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CAPITOLO 1
La psicologia scientifica. Sviluppo storico e metodi di ricerca
La psicologia può essere considerata una tra le scienze più antiche, e allo stesso tempo una tra le più recenti.
Da sempre il comportamento umano ha attratto l’attenzione di numerosi studiosi. Già Platone (427-347 a.C.) e
Aristotele (384-322 a.C.) e altri filosofi greci si interessavano di fenomeni di cui oggi si occupa la psicologia:
memoria, apprendimento, sogni, emozioni.. C’è dunque una continuità sorprendente tra passato e presente
nello studio di queste tematiche. Sebbene la psicologia si fondi sul pensiero di intellettuali e studiosi di diversi
periodi storici, viene riconosciuta come scienza autonoma solo nel 1879 con la fondazione del laboratorio di
Lipsia da parte di Wilhelm Wundt (1832-1920). La separazione tra filosofia e psicologia fu quindi l’esito di un
processo che portò allo studio della mente attraverso la sperimentazione e l’osservazione controllata.
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Platone ha teorizzato la separazione tra psyché e soma, tra anima (da intendersi come principio di vita)
e corpo (da intendersi come materia inanimata), dando inizio ad una concezione dualista che perdurerà
nei secoli. Il mito platonico della caverna stabilisce una suddivisione tra la conoscenza delle cose
sensibili del mondo (doxa), priva di qualsiasi certezza, e la conoscenza dell’intelletto, consistente in una
reminiscenza che la psyché ha del mondo delle idee.
Aristotele non accettò il dualismo platonico e nel suo testo intitolato Psyché ritiene che l’anima sia
inscindibile dal corpo e che la sua essenza consista in quelle capacità che consentono all’organismo di
sopravvivere.
La classicità romana non ha dato contributi particolarmente significativi della conoscenza della psyché:
Lucrezio (94 – 50 a.C) dichiara esplicitamente la sua incompetenza sulla natura dell’uomo
Seneca (4 a.C – 65 d.C) separa l’anima dal corpo e vede la ragione come ratio, logos greco che è il
principio divino che regge il mondo a cui l'uomo deve obbedire oltre che conformarsi alla natura
l’imperatore Marco Aurelio Antonino (121 – 189) mantiene la distinzione tra anima e corpo di Seneca e
vede nell’intelletto, particella che accomuna tutti gli individui, il principio che guida l’azione dell’uomo.
Nel Medioevo:
alcuni pensatori tra cui Averroè (1126 – 1198) pongono l’accento sull’inscindibile unità tra corpo e
anima e ne negano l’immortalità, altri come Avicenna (980 – 1037) sono di pensiero opposto.
Alberto Magno (1205 – 1280) e il suo allievo Tommaso d’Aquino (1225 – 1274) si rifanno alla
concezione aristotelica. Entrambi affermano che tuttavia l’anima è anche una forma spirituale,
autonoma dal corpo nella sua essenza.
La netta separazione tra anima e corpo sarà riproposta da Cartesio (1595 – 1650). Per Cartesio, l’anima ( res
cognitas) e il corpo (rex extensa) sono unite nell’uomo dalla “ghiandola pineale”, un organo di raccordo tra le
due sostanze situato nel cervello. Cartesio scienziato ha fornito un contributo significativo allo sviluppo della
scienza moderna. Di tale sviluppo, Galileo è considerato un riferimento fondamentale, poiché ha indicato le
linee guida del metodo scientifico della nuova scienza: il metodo scientifico è in intreccio di sensate esperienze
e di certe dimostrazioni (di tipo matematico).
Dal 600 in poi si assistette ad un numero sempre crescente di lavori nell’ambito di scienze empiriche, sul
sistema nervoso, sull’anatomia e sulla fisiologia. Studi pioneristici sulle strutture cerebrali furono condotti dal:
Medico inglese Thomas Willis, le cui ricerche influenzarono a lungo le indagini successive;
Medico scozzese Bell e fisiologo francese Magendie: i loro studi dimostrarono che le fibre nervose con
funzioni sensitive (1) e motorie (2) si trovavano le prime nelle radici posteriori e le seconde in quelle
anteriori dei nervi della spina dorsale.
Müller formulò la teoria delle “energie specifiche dei sensi”, secondo la quale per ogni tipo di
sensazione (visiva, tattile, uditiva…) esistono differenti e specifici tipi di recettori, nervi e centri nervosi.
Si deve poi giungere al 19esimo secolo perché si affermi pienamente l’esigenza della misura in ambito
neurologico e psicologico. Contrariamente a Muller secondo il quale non sarebbe stato possibile misurare la
velocità di trasmissione dell’impulso nervoso a causa della sua estrema velocità, il fisico e fisiologo Helmholtz
sostenne invece la sua misurabilità e la quantificò in circa 26,4m al secondo nelle sue ricerche sulle fibre
nervose della rana. Inoltre, sperimentazioni di rilevanza psicologica furono condotte da:
Il fisiologo e oculista olandese Donders, sui tempi di reazione
Weber e Fechner, sui rapporti tra caratteristiche fisiche degli stimoli e corrispondenti sensazioni
Ebbinghaus , sulla memoria
A distanza di due secoli dagli esperimenti di Galileo, si avvertì quella esigenza di utilizzare il metodo
sperimentale anche in psicologia. Tale nuovo interesse fu alla base della fondazione del primo laboratorio
fondato da Wundt a Lipsia nel 1879.
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- 1.3 Wundt e l’introspezione
Nel 1879, insieme ai suoi studenti (tra cui Friedrich e Hall), Wundt (1832 – 1920) diede inizio nel suo laboratorio
a un programma di ricerche di psicologia e già nel 1833 il laboratorio acquisì lo status di un istituto di ricerca
universitario. La psicologia sperimentale praticata Wundt applicava i metodi della fisiologia ai processi e ai
contenuti della coscienza umana. Per Wundt l’oggetto di studio della psicologia era l’esperienza diretta, o
immediata, e il metodo elettivo per rilevarla era costituito dall’introspezione.
Secondo Wundt, l’introspezione come metodo scientifico richiedeva:
1. Il controllo accurato dello stimolo in grado di produrre l’evento mentale, oggetto di osservazione
2. L’elaborazione e la stesura di un resoconto subito dopo l’osservazione dell’evento
Wundt stabilì anche delle linee guida per garantire la validità dell’introspezione:
1. L’osservatore, se possibile, doveva avere la possibilità di stabilire quando attivare il processo
2. L’osservatore doveva essere in una condizione di sforzo attentivo
3. Doveva essere possibile ripetere diverse volte la medesima osservazione
4. La condizione sperimentale deve prendere in considerazione variazioni di intensità e qualità della
stimolazione
La qualità dei risultati del metodo introspettivo dipendeva dall’abilità e dall’esperienza dell’osservatore, che
doveva raccogliere dati attendibili attraverso le sue risorse attentive e la sua rapidità in fase di osservazione e
stesura del resoconto. Secondo Wundt, l’auto osservazione era in grado di rivelare l’esistenza di processi
mentali come l’appercezione (un processo attentivo che organizzerebbe le percezioni), la volontà e le emozioni,
mentre i processi mentali superiori potevano essere studiati solo dall’osservazione naturalistica e la storia.
Le convinzioni di Wundt e dai suoi collaboratori sono state ampiamente superate dai successivi sviluppi della
ricerca psicologica, ma il contributo fondamentale di Wundt sta nell’aver intuito le potenzialità della psicologia
scientifica e di aver mosso i primi e fondamentali passi per legittimarla come disciplina scientifica.
- 1.4 Lo strutturalismo
Spesso si attribuisce la paternità dello strutturalismo alla psicologia di Wundt, ma in realtà il termine compare
per la prima volta in un articolo del 1898 dello psicologo inglese Edward B. Titchener (1867 – 1927), allievo di
Wundt e propugnatore delle sue idee negli Stati Uniti. Secondo Titchener, il primo passo per comprendere la
mente consisteva nello scoprirne la struttura, scomponendola nei suoi elementi primari. Era dunque necessario
evidenziare come si combinano tali elementi e poi comprendere perché si configurano tali combinazioni. Per
Titchener tali configurazioni potevano essere spiegate facendo riferimento ai processi fisiologici soggiacenti.
Secondo Titchener l’esperienza cosciente è costituita da percezioni, idee, emozioni (o sentimenti) a cui
corrispondono tre componenti fondamentali: sensazioni, immagini e stati affettivi. Questi componenti
sarebbero gli elementi semplici sui quali si strutturano rispettivamente le percezioni, le idee e le emozioni o
sentimenti. In particolare, Titchener si concentra sulle sensazioni: alle due qualità essenziali identificate da
Wundt (qualità e intensità) egli aggiunge durata e chiarezza. Per esempio una luce può essere descritta come
rossa (qualità), fioca (intensità), presente per 5 secondi (durata) o distinta da altri simboli luminosi (chiarezza).
Il metodo utilizzato da Titchener era quello dell’introspezione, ma l’addestramento che richiedeva ai suoi
soggetti era più rigoroso. Titchener inoltre indicò con l’espressione “errore dello stimolo” l’attribuzione di
significati e valori soggettivi ai dati oggettivi dell’esperienza.
Dunque, lo strutturalismo si fondava sul presupposto che tutte le esperienze mentali degli esseri umani
potessero essere comprese attraverso la combinazione delle componenti di base. Molti psicologi però
criticarono lo strutturalismo principalmente per tre motivi:
1. era riduzionista (riconduceva le complessità dell’esperienza umana ad alcune componenti sottostanti)
2. era elementarista (concepiva la mente come il risultato del combinarsi di elementi semplici piuttosto
che studiare il comportamento nella sua globalità)
3. era mentalista (analizzava solo resoconti verbali della consapevolezza umana cosciente ignorando chi
era nell’impossibilità di descrivere le proprie introspezioni.
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- 1.5 James e il funzionalismo
Il pensiero di Titchener si opponeva in modo manifesto a una psicologia “funzionale” e “descrittiva” interessata
più alle funzioni della mente che alla sua struttura. Era invece questa direzione che si orientavano sia in Europa
sia negli Stati Uniti le maggiori critiche alla psicologia wundtiana. In Europa i primi attacchi alla psicologia
strutturalista furono condotti in particolare da Brentano, secondo cui i processi psichici sono contraddistinti
dall’intenzionalità e l’oggetto di studio della psicologia è l’attività mentale.
Negli Stati Uniti spicca la figura di William James, a cui si ispirò la psicologia funzionalista. Il punto di partenza
della sua impostazione ea la teoria dell’evoluzione e in particolare lo stretto legame tra individuo e ambiente. Il
funzionalismo attribuì un’importanza sostanziale alle abitudini apprese che permettevano ad un organismo di
adattarsi all’ambiente e di funzionare con efficacia. Secondo i funzionalisti, la domanda alla quale i ricercatori
dovevano rispondere è: qual è la funzione o lo scopo di ogni atto di comportamento?
Il funzionalismo fornì un contributo determinante al formarsi di un nuovo concetto di esperimento in
laboratorio, a partire dall’oggetto di indagine, che non era più la coscienza ma il comportamento nella sua
totalità. Mentre lo strutturalismo affermava la necessità di una psicologia “pura”, esclusivamente sperimentale,
i funzionalisti sostenevano l’esigenza di una psicologia impegnata anche sul versante applicativo.
- 1.8 Il comportamentismo
Contemporaneamente alla nascita della Gestalt, in Germania e negli Stati Uniti, esordiva sulla scena scientifica
il comportamentismo, l’altra grande scuola psicologica che avrebbe segnato tutta la psicologia fino al secondo
dopoguerra. Un articolo pubblicato da John B. Watson nel 1913 è considerato il manifesto del movimento
comportamentista. Secondo Watson, la psicologia è “una branca sperimentale puramente oggettiva delle
scienze naturali”, essa non deve occuparsi della mente o della coscienza ma del comportamento osservabile.
Inoltre la psicologia non doveva avvalersi di metodi che non fossero suscettibili degli stessi controlli utilizzati in
tutte le scienze naturali. Di conseguenza, rifiuta il metodo dell’introspezione poiché l’unica psicologia scientifica
possibile era quella basata sull’indagine, condotta con metodi rigorosamente obbiettivi, delle manifestazioni
del comportamento osservabili dall’esterno, in modo diretto o con l’ausilio di strumenti.
Per i comportamentisti la mente è una scatola nera (black box) in cui lo psicologo non poteva e non era tenuto
a entrare. Obiettivo dello psicologo comportamentista era lo studio delle associazioni S(stimolo) – R(risposta).
In pochi anni il comportamentismo conquistò una posizione dominante nel panorama della psicologia
americana. Le ricerche del filosofo russo Pavlov sui riflessi condizionati anticiparono l’approccio a Watson,
ponendo l’enfasi sull’analisi del comportamento (animale o umano) senza dover ricorrere a costrutti mentalisti.
Analogamente, la “legge dell’effetto” di Thorndike secondo la quale la risposta comportamentale era da
considerarsi esclusivamente in funzione allo stimolo, forniva un’ulteriore conferma alla possibilità di ignorare i
processi che coinvolgono la mente.
Un’eredità importante del comportamentismo è la sperimentazione sugli animali e poi sugli esseri umani, in
particolare sull’educazione (valorizzando i rinforzi positivi piuttosto che le punizioni) e sui disordini
comportamentali.
1.8.1 Il neocomportamentismo
Tra gli anni 30 3 50, subentrò al comportamentismo una seconda fase, il neocomportamentismo. Pur
assumendo stimolo e risposta, alcuni neocomportamentisti introdussero delle variabili intermedie, o
intervenienti, nella descrizione del comportamento. Queste corrispondevano a eventi “interni” non
direttamente osservabili. Sugli sviluppi del neocomportamentismo ebbero un influsso significativo due
importanti correnti di pensiero:
1. Neopositivismo logico: sorto a Vienna intorno agli anni 20 e diffuso negli Stati Uniti, si segnalò per le
sue istanze di rigore formale degli enunciati scientifici, compresi quelli psicologici, inaccettabili se non
fossero stati regolati da principi logici.
2. Operazionismo: il requisito di ogni concetto scientifico doveva essere quello della sua “traducibilità” in
un insieme di operazioni, empiricamente controllabili, che permettessero di definirli. Per esempio per
la psicologia ciò significava definire la fame in termini di operazioni quali le ore di deprivazioni di cibo, o
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la misura dello zucchero nel sangue; tali operazioni sono indicatori osservabili della condizione non
osservabile e ipotizzata della fame.
Tra i neocomportamentisti, Edwin R. Guthrie formulò una teoria dell’apprendimento secondo cui l’associazione
temporale fra uno stimolo e un movimento era la condizione sufficiente perché alla ripresentazione dello
stimolo seguisse lo stesso movimento. Se per Watson e Guthrie i comportamenti appresi potevano essere
descritti attraverso meccanismi associativi S – R, altre ricerche tra cui quelle di Hull (con il concetto di pulsione)
e di Tolman (con i concetti di apprendimento latente e mappa cognitiva) portarono al superamento della teoria
S – R e al conseguente affermarsi della teoria S – O – R (stimolo-organismo-risposta), dove l’organismo è
tradotto nei termini di variabili intervenienti. Un noto sostenitore del comportamento radicale fu Burrhus
Skinner (1904 – 1990) che legò il suo nome al modello di apprendimento noto come condizionamento
operante. Secondo Skinner l’obbiettivo primario della psicologia rimaneva quello di stabilire relazioni funzionali
tra S e R indipendentemente dal riferimento a qualsiasi concetto “mentalista”.
- 1.9 Il cognitivismo
Lo sviluppo dell’orientamento cognitivista, risale alla seconda metà degli anni 50 del 900, tuttavia una
prospettiva precognitivista può essere colta anni prima nei lavori di diversi studiosi tra cui Bartlett, Jean Piaget
o Lev S. Vygotskij (1896 – 1934). Un significativo contributo in campo cognitivista fu quello del linguista Noam
Chomsky (1928 - ); egli sostenne che ogni lingua naturale non è un copione di frasi fisse ma un sistema aperto
all’infinita creatività di quanti la usano, a partire dai bambini. Questi ultimi, sulla base di una “competenza”
innata, acquisiscono , in pochi anni, la capacità di comprendere e di produrre strutture frasali mai udite prima.
La posizione di Chomsky dunque si contrappone nettamente all’associazionismo di Skinner che riduce il
linguaggio a un insieme di apprendimenti S – R .
La piena consapevolezza della nuova ottica cognitivista si è fatta strada lentamente; nel 1960, autori di un testo
di riferimento del cognitivismo come Miller, Galanter e Pribam, si autodefiniscono “comportamentisti
soggettivi”. Al centro di questo teso vi è l’unità TOTE (test-Operation-Test-Exit), una spiegazione circolare del
comportamento; essa è formata da fasi di retroazioni (= informazione che ritorna al soggetto sulle cose che sta
facendo nello stesso momento in cui la compie) ed è nettamente divergente dallo schema unidirezionale S – R.
per i cognitivisti, l’uomo è un elaborare di informazioni e la mente non è una scatola nera, poiché i processi
mentali (attenzione, memoria, linguaggio…) possono essere indagati con tecniche sperimentali. Oltre a
ricorrere al metodo introspettivo, i cognitivisti si avvalsero dei progressi fatti registrare dalla tecnologia dei
computer attraverso i quali fu possibile realizzare simulazioni del comportamento. Una panoramica delle
tematiche e delle ricerche cognitiviste è contenuta nel testo di Neisser, lo stesso autori che anni dopo criticò
non solo le ricerche cognitiviste ma tutta la psicologia di laboratorio a causa della sua scarsa rilevanza
ecologica, cioè della sua distanza dal modo di operare della mente nella vita quotidiana.
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Computer-style: fondati sull’idea che per spiegare la processazione dell’informazione da parte della
mente umana occorre tenere conto della modalità di funzionamento di un computer.
Brain-style: partono dal presupposto che, per formare ipotesi sulla mente umana, si deve far
riferimento al modo di operare del cervello umano. Questi modelli hanno una comune struttura di base
costituita da aggregazioni (dette “reti”) di elementi semplici (“neuroni artificiali” o “unità” o “nodi” o
“processori”). Allo stesso modo delle sinapsi che mettono in collegamento i neuroni fra loro, la
trasmissione di un segnale da un nodo all’altro è modulata da sinapsi, cioè da componenti che possono
amplificare o ridurre il segnale.
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contesto immediato. Più che essere impegnata nell’elaborazione, archiviazione e connessione tra idee e
pensieri, la mente sarebbe una guida di controllo per il comportamento. L’importanza che il connessionismo e
la mente situata attribuiscono al contesto rimanda a una concezione della conoscenza che si ipotizza fondata
sulle pratiche di vita quotidiana. Di conseguenza, il significato di un oggetto non è una verità conoscibile a priori
ma dipende radicalmente dal suo contesto immediato.
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Analisi dei dati, accettazione o falsificazione delle ipotesi
Una volta raccolti i dati, i ricercatori procederanno alla loro analisi e alla successiva discussione. L’analisi
statistica contribuisce a verificare se le ipotesi sperimentali sono corrette. Gli psicologi si servono di:
1. Statistiche descrittive: utilizzate per dar conto in modo sintetico di insieme di punteggi raccolti su un
singolo soggetti sperimentale o, più spesso, su gruppi di soggetti.
2. Statistiche inferenziali: ci permettono di capire quali inferenze possiamo trarre a partire dai nostri dati
campionari e quali conclusioni possono essere ricavate. Questo tipo di statistica utilizza la teoria della
probabilità per determinare se i nostri risultati sono dovuti al caso oppure no.
Divulgazione dei risultati
Se i dati possono avere una rilevanza scientifica si passa alla divulgazione dei risultati attraverso l’invio di un
articolo a una rivista. Nello scritto è necessario riportare sia la procedura utilizzata sia il metodo di analisi dei
dati. I dati inoltre devono essere conservati ed essere accessibili a una eventuale verifica pubblica. Una volta
inviato ad una rivista, l’articolo viene sottoposto a un processo di revisione (peer review) da parte di colleghi
esperti (2/5) e se la valutazione degli esperti è positiva, l’articolo viene pubblicato.
Questioni aperte
Dopo che i dati e risultati sono resi noti, la comunità scientifica esamina il lavoro e identifica le questioni
rimaste irrisolti. Quando i dati non supportano un’ipotesi in modo adeguato, il ricercatore deve rimettere in
discussione le ipotesi teoriche. Saranno gli autori stessi del lavoro oppure altri ricercatori a intervenire sulle
questioni aperte dando così il via a un nuovo ciclo di ricerca. Per questa ragione il rapporto fra la teoria e la
ricerca è continuo e ricorsivo.
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standardizzate. Gli scienziati devono tradurre le loro teorie in concetti che abbiano un significato univoco. La
strategia con cui si standardizzano i significati dei concetti si chiama operazionalizzazione. La definizione
operazionale di un concetto scientifico corrisponde all'insieme delle operazioni utilizzate per determinarne il
significato. In un esperimento, ad ogni variabile deve essere data una definizione operazionale. Il setting
sperimentale è il contesto dove si svolge l’esperimento.
Variabili confondenti
La confusione delle variabili è una delle maggiori minacce alla validità degli esperimenti. Quando il
comportamento dei partecipanti a un esperimento viene modificato da una o più variabili, oltre a quella
introdotta dallo sperimentatore, si crea confusione nell’interpretazione dei dati; questi elementi non previsti
sono chiamati variabili confondenti. Due fonti di confusione sono:
1. L’effetto aspettativa (o effetto Rosenthal): può comportare una distorsione dei risultati, provocata
dall’attesa che lo sperimentatore e/o i soggetti sperimentati hanno in merito ai risultati stessi. Questo
effetto fu osservato e descritto da Rosenthal che studiò in che modo le convinzioni dei ricercatori e dei
soggetti sperimentali potessero influenzare la realtà e dare origini ad una profezia che si autoavvera:
per esempio Rosenthal e Fode assegnarono a 12 studenti alcuni gruppi di ratti da addestrare per
percorrere un labirinto e i ratti inizialmente definiti come abili risultarono migliori nell’apprendimento
del percorso rispetto a quelli classificati come non adatti.
2. L’effetto placebo: si verifica quando i partecipanti ad un esperimento modificano le loro risposte in
assenza di qualsiasi tipo di trattamento sperimentale. Questo si osserva da tempo in ambito medico,
dove è utilizzato per spiegare i casi in cui la salute di un paziente migliora dopo l’assunzione di farmaci
chimicamente inerti. In questo contesto, per “effetto placebo” si intende un miglioramento della salute
o del benessere legato alla convinzione dell’individuo che il trattamento sia efficace e funzioni.
Procedure di controllo
I comportamenti degli esseri umani e degli animali sono complessi e spesso sono dovuti a molteplici cause; per
questo un buon disegno di ricerca anticipa le possibili variabili confondenti e progetta strategie per eliminarle.
Le strategie di difesa utilizzate sono chiamate procedure di controllo, cioè procedure finalizzate a tenere
costanti tutte le variabili e le condizioni, tranne quelle collegate all’ipotesi che deve essere testata:
1. Controllo a singolo cieco: i partecipanti dell’esperimento non sono a conoscenza delle condizioni
sperimentali in cui si trovano non sappiano di far parte di un esperimento così da eliminare le
distorsioni prodotte dall’effetto dell’aspettativa;
2. Controllo a doppio cieco: oltre i partecipanti anche lo sperimentatore non sa a quale condizione
sperimentale sono stati assegnati i soggetti che sta esaminando;
3. Controllo placebo: per controllare l’effetto placebo, i ricercatori inseriscono una condizione
sperimentale in cui non viene somministrato il trattamento (o non vi è manipolazione della variabile
dipendente). Per esempio, uno studio aveva dimostrato che gli studenti che avevano assunto una
compressa per la memoria ogni mattina per sei settimane avevano effettivamente migliorato le loro
prestazioni cognitive. Tuttavia, si evidenziò un miglioramento anche negli studenti che avevano
inconsapevolmente assunto un placebo (pillola priva di principi attivi).
Disegni di ricerca
È una procedura che dovrebbe consentire un’interpretazione non ambigua dei risultati, escludendo a priori
tutte le possibili interpretazioni alternative derivate dall’influenza di eventuali variabili confondenti. È uno
strumento fondamentale poiché rappresenta la struttura di base di tutta la ricerca. il ricercatore deve stabilire
quale disegno si adatti meglio ai suoi obiettivi:
1. Disegno tra soggetti (between subjects): prevede che i partecipanti siano assegnati casualmente alla
condizione sperimentale (in cui sono sottoposti al trattamento) e alla condizione di controllo
(condizione in assenza di trattamento sperimentale). L’assegnazione casuale è una delle strategie più
importanti che i ricercatori possono usare per eliminare le variabili confondenti legate alle differenze
individuali tra i partecipanti della ricerca. Questa è una strategia che attribuisce ad ogni partecipante la
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stessa possibilità di trovarsi nella condizione sperimentale o nella condizione di controllo. Quindi non ci
si dovrebbe preoccupare di una differenza sistematica tra gruppo sperimentale e gruppo di controllo.
Immaginate di voler verificare l’ipotesi secondo cui i bambini di 6 anni mentono di più rispetto a quelli
di 4 anni; alla fine dell’esperimento vorreste che i risultati siano generalizzabili all’intera popolazione di
bambini tra i 4 e i 6 anni. Nel laboratorio potete portare solo una piccolissima parte, un campione di
soggetti, ossia un gruppo che sia il più possibile simile, per quanto riguarda le caratteristiche rilevanti al
fine dell’esperimento, alla popolazione che si vuole prendere in esame. Deve essere considerato per
esempio il sesso e il gruppo etnico. Per selezionare un campione rappresentativo, i ricercatori utilizzano
il campionamento casuale, in cui ogni membro della popolazione studiata ha la stessa probabilità di
partecipare all’esperimento.
2. Disegno entro i soggetti (within subjects): utilizza ogni partecipante come controllo di se stesso. Per
esempio il comportamento di ciascun partecipante prima del trattamento viene confrontato con il suo
comportamento dopo il trattamento.
Tutti i metodi finora affrontati richiedono la manipolazione di una variabile indipendente, per verificare gli
effetti sulla variabile dipendente, ma ci sono situazioni in cui questo metodo non è il migliore da utilizzare:
1. In gran parte degli esprimenti il comportamento è studiato in ambiente artificiale, dunque l’ambiente
stesso così drasticamente controllato può provocare distorsioni al corso naturare del comportamento;
2. I partecipanti sanno di trovarsi all’interno di un esperimento dunque possono reagire modificando il
loro comportamento rispetto a quanto avverrebbe se fossero inconsapevoli di essere monitorati;
3. Alcuni filoni di ricerca non possono essere riconducibili a situazioni sperimentali per questioni etiche
(per esempio non posso cercare di capire se la tendenza all’abuso di minori sia trasmessa di
generazione in generazione creando un gruppo sperimentale di bambini vittime di abuso e un gruppo
di controllo senza vittime di abuso).
Quasi-esperimenti
Quando non sono soddisfatti i requisiti che definiscono il vero e il proprio esperimento, si parla di quasi
esperimento. Le inferenze basate sui dati di un quasi-esperimento non sono affidabili, poiché non tengono
conto di tutte le variabili confondenti. Ciò è dovuto al fatto che non è possibile manipolare a piacimento la
variabile indipendente, non si possono scegliere in modo casuale dalla popolazione i partecipanti e non si
possono assegnare i soggetti ai gruppi sperimentali e di controllo in modo randomizzato. Spesso il quasi-
esperimento rappresenta l’unico modo in cui è possibile condurre uno studio sperimentale di un dato
fenomeno. I quasi-esperimenti inducono i ricercatori a trarre conclusioni di tipo casuale più deboli rispetto a
quanto farebbero con un vero esperimento. Per contro, hanno caratteristiche “ecologiche” in quanto sono
condotti sul campo, cioè in un contesto naturale di vita quotidiana.
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dell’altra. La correlazione non implica causalità. L’alta correlazione potrebbe essere determinata da una terza
variabile, come per esempio il fatto che gli studenti ottengano voti alti e dormano bene quando frequentano
corsi facili, oppure può darsi che chi studia in maniera efficace vada a letto prima, oppure chi è particolarmente
ansioso non riesca a prendere sonno.
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CAPITOLO 2
Basi biologiche ed evolutive del comportamento
Che cosa rende unica una persona? Nel presente capitolo ci concentreremo sugli aspetti biologici della nostra
individualità. Di certo è possibile rilevare queste differenze soltanto partendo da ciò che ognuno Ha in comune
con gli altri: il potenziale biologico. Uno degli aspetti straordinari del nostro potenziale biologico è il cervello.
L’obiettivo di queste pagine è di aiutare a capire come la biologia contribuisce alla formazione di individui unici
ma con un potenziale di fondo condiviso.
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contribuiscono a determinare quali membri sono più adatti a garantirsi la sopravvivenza. Ecco dunque come le
forze ambientali possono modellare per la specie un repertorio di possibili comportamenti.
Evoluzione umana
Nell’evoluzione della nostra specie, la selezione naturale ha favorito due principi di adattamento:
1. Bipedismo: termine con cui si indica la capacità di camminare in posizione eretta che emerse nei nostri
antenati dai 5 ai 7 milioni di anni fa. Quando questi svilupparono la capacità di camminare in posizione
eretta, furono in grado di esplorare nuovi ambienti e sfruttare nuove risorse.
2. Encefalizzazione: l’incremento della dimensione del cervello. I primi progenitori umani, che
comparvero circa 4 milioni di anni fa (per esempio l’australopiteco) avevano cervelli simili per
dimensione a quelli degli scimpanzé. Nel periodo tra 1,9 milioni di anni fa e 200.000 anni fa, la
dimensione del cervello si triplicò: i nostri progenitori diventarono più intelligenti e svilupparono
capacità complesse di pensiero, ragionamento, ricordo e pianificazione.
Oltre al bipedismo e all’encefalizzazione, la pietra miliare della nostra specie è stata la comparsa del linguaggio.
Anziché apprendere le lezioni di vita in prima persona, gli esseri umani potevano trarre vantaggio dalla
condivisione delle esperienze altrui. Soprattutto, il linguaggio permise la trasmissione delle conoscenze
accumulate nel tempo alle generazioni successive. Il linguaggio è alla base dell’evoluzione culturale, che ha
prodotto progressi fondamentali nella realizzazione di strumenti, miglioramento delle pratiche agricole e il
perfezionamento industriale e tecnologico. Inoltre l’evoluzione culturale permette anche alla nostra specie di
adattarsi molto rapidamente ai cambiamenti delle condizioni ambientali.
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Se iniziamo a considerare la base genetica di aspetti più complessi dell’esperienza umana, è importante
osservare che alla manifestazione di un particolare attribuito contribuiscono più geni, quindi non solo una
coppia. Questi tratti sono noti come caratteri poligenici.
A partire dagli anni 90, il governo statunitense finanziò una ricerca internazionale chiamata Progetto genoma
umano. Il genoma di un organismo è l’intera sequenza di geni che si trovano nei cromosomi. Nel 2003 questo
progetto raggiunse lo scopo di fornire una mappatura completa del genoma umano.
Ereditabilità
Per comprendere le funzioni dei geni, la ricerca sulla genetica del comportamento umano si concentra spesso
sulla valutazione dell’ereditabilità di particolari caratteri e comportamenti. L’ereditabilità si misura su una scala
da 0 a 1; una stima prossima a 1 suggerisce che l’attributo preso in considerazione è in larga misura il prodotto
di influenze genetiche. Per distinguere le influenze ambientali da quelle genetiche, i ricercatori si servono degli:
Studi di adozione: in cui i ricercatori raccolgono quante più informazioni possibili sui genitori naturali di
bambini allevati in famiglie adottive. Quando i bambini crescono, i ricercatori valutano le somiglianze
con la famiglia naturale (che rappresenta la genetica) e la famiglia adottiva (che rappresenta la cultura)
Studi sui gemelli: in cui i ricercatori esaminano il livello di somiglianza in particolari tratti
comportamentali dei gemelli monozigoti (detti anche gemelli identici) e dei gemelli dizigoti (o gemelli
fraterni). I fratelli monozigoti nascono dalla fecondazione di una sola cellula uovo e i ricercatori
credevano che condividessero il 100% del materiale genetico; recenti evidenze hanno tuttavia
evidenziato che non sono propriamente identici dal punto di vista genetico.
La possibilità per i ricercatori di associare geni e comportamenti mette in rilievo alcune questioni etiche emerse
sulla scia dei successi del Progetto genoma umano. Per esempio, esistono diverse tecniche che permettono ai
genitori di scegliere se avere un maschio o una femmina, ma è giusto desiderare e poter fare questa scelta?
Dopo aver appreso che i ricercatori sono spesso in grado di valutare l’ereditabilità di importanti aspetti
dell’esperienza umana, analizzeremo perché anche l’ambiente è fondamentale.
Interazioni di geni e ambienti
I ricercatori hanno documentato sempre di più che sia la genetica che l‘ambiente svolgono ruoli fondamentali
nel determinare i comportamenti degli organismi. Consideriamo un esempio in cui le circostanze nelle quali i
bambini crescono hanno un impatto fondamentale sugli effetti dei geni da loro ereditati. Lo studio seguì un
gruppo di bambini di età compresa tra i 15 e i 67 mesi. Per quanto concerne la genetica, furono valutate le
differenze in un gene che incide sul neurotrasmettitore serotonina. Il gene si presenta si in forma breve (s) sia
lunga (l). lo studio mise a confronto bambini che ne ereditarono due versioni lunghe (ll) con bambini che ne
ereditarono almeno una versione breve (sl o ss). Per quanto riguarda l’ambiente, lo studio valutò le differenze
nel trattamento dei bambini da parte delle rispettive madri in una serie di contesti realistici (gioco o le faccende
domestiche). Quando i bambini raggiunsero i 67 mesi, i ricercatori ne valutarono le competenze scolastiche.
Per i bambini nati con almeno una variante breve del gene, la responsività materna aveva un impatto
considerevole: una maggiore responsività produceva maggiori competenze scolastiche. Per i bambini nati con
due varianti lunghe invece, la responsività materna non aveva, di fatto, alcun impatto sui risultati. Da questo
esempio, appare chiaro perché i ricercatori cercano di capire in che modo e per quali motivo certi ambienti
permettono ai geni di esercitare i loro effetti e, a loro volta, certi geni influenzano la componente ambientale. È
quindi fondato ipotizzare che il comportamento molto raramente è il prodotto della natura o della cultura ma
è, invece, frequentemente il prodotto congiunto di natura e cultura.
2.2.1 Neurone
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Il neurone è una cellula del sistema nervoso specializzata nel ricevere, elaborare e/o trasmettere le
informazioni ad altre cellule. I neuroni variano nella forma, nelle dimensioni, nella composizione chimica e nella
funzione svolta, ma hanno tutti la stessa
struttura fondamentale. Nel nostro cervello
è presente un numero di neuroni compreso
tra 100 miliardi e 1000 miliardi. Solitamente
i neuroni ricevono informazioni a
un’estremità e inviano messaggi da un’altra.
La parte della cellula che riceve i segnali è
formata da un insieme di fibre ramificate
chiamate dendriti, che si prolungano dal
corpo cellulare verso l’esterno. Il compito
fondamentale dei dendriti è ricevere
stimolazioni dai recettori sensoriali o da altri neuroni. Il corpo cellulare è chiamato soma e contiene il nucleo
della cellula e il citoplasma. Il soma integra l’informazione ricevuta dai dendriti e la trasmette attraverso
l’assone, una lunga e sottile fibra spesso rivestita di guaina mielinica. All’estremità opposta degli assioni ci sono
delle strutture rigonfie a forma di bulbo chiamate bottoni terminali, attraverso le quali il neurone è in grado di
stimolare neuroni vicini., ghiandole e muscoli. I neuroni generalmente si trasmettono le informazioni soltanto
in una direzione: dai dendriti all’assone attraverso il soma e dall’assone ai bottoni terminali.
Esistono tre classi fondamentali di neuroni:
1. Neuroni sensoriali: neurone che trasmette i messaggi dai recettori sensoriali verso il sistema nervoso
centrale. Sono altamente specializzati e sensibili (per esempio alla luce, suono o posizione del corpo)
2. Neuroni motori: neurone che trasmette i messaggi del sistema nervoso centrale in direzione dei
muscoli e delle ghiandole.
3. Interneuroni: neuroni cerebrali più numerosi che trasmettono i messaggi dai neruoni sensoriali ad altri
interneuroni o ai neuroni motori.
Per osservare in che modo questi tre tipi di neuroni collaborano, prendiamo per esempio in considerazione il
riflesso di allontanamento del dolore; quando i recettori del dolore sono stimolati da un oggetto pungente,
inviano messaggi a un interneurone presente nel midollo spinale attraverso i neuroni sensoriali. L’interneurone
risponde stimolando i neuroni motori i quali, a loro volta, stimolano i muscoli presenti nella zona del corpo
interessata ad allontanarsi dall’oggetto che è fonte di dolore. Soltanto dopo questa successione di eventi
naturali e il corpo si è allontanato dall’oggetto, l’informazione arriva al cervello. Ovviamente questa viene
immagazzinata nella memoria in modo che in seguito si eviterà l’oggetto dannoso.
A metà degli anni 90, Giacomo Rizzolatti e i suoi colleghi, scoprirono un nuovo tipo di neuroni osservando delle
scimmie. I ricercatori scoprirono che alcuni neuroni si attivavano anche quando le scimmie si limitavano ad
osservare il ricercatore compiere la medesima azione. Chiamarono dunque questo tipo di neurone, neurone
specchio, perché si attivano quando un individuo ne osserva un altro eseguire un’azione. Ci sono evidenze che i
neuroni specchio sono presenti anche nel cervello umano e che questi permettano di farci capire le intenzioni
legate al comportamento di altre persone.
Tra l’enorme rete di neuroni del cervello, c’è un numero di cellule gliali dalle 5 alle 10 volte superiore. Il
termine glia viene dal greco che significa “colla” dunque possiamo immaginare che una delle sue funzioni
principali è quella di tenere insieme i neuroni. Nei vertebrati queste cellule svolgono diverse altre funzioni:
1. Non appena formati, i neuroni vengono aiutati da queste cellule a trovare la propria collocazione
all’interno del cervello.
2. Pulizia: quando i neuroni sono danneggiati e muoiono le cellule gliali presenti nell’area si moltiplicano e
spazzano via i residui cellulari.
3. Formano uno strato isolante, detto guaina mielinica, attorno ad alcuni tipi di assone, che incrementa la
velocità di trasmissione del segnale nervoso.
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4. Impediscono alle sostanze tossiche che circolano nel sangue di arrivare al cervello.
Inoltre alcuni scienziati ritengono che la glia possa svolgere un ruolo attivo nella comunicazione neuronale
poiché può incidere sulla concentrazione di ioni che permettono la trasmissione degli impulsi nervosi.
2.2.2 Potenziali d’azione
Finora abbiamo detto che i neuroni inviano e ricevono messaggi o che si stimolano reciprocamente, dunque è
arrivato il momento descrivere in modo più dettagliato i differenti tipi di segnali elettrochimici usati dal sistema
nervoso per elaborare e trasmettere le informazioni. Per ciascun neurone, la domanda è: attivarsi (cioè
produrre una risposta) oppure no? Ogni neurone prende questa decisione associando le informazioni
provenienti ai dendriti e al soma e determinando se questi impulsi segnalano di attivarsi o non attivarsi. In
termini specifici, ogni neurone riceve una combinazione di input eccitatori (di attivazione) e input inibitori (non
attivazione). La corretta sequenza di input eccitatori nel tempo e nello spazio porta alla produzione di un
potenziale d’azione, ovvero l’attivazione.
Base biochimica dei potenziali d’azione
Tutta la comunicazione neuronale è prodotta dal flusso di particelle dotate di carica elettrica (positiva o
negativa), dette ioni, attraverso la membrana neuronale, una sottile pellicola che separa l’interno dall’esterno.
Ci sono ioni sodio (Na+), ioni cloro (Cl-) e ioni potassio (K+). La membrana svolge un ruolo fondamentale nel
mantenere i componenti nel giusto equilibrio.
Quando una cellula è inattiva, si verifica una maggiore concentrazione di ioni potassio dentro l’assone e una
maggiore concentrazione di ioni sodio al suo esterno. La membrana non è perfettamente impermeabile, perciò
lascia entrare un po’ di ioni sodio e lascia uscire un po’ di ioni potassio. Per ovviare a ciò, la membrana possiede
dei meccanismi di trasporto interni che pompano sodio all’esterno e potassio all’interno. L’azione di queste
pompe fa si che nel liquido interno alla cellula ci sia una tensione leggermente negativa, rispetto al liquido
esterno. Ciò significa che il liquido all’interno sia polarizzato. Questa leggera polarizzazione è detta potenziale
di riposo e fornisce il contesto chimico in cui una cellula nervosa può produrre un potenziale d’azione.
Gli input provocano delle modifiche nel funzionamento dei canali ionici cioè le parti eccitabili della membrana
cellulare che consentono solo a determinati ioni di fluire verso l’interno e verso l’esterno. Gli input inibitori
portano i canali ionici a lavorare più intensamente per mantenere la carica negativa all’interno e per impedire
alla cellula di attivarsi; gli input eccitatori fanno si che i canali ionici lascino entrare ioni sodio permettendo alla
cellula di attivarsi. Un potenziale d’azione inizia a manifestarsi quando gli input eccitatori, rispetto agli inibitori,
hanno abbastanza forza da depolarizzare la cellula. Il sodio dunque penetra nel neurone facendogli assumere
una carica positiva rispetto all’esterno. Per effetto domino, la spinta data dalla depolarizzazione porta i canali
ionici presenti nella regione adiacente dell’assone ad aprirsi e a permettere l’ingresso del sodio. In questo
modo, tramite successiva depolarizzazione, il segnale progredisce lungo l’assone.
Dopo l’attivazione, in che modo il neurone torna all’originale stato di riposo? Quando l’interno del neurone
diventa positivo, i canali che fanno affluire il sodio si chiudono, mentre quelli che fanno defluire il potassio si
aprono. Il deflusso degli ioni potassio ripristina la carica negativa del neurone. Pertanto, mentre il segnale
raggiunge l’estremità dell’assone, le parti della cellula in cui il potenziale d’azione ha avuto origine ritornano
allo stato di riposo, pronte alla successiva stimolazione.
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quello esterno all’interno nuovamente nell’assone dell’assone è pronto per
(potenziale di riposo) (depolarizzazione) trasmettere un altro
impulso.
Proprietà del potenziale d’azione
La modalità biochimica attraverso cui il potenziale d’azione si trasmette mostra diverse importanti proprietà.
Innanzitutto il potenziale d’azione obbedisce alla legge del tutto o nulla. Esso non è influenzato dall’
incremento di intensità della stimolazione oltre la soglia: quando l’input eccitatorio raggiunge il livello-soglia, si
genera un potenziale d’azione che non varia d’intensità; se la soglia non è raggiunta non si verifica alcun
potenziale di azione. Una conseguenza di questa legge è che l’intensità del potenziale d’azione non diminuisce
per tutta la lunghezza dell’assone. In questo, il potenziale d’azione si dice autopropagantesi: una volta avviato
non richiede alcuna stimolazione esterna per mantenersi in moto.
Neuroni differenti conducono i potenziali d’azione lungo i propri assoni a velocità differenti; gli assoni dei
neuroni più veloci sono ricoperti da una guaina mielinica che li avvolge. Le minuscole interruzioni fra questi
tubicini sono i nodi Ranvier. Nei neuroni con assoni mielinizzati, il potenziale d’azione “salta” da un nodo
all’altro risparmiando tempo ed energia richiesti per aprire e chiudere i canali ionici in ogni punto dell’assone.
Danni alla guaina mielinica compromettono la tempistica del potenziale d’azione, causando gravi problemi (es.
sclerosi multipla). Quando il potenziale d’azione ha superato un segmento dell’assone la regione del neurone
interessata entra in un periodo refrattario; durante il periodo refrattario assoluto, una successiva stimolazione
non può generare un altro potenziale d’azione. Durante il refrattario relativo: il neurone si attiverà soltanto in
risposta ad uno stimolo più forte di quello solitamente necessario. Il periodo refrattario assicura, in parte, che il
potenziale d’azione scorra lungo l’assone soltanto in una direzione: non può dunque procedere a ritroso perché
le precedenti parti dell’assone si trovano nello stato refrattario.
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Acetilcolina
Si trova sia nel sistema nervoso centrale che periferico. La perdita della memoria dei pazienti affetti dalla
malattia di Alzheimer si ritiene causata dal deterioramento dei neuroni che secernono tale neurotrasmettitore.
L’acetilcolina svolge una funzione eccitatoria anche nelle connessioni tra nervi e muscoli, dove provoca la
contrazione muscolare. Le sue funzioni sinaptiche sono influenzate da numerose tossine, come il botulino,
tossina spesso rilevata nel cibo conservata in modo scorretto, avvelena un individuo impedendo il rilascio
dell’acetilcolina; questo tipo di avvelenamento noto come botulismo può causare morte per soffocamento.
GABA
Il GABA (acido gamma-aminobutirrico) è il neurotrasmettitore inibitorio più comune nel cervello. I neuroni
sensibili al GABA si trovano in particolare nel talamo, ipotalamo e lobi occipitali e sembra svolgere un ruolo
fondamentale in alcune forme di psicopatologia attraverso l’inibizione dell’attività neuronale. Quando nel
cervello i livelli di questo neurotrasmettitore diventano bassi, è possibile sperimentare ansia o depressione. I
disturbi di natura ansiosa sono spesso trattati con benzodiazepine, come Valium o Xanax che aumentano
l’attività del GABA. Le benzodiazepine non si uniscono direttamente ai recettori del GABA ma permettono a
quest’ultimo di legarsi con maggiore efficacia alle molecole recettrici.
Glutammato
È il neurotrasmettitore più comune nel cervello e svolge un ruolo fondamentale nei processi di risposta
emotiva, apprendimento e memoria. L’apprendimento procede con maggiore lentezza quando i recettori del
glutammato non funzionano in modo appropriato; inoltre, l’alterazione dei livelli di questo neurotrasmettitore
nel cervello sono stati associati a diversi disturbi psicologici tra cui la schizofrenia. Il glutammato ha un ruolo
anche nella dipendenza da sostanze, come alcol e nicotina.
Dopamina, norepinefrina e serotonina
Le catecolamine sono una classe di sostanze chimiche che comprende due importanti neurotrasmettitori: la
norepinefrina e la dopamina. Si è dimostrato che entrambe svolgono ruoli importanti in disturbi psicologici
come i disturbi di ansia, umore e schizofrenia. I farmaci che aumentano i livelli di norepinefrina migliorano
l’umore; per contro, in individui affetti da schizofrenia sono stati rilevati livelli di dopamina superiori alla norma
(quindi per trattare questo disturbo bisogna somministrare farmaci che riducono i livelli di dopamina).
Tutti i neuroni che producono serotonina si trovano nel tronco encefalico coinvolto in molti processi involontari
e risposta agli stimoli. LSD sembra produrre i propri effetti annullando quelli dei neuroni della serotonina. La
presenza nel cervello di livelli anomali di serotonina è associata ai disturbi dell’umore: livelli ridotti d tale
sostanza per esempio possono essere la causa di depressione (il Prozac è un antidepressivo che incrementa
l’azione della serotonina).
Endorfine
Sono un gruppo di sostanze chimiche classificate come neuromodulatori, cioè una sostanza che modifica o
modula l’attività del neurone postsinaptico. Le endorfine svolgono un importante ruolo nel controllo del
comportamento emotivo e del dolore. Grazie alle loro proprietà di controllo del piacere e del dolore, le
endorfine sono state definite “le chiavi del Paradiso”.
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Interventi sul cervello
Diversi metodi di ricerca neuroscientifici comportano un intervento diretto sulle strutture cerebrali. Questi
metodi affondano le loro radici storiche in casi come quello di Phineas Gage: nel 1848 in seguito ad
un’esplosione, la sua testa fu attraversata da una barra di metallo di un metro. Il danno fisico fu lieve ma dal
punto di vista psicologico divenne un altro uomo: prima dell’incidente era ammirato, intelligente ed energico,
dopo l’incidente divenne incostante, irriverente e irrispettoso verso i compagni.
All’incirca nello stesso periodo in cui Gage era convalescente, Paul Broca studiava il ruolo del cervello in
relazione al linguaggio. Le sue prime ricerche inclusero l’autopsia di un uomo il cui nome deriva dall’unica
parola che riusciva a pronunciare, Tan. Broca rilevò che l’aera frontale sinistra del cervello era stata
gravemente danneggiata e questo risultato lo portò a studiare il cervello di altre persone che soffrivano di
disturbi del linguaggio. In tutti i casi furono rilevati danni simili nella stessa area, ora nota come area di Broca.
Per studiare i cervelli danneggiati, agli scienziati servono metodi che permettano di identificare con precisione
le zone cerebrali lesionate. I ricercatori hanno sviluppato diverse tecniche per produrre lesioni localizzate con
precisione. Possono per esempio asportare chirurgicamente specifiche aree del cervello, tagliare le connessioni
neuronali in quelle aree o distruggerle con il calore, freddo o stimoli elettrici. In anni recenti, è stata sviluppata
dagli scienziati una tecnica chiamata stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (RTMS) che usa impulsi di
stimolazione magnetica per produrre effetti che stimolano lesioni temporanee, reversibili, nei soggetti umani
(senza danneggiarne i tessuti). Questa nuova tecnica permette ai ricercatori di affrontare una gamma di
questioni che non sarebbe possibile trattare conducendo esperimenti sugli animali; per esempio, un gruppo di
ricercatori usò la RTMS per verificare l’ipotesi secondo cui quando si producono due differenti parti del
discorso, si attivano due differenti aree del cervello. Nell’esperimento i partecipanti dovevano completare
semplici frasi per esempio “oggi cammino” e dovevano completare “ieri….” (camminavo) oppure “un bambino”
e “molti….” (bambini). Con l’uso della RTM ci aspetteremmo che il completamento delle frasi subisca un
rallentamento, ma in realtà i ricercatori individuarono una regione cerebrale (vicina all’area di Broca) che se
stimolata dalla RTMS produceva prestazioni più lente per i verbi ma non per i nomi. È facile capire che questo
esperimento non sarebbe possibile con gli animali perché non sono in grado di produrre nomi e verbi.
In altri casi, i neuroscienziati analizzano le funzioni delle regioni cerebrali attraverso la stimolazione diretta. a
metà degli anni 50, Walter Hess sperimentò l’uso della stimolazione elettrica allo scopo di esaminare strutture
localizzate in profondità nel cervello. Lo studioso inserì degli elettrodi nel cervello di 500 gatti lasciati liberi di
muoversi. Premendo un pulsante veniva trasmessa una piccola scossa elettrica nel punto in cui era posizionato
l’elettrodo. Hess registrò le conseguenze comportamentali: a seconda della collocazione dell’elettrodo, la
pressione dell’interruttore poteva provocare sonno, attivazione sessuale, ansia o terrore.
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Tomografia a emissione di positroni (PET): negli studi condotti con la PET sono somministrati differenti
tipi di sostanze radioattive (ma sicure) che raggiungono il cervello per essere assorbite dalle cellule
cerebrali attive. Strumenti di registrazione collocati all’esterno del cranio sono in grado di rilevare la
radioattività emessa dalle cellule attive durante differenti funzioni cognitive o comportamentali. Le
informazioni sono quindi immagazzinate da un computer che elabora una rappresentazione dinamica
del cervello mostrando le aree in cui si realizzano differenti tipi di attività psicologica.
Imaging con risonanza magnetica (MRI): usa campi magnetici e onde radio per generare immagini
tridimensionali del cervello. L’analisi del campo magnetico alcuni nuclei di idrogeno si allineano con
esso e sotto l’azione delle onde radio vengono “eccitati”. Alla sospensione dell’impulso radio, i nuclei
ritornano allo stato di base rilasciando un segnale che viene rilevato dalla stessa antenna che ha
emesso l’impulso radio. La somma e la combinazione di segnali ottenuti attraverso magnetizzazioni ed
eccitazioni con sequenze diverse di onde radio permette di ottenere le immagini di MRI.
La MRI è utile soprattutto per ottenere immagini chiare di dettagli anatomici, le scansioni PET forniscono
informazioni migliori sulle funzioni. Un’evoluzione della MRI, chiamata risonanza magnetica funzionale (fMRI),
abbina i vantaggi di entrambe le tecniche, rendendo così possibili osservazioni più complete perché di tipo sia
strutturale sia funzionale. I ricercatori hanno iniziato a usare la fMRI per scoprire la distribuzione delle regioni
cerebrali responsabili di molte delle nostre più importanti attività cognitive come l’attenzione, la percezione la
memoria e l’elaborazione del linguaggio.
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2.2.2 Strutture cerebrali
La componente principale del SNC è l’encefalo, che è costituito da tre componenti interconnesse: tronco
encefalico, sistema limbico (che si trova adiacente al tronco encefalico), e il telencefalo (che avvolge il sistema
limbico e il tronco encefalico). La mente umana è in questa regione.
Tronco encefalico
Si trova in tutte le specie di vertebrati. Contiene le strutture
coinvolte principalmente in processi autonomi che regolano lo stato
interno del corpo (battito cardiaco, respirazione, deglutizione e
digestione). Il midollo allungato, collocato alla sommità del midollo
spinale, è il centro della respirazione, della pressione sanguigna e del
battito cardiaco. Dunque, danni al midollo allungato possono essere
fatali. Sopra il midollo allungato è situato il ponte. Che trasmette
informazioni dalla corteccia cerebrale al cervelletto. Contiene inoltre
una parte della formazione reticolare, una fitta rete di cellule
nervose che agisce da sentinella del cervello: attiva la corteccia
cerebrale in modo da renderla attiva ai nuovi stimoli e mantiene il
cervello attivo anche durante il sonno. Danni di rilievo a questa area
sono spesso causa di coma. La formazione reticolare invia stimoli
eccitatori al talamo, dai quali si dirigono verso la corteccia cerebrale
dove le informazioni vengono elaborate. Unito al tronco encefalico, alla base del cervello, si trova il
cervelletto, che coordina i movimenti del corpo, controlla la postura e l’equilibrio. Tuttavia, ricerche più recenti
hanno suggerito che il cervelletto possa svolgere un ruolo importante anche nell’apprendimento e
nell’esecuzione di sequenze di movimenti corporei. Inoltre si stanno raccogliendo evidenze secondo le quali il
cervelletto è coinvolto in alcune funzioni cognitive di più alto livello: l’elaborazione del linguaggio e
l’esperienza del dolore.
Sistema limbico
Regola i comportamenti motivati, gli stati emotivi, i processi della
memoria ma anche la temperatura corporea, la pressione
sanguigna o il livello glicemico. Alcune parti del sistema limbico
sono costituite da:
ippocampo: è la più grande struttura del sistema limbico,
svolge un’importante funzione nell’acquisizione dei ricordi.
amigdala: controlla le emozioni. Data questa funzione, i
danni che coinvolgono l’amigdala compromettono la
capacità di riconoscere espressioni facciali che comunicano
emozioni negative (come tristezza e paura). Svolge anche
un ruolo fondamentale nella formazione e nel recupero dei
ricordi dotati di connotazione emotiva. Per questo motivo,
le persone con l’amigdala danneggiata hanno spesso
difficoltà a prendere decisioni corrette in situazioni che
presentano una componente emotiva (per esempio le risposte alla vincita o perdita di denaro).
ipotalamo: pur essendo una delle strutture più piccole nel cervello, ha un ruolo fondamentale in molte
delle nostre azioni quotidiane. È composto da diversi nuclei, piccoli fasci di neuroni che regolano
processi fisiologici coinvolti nel comportamento motivato (nutrizione, regolazione della temperatura,
attivazione sessuale). L’ipotalamo mantiene inoltre l’equilibrio all’interno del corpo (omeostasi):
quando le riserve energetiche sono scarse, stimola l’organismo a trovare cibo e quando la temperatura
scende, provoca la costrizione dei vasi sanguigni causando quei minimi movimenti involontari definiti
brividi. L’ipotalamo regola inoltre l’attività del sistema endocrino.
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Telencefalo
Negli esseri umani, sovrasta per dimensioni tutto l’encefalo,
occupando due terzi della sua intera massa. Io suo ruolo è di
regolare le funzioni cerebrali cognitive ed emotive di livello
superiore. La superficie più esterna del telencefalo è chiamata
corteccia cerebrale. Il telencefalo è inoltre diviso in due metà
quasi simmetriche, gli emisferi cerebrali (par.2.3.4) collegati tra
loro da una spessa massa di fibre nervose conosciuta come
corpo calloso. I neuroscienziati hanno individuato per ogni
emisfero quattro aree o lobi:
1. Lobo frontale: coinvolto nel controllo motorio e in
attività cognitive come la pianificazione, il processo
decisionale e la definizione degli obbiettivi, si trova sopra
la scissura laterale e davanti al solco centrale. Un danno
al lobo frontale può avere effetti devastanti sulla
personalità (ecco il caso di Phineas Gage).
2. Lobo parietale: responsabile delle sensazioni tattili, dolorifiche e termiche, è situato dietro il lobo
frontale e sopra la scissura laterale.
3. Lobo occipitale: si occupa delle informazioni visive e si trova nella parte posteriore del cranio.
4. Lobo temporale: si occupa dei processi uditivi e si trova sotto la scissura laterale. Comprende una
regione chiamata area di Wernicke la quale prende il nome dal neurologo tedesco che nel 1874 scoprì
che i pazienti con lesioni a questa zona producevano discorsi fluenti ma privi di significato.
Le azioni dei muscoli volontari del corpo sono controllate dalla corteccia motoria, situata nei lobi frontali,
davanti al solco centrale. Le due più grandi aree della corteccia motoria sono dedicate alle dita della mano (in
particolare i pollici) e ai muscoli coinvolti nella produzione del linguaggio. Va detto che i comandi provenienti
dalla corteccia motoria sinistra sono diretti ai muscoli del corpo di destra e viceversa.
La corteccia somatosensoriale è situata dietro il solco centrale nei lobi parietali. Essa elabora le informazioni
riguardanti la temperatura, il tatto, la posizione del corpo e il dolore. La maggior parte di quest’area è dedicata
alle labbra, alla lingua, ai pollici e agli indici, cioè alle parti che forniscono gli input sensoriali più importanti.
Le informazioni uditive sono elaborate nella corteccia uditiva che si trova nei lobi temporali, mentre l’input
visivo è elaborato nella corteccia visiva collocata nei lobi occipitali. Anche in questo caso, la parte destra
comunica con il lato sinistro del corpo mentre la parte sinistra comunica con il lato destro.
Non tutta la corteccia cerebrale è dedicata a elaborare le informazioni sensoriali e a comandare ai muscoli di
agire. La maggior parte di essa in realtà è coinvolta nell’interpretazione e integrazione delle informazioni. I
processi come quello decisionale e della pianificazione, avvengono nella corteccia associativa, che permette di
combinare le informazioni provenienti da differenti regioni sensoriali per pianificare risposte adeguate agli
stimoli presenti nell’ambiente.
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Per verificare nei pazienti epilettici le funzioni degli emisferi separati, Roger Sperry e Michael Gazzaniga
idearono alcune situazioni che comportavano delle informazioni visive separatamente a ciascun emisfero dei
pazienti split-brain. Poiché nella maggior parte delle persone il linguaggio è controllato dall’emisfero sinistro,
soltanto quest’ultimo era in grado di rispondere ai ricercatori. Perciò, la comunicazione con l’emisfero destro
era possibile attraverso compiti manuali che implicavano riconoscimento, abbinamento e assemblaggio di
oggetti, compiti cioè che non richiedevano l’uso delle parole.
Grazie a molteplici metodi di ricerca, oggi sappiamo che molte funzioni del linguaggio sono lateralizzate
nell’emisfero sinistro. Una funzione si dice lateralizzata quando per la sua realizzazione un emisfero cerebrale
svolge un ruolo primario. Per la maggior parte delle persone il linguaggio è la funzione lateralizzata
dell’emisfero sinistro, di conseguenza lesioni in quest’area possono provocare disturbi di linguaggio alle
persone. È interessante notare che chi usa la lingua americana dei segni, le lesioni all’emisfero sinistro hanno
un analogo effetto disabilitante. Ciò che è lateralizzato dunque non è il linguaggio verbale di per sé ma la
capacità di produrre sequenze di simboli (manuali o verbali) che comunicano significato.
Non si deve però concludere che l’emisfero sinistro sia migliore del destro, che svolge un ruolo predominante
per altre funzioni come per esempio formulare giudizi sulle relazioni spaziali e sulle espressioni facciali nella
maggior parte delle persone. Tuttavia è l’azione dei due emisferi a dare pienezza alle nostre esperienze.
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conseguenze del crescere un ambienti impoveriti o arricchiti basandosi sull’osservazione dei ratti. Le prime
ricerche dimostrarono che la corteccia media dei ratti allevati in ambienti arricchiti era più pesante e spessa di
quella dei ratti deprivati appartenenti alla stessa famiglia. Le ricerche più recenti hanno dimostrato che
l’arricchimento ambientale continua ad influenzare il cervello degli animali anche quando sono diventati adulti.
Un tema importante della ricerca sulla plasticità, coinvolge le situazioni in cui gli esseri umani o animali hanno
subito lesioni al cervello o al midollo spinale. Numerose evidenze cliniche confermano che la mente, talvolta, è
in grado di guarire spontaneamente; talaltra le funzioni delle aree danneggiate sono assunte da altre aree cin li
scopo di aiutare il cervello nel processo di guarigione. In anni recenti l’attenzione si è spostata sulle cellule
staminali, cellule non specializzate che in condizioni appropriate possono essere spinte ad agire come nuovi
neuroni. La speranza dei ricercatori è che queste cellule possano arrivare a fornire un mezzo per sostituire, con
una nuova crescita neuronale, un tessuto del sistema nervoso danneggiato. Poiché le cellule staminali più
flessibili provengono dagli embrioni e dai feti abortiti, la ricerca sulle cellule staminali è stata oggetto di
controverse discussioni etiche e politiche. Tuttavia i ricercatori sostengono che la ricerca su queste cellule
possa produrre cure per la paralisi grave e altri gravi malfunzionamenti del sistema nervoso.
Per circa cento anni i neuroscienziati hanno ritenuto che nel cervello dei mammiferi adulti i neuroni non
possano aumentare ma solo morire, ma dati recenti hanno messo in discussione questo punto di vista. La
ricerca sul recupero cerebrale ha registrato un’accelerazione grazio a nuovi, importanti dati che rivelano il
verificarsi della neurogenesi (la produzione di nuove cellule cerebrali a partire da cellule staminali animali) nei
cervelli dei mammiferi adulti, esseri umani compresi.
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CAPITOLO 3
Sensazione e percezione
Sensazione e percezione non solo forniscono i materiali grezzi per i nostri processi cognitivi, e le nostre
percezioni non si limitano a registrare gli stimoli sensoriali. Il materiale raccolto attraverso gli stimoli sensoriali
viene elaborato in tempo reale da processi cognitivi molto complessi che generano, a partire dalle conoscenze
precedenti, interpretazioni del mondo in base agli stimoli esterni. Il primo aspetto problematico della
percezione è l’ambiguità, poiché gli stimoli sensoriali non contengono abbastanza informazioni da spiegare le
nostre percezioni. Il mondo ci fornisce in modo continuativo un numero elevato di stimoli sensoriali che
devono essere integrati in modo coerente nelle nostre percezioni ed è il processo di attenzione selettiva che ci
consente di selezionare una parte dello stimolo sensoriale per un’accurata elaborazione.
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esempio, nell’immagine retinica una parte del tappeto è nascosta dietro il tavolo, tuttavia, ciò non impedisce di
percepire correttamente la forma rettangolare del tappeto.
Le differenze tra un oggetto fisico e la sua immagine sulla retina sono così profonde che gli psicologi
distinguono due differenti stimoli percettivi:
1. Stimolo distale: oggetto fisico e reale percepito, distante dall’osservatore;
2. Stimolo prossimale: l’immagine sulla retina (vicina all’osservatore).
Ciò che percepiamo è lo stimolo distale, mentre lo stimolo da cui ottenere le informazioni è quello prossimale.
A livello percettivo, i processi di elaborazione sono volti a determinare lo stimolo distale a partire dalle
informazioni contenute in quello prossimale (questo vale all’interno dei diversi domini percettivi, come gusto,
udito e gli altri sensi).
Esaminiamo il quadro all’interno delle tre fasi della percezione:
Sensazione: il quadro corrisponde ad un trapezoide bidimensionale all’interno dell’immagine retinica;
Organizzazione percettiva: il trapezoide è visto come un rettangolo collocato in una direzione opposta
rispetto all’osservatore in uno spazio tridimensionale.
Processi di identificazione: si identifica l’oggetto rettangolare come quadro.
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- 3.2 Processi dal basso verso l’alto: conoscenza sensoriale del mondo
Nel volume La psicologia della percezione, Stadler, Seeger e Raeithel distinguono tra sensazione e percezione:
la prima è il vissuto di un semplice contenuto della coscienza, la seconda è l’interpretazione di un complesso di
sensazioni che rappresentano un determinato oggetto. Ne consegue che la percezione risulterebbe costituita
da una sensazione più una oggettivazione. In altri termini, la sensazione riguarda l’aspetto sintattico
dell’assimilazione di una determinata informazione che proviene dalla coscienza mentre la percezione quello
semantico. Le sensazioni sono eventi personali e soggettivi dei quali ciascuno di noi ha un’esperienza diretta,
ma possono essere comunicate agli altri e possono essere agevolmente comprese. In questo modo avviene un
confronto tra le sensazioni proprie e quelle altrui; nella maggioranza dei casi le sensazioni di un individuo sono
simili a quelle di un altro quando entrambi sono posti a uno stesso stimolo nelle medesime condizioni.
La psicofisica
Quanto zucchero devo mettere nel caffè prima che inizi a diventare dolce? Quanto luminosa deve essere una
spia per risaltare nel pannello rispetto alle altre? Per rispondere a queste domande dobbiamo essere in grado
di misurare l’intensità delle esperienze sensoriali. Questo è il compito della psicofisica, lo studio della relazione
tra gli stimoli fisici e il comportamento o le esperienze mentali evocate dagli stimoli. La figura più significativa
nella storia della psicofisica è Gustav Fechner che coniò il termine e sviluppò una serie di procedure per
mettere in relazione l’intensità di uno stimolo fisico con l’intensità dell’esperienza personale. Le sue tecniche
rimangono invariate indipendentemente dalla natura dello stimolo: i ricercatori determinano le soglie e
costruiscono le scale psicofisiche per mettere in relazione la forza della sensazione con l’intensità dello stimolo.
Soglia assoluta e abituazione sensoriale
Qual è l’intensità minima che uno stimolo deve avere per essere rilevato? La domanda fa riferimento alla soglia
assoluta, cioè quantità minima di energia fisica necessaria per produrre un’esperienza sensoriale. I ricercatori
misurano questa soglia chiedendo ai partecipanti agli esperimenti di eseguire attività di rilevazione, per
esempio provare a scorgere una luce fioca. Nel corso di una serie di prove si presentano stimoli di intensità
variabile e in ciascuna prova i partecipanti indicano se sono riusciti a rilevarli. I risultati degli studi sulla soglia
assoluta possono essere espressi tramite una funzione psicometrica: un grafico mostra le percentuali di
rilevazione (asse verticale) che corrispondo a ciascun livello di intensità dello stimolo (asse orizzontale). Per luci
a intensità molto bassa la rilevazione è pari allo 0% per quelle a intensità molto alta, 100%. Se ci fosse una
singola reale soglia assoluta ci si potrebbe aspettare che il passaggio da 0 a 100 sia netto, ma questo non
succede perché (1) la sensibilità dei partecipanti cambia ogni volta che provano a rilevare uno stimolo (per
esempio si modificano attenzione o maggiore sforzo fisico) e (2) perché talvolta essi rispondono anche in
assenza di stimoli. Pertanto, la curva psicometrica si presenta come una curva a S. Poiché uno stimolo non è
chiaramente rilevabile in modo costante a una specifica intensità, la definizione operazionale di soglia assoluta
è il livello dello stimolo in cui il segale sensoriale è rilevato nel 50% dei casi.
Sebbene sia impossibile rilevare la soglia assoluta, i sistemi sensoriali sono sensibili alla presenza di
cambiamenti in un dato ambiente sensoriale. I sistemi si sono evoluti in un modo tale da favorire la percezione
di stimoli ambientali nuovi rispetto a quelli precedenti attraverso un processo chiamato abituazione.
L’abituazione sensoriale è la responsività diminuita di un sistema sensoriale sottoposto ad una stimolazione
prolungata. Per questo il sole ci sembra meno abbagliante dopo un po’ che si sta all’aperto. Spesso l’esperienza
sensoriale olfattiva è quella più soggetta all’abituazione.
La teoria della detezione del segnale e le distorsioni di giudizio
Finora abbiamo assunto che tutti gli individui esprimano giudizio in modo simile. In realtà, le misurazioni della
soglia possono essere influenzate da distorsioni di giudizio (bias), tendenze sistematiche dell'osservatore a
rispondere in un modo particolare per cause non inerenti alle caratteristiche sensoriali dello stimolo.
La teoria della detezione del segnale (TDS) è un approccio sistematico al problema delle distorsioni di giudizio.
Supponete di trovarvi in questa situazione: occorre stabilire se ci si trova in presenza o meno di un segnale
rispetto ad un rumore di fondo. Al posto di focalizzarsi strettamente sui processi sensoriali, la TDS enfatizza i
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processi di formulazione di giudizio circa la presenza o assenza del segnale. Mentre la psicofisica si è
concentrata sulla determinazione di una singola soglia assoluta, la TDS ha identificato due processi distinti:
1. Un iniziale processo sensoriale che riflette la sensibilità dell’osservatore nella sua finezza discriminativa
degli stimoli
2. Un successivo processo decisionale che è legato agli errori di giudizio dell’osservatore.
La TDS offre una procedura per valutare tanto i processi sensoriali quanto quelli decisionali. Nella prima parte
delle prove è presentato uno stimolo debole mentre nella seconda parte non viene presentato nessuno
stimolo. In ogni prova gli osservatori sono chiamati a rispondere si, se pensano che lo stimolo sia presente o no
se pensano che non lo sia. Ogni risposta rientra in una di queste quattro possibilità.
1. Hit: se indica che il segnale è presente quando questo è effettivamente comparso
2. Omissione: se indica che il segnale non è presente quando questo è effettivamente comparso
3. Falso allarme: se indica che il segnale è presente quando questo non è effettivamente comparso
4. Rifiuto corretto: se indica che il segnale è assente quando questo non è effettivamente comparso
Lavorando con le percentuali di hit e falsi allarmi, i ricercatori utilizzano procedure matematiche per calcolare
misure separate della sensibilità percettiva degli osservatori e delle distorsioni di giudizio. Questa procedura
permette di individuare se due osservatori possiedono la stessa sensibilità nonostante le differenti modalità di
risposta individuale. La teoria della detenzione del segnale permetto allo sperimentatore di separare gli stimoli
sensoriali dai criteri di giudizio individuale identificando le componenti che concorrono nel determinare la
risposta finale.
Soglia differenziale
Immaginate di essere stati assunti da una compagnia di bibite che vuole produrre una cola che sia percepita più
dolce rispetto a quelle sul mercato ma riducendo al minimo la quantità di zucchero aggiuntivo impiegata. La
richiesta è quindi quella di misurare una soglia differenziale, la più piccola differenza fisica tra due stimoli che
può essere riconosciuta come differenza minima rilevabile. Per misurala, si utilizzano coppie di stimoli e si
chiede ai soggetti se i due stimoli sono percepiti come differenti.
Per risolvere il problema della bibita, i soggetti dovrebbero bere due cole a ogni prova, una realizzata con una
ricetta standard e una un po’ più dolce e dovranno affermare se le bevande sono uguali o differenti. Dopo
molte prove si potrà costruire una funzione psicometrica che riflette geograficamente la percentuale delle
risposte differenti collocate sull’asse verticale che corrispondono alle reali differenze posizionate su quello
orizzontale. Dunque la soglia differenziale è operazionalmente definita come il punto in cui gli stimoli sono
riconosciuti come differenti nel 50% dei casi. Questo valore della soglia differenziale è definito come differenza
minima rilevabile, cioè un’unità quantitativa che misura la grandezza della differenza psicologica tra due date
sensazioni. Ernst Weber realizzò per la prima volta alcuni studi sulla soglia differenziale e scoprì un’importante
relazione riassunta dalla legge di Weber: la differenza minima rilevabile tra due stimoli è una frazione costante
dell’intensità dello stimolo standard. Quindi più è elevata l’intensità dello stimolo standard, più deve essere
elevato l’incremento necessario per ottenere una differenza minima rilevabile.
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codici ancora più complessi che sono trasmessi da specifiche aree della corteccia sensoriale associativa del
cervello. È in questa fase che si attua propriamente il processo di percezione. Secondo la neurofisiolgia, la
percezione si basa sull’integrazione delle attività svolte da milioni di neuroni localizzate in aree diverse della
corteccia cerebrale.
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3.3.2 Principi di raggruppamento percettivo
I principi del raggruppamento percettivo sono stati studiati in modo approfondito dai sostenitori della
psicologia della Gestalt come Koffka, Kohler e Wertheimer. Nei loro esperimenti, hanno studiato in che modo
gli insiemi di elementi percettivi si organizzano in configurazioni unitarie: hanno dimostrato che il tutto è
diverso dalla somma delle parti. Variando un singolo fattore e osservando come questo influenza il modo in cui
le persone percepiscono la struttura della configurazione, Wertheimer formulò i seguenti principi:
1. Principio della vicinanza: a parità di altre condizioni, si unificano gli elementi vicini. Per questo nella
seguente figura si tende a percepire cinque colonne di oggetti piuttosto che quattro righe.
2. Principio della somiglianza: a parità di altre condizioni, si unificano gli elementi simili. Per questo nella
figura si tende ad individuare un quadro di O all’interno di un quadro di X piuttosto che semplici X e O.
3. Principio della buona direzione: a parità di altre condizioni, si unificano gli elementi che presentano
continuità di direzione. Per questo nella figura si tende a riconoscere una freccia che attraversa un
cuore piuttosto che un disegno formato da tre parti differenti.
4. Principio della chiusura: a parità di altre condizioni, si unificano gli elementi che tendono a chiudersi tra
di loro. Per questo nella figura si tende a completare la parte mancante e a percepire l’immagine come
un cerchio chiuso o come la lettera O.
5. Principio del destino comune: a parità di altre condizioni, si unificano gli elementi che condividono la
medesima direzione di movimento. Per questo si tende ad interpretare la figura come formata da righe
alternate che si muovono in opposte direzioni.
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3.3.4 Percezione del movimento
È un tipo di percezione che richiede confronti fra diverse osservazioni visive. Immaginate di vedere un vostro
amico in mezzo all’aula; se rimanesse lì e vi avvicinaste a lui, la dimensione della sua immagine sulla retina
aumenterebbe. La velocità con cui questa immagine aumenta, vi consente di capire quanto velocemente vi
state avvicinando. La percezione di movimento richiede la capacità di combinare informazioni provenienti da
differenti osservazioni visive. È possibile comprendere questi processi di integrazione quando su assiste al
fenomeno phi. Questo fenomeno si osserva quando due unti di luci statici posti in differenti punti del campo
visivo vengono accesi e spenti in modo alternato. Ci sono molti modi per immaginare il percorso che va dalla
localizzazione del primo punto al secondo, ma nella maggioranza dei casi gli osservatori vedono il percorso più
semplice, ovvero una linea retta. Questa modalità semplicistica è assente quando vengono mostrate differenti
immagini di un corpo umano in movimento, poiché in questo caso il sistema visivo completa mentalmente i
movimenti dell’uomo anche se non sono mostrati per intero.
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La dimensione relativa implica una regola base della proiezione della luce: oggetti della stessa
dimensione collocati a distanze differenti proiettano immagini di dimensioni diverse sulla retina)
La relazione dimensione/distanza: l’oggetto più vicino proietta immagini più grandi, mentre quello più
lontano proietta immagini più piccole.
La prospettiva lineare: quando due linee parallele si allontanano dall'osservatore, convergono in un
punto dell’orizzonte nell’immagine retinica. Il sistema di interpretazione visiva di linee convergenti
determina l’illusione di Ponzo; la linea orizzontale superiore, pur essendo uguale a quella inferiore, è
interpretata come più lunga perché secondo la prospettiva lineare le linee convergenti sono percepite
come linee parallele che si allontanano. In questo modo la linea superiore è percepita come più lontana
e dunque più lunga.
I gradienti di trama: forniscono indizi di profondità in quanto la densità della trama aumenta quanto
più la superficie si allontana. In questo caso, le unità che compongono la trama diventano più piccole
quanto più ci si allontana nello spazio (come in un campo di grano) e il sistema visivo interpreta tale
riduzione come indizio di una maggiore distanza nello spazio tridimensionale.
A questo punto dovrebbe essere chiaro che ci sono molteplici fonti di informazione relative alla profondità e
che il nostro sistema visivo utilizza questi indizi per compiere complessi calcoli che permettono di avere una
percezione della profondità in uno spazio tridimensionale.
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Quando si guarda un muro di mattoni per metà in ombra, non si percepiscono i mattoni rosso scuro e quelli
rosso chiaro, ma si percepisce un muro in cui tutti i mattoni hanno lo stesso colore, ma qualcuno è in ombra.
Questo è un esempio di costante di luminosità, cioè la tendenza a percepire il bianco, il grigio o il nero degli
oggetti come costanti al di là delle variazioni di illuminazione.
Supponete di indossare una maglietta bianca e di passare da una stanza poco illuminata ad un ambiente all’aria
aperta. Al sole, la maglietta riflette più luce piuttosto che nella stanza. In realtà, la costante di luminosità deriva
dal fatto che la percentuale di luce che un oggetto riflette rimane la stessa anche se cambia la quantità assoluta
di luce presente. La maglietta bianca rifletterà l’80-90% della luce presente, un paio di pantaloni neri rifletterà il
5% di luce presente. Questo è il motivo per il quale la maglietta sembrerà più luminosa dei pantaloni.
- 3.4 Processi dall’alto verso il basso: quando ciò che si sa guida ciò che si percepisce
Possiamo pensare ai processi percettivi descritti finora come a processi che ci consentono di aumentare la
conoscenza relativa alle proprietà fisiche di un oggetto (forma, colore, distanza..) ma non saremmo in grado di
riconoscere di quale oggetto si tratti o di affermare di averlo già visto in precedenza. In realtà siamo in grado di
riconoscere e identificare la maggior parte degli oggetti come stimoli già visti prima o come elementi di
categorie dotate di significato già esperiti nella nostra esperienza passata.
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Effetti contestuali sul raggruppamento percettivo
Il processo di raggruppamento percettivo è un fenomeno che avviene in modo automatico. Più elementi sono
presenti nel contesto, più diventa complesso percepire un elemento separatamente dagli altri. Nel disegno di
Escher, il raggruppamento genera una figura ambigua: alle estremità è possibile
vedere distintamente pesci o uccelli, ma verso il centro gli oggetti diventano meno
simili ed è difficile vederli entrambi simultaneamente. Il raggruppamento complica la
possibilità di vedere i singoli oggetti, ma ci consente di percepire insieme gli attributi
comuni a diversi elementi, ne consegue che è più facile operare trasformazoni sul
gruppo che sul singolo elemento. Per esempio sarà meno impegnativo seguire il
movimento dello stormo di quello dei singoli uccelli.
Che cosa sarebbe successo se un uccello fosse stato diverso
dagli altri? Nell’illusione di Ebbinghaus, i cerchi centrali nei due gruppi sono delle stesse
dimensioni, ma quello al centro dei gruppi dei cerchi più piccoli sembra più grande
dell’altro.
Effetti contestuali sul riconoscimento degli oggetti:
Quando l’ambiente fornisce informazioni ambigue, utilizziamo gli indizi contestati e le nostre aspettative
precedenti per sviluppare un’interpretazione. Leggi le seguenti parole: Se si osserva la figura
intermedia, si nota che in realtà è la stessa ma nella prima parola è percepita come una H, nella seconda come
una A. Chiaramente in questo caso la percezione è influenzata dalla nostra conoscenza dell’inglese, poiché il
contesto C_T si porta a ipotizzare la presenza della lettera A piuttosto che la lettera H.
Ci sono però casi in cui l’analisi del contesto è necessaria per raggiungere risultati più difficili. Osserva la figura:
cosa vedi? Immaginate che vi dicano che si tratti del giardino del vicino con un
dalmata che si stia avvicinando ad annusare un albero. In questo caso il
procedimento di riconoscimento del dalmata si basa sull’utilizzo di top-down di
informazioni mnestiche. Se non avete mai visto un cane che annusa il terreno
probabilmente non sarete in grado di percepire la figura.
Dunque, il contesto e le aspettative giocano un ruolo fondamentale nella vita
quotidiana. Avete mai incontrato persone in posti in cui non vi sareste aspettati di
trovarle e di non riconoscerle? Il problema non sta nell’aspetto esteriore ma nel contesto. Il contesto spaziale e
temporale in cui sono riconosciuti gli oggetti fornisce un’importante fonte di informazione in quanto, proprio a
partire dal contesto, si generano le aspettative relative a ciò che è maggiormente probabile percepire.
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di un affordance consente l’organizzazione dinamica del sistema di azioni a disposizione di un individuo, cioè
consente l’adozione da parte dell’individuo di un nuovo modo di agire.
L’esame della figura permetterà inoltre che la percezione è un’esperienza in risposta a un dato stimolo che
coinvolge l’intera persona. Oltre all’informazione fornita quando i nostri recettori sensoriali sono attivati, la
percezione finale dipende da chi siete, da quali persone vi circondano in quel momento, dalle vostre
aspettative e da ciò che volete e considerate.
Se i processi percettivi fossero completamente dal basso verso l’alto, saremmo legati alla stessa realtà
contingente e concreta del qui e ora; saremmo in grado di registrare l’esperienza ma non potremmo usarla in
occasioni future, né percepire il mondo in modo differente a seconda delle circostanze. Se i processi percettivi
fossero completamente dall’alto verso il basso, potremmo perderci nel nostro mondo di fantasie personali
relative a ciò che ci aspettiamo di ricevere o che speriamo di percepire. Il giusto equilibrio tra questi due
estremi permette di realizzare il principale obbiettivo della percezione: sperimentare la realtà nel modo più
efficace al dine di rispondere alle nostre necessità di esseri biologici e sociali, muovendoci e adattandoci
all’ambiente fisico e sociale.
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CAPITOLO 4
Attenzione e coscienza
Coscienza e attenzione sono due dimensioni psicologiche fondamentali per l’uso di numerose capacità
psichiche, dalla percezione, all’apprendimento alle emozioni. Saranno approfonditi i processi attentivi e il loro
ruolo nell’elaborazione delle informazioni prima di discutere i contenuti e le funzioni della coscienza nel
quotidiano. Successivamente, verranno analizzati i cambiamenti nella coscienza durante il ciclo di una giornata
(dal risveglio al sonno) e i diversi approcci allo studio dei sogni nelle culture occidentali e non. L’ultima parte del
capitolo è dedicata alle diverse situazioni in cui le persone alterano in modo volontario il proprio stato di
coscienza come la meditazione o l’uso di droghe.
- 4.1 L’attenzione
Dal punto di vista cognitivo, l’attenzione è l’insieme dei dispositivi e meccanismi che consentono di
concentrare e focalizzare le proprie risorse mentali su alcune informazioni, definendo ciò di cui siamo
consapevoli in un dato momento. La valorizzazione ci permette di selezionare determinate informazioni da
sottoporre a ulteriori elaborazioni, mentre l’ inibizione ci permette di trascurare altre informazioni considerate
irrilevanti. Nell’arco della giornata, siamo continuamente bombardati di informazioni percettive ma le nostre
capacità di elaborare le informazioni non sono in grado di attribuire significato a tutti gli stimoli che ci troviamo
di fronte. Allora come ce la caviamo? Una possibile soluzione è quella di focalizzarsi su alcune parti delle
informazioni a disposizione piuttosto che su altre e di selezionarle per un’ulteriore elaborazione sulla base
dell’importanza attribuita loro in un dato contesto e in un dato periodo di tempo. Tuttavia, anche conoscendo
benissimo le vostre intenzioni e i vostri obiettivi, e sapendo quali informazioni vi interessano, ci sono diversi
aspetti dello stimolo che possono attirare la vostra attenzione e distrarvi.
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Nelle conoscenze procedurali: che concernono le procedure con le quali si svolgono i compiti della vita
quotidiana e che si basano sull’esercizio e sull’esecuzione di un determinato compito. La coscienza può
essere operante nella prima fase di apprendimento (per esempio quando si impara a nuotare o ad
andare in bicicletta) e con l’esercizio invece, queste attività diventano automatiche e immediate.
Per questo motivo si distingue tra:
Elaborazione automatica: che opera in modo molto rapido, non richiede risorse attentive e avviene
senza l’intervento della coscienza. Di conseguenza, diversi processi automatici possono svolgersi
contemporaneamente, in parallelo e sembrano avvenire senza il controllo del soggetto;
Elaborazione controllata: è lenta, richiede l’intervento delle risorse attentive ed è consapevole. Il
soggetto esercita un controllo diretto e continuo su quello che sta facendo; di conseguenza, questa
elaborazione non consente di svolgere un altro compito nel medesimo momento (esecuzione in serie).
In realtà, non esiste un processo totalmente automatico, poiché è sempre richiesta una certa quantità di
risorse cognitive per il suo svolgimento. Pertanto, qualsiasi processo automatico può ritornare a essere
controllato in caso di necessità.
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Nel metodo di valutazione dell’esperienza (ESM, experience-sampling method) i partecipanti forniscono
informazioni sui loro pensieri e sentimenti durante l’arco di una normale giornata. In queste ricerche i
partecipanti spesso sono dotati di un dispositivo (come cercapersone) che segnala loro il momento di produrre
resoconti sui contenuti della loro coscienza.
Tecniche come i TAP o i ESM permettono ai ricercatori di determinare, per particolari compiti e momenti, quale
sottoinsieme di tutte le informazioni che l’individuo ha a disposizione sia presente nella coscienza.
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caso dovreste avere una percezione differente della quantità dello sforzo consapevole richiesta. La maggior
parte di voi infatti avrà dovuto utilizzare l’attenzione consapevole per trovare un oggetto che possedesse la
combinazione delle due caratteristiche.
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La lunghezza del sonno è influenzata anche dai ritmi circadiani; una quantità adeguata di sonno REM e
non-REM è possibile solo quando l’ora in cui si va dormire e quella in cui ci si alza sono costanti lungo
tutta la settimana. In questo modo è probabile che il tempo trascorso a letto corrisponda con la fase di
sono del ritmo circadiano.
Dal ciclo della vita; il neonato dorme 16 ore al giorno (metà delle quali in fase REM), verso i 50 anni è
possibile dormire solo 6 ore (il 20% delle quali in fase REM) e i giovani adulti dormono dalle 7 alle 8 ore
(il 20% in fase REM).
Il cambiamento nella quantità di sonno che avviene con l’età non significa che questo perda di importanza
crescendo. Un studio che ha seguito un gruppo di adulti sani tra i 60 e 80 anni ha evidenziato come i soggetti
con una più alta efficienza di sonno hanno una maggiore probabilità di vivere più a lungo.
Ma perché le persone hanno bisogno di dormire?
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manifesto (la versione accettabile della storia) che appare al sognatore dopo un processo che Freud chiama
lavoro onirico. Secondo quanto sostiene Freud, l’interpretazione dei sogni richiede un lavoro a ritroso,
partendo dal contenuto manifesto per arrivare a quello latente. Freud credeva sia in significati idiosincratici
(specifici in ciascun individuo) sia universali; la maggior parte di natura sessuale.
Approcci non occidentali all'interpretazione dei sogni
La maggior parte delle persone non pensa seriamente ai propri sogni finché non diventa uno studente di
psicologia o entra in terapia. Al contrario, in molte culture non occidentali, la condivisione e interpretazione dei
sogni fanno parte del tessuto culturale:
Indiani Archur in Ecuador: si radunano tutti insieme la mattina e ognuno racconta il proprio sogno e gli
altri offrono la loro interpretazione, sperando di arrivare ad una spiegazione condivisa sul significato
del sogno stesso.
In altre culture, specifici gruppi di individui sono indicati come possessori di speciali poteri che li
aiutano nell’interpretazione dei sogni (come per esempio gli sciamani nel popolo dei Maya).
Al contrario di Freud che rivolge le interpretazioni dei sogni al passato (verso le esperienze di infanzia e
i desideri repressi) ci sono culture che credono che i sogni rappresentino visioni future (per esempio
per il popolo che vive sulle colline Ingessana).
Altri gruppi hanno sistemi di relazione culturalmente condivisi tra i simboli presenti nei sogni e il loro
significato (per esempio negli indiani Kalapalo)
Teorie contemporanee sul contenuto dei sogni
Il punto di contatto tra i diversi approcci all’interpretazione dei sogni, è che essi forniscono informazioni di
autentico valore per la persona o la comunità. Lo studio della base biologica del sogni ha messo in discussione
questa visione. Per esempio, il modello attivazione-sintesi sostiene che i segnali emessi dal tronco cerebrale
stimolino il proencefalo e le aree associative della corteccia nella produzione di memorie casuali e di
connessioni con le esperienze passate. Secondo questo punto di vista non ci sono legami logici, significati
intrinsechi o andamenti coerenti in questi improvvisi e casuali picchi di “segnali” elettrici.
La ricerca contemporanea sui sogni tuttavia, contraddice questa visione secondo cui il contenuto del sogno
emerge da segnali elettrici casuali. Gli studi di neuroimaging suggeriscono che l’ippocampo e l’amigdala siano
attive durante la fase REM la fase. Questo suggerisce che una delle funzioni del sonno sia mettere insieme “le
recenti esperienze di un individuo con i suoi obiettivi, desideri e problemi”. Secondo questo punto di vista, il
contenuto dei sogno riflette il tentativo del cervello di tessere una trama narrativa attorno ai vari fatti della vita
recente di una persona che emergono in fase di sonno REM.
Le ricerche sul contenuto dei sogni evidenziano che esso mostra una buona continuità con le preoccupazioni
del sognatore al risveglio. Allo stesso modo, persone che hanno passato molto tempo della veglia in attività
particolari (sport o lettura) riportano una percentuale più alta di sogni riguardanti questa età.
Alcune persone hanno più difficoltà di altre nel ricordare i propri sogni ed è più facile ricordarli al risveglio di
una fase REM o vicino a essa.
4.5.1 Ipnosi
Secondo la psicologia del senso comune, l’ipnotizzatore esercita un potere molto vasto sui soggetti consapevoli
o meno. Il termine ipnosi deriva da Ipno, il dio greco del sonno. Il sonno tuttavia non c’entra nulla con l’ipnosi,
tranne per il fatto che alcune persone in stato di estrema rilassatezza possono dare l’impressione di essere
addormentate. Una definizione generale di ipnosi è quella di uno stato di consapevolezza alternativo,
caratterizzato dalla speciale abilità di rispondere alle suggestioni con cambiamenti di percezione, memoria,
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motivazione e senso di controllo di sé. I ricercatori sono spesso in disaccordo sui meccanismi psicologici
coinvolti nell’ipnosi; alcuni studiosi hanno sostenuto che gli individui ipnotizzati entrino in uno stato di trance,
altri hanno ipotizzato che l’ipnosi non fosse nulla di più che una motivazione accresciuta. In definitiva, la ricerca
ha escluso che l’ipnosi coinvolga un’alterazione della coscienza simile allo stato di trance.
Induzione ipnotica e ipnotizzabilità
L’Ipnosi ha inizio con l’induzione ipnotica, un insieme di attività preliminari (come immaginare certe esperienze
o visualizzare eventi e reazioni) che minimizzano le distrazioni esterne e incoraggiano i partecipanti a
concentrarsi esclusivamente sugli stimoli suggeriti o a credere che stiano per entrare in un particolare stato di
coscienza. Quando praticata ripetutamente, la procedura di induzione funge da segnale appreso e permette ai
partecipanti di entrare più velocemente nello stato ipnotico.
L’ipnotizzabilità è il grado di responsività dell’individuo alla suggestione
ipnotica. Il grafico indica le percentuali dei vari livelli di ipnotizzabilità
degli individui al loro primo tentativo di induzione ipnotica. Chi ha un
basso punteggio in questa scala sentì poco le sensazioni suggerite, o nulla
(per esempio di immaginare le braccia come delle sbarre di ferro).
L’ipnotizzabilitàè un attributo relativamente stabile; i bambini tendono ad
essere più responsivi degli adulti e il picco dell’ipnotizzabilità si raggiunge
durante l’adolescenza e inizia a calare subito dopo.
Alcuni risultati, evidenziano una base genetica alla responsività; una ricerca ha mostrato come due gemelli
identici su una scala di ipnotizzabilità siano più simili rispetto a quelli eterozigoti. Altri studi hannno identificato
un gene, noto come COMT, che influenza l’utilizzo della dopamina nel cervello.
Effetti dell’ipnosi
Come si può essere sicuri che questi comportamenti derivino da speciali proprietà dell’ipnosi e non dalla
volontà degli individui? Per rispondere a questa domanda sono stati condotti numerosi esperimenti che
confrontassero l’efficacia dei suggerimenti in stato di veglia o ipnosi; un gruppo di ricercatori crearono tre
gruppi da 12 persone e a ciascun partecipante ricevette gli stessi suggerimenti per mitigare il dolore. In ogni
fase dell’esperimento i partecipanti dovevano indicare la quantità di dolore: ne risultò che gli individui ad alta
ipnotizzabilità dichiararono che i suggerimenti per mitigare il dolore agivano in maniera molto più efficace sotto
ipnosi che in stato di veglia. I ricercatori inoltre registrarono i tracciati EEG per determinar se l’attività cerebrale
dei partecipanti fosse influenzata dalle suggestioni ipnotiche; effettivamente, quando i soggetti ad alta
ipnotizzabilità ricevevano le suggestioni ipnotiche per la riduzione del dolore, producevano un numero
maggiore di risposte cerebrali attenuate nelle aree sensoriali. Questo esperimento dimostra dunque il
potenziale dell’ipnosi nel controllo del dolore (analgesia ipnotica).
I ricercatori stanno cercando di capire perché i soggetti ad alta ipnotizzabilità ottenevano sollievo maggiore
durante l’ipnosi; uno studio di neuroimaging, per esempio, mostra che questi soggetti presentano anche una
maggiore estensione nella parte anteriore del corpo calloso (importante nell’inibizione degli stimoli
indesiderati e nell’attenzione). Questo consente dunque di utilizzare al meglio l’ipnosi per controllare il dolore.
4.5.2 Meditazione
La meditazione è una forma di alterazione della coscienza utile per migliorare la conoscenza di sé e il benessere
attraverso il raggiungimento di uno stato di profonda tranquillità. Nella meditazione concentrativa una persona
può regolare il respiro, minimizzare gli stimoli e liberarsi da tutti i pensieri; nella meditazione mindfulness,
l’individuo impara a lasciare che i ricordi e i pensieri gli attraversano la mente senza reagire ad essi (e uno
studio ha dimostrato come questa tecnica abbia per esempio capacità di alleviare l’ansia).
Le tecniche di neuroimaging hanno mostrato come la meditazione influenzi gli schemi di attività cerebrale; con
l’avanzare dell’età, la corteccia cerebrale perde spessore. Uno studio, mise in relazione 13 individui con 3 o più
anni di esperienza di meditazione zen e 13 individui di controllo, e dimostrò che negli individui che praticavano
la meditazione regolarmente non si rilevava alcun deterioramento neuronale con l’avanzare dell’età.
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CAPITOLO 5
Apprendimento ed esperienza
Gli psicologi si sono interessati a lungo all’apprendimento e alle modalità con cui gli organismi imparano dalle
esperienze. Negli anni 40 e 50 la psicologia sperimentale si identificava prevalentemente con lo studio
dell’apprendimento, per tentare di integrare entro leggi simili a quelle delle scienze naturali l’apprendimento
umano, al fine di poterlo prevedere con certezza. In questo capitolo presenteremo i vari tipi di apprendimento,
dal condizionamento classico alle nuove forme di apprendimento che hanno a che fare con i new media, intesi
come modalità differenti attraverso cui gli organismi acquisiscono e utilizzano le informazioni relative al proprio
ambiente.
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orientamento lasciò il posto alla salivazione. Dunque Pavlov dimostrò che non era frutto del caso ma che il
fenomeno poteva essere replicato in condizioni controllate.
Un riflesso è una risposta innescata naturalmente, attivata o elicitata, da stimoli specifici biologicamente
rilevanti per l’organismo. Qualsiasi stimolo che attiva un riflesso sul piano fisiologico è definito stimolo
incondizionato (SI), poiché il comportamento di risposta si verifica in presenza dello stimolo senza necessità di
apprendimento. Il comportamento attivato da uno SI è definito risposta incondizionata (RI).
Uno stimolo inizialmente neutro, chiamato stimolo condizionato (SC), è in grado di attivare un comportamento
a condizione che sia associato ad un SI. Dopo diverse prove sperimentali, lo SC produsse una risposta che
Pavlov chiamò risposta condizionata.
In sintesi, la biologia fornisce le connessioni SI-RI, mentre l’apprendimento prodotto dal condizionamento
classico crea le connessioni SC-RC.
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differenze di tonalità o altezza del suono). La capacità di un organismo di discriminare fra stimoli simili può
essere affinata tramite esercizi in cui solo uno di essi è associato allo SI e gli altri sono presentati da soli. Nelle
prime fasi di condizionamento, stimoli simili al SC attivano una risposta simile, anche se non altrettanto forte.
Con il proseguire degli esercizi di discriminazione, le risposte agli stimoli differenti si indeboliscono: l’organismo
apprende gradualmente quale specifico segnale predice la comparsa dello SI e quali segnali sono invece
irrilevanti. Per un organismo che deve agire in modo ottimale con l’ambiente, generalizzazione e
discriminazione devono trovare un equilibrio; non si deve essere troppo selettivi perché si potrebbe non
riuscire a individuare un predatore, ma non si deve generalizzare troppo per non sprecare tempo ed energie.
- Condizionamento operante
5.3.1 La legge dell’effetto
Approssimativamente nello stesso periodo in cui Pavlov scopriva il condizionamento classico per indurre la
salivazione nei cani, Thorndike osservava il comportamento dei gatti che cercavano di uscire da una gabbia-
problema: per uscire dalla gabbia e ottenere il cibo, il gatto doveva agire su un meccanismo che, rilasciando un
peso, avrebbe aperto la porta. Inizialmente i gatti si dibattevano contro la situazione di prigionia ma, una volta
che azioni “impulsive” permisero loro di aprire la porta, “tutti gli altri impulsi privi di effetti furono estinti, e
l’impulso particolare che aveva portato al successo venne fissato grazie al piacere che ne risultò”.
L’apprendimento era derivato dall’associazione tra lo stimolo fornito dalla situazione e la risposta che l’animale
33
aveva imparato a dare: una connessione stimolo risposta (S-R). I gatti quindi avevano imparato a produrre una
risposta adeguata (agganciare con la zampa un bottone o un occhiello) che in questa situazione (la prigionia)
portava ad un esito desiderato (temporanea libertà). Si noti che l’apprendimento di queste connessioni S-R
avveniva gradualmente e in modo automatico man mano che l’animale, attraverso un meccanismo di prove ed
errori, sperimentava le conseguenze delle sue azoni. Pian piano i comportamenti che avevano portato a
conseguenze soddisfacenti aumentavano la loro frequenza; essi infine diventavano la risposta dominante
quando l’animale era chiuso nella gabbia-problema. Thorndike chiamò legge dell’effetto questa relazione tra il
comportamento e le sue conseguenze: una risposta seguita da esiti (effetti) soddisfacenti diventa più probabile,
mentre una risposta seguita da conseguenze spiacevoli diventa meno probabile.
33
3. Quelli avversivi (che si vogliono evitare)
Chiaramente la composizione di queste tre classi non è la stessa per tutti gli individui: cosa sia piacevole o
spiacevole è definito da un singolo organismo.
Quando un comportamento è seguito dall’erogazione di uno stimolo piacevole, si parla di rinforzo positivo;
quando un comportamento è seguito dalla rimozione di uno stimolo spiacevole, si parla di rinforzo negativo. Ci
sono due circostanze al quale si applica il rinforzo negativo:
Nel condizionamento operante di fuga: gli organismi imparano che una risposta permetterà loro di
scappare ad uno stimolo avversivo (per esempio usare l’ombrello durante un acquazzone)
Nel condizionamento operante di evitamento: gli organismi imparano le risposte che consentono loro
di evitare gli stimoli spiacevoli prima ancora che appaiano (per esempio se la macchina emette un
segnale acustico quando non allacciate la cintura di sicurezza, avrete imparato di allacciarla prima di
sentire quel suono fastidioso).
Per distinguere tra rinforzo positivo e negativo è bene ricordare che entrambi aumentano la probabilità del
verificarsi della risposta che li precede, ma il rinforzo positivo aumenta la probabilità facendo seguire la risposta
di uno stimolo piacevole mentre quello negativo fa lo stesso attraverso la riduzione, la rimozione o
l’evitamento preventivo di uno stimolo spiacevole.
Come nel condizionamento classico, se si rimuove il rinforzo nel condizionamento operante avviene
l’estinzione della risposta operante. Quindi, se un comportamento smette di produrre conseguenze prevedibili,
si estingue. Inoltre, anche nel condizionamento operante si verifica il recupero spontaneo. Immaginate di aver
rinforzato il comportamento di un piccione quando ha beccato la luce verde. Se smettiamo di rinforzare questo
comportamento, questo si estinguerà. Tuttavia, la volta successiva se riaccendiamo la luce verde, esso
ricomincerà spontaneamente a beccare il pulsante, manifestando così un recupero spontaneo.
Punizioni positive e negative
Esiste un’altra tecnica che porta alla diminuzione della probabilità che una risposta si verifichi: la punizione.
Uno stimolo punitivo è qualunque stimolo che, somministrato in modo contingente ad una risposta,
diminuisce la probabilità che quella risposta si verifichi. Esistono due tipi di punizione:
Punizione positiva: quando un comportamento è seguito dalla somministrazione di uno stimolo
spiacevole; così la probabilità di quel comportamento diminuisce (toccare una stufa bollente produce
dolore quindi impareremo a non toccare le stufe bollenti)
Punizione negativa: quando un comportamento è seguito dalla rimozione di uno stimolo piacevole;
così la probabilità di quel comportamento diminuisce (il genitore toglie la paghetta al figlio per aver
picchiato il fratellino minore. Il bambino impara che non deve più picchiare il fratellino).
Sebbene punizioni e rinforzi siano operazioni strettamente legate, ci sono importanti differenze. Un buon modo
per distinguerli è categorizzarli sulla base che hanno sul comportamento: la punizione riduce la probabilità che
una risposta si verifichi nuovamente, il rinforzo la aumenta.
Stimoli discriminativi e generalizzazione
In genere non vogliamo cambiare la probabilità del verificarsi di un certo comportamento allo stesso modo in
tutte le situazioni ma vogliamo piuttosto modificarla all’interno di un determinato contesto. Attraverso
l’associazione con rinforzi e punizioni, alcuni stimoli che precedono una particolare risposta creano il contesto
per quel comportamento: si tratta degli stimoli discriminativi. Gli
organismi imparano che, in presenza di alcuni stimoli ma non di
altri, il loro comportamento produrrà un particolare effetto
sull’ambiente. Skinner chiamò contingenza a tre termini la
sequenza composta da stimolo discriminativo-comportamento-
conseguenza. Egli sostenne che questa sequenza potesse spiegare
la maggior parte dell’agire umani, un concetto fondamentale nelle
teorie comportamentiste. La tabella descrive come la contingenza
a tre termini spieghi diversi tipi di comportamento.
33
Gli organismi spesso generalizzano le risposte a stimoli che somigliano a quelli discriminativi. Una volta che una
risposta è stata rinforzata in presenza di uno stimolo discriminativo, uno stimolo simile potrebbe diventare
discriminativo per la stessa risposta. Per esempio se i piccioni sono addestrati a beccare un bottone in presenza
di una luce verde, beccheranno anche in presenza di luci con tonalità di verde chiaro o scuro.
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La scoperta importante di Skinner riguardo l’efficacia dei rinforzi parziali, portò allo studio sistematico degli
effetti dei diversi schemi di rinforzo sul comportamento umano. Nella vita reale o in laboratorio, i rinforzi
possono essere somministrati secondo:
Uno schema a rapporto (dopo un certo numero di risposte)
Uno schema a intervallo (in seguito alla prima risposta dopo un intervallo di tempo specifico).
In ognuno dei due casi può verificarsi:
Uno schema di rinforzo fisso (costante)
Uno schema di rinforzo variabile (irregolare)
Le combinazioni danno vita in tutto a quattro tipi principali di schema di rinforzo.
Schemi a rapporto fisso
Negli schemi a rapporto fisso (RF), il rinforzo è somministrato alla prima risposta seguita dopo un determinato
numero di risposte. Quando il rinforzo segue la singola risposta è chiamato RF-1, quando il rinforzo viene
erogato per esempio ogni 25 risposte, è chiamato RF-25 e così via. Questi schemi producono tassi di risposta
molto alti perché esiste una correlazione diretta tra la risposta e il rinforzo. Un piccione in un dato periodo di
tempo, può ricevere quanto cibo vuole, purché becchi con frequenza sufficiente. Gli schemi RF generano una
pausa dopo che viene somministrato ogni rinforzo; più alto è il rapporto, più lunga è la pausa. Allungare
eccessivamente il rapporto (richiedere un numero troppo alto di risposte prima dell’erogazione del rinforzo)
senza aver allenato prima l’animale a produrre così tante risposte, può portare all’estinzione.
Schemi a rapporto variabile
Negli schemi a rapporto variabile (RV), il rinforzo è somministrato in seguito alla prima risposta fornita dopo un
numero variabile di risposte la cui media è prestabilita. Uno schema RV-10 significa che in media il rinforzo
viene somministrato ogni 10 risposte. Questi schemi producono il tasso di risposta in assoluto più alto e la più
forte resistenza all’estinzione. Un esempio di RV è il gioco d’azzardo: la risposta “inserire i gettoni nelle slot-
machine” è mantenuta alta e costante dalla vincita, che è erogata solo dopo un numero sconosciuto e variabile
ma prestabilito di gettoni inseriti. Gli schemi RV lasciano la libertà di indovinare quando verrà elargito il premio.
Schemi a intervallo fisso
Negli schemi a intervallo fisso (IF), il rinforzo è somministrato in seguito alla prima risposta fornita dopo un
intervallo di tempo costante e prestabilito. In uno schema IF-10 il soggetto, dopo aver ricevuto il rinforzo,
dovrà attendere 10 secondi prima che un’altra risposta sia rinforzata. Il tasso di risposta all’interno di uno
scema IF segue un andamento a smerlo. Subito dopo ogni rinforza rinforzata l’animale rende meno, e
all’avvicinarsi del rinforzo successivo le risposte aumentano progressivamente.
In una partita di basket, si osserva uno schema IF-24, poiché ogni azione di gioco ha un limite massimo di
durata pari a 24 secondi. Con l’approssimarsi dello scadere del tempo, i giocatori sono costretti ad aumentare i
ritmi di gioco per cercare di andare a canestro.
Schemi a intervallo variabile
Negli schemi a intervallo variabile (IV), il rinforzo è somministrato in seguito alla prima risposta fornita dopo un
intervallo di tempo variabile, la cui media è prestabilita. Per esempio uno schema IV-20, i rinforzi sono forniti a
un tasso medio di 1 ogni 20 secondi. Il tasso di risposta è moderato ma costante e l’estinzione è più lenta e
graduale di quanto avviene in uno schema IF. Un esempio di IV sono i test a sorpresa a scuola; probabilmente
se non studiavate di volta in volta gli appunti, avete cambiato abitudini.
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Le due forme di apprendimento che abbiamo visto, condizionamento classico e condizionamento operante,
sono le modalità fondamentali attraverso cui si è espresso l’approccio dell’apprendimento associativo, che ha
contraddistinto le prime teorie comportamentiste. Si tratta di una teoria meccanicistica poiché la contiguità
temporale e spaziale e la contingenza fra stimoli e risposte agiscono in modo automatico e di necessità. In
questo quadro teorico, l’apprendimento è misurato come variazione delle risposte comportamentali dopo la
situazione di stimolazione è l’organismo è essenzialmente passivo nel processo di apprendimento.
Fino a qualche decennio fa si ipotizzava che l’apprendimento associativo potesse spiegare ogni forma di
apprendimento, ma come vedremo è stato dimostrato che tale presupposto è limitato e parziale.
33
5.5.1 Apprendimento per insight
Relegato sull’isola di Tenerife durante la prima guerra mondiale, Kohler ebbe molto tempo per pensare al tema
dell’apprendimento. Egli riteneva che la psicologia dovesse riconoscere i processi mentali come una
composizione essenziale dell’apprendimento, anche se gli eventi mentali erano stati rifiutati dai
comportamentisti in quanto ritenuti semplici speculazioni soggettive. Per sostenere tale prospettiva, Kholer si
insediò presso una struttura di ricerca sui primati costruita a Tenerife dal governo tedesco. Lì sottopose a
verifica sperimentale la sua concezione cognitiva dell’apprendimento a partire dall’osservazione del
comportamento stesso. In una serie di studi, Kohler mostrò che gli scimpanzé potevano imparare a risolvere
problemi complessi non solo per prove ed errori ma anche attraverso intuizioni. Uno di questi esperimenti
coinvolse Sultan, uno scimpanzé che aveva imparato sia ad ammucchiare le scatole per raggiungere la frutta in
alto sia ad utilizzare un bastone per prenderla. Quando Kohler sottopose Sultan a un nuovo scenario che
richiedeva di combinare i due apprendimenti (perché la frutta era più in alto), Sultan prima fece qualche
tentativo, poi calciò il muro e si sedette, poi dopo un momento di apparente riflessione (si grattò la testa), riuscì
a raggiungere la frutta. Sultan non aveva mai visto o utilizzato pima di allora queste tecniche. Tale
comportamento, argomentò Kohler, mostrava che gli animali non si limitavano ad utilizzare meccanicamente
risposte condizionate, ma potevano imparare attraverso il processo da lui definito apprendimento per insight,
ossia attraverso la riorganizzazione della propria percezione dei problemi in una data situazione. Secondo
Kohler le scimmie, così come gli esseri umani, imparano a risolvere i problemi percependo improvvisamente
oggetti familiari attraverso nuove forme o relazioni: un processo più mentale che comportamentale.
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- 5.6 Apprendimento situato, simulazione ed esperienza
Secondo il senso comune, l’apprendimento è una sorta di “contenitore” da riempire con gli insegnamenti
formali compiuti da chi è esperto (genitori, insegnanti, scienziati..). Questa visione racchiude una netta
dicotomia tra chi è attivo con la funzione di docente (l’esperto) e chi è passivo con la posizione di ricezione di
informazione (il novizio). Quest’ultimo è considerato una specie di lavagna sui cui l’esperto traccia le
conoscenze o le attività che sono oggetto di insegnamento. Da questo punto di vista l’apprendimento sarebbe
una fotocopia e si riduce alla ripetizione fedele di ciò che l'insegnante ha trasmesso. Tale concezione
meccanicistica oggi è radicalmente superata. In particolare l’apprendimento avviene sempre in un contesto
fisico e relazionale in cui esperto e novizio sono entrambi protagonisti nel tessere in modo sinergico la tela
dell’apprendimento. Essi sono necessariamente interdipendenti, poiché gli esperti insegnno per quanto gli
utenti sono in grado di assimilare e viceversa. Si parla in tal senso di apprendimento situato, intreso come un
apprendimento legato ad una specifica situazione e immerso in un dato contesto immediato. In particolare, il
contesto va considerato come la matrice dei significati: l’insieme delle condizioni che rendono intelligibili i
contenuti delle attività proposte, in grado di attribuire versatilità alle conoscenze, di volta in volta, apprese.
L’apprendimento situato garantisce un’esperienza interattiva e aperta, dotata di ricchezza discorsiva e
argomentativa, dove il fruitore vi partecipa con identità, con il proprio livello di conoscenze e quindi secondo il
proprio background. È un’attività dunque individualizzata ma anche socializzata poiché implica la condivisione
dei risultati e delle eventuali difficoltà.
Apprendimento latente, conoscenza tacita e apprendimento riflessivo
L’apprendimento situato è un apprendimento contingente, ossia legato a determinate circostanze (contesti)
che pongono in modo inevitabile vincoli e opportunità. L’apprendimento contingente (ubiquitario e perenne),
accanto a forme esplicite e formali, comporta ampie zone di apprendimento latente (o nascosto), esaminato in
modo sistematico da Tolman. Come abbiamo visto, egli ha osservato che i ratti apprendono la mappa del
labirinto senza alcun tipo di rinforzo. Duque, l’osservazione dell’ambiente, l’esposizione ed esplorazione,
l’esecuzione di azioni anche casuali, costituiscono premesse rilevanti per l’apprendimento latente. Esso emerge
in modo esplicito e robusto di fronte a una necessità.
Un risultato rilevante dell’apprendimento latente, è l’acquisizione di una mole rilevante di conoscenze tacite. In
effetti noi conosciamo molto più di quel che riusciamo a dire. Si tratta di una conoscenza individuale implicita,
non facile da codificare, trasmettere e condividere. È assai difficile (in alcuni casi impossibile) da descrivere per
iscritto in modo dettagliato. Essa fa riferimento alle conoscenze procedurali (come eseguire un certo
procedimento produttivo o confezionare un prodotto) assai diverse dalle conoscenze dichiarative ed esplicite.
La conoscenza tacita è una conoscenza “in pratica”, immersa nell’esperienza, fondamentale per avere successo
nell’ambiente di riferimento. Essa si fonda su training e può essere appresa e condivisa solamente attraverso
l’apprendistato. Durante tale periodo, l’osservazione attenta, l’imitazione accurata di modelli (esperti) e una
profonda interazione con loro consentono al novizio di appropriarsi e produrre strategie e accorgimenti. Per
secoli, l’educazione ha seguito questo modello, quando il maestro bottega rappresentava l’enciclopedia delle
conoscenze da imparare.
A questo riguardo, l’apprendimento situato consente di condividere le conoscenze tacite nella comunità
(ospedale, azienda, esercito..). Esso facilita altresì l’esplicitazione di tali forme di conoscenza, promuovendo
così importanti percorsi di apprendimento riflessivo. Già Dewey (1909) sosteneva che imparare dall’esperienza
significa stabilire una connessione all’indietro (relativa al passato) e in avanti (rivolta al futuro) fra ciò che
facciamo con le cose e ciò per cui siamo soddisfatti o insoddisfatti delle cose fatte. Abbiamo così un ciclo di
apprendimento nel quale lo svolgimento delle attività è seguito da una fase di valutazione prima di ritornare
alle attività stesse e all’esperienza. Tale ciclo favorisce l’elaborazione di strategie mentali per incrementare gli
apprendimenti stessi e i cambiamenti a essi connessi. Questo apprendimento riflessivo conduce a sua volta a
forme avanzate di pensiero critico, inteso come la considerazione attiva, scrupolosa e continua di ogni forma di
conoscenza alla luce dei fondamenti che le supportano e delle conclusioni cui esse conducono. Il pensiero
critico è caratterizzato dalla coscienza che la propria azione è inserita in una traiettoria, che concerne lo
33
svolgimento di qualsiasi azione nel tempo come pure l’insieme delle azioni e interazioni che contribuiscono alla
sua realizzazione. La consapevolezza della traiettoria attribuisce senso a ciò che facciamo.
Partecipazione guidata
Questa immersione nella situazione implica una partecipazione profonda dei fruitori nell’apprendimento.
L’apprendimento situato, attraverso questa partecipazione, non è casuale né caotico, bensì ben guidato.
Questa partecipazione guidata implica non solo la distinzione tra esperto e novizio ma anche la condivisione
reciproca di significati e la strutturazione reciproca delle attività di apprendimento. È un apprendimento
partecipe e attivo fondamentale in ogni ambito, soprattutto quello culturale.
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E-learning e apprendimento tradizionale
Considerato come un apprendimento a distanza, l’e-learning si distingue da forme di autoapprendimento non
guidato. Anche se la figura del tutor o del docente non è presente fisicamente, questa svolge un ruolo
fondamentale nell’e-learning. La mancanza di interazione in uno spazio reale tra lo studente o il gruppo di
studenti e il docente, è sostituita da un’interazione virtuale. Se ben seguita, può non essere un limite ma un
arricchimento. Rispetto all'apprendimento tradizionale, l'e-learning presenta una maggiore frammentazione
dei contenuti, poiché è solitamente costituita dagli oggetti di apprendimento (learning objects), ovvero unità
autonome da assemblarsi in forme molteplici. Tale impostazione, utile e vantaggiosa, si adatta poco però alla
formazione universitaria, dove è richiesta innanzitutto la comprensione dei fondamenti epistemologici di una
disciplina in relazione ad altri campi da sapere.
Inoltre, un altro vantaggio dell’e-learning è la flessibilità e la possibilità di autoregolazione dell’apprendimento,
dal momento che lo studente non è vincolato alla frequentazione di lezioni o incontri con il docente. Questa
assenza di vincoli può essere interpretata anche come assenza di regolarità nel percorso: prova ne è l’alta
percentuale di abbandoni come conseguenza delle sensazioni di isolamento provate dagli studenti ma anche
della loro difficoltà a programmare e monitorare il processo di studio.
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Serious games e apprendimento
I Serious Games sono finalizzati all’apprendimento, anzi si propongono di diventare un nuovo e rilevante
percorso per apprendere conoscenze, competenze, capacità in vari domini dell’esperienza. Per questo motivo,
a differenza dei videogiochi, i Serious Games sono integrati da informazioni che forniscono elementi guida (una
sorta di consegna) in grado di spiegare e illustrare il senso del percorso. Anche la condivisione tra i partecipanti
in un’esperienza multi utente in classe può aumentare la consapevolezza dei processi di apprendimento grazie
agli scambi e ai commenti reciproci. Infine, alcuni aspetti didattici inseriti (come suggerimenti, domande di
riflessione, momenti di approfondimento..) concorrono ad incrementare la consapevolezza
dell’apprendimento.
33
CAPITOLO 6
La memoria
33
(più o meno 2) è il “numero magico” che caratterizza le prestazioni di memoria delle persone chiamate a
ricordare liste di lettere, parole, numeri o qualsiasi elemento dotato di significato.
Nonostante la sua capacità limitata, la codifica delle informazioni nella MBT può essere rafforzata attraverso
due processi: ripetizione (rehearsal) e la creazione di unità di informazione (chunking).
Ripetizione
Un buon modo per tenere a mente il numero di telefono di un amico è continuare a ripeterlo. Questa tecnica di
memorizzazione è chiamata mantenimento per ripetizione. Se nella ripetizione si colloca un compito distrattore,
la qualità della prestazione diminuisce, poiché le informazioni non possono essere ripetute e a causa
dell’interferenza delle informazioni in competizione con il compito distrattore. La ripetizione dunque impedisce
all’informazione di essere eliminata dalla MBT. Supponete ora che la vostra informazione sia troppo
ingombrante per essere ripetuta; in tal caso dovreste creare delle unità di informazione.
Creare delle unità di informazioni
Un’unità d’informazione (chunk) è un’organizzazione di più bit di informazione. Un’unità può essere una
singola lettera o un numero, o un gruppo di lettere o altri elementi, o anche un gruppo di parole o un’intera
frase. Per esempio, la sequenza 1-9-8-4 è composta da 4 cifre che potrebbero riempire tutto il vostro spazio
nella MBT. Se vedete la sequenza come 1984, una data o il titolo del libro di Orwell, le cifre sono in grado di
formare una singola unità, consentendo di lasciare più spazio libero per altre unità di informazione. Osservate
quante unità di informazione contiene questa sequenza: 1914191819391945. Potete rispondere “16” se vedete
la sequenza come una lista di unità indipendenti oppure “4” se individuate le date delle due guerre mondiali.
È possibile dunque strutturare l’informazione in accordo con significati personali (come date di compleanno) o
combinare nuovi stimoli con codici differenti che sono già memorizzati nella memoria a lungo termine.
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chiamata span di operazione. Osservate la tabella: per determinare lo span di
operazione, i ricercatori chiedevano ai partecipanti di leggere i problemi
matematici e di rispondere “si” o “no” indicando se il risultato è esatto. Poi
chiedevano loro di memorizzare le parole che seguono le operazioni. Dopo, si
chiede ai partecipanti di ripetere le parole memorizzate. Lo span di operazione
richiede ai soggetti di portare a termine un compito (risolvere i problemi) svolgendo allo stesso tempo un
secondo compito (memorizzare le parole). Per questa ragione, fornisce un indice delle differenze individuali
nell’efficienza dell’esecutivo centrale in relazione alla sua capacità di destinare la giusta quantità di risorse
mentali alle varie operazioni.
Poiché lavorare sullo span di memoria è una misura delle risorse individuali disponibili per compiere processi
cognitivi nel breve periodo, i ricercatori possono utilizzarlo per prevedere la prestazione del soggetto in un gran
numero di compiti. Per esempio, la memoria di lavoro permette ai soggetti di mantenere la loro attenzione
focalizzata sui compiti che devono eseguire. In generale, quanto più è elevata la capacità della memoria di
lavoro, tanto più i soggetti dovrebbero essere in grado di mantenere la concentrazione.
Infine la memoria di lavoro contribuisce a mantenere il vostro presente psicologico. Consente di creare un
contesto dove inserire nuove eventi e di collegare insieme episodi indipendenti all’interno di una storia
continua. Tutto ciò è vero perché la memoria di lavoro funziona come un canale per il passaggio di informazioni
che vanno e vengono dalla memoria a lungo termine.
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venire in mente qualcosa legato al momento in cui è accaduto quel dato evento e qualcosa relativo al
contenuto degli eventi.
Memoria semantica: memoria generale e categoriale che organizza le conoscenze di una persona circa
le parole e gli altri simboli, i significati e i referenti concettuali, nonché le relazioni esistenti fra loro. Per
la maggior parte delle persone, per richiamare alla mente la capitale della Francia non necessitano di
alcun indizio di contesto che si riferisca al contesto o al momento di apprendimento originario in cui il
ricordo è stato memorizzato. Questo non significa che questi ricordi siano infallibili, poiché si possono
comunque dimenticare molti fatti che sono stati dissociati dai contesti in cui li avete memorizzati.
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6.3.3 I processi di codifica e di recupero
Come vedremo, la memoria funziona più efficacemente quando le fasi di codifica e recupero sono ben
abbinate.
Livelli di elaborazione
Il processo che mettete in atto quando elaborate un’informazione e l’attenzione che prestate nel momento in
cui la codificate, influiscono sulla qualità del ricordo dell’informazione. La teoria dei livelli di elaborazione
suggerisce che quanto più è profondo il livello in cui viene elaborata un’informazione, tanto più è probabile che
questa venga recuperata dalla memoria. Per esempio, considerate la parla MELA: potremmo chiedere se è
scritta in stampatello, se fa rima con vela o se è un frutto. Ognuna di queste domande richiede un livello di
elaborazione di volta in volta più approfondito della parola MELA. In realtà, quanto più a fondo viene effettuato
il processo di elaborazione, tanto più i soggetti sono in grado di ricordare l’informazione. Una difficoltà di
questa teoria riguarda il fatto che non sempre i ricercatori sono in grado di specificare esattamente ciò che
rende alcuni processi di elaborazione “superficiali” e altri “profondi”.
Elaborazione e memoria implicita
In determinate circostanze, per esempio, siete in grado di rievocare in modo implicito i ricordi che avete
originariamente codificato in modo esplicito. Questo è vero quando salutate il vostro migliore amico per nome
senza fare alcuna fatica. In ogni caso, i ricordi impliciti sono spesso più nitidi quando c’è un forte legame tra i
processi di codifica implicita e i processi di recupero implicito. Questa prospettiva è chiamata trasferimento di
elaborazione appropriato: prospettiva secondo cui il ricordo è più nitido quando il tipo di elaborazione
compiuto nella fase di codifica si trasferisce ai processi di elaborazione necessari al recupero.
Consideriamo per l’esperimento tipico usato per valutare la memoria implicita. Gli studenti sono invitati a
indicare il grado di piacevolezza relativo a ciascuna parola in una lista di nomi (tra i quali c’è unicorno), su una
scala da 1 a 5. Le valutazioni di piacevolezza richiedono ai partecipanti di pensare al significato delle parole
senza impegnare esplicitamente la memoria. In seguito, si valuta il ricordo utilizzando uno di questi esercizi:
Completamento di parole parziali (____ni____or____).
Completamento della radice di parola (unic____)
Riconoscimento di parole: le parole sono presentate brevemente sullo schermo di un computer in
modo da non essere viste chiaramente. I partecipanti di indovinare la parola.
Anagrammi (corunnio)
Come nell’esempio dell’unicorno, le risposte corrette a ciascun compito possono essere fornite da parole
provenienti dalle liste precedenti, anche se lo sperimentatore non aveva attirato l’attenzione su quelle parole.
In ogni compito, aver letto la parila nella lista costituiva un vantaggio, anche se ai partecipanti era chiesto solo
di indicare il grado di piacevolezza. Questo vantaggio è definito priming in quanto la prima esperienza della
parola si innesca nella memoria nelle esperienze successive. Per alcuni esercizi, come il completamento
parziale di parole, i ricercatori hanno trovato che gli effetti di priming duravano anche più di una settimana.
Che tipo di corrispondenza c’è tra codifica e recupero? I quattro esercizi di memoria implicita precedenti si
basano su una corrispondenza fisica tra stimolo iniziale e le risposte date nell’esercizio. In un certo senso,
qualsiasi processo vi permetta di codificare la parola unicorno consente a quella parola di attivarsi quando vi è
chiesto di completare la radice unic___ e così via. Possiamo in ogni caso introdurre un altro test di cultura
generale basato sui significati al posto che su corrispondenze fisiche (“qual è l’animale con un solo corno?”).
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Quando la vostra mente ha registrato il suo nome, non si trovava in uno stato di isolamento; prima di
memorizzarlo aveva altri nomi in testa e dopo averlo memorizzato probabilmente ne ha imparati altri. Tutti
questi nomi possono avere un effetto negativo sulla vostra capacità di ricordare il nome giusto al momento
giusto. L’interferenza proattiva si riferisce alle circostanze in cui le informazioni che sono state acquisite in
passato, rendono difficile l’acquisizione di nuove informazioni. L’interferenza retroattiva si ha quando
l’acquisizione di nuove informazioni rende difficile il ricordo di informazioni memorizzate in precedenza. Per
esempio, se vi è capitato di cambiare numero di cellulare, all’inizio avrete avuto difficoltà a imparare quello
nuovo mentre quello vecchio continuava a essere più accessibile (interferenza proattiva). Dopo aver ripetuto il
nuovo numero, è possibile che abbiate trovato delle difficoltà a ricordare quello vecchio (interferenza
retroattiva). Ebbinghaus fu il primo ricercatore a documentare l’interferenza attraverso esperimenti rigorosi.
6.3.6 La metamemoria
Siamo sicuri dell’attendibilità dei nostri ricordi? Domande come queste sono domande di metamemoria, cioè la
capacità di riflettere sul funzionamento dei propri processi mnestici e sulle informazioni che si è certi di
possedere. La ricerca in questo ambito fu introdotta da Hart (1965). Hart fece ai suoi studenti domande di
cultura generale e nel caso in cui non sapessero la risposta, proponeva loro un’altra domanda: “anche se non
ricordo la risposta, sono in grado di individuare la risposta corretta scegliendola in una lista?”. A questa
domanda gli studenti dovevano rispondere su una scala da 1 a 6. Hart scoprì che i partecipanti che davano 1
rispondevano correttamente nel 30% dei casi, quelli che davano 6 nel 75% dei casi.
La ricerca di metamemoria si concentra sia sui processi che attivano la sensazione di conoscere sia sul grado di
attendibilità di tale sensazione:
L’ipotesi di indizio di familiarità indica che le persone basano la propria sensazione di conoscere sulla
familiarità che percepiscono in relazione all’indizio di recupero. Per esempio: “chi ha interpretato Ian
Solo nel primo film di Star Wars?” se avete visto il film potrete pensare di riuscire a riconoscere la
risposta corretta nel caso vi fosse concesso di scegliere.
L’ipotesi dell'accessibilità suggerisce che le persone basano le loro valutazioni a partire dal
l'accessibilità o disponibilità di parte delle informazioni memorizzate. Pertanto, se la domanda “chi ha
interpretato Ian Solo nel primo film di Star Wars?” si collega con informazioni che pensate possano
essere in relazione con la risposta corretta, potreste prevedere di riuscire a ricordare l’attore.
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Entrambe le teorie hanno ottenuto un supporto empirico e suggeriscono che si possa generalmente confidare
nel proprio istinto quando si crede di conoscere qualcosa.
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CAPITOLO 7
Il pensiero
Tendiamo a dare per scontata la cognizione perché è qualcosa in cui siamo continuamente impegnati durante
le ore di veglia. Tuttavia, quando leggiamo un giallo e arriviamo alla brillante soluzione del caso, siamo obbligati
a riconoscere il trionfo dei nostri processi cognitivi. Cognizione è un termine generale che si riferisce a tutte le
forme di conoscenza: lo studio della cognizione è lo studio della nostra vita mentale. Essa comprende sia i
contenuti sia i processi. I contenuti sono quello che sappiamo, mentre i processi sono il modo attraverso cui
questi contenuti vengono elaborati, allo scopo di interpretare il mondo che ci circonda e trovare soluzioni
creative ai problemi della vita quotidiana. Il settore della psicologia che studia la cognizione è la psicologia
cognitiva: questa è supportata in modo interdisciplinare dalle scienze cognitive, che si concentrano sul sapere
raccolto dalle diverse discipline accademiche sulle medesime questioni teoriche. La condivisione dei dati e delle
intuizioni è un vantaggio per chi lavora in ciascuna delle scienze coinvolte.
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processi linguistici che vi permettono capire la domanda funzionano contemporaneamente a quelli che vi
permettono di formulare la risposta. In questo caso dunque si tratta di processi paralleli.
Gli psicologi cognitivi spesso utilizzano i tempi di reazione per scoprire se i processi si svolgono in serie o in
parallelo, anche se si tratta di un obiettivo non facile da raggiungere.
Supponete di avere un compito che, secondo voi, può essere scomposto in due processi X e Y. Se l’unica
informazione in vostro possesso è il tempo totale necessario per completare il compito, non stabilirete mai con
certezza se i due processi X e Y avvengano in parallelo o in serie. La sfida principale della ricerca in psicologia
cognitiva consiste nell’inventare compiti che permettano di discriminare quale tra le possibili configurazioni di
mattoni sia quella corretta. Nel secondo compito di poco fa, possiamo regionalmente dire che i processi siano
stati seriali, perché non sarebbe stato possibile produrre la risposta (C o V) senza aver prima fatto una scelta.
In molti casi i ricercatori tentano di scoprire se i processi sono seriali o paralleli valutando la misura in cui essi
impiegano le risorse mentali. Supponete di stare camminando con un amico; sicuramente siete un grado di
parlare e camminare allo stesso tempo (poiché linguaggio e processi di navigazione spaziale possono essere
svolti in parallelo). Ma cosa accadrebbe se ci fosse una pozzanghera? A quel punto dovreste smettere di
parlare, perché i processi di navigazione spaziale richiederebbero più risorse per la pianificazione del percorso.
Per chiarire questo esempio, è necessario innanzitutto dire che disponiamo di risorse di elaborazioni limitate
che devono essere distribuite tra i diversi compiti. La distribuzione di queste risorse è sotto la responsabilità dei
processi attentivi, che selezionano quindi i processi cognitivi come destinatari delle risorse mentali. Bisogna
inoltre tener conto che non tutti i processi incidono allo stesso modo sulle risorse disponibili; si delineano:
Processi controllati: richiedono attenzione e molte risorse cognitive, nella maggior parte dei casi non è
possibile svolgere più processi controllati contemporaneamente.
Processi automatici: non richiedono attenzione e spesso si possono eseguire più processi automatici in
contemporanea, senza interferenze.
I processi automatici inoltre fanno forte riferimento su un uso efficiente della memoria: quando vediamo un
numero, i processi mnestici forniscono rapidamente le informazioni legate alla quantità.
Tornando all’esempio della pozzanghera, ora capirete che questa introduce un cambio di situazione, poiché
dovrete scegliere cosa fare e cosa dire. Questo esempio mostra perché processi automatici e controllati sono
definiti lungo una dimensione piuttosto che costituire categorie discrete: quando le circostanze diventano
impegnative, quello che sembrava automatico richiede attenzione controllata. Così gli stessi processi possono
richiedere più o meno attenzione a seconda del contesto.
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Altri ricercatori si sono occupati dei rapporti tra linguaggio verbale e pensiero, tra cui lo psicologo russo Lev S.
Vygotskij e lo psicologo, biologo e pedagogista svizzero Jean Piaget.
Per Piaget l’attività verbale del bambino segue un decorso che va dal linguaggio autistico (strettamente
centrato sul bambino e senza valore comunicativo), al linguaggio socializzato. Quanto al linguaggio egocentrico,
esso sarebbe l’espressione verbale dell’egocentrismo cognitivo che a sua volta deriverebbe dalla mancanza di
differenziazione tra il proprio punto di vista e quello degli altri.
Per Vygotskij il linguaggio infantile procede in senso inverso: esso parte radici sociali e il linguaggio egocentrico
è la risultante, insieme al linguaggio comunicativo, della suddivisione funzionale del primo linguaggio del
bambino, appunto sociale. Secondo lui, il linguaggio egocentrico, scisso da quello comunicativo, col tempo
porterebbe ad un linguaggio interiore, che avrebbe una funzione centrale per l’attività di pensiero. Per Piaget,
linguaggio egocentrico (e l’egocentrismo in generale) fungerebbe da tramite tra pensiero e linguaggio autistico
e pensiero e linguaggio socializzato; ad un certo punto però il linguaggio egocentrico non svolgerebbe più alcun
ruolo utile e si atrofizzerebbe. Dopo la critica mossa da Vygotskij Piaget ha considerato positivamente l’ipotesi
della trasformazione del linguaggio egocentrico in linguaggio interiore; però ha continuato ad escludere la
possibilità di un carattere sociale del linguaggio egocentrico.
Sui rapporti tra linguaggio e pensiero si fa spesso riferimento all’ipotesi della relatività linguistica di Sapir-
Whorf, secondo la quale il tipo di linguaggio che il soggetto apprende alla nascita, ne condiziona la struttura del
pensiero e quindi i processi percettivi e mnestici.
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7.2.3 Il pensiero in astratta forma preposizionale
Si ipotizza l’esistenza di un pensiero formato da codici astratti, non provenienti dalle diverse modalità sensoriali
e propriocettive, innati. Si tratterebbe di un pensiero “in astratta forma proposizionale”, consistente quindi di
proposizioni non costituite né da parole né da immagini che Fodor (1975) ha definito linguaggio della mente.
Tale linguaggio sarebbe formato da rappresentazioni che:
Hanno parti costituenti che si combinano tra di loro secondo le regole della logica
Sono composte da parti atomiche (concetti) innate corrispondenti alle proprietà del mondo
Sono composizionali poiché le proprietà semantiche di una rappresentazione complessa dipendono
dalle proprietà semantiche degli elementi anatomici
Sono regolate secondo le condizioni di verità e le relazioni di implicazione.
Le rappresentazioni quindi mentali sarebbero quindi combinazioni di concetti semplici innati (intesi come unità
univoche, chiuse, discrete e fisse) in grado di esprimere verità necessarie. Esse sarebbero elaborate secondo
regole logiche attente solo alla forma e non ai contenuti.
Glucksberg sostiene che “i mattoni del pensiero” possono talora essere codici che non sono né verbali né visivi
e ritiene che tali “codifiche proposizionali” sottendano verosimilmente la “nostra conoscenza della grammatica
del linguaggio che utilizziamo, dall’aritmetica di base ed anche nozioni più concrete come il possesso del fegato
da parte del cammello”. Secondo Kosslyn , il pensiero astratto (formato da codici astratti senza l’uso di parole o
immagini), entra in gioco ogni volta che le informazioni vengono elaborate senza l’utilizzo di parole o immagini.
Per esempio, quando ci troviamo ad affrontare un problema non necessariamente matematico ma anche solo
problemi della vita, talvolta ci accorgiamo di arrivare alla soluzione senza passaggi intermedi, cioè senza
ricorrere a immagini o parole.
Altri studiosi si sono chiesti se il linguaggio della mente esiste davvero. In effetti, a tutt’oggi non è emersa
alcuna evidenza neurologica dell’esistenza di questi simboli amodali nel nostro cervello.
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ciascun attributo è necessario e tutti insieme sono congiuntamente sufficienti a individuare un membro
qualsiasi di una categoria concettuale.
Inoltre i concetti sono organizzati in gerarchie, per cui gli attributi che definiscono uno specifico concetto
includono tutti gli attributi del concetto ad esso subordinato. Questa struttura gerarchica ipotizzata
dall’approccio degli attributi definitori ha un riscontro nel modello computazionale di Quillian nel quale i i
concetti sono gerarchicamente organizzati in forma di rete. Nello schema a rete gerarchica, ciascun nodo della
rete corrisponde a un concetto e i legami che collegano i nodi rappresentano le relazioni tra i concetti. Bisogna
però considerare che alcuni membri di una categoria gerarchica possono essere meno rappresentativi della
categoria stessa; per esempio lo struzzo rientra nella categoria uccelli ma non può volare, tipica caratteristica
degli uccelli. A questo proposito, si ricordano allora le considerazioni di Wittgenstein, secondo cui i concetti non
possiedono una propria essenza e non hanno attributi definitori, ma si formano sulla base di “somiglianze di
famiglia” tra gli oggetti o gli eventi che fanno parte dello stesso concetto.
Le ricerche di Eleonor Rosh propongono un’ottica tassonomica dell’organizzazione categoriale. Ha ipotizzato
tre livelli gerarchici:
1. Livello sovraordinato (arredamento)
2. Livello di base (sedia, tavolo, lampada).
3. Livello subordinato (sedia da cucina, sedia a dondolo, lampada a stelo)
Le categorie di base sono le più importanti poiché gli oggetti che vi appartengono implicano un certo
programma motorio unitario (per sedersi su una sedia bisogna compiere una serie di movimenti, impossibili
per una categoria sovraordinata come l’arredamento). Le categorie di base presentano inoltre delle
somiglianze sul piano morfologico che danno luogo ad un’immagine mentale unica (le sedie hanno la stessa
forma media), condividono il numero più elevato di tratti comuni (per la sedia si può parlare di gambe, sedile,
schienale), alcuni dei quali sono percepiti come più salienti di altri (il sedile è più saliente della forma delle
gambe). Inoltre le categorie di base sono rilevanti sul piano comunicativo dal momento che le parole che le
designano sono quelle più comunemente utilizzate, hanno la frequenza più elevata, e sono indicate da parole
più brevi rispetto a quelle che indicano le categorie sovraordinate e subordinate. È la legge linguistica di Zipf:
quanto è più frequente l’uso di una parola in una lingua, tanto più breve diventa man mano che la lingua evolve
nel corso delle generazioni. Infine le categorie di base sono le prime ad essere apprese dal bambino.
La concezione standard del prototipo
A livello orizzontale, le categorie mentali sono organizzate attorno al prototipo, ovvero il migliore esemplare di
una categoria, quello che la rappresenta meglio poiché dotato di maggior salienza. In questa prospettiva,
secondo Rosch le categorie sono organizzate secondo 5 criteri:
1. Non sono definite da un elenco di priorità comuni intese come condizioni necessarie e sufficienti;
2. I prototipi di una categoria sono gli elementi centrali attorno ai quali si organizza la categoria stessa;
3. L'appartenenza ad una categoria non è di natura dicotomica ma è graduale poiché avviene in base al
grado di somiglianza con i prototipi di quella categoria (più è simile, più l’appartenenza è forte);
4. Le categorie non hanno confini netti e precisi, ma sfumati e continui;
5. Gli esemplari di una categoria non presentano proprietà eguali ma sono simili tra loro.
Questa impostazione si fonda sul principio di somiglianza e di analogia, poiché si confrontano i vari componenti
di una categoria con il prototipo secondo giudizi di maggiore o minore somiglianza, procedendo in modo
graduale (dal più simile al più diverso o viceversa), fondandosi su attività logiche di natura inferenziale.
Questa concezione iniziale di prototipo ha sollevato alcuni dubbi. Innanzitutto, i concetti di rappresentatività e
somiglianza vengono sovrapposti in questo concetto di prototipo, quando in realtà sono due processi distinti.
Un conto è la rappresentatività (possesso del maggior numero delle proprietà tipiche di una categoria), un altro
è l’appartenenza categoriale. I criteri di somiglianza con il prototipo non sono sufficienti per definire tale
appartenenza, in quanto troppo vaghi. L’appartenenza va fondata su criteri più robusti.
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Inoltre, la nozione stessa di prototipo come entità fisica centrale per la struttura di una categoria si è
dimostrata infondata. Per esempio i numeri dispari da 1 a 9 sono considerati come i migliori esemplari della
categoria rispetto agli altri numeri dispari.
La concezione estesa di prototipo
Verso gli anni 90 del secolo scorso, è stato elaborato il modello esteso del prototipo: si passa dal prototipo
come esemplare concreto al prototipo come costrutto mentale, inteso come insieme di proprietà astratte. Il
prototipo dunque diventa la configurazione degli effetti prototipici (insieme delle proprietà più salienti che
distinguono una categoria da un’altra). Esso assume il valore modale della categoria poiché costituisce il
culmine (la moda, appunto) della categoria stessa. In tal modo si ottengono diversi effetti:
Una categoria può rimandare ad una gamma di referenti diversi senza essere percepita come ambigua
(la categoria uccello rimanda a molti animali diversi tra loro);
Le proprietà di una categoria possono essere differenti, di diversa importanza, che si sovrappongono
tra loro;
L’esistenza di esemplari con un maggior numero di effetti prototipici (più rappresentativi)
La presenza eventuale (ma non necessaria) di confini sfumati della categoria.
Le proprietà di una categoria non costituiscono un tutto omogeneo, ma presentano delle differenze al loro
interno. Occorre quindi distinguere tra proprietà essenziali e proprietà tipiche di una categoria. Le prime
definiscono l‘appartenenza categoriale in negativo, per escludere chi non le possiede (se un animale non ha il
becco non può essere nella categoria uccello). Pur non essendo immodificabili, hanno uno statuto
relativamente forte, poiché sono il risultato di una convenzione culturale da lungo tempo condivisa. Il loro
cambiamento (cancellabilità) è possibile solo se si pattuisce il passaggio di una certa entità da una categoria
all’altra. È il caso della balena, fino a metà 800 era considerata un pesce mentre oggi è un mammifero.
L’appartenenza categoriale, oltre che dalle proprietà essenziali, è favorita anche dalla presenza di proprietà
tipiche (intese come proprietà specifiche aggiunte) cancellabili. Per esempio nella categoria uccello, sono
tipiche proprietà quali capacità di volare (gli struzzi non volano) o avere le ali (i kiwi non le hanno). Tra le
proprietà essenziali e quelle tipiche vi è una gerarchia di rilevanza, poiché le prime sono più importanti delle
seconde. Le proprietà tipiche sono correlate con la prototipicità categoriale quanto più è elevato il numero
delle proprietà tipiche in un componente, tanto maggiore è la sua rappresentatività categoriale (per esempio
l’aquila o il passero sanno volare e hanno le ali, quindi hanno un valore prototipico elevato).
Oltre le teorie “classica” e del prototipo
Né la teoria classica, né la teoria del prototipo hanno spiegato in modo esauriente la formazione dei concetti.
Secondo alcune ottiche, i concetti sarebbero determinati anche contestualmente, a partire dagli scopi che una
persona si prefigge. Ad esempio, se dobbiamo fare una telefonata, nella nostra mente si attivano tutte le
informazioni multimodali che comprendono suono, forma, colore del telefono oltre all’eventuale guida
telefonica che usiamo per trovare il numero di telefono di chi dobbiamo chiamare; avremmo quindi costruito
una categoria di oggetti funzionali al nostro obbiettivo. In questa categorizzazione “situata”, nessi tra oggetti ed
eventi sono costruiti di volta in volta in modo diverso, in base alle necessità. Secondo la teoria della
rappresentazione di Barsalou (1987) i concetti non avrebbero caratteristiche stabili, poiché persone diverse
possono formare differenti rappresentazioni della stessa categoria di oggetti in situazioni e tempi diversi.
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problemi implicano una discrepanza tra ciò che sapete e ciò che avete bisogno di sapere; quando ne risolvete
uno, riducete la discrepanza, trovando un modo per ottenere le informazioni mancanti.
Spazio del problema
La definizione formale di un problema comprende:
uno stato iniziale (informazione incompleta o la condizione di insoddisfazione da cui partiamo)
uno stato finale (l’informazione o la condizione che vogliamo ottenere)
un insieme di operatori (i passaggi da compiere per muoversi dallo stato iniziale allo stato finale).
Queste tre parti insieme rappresentano lo spazio del problema. Nella risoluzione di un problema, la maggior
parte delle difficoltà iniziali sorgono perché uno di questi tre elementi non è ben definito. Anche nel caso in cui
il problema sia ben definito, può essere comunque difficile giungere ad una conclusione. Immaginate di
ritornare alle prime lezioni di matematica: l’insegnante vi dava una formula tipo x 2+x-12=0 e vi chiedeva di
trovare il valore di x. Per risolvere questi problemi potete usare algoritmo, ovvero una procedura step-by-step
che fornisce sempre la risposta giusta ad un particolare tipo di problema. Un algoritmo potrebbe essere utile in
diverse situazioni, come per esempio quando non ricordate la combinazione di una serratura e andate a
tentativi. Per loro stessa natura è più probabile che gli algoritmi siano disponibili per problemi ben definiti.
Quando non sono disponibili, ci si affida alle euristiche, ovvero delle strategie cognitive, delle regole empiriche,
usate come scorciatoia nella soluzione di problemi complessi. Per esempio quando leggete un romanzo giallo,
escludete che l’assassino sia il maggiordomo usando l’euristica per cui l’autore non avrebbe mai utilizzato una
trama così scontata (vedremo che le euristiche sono un aspetto critico del giudizio e della presa di decisione).
Per studiare i passaggi messi in atto per risolvere un problema e le modalità di applicazione di algoritmi o
euristiche, i ricercatori hanno spesso utilizzato i protocolli di verbalizzazione del pensiero (think-aloud), ovvero
chiedevano ai partecipanti di verbalizzare i loro pensieri man mano che si presentavano. I ricercatori hanno
usato spesso i resoconti che i partecipanti agli esperimenti fornivano sui loro stessi pensieri come punto di
partenza per la creazione di modelli più formali di risoluzione di problemi.
Migliorare l’abilità di problem solving
Che cosa rende così difficile la risoluzione del problema? In molti casi il problema è difficile se le richieste
mentali necessarie alla risoluzione sono superiori alle risorse di elaborazione. Per risolvere un problema
bisogna dunque pianificare la serie di operazioni che vanno messe in atto. Se queste operazioni sono troppo
complesse, potrebbe essere difficile passare dallo stato iniziale a quello finale. Un passaggio importante per
migliorare l’abilità nel risolvere i problemi, è trovare un modo di rappresentare il problema tale per cui ogni
operazione sia possibile date le risorse di elaborazione disponibili. Se di solito vi trovate a dover risolvere
problemi simili tra loro, una procedura utile è quella di fare pratica con ciascuna componente della soluzione,
in modo che, con il passare del tempo, esse si automatizzino e richiedano meno risorse. A volte, trovare una
rappresentazione utile significa trovare un modo completamente diverso di pensare al problema.
La fissità funzionale è blocco mentale che influisce negativamente sulla capacità di risoluzione dei problemi,
inibendo la percezione di una nuova funzione dell’oggetto precedentemente associato a uno scopo diverso.
Ogniqualvolta che vi trovate bloccati su una problema dovreste chiedervi: “come mi sto rappresentando il
problema? Ci sono altri modi di pensare al problema?”. Se le parole non funzionano provare con un disegno o
cercate di esaminare le vostre convinzioni per capire quali “regole” possano essere infrante per creare nuove
combinazioni. Spesso, quando cerchiamo di risolvere i problemi, mettiamo in atto speciali forme di pensiero
chiamate ragionamento. Parleremo ora del primo tipo di ragionamento utilizzato a tale scopo, quello induttivo.
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ragionamento. Consideriamo il seguente sillogismo (struttura introdotta da Aristotele, interessato a definire i
legami logici che intercorrono tra gli enunciati che portano a conclusioni logiche):
Premessa 1: tutte le cose che hanno un motore hanno bisogno di olio;
Premessa 2: le automobili hanno bisogno di olio.
Conclusione: le automobili hanno un motore.
Si tratta di una conclusione valida? No, secondo le regole della logica. La premessa 1 lascia aperta la possibilità
che alcune cose senza motore abbiano comunque bisogno di olio. Ciò che non è valido in un problema logico,
tuttavia, non necessariamente è falso nel mondo reale. Se però consideraste le premesse 1 e 2 come le uniche
informazioni in possesso sul mondo, la conclusione non potrebbe essere valida.
Questo esempio mostra l’errore derivato dall’effetto bias dovuto alla credenza: le persone tendono a giudicare
valide le conclusioni che ritengono credibili e non valide quelle che invece giudicano non credibili . La ricerca
sostiene che questo errore rappresenti un conflitto tra due tipi di processi mentali che vengono applicati
durante il metodo induttivo. Il primo utilizza le esperienze passate per fornire risposte rapide e automatiche ai
problemi (le euristiche), il secondo invece consente la lenta e consapevole applicazione della logica formale.
In alcuni casi, l’abilità di utilizzare le esperienze passate migliora la prestazione nei compiti di ragionamento.
Immaginate che vi sia consegnata una serie di 4 carte: A, D, 4, 7. Il compito è determinare quali carte girare per
dimostrare la regola “se una carta ha una vocale da un lato avrà un numero pari dall’altro lato”. La maggior
parte delle persone girerebbe la A (corretto) e il 4, che sarebbe un errore. Infatti non importa cosa ci sia dietro
il 4, la regola non verrà comunque confutata. La mossa corretta è il 7, così se troverete una vocale avrete
confutato la regola. La ricerca originale di questo compito, chiamato compito di selezione di Wason, ha posto
dei dubbi sulle effettive capacità di ragionamento delle persone; tuttavia quando ai partecipanti è stato
permesso di applicare allo stesso esercizio le loro conoscenze del mondo reale, le prestazioni del ragionamento
deduttivo sono migliorate. Immaginate ora la sequenza di carte BEVE BIRRA, BEVE COLA, 23, 15. La regola ora è
“se un cliente sta per bere una bevanda alcolica, allora deve avere almeno 16 anni”. Probabilmente avreste
capito subito che le carte da girare sono BIRRA e 15. È importante notare che 7 e 15 hanno la stessa funzione
logica, ma nel secondo compito l’esperienza del mondo reale vi aiuta a comprendere più velocemente.
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In questo paragrafo abbiamo fatto la differenza tra ragionamento induttivo e ragionamento deduttivo. La
ricerca suggerisce che la separazione esiste anche a partire dal modo in cui la mente elabora i due diversi tipi di
ragionamento: il ragionamento deduttivo produce una maggiore attivazione dell’emisfero destro, quello
induttivo invece porta a una maggiore attivazione dell’emisfero sinistro. Questo perché il ragionamento
deduttivo coinvolge un tipo di analisi relativamente indipendente dal linguaggio. Il ragionamento induttivo,
invece, attiva la comprensione basata sul linguaggio e i processi di inferenza precedentemente descritti.
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un giudizio corretto, la ricerca si è focalizzata tipicamente sulle circostanze in cui esse conducono a giudizi non
corretti. Questo è dovuto da due ragioni principali:
1. La ricerca segue una logica che dovrebbe suonarvi famigliare; esattamente come si può capire la
percezione studiando le illusioni percettive e la memoria studiando i fallimenti mnestici, così si possono
comprendere i processi di formulazione del giudizio studiando gli errori;
2. Saper riconoscere le circostanze in cui le euristiche possono portare a giudizi errati rappresenta un
valore aggiunto; offre infatti alle persone l’opportunità di impiegare altre abilità mentali per formulare
giudizi migliori.
In generale, come abbiamo già detto parlando dei bias dovuti alla credenza, è positivo utilizzare l’esperienza
passata per formulare giudizi su situazioni contingenti. Tuttavia, nel contesto della logica deduttiva questa
procedura può portare a errori. Per trarre conclusioni deduttive corrette, a volte c’è bisogno di rallentare e
sforzarsi di applicare le conoscenze acquisite sulle regole della logica. Questo esempio di logica deduttiva
spiega la ragione per cui molti ricercatori adottino modelli di processo duale di giudizio e presa di decisione. Tali
modelli suggeriscono l’ipotesi che le persone abbiano due insiemi di processi mentali: processi veloci,
automatici e inconsci (le euristiche) e processi lenti, che richiedono sforzo e consapevolezza.
Euristica della disponibilità
Immaginate che vi venga dato un estratto di un romanzo e vi venga chiesto se ci sono più parole che iniziano
con la C o più parole che hanno la C come terza lettera. Se avete optato per la prima opzione, la risposta è
sbagliata, perché la lettera C come terza lettera appare in quasi il doppio delle situazioni rispetto alle situazioni
che presentano la C come lettera iniziale. Perché avete pensato alla prima opzione? La risposta ha a che fare
con la disponibilità delle informazioni in memoria. È molto più facile pensare a parole che iniziano con la C
piuttosto che pensare a quelle in cui la C è in terza posizione. Il giudizio deriva quindi dall’euristica della
disponibilità, ovvero un giudizio basato sull’informazione disponibile prontamente in memoria. Questa
euristica ha due componenti:
1. la relativa facilità con la quale vengono recuperate le informazioni. Immaginate per esempio che vi
venga chiesto quale sport tra bowling e deltaplano sia più pericoloso.
2. i contenuti della memoria che si ha la sensazione vengano recuperati più facilmente. Immaginate che vi
chiedessero di evocare tre ricordi legati al bowling; se fossero tutti brutti ricordi forse concludereste
che il bowling non è un bello sport per voi.
Vediamo ora uno studio nel quale ai partecipanti era stato chiesto di valutare il grado di tipicità di alcuni
esemplare rispetto alla categoria. In alcuni casi le parole erano scritte con caratteri di facile lettura (come
COLIBRÌ) in altri casi erano più difficili da decifrare ( colibrì). I soggetti valutavano lo stesso esemplare come più
tipico quando era scritto con caratteri più semplici. Una spiegazione per questi risultati consiste nel fatto che la
difficoltà nel passaggio tra parola scritta e la sua rappresentazione in memoria ha influito sul giudizio di tipicità.
Questo studio ha dimostrato come i giudizi formulati facendo affidamento sulla facilità del recupero delle
informazioni possano dipendere dal contesti (in questo caso il carattere).
Potreste avere difficoltà con la disponibilità anche qualora l’informazione conservata in memoria contenesse
un errore. Consideriamo per esempio il seguente esperimento in cui si chiedeva ai partecipanti di ordinare le
seguenti nazioni da quella meno popolosa a quella più popolosa: Svezia, Indonesia, Israele, Nigeria. I ricercatori
hanno dimostrato che in generale più i partecipanti conoscono un paese più ne sovrastimano la popolazione (la
risposta esatta era Israele, Svezia, Nigeria, Indonesia).
Euristica della rappresentatività
Quando formulate giudizi basandovi sull’euristica della rappresentatività, assumete che se qualcosa possiede
le caratteristiche tipiche di un membro della categoria allora è in effetti un membro di quella categoria. Questa
euristica vi sembrerà familiare perché sostiene l’idea che le persone utilizzino le informazioni appartenenti al
passato per formulare giudizi che si riferiscono al presente. Nella maggioranza dei casi, finché non avrete idee
sbagliate sulle connessioni tra caratteristiche e categorie, formulare giudizi sulla base della similarità può
sembrare ragionevole. Se per esempio state decidendo se provare il deltaplano, avrebbe senso determinare
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quanto questo sport sia rappresentativo della categoria di attività che ci sono sempre piaciute. La
rappresentatività tuttavia, potrebbe portarvi fuori strada se ignoraste altre informazioni rilevanti. Considerate
l’esempio seguente “L’avvocato di Gerusalemme”: i colleghi dicono che i suoi difetti gli impediscono di lavorare
bene in squadra, attribuendo il suo successo alla competitività e all’ambizione. Magro e non molto alto,
controlla la sua linea ed è vanitoso. Che sport pratica tra: marcia, un gioco con la palla, tennis, atletica leggera?.
Se la risposta che avete dato è “tennis”, è sbagliata, perché è inclusa nella categoria “sport con la palla”.
L’implicazione per la vita di tutti i giorni è che potreste essere tratti in inganno da un’alternativa
rappresentativa, prima di aver considerato la struttura di tutte quelle disponibili.
Euristica dell’ancoraggio
Prendetevi 5 secondi per risolvere la seguente operazione e poi scrivete la risposta: 1x2x3x4x5x6x7x8.
Probabilmente in 5 secondi avrete completato le prime operazioni e sarete arrivati a 24, un risultato parziale, e
poi vi siete aggiustati per fare la stima del risultato. Ora risolvete questa: 8x7x6x5x4x3x2x1. Anche se si tratta
della stessa serie di cifre in ordine inverso, potete notare come l’esperienza di calcolo risulti differente: 8x7 fa
56 ma 56x6 è già un’operazione più complessa. Anche in questo caso avete un risultato parziale. Quando
Tversky e Kahneman (1973) hanno utilizzato queste due serie di esperimento, hanno osservato che la media
delle stime nella prima prova era 512, nella seconda 2250. La risposta corretta è 40.320. Evidentemente il
risultato parziale più alto porta alla stima più alta.
Questo esperimento ha dimostrati l’esistenza dell’euristica dell’ancoraggio, che regola in base a cui i giudizi
delle persone sul valore di un evento o esito evidenziano aggiustamenti insufficienti, verso l’alto o verso il
basso, rispetto ad un valore di partenza. Perché a partire dall’ancoraggio le persone fanno degli aggiustamenti
insufficienti? I ricercatori hanno iniziato a occuparsi di questa questione riferendosi a quando accade nella vita
quotidiana. Considerate la domanda: quanto tempo impiega Marte a compiere un’orbita intorno al sole? Per
rispondere alla domanda, potreste partire dal fatto che la Terra impiega 365 giorni e, considerando che Marte è
più grande rispetto alla Terra, potreste utilizzare l’orbita terrestre come ancoraggio per stimare quella di Marte.
I partecipanti all’esperimento infatti stimarono l’orbita di Marte intorno ai 492 giorni, ma questa stima è
comunque inferiore al valore reale che è 869 giorni. Sembra dunque che le persone si siano ancorate al valore
di 365 giorni e lo abbiano aggiustato fino a raggiungere un valore considerato plausibile.
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Conseguenze della presa di decisione
Che cosa succede quando prendere una decisione? Nel migliore delle ipotesi va tutto bene e non vi voltate
indietro ma, come sapete, non tutte le decisioni conducono al migliore dei mondi possibili. Quando le decisioni
si rivelano sbagliate, spesso si prova rammarico. La ricerca suggerisce che le persone sperimentano maggiore
rammarico in relazione alle decisioni prese in ambito scolastico e lavorativo, poiché esistono molti percorsi di
studio e molte carriere scolastiche. Le persone provano maggior rammarico quando hanno ben chiari i costi
associati ad una determinata decisione; in un quiz televisivo per esempio, se il concorrente deve scegliere tra la
busta A e la busta B nelle quali ci sono o 10.000 euro o 10 euro, se scegliesse la busta sbagliata è facile capire
perché si rammaricherebbe. Quando le persone si aspettano di poter rimpiangere la loro decisione, è probabile
che siano più caute nel momento in cui devono prenderla: impiegano più tempo e cercano il maggior numero
possibile di informazioni. In alcune circostanze, le persone cercano di evitare del tutto di prendere delle
decisioni.
- 7.6 La creatività
La creatività è un’abilità individuale di generare idee o prodotti che siano allo stesso tempo innovativi e
appropriati alle circostanze in cui vengono generati. Consideriamo l’invenzione della ruota: era innovativa
perché nessuno l’aveva inventata, ed era appropriata perché l’uso per il quale era stata creata era chiaro.
Senza l’appropriatezza, idee e oggetti innovativi vengono considerati bizzarri o irrilevanti.
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CAPITOLO 10
Motivazione ed emozioni
Quali fattori determinano il comportamento? Oltre alla motivazione, l’agire umano è largamente influenzato
dalle emozioni. Queste sono date da molteplici necessità, che vanno dai bisogni fisiologici fondamentali come
la fame e la sete, a quelli psicologici come il bisogno di realizzazione personale.
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1. Al primo livello della gerarchia figurano i bisogni fisiologici, come la fame o la sete. Essi devono essere
soddisfatti prima che inizi ad operare qualsiasi altro tipo di bisogno. Quando i bisogni fisiologici sono
fortemente pressanti, gli altri vengono in secondo piano.
2. Secondo livello: bisogni di sicurezza e di protezione;
3. Al terzo livello: bisogni di appartenenza, che fanno riferimento alla necessità di appartenere, di affiliarsi
a un gruppo, di amare e di essere amati.
4. Quarto livello: bisogni di stima, legati al grado di piacevolezza, competenza ed efficacia personale.
5. L’ultimo livello è legato alla ricerca di un pieno sviluppo del proprio potenziale e di una completa
autorealizzazione; una persona autorealizzata è caratterizzata da consapevolezza, accettazione,
responsività sociale, creatività, spontaneità e apertura nei confronti di novità e sfide.
Dunque, al centro della teoria di Marlow sta il bisogno di ogni individuo di sviluppare il più possibile il proprio
potenziale. Tuttavia, le esperienze che facciamo nella vita quotidiana non rispecchiano sempre questa
gerarchia, per esempio potreste aver saltato il pranzo per aiutare un amico.
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Una parte della risposta dipenderà dalle attribuzioni causali, un processo attraverso cui si attribuisce un senso
alle azioni e ai comportamenti mediante l’individuazione di una causa più o meno probabile. Supponiamo che
uno dei due studenti attribuisca il risultato della sua prestazione alla presenza di un ambiente rumoroso
(attribuzione esterna), mentre l’altro attribuisca il risultato a una scarsa capacità di memorizzazione
(attribuzione interna). Queste attribuzioni potrebbero influenzare la motivazione dei soggetti. Lo studenti che
attribuisce le sue prestazioni all’ambiente rumoroso, sarà portato a lavorare più duramente durante la seconda
prova, l’altro studente invece è più probabile che rinunci all’idea di sforzarsi a studiare duramente.
La dimensione interna/esterna è una delle tre dimensioni in base alle quali le attribuzioni possono cambiare.
Possiamo anche chiederci fino a che punto un fattore causale possa essere stabile nel corso del tempo oppure
invariabile. La risposta ci fornisce un’indicazione relativa alla dimensione di stabilità/instabilità. Possiamo
anche domandarci fino a che punto si tratti di un fattore causale altamente specifico, limitato a un particolare
compito o situazione. Questo consente di utilizzare la dimensione globale/specifica.
Continuiamo a pensare all’esempio degli studenti: gli studenti possono interpretare i loro risultati come
riconducibili a fattori interni come le proprie capacità (caratteristica stabile della persona) o l’intensità dello
sforzo compiuto (caratteristica variabile). Oppure potrebbero considerare che i voti ottenuti siano determinati
da fattori esterni come la difficoltà del compito (caratteristica situazionale stabile) o la fortuna (caratteristica
situazionale instabile). Il modo in cui le persone interpretano i propri successi o fallimenti in relazione alle tre
dimensioni può essere in grado di influenzare la motivazione, il tono dell’umore e anche la capacità di
comportarsi in modo appropriato. Lo stile attributivo influenza il livello di attività e passività della persona, la
scelta di persistere o arrendersi, correre rischi o comportarsi in modo prudente.
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- 10.3 Che cosa sono le emozioni
Un’emozione è un insieme di cambiamenti corporei e mentali che include attivazione fisiologica, sentimenti,
processi cognitivi, espressioni visibili e reazioni comportamentali specifiche attivati in risposta a situazioni
percepite come personalmente significative.
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La prospettiva secondo cui l’emozione deriva da un feedback corporeo è conosciuta come teoria periferica
delle emozioni James-Lange. Secondo questa prospettiva, la percezione di uno stimolo causa l'attivazione
autonoma che porta all’esperienza di una specifica emozione.
Teoria centrale
Lo psicologo Walter Cannon, presentò alcune obiezioni alla teoria di James-Lange. In particolare egli evidenziò
che l’attività viscerale è irrilevante per l’esperienza emotiva. Gli animali analizzati nel contesto sperimentale
continuarono a rispondere emotivamente anche quando i loro dispositivi viscerali sono separati
chirurgicamente dal sistema nervoso centrale. Inoltre, le risposte del sistema nervoso autonomo sono troppo
lene per dare origine alle esperienze emotive. Per Philip Bard, lo stimolo di attivazione emotiva determina sia
un’attivazione corporea attraverso il sistema nervoso simpatico, sia un’esperienza emotiva soggettiva
attraverso la corteccia cerebrale. Le convinzioni di questi fisiologi portarono alla formalizzazione della teoria
centrale delle emozioni di Cannon-Bard. Questa teoria afferma che uno stimolo emotigeno produce due
reazioni simultanee (attivazione ed esperienza emotiva), le cui cause non sono collegate tra loro. Mente e
corpo producono due risposte indipendenti.
La teoria periferica e quella centrale, pur essendo contrapposte, si sono dimostrate entrambe fondate (poiché
hanno colto aspetti specifici della vita emotiva) ma parziali (poiché non sono riuscite a cogliere e a dominare la
complessità delle emozioni).
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standard culturali. Da ciò consegue che le emozioni sorgono in risposta alla struttura di significato di una data
circostanza. Non è lo stimolo ad attivarle ma il valore che l’individuo attribuisce a questo stimolo. Situazioni che
soddisfano i suoi scopi e desideri conducono a emozioni positive; per contro, situazioni valutate come dannose
o minacciose suscitano emozioni negative.
Le emozioni cambiano quando cambiano i significati o i valori attribuiti a una determinata situazione. Questa
situazionalità dei significati è centrale sia per capire la diversità e l’intensità delle emozioni, sia per spiegare la
dimensione soggettiva dell’esperienza emotiva. Due individui che valutano in modo differente la medesima
situazione, manifesteranno emozioni diverse.
In sintesi, le teorie dell’appraisal hanno fornito un contributo fondamentale alla comprensione dell’esperienza
emotiva. Anzitutto, esse pongono in evidenza la grande flessibilità e versatilità delle emozioni;
secondariamente, tali condizioni determinano da un lato l’architettura dinamica e componenziale delle
emozioni, poiché di volta in volta, a seguito di una data valutazione della situazione contingente, emerge una
specifica emozione (emozione modale, più compatibile con quella situazione). Dall’altro, sottolineano la
condizione dimensionale delle emozioni, poiché variano in continuazione lungo diverse dimensioni
(piacevolezza/spiacevolezza, attivazione/inibizione, livello di attenzione/rifiuto).
Processo di valutazione degli stimoli
Pu essendo di solito rapido e relativamente semplice, il processo di valutazione si articola in funzione di alcuni
parametri che tengono in considerazione i diversi aspetti della situazione emotigena. A tale proposito, Scherer
(1984) ha proposto una sequenza lineare di controlli di valutazione dello stimolo (CVS) organizzata secondo un
ordine progressivo, che parte dagli aspetti biologici per arrivare a quelli cognitivi ed infine sociali:
1. Innanzitutto l’organismo valuta la novità e la discrepanza dello stimolo rispetto alle proprie aspettative.
In funzione alla novità vi può essere l’attivazione automatica dei processi neurali, la risposta di
orientamento e la razione di sorpresa;
2. Secondariamente, l’organismo valuta la qualità edonica (piacevolezza/spiacevolezza intrinseca) dello
stimolo. La piacevolezza suscita risposte di avvicinamento, mentre la spiacevolezza di allontanamento.
Anche in questo caso la risposta può essere automatica, come per il disgusto per le sostanze repellenti;
3. Poi l'organismo valuta la pertinenza dello stimolo per i propri scopi e bisogni. È la valutazione del
significato e del valore soggettivo della situazione in funzione del proprio sistema di aspettative e
credenze.
4. Poi l’organismo valuta le proprie capacità di far fronte (coping) allo stimolo. Si tratta di verificare la
natura della causa (agency), di accertare il grado di controllabilità dell’evento attraverso il ricorso di
un’azione specifica (lotta o fuga) oppure di procedere a una sorta di ristrutturazione interna degli scopi,
dei desideri e del concetto di sé. In particolare, il coping può essere primario (capacità di controllare
l’evento che ha attivato l’emozione) o secondario (capacità di gestire le proprie reazioni emotive),
come può essere attivo (prontezza e preparazione tonica dell’organismo a entrare in azione) o passivo
(preparazione dell’individuo in difesa).
5. Infine l’organismo valuta la compatibilità con le norme sociali e con l’immagine di sé. Infatti l’adesione o
la trasgressione delle norme e dei valori dei gruppi di riferimento suscitano emozioni assai diverse,
come orgoglio, vergogna, senso di colpa… Si tratta delle cosiddette emozioni autoconsapevoli.
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10.4.1 Teoria dei programmi affettivi
Se la prospettiva evoluzionistica è corretta, ci aspettiamo di trovare le medesime espressioni nei bambini di
tutto il mondo. Rifacendosi alla teoria di Darwin, per Tomkins le emozioni come strettamente associate alla
realizzazione di scopi universali, connessi con la sopravvivenza della specie e dell’individuo. Questa posizione
asserisce che ogni emozione di “base” sia regolata da uno “specifico programma affettivo nervoso”, evolutosi
nel tempo per consentire alla nostra specie un adattamento efficace al proprio habitat.
Tomkins ha sottolineato che senza un apprendimento precedente, i bambini rispondo a rumori forti con paura
e difficoltà respiratorie: sembrano quindi predisposti a reagire a certi stimoli con una risposta emotiva
abbastanza generale. La ricerca crossculturale ha infatti confermato l’ipotesi secondo cui alcune risposte
emotive sono molto simili in bambini appartenenti a diverse culture; nonostante la ricerca abbia rilevato delle
regolarità a livello crossculturale, i risultati ottenuti dimostrarono anche che la cultura riesce ad influenzare le
risposte emotive molto precocemente.
Considerate inoltre che i bambini sembrano possedere una capacità innata di interpretare le espressioni facciali
delle altre persone. In un esperimento, dei bambini di 5 mesi sono stati sottoposti a una procedura di
abituazione in cui evidenziavano un interesse decrescente in seguito alla presentazione ripetuta di una faccia
adulta che mostrava una serie di sorrisi di diversa intensità. In seguito, i ricercatori mostrarono ai bambini la
fotografia di un adulto con un sorriso “nuovo” e poi una seconda fotografia con lo stesso adulto con
un’espressione impaurita. I bambini dedicavano più tempo ad osservare l’espressione impaurita come qualcosa
di nuovo e considerato la faccia sorridente come appartenente alla categoria già incontrata. Un altro
esperimento ha mostrato che i modelli dell’attività cerebrale di bambini di 7 mesi sono differenti in risposta alle
espressioni di rabbia e paura. Pertanto, i bambini presentano risposte diverse in relazioni a espressioni facciali
che non sono in grado di produrre.
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presso le culture non alfabetizzate. Queste debolezze mettono in discussione i risultati in base ai criteri di
validità ecologica (non prendono in considerazione la comparsa delle espressioni in contesti naturali), la
validità convergente (non vi è la possibilità di confrontare i dati con un altro metodo) nonché la validità interna
(gli strumenti e i procedimenti adottati generano distorsioni che contribuiscono a confermare l’ipotesi
sperimentale). L’ipotesi che esista un legame, seppur parziale, fra emozioni e le espressioni facciali non nega
l’esistenza di rilevanti e significative variazioni culturali.
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Gross e Thompsin (2007) hanno proposto un modello teorico che distingue fra le operazioni di regolazione
concernenti gli antecedenti e quelle riguardanti la risposta emotiva. Per quanto riguarda gli antecedenti
emotivi, gli individui possono regolare le loro emozioni attraverso:
la selezione della situazione (scegliere se accettare o evitare situazioni o persone in grado di suscitare
emozioni poco desiderabili o difficili da controllare);
la modificazione della situazione (introdurre un elemento di cambiamento nel contesto fisico o sociale
di riferimento);
la dislocazione dell’attenzione (concentrare le risorse attentive su alcune informazioni della situazione
all’interno di un certo numero di opzioni);
la rivalutazione della situazione (attribuire un significato diverso alla situazione rispetto a quello
standard abituale.
In riferimento alla risposta emotiva, la regolazione emotiva consiste nel saperla modulare nelle sue diverse
componenti. Innanzitutto gli individui hanno a disposizione la possibilità di intervenire sugli aspetti fisiologici
arousal) in diversi modi, dall’suo di farmaci specifici (i betabloccanti per l’ansia) al ricorso di esercizi fisici, o di
rilassamento. La modulazione della risposta emotiva può essere modulata anche attraverso la condivisione
sociale delle emozioni. Rimé (2005) ha osservato che circa il 90% delle persone condivide con altri le proprie
emozioni abitualmente, nel giorno stesso in cui le hanno provate, nonostante la condivisione riattivi i
sentimenti e le sensazioni fisiologiche (piacevoli o spiacevoli) provate durante l’esperienza emotiva. Parlare
delle proprie emozioni con gli altri, contribuisce alla definizione del loro significato e della loro rilevanza
personale e sociale e consente di ottenere sostegno, conforto e consolazione aumentando la possibilutà di
tollerare la situazione (in caso di emozioni negative), promuove anche la capacità di ristrutturare e
riorganizzare gli eventi a livello mentale, offre un supporto circa le soluzioni e i modi con cui far fronte a
situazioni complesse e difficili.
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