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SEZIONE 1 – Teorici delle intelligenze.

TEORIE DI BASE
Le scienze che studiano la mente
La scienza che studia i processi cognitivi è la psicologia scientifica.
Disciplina che analizza, usando i metodi delle altre scienze, la fenomenologia della vita psichica, allo
scopo di venire a conoscenza dei modi attraverso i quali essa si attua e delle leggi che la regolano.

La psicologia scientifica ebbe inizio grazie all’opera di scienziati naturali, fisici, fisiologi, medici che
condussero, soprattutto in Germania, ricerche sui processi mentali più elementari, in particolare su
quelli alla base delle sensazioni e delle emozioni.

 La teoria di Wilhelm Maximilian Wundt(1832-1920), che dominò inizialmente la psicologia


scientifica moderna, diede vita a una psicologia sperimentale su vasta scala, poco tempo dopo
che Gustav Theodor Fechner (1801-1887) aveva mostrato le possibilità d’impiego
dell’esperimento e dell’osservazione empirica esatta. Wundt fondò a Lipsia, nel 1879, il primo
laboratorio per l’indagine sperimentale dei processi psichici, evento considerato da molti
come l’inizio della psicologia come scienza autonoma, tracciando inoltre un vasto sistema
della nuova scienza, compresa tra la psicofisiologia sperimentale e la psicologia dei popoli.
 Nel XX secolo il centro scientifico internazionale si spostò negli Stati Uniti, dove gli studiosi
rifiutarono l’idea che la psicologia dovesse occuparsi della mente e affermarono
l’antimentalismo, promuovendo la corrente del comportamentismo, che avrebbe dominato
la psicologia per oltre quarant’anni.
 La visione comportamentista, ritenuta troppo angusta per comprendere l’estrema ricchezza
dei dati psicologici, nel secondo dopoguerra subì un indebolimento, mentre si delineò una
rinascita dello studio scientifico dei processi mentali, attraverso il consolidamento
della psicologia cognitiva o «psicologia della conoscenza», che studia le attività mentali
umane, analizzando il funzionamento della mente a livello astratto e occupandosi di modelli
di riconoscimento, di distorsioni nella percezione della realtà, della linea sfumata esistente tra
attenzione e disattenzione. La mente può essere considerata un sistema operativo, vale a dire un
apparato che svolge determinati compiti attraverso determinate operazioni, analizzabili sul piano sia
della concretezza sia dell’astrazione. Mentre nel cervello si realizzano trasformazioni chimiche ed
elettriche, a livello astratto si svolgono processi cognitivi, vale a dire insiemi di operazioni concatenate,
in cui vengono trattate informazioni possedute come simboli e rappresentazioni mentali. La psicologia
cognitiva utilizza metodi oggettivi di verifica dei suoi risultati mediante la ripetizione o la sistematica
variazione delle condizioni e non insiste sull’analogia dell’arco riflesso, usata dalla psicologia stimolo-
risposta, ma su altre analogie, quale ad esempio quella di un computer che, piuttosto che rispondere
ad un impulso, elabora le informazioni ricevute e produce una risposta basata su questo procedimento
complesso.
 La psicologia fisiologica, che si origina dall’incontro di psicologia cognitiva, anatomia e
fisiologia del sistema nervoso, studia il funzionamento della mente a livello materiale,
tentando di comprendere, attraverso il lavoro sperimentale, i processi anatomo-fisiologici
sottostanti ai processi cognitivi. La possibilità della psicologia di definirsi unicamente come
studio dell’azione del cervello rappresenta un problema vivacemente discusso, ma
interessante, poiché appare ineludibile l’esistenza di un legame vincolante tra attività
cerebrale ed esperienza.
 La neuropsicologia, che scaturisce dalla confluenza della psicologia cognitiva e della
neurologia, studia gli effetti cognitivi di lesioni cerebrali, verificando ipotesi sul
funzionamento della mente attraverso l’analisi delle prestazioni mentali di pazienti con lesioni
cerebrali. L’esistenza della percezione subliminale – quella in cui il soggetto percepisce uno
stimolo senza averne consapevolezza – è confermata, ad esempio, da sindromi cliniche
generate da lesioni cerebrali e caratterizzate da percezioni senza coscienza.
 L’etologia classica, considerata una branca dell’etologia, attraverso confronti sistematici tra
specie animali differenti, studia le origini e l’evoluzione dei comportamenti. Da circa un
trentennio si è affermata l’etologia cognitiva, che rivela i processi biologico-evolutivi dei
fenomeni mentali.
 Gli studiosi di intelligenza artificiale si propongono di progettare e realizzare macchine
pensanti. Lo storico seminario interdisciplinare, svoltosi nel 1956 al Dartmouth College di
Hannover, nel New Hampshire, che segnò l’atto di nascita ufficiale di questa disciplina,
partiva dal presupposto che si potesse simulare ogni caratteristica dell’intelligenza. Nel
simposio fu fondato il campo di ricerca dell’intelligenza artificiale dura, in cui gli studiosi
mirano a costruire macchine dalle prestazioni rapide, accurate ed esenti da errori, ignorando
il funzionamento della mente umana e badando ai risultati indipendentemente da come sono
ottenuti, e il campo di ricerca dell’intelligenza artificiale morbida, in cui i ricercatori si
propongono di costruire macchine operanti secondo le stesse modalità di ragionamento
dell’uomo.
 La scienza cognitiva che studia i sistemi intelligenti – siano essi umani, animali o artificiali
– si concentra sulla natura della conoscenza e sull’architettura della mente. Per i teorici
del modularismo, la mente è formata da una serie di moduli periferici, che trattano le
informazioni in arrivo e le trasformano in rappresentazioni trasmesse ad un elaboratore
centrale. Una diversa concezione della struttura della mente è stata proposta dai teorici
del connessionismo o delle reti neurali, secondo i quali nel cervello umano esistono molte
unità operative, i neuroni, e non una sola centrale operativa, come la CPU (Central Processing
Unit) presente nel computer, in grado di lavorare sulle informazioni in entrata e in uscita
attinte dalla memoria, e di controllare l’intero processo di funzionamento. I connessionisti
hanno costruito intelligenze artificiali basate su reti di unità come quelle del cervello umano,
caratterizzato da un’architettura parallela, capace dunque di sfruttare le connessioni tra le
numerose unità e di riuscire a fare contemporaneamente più operazioni. Poiché, secondo
quest’approccio, i fenomeni mentali corrispondono ai fenomeni fisici del cervello, è legittimo
affermare che la teoria delle reti neurali ripropone la concezione filosofica del riduzionismo
materialista.

Apprendimento Vs Intelligenza: evoluzione e strategia


Abbiamo visto che per apprendimento si intende quel processo psichico che consente una
modificazione durevole del comportamento per effetto dell’esperienza. Pertanto, sarebbe opportuno
riflettere sulle strategie da mettere in atto perché l’apprendimento dello studente sia significativo. La
strategia è sempre un modo particolare di facilitare l’incontro tra la struttura psichica dell’allievo e la
struttura logica di un dato contenuto. Apprendimento e sviluppo dell’intelligenza sono fenomeni
spesso correlati ma diversi. Una persona intelligente riesce ad adattare ciò che ha imparato
dagli studi e dall’esperienza in contesti sempre nuovi. Riesce ad associare nozioni e situazioni
simili ma non uguali e a sviluppare concetti originali.
Le definizioni dell’intelligenza sono tantissime ma quella più ampiamente accettata e diffusa è che
essa è la “capacità di comprendere il mondo in cui viviamo e di risolvere i problemi ambientali e
socio-culturali che ci vengono posti in ogni momento delle nostre vite”.

E’ importante distinguere tra intelligenza e apprendimento e non confondere alcune


manifestazioni di intelligenza con comportamenti appresi.
La strategia è dunque una forma di adattamento all’ambiente ed agli stimoli connessi.

Le teorie psicologiche dell’apprendimento possono essere suddivise in tre grandi categorie:


teorie che concepiscono l’apprendimento come un processo graduale e continuo (apprendimento
per prove ed errori, il condizionamento classico e il condizionamento operante), modello
dell’apprendimento associativo semplice o meccanico, fondato sulla relazione stimolo-risposta, che
mette capo alla formazione di abitudini. ⇒ COMPORTAMENTISMO
teorie che lo vedono come esito di un’intuizione che comporta una rottura e una ristrutturazione del
precedente assetto cognitivo (apprendimento per “insight”) – ⇒ GESTALT
 Le teorie cognitiviste dell’apprendimento tendono a vederlo come un processo graduale, anche se
mettono l’accento sui processi mentali che vi sono sottesi e sulla capacità di prevedere gli esiti delle
proprie azioni o degli eventi, piuttosto che sul semplice stabilirsi di associazioni lineari tra due stimoli
o tra risposta e stimolo. Ci troviamo difronte, all’apprendimento cognitivo o complesso, che
coinvolge la percezione, l’intelligenza e in generale i processi cognitivi propri dell’uomo ed in modo
molto limitato per alcuni mammiferi superiori ⇒ COSTRUTTIVISMO
Nell’ambito dell’intelligenza ci muoviamo nell’ultimo tipo di approccio.

Se il primo tipo di apprendimento si lascia leggere come sequenze di stimolo e risposta di minore o
maggiore complessità, il secondo riconosce alla percezione e alla conoscenza un ruolo superiore. La
comprensione in tale prospettiva non è semplicemente data dalla somma di attività frammentarie ma
dalla possibilità che il soggetto colga le relazioni essenziali ed il significato della situazione.
Solo in questo caso si può parlare di apprendimento cognitivo o complesso, dove la soluzione di un
problema non avviene per prove ed errori ma perché si coglie la struttura portante di una complessità.
Comunemente si pensa che imparare vuol dire acquisire delle conoscenze e farne uso quando serve.
Dunque l’alunno che più di altri è in grado di impadronirsi del sapere, e più abile a sfruttarlo, avrà un
rendimento totalmente diverso rispetto a chi è meno dotato in tal senso.
Con i processi di apprendimento vengono acquisiti contenuti mentali ed il soggetto ha una parte attiva
nel processo. Ci sono due tipi di apprendimento cognitivo.
Nel primo il soggetto acquisisce dei contenuti mentali e l’esperienza non va a modificare direttamente
il comportamento: un soggetto può impadronirsi di una conoscenza e farne uso a distanza di tempo.
Il secondo tipo di apprendimento cognitivo è dato dall’insight (intuito), che vedremo poi
successivamente in Origine.
Il soggetto elabora attivamente conoscenze. L’esperienza passata è importante perché fornisce i dati
su cui lavorare, mentre ciò che si è appena appreso funge da stimolo per l’elaborazione. Spesso si
tratta di una situazione di difficoltà, di un problema da risolvere che richiede inventiva. Il soggetto,
dunque, lavorando su ciò che sa produce nuove conoscenze.

Esiste, quindi, una varietà di forme di apprendimento: da quelle più elementari a quelle più
complesse. Non si è ancora in grado di costruire una teoria unitaria sull’apprendimento degli esseri
viventi, tuttavia alcuni criteri possono aiutare ad avere una visione più chiara di come le diverse forme
di apprendimento intervengono nella realtà.
L’apprendimento di molti comportamenti e contenuti è misto, il fatto che in un dato caso entri in
funzione questa o quella forma di intelligenza dipende dalla disponibilità del soggetto a richiamare
di volta in volta forme diverse di intelligenza (vedremo poi il concetto di intelligenza multipla), dalla
necessità di rispondere a qualche esigenza e dalle risorse che egli possiede per soddisfare la richiesta.
Le abilità che ci fanno erroneamente pensare che un uomo sia intelligente sono verificabili in modo
tangibile perché riguardano il mondo tangibile. La vera intelligenza non può essere verificata in
modo concreto. Così come i sentimenti che non si vedono, l’intelligenza è visibile attraverso l’azione,
in tutti i campi della vita.

Apprendimento significativo (Ausubel) e meta-cognizione (Flavell)


Due concetti sono legati in ambito della didattica e della sua capacità riflessiva.

Il modello proposto da Ausubel di apprendimento significativo, il cui schema concettuale ha il


merito di porre nel giusto rilievo due aspetti molto importanti, dell’apprendimento reale o legato al
compito di realtà, ed il secondo quello di meta-cognizione didattica, che in parte abbiamo già visto
nel modulo 1 di Origine.
Il termine metacognizione fu coniato da Flavell con il significato di “oltre la cognizione” e indica,
la capacità di riflettere sulle proprie capacità cognitive. Il termine “metacognizione” risale quindi
agli anni Settanta del Novecento in seguito agli studi condotti nel 1971 dallo psicologo dell’età
evolutiva statunitense John H. Flavell sulla conoscenza riguardo alla memoria e alle attività di
memorizzazione che egli chiamò «metamemoria».
Per Flavell come visto in Origine “la metacognizione riguarda, tra l’altro, il controllo attivo e la
conseguente regolazione e orchestrazione di questi processi [cognitivi] in relazione agli oggetti
cognitivi o ai dati ai quali si riferiscono, generalmente al servizio di qualche scopo od obiettivo
concreto”.
A questo riguardo, secondo Pellerey un apprendimento significativo comporta sempre una
trasformazione attiva e dinamica della struttura conoscitiva. Gli studi sulla metacognizione
consentono di conoscere più a fondo sia lo sviluppo del pensiero, sia i fattori che possono influenzare
il successo scolastico. Formare alunni cognitivamente maturi è una sfida cui la scuola deve rispondere
fin dalla scuola dell’infanzia. La didattica consueta può essere rivista per aiutare gli alunni a
sviluppare conoscenze e processi metacognitivi.
Almeno una parte di essa, infatti, deve subire una riorganizzazione che consenta al nuovo concetto di
inserirsi in maniera ben collegata e connessa con il restante della conoscenza. Perché ciò accada
occorre una destabilizzazione della struttura cognitiva, cioè dell’organizzazione delle strutture di
pensiero dell’alunno.
Più che concentrarsi sui contenuti, le nozioni e le conoscenze trasmesse (la scuola nozionistica),
l’approccio metacognitivo si concentra sulle modalità di apprendimento e sulla rielaborazione dei
contenuti stessi, e sulla capacità di interiorizzare questi stessi contenuti. In altre parole, un approccio
metacognitivo consente allo studente di acquisire coscienza dei processi che presiedono
all’apprendimento.

Queste strutture possono considerarsi dotate di una certa stabilità, garantita sia dalla
coerenza e dall’equilibrio della loro stessa organizzazione interna, sia dalla loro
funzionalità e validità esterna nell’interpretare ed affrontare in modo soddisfacente i dati e le
situazioni riscontrate.
Tale stabilità viene meno quando una qualsiasi esperienza ponga in crisi la sua attuale organizzazione
delle strutture cognitive evidenziandone la scarsa efficacia nel risolvere adeguatamente un particolare
problema. L’inserimento di questo elemento perturbatore produce uno stato di dissonanza cognitiva.

Con il termine “metacognizione” ci si riferisce a tutte le operazioni cognitive sovraordinate a quelle


di base, con la funzione di coordinarle, di guidarle e di promuovere la riflessione in relazione
all’elaborazione dell’informazione eseguita, abbiamo già visto il modello proposto.
Tutti i giorni dobbiamo affrontare situazioni problematiche che richiedono una soluzione ed
elaboriamo un nostro piano di azione, lo applichiamo, lo verifichiamo ed eventualmente lo
modifichiamo in funzione dello scopo. Per poter agire in questo modo dobbiamo, però, essere in
grado di utilizzare le nostre abilità mentali superiori (memoria, attenzione, concentrazione),
adattandole al compito.

Ausubel invece parla di significato logico e significato psicologico: quest’ultimo indica il significato
che un materiale ha per un individuo; il significato logico è invece quello che il materiale
stesso presenta se soddisfa le condizioni generali di significatività (citiamo direttamente i testi
dell’autore, p. 101), cioè se per una comunità culturale, non per un solo individuo, è collegato a certe
idee rilevanti (generalizzazioni, esempi, concetti congruenti col materiale in oggetto).
Per Ausubel c’è apprendimento significativo per un soggetto quando il significato logico diventa
psicologico, cioè viene interiorizzato.

Per agevolare l’appropriazione significativa di un contenuto da parte dello studente, l’insegnante deve
ricorrere a degli “organizzatori”, vedremo pertanto poi il concetto di organizzatori didattici e meta-
cognitivi di Ausubel. Materiali che strutturano idee rilevanti e significative, le quali fungono da base
di riferimento a cui agganciare il nuovo contenuto. Gli organizzatori possono avere “funzione
espositiva”, quando dotano lo studente di una base concettuale più generale a lui nota, o “di
confronto”, quando suggeriscono idee familiari con cui le nuove possano essere comparate e integrate
o differenziate (Ausubel, 1978, p. 224).
Dalla meta-cognizione alla didattica metacognitiva il passo è breve, ma in pratica ogni attività
metacognitivi e di apprendimento significativo è in se stessa un riflettere sull’apprendimento stesso,
quindi, è una forma di revisione metacognitiva.

Essa, in ambito scolastico, si pone come obiettivo quello di far sì che l’alunno, attraverso processi di
autoregolazione del pensiero e dell’attività, risolva dei problemi imparando ad interpretare,
organizzare e strutturare le informazioni e a riflettere sui processi per acquisire un livello di
autonomia cognitiva migliore. In un certo senso la meta-cognizione si configura come un processo
di revisione metacognitiva.
Un processo dove o l’alunno ma anche lo stesso docente riflette sul suo modo di operare, apprendere,
etc. Ad esempio nel caso di un docente la revisione metacognitiva permette di riflettere sul modo e
sul metodo con cui si è fatta didattica.

La didattica metacognitiva è, quindi, trasversale alle discipline, in quanto pone l’attenzione


sull’acquisizione di un atteggiamento strategico che sia funzionale al miglioramento del processo
di apprendimento, indipendentemente dal contenuto affrontato.
*Ausubel gli organizzatori anticipati/avanzati e l’apprendimento significativo
David Paul Ausubel è stato uno psicologo cognitivista. Vedremo nei prossimi moduli di Origine, cosa
significa essere uno psicologo cognitivista edi principali esponenti di cui ricordiamo, il più importante
ricordiamo è stato Jean Piaget. Ausubel è noto per aver sviluppato la strategia cognitiva degli advance
organizers tradotti come organizzatori anticipati a volte tradotti anche con avanzati e per il concetto
di apprendimento significativo. Ausbel pone la sua riflessione sull’apprendimento di tipo cognitivo,
cioè sull’acquisizione e sull’utilizzo della conoscenza.
Per Ausubel l’apprendimento significativo è il processo attraverso il quale le nuove informazioni
entrano in relazione con i concetti preesistenti nella struttura cognitiva della persona. Questo
approccio presuppone un ruolo attivo, una scelta consapevole da parte di chi apprende. Si Ausbel sia
Novak (⇒ vedi NOVAK), che a essa si ispira, traggono spunto dalle conoscenze che pian piano
emergono, in seno alla comunità scientifica, sui meccanismi biologici della memoria e
dell’immagazzinamento delle conoscenze (⇒ vedi anche le mappe concettuali di Novak). Le
informazioni provenienti dall’esterno siano immagazzinate in alcune regioni del cervello e che tale
processo coinvolga decine di migliaia di cellule cerebrali che subirebbero modificazioni in base alle
nuove conoscenze apprese. Le cellule neurali attive in fase di immagazzinamento nel corso
dell’apprendimento significativo sarebbero sottoposte a ulteriori modificazioni formando delle
sinapsi o altri tipi di associazioni funzionali coi nuovi neuroni. Con lo sviluppo del processo di
apprendimento, la natura e l’estensione delle associazioni neurali andrebbero così a svilupparsi.
Ausubel, nel riferirsi alla pratica didattica, riteneva fosse più utile prima di somministrare un’unità
didattica complessa, fornire un insegnamento più generale e astratto, affinché questo contenuto
servisse da organizzatore anticipato aiutando l’alunno a mettere in relazione le nuove conoscenze
con quelle già in suo possesso. Gli organizzatori anticipati sono dunque in primo luogo una strategia
didattica che si basa sul principio che il fattore più determinante nei processi di apprendimento è
rappresentato dalle pre‐conoscenze. Logica conseguenza di questa impostazione è che la
progettazione dei curricula formativi debba basarsi sull’analisi delle conoscenze di ingresso (in
adesione a tali principi, le mappe concettuali potrebbero essere utilmente impiegate a questo scopo).
Gli organizzatori anticipati si collocano all’interno della teoria dell’apprendimento significativo,
secondo cui quando gli studenti si trovano a dover affrontare materiale nuovo o su cui hanno poche
conoscenze pregresse, possono migliorare il loro apprendimento se adottano un metodo strutturato e
chiaro con cui organizzare informazioni. In quest’ottica dunque gli organizzatori anticipati svolgono
un ruolo di scaffolding, ovvero mediano nel processo di costruzione di nuove conoscenze.
Si tratta perlopiù di strumenti che consentono una rappresentazione visiva della conoscenza, ossia un
modo di strutturare l’informazione o di organizzare gli aspetti importanti di un concetto o di un
argomento in uno schema o in una mappa che viene consegnata allo studente prima dello svolgimento
della lezione, consentendogli di avere, in via preliminare, una forma di organizzazione dei contenuti
che verranno spiegati.

Ausubel introduce anche l’idea dei concetti assimilatori, concetti che forniscono una base per il
collegamento tra le nuove informazioni e le conoscenze preesistenti. Col passare del tempo, tuttavia,
la maggior parte delle informazioni apprese sarebbe dimenticata. Secondo la teoria di Ausubel, la
quantità di informazioni ricordata dipenderebbe principalmente dal grado di significatività.
L’apprendimento significativo ha i seguenti vantaggi:

1. le conoscenze acquisite sono ricordate più a lungo;


2. l’assimilazione delle informazioni aumenta la differenziazione degli assimilatori, rendendo
più facile il successivo apprendimento di argomenti simili;
3. l’informazione che non viene ricordata dopo l’assimilazione lascia comunque effetti
residuali sul concetto assimilatore e di fatto sulla struttura concettuale;
4. l’informazione appresa può essere applicata a un’ampia varietà di nuovi problemi o contesti.
Durante la nostra vita scolastica, o semplicemente osservando con attenzione quello che ci succede,
realizziamo presto che non tutto quello che apprendiamo è uguale. Le differenze sembrano ovvie
quando paragoniamo l’apprendimento profondo, derivato da un argomento di nostro interesse, con
l’apprendimento mnemonico di un concetto noioso a cui non diamo significato. Per questo motivo,
David Ausubel ha studiato le differenze tra questi due approcci e sviluppato la sua teoria
dell’apprendimento significativo.
Molti psicologi dell’educazione hanno concentrato i loro sforzi nel cercare di sviluppare modelli che
descrivono il modo in cui acquisiamo conoscenza. Quello sull’apprendimento significativo è uno
dei modelli che meglio spiega in che modo si produce un apprendimento profondo non letterale.
E questo viene definito come un apprendimento costruito e legato alla conoscenza previa, in cui il
soggetto svolge un ruolo attivo, ristrutturando e riorganizzando le informazioni.
In questa teoria possiamo intravedere grandi influenze costruttiviste. Per David Ausubel, la vera
conoscenza è costruita dal soggetto attraverso le sue interpretazioni. Tutte le nozioni apprese a
memoria, dunque, sarebbero solo il risultato di ripetizioni con poco o nessun significato. In questa
forma di conoscenza l’interpretazione del soggetto non entra in gioco e difficilmente ha un’influenza
significativa sulla vita della persona. Per conoscere la natura dell’apprendimento significativo, è
necessario capire che la teoria di Ausubel è una teoria destinata all’applicazione diretta. In nessun
caso, un apprendimento letterale o superficiale può modificare le rappresentazioni del soggetto, e
questo ci fa mettere in discussione che si tratti di un reale apprendimento. Proprio da ciò nasce la
necessità di capire cos’è l’apprendimento significativo.
David Ausubel ha proposto i seguenti principi che l’insegnamento dovrebbe seguire per
raggiungere un apprendimento significativo da parte degli studenti:
 Tenere in considerazione le conoscenze precedenti. L’apprendimento significativo è
relazionale, la sua vastità dipende dalla connessione tra nuovi contenuti e conoscenze
precedenti.
 Fornire attività che possano suscitare l’interesse dello studente. A un più alto interesse lo
studente sarà più disposto a integrare le nuove conoscenze nel suo quadro concettuale.
Abbiamo visto come i concetti assimilatori siano soggetti a un continuo processo evolutivo, chiamato
da Ausubel “differenziazione progressiva”, questi hanno una forte attinenza con i problemi della
progettazione didattica, come anche quello della “conciliazione integrativa”. Secondo questa
concezione, lo sviluppo dei concetti procede meglio quando sono insegnati prima i concetti più
generali, i quali possono essere in seguito differenziati in termini di dettagli e specificità.

⇒ Approfondimento metacognizione
Metacognizione e revisione meta-cognitiva
Dalla meta-cognizione alla didattica metacognitiva il passo è breve.

Essa, in ambito scolastico, si pone come obiettivo quello di far sì che l’alunno, attraverso processi di
autoregolazione del pensiero e dell’attività, risolva dei problemi imparando ad interpretare,
organizzare e strutturare le informazioni e a riflettere sui processi per acquisire un livello di
autonomia cognitiva migliore. In un certo senso la meta-cognizione si configura come un processo
di revisione metacognitiva.
Un processo dove o l’alunno ma anche lo stesso docente riflette sul suo modo di operare, apprendere,
etc. Ad esempio nel caso di un docente la revisione metacognitiva permette di riflettere sul modo e
sul metodo con cui si è fatta didattica.

La didattica metacognitiva prevede sei momenti:

1. la presentazione del problema;


2. la valutazione delle preconoscenze dell’allievo rispetto a quella classe di problemi;
3. la capacità di codificare il problema;
4. la formulazione e riformulazione del planning (piano d’azione);
5. il transfer a problemi analoghi;
6. il consolidamento e la generalizzazione.
Le caratteristiche metodologiche della didattica metacognitiva portano l’alunno ad assumere un
“atteggiamento” che segue un percorso di questo genere: conoscenza e uso di strategie,
miglioramento della prestazione, sviluppo di abilità di controllo (“Cosa sto producendo?”), sviluppo
del livello di autoefficacia, di autostima e di motivazione.
La conoscenza di strategie, la pianificazione, le abilità di controllo e l’autostima producono una
maggior conoscenza sui propri processi mnemonici e di attenzione. Inoltre, l’uso adeguato delle
strategie, portando al raggiungimento degli obiettivi di un compito, ha ridondanze sul livello di
autoefficacia e di autostima. L’elaborazione di piani di azione e il loro relativo monitoraggio
pongono l’allievo nella condizione di essere il controllore del proprio apprendimento con indubbio
giovamento a livello di motivazione.
La valutazione, conseguente alla realizzazione del piano, sarà accettata con minor senso di
frustrazione in quanto l’individuo capirà che, una volta individuato l’errore, il piano applicativo potrà
essere modificato. Successivamente, egli comprenderà che, se effettua un controllo del piano non solo
al termine dello stesso, ma in fase progettuale (cosa potrebbe succedere?) e di attuazione (mentre lo
svolge), le possibilità di errore possono diminuire.
Il docente metacognitivo deve essere in grado di stimolare la curiosità dell’alunno, la sua
motivazione, fornendo un organizzatore anticipato, cioè motivando la proposta
didattica e specificando le sue caratteristiche e le modalità di valutazione; deve saper guidare con
esempi di strategie, aiuti, domande rispetto a come sta procedendo l’attività; deve stimolare l’avvio
all’autonomia chiedendogli di pensare “nella sua mente” il percorso necessario; deve richiedere
all’alunno l’elaborazione di una strategia personale, sulla base di quelle già apprese (successiva fase
di avvio al consolidamento), per indurlo a elaborare piani nuovi per problemi nuovi.
La spiegazione del risultato ottenuto e la correzione degli errori vanno fatte rientrare all’interno di un
costante feedback ragionato e costruttivo: si deve stimolare l’alunno a riflettere sul processo attuato
per individuare eventuali cause di errori e per aiutarlo a comprendere i problemi e progettare
nuovamente il suo planning di azione, la pianificazione delle operazioni.
Il soggetto con disturbo o difficoltà di apprendimento deve rendersi conto che, per risolvere un
problema, per eseguire un’operazione matematica, per leggere correttamente, per comprendere ed
elaborare un testo, è essenziale ideare un piano.
Compito primario del docente diventa, quindi, quello di aiutare lo studente a far uso di
strategie e abilità di autoregolazione.
GLI STILIDI APPRENDIMENTO NELLA PROSPETTIVA MARINO POZZI

Stili di apprendimento cognitivo


Diversi sono sugli stili di apprendimento da cui dipendono l’apprendimento individuale, individui
diversi hanno stili di apprendimento cognitivo diversi. Inoltre, gli stili di apprendimento sono
condizionati da diversi fattori (ad esempio l’età, l’ambiente socioculturale di provenienza, la
motivazione, gli stili cognitivi propri individuali, le modalità sensoriali, le intelligenze).

PER VEDERE I DIVERSI STILI VEDI QUI


Gli stili si fondono su:
1. preferenze ambientali (come i “luoghi” e i “tempi” dell’apprendimento, la luce, la
temperatura, i suoni, i consumi alimentari…)
2. modalità sensoriali (spesso sintetizzate in visiva, uditiva, cinestetica)
3. gli stili cognitivi (come le opposizioni analitico / globale, sistematico / intuitivo, riflessivo /
impulsivo)
4. nei tratti di personalità socio-affettivi (come l’introversione e l’estroversione).
Accogliere e rispondere a queste differenze per farle diventare una fonte di ricchezza reciproca, sia
per gli alunni italiani che per quelli stranieri, presuppone un cambiamento di prospettiva che, come
abbiamo visto, coinvolge l’insegnante in prima persona.

Gli stili di apprendimento: negatore, pedina, strategico

STILI DI APPRENDIMENTO (⇒ concetto su cui si ritornerà nel corso di Origine)


• Chi crede di riuscire o di non riuscire per effetto dell’impegno personale, dell’interesse, della
motivazione (attribuzioni interne, controllabili) :
• Chi pensa di riuscire o di non riuscire a causa dell’abilità innata (attribuzione interna non
controllabile) o di fattori esterni (difficoltà/facilità del compito, fortuna/sfortuna, aiuto/non aiuto)
– presenta un atteggiamento strategico che lo porta ad avere delle buone abitudini di studio,
– tende a prodigare ogni sforzo per riuscire,
– ha un buon senso della realtà e più fiducia in se stesso.
-è meno portato ad utilizzare strategie o ad individuare corrette abitudini di studio
– è meno convinto di poter controllare gli eventi, ritiene inutile anche impegnarsi.

Si individuano 5 stili diversi:

1. Stile abile
2. Stile depresso
3. Stile strategico
4. Stile pedina
In modo particolare, quando parliamo di stile di apprendimento ci vogliamo riferire ad almeno a
quattro ambiti:
1. la percezione: come lo studente percepisce la realtà;
2. la concettualizzazione: come lo studente forma le proprie idee, pensa e
rielabora la realtà;
3. l’emozione: come lo studente risponde emozionalmente e si valuta
rispetto al sapere;
4. il comportamento: come lo studente reagisce rispetto al compito dato.

Le persone hanno diversi modi di percepire la realtà, pensare, sentire e comportarsi. Le ricerche in
campo psicologico hanno individuato numerose differenze di stili. È necessario tenere in
considerazione queste differenze quando si progettano percorsi didattici perché influenzano sia lo
stile di apprendimento degli studenti, sia lo stile di insegnamento dei docenti.

La percezione: alcuni individui vedono delle parti di un intero.

Le preferenze fisiche e ambientali

Questo vale per gli alunni italiani, ma ancora di più per quei soggetti che provengono da una realtà
culturale, educativa e linguistica diversa.
Non è solo l’apprendimento dell’italiano come lingua della comunicazione e dello studio, infatti, che
può determinare o meno il successo scolastico di questi soggetti. La valorizzazione della persona
nella sua interezza, il riconoscimento delle competenze cognitive ed esperienziali pregresse, che
stanno alla base di qualsiasi apprendimento, è di fondamentale importanza in questo caso per lo
sviluppo di un senso di appartenenza alla comunità, scolastica in primis, che sostenga l’autostima, la
motivazione e il successo scolastico.

L’insegnante, per promuovere in ciascun allievo un apprendimento efficace deve proporre attività
che tengano conto delle differenze individuali. Una modificazione del ruolo comporta infatti
innanzitutto una diversa organizzazione delle attività in classe, che vedano l’alunno realmente co-
protagonista del proprio apprendimento e che gli permettano di sviluppare in modo adeguato le
proprie potenzialità.
sono descrittivi, non prescrittivi – limitati solo dalla loro compatibilità con la persona e con il
compito;
sono socialmente e “istituzionalmente” connotati;
descrivono tendenze, non valori assoluti;
sono una persona globale in evoluzione continua;
non incasellano gli individui come “tipi” astratti ma ne descrivono la complessità e l’unicità’;
sono culturalmente connotati;
sono dinamici e promuovono adattamento, flessibilità, negoziazione…;
l’intervento sugli “stili” e’ inscindibile da quello sulle “strategie di apprendimento”;
lo studente gestisce il proprio profilo dinamico personale – l’insegnante facilita e media.

Canali sensoriali tramite cui passa l’apprendimento.


Gli individui apprendono in maniera diversa uno dall’altro secondo le modalità e le strategie con cui
ciascuno elabora le informazioni, a partire dai canali sensoriali che ci permettono di percepire gli
stimoli che provengono dall’esterno.
Su questa base, si distinguono distinguere quattro principali gruppi:

Il primo gruppo è rappresentato dal canale Visivo verbale, ovvero il canale finora
maggiormente utilizzato nel contesto scolastico: quello che passa di preferenza per la letto-scrittura.
Praticamente, s’impara leggendo.
Il secondo gruppo è rappresentato dal canale Visivo iconografico, ovvero la preferenza per
immagini, disegni, fotografie, simboli, mappe concettuali, grafici e diagrammi. Praticamente, tutto
ciò che riguarda il visual learning.
Il terzo gruppo è rappresentato dal canale Uditivo, ovvero la preferenza per l’ascolto.
Praticamente, s’impara maggiormente assistendo ad una lezione, partecipando a
discussioni e attraverso il lavoro con un compagno o a gruppi.

Il quarto gruppo è rappresentato dal canale Cinestetico, ovvero la preferenza per attività di
movimento.

Gli stili di apprendimento: negatore, pedina, strategico


STILI DI APPRENDIMENTO (⇒ concetto su cui si ritornerà nel corso di Origine)
La conoscenza dei principali stili cognitivi e la riflessione sulle caratteristiche proprie personali, del
proprio metodo di insegnamento e degli allievi, costituisce un importante elemento nel bagaglio di
un buon insegnante.

Lo stile di apprendimento è un comportamento cognitivo, affettivo e fisiologico di come viene


appreso l’ambiente intorno a sé e vengono acquisite nuove informazioni. Esistono svariati stili che
vengono classificati in diversi modi e la persona stessa può usare diversi stili a seconda della
situazione. Ci sono diversi modi per classificarli. Vediamo uno dei più conosciuti ed usato all’ultimo
ciclo del TFA V Ciclo.
Solo considerando le differenze individuali il metodo di insegnamento potrà tener conto delle
modalità con cui l’alunno apprende, valorizzare le sue inclinazioni e adattarle a contesti e situazioni
nei quali quelle inclinazioni potrebbero causare difficoltà.

Dimmi che stile cognitivo di apprendimento hai e ti dirò come studi!

⇒ Chi crede di riuscire o di non riuscire per effetto dell’impegno personale, dell’interesse, della
motivazione (attribuzioni interne, controllabili)

⇒ Chi pensa di riuscire o di non riuscire a causa dell’abilità innata (attribuzione interna non
controllabile) o di fattori esterni (difficoltà/facilità del compito, fortuna/sfortuna, aiuto/non aiuto):

1. presenta un atteggiamento strategico che lo porta ad avere delle buone abitudini di studio,
2. tende a prodigare ogni sforzo per riuscire,
3. ha un buon senso della realtà e più fiducia in se stesso.
4. è meno portato ad utilizzare strategie o ad individuare corrette abitudini di studio
5. è meno convinto di poter controllare gli eventi, ritiene inutile anche impegnarsi.
Si individuano 5 stili diversi:

1. Stile abile
2. Stile depresso
3. Stile strategico
4. Stile pedina
1. Stile “abile”:
• Credenza: le cose riescono bene perché si è bravi; se non riescono non si è bravi ed è inutile provare.
• Attribuzione causale: il successo è dovuto all’abilità (superbia), l’insuccesso alla mancanza di abilità
(vergogna).
• Aspettative di riuscita: in caso di successo viene anticipato un ulteriore successo; in caso di
fallimento un ulteriore fallimento.
• Motivazione: evitare il fallimento.

È uno stile disfunzionale all’apprendimento:


– in caso di insuccesso può sviluppare senso di impotenza;
– non persiste di fronte alle difficoltà;
– non vengono affrontate le situazioni difficili e i compiti in cui
non si è bravi;
– mancanza di impegno e ricerca di strategie.

2. Stile depresso:
• Credenza: mancanza stabile d abilità.
• Attribuzione causale: successo = cause esterne insuccesso = mancanza di abilità
• Aspettative di riuscita basse.
• Motivazione: evitare il fallimento.
• Persistenza nel compito bassa: comportamento rinunciatario di chi tende ad evitare compiti e
situazioni valutative o compiti difficili in cui potrebbe emergere la propria incapacità.
È uno stile disfunzionale all’apprendimento
Per modificarlo può essere necessario agire anche sulle
aspettative di GENITORI e INSEGNANTI.

3. Stile negatore
• Credenza: abilità come dote innata (chi ce l’ha successo chi non ce l’ha fallisce).
• Attribuzione causale: successo = causa interna insuccesso = causa esterna
• Motivazione: evitare il fallimento.

Stile disfunzionale all’apprendimento:


• poca importanza all’impegno;
• di fronte agli insuccessi non cerca strategie più adatte.

4. Stile pedina
Attribuzione causale fatalista: sia il successo che l’insuccesso sono dovuti a cause esterne.
• Motivazione: evitare il fallimento.

E’ uno stile disfunzionale all’apprendimento :


• poca importanza all’impegno;
• coinvolgimento insufficiente, poco interesse;
• mancanza di motivazione.

5. Stile strategico
Caratterizzato da un forte impegno che viene messo in atto dal singolo studente (FORZA DI
VOLONTA’ MOTIVAZIONE) = sforzo intenzionale di individuazione e applicazione delle
strategie più adeguate per portare a termine il compito con successo.
• Attribuzione causale: il successo è dovuto all’impegno, l’insuccesso alla mancanza di impegno o
di utilizzo di strategie adeguate;
• Aspettative di riuscita nel compito sono influenzate dal grado di impegno che si è disposti a
mettere in atto in relazione alle difficoltà del compito;
• Lavora per migliorare le proprie competenze più che per dimostrare le proprie abilità;
• Persiste di fronte alle difficoltà;
• Motivazione al successo.
È uno stile particolarmente motivante e funzionale all’apprendimento:

• coinvolgimento personale;
• il successo è la conferma dell’efficacia delle strategie scelte e applicate (soddisfazione);
• il fallimento segnala la necessità di modificare le proprie strategie;
• fiducia nelle proprie possibilità
• percezione di controllo.

Un altra proposta interessante è quella dei 4 stili di apprendimento secondo Kolb sono invece:

Il modello teorico dello studioso Kolb (1974), che per primo introdusse il concetto
di apprendimento esperienziale, definisce quattro stili di apprendimento:
 Convergente: interessato alla sperimentazione attiva, pragmatico e abile nel problem
solving e nel prendere decisioni, predilige un’unica soluzione a un problema).
 Divergente: in grado di trovare soluzioni alternative per uno stesso problema, ha una
spiccata creatività e immaginazione.
 Assimilatore: utilizza il ragionamento induttivo e sviluppa modelli teorici logici.
 Accomodatore: attivo e flessibile, si trova a suo agio nelle situazioni in cui deve adattarsi ai
cambiamenti esterni, tende a risolvere i problemi in maniera intuitiva piuttosto che analitica.
Può essere utile ricordare anche la diversificazione degli stili cognitivi di apprendimento che
prendono diversi nomi, ecco una sintesi è una variabile dicotomica, a sinistra e destra due stili
diversi ed opposti di apprendere:
 Stile campo dipendente – Stile campo indipendente
 Stile cinestesico – Stile sistematico
 Stile competitivo – Stile collaborativo
 Stile dipendente – Stile indipendente
 Stile divergente – Stile convergente
 Stile globale – Stile impulsivo
 Stile induttivo – Stile deduttivo (top-down)
 Stile partecipativo – Stile evitante
 Stile riflessivo – Stile compulsivo
 Stile sistemico o intuitivo – Stile analitico
 Stile visivo – Stile verbale
Intelligenza e linguaggio (Jakobson, Chomsky, Bernstein)
Linguaggio Verbale e Non Verbale – Linguaggio verbale: è la parola detta,
“parlata”.
Linguaggio non verbale: sono tutti quegli aspetti che caratterizzano il come si parla (il tono della
voce, lo sguardo, la postura, i gesti, le espressioni del viso, la vicinanza). – Il significato del
messaggio viene trasmesso utilizzando contemporaneamente entrambi i canali: quanto più
linguaggio verbale e non verbale sono coerenti fra loro, tanto più il messaggio è chiaro (per esempio
se uno parla con un tono molto forte e aggressivo e mi dice di stare tranquillo, io non capisco bene
cosa intende dire).
Il linguaggio verbale è più controllabile consapevolmente, quello non verbale è più
spontaneo, più legato agli aspetti emotivi: è il linguaggio di relazione.
Jakobson individua sei funzioni del linguaggio, corrispondenti ciascuna a uno dei sopracitati elementi
presenti nella comunicazione:

1. Funzione emotiva, evidente quando si fa attenzione al mittente dell’atto di comunicazione;


2. Funzione fatica, legata al canale attraverso il quale passa il messaggio;
3. Funzione conativa, legata al destinatario che partecipa alla comunicazione con una sua
reazione;
4. Funzione poetica, legata al messaggio stesso e maggiormente evidente nel linguaggio
estetico;
5. Funzione metalinguistica, legata al codice condiviso tra mittente e destinatario perché si
produca significazione;
6. Funzione referenziale, legata al contesto in cui si svolge la comunicazione.
Queste sei funzioni relative a questi sei componenti della comunicazione sono sempre presenti,
almeno in potenza, tuttavia con maggiore o minore importanza secondo il tipo di comunicazione in
atto. L’attribuire ogni funzione ad un fattore è in realtà un fraintendimento del modello di Jakobson;
ogni funzione infatti caratterizza il messaggio, non il fattore.

Altro studioso del linguaggio è Noam Chomsky, la teoria della grammatica generativa, di cui alcuni
elementi essenziali sono già presenti nell’opera Syntactic Structures del 1957, si caratterizza per la
ricerca delle strutture innate del linguaggio naturale, elemento distintivo dell’uomo come specie
animale, superando la concezione della linguistica tradizionale incentrata sullo studio delle peculiarità
dei linguaggi parlati.
L’influenza del pensiero di Chomsky va ben al di là della stessa linguistica, fornendo interessanti e
fecondi spunti di riflessione anche nell’ambito della filosofia, della psicologia, delle teorie
evoluzionistiche, della neurologia e della matematica, come nel caso della “gerarchia di Chomsky”.
La posizione di Chomsky nel campo della linguistica è tuttora quella di un innovatore radicale, che
ha fatto scuola in tutto il mondo, ma il suo pensiero non si è limitato alla sola linguistica.
Chomsky ha affermato di essere riuscito, grazie a un minuzioso lavoro di studio e interpretazione di
un’immensa mole di ogni tipo di documenti, a smascherare numerosi casi di utilizzo fraudolento delle
informazioni, nonché a evidenziare la piattezza conformistica dei media.
Infine un terzo autore è il sociolinguista Basil Bernstein.
Questi studia la relazione tra linguaggio e mutamento sociale

L’ambiente socio-culturale del parlante influenza lo sviluppo del linguaggio e il formarsi e lo


strutturarsi della personalità dell’individuo (come per gli aspetti cognitivi aveva già dimostrato
Vigosktky). Ricordiamo il testo capitale del grande Lev Semënovič Vygotskij il maggiore studio della
psicologia delle sviluppo di tipo socio-culturale del Novecento.

Per il sociolinguista Basil Bernstein potremmo dire: “dimmi a quale classe sociale appartieni e ti
dirò come parli?”. In pratica linguaggio e classe sociale sono strettamente correlati.
Come per V.

 l’abilità linguistica, pur dipendendo direttamente dall’intelligenza, è condizionata in


maniera determinante, quanto al suo sviluppo e al suo consolidarsi, dai fattori ambientali e
dagli stili familiari comunicativi.
 vi sono due tipi di linguaggio – il linguaggio pubblico (o codice ristretto), proprio degli
individui appartenenti alle classi socialmente più basse e un linguaggio formale (o codice
elaborato), proprio degli individui appartenenti alle classi medie.
Una delle sue teorie più famose è quella della cosiddetta “deprivazione verbale” secondo cui
le classi sociali influenzano la distribuzione sociale della conoscenza.
Secondo Bernstein solo una parte della popolazione arriva “fino al livello dei metalinguaggi
di controllo e innovazione, mentre la gran massa della popolazione è stata socializzata nella
conoscenza solo al livello delle operazioni legate al contesto”.
Le classi poco alfabetizzate o popolare parlano e pensano in modo basic e semplice, e non superano
il pensiero concreto.

Basil Bernstein ci parla di due modelli di linguaggio differenti: universalistico e particolaristico.


Nel primo, le operazioni mentali vengono rese esplicite e nel secondo esse rimangono implicite.
Attraverso una serie di interviste ad un campione di studenti, arrivò alla conclusione che “il successo
scolastico dipende in larga misura dalla capacità verbale, a sua volta correlata positivamente con
lo status sociale medio alto”.

Howard Gardner e il modello delle intelligenze multiple


Howard Gardner (1943) è uno studioso dei processi cognitivi della mente, e propone nel
volume Formae Mentis la teoria delle intelligenze multiple. L’intelligenza è la capacità di
comprendere il mondo in cui viviamo e di risolvere i problemi ambientali, sociali e culturali che ci
vengono posti in ogni momento della nostra esistenza. Fino alla prima metà del ‘900, si pensava
abitualmente, anche negli ambiti accademici, che l’intelligenza fosse identificabile con una capacità
monolitica, comune e misurabile in tutti gli individui, anche attraverso standard e test di valore
scientifico.

Ricordiamo anche le principali opere di Gardner, tradotte in italiano, sono:


 Formae mentis (1983)
 Saggio sulla pluralità dell’intelligenza (1983)
 Intelligenze multiple (1994)
 L’educazione delle intelligenze multiple (1994)
Punto di partenza del pensiero di Gardner è la considerazione che l’intelligenza non è misurabile
semplicemente e banalmente attraverso il quoziente intellettivo (QI) perché l’intelligenza non è unica,
non è singole, ma va declinata al plurale. La differenza tra i risultati che ognuno raggiunge e le relative
caratteristiche intellettive va, dunque, ricercata nelle diverse combinazioni dei vari tipi di
intelligenza.
Intelligenza al plurale significa intelligenze multiple.
Gardner, servendosi dell’apporto di diverse scienze come l’antropologia, la biologia, la psicologia,
sostiene che gli uomini possiedono più intelligenze, ognuna delle quali deputata a una specifica
attività cognitiva.

Egli ne individua, in un primo momento, sette (logico-matematica, linguistica, musicale, spaziale,


cinestesica, interpersonale e intrapersonale) alle quali, in seguito, ne aggiunge altre due: l’intelligenza
del naturalista e l’intelligenza esistenziale.
Ricordiamo allora 7 intelligenze prima ricerca:
1.logico-matematica
2. linguistica
3. musicale
4. spaziale
5. cinestesica
6. interpersonale
7. intrapersonale
Successivamente, nel 1999, ne individua altre due, che definisce di tipo personale: l’intelligenza
naturalistica e l’intelligenza esistenziale. Poi diventano 9 a queste 7 va aggiunta:

8. Intelligenza naturalista
9. Intelligenza esistenziale
Vediamole nei dettagli:

L’intelligenza logico-matematica è un’abilità coinvolta nel riscontro e nella valutazione degli


oggetti astratti o concreti e serve, dunque, ad individuare relazioni e principi tra gli oggetti.
L’intelligenza linguistica è legata all’abilità di usare il linguaggio e le parole, variando il registro
linguistico in base alle necessità del caso.
Quella musicale è un’abilità che si esprime nella composizione e nell’analisi dei brani musicali. Essa
rappresenta anche la capacità di discernere agevolmente l’altezza dei suoni, i ritmi ed i timbri.
L’intelligenza spaziale consiste nella capacità di cogliere e raffigurare gli oggetti visivi, alterandoli
idealmente, anche quando non sono presenti.
Quella cinestetica è implicata nel controllo e nel coordinamento dei movimenti del corpo e nella
manipolazione degli oggetti per scopi espressivi o funzionali.
L’intelligenza interpersonale riguarda l’abilità di comprendere le emozioni, le motivazioni e gli stati
d’animo degli altri. Quella intrapersonale consiste nella capacità di capire le proprie
emozioni e trasformarle in forme socialmente accettabili.
A queste aggiunge poi altre due forme di intelligenza.

8. L’intelligenza naturalistica consiste nel riconoscere e classificare gli oggetti della natura
cogliendone le relazioni tra essi. È quel tipo di intelligenza legata al riconoscimento e
alla classificazione degli elementi della natura che ci circondano: oggetti, animali e piante.
Possiedono questa abilità gli agricoltori, i botanici, gli ecologisti e in generale tutte le persone che
amano le piante e gli animali. È tipica degli studenti o di chi lavora nell’ambito della biologia e
delle scienze, a cui piace lavorare all’aria aperta, osservare la natura, e a cui interessa la salute e la
protezione dell’ambiente.
9. Intelligenze esistenziale. Recentemente Gardner pensa di aver individuato un altro tipo di
intelligenza che egli stesso ha definito per la prima volta, intelligenza “esistenziale” appartiene a
soggetti che possiedono una particolare capacità di riflettere sulle grandi questioni che riguardano
l’esistenza, come la natura dell’uomo e dell’universo, la vita e la morte. Questo tipo di abilità si
riscontra nei giovani che amano prendersi del tempo per la riflessione individuale e per inseguire i
propri pensieri, nonché per valutare i propri compiti e per lavorare sui propri punti di forza e
debolezza, ma anche nei filosofi e negli artisti, in tutte quelle persone che si chiedono dove sto
andando, chi sono, cosa voglio.
Gardner definisce l’intelligenza esistenziale come la premessa del pensiero filosofico, l’attitudine al
ragionamento astratto, e la fa risalire all’età della pietra quando l’uomo si interrogava sulla realtà,
cercando risposte su ciò che non capiva e riteneva più grande di sé. Si manifesta nella scienza, nella
mitologia, nella religione, nell’elaborazione di sistemi filosofici e nelle varie forme d’arte.

L’intelligenza esistenziale rende il bambino incline alla riflessione sulle tematiche che solitamente
risultano oggetto dell’indagine filosofica. La curiosità è una prerogativa dell’età infantile, infatti l’età
prescolare che coincide con la scuola dell’infanzia viene spesso definita “l’età dei perché”.

Questo schema ne riporta 8, il dibattito se quella esistenziale possa considerarsi una forma di
intelligenza rimane ancora aperto, anche perché di più complessa individuazione.
Charles Spearman e l’intelligenza bifattoriale – fattori generali e fattori secondari
Uno dei primi studiosi dell’intelligenza umana è stato Charles Spearman.
Sperman con l’intento di stabilire se l’intelligenza fosse un’entità unica o un insieme di entità distinte,
elaborò nel 1904, sia una nuova metodologia statistica di analisi dei dati, la analisi fattoriale, che una
teoria gerarchica dell’intelligenza definita modello fattoriale semplice. La nuova procedura
metodologica gli consentì di studiare la matrice di correlazione tra i risultati di molteplici test
psicologici e di individuare alcune categorie generali che chiama fattori. ⇒ La sua opera principale
è: Le capacità umane, loro natura e misurazione (1927). Pertanto, Spearman propone una teoria bi-
fattoriale dell’intelligenza in quanto somma di fattori generale (g) e fattori specifici (s), questa
sua teoria prenderà il nome di teoria bifattoriale.
Primo concetto importante: vi sono dei fattori dell’intelligenza per Spearman.
Spearman ha ipotizzato l’esistenza di:

 l’intelligenza generale;
 i fattori specifici.
Secondo il nuovo modello fattoriale, le risposte fornite ad un set di test di abilità sono riconducibili
ad un fattore generale d’intelligenza, il fattore g ed a fattori secondari, i fattori s. Il fattore
dell’intelligenza generale presume delle capacità cognitive generali e quindi non specifiche; il
fattore specifico presuppone, invece, delle abilità mentali.
1. Il fattore g è una abilità che consente di risolvere problemi concreti e astratti, è alla base del
rendimento di ogni prestazione intellettiva e pertanto gerarchicamente superiore ai fattori s.
2. I fattori s sono costituiti dalle abilità linguistica, spaziale e aritmetica, hanno rilievo
nell’esecuzione di compiti individuali e rappresentano una su differenziazione del fattore g.
Il fattore g viene misurato da indici di livello come i QI (quozienti intellettivi): maggiore è il valore
di g, migliori dovrebbero essere i risultati del test. Anche se sappiamo che nessun test può misurare
in maniera perfetta g dato che che in ogni test interviene anche un’abilità specifica s. Abilità specifica
ed intelligenza generale, ecco i due fattori della teoria bifattoriale di Spearman. La mente contiene
un’unica intelligenza, compresa sia nei termini di un singolo fattore generale g, che nei termini di un
vasto insieme di abilità particolari s.
La potenzialità della analisi fattoriale risiede nel poter cogliere la posizione del soggetto rispetto al
gruppo e del gruppo rispetto ad un altro gruppo, comprendere la natura dell’attività mentale e la
struttura comportamentale. I fattori sono utili per costruire modelli che permettono di descrivere il
profilo delle abilità individuali e di fare previsioni sul successo scolastico o professionale.

Secondo Spearman il rendimento individuale di ognuno è la somma di due fattori: il contributo di


un fattore generale (g) e il contributo di un fattore specifico (s). Il fattore generale è presente in
ogni prestazione intellettiva; il secondo in ogni singola prestazione. Non è necessario entrare nello
specifico dell’argomento nell’ambito di una prova preselettiva del TFA, ma si ricorda sempre che per
misurare l’intelligenza umana si vedono le prestazioni dei soggetti.
Quanto più il grado del valore intellettivo è elevato, tanto più l’intelligenza è considerevole in un
soggetto. Spearman, mettendo in correlazione il fattore generale (g) e il fattore specifico (s), ha
dimostrato che, attraverso l’analisi fattoriale, i soggetti, quando conseguono un punteggio alto in un
test di una determinata abilità mentale tendono a raggiungere lo stesso punteggio in test di un’altra
abilità dello stesso genere.
Louis Leon Thurstone e l’intelligenza multifattoriale e la Batteria Fattoriale delle
Attitudini
Louis Leon Thurstone ha fornito un contributo significativo con le sue ricerche alla soluzione,
nell’ambito della psicologia sperimentale, dei problemi metrici nello studio della struttura
dell’intelligenza.
Thurstone ha sostenuto che è l’intelligenza generale ad influenzare il risultato che il soggetto ottiene
nei vari test. Egli ha indicato con le lettere dell’alfabeto:

 abilità numerica (fattore N);


 comprensione verbale (fattore V);
 fluidità verbale (fattore W);
 memoria meccanica o associativa (fattore M);
 ragionamento (fattore R);
 velocità percettiva (fattore P);
 visualizzazione spaziale (fattore S).
Le abilità primarie specificano, nel combinarsi tra loro, l’intero processo intellettivo di un individuo.

Thurstone, nel considerare l’inutilità del fattore dell’intelligenza generale ha introdotto la teoria
multifattoriale o centroide. Le diverse entità psicologiche sono stimate come altrettanti fattori, che,
posti sullo stesso piano, vengono visti in base all’intensità dei relativi contributi per adempiere il
risultato intellettivo, tutti in maniera diversa.

Batteria Fattoriale delle Attitudini


La Batteria Fattoriale delle Attitudini Mentali Primarie costituisce uno dei più diffusi test fondati sulla
concezione multifattoriale dell’intelligenza. L’autore del test L.L. Thurstone, verso la conclusione
delle sue ricerche sulla struttura fattoriale delle attitudini, nel 1938 pubblicò la prima “batteria” per
rilevare fattori specifici dell’intelligenza.

Thurstone, in opposizione a C. Spearman, non ammetteva il fattore generale, ma considerava la mente


umana come un insieme di attitudini specifiche che si potevano riunire in fattori di gruppo. Secondo
Thurstone le capacità intellettuali sono determinate dall’insieme di molteplici e differenti attitudini
isolate e descritte attraverso procedure di analisi di tipo fattoriale. Egli ritenne di aver identificato
alcuni fattori talmente specifici da poter essere considerati elementi base dei processi mentali. Ha
quindi riunito tali fattori nella sua batteria, chiamata appunto “Primary Mental Abilities” (PMA) –
“Batteria delle attitudini mentali primarie” (AMP).

La batteria AMP misura i cinque seguenti fattori di gruppo:


1) Significato verbale (S)
2) Prova spaziale (S)
3) Prova di ragionamento (R)
4) Prova numerica (N)
5) Fluidità verbale (W)
Si può avere quindi un punteggio relativo a 5 fattori fondamentali (significato verbale, facilità
numerica, ragionamento, velocità percettiva, relazioni spaziali) e si può anche calcolare un
punteggio generale, che costituisce un indice di intelligenza generale.
Mentali Primarie”.
Egli ha proposto la Batteria Fattoriale delle Attitudini Mentali Primarie costituisce uno dei più diffusi
test fondati sulla concezione multifattoriale dell’intelligenza. L’autore del test L.L. Thurstone, verso
la conclusione delle sue ricerche sulla struttura fattoriale delle attitudini, nel 1938 pubblicò la prima
“batteria” per rilevare fattori specifici dell’intelligenza. Thurstone, in opposizione a C. Spearman,
non ammetteva il fattore generale, ma considerava la mente umana come un insieme di attitudini
specifiche che si potevano riunire in fattori di gruppo.

Secondo Thurstone le capacità intellettuali sono determinate dall’insieme di molteplici e differenti


attitudini isolate e descritte attraverso procedure di analisi di tipo fattoriale. Egli ritenne di aver
identificato alcuni fattori talmente specifici da poter essere considerati elementi base dei processi
mentali. Ha quindi riunito tali fattori nella sua batteria, chiamata appunto “Primary Mental
Abilities” (PMA) – “Batteria delle attitudini mentali primarie” (AMP).

COSTRUTTI MISURATI
_ La batteria AMP misura i cinque seguenti fattori di gruppo:
1) Significato verbale (S)
2) Prova spaziale (S)
3) Prova di ragionamento (R)
4) Prova numerica (N)
5) Fluidità verbale (W)
Si può avere quindi un punteggio relativo a 5 fattori fondamentali (significato verbale, facilità
numerica, ragionamento, velocità percettiva, relazioni spaziali) e si può anche calcolare un
punteggio generale, che costituisce un indice di intelligenza generale.

Teoria triarchica dell’intelligenza e stili di autogoverno mentale di Stenberg (anche


detta tripartita)
Uno degli autori che si inserisce nel filo dell’autoregolazione dell’apprendimento è proprio Robert
Stenberg.

Le competenze di autoregolazione dell’apprendimento, chiamata anche Self Regulated Learning


(SRL) sono divenute centrali in un contesto educativo volto a permettere agli studenti di dirigere la
propria cognizione e i propri comportamenti verso determinati obiettivi.
La consapevolezza che un apprendimento passivo, in cui gli argomenti sono presentati in maniera
unidirezionale dall’insegnante allo studente, non sia funzionale a una società in continua
trasformazione, richiede competenze attraverso modalità di apprendimento attive e dinamiche.

Ciò appare particolarmente rilevante nell’analisi delle difficoltà e dei successi legati
all’apprendimento, in quanto permette di riflettere sugli schemi più appropriati alle richieste del
compito e sulla possibilità di utilizzare diverse modalità di elaborazione dell’informazione.

Le competenze che assume uno studente capace di autoregolazione si possono, pertanto, definire
“orientative” perché consentono di effettuare un auto-monitoraggio del proprio comportamento e dei
propri processi cognitivi, di confrontare i risultati con gli obiettivi in un approccio auto-valutativo e
di raggiungere gli stessi tramite adeguate strategie.

L’acquisizione di conoscenze può, così, essere controllata in maniera diretta dallo studente, il quale,
messo in condizione di conoscere i criteri di padronanza del compito e i risultati attesi, riesce a
dirigere i propri sforzi per il raggiungimento autonomo di obiettivi di miglioramento.

In tale prospettiva educativa, nella quale viene permesso agli studenti di “imparare a imparare”, viene
richiesto il coinvolgimento oltre che dal punto di vista della cognizione, anche da quello della meta-
cognizione, della motivazione, del comportamento individuale e sociale.

In tal senso vanno gli studi di Robert Stenberg sull’intelligenza, infatti egli arriva ad ipotizzare
aspetti fondamentali di questa ipotizzando la sua famosa teoria triarchica dell‘intelligenza.

Sternberg parla di tre tipi di intelligenza:

1. analitica
2. creativa
3. pratica.
Inoltre, un ulteriore contributo fondamentale per la ricerca degli stili cognitivi, Sternberg ce lo offre
delineando i tre tipi basilari dell’intelligenza, che sono:

1. Intelligenza Analitica: la scuola tende principalmente a favorirla, poiché è legata al pensiero


astratto; essa consistente nella capacità di scomporre, confrontare, analizzare, esaminare
i dettagli, giudicare, valutare, spiegarsi il perché delle cose.
2. Intelligenza Creativa: capacità di produrre il nuovo, di formare nuove
combinazioni di idee, di affrontare la vita in modi diversi da quelli consueti; questo secondo
tipo di intelligenza comprendente l’intuizione, l’immaginazione, la scoperta, il saper
ipotizzare, il saper inventare.
3. Intelligenza Pratica: abilità di sperimentare manualmente, di utilizzare gli strumenti, di
saper organizzare, realizzare, applicare progetti concreti.
Ognuna è parte di tre sub-teorie parziali che si completano a vicenda: componenziale, esperienziale
e contestuale

1. L’intelligenza analitica comprende la capacità di analizzare, scendendo nei dettagli, di


valutare, di esprimere giudizi, operare confronti tra elementi diversi.
2. L’intelligenza creativa, legata all’intuizione, si realizza nella capacità di inventare, di scoprire,
di immaginare, di affrontare con successo situazioni nuove per le quali le conoscenze e le
abilità esistenti si mostrano inadeguate.
3. L’intelligenza pratica comprende invece la capacità di utilizzare strumenti, applicare
procedure e porre in atto progetti, ecc.
Secondo questa teoria l’intelligenza umana comprende tre aspetti relativi alla relazione esistente
tra:
1. Rapporto intelligenza – mondo interno dell’individuo;
2. Rapporto intelligenza – esperienza individuale;
3. Rapporto intelligenza – mondo esterno.
Ognuna delle tre relazioni chiama in causa diversi tipi di componenti.

TEORIA TRIARCHICA DELLA MENTE


Intelligenza – Mondo interiore Intelligenza – Esperienza Intelligenza – Mondo esterno
Metacomponenti Automatismo Adattamento
Componente della prestazione Novità Selezione
Acquisizione di conoscenza Modellamento
Sternberg afferma che la correlazione tra queste tre tipologie di intelligenza è più o meno bassa,
quindi una persona che eccede in un tipo non vuol dire che avrà gli stessi risultati nelle altre due.
L’autore ci tiene a precisare che l’intelligenza non è solo quella che ritroviamo nell’aula scolastica,
ma è nella vita reale, è intorno a noi.

Inoltre Stenberg parla di stili di autogoverno mentale, che possono aiutarci a comprendere meglio i
vari modi di pensare e apprendere e a scoprire le nostre preferenze individuali. Robert Stenberg
parla di STILI definendoli: “propensioni, sono preferenze nell’uso delle proprie abilità; essi non
sono le abilità che possediamo, ma il modo in cui ci piace e troviamo più comodo usarle. Perciò uno
stile non è migliore o peggiore, solo diverso”.

Alla base c’è la convinzione che le persone, nelle loro attività quotidiane, hanno bisogno
di governare, dirigere e controllare le loro attività. Essendoci molti modi per poterlo fare, le
persone scelgono quello a loro più congeniale.

Gli stili che egli individua sono 13, che riporto sinteticamente di seguito.
QUESTI 13 stili sono divisi in 5 categorie.

1.Legislativo;
2. Esecutivo;
3. Giudiziario;
4. Monarchico;
5. Gerarchico;
6. Oligarchico;
7. Anarchico;
8. Globale;
9. Locale;
10. Interno;
11. Esterno;
12. Liberale;
13. Conservativo.

I tredici stili sono ordinati in cinque categorie:


1. Funzioni
2. Forme
3. Livelli
4. Sfere
5. Propensioni
Robert. J. Sternberg sostiene che vi deve essere congruenza tra gli stili posseduti e le richieste che
vengono dall’ambiente. Oltre a quelli degli studenti, l’insegnante deve imparare a riconoscere i propri
stili e diversificare le modalità di insegnamento e di valutazione che, in caso contrario, porterebbero
vantaggio, nell’apprendimento, solo ad alcuni soggetti e precluderebbero agli altri la
possibilità di dimostrare le proprie abilità.

La dissonanza tra lo stile dell’insegnante e quello dello studente può costituire, infatti, un ostacolo
per il rendimento del secondo: l’idea che il docente ha della propria disciplina riflette il suo modo di
insegnare, con la conseguenza che lo stesso si pone determinate priorità che, inevitabilmente,
diventano criterio di valutazione delle prestazioni.

Sternberg la scuola tende a privilegiare e a premiare lo stile esecutivo: l’insegnante impartisce le


regole, le spiegazioni e poi assegna alla classe i compiti da svolgere seguendo le sue indicazioni.
Questo può far sì che studenti con un diverso stile cognitivo, come ad esempio quello giudiziario o
legislativo, possano essere considerati poco intelligenti e non venire apprezzati per le proprie doti.
Partendo dalla metafora delle forme di governo, l’autore classifica gli stili in base alla loro funzione,
alla forma, ai livelli, alla sfera ed alle propensioni o preferenze.
1. Funzioni:
a)Legislativa
b)Esecutiva
c)Giudiziaria
2.Forme:
4. Monarchica (preferisce concentrarsi con il massimo impegno su un obiettivo alla volta o su
un’unica area di interesse;)
5. Gerarchica (si dedica ad una pluralità di interessi o obiettivi ed è consapevole che non può
dedicarsi ad entrambi contemporaneamente. Per questo motivo riesce
a gerarchizzarli secondo un ordine di priorità.)
6. Oligarchica (attratto da numerosi interessi, ma non riesce a collocarli secondo una giusta
priorità. In questo caso è basilare l’aiuto dell’insegnante al fine di analizzare con il ragazzo i
vari obiettivi che si è posto, cercando insieme di fissare delle priorità)
7. Anarchica (è specifico degli alunni che si dimostrano frenetici, iperattivi, che passano da un
obiettivo o un interesse all’altro senza mai portarne a termine uno. Sono ostili alle regole, ma
spesso possono giungere a soluzione di problemi in maniera del tutto nuova e particolare, al
contrario di altre persone; se ben guidato e stimolato dall’insegnante, l’alunno “anarchico”
può mostrarsi particolarmente creativo.)
3,Livelli:
1. a)Globale
2. b)Analitica
4.Sfere:
1. a)Interna
2. b)Esterna
5. Propensioni:
1) Radicale (porta l’alunno ad oltrepassare le regole e le procedure già date per giungere alla
soluzione dei problemi, optando per delle più originali soluzioni, alternative nel modo di affrontare
le questioni
2) Conservatrice (I conservatori manifestano una estenuante difesa delle procedure già note, che
in passato li hanno condotti a soluzioni soddisfacenti.)
Per quanto concerne le funzioni, abbiamo tre tipologie di stili:

– le persone con uno stile cognitivo legislativo sono prevalentemente creative, amano
generare, formulare, progettare idee, progetti; preferiscono decidere in modo autonomo le
procedure, le regole e quindi sono ostili alle istruzioni fornite da altri;
– coloro che mostrano una forte propensione verso uno stile esecutivo preferiscono agire
dopo aver ricevuto istruzioni da terze persone, eseguono ciò che gli viene richiesto;
– i soggetti con stile giudiziario privilegiano l’analisi attente, la valutazione, il giudizio, il
confronto di ciò che viene loro proposto.
Sul piano dei livelli Sternberg fa una distinzione tra le persone che hanno
una percezione globale delle cose, e quelle analitiche; questo punto risente dell’influenza delle
ricerche compiute da Witkin sulla dipendenza – indipendenza dal campo.
I soggetti globali notano la questione d’insieme e tralasciano i dettagli, diversamente gli analitici
ritengono fondamentali i dettagli di una situazione e li esaminano approfonditamente, perdendo di
vista il quadro generale.

Anche l’area della sfera è suddivisa in due categorie composte dalle persone che preferiscono il
lavoro individuale, che sono introverse e poco propense alla socializzazione, ovvero gli “interni”,
e dagli “esterni” che sono estroversi, che amano il lavoro di grande e piccolo gruppo sia per
giungere a delle soluzioni soddisfacenti, sia per socializzare.
Sternberg fa un elenco di metodologie di insegnamento più consone allo stile cognitivo favorito
da un discente:
lo stile esecutivo è facilitato nella normale spiegazione,
quello giudiziario è aiutato nelle domande che promuovono il ragionamento,
quello legislativo predilige l’elaborazione dei progetti.
Quindi nell’atto educativo, se l’insegnante favorisse un unico metodo di insegnamento,
penalizzerebbe gli alunni con altri stili cognitivi. Quindi il docente deve cercare di mediare, di
combinare tutti i metodi d’apprendimento, anche se il percorso è molto lungo e faticoso.
In un quadro educativo in cui la didattica rispetti le differenze individuali, nella consapevolezza che
non esistono stili migliori di altri, ma stili adeguati a specifici compiti e situazioni, l’insegnante deve
assegnare agli allievi prove che richiedano diverse modalità di esecuzione.

Il docente ha la responsabilità di fornire una molteplicità di soluzioni che possano accogliere la


differenziazione di stili tra gli studenti, ma anche far esperire loro, per il futuro, strategie utili in
situazioni non congeniali ai propri modi di pensare.

Dal momento che simili accorgimenti aiuterebbero gli studenti a divenire flessibili e a non
fossilizzarsi sul tipo di apprendimento prevalente, è auspicabile una prassi didattica variegata, che
non calpesti le discordanze con un metodo univoco, né le assecondi eccessivamente, allo scopo di
aiutare l’allievo a valorizzare le proprie caratteristiche.

o psicologo George Miller sostiene che l’essere umano è in grado di memorizzare e riflettere su
un numero limitato di oggetti (parole, numeri, immagini, simboli, ecc); questo numero, che
varia da persona a persona, è stato sperimentalmente individuato in 7 più o meno 2. Egli
formula così la teoria del magico numero 7.
Ciò significa che vi sono persone che riescono a tenere a mente e riflettere su 5 oggetti e
altre che hanno una maggiore capacità di memoria e possono arrivare a 9. Intorno al 7
quindi.

Una interessante scoperta di Miller è che la dimensione dei 7±2 oggetti è variabile, nel senso che è
possibile raggruppare in oggetti più grossi un certo numero di oggetti più piccoli; in tal modo sarà
possibile ricordare 7±2 oggetti grossi che al loro interno contengono un aggregato di oggetti più
piccoli, ampliando così il numero complessivo di oggetti ricordati.
Successivamente Miller tratta il concetto “memory span”. Con questo termine si intende la
più lunga lista di oggetti (per es. numeri, lettere, parole ecc.) che una persona può ricordare
nel corretto ordine, subito dopo l’acquisizione, nel 50% delle prove.
Miller osservò che il “memory span” di un giovane adulto è di circa 7 oggetti. Egli si accorse
che è approssimativamente lo stesso con stimoli con una vasta differenza in merito alla
quantità di informazione.

Lo psicologo concluse che il memory span era limitato in termini in termini di “blocchi”
(chunks). Un chunk è la più grande unità significativa nel materiale presentato che la
persona riconosce, quindi ciò che conta come un chunk dipende dalla conoscenza della
persona sottoposta al test.

Ad esempio, una parola è un singolo chunk per un oratore della lingua, ma consiste di molti
chunks per qualcuno che non ha familiarità con la lingua e vede la parola come una raccolta
di segmenti fonetici.

Ricerche successive sulla memoria a breve termine e sulla memoria di lavoro hanno
rivelato che lo span di memoria non è costante nemmeno se misurato in un numero di
chunks.

Il numero di chunks che un essere umano può richiamare immediatamente dopo la


presentazione dipende dalla categoria utilizzata (ad esempio, l’intervallo è circa sette per le
cifre, circa sei per le lettere e circa cinque per le parole) e persino dalle caratteristiche dei
chunks all’interno di una categoria . Il chunking è utilizzato dalla memoria a breve termine
del cervello come metodo per mantenere accessibili gruppi di informazioni per un facile
richiamo.

Funziona soprattutto come etichettatura del nuovo materiale rispetto a quello con cui si è
già familiarizzati: l’incorporazione di nuove informazioni in un’etichetta che è già ben provata
nella propria memoria a lungo termine. Questi chunks devono però memorizzare le
informazioni in modo tale da poter essere poi smontate nei dati necessari[5]. In generale, la
capacità di memorizzazione dipende dalle informazioni che vengono memorizzate.

Abraham Tannenbaum ed il modello a stella marina


Uno dei principali studiosi di bambini gifted (come abbiamo visto nel modulo 1) è stato con il suo
modello della giftedness a “stella marina” Abraham Tannenbaum, fondato sulla ricerca educativa
sulle caratteristiche degli individui plusdotati.

A differenza del modello di Renzulli (che vedremo poi a proposito degli studiosi italiani della
creatività), il suo modello è fortemente basato sulle caratteristiche di bambini e adolescenti di elevata
abilità. Lo studioso ritiene che questi bambini e adolescenti debbano anche avere attributi di
personalità facilitativi, nonché fondamentali “incontri speciali con l’ambiente”, che favoriscano
l’emergere del talento.

Le cinque variabili interne ed esterne che si intersecano nell’eccellenza creatvia sono illustrate da
Tannenbaum attraverso l’immagine di una stella marina, dove la “giftedness” è prodotta dalla
sovrapposizione di tutti e cinque i fattori (le “punte” della stella), ossia:

Fattori individuali: 1. abilità generale; 2. abilità speciale; 3. fattori non intellettivi: motivazione, meta-
apprendimento, 3. dedizione in un ambito prescelto, 4. concetto di sé sicuro, 5. salute mentale);

Poi fattori ambientali: famiglia, gruppo dei pari, scuola, istituzioni economiche, culturali e sociali;
fattori casuali, ossia eventi imprevedibili nella vita di una persona, ma che possono essere critici nel
permettere che un potenziale eccezionale venga riconosciuto o incoraggiato.

Le cinque braccia della stella marina hanno sia elementi statici che dinamici.

I primi ritraggono il bambino come si pone rispetto agli altri in una particolare fase della sua vita; i
secondi si riferiscono ai processi di apprendimento e ai processi sociali ed educativi che influenzano
il bambino e possono condurre a cambiamenti.

Diverse aree di talento possono richiedere diverse combinazioni dei cinque fattori, ma «nessuna
combinazione di quattro di questi fattori può compensare una grave carenza nel quinto»
(Tannenbaum, 2003, p. 48).

Nelle versioni più recenti del suo modello, Tannenbaum (2003) identifica come principali macro-
categorie della plusdotazione quella dei produttori e quella degli esecutori. I primi sviluppano cose o
idee, mentre i secondi interpretano o ricreano queste cose o idee. Entrambi possono operare o in modo
creativo (portando qualcosa di nuovo al processo) o in modo competente (operando ad elevati livelli
di abilità).

Teoria delle configurazioni causali di Simonton


Simonton ha studiato la creatività secondo un processo di ecolocazione.

Avviene in due modi questo processo: il primo è quello della variazione cieca, ovvero il processo
per mezzo del quale le alternative vengono esplorate dal soggetto senza conoscerle o almeno senza
sapere in anticipo quale alternativa produrrà l’effetto desiderato, in pratica il soggetto prova alla cieca
diverse strade, senza sapere quale di queste porterà alla soluzione nuova ed innovativa del problema,
il secondo, invece, è rappresentato dal processo di ecolocazione.

Simonton parla delle cosiddette “4 P” della creatività:


• processo: raggruppa tutte le definizioni che si basano sulla descrizione di un percorso mentale e del
pensiero o di un’analisi dell’informazione; questo tipo di ricerca è riconducibile ad autori come
Koestler (1964), Ghiselin (1952) e Rossman (1931);
• prodotto: intendendo come tale non solo qualcosa di tangibile, ma anche un’idea, una teoria, che
saranno riconosciuti come creativi se soggetti in qualche modo esperti della materia li riterranno tali;
in questa categoria si riconoscono autori come Mackinnon (1962) e Barron (1969);
• persona: comprende tutte le definizioni e le analisi che provengono dagli psicologi della personalità;
a questo filone appartengono la maggior parte degli autori, in primis Guilford (1950) e Cropley
(1967);
• persuasione: questa è la visione in cui si riconosce lo stesso Simonton, ritenendo che un individuo
possa dirsi creativo nel momento in cui sia in grado di impressionare gli altri con la sua creatività
e la sua leadership.
In altri modelli la quarta P sta per Place, posto cioè nel senso del contesto del luogo fiisico e sociale
dove è più facile sviluppare i processi creativi.
Altro modello è quello delle 3 T (talento, tolleranza, tecnologia) per misurare la creatività del Posto
o del luogo dove il soggetto creativo può esprimersi al meglio.
L’intelligenza cristallizzata di Raymond Cattell

Se L’intelligenza generale è stata denominata “g” dal suo divulgatore Charles Spearman nel 1904,
Raymond Cattell distingue ed individua due tipi di intelligenza l’intelligenza fluida e
cristallizzata (abbreviate in Gf e Gc, rispettivamente) sono due fattori dell’intelligenza generale,
originariamente identificati da Raymond Cattell.
 L’intelligenza fluida (Gf), o ragionamento fluido, è la capacità di pensare logicamente e
risolvere i problemi in situazioni nuove, indipendentemente dalle conoscenze acquisite.
È la capacità di analizzare problemi nuovi, identificare gli schemi e le relazioni sottostanti per
estrapolarne una soluzione usando il ragionamento logico. È necessario che tutti i problemi
logici, scientifici, matematici e tecnici, siano affrontati con il procedimento del problem
solving, adottando il pensiero fluido che comprende sia il ragionamento induttivo che quello
deduttivo.
 L’intelligenza cristallizzata (Gc) è la capacità di utilizzare competenze, conoscenze ed
esperienze. Riguarda l’intelligenza mnestica o mnesico cioè è un intelligenza che riguarda
la memoria, quello che si è appreso e che ora si rievoca (mnesico significa riguardante la
memoria, spec. dal punto di vista medico ad esempio “disturbi m.”).
L’intelligenza cristallizzata è rappresentata dalla profondità e vastità di conoscenze generali
che una persona possiede, come pure dal suo vocabolario e dalla capacità di ragionare, usando
parole e numeri: è sostanzialmente il prodotto di esperienze educative e culturali. E’
l’intelligenza dovuta ormai alle conoscenze consolidate e di base e stabili del soggetto. Non è
la stessa cosa della memoria o della conoscenza, anche se il suo operato le permette di
accedere alle informazioni dalla memoria a lungo termine.
L’intelligenza fluida e quella cristallizzata sono però correlate fra loro, e molti test d’intelligenza
tentano di misurarle entrambe. Ad esempio, la scala WAIS (Wechsler Adult Intelligence
Scale) misura l’intelligenza fluida sulla scala delle prestazioni e l’intelligenza cristallizzata sulla scala
verbale. Il punteggio globale del quoziente d’intelligenza si basa quindi sulla combinazione di queste
due scale.

Intelligenza e memoria di lavoro La memoria di lavoro (“working memory”) Alan


Baddeley e Graham Hitch
 Intelligenza e memoria di lavoro La memoria di lavoro (abbreviato in MDL, in lingua
inglese “working memory”) Alan Baddeley e Graham Hitch
Baddeley e Hitch nel 1974 ipotizzano la Memoria di Lavoro (ML) come una struttura a capacità
limitata che mantiene ed elabora delle informazioni per un periodo di tempo limitato.

Il modello originale elaborato dagli autori propone l’esistenza di tre componenti funzionali:

1. Esecutivo Centrale come operatore centrale che gestisce le risorse attenzionali e coordina
i due servosistemi,
2. il Ciclo Fonologico, è adibito al mantenimento e all’elaborazione di informazioni
verbali: entra in funzione se si ascolta una frase o un racconto.
3. il Taccuino Visuo-spaziale, adibiti rispettivamente alla elaborazione e alla memorizzazione
delle informazioni verbali e visuo-spaziali.
4. l’Episodic Buffer: una componente, anch’essa dalla capacità limitata, che si avvale di un
codice multi-dimensionale in grado di formare collegamenti tra informazioni di diversa natura
(es. verbale, visuo-spaziale) e provenienza (ambiente esterno, memoria a lungo termine), e
che permette di creare degli episodi integrati
La ML si può immaginare come un ponte collocato al centro tra la percezione delle informazioni
stesse e la memoria a lungo temine, tale da permettere e favorire una comunicazione in tempo reale
tra le impressioni del nostro mondo esterno e la nostra memoria storica sedimentata con gli anni e le
esperienze.

La ML consente, quindi, di acquisire e manipolare informazioni per fornire risposte e in caso prendere
delle decisioni adeguate.

Il termine ML è stato introdotto per focalizzare l’attenzione su un tipo di memoria che non fosse solo
un mero magazzino passivo, ma un meccanismo attivo che permetta l’elaborazione e la
manipolazione di varie tipologie di informazioni e dati (Baddeley e Hitch, 1974).

Il pensiero divergente: modelli, studiosi, sistemi cognitivi

Joy Paul Guilford ed il pensiero divergente


Joy Paul Guilford è lo studioso per eccellenza del pensiero divergente.
I comuni test d’intelligenza, a risposta chiusa, valutano il pensiero convergente [compresi quelli
delle prove pre-selettive di un TFA SOSTEGNO], mentre per il pensiero divergente può essere
dimostrato solo con test a risposta aperta [prova scritta].
Nel pensiero convergente si dice che gli individui convergono, invece che discostarsene, sull’unica
risposta accettabile a un problema e producono efficacemente la soluzione. Talvolta si afferma che i
test di intelligenza si concentrano solamente sul pensiero convergente, in modo particolare il QI il
quoziente di intelligenza (metodo quantitativo), dato che a ogni item corrisponde un’unica risposta
corretta accettabile, e che il pensiero divergente può essere veramente dimostrato solo con test
cosiddetti a finale aperto, o con metodi detti qualitativi.
Vediamo ora cosa significa questo nello specifico, e come funzionano queste due modalità di pensiero
che costituiscono gli opposti di un continuum dove si situano gli stili ed i modelli di apprendimento
individuali.
Con pensiero non va inteso il prodotto del pensiero (ad esempio il “ti ho pensato”), ma il processo
cognitivo che porta i soggetti a sviluppare e trovare soluzione, il processo del pensiero quindi e non
il prodotto. Nella lingua italiana spesso i parlanti usano in entrambi i significati il concetto di
pensiero.
Guilford distingue come abbiamo già visto un pensiero convergente da un pensiero divergente.
O meglio possiamo dire PENSIERO DIVERGENTE contro il pensiero CONVERGENTE.
Il pensiero convergente funziona in modo tale da spingere le persone a cercare, davanti a un
problema, una sola risposta, cioè quella giusta. È logica che è alla base dei problemi matematici che
ci vengono posti fin da bambini in cui non è possibile avere più di un risultato, per cui la valutazione
è netta: giusto o sbagliato. Quanto fà 1 +1? Il pensiero convergente converge sull’unica risposta esatta
cioè 2.
Il pensiero divergente invece, è caratterizzato dalla spinta ad individuare più soluzioni che siano
accettabili per motivi diversi, o anche a trovare soluzioni innovative ed originali.
È molto difficile pensare di poter individuare uno stile di pensiero superiore all’altro, ci sono
situazioni in cui si applica il pensiero convergente ed altre il pensiero divergente, più probabilmente
si tratta di strumenti che si dimostrano utili in contesti differenti. Ad esempio, in un test a risposta
multipla come le prove preselettive del TFA quello che conta è il pensiero convergente, per cui una
sola risposta è quella esatta.
⇒ In sintesi possiamo dire, che il pensiero divergente è un modo di valutare la realtà cercando di
adottare diversi punti di vista e di trovare soluzioni alternative ai problemi.
Secondo J.P. Guilford, il pensiero divergente è misurato da quattro indici (gli indicatori che ci
danno il livello qualitativo del pensiero divergente sono 4 – cioè in base alla presenza o meno di
questi parametri, o la maggiore intensità (fluidità, o flessibilità etc.) possiamo affermare che il
soggetto è capace o no di sviluppare un pensiero divergente, o ha gradi diversi dell’uno o dell’altra
capacità.
I 4 indici che misurano il grado di pensiero divergente raggiunto da un soggetto sono:

1. fluidità: la quantità delle idee o soluzioni alternative e non convenzionali prodotte: parametro
quantitativo che valuta quante poche o molte sono le soluzioni e le idee prodotte dal soggetto;
2. flessibilità: rispetto alla solita idea, al solito modo di risolvere il problema, rappresenta la capacità di
adottare strategie diverse e l’elasticità nel passare da un compito a un altro, o essere capace di un
approccio differente al compito proposto;
3. originalità: attitudine a formulare idee uniche e personali, differenti da quelle prodotte dalla
maggioranza, essere capace di trovare idee e soluzioni, oppure solo metodo di risoluzione dei problemi
ancora non trovati, metodi ed idee uniche. Pensiamo agli artisti o agli inventori che creano qualcosa
di nuovo, o pensano qualcosa di nuovo in un settore.
4. elaborazione: non basta avere idee, ma bisogna poi metterle in pratica o meglio in forma, ho delle idee
e non scriverle ad esempio, o delle idee e non so applicarle, allora il soggetto non è capace di vero
pensiero divergente, diventa tale solo quando riesce a dare concretezza alle proprie idee (possiamo
dire è la fare del fare, del laboratorio applicato, labora – del labor – la messa in atto della strategia di
problem solving differente.
In particolare Guilford (1967) elabora una “teoria multifattoriale”, che differenzia ed elenca 120
abilità primarie, tutte dello stesso valore, autonome e ciascuna adatta per svolgere uno specifico
compito, come vedremo nel suo modello della mente nel link successivo.

Le categorie intellettive che compongono il modello multifattoriale e creativo dell’intelligenza


ideato da Guilford sono: 1. operazioni, 2. prodotti, 3. contenuti.
Egli afferma che per una descrizione accurata dell’intelligenza siano necessari tre diversi parametri:
 operazioni – attività che la mente compie con le informazioni ricevute dal sistema percettivo-
sensoriale;
 contenuti – la natura delle informazioni;
 prodotti – forma assunta dall’informazione dopo che è stata elaborata.
APPROFONDIMENTO Creatività e pensiero divergente
Creatività e pensiero divergente
Le istituzioni formative, secondo una visione complessa ed adattiva del sistema educativo
e del processo di insegnamento-apprendimento, riflettono i mutamenti del contesto socio-
culturale.
I processi formativi, infatti, non sono neutrali allo sviluppo delle tecnologie e dei media digitali,
rispecchiano i nuovi stili e ritmi di apprendimento, interpretano i diversi bisogni educativi degli
studenti nella forma soggettiva, collettiva e speciale
(disabilità, disturbi evolutivi specifici, disagio affettivo-emotivo, svantaggio socio-
culturale e linguistico), determinando condizioni di
complessità e di dinamicità che, negli ultimi decenni, caratterizzano i contesti scolastici
italiani (Rivoltella & Rossi, 2012; Chiappetta Cajola &Ciraci, 2013). Alla luce delle possibili
implicazioni di tale scenario, amplificate alla
fine del secolo scorso dall’avvento, nei contesti scolastici italiani, dell’autonomia didattica,
organizzativa, di ricerca, di sperimentazione e disviluppo (Legge 15 marzo 1997, n. 59, art. 21; D.P.R.
8 marzo 1999, n.275), la didattica creativa orientata al pensiero divergente, ha come obbiettivo
educare negli alunni il senso critico, stimolare il problem solving valorizzazione la produzione
originale degli alunni, incoraggiare gli alunni ad approfondire le proprie idee, in pratica a lasciare
anche agli alunni la possibilità di gestire il curricolo di studio in modo autonomo e personalizzato;
lasciando loro scegliere le attività ed i saperi più stimolanti e vicini ai loro interessi e passioni, per
stimolare la motivazione personale. In tal senso, educare alla creatività è anche un’educazione al
pensiero della complessità, abitua gli alunni a problematizzare le proprie idee, stimola gli allievi a
non accontentarsi della prima risposta buona o utile, o della prima soluzione trovata, ma li incoraggia
a cercare altre soluzioni senza che abbiano paura della difficoltà: in poche parole a sviluppare il
pensiero laterale. A questo proposito, infatti de Bono (1996), intende il pensiero laterale come “una
forma strutturata di creatività che può essere usata in modo sistematico e deliberato” (de Bono,
2000). In tale prospettiva l’insegnamento deve promuovere e portare allo sviluppo di un pensiero
divergente ed autonomo, frutto di un apprendimento non limitato agli anni della scuola, ma che
accompagni l’individuo potenzialmente per tutto l’arco della sua vita (life long learning).

Compito dell’insegnante non è solo quello di trasmettere dei contenuti disciplinari e nozionistici, ma
anche quello di progettare e concretizzare un’azione formativa che sia realmente rivolta agli alunni,
valorizzando e promuovendo al meglio il peculiare potenziale creativo di ogni singolo allievo.
Flessibilità, innovazione e rinnovamento sono aspetti e abilità che la scuola deve promuovere,
sollecitare e sostenere così da rendere possibile la creazione di quel pensiero non convenzionale, che
sia cioè peculiare di ogni persona nella sua individualità e unicità, rendendo possibili occasioni
costanti di crescita e di apprendimento continuo di fronte a situazioni nuove (Guilford).

Rispetto ad una didattica incentrata alla memorizzazione ed alla ripetizione dei


compiti, l’apprendimento creativo permette all’alunno di costruire un apprendimento grazie alla
creatività, che gioca un ruolo esplicito nell’acquisizione di nuove conoscenze. E viceversa questo
nuovo apprendimento agisce sul pensiero creativo degli allievi contribuendo al suo arricchimento.
Nell’apprendimento creativo, la creatività costituisce una passerella tra il sapere e l’allievo (Puozzo
Capron & Martin, 2014) e permette di accertare delle competenze attraverso una produzione. Essa è
osservabile attraverso le tracce raccolte durante il procedimento e le performance degli alunni in
termini di apprendimento e di novità. L’attività didattica orientata alla creatività ed al pensiero
divergente da realizzare è dunque più complessa in questo intervento pedagogico e non consiste nel
ripetere o esercitare una competenza, ma nell’analizzare, valutare e produrre (Anderson & Krathwohl,
2001). L’attività didattica è più complessa per gli allievi in questo approccio pedagogico che
nell’insegnamento creativo L’apprendimento creativo richiede spesso un investimento a livello
cognitivo, emozionale e conativo (sul rischio e sulla perseveranza). Occorre però considerare che gli
alunni non sono sempre abituati a tale genere di attività e ne sono quindi più destabilizzati che
rassicurati (Puozzo Capron, 2013). La situazione educativa viene posta come situazione-problema in
quanto compito che offre una sfida è anche potenzialmente favorevole nel campo delle nuove
tecnologie e specialmente nell’uso delle nuove tecnologie di comunicazione in classe (Craft, 2005).

Sviluppare capacità creative è un obiettivo formativo-educativo che si declina in maniera diversa a


seconda del grado di sviluppo cognitivo dei soggetti coinvolti (Antonietti e Iannello, 2008).
L’insegnate che intende stimolare la creatività dei suoi allievi dovrebbe quindi innanzi tutto
interrogarsi circa il tipo di creatività che intende promuovere. Una prima possibilità è di intendere la
creatività quale atteggiamento, ossia una particolare modalità di rapportarsi alla realtà – esterna e
interiore – e di interagire con essa. L’atteggiamento creativo è stato, per ricordare qualche proposta
al riguardo, designato come apertura verso l’esperienza, accettazione del rischio e della
contraddittorietà, spirito di avventura, predilezione verso la complessità. In accordo con questa
impostazione, più recentemente alcuni degli aspetti che caratterizzano l’atteggiamento dell’individuo
creativo sono stati intesi come elementi di una più generale dimensione psicologica denominata
problem-finding. Essa consiste nella tendenza a considerare vari possibili approcci al problema, ad
abbandonare la via intrapresa qualora un’altra si presenti come più adeguata allo scopo, a non
considerare definitivi i risultati raggiunti. Per esempio, un particolare processo implicato nel pensiero
creativo è la ristrutturazione: la soluzione creativa di un problema risiede nel considerare il problema
stesso da un differente punto di vista in modo che emergano nuove relazioni. La creatività consiste
nel compiere accostamenti desueti di idee e dalle operazioni atte a ricombinare in nuova maniera
esperienze precedenti o l’individuare aspetti comuni in realtà diverse. Dobbiamo immaginare gli
interventi educativo-formativi come volti a cambiare atteggiamenti, a promuovere potenzialità e ad
insegnare processi.

La didattica della creatività si muove su delle linee basate su alcuni passaggi significativi:

1. dai prodotti ai processi;


2. dalla soluzione di alcuni problemi (utilizzando metodi standard) alla scoperta dei problemi;
3. dalle definizioni (già preordinate) alla ricerca di orizzonti di senso (trovando nuove costruzioni di
senso);
4. dai contenuti confezionati in sequenze logiche (secondo modalità già in uso), ad una nuova costruzione
di ipotesi secondo una psicologia di sviluppo e di apprendimento;
5. dalla conoscenza di teorie alla costruzione di ipotesi fondate sulla logica delle buone ragioni.
Compito della scuola è preparare l’alunno ad adattarsi ai cambiamenti appropriandosi di nuove
conoscenze e cercando nuove soluzioni. La scuola deve avere basi teoriche e scientifiche per
introdurre la creatività in seno ai piani di studio collaborando strettamente non solo con gli insegnanti,
ma anche con gli operatori ed il territorio. Il ruolo degli insegnati specialisti in Bisogni Educativi
Speciali è pertanto fondamentale per sviluppare pensiero divergente e creatività.

Il cubo di Guilford: 6 Operazioni, 6 Contenuti e 6 Prodotti


Nella società contemporanea, intelligenza, capacità di apprendimento, capacità di “creatività”, come
quasi tutte le altre attività dell’uomo, è soggetta ad un continuo processo di studio. Nuovi studi e
nuovi autori affrontano questi temi da punti di vista differenti.
Ma sono proprio questi gli autori, studiosi, scienziati su cui spesso si incontrano le domande più
ricorrenti delle prove di TFA sostegno degli ultimi anni (basta vedere i simulatori digitali di Origine
Concorsi, e specialmente gli ultimi, quello sulle nuove domande).

Questi autori propongono ricerche su quella che rimane ancora un mistero della mente umana,
“l’intelligenza” (tant’è vero che non esistono sostanze chimiche che fanno diventare più intelligenti).

Gli studi sulla mente umana sono intrecciati agli studi sull’intelligenza.

Questo modulo di Origine, come abbiamo visto, propone una lunga serie di studiosi che hanno
affrontato il tema della creatività, la sua educabilità e le sue caratteristiche, ma anche la dimensione
dell’intelligenza e soprattutto dello sviluppo dell’intelligenza creativa. Ora forse tratteremo il
principale autore che ha studiato e parlato di intelligenza, lo psicologo statunitense Joy Paul
Guilford. Le opere principali di Guilford sono:

 Natura dell’intelligenza (1967).


 La struttura dell’intelligenza (1969).
Il modello guilfordiano della struttura multifattoriale dell’intelligenza viene rappresentato come un
cubo in forma tridimensionale. Ogni tipo di pensiero può, in tal modo, essere collegato
simultaneamente a tutti gli altri elementi dell’intera struttura. Questo modello viene anche detto
modello del Cubo di Guilford.
I soggetti che possiedono un’intelligenza convergente si orientano a dare un’unica risposta ad un
problema e arrivano con una certa facilità alla soluzione. Anzi, spesso i test di intelligenza sono
formulati con item che prevedono una sola risposta corretta. L’intelligenza creativa si fonda, invece,
sul pensiero divergente.

IL CUBO DI GUILFORD è un parallelepipedo di 120 cubetti, ciascuno corrisponde a una capacità


mentale che deriva dalla combinazione di OPERAZIONE – CONTENUTO – PRODOTTO come già
abbiamo visto.
Questo modello attribuisce molta importanza alla creatività, all’interno dei processi cognitivi.
Il cubo di Guilford: 6 Operazioni, 6 Contenuti e 6 Prodotti

Uno studio particolare volto alla comprensione della creatività va compiuto all’interno della categoria
“operazioni” e soprattutto sulla produzione del pensiero divergente. Per Guilford, infatti, nella
misurazione dell’intelligenza, bisogna tener conto anche delle capacità e delle abilità del pensiero
divergente; anzi, quest’ultimo è indipendente da quello convergente.
Si potrebbe, perciò, verificare che in un soggetto siano particolarmente sviluppate le capacità e le
abilità del pensiero divergente e che pertanto la persona sia molto creativa anche se non riesce ad
ottenere risultati soddisfacenti nella misurazione dei test del Quoziente Intellettivo. QI cerca in chiave
di ricerca approfondimento.
I fattori dell’intelligenza come abbiamo visto precedentemente sono:

 fluidità o speditezza del pensiero (un soggetto che sa esprimere facilmente le proprie
idee e descrivere eventi con un linguaggio fluido è indubbiamente molto creativo);
 flessibilità di pensiero o facilità ideativa (un soggetto che è pronto ad abbandonare schemi
ripetitivi e consueti di pensiero per incamminarsi in nuove direzioni è sicuramente creativo);
 originalità o “stranezza/innovatività di forme” nel comportamento (un soggetto che si fa guidare
da polarità anomale e che con facilità offre risposte intelligenti a situazioni difficili ed intricate è
certamente creativo).
È perciò originale, flessibile e dotato di una certa fluidità del pensiero chi, in contrasto con coloro che
sono inclini ad atteggiamenti inattivi econformistici, produce e crea idee nuove e non condivise.
Ricordiamo brevemente un altro modello interessante quello proposto da Gardner, in questa pagina
di confronto tra modelli di intelligenza, schematicamente le intelligenze multiple individuate.

Per Sigmund Freud, invece ci sono due tipi principali di processi che regolano le idee: processi
primari e processi secondari.
I processi primari sono liberi dalla logica, mentre quelli secondari sono strettamente razionali e logici.
Ciò che succede ad un individuo che matura è proprio il fatto che egli è sempre obbligato a dipendere
dal processo secondario, man mano che apprende dalla sua cultura come vanno le cose, che cosa è
permesso e che cosa non lo è e così via.
Il processo primario, che permette di mettere insieme delle idee apparentemente del tutto distinte, la
tolleranza delle contraddizioni, tale che ogni idea possa coesistere con un’altra (senza riguardo alla
loro reciproca esclusività) e la formazione di connessioni molto ampie fra le idee, sono fermamente
respinti dalla maggior parte delle persone ed il pensiero diviene, in tal modo, molto logico, razionale,
conformistico. I pensatori creativi, d’altro canto, mantengono la capacità di ammettere il materiale
del processo primario nel loro pensiero, che è in tal modo notevolmente arricchito di legami tra le
idee, legami che sono del tutto repressi nelle persone dominate dai processi secondari.

De Bono: pensiero laterale ed i sei cappelli per pensare

1.0 De Bono: creatività e pensiero laterale


Il pensiero divergente è alla base del pensiero creativo, inteso come capacità di trovare soluzioni
alternative a un problema, ma non solo, esiste e si accompagna con una altra forma di pensiero che
possiamo definire pensiero laterale. E lo studioso maltese Edward De Bono è l’indiscusso esperto
nello sviluppo della creatività e di questo tipo di pensiero, e si collega a quanto fino ad ora trattato in
merito al pensiero divergente ed alla possibilità di educare alla creatività.
Infatti, il maltese Edward de Bono scrive uno dei primi libri in cui si parla di tecniche per stimolare
la creatività, ma soprattutto per modificare gli atteggiamenti psicologici dei soggetti, il suo testo più
importante ha infatti come titolo Creatività e pensiero laterale: manuale di pratica della fantasia.
Notiamo già dal titolo: pratica e fantasia, un ossimoro per dire, che si può educare alla fantasia ed
alla creatività. Il docente di sostegno dovrebbe essere proprio un soggetto capace di stimolare la
creatività e la fantasia degli studenti, e specialmente dei soggetti BES.
In parte, possiamo dire che il pensiero laterale proposto da De Bono è simile al pensiero divergente
proposto da Guilford. Origine ha messo i due autori in modo conseguenziale, e possiamo dire che De
Bono sul piano anche pratico e metodologico si innesta negli studi di Guilford sulla “divergenza
cognitiva”.
I suoi studi sul “pensiero laterale vs. pensiero verticale” hanno dato spunti di riflessione ed analisi sui
processi di creatività simili quanto sostenuto dai maggiori studiosi dell’intelligenza del Novecento
(Gardner, ad esempio).
De Bono parte dalla constatazione che le persone tendono ad avere un atteggiamento fisso e preciso
sulle cose. Una sorta di attitudine psicologica di base, un modo di essere proprio: spesso fisso e
rigido.
De Bono mette in atto un processo una strategia per far assumere alle persone altri punti di vista, per
far vedere le cose da una diversa prospettiva psicologica. In pratica, De Bono vuole stimolare le
persone ad avere un pensiero laterale, anche perché il semplice ragionamento logico non può
soddisfare in modo completo l’esigenza di nuove idee. Con il pensiero verticale ci si concentra e si
esclude ciò che è irrilevante, con il pensiero laterale si accolgono favorevolmente le intrusioni del
caso.
Per De Bono, “il pensiero laterale” piuttosto che un diverso modo cognitivo di affrontare i problemi
(il già visto e studiato su Origine pensiero divergente), è un diverso modo psicologico di affrontare i
problemi. Non si tratta solo di elaborare concetti, fare operazioni mentali, essere fluidi cognitivamente
come dice Guilford, bisogna avere anche un atteggiamento, un modo di vedere le cose flessibili,
originale e diverso, perché le idee preconcette ed i clichè vengono scardinati alla ricerca di nuovi
modi anche di “sentire” i concetti.
In pratica, bisogna porsi nella condizione psicologica dell’essere pronti alla diversità di pensiero,
all’apertura all’altro, al pensare differentemente, al “sentire” ed “al vivere” i problemi in modo
diversi. De Bono lavora sulla percezione soggettiva e psicologica delle situazioni in cui si cercano
risposte ai problemi.

Egli adopera spesso anche la tecnica dell’inversione, con cui si stimola una persona a considerare la
situazione in modo diverso; anche le stesse informazioni vengono cambiate o ricombinate o
riproposte in modo diverso, al fine di trovare nuove connessioni; il fine di questa tecnica è quella
di ottenere, infatti, degli stimoli nuovi, dai quali partire per nuove direzioni. Vere e proprie
tecniche vengono sviluppate e poi applicate da De Bono per stimolare un nuovo punto di vista sulle
cose (la tecnica più famosa come vedremo è proprio quella detta dei Sei cappelli per pensare).
Le differenze e le contrapposizioni fra i due tipi di approccio (verticale vs. laterale) vengono
riassunte da De Bono in una serie di opposizioni tra pensiero convergente e pensiero laterale:
1. Concentrazione su di un aspetto – Fissità/Flessibilità – Rigidità/Causalità con il pensiero
verticale ci si concentra e si esclude ciò che è irrilevante, con il pensiero laterale si accolgono
favorevolmente le intrusioni del caso;
2. Selezione/Produzione – con le categorie del pensiero verticale classificazioni e definizioni sono
fissate, con il pensiero laterale non lo sono; il pensiero verticale è selettivo, il pensiero laterale
è produttivo;
3. Monodirezionale/Multidirezionale – il pensiero verticale si mette in modo solamente se esiste
una direzione in cui muoversi, il pensiero laterale si mette in moto allo scopo di generare una
direzione;
4. Analitico/Stimolatore – il pensiero verticale è analitico, il pensiero laterale è stimolatore;
5. Consequenziale/Non-consequenziale il pensiero verticale è consequenziale, il pensiero laterale
può procedere a salti;
6. Paura di sbagliare/Considerare l’errore parte del processo. Naturalezza dell’errore per chi
pensa con il pensiero laterale. Mentre il pensiero verticale si deve essere corretti ad ogni passo, con
il pensiero laterale si può non esserlo, in pratica, con il pensiero verticale si usa la negazione con lo
scopo di bloccare alcuni percorsi, con il pensiero laterale non esiste nessuna negazione;
7. Certezza/Rischio – il pensiero verticale segue i percorsi più probabili, il pensiero laterale esplora
quelli meno probabili; il pensiero laterale è innovatore, cerca creatività ed originalità
8. Finitezza/Probabilità il pensiero verticale è un processo finito, il pensiero laterale è di tipo
probabilistico, chi pensa in modo laterale sa che tutto può succedere.
2.0 La tecnica dei sei cappelli.
Come far cambiare atteggiamento alle persone e come dare loro una
maggiore flessibilità psicologica sulle cose
Abbiamo visto come con il pensiero verticale si usa la negazione allo scopo di bloccare alcuni
percorsi; o meglio, per dire: “questo è il modo di procedere, è sempre stato questo e dovrà essere
sempre così”, mentre con il pensiero laterale non esiste alcuna negazione, ma la consapevolezza che
esistono anche altre vie. Ora De Bono sviluppa una metodologia apposita per chiarire le diverse
modalità di pensiero utilizzate dalle persone nel contesto della risoluzione dei problemi.
Ciascun cappello rappresenta un approccio comunemente usato per il Problem Solving, la novità
introdotta da De Bono, è far indossare alla stessa persona uno dopo l’altro ogni diverso cappello.
L’esercizio dei sei cappelli ha infatti l’obiettivo di far riconoscere ai partecipanti, grazie al suo
simbolismo, le modalità di riflessione che utilizzano, e quindi capire meglio i loro processi mentali.
Abbiamo già visto, come ognuno individuo tende a porsi in un atteggiamento mentale fisso e trova
difficoltà ad assumere altre attitudini e sguardi sulle cose e sul mondo. Anche la nostra stessa lingua
riporta certe espressioni. Di alcune persone si dice che hanno sempre il sangue agli occhi, ed il sangue
è il rosso, si dice anche vedere rosso, mentre di una persona sempre negativa e pessimista si dice vede
tutto nero, l’ottimista e sentimentale anche un pò facilone si dice che vede tutto in rosa, è
comunemente associato al cambiamento fiducioso ed alla speranza invece il colore verde, il colore
del prato e della natura che risorge in primavera, verdi speranze, etc.
Quando ci si trova di fronte ad una tematica, un problema, una decisione da prendere si è portati
contemporaneamente ad usare vari atteggiamenti di pensiero spesso contrastanti, spesso
confusionari, spesso angoscianti e che bloccano il pensiero, ad esempio chi usa pensiero logico ed
è razionale, chi il pensiero creativo ed è impulsivo, chi il pensiero emotivo ed è entusiasta o al
contrario ha paura, etc. Questa sovrapposizione di pensieri genera facilmente confusione di pensiero
perché uno di questi atteggiamenti tende a dominare sugli altri. “INDOSSARE” uno dei sei cappelli
significa scegliere di orientare il proprio pensiero in una sola direzione ma solo fino a quando
si avrà in testa quel cappello, poi bisogna cambiare cappello ed essere flessibili, come vedremo.
Edward De Bono partendo da questi colori simbolo ha proposto un originale e fortunatissimo metodo
per abituarsi a pensare con sei modalità diverse e soprattutto per essere flessibili, per vedere il mondo
da tutti i colori diversi. Lo sperimentatore, il formatore entra in classe, in aula o nella stanza e porta
con sei sei cappelli di colore diverso (è una sorta di role playing didattico). Ogni cappello a seconda
del colore è associato ad una modalità psicologica diversa, ogni partecipante mette e toglie il cappello
su indicazione del formatore.
I cappelli sono sei, colorati con colori simbolici e che indicano un modo di essere che il formatore
spiega al gruppo:

Iniziamo, dal cappello il cui utilizzo è più difficile da spiegare: il cappello nero. E’
necessario che a volte vediamo anche le cose per le conseguenze negative che possono esserci o
provocare? Si. La risposta è si. Il cappello nero – da sempre il colore associato alla morte ed al lutto –
o come in Dante al peccato, alla selva oscura, al dolore, alla paura, è l’avvocato del diavolo che rileva
gli aspetti negativi, le ragioni per cui la cosa non può andare.
Il pessimista vede tutto nero ed indossa già di suo il cappello nero. Non vi sono soluzioni al problema,
o anche, non vi sono soluzioni diverse da quelle proposte. E’ un atteggiamento negativo. Ma è un
cappello da tener presente ed usare. Perché avere la giusta paura è sano, avere la giusta considerazione
dei contro nel fare le cose, è segno di flessibilità ed intelligenza. E’ un cappello che magari l’entusiasta
non considera minimamente. Lo spregiudicato nemmeno. Paradossalmente, anche il cappello nero
serve, bisogna anche conoscere il prezzo delle conseguenze delle proprie azioni.

Il cappello bianco – la naturalezza del latte materno, il foglio bianco, la neve


immacolata, rappresenta per De Bono il ragionamento analitico e imparziale, che riporta i fatti così
come sono, che fa analisi dei dati, raccolta di informazioni, precedenti, analogie ed elementi raccolti
senza giudicarli. Quando il soggetto indossa questo di cappello, e quindi abbandona il nero ad
esempio, entra in un altro modo di vedere le cose. Senza paura delle conseguenze ragiona freddamente
sulle cose.

Il cappello rosso (come per “il toro” ad esempio nel mantello rosso del torero – come
nel color code dell’amore – il rosso per De Bono vuole essere il colore simbolo del fuoco della
passione). In tal senso, il cappello rosso rappresenta la dimensione dell’emozione e della liberazione
del pathos e dell’emotività. Mettici qualcosa di tuo in quello che fai, dice il formatore a chi sta
indossando in quel momento il cappello rosso. Nel momento che il soggetto magari razionale e
freddo, indossa il cappello rosso deve cambiare atteggiamento ed adesso deve esprimere di getto le
proprie intuizioni, ma anche le cose che si teneva dentro come suggerimenti o sfoghi liberatori. Il
soggetto deve essere ora spontaneo e libero dire quello che sente emozioni, sentimenti positivi e
negativi come antipatia, rabbia, timore.

Il cappello giallo – la positività, la luce, pensiamo ancora a Dante dalla selva


oscura alla luce del paradiso, ma anche all’oro è l’avvocato dell’angelo, rileva gli aspetti positivi,
i vantaggi, le opportunità. Chi indossa il cappello giallo deve trovare la motivazione e la gratificazione
positiva nel fare le cose che sta per fare, anzi, deve considerarne i benefici.

Il cappello verde – la natura, la speranza, l’innovazione, la creatività, come la


pianta che fiorisce così fiorisce la mente di chi indossa questo cappello. Ora il formatore dice al
soggetto che lo indossa di vedere la stessa cosa da un punto di vista nuovo ed originale, indica sbocchi
creativi, nuove idee, analisi e proposte migliorative. Chi indossa il cappello verde deve poter far leva
su creatività – sviluppare pensiero divergente – pensare ed avere visioni insolite. E’ il cappello
del problem solving innovativo.

Il cappello blu, è il cappello della RAZIONALITA’, è blu come un cielo


chiaro, pulito, assolato, che è chiarezza, è vedere le cose dall’alto, è la panoramica generale, è
vedere l’insieme e la sua articolazione. Quando indossa il cappello blu, il soggetto è stimolato a
pensare alle priorità, ai metodi che vuole adottare per raggiungere l’obbiettivo, al modello
per stabilire sequenze funzionali.
Quando indossa il cappello blu, allora abbandoniamo la semplice positività che si aveva con il
cappello giallo, o la semplice speranza creativa, atteggiamento proprio del cappello verde, ed ora
invece vediamo cosa fare, come fare e da dove iniziare. In pratica, il soggetto con il cappello blu
pianifica, programma, organizza, stabilisce le regole del gioco. In pratica, anche lo stesso conduttore
del gioco, che ha immaginato come impostare l’azione didattica ha usato in un primo momento il
cappello blu.
Il metodo visualizza in modo semplice e intuitivo i sei atteggiamenti di pensiero individuati da
De Bono, e facilita il passaggio dall’uno all’altro.
Ad esempio lo sperimentatore dice : “cerca di vedere le cose in modo un po’ più positivo, altrimenti
ci scoraggi” ottengo come risposta: “io son fatto così, del resto poi i fatti mi danno ragione”.

La teoria dei cappelli ed il corrispondente coloro e De Bono rientrano tra gli autori, studiosi, scienziati
su cui spesso si incontrano le domande più ricorrenti delle prove di TFA sostegno degli ultimi anni
(basta vedere i simulatori digitali di Origine Concorsi, e specialmente gli ultimi, quello sulle nuove
domande).
Se invece dico: “bene, ora togliti il cappello nero e dimmi come vedi la cosa col cappello giallo”
propongo come analogia, gioco di mimo e di colori, un cambiamento di atteggiamento mentale, e lo
rendo più facile, proprio perché più leggero. Se si chiede ad una persona di non essere troppo negativa,
magari la si offende, ma non c’è motivo di offendersi quando ci si sente dire che sta indossando il
Cappello Nero e che gli si chiede di passare al Cappello Giallo. Perché il Metodo dei Sei
Cappelli crea subito un terreno di neutralità, ed è un ottimo strumento per passare ad un tipo di
pensiero diverso o per sollecitarlo, cosa che non è sempre facile da fare senza urtare la sensibilità
degli altri.
I cappelli si possono usare da soli, nel senso che posso affrontare un problema raccogliendo i dati,
lasciandomi andare alle sensazioni, valutando le criticità e i vantaggi, cercando soluzioni e proposte,
pianificando le cose da fare. Oppure possono essere usati per disciplinare una riunione, per renderla
meno conflittuale e più collaborativa, in quanto i partecipanti non difendono ognuno il suo modo di
pensare, ma di volta in volta cercano di affrontare il problema pensando tutti insieme nello stesso
modo.
Nella mappa dei sei cappelli, le coppie di opposti sono antagoniste o complementari: alla freddezza
del giallo si oppone il calore del rosso, al pessimismo del nero l’ottimismo del giallo, alla fantasia del
verde la concretezza del blu. Il metodo dei sei cappelli usa infatti come abbiamo già detto oltre alla
tecnica dell’inversione anche quella dell’opposizione, che come abbiamo visto fornisce un punto di
vista diverso ed opposto su di un argomento.
Il fine ultimo non è sovvertire il normale ciclo delle cose, bensì individuare connessioni nuove mai
prese in considerazione.

L’utilizzo dei Sei Cappelli rende ad essere più consapevoli nel modo in cui pensiamo “Mi sembra che
rispetto a questo problema ho usato solo il Cappello Rosso” oppure, “Credo che qui ci voglia uno
sforzo con il Cappello Giallo”.
Alla fine del gioco, i partecipanti sono in grado di commentare il loro stile di pensiero e anche quello
degli altri, perchè i Sei Cappelli li aiutano ad essere più consapevoli del modo in cui pensano in un
dato momento.

Il Programma di Pensiero CoRT (Cognitive Research Trust)


De Bono ha realizzato anche un vero e proprio programma di attività volte allo
sviluppo della creatività, è l’ideatore del Programma di Pensiero CoRT (Cognitive
Research Trust) per le scuole, che è il programma maggiormente utilizzato a livello internazionale
per l’insegnamento delle abilità di pensiero, della creatività, è un dato nozionistico da tener presente
per una preselettiva. Questo è il nome del suo programma basta sapere questo.
Il processo creativo può essere appreso, allenandolo attraverso esercizi pratici e mirati.
De Bono è uno dei maggiori esperti di proposte volte allo sviluppo della creatività, è l’ideatore del
Programma di Pensiero CoRT (Cognitive Research Trust) per le scuole, che è il programma
maggiormente utilizzato a livello internazionale per l’insegnamento delle abilità di pensiero. Una
delle sue tecniche più conosciute è quella dei Sei cappelli per pensare.

Limite dei 9 punti – ed autolimiti cognitivi


E’ una tecnica per far comprendere i limiti mentali dei soggetti, che non sanno pensare fuori da
schemi preconcetti, stimola pensiero divergente e pensiero laterale. I soggetti sono autolimitati,
alla domanda unisci i nove punti pensano di farlo linearmente e non usano tutto il foglio (come
vedremo). Alle istruzioni unisci i nove punti senza staccare la penna dal foglio non riescono a pensare
fuori dal foglio.
Questo gioco-esempio è usato nella didattica di De Bono, E. per azioni in direzione del pensiero
laterale, è stato proposto da autori come Watzlawick, P., Weakland, J.H., Fisch, R. nel loro
testo Change: la formazione e la soluzione dei problemi.
Il problema dei 9 punti e delle 4 linee è un classico problema generalizzato a n dimensioni.
E’ uno dei quesiti più famosi al mondo ma ci sono delle novità.

Per chi si fosse sintonizzato solo ora, riporto il testo del problema nella sua formulazione di base.

Il problema di base
Ci sono 9 punti su un piano disposti in una griglia quadrata 3×3. Il problema consiste nel disegnare
una linea spezzata formata da 4 segmenti che passi attraverso tutti i nove punti.

La linea deve attraversare ogni punto una sola volta.

Qui sotto vedete la griglia 3×3 e a fianco una soluzione errata perché la linea è formata da 5 segmenti
invece dei 4 richiesti.

Il problema di base, (1° variante)

E’ uguale al problema di base senza la condizione che la linea passi per ogni punto una sola volta.

In altre parole, la linea può attraversare più volte uno stesso punto.

Questa volta avete 16 punti su un piano disposti in una griglia quadrata 4×4.

Il problema consiste nel disegnare una linea spezzata formata dal minimo numero possibile di
segmenti segmenti che passi attraverso tutti i 16 punti.

Qual è tale numero minimo?


Generalizzazione a NxN punti Fate altre prove con griglie quadrate di 25, 36, … punti. Quali
conclusioni potete trarre? Pensare fuori dalla scatola- Per risolvere questo problema bisogna pensare
fuori dalla scatola (think out of the box).
Ciò significa che non dobbiamo farci condizionare dai confini della griglia. Le linee da tracciare,
infatti, devono uscire da questi confini.

I principali libri di De Dono – possibile domanda per preselettiva


E’ più utile e redditizio aiutare il processo creativo attraverso il ragionamento ed il pensiero. A questo
proposito nei suoi libri si possono trovare numerose indicazioni ed esercizi pratici per tenere in
allenamento l’approccio creativo.

O per risvegliarlo in coloro che non sanno come farne uso.


 De Bono E., tr. it. Imparare a pensare in 15 giorni, Feltrinelli, Milano, 1971.
 De Bono E., tr. it. Il pensiero laterale, Rizzoli, Milano, 1969.
 De Bono E., tr. it. Il meccanismo della mente, Garzanti, Milano, 1972.
 De Bono E., tr. it. Il pensiero pratico, Garzanti, Milano, 1975.
 De Bono E., tr. it. I bambini di fronte ai problemi, Garzanti, Milano, 1974.
 De Bono E., tr. it. Sei cappelli per pensare, Rizzoli, Milano, 1991.
 De Bono E., tr. it. Io ho ragione – Tu hai torto, Sperling & Kupfer, Milano, 1991.

Neuroni specchio ed autismo


In quasi tutti gli studi sull’attivazione dei neuroni specchio, i ricercatori hanno riscontrato che i
partecipanti che presentano una risposta più attiva ed elevata ditali neuroni sono quelli che fanno
registrare punteggi elevati nei test di profilo empatico. Questa distinzione è importante perché
suggerisce che i bambini con un’attività cerebrale normale sono predisposti all’empatia, ma la misura
in cui i loro neuroni specchio si attivano dipende tanto dalla natura quanto dalla cultura.”

I neuroni specchi sono dei neuroni che si attivano quando compiamo una determinata azione e quando
vediamo compierla. Quindi lo stesso neurone si accende per cause motorie, come afferrare una mela
e per cause sensoriali, come vedere qualcuno afferrare una mela. Ogni neurone si attiva solo per un
tipo specifico di movimento: ad esempio il neurone che si attiva mentre vediamo afferrare/afferriamo
la mela non si attiva quando lanciamo o vediamo lanciare una mela. Questo speciale tipo di
comportamento ha donato loro il caratteristico nome di neurone specchio.

A cosa servono?
La scoperta del dottor Rizzolati, essendo un punto di svolta sulla comprensione del funzionamento
neuronale, ha dato il via a decine di ricerche correlate nei più svariati ambiti scientifici, noi citeremo
solo alcuni.

Comprensione degli stati emotivi: Gli stati emotivi producono una particolare mimica facciale che
può essere riconosciuta a livello visivo. Nell’atto di osservare un’emozione positiva o negativa
attiviamo gli stessi identici neuroni mimici, donandoci così la capacità empatica di “vivere” e quindi
comprendere lo stato d’animo altrui istantaneamente. Questa importante scoperta dona una
motivazione neuro biologica a quella che chiamiamo “responsabilità sociale” fin ora relegata alla
speculazione filosofica o religiosa.

Secondo lo stesso Rizzolati la cultura e la speculazione cognitiva può bloccare o escludere alcuni
soggetti da questo procedimento empatico, sfruttando l’espediente per cui il procedimento è molto
più forte con chi sentiamo più vicino (familiari, appartenenti alla stessa cultura, etnia) e ciò
spiegherebbe anche le basi di grandi rimozioni empatiche collettive come il nazismo o altre più
recenti.
Sviluppo del linguaggio. Nuove teorie proverebbero che il linguaggio parlato tipico della nostra
specie non derivi dall’ascolto dei versi animali, come si credeva, ma dalla gestualità. Infatti
l’osservazione di gesti accenderebbe i potenziali di azione di neuroni situati nell’area di Broca,
un’area dedita al movimento dei muscoli adibiti alla produzione della voce umana. Oltre tutto il
legame empatico creato dagli stessi neuroni aiuterebbe non poco la comprensione comunicativa
(motivo per cui nelle chat utilizziamo le emoji ad esempio per far comprendere il sarcasmo di
un’affermazione).
Come sono stati scoperti i neuroni specchio
La scoperta iniziale dei neuroni a specchio, come altre grandi rivoluzioni scientifiche, è avvenuta in
modo del tutto casuale. In uno studio sui neuroni di un macaco, un ricercatore, mentre l’animale era
esaminato, ha preso una banana da un cesto di frutta, scatenando la risposta neuronale dell’animale
che stava osservando. Fino ad allora si riteneva che quel tipo di neuroni si attivasse “sparando” solo
in caso di funzioni motorie, da quel giorno si è capito che non era così.

Il Dr. Giacomo Rizzolatti insieme a Luciano Fadiga, Leonardo Fogassi, Giovanni Pavesi
continuarono la ricerca e nel 1994 riuscirono a dimostrare l’esistenza nell’uomo di questi neuroni
tramite la stimolazione magnetica transcranica.

Autismo e neuroni specchio


L’autismo è considerato un disturbo dello sviluppo che interessa più precisamente le capacità
comunicative e di interazione con il mondo esterno e presenta:

 Incapacità di istaurare relazioni sociali normali.


 Anomalie e ritardi nello sviluppo linguistico.
 Comportamento ritualistico e ripetitivo.
Il neurologo indiano Vilayanur S. Ramachandran è stato il primo a teorizzare che una disfunzione dei
neuroni specchio sia la causa dell’emergere dell’autismo. Infatti le disfunzioni cognitive presenti
nello spettro autistico sono direttamente le aree in cui entrano in gioco questi neuroni. Successivi
studi mediante elettroencefalogramma parrebbero confermare questa intuizione, donando non poche
speranze per la comprensione di questa malattia ancora quasi del tutto sconosciuta.

La simulazione incarnata
la tesi della simulazione incarnata si collega strettamente alla scoperta dei neuroni specchio nel
cervello del macaco prima e dell’uomo poi, che ha permesso di declinare l’intersoggettività come
inter-corporeità.
Questo significa che comprendiamo le azioni e le esperienze altrui in quanto ne condividiamo la
natura corporea e la rappresentazione neurale corporea sottostante. Secondo l’ipotesi della
simulazione incarnata, la stessa simulazione motoria nell’imitare azioni o gesti compiuti da altri
nel cervello del macaco e dell’uomo spiega anche l’immedesimazione del soggetto in fase di
apprendimento con quello che vede muoversi del corpo dell’alrto. In altri termini, si registrano nel
proprio cervello le forme di embodiment.

Pertanto si può parlare di cognizione incarnata (embodied cognition) in quanto stati e processi
mentali sono rappresentati in un formato corporeo.
Il corpo è alla base della consapevolezza pre-riflessiva di sé e degli altri e il punto di partenza di ogni
forma di cognizione esplicita e linguisticamente mediata degli oggetti stessi.

L’utilizzo del brain imaging (tramite tecniche come l’elettroencefalografia ad alta densità, la
magnetoencefalografia e la Stimolazione Magnetica Transcranica che si affiancano all’fMRI), gli
studi sui deficit conseguenti a lesioni cerebrali studiati dalla neuropsicologia clinica e la registrazione
dell’attività di singoli neuroni in modelli animali consentono oggi di rivedere il sistema motorio del
lobo frontale del cervello, diviso originariamente in tre aree: l’area motoria primaria (F1), l’area 6 di
Brodmann e il lobo prefrontale.

Oggi l’area 6 è stata suddivisa in diverse aree distinte e si è scoperto inoltre che il sistema motorio
non produce solo movimenti ma soprattutto atti motori, cioè movimenti dotati di uno scopo, come ad
esempio afferrare un oggetto.

Gurteen e Bendin elementi che limitano la creatività


Gurteen oltre agli schemi mentali individua altri elementi che limitano la creatività:
• paradigmi: rappresentano la via attraverso la quale le persone percepiscono, comunicano e
osservano il mondo; a differenza degli schemi, agiscono a livello subcosciente. Li possiamo
immaginare come un’infrastruttura che include le teorie, i principi, i valori, le credenze e le dottrine
che modellano il nostro modo di pensare e di percepire il mondo;
• limiti dell’insegnamento: l’autore si riferisce ai metodi di insegnamento tradizionali, i quali non
permettono di sfruttare il potenziale di apprendimento dei giovani nella fase iniziale della loro vita,
in cui i blocchi sarebbero molto pochi o quasi assenti;
• conoscenza assoluta: errata concezione che non ci porta a rivedere il nostro sapere e le nostre
convinzioni. In realtà la conoscenza è soggetta ad un continuo cambiamento, al pari degli organismi
si evolve continuamente e come essi, può sopravvivere o perire, se non ha prodotto benefici.
• preoccupazioni, premi e punizioni: si riferisce alla paura di essere rimproverati e puniti; del resto se
si obbliga qualcuno ad essere creativo, promettendogli premi o punizioni, a secondo del risultato,
probabilmente la creatività verrà inibita;
• paura: è considerata una dei peggiori nemici della creatività, nonostante in alcuni casi questa stimola
la soluzione di situazioni particolarmente difficili, è risaputo che la stessa può provocare anche un
blocco totale dei sensi. In questo caso, dato che le idee creative sono il più delle volte singolari o
bizzarre, si corre il rischio di essere ignorato o mal giudicati e questo inibisce e disincentiva la
creatività;
• infanticidio: consiste nella tendenza a opprimere le nuove idee sul nascere.
Come i bambini, le nuove idee sono estremamente vulnerabili e hanno quindi bisogno di «genitori»
in grado di proteggerli e allevarli, offrendo loro la possibilità di svilupparsi;
• sovraccarico di informazioni: un tempo nel business la mancanza di informazioni rappresentava, un
grosso limite, oggi si è di fronte al problema opposto. Il problema è l’eccessiva fiducia nell’ottenere
nuove idee da una sola analisi e ricerca delle informazioni;
• giudizio: forte fattore inibitore della creatività, spesso sinonimi di critiche distruttive che sarebbe
preferibile sospendere e rimandare alla fine della valutazione. Goleman parla di «autocensura», di
«quel giudice interiore che costringe il nostro spirito creativo nei confini di ciò che riteniamo
accettabile» .

Uno studio più recente, di Bendin ha suddiviso i blocchi alla creatività in tre tipologie :

1. Blocchi emotivi: paura di sbagliare o di passare per stravaganti, paura di sentirsi isolato dagli altri,
arresto del pensiero per insicurezza all’apparire di un’idea originale, incapacità di andare oltre la prima
idea trovata, diffidenza di fronte ai superiori, ai colleghi, ai collaboratori, incapacità di rilassarsi e di
lasciarsi andare, desiderio patologico verso il conosciuto e la sicurezza, difficoltà a cambiare il modello
di pensiero, dipendenza eccessiva dall’opinione altrui, mancanza di risorse per passare dall’idea alla
sua realizzazione.
2. Blocchi culturali: desiderio di conformarsi ai modelli sociali, usare sempre il «no» di fronte alle nuove
idee, tendenza al “tutto o niente”, eccessiva fiducia nelle statistiche e nelle esperienze passate,
convinzione che sogno e immaginazione siano attività infantili, disagio nel giocare, precedenza ai
fattori pratici ed economici immediati, scarsa capacità di trasformare e modificare le idee, convinzione
che il dubbio sia socialmente sconveniente, eccessiva fede nella logica della ragione, esaltazione dello
spirito di gruppo che porta al conformismo.
3. Blocchi percettivi: incapacità di interrogarsi oltre l’evidenza, incapacità di distinguere tra causa ed
effetto, difficoltà a definire il problema, difficoltà a scomporre un problema in elementi base, difficoltà
a distinguere tra fatti e problemi, presentazione prematura di pseudo-soluzioni a problemi non ancora
definiti, incapacità di utilizzare tutti i sensi, difficoltà a percepire relazioni insolite tra idee e oggetti,
incapacità nel definire le cose, punti di vista troppo stretti, il ritenersi non creativi.
Ognuno di questi blocchi potrà suscitare una reazione differente a seconda delle peculiarità di ogni
individuo, una personalità forte, per esempio, potrà trarre dagli ostacoli una spinta aggiuntiva alla
produzione di idee; accadrà il contrario per un soggetto remissivo.
Una delle possibili soluzioni al problema del superamento dei blocchi sopra esaminati, potrebbe
consistere nel costituire un gruppo in cui si riducano al minimo gli attriti e in cui vengano valorizzate
le caratteristiche positive di ognuno. Del resto l’induzione e lo sviluppo della creatività non è un
processo solitario, ma un’attività formativa fondata sulla dialettica individuo-gruppo-organizzazione.

Duncker fissità funzionale


Il processo di scoperta può essere ostacolato, ritardato o addirittura troncato da quella che Duncker
definì fissità funzionale.
L’autore, sottoponendo alcuni soggetti a test ed esercizi di varia natura per valutare le capacità
creative di problem solving, scoprì con sorpresa, che usare una chiave inglese come fermacarte era
una soluzione proposta molto più frequentemente da una studentessa o da una casalinga piuttosto che
da un idraulico.
L’abilità di rompere il modo abituale di utilizzare gli oggetti risultava, inoltre, essere inversamente
proporzionale alla frequenza d’uso di tale oggetto. In sostanza siamo soggetti a fissità funzionale
quando, nella soluzione del problema, esordiamo con categorie a noi già note in
precedenza, soltanto perché riusciamo a manipolarle mentalmente con facilità.
Karl Duncker (1945) ha elaborato diversi test psico-attudinali sulla creatività. Egli chiese ai
partecipanti di un suo esperimento come potevano con una scatola di puntine da disegno, una candela
e una scatola di fiammiferi, fissare la candela alla parete in modo che non gocciolasse sul tavolo
sottostante. Duncker ha trovato che i partecipanti hanno cercato di attaccare la candela direttamente
al muro con le puntine. Pochissimi di loro ha pensato di utilizzare l’interno della scatola come
supporto da fissare al muro e riporci dentro la candela.

Questo perché, i partecipanti erano “fissati” sulla normale funzione della scatola di tenere puntine da
disegno e non riuscivano a ri-pensare la stessa in modo diverso.

Wiggin e McTighe il metodo a ritroso ed il metodo della narrazione


Grant Wiggins e Jay McTighe sostengono che spesso gli insegnanti iniziano a progettare partendo
dai libri di testo, dalle lezioni preferite, dalle attività consolidate nel tempo, invece di farle derivare
dagli scopi che ci si prefigge come meta. Secondo gli autori questo modo di procedere da manuale è
sbagliato, schematico, deduttivo. Da quindici – vent’anni la maggioranza degli esperti di didattica
generale ha fatto propria la proposta pedagogico didattica della progettazione a ritroso, e anche Le
linee guida del MIUR del Piano per la Formazione dei docenti 2016-2019 contengono un’indicazione
per la formazione degli insegnanti alla “programmazione a ritroso”. Abbiamo conseguentemente
analizzato con attenzione la proposta originaria leggendo i due volumi di Wiggins e McTighe Fare
Progettazione, quello teorico e quello pratico.
Al contrario Wiggins e McTighe in Fare Progettazione pensano che sia meglio iniziare dalla fine (i
risultati desiderati, gli obiettivi prefissati) per poi ricavare il curricolo dalle evidenze
dell’apprendimento (le prestazioni). La progettazione a ritroso di Wiggins e McTighe può essere
una via possibile per progettate un percorso di apprendimento verso le competenze.
Questo approccio alla progettazione viene definito a ritroso perché prevede che l’insegnante
pianifichi il percorso di apprendimento partendo dalla definizione di ciò che merita di essere appreso.
In realtà, si tratta di un approccio perfettamente in linea con il senso comune, ma è considerato a
ritroso rispetto alle abitudini convenzionali.

Il processo della progettazione a ritroso comprende tre fasi distinte: un fase iniziale di individuazione
dei risultati desiderati, una seconda fase di determinazione delle evidenze di accettabilità e una terza
fase conclusiva di pianificazione delle attività di istruzione:

1. Cosa gli studenti dovrebbero essere in grado di conoscere, comprendere e fare?


Cosa è meritevole di essere compreso in profondità? Quali comprensioni solide e durevoli si
desiderano?
2. Determinare evidenze di accettabilità Come sapremo se gli studenti hanno raggiunto i risultati
desiderati e soddisfatto gli standard?
Cosa accetteremo come evidenze della comprensione e della padronanza elevata degli studenti?
3. Pianificare esperienze di istruzione Quali attività forniranno le conoscenze e abilità necessarie? Cosa
sarà necessario, alla luce degli scopi, insegnare e quale il modo migliore di insegnarlo?
Quali sono i materiali più adatti a realizzare gli scopi?
1. La comprensione significativa
Dopo aver ricordato considerazioni di Bloom e Dewey, gli autori affermano che: in breve, ciò che
noi chiamiamo “comprensione” non è questione di “mera” semantica, ma di chiarezza concettuale.
Noi perfezioniamo la distinzione tra un’opinione superficiale o plagiata e la comprensione profonda
e giustificata della stessa idea. […] Considerate gli aggettivi che usiamo nel descrivere la
comprensione come “profonda”, “approfondita” rispetto a “superficiale”. La comprensione
“necessita di tempo e pratica”, le comprensioni si sviluppano, “si ottengono con grande sforzo”. Ne
consegue allora che la comprensione non è qualcosa di immediato, una questione del tipo “o la
raggiungi o non la raggiungi”, ma è questione di gradi. […] In tutte queste connotazioni si sottolinea
l’andare al disotto della superficie o raggiungere maggiori sfumature di significato e maggiore
perspicacia di giudizio.

Comprendere non significa solo la conoscenza di cose più difficili, ma anche la capacità di offrire
precisazioni e condizionali – di dire: “se … allora” e “a queste condizioni sì, ma a questo no” (ivi, p.
72). Gli autori, citando anche Gardner (1991), ricordano che la ricerca da molti anni mette in evidenza
il problema che anche a livello universitario, molti studenti, anche fra i migliori, sembrano aver
compreso, sulla base dei risultati dei test, ciò che è stato insegnato, ma in realtà, quando più avanti si
chiede loro di rispondere ad altre domande o di applicare i contenuti appresi, mostrano “comprensioni
errate” (ivi, p. 75).

La comprensione significativa, che viene ricondotta ad una tassonomia di sei aspetti:


1. spiegazione,
2. interpretazione,
3. applicazione,
4. prospettiva,
5. empatia,
6. autoconoscenza.
Ciascun aspetto viene a sua volta analizzato e ricondotto a più componenti. Sono presenti in questa
piccola enciclopedia della comprensione molti passaggi interessanti insieme a riflessioni e
conclusioni didattiche banalizzanti. In determinati casi è molto difficile comprendere la logica stessa
della tassonomia, che appare un po’ forzata.

Partiamo dal primo aspetto della comprensione, la spiegazione, che viene così definita:
«giustificazioni raffinate e appropriate, e teorie che forniscono rapporti ben informati di eventi,
azioni, idee» (ivi, p. 79). Per gli autori comprendere significa collegare tra loro fatti e idee e andare
oltre ciò che è conosciuto per fare inferenze e collegamenti. Richiamandosi a Dewey ne condividono
la visione, quando afferma che comprendere qualcosa «è vederla nelle sue relazioni con altre cose:
notare come opera o funziona, quali conseguenze ne conseguono, cosa la causa».

Dopo il richiamo a Dewey, gli autori esemplificano sul cosa significhi “una teoria che funziona”,
citando Galileo, Keplero, Newton e Einstein che avrebbero sviluppato una teoria capace di spiegare
il movimento di tutti gli oggetti fisici, dalle mele alle comete. Dal punto di vista epistemologico
l’esempio è calzante e rilevante, ma non si capisce la sensatezza didattica, visto che riguarda
l’insegnamento della fisica che dovrebbe essere realizzato nell’arco di tutta la scuola secondaria
superiore. Le riflessioni sono interessanti, ma spesso avulse da un qualsiasi contesto didattico.
Purtroppo questa irrilevanza in campo didattico delle riflessioni si rivela un tratto rintracciabile in
gran parte del testo ed è forse la sua debolezza maggiore.

2 L’interpretazione
Il secondo aspetto della comprensione significativa, l’interpretazione, è introdotto con le parole di
Bruner: «L’oggetto dell’interpretazione è la comprensione, non la spiegazione. Il comprendere è
l’esito dell’organizzare, in modo disciplinato, proposizioni essenzialmente contestabili e
incompiutamente verificabili. Uno dei quattro modi di farlo è attraverso la narrazione: narrando una
storia di-ciò-di-cui-qualcosa-tratta.
Per gli autori, l’interpretazione si realizza essenzialmente nella discussione all’interno delle classi:
«si manifesta in tutte le discussioni sui libri e sulle esperienze. La sfida dell’insegnamento è dare vita
ai testi rivelando, attraverso lo studio e la discussione, che il testo parla alla nostra vita e alle nostre
inquietudini. […].Gli atti dell’interpretazione sono più carichi di ambiguità dell’atto del costruire e
del testare una teoria. Le parole di un testo o di un oratore possono veicolare diversi ma validi
significati. […] Quindi spiegazione e interpretazione sono collegati ma diversi» (ivi, pp. 83-84).

Tuttavia, alla luce di richiami a Bruner e a Kuhn, si mette in evidenza come ci sia, pur nelladiversità,
una stretta connessione tra teoria e storia, tra spiegazione e interpretazione.
Infine, si perviene a una fondamentale conclusione didattica a favore del costruttivismo, distinguendo
tra “interpretazioni precostruite” e interpretazioni elaborate dagli studenti “attraverso lo studio e la
discussione”.

Questo costruire la narrazione è il vero significato del costruttivismo. Quando diciamo che gli studenti
devono dare loro stessi i significati, intendiamo dire che è controproducente – una comprensione
fittizia e falsa – usare ”interpretazioni” precostituite senza che siano loro stessi a elaborare il problema
per giungere a percepire valide tali interpretazioni e spiegazioni. Questa pratica promuove una finta
comprensione. L’insegnamento puramente didattico della interpretazione può facilmente condurre a
comprensioni errate e a conoscenze che poi si dimenticano. […] Un tale didattismo ha chiare
conseguenze per il nostro insegnamento se noi facciamo eccessivamente affidamento sui libri di testo,
i quali tendono a offrire la versione della storia e delle scienze (ivi, pp. 85-86).

1.3 L’applicazione
Il terzo aspetto della comprensione significativa, quello dell’applicazione, consiste nella
«capacità di usare le conoscenze efficacemente in nuove situazioni e in vari contesti» (ivi, p.
86). Per esso, la comprensione si ha quando si è in grado di utilizzare le conoscenze in nuovi contesti
e in nuove situazioni, quando si è in grado di applicarle in modo completamente diverso dalle
pseudoapplicazioni che si realizzano negli esercizi di riempimento degli spazi vuoti.
Il nesso costante che ci deve essere fra nuove acquisizioni e loro applicazione viene mostrato con le
parole di Dewey: «pratica ed esercizio sono amplificati nell’acquisizione di potere, senza prendere
però la forma di insignificanti esercizi di ripetizioni, bensì di pratica dell’arte. Essi avvengono come
parte dell’operazione del raggiungere un fine desiderato. […]
L’autentica educazione scolastica termina in disciplina, ma procede dal coinvolgere la mente in
attività degne e valide in se stesse» (ivi, p. 217).
Queste considerazioni ci sembrano didatticamente importanti; ma, riguardo anche al terzo aspetto
della comprensione, vi è una totale mancanza di riferimento a contesti scolastici precisi quando
vengono presentati approfondimenti quali, ad esempio, queste riflessioni di Bloom Madaus, &
Hastings: «I problemi dovrebbero essere il più possibile vicini alla situazione nella quale uno
studioso, un artista, un ingegnere ecc. affrontano un problema. Il tempo concesso, le condizioni di
lavoro ecc. dovrebbero allontanarsi il più possibile dalla tipica situazione controllata degli esami»
(ivi, p. 88).
Gardner: «Per comprensione intendo semplicemente la sufficiente capacità di afferrare concetti,
principi o abilità cosicché una persona li possa
richiamare per collegarli a nuovi problemi e a nuove situazioni […] A questo proposito, problemi
nuovi e poco familiari o attente osservazioni, costituiscono il modo migliore per stabilire il livello di
comprensione a cui lo studente … è pervenuto» (ivi, pp. 86-87, 89).

L’avere prospettiva
Di grande importanza ci sembra pure il quarto aspetto della comprensione significativa, quello
dell’avere prospettiva, che consiste nel saper rilevare «punti di vista critici, acuti ed espressione di un
buon intuito o di profonda penetrazione. […] Lo studente che ha prospettiva è vigile verso ciò che è
dato per scontato, supposto, trascurato o sorvolato in una ricerca o in una teoria. Prospettiva richiede
di rendere esplicite le assunzioni e le implicazioni
implicite»(ivi, pp. 89, 90). Si sottolinea, inoltre, riprendendo Gardner, che «La prospettiva come
aspetto della comprensione è un conseguimento maturo, una fuga dalle nostre convinzioni
egocentriche nel rendere sistematici diversi punti di vista» (ivi, p. 91).
Inoltre, gli autori condividono ciò era già stato proposto molto anni fa da Joseph Schwab: «il quarto
aspetto promuove l’idea che l’istruzione includa opportunità esplicite perché gli studenti si
confrontino con teorie alternative e con una varietà di punti di vista relativi alle grandi idee» (ivi, p.
92).
Tutta questa citazione riveste una grande portata educativa. Un punto debole risiede però nella
domanda iniziale: «perché gli studenti non sono aiutati a usare le stesse arti del linguaggio per
comprendere i libri di testo e le teorie in essi contenuti?». Domanda iniziale che è emblematica della
loro proposta didattica. Sembra che il nodo educativo fondamentale del conferire la vita a nozioni
aproblematiche, morte, sia possibile realizzarlo aiutando gli studenti a «usare le stesse arti del
linguaggio per comprendere i libri di testo e le teorie in essi contenuti».

Noi invece riteniamo che per comprendere cosa «stavano cercando di realizzare Euclide, Newton,
Jefferson, Lavoisier e Darwin», occorre progettare segmenti ampi del curricolo a questo scopo, e per
quanto riguarda Euclide, Newton, Lavoisier e Darwin pensiamo che questo sia indispensabile visto il
ruolo fondamentale svolto dalle loro teorie nella fondazione scientifica della matematica, della fisica,
della chimica e della biologia. Una nostra proposta curricolare di insegnamento della chimica nella
scuola secondaria superiore, ispirata ai principi richiamati da Wiggins e McTighe, prevede di dedicare
un anno del biennio all’insegnamento della chimica macroscopica classica che ha il suo centro nella
teoria lavoisieriana, per conoscere non solo le leggi, di per sé oggi quasi senza significato, ma proprio
per comprendere «che cosa stava cercando di realizzare Lavoisier» con il suo contributo scientifico
(Fiorentini, Aquilini, Colombi, Testoni 2007).

Empatia e autoconoscenza
Il quinto e il sesto aspetto della comprensione significativa sono l’empatia e l’autoconoscenza.
L’empatia, la capacità di mettersi nei panni di un altro, di prendere le distanze dalle proprie reazioni
emotive per cogliere quelle dell’altro, è centrale nel significato più comune attribuito al termine
comprensione. […] .Theodor Lipps, ha coniato il termine empatia alla svolta del ventesimo secolo
per descrivere ciò che gli spettatori devono fare per comprendere un’opera d’arte o una
rappresentazione.
L’empatia è l’atto intenzionale del trovare ciò che è plausibile, sensibile o significativo nelle idee e
nelle azioni altrui. Persino quando sono assai strane o sconcertanti. […] Tutti i grandi traduttori e
storici hanno bisogno di empatia. “Se ridiamo mettendo in ridicolo” le teorie dei nostri predecessori,
come sostiene
l’antropologo Jay Gould, non riusciremo a comprendere il loro mondo ((Wiggins e J. McTighe 2004a,
pp. 93, 94).
A conferma di ciò, nel testo di Wiggins e McTighe si riprendono le considerazioni di Kuhn sulla
lettura delle opere di Aristotele. Kuhn mette in evidenza che quando si leggono testi di grandi autori
e si trovano affermazioni apparentemente assurde, è importante chiedersi il perché siano state scritte.
Questo atteggiamento potrebbe portare ad attribuire loro un significato molto diverso dalla lettura
iniziale.

Da tutte queste considerazioni discendono condivisibili proposte didattiche: «Per garantire una
maggiore comprensione delle idee astratte, gli studenti devono avere la possibilità di farne esperienza,
in modo diretto o simulato – cosa che non è prevista dalla maggior parte dei programmi o dei corsi
basati essenzialmente sui libri di testo. L’apprendimento deve essere più esperienziale, maggiormente
orientato a far in modo che i ragazzi si confrontino direttamente con gli effetti – e gli affetti – di
decisioni, idee, teorie e problemi. La mancanza di esperienze nell’apprendimento forse spiega perché
così tante idee importanti vengono fraintese e gli apprendimenti sono alquanto incerti, come rilevano
gli studi sulla comprensione erronea» (ivi, p. 95).
Riprendiamo, infine, alcuni passaggi sul sesto aspetto, l’autoconoscenza, ritenuto un aspetto
fondamentale della comprensione.

La conoscenza di sé è un aspetto fondamentale della comprensione perché esige che tutti noi
mettiamo in discussione, in modo auto consapevole, le nostre opinioni, per promuoverle e farle
progredire. Ci chiede di possedere la disciplina per cercare e trovare gli inevitabili punti deboli,
pregiudizi o sbagli e sviste del nostro modo di pensare, e il coraggio di affrontare i problemi che si
nascondono dietro a effettive abitudini, a un ingenua fiducia di sé, a opinioni forti e radicate e a
giudizi sul mondo. Quando parliamo di contenuti delle “discipline di studio”, un tale coraggio una
tale perseveranza costituiscono le fonti essenziali della comprensione razionale che si oppone alla
convinzione dogmatica. […]. Tuttavia le idee espresse in questo libro suggeriscono quanto sia
necessario dedicare maggiore attenzione all’autovalutazione delle capacità filosofiche che rientrano
sotto il titolo di “epistemologia” – quella branca della filosofia che indaga su ciò che significa
conoscere e comprendere, e come le conoscenze si distinguano dai credo.

Qualche libro che può essere citato – Riepilogo di concetti – Riassunto


CREATIVITA’ altri autori e libri
Il brainstorming di Alex Osborn
La tecnica dei sei cappelli di Edward de Bono
La Mappa mentale di Tony Buzan
Le carte creative di Nicola Piepoli di Huber Jaoui di Matteo di Pascale
Bendin M., Creatività. Come sbloccarla, stimolarla, svilupparla e viverla, Mondadori, Milano,
1990.
Storr A., tr. it. La dinamica della creatività, Astrolabio, Roma, 1973.
Testa A., La creatività a più voci, Laterza, Bari, 2005.
Testa A., La trama lucente – Che cos’è la creatività perché ci appartiene come funziona, Rizzoli,
Milano, 2010.
MAIER – creatività interagire in modo flessibile con l’ambiente
 Munari B., Fantasia. Invenzioni, creatività e immaginazione nelle comunicazioni visive, Laterza,
Bari, 1977.
 Nettle D., tr. it. Immaginazione, pazzia e creatività, Giunti, Firenze, 2005.
 Neumann E., tr. it. L’uomo creativo e la sua trasformazione, Marsilio, Venezia- Padova, 1975.
 Osborn A. F., tr. it. L’immaginazione creativa, Franco Angeli, Milano, 1967.
 Pagnin A., Vergine S., Il pensiero creativo, La Nuova Italia, Firenze, 1974.
 Pagnin A., Vergine S., La personalità creativa, La Nuova Italia, Firenze, 1977.
 Powell T. J., tr. it. L’apprendimento creativo, Giunti-Barbera, Firenze, 1974.
 Rank O., tr. it. L’Artista. Approccio a una psicologia sessuale, Sugarco, Milano, 1986.
 Ricoeur P. (a cura di), tr. it. Saggi sulla Creatività, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1977.
 Rodari G., Grammatica della fantasia, Einaudi, Torino, 1973.
 Rogers C., tr. it. Libertà nell’apprendimento, Giunti, Firenze, 1973.
 Rosati L., (a cura di), Creatività e risorse umane, La Scuola, Brescia, 1997.

SEZIONE 2 – IL PENSIERO DIVERGENTE E LA CREATIVITÀ’


Pensiero divergente e creatività
La creatività è un concetto familiare eppure stranamente elusivo. Usiamo questa parola in modo
diversi. Nelle selezioni al TFA sostegno la creatività rappresenta una dei punti centrali del bando di
selezione.

Chi, cosa e come stimolare la creatività ed i principali studi, sono oggetto di specifica verifica.
I candidati devono interrogarsi su cosa significa e cosa si intende per essere creativi. Qui si parla non
della creatività con la C maiuscola dei grandi geni ed artisti o inventori, ma si parla di cos’è nel
quotidiano la creatività.

Uno degli approcci di problema consiste nel vedere la creatività come un modo particolare di pensare,
un modo di pensare che implica originalità e fluidità, che rompe con i modelli esistenti introducendo
qualcosa di nuovo.

Per J.P.Guilford il pensiero divergente è connesso all’atto creativo. Guilford, asseriva che il
pensiero divergente è la capacità di produrre una gamma di possibili soluzioni per un dato problema,
in particolare per un problema che non preveda un ‘unica risposta corretta.
L’apprendimento è per definizione un atto creativo. La persona che apprende destruttura, mastica la
materia trasmessa dal professore, l’assimila e la ricostruisce secondo le proprie strutture mentali.
Dunque un modello didattico per essere efficace dovrebbe ricalcare questo processo di
metabolizzazione e le tecniche creative sono particolarmente utili per sviluppare le abilità di imparare
ad apprendere.

“Se gli uomini si dividono in due gruppi: quello della ristretta élite di persone predestinate che hanno
ricevuto alla nascita in regalo il potere della creazione, e quello della massa immensa destinata alla
contemplazione del genio irraggiungibile e alla semplice utilizzazione dei suoi prodotti, l’umanità
avrà delle difficoltà nel progredire. Se al contrario la creatività è una funzione universale,
potenzialmente presente in ogni individuo, allora la realizzazione di questa funzione diventa un
problema di educazione”.
(R. Golton, C. Clero, L’activité créatrice chez l’enfant)
È facile rendersi conto che una simile capacità ha probabilmente un ruolo nell’atto creativo,
ovviamente ci aspettiamo che un atto creativo riporti anche l’impronta dell’originalità, ma anche in
questo caso il pensiero divergente avrà un suo ruolo, poiché più ampia sarà la gamma di possibilità
che siamo in grado di produrre, più alta sarà la probabilità che una di esse dia prova di originalità.

Questo è probabilmente vero ed è sempre un esercizio interessante chiedere ai bambini di guardare


alcuni item di un test di intelligenza (in particolare quelli del tipo “Metti in evidenza l’elemento
estraneo”) e vedere se per ognuno riescono a trovare spiegazioni a più di una soluzione accettabile.

Anche negli stessi test del TFA, si chiede di pensare in modo divergente piuttosto che convergente e
i risultati potrebbero essere in un certo senso sorprendenti per chi costruisce test di intelligenza.

Il problem solving creativo fa riferimento alla capacità di trovare soluzioni alternative ad un


problema. Sebbene per alcuni si tratta di un’abilità individuale, esistono delle tecniche di pensiero
che aiutano ad adottare molteplici prospettive. Un problema può essere definito come una questione
da risolvere partendo da una serie di dati iniziali noti che vengono combinati attraverso il
ragionamento, in modo più o meno innovativi.

Vediamo uno schema riassuntivo del problem cioè passaggi n ella risoluzione dei problemi:
1. problem finding: individuazione della presenza di un problema;
2. problem setting: definizione del contesto entro cui si iscrive il problema;
3. problem analysis: analisi delle componenti del problema;
4. problem solving: creazione delle possibili soluzioni;
5. decision making: presa di decisione;
6. decision taking: messa in atto della decisione.
Tuttavia dipende dall’applicazione pratica, il pensiero divergente non è superiore a quello
convergente, 1+1 faràù sempre due nel campo della matematica, o che sbagliamo nel dedicare a
quest’ultimo così tanto tempo nelle scuole. Spesso il pensiero convergente si adatta meglio a un
problema particolare e inizialmente dovremmo quindi considerare il pensiero divergente come
complementare a quello convergente, invece di istituire fra i due tipi di pensiero una sorta di
competizione.

Ciò che Guilford e altri tentarono di dimostrare è che dando rilievo al pensiero convergente, siamo
stati inclini a trascurare completamente il pensiero divergente e di conseguenza non abbiamo fatto
abbastanza per l’insegnamento (o lo sviluppo) della creatività nelle scuole.

Creatività, pensiero divergente ed orientamento agli studi ed alle scelte dei curricula
La creatività e la scuola da Guilford a Bruner – Creatività ed attitudini.
Alcune ricerche, hanno mostrato che gli alunni che hanno un alto grado di divergenza tendono a
specializzarsi nelle arti e quelli con un alto grado di convergenza nelle materie scientifiche. Ciò può
essere dovuto principalmente all’incoraggiamento e alle opportunità piuttosto che a qualcosa di insito
in una delle due discipline scolastiche in questione o negli alunni stessi.

Pensiero divergente connessioni con le Scienze Umane e Sociali


Pensiero convergente connessioni con Materie Scientifiche
Si tende a far percepire agli studenti di materie scientifiche, che a questi sia permesso agire meno
spesso in modo divergente rispetto agli studenti di arte, perché le discipline che essi studiano sono
ritenute essere meno soggettive (forse meno «d’ispirazione») di quelle seguite nei licei artistici e nelle
accademie delle belle arti.

Quando agli studenti di scienze vengono forniti esempi di ciò che si intende con pensiero divergente,
i loro punteggi nei test sul pensiero divergente mostrano un miglioramento immediato. Presumendo
che tali test siano una buona misura della creatività, questo indicherebbe che gli studenti di materie
scientifiche non mancano di capacità creativa ma semplicemente che necessitano dell’incentivo per
estrinsecarla.

Gli insegnanti devono incoraggiare il pensiero divergente negli studenti e sfruttarle quando si
presentano. Bruner sostiene che nell’ambito dell’educazione tendiamo a ricompensare solo le risposte
«giuste» e a penalizzare quelle «sbagliate».

Questo rende i bambini riluttanti ad azzardare soluzioni nuove o originali nella risoluzione di un
problema, dato che le probabilità di sbagliare in questo caso diventano inevitabilmente maggiori.

In altre parole essi non vogliono correre rischi. Tuttavia il salto immaginativo, la produzione di una
risposta diversa da quella convenzionale, la prontezza ad assumersi quelli che potrebbero essere
chiamati i rischi conoscitivi sono inscindibili dallo sforzo creativo. L’insegnante dovrebbe essere
preparato ad agire in un’atmosfera in cui tale sforzo sia incoraggiato e ricompensato piuttosto che in
un clima educativo dove vengano approvate soltanto le soluzioni caute e convergenti.

Questo non significa certo che non teniamo in considerazione l’accuratezza o la precisione. Si ricordi
che l’atto creativo implica la verifica/valutazione. La soluzione deve essere verificata per vedere se
funzionerà; se fallisce deve essere scartata, anche se il bambino può nondimeno essere lodato per lo
sforzo immaginativo compiuto. E anche questo fallimento può essere apportatore di nuove idee che
possono poi essere verificate ed eventualmente condurre alla soluzione desiderata.

⇒ Secondo Bruner invece il pensiero creativo è olistico (produce cioè risposte che hanno
un’ampiezza superiore alla somma delle loro parti), mentre il pensiero razionale e convergente
è algoritmico (produce cioè risposte che sono inequivocabilmente esse stesse). Entrambi i tipi di
pensiero hanno un loro ruolo fondamentale, ma dovrebbero essere utilizzati per completarsi e
sostenersi a vicenda e non venire in un certo senso considerati come reciprocamente
incompatibili.
⇒ Secondo Getzels e Jackson coloro che hanno un alto grado di divergenza sarebbero meno
benvoluti dagli insegnanti rispetto a quelli con un alto grado di convergenza, può ancora essere
ritenuta valida. Le scuole hanno le loro regole e regolamenti, i loro modelli di procedura e di condotta
e spesso il bambino conformista riesce a convivervi in maniera più serena di quello non conformista
e molto fantasioso.
Inoltre le idee divergenti possono essere spesso originali e di valore, ma possono anche essere
stravaganti e sciocche, inducendo l’insegnante a sospettare che il bambino stia soltanto “facendo il
furbo”.

Sfortunatamente (o fortunatamente) la creatività è una cosa imprevedibile e noi non possiamo


pretendere che si estrinsechi sempre in una forma adatta alle circostanze del momento.

Omettendo una simile osservazione l’insegnante corre il rischio di reprimere le idee buone assieme a
quelle non proprio buone e di dare alla classe l’impressione che l’originalità semplicemente non sia
benvenuta quando si manifesta.

L’insight e le 5 fasi della creatività come meta-competenza


L’educazione alla creatività deve far parte di percorsi formativi, in quanto rappresenta un
sapere meta-disciplinare e multidisciplinare, che si stimola mediante il contatto tra saperi e
conoscenze differenti, tra diversi saperi e la possibilità di trasferire, da un contesto all’altro, contenuti,
tecniche e linguaggi. La creatività è una competenza trasversale.

La creatività è una competenza trasversale a tutti gli ambiti/temi dello scibile umano: essa non
rappresenta una competenza specifica ma compenetra tutta la vita degli esseri umani e diviene
necessaria anche per l’evoluzione della specie.

L’abilità di innovare rappresenta una prospettiva di appagamento sia materiale che psicologico della
persona. La dimensione creativa contraddistingue l’essere umano, a prescindere dal suo bagaglio
culturale, di formazione, di genere o di posizione lavorativa ed è di strategica rilevanza saperlo
coltivare per uno sviluppo armonioso, per l’equilibrio della mente e per il benessere psicofisico
dell’individuo. L’importanza dell’educazione della creatività in ogni fascia di età, troppe volte è
limitata al solo ambito della scuola primaria. Da tempo si rimarca la strategicità di opzioni e
metodologie alternative nei processi di insegnamento, osservando la necessità di implementare questa
capacità in tutti gli individui, anche in chi abbisogna di metodi alternativi per difficoltà
nell’apprendimento attraverso il classico insegnamento, come ad esempio, gli alunni con Bisogni
Educativi Speciali (BES).

Ecco le 5 fasi del processo creativo:

1. la preparazione, contraddistinta da grande curiosità e ricerca/analisi di informazioni;

2. l’incubazione, “spazio oscuro” dove sono elaborate e analizzate le informazioni raccolte;

3. l’insight (o intuizione) che si verifica quando i pezzi del “puzzle” trovano la loro
collocazione/sistemazione;
4. la valutazione, fase in cui si decide se l’intuizione è “preziosa” e se vale la pena perseguirla, essa
rappresenta (spesso), la parte più emozionante/emozionale del processo;
5. l’elaborazione del prodotto, processo nel quale intervengono importanti elementi come
l’esperienza personale e la pressione sociale.

La grande curiosità è spesso determinante e spinge “l’individuo creativo” ad interessarsi a determinate


tematiche/problematiche e le idee migliori nascono trapiantate dalla prospettiva di innovare. La
pressione sociale contribuisce notevolmente: ad esempio una limitata disponibilità economica può
frenare il processo, come anche una situazione politica avversa.

Possiamo considerate la creatività è considerata come l’insieme di differenti fattori che insieme
interagiscono nell’intero processo, con la convinzione che il risultato non è definito dalla somma dei
singoli fattori, ma dalla sinergia realizzata dall’azione di tutti gli elementi.

La competenza è una caratteristica intrinseca dell’individuo che definisce in modo causale una
performance/prestazione adeguata in un’attività all’interno di un ambiente.

Essa è composta da: motivazioni, tratti, ruoli sociali, immagine del sé, conoscenze e abilità.

La creatività è sia innata nell’individuo, ma è anche considerata una metacompetenza in quanto si


adottano contemporaneamente differenti abilità, essa quindi non può essere considerata al pari di altre
abilità utilizzate per risolvere problemi.

La creatività è quindi sostanzialmente un atteggiamento/comportamento, una consuetudine mentale,


un modo di osservare le situazioni e le problematiche del mondo.

La creatività combina ed organizza capacità logiche con un comportamento pragmatico e finalizzato


al raggiungimento dell’obiettivo. La creatività è contraddistinta dalla consapevolezza di come
generare il cambiamento e dalla libertà di gestirlo verso target specifici, mentre il caso non è creativo
ma reattivo.

Creatività e psicoanalisi: Jung e Freud


Abbiamo visto, come secondo le attuali ricerche nella psicologia generale, la creatività è un attività
educabile, e dipende da modalità diverse di intelligenza e pensiero.
In tal senso, la creatività è una modalità del pensiero cognitivo. Secondo molti studi su cervello
umano, la creatività si trova nell’emisfero destro del nostro cervello che, a differenza del sinistro,
improntato ad uno stile di pensiero logico-razionale, analitico e procedurale. Con la psicoanalisi
la creatività trova invece un altro luogo figurato dove trova fondamento, l’inconscio.
La creatività quindi per la psicanalisi trova terreno fertile nell’inconscio.
Se la creatività è educabile se si trova nei processi cognitivi della mente, fino a quel momento
considerata facoltà di pochi, è divenuta una capacità che potenzialmente ogni individuo possiede, se
invece ha sede nell’inconscio, l’unica cosa da fare è tirarla fuori.

Per lungo tempo, vi è stata l’idea che per essere creativi bisognava essere folli, e che il genio fosse
sempre folle o ancora che l’atto creativo e l’opera artistica traggono origine dalla nevrosi e dalla
malattia mentale dell’artista, concezioni oggi considerate superate. Non vi è pertanto separazione
tra conscio ed inconscio, tra normale e patologico, tra umano e divino, sia inesistente.
Innovazioni di prodotto o di contenuti come direbbe Guilford spesso coincidono anche con
innovazioni sulle forme di vita. La creatività come un atto sintetico e simbolico e non un sintomo
distruttivo, ecco quanto propone Freud. Per Sigmund Freud, l’atto creativo è il risultato di un
processo di mediazione fra richieste e vincoli della realtà esterna e esigenze e desideri interni che,
non potendo trovare immediata gratificazione, verrebbero “sublimati” – ovverosia spostati e
soddisfatti diversamente – attraverso l’atto creativo invece di dar luogo a sintomatologie e disagi
psichici. Ha sostenuto che il piacere prodotto dal motto di spirito è analogo a quello che si verifica
nella fruizione dell’ opera d’ arte e ha ipotizzato l’esistenza di un “piacere preliminare” o “premio
di seduzione”.
Il bisogno umano di creare, e di creatività, e di creazione, assumono per Freud, una sorta di via di
mezzo tra la pulsione erotica e la pulsione di morte, tra Eros e Thanatos, l’atto creativo rappresenta
anche la soddisfazione del desiderio, l’incoscio fuoriesce nell’atto di creazione artistica. La
sublimazione fa parte di quelle difese dell’Io che lo stesso Freud analizzò, e permette la scarica di
quelle pulsioni in azioni o attività socialmente accettabili

Freud poi inserisce anche la creatività nel rapporto tra sogno ed opera d’arte, considerata un sogno
condiviso dall’artista con lo spettatore. L’atto creativo però è anche il luogo del desiderio
insoddisfatto, dove le forze propulsive della sua fantasia. Come il riso nel motto di spirito deriverebbe
dal piacere legato alla liberazione delle energie usate per il mantenimento della rimozione, il piacere
legato alla fruizione di un opera d’ arte e connesso analogamente ad un compiacimento nel godere
impunemente delle proprie pulsioni e desideri inibiti, attraverso un’identificazione con l’artista.
Per Freud i soggetti che presentano un alto tasso di creatività, hanno più facilmente accesso
all’inconscio e quindi al suo materiale, entrandovi in contatto senza “senza rimprovero e senza
vergogna”, gestendo nel modo migliore la relazione tra gli impulsi dell’Es e l’Io.
Diversa e complessa invece la creatività per Carl Gustav Jung e la psicologia analitica.
Per Jung esiste un inconscio collettivo e dei suoi simboli attualizzanti nella psiche, considera la
creatività una della massime funzioni sintetiche della psiche mediante la quale è possibile sfruttare
tutte le facoltà della mente (intuizione, intelletto, sentimento e percezione) e integrare le energie e le
forze opposte che la animano per condurla verso l’individuazione e la realizzazione del sé. Per Jung
la creatività è connessa alle immagini simboliche e alle forze sintetiche e generatrici della psiche,
gli archetipi dell’inconscio collettivo, a cui il creativo attinge in quanto contenuti figurativi,
simbolici e affettivi emergenti dai sogni e dalla fantasia.
Jung propose anche il concetto di SÈ CREATIVO, il Sè Creativo si fa normalmente riferimento alla
tendenza all’autorealizzazione presente in ogni uomo:
1. la condotta,
2. indirizza le scelte di vita,
3. dà coerenza alla personalità,
4. mira a fondere in una sintesi armonica l’aspirazione alla libertà individuale con le esigenze della vita
sociale.
La scuola italiana degli studiosi della creatività (ESLUSIVA ORIGINE):
Negli ultimi anni le prove preselettive del TFA sostegno danno sempre maggiore importanza a TEORICI
CONTEMPORANEI e teorici ITALIANI della creatività. Solito modello lista con Nome ⇒ Concetto
fondamentale

La scuola italiana e gli studiosi della creatività: Gentile, Amabile ed


Arieti
La scuola italiana e gli studiosi della creatività: Gentile, Amabile ed Arieti

Mentre fino al termine degli anni Ottanta la maggior parte degli studiosi si focalizza sulla creatività
delle persone eminenti, la grande C, la grande creatività o Big C, a partire da quel periodo molti
ricercatori (Richards, Bennet, Runco, Sternberg, Amabile) cominciano a interessarsi alla creatività
che ciascuno di noi può esprimere ogni giorno: è la creatività quotidiana. Se pensiamo invece al
filosofo-pedagogo ad esempio Andrea Gentile formula il concetto di “intuizione creativa” questa
sembra essere un qualcosa riservata a pochi.
Primo elenco di studiosi della creatività intesa come attività umana educabile ed insegnabile.

Sono autori americani per lo più come abbiamo visto e vedremo.

1. Richards, 2. Bennet, 3. Runco, 4. Sternberg


Ma vi sono anche autori italiani che hanno studiato la creatività:

1. Gentile, Arieti, Amabile, Renzulli e Mencarelli

Le teorie e i modelli presentati fino ad ora hanno preso in considerazione l’esistenza di un legame tra
creatività e intelligenza, sia in termini di inclusione del potenziale creativo nell’intelligenza che
viceversa. Le diverse posizioni degli autori presentate si fermano però a ipotizzare uno specifico della
creatività, numerosi autori hanno cercato di regolamentare il campo d’indagine in modo da
chiarificare le premesse scientifiche alla base dello studio della creatività (si vedano ad esempio,
Hennessey & Amabile, Lubart; Runco; Sternberg).

Ad esempio, da un’analisi fatta da Runco and Jaeger nella parte introduttiva di quasi tutti gli articoli
pubblicati sulla creatività si può ritrovare una definizione di creatività che nella maggior parte dei
casi si riferisce a citazioni di articoli o libri degli anni novanta, o nel migliore dei casi degli anni
ottanta.

La realtà dei fatti è che tali definizioni sono derivate da una definizione del costrutto che ha una storia
molto meno recente e secondo la quale la creatività richiederebbe un buon bilanciamento tra
originalità e utilità (Runco, 1988).

1 Andrea Gentile – l’intuizione creativa e la soglia creativa


Negli ultimi anni le prove preselettive del TFA sostegno danno sempre maggiore importanza a
TEORICI CONTEMPORANEI e teorici ITALIANI della creatività e come vedremo nei
prossimi moduli teorici anche per l’ambito EMPATIA ed emozioni.
Per Andrea Gentile, filosofo contemporaneo, la creatività assume una funzione particolarmente
significativa in rapporto ai nostri processi cognitivi, come la percezione, l’intuizione, il pensiero
analogico, la simulazione, l’associazione di idee, la ricerca nel contesto di un problema strutturato, la
rielaborazione personale, il pensiero critico.

Gentile insiste anche sulla natura particolare (abbiamo visto la Teoria del Flow precedentemente) di
simultaneità, istantaneità e immediatezza del processo intuitivo-creativo della mente. La creatività si
può manifestare come ritrovamento o scoperta, come potrebbe fare un archeologo o un viaggiatore
che trovi, scopra o sveli una realtà esistente in precedenza. La creatività si può presentare anche come
una improvvisa illuminazione che può ricevere l’artista, lo scienziato, il ricercatore, in virtù della
quale intuisce in modo immediato una verità, rimasta segreta e nascosta fino a quel momento.
La domanda a cui cerca di rispondere nel suo libro Andrea Gentile, L’intuizione creativa, è che cos’è
la creatività? Perché nel corso della vita le nostre potenzialità creative rimangono spesso nell’ombra
o si esprimono? Sullo sfondo di un’analisi comparativa tra le diverse interpretazioni e teorie sulla
creatività, l’autore focalizza la sua ricerca sui processi mentali che sono all’origine delle intuizioni e
«illuminazioni» creative. La creatività assume una funzione particolarmente significativa in rapporto
ai nostri processi cognitivi, come l’intuizione, la percezione, il pensiero analogico, la simulazione,
l’associazione di idee, la ricerca nel contesto di un problema strutturato, la rielaborazione personale,
il pensiero critico.
Nella sua natura più autentica questa improvvisa illuminazione si caratterizza nella sua istantaneità,
immediatezza, puntualità e simultaneità dell’atto intuitivo della nostra soggettività.
In una società in costante trasformazione tecnologica e scientifica, è necessario rielaborare l’orizzonte
cognitivo sotto un profilo creativo, personale e critico. E non solo una creatività artistica ma anche
scientifica e nelle scienze naturali. Egli come vedremo, ripropone il concetto di intuizione creativa si
caratterizza nella sua istantaneità, simultaneità, immediatezza: questo processo è molto frequente
negli orizzonti cognitivi in cui il nostro io crea connessioni con le strutture del profondo e, per le
modalità del suo articolarsi, è detto “prelogico”.
La creatività è la base dell’innovazione: non esiste innovazione senza idee e intuizioni creative.
1. Rapporto tra creatività ed identità
La creatività emerge come capacità di esprimere ciò che si è (l’essere se stessi), mediante il pensare,
l’intuire, l’agire, dove l’«essere se stessi» viene intesa come una dimensione profonda e autentica
della nostra soggettività, costituita da emozioni, sentimenti, intuizioni, affetti, vissuti, bisogni,
pulsioni, desideri: in una parola il suo mondo vitale.

2. Concetto di soglia creativa.


In questo orizzonte, la creatività apre il campo di ricerca alla correlazione semantica e dinamica tra il
concetto di “soglia creativa” e di “intuizione creativa”. Il significato che caratterizza e contrassegna
nella sua autenticità il concetto di “soglia creativa” è la presenza di una “linea-limite” o di un “punto-
limite” che caratterizza un rapporto non di divisione, ma di distinzione-relazione tra gli elementi
interni ed esterni ad essa. La soglia si costituisce come una “linea-limite” di distinzione-relazione tra
le due regioni sdoppiate al di qua e al di là di essa. L’estendersi delle soglie comporta il moltiplicarsi
di zone di confine da definire o da superare.

Già la sola presenza di una soglia ha un valore simbolico: rispetto ad essa le decisioni che si prendono
hanno dei significati e dei valori che cambiano nei diversi contesti e campi di riferimento. La soglia
chiama in causa la nostra soggettività in tutta la sua complessità e autenticità; la soglia è sempre soglia
“di” qualcosa “per” qualcuno. L’autenticità, unicità e originalità del concetto di “soglia creativa” ci
porta a non determinare confini assoluti.

I “limiti” della ragione non sono “confini” o “barriere” invalicabili, ma sono limiti “problematici”,
che non possono essere determinati in modo rigorosamente necessario e definitivo secondo una
conoscenza schematica, analitica e sintetica. Interpretando la soglia nella sua complessità, nella sua
realtà, nella sua autenticità e dinamicità possiamo riconoscere che ogni ordine che vige a partire da
una certa “soglia creativa” non può che pensarsi a partire dall’azione della soglia stessa.

Non avendo però la soglia luogo se non all’interno di un movimento, non possiamo non analizzare
l’“essere sulla soglia” se non in rapporto alla soggettività e all’individualità di chi la mette in atto.
Questo mondo vitale, in quanto vivo, autentico, dinamico, consente la messa in atto di percezioni,
intuizioni creative, pensieri creativi che sono connaturati in questo orizzonte della nostra soggettività
in continua espansione.

L’intuizione creativa è un aspetto fondamentale nei processi cognitivi perché permette di migliorare
la comprensione delle situazioni problematiche, ipotizzare e trovare soluzioni alternative, originali e
innovative. In una società in costante trasformazione tecnologica e scientifica, è esigenza inderogabile
creare, intuire, pensare in anticipo, rielaborare l’orizzonte cognitivo sotto un profilo creativo,
personale.
L’intuizione creativa si caratterizza nella sua istantaneità, simultaneità, immediatezza: questo
processo è molto frequente negli orizzonti cognitivi in cui il nostro io crea connessioni con le strutture
del profondo e, per le modalità del suo articolarsi, è detto “prelogico”. Diversamente dall’intuizione
creativa, il pensiero logico utilizza gli strumenti logico-razionali, giustificando ad ogni passaggio gli
impianti operativi che utilizza in un orizzonte logico-formale-razionale. L’intuizione creativa è un
aspetto fondamentale nei processi cognitivi perché permette di migliorare la comprensione delle
situazioni problematiche, ipotizzare e trovare soluzioni alternative, originali e innovative.
Diversamente dall’intuizione creativa, il pensiero logico utilizza gli strumenti logico-razionali,
giustificando ad ogni passaggio gli impianti operativi che utilizza in un orizzonte logico-formale-
razionale.
Per riuscire ad essere fluidi nell’orizzonte creativo del nostro io, dobbiamo rinunciare ad orientarci
esclusivamente in funzione del pensiero «logico-razionale-lineare» per inoltrarci nell’orizzonte
«analogico-intuitivo-reticolare».

Gentile, ritorna sul rapporto tra pensiero Verticale e Pensiero laterale e sulla distinzione di fondo tra
il “pensiero verticale” (Vertical Thinking) e il “pensiero laterale” (Lateral Thinking).
Il pensiero «logico-razionale-lineare» è un pensiero orizzontale. Un solo filo conduttore, in una catena
di cause ed effetti ci porta da un elemento all’altro in una serie consequenziale. Un effetto che non
può essere attribuito ad una causa della catena considerata viene isolato e identificato come facente
parte di un altro sistema. Questo orizzonte di ricerca determina

Il pensiero “laterale”, infatti, sembra “illogico” in termini della logica tradizionale, ma segue in realtà
un’altra logica: quella dell’intuizione creativa. Il pensiero laterale trae dunque origine dai meccanismi
dell’intuizione: ci consente di identificare i binari predefiniti su cui si muove il pensiero verticale per
trovare nuove strade e nuovi orizzonti cognitivi.

Il pensiero verticale è il pensiero logico: selettivo (nel senso che seleziona le idee)
Il pensiero laterale è generativo, creativo, intuitivo.

Il secondo e non il primo ha cioè il compito di generare nuove idee, nuovi concetti. Il pensiero
verticale è logico e sequenziale, mentre il pensiero laterale è esplorativo, intuitivo e creativo.

La creatività emerge come capacità di esprimere ciò che si è (l’essere se stessi), mediante il pensare,
l’intuire, l’agire, dove l’«essere se stessi» viene intesa come una dimensione profonda e autentica
della nostra soggettività, costituita da emozioni, sentimenti, intuizioni, affetti, vissuti, bisogni,
pulsioni, desideri: in una parola il suo mondo vitale. Questo mondo vitale, in quanto vivo, autentico,
dinamico, consente la messa in atto di percezioni, intuizioni creative, pensieri creativi che sono
connaturati in questo orizzonte della nostra soggettività in continua espansione.

La creatività coinvolge non solo il profilo cognitivo e metacognitivo, ma anche l’orizzonte affettivo-
motivazionale della nostra soggettività, costituito da sentimenti, intuizioni, emozioni, bisogni,
pulsioni, passioni, desideri.
2 Rodari e la “Grammatica della fantasia” e l’errore creativo
Gianni Rodari è stato uno scrittore di storie per bambini, ma anche un pedagogista ed un maestro egli
stesso.

La creatività, secondo Gianni Rodari, è una capacità comune a tutti.


Il processo creativo è insito nella natura umana ed è quindi, con tutto quel che ne
consegue di felicità di esprimersi e di giocare con la fantasia, alla portata di tutti. […]
Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo.
Così scriveva nel suo testo: “Grammatica della fantasia”. Pedagogo ma anche scrittore e poeta
di favole, Rodari cerco l’adulto nel bambino, allo stesso tempo stimolando il bambino nell’adulto,
mentre rifletteva, in modo giocoso, sulla contemporaneità.
La Grammatica della fantasia è in qualche modo un resoconto degli studi di Rodari sulla letteratura
fantastica: si tratta dell’unico libro teorico di Rodari, una sorta di personale saggio sulla creatività.
Rodari credeva nella necessità che l’immaginazione abbia il suo posto nell’educazione; e dava molta
importanza sia alla creatività infantile; sia all’inventare storia ed essere creativi come azione didattica,
a chi sa quale valore di liberazione possa avere la parola.

Il libro contiene anche il famoso capitolo L’errore creativo dedicato alle potenzialità creative e
pedagogico-didattiche dell’errore. Pertanto Rodari ritiene che il proverbio Sbagliando
s’impara dovrebbe essere rimpiazzato da uno nuovo che dica Sbagliando s’inventa. Difatti, secondo
Rodari in ogni errore riposa la possibilità di una storia, come già aveva sostenuto nel suo Libro degli
errori, persino l’errore ortografico può offrire lo spunto per ogni sorta di storia dai risvolti comici o
anche essere l’occasione per un’istruttiva riflessione. Molti errori dei bambini, poi, sono in realtà
creazioni autonome, utili ad assimilare una realtà sconosciuta.
Sono errori che fanno ridere e ridere degli errori, ci fa riflettere Rodari, è già un modo di prenderne
le distanze. Inoltre un’unica parola può suggerire innumerevoli errori e quindi innumerevoli storie.

Di Rodari possono essere ricordate anche le Filastrocche in cielo e in terra, o le Favole al telefono,
soprattutto come letture infantili. Ha vinto il più importante premi di narrativa per bambini e ragazzi
con libri sempre originali ed interessanti dallo scopo comunicativo. Le sue filastrocche avevano
sempre significati profondi, la sua idea era che nel bambino bisognasse attraverso la favola stimolare
la creatività.
Chiedo scusa alla favola antica
se non mi piace l’avara formica.
Io sto dalla parte della cicala
che il più bel canto non vende, regala.
Rodari lavorava sulla potenzialità ludica della parola, colta come un frammento semantico su cui è
possibile innestare combinazioni cognitive molteplici:

“[…] una parola gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e di profondità, provoca una
serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni e immagini, analogie e
ricordi, significati e sogni, in un movimento che interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e
l’inconscio e che è complicato dal fatto che la stessa mente non assiste passiva alla rappresentazione,
ma vi interviene continuamente, per accettare e respingere, collegare e censurare, costruire e
distruggere”.
In Rodari la creatività è la capacità di manipolare la realtà, di inventare storie, fare ipotesi e progetti.
L’educatore per lui deve trasformarsi in “animatore, in promotore di creatività”: deve promuovere
attività che comprendano tutte le discipline, all’interno delle quali il bambino diventi un creatore e
produttore di valori e di cultura, rendendo la sua mente sempre più sensibile ai processi cognitivi
divergenti, alla critica e al dissenso, al coraggio dell’utopia.

La proposta di Rodari è anche di una creatività linguistica, di creazione di parole, favole, piccole
storielle, anticipando le tecniche di storyteller.

Dalla parola, sostiene Rodari, nasce la fiaba. E la fiaba può fornire numerose “chiavi” per entrare
nella realtà. Bisogna trasformare “il mondo d’oggi” in parole, per fare libri che coinvolgano i bambini.
Le parole, con tutte le loro sfiziosità—come le parole che indicano una cosa e il suo esatto opposto,
o come gli spazi equivoci tra forma scritta e resa fonica—sono sempre stati al centro dell’interesse di
Rodari.
Se un bambino scrive nel suo quaderno “l’ago di Garda”, ho la scelta tra correggere
l’errore con un segnaccio rosso o blu, o seguirne l’ardito suggerimento e scrivere la storia
e la geografia di questo “ago” importantissimo, segnato anche nella carta d’Italia.
La Luna si specchierà sulla punta o nella cruna? Si pungerà il naso?
Durante la sua attività di maestro elementare, Rodari faceva giocare i bambini al “Binomio
Fantastico”: scrivere due parole “lontane”. Come “volpe” e “lampada”. Ecco altra tecnica di
creatività per associazione di parole.
Potremmo già considerare questa una tecnica di creatività in nuce.
Da quelle bisognava “costruire” una storia, imparentandole. È uno degli “Esercizi di fantasia” che
puoi ascoltare nel video qui sotto. Sono le prime tecniche di associazione sinettica o associazioni
creative di idee.
Ad esempio, nella sua favola sulla cicala di Rodari, capovolti i valori della “favola antica” di Esopo,
è un emblema della gratuità dell’immaginazione, la cui “colpa”, dal punto di vista dell’accumulante
formica, è principalmente l’inutilità. Rodari stava dalla parte della cicala, come da quella
di Giovannino Perdigiorno. Come il Paese “degli uomini a motore”: che “al posto del cuore avevano
un motorino, che si spegne di sera e si accende al mattino“.

3.Teresa Amabile – le 3 componenti della creatività


Teresa Amabile è una studiosa italiana della creatività. Agli inizi degli anni ’80, ha infatti sviluppato
e validato un metodo per la valutazione psicometrica della creatività, meglio noto come Consensual
Assessment Technique.
Siamo con Teresa Amabile nell’ambito di quegli studiosi che come si fà con il Q.I. per l’intelligenza
vorrebbero misurare la creatività degli studenti e degli individui. La relazione tra QI e potenziale
creativo è molto controversa. Come si può misurare la creatività di un individuo? Per alcuni:
intelligenza e creatività sono elementi separati. Ad esempio per Spearman (1927), il padre dell’abilità
generale e del fattore “g” (la base del QI), rifiutava ad esempio l’idea di creatività. Il problema è che
spesso il talento creativo è un fattore singolo, unidimensionale, proprietà mentale comprendente
parallela ma distinta dall’intelligenza generale.
Il potenziale creativo e l’intelligenza non sono comunque mai interamente indipendenti.

Teresa M. Amabile è anche una studiosa della vita dell’azienda e studia i manger creativi, e vuole
distinguere le caratteristiche dei manager creativi. Per farlo ha elaborato anche uno strumento
chiamato KEYS. Esso consiste in settantotto domande destinate a valutare le condizioni di
lavoro, il clima e l’influenza degli stili di management.
Individua tre componenti necessari per la creatività:

 abilità nel contesto d’azione


 abilita nel pensiero creativo
 motivazione
Le sei categorie di pratiche manageriali individuate da serena Amabile:

1. Risorse
Le due principali sono il tempo ed il denaro. In alcune circostanze, la pressione del tempo può
stimolare la creatività, ma quello che può ucciderla sono sia i termini troppo brevi, sia l’assenza di
deadlines, gli orizzonti sfocati che tolgono ogni credibilità all’interesse che porta il management alla
scoperta di idee o di soluzioni interessanti.
Le risorse materiali: il management deve trovare un equilibrio tra denaro, persone ed altri mezzi di
cui un gruppo ha legittimamente necessità per raggiungere il proprio obiettivo.
Teresa M. Amabile fa osservare che occorre trovare un corretto equilibrio oltre il quale un eccesso di
risorse può essere controproducente. Una risorsa spesso trascurata è lo spazio fisico. La creatività è
favorita da luoghi tranquilli e confortevoli.
2. Il lavoro di gruppo
La composizione dei gruppi è un punto particolarmente delicato poiché si tratta di arrivare ad un
equilibrio tra la diversità e l’interfunzionalità, e la capacità di dialogare e di scambiare; non soltanto
rispettando ma valorizzando tutte le diversità. Un criterio sine qua non di motivazione è l’eccitazione
che manifestano a priori i membri del gruppo. La peggiore delle trappole della creatività è quella di
costituire gruppi omogenei.
3. L’incoraggiamento della gerarchia
La motivazione endogena viene dall’argomento stesso e questa motivazione ha lo stesso bisogno di
essere sostenuta dagli sguardi e dalle parole; in una parola, dalla considerazione che i capi possono
accordare ai loro collaboratori impegnati in un processo d’innovazione. In compenso, quello che
ucciderà la creatività sono l’indifferenza, lo scetticismo, i ritardi messi per dare un feed-back,
l’incapacità di mostrarsi positivi nell’accoglienza delle idee.
Questo fattore di negatività è molto diffuso a causa di una cultura della valutazione che incita i
collaboratori di ogni livello a manifestare uno spirito critico permanente, ben inteso, ai costi delle
nuove idee.
Un altro mezzo per incoraggiare e sostenere lo sforzo creativo consiste – ben inteso da parte dei
manager – nell’essere esemplari, cioè nel fungere da modelli per i propri collaboratori attraverso il
proprio comportamento.

4. Appoggio dell’organizzazione
Oltre all’incoraggiamento portato dai capi, la creatività è fortemente favorita quando è
l’organizzazione intera a sostenerla. Per quanto possibile, si devono evitare i premi e gli
incoraggiamenti finanziari poiché questi potrebbero fare deviare e denaturare la motivazione.
In compenso, un’organizzazione che incoraggi e faciliti gli scambi, la messa in comune delle
informazioni, la gestione della conoscenza e delle competenze, è molto propizia per lo sviluppo della
Creatività. In compenso, i conflitti politici all’interno dell’impresa sono piuttosto temibili.
5. Conferma
Nell’ultima parte del suo articolo, l’autrice spiega uno studio svolto presso due dozzine di gruppi,
durato due anni in sette imprese appartenenti a tre settori: high-tech, prodotti di consumo e chimica.
Ogni persona implicata in questo studio doveva ogni giorno inviare un’e-mail confidenziale ai
ricercatori. Naturalmente, le conclusioni di questo studio confermano totalmente i punti esposti
nell’articolo: lo sviluppo della creatività dell’impresa è nelle mani dei manager quando pensano,
disegnano e creano l’ambiente di lavoro.
6. La dimensione della sfida
La creatività esige spesso che i manager cambino radicalmente il modo in cui conducono il lavoro di
gruppo e generalmente ciò richiede un conseguente sforzo di cambiamento della cultura d’impresa.
Essi devono affrontare questa sfida: quando la creatività è uccisa, un’impresa perde la sua anima, il
suo vantaggio competitivo più importante, le nuove idee. Ma può anche perdere l’energia e il
coinvolgimento del personale.
Silvano Arieti e la creatività come sintesi magica
Per Silvano Arieti la creatività è una dote innata, ma anche misteriosa e magica, quindi si un
fenomeno intricato: coinvolge gli ambiti più svariati (arti, scienze, tecnologia, impresa…), ma
particolare che può essere declinato in due modelli: una creatività con la C (del genio e dell’artista)
grande ed una creatività con la c piccola (quotidiana, ordinaria e di tutti).
Silvano Arieti distingue tra creatività ordinaria, capace di migliorare la vita dell’autore rendendola
più piena e soddisfacente, e creatività straordinaria, quella che inventa nuovi paradigmi e migliora
la vita di tutti contribuendo al progresso. Ovviamente un docente nella scuola cerca di stimolare ed
educare la creatività ordinaria che può aiutare anche semplicemente a vivere bene o meglio o a
superare dei propri limiti.
Nel suo la Creatività, la sintesi magica, l’individuo capace di produrre creatività straordinaria per
Arieti conserva una possibilità più grande della media di accesso alle immagini, alla metafora, alla
verbalizzazione accentuata e ad altre forme connesse al processo primario, che è inconscio o
preconscio.
Per sviluppare creatività bisogna superare preconcetti, omologazioni ed abitudini e mettere in
discussione preconcetti ed idee precedenti, rinnovarsi e ripensarsi continuamente e ripensare il
modo con cui altri hanno svolto il compito che ci accingiamo a fare. In quest’ottica il fenomeno della
creatività appare come un continuum, a un estremo del quale si trova la “Big C”, la creatività geniale,
e all’altro estremo del quale sta la “small c”: proprio la creatività quotidiana delle persone comuni
che, però, sanno assumersi dei rischi, sono autodisciplinate, si lasciano guidare dalla passione
per un prodotto definito nuovo e utile all’interno di un contesto sociale. Per Arieti si può definire
“magica” la creatività solo se si accetta di definire “magiche” la nostra mente e la nostra capacità di
entrare in contatto con la sua dimensione pre-logica, o analogica, o inconscia. La creatività – ci dice
lo stesso Arieti – può sì avere una componente di vocazione e di talento, ma il talento senza tenacia,
applicazione e pratica costante diventa velleità. Creatività e volontà, creatività e dedizione e tecniche
per stimolarla.
Egli essendo uno psicanalista egli studia il sognatore e lo schizofrenico e li mette in relazione con
l’individuo creativo, questi come in parte dice la psicanalisi e Freud ha un accesso diretto e facilitato
alla sfera dell’inconscio. Possiamo dire che mentre per i cognitivisti la sfera della creatività è nella
mente, per gli psicanalisti la sfera ed il luogo della creatività è l’inconscio. L’individuo creativo
seleziona, adotta e adatta materiali primari innescando il pensiero logico e integrato che appartiene al
processo secondario.

Silvano Arieti scrive: “La creatività si serve di ciò che è già esistente e disponibile, e lo trasforma in
modi imprevedibili. È uno degli strumenti principali attraverso cui l’uomo si libera dai vincoli delle
sue risposte condizionate e delle sue scelte abituali.” La magia della sintesi creativa permette ai
materiali primari di emergere improvvisamente, inaspettatamente, di getto, come in un lampo;
durante la meditazione, la contemplazione, il fantasticare, il rilassamento, l’assunzione di droghe, i
sogni… ma chiede anche una dose superiore di attività intenzionale e consapevole per gestire quei
materiali adeguatamente. Lasciarsi andare all’inconscio ma anche disciplina.
E’ un segreto di cui la persona creativa rimane la depositaria. La creatività come un segreto
soggettivo, un segreto che se si domanda della sua creatività alla persona creativa essa stessa non può
rivelare né a se stesso né agli altri. Quello che non è più un segreto è il modo in cui il suo processo
creativo si svolge, raggiunge la sua conclusione, e quali condizioni facilitino la sua comparas”.
Nella creatività non c’è niente di propriamente magico scrive Silvano Arieti in Creatività, la sintesi
magica (1976), dove distingue la creatività in ordinaria e straordinaria.
In quanto psicanalista, Arieti intende segnalare che il processo creativo si svolge sotto traccia, e
accedendo a materiali inconsci (processo primario), che solo in seguito vengono selezionati e
adattati applicando (processo secondario) il pensiero logico.
Munari: design, grafica, cinema, laboratori
Come per Rodari la scrittura è testimonianza di libertà e creatività, così per Munari il segno, il
design, le forme delle cose è invenzione efficace, libera e irriverente nei confronti delle convenzioni.
Munari è stato un designer creativo, di oggetti e spazi di gioco e per la creatività. La proposta di
Munari è la multidisciplinarietà dell’espressione visiva (pittura, scultura, cinematografia,
disegno industriale, grafica) e non visiva (scrittura, poesia, didattica) con una ricerca poliedrica
sul tema del movimento, della luce e dello sviluppo della creatività e della fantasia nell’infanzia
attraverso il gioco
L’idea di laboratori di creatività, l’idea di spazi ed oggetti dove potesse esprimersi la creatività deve
molto a Munari.

Il punto di partenza di Munari è sempre la realtà e l’esperienza, ma, proprio per questo, è necessario
che il bambino possa crescere in un ambiente ricco di impulsi e di stimoli, in ogni direzione.

L’accostamento, anche casuale, di forme o parole fa volare lontani con l’immaginazione e tutto
può essere proposto sotto forma di gioco. La creatività può essere stimolata dalle immagini e non
è fine a se stessa, ma svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo autonomo del pensiero. La
creatività va insegnata e stimolata attraverso il processo educativo: consegnando al bambino o
all’adolescente gli strumenti indispensabili per la sua conoscenza, e utili per attivare il pensiero
divergente. Munari stesso si cimentava nell’arte, nel design, nella grafica, dando contributi
fondamentali in diversi campi.
La creatività ha le sue basi nell’immaginazione che l’educazione dovrebbe stimolare nei ragazzi.
I bambini e i ragazzi, se sono aiutati ad avere momenti che favoriscano un loro atteggiamento creativo,
possono diventare uomini capaci di mutare la società proprio perché sanno usare la propria
immaginazione e vedere altri mondi possibili. La creatività è sinonimo di quel pensiero divergente
che è capace di rompere continuamente gli schemi dell’esperienza, è creativa una mente sempre al
lavoro, sempre a far domande, a scoprire problemi dove gli altri trovano risposte soddisfacenti, a suo
agio nelle situazioni fluide nelle quali gli altri fiutano solo pericoli, capace di giudizi autonomi e
indipendenti, che rifiuta il codificato, che rimanipola oggetti e concetti senza lasciarsi inibire dai
conformismi.

Per Munari giocare con le cose serve a conoscerle meglio; d’altra parte coloro che sono portatori di
una maggiore quantità di conoscenze sono anche potenzialmente portatori di una maggiore possibilità
di rielaborarle in maniera creativa.
Per Munari la creatività forma un’intelligenza elastica, una mente libera da preconcetti d’ogni genere,
pronta a modificare le proprie opinioni quando se ne presenta una “più giusta”, in quanto la creatività
si forma e si trasforma continuamente.

Nel 1974 Munari scrive Proposta di una scuola di design che comincia dall’asilo. La metodologia,
la creatività e l’autocritica, sono per lui indispensabili per formare individui con una particolare
mentalità di tipo progettuale, i bambini devono poter sperimentare in modo graduale strumenti e
regole, manipolare materiali, affinare la capacità di osservare e memorizzare nuovi dati, scambiare le
proprie esperienze con quelle altrui.
Munari insieme a Marcello Piccardo fondò lo Studio di Monte Olimpino, poi diventato Laboratorio,
in seguito ampliato in Cineteca, infine Cooperativa di Monte Olimpino, un luogo distintivo della
ricerca pedagogica, dove il tema della creatività è legato al cinema.
Piccardo e Munari per primi fanno cinema non per i ragazzi ma con i ragazzi. Il cinema per le
sue caratteristiche di massima elasticità elaborativa all’interno di una rigorosa struttura di fasi di
lavorazione. Un’analisi delle potenzialità del mezzo che gli fa comprendere, quasi illuminato da un
film fatto da bambini cosiddetti “subnormali” nel 1966, come si potesse aprire un nuovo campo di
applicazione del cinema che, portato nella scuola e messo a disposizione dei bambini, diventa
strumento contemporaneamente di espressione e di apprendimento, e provoca un capovolgimento
della relazione didattica tra maestro e bambini vigente nella istituzione scolastica.
Secondo Munari, come per Rodari non si può stabilire un confine preciso tra fantasia e creatività, in
quanto i prodotti di entrambe nascono da relazioni che il pensiero stabilisce con ciò che già conosce.
È evidente che non si possono intrecciare relazioni tra ciò che non si conosce: un individuo di cultura
limitata non potrà avere una fantasia molto fervida. Per Munari, come per Rodari, se vogliamo che il
bambino diventi una persona creativa, dotata di fantasia sviluppata e non soffocata dobbiamo fare in
modo che memorizzi più dati possibili, nei limiti delle sue possibilità, per permettergli di fare più
relazioni possibili, per permettergli di risolvere i propri problemi ogni volta che se ne presentano.

Lo Studio di Monte Olimpino è stato uno dei primi progetti di Cinema per le scuola, si è creato un
ruolo sempre più incisivo nella produzione e nella distribuzione dei film: i suoi contatti, le sue
conoscenze, le sue idee aprivano possibilità nuove nel proporre film da fare e fatti da vedere.

Mario Mencarelli e la didattica della creatività


Mario Mencarelli è stato uno dei primi studiosi della pedagogia della creatività. Per Mencarelli, il
creativo non è colui che primeggia distinguendosi dagli altri perché privilegiato da doti eccezionali
ed eccezionalmente presenti solo in pochi soggetti che si trovano ai confini della norma; la creatività
è fisiologica nell’essere umano, è una caratteristica appartenente alla specie e quindi ricchezza
potenziale di ogni uomo. Bisogna pertanto sviluppare una metodologia didattica che favorisca in tutti
il loro potenziale creativo.
Non a caso uno dei suoi libri più importanti si intitola: Metodologia, didattica e creatività.
Mencarelli, tra i primi in Italia, che in ambito pedagogico e didattico lavorò alla costruzione di una
pedagogica dell’educazione scolastica ed extrascolastica, basata su un’antropologia “pedagogica
aperta”, che impegnava “nella lettura e nell’interrogazione delle situazioni in cui operano gli agenti
educativi”, per individuarvi i contenuti, i valori e i processi attraverso i quali questi contenuti
“possono ulteriormente autenticarsi e incrementarsi”, uno dei pionieri della didattica della creatività.

Mario MENCARELLI afferma che la creatività può essere pensata come una connotazione generale
della personalità, affiorante in ogni tratto della stessa, che conferisce all’individuo la possibilità di
attuarsi psichicamente in un continuo rinnovamento.
Scientificamente intesa, la creatività non coincide con la spontaneità a lungo enfatizzata, è piuttosto
un potere complessivo che si tratta di suscitare in tutti gli alunni per dare un senso compiuto alla loro
autorealizzazione.
Secondo Mario Mencarelli possiamo riconoscere almeno tre fasi della creatività:
1. propulsionale o di incubazione del germe creativo
2. fase di concezionale o di illuminazione,
3. realizzazione esperienza

Creatività come abbiamo già visto con gli autori della piattaforma di Origine Concorsi è sinonimo di
pensiero divergente capace di rompere continuamente gli schemi dell’esperienza (Rodari), capace di
intervenire sull’ambiente per trasformarlo (Vygotskij).

⇒ Creatività è dunque capacità di produrre nuove soluzioni o risolvere nuovi problemi o risolverli
diversamente (nuove, almeno, per che le produce) siano esse mentali o realizzate concretamente nei
settori più diversi della produttività umana (nell’arte, nella scienza, ecc.)”

Importanti a questo proposito sono i volumi Potenziale educativo e creatività (1972), Metodologia
didattica e creatività (1974b) e Creatività e valori educativi (1977a) che costituirono un significativo
punto di arrivo dell’itinerario pedagogico di Mario Mencarelli.
Mencarelli identifica l’educabilità con la creatività la quale “un diritto personale”, l’educazione
alla creatività diventa l’ attuazione del potenziale umano che appartiene a ciascun essere umano
(che è potenziale di motivazioni, affettività, pensiero, linguaggio, socialità, ecc…); – una profonda
esigenza sociale, cioè la condizione necessaria perché una società possa crescere su se stessa, evitando
depressioni ed emarginazioni, alienazioni e strumentalizzazioni di potenziale umano; – l’espressione
di un’ansia metafisica, come quella della persona, della società, della cultura contemporanea,
coinvolte in un momento storico aggrovigliato, tormentato da dubbi e dalle ambiguità, e pertanto
sollecitato a riproporsi il problema del destino umano, dei valori per i quali merita vivere.
Mario Mencarelli dimostra che la struttura del discorso pedagogico (la cui articolazione risponde
alle tre classiche domande: “chi educo?”, “come educo?”, “perché educo?”) possono educare la
dimensione umana esistenziale, quindi come “unità creativa […] con tensioni e finalità proprie, con
i suoi progetti, le sue decisioni”.
Questa mediazione, che si sofferma anche nella analisi delle principali dimensioni della persona
(motivazioni, percezione, intelligenza, linguaggio, memoria, coscienza, volontà), fa emergere un
personalismo attento al valore dell’uomo, alla sua originalità ma anche alla condizione in cui vive e
alle sue esigenze sociali, alla sua dimensione storica e al suo potere di trascendimento (cioè al suo
potere auto-decisionale)” (Mencarelli, 1974a, p. 12).
Su questo filo conduttore Mario Mencarelli affronta i contenuti e i problemi dell’insegnamento
scolastico esaminandolo e “valutando i criteri psicologici e culturali disponibili per la loro soluzione,
senza ignorare le urgenze proposte in ogni settore delSira Serenella Macchietti l’apprendimento dai
fini dell’educazione, visti sempre nella loro migliore congruenza al potenziale umano” (Mencarelli,
1974a, pp. 11-13).

Le citazione sono tratte dai testi di Mario Mencarelli

Renzulli – il modello Three-Ring e la plusdotazione

Renzulli e la plus-dotazione
Un altro modello che mette in relazione creatività intelligenza è il modello Three-Ring sulla plus
dotazione di Renzulli (1986). Secondo l’autore la plus-dotazione si presenterebbe nel punto di
intersezione tra alto potenziale cognitivo, creatività e motivazione. Studioso dei
bambini gifted superdotati (abbiamo già visto cosa sono i bambini gifted); Renzulli ha provato a
studiare i potenziali creativi dei soggetti. Proprio a partire dai suoi studi
sulla giftedness o “plusdotazione cognitiva” presente in quegli studenti che presentano un
potenziale tale da superare le aspettative in varie discipline, anche di due o tre anni, rispetto ai loro
coetanei.
Questa viene considerata da Renzulli come una serie evolutiva di comportamenti che possono essere
applicati alle situazioni di problem solving, piuttosto che come un attributo. In realtà anche se
Renzulli ha costruito il suo modello principalmente sulle caratteristiche dei bambini plusdotati, questo
può essere valido anche per gli adulti creativi/produttivi di successo. I critici del modello di Renzulli
hanno sottolineato che è incerto se i modelli di produttività adulta di successo possano essere utilizzati
per identificare il potenziale infantile o giovanile. Eppure il modello a tre anelli di Renzulli può
rivelarsi di particolare successo non tanto nell’identificazione dei bambini plusdotati, quanto piuttosto
dei giovani “talentuosi”: giovani di successo, fortemente motivati, e che sono anche capaci di portare
un tocco creativo nel loro lavoro.

Ed anche la gestione come BES degli stessi nel MODULO 1.


La concezione di giftedness nel modello a “tre anelli” di Renzulli Joseph Renzulli permette la
distinzione tra due tipologie di giftedness, quella scolastica, che fa riferimento agli studenti che
apprendono bene le lezioni nei contesti scolastici tradizionali, e quella produttiva creativa, che invece
fa riferimento ai tratti che inventori e artisti applicano ad aree selezionate del capitale economico,
culturale e sociale.

Vedremo poi la concezione dell’intelligenza a stella marina


La concezione di Renzulli tenta di dare una rappresentazione delle dimensioni principali del
potenziale umano per quanto riguarda la produttività creativa. Si parla anche di una concezione a tre
anelli della giftedness di Renzulli.
Tale modello si basa sull’interazione tra tre cluster fondamentali di tratti umani che permettono solo
se presenti contemporaneamente di delineare un modello di reale potenziale creativo:

1. un’abilità superiore alla media (ABILITA’) – costanti nel tempo


2. un elevato livello di impegno nel compito, ossia una forma specifica di motivazione focalizzata
sul compito, in cui coesistono «perseveranza, resistenza, duro lavoro, pratica dedicata, fiducia in se
stessi e la convinzione nelle proprie capacità di realizzare un lavoro importante» (IMPREGNO-
MOTIVAZIONE-RESILIENZA-COSTANZA) – situazionali ed ambientali
3. un elevato livello di creatività, che comprende la curiosità, l’originalità, l’ingegnosità e la volontà
di sfidare le convenzioni e la tradizione. (ORIGINALITA’ – PENSIERO DIVERGENTE) –
innate o naturali – tendenza naturale dell’individuo
Mentre le abilità (in particolare l’intelligenza generale, le attitudini specifiche e i risultati scolastici)
tendono a rimanere relativamente costanti nel tempo, la creatività e l’impegno nel compito sono
contestuali, situazionali e variabili nel tempo, l’originalità sembra invece piuttosto essere una
dimensione soggettiva e propria dell’individuo.
Dove questo modello non soddisfa le aspettative è nella sua incapacità di identificare quegli studenti
che hanno abilità e creatività superiori alla media, ma che devono ancora trovare un contesto o un’area
di interesse in cui poter dimostrare la loro eccellenza.

L’abilità superiore alla media comprende aree di performance sia generali (ad es. ragionamento
verbale e numerico, relazioni spaziali, memoria) che specifiche (ad es. chimica, danza, realizzazione
di una composizione musicale o di un disegno sperimentale) ed è il più costante degli “anelli”, dal
momento che la performance di uno studente, entro i parametri di questo anello, può variare di poco,
essendo più legata ai tradizionali tratti cognitivi/intellettuali (Renzulli, 1976).
La ricerca suggerisce che, oltre un certo livello di abilità cognitiva, la realizzazione personale nel
mondo reale dipende meno dalla valutazione di abilità di livello sempre più elevato, e sempre più da
altri fattori personali e disposizionali (l’impegno nel compito e la creatività).
Ciò offre un elemento di critica verso i limiti dei test di intelligenza e dei vari test attitudinali e di
rendimento tipicamente utilizzati per identificare i “candidati” per programmi di gifted education.
Apparire intrinsecamente motivati e con interessi speciali e abilità particolarmente sviluppate in aree
particolari e in attività valorizzate dal sistema culturale, sono da lui considerate caratteristiche proprie
degli studenti plusdotati.

Renzulli chiarisce che quando parla di abilità generali ‘sopra la media’, non si riferisce al 50%
superiore della distribuzione dei bambini, ma al 15-20% superiore della distribuzione delle persone
in qualunque area delle realizzazioni umane (Renzulli 1986).

I tre cluster di tratti indicati è di per sé sufficiente a definire un bambino come plus-dotato, ma è
«l’interazione tra i tre cluster che la ricerca ha dimostrato essere l’ingrediente necessario per una
realizzazione creativa/produttiva» (Renzulli, 1986, p. 92).

TECNICHE E STRUMENTI CHE FAVORISCONO LA CREATIVITÀ’ NEGLI STUDENTI Molte


sono state, in seguito, le ricerche e gli autori che si sono occupati di creatività, alcuni di questi
autori sono stati presenti anche nelle domande del TFA V ciclo e purtroppo almeno nei nomi vanno
ricordati per tanto anche:
1. Il “concossage” è una tecnica una tecnica finalizzata allo sviluppo della creatività.
2. Brainstorming – tecnica di discussione aperta e di gruppo per stimolare idee spontanee
3. Il Problem solving creativo e le sue fasi (molto importante ultimi anni sempre qualche domanda sul problem
solving)
1. problem finding: individuazione della presenza di un problema;
2. problem setting: definizione del contesto entro cui si iscrive il problema;
3. problem analysis: analisi delle componenti del problema;
4. problem solving: creazione delle possibili soluzioni;
5. decision making: presa di decisione;
6. decision taking: messa in atto della decisione

Tecniche di stimolazione della creatività: sinettica, associazione forzate,


visualizzazione mentale
In sintesi le tecniche per poter sviluppare la creatività sono di 4 tipi.
Sinettica
Per sinettica si intende l’unione di elementi diversi. Essa è una particolare strategia creativa basata
sull’analogia, in cui si aspetti comuni di due o più situazioni differenti vengono messe in diretto
rapporto tra loro. Anche questo metodo può essere sfruttato per risolvere situazioni problematiche
mettendo a confronto la situazione originaria disturbante con altre situazioni al fine di permettere alle
persone di tenere contemporaneamente presenti più realtà.
Associazioni forzate
Questo metodo consiste nel mettere in relazione due o
più elementi che generalmente non sono associati per farne scaturire nuovi oggetti o soluzioni
originali. Si distingue dalla sinettica per il fatto che essa propone l’accostamento di elementi diversi
ma non necessariamente contrastanti.
Visualizzazione mentale
Questa tecnica si basa sulla combinazione mentale di immagini. Si parte dalla presentazione di 3
forme geometriche semplici (2D o 3D): esse devono essere combinate mentalmente per 2 minuti. Da
questo processo si ottengono forme preinventive, che una volta affinate possono portare
all’invenzione di nuovi oggetti o a modi per rappresentare nuove idee astratte.
Destrutturazione
L’ultima strategia che suggeriamo è la destrutturazione. Essa richiede di considerare un elemento
della situazione e di modificarne alcune caratteristiche immaginando le conseguenze che ne
deriverebbero.

Il metodo SWOT – Strenghts, Weaknesses, Opportunities e Threats


SWOT è infatti l’acronimo di Strenghts, Weaknesses, Opportunities e Threats
– ovvero Forze, Debolezze, Opportunità e Minacce.
La SWOT è una matrice 2×2 in cui i fattori interni ed esterni che hanno un potenziale impatto, positivo
o negativo sul business o sull’attività che si vuole realizzare sono opportunamente identificati e
organizzati.

Figura 1. Framework Matrice SWOT


Come si vede dalla figura, nella prima riga sono elencati i fattori interni, ovvero gli aspetti del
business che dipendono dall’organizzazione stessa e su cui questa ha controllo. In particolare, nel
primo quadrante (riga 1, colonna 1) sono elencati i punti di forza dell’organizzazione, mentre nel
secondo quadrante (riga 1, colonna2) i punti di debolezza. Sia i punti di forza che i punti di debolezza
possono essere attivamente modificati dall’organizzazione.
La seconda riga, invece, contiene i fattori esterni, su cui l’organizzazione non ha controllo e che
pertanto devono essere trattati come elementi di contesto, di cui tenere conto, ma su cui non si può
senz’altro incidere in maniera diretta.
La prima colonna rappresenta quindi i fattori che hanno un impatto positivo sul business, mentre nella
seconda colonna si trovano i fattori che hanno un impatto negativo. Ovviamente per ciascun business
i fattori sono diversi. Anzi, fattori che hanno un impatto positivo per alcuni, potrebbero avere un
impatto negativo su altri.

In sintesi: una matrice SWOT è una matrice 2×2 in cui un’organizzazione o un individuo elencano in
maniera strutturata i fattori interni ed esterni, positivi o negativi rispetto a una scelta che devono fare
o rispetto a una specifica condizione di mercato

Il metodo di problem solving di Harold Lasswell


Il secondo metodo è quello individuato da Harold Lasswell, molto utilizzato nell’ambito
giornalistico e anche conosciuto come il “metodo delle 5W”.
Ecco i passaggi per risolvere:

1.Who?: chi è il referente?


2. What?: qual è l’obiettivo?
3. Where?: dove si deve intervenire?
4. When?: quando si deve intervenire?
5. Why?: perché lo si deve fare?
E’possibile aggiungere anche “How” (come sviluppare il progetto) e “How much” (quante risorse
possono essere investite).
Concludendo ricordiamoci che “non tutto ciò che viene affrontato può essere cambiato, ma niente
può essere cambiato finché non viene affrontato”.

Alex Osborn ed il brainstorming “creativo” – tecnica di svilluppo della creatività


Alex Osborn sviluppo negli Anni 50 un tecnica di sviluppo iniziale delle idee. La sua diffusione fu
tale che oggi la parola “brain-storming” è annoverata anche nei più comuni dizionari, il suo significato
“tempesta di cervelli” , viene dalla parola brain cervello, mentre storm è tempesta. Contiene già in
parte l’idea di che cosa si tratta, una tecnica per sviluppare in gruppo idee potremmo dire a ruota
libera, o così come vengono in mente al gruppo che cerca insieme di sviluppare idee nuove ed
originali.
Il brainstorming consiste in una “discussione di gruppo incrociata e guidata da un animatore”[nel
nostro caso da un insegnante o da un docente ma anche nel campo manageriale viene usata] – quindi
non è una tecnica che non prevede un docente ed il gruppo lasciato a se stesso! (possibile ambiguità
di domanda) – il cui scopo è trovare e far emergere il più alto numero di idee possibile su un
argomento precedentemente definito; solo e assolutamente al termine di questo compito si potrà poi
selezionare, criticare e valutare le idee prodotte. Il brainstorming è libero, spontaneo ed anche il
docente solo successivamente valuta le idee prodotte.
Il brainstorming “insiste soprattutto su una funzione che è rapportabile ai tre principali fattori del
pensiero divergente: la capacità di produrre molte idee, diversificate e insolite”[ DIVERGENTI],
queste qualità sono amplificate e sfruttate dal lavoro condotto in gruppo i cui due pregi sono
“l’interazione fra le persone e la moltiplicazione dello sforzo di ciascuno con quello di un
altro”[DIMENSIONE DI GRUPPO O COOPERATIVA].
Le sedute di brainstorming riguardano solo gli ultimi due momenti all’interno di una processualità
che comprende:
a) la definizione e la scomposizione del problema, e quindi l’identificazione e la distinzione delle
parti di esso che richiedono un intervento di tipo creativo rispetto a quelle che richiedono interventi
decisionali; la raccolta delle informazioni inerenti al problema;
b) la produzione delle idee nuove, ovvero la parte illuminativa del processo;
c) la decisione e la valutazione delle idee.
Queste ultime due fasi si svolgono in gruppi che contano “da 6 a 10 persone che lavorano nello stesso
luogo dove si vuol risolvere il problema”[ PROBLEM SOLVING].

In questo processo il conduttore ricopre un posto chiave nelle sessioni di brainstorming, egli infatti
deve conoscere bene gli estremi e i limiti del problema da sottoporre, istruire i membri del gruppo
alle regole inerenti questa tecnica, stimolarne l’interesse e porsi con atteggiamento di attesa fiduciosa
raccomandando di scrivere tutte le idee che pervengono, anche se confuse, su un quaderno. La
formulazione delle richieste da sottoporre al gruppo dovrebbe essere preparata accuratamente. Essa,
infatti, dovrebbe presentarsi in forma aperta, per permettere ai partecipanti del gruppo di non fissarsi
su vecchie idee, ad esempio: “In luogo di chiedere al gruppo di immaginare un nuovo tostapane, è
preferibile parlare di un ‘apparecchio per disidratare il pane’. Il fine rimane identico, ma la mente dei
partecipanti non viene legata all’immagine classica del tostapane che tutti conosciamo. Al contrario,
la mente lavora intorno al verbo ‘disidratare’, causa prima della tostatura, e dunque fonte prima di
nuove idee”.

Studio e preparazione accurata riguardano anche la seduta vera e propria: Il luogo dovrebbe essere
tranquillo e confortevole, al riparo da intrusioni e interventi esterni, dotato possibilmente di un tavolo
ovale o rotondo, con sedie comode, e provvisto di bevande dissetanti. Ogni partecipante deve essere
dotato di carta e penna per poter scrivere e prendere appunti; nella sala è indispensabile anche la
presenza di una stenografa, oppure di un registratore con cui memorizzare la seduta, o ancora di una
lavagna a fogli su cui segnare le nuove idee.

Il gruppo può essere composto, secondo i casi, da personale più o meno eterogeneo per
specializzazione, studi, gerarchie, interessi, ecc., infatti: “l’eterogeneità è di solito auspicabile, perché
l’urto dei pensieri apre di solito strade nuove a ciascuno di essi. Quanto meno si assomigliano, tanto
più le idee hanno probabilità di essere originali”[ CREATIVE]. Per quanto riguarda la convocazione
dei partecipanti viene consigliato di non menzionare il problema da trattare, ciò per evitare ricerche
preventive; inoltre dovrebbe prevedere un orario che possa favorire i partecipanti e le loro capacità
ideative; anche se a questo riguardo non c’è molta chiarezza e le opinioni sono controverse, in genere
viene indicato il mattino.

Lo svolgimento della seduta prevede quindi: l’acquisizione delle regole fondamentali del
brainstorming che al gruppo vengono spiegate con chiarezza dal conduttore. Esse consistono:
nell’espressione libera di tutte le idee; nell’esclusione di ogni tipo di ironia o critica compresa quella
contenuta nelle cosiddette frasi killer, come ad esempio: “E’ già stato fatto” o “costerebbe troppo”
ecc.; quindi ancora: lo sforzo costante di migliorare le idee degli altri, senza timore di plagiare, e
produrre idee in gran quantità, anche se semplici o apparentemente banali. I partecipanti devono
quindi esprimere le loro opinioni e ragionamenti in modo sintetico e concreto.
La durata di una seduta può variare in ragione del numero delle idee prodotte e delle disponibilità
fino a raggiungere l’ora; durante tutta le seduta, compito del conduttore è, oltre che fornire gli
incoraggiamenti e le disponibilità sopra menzionate, mantenere la disciplina sulle regole ed evitare
pause ideative che possano compromettere il flusso delle idee, a questo scopo può egli stesso lanciare
provocazioni attraverso proposte e idee.

Alla chiusura della seduta è ancora compito dell’animatore riassumere le idee espresse dal gruppo, e
“chiedere ai partecipanti di comunicargli tutte le idee che possano presentarsi nelle ventiquattr’ore
successive” perché ” queste idee sono talvolta le migliori”[FASE POST-BRAIN STORMING].

Nell’ultima fase del brainstorming le idee raccolte in un verbale vengono quindi selezionate secondo
i criteri di attuabilità, convenienza e compatibilità con l’azienda e con altre idee. Osborn[11]
sottolinea come il brainstorming serva da ausilio all’attività intellettuale e creativa del singolo, al
quale non può sostituirsi, ma rispetto cui permette di far scaturire un maggior numero di idee; ne parla
allo stesso modo confrontandolo con le riunioni di “tipo tradizione” rispetto a cui “le sedute di
brainstorming possono essere dieci volte più produttive di suggerimenti adatti alla soluzione del
problema posto”. Ritiene inoltre che il brainstorming per il “suo carattere autodimostrativo” possa
essere impiegato come “mezzo didattico nei programmi per lo sviluppo del pensiero creativo”[12]
per i quali dimostra alcuni caratteri della creatività come la fluidità.

De Bono ha criticato aspramente il brainstorming; egli pur ammirandone l’intenzione e la validità di


alcuni suoi principi di base, ne lamenta lo sviluppo che ne è derivato: “Sfortunatamente, il termine
brainstorming è diventato sinonimo di impegno creativo intenzionale, bloccando così lo sviluppo di
serie capacità di pensiero creativo, quelli che vogliono usare intenzionalmente la creatività ritengono
che siano sufficienti i deboli metodi del brainstorming. Altri, che potrebbero essere motivati a
sviluppare capacità di pensiero creativo, sono scoraggiati dal modo di sparare alla cieca tipico del
brainstorming. Che da un fermento di osservazioni possa emergere un’idea utile nel mondo della
pubblicità (dove ha avuto origine il brainstorming) è una nozione valida, ma è molto meno valida
laddove la novità non è, di per se stessa, un valore sufficiente”[CRITICA DI DE BONO A OSBORN].

Anche se il brainstorming può essere ritenuto una tecnica forse superata in certi ambiti professionali
ha comunque il grande merito d’essere il capostipite di una nuova serie di tecniche di creatività nella
scuola e nel sostegno didattico, che si sono formate anche in considerazione delle sue carenze e
inefficienze.

I quattro momenti del processo creativo per Wallas


Wallas i riteneva che il processo creativo potesse essere suddiviso in quattro momenti: preparazione,
incubazione, illuminazione e verifica.
– La fase di preparazione si configura come un momento preliminare, durante il quale l’individuo
raccoglie dati, pensa in modo libero, cerca e ascolta suggerimenti, vaga con la mente.
– Il secondo momento, “lo stadio dell’incubazione è deducibile dal fatto che tra il periodo della
preparazione e quello dell’illuminazione trascorre un certo periodo di tempo, che può andare da pochi
minuti a mesi o anni”. Quindi dopo la preparazione il materiale raccolto non è semplicemente
introiettato, ma procede in un periodo di elaborazione, delle cui modalità il creativo ha scarsa oppure
nessuna consapevolezza: “l’inventore cova le sue idee in germe come la gallina cova le sue uova o
come l’organismo cova i suoi microbi prima dello scoppio della febbre”.
– Lo scoppio della febbre fulminante e dirompente è il terzo momento, quello dell’illuminazione:
dove poco prima vigeva la confusione e l’oscurità, ora le soluzioni e le idee appaiono e affluiscono
con chiarezza, può essere “un’intuizione improvvisa, o una visione chiara, o una sensazione, qualcosa
tra un’impressione e una soluzione, altre volte invece è il risultato di uno sforzo prolungato”.
– La verifica chiude questa sequenza; essa è necessaria affinché la soluzione possa superare la
valutazione critica dell’innovatore, o anche di un pubblico.Sarebbe interessante capire meglio ciò che
caratterizza queste fasi, ma sfortunatamente i testi reperibili rivelano tutti una certa superficialità nel
descrivere tale processo.

La sinettica di Gordon
Si basa su due principi contrapposti: rendere familiare ciò che è estraneo e rendere insolito ciò che è
familiare. Nelle sedute di sinettica, suddivise in nove fasi e realizzate con la guida di un esperto, si
affronta la soluzione di un problema evitando di precipitarsi a trovare subito la soluzione. Si cerca di
portare la mente molto lontano dall’apparente soluzione grazie all’uso di diversi tipi di analogie. Il
nostro istinto, infatti, ci porterebbe a cercare subito la soluzione grazie alle conoscenze di cui
disponiamo, quindi in modo piuttosto tradizionale e poco innovativo. Gestire una seduta di sinettica
non è facile: richiede esperienza e la presenza di persone adatte allo scopo, duttili, creative e in grado
di accettare il gioco metaforico.

Ecco l’elenco delle nove fasi


1. Viene presentato il problema.
2. Ci si libera, con un classico brainstorming, delle prime idee che vengono in mente.
3. Il gruppo ridiscute il problema e lo riformula in base a quanto è emerso.
4. Si cercano analogie con altri settori (nel mondo della natura, della scienza, ecc.)
5. Viene isolata una analogia e la si approfondisce con identificazioni personali.
6. Gli spunti prescelti vengono condensati in “analogie stravolgenti” (dicotomie fantasiose e frasi
inconsuete, che servono a portare la mente su altri orizzonti).
7. Formazione di analogie dirette.
8. Connessione forzata con il problema di partenza.
9. Proposta di soluzione.
Più in dettaglio: dopo che, nella fase Uno, è stato posto il problema da affrontare, nella fase Due
s’impiega la nota tecnica del Brainstorming soltanto per liberare la mente dalle prime cose, quasi
sempre un po’ ovvie, che ci vengono in mente. Svuotata la testa dalle prime soluzioni (questa fase è
definita “purga del cervello”) si passa a esplorare il tema nella fase Tre con l’uso di un’analogia
personale: si chiede a ogni partecipante (è bene che alla seduta siano presenti 7/8 persone) di
identificarsi personalmente con un problema o con i suoi elementi. La forma più semplice per mettere
in pratica questa analogia è porsi la domanda: “E se io fossi…”? In questo modo si produce una
fusione immaginaria tra una persona, un oggetto o una situazione. Questa fusione offre la possibilità
di osservare dall’interno i sentimenti, i pensieri e le forme di agire proprie di ogni caso.
Si passa poi alla fase Quattro usando un’analogia diretta per stabilire tutti i tipi di comparazione tra
i fatti, le conoscenze, le tecnologie, gli oggetti e gli organismi, che possiedono un certo grado di
similitudine.
Con la fase Cinque si affronta l’analogia simbolica, cercando di creare delle frasi paradossali (degli
ossimori in contrapposizione illogica) per aprire un campo nuovo di discussioni e suggerimenti.
Con la fase Sei si affronta l’analogia fantastica, lasciando libera la fantasia. Questo produce
soluzioni immaginarie che sono fuori dell’universo possibile, ma che possono sfociare in risposte
concrete e realizzabili.
Con la fase Sette si affronta l’analogia personale. I membri del gruppo sono invitati a identificarsi
in prima persona con l’oggetto del problema, allentando i propri freni psicologici.
Nella fase Otto si attiva una connessione forzata con il problema di partenza e nell’ultima fase, la
Nove, si arriva alla proposta di soluzione.
Le fasi più difficili da eseguire (senza un gruppo adatto la cosa non riesce) sono quelle delle analogie:
nella analogia diretta il problema viene messo in relazione con “altri mondi”, di solito il mondo
vegetale, minerale, animale, elettronico, meccanico o altro ancora.

Nella analogia simbolica il problema viene messo in relazione con il mondo delle immagini, dei
simboli, dei miti e delle favole, nella analogia fantastica si fa “viaggiare” il gruppo dei partecipanti
proponendo loro di immedesimarsi in situazioni di fantasia, per discutere ciò che fanno, vedono e
sentono.

Rogers, creatività e “Libertà di Apprendimento”


Rogers ha espresso i caratteri fondamentali della sua pedagogia nell’opera “Libertà
nell’apprendimento”:

Vedi chi era Rogers


 Gli esseri umani sono dotati di una naturale tendenza a conoscere, a capire e ad apprendere
(motivazione cognitiva).
 L’apprendimento è veramente significativo quando il “contenuto” è vissuto dallo studente come
rilevante per la soddisfazione dei suoi bisogni e la realizzazione delle sue finalità personali.
 L’apprendimento che implica un cambiamento nella percezione di sé e nei propri atteggiamenti è
avvertito come una minaccia e tende a suscitare resistenze.
 Quando le minacce dall’esterno sono ridotte al minimo, l’apprendimento avviene più facilmente ed
efficacemente.
 L’apprendimento significativo nasce dall’esperienza e dal fare: quando lo studente è parte attiva del
processo di insegnamento-apprendimento.
 L’apprendimento auto-promosso e auto-gestito, quello che coinvolge il sentimento oltre che
l’intelletto, è il più duraturo e pervasivo.
 L’autovalutazione e l’autocritica facilitano molto di più lo sviluppo dell’autonomia, dell’autofiducia
e della creatività della valutazione esterna.
 L’apprendimento più utile nel contesto socio-culturale attuale è quello che riguarda il processo
stesso dell’apprendere, l’essere costantemente aperti all’esperienza e integrare il processo del
cambiamento.
Vedi altri concetti di Rogers (cerca ⇒ Rogers nella chiave di ricerca interna della piattaforma):

La Terapia non direttiva o Terapia centrata sul cliente, formulata da Carl Rogers, è una forma di
psicoterapia che si basa su una teoria della personalità (la psicologia umanistica) secondo la quale
l’individuo tende all’autorealizzazione, e struttura il proprio Sé ricercando un accordo tra la
valutazione-accettazione.
Maslow la creatività in cima alla piramide motivazionale
La creatività, per Maslow, è l’espressione della libertà dell’uomo che sceglie di essere artefice della
propria esistenza, al di là delle costrizioni imposte dall’esterno. Compito della psicologia umanistica
è aiutare l’uomo a ritrovare la propria autorealizzazione, ad affermare il proprio Sé, a cercare la
motivazione e la spinta creativa per realizzarsi come individuo.

La famosa piramide motivazionale di Maslow


Maslow ordina le motivazioni all’azione in una gerarchia che sale a partire dai bisogni fisiologici
come la fame e la sete, passando poi al bisogno di sicurezza e di amore e al bisogno di stima ed
infine, di autorealizzazione. I bisogni più bassi sono quelli più forti e pretendono di essere soddisfatti
per primi. I bisogni più elevati hanno influenza minore sul comportamento, ma sono i più
propriamente umani.

L’Autorealizzazione può essere considerata non soltanto un bisogno e una qualità posseduta da
individui particolari, ma anche come un’esperienza soggettiva che ciascuno di noi può sperimentare.
Si tratta di esperienze momentanee di piena soddisfazione e gioia, nelle quali l’individuo esce dai
confini ristretti del proprio sé.

Sarnoff Mednick: 3 tipi di associazioni ed il R.A.T.


Sarnoff Mednick sostiene che la creatività sia la capacità di mettere insieme in modo utile idee
solitamente ritenute lontane, in pratica di collegare, fare collegamenti, combinare in modo nuovo
ed inusuale elementi differenti e che spesso non vengono associati tra di loro perché appartenenti a
campi diversi del sapere.
Una capacità che può essere anche studiata ed analizzata con il R.A.T. un test per studiare il
potenziale creativo dei soggetti.
Mednick definisce il R.A.T. come “la formazione di elementi associativi in nuove combinazioni che
soddisfano requisiti specifici o sono in qualche modo utili. Più gli elementi della nuova combinazione
sono reciprocamente distanti, più creativo è il processo o soluzione”.
Il Remote Associates Test (RAT) – R.A.T. è un test di creatività utilizzato per determinare il
potenziale creativo con l’uso di PAROLE STIMOLO.
⇒ Il test ha una composizione variabile (da trenta a quaranta domande) e durata tipicamente
quaranta minuti.
Ogni domande consiste di tre parole di stimolo. La tecnica delle parole stimolo consiste nel
presentare al candidato parole comuni che apparentemente non sembrano avere nessuna correlazione
tra loro.
Il candidato, il soggetto che si sottopone al test deve trovare a una quarta parola che sia correlata a
ciascuna delle prime tre parole e successivamente stabilire il tipo di nesso a cui ha pensato.
Divide tra tre tipi di associazioni:
1. associazioni per contiguità accidentale o causale (processo involontaria) – serendipità
2. associazioni per somiglianza – collegare due idee o concetti che hanno tratti in comune
3. associazioni per mediazione – avvicinandole piano piano “mediando” tra le differenze, riconoscenze
le contiguità
4. associazioni remote – accostando elementi lontani e distanti o rievocandoli – cose distanti e che per
molti non hanno nessuna relazioni vengono associate
In sintesi, dal punto di vista dell’associazionismo, il pensiero creativo è il risultato di un processo
mentale in cui elementi disparati si uniscono in modo nuovo risultante in una proposta utile per
l’individuo o l’ambiente, o risolvere qualche problema.
L’associazione per contiguità accidentale o causale o involontaria vuole che le combinazioni
avvengano in modo fortuito, casuale. L’occasione di fare scoperte importanti o utili per puro caso e,
anche, il trovare una cosa non cercata e imprevista mentre se ne stava cercando un’altra.
In un certo qual senso, è simile al concetto di serendipità: “capacità di rilevare e interpretare
correttamente un fenomeno occorso in modo del tutto casuale durante una ricerca orientata verso altri
campi d’indagine”.

L’associazione per somiglianza è invece propria di due elementi che vengono collegati in quanto
simili nelle loro funzioni e proprietà.
Per ultima, l’associazione per mediazione riesce ad associare due elementi attraverso una serie di
avvicinamenti graduali.

IMPOSTAZIONE SOGGETTIVA – einstellung


L’effetto Einstellung è la conseguenza di uno stato mentale condizionato. Si riferisce alla tendenza o
predisposizione di una persona a risolvere determinati quesiti secondo un preciso schema, anche
quando esistono strategie risolutive migliori o più adeguate al problema.

Si intende anche l’IMPOSTAZIONE SOGGETTIVA: “abitudine” a utilizzare testate procedure di


risoluzione che dissuade dalla ricerca di alternative ( o Einstellung);

La precedente risoluzione di problemi simili ha come effetto quello di tracciare vie mentali che il
nostro cervello sarà più facilmente predisposto a percorrere durante il processo risolutivo che conduce
allo soluzione di un problema. In molti casi ciò comporta un chiaro vantaggio: questa sorta di sentiero
mentale funge da guida per condurci alla soluzione.

A volte capita però che questo condizionamento mentale ci impedisca di affrontare il problema con
un approccio diverso e nasconde al nostro cervello vie risolutive più semplici o più immediate.
Basandosi sulle precedenti esperienze la nostra mente si ostina a perseguire la stessa via
risolutiva. Ciò può condurre ad un vero e proprio blocco mentale che impedisce di scorgere la corretta
strategia risolutiva per quanto evidente essa sia.

FISSITA’ FUNZIONALE: perché i soggetti rimangono attaccati alle funzioni e implicazioni già
sperimentate.

La teoria del flow di Mihaly Csikszentmihalyi


Una delle teorie della creatività nel campo della psicologia moderna: quella del “flow” di Mihaly
Csikszentmihalyi, stato di flusso” o “studio della esperienza ottimale”. Tutti nomi che descrivono uno
stato mentale specifico che emerge in particolari circostanze. Il suo studio ha dimostrato essere utile
in molti contesti, dalla “scienza della performance” alla nostra felicità, psicologia positiva, cosa
da piacere mentre si fa una cosa.
Quindi se da un lato possiamo vedere il flow come una sorta di risposta adattiva all’ambiente
esterno. Dall’altro pare che allenarsi ad ottenerlo faccia bene sia alla prestazione stessa che al nostro
umore. E le competenze per rendere questo stato più “interno”che “esterno” sono due, a dispetto delle
nove che ti ho citato nell’audio: competenza e capacità di attenzione. Una volta che sei competente e
che hai appreso come concentrarti vivi quella azione nel “flusso”.

Essendo uno stato naturale della mente, il flow come “la trance ipnotica”, è qualcosa che ti devi
allenare a riconoscere. Proprio come un corridore si allena a trovare quel ritmo particolare che gli
permetta di correre per chilometri. Allo stesso modo lo sportivo che si allena ad entrare ripetutamente
in questo stato inizia a notarlo anche in altri ambiti. È un vero e proprio allenamento allo stato di
coscienza desiderato.

Tenere a mente i nove punti dell’esperienza del flow è un buon modo per migliorare la nostra capacità
di riconoscerlo durante le nostre azioni quotidiane. Ma non basta, se vuoi trarre il massimo del gusto
del flow devi allenare continuamente le tue “abilità” e la tua attenzione in un circolo
virtuoso più diventi competente e meno hai bisogno di attenzione.

Per cui il soggetto presenta un alto grado di “coinvolgimento” che si può ottenere o rendendo sempre
più sfidanti le tue azioni calibrandoti sulla crescita delle tue stesse competenze. Cioè via via che
diventi più bravo “alzi il livello”. Oppure allenandoti a provare piacere in ogni cosa che fai, anche se
non si può alzare quel livello nel mondo reale. Stato del flow significa pertanto anche stadio di
massima concentrazione.

La mappa mentale di Buzan


Una mappa mentale è una forma di rappresentazione grafica del pensiero teorizzata dal cognitivista
inglese Tony Buzan, a partire da alcune riflessioni sulle tecniche per prendere appunti.
NON TUTTE LE MAPPE MENTALI SONO CREATIVE, il fine principale delle mappe consiste
nell’implementare la memoria visiva e quindi la memorizzazione di concetti e informazioni in sede
di richiamo.
IN SE LA MAPPA MENTALE NON é UNO STRUMENTO CHE AIUTA LA CREATIVITÀ‘
, le mappe mentali (mind maps) quindi non vanno confuse con altri tipi di mappe come le mappe
concettuali dalle quali si differenziano sia per la strutturazione, sia per il modello realizzativo, sia per
gli ambiti di utilizzo.
Le mappe mentali hanno una struttura gerarchico – associativa. Questo significa che sono solo due
le tipologie di connessioni che possono essere create:

 gerarchiche (dette anche rami) che collegano ciascun elemento con quello che lo precede (MAPPA
STRUTTURATA)
 associative (dette anche associazioni) che collegano elementi gerarchicamente disposti in punti
diversi della mappa (DI TIPO CREATIVO).
La struttura portante di una mappa mentale è sempre gerarchica; le relazioni associative aiutano ad
aumentarne l’espressività, evidenziando la presenza di legami trasversali mediante frecce.
Essendo gerarchica, la mappa mentale ha necessariamente anche una geometria radiale (che quindi
dal centro si propaga verso l’esterno): all’elemento centrale troviamo collegati degli elementi di primo
livello, ciascuno dei quali può essere collegato con elementi di secondo livello e così via. In genere la
disposizione grafica degli elementi è a raggiera, ma è possibile estendere queste considerazioni anche
ad altre forme di connessione, come quella a spina di pesce oppure ad albero.
Le mappe mentali fanno leva soprattutto sulle capacità creative personali e di gruppo, sulle risorse
mentali inconsce, sulle sinestesie create con colori e immagini, sui processi che spontaneamente
ristrutturano le informazioni e che ogni volta lasciano aperta più di una chiave interpretativa. Per
queste ragioni le mappe mentali sono particolarmente efficaci come strumenti di annotazione e di
apprendimento, come supporto all’elaborazione del pensiero e alla creatività, come ausilio
nell’orientamento personale e nella costituzione di gruppi di lavoro.
Sono invece meno efficaci nella rappresentazione della conoscenza, dove l’evocatività della mappa
mentale induce una minore efficacia comunicativa e maggiori margini di ambiguità.

Una mappa mentale può costituire il punto di partenza di un processo creativo, che porta alla
realizzazione di materiali diversi per natura e per formato di rappresentazione. È il caso di un
brainstorming di gruppo che, supportato da una mappa mentale, prelude alla definizione di obiettivi
strategici, alla formulazione di un progetto, alla scrittura di documentazione testuale.

Un esempio di questo passaggio è la derivazione dalla mappa mentale di un outline come la scaletta
gerarchica che permette di trasformare la struttura a raggera in una sequenza articolata e ordinata per
livelli gerarchici.

TRIZ – Teoria per la Soluzione Inventiva dei Problemi.


TRIZ è l’acronimo del russo Teorija Rešenija Izobretatel’skich Zadač, traducibile
in italiano come Teoria per la Soluzione Inventiva dei Problemi.

La tecnica TRIZ originariamente fu sviluppata nella ex-Unione Sovietica da Genrich S.


Altshuller (1926 – 1998), scoprì che i problemi più pretenziosi originariamente includono in modo
particolare richieste contraddittorie (contraddizioni). Egli giunse a sostenere che molte soluzioni
ricorrono al compromesso, ovvero il miglioramento di un parametro viene raggiunto a discapito di
altri.
Una tale soluzione comporta che almeno una delle soluzioni del sistema non venga soddisfatta.
La svolta concettuale sarebbe quella che consente di eliminare le contraddizioni esistenti senza
compromessi. Altshuller selezionò le invenzioni più creative a livello mondiale e le analizzò,
giungendo alla conclusione su come eliminarle. Egli verificò che esistono qualche centinaio di
principi inventivi che sono utilizzati in 1,5 milioni di differenti brevetti e inoltre trovò che, se gli
inventori dispongono di un’adeguata conoscenza sui principi inventivi, le scoperte presentano un
processo generativo più veloce.

TRIZ è un metodo di risoluzione dei problemi che include:

• principi inventivi,
• tabella per l’eliminazione delle contraddizioni,
• soluzioni standard per difficoltà nella generazione delle idee,
• algoritmo per la soluzione delle difficoltà nella nascita delle idee.
È al tempo stesso un metodo euristico ed un insieme di strumenti sviluppati in Russia a partire
dal 1946 da Genrich Saulovič Altshuller (1926-1998), con l’obiettivo di catturare il processo creativo
in ambito tecnico e tecnologico, codificarlo e renderlo così ripetibile e applicabile: una vera e propria
teoria dell’invenzione

Il Metodo P.A.P.S.A. di Hubert Jaoui

Come sempre, ok è un acronimo, ma per cosa sta?

Gruppo Orgine: “Acronimi alla pre-selettiva non vi temiamo!”

E’ un processo, è un metodo? Il nome P.A.P.S.A. ne deduciamo allora dalle iniziali che saranno le
diverse fase del processo, di un metodo (fare le cose con metodo significa seguire sempre un ordine).

Processo ci saranno delle tappe, tappe procedurali.

Per sapere che siamo difronte ad un problema bisogna percepirlo come tale. Se non la vediamo o
percepiamo il problema non esiste. Memoria del corsista, ricordiamo Percezione-Gestalt.

Cosa succede? Spesso davanti ad un problema la reazione spontanea è di impegnarsi immediatamente


alla ricerca della soluzione, anche in modo ossessivo, senza fare un’analisi.
Pensiamo alla piattaforma Origine. Provo ad entrare nome utente e password e mi dice credenziali
non esatte. Percepisco che qualcosa non va. Percezione. Cosa faccio? Rimetto stesse credenziali. Non
va. Cosa faccio? Sempre la stessa cosa, ovvio. Rimetto le stesse credenziali, il sistema ha la testa
dura, non ci sente, a furia di ripetere la stessa operazione prima o poi entro. Rifaccio stessa cosa,
cinque volte, alcune volte la piattaforma ha registrato fino a 12 tentativi sempre uguali da parte dello
stesso utente. Come se fosse una porta, di sicuro sfondo. Dopo ottavo tentativo uguale ai precedenti.
Subito decisione: mando messaggio alla segreteria. Messaggio WhatsApp: “La piattaforma non
funziona!”. La piattaforma non funziona (è una conclusione non un processo).
Questo metodo lo chiameremmo P.A. Percezione e Decisione, mancano A.P.S.
Cosa dice Jaoui: non andare subito alla decisione.
Fermati a fare un’analisi del problema. A.NALISI.
Ho sbagliato il nome utente? Non ricordo la password? Ho un problema di connessione a casa? Mi
chiamo Rosanna ok, ma mi sono registrata come Roysy? Era con lettera grande o lettera piccola il
mio nome? Ho usato come password il nome di mia figlia, ma mia figlia la grande o la piccola? O
quella che uso per email?

Ho prodotto una serie di riflessioni e di possibili ragioni per cui non entro. P.roduzione
Ora tra tutte questi ipotesi prodotti devo fare degli scarti e delle selezioni. Selezione.
Tra le varie ipotesi decido quella giusta. Selezione dell’ipotesi che mi sembra più attendibile. Quindi
solo infine prendo la decisione. Tornando all’esempio. Invio messaggio ad Origine “la piattaforma
non funziona!” allarmando tutti. Per la cronaca nel 99% dei casi è questa soluzione sbagliata! O
almeno fino ad ora e fatti gli scongiuri non si è mai verificata.
Secondo Hubert Jaoui il problema nasce dal fatto che spesso i sintomi, percepiti in una situazione
problematica, non sono il problema, ma solamente una sua manifestazione.
Per trovare soluzioni innovative ecco cosa bisogna fare: percepire il problema in modo anche in modo
istintivo o abbastanza evidente, scoprirne la sua struttura profonda, immaginare un grande numero di
soluzioni, scegliere gerarchizzando ed infine decidere.
Nella pratica c’è la stessa differenza che esiste tra curare i sintomi di una malattia (la febbre) ed
intervenire per estirpare le cause tipo batterio (magari attraverso antibiotici).
Ecco perché la creatività nella soluzione di problemi, più che di una tecnica, è frutto dell’applicazione
di un metodo di lavoro a più tappe. Per andare in profondità il lavoro dovrà necessariamente partire
da un punto antecedente alla ricerca della soluzione, e farà in modo che la soluzione individuata, per
quanto geniale, non rimanga nel limbo dei desideri.
il Metodo P.A.P.S.A rientra in quelle che abbiamo chiamato “metodologie didattiche per scoperta”
(usa la piattaforma di Origine e vedi cosa s’intende per didattica per scoperta) e si articola in 5 tappe.
In ognuna delle 5 tappe, la creatività viene stimolata attraverso opportune tecniche che servono in
quel momento del lavoro.
Nella pratica ogni tappa viene sviluppata in due fasi: Divergenza e Convergenza (ricordiamoci del
pensiero convergente). È il risultato della Convergenza della tappa precedente che costituisce la base
del lavoro della tappa seguente.

Joseph Rossman e le sette fasi del processo creativo


Alcuni studiosi della creatività hanno cercato di comprendere il processo creativo scomponendolo in
distinte fasi.

Joseph Rossman che esamina “il processo creativo di 710 inventori mediante un questionario”
individuando 7 fasi:
1. Osservazione di un bisogno o di una difficoltà.
2. Analisi del bisogno.
3. Rassegna di tutte le informazioni disponibili.
4. Formulazione di tutte le soluzioni oggettive.
5. Analisi critica di tutte queste soluzioni per ciò che riguarda i loro vantaggi e svantaggi.
6. Nascita della nuova idea: l’invenzione.
7. Sperimentazione per saggiare la soluzione più promettente, e selezione e perfezionamento del
prodotto finale attraverso alcuni o tutti i precedenti gradi.
Di fatto, da questi ed altri schemi che illustrano il processo creativo scomposto in fasi, emerge una
chiara metodologia operativa della creatività, un percorso nel quale l’analisi (corrispondente alle fasi
della preparazione e della verifica) si intreccia alla sintesi (che avviene nel momento dell’incubazione
e della illuminazione). Vi comunque da sottolineare che tali schemi, ricavati da indagini retrospettive
di tipiche esperienze e situazioni creative, sarebbero poco utili se non fossero conditi da caratteristiche
individuali, contenuti, strategie e motivazioni che fungono da motore nel gioco e nei momenti cruciali
dell’elaborazione creativa.

Tutti gli studiosi della creatività hanno cercato come abbiamo visto precedentemente di individuare
le diverse fasi con cui si diventa creativi. Rivediamo insieme gli autori che già conosciamo ed
abbiamo visto in questa sezione.

Per memorizzare:
Joseph Rossman 7 fasi
Osborn 7 stadi
Walls 4 momenti
Hubert Jaoui 5 tappe
Vediamo allora nello specifico quali sono:

Osborn divise, come Rossman, il processo creativo in sette stadi, ma utilizzando una terminologia
diversa:
1. Orientamento: mettere a fuoco il problema.
2. Preparazione: raccogliere i dati pertinenti.
3. Analisi: Suddividere il materiale pertinente.
4. Ideazione: Accumulare alternative sotto forma di idee.
5. Incubazione: “riposare”, per favorire l’illuminazione.
6. Sintesi: mettere assieme i pezzi.
7. Valutazione: giudicare le idee risultanti.
Già Wallas ad esempio aveva elaborato una teoria delle fasi che sarà poi ripresa da molti altri; egli
riteneva che il processo creativo potesse essere suddiviso in quattro momenti: preparazione,
incubazione, illuminazione e verifica.
– La fase di preparazione si configura come un momento preliminare, durante il quale l’individuo
raccoglie dati, pensa in modo libero, cerca e ascolta suggerimenti, vaga con la mente.
– Il secondo momento, “lo stadio dell’incubazione è deducibile dal fatto che tra il periodo della
preparazione e quello dell’illuminazione trascorre un certo periodo di tempo, che può andare da
pochi minuti a mesi o anni”. Quindi dopo la preparazione il materiale raccolto non è semplicemente
introiettato, ma procede in un periodo di elaborazione, delle cui modalità il creativo ha scarsa
oppure nessuna consapevolezza: “l’inventore cova le sue idee in germe come la gallina cova le sue
uova o come l’organismo cova i suoi microbi prima dello scoppio della febbre”.
– Lo scoppio della febbre fulminante e dirompente è il terzo momento, quello dell’illuminazione:
dove poco prima vigeva la confusione e l’oscurità, ora le soluzioni e le idee appaiono e affluiscono
con chiarezza, può essere “un’intuizione improvvisa, o una visione chiara, o una sensazione,
qualcosa tra un’impressione e una soluzione, altre volte invece è il risultato di uno sforzo
prolungato”.
– La verifica chiude questa sequenza; essa è necessaria affinché la soluzione possa superare la
valutazione critica dell’innovatore, o anche di un pubblico.Sarebbe interessante capire meglio ciò
che caratterizza queste fasi, ma sfortunatamente i testi reperibili rivelano tutti una certa
superficialità nel descrivere tale processo.
Autori più recenti ampliano i quattro stadi di Wallas, ovvero approfondiscono e suddividono questi
stadi in altri autonomi momenti.

In questo quadro rientra anche Hubert Jaoui, per il quale la creazione si configura come un processo
a cinque tappe:
1. La nascita di un’intenzione, la quale “può essere focalizzata, fino al punto di incarnarsi in un
progetto preciso o vago, indeterminato come un pizzicorio, un bisogno senza finalità annunciata.”
2. La preparazione, che si svolge attraverso due modalità. In modo attivo: come ricerca di documenti,
consultazione di testi, compilazione di schede, preparazione di schizzi e bozzetti; in modo passivo:
“il creatore stura i suoi filtri e si lascia penetrare da dati di ogni genere finché sente che
l’impregnazione è totale, che non può assorbire più nulla”.
3. L’incubazione. In questa tappa l’inventore cova ed elabora le sue idee, essa può avere una durata
variabile, spesso lunga; di questo momento è molto interessante l’aspetto di elaborazione inconscia,
nella quale i meccanismi di assemblaggio operano ad insaputa dell’inventore.
4. L’illuminazione: “E’ la più commovente”, è il passaggio dall’oscurità all’improvvisa apparizione
della soluzione “con una chiarezza impressionante che può abbagliarlo”. Jaoui distingue
un’illuminazione di tipo endogeno da quella che viene provocata da un avvenimento esterno, “come
la mela di Newton o la marmitta di Denis Papin”, in ogni caso l’illuminazione è favorita nelle “menti
preparate”.
5. La verifica. Essa chiude il circolo, “la verità può essere ingannevole, le soluzioni apparentemente
più geniali possono avere un vizio nascosto”; si rende così necessaria una valutazione “dapprima
personalmente poi con l’aiuto di esperti”, un altro tipo di valutazione che è più caratteristica per le
opere d’arte, è il confronto con il pubblico, o con un cliente o un utente se si tratta di una soluzione
innovatrice d’altro tipo.
A questo proposito si rinnova l’interesse per il lavoro di J. P. Guilford che permette di individuare
buona parte delle caratteristiche peculiari o “abilità creative” possedute dagli individui.

I test per misurare la creatività di Williams, Torrance e Rorschach


Esistono diversi test che cercano di misurare la creatività.
I tre principali (o potremmo dire due mentre il terzo è più di tipo analitico) sono:

1. il test che misura creatività e pensiero divergente di Williams


2. il test di Torrance
3. Il test delle macchie di Rorschach
Il primo il test di Test of Divergent Thinking è uno strumento interessante sviluppato da Frank
Williams. Attraverso l’analisi di 4 fattori cognitivo-divergenti del pensiero creativo e di 4 fattori
emotivo-divergenti della personalità creativa, viene stilato un profilo accurato della creatività di
bambini e ragazzi.
Oltre a verificare la flessibilità e l’originalità delle risposte, qui viene dato spazio anche alla
disponibilità verso il rischio, la curiosità, l’immaginazione e la complessità.
Test TCD Williams 1994:

4 test sul pensiero divergente

4 test sulla personalità creativa (ambito emozionale)

Serve:

 a diagnosticare livello di creatività dell’alunno;


 a indicare a insegnanti e genitori quei fattori di pens. div. e di personalità creativa che risultano più
importanti per lo sviluppo della creatività.

TEST DI TORRANCE (TTCT)


Considerato tra quelli più affidabili, il TTTC (Torrance Test of Creative Thinking) misura la capacità
di fornire risposte diverse, originali, accurate e che combinano elementi eterogenei. Ideato dallo
psicologo Ellis Paul Torrance, viene usato soprattutto per predire lo sviluppo creativo dei bambini a
partire dai 5 anni di età. Il bambino che ottiene buoni punteggi, quindi, ha discrete probabilità di
diventare un adulto creativo, come ad esempio un imprenditore, un’artista o uno scienziato.
Attenzione: discrete probabilità non significa certezza.
Diverse ricerche, comunque, hanno dimostrato una correlazione tra risultati positivi nel test e la
successiva carriera creativa. Alcuni studiosi, però, evidenziano come la correlazione tra il
Quoziente Intellettivo e la Creatività misurata con il TTCT sia piuttosto stretta. E il dubbio diventa:
il test misura la creatività oppure l’intelligenza?

TEST DI RORSCHACH
Ne avrai di sicuro sentito parlare, oppure l’avrai visto in un film. Il famoso test “delle macchie di
inchiostro” è entrato nel nostro immaginario collettivo. Chi si sottopone al test descrive cosa vede,
interpretando le macchie di colore in modo spontaneo e senza restrizioni di tempo. Non esistono
risposte giuste o sbagliate. E’ un test proiettivo, dove la stessa macchia può suggerire oggetti o
situazioni diverse a seconda della persona. Le risposte vengono poi esaminate da uno psicologo, che
analizza anche dove si è concentrata l’attenzione (ad esempio sui colori, al centro o ai lati della
figura, negli spazi bianchi).
Inventato nel 1921 da Hermann Rorschach, è uno strumento applicato soprattutto in ambito clinico.
Tuttavia, cogliere nella macchie oggetti o situazioni originali può essere un indice delle capacità
creative.

TEST DELLA CREATIVITÀ E INTELLIGENZA


Sulla relazione tra intelligenza e creatività si è scritto molto. Esiste un legame stretto, ma riuscire a
tracciare dei confini precisi, oppure dare delle misure accurate, è molto complicato. Il problema sta
proprio nel metodo di indagine, cioè test sulla creatività che finiscono per misurare abilità cognitive
a discapito di quelle creative (che poi, quali sono?).

Maier e il meccanismo di selezione-integrazione


Secondo lo psicologo e insegnate statunitense Richard E. Mayer, che intorno al 1970 si è interrogato
sull’origine della creatività, la creatività dipende dalla capacità dell’individuo di interagire in maniera
flessibile con l’ambiente. Se l’interazione è rigida, inflessibile, immutabile e stereotipata, allora si
può dire che l’individuo si comporta in maniera meno creativa di colui che dimostra una maggiore
flessibilità.

Per Maier una persona creativa non si differenzia dalle altre per la facilità con cui compie
associazioni remote, bensì per un modo tutto particolare di interagire con l’ambiente esterno
(creatività di tipo mutativo).
La creatività coinciderebbe, secondo questa prospettiva, con una capacità spiccata di selezionare
comportamenti dal nostro repertorio comportamentale e di integrarli in modo inusuale nel momento
in cui interagiamo con l’esterno. È per questo che Mayer insiste sul meccanismo di selezione-
integrazione come fonte di creatività. Le persone creative sarebbero così capaci di originare
interazioni con l’ambiente in modo nuovo, libero da vincoli esterni, con grande flessibilità
nell’adattamento verso le situazioni più disparate.

Gli individui hanno a loro disposizione una serie di capacità. Queste possono essere concepite come
un insieme di comportamenti specifici che corrispondono a tutto quello che gli individui sono capaci
di fare. Queste capacità costituiscono il repertorio comportamentale. Gli elementi che fanno parte di
tale repertorio possono essere relativamente innati oppure relativamente appresi. Il compito
dell’organismo è quello di selezionare i comportamenti appropriati forniti dal repertorio
comportamentale e di integrare i comportamenti prescelti in una configurazione che costituisca la
risposta adeguata alla situazione in cui l’organismo si trova. Gli individui devono sia selezionare i
loro comportamenti che organizzare le loro esperienze.

Creatività e scoperta di problemi


Gli psicologi interessati alla creatività e al pensiero originale hanno dedicato particolare attenzione al
processo di scoperta di problemi. Mackworth (1965) è stato tra i primi a distinguere tra: – capacità di
risolvere un problema, la quale dipende dalla scelta tra programmi o regole mentali già esistenti; –
capacità di scoprire un problema, la quale ha a che fare con il riconoscimento del bisogno di un nuovo
programma e dipende dalla scelta tra quelli che sono i programmi esistenti e quelli che ci si aspetta
siano i programmi futuri. Il processo di soluzione di problemi conduce alla soluzione di problemi ben
definiti, mentre il processo di scoperta di problemi conduce alla formulazione di una serie di domande
a partire da problemi mal definiti.

Pur non potendo inculcare l’estro creativo in senso stretto, che in buona parte potrebbe essere innato,
la scuola e l’ambiente educativo in generale possono svolgere un ruolo importante per favorire
comunque nei bambini un atteggiamento aperto, flessibile, non stereotipato. Uno stile educativo che
punti troppo sui contenuti, che premi solo le manifestazioni e i’ risultati del pensiero convergente,
che stabilisca un rigido distacco fra educatore e allievo contribuisce senza dubbio a bloccare la
curiosità, il gusto della scoperta, la spinta originale che sono comunque presenti in tutti i bambini,
specie nei primi anni di scuola.
Innanzitutto gli insegnati dovrebbero rispettare e valorizzare la dimensione “magica”, irrazionale,
istintiva di cui è in gran parte composto il mondo dei sentimenti e dei comportamenti dei bambini più
piccoli. Il rischio che gli educatori corrono invece è quello di ridicolizzare, bloccare o riprendere le
risposte apparentemente illogiche, “campate in aria”, “senza capo né coda” che i bambini spesso si
danno per conferire un senso alla loro giovane esperienza. Cosi il più delle volte, fin dai primi anni
di scuola, i bambini imparano che esiste una sola risposta giusta, che ci sono regole e procedure per
fare le cose, che il comportamento deve seguire certi parametri e modelli ben precisi. Tutto questo è
in parte vero, ma ognuno di noi sa che c’è anche dell’altro. È compito dell’insegnante, “allenare” gli
alunni, fin da piccoli, alla possibilità che ci siano più risposte, più spiegazioni, più punti di vista per
inquadrare un problema, considerare una situazione, fornire una risposta. I mezzi che la scuola ha per
coltivare l’auto-espressione originale nei bambini sono i più disparati. Innanzitutto si può ricorrere a
materiali e strumenti che permettano al bambino di sperimentarsi in nuove forme espressive prima di
legarsi irrimediabilmente a quelle più comuni e diffuse (scrivere un tema, fare un riassunto, imparare
a memoria una poesia, risolvere un problema geometrico, fare un’operazione matematica).

Si apprende, infatti, in modo nuovo e motivante sollecitando altre abilità e conoscenze troppo spesso
ignorate o trascurate: recitare un pezzo di teatro, dipingere una parete o un pannello, costruire un
acquario, fare una ricerca di gruppo, condurre delle interviste, provare a suonare uno strumento
musicale, fare dei lavori con il legno, la creta, il pane, cucire o incollare stoffe diverse per
confezionare borse o indumenti e così via. E questo fin dalle scuole elementari e materne, senza
aspettare la lezione di educazione musicale o artistica della scuola secondaria. In tal modo i bambini
imparano che l’espressione dei sentimenti, la conoscenza della realtà, il calore della relazione con gli
altri, la percezione dell’ambiente esterno passano anche attraverso mezzi espressivi diversi dalla
scrittura e dal calcolo matematico.
Un altro mezzo per sollecitare l’inventiva e l’originalità nei bambini più piccoli è sicuramente il
gioco: scioglilingua, indovinelli, mimi, favole inventate e raccontate, associazioni veloci a partire da
una singola parola sono tutte modalità di gioco che richiedono un forte coinvolgimento e
partecipazione dei bambini, lasciando libera la fantasia e la creatività di esprimersi senza troppi
vincoli. Con i ragazzi più grandi potrebbe essere utile riflettere sulle varie manifestazioni creative nel
tempo e sull’impegno e la motivazione necessari per portare a conclusione un’opera o un processo
creativo. Si pensi alla vita dei grandi artisti, musicisti, scienziati che hanno lavorato duramente prima
di dare vita al loro capolavoro, ciò per cui vengono ricordati (una scultura, un dipinto, una
composizione musicale, ‘una formula matematica).

Come sappiamo, infatti, non sempre è sufficiente l’estro creativo e l’illuminazione per produrre
qualcosa di originale e innovativo: sono fondamentali anche la tenacia e la costanza con cui si
persegue il proprio obiettivo.

In realtà da questa base nasce l’idea della relazione tra “Creatività e scoperta di problemi” teorizzata
da Getzels (1975) ha osservato che la capacità di scoprire problemi non è utile soltanto nell’ambito
della ricerca scientifica. Egli ha distinto tale capacità dalle altre capacità cognitive facendo
riferimento ad una rappresentazione un tre dimensioni;

1. il modo in cui il problema viene formulato;


2. il metodo usato per risolvere il problema;
3. la soluzione stessa.
L’autentica scoperta di un problema non si verifica a mano che tutti e tre gi aspetti vengano generati
da un solo individuo il quale è in grado di formulare il problema, scoprire il metodo di soluzione e
trovare la soluzione.

Koestler: la bisociazione – ed il suo libro “l’Atto delle creazione”


Arthur Koestler ha scritto un libro molto importante sulla creatività dal titolo “l’Atto delle
creazione”. In questo libro si ci interroga chiedendosi a che serve discutere sull’importanza della
costituzione genetica o dell’ambiente se prima non si è determinato in che cosa consista precisamente
l’atto della creazione’?
Quello che serve veramente è uno studio sistematico eseguito da uno di quei rari individui che hanno
la fortuna di possedere essi stessi il particolare dono della creatività.

All’interno del testo conia il termine BISOCIAZIONE con ciò intendendo il prendere due cose che
tra loro non abbiano relazione, che non siano insomma incrociate, e incrociarle. Se da tale incrocio
nasce una risposta funzionale e utile allora abbiamo creato.

Koestler definisce “bisociazione” l’operazione che riunisce due schemi di riferimento, contesti
associativi o strutture di ragionamento che sarebbero normalmente considerate incompatibili;
“l’individuo creativo è pertanto colui che riesce a operare contemporaneamente su piani cognitivi e a
mettere poi in contatto tali piani tra di loro”

Sempre nell’opera “L’atto della creazione” Koestler difende la contiguità e la prossimità di tre
diversi piani della creatività: humor, scoperta e arte.
Piani diversi, humors, scoperta ed arte si intrecciano. È l’urto di due codici reciprocamente
incompatibili, o di due contesti associativi che fa esplodere la tensione. Creatività come conflitto tra
piani. In tal senso, il termine “bisociato” per distinguere tra i meccanismi ordinari del pensiero che
opera, per così dire, su un solo piano e l’atto creativo che opera sempre su più di un piano. Non a
caso per Koestler l’atto della scoperta ha un aspetto distruttivo e un aspetto costruttivo. Deve
distruggere gli schemi rigidi dell’organizzazione mentale per produrre una sintesi nuova. L’effetto
di tale procedimento è una bisociazione assai viva nella mente del pubblico.

Mark Runco e George Land – il rapporto nella storia tra società e creatività
Mark Runco è uno dei massimi studiosi contemporanei della creatività.
Mark psicologo cognitivo e studioso del pensiero creativo si è spesso anche confrontato con i
ricercatori anche italiani avendo promosso diversi convegni internazionali sulla creatività presso il
suo centro Creativity Research & Programming, presso l’Università della Southern Oregon.
Runco ha scritto un testo sulla creatività nel mondo occidentale, un testo storico-psicologico:
ripercorrendo la storia del verbo ‘creare’ nella lingua inglese, dalle origini latine fino al 1393, quando
Geoffrey Chaucer, considerato il padre della letteratura inglese, lo usò per la prima volta in
riferimento alla creazione divina. Possiamo considerarlo anche uno storico della creatività.
Nel suo libro “Creativity: Theories and Themes: Research, Development, and Practice” egli ha
cercato di comprendere se e come possa essere possibile stimolare in un gruppo di persone
l’accrescimento di questa sfuggevole dote, lo psicologo americano Mark Runco ha iniziato a
scomporre in fasi il “processo creativo”, le cosiddette sei fasi essenziali.
Il suo lavoro ha permesso di individuare sei fasi essenziali del processo creativo.

Le 6 fase dello sviluppo della creatività:


1. “orientamento” (un tempo di intenso interesse e curiosità), l’individuo creativo raccoglie
informazioni
2. “incubazione“, consiste nella definizione del problema e nella ricerca di una soluzione e comporta
l’elaborazione di grandi quantità di informazioni; questo può accadere a livello conscio o inconscio
3. “illuminazione”: il terzo stadio, è caratterizzato da pensiero divergente, apertura ed eccitazione
4. “verifica”, l’individuo valuta il proprio lavoro e lo confronta con ciò che è noto nel settore.
5. “comunicazione“, l’individuo sottopone il proprio lavoro all’attenzione di altri, rendendolo disponibile
agli esperti che ne giudicheranno la qualità e l’utilità.
6. “validazione” avviene nella sesta fase, in cui il lavoro diventa disponibile in modo pubblico e viene
di conseguenza sostenuto o rifiutato.
In epoche diversi, le persone creative o i creativi vengono visti in modo diverso dalla società in cui
vivono.
Secondo Runko durante l’epoca romantica, poi, la creatività caratterizzò lo stile di
vita bohémien degli artisti che si ribellarono all’industrializzazione di massa. La scienza ormai, agli
occhi dell’opinione comune, era stata così sistematizzata dal metodo scientifico da soffocare qualsiasi
spiraglio di innovazione. Secondo Runco e Albert, il conflitto dominante dell’epoca diventò quello
tra «lo scienziato eccessivamente razionale e l’artista come genio incompreso».
La creatività non riguarda solo come è facile intuirlo scrittori o artisti. Egli si sofferma anche su di
una creatività scientifica.
Nella sua storia della creatività Mark Runco, parla di intellettuali come Charles Darwin e Sigmund
Freud che approfondirono lo studio della natura umana, i concetti di creatività e psiche assunsero una
notevole rilevanza. Runco afferma che ogni grande psicologo del ventesimo secolo ha preso in seria
considerazione il concetto di creatività, e che la ricerca iniziata in quel periodo «può definirsi a dir
poco esplosiva». Gli psicologi si interessarono molto all’analisi della personalità umana, indipendente
dalla cultura e, contro ogni teoria precedente, dalla spiritualità.

Per Runko, come in generale per altri autori della creatività, è possibile mantenere ed accrescere i
livelli di creatività anche in età adulta adottando comportamenti specifici e facendo un pò di
allenamento. Per Runco il consolidarsi di strutture, regole e informazioni consente ai soggetti adulti
di svolgere in modo sempre più rapido ed efficiente le attività che sono state loro “insegnate”, ma al
contempo ne limita la capacità di immaginare cose diverse… è qualcosa di molto profondo che ha
radici nell’istinto di sopravvivenza della specie.

Creatività ed il suo opposto conformismo si succedono nelle diverse epoche storiche. La civiltà si è
basata sul consolidamento di modelli e consuetudini, insegnando fin da piccoli i comportamenti che
le singole società ritenevano adeguati e vincenti, acquisiti tramite l’esperienza, e deprecando i
comportamenti divergenti. La creatività dipende dalla società in cui si vive.

Runko studia anche la relazione tra intelligenza e creatività, a livello di indicatori, cimentandosi
sempre nel solito processo, se si riesce a stabilire uno strumento per misurare la creatività.
Introducendo anche il concetto di soglia, al di sotto della soglia l’individuo non ha sufficiente abilità
mentali da manifestare creatività, al di sopra vi è il potenziale per la creatività ma nessuna garanzia
di osservarla.

L’intelligenza, secondo la teoria della soglia (comune abbiamo visto anche ad Andrea Gentile),
è condizione necessaria ma non sufficiente per risultati creativi. La seconda, ancora più importante
per questa trattazione, è che i test di pensiero divergente hanno in generale una validità molto bassa,
come indicato dalle scarse correlazioni significative con altri indicatori di talento e prestazioni
creative. La prospettiva più accreditata attualmente è quella della soglia di intelligenza necessaria per
la performance creativa, anche se è più accurato definirla come soglia dell’intelligenza tradizionale,
vista la natura concettuale molto diversificata che l’intelligenza a tutt’oggi. Al di sotto di una certa
soglia minima per Runco la persona non può essere creativa. Questo vuol dire che i due costrutti sono
ancora distinti e indipendenti in generale, escluso al di sotto di un valore di soglia minimo per cui
sono correlati (alcuni studiosi individuano anche una soglia massima nel punto in cui un’alta
intelligenza interferisce con la possibilità di essere realmente creativi, nell’intorno di un QI di 180).
Un ulteriore tassello utile a comprendere quanto sfidante sia adottare modelli di intelligenza creativa
lo ha fornito George Land, lo scienziato che ha ideato il test di creatività per la NASA, al fine di
selezionare ingegneri e scienziati innovativi.
Nel 1968 egli ha condotto uno studio di ricerca per testare la creatività di 1.600 bambini di età
compresa tra i tre e i cinque anni; ha riesaminato gli stessi bambini a 10 anni e di nuovo a 15 anni.

I risultati furono:
 Risultati dei test tra i bambini di 5 anni: 98%
 Risultati dei test tra i bambini di 10 anni: 30%
 Risultati dei test tra i quindicenni: 12%
 Stesso test dato a 280.000 adulti: 2%
FONTE: Mark Runco direttore del centro Director, Creativity Research & Programming, Southern
Oregon University, Il suo libro “Creativity: Theories and Themes: Research, Development, and
Practice” non è stato ancora tradotto in italiano.

Daniel E. Berlyne: la curiosità epistemica ed il suo uso nella didattica della scoperta
Alla base della motivazione, troviamo “la curiosità”, questa infatti è direttamente collegata alla
prestazione, alla motivazione ed alla riuscita.
In pratica, MOTIVAZIONE INTRINSECA E MOTIVAZIONE ALLA RIUSCITA sono strettamente
connesse. Berlyne sostiene che i bambini possiedono un’intrinseca esigenza di esplorare campi non
familiari, in pratica esiste una funzione intrinseca di tipo esplorativa che spinge i soggetti alla ricerca
di nuovi stimoli percettivi. La stimolazione con variazione costante come oggi solo si può osservare
nei social media, in Tik Tok ed altri media stimola una parte di questa relazione.

L’apprendimento anche nei bambini si confronta con la capacità di immagazzinare informazioni


teoriche e procedure pratiche, varia in funzione della motivazione, cioè della volontà di acquisire
competenza. Il docente deve stimolare e guidare questa curiosità, incanalarla in forme, modi e rituali.
L’approccio più interessante alla motivazione è quello che prende in considerazione le componenti
intrinseche della stessa. A tale riguardo i costrutti rilevanti sono cinque:

1. · la curiosità epistemica;
2. la motivazione;
3. · l’autodeterminazione;
4. · l’esperienza di flusso;
5. · l’interesse.
Si parla di CURIOSITÀ EPISTEMICA intendendo per episteme i processi di conoscenza ed
apprendimento.

La curiosità epistemica fa riferimento al bisogno di conoscere e trae origine dalle teorie che spiegano
la motivazione come una risposta a bisogni di vario tipo, semplici e universali (ad es. sfamarsi e
proteggersi dal freddo), oppure complessi e legati a fattori socio-culturali (ad es. sentirsi stimati e
approvati). La curiosità epistemica è un bisogno universale di conoscere e di apprendere che si
manifesta tramite l’esplorazione dell’ambiente ed è motivata solo dal desiderio di sapere (Berlyne,
1960).

⇒ La curiosità però può essere implementata anche dalla noia e quindi dal bisogno di nuove
stimolazioni di tipo percettivo che permettono di ottenere nuove informazioni.

⇒ La teoria della curiosità epistemica evidenzia il ruolo dell’ambiente e le caratteristiche degli stimoli
che da esso provengono piuttosto che gli atteggiamenti e gli obiettivi del soggetto. In pratica, se
stimoliamo i bambini in modo sistemico e ripetitivo (ritorna in questo modello l’approccio di tipo
sistemico).

Daniel E. Berlyne nei testi Conflitto, attivazione e creatività (1960) ed Estetica e


psicologia (1971) parla di comportamento esploratorio del bambino che muove i primi passi ed
esplora ambienti, alla cui base vi è una particolare concezione dell’arousal, che, secondo Berlyne,
tenderebbe a mantenere un livello costante. Variazioni di tale livello in aumento o in diminuzione
spingerebbero l’organismo a mettere in opera un comportamento che tende a ridurlo e viceversa.
Berlyne definisce queste caratteristiche come proprietà collative dello stimolo, cioè elementi di novità
e di incongruenza con le precedenti conoscenze. Sono queste incongruenze, che creano un conflitto,
a generare la motivazione ad apprendere. Questa motivazione risponde al bisogno di ottenere nuove
informazioni, cioè alla curiosità, per superare il momento di incertezza. Berlyne sostiene in pratica
che negli uomini esiste una pulsione esplorativa; questa si attiva, nel momento in cui un soggetto
entra in contatto, mentre vive nel suo ambiente, con elementi estranei.

In una situazione ottimale le proprietà collative dovrebbero permettere una stimolazione di media
entità.

Se il livello di stimolazione tende al basso potrebbe generarsi una situazione di monotonia con
conseguente abbandono di interesse, al contrario se tende verso l’alto avrà luogo un effetto inibitorio
accompagnato da manifestazioni ansiogene. Soltanto se l’intensità della stimolazione (o la
discrepanza dall’informazione) ha un livello medio ci può essere una motivazione intrinseca di
curiosità che consente un’esplorazione ambientale soddisfacente e una focalizzazione attentiva senza
percezioni di ansia né rischio di fallimento.
Il limite della curiosità epistemica è che non fornisce garanzie circa la costanza e la persistenza di
fronte alle novità e agli ostacoli; di conseguenza non può rappresentare l’unica motivazione intrinseca
a imparare.

L’apprendimento è tale se sviluppa capacità di problem solving, come abbiamo visto nei moduli
teorici di Origine sulla creatività, trasformando le conoscenze in competenze: così dice lo psicologo
statunitense Ausubel, che lo definisce come un processo che dà un senso alle conoscenze, integrando
nuove informazioni con quelle già possedute.

Per lui, l’apprendimento è un processo di assimilazione di nuove conoscenze, che presenta due
dimensioni fondamentali: le modalità di acquisizione delle informazioni e le forme in cui una
nuova unità di contenuto viene incorporata.
In base alla prima dimensione, l’apprendimento viene suddiviso in:

– apprendimento per scoperta: in cui l’alunno viene a contatto con una nuova informazione in
maniera attiva che gestisce autonomamente
– apprendimento per ricezione: in cui il soggetto recepisce in maniera passiva l’informazione già
strutturata da altri (es. docenti o genitori).
In base alla seconda dimensione, l’apprendimento viene diviso in:

– apprendimento meccanico con conoscenza oggettiva. Qui il focus è sull’insegnante che deve
trasmettere, tramite un approccio didattico istruzionista, contenuti culturali all’allievo.
– apprendimento significativo con conoscenza soggettiva. Il focus qui invece è sullo studente che, in
un’ottica di didattica costruttivista, deve trovare nelle sue conoscenze pregresse e nella sua
motivazione ad apprendere il motivo per assimilare nuovi concetti interiorizzandoli in maniera
personale.
Daniel E. Berlyne sostiene, nell’ambito del comportamentismo, che, essendo stato superato il divieto
di avere interesse di quello che si frappone tra l’emissione di uno stimolo e la relativa risposta,
esistono dei processi interni all’organismo, che non sono rilevabili né osservabili a livello di
comportamento manifesto.
Tali processi sono, però, necessari per spiegare tale comportamento. Già i comportamentisti avevano
elaborato lo schema S–R (stimolo–risposta), egli inserisce nello schema la motivazione interna del
soggetto/organismo. Così trasformato in S–O–R (Stimolo–Organismo–Risposta).

Il rapporto tra motivazione e creatività per Berlyne è essenziale e rompe la logica comportamentista.

I comportamenti, in generale, sono prodotti da una motivazione interna, che egli chiama motivazione
di curiosità. Tale motivazione è una tendenza connaturata, adeguata ad esplorare il mondo circostante
e a risolvere problemi.

Secondo Berlyne il piacere prodotto dalle qualità possedute dalle immagini è dovuto a un aumento di
attivazione (arousal) dell’organismo. Nell’epoca dell’immagine e della stimolazione visivo-digitale
questo dato assume un aspetto quasi profetico. L’arousal è definito come una dimensione lungo la
quale varia lo stato di attivazione dell’organismo, dal sonno profondo allo stato di veglia,
all’attenzione vigilante per giungere a livelli elevati di eccitazione.
⇒ La qualità edonica (piacere) prodotta dalla valutazione di un’immagine sarebbe determinata da
una “motivazione intrinseca”: l’elaborazione degli stimoli produrrebbe un aumento di tensione o un
alternarsi di aumento e decremento.
L’arousal costituirebbe un meccanismo di ricompensa e orienterebbe verso la preferenza dello
stimolo che genera tale attivazione (vedremo tale concetto poi meglio nel modulo di Origine
sulle emozioni).
Inoltre, per poter avere un maggiore controllo e poterli manipolare variandoli sistematicamente, gli
stimoli sperimentali utilizzati da Berlyne erano spesso costituiti da poligoni (ben lontani quindi da
oggetti d’arte veri e propri). È uno di quei casi in cui il rigore della ricerca sperimentale è a discapito
della validità ecologica.

Inoltre non venivano prese in considerazione le differenze individuali dei percettori nella valutazione
degli stimoli: la novità, la complessità o l’ambiguità dello stimolo avevano lo stesso peso per tutti i
partecipanti.
Rimaneva un’estetica dal basso perché erano sempre le caratteristiche dello stimolo a produrre delle
differenze nella valutazione di preferenza.

Il comportamento epistemico che ne segue mette in moto i processi mentali dell’osservazione, della
consultazione delle fonti e di un pensiero diretto alla risoluzione del problema. Questo in campo
pedagogico e psicologico motiva l’apprendimento e stimola la curiosità.

Il metodo Feuerstein
Il metodo Feuerstein prende il nome da Reuven Feuerstein, che lo ha elaborato per sviluppare
l’intelligenza di bambini con problemi di apprendimento o con disabilità intellettiva, oppure
interessati da sindrome di Down.

Il metodo consiste nel rendere consapevole il bambino, l’individuo, che attua dei precisi processi
mentali quando impara o risolve dei problemi. Che può essere consapevole di questi processi mentali,
(può “vedere” come pensa) e che può modificarli per meglio imparare e risolvere problemi di varia
natura, non solo matematici o scolastici.

Il metodo è oggi applicato oltre che a studenti, a persone adulte, ad esempio lavoratori che devono
aggiornarsi alle nuove tecnologie, disoccupati ed emarginati. La prima fase del metodo prevede la
valutazione dinamica della propensione all’apprendimento (LPAD) di un bambino o di un adulto (si
differenzia quindi in modo marcato dalla misurazione del quoziente intellettivo per strumenti,
modalità e scopo della valutazione) per poi svilupparne appunto l’intelligenza con apposito
insegnamento centrato sulla mediazione didattica, fatta da una persona professionalmente preparata
ad applicare il metodo in uno dei centri accreditati ufficialmente.

La parte applicativa del metodo è il PAS (Programma di Arricchimento Strumentale) con cui si
procede tramite esercizi, svolti sempre sotto la guida di un insegnante, a sviluppare l’intelligenza
intesa come proprietà dinamica della mente, cioè modificabile. In sintesi
Ad esempio gli esercizi del PAS puntano a:
 far controllare l’impulsività quando si deve rispondere ad una domanda o risolvere un problema
 far riflettere prima di compiere anche la più piccola azione
 chiedersi sempre quale è il problema e come lo si è risolto e perché si ha avuto successo o meno.
Lo stesso Feuerstein afferma e dimostra, dato che il metodo è ormai applicato in varie nazioni, che il
cervello umano è modificabile strutturalmente se opportunamente stimolato e che ad ogni età un
individuo può cambiare ed incrementare la propria intelligenza che può così essere insegnata.

Secondo il metodo Feuerstein, l’intelligenza non è un tratto ereditato geneticamente e perciò


immutabile; è invece uno stato, risultato di diverse componenti, di cui quella genetica non è la sola
né la più importante. L’intelligenza è la propensione dell’organismo a modificarsi nella sua struttura
cognitiva, in risposta al bisogno di adattarsi a nuovi stimoli, di origine interna o esterna che
siano (Feuerstein 1998)

Il modello di apprendimento esperienziale di Pfeiffer e Jones


Le riflessioni viste sulle modalità di costruzione di competenze, possono essere collegate ai modelli
di apprendimento esperienziale di tipo sequenziale. Pfeiffer e Jones presentano un modello di
apprendimento attivo in cui l’allievo svolge attività “autentiche” (ossia tratte da problemi concreti
riferiti a contesti reali) e che prevede l’interazione degli allievi in un contesto sociale, a cui
partecipano l’insegnante e i compagni, all’interno del quale l’esperienza assume significato anche
attraverso processi di negoziazione sociale.

Tale modello prevede un processo di apprendimento di tipo circolare, basato su cinque momenti
caratteristici.

Utilizzando in classe questo modello bisogna iniziare un problema aperto, sfidante, nuovo e che gli
studenti non hanno mai affrontato in precedenza. Un problema che permette non una sola soluzione,
ma più soluzioni, ognuna delle quali presenta punti di forza e punti di debolezza.

La tabella seguente illustra la corrispondenza tra lo schema di Pfeiffer e Jones e quello di Le Boterf.

Pfeiffer e Jones Le Boterf (2000) Descrizione


(1975)

1. Esperienza 1. Esperienza vissuta Facciamo un compito!


La fase di esperienza è un compito proposto dall’insegnante, ad
esempio:

a) leggere un testo ed individuare ed esplicitando concetti chiave e


relazioni che li legano;

b) costruire classificazioni, tipologie e tassonomie;

c) compiere esercitazioni che implichino operazioni di problem


solving, rispondendo a domande proposte dall’insegnante, ma
anche di problem posing, ad esempio individuare le possibili
domande che l’insegnante potrebbe porre a partire da un testo e
formulare le possibili risposte, oppure i problemi che potrebbero
sorgere in una situazione concreta tratta dalla vita reale e le
soluzioni plausibili;

d) mettere a punto relazioni di ricerca su argomenti specifici,


attraverso la raccolta, l’organizzazione, la rielaborazione di
materiali;

e) creare resoconti di sperimentazioni e simulazioni operate in


laboratorio (anche con laboratori virtuali e strumenti di
simulazione)

f) attività di role playing.

2. Comunicazione 2. Esplicitazione e narrazione dell’esperienza Adesso vi racconto cosa ho fatto, come l’ho fatto e perché ho
fatto così …

Nella fase di comunicazione vengono resi pubblici sia il prodotto


dell’esperienza dell’allievo sia il processo che lo ha generato. E’
questo il momento di condivisione, ripensamento collettivo, di
discussione, di confronto dei propri processi/prodotti con i
processi/prodotti dei compagni. L’insegnante deve puntare ad
incoraggiare la diversità, favorire la diffusione di una pluralità di
modi di pensare, e soprattutto mettere in luce le buone pratiche,
sulla base di criteri condivisi dall’intera classe.

3. Analisi 3a. Concettualizzazione o modellazione. Cosa ho fatto “giusto”? Cosa ho sbagliato? Quali sono i punti
Formalizzazione degli schemi-modelli. di forza del mio lavoro? Quali sono i punti di debolezza?

Il momento di analisi è il momento in cui l’allievo valuta la propria


esperienza, riflettendo su di essa.

Oggetti di analisi possono essere:

a) la propria interpretazione del compito proposto e le possibili


interpretazioni alternative; b) le proprie strategie operative e le
possibili strategie alternative;
c) le dinamiche personali ed interpersonali insorte nello
svolgimento dell’esperienza, quali ad esempio il proprio
atteggiamento verso il compito, i rapporti con i compagni che in
qualche modo hanno partecipato alla sua esperienza.

E’ un momento personale di rielaborazione originale e creativa,


volto a delineare possibili linee di integrazione tra i propri modelli
operativi e i modelli visti mettere in atto dai compagni. L’analisi è
tanto più efficace quanto più l’allievo ha un atteggiamento “aperto”
verso i modelli degli altri.

4. 3b. Decontestualizzazione degli schemi-modelli. Come posso fare meglio la prossima volta?
Generalizzazione

Questo è il momento in cui a partire dai risultati


dell’analisi vengono elaborati nuovi modelli operativi, l’adozione
dei quali porterà a modificare la propria struttura di pensiero. E’ un
momento di concettualizzazione e di decontestualizzazione, in cui
l’allievo estrapola schemi, regole e sistemi di regole, generali, non
legati alla specifica situazione proposta dall’esperienza, ma
applicabili anche a problemi e contesti diversi.

I nuovi modelli elaborati potranno poi essere testati nel corso di


nuove esperienze.

E’ questo il momento cruciale del processo. Un allievo che non è


disposto a mettere in gioco le proprie strutture di pensiero, di
interpretazione e di azione, non accetterà, consapevolmente o
inconsapevolmente, di incorporare nella sua struttura di pensiero
elementi provenienti dall’esperienza compiuta, propria e di altri. La
fase di generalizzazione produrrà quindi solo cambiamenti
superficiali, non significativi.

5. Applicazione 4. Ritorno alla messa in pratica. Adesso che devo rifare la stessa cosa, come la faccio?
Ricontestualizzazione di schemi-modelli, anche
con apporti di conoscenze teoriche, nuovi
concetti ed esperienze altrui. Nel momento di applicazione l’allievo viene chiamato a
ricontestualizzare in una nuova situazione-problema, quanto ha
decontestualizzato nella fase di generalizzazione, utilizzando i
costrutti, vecchi e nuovi, dal lui prodotti per delineare un nuovo
piano di azione, che poi testerà in una successiva fase di esperienza
(da qui la ciclicità del processo). E’ questo il momento della
responsabilizzazione e della concretezza: l’allievo ritorna sul già
fatto per dimostrare che ora può farlo meglio, per acquisire
consapevolezza dello scarto tra le sue competenze all’inizio del
processo, prima della fase di esperienza, e al termine dello stesso
quando una nuova fase di esperienza sta per iniziare.

Da aggiungere:
CREATIVITA’ ORIOGINE DEF, sulla cartella.

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