosciuta, capite che avevate difficoltà a riconoscerla perché non l’avete mai vista in
quel contesto. Questo è un esempio di come agisca il principio della specificità del contesto di codifica: i ricordi
si attivano più rapidamente quando il contesto di recupero è coerente con quello di codifica.
 Specificità del contesto di codifica
In un esperimento Tulving e Thomson hanno dimostrato per primi la specificità del contesto di codifica
ottenendo prestazioni opposte durante le attività di recupero e riconoscimento. I partecipanti erano invitati a
memorizzare alcune coppie di parole come treno-nero. Nella seconda fase si richiedeva di fare quattro
associazione libere utilizzando parole stimolo come bianco. In seguito si richiedeva ai partecipanti di
riconoscere quelle che avevano memorizzato nella prima fase e solo il 54% riuscì a compiere l’esercizio.
Quando invece fu presentata la prima parola della coppia treno, il 61% rispose correttamente nero. Dunque con
questo esperimento Tulving e Thomson hanno dimostrato l’importanza del contesto. Anche altri ricercatori
hanno fornito dimostrazioni convincenti della memoria contesto-dipendente, ma ognuno di questi esperimenti
erano stati codificati in relazione ad un contesto ambientale esterni. Tuttavia, la specificità di codifica del
contesto può far leva anche su stati interni. Per esempio in uno studio sono stati somministrati alcool e placebo
ai partecipanti prima della fase di memorizzazione e della sessione dei test di memoria. In generale l’alcool
danneggia la capacità di memorizzazione ma in questo caso chi aveva bevuto alcool in entrambe le fasi furono
in grado di recuperare le informazioni in modo più efficace di chi aveva bevuto solamente in una delle due fasi.
Quando gli stati interni sono alla base della specificità della codifica si parla di fenomeni memoria stato-
dipendenti. I ricercatori hanno dimostrato che la memoria stato-dipendente si verifica anche in seguito
all’assunzione di altre sostanze come marijuana, anfetamine e antistaminici.
 Effetto di posizione seriale
Possiamo inoltre utilizzare i cambiamenti di contesto per spiegare uno dei più celebri risultai ottenuti dalla
ricerca sulla memoria: l’effetto di posizione seriale. Immaginate di dover apprendere una lista di parole casuali;
se doveste ripetere quelle parole in ordine, vi ricordereste molto bene le prime parole (effetto priorità) e le
ultime (effetto recenza), ma molto difficilmente quelle intermedie. La figura mostra la curva dei partecipanti
quando sono chiamati a ricordare utilizzando
procedure di rievocazione seriale (“ripeti nell’ordine
in cui le hai ascoltate”) e di rievocazione libera
(“ripeti quante parole riesci a ricordare”). Il ruolo che
il contesto svolge nel formare la curva è relativo alla
differenziazione contestuale dei diversi item
contenuti nella lista, delle diverse esperienza di vita e
così via. Questa logica suggerisce che l’informazione
intermedia diventerà più disponibile se è resa
maggiormente differenziata.

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6.3.3 I processi di codifica e di recupero
Come vedremo, la memoria funziona più efficacemente quando le fasi di codifica e recupero sono ben
abbinate.
 Livelli di elaborazione
Il processo che mettete in atto quando elaborate un’informazione e l’attenzione che prestate nel momento in
cui la codificate, influiscono sulla qualità del ricordo dell’informazione. La teoria dei livelli di elaborazione
suggerisce che quanto più è profondo il livello in cui viene elaborata un’informazione, tanto più è probabile che
questa venga recuperata dalla memoria. Per esempio, considerate la parla MELA: potremmo chiedere se è
scritta in stampatello, se fa rima con vela o se è un frutto. Ognuna di queste domande richiede un livello di
elaborazione di volta in volta più approfondito della parola MELA. In realtà, quanto più a fondo viene effettuato
il processo di elaborazione, tanto più i soggetti sono in grado di ricordare l’informazione. Una difficoltà di
questa teoria riguarda il fatto che non sempre i ricercatori sono in grado di specificare esattamente ciò che
rende alcuni processi di elaborazione “superficiali” e altri “profondi”.
 Elaborazione e memoria implicita
In determinate circostanze, per esempio, siete in grado di rievocare in modo implicito i ricordi che avete
originariamente codificato in modo esplicito. Questo è vero quando salutate il vostro migliore amico per nome
senza fare alcuna fatica. In ogni caso, i ricordi impliciti sono spesso più nitidi quando c’è un forte legame tra i
processi di codifica implicita e i processi di recupero implicito. Questa prospettiva è chiamata trasferimento di
elaborazione appropriato: prospettiva secondo cui il ricordo è più nitido quando il tipo di elaborazione
compiuto nella fase di codifica si trasferisce ai processi di elaborazione necessari al recupero.
Consideriamo per l’esperimento tipico usato per valutare la memoria implicita. Gli studenti sono invitati a
indicare il grado di piacevolezza relativo a ciascuna parola in una lista di nomi (tra i quali c’è unicorno), su una
scala da 1 a 5. Le valutazioni di piacevolezza richiedono ai partecipanti di pensare al significato delle parole
senza impegnare esplicitamente la memoria. In seguito, si valuta il ricordo utilizzando uno di questi esercizi:
 Completamento di parole parziali (____ni____or____).
 Completamento della radice di parola (unic____)
 Riconoscimento di parole: le parole sono presentate brevemente sullo schermo di un computer in
modo da non essere viste chiaramente. I partecipanti di indovinare la parola.
 Anagrammi (corunnio)
Come nell’esempio dell’unicorno, le risposte corrette a ciascun compito possono essere fornite da parole
provenienti dalle liste precedenti, anche se lo sperimentatore non aveva attirato l’attenzione su quelle parole.
In ogni compito, aver letto la parila nella lista costituiva un vantaggio, anche se ai partecipanti era chiesto solo
di indicare il grado di piacevolezza. Questo vantaggio è definito priming in quanto la prima esperienza della
parola si innesca nella memoria nelle esperienze successive. Per alcuni esercizi, come il completamento
parziale di parole, i ricercatori hanno trovato che gli effetti di priming duravano anche più di una settimana.
Che tipo di corrispondenza c’è tra codifica e recupero? I quattro esercizi di memoria implicita precedenti si
basano su una corrispondenza fisica tra stimolo iniziale e le risposte date nell’esercizio. In un certo senso,
qualsiasi processo vi permetta di codificare la parola unicorno consente a quella parola di attivarsi quando vi è
chiesto di completare la radice unic___ e così via. Possiamo in ogni caso introdurre un altro test di cultura
generale basato sui significati al posto che su corrispondenze fisiche (“qual è l’animale con un solo corno?”).

6.3.4 Perché dimentichiamo


Nella maggior parte dei casi, la memoria funziona in modo adeguato: quando vedo una persona riesco a
riconoscere subito il suo nome, ma in alcuni casi non lo ricordo proprio. A volte questa dimenticanza è dovuta
dal fatto che non ricordiamo il nome di una persona in un contesto diverso da quello che abbiamo
memorizzato. I ricercatori hanno studiato altre ragioni delle nostre dimenticanze.
 Interferenza

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Quando la vostra mente ha registrato il suo nome, non si trovava in uno stato di isolamento; prima di
memorizzarlo aveva altri nomi in testa e dopo averlo memorizzato probabilmente ne ha imparati altri. Tutti
questi nomi possono avere un effetto negativo sulla vostra capacità di ricordare il nome giusto al momento
giusto. L’interferenza proattiva si riferisce alle circostanze in cui le informazioni che sono state acquisite in
passato, rendono difficile l’acquisizione di nuove informazioni. L’interferenza retroattiva si ha quando
l’acquisizione di nuove informazioni rende difficile il ricordo di informazioni memorizzate in precedenza. Per
esempio, se vi è capitato di cambiare numero di cellulare, all’inizio avrete avuto difficoltà a imparare quello
nuovo mentre quello vecchio continuava a essere più accessibile (interferenza proattiva). Dopo aver ripetuto il
nuovo numero, è possibile che abbiate trovato delle difficoltà a ricordare quello vecchio (interferenza
retroattiva). Ebbinghaus fu il primo ricercatore a documentare l’interferenza attraverso esperimenti rigorosi.

6.3.5 Come memorizzare informazioni non strutturate


 Ripasso elaborativo
Una strategia per migliorare la codifica delle informazioni è detta ripasso elaborativo, ovvero una tecnica che
consiste nell'elaborare altro materiale per arricchire la codifica mentre si sta registrando e memorizzando
un’informazione per la prima volta. Un modo per usare questa tecnica è inventare relazioni che associno gli
elementi da memorizzare: per esempio se dovete ricordare la coppia topo-albero potreste immaginare un
topolino che si arrampica su un albero. La memoria visiva può dunque rafforzare le vostre capacità di ricordo in
quanto fornisce allo stesso tempo dei codici di accesso per i ricordi verbali e visivi.
 Mnemotecniche
Un’opzione alternativa è rappresentata dall’uso delle mnemotecniche ovvero strategie utilizzate per migliorare
la memoria. Due esempio di mnemotecniche sono:
 Metodo dei loci: consente di ricordare l‘ordine di una lista di nomi o oggetti associandoli con sequenze
di luoghi familiari.
 Metodo della parola-aggancio: gli elementi vengono associati a indizi, che consistono in una serie di
indizi, tipicamente rime, che legano i numeri con le parole (due-bue, tre-paté…)
Il segreto per memorizzare informazioni arbitrarie sta nel codificare in un particolare modo che consente di
agganciarsi a efficaci indizi di recupero.

6.3.6 La metamemoria
Siamo sicuri dell’attendibilità dei nostri ricordi? Domande come queste sono domande di metamemoria, cioè la
capacità di riflettere sul funzionamento dei propri processi mnestici e sulle informazioni che si è certi di
possedere. La ricerca in questo ambito fu introdotta da Hart (1965). Hart fece ai suoi studenti domande di
cultura generale e nel caso in cui non sapessero la risposta, proponeva loro un’altra domanda: “anche se non
ricordo la risposta, sono in grado di individuare la risposta corretta scegliendola in una lista?”. A questa
domanda gli studenti dovevano rispondere su una scala da 1 a 6. Hart scoprì che i partecipanti che davano 1
rispondevano correttamente nel 30% dei casi, quelli che davano 6 nel 75% dei casi.
La ricerca di metamemoria si concentra sia sui processi che attivano la sensazione di conoscere sia sul grado di
attendibilità di tale sensazione:
 L’ipotesi di indizio di familiarità indica che le persone basano la propria sensazione di conoscere sulla
familiarità che percepiscono in relazione all’indizio di recupero. Per esempio: “chi ha interpretato Ian
Solo nel primo film di Star Wars?” se avete visto il film potrete pensare di riuscire a riconoscere la
risposta corretta nel caso vi fosse concesso di scegliere.
 L’ipotesi dell'accessibilità suggerisce che le persone basano le loro valutazioni a partire dal
l'accessibilità o disponibilità di parte delle informazioni memorizzate. Pertanto, se la domanda “chi ha
interpretato Ian Solo nel primo film di Star Wars?” si collega con informazioni che pensate possano
essere in relazione con la risposta corretta, potreste prevedere di riuscire a ricordare l’attore.

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Entrambe le teorie hanno ottenuto un supporto empirico e suggeriscono che si possa generalmente confidare
nel proprio istinto quando si crede di conoscere qualcosa.

6.3.7 Il processo di ricostruzione della memoria


Per fare esperienza della memoria ricostruttiva (tipo di memoria che ricostruisce le informazioni basandosi su
più tipologie generali di conoscenza memorizzata) considerate queste domande:
 Il capitolo 3 conteneva almeno una volta l’articolo “il”?
 Ieri avete respirato alle 14.05?
Dovreste rispondere “si” a ciascuna di questa domanda senza molta esitazione, anche se non riuscite a
focalizzare nella vostra memoria episodica lo specifico ricordo di riferimento. Per rispondere a queste domande
bisogna essere generici e ricostruire quello che probabilmente è accaduto.
 L’attendibilità dei processi di ricostruzione
Se le persone sono in grado di ricostruire i ricordi, piuttosto che recuperare una rappresentazione specifica di
ciò che è accaduto, sicuramente ci sarà spazio per alcune distorsioni, ossia circostanze in cui la memoria
differisce dalla realtà. Bartlett (1932) studiò come le conoscenze pregresse nell’individuo influenzassero il
modo di ricordare nuove informazioni analizzando le modalità on cui gli studenti universitari britannici
ricordavano storie in cui i contenuti e il lessico erano presi da un’altra cultura. Bartlett scoprì che le
riproposizioni della storia differivano spesso dall’originale. Le distorsioni individuate da Bartlett sono di 3 tipi:
 Livellamento: semplificazione della storia
 Modellamento: enfatizzazione di alcuni dettagli
 Assimilazione: cambiamento di alcuni dettagli per adattarsi meglio al background o alla conoscenza di
chi ascolta il racconto del ricordo.
I lettori ripetevano la storia con parole famigliari o della loro cultura (tipo canoa diventava barca) e inoltre
cambiavano spesso la trama per eliminare riferimenti alle forze soprannaturali o agli elementi poco famigliari a
loro. Seguendo il lavoro di Bartlett, diversi studiosi hanno dimostrato una molteplicità di distorsioni che si
verificano quando le persone fanno ricorso a processi ricostruttivi per riprodurre ricordi passati. Per esempio,
alcuni partecipanti dovevano indicare se prima di 10 anni avessero stretto la mano a un personaggio TV in un
parco divertimenti. Dopo aver risposto alla domanda, ad alcuni partecipanti fu mostrato uno spot di Disneyland
che evocava la possibilità di stringere la mano ai propri idoli animati; dopo questa pubblicità, i partecipanti
erano in grado di ricordare se avevano stretto la mano al loro personaggio preferito anche se ciò non era mai
accaduto. Questo studio suggerisce come anche i ricordi autobiografici possono essere ricostruiti a partire da
fonti diverse. Inoltre i ricercatori hanno dimostrato che gli individui qualche volta attivano anche a credere di
aver compiuto azioni che sono accadute solo nella loro immaginazione.

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CAPITOLO 7
Il pensiero

Tendiamo a dare per scontata la cognizione perché è qualcosa in cui siamo continuamente impegnati durante
le ore di veglia. Tuttavia, quando leggiamo un giallo e arriviamo alla brillante soluzione del caso, siamo obbligati
a riconoscere il trionfo dei nostri processi cognitivi. Cognizione è un termine generale che si riferisce a tutte le
forme di conoscenza: lo studio della cognizione è lo studio della nostra vita mentale. Essa comprende sia i
contenuti sia i processi. I contenuti sono quello che sappiamo, mentre i processi sono il modo attraverso cui
questi contenuti vengono elaborati, allo scopo di interpretare il mondo che ci circonda e trovare soluzioni
creative ai problemi della vita quotidiana. Il settore della psicologia che studia la cognizione è la psicologia
cognitiva: questa è supportata in modo interdisciplinare dalle scienze cognitive, che si concentrano sul sapere
raccolto dalle diverse discipline accademiche sulle medesime questioni teoriche. La condivisione dei dati e delle
intuizioni è un vantaggio per chi lavora in ciascuna delle scienze coinvolte.

- 7.1 Studiare la cognizione


Come si può studiare la cognizione? Ad esempi, si può vedere l’input “chiamami” e si può sperimentare
l’output “faccio la telefonata” ma come determinare la serie di passaggi mentali che hanno portato dal
messaggio alla risposta?

7.1.1 Scoprire i processi mentali


Una delle metodologie più importanti per lo studio dei processi mentali fu ideata nel 1868 dallo psicologo
tedesco Donders. Per studiare la “velocità dei processi mentali” egli mise a punto una serie di compiti
sperimentali che secondo lui si differenziavano sulla base dei passaggi mentali necessari alla corretta
esecuzione. Nella tabella è riportato un esercizio che
riporta la logica di Donders. Di solito gli studenti
impiegano almeno 30 secondi in più a risolvere il
secondo compito rispetto al primo. Questo perché
nella risoluzione del secondo compito, aggiungiamo
due processi mentali: la categorizzazione dello stimolo
(vocale o consonante) e la selezione della risposta (C o
V). Poiché per la risoluzione del secondo compito è necessario che facciate tutto quello che avete fatto per il
primo e qualcosa in più, il tempo richiesto per portarlo a termine è maggiore. Questa fu l’intuizione di Donders:
passaggi mentali supplementari possono essere dedotti dal maggior tempo richiesto per eseguire un compito.
Oggi alcuni ricercatori seguono la logica di base impostata da Donders e misurano frequentemente il tempo di
reazione, ovvero la quantità di tempo necessaria ai soggetti sperimentali per eseguire particolari compiti, come
metodo per testare specifiche ipotesi sullo svolgersi di alcuni processi cognitivi.

7.1.2 Processi mentali e risorse mentali


Quando gli psicologi cognitivi scompongono le attività di alto livello come il problem solving e l’uso del
linguaggio, nei processi che lo compongono, spesso agiscono come se stessero giocando con dei mattoncini.
Ogni mattone rappresenta una diversa componente che deve essere eseguita. Lo scopo è determinare come
ogni mattone può combinarsi con gli altri per creare l’intera attività. La metafora dei mattoni permette di
immaginare anche che i mattoni vengano separati; dunque possiamo distinguere:
 Processi seriali: processi che si svolgono uno dopo l’altro
 Processi paralleli: processi che si sovrappongono nell’unità di tempo.
Immaginate di essere al ristorante: quando scegliete cosa ordinare vi concentrate sulle portate una alla volta e
giudicate “si”, “no”, “forse” per ognuna (processo seriale). Quando il cameriere vi chiede cosa ordinate, i

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processi linguistici che vi permettono capire la domanda funzionano contemporaneamente a quelli che vi
permettono di formulare la risposta. In questo caso dunque si tratta di processi paralleli.
Gli psicologi cognitivi spesso utilizzano i tempi di reazione per scoprire se i processi si svolgono in serie o in
parallelo, anche se si tratta di un obiettivo non facile da raggiungere.
Supponete di avere un compito che, secondo voi, può essere scomposto in due processi X e Y. Se l’unica
informazione in vostro possesso è il tempo totale necessario per completare il compito, non stabilirete mai con
certezza se i due processi X e Y avvengano in parallelo o in serie. La sfida principale della ricerca in psicologia
cognitiva consiste nell’inventare compiti che permettano di discriminare quale tra le possibili configurazioni di
mattoni sia quella corretta. Nel secondo compito di poco fa, possiamo regionalmente dire che i processi siano
stati seriali, perché non sarebbe stato possibile produrre la risposta (C o V) senza aver prima fatto una scelta.
In molti casi i ricercatori tentano di scoprire se i processi sono seriali o paralleli valutando la misura in cui essi
impiegano le risorse mentali. Supponete di stare camminando con un amico; sicuramente siete un grado di
parlare e camminare allo stesso tempo (poiché linguaggio e processi di navigazione spaziale possono essere
svolti in parallelo). Ma cosa accadrebbe se ci fosse una pozzanghera? A quel punto dovreste smettere di
parlare, perché i processi di navigazione spaziale richiederebbero più risorse per la pianificazione del percorso.
Per chiarire questo esempio, è necessario innanzitutto dire che disponiamo di risorse di elaborazioni limitate
che devono essere distribuite tra i diversi compiti. La distribuzione di queste risorse è sotto la responsabilità dei
processi attentivi, che selezionano quindi i processi cognitivi come destinatari delle risorse mentali. Bisogna
inoltre tener conto che non tutti i processi incidono allo stesso modo sulle risorse disponibili; si delineano:
 Processi controllati: richiedono attenzione e molte risorse cognitive, nella maggior parte dei casi non è
possibile svolgere più processi controllati contemporaneamente.
 Processi automatici: non richiedono attenzione e spesso si possono eseguire più processi automatici in
contemporanea, senza interferenze.
I processi automatici inoltre fanno forte riferimento su un uso efficiente della memoria: quando vediamo un
numero, i processi mnestici forniscono rapidamente le informazioni legate alla quantità.
Tornando all’esempio della pozzanghera, ora capirete che questa introduce un cambio di situazione, poiché
dovrete scegliere cosa fare e cosa dire. Questo esempio mostra perché processi automatici e controllati sono
definiti lungo una dimensione piuttosto che costituire categorie discrete: quando le circostanze diventano
impegnative, quello che sembrava automatico richiede attenzione controllata. Così gli stessi processi possono
richiedere più o meno attenzione a seconda del contesto.

- 7.2 Le forme del pensiero


Pensiero verbale e pensiero per immagini sono forme note di pensiero conosciute anche a chi non si interessa
di psicologia. Tuttavia, negli ultimi decenni sono state sviluppate ipotesi dell’esistenza di un pensiero formato
da simboli amodali; questi ultimi costituirebbero un codice che non si identifica con nessuna lingua parlata e
che non deriva da nessuna modalità sensoriale.

7.2.1 Il pensiero verbale


Nell’esempio di parlare e conversare, avviene uno scambio di informazioni tra i due amici nel corso del quale il
loro pensiero è strutturato in forma verbale. Nella nostra vita di ogni giorno, sia quando siamo da soli sia
quando ci relazioniamo con gli altri, una parte non trascurabile del nostro pensiero è in forma verbale.
John Watson, che diede inizio al comportamentismo, sosteneva che il pensiero non fosse altro che linguaggio
subvocale, quello che si attiva quando pensiamo, parliamo sotto voce a noi stessi; il pensiero veniva così ridotto
ad un comportamento osservabile nei minimi movimenti dell’apparato fonatorio. Tuttavia la convinzione di
Watson fu smentita da Smith: il ricercatore assunse una sostanza, la d-tubocurarina (alcaloide del curaro), che
paralizzò completamente i muscoli striati. Terminato l’effetto dell’alcaloide Smith affermò che, mentre tutti i
muscoli del suo corpo erano paralizzati, egli poteva facilmente continuare a pensare, dimostrando così che il
pensiero verbale non è riconducibile ai movimenti muscolari indicati da Watson.

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Altri ricercatori si sono occupati dei rapporti tra linguaggio verbale e pensiero, tra cui lo psicologo russo Lev S.
Vygotskij e lo psicologo, biologo e pedagogista svizzero Jean Piaget.
Per Piaget l’attività verbale del bambino segue un decorso che va dal linguaggio autistico (strettamente
centrato sul bambino e senza valore comunicativo), al linguaggio socializzato. Quanto al linguaggio egocentrico,
esso sarebbe l’espressione verbale dell’egocentrismo cognitivo che a sua volta deriverebbe dalla mancanza di
differenziazione tra il proprio punto di vista e quello degli altri.
Per Vygotskij il linguaggio infantile procede in senso inverso: esso parte radici sociali e il linguaggio egocentrico
è la risultante, insieme al linguaggio comunicativo, della suddivisione funzionale del primo linguaggio del
bambino, appunto sociale. Secondo lui, il linguaggio egocentrico, scisso da quello comunicativo, col tempo
porterebbe ad un linguaggio interiore, che avrebbe una funzione centrale per l’attività di pensiero. Per Piaget,
linguaggio egocentrico (e l’egocentrismo in generale) fungerebbe da tramite tra pensiero e linguaggio autistico
e pensiero e linguaggio socializzato; ad un certo punto però il linguaggio egocentrico non svolgerebbe più alcun
ruolo utile e si atrofizzerebbe. Dopo la critica mossa da Vygotskij Piaget ha considerato positivamente l’ipotesi
della trasformazione del linguaggio egocentrico in linguaggio interiore; però ha continuato ad escludere la
possibilità di un carattere sociale del linguaggio egocentrico.
Sui rapporti tra linguaggio e pensiero si fa spesso riferimento all’ipotesi della relatività linguistica di Sapir-
Whorf, secondo la quale il tipo di linguaggio che il soggetto apprende alla nascita, ne condiziona la struttura del
pensiero e quindi i processi percettivi e mnestici.

7.2.2 Le immagini mentali


La storia è ricca di esempi di famose scoperte riconducibili alle immagini mentali, ovvero la rappresentazione
analogica, nella mente, del mondo sia esterno che interno. Frederich Kekulé, a cui si deve la scoperta della
struttura chimica del benzene, spesso si immaginava atomi danzanti che si collegavano in catene di molecole;
Albert Einstein sosteneva di aver pensato interamente in termini di immagini visive e di aver tradotto le sue
scoperte in simboli matematici e parole soltanto dopo che il lavoro visivo di scoperta era concluso. Questi
esempi dovrebbero stimolarvi a cercare di esercitarvi nel pensiero visivo. Ma anche senza fare ciò, utilizzate
regolarmente le vostre capacità per operare sulle immagini visive. Si consideri per esempio il
seguente esperimento dove si chiedeva ai partecipanti di modificare le immagini nella loro
mente: i ricercatori presentarono agli studenti stimoli raffiguranti la lettera R e la sua
immagine speculare. Come la lettera veniva mostrata, lo studente doveva dire se si trattava
della R o della sua speculare. I tempi di reazione evidenziarono che ciascuno studente vedeva
lo stimolo nella mente e che l’immagine mentale veniva fatta ruotare fino ad un determinato
angolo fino ad assumere la corretta posizione verticale prima di decidere tra la R e la
speculare. Maggiore era l’angolo di rotazione della figura rispetto alla corretta posizione
verticale e maggiore era il tempo di reazione.
Si può anche ricorrere a immagini mentali per rispondere a domande sul mondo in cui viviamo; per esempio se
dovessimo chiedervi se una palla da golf è più grande di una palla da ping pong probabilmente, se non riuscite
a recuperare l’informazione direttamente dalla memoria, potreste trovare utile formare un’immagine mentale
delle due palle l’una accanto all’altra. Ci sono però dei limiti all’uso dell’immaginazione visiva: per esempio
immaginate di avere un ampio foglio di carta e di piegarlo a metà, e poi ancora e ancora fino a piegarlo per 50
volte. Quale spessore avrebbe? La risposta è circa 100 milioni di km, ma la vostra stima è stata probabilmente
più bassa. In questo caso il vostro “occhio della mente” è stato messo in difficoltà dall’informazione richiesta.
Spesso riusciamo a formare immagini visive a partire da descrizioni verbali: per esempio quando leggiamo
possiamo formare un modello mentale spaziale che tiene conto di dove si trova ciò che viene descritto. Inoltre
questo risultato è reso più facile se proviamo ad immaginarci come al centro della scena descritta.

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7.2.3 Il pensiero in astratta forma preposizionale
Si ipotizza l’esistenza di un pensiero formato da codici astratti, non provenienti dalle diverse modalità sensoriali
e propriocettive, innati. Si tratterebbe di un pensiero “in astratta forma proposizionale”, consistente quindi di
proposizioni non costituite né da parole né da immagini che Fodor (1975) ha definito linguaggio della mente.
Tale linguaggio sarebbe formato da rappresentazioni che:
 Hanno parti costituenti che si combinano tra di loro secondo le regole della logica
 Sono composte da parti atomiche (concetti) innate corrispondenti alle proprietà del mondo
 Sono composizionali poiché le proprietà semantiche di una rappresentazione complessa dipendono
dalle proprietà semantiche degli elementi anatomici
 Sono regolate secondo le condizioni di verità e le relazioni di implicazione.
Le rappresentazioni quindi mentali sarebbero quindi combinazioni di concetti semplici innati (intesi come unità
univoche, chiuse, discrete e fisse) in grado di esprimere verità necessarie. Esse sarebbero elaborate secondo
regole logiche attente solo alla forma e non ai contenuti.
Glucksberg sostiene che “i mattoni del pensiero” possono talora essere codici che non sono né verbali né visivi
e ritiene che tali “codifiche proposizionali” sottendano verosimilmente la “nostra conoscenza della grammatica
del linguaggio che utilizziamo, dall’aritmetica di base ed anche nozioni più concrete come il possesso del fegato
da parte del cammello”. Secondo Kosslyn , il pensiero astratto (formato da codici astratti senza l’uso di parole o
immagini), entra in gioco ogni volta che le informazioni vengono elaborate senza l’utilizzo di parole o immagini.
Per esempio, quando ci troviamo ad affrontare un problema non necessariamente matematico ma anche solo
problemi della vita, talvolta ci accorgiamo di arrivare alla soluzione senza passaggi intermedi, cioè senza
ricorrere a immagini o parole.
Altri studiosi si sono chiesti se il linguaggio della mente esiste davvero. In effetti, a tutt’oggi non è emersa
alcuna evidenza neurologica dell’esistenza di questi simboli amodali nel nostro cervello.

- 7.3 Categorie e concetti


 Categorizzazione mentale
La nostra esperienza del mondo è un flusso incessante, disomogeneo e casuale di sensazioni, movimenti,
pensieri, emozioni e azioni. La mente umana non è attrezzata né per governare i singoli “pezzi” a se stanti né
per controllare la globalità dell’esperienza nel suo insieme (opacità), ma procede a livello intermedio nel
discernere, frazionare e raggruppare gli elementi che, a qualche titolo sono fra loro associabili (per somiglianza,
contiguità e via di seguito). Siamo costretti a suddividere l’interezza dell’esperienza in unità di formazione
(chunk) più o meno grandi. Sono le categorie mentali, ossia classi di entità relativamente omogenee al loro
interno ed eterogenee rispetto alle entità delle altre classi. Ogni categoria raggruppa entità che hanno alcune
proprietà simili in base a criteri definiti e sufficientemente espliciti (omogeneità interna) e che, al contempo,
presentano differenze discriminanti rispetto alle entità di altre categorie (eterogeneità esterna). Le categorie
mentali vanno considerate come uno degli esiti più importanti dell’evoluzione della specie umana.
 I concetti
Secondo la definizione di Darley, Glucksberg e Kinchla, il concetto sarebbe la conoscenza che abbiamo di una
categoria di oggetti o eventi. Sulle modalità attraverso cui si formano i concetti, la psicologia cognitiva ha
fornito risposte che fanno riferimento a varie ipotesi esplicative, nessuna delle quali particolarmente esaustiva.
Gli studi tradizionali sulla natura dei concetti si iscrivono all’interno di una matrice di carattere logico e
filosofico: tali studi, definibili come approccio degli attributi definitori o approccio classico, risentono
dell’influsso dell’opera di Frege. Egli ha distinto tra intensione di un concetto (che consiste nell’insieme degli
attributi necessari ad un oggetto o un evento perché esso faccia parte di un concetto) ed estensione di un
concetto (che comprende di tutti gli oggetti o eventi che fanno parte del concetto stesso). Ad esempio
l’intensione del concetto insegnante è definita da attributi quali “competente nel campo del sapere” e la sua
estensione è costituita da tutti coloro che insegnano. Secondo l’approccio degli attributi definitori, un concetto
è quindi caratterizzato da un insieme di attributi che costituiscono le unità base con cui esso è costituito:

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ciascun attributo è necessario e tutti insieme sono congiuntamente sufficienti a individuare un membro
qualsiasi di una categoria concettuale.
Inoltre i concetti sono organizzati in gerarchie, per cui gli attributi che definiscono uno specifico concetto
includono tutti gli attributi del concetto ad esso subordinato. Questa struttura gerarchica ipotizzata
dall’approccio degli attributi definitori ha un riscontro nel modello computazionale di Quillian nel quale i i
concetti sono gerarchicamente organizzati in forma di rete. Nello schema a rete gerarchica, ciascun nodo della
rete corrisponde a un concetto e i legami che collegano i nodi rappresentano le relazioni tra i concetti. Bisogna
però considerare che alcuni membri di una categoria gerarchica possono essere meno rappresentativi della
categoria stessa; per esempio lo struzzo rientra nella categoria uccelli ma non può volare, tipica caratteristica
degli uccelli. A questo proposito, si ricordano allora le considerazioni di Wittgenstein, secondo cui i concetti non
possiedono una propria essenza e non hanno attributi definitori, ma si formano sulla base di “somiglianze di
famiglia” tra gli oggetti o gli eventi che fanno parte dello stesso concetto.
Le ricerche di Eleonor Rosh propongono un’ottica tassonomica dell’organizzazione categoriale. Ha ipotizzato
tre livelli gerarchici:
1. Livello sovraordinato (arredamento)
2. Livello di base (sedia, tavolo, lampada).
3. Livello subordinato (sedia da cucina, sedia a dondolo, lampada a stelo)
Le categorie di base sono le più importanti poiché gli oggetti che vi appartengono implicano un certo
programma motorio unitario (per sedersi su una sedia bisogna compiere una serie di movimenti, impossibili
per una categoria sovraordinata come l’arredamento). Le categorie di base presentano inoltre delle
somiglianze sul piano morfologico che danno luogo ad un’immagine mentale unica (le sedie hanno la stessa
forma media), condividono il numero più elevato di tratti comuni (per la sedia si può parlare di gambe, sedile,
schienale), alcuni dei quali sono percepiti come più salienti di altri (il sedile è più saliente della forma delle
gambe). Inoltre le categorie di base sono rilevanti sul piano comunicativo dal momento che le parole che le
designano sono quelle più comunemente utilizzate, hanno la frequenza più elevata, e sono indicate da parole
più brevi rispetto a quelle che indicano le categorie sovraordinate e subordinate. È la legge linguistica di Zipf:
quanto è più frequente l’uso di una parola in una lingua, tanto più breve diventa man mano che la lingua evolve
nel corso delle generazioni. Infine le categorie di base sono le prime ad essere apprese dal bambino.
 La concezione standard del prototipo
A livello orizzontale, le categorie mentali sono organizzate attorno al prototipo, ovvero il migliore esemplare di
una categoria, quello che la rappresenta meglio poiché dotato di maggior salienza. In questa prospettiva,
secondo Rosch le categorie sono organizzate secondo 5 criteri:
1. Non sono definite da un elenco di priorità comuni intese come condizioni necessarie e sufficienti;
2. I prototipi di una categoria sono gli elementi centrali attorno ai quali si organizza la categoria stessa;
3. L'appartenenza ad una categoria non è di natura dicotomica ma è graduale poiché avviene in base al
grado di somiglianza con i prototipi di quella categoria (più è simile, più l’appartenenza è forte);
4. Le categorie non hanno confini netti e precisi, ma sfumati e continui;
5. Gli esemplari di una categoria non presentano proprietà eguali ma sono simili tra loro.
Questa impostazione si fonda sul principio di somiglianza e di analogia, poiché si confrontano i vari componenti
di una categoria con il prototipo secondo giudizi di maggiore o minore somiglianza, procedendo in modo
graduale (dal più simile al più diverso o viceversa), fondandosi su attività logiche di natura inferenziale.
Questa concezione iniziale di prototipo ha sollevato alcuni dubbi. Innanzitutto, i concetti di rappresentatività e
somiglianza vengono sovrapposti in questo concetto di prototipo, quando in realtà sono due processi distinti.
Un conto è la rappresentatività (possesso del maggior numero delle proprietà tipiche di una categoria), un altro
è l’appartenenza categoriale. I criteri di somiglianza con il prototipo non sono sufficienti per definire tale
appartenenza, in quanto troppo vaghi. L’appartenenza va fondata su criteri più robusti.

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Inoltre, la nozione stessa di prototipo come entità fisica centrale per la struttura di una categoria si è
dimostrata infondata. Per esempio i numeri dispari da 1 a 9 sono considerati come i migliori esemplari della
categoria rispetto agli altri numeri dispari.
 La concezione estesa di prototipo
Verso gli anni 90 del secolo scorso, è stato elaborato il modello esteso del prototipo: si passa dal prototipo
come esemplare concreto al prototipo come costrutto mentale, inteso come insieme di proprietà astratte. Il
prototipo dunque diventa la configurazione degli effetti prototipici (insieme delle proprietà più salienti che
distinguono una categoria da un’altra). Esso assume il valore modale della categoria poiché costituisce il
culmine (la moda, appunto) della categoria stessa. In tal modo si ottengono diversi effetti:
 Una categoria può rimandare ad una gamma di referenti diversi senza essere percepita come ambigua
(la categoria uccello rimanda a molti animali diversi tra loro);
 Le proprietà di una categoria possono essere differenti, di diversa importanza, che si sovrappongono
tra loro;
 L’esistenza di esemplari con un maggior numero di effetti prototipici (più rappresentativi)
 La presenza eventuale (ma non necessaria) di confini sfumati della categoria.
Le proprietà di una categoria non costituiscono un tutto omogeneo, ma presentano delle differenze al loro
interno. Occorre quindi distinguere tra proprietà essenziali e proprietà tipiche di una categoria. Le prime
definiscono l‘appartenenza categoriale in negativo, per escludere chi non le possiede (se un animale non ha il
becco non può essere nella categoria uccello). Pur non essendo immodificabili, hanno uno statuto
relativamente forte, poiché sono il risultato di una convenzione culturale da lungo tempo condivisa. Il loro
cambiamento (cancellabilità) è possibile solo se si pattuisce il passaggio di una certa entità da una categoria
all’altra. È il caso della balena, fino a metà 800 era considerata un pesce mentre oggi è un mammifero.
L’appartenenza categoriale, oltre che dalle proprietà essenziali, è favorita anche dalla presenza di proprietà
tipiche (intese come proprietà specifiche aggiunte) cancellabili. Per esempio nella categoria uccello, sono
tipiche proprietà quali capacità di volare (gli struzzi non volano) o avere le ali (i kiwi non le hanno). Tra le
proprietà essenziali e quelle tipiche vi è una gerarchia di rilevanza, poiché le prime sono più importanti delle
seconde. Le proprietà tipiche sono correlate con la prototipicità categoriale quanto più è elevato il numero
delle proprietà tipiche in un componente, tanto maggiore è la sua rappresentatività categoriale (per esempio
l’aquila o il passero sanno volare e hanno le ali, quindi hanno un valore prototipico elevato).
 Oltre le teorie “classica” e del prototipo
Né la teoria classica, né la teoria del prototipo hanno spiegato in modo esauriente la formazione dei concetti.
Secondo alcune ottiche, i concetti sarebbero determinati anche contestualmente, a partire dagli scopi che una
persona si prefigge. Ad esempio, se dobbiamo fare una telefonata, nella nostra mente si attivano tutte le
informazioni multimodali che comprendono suono, forma, colore del telefono oltre all’eventuale guida
telefonica che usiamo per trovare il numero di telefono di chi dobbiamo chiamare; avremmo quindi costruito
una categoria di oggetti funzionali al nostro obbiettivo. In questa categorizzazione “situata”, nessi tra oggetti ed
eventi sono costruiti di volta in volta in modo diverso, in base alle necessità. Secondo la teoria della
rappresentazione di Barsalou (1987) i concetti non avrebbero caratteristiche stabili, poiché persone diverse
possono formare differenti rappresentazioni della stessa categoria di oggetti in situazioni e tempi diversi.

- 7.4 Problem solving e ragionamento


Questi due processi cognitivi comprendono la combinazione delle informazioni contingenti con quelle
immagazzinate in memoria: lo scopo è quello di giungere ad una conclusione o di trovare una soluzione.

7.4.1 Problem Solving


L’attività di problem solving è parte fondamentale dell’esistenza di ognuno di noi: pensate per esempio a
quando dovete passare un esame, rompere una relazione o consegnare un lavoro entro una scadenza. Alcuni

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problemi implicano una discrepanza tra ciò che sapete e ciò che avete bisogno di sapere; quando ne risolvete
uno, riducete la discrepanza, trovando un modo per ottenere le informazioni mancanti.
 Spazio del problema
La definizione formale di un problema comprende:
 uno stato iniziale (informazione incompleta o la condizione di insoddisfazione da cui partiamo)
 uno stato finale (l’informazione o la condizione che vogliamo ottenere)
 un insieme di operatori (i passaggi da compiere per muoversi dallo stato iniziale allo stato finale).
Queste tre parti insieme rappresentano lo spazio del problema. Nella risoluzione di un problema, la maggior
parte delle difficoltà iniziali sorgono perché uno di questi tre elementi non è ben definito. Anche nel caso in cui
il problema sia ben definito, può essere comunque difficile giungere ad una conclusione. Immaginate di
ritornare alle prime lezioni di matematica: l’insegnante vi dava una formula tipo x 2+x-12=0 e vi chiedeva di
trovare il valore di x. Per risolvere questi problemi potete usare algoritmo, ovvero una procedura step-by-step
che fornisce sempre la risposta giusta ad un particolare tipo di problema. Un algoritmo potrebbe essere utile in
diverse situazioni, come per esempio quando non ricordate la combinazione di una serratura e andate a
tentativi. Per loro stessa natura è più probabile che gli algoritmi siano disponibili per problemi ben definiti.
Quando non sono disponibili, ci si affida alle euristiche, ovvero delle strategie cognitive, delle regole empiriche,
usate come scorciatoia nella soluzione di problemi complessi. Per esempio quando leggete un romanzo giallo,
escludete che l’assassino sia il maggiordomo usando l’euristica per cui l’autore non avrebbe mai utilizzato una
trama così scontata (vedremo che le euristiche sono un aspetto critico del giudizio e della presa di decisione).
Per studiare i passaggi messi in atto per risolvere un problema e le modalità di applicazione di algoritmi o
euristiche, i ricercatori hanno spesso utilizzato i protocolli di verbalizzazione del pensiero (think-aloud), ovvero
chiedevano ai partecipanti di verbalizzare i loro pensieri man mano che si presentavano. I ricercatori hanno
usato spesso i resoconti che i partecipanti agli esperimenti fornivano sui loro stessi pensieri come punto di
partenza per la creazione di modelli più formali di risoluzione di problemi.
 Migliorare l’abilità di problem solving
Che cosa rende così difficile la risoluzione del problema? In molti casi il problema è difficile se le richieste
mentali necessarie alla risoluzione sono superiori alle risorse di elaborazione. Per risolvere un problema
bisogna dunque pianificare la serie di operazioni che vanno messe in atto. Se queste operazioni sono troppo
complesse, potrebbe essere difficile passare dallo stato iniziale a quello finale. Un passaggio importante per
migliorare l’abilità nel risolvere i problemi, è trovare un modo di rappresentare il problema tale per cui ogni
operazione sia possibile date le risorse di elaborazione disponibili. Se di solito vi trovate a dover risolvere
problemi simili tra loro, una procedura utile è quella di fare pratica con ciascuna componente della soluzione,
in modo che, con il passare del tempo, esse si automatizzino e richiedano meno risorse. A volte, trovare una
rappresentazione utile significa trovare un modo completamente diverso di pensare al problema.
La fissità funzionale è blocco mentale che influisce negativamente sulla capacità di risoluzione dei problemi,
inibendo la percezione di una nuova funzione dell’oggetto precedentemente associato a uno scopo diverso.
Ogniqualvolta che vi trovate bloccati su una problema dovreste chiedervi: “come mi sto rappresentando il
problema? Ci sono altri modi di pensare al problema?”. Se le parole non funzionano provare con un disegno o
cercate di esaminare le vostre convinzioni per capire quali “regole” possano essere infrante per creare nuove
combinazioni. Spesso, quando cerchiamo di risolvere i problemi, mettiamo in atto speciali forme di pensiero
chiamate ragionamento. Parleremo ora del primo tipo di ragionamento utilizzato a tale scopo, quello induttivo.

7.4.2 Ragionamento deduttivo


Il ragionamento deduttivo è una forma di ragionamento che consiste nel trarre conclusioni a partire da
premesse, basandosi su regole logiche. Ma la mente umana contiene davvero le rappresentazioni delle regole
formali della logica deduttiva? La ricerca psicologica ha dimostrato come esista un senso astratto e generale di
logica formale; il ragionamento deduttivo della vita quotidiana, però, è influenzato sia dalle conoscenze che
abbiamo sul mondo, sia dalle risorse di rappresentazione che possiamo dedicare a un particolare problema di

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ragionamento. Consideriamo il seguente sillogismo (struttura introdotta da Aristotele, interessato a definire i
legami logici che intercorrono tra gli enunciati che portano a conclusioni logiche):
Premessa 1: tutte le cose che hanno un motore hanno bisogno di olio;
Premessa 2: le automobili hanno bisogno di olio.
Conclusione: le automobili hanno un motore.
Si tratta di una conclusione valida? No, secondo le regole della logica. La premessa 1 lascia aperta la possibilità
che alcune cose senza motore abbiano comunque bisogno di olio. Ciò che non è valido in un problema logico,
tuttavia, non necessariamente è falso nel mondo reale. Se però consideraste le premesse 1 e 2 come le uniche
informazioni in possesso sul mondo, la conclusione non potrebbe essere valida.
Questo esempio mostra l’errore derivato dall’effetto bias dovuto alla credenza: le persone tendono a giudicare
valide le conclusioni che ritengono credibili e non valide quelle che invece giudicano non credibili . La ricerca
sostiene che questo errore rappresenti un conflitto tra due tipi di processi mentali che vengono applicati
durante il metodo induttivo. Il primo utilizza le esperienze passate per fornire risposte rapide e automatiche ai
problemi (le euristiche), il secondo invece consente la lenta e consapevole applicazione della logica formale.
In alcuni casi, l’abilità di utilizzare le esperienze passate migliora la prestazione nei compiti di ragionamento.
Immaginate che vi sia consegnata una serie di 4 carte: A, D, 4, 7. Il compito è determinare quali carte girare per
dimostrare la regola “se una carta ha una vocale da un lato avrà un numero pari dall’altro lato”. La maggior
parte delle persone girerebbe la A (corretto) e il 4, che sarebbe un errore. Infatti non importa cosa ci sia dietro
il 4, la regola non verrà comunque confutata. La mossa corretta è il 7, così se troverete una vocale avrete
confutato la regola. La ricerca originale di questo compito, chiamato compito di selezione di Wason, ha posto
dei dubbi sulle effettive capacità di ragionamento delle persone; tuttavia quando ai partecipanti è stato
permesso di applicare allo stesso esercizio le loro conoscenze del mondo reale, le prestazioni del ragionamento
deduttivo sono migliorate. Immaginate ora la sequenza di carte BEVE BIRRA, BEVE COLA, 23, 15. La regola ora è
“se un cliente sta per bere una bevanda alcolica, allora deve avere almeno 16 anni”. Probabilmente avreste
capito subito che le carte da girare sono BIRRA e 15. È importante notare che 7 e 15 hanno la stessa funzione
logica, ma nel secondo compito l’esperienza del mondo reale vi aiuta a comprendere più velocemente.

7.4.3 Ragionamento indutttivo


Il ragionamento induttivo è una forma di ragionamento che consiste nell’inferire una conclusione a partire da
indizi basandosi su dati probabilistici. Nella vita reale, gran parte delle vostre abilità nella risoluzione di
problemi si affida a questo tipo di ragionamento. Se vi siete mai chiusi fuori casa, una buona strategia sarebbe
quella di richiamare alla memoria soluzioni che hanno già funzionato in passato. Questo processo è chiamato
soluzione dei problemi per analogia. In questo caso, le vostre esperienze passate potrebbero avervi portato a
produrre la generalizzazione “trovare una persona con le chiavi”. Questa generalizzazione vi permette di
iniziare a identificare chi siano questi individui e come trovarli. Il ragionamento induttivo, quindi, permette
l’accesso a metodi testato e provati che risolvono velocemente i problemi con cui quotidianamente si ha a che
fare. È necessario una certa cautela però, perché una soluzione già utilizzata in passato può essere riproposta in
maniera efficace ma a volte affidarsi al passato può essere un ostacolo se esiste una differenza sostanziale tra la
vecchia situazione e quella nuova. Una esempio di questa condizione può essere quella dei vasi d’acqua:
usando solamente i tre vasi concessi, riuscite ad ottenere l’esatta quantità richiesta in
ogni problema? Se per i primi due problemi avete individuato la seguente regola logica
B-A-2C= risposta, avrete anche notato che questa regola non vale per il terzo problema.
Questo perché i vostri precedenti successi della regola hanno creato in voi una
disposizione mentale, ovvero uno stato cognitivo preesistente, un’abitudine o un
atteggiamento che può migliorare la qualità e la velocità della percezione e dell’abilità di
soluzione dei problemi entro determinate condizioni. La stessa disposizione tuttavia,
potrebbe inibire o distorcere la qualità delle attività mentali nel momento in cui le
vecchie modalità di pensiero e di azione non siano più adeguate alla nuova situazione.

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In questo paragrafo abbiamo fatto la differenza tra ragionamento induttivo e ragionamento deduttivo. La
ricerca suggerisce che la separazione esiste anche a partire dal modo in cui la mente elabora i due diversi tipi di
ragionamento: il ragionamento deduttivo produce una maggiore attivazione dell’emisfero destro, quello
induttivo invece porta a una maggiore attivazione dell’emisfero sinistro. Questo perché il ragionamento
deduttivo coinvolge un tipo di analisi relativamente indipendente dal linguaggio. Il ragionamento induttivo,
invece, attiva la comprensione basata sul linguaggio e i processi di inferenza precedentemente descritti.

7.4.4 Ragionamento abduttivo


In ambito scientifico si tende ad utilizzare il ragionamento induttivo per formulare generalizzazioni e leggi.
Tuttavia si tratta di un processo dispendioso, impegnativo e difficile. Negli scambi comunicativi quotidiani, di
solito, per capire ciò che l’altro comunica facciamo ricordo al ragionamento abduttivo, una forma di
ragionamento che consiste nel passare a ritroso dagli effetti alle cause, nel tentativo di spiegare qualcosa che è
già accaduto. Non avendo a disposizione una rappresentazione completa di ciò che l’altro comunica, non siamo
in grado di fornire una spiegazione esauriente e, di conseguenza, siamo èortati a cercare di indovinare e a fare
congetture su quanto viene comunicato. Le soluzioni così individuate non sono sempre corrette ma lo sono in
ogni caso di più di quanto succede affidandosi al puro caso. Tale forma di ragionamento risulta essere la più
facile ma non è sempre esente da rischi e da spiegazioni erronee. In particolare il ragionamento abduttivo è
influenzato dai processi di fissazione attentiva, vale a dire dalla concentrazione dell’attenzione su aspetti
parziali e limitati di quanto è detto o accaduto, assumendo tali aspetti come se fossero la totalità del messaggio
o dell’evento. È una forma di fissità funzionale dell’attenzione e del pensiero che a concentrarci sull’ipotesi di di
partenza e a cercare indizi e informazioni per confermare tale interpretazione.

- 7.5 Giudizio e presa di decisione


Ogni giorno siamo chiamati a fare scelte i cui esiti sono incerti; spenderesti 10euro per un film che potrebbe
anche non piacervi? Poiché potete solamente indovinare il futuro e non avrete mai una piena conoscenza di
quanto è avvenuto in passato, raramente siete sicuri di aver preso la giusta decisione. Come sosteneva Simon
(1979), uno dei fondatori della psicologia cognitiva, “poiché il potere della mente umana è limitato rispetto alla
complessità degli ambienti in cui gli esseri umani vivono”, questi dovrebbero accontentarsi di “trovare soluzioni
ai problemi e linee di condotta ‘sufficientemente buoni’”. Simon in quest’ottica parlava di razionalità limitata e
imperfetta, che procede attraverso un’esplorazione locale e progressiva dei fenomeni e dei problemi da
risolvere. I giudizi sono il risultato dell’applicazione delle nostre risorse limitate a situazioni che richiedono una
presa di decisione. Per questa ragione, giudizio e presa di decisione devono operare in modo da consentire di
gestire l’incertezza nel modo migliore. Per giudizio si intende il processo attraverso cui si formano opinioni, si
raggiungono conclusioni e si fanno valutazioni critiche degli eventi e delle persone. La presa di decisione invece
è processo con cui si sceglie tra due o più alternative, accettando o rifiutando le opzioni disponibili. La presa di
decisione e il giudizio sono molto legati tra loro; per esempio supponete di andare ad una festa e di conoscere
un ragazzo. Al termine della serata potrete giudicarlo interessante e prendere la decisione di frequentarlo.

7.5.1 Euristiche e giudizio


Qual è il miglior modo di formulare un giudizio? Il modo migliore per dare un giudizio è fare una tabella di pro e
contro, ma nella vita di tutti i giorni c’è bisogno di formulare giudizi in continuazione e con rapidità. Dunque
cosa possiamo fare? Le prime risposte a questa domanda sono state ottenute da Tversky e Kahneman, secondo
cui le persone, per formulare giudizi, utilizzano spesso le euristiche, ovvero regole empiriche informali,
scorciatoie, che riducono la complessità nella formulazione del giudizio. I ricercatori hanno ipotizzato che gli
esseri umani abbiano sviluppato una cassetta degli attrezzi adattiva, ovvero un repertorio di euristiche veloci
ed economiche che portano solitamente a giudizi corretti. L’assunto importante è che l’abilità di formulare
giudizi corretti, velocemente e con risorse limitate, è adattiva, cioè ha una funzione di sopravvivenza.
Nonostante i ricercatori abbiano dimostrato che spesso euristiche economiche conducono alla formulazione di

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un giudizio corretto, la ricerca si è focalizzata tipicamente sulle circostanze in cui esse conducono a giudizi non
corretti. Questo è dovuto da due ragioni principali:
1. La ricerca segue una logica che dovrebbe suonarvi famigliare; esattamente come si può capire la
percezione studiando le illusioni percettive e la memoria studiando i fallimenti mnestici, così si possono
comprendere i processi di formulazione del giudizio studiando gli errori;
2. Saper riconoscere le circostanze in cui le euristiche possono portare a giudizi errati rappresenta un
valore aggiunto; offre infatti alle persone l’opportunità di impiegare altre abilità mentali per formulare
giudizi migliori.
In generale, come abbiamo già detto parlando dei bias dovuti alla credenza, è positivo utilizzare l’esperienza
passata per formulare giudizi su situazioni contingenti. Tuttavia, nel contesto della logica deduttiva questa
procedura può portare a errori. Per trarre conclusioni deduttive corrette, a volte c’è bisogno di rallentare e
sforzarsi di applicare le conoscenze acquisite sulle regole della logica. Questo esempio di logica deduttiva
spiega la ragione per cui molti ricercatori adottino modelli di processo duale di giudizio e presa di decisione. Tali
modelli suggeriscono l’ipotesi che le persone abbiano due insiemi di processi mentali: processi veloci,
automatici e inconsci (le euristiche) e processi lenti, che richiedono sforzo e consapevolezza.
 Euristica della disponibilità
Immaginate che vi venga dato un estratto di un romanzo e vi venga chiesto se ci sono più parole che iniziano
con la C o più parole che hanno la C come terza lettera. Se avete optato per la prima opzione, la risposta è
sbagliata, perché la lettera C come terza lettera appare in quasi il doppio delle situazioni rispetto alle situazioni
che presentano la C come lettera iniziale. Perché avete pensato alla prima opzione? La risposta ha a che fare
con la disponibilità delle informazioni in memoria. È molto più facile pensare a parole che iniziano con la C
piuttosto che pensare a quelle in cui la C è in terza posizione. Il giudizio deriva quindi dall’euristica della
disponibilità, ovvero un giudizio basato sull’informazione disponibile prontamente in memoria. Questa
euristica ha due componenti:
1. la relativa facilità con la quale vengono recuperate le informazioni. Immaginate per esempio che vi
venga chiesto quale sport tra bowling e deltaplano sia più pericoloso.
2. i contenuti della memoria che si ha la sensazione vengano recuperati più facilmente. Immaginate che vi
chiedessero di evocare tre ricordi legati al bowling; se fossero tutti brutti ricordi forse concludereste
che il bowling non è un bello sport per voi.
Vediamo ora uno studio nel quale ai partecipanti era stato chiesto di valutare il grado di tipicità di alcuni
esemplare rispetto alla categoria. In alcuni casi le parole erano scritte con caratteri di facile lettura (come
COLIBRÌ) in altri casi erano più difficili da decifrare ( colibrì). I soggetti valutavano lo stesso esemplare come più
tipico quando era scritto con caratteri più semplici. Una spiegazione per questi risultati consiste nel fatto che la
difficoltà nel passaggio tra parola scritta e la sua rappresentazione in memoria ha influito sul giudizio di tipicità.
Questo studio ha dimostrato come i giudizi formulati facendo affidamento sulla facilità del recupero delle
informazioni possano dipendere dal contesti (in questo caso il carattere).
Potreste avere difficoltà con la disponibilità anche qualora l’informazione conservata in memoria contenesse
un errore. Consideriamo per esempio il seguente esperimento in cui si chiedeva ai partecipanti di ordinare le
seguenti nazioni da quella meno popolosa a quella più popolosa: Svezia, Indonesia, Israele, Nigeria. I ricercatori
hanno dimostrato che in generale più i partecipanti conoscono un paese più ne sovrastimano la popolazione (la
risposta esatta era Israele, Svezia, Nigeria, Indonesia).
 Euristica della rappresentatività
Quando formulate giudizi basandovi sull’euristica della rappresentatività, assumete che se qualcosa possiede
le caratteristiche tipiche di un membro della categoria allora è in effetti un membro di quella categoria. Questa
euristica vi sembrerà familiare perché sostiene l’idea che le persone utilizzino le informazioni appartenenti al
passato per formulare giudizi che si riferiscono al presente. Nella maggioranza dei casi, finché non avrete idee
sbagliate sulle connessioni tra caratteristiche e categorie, formulare giudizi sulla base della similarità può
sembrare ragionevole. Se per esempio state decidendo se provare il deltaplano, avrebbe senso determinare

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quanto questo sport sia rappresentativo della categoria di attività che ci sono sempre piaciute. La
rappresentatività tuttavia, potrebbe portarvi fuori strada se ignoraste altre informazioni rilevanti. Considerate
l’esempio seguente “L’avvocato di Gerusalemme”: i colleghi dicono che i suoi difetti gli impediscono di lavorare
bene in squadra, attribuendo il suo successo alla competitività e all’ambizione. Magro e non molto alto,
controlla la sua linea ed è vanitoso. Che sport pratica tra: marcia, un gioco con la palla, tennis, atletica leggera?.
Se la risposta che avete dato è “tennis”, è sbagliata, perché è inclusa nella categoria “sport con la palla”.
L’implicazione per la vita di tutti i giorni è che potreste essere tratti in inganno da un’alternativa
rappresentativa, prima di aver considerato la struttura di tutte quelle disponibili.
 Euristica dell’ancoraggio
Prendetevi 5 secondi per risolvere la seguente operazione e poi scrivete la risposta: 1x2x3x4x5x6x7x8.
Probabilmente in 5 secondi avrete completato le prime operazioni e sarete arrivati a 24, un risultato parziale, e
poi vi siete aggiustati per fare la stima del risultato. Ora risolvete questa: 8x7x6x5x4x3x2x1. Anche se si tratta
della stessa serie di cifre in ordine inverso, potete notare come l’esperienza di calcolo risulti differente: 8x7 fa
56 ma 56x6 è già un’operazione più complessa. Anche in questo caso avete un risultato parziale. Quando
Tversky e Kahneman (1973) hanno utilizzato queste due serie di esperimento, hanno osservato che la media
delle stime nella prima prova era 512, nella seconda 2250. La risposta corretta è 40.320. Evidentemente il
risultato parziale più alto porta alla stima più alta.
Questo esperimento ha dimostrati l’esistenza dell’euristica dell’ancoraggio, che regola in base a cui i giudizi
delle persone sul valore di un evento o esito evidenziano aggiustamenti insufficienti, verso l’alto o verso il
basso, rispetto ad un valore di partenza. Perché a partire dall’ancoraggio le persone fanno degli aggiustamenti
insufficienti? I ricercatori hanno iniziato a occuparsi di questa questione riferendosi a quando accade nella vita
quotidiana. Considerate la domanda: quanto tempo impiega Marte a compiere un’orbita intorno al sole? Per
rispondere alla domanda, potreste partire dal fatto che la Terra impiega 365 giorni e, considerando che Marte è
più grande rispetto alla Terra, potreste utilizzare l’orbita terrestre come ancoraggio per stimare quella di Marte.
I partecipanti all’esperimento infatti stimarono l’orbita di Marte intorno ai 492 giorni, ma questa stima è
comunque inferiore al valore reale che è 869 giorni. Sembra dunque che le persone si siano ancorate al valore
di 365 giorni e lo abbiano aggiustato fino a raggiungere un valore considerato plausibile.

7.5.2 La psicologia della decisione


Il modo in cui è formulata una domanda può avere grosse conseguenze sulle decisioni che vengono prese. Per
questa ragione avete bisogno di comprendere gli aspetti psicologici della presa di decisione: dovete infatti
essere in grado di valutare se una decisione regge di fronte ad un’attenta analisi.
 Il contesto delle decisioni
Uni dei modi più immediati per prendere una decisione è giudicare quale opzione porti al maggior guadagno o
alla minima perdita. Quello che, tuttavia, rende la situazione più complicata è che la percezione di un guadagno
o di una perdita dipende spesso dal contesto della decisione. Immaginate che vi chiedano quanto sareste felici
di ricevere un aumento annuale di 1000 euro: se non ve l’aspettate, vi sembrerà un enorme guadagno (e quindi
sareste molto felici) se invece vi aspettavate un aumento di 10.000 euro allora non sarete così tanto felici. In
entrambi i casi, avreste 1000 euro in più all’anno, ma l’effetto psicologico è radicalmente diverso. Questa è la
ragione per cui i punti di riferimento sono fondamentali nella presa di decisione.
Nella vita quotidiana, è molto probabile che sperimentiate l’effetto dei contesti nelle situazioni in cui qualcuno
sta cercando di convincervi di acquistare un prodotto. Consideriamo un altro esempio in cui veniva chiesto ai
partecipanti di scegliere tra il macellaio A che pubblicizzava la sua carne come grassa al 25% e il macellaio B che
la pubblicizzava come magra al 75%. La maggioranza dei casi scelse il macellaio B, perché la sua opzione
suonava più salutare. Nonostante la matematica dunque, il contesto ha un effetto molto forte.
Questi risultati dovrebbero incoraggiarvi a ragionare sulle decisioni importanti dalla prospettiva di contesti
diversi.

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 Conseguenze della presa di decisione
Che cosa succede quando prendere una decisione? Nel migliore delle ipotesi va tutto bene e non vi voltate
indietro ma, come sapete, non tutte le decisioni conducono al migliore dei mondi possibili. Quando le decisioni
si rivelano sbagliate, spesso si prova rammarico. La ricerca suggerisce che le persone sperimentano maggiore
rammarico in relazione alle decisioni prese in ambito scolastico e lavorativo, poiché esistono molti percorsi di
studio e molte carriere scolastiche. Le persone provano maggior rammarico quando hanno ben chiari i costi
associati ad una determinata decisione; in un quiz televisivo per esempio, se il concorrente deve scegliere tra la
busta A e la busta B nelle quali ci sono o 10.000 euro o 10 euro, se scegliesse la busta sbagliata è facile capire
perché si rammaricherebbe. Quando le persone si aspettano di poter rimpiangere la loro decisione, è probabile
che siano più caute nel momento in cui devono prenderla: impiegano più tempo e cercano il maggior numero
possibile di informazioni. In alcune circostanze, le persone cercano di evitare del tutto di prendere delle
decisioni.

- 7.6 La creatività
La creatività è un’abilità individuale di generare idee o prodotti che siano allo stesso tempo innovativi e
appropriati alle circostanze in cui vengono generati. Consideriamo l’invenzione della ruota: era innovativa
perché nessuno l’aveva inventata, ed era appropriata perché l’uso per il quale era stata creata era chiaro.
Senza l’appropriatezza, idee e oggetti innovativi vengono considerati bizzarri o irrilevanti.

7.6.1 Valutare la creatività


Come possiamo stabili che alcuni individui sono più creativi di altri? I ricercatori hanno utilizzato dei compiti
che misurassero: pensiero divergente e pensiero convergente.
 Molti approcci si focalizzano sul pensiero divergente, definito come l’abilità di generare una varietà di
soluzioni insolite ai problemi. Le domande che valutano il pensiero divergente valutano la capacità
dell’individuo di pensare in maniera flessibile, fluida e originale (per esempio “nomina tutte le cose
quadrate che riesci a pensare”).
 Il pensiero convergente invece, è definito come l’abilità di combinare diverse fonti di informazione per
trovare la soluzione al problema. Un test utilizzato dai ricercatori per valutare il pensiero convergente
si chiama test delle associazioni remote (Remote Asociation Test, RAT) che consiste nel trovare la
parola che funga da collegamento tra una serie di altre parole date (per esempio, “quale parola lega:
dente, bianco, macchiato?” Soluzione: latte).
Altre valutazioni delle capacità creative si focalizzano sull’insight definito come la riorganizzazione improvvisa
di un problema per facilitarne la risoluzione. In questo quadro è opportuno fare riferimento al pensiero
produttivo, inteso come la capacità di trovare soluzioni originali, individuando nuove connessioni tra pensieri e
fatti. Il pensiero produttivo è caratterizzato dal desiderio di esplorare l’ignoto, dalla capacità di rivedere ciò che
è dato per scontato e di tendere verso la novità con curiosità, versatilità e interesse costanti.
Un approccio differente per giudicare la creatività degli individui è quello di chiedere loro esplicitamente la
creazione di qualcosa di creativo come un disegno, una poesia o un racconto. La ricerca ha evidenziato un
accorto piuttosto elevato tra i giudici quando si tratta di valutare la creatività. Inoltre le persone stesse sono
molto abili di giudicare se i propri prodotti risultino o meno creativi.
La ricerca ha anche cercato di stabilire se vi sia un legame tra la creatività e l’intelligenza; uno studio tedesco
mise a confronto le misure del QI e quelle del pensiero divergente in un gruppo di adolescenti tra i 12 e i 16
anni. I risultati dimostrarono che gli studenti con un QI più alti erano anche più abili nel pensiero divergente.
Dunque in realtà, una certa dose di intelligenza dà alle persone l’opportunità di essere creative, ma non è detto
che le persone usufruiscano di questa opportunità.

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CAPITOLO 10
Motivazione ed emozioni

Quali fattori determinano il comportamento? Oltre alla motivazione, l’agire umano è largamente influenzato
dalle emozioni. Queste sono date da molteplici necessità, che vanno dai bisogni fisiologici fondamentali come
la fame e la sete, a quelli psicologici come il bisogno di realizzazione personale.

- 10.1 Che cos’è la motivazione


In generale, nella vita quotidiana, non ci comportiamo in modo casuale; le nostre azioni sono spiegate
(motivate) a una serie di cause e sono orientate alla realizzazione di specifici obiettivi, nonché alla soddisfazione
di determinati bisogni. La parola “motivazione” viene dal latino movere che significa “muovere”. In effetti, si
tratta della spinta a compiere una certa attività al fine di realizzare un dato scopo in relazione ai vincoli e alle
opportunità ambientali. La psicologia usa il concetto di motivazione per spiegare e prevedere il comportamento
delle persone in diversi contesi.
(1) Innanzitutto la motivazione ha la funzione di legare la biologia al comportamento; in quanto organismo
biologico, ciascuno di noi è dotato di complessi meccanismi interni che regolano il funzionamento corporeo e
assicurano la sopravvivenza. Gli stati interni di deprivazione (sete, fame, freddo..) innescano risposte corporee
che motivano ad agire per ristabilire l’equilibrio corporeo.
(2) Inoltre, gli psicologi fanno rifermento alla motivazione per spiegare la variabilità comportamentale; la
psicologia ricorre a spiegazioni motivazionali quando le variazioni del comportamento delle persone in una
situazione stabile non possono essere ricondotte ad abilità, competenze, esperienze, ecc.. Se avevate
intenzione di svegliarvi presto stamattina per studiare, mentre l’amico con cui dovevate preparare l’esame
rimane a letto perché ha sonno, sarebbe corretto dire che le vostre motivazioni sono diverse.
(3) Inoltre, la motivazione inferisce stati interni da comportamenti esterni; spesso tendiamo a individuare una
causa interna per spiegare il comportamento manifestato da noi stessi e dagli altri.
(4) Gli aspetti motivazionali entrano in gioco anche nel processo di attribuzione di responsabilità alle azioni; il
concetto di responsabilità personale è fondamentale per esempio nella giustizia, religione, negli ambiti
lavorativi in cui è vigente il rispetto di un’etica professionale. La responsabilità personale propone una
motivazione interna e la capacità di controllare le proprie azioni.
(5) Infine, la motivazione è determinante per spiegare la perseveranza nei confronti delle avversità; un’elevata
motivazione può portare ad arrivare in orario sul luogo di lavoro o in aula anche quando si è esausti. Inoltre vi
consente di giocare al meglio una partita anche quando state perdendo.

10.1.1 Le componenti della motivazione


Per aiutarvi a pensare alle diverse componenti della motivazione, esploriamo per prima cosa la distinzione tra
cause interne e cause esterne. Iniziamo ci le teorie che spiegano certe tipologie di comportamento in funzione
di fattori biologici interni.
 Pulsioni o incentivi
Alcune forme di motivazione sembrano essere molto semplici: bevete quando avete sete, se avete fame,
mangiate. La teoria secondo la quale la maggior parte del comportamento è determinato da fattori interni, è
stata sviluppata da Clark Hull. Secondo la sua prospettica, le pulsioni sono stati interni che insorgono in risposta
ai bisogni fisiologici. Gli organismi cercano di mantenere uno stato di equilibrio o di omeostasi, in relazione alle
proprie condizioni biologiche. Pensate a cosa succede se un animale è sottoposto ad uno stato di deprivazione
alimentare per molte ore. Secondo Hull, questa condizione induce un disequilibrio o tensione che determina la
pulsione. Quest’ultima attiva l’organismo con lo scopo di ridurre la tensione; quando la pulsione è soddisfatta o
ridotta, quando si è ripristinata l’omeostasi, l’organismo interrompe l’azione.
La riduzione di tensione è in grado di spiegare tutti i comportamenti motivati? Consideriamo l’esperimento che
ha dimostrato come la fame e la sete non siano sempre le motivazioni principali alla base del comportamento
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dei ratti: un gruppo di ratti assegnati a condizioni di deprivazione di cibo e di acqua sono stati collocati in un
labirinto. La teoria della pulsione prevede che l’esperienza di deprivazione avrebbe portato i ratti a rifocillarsi
alla prima occasione, eppure i ricercatori dimostrarono che i ratti dedicarono l’80% dei primi due minuti
all’esplorazione del labirinto. Questo risultato dimostra che il comportamento non è solo motivato da pulsioni
interne ma anche da incentivi, ovvero stimoli esterni o premi che non sono legati ai bisogni fisiologici.
Anche il comportamento umano è influenzato da una varietà di incentivi: perché la notte restate svegli a
vedere un film piuttosto che farvi una bella dormita? Perché rivedete film se sapete che vi mettono paura? In
questi casi, i fattori ambientali fungono da incentivi che motivano il comportamento.
In realtà, il comportamento è l’esito di una combinazione di fonti di motivazione interne ed esterne.
 Istinto o apprendimento
Quali ragioni sono alla base del comportamento? Una parte della risposta è legata al fatto che alcuni aspetti del
comportamento di una data specie sono determinati dagli istinti, tendenze programmate essenziali per la
sopravvivenza. Gli istinti forniscono repertori di comportamento che sono parte dell’eredità genetica di ciascun
animale. Non solo gli animali, ma anche gli uomini hanno una serie di istinti che per William James (1890) sono
istinti sociali legati a simpatia, modestia, socievolezza e amore.
All’interno della comunità scientifica degli psicologi, i comportamentisti hanno però fornito evidenze empiriche
secondo cui le emozioni e i comportamenti più importanti dell’uomo non sono istinti innati ma sono appresi.
 Le aspettative
Provate a considerare il romanzo del Mago di Oz: Dorothy e i suoi tre amici si impegnano strenuamente per
arrivare alla città di Smeraldo in quanto si aspettano che il mago dia loro ciò che ancora non hanno. Il saggio
mago però, li rende consapevoli che la possibilità di realizzare i propri desideri, dipende da loro stessi. L’opera
del Mago di Oz era molto nota tra i primi psicologi cognitivi, perché riconosceva l’importanza dei processi
cognitivi nel mettere a fuoco gli obiettivi e nel determinare i comportamenti messi in atto per realizzarli. Gli
psicologi condividevano il punto di vista del saggio mago secondo cui la motivazione umana non deriva da una
realtà oggettiva legata al mondo esterno, ma da interpretazioni soggettive.
Le azioni che mettiamo in atto sono spesso condizionar da ciò che riteniamo responsabile dei nostri successi e
fallimenti passati, da ciò che pensiamo di essere in grado di fare e da ciò che prevediamo possa essere il
risultato delle nostre azioni. L’approccio cognitivo spiega perché gli esseri umani sono spesso motivati dalle
aspettative nei confronti degli eventi futuri.
L’importanza delle aspettative è stata approfondita da Julian Rotter; secondo Rotter, la probabilità di attivare
un dato comportamento (studiare anziché andare ad una festa) è determinata dall’aspettativa di realizzare un
obiettivo (avere un bel voto) e al valore personale dell’obiettivo. La discrepanza tra aspettative e realtà può
motivare il soggetto a sviluppare comportamenti correttivi (per esempio posso essere motivato a cambiare il
modo di vestirmi per ridurre la discrepanza tra aspettative e realtà).
Fritz Heider ha sottolineato il ruolo delle aspettative relative alle fonti di motivazione interne ed esterne. Egli ha
affermato che il risultato del comportamento (un voto non soddisfacente) può essere attribuito a fattori
disposizionali (come uno scarso impegno) o a fattori situazionali (come una prova particolarmente difficile).
Queste attribuzioni influenzano il modo in cui vi comportate: il vostro voto potrebbe stimolarvi a fare di meglio
la volta successiva oppure potreste arrendervi se lo percepite come una mancanza di abilità. Pertanto,
l’identificazione di una fonte di motivazione potrebbe dipendere dall’interpretazione soggettiva della realtà.

10.1.2 Una gerarchia di bisogni


Lo psicologo umanista Abrham Maslow ha formulato la teoria secondo cui le motivazioni sono organizzate in
modo gerarchico, da quelle più semplici (primarie) a quelle più complesse e sofisticate (secondarie). In
particolare egli ha proposto una gerarchia di bisogni, secondo cui i bisogni relativi ad ogni livello gerarchico
devono essere soddisfatti prima che sia raggiunto il livello successivo.

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1. Al primo livello della gerarchia figurano i bisogni fisiologici, come la fame o la sete. Essi devono essere
soddisfatti prima che inizi ad operare qualsiasi altro tipo di bisogno. Quando i bisogni fisiologici sono
fortemente pressanti, gli altri vengono in secondo piano.
2. Secondo livello: bisogni di sicurezza e di protezione;
3. Al terzo livello: bisogni di appartenenza, che fanno riferimento alla necessità di appartenere, di affiliarsi
a un gruppo, di amare e di essere amati.
4. Quarto livello: bisogni di stima, legati al grado di piacevolezza, competenza ed efficacia personale.
5. L’ultimo livello è legato alla ricerca di un pieno sviluppo del proprio potenziale e di una completa
autorealizzazione; una persona autorealizzata è caratterizzata da consapevolezza, accettazione,
responsività sociale, creatività, spontaneità e apertura nei confronti di novità e sfide.
Dunque, al centro della teoria di Marlow sta il bisogno di ogni individuo di sviluppare il più possibile il proprio
potenziale. Tuttavia, le esperienze che facciamo nella vita quotidiana non rispecchiano sempre questa
gerarchia, per esempio potreste aver saltato il pranzo per aiutare un amico.

- 10.2 La motivazione al successo


Perché alcune persone hanno successo mentre altre falliscono? è possibile che alcune persone siano
semplicemente più motivate di altre. Torniamo pertanto alle ragioni principali che sottolineano l’importanza
dello studio della motivazione.

10.2.1 Bisogno di autorealizzazione


Già nel 1938, Henry Murray aveva ipotizzato che il bisogno di autorealizzazione varia d’intensità a seconda dei
soggetti e che fosse in grado di influenzare la propensione al successo e all’autovalutazione delle proprie
prestazioni. McClelland e i suoi collaboratori hanno formulato una modalità di misurazione dell’intensità di
questo bisogno e in seguito osservato la relazione tra forza della motivazione all’autorealizzazione in contesti
diversi, le condizioni che l’avevano favorita e i risultati ottenuti nel mondo del lavoro.
Per misurare l’intensità del bisogno di autorealizzazione, McClelland ha utilizzato il test di appercezione
tematica (TAT): veniva chiesto ai partecipanti di generare stori che li riguardassero in risposta ad una serie di
disegni ambigui. McClelland ha avanzato l’ipotesi che i soggetti proiettassero nella scena i loro valori, interessi e
motivi. A partire dalle risposte di ciascun partecipante a una serie di tavole del TAT. McClelland ha formulato
alcuni parametri per la misurazione di diversi bisogni umani, inclusi i bisogni di potere, di affiliazione e di
realizzazione. Il bisogno di autorealizzazione rifletteva le differenze individuali rispetto all’importanza attribuita
alla pianificazione all’impegno per raggiungere obiettivi personali. Per esempio, alti punteggi di bisogno di
autorealizzazione sono stati associati a soggetti caratterizzati da una condizione di ascesa in termini di posizione
sociale, con una maggiore probabilità di ottenere uno status occupazionale superiore a quello del padre.
Uomini e donne con un alto punteggio su questa scala all’età di 31 anni, tendevano ad ottenere, raggiunti i 41
anni, salari più alti rispetto ai coetanei con punteggi più bassi. Questo dimostra che individui con un grande
bisogno di autorealizzazione sono sempre disposti a lavorare duramente? Non proprio, se si trovano ad
affrontare un compito difficile, tendono ad abbandonare il compito abbastanza presto. Ciò che sembra
contraddistinguerli è il bisogno di efficienza, cioè l’esigenza di ottenere il massimo con il minimo sforzo.
I ricercatori hanno valutato se i comportamenti genitoriali possano portare a un basso o alo livello di
autorealizzazione. In effetti, i dati raccolti attraverso analisi longitudinali di un gruppo di bambini di Boston
suggeriscono che l’attività intensa del bisogno di realizzazione personale potrebbe costruirsi nei primi anni di
vita attraverso i comportamenti dei genitori.

10.2.2 Attribuzione del successo e del fallimento


Il bisogno di autorealizzazione non è l’unica variabile che influenza la motivazione al successo personale. Per
capire, immaginate che due studenti stiano frequentando lo stesso corso e che alla prima prova ottengano un
risultato pessimo. Il loro livello di motivazione allo studio nel prepararsi alla seconda prova, sarà lo stesso?

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Una parte della risposta dipenderà dalle attribuzioni causali, un processo attraverso cui si attribuisce un senso
alle azioni e ai comportamenti mediante l’individuazione di una causa più o meno probabile. Supponiamo che
uno dei due studenti attribuisca il risultato della sua prestazione alla presenza di un ambiente rumoroso
(attribuzione esterna), mentre l’altro attribuisca il risultato a una scarsa capacità di memorizzazione
(attribuzione interna). Queste attribuzioni potrebbero influenzare la motivazione dei soggetti. Lo studenti che
attribuisce le sue prestazioni all’ambiente rumoroso, sarà portato a lavorare più duramente durante la seconda
prova, l’altro studente invece è più probabile che rinunci all’idea di sforzarsi a studiare duramente.
La dimensione interna/esterna è una delle tre dimensioni in base alle quali le attribuzioni possono cambiare.
Possiamo anche chiederci fino a che punto un fattore causale possa essere stabile nel corso del tempo oppure
invariabile. La risposta ci fornisce un’indicazione relativa alla dimensione di stabilità/instabilità. Possiamo
anche domandarci fino a che punto si tratti di un fattore causale altamente specifico, limitato a un particolare
compito o situazione. Questo consente di utilizzare la dimensione globale/specifica.
Continuiamo a pensare all’esempio degli studenti: gli studenti possono interpretare i loro risultati come
riconducibili a fattori interni come le proprie capacità (caratteristica stabile della persona) o l’intensità dello
sforzo compiuto (caratteristica variabile). Oppure potrebbero considerare che i voti ottenuti siano determinati
da fattori esterni come la difficoltà del compito (caratteristica situazionale stabile) o la fortuna (caratteristica
situazionale instabile). Il modo in cui le persone interpretano i propri successi o fallimenti in relazione alle tre
dimensioni può essere in grado di influenzare la motivazione, il tono dell’umore e anche la capacità di
comportarsi in modo appropriato. Lo stile attributivo influenza il livello di attività e passività della persona, la
scelta di persistere o arrendersi, correre rischi o comportarsi in modo prudente.

10.2.3 Motivazione al lavoro e nelle organizzazioni


Immaginate di essere stati assunti da una grande azienda: siete in grado di prevedere quanto sarete motivati
conoscendo il vostro punteggio sulla scala del bisogno di autorealizzazione? Il livello individuale di motivazione
dipenderà in parte dal contesto complessivo e dall’ambiente lavorativo. Riconoscendo che i contesti di lavoro
sono sistemi sociali complessi, la psicologia delle organizzazioni studia i diversi aspetti delle relazioni umani,
come la comunicazione tra colleghi, la socializzazione, la formazione dei dipendenti, i processi di leadership, lo
stress e soprattutto la qualità di vita nel contesto lavorativo.
Nell’ambito della psicologia delle organizzazioni, alcune teorie cercano di spiegare e prevedere il
comportamento delle persone in relazione ai diversi contesti di lavoro:
 teoria dell’equità: i lavoratori tendono a valutare la giustizia e l’equità nel posto di lavoro attraverso
processi di confronto sociale con altri lavoratori. Quando il rapporto tra sforzi e risultati per il
lavoratore A è lo stesso di quello del lavoratore B, entrambi i lavoratori sono soddisfatti.
L’insoddisfazione si verifica quando questi rapporti non sono uguali. Poiché la percezione
dell’ingiustizia determina un clima organizzativo negativo, i lavoratori sono motivati a riportare una
condizione di equità modificando gli sforzi e i risultati ottenuti. Questi cambiamenti possono essere
comportamentali (per esempio ridurre lo sforzo compiuto lavorando meno) o psicologici (per esempio
reinterpretare il valore degli sforzi o il valore dei risultati: “il mio lavoro non mi soddisfa”/”sono
fortunato ad avere uno stipendio su cui contare”).
 teoria dell’aspettativa: i lavoratori sono motivati quando si aspettano che i loro sforzi e i
comportamenti sul posto di lavoro determinino i risultati desiderati. Le persone si impegnano quando
devono svolgere un lavoro che ritengono piacevole e realizzabile. Questa teoria sottolinea l’importanza
di tre componenti:
1. aspettativa: probabilità percepita che gli sforzi producano prestazioni di un certo livello;
2. strumentalità: percezione che la prestazione porterà a specifici risultati (come una ricompensa)
3. valenza: livello di gradimento percepito in relazione a determinati risultati
Alti livelli di motivazione sono determinati da un’elevata probabilità che si verifichino tutti e tre gli elementi,
mentre si realizzano bassi livelli di motivazione quando ogni singola componente è pari a zero.

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- 10.3 Che cosa sono le emozioni
Un’emozione è un insieme di cambiamenti corporei e mentali che include attivazione fisiologica, sentimenti,
processi cognitivi, espressioni visibili e reazioni comportamentali specifiche attivati in risposta a situazioni
percepite come personalmente significative.

10.3.1 Aspetti fisiologici delle emozioni


Cosa accade quando provate una forte emozione? Il cuore batte veloce, la respirazione aumenta, i muscoli si
irrigidiscono e possono anche verificarsi tremori. Oltre a questi cambiamenti notevoli, sono presenti molti altri
elementi che coinvolgono in modo sinergico la totalità del nostro organismo.
 Il sistema nervoso autonomo (SNA) prepara l’organismo alla risposta emotiva attraverso l’azione di:
o Sistema simpatico (più attivo in occasione di una stimolazione moderata non piacevole)
o Sistema parasimpatico (più attivo in occasione di una stimolazione moderata piacevole)
Nel caso di una stimolazione più intensa vengono coinvolti entrambi i sistemi. Dal punto di vista fisiologico, le
emozioni forti come paura o rabbia, attivano il sistema di reazione di emergenza del corpo che in modo rapido
e silenzioso lo prepara ad un potenziale pericolo: il sistema nervoso simpatico attiva il rilascio di ormoni
(adrenalina e noradrenalina) dalle ghiandole surrenali che determinano il rilascio dello zucchero nel sangue da
parte degli organi interni, aumentando la pressione sanguigna, la sudorazione e la salivazione. Passata
l’emergenza, il sistema nervoso parasimpatico inibisce il rilascio di ormoni attivanti.
Gli psicologi si sono chiesti se esperienze emotive specifiche diano luogo a differenti schemi di attivazione del
SNA: i risultati di una ricerca crossculturale volta a verificare se i soggetti appartenenti alla cultura
Minangkabau (educati a non mostrare emozioni negative) presentassero gli stessi modelli di attivazione del
SNA in presenza di emozioni negative osservati nella popolazione statunitense, dimostrarono un alto grado di
somiglianza tra le due culture. Dunque, i modelli di attivazione del SNA sono comune eredità biologica.
 Nel sistema nervoso centrale (SNC) l’integrazione degli aspetti ormonali e neuronali di attivazione è
controllata da:
o ipotalamo
o sistema limbico.
In particolare, la ricerca anatomica si è focalizzata sull’amigdala, la parte del sistema limbico che agisce come
via d’accesso ai processi emotivi e come filtro per la memoria. L’amigdala svolge questa funzione decodificando
le informazioni che riceve dagli organi sensoriali. Essa svolge un ruolo rilevante nell’attribuire un significato alle
esperienze negative. Risultati recenti ottenuti a partire dalle scansioni PET indicano che esistono differenze tra
maschi e femmine in termini di rappresentazioni delle emozioni a livello cerebrali. Negli uomini l’amigdala
destra comunica in modo estensivo con le altre regioni cerebrali come l’area della corteccia visiva o motoria
che sono orientate verso l’ambiente esterno. Nelle donne l’amigdala sinistra comunica in modo estensivo con
regioni come l’ipotalamo che sono orientate verso gli stimoli corporei interni. Questo suggerisce che uomini e
donne possono essere biologicamente predisposti a rispondere in maniera differente agli eventi emotivi.
La ricerca si è avvalsa di tecniche di scansione cerebrale per costruire una mappa delle risposte specifiche
relative alle diverse emozioni. Per esempio le emozioni positive e negative non attivano solo risposte nella
stessa parte della corteccia. Oltre a ciò, emozioni opposte portano a una maggiore attività in molteplici parti del
cervello. In uno studio alcuni soggetti sono stati sottoposti a risonanza magnetica mentre erano invitati a
osservare immagini positive e negative. Le scansioni hanno mostrato un’elevata attività dell’emisfero sinistro in
corrispondenza delle immagini positive e nell’emisfero destro in corrispondenza di quelle negative. Tale ricerca
ha evidenziato l’asimmetria tra emisfero destro e sinistro, confermando l’ipotesi della specializzazione emotiva
degli emisferi cerebrali.
 Teoria periferica delle emozioni
Le emozioni precedono i comportamenti? Per esempio, urlate contro qualcuno (azione) perché siete arrabbiati
(emozione) o viceversa?

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La prospettiva secondo cui l’emozione deriva da un feedback corporeo è conosciuta come teoria periferica
delle emozioni James-Lange. Secondo questa prospettiva, la percezione di uno stimolo causa l'attivazione
autonoma che porta all’esperienza di una specifica emozione.
 Teoria centrale
Lo psicologo Walter Cannon, presentò alcune obiezioni alla teoria di James-Lange. In particolare egli evidenziò
che l’attività viscerale è irrilevante per l’esperienza emotiva. Gli animali analizzati nel contesto sperimentale
continuarono a rispondere emotivamente anche quando i loro dispositivi viscerali sono separati
chirurgicamente dal sistema nervoso centrale. Inoltre, le risposte del sistema nervoso autonomo sono troppo
lene per dare origine alle esperienze emotive. Per Philip Bard, lo stimolo di attivazione emotiva determina sia
un’attivazione corporea attraverso il sistema nervoso simpatico, sia un’esperienza emotiva soggettiva
attraverso la corteccia cerebrale. Le convinzioni di questi fisiologi portarono alla formalizzazione della teoria
centrale delle emozioni di Cannon-Bard. Questa teoria afferma che uno stimolo emotigeno produce due
reazioni simultanee (attivazione ed esperienza emotiva), le cui cause non sono collegate tra loro. Mente e
corpo producono due risposte indipendenti.
La teoria periferica e quella centrale, pur essendo contrapposte, si sono dimostrate entrambe fondate (poiché
hanno colto aspetti specifici della vita emotiva) ma parziali (poiché non sono riuscite a cogliere e a dominare la
complessità delle emozioni).

10.3.2 Teoria cognitivo-attribuzionale delle emozioni


Il passaggio a una comprensione psicologica delle emozioni è avvenuto attorno agli anni 60. Secondo quanto
sostenuto da Schachter nella teoria emotiva a due fattori, l’esperienza emotiva è la diretta conseguenza di:
 Attivazione fisiologica o arousal: ovvero attivazione in seguito ad una stimolazione emotigena
 Attribuzione causale.
Entrambe le componenti sono necessarie per il realizzarsi dell’esperienza emotiva. Secondo questa prospettiva,
l’attivazione è considerata in modo generico e indifferenziato e costituisce il primo passo per lo sviluppo di una
sequenza emotiva. In seguito il soggetti valuta il proprio livello di attivazione fisiologica, quali etichette verbali
(lessico emotivo) possono esprimerla meglio, e il significato che può essere attribuito alle reazioni messe in
atto nel contesto particolare in cui si trova.
Secondo Lazarus, l’esperienza emotiva non può essere compresa solo in termini di ciò che accade alle persone
o nel loro cervello ma si configura in seguito al modo in cui sono valutate le interazioni che sono un corso con
l’ambiente. Lazarus inoltre enfatizza che l’attribuzione causale spesso si verifica senza un pensiero consapevole.
Quando un’esperienza passata lega certe emozioni a determinate situazioni, non è necessaria una ricerca
esplicita nell’ambiente per interpretare la propria motivazione. Questa posizione è conosciuta come teoria
cognitivo-attribuzionale.

10.3.3 Teorie dell’appraisal


Sorte intorno agli anni 60, le teorie dell’appraisal sostengono che le emozioni scaturiscano in seguito a un atto i
conoscenza (cognition) e di valutazione (appraisal) della situazione in funzione dei propri interessi, scopi e
significati. Gli interessi personali sono quindi al centro delle emozioni poiché attribuiscono un significato
affettivo agli eventi. Inoltre, gli interessi hanno una struttura motivazionale robusta: alcuni di essi hanno un
preciso fondamento biologico (unione o appartenenza) altri presentano una matrice sociale e culturale
(succeso, onore o autostima).
In secondo luogo, le teorie dell’appraisal riguardano i processi attraverso cui gli individui attribuiscono
significato alla situazione contingente. Al contrario della psicologia del senso comune, secondo cui le emozioni
si contrappongono alla razionalità, le teorie dell’appraisal considerano le emozioni come strettamente
intrecciate con i processi cognitivi, poiché la loro attivazione implica l’elaborazione cognitiva della situazione. Le
emozioni non compaiono all’improvviso ma sono l’esito di un'attività di conoscenza e valutazione della
situazione in riferimento alle sue conseguenze per il benessere dell’individuo, alle sue aspettative e i suoi

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standard culturali. Da ciò consegue che le emozioni sorgono in risposta alla struttura di significato di una data
circostanza. Non è lo stimolo ad attivarle ma il valore che l’individuo attribuisce a questo stimolo. Situazioni che
soddisfano i suoi scopi e desideri conducono a emozioni positive; per contro, situazioni valutate come dannose
o minacciose suscitano emozioni negative.
Le emozioni cambiano quando cambiano i significati o i valori attribuiti a una determinata situazione. Questa
situazionalità dei significati è centrale sia per capire la diversità e l’intensità delle emozioni, sia per spiegare la
dimensione soggettiva dell’esperienza emotiva. Due individui che valutano in modo differente la medesima
situazione, manifesteranno emozioni diverse.
In sintesi, le teorie dell’appraisal hanno fornito un contributo fondamentale alla comprensione dell’esperienza
emotiva. Anzitutto, esse pongono in evidenza la grande flessibilità e versatilità delle emozioni;
secondariamente, tali condizioni determinano da un lato l’architettura dinamica e componenziale delle
emozioni, poiché di volta in volta, a seguito di una data valutazione della situazione contingente, emerge una
specifica emozione (emozione modale, più compatibile con quella situazione). Dall’altro, sottolineano la
condizione dimensionale delle emozioni, poiché variano in continuazione lungo diverse dimensioni
(piacevolezza/spiacevolezza, attivazione/inibizione, livello di attenzione/rifiuto).
 Processo di valutazione degli stimoli
Pu essendo di solito rapido e relativamente semplice, il processo di valutazione si articola in funzione di alcuni
parametri che tengono in considerazione i diversi aspetti della situazione emotigena. A tale proposito, Scherer
(1984) ha proposto una sequenza lineare di controlli di valutazione dello stimolo (CVS) organizzata secondo un
ordine progressivo, che parte dagli aspetti biologici per arrivare a quelli cognitivi ed infine sociali:
1. Innanzitutto l’organismo valuta la novità e la discrepanza dello stimolo rispetto alle proprie aspettative.
In funzione alla novità vi può essere l’attivazione automatica dei processi neurali, la risposta di
orientamento e la razione di sorpresa;
2. Secondariamente, l’organismo valuta la qualità edonica (piacevolezza/spiacevolezza intrinseca) dello
stimolo. La piacevolezza suscita risposte di avvicinamento, mentre la spiacevolezza di allontanamento.
Anche in questo caso la risposta può essere automatica, come per il disgusto per le sostanze repellenti;
3. Poi l'organismo valuta la pertinenza dello stimolo per i propri scopi e bisogni. È la valutazione del
significato e del valore soggettivo della situazione in funzione del proprio sistema di aspettative e
credenze.
4. Poi l’organismo valuta le proprie capacità di far fronte (coping) allo stimolo. Si tratta di verificare la
natura della causa (agency), di accertare il grado di controllabilità dell’evento attraverso il ricorso di
un’azione specifica (lotta o fuga) oppure di procedere a una sorta di ristrutturazione interna degli scopi,
dei desideri e del concetto di sé. In particolare, il coping può essere primario (capacità di controllare
l’evento che ha attivato l’emozione) o secondario (capacità di gestire le proprie reazioni emotive),
come può essere attivo (prontezza e preparazione tonica dell’organismo a entrare in azione) o passivo
(preparazione dell’individuo in difesa).
5. Infine l’organismo valuta la compatibilità con le norme sociali e con l’immagine di sé. Infatti l’adesione o
la trasgressione delle norme e dei valori dei gruppi di riferimento suscitano emozioni assai diverse,
come orgoglio, vergogna, senso di colpa… Si tratta delle cosiddette emozioni autoconsapevoli.

- 10.4 Manifestazione delle emozioni


Darwin ne “l’espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali” si è chiesto se le espressioni facciali delle
emozioni fossero culturalmente invarianti. Egli era interessato ad analizzare la funzione adattiva delle
emozioni, che considerava non come stati personali, complessi e imprevedibili ma come modalità di
elaborazione del cervello umano altamente specifici. Darwin considerava le emozioni come stati mentali
ereditati e specializzati, formatisi per relazionarsi con una certa classe di situazioni ricorrenti nel mondo. I
ricercatori hanno confermato questa teoria dell’universalità delle emozioni osservando le risposte emotive dei
bambini appena nati così come la coerenza delle espressioni facciali tra diverse culture.

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10.4.1 Teoria dei programmi affettivi
Se la prospettiva evoluzionistica è corretta, ci aspettiamo di trovare le medesime espressioni nei bambini di
tutto il mondo. Rifacendosi alla teoria di Darwin, per Tomkins le emozioni come strettamente associate alla
realizzazione di scopi universali, connessi con la sopravvivenza della specie e dell’individuo. Questa posizione
asserisce che ogni emozione di “base” sia regolata da uno “specifico programma affettivo nervoso”, evolutosi
nel tempo per consentire alla nostra specie un adattamento efficace al proprio habitat.
Tomkins ha sottolineato che senza un apprendimento precedente, i bambini rispondo a rumori forti con paura
e difficoltà respiratorie: sembrano quindi predisposti a reagire a certi stimoli con una risposta emotiva
abbastanza generale. La ricerca crossculturale ha infatti confermato l’ipotesi secondo cui alcune risposte
emotive sono molto simili in bambini appartenenti a diverse culture; nonostante la ricerca abbia rilevato delle
regolarità a livello crossculturale, i risultati ottenuti dimostrarono anche che la cultura riesce ad influenzare le
risposte emotive molto precocemente.
Considerate inoltre che i bambini sembrano possedere una capacità innata di interpretare le espressioni facciali
delle altre persone. In un esperimento, dei bambini di 5 mesi sono stati sottoposti a una procedura di
abituazione in cui evidenziavano un interesse decrescente in seguito alla presentazione ripetuta di una faccia
adulta che mostrava una serie di sorrisi di diversa intensità. In seguito, i ricercatori mostrarono ai bambini la
fotografia di un adulto con un sorriso “nuovo” e poi una seconda fotografia con lo stesso adulto con
un’espressione impaurita. I bambini dedicavano più tempo ad osservare l’espressione impaurita come qualcosa
di nuovo e considerato la faccia sorridente come appartenente alla categoria già incontrata. Un altro
esperimento ha mostrato che i modelli dell’attività cerebrale di bambini di 7 mesi sono differenti in risposta alle
espressioni di rabbia e paura. Pertanto, i bambini presentano risposte diverse in relazioni a espressioni facciali
che non sono in grado di produrre.

10.4.2 Ipotesi dell’universalità delle espressioni emotive


Ekman e i suoi collaboratori hanno dimostrato quello che Darwin inizialmente aveva proposto, cioè che esiste
una gamma di espressioni emotive universale nella specie umana, probabilmente perché si tratta di
componenti innate appartenenti alla nostra eredità evolutiva. Basandosi su ricerche sperimentali condotte
preso varie popolazioni, comprese comunità non alfabetizzate, questi studiosi hanno sostenuto che le
espressioni facciali emotive sono unitarie e chiuse, universali e fisse, di natura discreta. Queste espressioni però
sono relative alle emozioni “di base”, ovvero collera, disgusto, tristezza, paura, gioia e sorpresa, che sono
universali, presenti in tutte le culture e riconosciute da tutti in modo attendibile.
 Metodo standard
A livello metodologico, Ekman ha utilizzato il metodo standard, che consiste nel mostrare a individui di varie
culture fotografie di espressioni facciali stereotipate (in posa) delle sei emozioni di base da parte di soggetti
americani e nel chiedere di riconoscere l’emozione corrispondente scegliendo una parola tra una lista chiusa.
Ricerche più recenti hanno confrontato le valutazioni di espressioni facciali tra soggetti provenienti da
Ungheria, Giappone, Polonia, Sumatra, Stati Uniti e Vietnam, mostrando un elevato grado di accordo fra queste
differenti popolazioni. La conclusione generale è che le persone di tutto il mondo, al di là delle differenze
culturali, etniche o di genere esprimono le emozioni di base in modalità simili e sono in grado di identificare le
emozioni che altri individui stanno provando, interpretando le loro espressioni facciali.
È importante sottolineare che l’ipotesi dell’universalità delle emozioni è relativa solo alle emozioni di base.
Ekman non sostiene che tutte le espressioni facciali siano universali o che le culture esprimono tutte le
emozioni nello stesso modo. In realtà, Ekman ha definito la sua posizione sull’universalità teoria neuroculturale
per indicare i contributi comuni del cervello (il prodotto dell’evoluzione) e della cultura nell’espressione delle
emozioni. Le diverse culture, tuttavia, influenzano con i propri vincoli le disposizioni biologiche universali. Per
esempio, i giapponesi riuscivano ad identificare la rabbia in misura minore rispetto agli americani.
Il metodo standard appare limitato da numerose debolezze concernenti i campioni impiegati, il disegno
sperimentale tra i soggetti, il ricorso alle foto in posa, nonché la mancanza di controllo nelle ricerche svolte

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presso le culture non alfabetizzate. Queste debolezze mettono in discussione i risultati in base ai criteri di
validità ecologica (non prendono in considerazione la comparsa delle espressioni in contesti naturali), la
validità convergente (non vi è la possibilità di confrontare i dati con un altro metodo) nonché la validità interna
(gli strumenti e i procedimenti adottati generano distorsioni che contribuiscono a confermare l’ipotesi
sperimentale). L’ipotesi che esista un legame, seppur parziale, fra emozioni e le espressioni facciali non nega
l’esistenza di rilevanti e significative variazioni culturali.

10.4.3 La prospettiva contestualista


Rispetto all’ipotesi universalista di Ekman, la prospettiva contestualista pone l’attenzione sulla connessione tra
le espressioni facciali delle emozioni ed il contesto immediato. Secondo tale concezione le espressioni facciali
assumono un valore emotivo definito in riferimento a una situazione specifica. Di conseguenza esse non
risultano pianificate in modo astratto secondo standard fissi e universali bensì in relazione al contesto
immediato e a regole contingenti in funzione di standard culturali.
Per loro natura, le espressioni facciali hanno un alto valore di indessicalità, ossia fanno riferimento a una fata
realtà attraverso l’impiego sistematico di indizi contestuali. Senza contesto, il loro significato non sarebbe
decifrabile. Solo il contesto è in grado di fornire gli indizi necessari per attribuire un significato attendibile alle
espressioni facciali. Pe esempio, la medesima emozione può suscitare espressioni facciali diverse.
Di norma, le espressioni facciali sono accompagnate da movimenti corporei; dunque le informazioni che ne
derivano non costituiscono una sorta di aggiunta alle espressioni facciali bensì sono una componente
essenziale per la percezione delle manifestazioni emotive. Anche la voce contribuisce in modo efficace al
riconoscimento delle espressioni facciali.
La percezione delle manifestazioni di un’emozione quindi è multimodale e corale poiché coinvolge l’organismo
nelle sue diverse modalità. Anche il contesto fisico e sociale sono fondamentali: le informazioni contestuali
congruenti svolgono una forte azione di facilitazione nel riconoscimento delle manifestazioni emotive, mentre
quelle incongruenti aumentano i tempi di latenza e abbassano i livelli di accuratezza di giudizio.

- 10.5 La regolazione delle emozioni


La regolazione delle emozioni va considerata come parte integrante dell’esperienza emotiva. È un processo
centrale per il benessere dell’individuo in quanto si attribuisce forma alla condotta emotiva a fronte di un
evento saliente, in modo da orientare la sua esperienza e manifestazione nel senso più appropriato ed efficace
rispetto alla situazione. La regolazione delle emozioni consiste nell’attribuire forma alla condotta emotiva di
fronte ad un evento saliente, in modo da orientare la sua esperienza e manifestazione nel senso più efficace e
appropriato rispetto alla situazione. In questo processo che mettiamo in atto mettiamo in atto molto spesso
nella vita quotidiana, occorre evitare qualunque forma di eccesso per evitare di correre il rischio di una
iperregolazione emotiva (controllo rigido e costante delle esperienze affettivi attraverso processi legati alla
soppressione e alla coartazione delle emozioni) oppure di una iporegolazione emotiva (con manifestazioni di
impulsività reattività immediata agli stimoli emotigeni e labilità emotiva).
 Regolazione e intelligenza emotiva
La regolazione delle emozioni è un’attività mentale che si svolge nel tempo e che prevede una gamma di
processi concernenti le varie fasi dell’episodio emotivo: valutazione della situazione, attivazione
dell’organismo, manifestazione dell’emozione stessa. è un indicatore valido e attendibile dell’intelligenza
emotiva, intesa come l’abilità di percepire ed esprimere emozioni, integrandole nel proprio pensiero,
comprendendo e ragionando sulle emozioni stesse, nonché regolandole in se stessi e negli altri. Intelligenza
emotiva significa saper identificare le emozioni proprie ed altrui, impiegarle per facilitare il pensiero (soluzione
di problemi, ragionamento, presa di decisioni, creatività), riconoscerle ed etichettarle in modo corretto, saper
gestire e regolare la loro manifestazione.

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Gross e Thompsin (2007) hanno proposto un modello teorico che distingue fra le operazioni di regolazione
concernenti gli antecedenti e quelle riguardanti la risposta emotiva. Per quanto riguarda gli antecedenti
emotivi, gli individui possono regolare le loro emozioni attraverso:
 la selezione della situazione (scegliere se accettare o evitare situazioni o persone in grado di suscitare
emozioni poco desiderabili o difficili da controllare);
 la modificazione della situazione (introdurre un elemento di cambiamento nel contesto fisico o sociale
di riferimento);
 la dislocazione dell’attenzione (concentrare le risorse attentive su alcune informazioni della situazione
all’interno di un certo numero di opzioni);
 la rivalutazione della situazione (attribuire un significato diverso alla situazione rispetto a quello
standard abituale.
In riferimento alla risposta emotiva, la regolazione emotiva consiste nel saperla modulare nelle sue diverse
componenti. Innanzitutto gli individui hanno a disposizione la possibilità di intervenire sugli aspetti fisiologici
arousal) in diversi modi, dall’suo di farmaci specifici (i betabloccanti per l’ansia) al ricorso di esercizi fisici, o di
rilassamento. La modulazione della risposta emotiva può essere modulata anche attraverso la condivisione
sociale delle emozioni. Rimé (2005) ha osservato che circa il 90% delle persone condivide con altri le proprie
emozioni abitualmente, nel giorno stesso in cui le hanno provate, nonostante la condivisione riattivi i
sentimenti e le sensazioni fisiologiche (piacevoli o spiacevoli) provate durante l’esperienza emotiva. Parlare
delle proprie emozioni con gli altri, contribuisce alla definizione del loro significato e della loro rilevanza
personale e sociale e consente di ottenere sostegno, conforto e consolazione aumentando la possibilutà di
tollerare la situazione (in caso di emozioni negative), promuove anche la capacità di ristrutturare e
riorganizzare gli eventi a livello mentale, offre un supporto circa le soluzioni e i modi con cui far fronte a
situazioni complesse e difficili.

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