INSEGNAMENTO II
maturazione.
La teoria comportamentista
Agli inizi degli anni '60 molti ricercatori si sono occupati di bambini ed hanno
cominciato ad approfondire i meccanismi di socializzazione fin dai primi anni di vita.
Le prime teorie definivano il processo di socializzazione come quel processo
attraverso cui il bambino inerme diviene gradualmente una persona consapevole di
sé stessa, questa tesi sosteneva la necessità di adeguamento del bambino alle
regole della società a cui appartiene, e quindi il suo sviluppo sociale veniva inteso
principalmente come acquisizione dei prerequisiti sociali per arrivare solo in seguito
all'interazione con gli altri. (R. Aloisio ).
Tesi che fu offuscata dalla teoria costruttivista di Piaget e dal prevalere del
paradigma cognitivista. Secondo questo approccio l'interazione del bambino con gli
altri e con l'ambiente che lo circonda è di fondamentale importanza per il suo
sviluppo sociale e cognitivo.
Il contesto familiare, il gruppo dei pari, la scuola e i mezzi di comunicazione di massa
diventano agenti di socializzazione cruciali che accompagneranno il percorso
evolutivo del bambino per tutta la vita. La socializzazione è un processo lento e
inarrestabile che porta ciascun individuo a far parte di una determinata società
perché da essa ed in essa apprenderà e userà le norme, i comportamenti, i ruoli e le
istituzioni di cui la stessa società si compone.
La dott. ssa Raffaella Aloisio, nel suo articolo "La Socializzazione nella prima
infanzia" afferma che la socializzazione è un processo che dura tutta la vita, ma
può essere suddivisa in due fasi principali; la socializzazione primaria e secondaria.
Nella prima il bambino verifica una progressiva generalizzazione dei ruoli e degli
atteggiamenti degli altri in particolare i membri della famiglia (padre, madre,
fratelli, nonni ). In questa fase il bambino comincia ad apprendere l'insieme delle
norme e delle regole che governano la vita sociale.
Questo apprendere dagli altri attraverso l'interazione con essi è stato definito da
Mead "il modello dell'altro generalizzato", momento cruciale in quanto permette al
bambino di identificarsi con una generalità di altri e quindi permette di iniziare a
comprendere la società.
Nella socializzazione primaria il bambino è naturalmente dipendente dagli altri, nel
senso che non ha la capacità di scegliere le persone per lui importanti. È stato
studiato, infatti, che i bambini di tutte le culture cominciano il proprio sviluppo in
situazioni di dipendenza totale dagli adulti, per poi conquistare la relativa
autonomia.
È in questa fase che il bambino svolge funzioni elementari di apprendimento
chiamate "turn taking", ovvero schemi di azioni e di interazioni complementari,
come ad esempio il dare, il prendere, fare domande, rispondere, ecc.
La socializzazione primaria si distingue da questo carattere di assoluta dipendenza
del bambino rispetto al nucleo familiare di appartenenza, la famiglia è quindi per lui
la società, il suo ambiente, anche perché l'unico che conosce realmente: quando il
bambino però comincia per esempio ad andare all'asilo e a scuola, vediamo che
anche i coetanei assumono progressivamente un ruolo molto importante ai fini del
suo processo evolutivo, tanto importante quanto quello svolto fino a quel momento
dalla sua famiglia. I bambini, in sostanza, cercano con tenacia di costruirsi modalità
di controllo e di governo della propria vita quotidiana, attraverso la creazione di una
rete di rapporti con compagni-amici che permetta loro di partecipare alla vita
sociale.
È in questa fase che il bambino comincia a mettere in discussione il ruolo degli adulti
e a fare le prime interferenze fra il suo ambiente di crescita e quello degli altri. È
anche in questa fase che si scatenano le prime tensioni emotive come ad esempio,
paura, confusione, curiosità, momenti che vengono stimolati e compresi soprattutto
nelle fase del gioco. All'interno della famiglia il processo di socializzazione
inizialmente è un processo che trasforma le esigenze fisiche (quali essere accudito e
curato- attaccamento materno- Bowlby) in esigenze interiori per cui se si fanno
determinate cose si ottengono compensi e approvazioni affettive o soddisfazione
dei propri bisogni. Il bambino , imparerà con il tempo a riflettere e a valutare ciò che
accade intorno a lui sia per le sue richieste che quelle della famiglia.
Questo primo apprendimento avverrà quindi, per prove ed errori "trial and error"
oppure per training diretto dai genitori stessi che da quando nasce il bambino
cercano di trasmettergli le regole della casa, le abitudini, le usanze... È in questo
modo che i gesti assumono un significato comune per il bambino e per la sua
famiglia, divenendo "gesti convenzionali". Tali gesti condivisi permettono al bambino
di comunicare con precisione i desideri e i bisogni, garantendogli quindi, la
sopravvivenza.
Se in famiglia si costruiscono i primi importanti legami affettivi e si interiorizzano le
norme e i valori più elementari, a scuola si costruiscono i primi comportamenti
sociali in un ambito più formale, in particolare si sperimentano ruoli più
"istituzionalizzati" e si acquistano competenze specifiche.
La scuola in genere, riveste nella società contemporanea una posizione centrale nel
sistema educativo e sociale. Oggi questo entrare anticipato con il nido e con la
materna porta a sperimentare sempre prima i comportamenti acquisiti in casa, in
famiglia dai fratelli o sorelle e con gli stessi genitori o nonni. Inoltre, bisogna anche
considerare l'effetto socializzante dei Mass-media che è sicuramente più informale e
non manifesto ma, che consente di diffondere atteggiamenti, opinioni, valori, stili di
vita che vengono fatti propri dai fruitori e quindi già da bambini (pensiamo alle
pubblicità a loro rivolte, oggi anche a due anni un bimbo riesce a scegliere accessori
rivolti alla sua fascia d'età). Mentre la partecipazione sociale e l'amicizia sono
elementi centrali della cultura dei coetanei, una crescente differenziazione sociale e
la presenza di conflitti nelle relazioni sociali sono aspetti caratteristici nel corso
dell'infanzia fino all'adolescenza. Il primo segnale di differenziazione sociale è
l'intensificarsi delle differenze fra i sessi.
La socializzazione secondaria invece, comporta naturalmente un'identificazione
emotiva con gli adulti; meno intensa di quella primaria, ma comunque importante. Il
rapporto genitori-figli è infatti sempre indispensabile ed allo stesso tempo
estremamente funzionale ad una socializzazione completa e regolare. Fonte di crisi
durante la socializzazione secondaria è proprio la presa di coscienza da parte dei
ragazzi del fatto che la famiglia e i genitori in particolare non sono più l'unico mondo
esistente. In generale la socializzazione secondaria implica riti più o meno espliciti e
ufficiali d'iniziazione al mondo adulto, periodi di apprendistato, l'esperienza di
transizioni ecologiche, come ad esempio la scuola, e in seguito l'ingresso nel mondo
del lavoro e l'uscita dalla famiglia. Nel processo di socializzazione di una nuova
generazione, è difficile stabilire il grado per cui il patrimonio umano è intrinseco
nelle informazioni genetiche e il grado di informazioni trasmesse attraverso la
conoscenza.
Sono entrambi fattori esistenti, ma pare che le informazioni genetiche siano
soprattutto delle potenzialità che si possono sviluppare, non delle informazioni
precise e restrittive. Questo è anche ciò che ci differenzia di più dal resto della
specie animale, che invece presenta un alto grado (rispetto all'uomo) di informazioni
genetiche precise e un minore grado di facoltà di apprendimento.
Fasi della socializzazione primaria: alla nascita un bambino, è un essere dotato di
grande plasticità entro i limiti posti dalle caratteristiche biologiche della specie. Le
modalità e gli esiti della prima fase di socializzazione condizionano, ma non
determinano le modalità e gli esiti delle fasi successive. L'esperienza della prima
socializzazione, determinerà il rapporto che il bambino crescendo poi manifesterà
nei confronti del mondo.
Se la prima socializzazione risulta appagante, se l'attaccamento alla madre viene
ripagato con una buona interpretazione dei bisogni del bambino, egli svilupperà un
atteggiamento positivo nei confronti della vita. La stabilità affettiva, il frequente
contatto fisico, sono tutti fattori che creano nel bambino sicurezza e fiducia in se
stesso e nel mondo che lo circonda. Tuttavia, il bambino non è solamente un essere
che reagisce ai fattori esterni, ma è anche lui il protagonista insieme ai genitori del
rapporto che va formandosi. I genitori nell'educare il bambino dispongono di una
molteplicità di metodi di punizione/premio, la loro efficacia e la loro attuazione
determinerà una buona o cattiva interiorizzazione delle regole da parte del neonato.
Le prime interazioni sociali sono imperniate sulla necessità del neonato di una
regolazione biologica di processi quali l'alimentazione e il sonno.
Nelle fasi successive il tema principale riguarda la regolazione dell'attenzione
reciproca e della prontezza a rispondere all'altro, come principalmente si riscontra
nel contesto delle interazioni faccia a faccia. I neonati impongono a queste
interazioni dei cicli di attenzione biologicamente determinati mentre i genitori vi si
adattano, assicurando una sincronizzazione dei due insiemi di azioni. Con il
progressivo aumento delle capacità attentive, i bambini divengono sempre più in
grado di incorporare gli oggetti nelle interazioni sociali. Adesso adulto e bambino
condividono argomenti. Verso la fine del primo anno di vita si sviluppa nel bambino
un insieme di capacità, il comportamento diventa più finalizzato, flessibile e
coordinato. Questi sviluppi si riflettono nei cambiamenti che avvengono nei giochi
tra adulto e bambino, e in particolare nell'incremento della reciprocità e
dell'intenzionalità.
L'aumentata coordinazione è anche responsabile degli sviluppi nella capacità di
comunicazione. Il bambino inizia ad esprimersi a gesti e riesce a identificare punti di
riferimento sociale: per entrambe le cose è necessaria la coordinazione
dell'attenzione nei confronti del partner e nei confronti di un evento esterno.
Con l'emergere delle rappresentazioni simboliche, le interazioni sociali acquistano
una caratteristica sostanzialmente verbale. Le capacità linguistiche si sviluppano
principalmente durante gli incontri faccia a faccia, nei quali gli adulti possono
adattare il loro imput alle capacità del bambino. I legami di attaccamento che si
formano durante l'infanzia sono durevoli, emotivamente significativi e legati a
persone specifiche. Essi implicano la ricerca della vicinanza fisica del genitore e
permettono così di ottenere cure e protezione in un'età nella quale il bambino è
ancora indifeso e immaturo.
Secondo la teoria dell'attaccamento di Bowlby il bambino è predisposto
geneticamente a sviluppare legami di apprendimento con chi ha cura di lui e che sia
pertanto dotato di risposte comportamentali come piangere, aggrapparsi a una
persona o seguirla. Queste risposte si sviluppano inizialmente in modo
indiscriminato ma a tempo debito si indirizzano verso persone specifiche e vengono
organizzate all'interno di un sistema coerente di attaccamenti. Con lo sviluppo
deN'intenzionalità e della capacità di pianificazione compare una relazione gestita in
funzione dell'obiettivo: il bambino è inoltre in grado di sviluppare dei modelli
operativi interni che gli permettono di rappresentarsi mentalmente il legame di
attaccamento.
Gli attaccamenti mirati compaiono per la prima volta intorno ai 7-8 mesi di vita del
bimbo. La capacità di riconoscere persone familiari compare molto prima; tuttavia
soltanto verso la seconda metà del primo anno di vita il bambino acquisisce la
"costanza della persona" cioè la capacità di rimanere orientato verso determinate
persone anche in loro assenza. È un prerequisito fondamentale per la formazione di
un legame di attaccamento. Anche durante la prima infanzia possono svilupparsi
legami di attaccamento nei confronti di varie persone. La scelta dipende dalla
qualità dell'interazione con queste persone piuttosto che da caratteristiche quali il
sesso o la quantità di tempo trascorsa insieme. Con lo sviluppo dei modelli operativi
interni il bambino diventa capace di tollerare periodi di separazione
progressivamente più lunghi; diventa inoltre sempre più capace di tener conto delle
intenzioni degli altri e di formare perciò legami più equilibrati e flessibili.
I bambini elaborano concetti sociali, soprattutto di se stessi e delle persone con le
quali interagiscono, per dare un significato alle loro esperienze in situazioni
interpersonali. Il sé funge da base di riferimento nell'interazione con gli altri, è un
complesso sistemi di differenti costrutti: uno degli aspetti del sé è la consapevolezza
della propria esistenza. Questo aspetto compare a metà del secondo anno di vita,
infatti nel linguaggio dei bambini compaiono termini relativi al sé, come segni di
autocoscienza. Alla domanda "chi sono io" le risposte variano nel corso dell'infanzia
da incoerente a coerente, da astratto a concreto, da assoluto a comparativo e dal sé
pubblico al sé privato. Un altro aspetto è l'autostima, cioè la percezione che i
bambini hanno del proprio valore. Questa è largamente influenzata dalle esperienze
sociali dei bambini: quindi non rimane statica nel corso degli anni ma varia secondo
il campo a cui si applica.
Il sé è circondato da intense emozioni come si può osservare nella capacità dei
bambini di provare orgoglio e vergogna, emozioni che si manifestano per la prima
volta alla fine dei due anni di vita quando i bambini sono in grado di auto valutarsi.
Bambini molto piccoli hanno già una certa capacità di capire che le altre persone
possiedono emozioni intime: manifestazioni di empatia con le ansie di altre persone.
I discorsi spontanei dei bambini sugli stati d'animo degli altri cominciano molto
presto, almeno dal terzo anno di vita. Le conversazioni con i genitori forniscono un
contesto per discutere di questi stati e danno ai bambini la possibilità di
approfondire le ragioni del comportamento degli altri. Rispetto allo sviluppo del
ruolo sessuale, i bambini molto piccoli cominciano attivamente a cercare le norme
che regolano il modo in cui maschi e femmine devono comportarsi.
Lo sviluppo delle differenze psicologiche legate al sesso è stato analizzato
soprattutto in tre aree: la preferenza nella scelta dei giocattoli e delle attività di
gioco, le caratteristiche della personalità e la scelta dei compagni di gioco. In tutti e
tre i settori sono state riscontrate delle diversificazioni relative al sesso daN'inizio
dell'età prescolare in poi, sebbene ciò si verifichi più nei maschi che nelle femmine.
La nozione del ruolo sessuale, cioè come si dovrebbero comportare gli appartenenti
ai due sessi, si manifesta intorno ai due anni circa. A metà dell'infanzia la stereotipia
sessuale, soprattutto nei maschi è completamente stabilita.
Dalla nascita i genitori si comportano con i maschi in modo diverso rispetto a quanto
fanno con le femmine. Altre influenze sociali, come quelle esercitate dai coetanei e
dai media, possono avere un ruolo importante. È improbabile, tuttavia, che lo
sviluppo del comportamento sessualmente caratterizzato possa essere spiegato
totalmente in termini ambientali. Sviluppo della socializzazione: Un mese: anche i
neonati sono creature sociali. Amano essere toccati, tenuti in braccio, coccolati. Già
al primo mese, comincerà a provare a farti delle facce strane. Si divertirà a guardare
la tua faccia e magari ad imitare i tuoi gesti.
Tre mesi: farà il suo primo vero sorriso, un evento sociale memorabile per tutti i
genitori. Presto "parlerà con i suoi sorrisi" iniziando un'interazione con la mamma.
Quattro mesi: sta diventando più aperto alle persone nuove, salutandole con
gridolini. Ma a questa età nessuno si avvicina a mamma o papà. Il figlio riserverà la
sua reazione più entusiasta per loro. Segno del legame di attaccamento.
Sette mesi: il bimbo diventa più mobile, comincia ad interessarsi agli altri bambini.
Ma la cosa si limita probabilmente a qualche occhiata o manata. Ogni tanto
sorrideranno e si imiteranno a vicenda, ma principalmente saranno preoccupati del
compito che hanno davanti. Quando due bambini che hanno meno di un anno sono
messi insieme con dei giocattoli, di solito giocano fianco a fianco ma non uno con
l'altro. Per la maggior parte del tempo, il bambino sarà occupato a sviluppare altre
abilità per farsi coinvolgere davvero da un compagni di giochi. I bambini di questa
età continuano a preferire i loro genitori. Potrebbero addirittura essere spaventati
da volti non familiari. L'ansia verso gli estranei è molto comune. 12 mesi: verso la
fine di questo anno, potrebbe sembrare un po' asociale, piangendo quando non gli
stai vicino o agitandosi quando lo metti in braccio a qualcun altro.
Molti bambini vivono l'ansia da separazione, con un picco intorno ai 10 e i 18 mesi.
Preferirà la mamma escludendo gli altri e potrebbe essere turbato quando non c'è.
Solo la presenza della mamma lo calmerà.
Dai 13 ai 23 mesi: i bambini di questa età sono un'altra storia. Sono più interessati al
mondo, ma principalmente in come le cose del mondo hanno a che fare con loro.
Imparando a parlare e comunicare con le altre persone, imparerà anche a farsi degli
amici. Gradirà la compagnia di altri bambini, sia coetanei che più grandi. Fra uno o
due anni, tuttavia, sarà molto geloso dei suoi giocattoli, cosa difficile da accettare
per dei genitori che pensano che dovrebbe imparare a condividere. Si noterà che
forse imita gli amici e passa molto tempo a guardare quello che fanno. Vorrà inoltre
affermare la propria indipendenza, rifiutandosi di darvi la mano quando camminate
per la strada, per esempio, o facendo i capricci quando gli si dice di non fare
qualcosa che vuole fare.
Dai 24 ai 36 mesi: i bambini tendono a diventare ancora più egocentrici . Non sono
ancora capaci di mettersi nei panni degli altri o capire che anche gli altri hanno dei
sentimenti. Ma crescendo, imparano a condividere e a fare a turno, e potrebbero
anche finire per avere uno o due amici speciali. Si pensa di averlo viziato per il loro
egoismo. Non bisogna preoccuparsi, i bambini di quest'età sono egocentrici per
natura. Ma è importante che i genitori gli mostrino come si deve comportare; se per
noi è importante dire "per favore" " grazie", fare i complimenti a qualcuno per un
lavoro ben fatto e condividere le cose, nostro figlio imparerà dal nostro esempio.
Iscriverlo ad un asilo o ad uno sport, in modo che possa stare con i bambini, può
migliorare la vita sociale attiva. Man mano che l'individuo cresce, i suoi rapporti
sociali si estendono dalla madre, alla famiglia, a gradi sempre più elevati e
diversificati.
Allo stesso modo l'individuo dovrà cambiare pur mantenendo stabile la propria
identità. In questo processo si possono distinguere due componenti che corrono
parallelamente: l'identificazione, il riconoscersi simili ad un determinato gruppo, e
l'individuazione, lo scoprire la propria specificità personale. Tra i 3 e i 6 anni i
bambini hanno bisogno di avere ampie opportunità di contatti sociali, in particolare
con i coetanei. La socializzazione con i coetanei prevede un piano di maggiore parità
e consente di sperimentare anche altre abilità: gli amici devono essere conquistati,
con loro si litiga ma si impara anche a fare la pace, bisogna di impegnarsi per
mantenere le amicizie, si sviluppano gelosie e rivalità ma anche solidarietà e
tolleranza reciproca. La comparsa dell'interazione linguistica fa emergere una nuova
abilità relazionale sociale che consente la formazione di competenze affettive in
merito allo sviluppo di sentimenti interindividuali
segnando l'inizio di un'organizzazione permanente della dimensione affettiva stessa.
La dimensione affettiva si articola e si definisce nelle sue valenze di rispetto, timore,
fiducia, simpatia, antipatia, ecc. Affettività e intelligenza procedono in modo
indissolubile, costituendo aspetti diversi ad ogni azione. Tutte le condotte umane
sono caratterizzate da entrambi gli elementi.
Dopo una prima chiarificazione sul concetto di socialità e di gruppo con particolare
riguardo ai gruppi primari esamineremo le prime manifestazioni sociali nell'età
prescolastica per soffermarci quindi sulla funzione della scuola in ordine alla
socializzazione.
Entrando quindi nel vivo del nostro assunto vedremo le implicanze del primo giorno
di scuola passando quindi ad esaminare i caratteri del gruppo scolastico e la sua
evoluzione delineando quindi alcuni profili di comportamento tipici. Passeremo
quindi all'esame dei rapporti con il maestro e del modo in cui questi puo'
organizzare il governo della classe delineando inoltre schematicamente
l'atteggiamento degli alunni anno per anno.
Passando quindi agli aspetti non direttamente legati alla vita della classe
esamineremo quindi i caratteri del gioco sociale e del capriccio e della monelleria.
LA SOCIALITÀ'
L'uomo è " animale sociale" secondo la celebre definizione aristotelica. Non ci sono
dubbi: ma quale è la origine della socialità ? È un istinto primario oppure è il
risultato di altre esigenze? Vi sono tante tesi e tante sintesi di tesi contrapposte.
Facciamo qualche riferimento fondamentale sulle posizioni più note.
Occorre ora definire più chiaramente ciò che intendiamo per gruppo sociale:
propriamente il gruppo è l'insieme delle persone che riconoscono si essere uniti da
un legame: non basta che tale legame esista oggettivamente, è necessario che i
membri ne siano coscienti.
Per gruppo secondario si intende il gruppo formato da individui che non hanno uno
sfondo emozionale comune ma sono legati da motivi più oggettivi. I membri hanno
rapporti fra loro rapporti formali, spesso freddi e cortesi, vige la gerarchia, i membri
sono molto numerosi. Nessuna di tali caratteristiche è necessaria o determinante: si
tratta solo di caratteristiche diffuse nella maggior parte dei casi.
Esempi tipici di gruppi secondari sono l'apparato burocratico dello Stato, il personale
di vaste società private,
La distinzione non è naturalmente assoluta: esistono casi nei quali il gruppo non può
definirsi nè primario nè secondario ma si è al limite dei due tipi e soprattutto è
spesso possibile che l'uno si trasformi nell'altro. Un piccolo reparto militare è al
limite fra i due gruppi in quanto a un rapporto gerarchico ufficiale-soldato si
sovrappone quello emozionale dato dalla comunità dei pericoli e delle attività di
guerra. Cosi in un ufficio a un iniziale rapporto del tipo di gruppo secondario si può
trasformare in uno di tipo primario quando gli impiegati si conoscono meglio e
diventano amici oltre che semplici colleghi. Si osserva il processo inverso in quelle
famiglie neile quali si perde l'unità affettiva iniziale fra i coniugi: la famiglia da
gruppo primario per eccellenza diventa purtroppo un gruppo secondario legato solo
da interessi ed esigenze pratiche.
GRUPPI PRIMARI
I gruppi primari svolgono un azione di primo piano nella formazione del fanciullo
mentre i gruppi secondari gli sono essenzialmente estranei: difficilmente il fanciullo
comprende di fare parte di un gruppo di cui non conosce i membri.
Da qui quindi una serie di inevitabili scontri che man mano si attenueranno
evolvendo verso la socializzazione
Il Cousinet distingue quattro fasi attraverso cui egli si avvia a una maturazione
sociale: aggressione manuale, aggressione verbale, esibisionismo, dispettosità
sociale.
AGGRESSIONE MANUALE: vediamo un esempio concreto; un bambino sta giocando
con un secchiello di sabbia e una paletta. Ecco, accorre un altro bambino che
possiede gli stessi strumenti ma che ugualmente e illogicamente per noi cerca di
strapparglieli: forse per questo sarà sgridato e magari si dirà che ha cattive
inclinazioni. Ma vediamo meno superficialmente le motivazione psicologiche
dell'accaduto. In effetti questa è una prima manifestazione di socialità anche se
molto immatura: infatti il secondo bambino ha sentito il bisogno di un approccio ma
nella sua inesperienza non ha trovato di meglio che assalirlo per sottometterlo, per
introiettarlo quasi in se stesso: non erano gli strumenti che voleva, già li possedeva e
con molta probabilità metterà subito via anche quelli di cui si è impadronito.
Voleva invece impadronirsi del complesso bambino-gioco-strumenti visti
unitariamente, concepisce ancora l'unione con una persona come identificazione.
Tali informi tentativi saranno ben presto abbandonati perchè non tarderà ad
accorgesi della unitilità di azioni del genere.
A volte il bambino per apparire superiore cerca di essere il preferito dell'adulto. Alla
scuola materna la stima della maestra è molto ambita anche perchè è il miglior
titolo di esibizionismo. Purtroppo l'esibizionismo può assumere anche forme molto
meno piacevoli giungendo fino a esibizionismo sessuale. Se il bambino non
abbandona a tempo questa fase può essere seriamente pregiudicato il suo ulteriore
sviluppo sociale. Infatti per i più piccoli essere il preferito degli adulti può essere
titolo di merito ma per i più grandicelli, con il progredire del senso del gruppo
diventa un titolo di disistima molto forte.
Per il gruppo più maturo apparire il "cocco " o "la gallina bianca" della maestra è una
colpa gravissima e porta all'esclusione dal gruppo stesso. Infatti. come vedremo
anche meglio in seguito, una delle leggi fondamentali del gruppo e il non fare ricorso
all'aiuto esterno.
DISPETTOSITA'
È questa l'ultima fase immatura e permane talvolta anche nell'adulto non molto
socializzato. Con il dispetto il bambino vuole costringere il gruppo che lo rifiuta ad
occuparsi di lui. Il dispettoso sociale gioca quindi un ruolo ingrato di disturbatore
dell'attività sociale. Ma quanto più insiste tanto più il gruppo vede in lui un elemento
pertubatore e lo evita.
È curioso notare che anche l'adulto si comporta dispettosamente con il bambino per
attirare la sua attenzione.
Abbiamo così delineato quattro fasi che potremmo definire pre-sociali: si tratta
ovviamente di uno schematismo espositivo e la socializzazione è sempre qualcosa di
tanto più complesso e avviene sempre in modo originale.
I primi contatti con la scuola generano una crisi ma è essa molto ridotta se il
bambino ha già frequentato la scuola materna. Comunque va notato che nella
scuola dell'infanzia la problematica è molto diversa. Il bambino si preoccupa molto
meno dei suoi compagni e comunque la maestra fa di tutto per ottenere un
ambiente il più simile a quello familiare. Molto diversamente si presenta la scuola
elementare che appartiene a un mondo tutto diverso.
Osserviamo dunque un fanciullo che va per la prima volta alla scuola elementare. Si
trova in un particolare stato emotivo, è eccitato dall'idea di diventare scolaro "della
scuola dei grandi". Sente il desiderio di fare cose che fino ad ora non ha potuto fare,
di prendersi la rivincita verso gli altri bambini più grandi che lo hanno trattato con
sufficienza. Pensa che all'uscita, a casa avrà tante cose da raccontare e i fratellini e i
compagni più piccoli terranno in grande considerazione il "ragazzo grande" che va
alla scuola elementare. Ma a questo si contrappone una paura serpeggiante e
talvolta dominante al pensiero di trovarsi solo fra tanti ragazzi che non conosce, con
una maestra che non conosce, in un' aula che non conosce. Tutto ciò gli è nuovo ed
ha paura. Talvolta la paura ingigantisce per varie ragioni: i compagni lo deridono per
un difetto fisico, è frequente il caso di bambino di famiglia borghese che si trova fra
ragazzi cresciuti per strada e quindi ben più svelti e sicuri di lui.
La maestra a volte è stata citata come colei che farà giustizia di tutte le disubbidienze
e monellerie e pertanto l'immagine che il bambino si è fatta di lei non è certo ideale
perchè le si avvicini con fiducia. Ma talvolta, anche senza nessuna di queste ragioni il
bambino scoppia a piangere e rifiuta decisamene di entrare in classe. Si attacca
disperatamente alla madre e per quanto si faccia, per quanto il maestro si mostri
sollecito, affettuoso e gentile non c'è verso di calmarlo.
Il primo impatto con la scuola ha una grande importanza psicologica per
l'atteggiamento generale verso la scuola. Anche se facilmente questi momenti
saranno dimenticati dal bambino tuttavia può permanere in lui a livello incoscio una
percezione negativa per la scuola che può trascinarsi molto a lungo. È quindi molto
importante che il bambino acquisti familiarità con l'ambiente e gli insegnanti della
scuola elementare già quando si trova alla scuola materna. In questo modo si evita o
almeno si riduce al minimo il pericolo di una crisi emotiva dalle ripercussioni
indefinibili.
CARATTERI DEL GRUPPO SCOLASTICO
Inoltre anche la scuola stessa finisce con il contribuire alla dissoluzione del gruppo
sociale in quanto sancisce le differenze individuali classificando i ragazzi con i voti
scolastici e il fanciullo si fa sempre più maturo per capirne l'importanza.
Con l'aumentare poi della preoccupazione del profitto scolastico l'insegnante finisce
con il restringere sempre più il terreno delle attività sociali. Indubbiamente in una
quinta elementare le attività sociali già tendono a perdere importanza rispetto a
quelle tendenti al profitto. Nella scuola media la vita sociale viene quasi messa al
margine .
Dopo la crisi puberale, superato le sue tempeste si giungerà alla vita sociale più
matura e consapevole della vita adulta. Ma forse l'ingenuità, la semplicità del
gruppo infantile non si troverà più e la si ricercherà invano per tutta la vita. Spesso è
proprio questo tipo di socialità che da adulti ci fa ricordare la fanciullezza come l' età
bella, l'età felice in cui si era veramente tutti amici
ALCUNI PROFILI DI COMPORTAMENTO
Ogni fanciullo reagisce all'ambiente in un suo modo personale. Non di meno si
possono delineare alcuni profili tipici particolarmente interessanti anche se
interessano un numero limitato di alunni: facciamone una breve rassegna
IL FIGLIO DI PAPA' - Nelle classi capitano spesso ragazzi che si trovano a un livello
sociale superiore ai loro compagni. Un ragazzo ben educato e curato si trova in
mezzo a ragazzi di strada già abituati alla dura lotta per la vita, magari già impegnati
a contribuire con il loro lavoro manuale al magro bilancio familiare. Il figlio di
persone socialmente più elevato si accorgerà di essere meglio vestito, di avere
oggetti migliori, di essere più curato, di cattivarsi la simpatia del maestro con la
educazione migliore e magari di andare anche meglio nel profitto.
Ne concluderà di essere superiore ai suoi compagni e logicamente ne dedurrà che a
lui spetta il posto di capo. Niente di più errato, naturalmente. I suoi compagni hanno
avuto ben altre esperienze sociali e non si lasceranno certo dominare da lui. Ma egli
ignora le proprie difficoltà, non si rende conto della assurdità delle proprie pretese
per difetto di esperienza e finisce con il rendersi ridicolo. Da ciò può scaturire una
certa difficoltà all'inserimento nel gruppo e quindi per compensazione a darsi l'aria
di superiorità e fingere di non desiderare affatto la leadership .
IL DEBOLE: Si tratta di fanciulli psicologicamente deboli afflitti spesso da complessi
di inferiorità e che vogliono inserirsi a qualunque costo nel gruppo. Ingenuamente
credono di potersi inserire dicendo sempre "si" e seguendo sempre la corrente:
accetteranno sempre con entusiasmo ogni iniziativa, si asterranno da critiche,
faranno passivamente sempre quello che vogliono gli altri. Ma malgrado questo,
atteggiamento, proprio anzi proprio per questo atteggiamento non riescono mai a
inserirsi veramente nel gruppo. I compagni infatti presto intuiscono che non
possono fidarsi di uno che dice sempre "si". Bisogna pure che ciascuno nel gruppo
abbia un pò di personalità. Ed è davvero doloroso vedere questi fanciulli cosi miti e
buoni che sopportano ogni angheria senza ribellarsi pur di essere accettati dal
gruppo e che vengono invece respinti implacabilmente.
IL DISPETTOSO SOCIALE: si tratta ancora di ragazzi che non riescono a entrare
pienamente nel gruppo, ma mentre i precedenti prendono un atteggiamento
passivo questi passano senza altro all'azione: non riuscendo a entrare nel gruppo
essi cercano in ogni modo di dissolverlo nella speranza di poterlo ricostituire essi
stessi ponendosi al centro: ostacolano quindi in ogni modo la vita sociale e sono un
"flagello" non solo per i compagni ma anche per il maestro, con i loro tentativi di
creare disordini e costringere così il maestro a intervenire. L'aspetto più odioso del
loro atteggiamento è la delazione spesso falsa e tendenziosa: purtroppo qualche
maestro provoca egli stesso la delazione sia con punizioni collettive nella speranza
che qualcuno magari denunci il colpevole sia circuendo addirittura qualche soggetto
meno maturo. Il danno che il maestro provoca in questi casi è gravissimo.
IL DISTACCATO - Interessante è anche un'altra figura in verità non molto frequente.
Si tratta del fanciullo che aderisce all'ambiente ma non vi partecipa completamente.
Questi segue la corrente senza opporsi mai decisamente, ma la sua accettazione è
solo superficiale: profondamente è solo alquanto distaccato e mantiene la sua
personalità. Questo tipo è il meno influenzabile dal gruppo. Lo segue ma non ne è
conquistato. Di solito agisce cosi perchè pur desiderando la socializzazione trova
compensazione e maggiori gratificazioni in altri campi. È amico di tutti e
generalmente ben voluto ma rimane intimamente sempre un estraneo.
GOVERNO DELLA CLASSE
Esaminiamo gli aspetti della vita sociale promossi più o meno direttamente dal
maestro.
Nella scuola elementari a differenza di quanto accade nelle medie e nelle superiori
abbiamo quasi sempre un così detto "governo" della classe, abbiamo cioè alunni
incaricati di alcuni compiti particolari di organizzazione sia in relazione alla attività
propriamente istruttiva che a quella generalmente educativa. Troviamo così un
capoclasse, altri incaricati della lavagna, dell'armadietto e di tante altre cose a
seconda dei casi. In alcune classi tutto il governo si riduce al capoclasse, in altre
invece diviene molto ampio e articolato.
Presso i migliori insegnanti i compiti del capoclasse e degli altri incaricati sono
organizzativi e di aiuto all'insegnante ma presso altri si riducono miseramente al
mantenimento dell''ordine. Il criterio di nomina è anche molto diverso . Va notato
che il governo degli alunni assume forme molto elaborate e sono fondamentali in
molte "Scuole nuove".
Vediamo brevemente le implicanze psicologiche del governo della
classe
In certe scuole vige infatti l'uso di prendere il ragazzo più indisciplinato ed irrequieto
e farlo capoclasse con compiti essenzialmente di polizia. In tal modo viene tolto un
elemento di disordine e quel ragazzo ha l'energia sufficiente a imporre ordine alla
classe. Raggiunge questo scopo essenzialmente facendo delazione al maestro di
quelli che hanno compiuto qualche infrazione.
Generalmente il fanciullo così scelto è quello che altrove abbiamo definito "boss" e
di cui abbiamo gia delineato la negatività per un sano sviluppo sociale. Ora il
maestro nominandolo capoclasse da' una nuova forza a questo ragazzo che diventa
"onnipotente": minacciando di accusarli al maestro anche se innocenti ha un mezzo
di intimIdazione e un potere sugli altri compagni veramente fortI che si aggiunge a
quello che già possedeva solo come ascendente. Va notato, però, che con rafforzarsi
del senso sociale non può mantenersi insieme il suo ascendente e il suo compito di
capoclasse: la odiosità della delazione gli farà perdere ogni prestigio e finirà con il
restare ai margini della vita sociale.
Talvolta il capoclasse viene scelto secondo il criterio del merito. Il maestro promette
di dare tale incarico ambito al più bravo nel profitto. Ciò rappresenta uno stimolo
all'impegno scolastico ma bisogna notare che spesso il più preparato negli studi non
è il più capace nelle relazioni sociali. Il più bravo si sente superiore agli altri e crede
che gli spetti per diritto il posto di capo ma ciò è ben lontano dalla realtà: non
sempre i più bravi nel profitto sono adatti per un compito del genere.
Può essere scelto anche il più disciplinato: ma il più disciplinato in genere è anche
un timido e porlo in tale difficile incarico non adatto a lui finisce con l'aumentare la
sua timidezza. Fallito il suo compito egli si sentirà sempre più incapace nelle
relazioni sociali. I più timidi debbono essere incoraggiati inserendoli in compiti facili
nei quali possano attingere fiducia in se stessi.
Interessante è il caso in cui il capoclasse e gli altri incarichi vengono scelti per
elezioni dei compagni. In alcune "Scuole nuove" tali elezioni hanno assunto un
carattere rilevantissimo.
La elezione dei compagni dà all'eletto un significato che non ha negli altri casi. Non è
imposto da nessuno ma scelto liberamente. Soprattutto in tal modo i fanciulli si
abituano, si preparano a una vita democratica, ad essere cittadini di uno stato
democratico. Inoltre si affina il giudizio, la capacità di giudizio sui compagni. Come si
vede molti sono gli aspetti postivi, ma c' è un'ampia riserva da fare. Come abbiamo
gia notato in altro luogo, la scelta elettiva dei capi non è naturale nei gruppi infantili,
non nasce mai spontaneamente. Si rischia di illudersi che i fanciulli eleggano
veramente un compagno mentre in effetti non ne hanno chiara consapevolezza.
In verità, tranne forse che nell'ultimo anno tali elezioni nelle classi elementari sono
spesso dei fallimenti. Si vedono i ragazzi che scelgono senza aver capito il criterio
della competenza: dicono un nome per amicizia, perchè vicino di casa, perchè i
compagni lo hanno detto, perchè altre volte è stato eletto per caso e molto
difficilmente lo ritengono il più capace.
Sarà quindi sensibilità dell'insegnante capire fino a che punto la singola scolaresca è
matura per esperimenti del genere. Comunque va notato che anche se la prima
volta simili esperimenti possono risolversi in fallimenti in seguito gli alunni
potrebbero rendersi conto di quanto viene loro richiesto .
I genitori possono conoscere meglio i loro figli in quanto ne hanno una esperienza
più lunga ma l'insegnante lo vede nei suoi rapporti con gli altri e quindi vede ciò che
i familiari non vedono. D'altra parte anche per preparazione e mentalità è meglio
preparato. Ma soprattutto la esperienza che ha dei bambini è ben maggiore in
quanto puo' confrontare il comportamento di un gran numero di coetanei.
La famiglia infatti ha del proprio rampollo spesso una idea inesatta sia sotto il punto
di vista intellettuale che sociale soprattutto per mancanza di confronti. Accade
spesso al maestro di notare errori di sopravvalutazione e di sottovalutazione delle
famiglie che hanno idee molto vaghe su quale sia la "normalità" per i fanciulli
dell'età dei loro figli.
La delazione nelle prime classi non desta molta impressioni negli alunni per lo scarso
senso sociale ma con il suo rafforzarsi la delazione diventa sempre più odiosa e il
delatore è squalificato davanti ai compagni. Se è incoraggiato dal maestro egli può
resistere al biasimo e alla pressione dei compagni perchè trova compensazione
nell'appoggio del maestro. Ma sia nella prime che nelle ultime classi la delazione è
la più grande remora alla formazione sociale dei fanciulli.
Precisiamo che per i più piccoli è del tutto naturale cercare l'aiuto degli adulti e
quindi la delazione non è affatto sintomo di immaturità sociale. Sta al maestro
scoraggiando la delazione contribuire a una più matura coscienza di gruppo.
Vediamo ora la posizione del maestro e della scuola rispetto alla vita sociale della
scuola. Dobbiamo purtroppo notare che molte volte non è affatto favorevole. Si
richiede infatti durante le ore scolastiche che non si parli con i compagni, che
ciascuno faccia da solo i suoi compiti. Non è raro vedere alunni che scrivono facendo
schermo per evitare che gli altri possano copiare. Il maestro finisce con lo
scoraggiare la vita sociale della classe. Paradossalmente in molti casi la vita sociale
della classe si svolge ai margini e contro il maestro. L'ideale di molti maestri è
purtroppo che gli alunni siano gli uni contro gli altri senza darsi nessun aiuto e senza
comunicare. Alla vita sociale spontanea così inibita si vuole sostituire una vita
sociale falsa imposta dal maestro : pertanto purtroppo l'opera del maestro e il
processo di socializzazione sono a volte in pieno contrasto.
EVOLUZIONE ANNO PER ANNO
SEI ANNI: il primo giorno spesso è difficile ma presto il bambino va a scuola con
piacere: solo alla fine dell'anno in genere si manifestano casi di opposizione netta
alla scuola quando cioè il bimbo crede a torto o a ragione di non essere riuscito a
cattivarsi la benevolenza del maestro e l'amicizia dei compagni. Gli accade spesso
nella inesperienza di spaventarsi per qual cosa che all'insegnante pare tanto
semplice e allora avrà un momento di crisi. Cerca nei primi contatti con i compagni
di imporsi e porta pertanto a scuola oggetti e cianfrusaglie varie che secondo lui gli
darebbero prestigio.
Caratteristica anche del comportamento della scolaresca è la discontinuità: In alcuni
giorni i fanciulli appaiono ordinati e silenziosi, in altri senza nessuna ragione
apparente la irrequietezza è tanta che bisogna quasi rinunciare a lavorare.
SETTE ANNI - Talvolta può preoccuparsi che la seconda sia molto più difficile della
prima mentre in effetti è il contrario. I suoi rapporti con il maestro si evolvono in
senso più personale. Il fanciullo comincia a vederlo meglio e più accuratamente.
Caratteristica della seconda classe sono le notazioni sull'abito, sulla nuova borsetta o
cravatta dell'insegnate che talvolta mettono in imbarazzo l'insegnante stesso.
In particolare si nota spesso una particolare simpatia ed attaccamento dei
maschietti verso la maestra se giovane. Anche rispetto ai condiscepoli comincia ad
avere rapporti più personali e a vederli più obbiettivamente e non solo
esclusivamente in relazione a se stesso. Ha anche maggiore tendenza a giovarsi
dell'aiuto dell'insegnante dei compagni. Ciò dipende anche dal maggiore livello
intellettivo in senso relativistico della sua mente che comincia a vedere gli altri come
altri punti di vista. Di solito è ubbidiente e ragionevole e cerca di essere buono
anche se talvolta il risultato non rispecchia affatto l'intenzione. Si sviluppa anche il
senso acuto della proprietà delle cose e sorgono piccoli baratti e piccoli commerci
che aiutano il processo di socializzazione anche se spesso per la poca esperienza le"
transazioni commerciali" diventano fonti di infinite dispute, litigi e recriminazioni.
In complesso quindi è una età abbastanza tranquilla e questo fa si che le seconde
classi elementari in genere sono le più tranquille e facili dal punto di vista della vita
sociale.
OTTO ANNI: il fanciullo in genere va a scuola con vero piacere: la terza è la classe
nella quale il fanciullo va più volentieri, nè prima nè dopo andrà con lo stesso
piacere. I suoi rapporti con i compagni migliorano molto e si fanno più stretti.
Cominciano anche le caratteristiche amicizie del cuore. È meno disposto
all'obbedienza che a sette anni ma è più disciplinato perchè sa controllarsi meglio.
Partecipa più coscientemente alla vita scolastica, si rende meglio conto di ciò che
accade. Infatti mentre prima parlava poco a casa di quello che avveniva a scuola ora
comincia a riferire spesso e volentieri se i genitori glielo chiedono episodi della vita
scolastica. Ciò dimostra la maggiore comprensione padronanza della vita scolastica.
Si fa netta la distinzione fra maschi e femmine: mentre nelle prime due classi si
osserva molto raramente una discriminazione in base al sesso, nelle terze essa è ben
chiara. Prima cominciano le femmine essendo esse più precoci nel loro sviluppo.
Esse si appartano dai maschi tranquillamente e pienamente durante le pause. Poi
saranno i maschi ad escluderle, anche rudemente, dai loro giochi.
NOVE ANNI Questa età corrisponde alla quarta elementare. In essa la coscienza
sociale della scolaresca compie un grande balzo in avanti. Molto più raramente lo
scolaro accusa i compagni e chiede aiuto all'insegnante contro di essi. Accresciuto è
il senso di responsabilità per cui egli si sente maggiormente impegnato nella scuola.
Mentre prima erano i genitori prevalentemente a preoccuparsi ora è il fanciullo che
sente cocentemente i suoi eventuali insuccessi. Qualche volta è anche capace di
rifiutare una lode o un premio se sente di non meritarli.
Come prima è sensibilissimo all'ingiustizia ma ora piu di prima è capace di valutare
la realtà delle cose, il caratteristico egocentrismo della infanzia comincia a cedere il
posto a un visione più relativa. Gareggia con piacere sia in squadra che
individualmente e ciò testimonia l'accresciuta coscienza sociale e di gruppo.
Accresciuta è anche la capacità di autodisciplina che rende pertanto i
comportamenti della scolaresca abbastanza ordinati. Il compito dell'insegnante è
comunque più difficile che in terza: a otto anni erano molto personali, ora si fanno
invece meno stretti e il fanciullo appare meno disposto all'obbedienza. Distingue più
chiaramente fra materia di studio e insegnante e può appassionarsi all'uno e non
all'altro. La coscienza di gruppo gli da di fronte all'insegnante un'autonomia mai
raggiunta prima. Sarà naturalmente cura dell'insegnante prendere atto delle mutate
condizioni psicologiche del processo di socializzazione e agire in conseguenza. Il
fanciullo è anche più disposto a parlare a scuola della sua vita extrascolastica e
viceversa.
DIECI ANNI. Questa età può considerarsi come l'età di grazia per il gruppo sociale
infantile, come prima abbiamo notato. In seguito invece con la crisi puberale
perderà molto della forza delle sue relazioni sociali per chiudersi nel caratteristico
isolamento dell'adolescente.
Comunque già da ora si possono notare i segni della prossima dissoluzione del
gruppo. Per le bambine ci troviamo già in una fase prepuberale. La relazioni quindi
fra le bambine e l'insegnante e tra le bambine stesse si fanno più difficili.
Testimonianza di questa divergenza dello sviluppo maschile e femminile sta il fatto
che la discriminazione dei sessi diviene molto forte e invero delle differenze
psicologiche fra i due sessi non erano mai state pronunziate come ora.
IL GIOCO SOCIALE
Il gioco ha una parte fondamentale nella vita di un fanciullo. Per gioco, come è stato
autorevolmente e giustamente affermato, noi possiamo intendere la attività
complessiva del fanciullo. Abbiamo giochi quanto mai vari e mutevoli, dal battere
delle mani del neonato agli scacchi: a noi interessa il gioco sociale. In esso si
manifesta più spontaneamente la socialità e la personalità infantile meglio che in
nessuna altra attività.
Il gioco sociale nasce verso i sei anni. Già molto prima i bambini giocavano insieme
ma giocavano propriamente "l'uno accanto all'altro" in una vera comunità. Il
compagno era per ciascuno una pedina del proprio gioco. Dopo i sei anni invece il
sentimento sociale si fa avanti e abbiamo il riconoscimento della personalità altrui .
Il gioco sociale può essere diviso in due fasi i cui limiti cronologici possiamo
indicativamente fissare da sei ai nove anni la prima fase, dai nove ai tredici e anche
oltre la seconda: nella prima fase sono prevalenti i giochi competitivi nei quali cioè
vi sia qualche idea di gara. Abbiamo cosi partite di pallone, giochi di carta, di palline,
di figurine, corse e altri giochi di forza e destrezza. Tutti questi giochi hanno la
caratteristica di essere retti da regole ferree. Le regole infatti sono per i fanciulli
qualche cosa di dato, di "divino" che non possono essere mutate o infrante
nemmeno se tutti i giocatori sono d'accordo. Non concepisce, cioè, la regola come
qualcosa di convenuto fra i giocatori e quindi che può essere in ogni momento
mutato se si raggiunge l'accordo. Guai a quel fanciullo che infrange una regola: è
come scomunicato! Dice Chateau che il gioco è come la messa e chi ha giocato ha
giurato.
Il senso del sacro insito nel gioco è una manifestazione della vita infantile che
colpisce: in caso di contestazione delle regole il fanciullo non crede mai alla buona
fede degli altri ma pensa sempre all'imbroglio.
Per questo motivo spesso i giochi si fermano per una sciocchezza. Dalla assolutezza
della regole discende una altro principio: I giochi non vengono mai inventati dai
giocatori, si trasmettono da generazione a generazione e vengono inventate dagli
adulti. Nemmeno le modifiche delle regole viene mai operata dai piccoli ma
avvengono ad opera degli adulti o almeno degli adolescenti. Il bambino adora le
regole fisse di cui in genere l'adulto è il depositario. Ha bisogno di esse per ordinarsi
interiormente. Va però precisato che, malgrado tutto, i fanciulli facilmente
trasgrediscono le regole. Essi infatti vorrebbero rispettarle ma vorrebbero anche e a
ogni costo vincere. Talvolta essi credono di poter vincere trasgredendo le regole ma
quando sarà chiaro che questo è impossibile avremo un rispetto assoluto per la
osservanza della regola.
Dopo i nove anni pur continuando i giochi competitivi e di regole appare un'altra
forma di gioco: i fanciulli immaginano di essere personaggi tratti dai film o da
letture, di trovarsi in ambienti esotici, diversi dal proprio e di correre meravigliose
avventure: generalmente essi si ispirano alle avventure di moda del momento:
intrecciano così fantastici poemi epici. Spesso questo gioco ha come oggetto
principale la guerra. I ragazzi si dividono in due gruppi avversari immaginando di
essere indiani e cow-boys, conquistadores e pirati, esploratori e guerrieri indigeni,
soldati tedeschi e alleati e si combattono come hanno visto fare al cinema o nei
fumetti. Il valore sociale di questo gioco è importantissimo anche se talvolta questo
tipo di gioco è pressoché ignorato da molti autori. Infatti qui si manifesta in pieno la
nascente personalità sociale del fanciullo.
Il soggetto della guerra non deve preoccupare. Non vi è in questi giochi nessuno
invito alla violenza anzi se i naturali "istinti guerrieri", il piacere del rischio hanno
sfogo in questo modo innocente e più difficilmente daranno adito a a brutte
sorprese dopo i quattordici anni. Anche la guerra può essere vista attraverso gli
occhi dell'infanzia come una cosa nobile e bella. E nella guerra i fanciulli possono
immaginare gli atti di eroismo puro e disinteressato dei quali questi giochi sono
massimamente intessuti. Potremmo definire questo come il "grande gioco" per
l'ampiezza e complessità delle situazioni che i ragazzi riescono a immaginare e
soprattutto per la complessità dei ruoli sociali che si vengono a delineare.
Questo tipo di gioco è quasi esclusivamente per i maschi: infatti proprio nell'età
nella quale essi cominciano a manifestarsi l'interesse delle bambine il gioco va
scemando: a nove o dieci anni le bambine quasi non giocano più. I loro giochi si
riducono quasi esclusivamente a quelle delle bambole. Cuce vestine, abbiglia e cura
e svolge tante attività che vede compiere delle madri: non si tratta quindi nemmeno
di veri e propri giochi ma di attività propriamente femminili nelle quali le bimbe
vanno a impratichirsi.
Capitolo 2 .Dinamiche di gruppo e gestione dei conflitti nei processi
di socializzazione
Non potrebbe esistere nessun gruppo se non fosse possibile comunicare, cioè
scambiare significati che vengono compresi da tutti. Anche per numerose specie
animali, come hanno mostrato gli etologi, esistono codici comunicativi interni, che
vanno dalle tracce odorose a segnali sonori, a comportamenti posturali che
veicolano messaggi ben precisi: minaccia, difesa, corteggiamento, protezione del
territorio, ecc.
Nella nostra specie la comunicazione ha un codice privilegiato nel linguaggio
verbale, che fornisce una gamma molto ampia di espressione di contenuti, anche se
non è meno potente un altro canale, quello dalle comunicazione non verbale (il
linguaggio del corpo) che comprende gesti, posture, sguardi, mimica facciale,
prossimità fisica e orientamento spaziale, segnali che completano, arricchiscono e a
volte contraddicono la stessa comunicazione verbale. Esiste inoltre un codice "non
verbale" del verbale, fatto di pause, esitazioni, tono della voce, borbottii, che
offrono all'ascoltatore una serie di indicatori da cui potrà dedurre che il suo
interlocutore è, ad esempio, imbarazzato, aggressivo, annoiato, poco sincero,
condiscendente, inferiorizzato, spaventato, ecc.
Senza comunicazione non può esistere un gruppo. Gli aspetti strutturali (status,
ruoli, norme), di cui abbiamo già discusso, sono costruiti nel corso di un ininterrotto
fluire di comunicazioni, verbali e non verbali; si potrebbero studiare tutti i gruppi a
partire dai processi comunicativi che si svolgono al loro interno. Immaginiamo di
osservare dall'esterno una riunione di gruppo, cui sia stato "tolto l'audio"; noteremo
subito alcune cose particolarmente evidenti: vi sono persone che parlano di più e
altre di meno e altre ancora non dicono neppure una parola; vi sono persone che
mentre parlano sono ascoltate da tutti con attenzione, mentre altre sono poco
ascoltate (gli altri si distraggono, parlottano fra loro, non rivolgono lo sguardo verso
chi parla). Noteremo inoltre che alcuni membri hanno un atteggiamento posturale
che testimonia sicurezza, uno sguardo diretto sugli altri mentre parlano, la capacità
di sostenere lo sguardo degli altri più a lungo, mentre altri esibiscono atteggiamenti
meno assertivi, più difensivi.
Potremo cogliere, se siamo in un buon punto di osservazione, che certi membri
si scambiano occhiate e mezzi sorrisi fra di loro quando parla qualcuno, o fanno gesti
di esasperazione, come se fossero molto disturbati dagli interventi di questa
persona. Insomma, dopo un certo tempo di osservazione, avremo un po' di idee su
alcuni aspetti di quel gruppo; avremo informazioni, ad esempio, su chi conta di più e
chi conta di meno (cioè sulla gerarchia interna), su quanti siano i membri che
partecipano poco o sono addirittura marginalizzati, sul livello di coinvolgimento dei
membri rispetto al lavoro comune, sul clima affettivo prevalente (caldo/freddo,
interessato/disinteressato, collaborativo/competitivo, sereno/teso, ecc.). A questo
punto si potrà accendere l'audio e nel corso degli scambi verbali potremo avere
conferme di quanto ipotizzato. Potremo, ad esempio, accorgerci che quell'individuo
che suscita sguardi fra i membri ed espressioni di noia è qualcuno che fa discorsi
prolissi e poco chiari, cercando un consenso e una visibilità senza avere particolari
abilità e competenze per meritarli.
Discutere, scambiare opinioni è molto importante non solo per i piccoli gruppi
faccia-a faccia, ma anche per i gruppi estesi, come partiti, confessioni religiose,
organizzazioni scientifiche, che hanno cura di riunire periodicamente i propri
membri per scambi, dibattiti, convegni, in cui si consolida (talora pur tra conflitti) il
senso di appartenenza a quel gruppo.
comunicazione.
Esempi di reti di comunicazione del passato sono i messaggeri a cavallo che
assicurarono il passaggio di informazioni necessarie per governare alcuni imperi
molto estesi, come quello Romano o quello del Katai, che tanto colpì Marco Polo per
la sua efficacia nel tenere costantemente informato l'imperatore di quanto
succedeva negli angoli più remoti del suo impero. Oggi, la rete informatica di
Internet consente qualcosa che era impensabile solo alcuni anni fa: lo scambio di
informazioni in tempo reale fra luoghi lontanissimi fra di loro; q la struttura di
comunicazione è, invece, l'insieme di comunicazioni che sono state effettivamente
scambiate in un gruppo. Possiamo dire che la rete è una possibilità di
comunicazione, mentre la struttura è una realtà di comunicazione. Per osservare
una struttura di comunicazione è necessario registrare la frequenza degli scambi fra
emittenti e riceventi, il contenuto di tali scambi, il luogo e il momento in
cui sono avvenuti.
Bales ha messo a punto uno strumento per rilevare attraverso i processi
comunicativi (contenuti verbali e non verbali) la struttura di relazioni nel gruppo e le
tonalità affettive che le contraddistinguono.
Non è detto che avvenga uno scambio comunicativo anche se esistono i canali
materiali (la rete) per farlo, mentre possiamo dire che se vi è una struttura di
comunicazione esistono le possibilità materiali (le reti) per realizzarla.
Come sostengono gli studiosi della comunicazione, comunicare è sempre un'attività
che comporta dei rischi. Rischi di fraintendimento, di acutizzazione di un conflitto già
esistente, di espressioni inadeguate, ecc. Uno degli elementi su cui i formatori di
gruppo insistono è che bisogna lavorare sulle modalità con cui ci si esprime; molte
volte non è tanto il contenuto ad essere offensivo quanto la modalità con cui è stato
presentato quel contenuto.
Si può dare all'altro un messaggio anche molto spinoso, ma la modalità adeguata di
espressione può far sì che il destinatario non si senta offeso. In questo senso sono
importanti, come elementi che migliorano la comunicazione interpersonale,
l'automonitoraggio continuo sulle nostre modalità comunicative e la capacità di
accogliere i feed-back degli altri (che ad esempio ci dicono che le nostre espressioni
verbali e non verbali sono spesso aggressive o poco chiare o poco decentrate).
Un altro elemento che incide sulla qualità della comunicazione è lo spazio,
l'ambiente fisico in cui le persone si incontrano. Non è la stessa cosa interagire in
gruppo in una stanza accogliente, con arredi gradevoli, comodamente seduti su
poltrone, con la possibilità di vedersi tutti, o al contrario incontrarsi in un'aula
anfiteatro, vasta e anonima, con le persone sedute in file parallele che fanno fatica a
guardarsi reciprocamente in faccia.
In molti dibattiti televisivi si cerca di riprodurre la situazione di un salotto, piuttosto
che di un'aula, per rendere più vivaci gli scambi d'opinione. Alcuni insegnanti
sensibili dal punto di vista psico- pedagogico cercano, proprio per creare climi
interattivi più caldi, di cambiare l'ordine dei banchi e di metterli in cerchio, in modo
che gli allievi possano vedersi e relazionarsi in modo continuativo.
Quando vengono svolti corsi di formazione di gruppo, una consuetudine ormai
ampiamente diffusa vuole che si lavori con le persone sedute in cerchio per
consentire che tutti vedano tutti, in modo tale che la comunicazione "circoli"
liberamente fra i componenti. Questi fatti così conosciuti da ognuno di noi sono stati
sottoposti a verifiche sperimentali: si è constatato, ad esempio, che gli individui
interagiscono più attivamente e si coinvolgono di più quando stanno intorno ad un
tavolo quadrato, in cui viene mantenuto costante il contatto visivo fra tutti, piuttosto
che seduti l'uno di fianco all'altro, in una situazione di
"allineamento", che impedisce la spontaneità degli scambi.
Non è solo la disposizione spaziale degli interlocutori a cambiare l'intensità della
comunicazione; anche lo stesso ambiente fisico in cui ci si pone
contribuisce a ravvivare o a spegnere la discussione.
In un esperimento i soggetti sperimentali dovevano svolgere un dibattito seduti sui
due lati di un tavolo rettangolare, che in un caso era situato in un grande anfiteatro
di circa 250 posti, nell'altro in una stanzetta che poteva contenere al massimo una
trentina di persone. I risultati mostrano che la partecipazione al dibattito è molto più
calda e intensa nella stanzetta, mentre nello spazio freddo dell'anfiteatro gli scambi
si rivelano più formali e meno partecipativi. Insomma, anche la tipologia
dell'ambiente spaziale influenza i processi comunicativi; per questo in alcune
associazioni la stanza delle riunioni viene arredata in modo da presentarsi come un
luogo piacevole, accogliente, non troppo disturbato da rumori. Infatti, lo stress
ambientale (rumori, temperatura inadeguata, spazio ristretto o troppo ampio, ecc.)
viene considerato come uno dei fattori che incidono sulla qualità della
comunicazione e della produttività di gruppo.
2.2 II conflitto
Nel modo di pensare comune, il conflitto quasi inevitabilmente rimanda a qualcosa
di negativo, che spezza l'armonia di un gruppo e che introduce divergenze se non
spaccature fra posizioni diverse. In realtà, è importante sottolineare fin dall'inizio
che vi sono conflitti distruttivi, che rompono l'equilibrio e la coesione del gruppo, e
conflitti costruttivi, che comportano attraverso la disamina e la negoziazione di
posizioni diverse un arricchimento e un'evoluzione positiva della vita di gruppo.
Il conflitto è, in ogni caso, una realtà sempre possibile in qualunque tipo di
gruppo. Per quali motivi? In linea di massima, possiamo dire che il conflitto si genera
per la situazione di disuguaglianza fra i membri, per quanto la disparità di
condizione sia un dato di base di tutti i gruppi che si strutturano nel tempo e in
qualche misura necessario perché l'insieme possa funzionare. Abbiamo visto, infatti,
che nella struttura del gruppo vi sono posizioni differenziate, sia per quanto riguarda
lo status, sia per quanto riguarda i ruoli svolti. In altre parole, la disuguaglianza fra i
componenti è un elemento fondante della strutturazione e della relativa stabilità del
gruppo e nello stesso tempo costituisce anche una permanente possibilità di
conflitto, in quanto le gerarchie e le differenziazioni non sono date una volta per
tutte e nella storia del gruppo possono presentarsi situazioni o eventi particolari che
sconvolgono gli assetti stabiliti e richiedono la ricerca di nuovi equilibri.
L'entrata di nuovi membri, l'uscita di altri, la variazione di alcune norme,
l'introduzione di nuovi traguardi da raggiungere, la salita nella cerchia di status di un
componente e non di un altro, possono rimettere in causa la stabilità del gruppo.
Pensiamo ad esempio cosa significhi per ogni scuola il continuo turn over degli
insegnanti, con l'entrata ogni anno di nuovo personale e l'uscita di altri. I nuovi
arrivati possono essere, ad esempio, insegnanti che hanno già una notevole
esperienza lavorativa, hanno consolidato nel tempo un proprio stile di ruolo,
provengono da scuole in cui il clima relazionale e normativo era piuttosto diverso da
quello della nuova scuola.
Questi nuovi insegnanti possono sentirsi in diritto di porsi in modo abbastanza
assertivo nei consigli di classe e nei consigli d'istituto, non ritenendosi dei "novellini"
del mestiere, mentre per il resto del gruppo essi sono dei neofiti piuttosto
disturbanti, che pensano subito a farsi valere e a conquistare in modo troppo
accelerato una certa credibilità e un po' di visibilità. Tutto questo può innescare delle
contrapposizioni latenti, delle divergenze più o meno strutturate, che possono più
tardi sfociare in conflitti manifesti.
Proviamo a vedere più in dettaglio quali potrebbero essere gli elementi che
scatenano il conflitto dentro al gruppo.
• Vi può essere il caso dell'accesso a risorse limitate; è la classica situazione della
competizione per cui solo ad alcuni membri viene dato un premio (che può essere
materiale o simbolico, come la stima e l'approvazione del leader) o un
riconoscimento per la propria prestazione.
• Un'altra possibile fonte di tensione (vicina alla precedente) è legata ad una
distribuzione ineguale delle opportunità fra i membri: alcuni hanno maggiore
spazio di iniziativa, oppure vengono concesse loro più risorse o sono più ascoltati o
si presentano come meglio attrezzati degli altri alle dinamiche sociali o sono più
"sponsorizzati" da membri interni ed esterni al gruppo; a volte sono "sponsorizzati"
dal capo stesso del gruppo, creando in tal modo delle disuguaglianze che creano
occasione permanente di tensione. Si tratta di situazioni che spesso si presentano
negli ambiti lavorativi.
• Vi può essere, poi, la disuguaglianza delle idee e delle opinioni rispetto a qualcosa
che è importante per il gruppo; si tratta di contrasti di opinione o di conflitti
intellettuali che sono sempre presenti nei gruppi, in quanto essi non sono mai delle
realtà totalmente omogenee e compatte. Nel caso delle decisioni di gruppo, ma
anche nelle routine quotidiane vi sono inevitabilmente delle divergenze nel modo di
concepire determinati problemi e nel delinearne soluzioni. Ad esempio, fra gli
insegnanti vi è spesso una notevole differenza nel modo di concepire il proprio stile
di ruolo, la propria autorità e la propria responsabilità verso gli allievi, e tutto ciò
costituisce una permanente ragione di conflitto.
• Oltre a questi aspetti, il conflitto può generarsi per la distribuzione ineguale del
potere interno, per cui alcuni membri mettono in discussione le graduatorie di
prestigio già consolidate e prospettano dei cambiamenti nella gerarchia di status. In
questo senso, può succedere che si creino tensioni interne per l'opposizione del
gruppo al proprio capo, che viene giudicato non adeguato al ruolo che ricopre. Ciò
può creare malcontento diffuso, demotivazione al lavoro, tensioni che vengono
scaricate su capri espiatori, soprattutto quando non è possibile agire la rivolta contro
la leadership per rispetto alle regole formali o per oggettiva impossibilità di
modificare la situazione.
Il conflitto è, dunque, una realtà immanente di ogni gruppo, proprio per le
differenze e ineguaglianze che lo caratterizzano; possiamo tuttavia sottolineare che
non tutti i gruppi lo affrontano nello stesso modo; vediamo i tre casi più evidenti:
> evitamento del conflitto : vi sono gruppi che si specializzano nell'evitare
sistematicamente il conflitto, anche quando è ormai vicino a scoppiare e sarebbe
necessario affrontarlo per l'equilibrio stesso del gruppo. Questo evitamento ha delle
conseguenze, in quanto produce demotivazione in una parte dei componenti,
affievolisce i sentimenti di appartenenza e di fiducia nei confronti del gruppo e può
avere ripercussioni sull'efficacia e il "morale" complessivo del gruppo;
> riduzione del conflitto : in questo caso il conflitto è già scoppiato e i membri del
gruppo (o almeno una parte di essi) cercano le strategie per ridurne la portata
destabilizzante. Una modalità può essere quella per cui il dirigente risolve d'autorità
la questione; questo modo può essere efficace se gli vengono riconosciuti carisma e
competenza da una larga parte del gruppo, ma se la leadership non ha queste
caratteristiche, il conflitto non si risolverà con questo tipo d'intervento. Altra
modalità di ridurre il conflitto può essere il ricorso a votazioni, che non è sempre
efficace perché spesso non si basa su di un autentico confronto di opinioni e di
posizioni reciproche, ma si fonda unicamente sulla dialettica maggioranza-
minoranza. Più produttive sono, invece, le negoziazioni che nascono dopo un'
approfondita disamina delle ragioni conflittuali, in uno scambio di conoscenze e di
informazioni;
> creazione del conflitto : in questo caso il gruppo crea intenzionalmente un conflitto
o lo acuisce. Questa situazione non è necessariamente negativa, anzi può produrre
innovazione e spinta a cambiamenti produttivi; vi sono autori che sostengono la
necessità anche nelle culture aziendali di opporsi all'omologazione e di "sfruttare"
produttivamente la diversità delle posizioni e opinioni.
È probabile che questi tre meccanismi vengano usati in momenti diversi della storia
di un gruppo. Ad esempio, in genere si attenuano le tensioni interne quando si è
vicini ad un'importante scadenza o a un confronto con un gruppo esterno. In un
gruppo di pubblicitari a corto di idee per il lancio di un nuovo prodotto, potrebbe
rivelarsi produttivo esaltare la divergenza e la conflittualità dei punti di vista per
arrivare ad una "trovata" creativa.
È possibile, anche, che i vari gruppi si specializzino in uno o l'altro dei tre meccanismi
che abbiamo evocato. Chi di noi non ha avuto l'esperienza di appartenere a gruppi
che sistematicamente evitano il conflitto? Pensiamo, ad esempio, ad un motivo
molto comune di conflitto nei gruppi, quello della divergenza di opinioni. Come
rilevano gli autori che si sono occupati di questo tema, in questo caso il modo per
evitare il conflitto passa attraverso delle tecniche di "controllo del pensiero", che può
avere due modalità: controllo del proprio pensiero o controllo del pensiero degli
altri. Nel primo caso, l'individuo non esplicita quello che pensa o cerca il più
possibile di avvicinarsi al modo di pensare degli altri; si tratta della tendenza al
conformismo presente in tutti i gruppi.
Nel secondo caso, possono essere usate varie tecniche per controllare il pensiero
degli altri e che, in buona sostanza, si riassumono in un uso abbastanza
manipolatorio delle discussioni di gruppo, quali: ridurre la durata degli interventi
"contrari", non dare la parola ai dissidenti, indire le riunioni quando si sa che non
potranno intervenire coloro che portano avanti posizioni divergenti, introdurre
regole restrittive nella discussione, dare un'interpretazione falsata del dissenso per
ridurne la portata eversiva ("in fondo, siamo tutti abbastanza d'accordo su..."),
adottare sistematicamente il compromesso.
Gli studiosi dei fenomeni di gruppo sottolineano l'importanza dello scambio
comunicativo autentico, in cui i membri sono in grado di reggere l'impatto delle
posizioni diverse e anche contrarie fra loro.
La vera discussione (che può anche sfociare nella controversia) permette di mettere
a confronto pensieri, conoscenze, esperienze pur creando in prima istanza
sentimenti di incertezza e disagio; da questo confronto, se non diventa polemica
personale fra alcuni membri, nascono delle riflessioni e curiosità conoscitive che
permettono una riformulazione del problema e la scoperta di soluzioni creative. È
chiaro che questi scambi impegnativi sembrano poco desiderabili perché richiedono
un apporto di energia e di coinvolgimento personali; inoltre, in termini di dinamica
di gruppo essi sono "costosi" perché prendono più tempo e creano un clima di
gruppo apparentemente disordinato e sicuramente più difficile da disciplinare.
Quando esiste una situazione di conflitto nel gruppo, è necessario che per poterla
gestire vi sia consapevolezza da parte dei componenti della difficoltà che si è venuta
a creare. Questa consapevolezza non interessa tutti i membri contemporaneamente
e con la stessa intensità; è possibile che alcuni componenti del gruppo ignorino a
lungo una situazione difficile, per vari motivi: difese percettive (il "non voler vedere"
la situazione), diversa distribuzione della conoscenza fra i componenti del gruppo
(alcuni hanno accesso più di altri alle fonti d'informazione), presenza di sottogruppi
che cominciano ad avere una vita sempre più indipendente l'uno dall'altro
all'interno del gruppo. A volte succede che lo stesso leader del gruppo ignori la
presenza di un conflitto già attivo da qualche tempo, magari proprio a causa del suo
comportamento eccessivamente favorevole nei confronti di alcuni componenti e
discriminante nei confronti di altri.
Oltre al problema dell'essere consapevoli della presenza di un conflitto, vi è un
divario fra tale consapevolezza e la capacità di gestire efficacemente e
creativamente gli aspetti conflittuali alla ricerca di soluzioni accettabili per tutti i
componenti. Spesso fra la presa di coscienza dell'esistenza di un conflitto e la
decisione di affrontarlo passa un tempo lungo, in cui i membri "fanno come se" non
ci fossero problemi (evitamento) nella speranza che le cose possano aggiustarsi da
sole. Tuttavia, l'evitare di far fronte ai conflitti crea, spesso, più problemi di quanti ne
risolva. Il tacere ed evitare diventano strategie alla lunga disfunzionali, in quanto
generano passività, inerzia, perdita di investimento o, anche, piccoli sottogruppi di
membri che si alleano in modo sotterraneo, magari solo per "sparlare" della
dirigenza e degli altri componenti.
La via di uscita da una situazione conflittuale di gruppo è, inevitabilmente, la
capacità di discuterne senza reticenze, accettando l'aspetto "costoso" di tale
operazione e il rischio di constatare che certe posizioni sono difficilmente
conciliabili. Moscovici e Doise sostengono che i processi di partecipazione
consensuale, in cui gli individui discutono liberamente col desiderio di confrontarsi e
di esprimere le proprie opzioni senza temere la censura e l'esclusione, sono
situazioni che rianimano qualunque dinamica sociale, introducendo il
coinvolgimento, l'investimento, il sentimento di appartenenza ad una comunità. La
partecipazione normalizzata è, invece, la situazione per cui l'accesso dei membri del
gruppo alla discussione è regolato dalla gerarchia esistente, dal grado in cui ciascuno
può esprimersi solo sulla base della posizione assegnata.
In questo caso, i contrasti si smorzano, le controversie sono mitigate, il che può
sembrare un vantaggio per tutti; tuttavia, in tali situazioni la reticenza (soprattutto
dei membri di status inferiore) diviene un elemento centrale e diffonde disagio e
ulteriore chiusura, il senso di partecipazione e il coinvolgimento si attenuano, le
soluzioni virano verso il compromesso piuttosto che verso il consenso, che è invece il
risultato di un accordo che nasce dall'autentico confronto sociale.
Non è sempre possibile scegliere fra partecipazione consensuale e normalizzata
nelle discussioni di gruppo e in particolare in quelle volte a chiarire conflittualità
interne; la scelta dipende dal tipo di gruppo (aperto, chiuso, formale, informale,
ecc.), dalle circostanze in cui un conflitto si palesa (durante il conflitto con un altro
gruppo, ad esempio, diviene troppo costoso affrontare i conflitti interni), dalle poste
che sono in gioco (se il gruppo deve raggiungere una meta importante, è probabile
che si soprassieda sulle conflittualità interne).
2.3 II gruppo-classe
Per aver chiaro il concetto di gruppo è utile non soltanto operare delle distinzioni
sulla base di alcune caratteristiche proprie del gruppo stesso, che assumono più o
meno rilevanza a seconda del punto di vista che si assume, ma anche tener presente
che ogni gruppo ha una propria "anima".
Nella sua definizione più generale il gruppo è visto come "un insieme di persone
unite fra loro da vincoli naturali, da rapporti di interesse, da scopi o idee comuni
ecc...", definizione che però è incompleta in quanto non lascia intuire il "di più", non
lascia intuire che, come K. Lewin ha ampiamente dimostrato, un gruppo è più, o
meglio, è qualcosa di diverso della somma delle sue singole componenti. Quest'idea
ci porta subito ad operare una distinzione tra un insieme di persone casualmente
riunite e un gruppo nel quale si instaurano sentimenti di appartenenza e di
interdipendenza con gli altri membri. Questi sono, infatti, i fattori che permettono al
gruppo di avere un'anima, imprescindibile e in relazione con quella delle persone
che lo compongono.
Infatti affinché un gruppo sia tale, oltre ai già citati sentimenti, tra i suoi membri
deve aver luogo una integrazione e una soddisfazione dei loro bisogni e un certo
grado di connessione emotiva che porti le persone a identificarsi con il gruppo
stesso (De Grada, 2000). Per aver un quadro ancora più chiaro, ma non certo
esaustivo del concetto di "gruppo", è utile ricordare la classica distinzione fatta da
Coleey (1969) tra gruppi "primari" e gruppi "secondari", distinzione che tiene conto
del tipo di relazioni che intercorrono tra i membri. Un'altra caratteristica importante,
come abbiamo già visto, è la numerosità che ci permette di distinguere tra gruppi
"estesi" e gruppi "ristretti". Inoltre, secondo il tipo di azione e gli scopi prefissati,
possiamo ancora distinguere, ad esempio, gruppi di "terapia", gruppi di "auto-
aiuto", gruppi "sperimentali", gruppi "politici", "sportivi",
ecc...
Ulteriormente possiamo distinguere un gruppo sulla base del suo "livello di
organizzazione gerarchica e normativa", sul tipo di "rete di comunicazione" esistente
al suo interno, e sul suo grado di "permeabilità" verso l'esterno. Tutte queste
caratteristiche sono presenti, in misura maggiore o minore, in tutti i tipi di gruppo.
Dai 15 fino ai 30
NUMEROSITÀ Dai 4 ai 6 membri di solito
membri in alcuni
INTERDIPENDENZA Elevata Media
Attraverso approcci comunicativi efficaci, il fine ultimo dovrebbe essere quello di far
sì che ciascun membro della classe si senta apprezzato e ben inserito,
indipendentemente dalle sue prestazioni scolastiche, dal suo aspetto fisico, dalla sua
razza, dal suo carattere e, al tempo stesso, bisogna fare in modo che egli sperimenti
nuovi modi di porsi in relazione alla persone che lo circondano in maniera aperta e
suscettibile di cambiamento. Utopia è forse la parola che molti potrebbero associare
a questa idea, ma credo che attraverso un lavoro di formazione specifico, che
valorizzi le risorse del gruppo e il potenziale insito in ogni persona, ciò è possibile.
A questo punto del discorso non si riesce a concepire una scuola in cui venga
trascurato l'aspetto relazionale. Alunni ed insegnanti vivono in aula, vi trascorrono la
maggior parte del tempo ed è assolutamente indispensabile che vi stiano volentieri.
Non possono esistere un pensiero e uno sviluppo cognitivo indipendentemente dal
contatto con i sentimenti e le emozioni sperimentate con i compagni e con gli adulti.
La qualità della scuola si misura dai modelli di relazione che vengono messi in atto
dagli insegnanti e dall'istituzione in tutte le sue componenti.
Una scuola ad hoc dovrebbe essere caratterizzata da un buon clima interno
impostato al rispetto reciproco e al dialogo, all'ascolto e a una collaboratività che
non esclude conflitti, ma ha la capacità di riconoscerli ed elaborarli per metterli al
servizio dello sviluppo e non delle forze regressive della mente. La scuola va intesa
come un "sistema di rapporti" che promuova la crescita e lo sviluppo delle persone e
non badi solo alle regole esteriori e formali. Le relazioni vanno improntate allo
sforzo di far fronte alle difficoltà piuttosto che a cercare di eluderle in maniera
illusoria. Si dovrebbero formare soggetti e gruppi che si muovano nella prospettiva
di lavorare insieme per individuare soluzioni di problemi e per dialogare. Cosi
facendo, il fine ultimo della scuola non è solo quello di trasmettere sapere e cultura
e introdurre gli individui nella società, ma anche quello di svilupparne le potenzialità
a tutti i livelli, quello emotivo-relazione compreso.
Il docente dunque, inteso come chi deve presiedere al conseguimento degli
obiettivi, ha il compito di gestire sia il contenuto professionale sia quello delle
relazioni. È in queste ultime che si manifestano spesso i problemi più difficili cui far
fronte. Il lavoro dell'insegnante non si esaurisce nel possesso di competenze
tecniche, ma implica una formazione personale mirata allo sviluppo di capacità
relazionali. Si tratta di sviluppare una sensibilità che consenta di riconoscere ed
entrare in contatto con i fattori emotivo-affettivi nel determinare il comportamento
umano e nel modo di apprendere e conoscere. Trascurando questo aspetto,
"paghiamo il prezzo di restare come siamo: giocattoli dell'economia, della politica,
del destino" (Winnicott, 1965).
Sapersi assumere la responsabilità emotiva della gestione educativa non vuol dire
perseguire una utopica qualità organizzativa e didattica. Un insegnante non deve
essere una figura ideale, perfettamente equipaggiata, ma un professionista che sa
apprendere dai propri errori, così come una buona formazione e un buon processo
educativo non sono quelli che formano soggetti che non sbagliano mai, ma persone
che sanno pensare e riflettere su quello che fanno. Forte non è colui che non cede,
ma colui che cede ed ha la forza di rialzarsi. Le capacità relazionali non sono
l'equivalente di un atteggiamento di comprensività paternalistica e buonista che
tutto tollera e niente punisce. Per l'insegnante significa fornire supporti conoscitivi,
tecnici ed emotivi e assumere un atteggiamento orientato a individuare le cause
oggettive e soggettive degli errori o delle mancanze, per correggerle dove possibile.
Non si parla di manipolazione degli altri, ma di contenimento, ovvero della capacità
di comprendere, capire. Il docente si pone come un interlocutore credibile, capace
di accettare l'atteggiamento a volte contestativi e provocatorio degli allievi ma
abbastanza forte da tenere loro testa.
In sintesi egli dovrebbe:
GUALA C. (1991), I sentieri della ricerca sociale, Roma, La Nuova Italia Scientifica
HABERMAS J. - TAYLOR C. (1998), Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento,
Milano, Feltrinelli
HABERMAS J. (1986), Teoria dell'agire comunicativo, Bologna, Il Mulino
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HANNERZ U. (2001), La diversità culturale, Bologna, Il Mulino KOZAKAI TOSHIAKI
(2002), Lo stranieroj'identità, Roma, Borla KYMLICKA W.
(1999), La cittadinanza multiculturale, Bologna, Il Mulino MARTINIELLO
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MELOTTI U. (1998), L'immigrazione: una sfida per l'Europa, Roma, Edizioni
associate MODOOD T. - WERBNER P. (1997), The politics of multiculturalism in
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PACE E., "Conflitti di valore e riconoscimento delle differenze in un sistema
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pedagogia/Psicologia/La- psicologia-evolutiva/Le-principali-
posizioni-teoriche.html
v http://www.funzioniobiettivo.it/glossadid/sviluppo_sociale.htm