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Autrice:

Auriemma Rosa Valentina. Copia di: Federica Basile

Storia della Giustizia


“IL POTERE DEI CONFLITTI” – ABBAMONTE


POTERE GIUDIZIARIO

L’IDEOLOGIA DELLA MAGISTRATURA TRA OTTO E NOVECENTO

1 - UNA GIUSTIFICAZIONE
Secondo la maggior parte degli studiosi per procedere ad una riflessione
sull’ambiente della magistratura tra ‘800 e ‘900 bisogna parlare di ideologia e
Bobbio, in particolare, parla di ideologia debole, ossia un sistema di credenze e
di valori che viene utilizzato in politica per orientare e condizionare le scelte e i
comportamenti delle masse; tuttavia, secondo Abbamonte, non é corretto
parlare di ideologia, soprattutto in relazione alla giurisdizione, in quanto questa
non è in grado di cogliere a pieno il rapporto tra le convinzioni indotte e la
disposizione all’azione, ma al contrario risulta piú opportuno parlare di habitus:
ed infatti, lo strumento sociologico dell’habitus rispecchia in modo piú realistico
la realtá giudiziaria, valorizzando sia i valori del contesto considerato sia la
disponibilitá del soggetto a recepirli e, in questo modo, esclude comportamenti
prevalentemente passivi. Va peró precisato che, nonostante ció, si preferisce
affidare all’ideologia il compito di fungere da criterio interpretativo della vita
della magistratura, soprattutto per ragioni di chiarezza ma anche per l’ampia
gamma di significati che le vengono attribuiti.

2 – L’OLEOGRAFIA (RAPPRESENTAZIONE) OTTOCENTESCA
Nell’800 la magistratura rispecchiava le esigenze del ceto agiato, che era l’unico
ad essere realmente rappresentato in Parlamento, ossia rappresentava lo
strumento attraverso cui la borghesia manteneva il controllo dell’evoluzione
sociale, cosí come affermato da Bonasi; in particolare, secondo l’autore a
differenza dell’Amministrazione, cui sono affidati gli interessi generali (quindi
nessun diritto vero e proprio) e che è investita di ampi poteri discrezionali, alla
giustizia invece sono affidati gli interessi delle persone fisiche o morali che,
essendo protetti dalla legge, si configurano come veri e propri diritti, e il giudice
è sempre vincolato al precetto della legge, anche quando la sua personale
convinzione potrebbe condurlo ad una decisione piú equa ed opportuna.
La magistratura ottocentesca, quindi, viene configurata come un invalicabile
argine istituzionale all’innovazione e il suo ruolo conservatore viene espresso
attraverso una rigida rivendicazione della separazione dei poteri.
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Valentina J Auriemma), autrice del materiale stesso. Copyright © 2017.


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La stessa concezione appare, inoltre, anche negli scritti di Pacifico dove, ancora
una volta, la divisione dei poteri viene posta a sostegno di un’accezione
rigidamente conservatrice per il magistrato. Ed infatti, secondo costui, il
magistrato deve essere contrario l’evoluzionismo e rimanere estraneo ai
pensieri delle scuole scientifiche e filosofiche; in particolare, la sua indipendenza
deve servire a renderlo indifferente alle preminenze popolari e, dunque, a porlo
come garante dell’ordine costituito, nonché degli equilibri costruiti dalla
borghesia ottocentesca.
Quindi, secondo il pensiero dominante, al giudice era assegnato un ufficio
ricoperto di santità, cioè vigeva la cd. ideologia sacerdotale della magistratura.

3 – IL QUADRO SI COMPLICA
L’immagine proveniente dall’autorappresentazione e dalla rappresentazione
della giurisdizione nell’800 subí notevoli incrinature a partire dal primo
dopoguerra, dove cominció ad affiorare la dimensione politica anche
nell’ambiente giudiziario.
In particolare, con l’avvento del regime fascista venne repressa ogni istanza di
modernizzazione e la prospettiva cambió radicalmente, cosí come è stato
riportato da Dorso, il quale infatti sostenne che non si poteva piú parlare di
sacerdotalità della magistratura, poiché oramai la separazione tra la
Magistratura e lo Stato era solo un’illusione: ed infatti, l’idea di una magistratura
indipendente risultava contraria alla stessa essenza della dittatura.
Non a caso, dunque, dopo la caduta del Fascismo, che aveva soppresso ogni
istanza di modernizzazione nella magistratura, quelle esigenze che giá vent’anni
prima avevano testimoniato un’evoluzione ideologica nell’ordine giudiziario
tornarono ad imporsi, superando cosí, anche se non senza conflitti, quello
statuto di neutralitá che aveva caratterizzato la cultura ottocentesca.
In particolare, le pagine di Dorso testimoniano il crollo della base ideologica
sacerdotale, visto che la separazione tra Magistratura e Stato era, ormai, solo
un’illusione: ed infatti, è impossibile immaginare una magistratura indipendente
poiché risulterebbe contraria alla stessa essenza della dittatura.
All’ideologia della superioritá del giudice, distaccato dalle instabilitá sociali, va
dunque sostituendosi quella del suo necessario coinvolgimento nei processi
politici e istituzionali, attraverso la rivendicazione di una maggiore dignitá
economica e di una piú ampia libertá, che risultano indispensabili per renderlo
interprete di una societá un tempo statica ma ora sempre piú dinamica.

4 – LA COSTITUZIONE FAVORISCE LA SVOLTA E CREA TENSIONI
Con l’entrata in vigore della Costituzione si ebbe un momento di profondo
rinnovamento e di forte presa di coscienza dei problemi reali della giustizia,
momento che condusse ad un’importante svolta nel mondo della magistratura.
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Ed infatti, le norme costituzionali essendo per loro natura (e non per difetto)
aperte e rinviando ad altro al di fuori di se, impongono al giurista, ed
innanzitutto al giudice, di partecipare pienamente alla vita della societá in cui
opera e costringono al confronto, mettendo in discussione le certezze: in questo
modo, dunque, venne legittimata la funzione politica dell’attivitá interpretativa e
i magistrati teorizzarono un uso alternativo del diritto, giungendo a sostenere
che il nuovo ruolo del giudice era quello di negare la legalitá tutte le volte in cui
essa, attraverso l’interpretazione, recepiva i contenuti corrispondenti agli
interessi della classe dominante.
In particolare, in questo contesto, Borré sostenne che bisognava cogliere nel
principio di uguaglianza sostanziale il fondamento del proprio operare come
giuristi, riconoscendo cosí alla funzione giudiziaria un nuovo ruolo,
politicamente responsabile e concretamente operativo nella lotta alla
modernizzazione sociale.
Dalla riflessione di Borré emerge, quindi, con chiarezza l’impianto ideologico che
sorreggeva le strategie della c.d. Magistratura democratica, nata in contrasto
alla falsa neutralitá del giudice e posta dalla parte delle fasce sociali piú
disagiate; in particolare, essa aveva il compito di sollevare la questione di
costituzionalitá in relazione a norme sospettate incostituzionali, attraverso la
lettura di nuovi valori costituzionali, assumendo dunque un atteggiamento di
resistenza nei confronti dell’ordinamento costituito.
Tuttavia va precisato che, dall’altra parte, le fasce piú conservatrici della
magistratura si opposero a queste visioni progressiste e del contrasto ideologico
che, in quegli anni, vigeva all’interno della Magistratura sono testimonianza
diretta le pagine di Ricciotti, il quale racconta che l’opinione pubblica fu scossa e
sconvolta dall’approccio crudo dei progressisti, che attribuivano una funzione di
indirizzo politico al singolo giudice e alla magistratura, tanto che alla
conclusione del congresso dell’associazione nazionale magistrati, tenutosi nel
1965, la magistratura indipendente contrastò i progressisti e impose la
riaffermazione della fedeltà del giudice alla legge, nonché dell’indipendenza del
giudice dal governo dal parlamento e dall’opinione pubblica.

5 – I RIFLESSI ISTITUZIONALI: LO STATUTO DEI LAVORATORI
Le tensioni presenti in magistratura, inizialmente solo ideologiche, trovarono
modo d’esprimersi soprattutto grazie all’approvazione della l. n. 300/1970,
ossia lo Statuto dei lavoratori, che rappresentó l’occasione per la Magistratura di
aprirsi quasi dichiaratamente alla funzione politica e di assumere una funzione
riequilibratrice del divario sociale. Ebbe cosí inizio un lungo processo, durato
circa trent’anni, con il quale la cultura del magistrato ha modificato i propri poli
di riferimento, ponendo il giudice al centro dei processi di trasformazione e

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modificandone la funzione da conservatore dell’ordine sociale ad anticipatore di


scelte incompiute altrove.

6 – DALLE GARANZIE ALL’EFFICIENZA: LA GIUSTIZIA SI FA SERVIZIO
Negli ultimi tempi, l’ormai acquisita consapevolezza della centralitá della
giurisdizione in societá sempre piú complesse e, quindi, sempre meno capaci di
elaborare in anticipo regole adeguate, sta inducendo il giudice a valorizzare un
diverso aspetto del proprio lavoro, vale a dire quello dell’efficienza, finalizzato a
fornire soluzioni tempestive e, quindi, ad assicurare rapide certezze.
In particolare, questo processo si staglia efficacemente attraverso il confronto
tra due circolari, emanate da due presidenti della Corte di Cassazione, con le
quali nel 1989 e nel 2011 sono state fornite indicazioni circa la redazione delle
sentenze della Corte Suprema, invitando alla concisione e, quindi, ad eliminare le
argomentazioni non indispensabili per la decisione.
Piú precisamente, nella prima circolare la concisione viene prospettata come un
necessario attributo degli atti autoritativi, che sono tali proprio perché
esprimono una volontá legittimata ad imporsi, indipendentemente dalla loro
forza di persuasione.
Nella circolare del 2011, invece, la giustizia viene colta in termini strettamente
pratici: ed infatti, in questa circolare si asserisce che la motivazione non deve piú
essere concisa, ma deve assumere forma semplificata, in modo tale da fornire
una risposta efficiente e tempestiva.


CONSIGLIO SUPERIORE E ASSOCIAZIONISMO

1 – LE PREMESSE DELL’ISTITUZIONE
Il Consiglio superiore della magistratura (CSM) é stato istituito nel nostro
ordinamento al fine di assicurare all’autorità giudiziaria autonomia ed
indipendenza rispetto agli altri poteri dello Stato, in particolare rispetto al
potere esecutivo, e l’indipendenza viene garantita da norme che tutelano la
funzione decisoria del giudice, limitando il rischio che egli sia chiamato a
rispondere per i provvedimenti presi.
In particolare, il Consiglio superiore della magistratura fu istituito per la prima
volta dalla legge n. 511/1907, ossia la c.d. Legge Orlando, anche se,
inizialmente, esso svolgeva esclusivamente compiti consultivi e amministrativi;
ed infatti, il CSM di allora presentava una struttura tipicamente gerarchico-
elitaria ed era formato da 20 membri scelti tra i rappresentanti dei piú alti gradi
della giurisdizione e presieduto dal Primo Presidente della Cassazione: si
trattava, dunque, di una struttura che riproduceva sul piano organizzativo il

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forte legame esistente tra la Magistratura dell’epoca e le élites liberali, legame


questo presente anche sul piano formale, visto che i giudici agivano in nome del
re ed erano in un rapporto di stretta dipendenza dal suo Governo (à non era
ancora stata raggiunta l’indipendenza).
Dunque, le funzioni del CSM, cosí come previste dalla legge Orlando, sono
rimaste grosso modo invariate per circa quarant’anni, ossia fino all’avvento della
Costituzione Repubblicana: ed infatti, fu solo il Costituente ad attribuire al
Consiglio superiore un diverso spessore politico, che porterá poi l’organo di
autogoverno a trasformarsi in sede di rappresentanza generale della
Magistratura.

2 – IL DIBATTITO ALL’ASSEMBLEA COSTITUENTE
Con il d. lg. n. 114/1945 ossia il c.d. decreto Togliatti, furono ampliate le
competenze del CSM, anche se sempre a livello consultivo, e venne introdotto un
sistema di elettivitá di secondo grado per i suoi membri, che erano tutti
magistrati, escludendosi, quindi, la componente esterna.
In particolare, il decreto Togliatti manifestava due diverse tendenze, vale a dire
l’una di rottura di tutti gli aspetti di dipendenza della magistratura
dall’esecutivo, e l’altra di continuitá con la tradizionale organizzazione
gerarchica dell’ordinamento giudiziario: con questo decreto, dunque, da un lato
venne parzialmente stabilito il principio della indipendenza c.d. esterna
della magistratura, sancito dal comma 1 dell’art. 104, mentre dall’altro lato
rimase invariata la gerarchia interna dell’ordine giudiziario.
Tuttavia, queste posizioni cosí conservatrici non incontrarono il consenso dei
costituenti, i quali misero in evidenza il riferimento, anche se indiretto, al potere
giudiziario sancito dal comma 2 dell’art. 101, il quale rende centrale la posizione
del singolo giudice, segnando cosí una rottura rispetto alla tradizionale
organizzazione gerarchica e stabilendo il principio della indipendenza c.d.
interna della magistratura.
Il CSM previsto dagli artt. 104 e 105 Cost. conserva, dunque, la denominazione
tradizionale, ma si differenzia radicalmente dagli organismi che lo hanno
preceduto, connotandosi in modo piú incisivo; in particolare, nel segnare
l’identitá del Consiglio superiore italiano risultano fondamentali:
• In primo luogo, l’attribuzione al CSM di tutte le competenze in materia di
“status” dei magistrati (e non piú soltanto l’espressione dei pareri) e in
materia di amministrazione della giurisdizione;
• In secondo luogo, l’attribuzione della presidenza al Capo dello Stato,
proprio per sottolineare la rilevanza del ruolo attribuito all’organo;
• In terzo luogo, la sua composizione mista, in modo tale da istituire un
sistema di armonizzazione e raccordo con gli altri poteri dello Stato anche

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se va precisato che, a garanzia dell’indipendenza dell’organo, risultano


prevalenti i magistrati c.d. togati rispetto agli altri membri, ossia i c.d. laici;
• Infine, l’affermazione netta del principio della elettivitá della componente
togata (cioè dei magistrati) e il riconoscimento dell’elettorato attivo a tutti
i magistrati ordinari. Riguardo l’elettorato passivo, invece, è previsto che
l’accordo viene raggiunto tra gli appartenenti alle varie categorie.
Va peró precisato che sui lavori della Costituente continuava a pesare
l’impostazione tradizionale, anche a causa delle pressioni provenienti dalla
Cassazione, la quale temeva di veder ridimensionato il suo ruolo e che auspicava
a limitazioni sia dell’elettorato attivo, con l’esclusione dei magistrati inferiori, sia
dell’elettorato passivo, con l’attribuzione della rappresentanza della
magistratura ai membri della Cassazione. Tuttavia, va precisato che tutte le
proposte in tal senso caddero, anche se é bene chiarire che il problema non
poteva dirsi ancora del tutto chiuso, tant’è vero che si ripresentó nuovamente in
seguito.

3 – VERSO L’ISTITUZIONE DEL C.S.M. (1948-1958). IL RUOLO
DELL’ASSOCIAZIONISMO DI MAGISTRATI
Sull’attuazione del CSM, a lungo contrastata, ha influito in modo rilevante il
ruolo assunto dall’Associazione nazionale magistrati italiani (ossia, la c.d.
A.N.M.I.), la cui posizione sul CSM ha subito un’evoluzione profonda negli anni
che vanno dal 1948 al 1957.
In particolare, nel 1948 l’ANMI si pose come obiettivo la riforma
dell’ordinamento giudiziario e, soprattutto, l’attuazione del CSM, e a tal fine
istituí una commissione che propose un c.d. “schema legislativo sul CSM”, il cui
contenuto risultó per molti aspetti particolarmente avanzato; ed infatti, riguardo
la composizione, esso prevedeva che i magistrati venissero ripartiti nelle
categorie di Cassazione, Appello e Tribunale, mentre per quanto concerne la
funzione, lo schema prevedeva che il CSM dovesse presentare al Ministro,
segnalazioni e proposte sulla giustizia e al Parlamento e al Governo, ogni anno,
una relazione sul funzionamento della giustizia nell’anno precedente.
Tuttavia, nonostante l’associazionismo (in quanto tale) si prestasse ad operare
in senso tendenzialmente egualitario, la posizione dell’ANMI nel 1948
rispecchiava ancora il pensiero conservatore della Cassazione, ed era protesa a
rivendicare l’indipendenza dal potere esecutivo di una magistratura costruita
secondo un modello rigorosamente gerarchico.
Lo scontro aperto con la Corte di Cassazione si determinó, invece, nel 1957 con
l’approvazione di una mozione, relativa alla rappresentanza dei magistrati, che
finí col contestare lo stesso nucleo dell’assetto gerarchico; in particolare, il testo
proclamava l’assoluta paritá di tutti i magistrati, essendo l’attivitá
giurisdizionale espressione immediata dello stesso potere sovrano, mentre in
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relazione al CSM, esso sanciva che il Consiglio superiore dovesse avere pieno e
libero potere di iniziativa e composizione paritaria tra le varie categoria di
magistrati.
Venne, cosí, proclamata l’indipendenza interna del CSM, in aperto conflitto con
le pretese di controllo da parte della Cassazione, la quale reagí approvando un
documento che ribadiva il principio gerarchico e la distinzione delle funzioni
nell’ambito della magistratura.
Tuttavia, il documento della Cassazione si mostró improprio a livello
istituzionale, in quanto non solo contrastava con il modello di organo di
autogoverno della magistratura ordinaria che, per l’appunto, il CSM
rappresentava, ma si contrapponeva anche al ruolo della giurisdizione, cosí
come delineato dalla Costituzione.

4 – LA L. ISTITUTIVA DEL 24 MARZO 1958, N. 195
Risulta dunque chiaro perché la legge istitutiva del CSM venne approvata
soltanto dopo 10 anni dall’entrata in vigore della Costituzione: ed infatti, il
problema fondamentale era rappresentato dal fatto che il nuovo assetto tendeva
a spezzare la rigida verticalizzazione che aveva caratterizzato per oltre un secolo
la magistratura italiana e nella quale la Corte di Cassazione aveva svolto un ruolo
centrale, non solo di indirizzo ma anche di vero e proprio controllo dell’attivitá
giurisdizionale. Quindi, il ritardo nella emanazione della legge istitutiva
dell’organo derivó dalla consapevolezza che il nuovo ordinamento costituzionale
avrebbe radicalmente mutato i rapporti all’interno della magistratura, nonché
dagli sforzi compiuti dalla Cassazione per garantirsi una rappresentanza la piú
ampia possibile nel nuovo organismo.
Il CSM venne, dunque, alla luce solo con l’approvazione della l. n. 195/1958, la
quale previde una composizione basata sulla presenza di 14 membri eletti dalla
magistratura, di cui 6 magistrati di Cassazione, 4 magistrati di Corte d’appello e
4 magistrati di Tribunale, e di 7 membri di nomina parlamentare, cui si
aggiungevano 2 membri di diritto e la presidenza del Capo dello Stato, per un
totale di 24 membri.
Tuttavia, la composizione risultava ancora sbilanciata in favore della Cassazione,
cosa che sollevó dubbi di costituzionalitá, anche se va precisato che all’epoca ció
rappresentó un punto d’equilibrio per dare finalmente avvio al nuovo organo
costituzionale.

5 – I SUCCESSIVI MUTAMENTI DEL SISTEMA ELETTORALE E I NUOVI MODELLI
ORGANIZZATIVI
Il sistema di elezione della componente togata é stato ripetutamente modificato
nel corso del tempo: dapprima nel 1967, poi nel 1975 e infine nel 1990, quando
si è giunti ad adottare un sistema di tipo proporzionale, in base al quale i
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magistrati vengono scelti mediante scrutinio di lista nell’ambito di 4 collegi


territoriali per l’elezione di 18 magistrati di merito e di un unico collegio
nazionale per l’elezione di 2 magistrati di legittimitá. In questo modo, dunque,
da un lato è stata superata la divisione dei magistrati in categorie anche dal lato
attivo, per cui ogni magistrato ha acquisito il diritto di votare per qualsiasi altro
magistrato, indipendentemente dalle funzioni svolte, e dall’altro lato è stato
definitivamente riequilibrato il peso della Cassazione.
Questa scelta è stata poi riconfermata nel 2002 con la legge n. 44, la quale ha
riformato il testo della legge istitutiva, introducendo importanti modifiche.
In particolare, anzitutto, con questa legge è stato abbandonato il precedente
criterio distintivo, basato sui diversi gradi della giurisdizione, e ne è stato
adottato un altro che, invece, distingue tra funzione requirente e funzione
giudicante.
Inoltre, è stato radicalmente modificato il meccanismo elettorale della
componente togata, prevedendo la candidatura dei magistrati a titolo
individuale ed istituendo 3 collegi unici nazionali per l’elezione di 2 magistrati di
legittimitá, 4 pubblici ministeri presso gli uffici di merito e 10 giudici di merito.
In questo contesto, un importante elemento di novitá è stato rappresentato dal
c.d. sistema del voto trasferibile (V.S.T.), il quale mira a premiare le singole
personalitá e persegue lo scopo di valorizzare il rapporto diretto di stima e di
fiducia tra elettori e candidato. Ed infatti, in base ad esso, gli elettori votano solo
per le persone che concorrono a titolo individuale e che non sono inserite in liste
contrapposte; essi inoltre, possono esprimere una sola preferenza oppure una
prima preferenza accompagnata da ulteriori preferenze, fino al numero dei seggi
da assegnare: alla fine, quindi, vengono eletti i candidati che superano una certa
quota di elezione, secondo l’ordine stabilito dall’elettore.
La legge sull’elettorato attivo stimola, dunque, gli elettori a sentirsi responsabili
nei confronti dell’intero corpo elettorale e non solo rispetto alla categoria di
appartenenza, mantenendone cosí l’unitá, ma allo stesso tempo suddivide la
rappresentanza dei magistrati in 3 diverse categorie che corrispondono a 3
diverse aree di funzioni.

La Scuola Superiore della Magistratura
Durante il corso del secondo governo Berlusconi venne attuata una riforma del
sistema giudiziario, nota come riforma Castelli, la quale ebbe un importante
impatto sul sistema delle attribuzioni del CSM.
In particolare, con questa riforma venne istituita nel 2006 la c.d. Scuola
superiore della magistratura, ossia una struttura didattica autonoma preposta
all’organizzazione e alla gestione del tirocinio degli uditori giudiziari, nonché dei
corsi di aggiornamento e di formazione dei magistrati, la quale doveva essere
frequentata obbligatoriamente ogni 5 anni; al termine di questi corsi, dunque, la
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Scuola dava una valutazione di ogni candidato, sulla cui base, poi, il CSM doveva
esprimere la sua deliberazione finale, in modo tale da consentire ai magistrati di
partecipare ai concorsi per la progressione anticipata di carriera.
Tuttavia, vennero sollevati dubbi di legittimitá costituzionale in quanto, come é
stato criticamente rilevato dallo stesso Consiglio in un suo parere, la valutazione
emessa dalla Scuola poneva un vincolo a carico del CSM, il quale risultava
incompatibile con l’art. 105 Cost.
Con la legge Mastella del 2007 è stato perció disposto il recupero da parte del
CSM, a discapito dell’istituenda Scuola della magistratura, delle competenze
relative alla valutazione delle carriere e all’aggiornamento professionale, nonché
del potere di emettere in via esclusiva il giudizio finale d’idoneitá al
conferimento delle funzioni giudiziarie.


GIURISDIZIONE, POTERE LEGISLATIVO E POTERE ESECUTIVO

1 – LA SEPARAZIONE DEI POTERI
Montesquieu é considerato uno dei padri fondatori del principio della
separazione dei poteri, principio questo sul quale sarebbero sorti, poco dopo, gli
stati di diritto ottocenteschi dell’Europa continentale.
Tuttavia, egli fu autore della famosa espressione “giudice bocca della legge”,
sulla quale sono sorti numerosi equivoci, dovuti alla mancata
contestualizzazione del suo pensiero. Ed infatti, il pensiero di Montesquieu sul
giudiziario, che egli definí come strettamente legato al testo della legge, é dovuto
alle degenerazioni prodotte dall’assolutismo nel corso dei secoli, tra cui anche gli
abusi commessi dai giudici nell’applicazione del diritto; egli, dunque, non ha
inteso svalutare l’attivitá interpretativa in sé, ma ha voluto esprimere un
giudizio negativo sul potere giudiziario dell’epoca.
Perció, la chiave di lettura del pensiero di Montesquieu deve essere individuata
laddove egli nota che “non c’è libertá se il potere giudiziario non è separato dal
potere legislativo e da quello esecutivo”, in quanto tutto sarebbe perduto se la
stessa persona o lo stesso corpo di persone esercitasse i tre poteri.
Inoltre, a ció va aggiunto che il motivo per il quale l’autore definisce il giudice
bocca della legge deriva anche dal fatto che egli guardava con ammirazione al
sistema inglese, in cui il ruolo procedurale del giudice era confinato in margini
ben definiti, vista la presenza dell’istituto della giuria. Ed infatti, in Inghilterra la
separazione dei poteri si era realizzata con un secolo d’anticipo rispetto
all’Europa continentale, cosa che aveva portato ad una netta distinzione tra
questioni di fatto, affidate alla valutazione della giuria, e questioni di diritto,
appannaggio del giudice.

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In particolare, secondo M., il potere legislativo, che risulta espressione della


volontá generale dello Stato, deve essere affidato al corpo dei nobili e al corpo
scelto per rappresentare il popolo, ciascuno espressione di punti di vista e
interessi separati. Inoltre il corpo dei nobili deve essere ereditario e risulta
perfetto per regolare e moderare il potere giudiziario. Tuttavia, il corpo
legislativo non deve riunirsi di propria iniziativa poiché, in quanto corpo, si
suppone che abbia volontá solo quando è riunito.
Il potere esecutivo, invece, deve essere nelle mani di un monarca, in quanto
questa parte del governo, che quasi sempre ha bisogno di un’azione istantanea,
risulta amministrata meglio da uno anziché da molti. Ed infatti, se non ci fosse
un monarca e il potere esecutivo venisse affidato ad un certo numero di persone
scelte dal corpo legislativo, non ci sarebbe piú libertá, poiché i due poteri
sarebbero riuniti. Inoltre, in uno stato libero il potere esecutivo deve avere il
diritto di arrestare le iniziative del legislativo, affinché questo non diventi
dispotico, mentre non c’è bisogno che il potere legislativo abbia reciprocamente
la facoltá di arrestare quello esecutivo poiché l’esecuzione ha giá per sua natura
dei limiti; tuttavia, va precisato che il legislativo deve avere il diritto e la facoltá
di esaminare in che modo sono state eseguite le leggi che ha promulgato.
Infine, il potere giudiziario non deve essere attribuito ad un senato
permanente, ma deve essere esercitato da persone scelte tra il popolo secondo i
modi prescritti dalla legge, per formare un tribunale che resti in vita soltanto per
il periodo necessario: in questo modo, dunque, questo potere, non essendo
legato né ad una determinata professione né ad una determinata condizione,
diviene nullo ed invisibile. Ed infatti, quello che si teme é la magistratura e non i
magistrati. Inoltre, anche se in generale il potere giudiziario non deve essere
riunito ad alcun legislativo, tuttavia sussistono tre eccezioni fondate
sull’interesse di chi deve essere giudicato: dunque, in base ad esse, i nobili
devono essere giudicati da altri nobili, essendo costoro sempre esposti
all’invidia; inoltre, nei casi più gravi l’imputato deve poter scegliere il giudice da
cui essere giudicato ed infine é necessario che i giudici siano della stessa
condizione dell’accusato o suoi pari, in modo tale che costui non sospetti di
essere caduto nelle mani di persone inclini a usargli violenza.
Inoltre, in tempi piú recenti, anche Neumann ha analizzato che quando la
separazione tra i poteri viene tradita, possono generarsi situazioni patologiche,
sia in stati democratici, sia in forme di stato diverse, e come esempio egli ha
addotto l’esperienza della repubblica tedesca di Weimar, in cui il potere dei
magistrati crebbe a discapito del potere del Parlamento. Ed infatti, la chiave di
volta di qualsiasi sistema parlamentare é rappresentata dal potere del corpo
legislativo di controllare il bilancio, potere questo che venne meno durante
questa repubblica, dimostrando quindi che quando la giustizia diventa politica,

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essa assume connotazioni illiberali, provocando odio, giustizia o disprezzo nei


confronti della stessa idea di giustizia.

Sulla stessa linea di M. si pose anche Tocqueville, il quale notava come
nell’oltreoceano si stavano già realizzando, con un secolo d’anticipo rispetto
all’Europa, stati liberali, con le prime costituzioni liberali. La prima
costituzione liberale è quella degli stati uniti d’America del 1787: lì era
inimmaginabile il giudice come bocca della legge, era riconosciuto ai giudici il
diritto di fondare le loro sentenze sulla costituzione piuttosto che sulle leggi.
Intuisce l’elemento rivoluzionario: ciò che impedisce ai giudici, in quel sistema,
di sconfinare nella politica vera e propria e quindi di sostituirsi al parlamento è
la concretezza della verifica di costituzionalità, cioè hanno il permesso di non
applicare le leggi che ritengono incostituzionali. Quindi gli americani hanno
attribuito ai tribunali un immenso potere politico, ma, obbligandoli ad attaccare
le leggi solo con mezzi giudiziari, hanno molto diminuito i pericoli: se il giudice
avesse potuto censurare il legislatore, avrebbe creato solo problemi. È solo
tramite queste costituzioni che si raggiungerà la separazione tra i poteri. Inoltre
il giudice americano giudica la legge solo perché deve giudicare un processo e
non può rinunciarvi, non per sua volontà. Per Tocqueville bisogna che la
giustizia sia illuminata, tempestiva, che non sia troppo rigida, e che sia
universale.
Infine, Hamilton definisce il potere giudiziario come il più debole e il meno
pericoloso tra i tre poteri: non ha forza di volontà, ma soltanto giudizio. Allo
stesso modo appare però, anche come il più importante potere nella tutela della
libertà contro il possibile arbitrio del legislatore: per questo esso necessita di
particolari garanzie di indipendenza. La libertà non è in pericolo, a meno che il
potere giudiziario non si unisca con gli altri due organi: gli effetti sarebbero
quelli di una soggezione del potere giudiziario. È per questo che sono
fondamentali le costituzioni, che pongano dei limiti: le corti di giustizia devono
essere assolutamente indipendenti per garantire la salvaguardia della
costituzione e dei diritti dei singoli.

2 – LA LOTTA PER IL PRIMATO DELL’INTERPRETAZIONE: IL CASO
DELL’INTERPRETAZIONE C.D. AUTENTICA DELLE LEGGI
L’interpretazione della legge (e, piú in generale, del diritto) si offre come
eccellente prospettiva da cui tematizzare i rapporti tra legislativo, esecutivo e
giudiziario, visto che, anche in momenti di relativa normalitá istituzionale, la
competizione per il primato interpretativo puó dar vita a degli squilibri.
In particolare, il potere legislativo tende spesso a limitare l’autonomia
interpretativa del giudice con modalitá che rivelano un’attitudine
concorrenziale, cosa che si evince soprattutto quando il legislatore interviene
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con una legge di interpretazione autentica, indicando al giudice il modo in cui


eseguire la sua attivitá interpretativa. Ed infatti, va ricordato che il potere
interpretativo del legislatore é un dato indiscusso, tanto da essere previsto e
regolato da disposizioni di legge, soprattutto nei sistemi di civil law, in cui,
infatti, la fonte che disciplina l’interpretazione autentica talvolta é di rango
costituzionale. Nei paesi di common law, invece, la fonte principale delle norme
sull’interpretazione é giurisprudenziale, anche perché, in questi sistemi,
eventuali norme legali sull’interpretazione avrebbero un impatto minimo sui
giudici.
Inoltre, che l’interpretazione autentica e, piú in generale, l’interpretazione, siano
lo specchio rivelatore di una certa tensione da parte del legislatore verso il
controllo della discrezionalitá interpretativa del giudice é dimostrato, nel caso
italiano, anche dai precedenti storici dell’art. 12 delle Preleggi al codice civile del
1942. Ed infatti, lo Statuto albertino del 1848 prevedeva che l’interpretazione
delle leggi spettasse esclusivamente al potere legislativo, sancendo così
l’obbligatorietà, per tutti i giudici e per tutti gli interpreti, della cd.
interpretazione autentica. Inoltre, dalla relazione che accompagnó la riforma
delle preleggi e del codice civile nel 1865 trapela come l’intento fosse, giá allora,
quello di adottare delle norme sull’interpretazione per limitare l’ambito
decisionale del giudice, secondo una visione alquanto rigida e meccanicistica
della separazione dei poteri, in quanto l’interpretazione non doveva essere altro
che la ricostruzione del pensiero del legislatore. Per di piú, lo stesso art. 12 delle
Preleggi al codice civile del 1942 sancisce che nell’applicare la legge, non si può
ad essa attribuire un altro senso se non quello che emerge dal significato proprio
delle parole e dall’intenzione del legislatore.
Inoltre, nei vari progetti di riforma tra il 2004 e 2006, il legislatore italiano tentò
di positivizzare, senza successo, il divieto di interpretazione c.d. creativa della
legge, nonché di riformare il titolo IV della Costituzione, per introdurre una
responsabilità civile del magistrato in caso di manifesta violazione del diritto
vigente; in entrambi i casi, dunque, l’intento era quello di sanzionare il cattivo
interprete per la sua responsabilità (disciplinare o civile), anziché utilizzare gli
ordinari rimedi endoprocessuali.
Tuttavia, va precisato che possono sorgere alcuni problemi se il legislatore
interviene con una legge di interpretazione autentica in ambito processuale con
il solo scopo di incidere sull’attivitá processuale in corso o che si é giá esaurita,
avvalendosi del suo effetto retroattivo. In questi casi, dunque, ci si é chiesti se
l’indipendenza della funzione giurisdizionale puó e deve costituire un limite alla
funzione interpretativa del legislatore, al fine di evitarne abusi.
Questo quesito, dunque, ha ricevuto una risposta affermativa, ricavata dall’art.
111 Cost.: ed infatti si é sostenuto che la materia processuale deve ritenersi
governata da un principio di irretroattivitá, anche se non scritto, per cui i giudici
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sono tenuti a negare eventuali effetti retroattivi ad una nuova disciplina


processuale; inoltre, il principio della ragionevole durata del processo impone al
legislatore di astenersi da qualsiasi intervento su norme processuali con effetto
retroattivo che puó comportare dei ritardi.

Infine, in alcune occasioni, anche la Corte Costituzionale ha lasciato intendere
che il legislatore non può sostituirsi al giudice nell’interpretare la legge,
affermando che il legislatore incontra i limiti del giudicato o del giudizio in
corso, quando risulta che la legge é diretta ad orientare l’esito di certi processi.
Tuttavia, anche il limite del giudicato è stato progressivamente abbandonato
dalla Corte, la quale infatti ha affermato che la caducazione degli effetti del
giudicato é ammissibile se si modifica anche la legge su cui si basavano le
sentenze passate in giudicato. Va peró precisato che, poiché le leggi di
interpretazione autentica dovrebbero avere lo scopo di rimuovere le ambiguitá
presenti in un testo legislativo, non ha senso pretendere di applicare queste
leggi anche a rapporti ormai definiti da una giudicato.

3 – ANCORA SULLA LOTTA PER IL PRIMATO DELL’INTERPRETAZIONE: IL
DIALOGO TRA CORTI NAZIONALI E CORTI SOVRANAZIONALI
La competizione per il primato dell’interpretazione non puó dirsi confinata ai
rapporti tra i tre poteri, ma va tematizzata anche attraverso il riferimento al
dialogo tra giudici comuni, Corte di cassazione, Corte costituzionale e Corti
sovranazionali. Ed infatti, il sistema delle fonti si è evoluto nel corso del tempo,
articolandosi in fonti legali e giurisprudenziali, nazionali e sovranazionali, tanto
da esigere una rilettura sia del principio di separazione dei poteri, sia del
principio secondo cui “il giudice è soggetto soltanto alla legge”, in cui infatti il
termine “legge” dovrebbe sostituirsi con il termine “diritto” (in sostanza, il
termine legge é divenuto troppo riduttivo, vista la crescente articolazione del
sistema delle fonti). Tuttavia, questa proposta interpretativa deve essere
coniugata con il principio di indipendenza del giudice, in quanto il giudice é il
primo interprete del diritto e il principio di separazione dei poteri impone di
garantirne l’indipendenza sia esterna che interna dagli altri poteri. Pertanto, é
necessario verificare, di volta in volta, in che la misura l’indipendenza del
giudice, intesa anche come discrezionalitá interpretativa, vada contemperata
con la soggezione non solo alla legge, ma anche agli altri parametri normativi e
giurisprudenziali e, a tal proposito, risulta fondamentale l’art. 117 Cost. il quale
infatti implica il dovere per il giudice di verificare la conformitá della legge
nazionale, che egli si trova a dover applicare, con i dettami delle fonti
dell’Unione e del diritto internazionale.
Tuttavia, é noto quanti conflitti interpretativi sorgano quotidianamente tra le
interpretazioni del diritto dell’Unione fornite dai giudici nazionali, da un lato, e
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dalla Corte di Strasburgo (CEDU) o dal giudice di Lussemburgo (Corte di


Giustizia), dall’altro. In ogni caso, va ricordato che nell’ordinamento italiano non
vige un vincolo di stare decisis (cioè del precedente giurisprudenziale) nei
confronti della giurisprudenza interna o di quella sovranazionale, né tantomeno
esiste, a livello comunitario, un rapporto gerarchico tra le corti nazionali e
comunitarie. Perció, l’autorevolezza della Corte di Giustizia, che rappresenta il
supremo giudice comunitario, non risiede nella sua collocazione al vertice di
un’immaginaria piramide giudiziaria, bensí solo nella necessitá di assicurare la
giustizia in termini generali, nell’interpretazione e nell’applicazione della legge.




FUNZIONE GIURISDIZIONALE

CINQUE GIURISDIZIONI FANNO UN SISTEMA?
DISCUSSIONE SUI MODELLI ORGANIZZATIVI DEL DICERE IUS

1 – UNITÁ E PLURALISMO
Nel 1920 Calamandrei parlava della struttura della giurisdizione post-unitaria
come un modello lineare, strutturato come una grande piramide che culminava
nella Corte di cassazione, e gli riconosceva proporzionata semplicitá.
Cinquant’anni dopo, invece, il sistema gli apparve come un complicato labirinto,
a causa dell’istituzione di nuove giurisdizioni speciali, che i legislatori creavano,
per certe categorie di controversie urgenti, al fine di fornire organi di giustizia
piú agili e meno dispendiosi rispetto a quelli ordinari quando era necessario,
anziché rinnovare dalle fondamenta l’ordinamento giudiziario. Si è parlato,
dunque, di sopravvivenza forzata di un sistema che non era piú in grado di
rispondere alle esigenze della societá. Ed infatti, sul finire del secolo e a causa
dello statalismo si verificarono degli effetti distorti, in base ai quali furono i
giudici ad effettuare la normazione giurisdizionale, costruendo un apparato di
concetti (che ancora oggi risultano utilizzati) a causa della scomparsa del
legislatore, divenuto latitante dopo la troppa presenza del potere politico.
Dunque, quello che si prospettava era un sistema non giurisdizionale, frutto di
una stratificazione storica, in cui ogni periodo successivo aveva conservato il
periodo precedente, senza avere la forza di sopprimere.
Inoltre, secondo Calamandrei, il problema delle giurisdizioni speciali si
presentava non solo come un problema di ordinamento giudiziario, ma anche
come un assai piú ampio problema di diritto costituzionale, dovuto alla necessitá
di sottrarre, nei momenti piú frenetici della vita sociale, la formulazione del
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diritto alle lentezze del Parlamento, nonché alla necessitá di sfuggire


all’incompetenza della burocrazia, che frapponeva i propri interessi
all’emanazione di norme giuridiche adeguate.
Successivamente, durante il secondo dopoguerra, una parvenza di mutamento si
ebbe con l’avvento della Costituzione, la quale infatti affermó il principio
dell’ordine giudiziario, dal quale sarebbe dovuta derivare all’unitá della
giurisdizione; ed invece non fu cosí. Ed infatti, vennero mantenuti organi
giurisdizionali come il Consiglio di Stato, la Corte dei conti e la giurisdizione
militare e, in piú, il legislatore italiano introdusse la giurisdizione tributaria.
La linea logico-giuridica del progetto era, dunque, quella di dar vita all’unitá
della giurisdizione, senza peró sacrificare le esigenze di specializzazione, che
sono alla base del progresso umano: ed infatti, il concetto di unitá della
giurisdizione era inteso come unicità della fonte di legittimazione della potestà
giurisdizionale, come identità e coerenza della giurisdizione e come necessità di
una stretta connessione fra le giurisdizioni, e non come unicità dell’organo
giurisdizionale, per cui non era in contrasto con la creazione di giurisdizioni
speciali, circondate dalle stesse garanzie che sono proprie dell’ordinamento
giudiziario.
Tuttavia, i costituenti espressero numerose perplessitá su quel modello e la
stessa Assemblea finí per rimproverare al progetto approvato di aver realizzato
troppo blandamente il principio dell’nitá, sottolineando come quella tendenza,
anche se chiaramente delineatasi, non ebbe il successo che gli era stato
augurato.
Per questo motivo, dunque, si é delineato un sistema composto da cinque
giurisdizioni, ossia il Consiglio di stato, la Corte dei conti, il Tar, la giurisdizione
militare e la giurisdizione tributaria, piú una sesta giurisdizione, che é quella
della Corte costituzionale, la quale peró é al di fuori dalle giurisdizioni che
riguardano i cittadini.

2 – CINQUE GIURISDIZIONI FANNO UN SISTEMA?
Ora, di fronte a cinque giurisdizioni, ciascuna con le proprie norme processuali, é
chiaro che si verificassero conflitti di giurisdizione, per cui i giudici
competevano tra loro al fine di guadagnare spazi vitali, generando cosí
numerose incertezze. Inoltre, inizialmente e fin quasi ai giorni nostri, non
esistevano norme che disciplinassero i rapporti tra le varie giurisdizioni, per cui
sussistevano delle lacune, cioé una zona grigia dove la tutela dei diritti era
assente o insufficiente. Ed infatti, solo nel 2007 e, quindi, dopo piú di
cinquant’anni, la Corte costituzionale ha stabilito che la tutela dei singoli non
poteva essere limitata da espedienti processuali.
Inoltre, va precisato che le giurisdizioni speciali sono state sottoposte a varie
critiche che spesso tendevano ad affermarne l’inefficienza o la pericolositá; in
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particolare, ancora oggi, ci si continua ad interrogare sulle motivazioni che


hanno indotto ad istituire tutte queste giurisdizioni e, soprattutto, la
giurisdizione militare che sollevava numerosi dubbi di costituzionalitá, visto che
a presiederla era un generale le cui decisioni non erano soggette al controllo
della Cassazione e che, quindi, manteneva in vita la vecchia teoria dei corpi
separati, sconfessata dalla Costituzione. In realtá, va chiarito che questo tipo di
giurisdizione fu mantenuta poiché era necessario affidarsi a giudici specializzati
in campo militare anche in tempo di pace, per punire senza ritardi quei reati.
Tuttavia, è importante precisare che, nonostante le critiche, l’ideale della
giurisdizione unica col tempo finì per svanire; cosí, le magistrature speciali
aumentarono e sorsero giudizi di equità, commissioni e tribunali di razza.
Inoltre, si arrivò a comprendere che dovevano esser creati tribunali speciali ogni
qualvolta la materia del contendere e le condizioni dei litiganti ne dimostrassero
la necessità.
In particolare, si prese coscienza del fatto che il giudice non é onnisciente, e
poiché prima di giudicare ha bisogno di conoscere bene e di comprendere,
risulta necessario nominare un giudice speciale, soggetto a regole particolari,
che si basi sul senso di equità, più che sul diritto scritto.
In ogni caso, va evidenziato che, riformate o no, queste giurisdizioni speciali
durano ancora oggi, a causa dell’inerzia del Governo nell’attuare programmi
costituzionali, per cui non resta che chiedersi se esistevano delle alternative. In
particolare, Chiovenda aveva immaginato la possibilitá di un giudice unico,
ritenendo che solo con l’abbandono dell’attuale procedimento civile si puó
sperare di avere una giustizia piú rapida, semplice ed economica. Piú
precisamente, il suo progetto si ispirava ai principi dell’oralitá,
dell’immediatezza e della concentrazione, principi questi che appartengono al
processo romano e la cui applicazione in Italia é avvenuta tardi.
Tuttavia, in anni recenti si é notato che l’unitá puó essere realizzata anche con le
norme vigenti, senza invocare una futura revisione costituzionale, che finirebbe
per complicare il problema anziché risolverlo: ed infatti, basterebbe rendere
eguali per autonomia tutti i giudici per garantire di riflesso gli amministratori,
visto che unitá non significa unicitá dell’organo giurisdizionale.

3 – LA GIUSTIZIA DIPENDE DAI GIUDICI
Un altro aspetto fondamentale della giustizia riguarda gli uomini che la animano,
nonché la loro selezione e formazione. Ed infatti, quello del giudice é un ufficio al
quale occorre la tecnica, ma l’idoneitá tecnica da sola non basta e deve essere
accompagnata dall’idoneitá morale e spirituale. Occorre poi creare un ambiente
favorevole: il giudice cioè deve essere circondato da prestigio, in modo tale che
egli si senta giudice e che gli altri lo rispettino come giudice. Inoltre, insieme a

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questi profili, é necessario anche che egli abbia una posizione tale da poter
vivere con dignitá e che si senta chiamato a sopportare i sacrifici del suo ufficio.
Infine, affinché il giudice possa salire al di sopra delle parti (ed essere
imparziale), é necessario che le parti stesse lo aiutino a trovare le ragioni della
lite, ed é proprio in questo che risiede la necessitá morale del contraddittorio.

4 – CONCLUSIONE: GLI ARCHETIPI


Attualmente, il nostro modello organizzativo puó essere definito come doppia
giurisdizione, per la presenza di un giudice dei diritti e di un giudice degli
interessi, che fa da oppositore dialettico della magistratura ordinaria e crea un
sistema di attenuata ma persistente pluralitá. Questo sistema, inoltre é
riaffermato dali artt. 102 e 103 Cost. che distinguono tra giudici ordinari, cui
compete la tutela dei diritti soggettivi, e giudici speciali, cui compete la tutela
degli interessi legittimi, anche se non sono mancati casi di giurisdizione su diritti
soggettivi attribuiti a giudici speciali (come ad es. in materia di salute e di
ambiente). Inoltre, in base a quanto previsto dalla Costituzione, la funzione
giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari e vige il divieto di istituire
giudici straordinari e speciali (è prevista solo la possibilitá di istituire sezioni
specializzate presso gli organi giudiziari ordinari per determinate materie),
divieto questo dovuto sia a ragioni storiche che a ragioni legate alla separazione
dei poteri: ed infatti, con il passaggio dallo stato autoritario allo stato di diritto è
sorta la necessitá di concentrare nel giudice ordinario la competenza a decidere
ogni materia, eliminando quelle giurisdizioni che non offrivano sicure garanzie
di indipendenza dal potere politico.
In particolare, in passato a contrastare la giustizia ordinaria vi era quella
commerciale, che rappresenta l’archetipo della giurisdizione speciale, come oggi
lo è quella amministrativa, e la sua abolizione ha rappresentato una tappa
fondamentale per la statualizzazione del diritto, l’unitá dell’ordinamento e
l’uguaglianza tra i consociati: ed infatti, fu affermato che la giustizia deve essere
uguale per tutti e non puó consentire l’istituzione di tribunali speciali.
Tornando, invece, ad oggi, va precisato che la conservazione di un “giudice-
amministratore”, che sul piano tecnico fa leva sulla specificità del diritto da
applicare, sul versante politico, invece, conferma la concezione autoritaria del
rapporto tra Stato e cittadini.







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L’ECCESSO DI MOTIVAZIONE.
IL MARGINE AL TEMA STORICO DELLE SENTENZE RAGIONATE

1 – LA SENTENZA É COME UN TRATTATO
Nel corso del tempo, la motivazione, la sua funzione e la sua stessa natura, hanno
subito dei cambiamenti molti significativi, compiendo dalla fine del Settecento
fino ai giorni nostri un cammino a ritroso, che si é tradotto nella formulazione di
sentenze simili a trattati e caratterizzate da un eccesso di motivi, il quale viene
considerato dannoso tanto quanto l’assenza di comunicazione.
In particolare, il primo motivo che ha condotto a questo fenomeno é di tipo
culturale: ed infatti, mentre nei sistemi di common law il giudice é considerato
una figura quasi eroica, i grandi nomi del civil law, invece, sono quelli dei dottori
della legge. Per questo motivo, dunque, la forma e lo stile delle sentenze italiane
imita pedissequamente gli scritti dottrinali, il giudice cioè scrive le sentenze
dimostrando la sua abilitá a muoversi nell’ambiente dottrinale, dando vita ad
una giurisprudenza che risulta imitativa e non creativa: ed infatti, nella stesura e
nella pubblicazione delle sentenze predominano l’astrattezza e il concettualismo
della dottrina.
Ovviamente, le motivazioni troppo estese hanno fatto sorgere la necessitá di
procedere a delle sintesi tecniche, cosa che ha dato vita cosí ad un altro
elemento, accanto al dispositivo e alla motivazione, definito massima. In
particolare, la massima, come la motivazione, viene scritta con un certo ritardo
rispetto al dispositivo ed é formata da una struttura apposita di magistrati,
diversi dai giudici che hanno adottato la decisione, per cui essa si presenta come
un dato quasi dottrinale. Se ne deduce, dunque, che il nostro stile giudiziario
risulta caratterizzato da estese motivazioni e brevi massime, dove il rilievo non é
dato ai fatti del caso, ma alla produzione di questo elemento spurio, che risulta
separato dall’effettivo contesto.

2 – LE RADICI LONTANE DEL FENOMENO E IL RUOLO DELLA MASSIMA
Il secondo motivo che ha condotto al fenomeno dell’eccesso di motivazione,
invece, é di natura politica ed ha matrici antiche, per cui occorre una digressione
storica.
In particolare, in passato la motivazione non costituiva un elemento rilevante
per gli illuministi, cosí come dimostrano numerosi scritti francesi. Ed infatti, lo
stesso Montesquieu, il giurista piú illustre e innovatore del tuo tempo, non spese
neanche una parola sulla necessitá o sulla possibilitá di motivare i giudizi, che
per lui costituivano una “semplice affermazione”. Inoltre, anche Voltaire,
Rousseau e gli Enciclopedisti mostrarono di non comprendere il significato dei
motiva, anche se, allo stesso tempo, in un suo commento, Voltaire si chiese
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perché in alcuni paesi non si dessero mai i motivi delle sentenze. In particolare,
il motivo di questa poca attenzione era dovuto essenzialmente al fatto che in
Francia, verso la metá del Settecento, era predominante il piano legislativo e
quello governativo, mentre era riservato poco spazio alla magistratura. Inoltre, a
ció va aggiunto il fatto che la procedura penale assunse una veste inquisitoria e
l’accusato non aveva il diritto di conoscere il motivo per il quale veniva
condannato, né la classificazione del suo delitto.
Tuttavia, poco dopo, in Francia le prassi giudiziarie vennero comprese nel loro
reale significato, tant’è vero che l’obbligo di motivazione delle sentenze divenne
una delle istanze piú solide dell’illuminismo giuridico.
In Italia, invece, il livello della discussione presentava uno stato migliore e si
affermó una nuova sensibilitá, soprattutto grazie a Tanucci, il quale infatti giá
dalla metá del Settecento, dichiarava che si sarebbe avuta una vera giustizia solo
se i magistrati avessero giudicato con le ragioni, in quanto l’arbitrio dei giudici
doveva essere considerato inconciliabile con la libertá civile. Si ebbe, cosí,
l’emanazione (nel 1774) di una legge che obbligava a motivare le sentenze, legge
questa che segnó l’avvio della “nuova vita giudiziaria”.

3 – TRA PASSATO E PRESENTE: IL SILENZIO COME AUCTORITAS E LA PAROLA
COME DIFESA
Tuttavia, contro questa legge, l’opposizione fu fortissima, soprattutto da parte
dei magistrati. Ed infatti, fino a quel momento, il peso della tradizione dottrinale
e la facoltá riconosciuta ai giudici di non rivelare le ragioni dei loro responsi,
avevano provocato al sistema giurisdizionale una chiusura di tipo scientifico e
sociale, in cui l’assenza di motivazione, insieme ad altre prerogative e privilegi,
consentiva alle magistrature di svolgere la propria azione senza troppi controlli.
Dunque, con l’istituzionalizzazione dell’obbligo di motivare, la sua diffusione e il
suo radicamento nella cultura giuridica e nelle aspettative politiche e sociali, la
prospettiva cambió radicalmente e l’esplicazione delle ragioni del decidere
divenne un genere letterario, che si puó definire nobile oltre che utile: ed infatti,
sul piano teorico, la motivazione serviva a persuadere gli sconfitti, mentre sul
piano pratico serviva ad evitare le impugnazioni o a consentire il controllo della
legittimitá e del merito delle decisioni. Venne peró precisato che, affinché la
motivazione potesse assolvere alla sua funzione, era necessario che la decisione
giudiziaria fosse definitiva, chiara, razionale e logica, e non doveva mai
ammettere come dimostrato ció che c’era da dimostrare. Inoltre, la motivazione
doveva limitarsi ai principali punti controversi in fatto e in diritto, doveva
consistere in giudizi analitici, doveva essere sufficiente e concreta e doveva
avere un contenuto minimo, canoni questi che risultano oggi disattesi.

4 – LA MOTIVAZIONE COME LEZIONE
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La motivazione, dunque è divenuta e resta uno strumento di legalitá e un mezzo


di giustizia; essa puó rivelare l’assetto di un sistema complesso e puó far capire
quale sia l’orientamento dei gruppi sociali e d’opinione, nonché la volontá di
coloro che hanno potestá decisoria sul piano normativo e giudiziario. Ed infatti,
la selezione degli argomenti di prova consente di ricostruire la mentalitá di ogni
singolo giudice, rivelando, con metodi abbastanza precisi, l’esistenza in ogni
giudice di particolari atteggiamenti e tendenze di fronte a determinate tipologie
di controversie.
In particolare, per comprendere questo insieme di elementi che dimostrano
come la teoria della discussione razionale sia una teoria normativa e analitica,
legata al concetto di ragion pratica, é opportuno confrontare il nostro
ordinamento con esperienze lontane: ed infatti, mentre nei paesi continentali
l’obbligo di motivazione è nato da una diffusa sfiducia nel potere giudiziario, in
Inghilterra, invece, l’obbligo di motivazione non esiste, cosa che dimostra il
prestigio e la dignitá di cui godono i giudici; inoltre, mentre nel nostro sistema la
motivazione é stata introdotta per limitare il potere dei giudici, in Inghilterra,
invece, sono stati gli stessi giudici delle giurisdizioni superiori ad introdurre e
poi ad imporre la motivazione, la quale ha assunto una funzione scientifica e
didattica: ed infatti, quando il giudice inglese spiega le ragioni della sua
decisione non lo fa solo a beneficio del processo, ma il suo discorso si estende
anche agli studenti di diritto, i quali, infatti, studiano attraverso la lettura dei
precedenti; infine, mentre negli ordinamenti di civil law il modello della
motivazione è deduttivo, in quanto il diritto parla attraverso un codice che
risulta completo ex ante, al contrario nei sistemi di common law alla
motivazione viene affidato un ruolo attivo e creativo.
In conclusione, possiamo dunque affermare che la motivazione, divenuta a fatica
parte della sentenza, nel corso degli anni e spinta da ragioni culturali e politiche,
ha assunto una dimensione eccessiva che la rende priva di qualsiasi funzione di
giustizia e questa carenza non puó essere sopportata a lungo neppure da un
sistema come il nostro, in quanto finisce per tenere distinti diritto e giustizia
anche quando non si dovrebbe, offrendo dunque una versione discutibile e
inutile del realismo giudiziario e politico.


IL GIUDIZIO COSTITUZIONALE

1 – UNA DIFFICILE GESTAZIONE
Con la redazione di una costituzione rigida, l’Italia si pose sulla scia del nuovo
costituzionalismo del Novecento, il quale segnava una netta soluzione di
continuitá rispetto a quel legicentrismo che aveva accomunato il pensiero

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illuministico alle dottrine statualistiche, fiorite nella giuspubblicistica


dell’Ottocento.
In particolare, nel Settecento i giuristi, a supporto del ruolo di mediazione
sociale e politica svolto dalle grandi corti di giustizia, avevano posto un
compatto corpus di dottrine costituzionali, che avevano il loro fulcro nel rifiuto
del volontarismo, ossia della riduzione del diritto alla legge del sovrano, e nella
subordinazione della legislazione principesca ad un articolato complesso di fonti
poste al di sopra di essa, ossia le c.d. leggi fondamentali. Tuttavia, lo scetticismo
illuministico aveva invalidato quella pretesa: ed infatti, l’intento di rafforzare,
attraverso la legge, la “sovranitá concreta” per evitare di ricadere nel
particolarismo, spazzato via dalla Rivoluzione, che aveva caratterizzato l’Antico
Regime, non consentirono l’emergere di quella “sovranitá della costituzione”.
Inoltre, l’idea del primato della costituzione fu sostanzialmente estranea anche
alle concezioni dominanti nella giuspubblicistica dell’Ottocento, le quali, infatti,
furono anch’esse caratterizzate dall’idea del primato della legge. Dunque, fu solo
nei primi del Novecento che, con l’irrompere del pluralismo (partiti, sindacati,
associazioni) entró in crisi la tradizionale visione monoteistica della societá e
nacque l’esigenza di fare della costituzione la garanzia del pluralismo; cosí, il
primato della legge venne abbandonato in favore del primato della costituzione.
Tuttavia, un elemento di rigiditá fu introdotto nell’ordinamento italiano dal
Fasciamo, il quale infatti prescrisse con una legge l’obbligatorietá del parere del
Gran Consiglio del Fascismo sulle questioni costituzionali, senza peró prevedere
che le leggi riguardanti quelle materie acquistassero un’efficiacia superiore
rispetto a quelle ordinarie.
La creazione di una Corte Costituzionale fu, dunque, al centro dei programmi
di numerosi dei partiti che si affacciarono sulla scena politica al momento della
caduta del fascismo, e tra di essi spiccarono in particolare il Partito liberale e il
Partito socialista. Al contrario, la piú grande opposizione provenne dal Partito
comunista, il quale giustificava quella posizione con la necessitá di non
consentire che la funzione legislativa fosse condizionata o intralciata da un
organo che non era espressione della sovranitá popolare. Per questo motivo,
dunque, secondo i comunisti, il controllo di costituzionalitá doveva essere
affidato ad un organo simile all’Assemblea costituente.
Tuttavia, va precisato che anche le posizioni e gli orientamenti di coloro che
appoggiavano la creazione della Corte Costituzionale erano molto differenti. Ed
infatti, Calamandrei riteneva che non si poteva escludere del tutto la
magistratura dal controllo di costituzionalitá delle leggi, per cui, a suo avviso, si
doveva attribuire a ciascun giudice la facoltá di decidere se risolvere
autonomamente il dubbio di costituzionalitá o rinviare la soluzione alla Corte.
Inoltre, per il processualcivilista fiorentino la stessa pronuncia di
incostituzionalitá della Corte doveva avere un carattere meramente indicativo,
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in quanto dovevano essere le stesse assemblee legislative, su impulso del


governo, a caducare o modificare la disposizione. Leone, invece, si discostó
nettamente dalla posizione di Calamandrei, ponendo l’accento sui rischi che
sarebbero potuti derivare da un conflitto di giudicati, e fu tra i primi a
configurare la Corte Costituzionale come un organo abilitato ad annullare le
leggi in quanto posto al di fuori dei tre tradizionali poteri, prefigurando quindi i
caratteri che, in seguito, essa assunse effettivamente.
Inoltre, anche Einaudi dissentí apertamente, affermando che il succedersi di
pronunce di incostituzionalitá di una stessa legge da parte dei giudici comuni
non avrebbe potuto non indurre il legislatore ad abrogarla.
Vi furono, poi, discussioni delicate anche in merito al problema della
composizione della Corte e, al riguardo, fu respinta la proposta di Calamandrei
di far eleggere dalla magistratura stessa i magistrati che avrebbero dovuto
costituire la metá dei componenti della Corte. Prevalse, invece, la tesi secondo
cui l’intera Corte doveva essere eletta dall’Assemblea nazionale. In particolare,
nel testo approvato dalla Commissione dei Settantacinque era previsto che i suoi
componenti fossero per metà magistrati, per un quarto avvocati e professori
universitari di materie giuridiche, e per un quarto cittadini eleggibili, anche privi
di una specifica qualificazione tecnica. Inoltre, fu previsto che il giudizio di
costituzionalità potesse essere attivato sia in via incidentale che in via
principale.
Tuttavia, a questo testo furono avanzate numerose opposizioni e critiche,
provenienti dai rappresentanti di vari partiti, sia in merito alla composizione
della Corte, sia in merito all’elezione dei suoi membri, ma alla fine Peressi si fece
carico di un tentativo di mediazione, accogliendo un emendamento che
prevedeva che la Corte fosse nominata per un terzo dal Presidente della
Repubblica, per un terzo dal Parlamento e per un terzo dal Consiglio Superiore
della Magistratura; inoltre, lo stesso emendamento prevedeva anche che la Corte
dovesse essere composta da professori ordinari di materie giuridiche, da
magistrati e da avvocati con vent’anni di esercizio. Questo assetto, dunque,
incontró l’opposizione delle sinistre, cioè dei comunisti e dei socialisti, ciascuno
dei quali avanzó delle proprie proposte, ma entrambe vennero respinte.
Ora, una volta messo un punto fermo sulla composizione della Corte,
permeavano peró residue incertezze sulla possibilitá di attribuirle piena potestá
di annullamento. Dunque, a fare chiarezza sulla questione, intervennero la l.
cost. n.1 del 1948 e la l. n. 87 del 1953: ed infatti, la l. cost. n.1 del 1948, sancí
che il sindacato di costituzionalitá poteva essere attivato solo in via incidentale,
mentre con la l. 87/53, approvata a conclusione di un complesso iter legislativo,
fu stabilito che l’elezione dei giudici della Corte Costituzionale doveva avvenire
con il quorum dei 3/5 dei componenti del Parlamento nelle prime due votazioni,
e dei 3/5 dei votanti nelle votazioni successive.
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2 – UN RAPIDO CONSOLIDAMENTO ISTITUZIONALE
Tuttavia, va precisato che la Corte Costituzionale, tanto avversata dalle sinistre
durante i lavori dell’Assemblea costituente, cominció ad essere vista dalle forze
di governo come una minaccia alla stabilitá del quadro politico uscito dalle
elezioni del 1948, tant’è vero che, durante un dibattito parlamentare, Nitti la
definí una sovrastruttura. Per questo motivo, dunque, le elezioni della
componente parlamentare si protrassero per quasi tre anni e, di conseguenza,
l’entrata in vigore della Corte Costituzionale fu rinviata al 1956.
Nonostante ció, fin dagli esodi, il nuovo organo apparve destinato a realizzare
una profonda innovazione nella vicenda politico-istituzionale italiana.
In particolare, durante il lungo periodo che aveva preceduto la sua entrata in
funzione, il sindacato di costituzionalitá fu svolto dalla magistratura in modo da
ridimensionare sensibilmente la portata innovativa della Carta Costituzionale.
Perció, fin dal primo momento, la Corte fu impegnata nel compito storico di
promuovere il superamento di quella parte della legislazione precostituzionale
che maggiormente rifletteva una concezione autoritaria del potere.
Ed infatti, fin dalle sue prime pronunce del 1956, aventi ad oggetto disposizioni
del T.U. di Pubblica Sicurezza, la Corte Costituzionale affermó la sua competenza
a giudicare la legittimitá costituzionale della legge e degli atti di legge, anche se
anteriori all’entrata in vigore della Costituzione. Inoltre, pose l’accento sulla
differente portata dell’illegittimitá costituzionale e dell’abrogazione, chiarendo
che i due istituti si muovono su piani diversi ed hanno effetti e competenze
differenti; ed infatti, il campo dell’abrogazione risulta piú ristretto e i requisiti
richiesti sono piú limitati. Infine, la Corte contestó la tesi secondo cui erano ad
efficacia differita le disposizioni costituzionali riguardanti la libertá personale, il
diritto di locomozione, di riunione e di manifestazione del pensiero,
sottolineando l’importanza e l’ampia portata di questi diritti.
La giurisprudenza della Corte Costituzionale, si caratterizzó dunque, giá nei
primi anni, per una forte creativitá, non solo nei criteri ermeneutici adottati, ma
anche nelle stesse decisioni, le quali assunsero quattro differenti forme, ossia:
sentenze interpretative di rigetto, sentenze interpretative di accoglimento,
sentenze additive e sentenze sostitutive.
In particolare, la sentenza interpretativa di rigetto veniva utilizzata per
plasmare gli orientamenti interpretativi della magistratura, svolgendo cosí
un’opera di pedagogia costituzionale, e qualora i giudici comuni non si fossero
uniformati all’interpretazione della Corte, sarebbe stato sempre possibile
adottare, in seguito, una sentenza di accoglimento. Prese cosí piede la prassi
delle doppie pronunce ed emblematico, a tal proposito, fu il caso dell’art. 2 del
T.U. di Pubblica Sicurezza. In particolare, con la sent. 8/56 la Corte dichiaró
infondata la relativa questione di legittimitá costituzionale, riconoscendo come
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lecito il potere di ordinanza attribuito al prefetto, ma allo stesso tempo segnó


analiticamente i limiti entro cui doveva essere esercitato questo potere,
invitando il Parlamento a disciplinare la materia in modo tale da porla al riparo
da ogni interpretazione incostituzionale; in seguito, peró, di fronte all’inerzia del
legislatore, con la sent. 27/61 la Corte pronunció un’interpretazione di
accoglimento.

Una dimostrazione ancora piú efficace delle potenzialitá dello strumento della
doppia pronuncia é offerta da due sentenze del 1965, aventi ad oggetto l’art. che
prevedeva l’estensione all’istruzione sommaria delle garanzie di difesa previste
per quella formale. In particolare, nella prima sentenza la Corte rigettó la
questione di legittimitá costituzionale, ma con la seconda sentenza l’accolse
poiché la magistratura non si era uniformata al suo orientamento interpretativo.
Tuttavia, ci furono numerosi contrasti tra la Corte Costituzionale e la Corte di
Cassazione, soprattutto in relazione all’interpretazione delle norme del vecchio
codice di procedura penale in materia di difesa, e a scatenare una memorabile
“guerra fra Corti” fu la sent. 190/70, riguardante l’assistenza del difensore
durante l’interrogatorio dell’imputato. In particolare, era stata eccepita
l’illegittimitá dell’art. 303 c.p.p. che consentiva la partecipazione del p.m.
all’interrogatorio dell’imputato, ma il p.m. sostenne che in materia non esisteva
una norma attributiva di poteri al difensore e, poiché il sindacato costituzionale
non puó esercitarsi su una norma inesistente, la Corte non avrebbe potuto
pronunciarsi sulla questione. Tuttavia, la Corte Costituzionale si avvalse della
tecnica giá collaudata della decisione manipolativa, sindacando la disposizione
legislativa non per quello che prevedeva, ma per quello che non prevedeva e
cosí, dopo un articolato ragionamento, dichiaró illegittimo l’art. 304 bis c.p.p.
limitatamente alla parte in cui escludeva il diritto del difensore di assistere
all’interrogatorio. La Corte di Cassazione, peró, rifiutó di adeguarsi alla decisione
della Corte costituzionale, tanto che quest’ultima, per far valere il proprio punto
di vista, valutó la possibilitá di promuovere un conflitto di attribuzione; alla fine,
dunque, dovette intervenire il Governo per imporre il rispetto della pronuncia
della Corte costituzionale.
Inoltre, accanto all’impiego della tecnica della manipolazione, era destinata a
farsi sempre piú massiccia anche la c.d. attivitá monitoria (i moniti) della
Corte, che consisteva nel dettare indirizzi e suggerimenti al legislatore; ed infatti,
giá durante il primo periodo della sua attivitá, alla dichiarazione di infondatezza
della questione di legittimitá costituzionale la Corte accompagnava l’invito,
rivolto al Parlamento, a disciplinare la materia per renderla del tutto conforme
al dettato costituzionale, e un esempio in tal senso é offerto dalla sent. 225/74,
che impartiva al Parlamento un complesso di regole finalizzate a conciliare il

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monopolio radiotelevisivo con la necessitá di assicurare il pluralismo e di


garantire il diritto all’accesso.
Ora, le prime crepe manifestatesi nel sistema dei partiti, sul finire degli anni
Settanta contribuirono a porre al centro della scena politica l’istituto del
referendum abrogativo, il quale aveva trovato attuazione con la l. n.
352/1970, ma che, per la lacunositá della disciplina, fu integrato dalle pronunce
della Corte costituzionale. In particolare, tra di esse particolare importanza ha
rivestito soprattutto la sent. 16/78, la quale infatti mostra come la disciplina di
un istituto centrale della democrazia, quale appunto il referendum abrogativo,
sia stata in larga parte “scritta” dalla Corte costituzionale. Ed infatti, con questa
sentenza, la Corte estese l’inammissibilitá dell’istituto, escludendo che potessero
essere oggetto di consultazione referendaria le leggi costituzionali e quelle a
contenuto costituzionalmente vincolato; inoltre, la Corte escluse la possibilitá di
proporre un referendum abrogativo su materie eterogenee.
Il giudizio di ammissibilitá del referendum ha costituito dunque un importante
strumento posto nelle mani della Corte per incidere sulla dialettica politica.
Infine, va ricordato il convegno tenutosi nel 1981 su Corte costituzionale e
sviluppo della forma di governo in Italia. In quell’occasione Baldassarre criticò la
mancata individuazione, da parte della corte, di un univoco tertium
comparationis per definire il requisito dell’omogeneità delle materie oggetto dei
quesiti referendari. Rodotà segnalò il rischio che la corte costituzionale potesse
riscrivere intere discipline legislative, come aveva già fatto per il
referendum. Modugno sosteneva che le forme assunte dalla presenza della corte
nella vicenda politico istituzionale erano inevitabile conseguenza dei caratteri
della costituzione italiana: era stata l’abbondanza di clausole generali e i vari
principi a renderla così; era per questo che non riteneva censurabile il
comportamento della corte, ma riteneva che dovesse esercitare il suoi poteri in
modo più trasparente, senza nascondersi dietro a vaghe formulazioni di
principio. Zagrebelsky invece era molto critico verso le sentenze-leggi della
corte, pronunce caratterizzate da alto tasso di creatività. Distingueva due tipi:
quelle che la corte adottava per evitare di produrre lacune a causa dell’inerzia
del legislatore, e quelle che utilizzava come pretesti per poter imporre un
proprio orientamento legislativo. Nel primo caso, la corte, avrebbe dovuto avere
maggiore coraggio adottando sentenze di accoglimento puro e semplice, nel
secondo avrebbe dovuto adottare sentenze di rigetto puro e semplice.

3 – GIUDICE DEI DIRITTI E GIUDICE DEI CONFLITTI
Le sentenze manipolative, che hanno dato tanto filo da torcere alla dottrina,
sono state viste di recente da Abbamonte come un elemento di armonizzazione

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fra ius e lex, teso a far prevalere la stabilitá dei valori giuridici al di lá delle scelte
contingenti compiute dal potere politico.
In particolare, giá nella seconda metá degli anni Settanta erano diventati sempre
piú frequenti i richiami della Corte al diritto vivente, ossia al diritto
effettivamente applicato nei tribunali, una categoria questa suscettibile di essere
utilizzata per stemperare le tensioni con la magistratura e nella quale i valori
costituzionali erano andati sempre piú radicandosi. Ed infatti, era stata
approvata una mozione che attribuiva ai giudici il compito di avvalersi del
parametro costituzionale nell’interpretazione della legge e di applicare
direttamente la Costituzione, il che contribuí a sensibilizzare i magistrati
all’esigenza di effettuare interpretazioni costituzionalmente orientate.
Inoltre, negli anni Ottanta la Corte cominció a ricorrere, in modo accentuato, alle
dichiarazioni di inammissibilitá.
A partire dagli anni Novanta, invece, la Corte fu costretta a rimodulare la sua
azione in rapporto alla crisi della finanza pubblica, in modo tale da
contemperare l’attuazione del principio di eguaglianza con la disponibilitá delle
risorse economiche utilizzabili a tal scopo; essa, perció, cominció ad adottare le
sentenze d’incostituzionalitá sopravvenuta, al fine di evitare i costi della
retroattivitá e le sentenze additive di principio, ossia sentenze di
accoglimento che rinviavano al legislatore la scelta dei tempi e dei modi per
recepire le risorse necessarie a darvi attuazione.
Tuttavia, va precisato che la Corte di Cassazione, non ha mai cessato di
rivendicare la libertá interpretativa della magistratura nei confronti della Corte
Costituzionale, anche di recente, in un’epoca ormai molto distante rispetto a
quella in cui divampó la guerra tra le Corti. Ed infatti, la Cassazione ha affermato
che le sentenze interpretative della Corte costituzionale non devono essere
considerate un’interpretazione autentica della legge, ma rappresentano
semplicemente un precedente autorevole quando sono sorrette da
argomentazioni persuasive, per cui esse non impongono di sollevare una nuova
questione di costituzionalitá se il giudice non ritiene possibile conformarsi
all’orientamento interpretativo in esse accolto.
Nel frattempo, con la sent. 56/96 la Corte costituzionale, aveva sancito l’obbligo
dell’interpretazione conforme a Costituzione, precisando che le leggi non si
dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne
interpretazioni incostituzionali, ma perché é impossibile darne interpretazioni
costituzionali, e questo al fine di scoraggiare la proposizione di questioni di
legittimitá costituzionale da parte di giudici che non avevano compiuto lo sforzo
ermeneutico diretto ad interpretare la legge in armonia col testo costituzionale.
Tuttavia, al criterio dell’interpretazione conforme, la dottrina sollevó diverse
critiche affermando che esso rischiava di aprire un varco verso l’arbitrio
giurisdizionale. In ogni caso, va precisato che la condivisione, da parte della
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Corte costituzionale e della magistratura, del compito di dare attuazione alla


Costituzione, non ha mancato di dare frutti positivi ed emblematica, in tal senso,
é stata l’interpretazione costituzionalmente orientata che la Cassazione ha dato
nel 2003 all’art. 2059 c.c., appoggiata appieno dalla Corte costituzionale.
Dunque, possiamo affermare che l’attribuzione ai giudici del compito di
effettuare interpretazioni costituzionalmente orientate crea sinergia fra costoro
e la Corte costituzionale, scongiurando cosí il rischio che si riaccenda la “guerra
fra Corti”, e rendendo corale l’impegno teso a dare attuazione ai valori
costituzionali, soprattutto in virtú del fatto che la Corte Costituzionale, dopo
l’approvazione (della riforma) del Titolo V della Costituzione, é diventa sempre
piú giudice dei conflitti e si è trovata quindi a condividere con altri soggetti la
sua funzione di giudice dei diritti.


IL GIUDICE IN BILICO.
TRA TUTELA DEL DIRITTO E CONSIDERAZIONE DEL FATTO
La Corte di cassazione unica venne istituita a Roma con la l. n. 5825 del 6
dicembre 1888 e in essa vennero unificate tutte le cassazioni penali e venne
favorita la convergenza degli indirizzi giurisprudenziali in materia civilistica e
commerciale, attraverso l’affidamento alle Sezioni Unite della decisione dei
ricorsi.
Tuttavia, fino a quel momento, la disomogeneitá del sistema, che contemplava
cinque Corti regionali di cassazione, era complicata dal sistema “misto”, dove
alla funzione antigiurisdizionale del giudizio di legittimitá, aderente al modello
francese, si affiancava anche la c.d. “terza istanza” di ispirazione tedesca, ossia
un terzo grado di giudizio di merito, piú autorevole, che aveva ad oggetto
l’interpretazione giurisprudenziale nella valorizzazione delle autonomie, per cui
anche la natura del giudizio risultava diversificata.
Ora, poiché la scelta tra i due sistemi non è mai stata netta, occorreva compiere
una scelta definitiva tra i due, in quanto l’istituzione necessitava di una
ricostruzione organica, in vista della riforma dell’ordinamento giudiziario. In
particolare, si propendeva maggiormente per il modello francese, in quanto si
riteneva che soltanto la Cassazione potesse assicurare l’uniformitá della
giurisprudenza, al cospetto di una nuova legislazione; era pertanto necessario
abolire le Corti regionali in favore di un’unica Corte suprema, posta al vertice
della piramide, per garantire l’uniforme interpretazione della legge.
Dall’altro lato, invece, si riteneva che il meccanismo della terza istanza potesse
dar luogo a numerosi problemi: ed infatti, l’accesso alla massima magistratura
consentiva ad essa di giudicare nuovamente su tutta la controversia, per cui la
pronuncia del giudice di terza istanza si sarebbe dovuta sovrapporre alla

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pronuncia delle magistrature inferiori, deprimendone cosí la funzione. Con


questo sistema, dunque, si sarebbero cambiate le sorti del processo, provocando
forti disagi e lungaggini ingiustificate.
Tuttavia, va precisato che le posizioni e le opinioni non erano affatto
concordanti, tant’è vero che la disputa sulla scelta del modello fu molto accesa e
assai piú ampia rispetto ai dibattiti politici. Ed infatti, ci fu anche chi appoggió il
meccanismo di terza istanza e l’idea di una pluralitá di Corti, sostenendo che
l’accentramento politico e l’eliminazione delle diversitá poteva portare ad
un’onnipotenza collettiva, in cui gli individui e le singole parti sociali
scompaiono. Per costoro, dunque, la terza istanza veniva vista non in una luce
sacrale, ma come meccanismo adeguato e funzionale in grado di rendere
giustizia nei singoli casi, tutelando gli interessi del cittadino piuttosto che quelli
della legge.

In particolare, le diverse posizioni: Cassinis era favorevole ad una revisione delle
corti decentrate, con una sola corte suprema; molti erano i progetti a favore di
una cassazione unica a Roma, solo il progetto di Orlando rimase favorevole alla
pluralità delle corti. Vacca, procuratore generale della corte di giustizia,
propendeva per il modello francese, diceva che uniformità della giurisprudenza
significava inviolabilità della legge e integrità delle forme giudiziarie.
Tavani, procuratore generale di Torino, era a favore di un’unica corte per motivi
di spirito, lo spirito sono le leggi applicate in modo uniforme a tutti i cittadini: di
vertici poteva essercene uno solo, molteplicità di corti significava disordine, e
non appoggiava la terza istanza, la sua proposta era un solo e ultimo esame di
legittimità. Come diceva De Falco, l’arte di interpretare le leggi non è una cosa
meccanica, ma razionale e quindi l’esame di uno stesso punto di diritto, quando
è fatto da un unico magistrato per tutto il regno, non prende carattere locale o
particolare, ma si estende a tutti.
Carcano diceva che la cassazione serve per proclamare uno sterile principio;
chiamava in causa Toqueville che, nel confronto tra corte americana e francese,
rileva come entrambe hanno lo scopo di introdurre una giurisprudenza
uniforme, a la prima riesce a farlo senza imporre a nessuno le sue sentenze,
perché non ha rinvii. A differenza di Tavani, che si concentrava sull’interesse
pubblico, lui reputava la difesa degli interessi dei privati un principio liberale
inconfutabile: lo stato è al servizio dei cittadini e non viceversa (è quindi odiosa
la prevaricazione politica che si fa da parte della suprema magistratura in
Francia). La legge è un’astrazione ed è compito del magistrato tradurla in regola
vivente. Ma non si poteva, in fin dei conti, essere tanto sicuri dell’infallibilità
della cassazione, perché pur di uomini si tratta. È per questo che egli appoggia la
terza istanza, perché non la vede sotto una luce sacrale, ma sotto la luce
dell’umiltà: adeguata e funzionale, affinchè renda la giustizia nei singoli casi.
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Infatti tutela l’interesse dei cittadini piuttosto che quelli della legge, intesa come
mera astrazione. È opportuno che giudichi, oltre che nel fatto, anche nel diritto
perché deve effettivamente applicarlo. Non è come la “superba” cassazione, che
pretende di edificare una scienza astratta ed è uno strumento di centralizzazione
forzata.
Per il centenario della corte di cassazione di Napoli, Pessina appoggiava l’idea di
una pluralità di corti: non doveva esserci nessuna sottoposizione gerarchica
delle corti regionali a quella di Roma, a cui riconosceva una superiorità
puramente morale che lasciasse alle altre corti la libertà del proprio giudizio
nella materia ad esse affidata. Figlia era favorevole alla pluralità delle corti ed
inoltre era favorevole alla terza istanza: l’eliminazione delle diversità poteva
portare ad un’onnipotenza collettiva.
Cosenza, giudice di cassazione, diceva che la magistratura di grado inferiore
doveva giudicare secondo equità in rispetto dei principi, ma non appena ci fosse
un’interpretazione più larga, spettava ai magistrati superiori della corte
regolatrice, la vigilanza: al giudice di merito spettava solo assecondare le
evoluzioni del diritto, la certezza che la giustizia fosse giusta appunto era di altra
competenza.

Dunque, anche se le sorti delle Corti regionali era segnata, in quanto con la legge
Zanardelli del 1888 venne compiuto il primo passo significativo verso
l’unificazione definitiva, negli anni Cinquanta del Novecento il dibattito risultava
ancora aperto, soprattutto dopo l’introduzione di una novella in base alla quale i
fatti secondari dovevano essere sottoposti al controllo della Corte se
costituivano una prova indiretta dei fatti principali, per consentirle di accertare i
fatti principali stessi. Ed infatti, questa previsione, dettata ai fini della celeritá
del processo, aveva ulteriormente esteso il controllo del giudice di diritto sul
merito.
In particolare, tra le varie posizioni, va ricordata quella di Calamandrei, il quale
fu teorizzatore di un modello puro della Corte di cassazione, in base al quale
la cognizione della Corte, che avrebbe dovuto essere unica, doveva essere
limitato solo alle questioni di diritto (cioè agli errores in iudicando) per
garantire l’esatta ed uniforme interpretazione della giurisprudenza, mentre non
andava esteso alle questioni di fatto (cioè agli errori logici del giudice di merito)
le quali, infatti provocherebbero solo l’accumularsi di ricorsi inutili, in quanto
non costituiscono una minaccia alla esattezza e alla uniformitá della
interpretazione.
Inoltre, secondo il giurista, si sarebbe dovuto provvedere all’eliminazione della
giurisdizione negativa con l’introduzione dell’efficacia vincolante del principio di
diritto pronunciato in sede di primo esame, in moto tale da escludere il
meccanismo del doppio rinvio. Risulta, dunque, evidente che Calamandrei
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protendeva alla Cassazione nell’interesse dello Stato, per cui, nella sua
concezione, il diritto della parte alla soddisfazione della sua istanza risulta
strumentale all’interesse pubblico a che la legge fosse correttamente ed
uniformemente interpretata. Inoltre, nel pronunciarsi sulla questione relativa al
se la Cassazione debba giudicare sul fatto, oltre che in diritto, Calamandrei ha
riconosciuto i vantaggi del modello tedesco, in cui la cognizione del giudice
supremo non si limita solo alla violazione di legge eccepita dalla parte
ricorrente, il che consente di evitare che vengano proposti piú ricorsi di
legittimitá sulla stessa causa. Tuttavia, questa revisione non offre le stesse
garanzie della Cassazione (intesa come modello) rispetto all’uniformitá della
interpretazione giurisprudenziale, per cui, a parere del giurista, quest’ultimo
modello, con le dovute riforme, restava quello piú rispondente alle ragioni di
ringiovanimento del diritto obiettivo.
Tuttavia, il modello puro di Calamandrei é stato criticato da Chioveda, secondo
cui il giudizio di legittimitá implica necessariamente una serie di considerazioni
sul merito, ai fini della completezza e della coerenza della motivazione. Ed
infatti, secondo costui, affinché siano applicabili, le norme suppongono
necessariamente giudizi di fatto, e ció vale soprattutto per le massime
d’esperienza, che rappresentano dei veri e propri parametri di riferimento per il
giudice di legittimitá che deve censurare la valutazione del fatto compiuta dal
giudice di grado inferiore.
Secondo, Chioveda, perció, l’osservazione del giudice di Cassazione deve
inevitabilmente basarsi su tutta una serie di circostanze che hanno condotto la
controversia ad assumere quella precisa definizione, la Cassazione, cioè, deve
compiere delle vere e proprie indagini di fatto, fermo restando peró che, in
questo caso, il giudizio non é assimilabile ad una terza istanza, poiché si limita
semplicemente ad accertare la regolaritá degli atti compiuti.
Dunque, come aveva rilevato anche Calamandrei, il processo si è invertito
dalla tutela dello ius constitutionis a quella dello ius litigatoris, avvicinando
cosí il giudizio di Cassazione al giudizio di revisione nel merito, con la differenza
che le Corti di revisione decidono direttamente al momento di riformare la
sentenza impugnata, per cui il giudice di Cassazione rischia di vedere
trasformato il proprio ruolo in quello di terzo giudice della giustizia del singolo
caso. Tuttavia, questa sorta di “privatizzazione” della Cassazione non sembra
rispondere alla funzione di assicurare l’esatta ed uniforme interpretazione della
legge, che gli era stata originariamente assegnata, ma si limita solo ad eliminare
gli errori compiuti dal singolo giudice di merito; ne deriva, perció, un’evidente
perdita del valore di orientamento e di indirizzo giurisprudenziale delle sue
decisioni
Inoltre, tutto ciò implica, una distorsione del principio del precedente
giudiziario, per cui, potenzialmente, ogni singola decisione può essere sfruttata
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come massima autorevole da parte del giudice di merito o dalla stessa


Cassazione, quando é questa a servirsene.
Questa “privatizzazione” della Cassazione, induce dunque a soffermarsi sul
confronto tra la Corte italiana e la Corte tedesca, confronto questo che risulta
possibile grazie alla comunanza del principio di maturitá della causa per la
decisone nel merito, in base al quale quando la ricostruzione della situazione di
fatto è matura, cioè tale da ridurre a zero il margine di valutazione, il giudice
inferiore non puó compiere una valutazione diversa da quella del giudice
supremo.
Tuttavia, le similitudini finiscono qui. Ed infatti, mentre il ricorso per Cassazione
é costruito sempre come un’azione di impugnativa, la revisione tedesca invece é
un mezzo di gravame. Inoltre, la Corte tedesca é vincolata al ricorso, ma non ai
motivi del ricorso, a differenza della Corte italiana; ed infatti, la revisione
prevede un controllo illimitato di diritto sostanziale e puó condurre
all’annullamento della sentenza impugnata anche in conseguenza
all’accertamento di un vizio che non é stato denunciato.
Infine, va precisato che con la riforma del 2012 é stata attribuita al giudice
d’appello la facoltá di dichiarare inammissibile l’impugnazione quando questa
non ha una ragionevole probabilitá di essere accolta e l’inammissibilitá assume
la forma di un’ordinanza che può essere impugnata con il ricorso per Cassazione,
nei limiti dei motivi esposti con l’atto di appello. Questa riforma, dunque, ha
introdotto limitazioni importanti in relazione alla possibilitá di ricorrere per
Cassazione per il vizio di motivazione e manifesta un’ulteriore inversione di
tendenza, questa volta in favore della nomofilachia pura.





MAGISTRATURA E SOCIETÁ

L’INDIPENDENZA DELLA MAGISTRATURA.
NORME, IDEE, PRASSI

1 – IL DOPO UNITÁ
L’ordinamento giudiziario del regno d’Italia nel 1865 fu sottoposto a notevoli
critiche e a proposte di revisione complessiva. In particolare, il potere
giudiziario risultava nettamente separato dal potere legislativo grazie al rinvio
all’art. 73 dello Statuto (il quale sanciva che l’interpretazione delle leggi spettava
esclusivamente al potere legislativo), ma la sua separazione rispetto al potere
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esecutivo non appariva cosí netta, a seguito dell’adozione del modello alla
francese. In realtá, nei confronti del corpo dei giudici agiva l’influenza di due
strumenti di pressione collegati al Governo, convergenti verso forme implicite di
assoggettamento, vale a dire la struttura gerarchico-piramidale e l’ambigua
figura del P.M., indicato espressamente come rappresentante del potere
esecutivo presso l’autoritá giudiziaria. Inoltre, a ció si aggiungeva una forte
sorveglianza, contemplata dalla normativa post-unitaria, esercitata dai
guardasigilli su tutti i tribunali e su tutti i giudici, la quale finiva per avere
inevitabili ripercussioni sull’autorevolezza del corpo giudiziario. Dunque, di
fronte a questo quadro, che privilegiava la prospettiva dirigistica e dipingeva la
giovane magistratura italiana giá piuttosto sottomessa e avvilita, si diffuse una
generale insoddisfazione e si aprí un animato dibattito dottrinale e
parlamentare, orientato alla ricerca di criteri risolutivi e di rimedi idonei al
raggiungimento di un’effettiva indipendenza.
In particolare, nell’ambito del dibattito, va ricordato il discorso del magistrato
della Corte di Cassazione Siotto-Pintor, il quale illustró le carenze del sistema
italiano, ricorrendo ad un’indagine storica e comparativa. Egli, inoltre, indicó
cinque condizioni essenziali al raggiungimento dell’indipendenza della
magistratura, ossia l’universalitá del giudizio, per cui il magistrato deve poter
giudicare tutto e tutti; il trattamento sufficiente; la perpetuitá dell’ufficio, cioè il
diritto di perpetuarsi da sé, escludendo dal sistema delle elezioni dei magistrati
le universalitá e le province; l’esclusivitá, a condanna della frammentazione e,
infine, l’inamovibilitá, che va tenuta distinta dall’immobilitá.

2 – LA CASSAZIONE ALLE PRESE CON I DECRETI-LEGGE
La fase di edificazione delle garanzie magistratuali per giungere
all’indipendenza, cominció a raggiungere i primi traguardi, grazie alla creazione
di apposite Commissioni consultive in materia di reclutamento e di carriera.
Tuttavia, gli scalini piú alti della piramide giudiziaria risultavano ancora
saldamente ancorati alla volontá del Governo, cosa che é risultata evidente dal
tono di una sentenza pronunciata nel 1888 dai giudici di Cassazione di Roma, in
cui l’indice della non-indipendenza è rappresentato dal favor che la Cassazione
ha espresso per l’obbligatorietá dei decreti-legge.
In particolare, la Corte, che teoricamente era istituita con l’obiettivo di
mantenere l’esatta osservanza delle leggi, riconosceva spesso validitá
all’emergente potestá straordinaria dell’esecutivo, in quanto riteneva che fosse
compatibile con i principi costituzionali, nonostante questo potere non fosse
assolutamente autorizzato e previsto ed anzi sussisteva un contrasto con gli artt.
3 e 6 dello Statuto.
Dunque, per aggirare l’ostacolo posto dall’art. 6 dello Statuto, la Corte di
cassazione di Roma, con argomenti di giurisprudenza costituzionale e di
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legislazione comparata, dichiaró che il potere di fare decreti rientrava nelle


competenze regie poiché era finalizzato a dominare l’imprevisto con
provvedimenti urgenti e provvisori che anticipavano l’azione del Parlamento. La
Corte, quindi, con un’interpretazione piú incline ad assecondare gli orientamenti
della politica che a riconoscersi un’applicazione indipendente del diritto in
vigore, riconobbe all’esecutivo questa prerogativa straordinaria fondandola
sull’urgente necessitá di fatto e sulla riserva di presentare la disposizione in
Parlamento, a prescindere dall’effettiva e formale conversione in legge,
mettendo cosí in luce la sostanziale debolezza del potere giudiziario.
Questa decisione, perció, fu largamente criticata in dottrina, la quale sostenne
che in essa si annidava la minaccia di inficiare l’armonia dei poteri pubblici e la
salvaguardia delle libertá costituite, ma, nonostante ció, venne revisionata solo
diversi decenni dopo.

3 – ALLA RICERCA DELL’EQUILIBRIO E DELL’EMANCIPAZIONE
A distanziare realmente l’ordine giudiziario dagli altri poteri, destrutturando
soprattutto la subordinazione all’esecutivo, contribuirono la riforma Zanardelli
del 1890, che fissó nuove regole per le ammissioni e gli avanzamenti di carriera
dei magistrati, e la piú dettagliata riforma Orlando, giunta a compimento tra il
1907 e il 1908, che sancí l’inamovibilitá della sede e introdusse le prime figure di
autogoverno, con un embrionale Consiglio superiore. Inoltre, insieme
all’emergente assetto organizzativo, cominciarono a maturare, tra i
costituzionalisti, compiute elaborazioni dottrinali, in grado di concepire
l’indipendenza dei giudici, alla luce di una prospettiva organica e meno angusta
rispetto a quella desumibile dallo Statuto.
I tempi, dunque, erano pronti per riconoscere al potere giurisdizionale una
suprema ed indipendente autoritá: ed infatti, i giudici espletavano una nobile ed
eminente funzione costituzionale di difesa e di conservazione dell’ordinamento
giuridico, per cui il loro ufficio recuperó posizioni e cominció ad assumere una
peculiare valenza moderatrice di fronte ai possibili eccessi degli altri poteri,
obbligandoli a mantenersi entro l’orbita delle proprie attribuzioni.
Cosí, in un clima vivace e giá parzialmente riformato, nel 1909 venne fondata
un’Associazione generale fra i magistrati italiani, ossia un luogo aperto di
discussione e di confronto sulle prospettive della giustizia e sui meccanismi di
funzionamento dei relativi ruoli. La magistratura, peró, aveva bisogno di
rinnovarsi anche al suo interno, per amalgamare le sue varie componenti,
rompere le vecchie barriere gerarchiche e superare i pregiudizi di carriera e di
grado, in modo tale da giungere alla costruzione di una “famiglia giudiziaria”
compatta e unanime.
L’autonomia della magistratura rispetto agli altri poteri dello Stato ed il suo
autogoverno vennero, dunque, configurati come i presupposti primari in vista
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dell’indipendenza del giudice, il quale rimaneva soggetto e vincolato soltanto


alla legge di cui era interprete; egli, dunque assunse una condizione assoluta di
terzierietá, necessaria per garantire la certezza e l’applicazione imparziale della
legge, in difesa dei diritti soggettivi.

4 – NODI IRRISOLTI
Se l’indipendenza della magistratura trovava molti punti fermi nella
Costituzione, il testo della Carta, peró, aprí immediatamente nuovi scenari,
mettendo in luce la complessitá dell’attivitá giurisdizionale. In particolare, la
missione del giudice, anche se tutelata dalle garanzie costituzionali contro ogni
forma di pressione esterna, rimaneva avvolta da un’ampia zona d’ombra,
rappresentata dalla coscienza soggettiva. Ed infatti, l’ordinamento giuridico
affidava al magistrato il compito di determinare i supremi valori morali e, di
volta in volta, i precetti concreti, ma finiva per sopravvalutare l’umanitá della
sua persona, pretendendo il raggiungimento di una capacitá di autolimitazione e
quasi di sdoppiamento dagli elementi piú profondi della sua personalitá.
In ció consisteva, dunque, quello che é stato definito come “il dramma della
funzione del giudice”, ossia la capacitá di dover superare continuamente se
stessi e i limiti della propria umanitá, in vista di una personale e suprema
indipendenza spirituale: ed infatti, l’imparzialitá poteva essere messa a rischio
se il magistrato, nella valutazione della controversia, non era in grado di mettere
da parte la sua ideologia.

5 – POLITICITÁ DELLA GIURISDIZIONE
Nei primi anni ’60 del Novecento, con l’inizio delle attivitá della Corte
costituzionale e dopo l’insediamento del CSM, quale organo garante
dell’autonomia e canale di raccordo tra l’ordine giudiziario e gli altri poteri
statuali, l’AMN assisté alla formazione di varie spaccature al suo interno e alla
nascita di diverse correnti, volte a superare l’idea classica dell’indipendenza
della magistratura. In particolare, ad agitare l’orizzonte ideologico, contribuí in
maniera significativa la fondazione della Magistratura Democratica (MD), i cui
fautori denunciarono il dogma classico della neutralitá e della apoliticitá del
giudice, affermando che si trattava di una mistificazione poco aderente alla
realtá, e tracciarono una linea di “rottura dei miti” che puntava alla difesa della
libertá del giudice, optando per un’autonomia e un’indipendenza che
consentisse alla magistratura di essere attenta alle dinamiche sociali e di
favorirne una partecipazione attiva e controllata, rimanendo assoggettata
soltanto alla legge.
La concezione politica della giurisdizione mirava, dunque, ad instaurare un
legame stringente e prioritario con la Carta costituzionale, al fine della sua piena

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attuazione, e ad ottemperare al pluralismo sociale, superando cosí il principio


della separazione dei poteri.

6 – UN BILANCIO ATTRAVERSO LA COMPARAZIONE
Un bilancio recente mostra come la connotazione del sistema giudiziario italiano
sia abbastanza singolare e priva di analoghi riscontri nelle democrazie europee,
e sinonimo della diversitá è lo stesso termine “magistrato” che, mentre in Italia e
in Francia designa sia i giudici che i P.M., in Inghilterra, invece, si riferisce
soltanto ai giudici che hanno specifiche funzioni, e in Spagna viene utilizzato per
indicare i due livelli superiori della carriera dei giudici.
Tuttavia, é la posizione del nostro CSM a rappresentare uno dei principali segni
di distinzione; ed infatti, tra alcuni magistrati italiani si é diffuso il
convincimento che per ottenere decisioni consiliari favorevoli alle proprie
aspettative é opportuno evitare comportamenti o dichiarazioni in contrato con
gli orientamenti dell’ANM e dei suoi rappresentanti al CSM, tant’è vero che i
magistrati che hanno mostrato opposizione a quegli orientamenti, hanno visto le
loro richieste ignorate. Se ne deduce, dunque, che sono possibili pressioni
psicologiche e giochi di potere interni, che presentano fattezze non dissimili a
quelle che le lotte del passato avevano faticosamente contrastato per liberare il
giudiziario dalle intromissioni dell’esecutivo.
Inoltre, tra le maggiori sproporzioni rilevate, una riguarda proprio il valore
dell’indipendenza, che ha raggiunto vette altissime e, per certi versi
preoccupanti, cosa che non ha analoghi riscontri sul piano internazionale e,
infine, singolari risultano anche i rapporti che si instaurano tra la magistratura e
la classe politica, i quali infatti rivelano frequenti sovrapposizioni che sembrano
inficiare i cardini primari di tutto il sistema.




IL GIUDICE “GIUDICATO”.
LA MAGISTRATURA AL VAGLIO DELL’OPINIONE PUBBLICA

1 – I TERMINI DI UNA RICERCA. L’INDIRIZZO METODOLOGICO
Le forti incomprensioni che si generano oggi in Italia nel dibattito sui rapporti
tra la magistratura e la classe politica sono dovute essenzialmente al formarsi di
condizioni nuove, sia nella societá che nelle istituzioni politiche e, quindi alla
nuova natura della legislazione e della domanda di giustizia che ne consegue. In
particolare, l’odierna societá vive un profondo disagio, dovuto al fatto che non
sussiste piú dialettica tra le due strutture portanti del sistema politico, ossia i

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partiti politici, divenuti ormai mere organizzazioni portatrici di un proprio


disegno strategico di gestione e di conquista del potere, e la sfera pubblica,
libera e pluralistica, che se in passato era politicamente ascoltata ed influente,
oggi invece risulta piú che mai ostacolata e limitata.
Dunque oggi, nell’intrecciarsi e divergere, la magistratura e la politica
interagiscono e si respingono grazie all’opinione pubblica, la quale ha rivestito
da sempre un ruolo centrale, talvolta influendo sull’operato giurisdizionale e
talvolta soccombendo al giudicato.

Va peró precisato che nella modernitá il concetto classico di opinione pubblica é
in via di esaurimento: ed infatti, essa non puó piú essere concepita come uno
strumento di pubblicitá e di controllo del potere, in quanto ha perso la sua
funzione di giudice, ma va considerata come uno strumento ausiliario di
selezione, con il compito di delimitare i temi di comunicazione.

L’opinione pubblica rappresenta, quindi, lo strumento epistemologico che, alla
stregua della realtá storica circostante, mette a confronto, da un lato, il ruolo
giudicante e la funzione politica del magistrato e, dall’altro, il declino della
centralitá delle classi politiche nazionali.
Inoltre, allo stesso tempo, la funzione politica del giudice e la crisi della classe
politica sollecita ad aprire un discorso anche sul ruolo dell’opinione pubblica a
cui spesso, soprattutto nell’attualitá, viene conferito il compito primario di
salvaguardare l’indipendenza del giudice all’interno della societá, configurando
un assetto nel quale il suo ruolo di “garante dei diritti” possa essere accolto e
presidiato.

2 – LA DIAGNOSI TEMPORALE. SECOLI A CONFRONTO (percorso storico a
ritroso)
Il problema che oggi piú che in passato attanaglia la societá, a causa della
diffusione dei media, è rappresentato da una percezione distorta del giudice, il
quale infatti viene considerato come “monopolizzatore pubblico” della veritá
giudiziaria. Ed infatti, mentre l’Ottocento e il Novecento sono stati,
rispettivamente, i secoli del Parlamento e dei partiti, quello odierno, invece, é il
secolo dell’opinione pubblica e i cittadini devono conoscere per controllare chi
esercita il potere politico, giudiziario ed economico, per cui l’informazione
assume una sorta di funzione costituzionale. Tuttavia, se l’informazione viene
effettuata non dando notizie, ma per trascrizione delle conversazioni o per fughe
di notizie che devono restare segrete, viene meno la credibilitá della giustizia e,
alla lunga, anche la credibilitá del Paese.
Il pensiero corre, ovviamente, ai casi di cronaca giudiziaria che incrociano in
maniera significativa i fatti della politica, tra cui il “caso Ruby” che coinvolgeva
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l’allora Capo del Governo, Silvio Berlusconi, accusato di favoreggiamento della


prostituzione minorile e di concussione continuata ed aggravata.
In particolare, nella vicenda giudiziaria che ha colpito in pieno il premier
Berlusconi, la societá italiana si è divisa, dando vita a due correnti, ossia, da un
lato, una corrente innocentista, che continua ad accusare la magistratura di aver
strumentalizzato le inchieste nei suoi confronti per ben 17 anni e a suo danno, al
fine di distruggere il suo progetto di riforma della giustizia, che alterava
sensibilmente il corretto equilibrio tra i poteri dello Stato; e , dall’altro, una
corrente giustizialista, che invece consacra la magistratura per aver salvato il
paese dal “baratro dell’amoralitá”.
Da questa analisi emerge, dunque, una vera e propria deformazione della
giurisdizione, che da strumento di garanzia dello Stato costituzionale, si
trasforma in un contrappeso e limite agli altri poteri dello Stato, e quindi, in una
parte dell’agone politico, anche se autorevole, che si contrappone ad altre parti.
Questa riflessione, inoltre, coinvolge anche una pagina di storia della giustizia
penale, aprendo un dibattito che, partendo dagli anni Cinquanta del Novecento e
fino alla tormentata stagione di “Mani Pulite”, ha visto delinearsi agli occhi
dell’opinione pubblica una magistratura che, con la sua interpretazione
evolutiva della giurisprudenza, si proponeva come legislatore, fino a giungere
all’immagine di giudice-uomo pubblico che, se da un lato trova largo consenso
sociale perché si fa portavoce del bisogno di legalitá del paese, dall’altro lato
peró non sempre sembra misurarsi con la tutela delle garanzie dell’individuo.
Da qui, si potrebbero dunque enumerare tutta una serie di processi celebri degli
ultimi trent’anni, tra cui il processo a porte chiuse ad Andreotti, accusato per
concorso esterno in associazione mafiosa, che secondo l’opinione corrente
doveva rappresentare una sorta di strumento di “ripulitura della pubblica
amministrazione”. In particolare, è proprio in queste testimonianze clamorose,
nelle quali é evidente una inverosimile combinazione di lunghezza
dell’istruzione, spostamento di sedi, ricorsi e ribaltamento dei verdetti, con le
immagini della stampa e un’opinione pubblica fortemente manipolata e
manipolatrice, che prendono forma due costruzioni artificiali che si
sovrappongono tra loro, ossia la veritá giornalistica e la veritá giudiziaria.
Le informazioni catturate dai media trasformano, dunque, il diritto
all’informazione da strumento democratico a strumento di pressione, a danno
del giusto ed equo processo, e questi effetti distorsivi possono essere scongiurati
solo con un’elevata professionalità mediatica, un attento apprendimento delle
informazioni ed una rigida osservazione della normativa vigente.
A questo punto, occorre peró precisare se e in che misura il diritto
all’informazione, cioè il diritto ad acquisire notizie, sia prescritto dall’art. 21
Cost., una questione questa che trova legittimazione nel convincimento che in un
ordinamento democratico é essenziale il ruolo di un’opinione pubblica
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informata e documentata. La giurisprudenza costituzionale e quella ordinaria


sono dunque intervenute per colmare la lacuna del legislatore, sia in ambito
generale, per il riconoscimento del diritto all’informazione, sia in particolare, in
relazione alla disciplina delle comunicazioni radiotelevisive, ed hanno cosí
armonizzato i diritti sanciti dall’art. 21 Cost. con la pluralitá di interessi, di
principi e di valori di rango costituzionale che potevano confliggere con essi.
In particolare, gli orientamenti piú innovativi della giurisprudenza
costituzionale in tema di “libertá di informazione” sono stati: il riconoscimento
dell’esistenza di un diritto all’informazione inteso come risvolto passivo della
libertá di informare; l’individuazione del pluralismo come valore primario, posto
alla base dell’intero sistema dell’informazione e la definizione dei caratteri
fondamentali del servizio radiotelevisivo, inteso come servizio pubblico
essenziale ma destinato ad operare entro la cornice costituzionale della libertá
di espressione del pensiero.
Ora, negli anni immediatamente successivi alla promulgazione della
Costituzione, il potere giudiziario ha sorretto la stampa, poco prima censurata,
ed ha inficiato l’ideologia fascista, poco prima dominante. Questo perché,
durante il periodo fascista, vi fu una riorganizzazione del consenso attraverso un
radicale controllo dell’informazione e dei mezzi di comunicazione di massa, e la
complessitá dell’approccio politico si ripercuoteva anche sulla magistratura, la
quale infatti viveva una situazione di profondo disagio morale, cosí come ha
testimoniato Calamandrei. In particolare, il giurista fiorentino individuó quattro
forme d’ingerenza della politica nella giustizia, vale a dire un’ingerenza
preventiva, strettamente legata alla dipendenza gerarchica del PM dal Ministro
di giustizia; un’ingerenza ex post, attraverso il riconoscimento agli organi
amministrativi di poteri che incidessero sull’esecuzione delle sentenze;
un’ingerenza esercita dal Governo sulla carriera dei giudici ed, infine, il
moltiplicarsi delle giurisdizioni speciali, che sminuivano il primato del giudice.
Dunque, la conseguenza di queste ingerenze fu l’inevitabile asservimento del
giudice alle logiche del regime.
Al contrario, nell’Ottocento il ruolo dell’opinione pubblica era molto differente,
soprattutto se si considera il fatto che ve ne era una presenza stabile nelle Corti
di giustizia sotto forma di giuria, e nella concezione liberale essa costituiva la
massima espressione dell’autonomia della societá civile e della sua capacitá di
giudicare il proprio diritto. Tuttavia, il rapporto tra la magistratura e l’opinione
pubblica era molto conflittuale in quanto il giudice, che esplicava la funzione
giudicante, era del tutto subordinato all’opinione pubblica che ne era spettatrice
ma che, allo stesso tempo, risultava succube dell’aggressivitá della stampa, la
quale, a sua volta, rivendicava un suo tribunale, intervenendo anch’essa per
motivi politico-costituzionali, ma soprattutto per ragioni commerciali.

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Infine, nel Settecento l’opinione pubblica aveva assunto un peso politico


crescente. Ed infatti, non a caso, ogni conflitto, soprattutto se interno, era
diventato un conflitto mediatico che aveva come terreno di scontro un’opinione
pubblica che poteva turbare la pubblica tranquillitá e che necessitava di un
serrato controllo, cosí come enunciato da Beccaria.
Tutto ció si rifletteva, dunque, nelle aule giudiziarie di fronte ad un giudice che
non aveva un vero e proprio potere ma che esercitava la semplice funzione di
interpretare ed applicare la legge, con un concetto di opinione pubblica
strettamente legato al concetto di onore, il quale, pur essendo paradossale
(poiché non ha un contenuto sostanziale), tuttavia era in grado di ordinare lo
Stato e la sua societá.




IL GIUDIZIO ESTERNO

DALLA SOGGEZIONE ALLA SUPPLENZA. STUDI E DIBATTITI SULLA
STORIA DELLA MAGISTRATURA NEL SECONDO DOPOGUERRA

1 – LA SVOLTA DEGLI ANNI SESSANTA DEL NOVECENTO: IL CONTESTO, I LIBRI
Fino al 1960, una “storia della magistratura italiana” non è esistita e nessuno
fino a quel momento aveva pensato che potesse costituire oggetto di attenzione
o di una efficiente progettazione. Ed infatti, la formazione di un vero e proprio
filone di storiografia specializzata, che avesse ad oggetto i rapporti tra la
magistratura, il potere politico e la c.d. ideologia dei magistrati, venne stimolata
solo nella seconda metá degli anni Sessanta, dai contrasti nati all’interno
dell’ordine giudiziario e dall’ampio eco che essi ebbero nell’opinione pubblica, e
la riflessione storica di quegli anni mise in luce una lunga tradizione di
soggezione della magistratura al potere politico.

2 – LE RIVISTE, I CONGRESSI: TRA GLI ANNI SESSANTA E SETTANTA
Inoltre, in aggiunta ai molti libri degli storici, sia del diritto che delle istituzioni,
intervennero, in quel decennio anche numerosi giudici, che si fecero storici,
costruendo una parte non trascurabile della storiografia sul loro mondo.
Cominció, cosí, una piú consapevole e matura osservazione di sé da parte dei
giudici che si configuró quasi come una sorta di autoanalisi sociale e politica, un
fenomeno questo che nasceva da una profonda insoddisfazione, anche culturale.
Quella del decennio tra gli anni Sessanta e Settanta fu, dunque, un’etá
caratterizzata dalla presenza di magistrati capaci di maneggiare la scrittura e di
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confrontarsi con la storia, per realizzare, attraverso la soggettivitá, un tentativo


di “autorappresentazione” e di “autovalorizzazione” idoneo a risaltare
l’oggettivitá della loro funzione, capace di riscrivere la storia della dialettica tra i
poteri.
I magistrati, inoltre, parteciparono anche a numerosi congressi e alla redazione
di riviste, ritenute piú incisive rispetto ai libri, tra cui una delle piú importanti fu
“Democrazia e diritto”, la quale assunse un importante programma politico per
garantire, grazie alla presenza dei giudici, l’effettivitá della democrazia.
Tuttavia, quegli anni erano caratterizzati da profondi contrasti interni alla
magistratura, in cui le divisioni, alimentate dalle divergenze ideologiche, erano
rese piú nette dall’organizzazione burocratica. Ed infatti, sotto la superficie degli
enunciati e dei principi generali della Costituzione, permanevano opposte
visioni del ruolo del magistrato, che portarono i giudici di Cassazione nel 1960 a
lasciare l’ANM e a fondare l’Unione nazionale magistrati (ossia, la c.d. U.M.I.). I
due organismi cominciarono dunque a scontrarsi attraverso i rispettivi periodici
e l’unitá tra i giudici si ruppe, alimentando polemiche e motivi di preoccupazione
non solo interni.
Inoltre, in parallelo al dibattito a distanza tra i magistrati, che si svolgeva
attraverso le riviste specializzate, vi furono anche dei confronti simultanei che
avvenivano durante i congressi e che davano ai giudici l’occasione di valutare le
proprie idee e le proprie rivendicazioni. In particolare, i convegni piú importanti
furono due, di diverso orientamento, svoltisi entrambi nel 1965: piú
precisamente, il primo in ordine di tempo fu il congresso di Firenze,
organizzato dai giuristi cattolici per sottolineare come la giurisdizione dovesse
garantire il rispetto delle regole democratiche; il secondo, invece, fu il
congresso di Gardone che segnó in maniera netta il profilo che il problema e la
discussione avrebbero assunto negli anni futuri.
Dunque, per effetto delle dichiarazioni di principio e dell’impegno di alcuni
settori della magistratura si produssero alcuni risultati concreti in molti campi e,
in generale, da un lato furono attuati molti dei valori che fondarono il patto
sociale della nuova Repubblica, mentre dall’altro si produsse la politicizzazione
di alcuni massimi esponenti dell’esperienza giuridica, chiamati ad una nuova e
ambigua indipendenza.

3 – UN DECISIVO DOPPIO DECENNIO: DALLA STORIA DELLA MAGISTRATURA
ALLA POLITICA DEL DIRITTO …
Negli anni Settanta l’ordine dei discorsi e delle prioritá della storiografia si
spostó sul versante ideologico e, in particolare, sull’uso della giustizia in chiave
ideologica, anche per l’irrompere di maggiori conflitti sociali, che misero in
evidenza il nostro ritardo ideologico e gli arcaismi giudiziari.

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In particolare, espressione di un formidabile anacronismo fu l’ingresso delle


donne in magistratura, avvenuto nel 1965 ma consentito giá due anni prima a
conclusione di una vicenda cominciata nel 1959, e risolta sul versante
giudiziario l’anno successivo dalla Corte costituzionale.
Dunque, anche a causa di questo clima culturale, una parte del mondo politico, di
quello giudiziario e di quello accademico cominció ad esprimere
un’insoddisfazione profonda in relazione alla realizzazione della nostra
democrazia, fino a ritenere che fosse pluralista solo in apparenza e in maniera
fittizia. Perció era inevitabile che la compattezza ideologica e l’omogeneitá
culturale della magistratura ne risentissero.

4 – … FORMALISMO, GIUSTIZIA ALTERNATIVA, LATITANZA E PRESENZE: ANNI
E “TOGHE DI PIOMBO”
Tuttavia, va precisato che la divaricazione che in quel decennio si manifestó
sull’idea di giustizia, alla fine, vide prevalere le opinioni dell’ala movimentista,
rispetto a quella moderata, secondo cui il diritto doveva adattarsi ad una realtá
in movimento e ne era in discussione l’uso complessivo operato dalle classi
dominanti e il tipo di contraddizioni che esso creava ai vari livelli in cui si
manifestava.
In conclusione, possiamo dunque affermare che gli anni Sessanta e Settanta del
Novecento furono gli anni in cui si discuteva sul tema della funzione giudicante,
sulla mentalitá e sull’ideologia del giudice e dei singoli istituti. In particolare,
quella fortunata stagione fu caratterizzata anche da incontri e pubblicazioni
periodiche capaci di aggiornare lo stato della discussione e di servire per la
ricostruzione dei fatti. Dunque, la storiografia ha legato il nuovo interesse per gli
studi alla crescita della domanda politica e sociale, all’affermarsi di una giustizia
alternativa, fondata cioè su un uso alternativo del diritto, e alla latitanza del
potere centrale. Ed infatti, tutto ció in poco tempo indusse i giuristi e i
comportamentisti, storici e filosofi del diritto, a riflettere piú apertamente sul
problema del potere dei giudici e sul loro prodotto tipico, ossia le sentenze.


5 – GLI INIZI E GLI ESITI: DALLE BIOGRAFIE ANCHE COLLETTIVE AI MANIFESTI
INDENTITARI …
La visione attuale del mondo dei giudici dipende principalmente dal secondo e
dal terzo decennio costituzionale e dalle idee che lo caratterizzarono.
Tuttavia é necessario compiere una digressione temporale, analizzando quanto
accadde prima e dopo la stagione del rinnovamento storiografico.
In particolare, nel 1881 venne pubblicato un libro destinato a diventare un
modello di metodologia applicata alla storia della magistratura, ossia La Storia
della magistratura piemontese di Diosinetti, che dedicava intere pagine alla
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ricostruzione delle funzioni, della carriera, della formazione e del profilo


biografico degli appartenenti alle diverse magistrature degli antichi Stati
sabaudi.
Inoltre, la stagione fasciata ha offerto materiale tecnico e culturale di primissimo
ordine alla storiografia giuridica, per sondare il versante ideologico del dicere
ius e la sua vocazione politica; in particolare, temi centrali furono il ruolo del PM
nell’esecutivo, l’adesione dei giudici al duce, l’allargamento delle fonti normative
e l’osmosi tra documenti politici e leggi giuridiche, fino a ricomprendere la
mentalitá e i linguaggi delle diverse Corti di giustizia e le carriere dei singoli
giudici.
Gli anni Novanta e l’inzio del nuovo secolo, invece, sono stati interamente
attraversati da continui richiami all’efficienza e dalla centralitá del problema del
dicere ius. In particolare, il crescente rilievo della giustizia nella vita collettiva è
stato qualificato come uno dei fatti politici piú significativi della fine del XX
secolo, dovuto alla crisi di legittimazione delle nostre democrazie e alla fine delle
immunitá ed ha portato ad una politicizzazione del ragionamento giuridico e ad
una giudiziarizzazione del ragionamento politico.

6 – FOTOGRAMMA SU FOTOGRAMMA, IDEA DOPO IDEA: LE ANALISI
QUANTITATIVE E I MODELLI
I tempi piú vicini a noi manifestano il profilarsi di argomenti dettati dai
mutamenti sociali e dalla pluralitá degli ordinamenti. Ed infatti, negli ultimi
venticinque anni, il giornale dei giudici, espressione dell’ANM, rivela una forte
attenzione al tema delle riforme e, in particolare, alle necessità della giustizia
civile e penale, oltre alle necessitá dell’assetto costituzionale, per cui vengono
affrontati temi come la privatizzazione della giustizia civile, la ragionevole
durata dei processi e, soprattutto, una possibile autoriforma del sistema.
Inoltre, si è cominciato ad analizzare le sentenze al fine di comprendere la
fenomenologia politico- sociale, il che rivela che la storiografia ha iniziato a
riconoscere una maggiore attenzione alla dimensione giurisdizionale rispetto al
passato.



IL GIUDICE TRA REGOLA E COSTUME

1 – QUESTIONI TERMINOLOGICHE
La sociologia del diritto é una scienza descrittiva che mira ad analizzare
l’ordinamento dall’esterno, esaminando la struttura sociale e verificando le
modalitá di interazione tra le norme e la societá in cui operano. In particolare, il

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suo campo d’indagine si dirama essenzialmente in due indirizzi, ossia: l’uno


teoretico, diretto all’approfondimento dei temi tipici della teoria generale del
diritto (ossia la funzione del diritto nella societá) e l’altro analitico, cioè diretto
all’analisi degli aspetti positivi ed organizzativi del diritto (quali le
problematiche della normazione e quelle relative alla giurisdizione).
Tuttavia, se é vero che guardare da sociologo e guardare da giurista dovrebbe
essere differente, é pur vero che nessuna delle due prospettive esaurisce la
conoscenza della materia: ecco, dunque, perché i concetti di sociale e giuridico
possono essere usati come sinonimi, visto che un fatto giuridico non puó mai
essere estraneo al contesto sociale.
In particolare, il diritto esprime la necessitá di regolare un fatto genericamente
sociale per poter assolvere alla sua funzione ordinante, ossia quella di definire
gli assetti emergenti dalla struttura della societá, in modo tale da attribuire
rilievo legale ad alcuni interessi, tralasciandone degli altri. Perció, la sociologia
del diritto, per assolvere alla sua funzione, deve arrestarsi a quel livello di
emersione del comportamento sociale/giuridico che non é stato ancora
normativizzato, al fine di verificare la corrispondenza tra il dato normativo e
quello sociale.
In questo contesto, dunque, il giudice appare come il tratto d’unione tra i due
approcci, in quanto costui ha il ruolo di mediare le istanze sociali: ed infatti,
attualmente, il giudice utilizza sempre piú argomenti sociali ai fini delle proprie
decisioni.

2 – LA FUNZIONE GIUDICANTE
Ció che tipizza la funzione giurisdizionale rispetto a quella legislativa o a quella
esecutiva é il fatto che essa si esplica in un processo, cosa che pone l’organo
giudicante, ossia il tribunale, in una situazione di passivitá, dalla quale derivano
la sua terzierietá ed imparzialitá.
In particolare, tradizionalmente si ritiene che il processo entra in funzione
quando si genera una crisi del diritto, cioè quando le regole che il legislatore
pone per rendere pacifica la convivenza sociale non risultano sufficienti a
raggiungere lo scopo, il che da vita alla lite tra le parti. Tuttavia, va precisato il
diritto stesso non avrebbe senso in assenza di conflitti, cioè senza azione, in
quanto non si avrebbe la possibilitá di renderlo efficace, e questa traduzione sul
piano effettuale é garantita dal giudizio, inteso nella sua duplice valenza di
processo e di giudicato, che rappresenta lo strumento attraverso cui
l’ordinamento si fa concreto: ed infatti, basti pensare che si ritiene che per
conoscere l’effettivo assetto di una determinata societá bisogna guardare alla
sua giurisprudenza piú che alla sua legislazione.Va peró precisato che, per
garantire l’affermazione del diritto, é necessario che il procedimento coinvolga
anche la persona del giudice, incanalando il suo processo logico-deduttivo e
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conferendogli cosí imparzialitá, in modo tale che il giudizio si compia attraverso


chi giudica ma non grazie a lui: ed infatti, é solo in questo modo che la decisione
si presenta come la conseguenza naturale del processo.
Inoltre, la legge espressa dalla decisione aderisce al fatto ricostruito nel
processo attraverso la fase istruttoria che, non a caso, risulta decisiva, tant’è
vero che un fatto che non puó essere provato non rileva per il diritto/processo e
risulta inesistente per l’ordinamento giuridico. Questo aspetto, che puó
sembrare banale, in realtá è denso di implicazioni sul piano della psicologia
sociale, cosa che si percepisce, ad esempio dal commento alla sentenza di
assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito, accusati di aver ucciso la
studentessa Meredith Kercher, che si trovava a Perugia in Erasmus: ed infatti, il
Presidente della Corte d’appello, che ha pronunciato la sentenza, ha dichiarato
che la decisione é stata assunta sulla base della ricostruzione della vicenda
effettuata nel corso del processo, cosa che ha suscitato un certo scalpore,
traducendosi sul piano della sensibilitá collettiva come il riconoscimento che la
veritá processuale puó non essere la Veritá.
Il fenomeno giuridico presenta, dunque, anche un aspetto tragico, poiché si trova
a dover compiere delle scelte attraverso analisi politiche e sociali che, per il solo
fatto di esser tali, risultano inevitabilmente parziali.

3 – L’INDIPENDENZA COME VARIABILE DELLA FUNZIONE
Il diritto ha rappresentato da sempre uno strumento del potere, anche se in
diversi contesti politico-istituzionali, per cui é necessario far emergere quanto
l’indipendenza del giudice sia determinante per la sua funzione. Ed infatti,
l’evoluzione del ruolo del giudice é stata complementare alla crescita nel ceto
magistratuale della consapevolezza del suo ruolo politico, cosa che si é tradotta
sul piano interpretativo, ossia sul piano del diritto effettivo, modificando il modo
di intendere l’indipendenza del giudice, nonché il rapporto tra stato e societá.
In particolare, il concetto di societá come lo intendiamo oggi si è formato con
l’affermarsi dell’individuo come valore in sé e non come mera proiezione di ruoli
sociali prestabiliti, e fu il giusnaturalismo ad ipotizzare una societá originaria,
che prescindesse dallo stato ma che risultasse ad esso strettamente legata.
L’evoluzione dello stato liberale comportó dunque l’affermazione e l’evoluzione
della societá come forma di bilanciamento dei poteri statuali, la quale risultava
preponderante rispetto allo stato stesso: ed infatti, la prevalenza dello stato
poteva leggersi solo sotto il profilo descrittivo, per il suo apparato burocratico-
amministrativo e la sua normazione.
Tuttavia, ció che si è strutturalmente modificato è il modo di intendere l’uomo
nella società, cosa che si è tradotta nella normazione dei diritti individuali, i
quali hanno finito per essere piú propriamente diritti sociali, tanto che
l’individualitá si é tradotta in interioritá. Ed infatti, i diritti sociali cosí intesi non
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esprimono semplicemente il quadro di valori che caratterizzano una


determinata societá, ma scaturiscono direttamente dal valore uomo, per cui
riflettono definizioni ampie e generali che consentono di comprendere i
multiformi aspetti della personalitá dell’individuo. Perció é al giudice, ancor
prima che al legislatore, che si puó e si deve chiedere che quelle informazioni
astratte e generali trovino riscontro nella realtá: ed infatti, la necessitá che il
giudice venga adito (e che, quindi, il processo venga attivato) da chi ha un
interesse, lo rende lo strumento ideale per far emergere i bisogni dell’individuo
nella societá contemporanea.
La funzione politica di mediazione tra le istanze sociali, svolta dal giudice,
appare dunque evidente, tanto da dover rimodulare il concetto stesso di
indipendenza.




LO SGUARDO DELL’ALTRO: IL GIUDICE NELLA LETTERATURA

1 – DIRITTO, LETTERATURA E NARRAZIONI
Gli spunti di riflessione piú significativi sui continui scambi, prestiti e incroci tra
l’ambito del diritto e l’ambito della letteratura sono stati forniti dai giuristi,
prima ancora che dai teorici e dai critici letterari e, piú precisamente, da un
indirizzo di studi nato all’interno dell’universitá statunitense. In particolare,
questo indirizzo, denominato “Law and Literature”, mostrava una profonda
sfiducia nella convinzione che il diritto fosse un sistema concettuale completo,
formale ed ordinato, dove l’attivitá giurisdizionale veniva ridotta ad una mera
applicazione passiva dei principi giuridici, e riteneva che la teoria giuridica
tradizionale non avesse saputo cogliere i nessi profondi esistenti tra diritto e
cultura. Ed infatti, secondo questi giuristi, in realtá il diritto costituisce
un’attivitá creativa al pari dell’arte e della letteratura, in quanto partecipa alla
creazione dei valori che intende tutelare, e non si limita solo a recepirli.
Il nucleo teorico dell’indirizzo giuslitterario si basa, dunque, sulla constatazione
che il diritto e la letteratura costituiscono due sfere parallele, entrambe legate
alle problematiche del linguaggio, della retorica e dell’interpretazione, ed
entrambe tese a circoscrivere, definire e mettere in discussione la realtà sociale
attraverso il linguaggio.
Dunque, sulla base di queste premesse, la ricerca delle articolazioni e delle
convergenze tra diritto e letteratura si é sviluppata in due ambiti, ossia lo studio
del diritto nella letteratura (Law in Literature), che analizza la presenza di
temi letterari legali, come i processi, gli interrogatori, le confessioni, ecc.,

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all’interno del panorama letterario, e lo studio del diritto come letteratura


(Law as Literature), che, invece, si serve di una serie di strumenti, presi dalla
critica letteraria, per analizzare la struttura e la retorica dei testi giuridici.
Ora, se in linea generale si privilegia il primo approccio in una situazione che
vede il giudice come oggetto all’interno del panorama letterario, tuttavia le
considerazioni del secondo approccio spesso si rivelano fondamentali per
comprendere le profonde convergenze e connessioni tra l’ambito della giustizia
e quello della creazione letteraria, soprattutto se si pone al centro dell’analisi il
processo inteso, non come strumento per la meccanica applicazione di precetti e
norme, ma come pratica sociale ossia come “fabbrica di storie”; non a caso, uno
degli esiti piú recenti e piú promettenti dell’approccio giuslitterario é
rappresentato proprio dallo studio dei casi giudiziari come strutture narrative.
Ed infatti, cosí come testimoniato da Rashomon nel suo capolavoro
cinematografico, proprio la forma del processo non puó essere nemmeno
concepita senza le narrazioni che si intrecciano in esso. In particolare,
Rashomon rappresenta una traccia di grande interesse per lo studio del
fenomeno processuale, in cui il compito dell’avvocato é quello di ricostruire, a
partire dal racconto del suo cliente, una storia lineare e convincente, in cui sono
presenti luoghi, tempi, personaggi e situazioni, per cui la sua é un’attivitá
creativa, in cui occorre attribuire significato alla realtá attraverso la narrazione.
Spetta poi al giudice conferire significato alle singole narrazioni. Ed infatti, la sua
sentenza non è il frutto di una semplice applicazione della legge, ma costituisce
un raccordo indispensabile tra le diverse narrazioni processuali, in cui il giudice
offre una propria ricostruzione della vicenda narrata e riconosce
nell’applicazione di una determinata disposizione di legge l’elemento essenziale
per la risoluzione del conflitto. In altre parole, la sentenza, al pari di qualsiasi
atro testo letterario e narrativo, nel dare ordine e forma alla realtá contribuisce
a crearla, dando luogo cosí ad un processo di assimilazione tra il giudice e il
narratore.

2 – GIUDICI E LETTERATURA IN ITALIA DOPO L’UNITÁ: ALLA RICERCA DEL
“ROMANZO GIUDIZIARIO”
La seconda metá dell’Ottocento fu caratterizzata dalla nascita del romanzo
giudiziario, un genere destinato ad avere una grande fortuna negli anni a
venire. In particolare, il romanzo giudiziario comparve giá nel Settecento, cosí
come dimostrano numerosi racconti dell’epoca, ma fu solo nell’Ottocento che le
scritture sulla criminalitá, incentrate sulla figura del delinquente, cedettero il
passo ad una narrazione in cui era il processo ad essere centrale e ad essere
visto come nuovo mezzo di divulgazione narrativa, per cui processo assunse una
funzione fondamentale anche come strumento di elaborazione della forma del
romanzo moderno. Cosí, fiorirono a Milano, Torino e Napoli periodici
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specializzati nella cronaca giudiziaria, i quali condividevano, come elemento


strutturale, la moltiplicazione dei piani narrativi e delle diverse visioni dei fatti
di causa, ed era proprio questa moltiplicazione di racconti a costituire il tratto
caratteristico del romanzo giudiziario: ed infatti, a differenza di quello che
accade nel romanzo giallo e nel poliziesco in cui il fulcro della vicenda narrata é
teso a rispondere alla domanda “chi ha fatto cosa”, nel romanzo giudiziario,
invece, il lettore conosce presto l’autore del delitto ed é orientato a soffermarsi
sul “caso di giustizia” attraverso la pluralitá di voci che il procedimento
giudiziario mette in campo (lo sviluppo della narrazione si articola intorno alla
domanda “perché l’ha detto” e secondo quali modalitá), per cui il ruolo del
giudice e quello del lettore finiscono per identificarsi.
Inoltre, l’ambientazione processuale nel romanzo dell’Ottocento era legata alla
denuncia della inefficienza della giustizia e della farraginositá delle procedure,
ossia di un apparato giudiziario totalizzante che peró non riusciva a cogliere le
motivazioni profonde dei comportamenti umani, ponendo cosí al centro della
scena l’esigenza di riformare il processo penale e le fondamenta della
responsabilitá penale. Nei romanzi dell’epoca si miscelavano, dunque, giustizia,
scienza e letteratura, e un esempio di questo processo di osmosi fu offerto in
Italia, sul finire del secolo, dal caso di Misdea, un giovane militare giustiziato per
aver ucciso quattro dei suoi commilitoni dopo un banale litigio; in particolare, il
giovane fu assimilato da Lombroso ad un delinquente-nato, ma poco prima
dell’edizione lombrosiana, Scarfoglio rinarró la vicenda, mettendo in evidenza le
contraddizioni e le zone d’ombra che l’accertamento processuale non era
riuscito a rischiarare.
La condanna di Misdea divenne cosí la metafora di un destino comune a molti
giovani meridionali, strappati dalla propria terra e costretti a subire la rigida e
incomprensibile disciplina militare e, allo stesso tempo, divenne il segno
tangibile dell’urgenza di riformare il processo penale italiano.

3 – IMMAGINI DEL GIUDICE NELLA “CRISI” NOVECENTESCA
La caduta delle speranze positiviste dell’Ottocento segnó l’ingresso della c.d.
“crisi” novecentesca, caratterizzata dal crollo delle certezze e dei valori
tradizionali e da una profonda decadenza della credibilitá del mondo giudiziario.
La goffa maestositá della macchina giudiziaria divenne cosí il simbolo di una
profonda incomunicabilitá delle ragioni della giustizia, cosa riportata anche dai
romanzi dell’epoca, attraverso la rappresentazione degli inganni che il processo
metteva in scena, e in Italia una rappresentazione emblematica fu offerta da
Pirandello, nelle cui pagine, infatti, il processo diviene una passerella dove sfila
un’umanitá abietta che, volontariamente, si mette nelle condizioni piú odiose e
grottesche, riuscendo a volgere la legge e suoi apparati di giustizia a suo favore.

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Invece, dopo la caduta del regime fascista, che aveva portato a restaurare le
vecchie certezze con il nuovo ordine, la letteratura italiana cercó di affrontare i
traumi prodotti dalla dittatura e il profondo senso di incertezza del paese dopo
gli orrori della guerra. Il tema, dunque, era quello della giustizia di transizione e
del processo come strumento per ristabilire la veritá storica e chiudere i conti
con il passato, anche se va precisato che gli anni del dopoguerra in Italia furono
caratterizzati soprattutto dalle storie narrate dagli stessi attori del mondo della
giustizia, ossia dai giuristi di cattedra e di foro che davano corpo, attraverso la
scrittura, a quell’ansia di partecipare alla rivoluzione legata all’entrata in vigore
della Costituzione repubblicana.
In particolare, tra i vari nomi, una menzione spetta a Dante Troisi che nel 1955
pubblicó un resoconto dolente ed appassionato delle sue esperienze di pretore,
da cui traspare una volontá di rinnovamento e in cui l’autore disarticola
l’immagine del giudice come freddo dispensatore di comandi e di precetti,
mostrando come il giudicare sia un mestiere che comprende tutto e che
coinvolge l’anima.
Sciascia, invece, parló del rapporto tra giustizia e politica, tra autorità e libertà,
in cui la tutela delle garanzie si scontra con l’insicurezza della società ed il suo
bisogno di protezione.




I PALAZZI DELLA GIUSTIZIA E DELLA PENA.
NOTE BREVI SU ARCHITETTURA E GIURISDIZIONE

1 – “LA CITTÁ INVENTA LA MAGISTRATURA”
Weber individuó due condizioni essenziali per dar vita alla collettivitá e alla vita
sociale, vale a dire un patto sociale, ossia un giuramento collettivo tra gli uomini
che sceglievano di vivere insieme, e l’affidamento ad alcuni di essi della potestá
di giudicare le violazioni dell’accordo sociale, i quali dovevano alternarsi nella
funzione per periodi limitati, per cui era la sfera di applicazione della legge
urbana a segnare l’ideale linea di confine e il limite della giurisdizione.
Riferita alla realtá medievale, questa teoria della cittá considerata “classica”
riconosceva dunque alla dimensione giuridica un ruolo fondamentale nel
definire e condizionare l’ambiente metropolitano. Tuttavia, le riflessioni di
Weber sono state totalmente trascurate dagli autori successivi, in quanto le
istituzioni sociali e giuridiche si sono dimostrate insufficienti a cogliere il senso
essenziale del fenomeno urbano. Ed infatti, per le sue dimensioni e per le sue

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complessitá, la cittá é diventata altro rispetto al Foro e al mercato, ma comunque


risulta necessario il legame tra questi due elementi per comprenderla.
In particolare, a seguito dello sviluppo dell’economia di mercato,
dell’intensificazione degli scambi e della circolazione monetaria, l’esistenza
umana entró nel mondo astratto e rappresentativo della merce e del valore di
scambio, per cui la cittá-mercato si trasformó in un ponte che univa i suoi
abitanti all’organismo che la conteneva, ossia lo Stato, nelle sue diverse forme di
governo, dove lo Stato esprimeva una concezione trascendente del potere,
mentre la cittá inventava la magistratura: emergeva cosí uno uno stretto legame
tra la magistratura e la cittá, e un’opposizione tra lo Stato e la magistratura.
Tuttavia, alle soglie della prima modernitá, la dicotomia Stato-cittá è divenuta
meno netta, per cui le Corti supreme e poi quelle di Cassazione, unificando
l’interpretazione giuridica, hanno reso il magistrato partecipe del potere
politico; allo stesso tempo, peró, le corti di giustizia intermedie e quelle di grado
inferiore, si legavano inevitabilmente alla societá, soprattutto perché i primi
giudici nell’ordine ascendente della magistratura, di solito, erano i soli ad
amministrare la giustizia, in quanto il processo non arrivava al secondo grado
per mancanza di impugnazione. Dunque, il sistema giurisdizionale di tipo
cittadino faceva sorgere in capo ai giudici obblighi simili a quelli di un mandato,
mentre i giudici di vertice si relazionavano con gli altri poteri, in quanto piú che
il ceto rappresentavano lo Stato. In altre parole, mentre lo Stato con i suoi
funzionari e i magistrati di grado supremo rappresentava una concezione
trascendente del potere, le corti minori della giustizia ne simboleggiavano
invece una imminente, soprattutto per il loro legame con la cittá.



2 – SUI PALAZZI DELLA GIUSTIZIA E DELLA PENA
Le due sfere tenute distinte dello Stato e della cittá e i loro corollari in termini di
dicere ius, favoriscono alcune considerazioni sul tema delle dinamiche politiche;
in particolare, ci si chiede come si inserisce l’idea della giurisdizione urbana, che
rappresenta quasi un servizio e che, quindi, svolge in modo appropriato una
funziona politica, nel quadro dell’evoluzione della magistratura (che ha pensato
se stessa in termini di potestas per poi accettare di essere un potere
equilibratore, inserito in una logica di bilanciamento, fino a diventare un altro
potere o, almeno, un fattore fondamentale per la statistica istituzionale).
Per rispondere, risulta dunque necessario rimarcare il dato territoriale, rispetto
all’origine della relazione tra il potere centrale e il mondo giudiziario.
In particolare, in passato, alcuni tribunali erano allocati nelle abitazioni del loro
Presidente, per cui davano vita ad una giurisdizione rivelata e tendenzialmente
accessibile, imposta dai contesti ristretti, la quale peró non sempre veniva
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esercitata in modo efficace e, spesso, si mostrava incapace di offrire sicurezze.


Inoltre, i nostri tribunali del passato avevano in comune la severitá dell’impianto
architettonico e il collegamento con antiche prigioni, cosa che lasciava aperti i
ruoli di inquirente e giudicante, consentendone il passaggio.
Zanardelli, perció, scrisse che per esaltare la funzione della legge occorreva
elevare un monumento di severa bellezza, che rispecchiasse la forza e la maestá
della legge e del diritto. Tuttavia, i lavori per l’edificazione della futura sede della
Cassazione, che durarono ventidue anni (dal 1889 al 1911) segnarono la
realizzazione di un’opera che, nata come tempio della giustizia, divenne invece,
per il suo aspetto architettonico, il simbolo di una giustizia distante e
minacciosa, che sembrava presumere il cittadino di regola reo e solo per
eccezione innocente, in perfetta corrispondenza con il manifesto della politica
criminale di Zanardelli, secondo cui reprimere era meglio che prevenire.
L’edificio della Corte costituzionale, invece, risulta ricco di sontuose forme di
decoro, mentre Palazzo Spada vanta decorazioni eccezionali e rappresenta la
tipica dimora principesca.
Dall’altro lato, invece, i palazzi dei giudici ordinari di merito mostrano minori
elementi simbolici e talvolta si presentano come costruzioni anonime, senza
decoro e spazi adeguati, come ad es. nel caso del maggiore tribunale civile
italiano che é allocato a Roma in un’ex caserma.
In conclusione, possiamo dunque affermare che i rapporti tra le istituzioni
possono essere considerati anche in termini di architettura e che la netta
differenza tra le due situazioni sembra suggerire l’idea che la magistratura
sia piú potestas che funzione e che il decoro sia un privilegio.

[N.B.: se all’esame dovessero chiedervi il saggio sull’architettura, il discorso puó
essere impostato partendo dalle implicazioni finali di quest’ultimo paragrafo; in
sostanza, il saggio non fa altro che affermare quello che ho segnato in grassetto.]












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