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Autrice: Auriemma Rosa Valentina. Copia di: Federica Basile
La stessa concezione appare, inoltre, anche negli scritti di Pacifico dove, ancora
una volta, la divisione dei poteri viene posta a sostegno di un’accezione
rigidamente conservatrice per il magistrato. Ed infatti, secondo costui, il
magistrato deve essere contrario l’evoluzionismo e rimanere estraneo ai
pensieri delle scuole scientifiche e filosofiche; in particolare, la sua indipendenza
deve servire a renderlo indifferente alle preminenze popolari e, dunque, a porlo
come garante dell’ordine costituito, nonché degli equilibri costruiti dalla
borghesia ottocentesca.
Quindi, secondo il pensiero dominante, al giudice era assegnato un ufficio
ricoperto di santità, cioè vigeva la cd. ideologia sacerdotale della magistratura.
3 – IL QUADRO SI COMPLICA
L’immagine proveniente dall’autorappresentazione e dalla rappresentazione
della giurisdizione nell’800 subí notevoli incrinature a partire dal primo
dopoguerra, dove cominció ad affiorare la dimensione politica anche
nell’ambiente giudiziario.
In particolare, con l’avvento del regime fascista venne repressa ogni istanza di
modernizzazione e la prospettiva cambió radicalmente, cosí come è stato
riportato da Dorso, il quale infatti sostenne che non si poteva piú parlare di
sacerdotalità della magistratura, poiché oramai la separazione tra la
Magistratura e lo Stato era solo un’illusione: ed infatti, l’idea di una magistratura
indipendente risultava contraria alla stessa essenza della dittatura.
Non a caso, dunque, dopo la caduta del Fascismo, che aveva soppresso ogni
istanza di modernizzazione nella magistratura, quelle esigenze che giá vent’anni
prima avevano testimoniato un’evoluzione ideologica nell’ordine giudiziario
tornarono ad imporsi, superando cosí, anche se non senza conflitti, quello
statuto di neutralitá che aveva caratterizzato la cultura ottocentesca.
In particolare, le pagine di Dorso testimoniano il crollo della base ideologica
sacerdotale, visto che la separazione tra Magistratura e Stato era, ormai, solo
un’illusione: ed infatti, è impossibile immaginare una magistratura indipendente
poiché risulterebbe contraria alla stessa essenza della dittatura.
All’ideologia della superioritá del giudice, distaccato dalle instabilitá sociali, va
dunque sostituendosi quella del suo necessario coinvolgimento nei processi
politici e istituzionali, attraverso la rivendicazione di una maggiore dignitá
economica e di una piú ampia libertá, che risultano indispensabili per renderlo
interprete di una societá un tempo statica ma ora sempre piú dinamica.
4 – LA COSTITUZIONE FAVORISCE LA SVOLTA E CREA TENSIONI
Con l’entrata in vigore della Costituzione si ebbe un momento di profondo
rinnovamento e di forte presa di coscienza dei problemi reali della giustizia,
momento che condusse ad un’importante svolta nel mondo della magistratura.
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Ed infatti, le norme costituzionali essendo per loro natura (e non per difetto)
aperte e rinviando ad altro al di fuori di se, impongono al giurista, ed
innanzitutto al giudice, di partecipare pienamente alla vita della societá in cui
opera e costringono al confronto, mettendo in discussione le certezze: in questo
modo, dunque, venne legittimata la funzione politica dell’attivitá interpretativa e
i magistrati teorizzarono un uso alternativo del diritto, giungendo a sostenere
che il nuovo ruolo del giudice era quello di negare la legalitá tutte le volte in cui
essa, attraverso l’interpretazione, recepiva i contenuti corrispondenti agli
interessi della classe dominante.
In particolare, in questo contesto, Borré sostenne che bisognava cogliere nel
principio di uguaglianza sostanziale il fondamento del proprio operare come
giuristi, riconoscendo cosí alla funzione giudiziaria un nuovo ruolo,
politicamente responsabile e concretamente operativo nella lotta alla
modernizzazione sociale.
Dalla riflessione di Borré emerge, quindi, con chiarezza l’impianto ideologico che
sorreggeva le strategie della c.d. Magistratura democratica, nata in contrasto
alla falsa neutralitá del giudice e posta dalla parte delle fasce sociali piú
disagiate; in particolare, essa aveva il compito di sollevare la questione di
costituzionalitá in relazione a norme sospettate incostituzionali, attraverso la
lettura di nuovi valori costituzionali, assumendo dunque un atteggiamento di
resistenza nei confronti dell’ordinamento costituito.
Tuttavia va precisato che, dall’altra parte, le fasce piú conservatrici della
magistratura si opposero a queste visioni progressiste e del contrasto ideologico
che, in quegli anni, vigeva all’interno della Magistratura sono testimonianza
diretta le pagine di Ricciotti, il quale racconta che l’opinione pubblica fu scossa e
sconvolta dall’approccio crudo dei progressisti, che attribuivano una funzione di
indirizzo politico al singolo giudice e alla magistratura, tanto che alla
conclusione del congresso dell’associazione nazionale magistrati, tenutosi nel
1965, la magistratura indipendente contrastò i progressisti e impose la
riaffermazione della fedeltà del giudice alla legge, nonché dell’indipendenza del
giudice dal governo dal parlamento e dall’opinione pubblica.
5 – I RIFLESSI ISTITUZIONALI: LO STATUTO DEI LAVORATORI
Le tensioni presenti in magistratura, inizialmente solo ideologiche, trovarono
modo d’esprimersi soprattutto grazie all’approvazione della l. n. 300/1970,
ossia lo Statuto dei lavoratori, che rappresentó l’occasione per la Magistratura di
aprirsi quasi dichiaratamente alla funzione politica e di assumere una funzione
riequilibratrice del divario sociale. Ebbe cosí inizio un lungo processo, durato
circa trent’anni, con il quale la cultura del magistrato ha modificato i propri poli
di riferimento, ponendo il giudice al centro dei processi di trasformazione e
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relazione al CSM, esso sanciva che il Consiglio superiore dovesse avere pieno e
libero potere di iniziativa e composizione paritaria tra le varie categoria di
magistrati.
Venne, cosí, proclamata l’indipendenza interna del CSM, in aperto conflitto con
le pretese di controllo da parte della Cassazione, la quale reagí approvando un
documento che ribadiva il principio gerarchico e la distinzione delle funzioni
nell’ambito della magistratura.
Tuttavia, il documento della Cassazione si mostró improprio a livello
istituzionale, in quanto non solo contrastava con il modello di organo di
autogoverno della magistratura ordinaria che, per l’appunto, il CSM
rappresentava, ma si contrapponeva anche al ruolo della giurisdizione, cosí
come delineato dalla Costituzione.
4 – LA L. ISTITUTIVA DEL 24 MARZO 1958, N. 195
Risulta dunque chiaro perché la legge istitutiva del CSM venne approvata
soltanto dopo 10 anni dall’entrata in vigore della Costituzione: ed infatti, il
problema fondamentale era rappresentato dal fatto che il nuovo assetto tendeva
a spezzare la rigida verticalizzazione che aveva caratterizzato per oltre un secolo
la magistratura italiana e nella quale la Corte di Cassazione aveva svolto un ruolo
centrale, non solo di indirizzo ma anche di vero e proprio controllo dell’attivitá
giurisdizionale. Quindi, il ritardo nella emanazione della legge istitutiva
dell’organo derivó dalla consapevolezza che il nuovo ordinamento costituzionale
avrebbe radicalmente mutato i rapporti all’interno della magistratura, nonché
dagli sforzi compiuti dalla Cassazione per garantirsi una rappresentanza la piú
ampia possibile nel nuovo organismo.
Il CSM venne, dunque, alla luce solo con l’approvazione della l. n. 195/1958, la
quale previde una composizione basata sulla presenza di 14 membri eletti dalla
magistratura, di cui 6 magistrati di Cassazione, 4 magistrati di Corte d’appello e
4 magistrati di Tribunale, e di 7 membri di nomina parlamentare, cui si
aggiungevano 2 membri di diritto e la presidenza del Capo dello Stato, per un
totale di 24 membri.
Tuttavia, la composizione risultava ancora sbilanciata in favore della Cassazione,
cosa che sollevó dubbi di costituzionalitá, anche se va precisato che all’epoca ció
rappresentó un punto d’equilibrio per dare finalmente avvio al nuovo organo
costituzionale.
5 – I SUCCESSIVI MUTAMENTI DEL SISTEMA ELETTORALE E I NUOVI MODELLI
ORGANIZZATIVI
Il sistema di elezione della componente togata é stato ripetutamente modificato
nel corso del tempo: dapprima nel 1967, poi nel 1975 e infine nel 1990, quando
si è giunti ad adottare un sistema di tipo proporzionale, in base al quale i
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Scuola dava una valutazione di ogni candidato, sulla cui base, poi, il CSM doveva
esprimere la sua deliberazione finale, in modo tale da consentire ai magistrati di
partecipare ai concorsi per la progressione anticipata di carriera.
Tuttavia, vennero sollevati dubbi di legittimitá costituzionale in quanto, come é
stato criticamente rilevato dallo stesso Consiglio in un suo parere, la valutazione
emessa dalla Scuola poneva un vincolo a carico del CSM, il quale risultava
incompatibile con l’art. 105 Cost.
Con la legge Mastella del 2007 è stato perció disposto il recupero da parte del
CSM, a discapito dell’istituenda Scuola della magistratura, delle competenze
relative alla valutazione delle carriere e all’aggiornamento professionale, nonché
del potere di emettere in via esclusiva il giudizio finale d’idoneitá al
conferimento delle funzioni giudiziarie.
GIURISDIZIONE, POTERE LEGISLATIVO E POTERE ESECUTIVO
1 – LA SEPARAZIONE DEI POTERI
Montesquieu é considerato uno dei padri fondatori del principio della
separazione dei poteri, principio questo sul quale sarebbero sorti, poco dopo, gli
stati di diritto ottocenteschi dell’Europa continentale.
Tuttavia, egli fu autore della famosa espressione “giudice bocca della legge”,
sulla quale sono sorti numerosi equivoci, dovuti alla mancata
contestualizzazione del suo pensiero. Ed infatti, il pensiero di Montesquieu sul
giudiziario, che egli definí come strettamente legato al testo della legge, é dovuto
alle degenerazioni prodotte dall’assolutismo nel corso dei secoli, tra cui anche gli
abusi commessi dai giudici nell’applicazione del diritto; egli, dunque, non ha
inteso svalutare l’attivitá interpretativa in sé, ma ha voluto esprimere un
giudizio negativo sul potere giudiziario dell’epoca.
Perció, la chiave di lettura del pensiero di Montesquieu deve essere individuata
laddove egli nota che “non c’è libertá se il potere giudiziario non è separato dal
potere legislativo e da quello esecutivo”, in quanto tutto sarebbe perduto se la
stessa persona o lo stesso corpo di persone esercitasse i tre poteri.
Inoltre, a ció va aggiunto che il motivo per il quale l’autore definisce il giudice
bocca della legge deriva anche dal fatto che egli guardava con ammirazione al
sistema inglese, in cui il ruolo procedurale del giudice era confinato in margini
ben definiti, vista la presenza dell’istituto della giuria. Ed infatti, in Inghilterra la
separazione dei poteri si era realizzata con un secolo d’anticipo rispetto
all’Europa continentale, cosa che aveva portato ad una netta distinzione tra
questioni di fatto, affidate alla valutazione della giuria, e questioni di diritto,
appannaggio del giudice.
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questi profili, é necessario anche che egli abbia una posizione tale da poter
vivere con dignitá e che si senta chiamato a sopportare i sacrifici del suo ufficio.
Infine, affinché il giudice possa salire al di sopra delle parti (ed essere
imparziale), é necessario che le parti stesse lo aiutino a trovare le ragioni della
lite, ed é proprio in questo che risiede la necessitá morale del contraddittorio.
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L’ECCESSO DI MOTIVAZIONE.
IL MARGINE AL TEMA STORICO DELLE SENTENZE RAGIONATE
1 – LA SENTENZA É COME UN TRATTATO
Nel corso del tempo, la motivazione, la sua funzione e la sua stessa natura, hanno
subito dei cambiamenti molti significativi, compiendo dalla fine del Settecento
fino ai giorni nostri un cammino a ritroso, che si é tradotto nella formulazione di
sentenze simili a trattati e caratterizzate da un eccesso di motivi, il quale viene
considerato dannoso tanto quanto l’assenza di comunicazione.
In particolare, il primo motivo che ha condotto a questo fenomeno é di tipo
culturale: ed infatti, mentre nei sistemi di common law il giudice é considerato
una figura quasi eroica, i grandi nomi del civil law, invece, sono quelli dei dottori
della legge. Per questo motivo, dunque, la forma e lo stile delle sentenze italiane
imita pedissequamente gli scritti dottrinali, il giudice cioè scrive le sentenze
dimostrando la sua abilitá a muoversi nell’ambiente dottrinale, dando vita ad
una giurisprudenza che risulta imitativa e non creativa: ed infatti, nella stesura e
nella pubblicazione delle sentenze predominano l’astrattezza e il concettualismo
della dottrina.
Ovviamente, le motivazioni troppo estese hanno fatto sorgere la necessitá di
procedere a delle sintesi tecniche, cosa che ha dato vita cosí ad un altro
elemento, accanto al dispositivo e alla motivazione, definito massima. In
particolare, la massima, come la motivazione, viene scritta con un certo ritardo
rispetto al dispositivo ed é formata da una struttura apposita di magistrati,
diversi dai giudici che hanno adottato la decisione, per cui essa si presenta come
un dato quasi dottrinale. Se ne deduce, dunque, che il nostro stile giudiziario
risulta caratterizzato da estese motivazioni e brevi massime, dove il rilievo non é
dato ai fatti del caso, ma alla produzione di questo elemento spurio, che risulta
separato dall’effettivo contesto.
2 – LE RADICI LONTANE DEL FENOMENO E IL RUOLO DELLA MASSIMA
Il secondo motivo che ha condotto al fenomeno dell’eccesso di motivazione,
invece, é di natura politica ed ha matrici antiche, per cui occorre una digressione
storica.
In particolare, in passato la motivazione non costituiva un elemento rilevante
per gli illuministi, cosí come dimostrano numerosi scritti francesi. Ed infatti, lo
stesso Montesquieu, il giurista piú illustre e innovatore del tuo tempo, non spese
neanche una parola sulla necessitá o sulla possibilitá di motivare i giudizi, che
per lui costituivano una “semplice affermazione”. Inoltre, anche Voltaire,
Rousseau e gli Enciclopedisti mostrarono di non comprendere il significato dei
motiva, anche se, allo stesso tempo, in un suo commento, Voltaire si chiese
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perché in alcuni paesi non si dessero mai i motivi delle sentenze. In particolare,
il motivo di questa poca attenzione era dovuto essenzialmente al fatto che in
Francia, verso la metá del Settecento, era predominante il piano legislativo e
quello governativo, mentre era riservato poco spazio alla magistratura. Inoltre, a
ció va aggiunto il fatto che la procedura penale assunse una veste inquisitoria e
l’accusato non aveva il diritto di conoscere il motivo per il quale veniva
condannato, né la classificazione del suo delitto.
Tuttavia, poco dopo, in Francia le prassi giudiziarie vennero comprese nel loro
reale significato, tant’è vero che l’obbligo di motivazione delle sentenze divenne
una delle istanze piú solide dell’illuminismo giuridico.
In Italia, invece, il livello della discussione presentava uno stato migliore e si
affermó una nuova sensibilitá, soprattutto grazie a Tanucci, il quale infatti giá
dalla metá del Settecento, dichiarava che si sarebbe avuta una vera giustizia solo
se i magistrati avessero giudicato con le ragioni, in quanto l’arbitrio dei giudici
doveva essere considerato inconciliabile con la libertá civile. Si ebbe, cosí,
l’emanazione (nel 1774) di una legge che obbligava a motivare le sentenze, legge
questa che segnó l’avvio della “nuova vita giudiziaria”.
3 – TRA PASSATO E PRESENTE: IL SILENZIO COME AUCTORITAS E LA PAROLA
COME DIFESA
Tuttavia, contro questa legge, l’opposizione fu fortissima, soprattutto da parte
dei magistrati. Ed infatti, fino a quel momento, il peso della tradizione dottrinale
e la facoltá riconosciuta ai giudici di non rivelare le ragioni dei loro responsi,
avevano provocato al sistema giurisdizionale una chiusura di tipo scientifico e
sociale, in cui l’assenza di motivazione, insieme ad altre prerogative e privilegi,
consentiva alle magistrature di svolgere la propria azione senza troppi controlli.
Dunque, con l’istituzionalizzazione dell’obbligo di motivare, la sua diffusione e il
suo radicamento nella cultura giuridica e nelle aspettative politiche e sociali, la
prospettiva cambió radicalmente e l’esplicazione delle ragioni del decidere
divenne un genere letterario, che si puó definire nobile oltre che utile: ed infatti,
sul piano teorico, la motivazione serviva a persuadere gli sconfitti, mentre sul
piano pratico serviva ad evitare le impugnazioni o a consentire il controllo della
legittimitá e del merito delle decisioni. Venne peró precisato che, affinché la
motivazione potesse assolvere alla sua funzione, era necessario che la decisione
giudiziaria fosse definitiva, chiara, razionale e logica, e non doveva mai
ammettere come dimostrato ció che c’era da dimostrare. Inoltre, la motivazione
doveva limitarsi ai principali punti controversi in fatto e in diritto, doveva
consistere in giudizi analitici, doveva essere sufficiente e concreta e doveva
avere un contenuto minimo, canoni questi che risultano oggi disattesi.
4 – LA MOTIVAZIONE COME LEZIONE
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2 – UN RAPIDO CONSOLIDAMENTO ISTITUZIONALE
Tuttavia, va precisato che la Corte Costituzionale, tanto avversata dalle sinistre
durante i lavori dell’Assemblea costituente, cominció ad essere vista dalle forze
di governo come una minaccia alla stabilitá del quadro politico uscito dalle
elezioni del 1948, tant’è vero che, durante un dibattito parlamentare, Nitti la
definí una sovrastruttura. Per questo motivo, dunque, le elezioni della
componente parlamentare si protrassero per quasi tre anni e, di conseguenza,
l’entrata in vigore della Corte Costituzionale fu rinviata al 1956.
Nonostante ció, fin dagli esodi, il nuovo organo apparve destinato a realizzare
una profonda innovazione nella vicenda politico-istituzionale italiana.
In particolare, durante il lungo periodo che aveva preceduto la sua entrata in
funzione, il sindacato di costituzionalitá fu svolto dalla magistratura in modo da
ridimensionare sensibilmente la portata innovativa della Carta Costituzionale.
Perció, fin dal primo momento, la Corte fu impegnata nel compito storico di
promuovere il superamento di quella parte della legislazione precostituzionale
che maggiormente rifletteva una concezione autoritaria del potere.
Ed infatti, fin dalle sue prime pronunce del 1956, aventi ad oggetto disposizioni
del T.U. di Pubblica Sicurezza, la Corte Costituzionale affermó la sua competenza
a giudicare la legittimitá costituzionale della legge e degli atti di legge, anche se
anteriori all’entrata in vigore della Costituzione. Inoltre, pose l’accento sulla
differente portata dell’illegittimitá costituzionale e dell’abrogazione, chiarendo
che i due istituti si muovono su piani diversi ed hanno effetti e competenze
differenti; ed infatti, il campo dell’abrogazione risulta piú ristretto e i requisiti
richiesti sono piú limitati. Infine, la Corte contestó la tesi secondo cui erano ad
efficacia differita le disposizioni costituzionali riguardanti la libertá personale, il
diritto di locomozione, di riunione e di manifestazione del pensiero,
sottolineando l’importanza e l’ampia portata di questi diritti.
La giurisprudenza della Corte Costituzionale, si caratterizzó dunque, giá nei
primi anni, per una forte creativitá, non solo nei criteri ermeneutici adottati, ma
anche nelle stesse decisioni, le quali assunsero quattro differenti forme, ossia:
sentenze interpretative di rigetto, sentenze interpretative di accoglimento,
sentenze additive e sentenze sostitutive.
In particolare, la sentenza interpretativa di rigetto veniva utilizzata per
plasmare gli orientamenti interpretativi della magistratura, svolgendo cosí
un’opera di pedagogia costituzionale, e qualora i giudici comuni non si fossero
uniformati all’interpretazione della Corte, sarebbe stato sempre possibile
adottare, in seguito, una sentenza di accoglimento. Prese cosí piede la prassi
delle doppie pronunce ed emblematico, a tal proposito, fu il caso dell’art. 2 del
T.U. di Pubblica Sicurezza. In particolare, con la sent. 8/56 la Corte dichiaró
infondata la relativa questione di legittimitá costituzionale, riconoscendo come
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fra ius e lex, teso a far prevalere la stabilitá dei valori giuridici al di lá delle scelte
contingenti compiute dal potere politico.
In particolare, giá nella seconda metá degli anni Settanta erano diventati sempre
piú frequenti i richiami della Corte al diritto vivente, ossia al diritto
effettivamente applicato nei tribunali, una categoria questa suscettibile di essere
utilizzata per stemperare le tensioni con la magistratura e nella quale i valori
costituzionali erano andati sempre piú radicandosi. Ed infatti, era stata
approvata una mozione che attribuiva ai giudici il compito di avvalersi del
parametro costituzionale nell’interpretazione della legge e di applicare
direttamente la Costituzione, il che contribuí a sensibilizzare i magistrati
all’esigenza di effettuare interpretazioni costituzionalmente orientate.
Inoltre, negli anni Ottanta la Corte cominció a ricorrere, in modo accentuato, alle
dichiarazioni di inammissibilitá.
A partire dagli anni Novanta, invece, la Corte fu costretta a rimodulare la sua
azione in rapporto alla crisi della finanza pubblica, in modo tale da
contemperare l’attuazione del principio di eguaglianza con la disponibilitá delle
risorse economiche utilizzabili a tal scopo; essa, perció, cominció ad adottare le
sentenze d’incostituzionalitá sopravvenuta, al fine di evitare i costi della
retroattivitá e le sentenze additive di principio, ossia sentenze di
accoglimento che rinviavano al legislatore la scelta dei tempi e dei modi per
recepire le risorse necessarie a darvi attuazione.
Tuttavia, va precisato che la Corte di Cassazione, non ha mai cessato di
rivendicare la libertá interpretativa della magistratura nei confronti della Corte
Costituzionale, anche di recente, in un’epoca ormai molto distante rispetto a
quella in cui divampó la guerra tra le Corti. Ed infatti, la Cassazione ha affermato
che le sentenze interpretative della Corte costituzionale non devono essere
considerate un’interpretazione autentica della legge, ma rappresentano
semplicemente un precedente autorevole quando sono sorrette da
argomentazioni persuasive, per cui esse non impongono di sollevare una nuova
questione di costituzionalitá se il giudice non ritiene possibile conformarsi
all’orientamento interpretativo in esse accolto.
Nel frattempo, con la sent. 56/96 la Corte costituzionale, aveva sancito l’obbligo
dell’interpretazione conforme a Costituzione, precisando che le leggi non si
dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne
interpretazioni incostituzionali, ma perché é impossibile darne interpretazioni
costituzionali, e questo al fine di scoraggiare la proposizione di questioni di
legittimitá costituzionale da parte di giudici che non avevano compiuto lo sforzo
ermeneutico diretto ad interpretare la legge in armonia col testo costituzionale.
Tuttavia, al criterio dell’interpretazione conforme, la dottrina sollevó diverse
critiche affermando che esso rischiava di aprire un varco verso l’arbitrio
giurisdizionale. In ogni caso, va precisato che la condivisione, da parte della
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Infatti tutela l’interesse dei cittadini piuttosto che quelli della legge, intesa come
mera astrazione. È opportuno che giudichi, oltre che nel fatto, anche nel diritto
perché deve effettivamente applicarlo. Non è come la “superba” cassazione, che
pretende di edificare una scienza astratta ed è uno strumento di centralizzazione
forzata.
Per il centenario della corte di cassazione di Napoli, Pessina appoggiava l’idea di
una pluralità di corti: non doveva esserci nessuna sottoposizione gerarchica
delle corti regionali a quella di Roma, a cui riconosceva una superiorità
puramente morale che lasciasse alle altre corti la libertà del proprio giudizio
nella materia ad esse affidata. Figlia era favorevole alla pluralità delle corti ed
inoltre era favorevole alla terza istanza: l’eliminazione delle diversità poteva
portare ad un’onnipotenza collettiva.
Cosenza, giudice di cassazione, diceva che la magistratura di grado inferiore
doveva giudicare secondo equità in rispetto dei principi, ma non appena ci fosse
un’interpretazione più larga, spettava ai magistrati superiori della corte
regolatrice, la vigilanza: al giudice di merito spettava solo assecondare le
evoluzioni del diritto, la certezza che la giustizia fosse giusta appunto era di altra
competenza.
Dunque, anche se le sorti delle Corti regionali era segnata, in quanto con la legge
Zanardelli del 1888 venne compiuto il primo passo significativo verso
l’unificazione definitiva, negli anni Cinquanta del Novecento il dibattito risultava
ancora aperto, soprattutto dopo l’introduzione di una novella in base alla quale i
fatti secondari dovevano essere sottoposti al controllo della Corte se
costituivano una prova indiretta dei fatti principali, per consentirle di accertare i
fatti principali stessi. Ed infatti, questa previsione, dettata ai fini della celeritá
del processo, aveva ulteriormente esteso il controllo del giudice di diritto sul
merito.
In particolare, tra le varie posizioni, va ricordata quella di Calamandrei, il quale
fu teorizzatore di un modello puro della Corte di cassazione, in base al quale
la cognizione della Corte, che avrebbe dovuto essere unica, doveva essere
limitato solo alle questioni di diritto (cioè agli errores in iudicando) per
garantire l’esatta ed uniforme interpretazione della giurisprudenza, mentre non
andava esteso alle questioni di fatto (cioè agli errori logici del giudice di merito)
le quali, infatti provocherebbero solo l’accumularsi di ricorsi inutili, in quanto
non costituiscono una minaccia alla esattezza e alla uniformitá della
interpretazione.
Inoltre, secondo il giurista, si sarebbe dovuto provvedere all’eliminazione della
giurisdizione negativa con l’introduzione dell’efficacia vincolante del principio di
diritto pronunciato in sede di primo esame, in moto tale da escludere il
meccanismo del doppio rinvio. Risulta, dunque, evidente che Calamandrei
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protendeva alla Cassazione nell’interesse dello Stato, per cui, nella sua
concezione, il diritto della parte alla soddisfazione della sua istanza risulta
strumentale all’interesse pubblico a che la legge fosse correttamente ed
uniformemente interpretata. Inoltre, nel pronunciarsi sulla questione relativa al
se la Cassazione debba giudicare sul fatto, oltre che in diritto, Calamandrei ha
riconosciuto i vantaggi del modello tedesco, in cui la cognizione del giudice
supremo non si limita solo alla violazione di legge eccepita dalla parte
ricorrente, il che consente di evitare che vengano proposti piú ricorsi di
legittimitá sulla stessa causa. Tuttavia, questa revisione non offre le stesse
garanzie della Cassazione (intesa come modello) rispetto all’uniformitá della
interpretazione giurisprudenziale, per cui, a parere del giurista, quest’ultimo
modello, con le dovute riforme, restava quello piú rispondente alle ragioni di
ringiovanimento del diritto obiettivo.
Tuttavia, il modello puro di Calamandrei é stato criticato da Chioveda, secondo
cui il giudizio di legittimitá implica necessariamente una serie di considerazioni
sul merito, ai fini della completezza e della coerenza della motivazione. Ed
infatti, secondo costui, affinché siano applicabili, le norme suppongono
necessariamente giudizi di fatto, e ció vale soprattutto per le massime
d’esperienza, che rappresentano dei veri e propri parametri di riferimento per il
giudice di legittimitá che deve censurare la valutazione del fatto compiuta dal
giudice di grado inferiore.
Secondo, Chioveda, perció, l’osservazione del giudice di Cassazione deve
inevitabilmente basarsi su tutta una serie di circostanze che hanno condotto la
controversia ad assumere quella precisa definizione, la Cassazione, cioè, deve
compiere delle vere e proprie indagini di fatto, fermo restando peró che, in
questo caso, il giudizio non é assimilabile ad una terza istanza, poiché si limita
semplicemente ad accertare la regolaritá degli atti compiuti.
Dunque, come aveva rilevato anche Calamandrei, il processo si è invertito
dalla tutela dello ius constitutionis a quella dello ius litigatoris, avvicinando
cosí il giudizio di Cassazione al giudizio di revisione nel merito, con la differenza
che le Corti di revisione decidono direttamente al momento di riformare la
sentenza impugnata, per cui il giudice di Cassazione rischia di vedere
trasformato il proprio ruolo in quello di terzo giudice della giustizia del singolo
caso. Tuttavia, questa sorta di “privatizzazione” della Cassazione non sembra
rispondere alla funzione di assicurare l’esatta ed uniforme interpretazione della
legge, che gli era stata originariamente assegnata, ma si limita solo ad eliminare
gli errori compiuti dal singolo giudice di merito; ne deriva, perció, un’evidente
perdita del valore di orientamento e di indirizzo giurisprudenziale delle sue
decisioni
Inoltre, tutto ciò implica, una distorsione del principio del precedente
giudiziario, per cui, potenzialmente, ogni singola decisione può essere sfruttata
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esecutivo non appariva cosí netta, a seguito dell’adozione del modello alla
francese. In realtá, nei confronti del corpo dei giudici agiva l’influenza di due
strumenti di pressione collegati al Governo, convergenti verso forme implicite di
assoggettamento, vale a dire la struttura gerarchico-piramidale e l’ambigua
figura del P.M., indicato espressamente come rappresentante del potere
esecutivo presso l’autoritá giudiziaria. Inoltre, a ció si aggiungeva una forte
sorveglianza, contemplata dalla normativa post-unitaria, esercitata dai
guardasigilli su tutti i tribunali e su tutti i giudici, la quale finiva per avere
inevitabili ripercussioni sull’autorevolezza del corpo giudiziario. Dunque, di
fronte a questo quadro, che privilegiava la prospettiva dirigistica e dipingeva la
giovane magistratura italiana giá piuttosto sottomessa e avvilita, si diffuse una
generale insoddisfazione e si aprí un animato dibattito dottrinale e
parlamentare, orientato alla ricerca di criteri risolutivi e di rimedi idonei al
raggiungimento di un’effettiva indipendenza.
In particolare, nell’ambito del dibattito, va ricordato il discorso del magistrato
della Corte di Cassazione Siotto-Pintor, il quale illustró le carenze del sistema
italiano, ricorrendo ad un’indagine storica e comparativa. Egli, inoltre, indicó
cinque condizioni essenziali al raggiungimento dell’indipendenza della
magistratura, ossia l’universalitá del giudizio, per cui il magistrato deve poter
giudicare tutto e tutti; il trattamento sufficiente; la perpetuitá dell’ufficio, cioè il
diritto di perpetuarsi da sé, escludendo dal sistema delle elezioni dei magistrati
le universalitá e le province; l’esclusivitá, a condanna della frammentazione e,
infine, l’inamovibilitá, che va tenuta distinta dall’immobilitá.
2 – LA CASSAZIONE ALLE PRESE CON I DECRETI-LEGGE
La fase di edificazione delle garanzie magistratuali per giungere
all’indipendenza, cominció a raggiungere i primi traguardi, grazie alla creazione
di apposite Commissioni consultive in materia di reclutamento e di carriera.
Tuttavia, gli scalini piú alti della piramide giudiziaria risultavano ancora
saldamente ancorati alla volontá del Governo, cosa che é risultata evidente dal
tono di una sentenza pronunciata nel 1888 dai giudici di Cassazione di Roma, in
cui l’indice della non-indipendenza è rappresentato dal favor che la Cassazione
ha espresso per l’obbligatorietá dei decreti-legge.
In particolare, la Corte, che teoricamente era istituita con l’obiettivo di
mantenere l’esatta osservanza delle leggi, riconosceva spesso validitá
all’emergente potestá straordinaria dell’esecutivo, in quanto riteneva che fosse
compatibile con i principi costituzionali, nonostante questo potere non fosse
assolutamente autorizzato e previsto ed anzi sussisteva un contrasto con gli artt.
3 e 6 dello Statuto.
Dunque, per aggirare l’ostacolo posto dall’art. 6 dello Statuto, la Corte di
cassazione di Roma, con argomenti di giurisprudenza costituzionale e di
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Invece, dopo la caduta del regime fascista, che aveva portato a restaurare le
vecchie certezze con il nuovo ordine, la letteratura italiana cercó di affrontare i
traumi prodotti dalla dittatura e il profondo senso di incertezza del paese dopo
gli orrori della guerra. Il tema, dunque, era quello della giustizia di transizione e
del processo come strumento per ristabilire la veritá storica e chiudere i conti
con il passato, anche se va precisato che gli anni del dopoguerra in Italia furono
caratterizzati soprattutto dalle storie narrate dagli stessi attori del mondo della
giustizia, ossia dai giuristi di cattedra e di foro che davano corpo, attraverso la
scrittura, a quell’ansia di partecipare alla rivoluzione legata all’entrata in vigore
della Costituzione repubblicana.
In particolare, tra i vari nomi, una menzione spetta a Dante Troisi che nel 1955
pubblicó un resoconto dolente ed appassionato delle sue esperienze di pretore,
da cui traspare una volontá di rinnovamento e in cui l’autore disarticola
l’immagine del giudice come freddo dispensatore di comandi e di precetti,
mostrando come il giudicare sia un mestiere che comprende tutto e che
coinvolge l’anima.
Sciascia, invece, parló del rapporto tra giustizia e politica, tra autorità e libertà,
in cui la tutela delle garanzie si scontra con l’insicurezza della società ed il suo
bisogno di protezione.
I PALAZZI DELLA GIUSTIZIA E DELLA PENA.
NOTE BREVI SU ARCHITETTURA E GIURISDIZIONE
1 – “LA CITTÁ INVENTA LA MAGISTRATURA”
Weber individuó due condizioni essenziali per dar vita alla collettivitá e alla vita
sociale, vale a dire un patto sociale, ossia un giuramento collettivo tra gli uomini
che sceglievano di vivere insieme, e l’affidamento ad alcuni di essi della potestá
di giudicare le violazioni dell’accordo sociale, i quali dovevano alternarsi nella
funzione per periodi limitati, per cui era la sfera di applicazione della legge
urbana a segnare l’ideale linea di confine e il limite della giurisdizione.
Riferita alla realtá medievale, questa teoria della cittá considerata “classica”
riconosceva dunque alla dimensione giuridica un ruolo fondamentale nel
definire e condizionare l’ambiente metropolitano. Tuttavia, le riflessioni di
Weber sono state totalmente trascurate dagli autori successivi, in quanto le
istituzioni sociali e giuridiche si sono dimostrate insufficienti a cogliere il senso
essenziale del fenomeno urbano. Ed infatti, per le sue dimensioni e per le sue
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