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PONTIFICIA UNIVERSITÀ URBANIANA

Facoltà di Diritto Canonico

FILOSOFIA DEL DIRITTO


S.E.R. Mons. Velasio de Paolis
Prof. Mário Rui de Oliveira

2009-2010

FILOSOFIA DEL DIRITTO

INTRODUZIONE

L’esperienza giuridica appartiene al patrimonio comune della umanità. La parola "diritto" ricorre
frequentemente nel nostro linguaggio: è una cosa ovvia, di tutti i giorni. Quando comincia la riflessione su di essa, le
cose si complicano enormemente, sia quando cerchiamo di definire il diritto, sia quando tentiamo di farne la filosofia,
ossia ne cerchiamo il fondamento, la giustificazione, il fine, il rapporto con la giustizia e con la morale. Il filosofo
Emanuele Kant diceva: "I giuristi cercano ancora una definizione del loro concetto di diritto"1. E sembra che oggi non
siamo andati molto più avanti. In realtà le difficoltà hanno radici profonde: si tratta di interpretare la realtà giuridica,
che, in quanto parte dell'esperienza umana, implica la visione dell'uomo e il significato della sua esistenza. La filosofia
del diritto non è che un aspetto della filosofia dell'uomo in quanto tale. La filosofia, in quanto cognitio certa et evidens
rerum per ultimas causas, lumine rationis comparata, non gode, particolarmente oggi, di grande stima e attenzione,
come del resto il diritto stesso2. In realtà il problema del diritto e della filosofia è problema dell’uomo stesso. In verità si
può dire che l’interpretazione e la comprensione dell’esperienza giuridica, in quanto legata essenzialmente alla persona
umana e alla società, in cui essa si inserisce, non può non dipendere dalla visione dell’uomo e della società. E’ valido il
seguente aforisma: “Dimmi che visione e concezione hai dell’uomo e ti dirò che visione e che concezione hai del
diritto!”, e viceversa. Si aggiunga che, quando parliamo di visione e di concezione dell’uomo, entrano subito in gioco
questioni di estrema importanza, quali quelle del senso della vita, della libertà, della coscienza, della verità, della società
umana, della norma, sia morale che giuridica, ecc. In verità l’ampia problematica che si pone oggi a proposito del diritto
non è che un aspetto dell’ancora più ampia problematica connessa con la visione della cultura moderna e che ora
sembra esplodere, tanto che noi parliamo oggi di postmoderno e di pensiero debole. Per rendersene conto basta prendere
in mano le encicliche dell’attuale Sommo Pontefice circa la legge morale (Veritatis Splendor) e circa la vita umana
(Evangelium Vitae). Particolarmente in quest’ultima emerge tutta una filosofia del diritto legata e derivata dalla visione
della vita, e dalla concezione della persona, della natura umana, della libertà, della coscienza, del corpo, della sessualità,
del fine ultimo della vita dell’uomo stesso, dello stato, della legge, della democrazia, dell’autorità, ecc. Appare allora
abbastanza chiaramente che la problematica del diritto non è altro che la problematica dell’uomo, esaminata appunto
nella prospettiva del diritto. Scrive F. D’Agostino: “Di che cosa parla il giurista? Di diritto, ovviamente; ma non solo di
diritto. Parla anche - e soprattutto dell’uomo. Ma quando si parla dell’uomo si comincia ad entrare in un discorso di cui
forse si conosce l’inizio, ma di cui di certo non si può conoscere la fine: per quanto tu cammini, i confini dell’anima
non li puoi trovare, diceva Eraclito. Chi inizia a parlare dell’uomo parlerà dei suoi bisogni, delle sue pretese, delle sue
spettanze. E giungerà, prima o poi, a parlare delle sue nostalgie, dei suoi desideri, dei suoi sogni, delle sue utopie. E
inevitabilmente, quindi delle sue speranze e del suo destino. E arriverà, alla fine, a parlare della sua salvezza. E’ un
discorso, questo, che, quando nel mondo di oggi viene fatto, da chiunque esso venga fatto, viene fatto sommessamente.
Chi lo fa più sommessamente di tutti forse è proprio il giurista; ma quando voglia e sappia farlo lo fa con la certezza

1
Citato da R. Pizzorni, Filosofia del diritto, p. 22. L’affermazione si trova in La metafisica dei costumi, parte prima, Principi metafisici della
dottrina del diritto, tr. it., Bari 1970, p. 34. Kant scrive: “Il giurista può certo conoscere e dichiarare che cosa appartenga al diritto (quid sit iuris), vale
a dire ciò che le leggi in un certo luogo e in un certo tempo prescrivono e hanno prescritto; ma se ciò che queste leggi prescrivono sia poi anche
giusto, e il criterio universale per mezzo del quale si può riconoscere in generale ciò che è giusto e ciò che è ingiusto (iustum et iniustum) gli rimane
completamente nascosto, se egli non abbandona per un certo tempo quei principi empirici e (pur servendosi di quelle leggi come di eccellenti fili
conduttori) non cerca le origini di quei giudizi nella ragione pura quale unico fondamento di ogni legislazione positiva possibile. Una dottrina del
diritto puramente empirica è (come la testa di legno nella favola di Fedro) una testa che può essere bella, ma che, ahimé, non ha cervello”. A
proposito di tale affermazione, commenta F. D’Agostino: “L’ironia che Kant...riserva ai giuristi... è generalmente stata fatta propria dai teorici
contemporanei del diritto, ma in un senso profondamente antitetico a quello che guidava la riflessione del grande pensatore tedesco: se per Kant la
critica al diritto definito dai giuristi voleva essere anzitutto un richiamo ad una diversa dimensione di riflessione sul diritto stesso (un’esortazione cioè
a riflettere filosoficamente su di esso), per i contemporanei tale critica è servita da base per un progressivo smantellamento della pretesa di definire
tout court il diritto secondo la sua sostanza propria (la pretesa cioè di poter giungere ad una definizione <reale> del diritto), smantellamento che salva
al più solo la possibilità di una definizione <nominale> del diritto stesso, tale da ridurre poi in ultima analisi ogni tentativo definitorio ad un inventario
dei diversi modi secondo cui oggi il vocabolo <diritto> viene di fatto usato” (Filosofia del diritto, p. 6).
2
G. Cosi, Il logos del diritto, si dilunga a parlare della “percezione malinconica del diritto”, indicandone le cause nell’assuefazione,
strumentalizzazione e semplificazione (a proposito della quale egli richiama l’immagine della “valvola di riduzione cerebrale”: “l’innata tendenza
dell’essere umano, in quanto ‘animale razionale’ a semplificare per sopravvivere”, 11), quando invece si dovrebbe trattare della filosofia della
meraviglia, quando fosse un’ontologia esperienziale, una conoscenza intensiva, una scienza e una sapienza. L’autore di fatto di sofferma a parlare del
diritto come meraviglia (pp. 5-60).

1
che quello della salvezza non è un discorso che gli sia estraneo, ma che gli appartiene costitutivamente. Anche se è un
discorso per il quale sembra che non ci siano più oggi parole adeguate ad esprimerlo” 3. E spiega: “a fronte ...di tutti
coloro che ritengono che <<non c’è nulla che abbia bisogno di essere salvato da niente>>, il giurista invece porta
testimonianza esattamente del contrario: tutto, nell’uomo, chiede di essere salvato, chiede, cioè di essere fornito di
senso. E la salvezza che il diritto può fornire all’uomo è quella di dar senso alla sua azione, secondo una logica di
universale compossibilità: poiché tutti attendono dal diritto la salvezza delle loro azioni, questa non può essere salvezza
di alcuni soltanto, ma assolutamente di tutti. La grandezza -e la drammaticità- del diritto consistono proprio in questo” 4.
E non manca neppure l’accenno all’esigenza della grazia: “A questa consapevolezza che è propria del giurista in
generale, il giurista che viva un’esperienza di fede ne aggiungerà un’altra, quella per la quale la salvezza che cerchiamo
nel diritto è solo un modo di alludere a quell’altra salvezza che né il diritto, né la legge ci possono dare, ma solo la
grazia”5. In questa prospettiva si comprende anche la necessità del dialogo tra fede e ragione, come sottolinea
l’enciclica Fides et Ratio.

In verità l’uomo vive ogni giorno la sua esistenza con altri uomini, in una fitta rete di relazioni regolamentate
da norme. Ogni giorno si pone soprattutto la questione dei diritti dell’uomo e dalla sua dignità. La libertà non può
nascere certo dall’utopia di una convivenza umana senza leggi, ma dalla assunzione delle responsabilità e dalla
comprensione del senso di esse, quale strada obbligata per il raggiungimento dell’amicizia tra gli uomini, nella quale
Aristotele poneva il fine del diritto, e San Tommaso la perfezione della carità.

Le difficoltà del trattato sono molteplici ed hanno diversa origine. Eppure una riflessione è necessaria.

1. Difficoltà

Sono molteplici, di diversa origine e di diverso genere: alcune nascono dalla natura stessa della filosofia, altre
dalla natura del diritto; alcune sono di ordine generale, altre specifiche. Accenniamone qualcuna:

1) Alcune difficoltà provengono da parte della stessa filosofia6. Esse possono essere mosse dal fatto che si nega
la stessa filosofia come scienza o si riduce la filosofia ad una scienza che non raggiunge però le radici ultime delle cose,
in quanto queste sono da noi inconoscibili nell'essere più profondo, o perché la nostra conoscenza si ferma ai fenomeni
che cadono sotto i nostri occhi, o perché le cose non hanno altra spiegazione che il puro fatto sensibile, oggetto già delle
scienze della natura.

2) Altre difficoltà provengono dalla concezione stessa del diritto: la filosofia ha come oggetto l'universale,
mentre il diritto è particolare; il diritto non ha un oggetto proprio specifico, perché esso si riduce alla morale, alla
sociologia o alla economia, alla politica7, ecc.

3) Una difficoltà specifica viene mossa da chi, pur ammettendo delle leggi morali universali che devono stare
alla base del diritto, separa però il campo della morale da quello del diritto, per cui la categoria di giuridico appartiene
solo al diritto positivo, non invece alle norme morali anche se naturali8.

4) Una difficoltà è intrinseca al trattato stesso: esso esige una specifica competenza sia in campo filosofico che
giuridico. In genere si tratta di filosofi che trattano del diritto, o di giuristi che riflettono filosoficamente sul diritto. Per
fare filosofia del diritto occorre molta filosofia e molto diritto. "Il diritto senza filosofia è infatti un diritto senza il suo
valore, è un corpo senza un'anima, è una materia informe e priva di vitalità. Se vogliamo perciò mantenere il nome di
filosofia del diritto dobbiamo veramente fare filosofia, che può pur essere negata, ma sempre filosofando, come dice
Aristotele"9.
3
Filosofia del diritto, 1993, p. 1.
4
Id., p. 3.
5
Ib.
6
cf. L. Vela, v. Filosofia del diritto, in Nuovo Dizionario di Diritto canonico .
7
F. D’Agostino, Filosofia del diritto, p. 16s.
8
Cf. O. Robleda, Se debe llamar derecho al "Ius naturae"?, In Miscellanea Comillas, XXIV-XXV, pp. 575-582, Universidad Pontificia
Comillas, Santander, 1960.
9
Pizzorni, Filosofia del diritto, p. 12. Per Aristotele l’uomo è per natura un essere filosofico, che vuole la spiegazione delle cose e di se stesso:
"Se si deve far filosofia, si deve far filosofia; e se non si deve far filosofia, si deve far filosofia: si deve allora far filosofia in ogni caso. Se infatti
c'è la filosofia, siamo tenuti in tutti i modi a far filosofia, dal momento che c'è: se invece non c'è, siamo tenuti anche in questo caso a cercare come la
filosofia non esista, ma cercando facciamo filosofia, perché il cercare è causa della filosofia" (Protreptico, fr. 2, 4). "La pratica della filosofia è
diversissima da tutto: non necessita, infatti, per essere posta in atto, di strumenti o di luoghi, ma in qualsiasi punto dell'universo uno applichi la
propria capacità di ragionare, non importa dove si trova per così dire in contrato con la verità lì presente" (Protreptico, 5, 2).
"E' anche giusto denominare la filosofia scienza della verità, perché il fine della scienza teoretica è la verità, mentre il fine della pratica è
l'azione,. Infatti, coloro che hanno per fine l'azione, anche se osservano come stanno le cose, non tendono alla conoscenza di ciò che è eterno, ma solo
di ciò che è relativo ad una determinata circostanza e in un determinato momento" (Metafisica, II, 1, 993 b 19-23).
Del resto fare filosofia non è altro che usare la ragione. Per Aristotele specificità dell’uomo è la razionalità:

2
5) Un'altra difficoltà sorge dal nome stesso con cui viene contrassegnato oggi il trattato. Il titolo "filosofia del
diritto" è piuttosto recente; il trattato fino al secolo scorso veniva piuttosto sotto il titolo "Diritto naturale". Con
filosofia del diritto si intendeva piuttosto una riflessione razionale sul diritto concreto, positivo. La parola "filosofia"
veniva intesa in un senso piuttosto generico, come Teoria generale del diritto, o dogmatica del diritto, politica o
significato del diritto, storia del pensiero umano sul diritto, ecc. “Il fatto è che parlare di “legge naturale” significa
riferirsi a due concetti (“legge” e “natura”) che sono problematici per la cultura contemporanea: essi dicono qualcosa di
oggettivo, di normativo per il soggetto agente; ed una tale oggettività viene sentita come un limite alla libertà
soggettiva. Ma privandosi di riferimenti normativi oggettivi, quali strade resterebbero aperte per una fondazione
adeguata delle norme etiche e giuridiche?”10.

6) Un'ultima difficoltà possiamo additarla nella mentalità odierna, che non solo non apprezza il diritto, ma ha
di esso una concezione deviata. Per di più si tratta di una mentalità che procede con schemi scientisti e positivisti, che si
ferma al fatto e rifiuta perfino di porsi la questione del significato di essi, fondamentalmente chiusa alla trascendenza11.

2. Necessità

1) L'esperienza giuridica, proprio perché appartiene alla storia dell'umanità di ogni tempo, ha bisogno di essere
compresa dall'uomo: è proprio dell'uomo il conoscere, il penetrare con la sua intelligenza il senso delle cose che lo
riguardano; ne è coinvolto il senso del suo esistere e della sua attività. Ora la norma o la legge in quanto tale, che l'uomo
è chiamato ad osservare nella vita quotidiana è in sé un fatto che deve essere spiegato e compreso nei suoi fondamenti,
nelle ragioni che lo giustificano, nei valori che esso eventualmente comprende o esclude. Non è degno dell'uomo
fermarsi solo alla constatazione dei fatti stessi. I fatti devono essere valutati dall'uomo. La filosofia del diritto vuole
essere precisamente questa riflessione ulteriore, più profonda della stessa esperienza giuridica, toccandone le radici più
profonde. D'altra parte la validità o meno della spiegazione va sempre confrontata con l'esperienza stessa che si vuole
capire: una spiegazione che distruggesse la stessa esperienza non potrebbe essere accettabile. Al di là del problema del
metodo deduttivo o induttivo, il punto di partenza deve essere sempre l'esperienza concreta, da spiegare in modo
adeguato e sufficiente.

2) A tale argomento di ordine generale va, nelle presenti circostanze storiche, aggiunto quello derivante dalla
necessità di dare una risposta alle difficoltà che oggi vengono mosse al diritto e alla filosofia del diritto. E’ necessario
interpretare l’esperienza giuridica, patrimonio comune dell’umanità, in modo da evidenziarne la sua necessità e la sua
funzione a servizio della crescita della persona e della convivenza umana.

3) In particolare la filosofia del diritto richiede che:

a. Si distingua la filosofia del diritto da altre scienze che si interessano del diritto: dalla storia della filosofia del
diritto, dalla storia del diritto, dalla scienza del diritto comparato, dalla teologia del diritto, e, in modo particolare, dalla
scienza giuridica o dalla teoria generale del diritto;
"L'anima è la causa primaria in virtù di cui noi viviamo, percepiamo e pensiamo" (Sull'anima, II, 2, 414 a 13-14).
"In realtà forse è preferibile dire non che l'anima prova compassione o apprende o pensa, ma l'uomo per mezzo dell'anima" (Sull'anima, I, 4, 408
b 13-15).
"L'anima è immortale, perché tutti noi uomini facciamo naturalmente libagioni ai morti e compiamo giuramenti in loro nome, ma nessuno fa
libagioni a chi non esiste in nessun modo, e neppure giura in suo nome" (Eudemo o dell'anima, fr 3).
"Sulla terra non si può trovare nessuna origine delle anime. Nelle anime non vi è infatti nulla di mescolato e di concreto, o qualcosa che paia
nato dalla terra e composto di essa, nulla che sia umido o d'aria o di fuoco.... La divinità che può essere oggetto della nostra comprensione, non può
essere intesa in altro modo se non come una mente sciolta dal resto e libera, separata da ogni unione mortale, che sente e muove tutto, dotata essa
stessa di un moto sempiterno. Di questo genere e di questa natura è la mente umana" (Sulla filosofia, fr 27, 4).
"Ciascuno è il suo intelletto e si ritiene che siamo stati proprio noi a fare, cioè che abbiamo fatto volontariamente, soprattutto le azione
accompagnate da ragione. Che dunque ciascuno è, o è soprattutto, questa parte, è chiaro" (Etica Nicomachea, IX, 8, 1168 b 35-1169 a 2).
"Così è il genere umano; fra gli esseri che conosciamo, l'uomo è il solo a partecipare al divino, o quello che ne partecipa di più" (Le parti degli
animali, II, 10, 656 a 5-10).
"L'uomo che è intellettualmente attivo e che coltiva il suo intelletto sembra che si trovi nella migliore delle disposizioni e che sia il più caro agli
dei.
Se, infatti, gli dei si prendono una qualche cura delle cose umane, come comunemente si ritiene, sarà ragionevole pensare anche che essi si
compiacciono dell'elemento umano più elevato e ad essi più affine (e questo sarà l'intelletto), e che ricompensano gli uomini che amano e curano
l'intelletto più d'ogni altra cosa, considerando che questi si curano di cose a loro care e agiscono in modo retto e bello" (Etica Nicomachea, X, 8, 1179
a 22-32).

10
A. Vendemiati, La legge naturale, p. 8.
11
Scrive S. Cotta: “Non ci nascondiamo però che la questione del diritto naturale continua, specialmente in Italia, a venir considerata risolta in
senso negativo, persino da taluni teologi nonostante la loro dubbia competenza filosofica e la loro misconoscenza del diritto. Diffusa è quindi ancora
la convinzione della irrealtà e della mancanza di senso del diritto naturale. Le varie critiche ad esso rivolte, come pure le trionfanti asserzioni della sua
fine, sono riconducibili a tre tesi principali intrecciate fra loro: 1)quella storicistica, secondo la quale il diritto non è naturale ma storico; 2) quella
positivistica, secondo la quale o è naturale e non è diritto, o è diritto e non è naturale; 3) quella logistica, secondo la quale non è logicamente corretta
l’inferenza del dover essere della norma dall’essere dell’uomo” (Diritto naturale: ideale o vigente?, in Quaderni di Iustitia, n. 39, ed. Giuffrè
(Relazioni del Convegno celebrativo del quarantesimo dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, Roma 9-11 dicembre 1988, 6).

3
b. si definisca il diritto stesso;

c. e se ne cerchi il fondamento, il fine e la giustificazione ultima.

4) La ricerca che si deve fare comprende tre livelli:

a. la ricerca logica circa la nozione stessa di diritto (teoria generale del diritto);

b. la ricerca fenomenologica circa il fatto giuridico;

c. la ricerca ontologica circa il fondamento e il senso del diritto, la sua giustificazione e finalità.

In definitiva non basta rispondere alla domanda, perché esista il diritto o come esso sia in concreto ("quid
iuris), ma alla domanda fondamentale ed ultima: quid sit ius, che cosa sia il diritto, quale sia il fondamento e quale il
fine.

5) La filosofia del diritto consiste nella ricerca del diritto nella sua realtà più profonda, ossia attraverso le
cause ultime e nei suoi elementi essenziali: essa è la scienza, mediante la quale si ricerca e si conosce che cosa è il
diritto; le sue proprietà essenziali; quale ne è l'origine, il soggetto e l'oggetto.

6) Anche nella filosofia del diritto, come del resto in ogni altro settore, il filosofo è aperto alla Rivelazione,
mediante la quale la ragione può essere aiutata12.

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12
Può essere interessante richiamare un celebre testo di Platone, nel Fedone 85, c-d: “Su tali questioni a me pare, o Socrate, come forse anche a
te, che avere in questa nostra vita una idea sicura, sia o impossibile o molto difficile; ma d’altra parte non tentare ogni modo per mettere alla prova
quello che se ne dice, e cessare di insistervi prima di avere esaurita ogni indagine da ogni punto di vista, questo, o Socrate, non mi par degno di uno
spirito saldo e sano. Perché insomma, trattandosi di tali argomenti, non c’è che una cosa sola da fare di queste tre: o apprendere da altri dove sia la
soluzione; o trovarla da sé; oppure, se questo non è possibile, accogliere quello dei ragionamenti umani che sia se non altro il migliore e il meno
confutabile, e, lasciandosi trarre su codesto come sopra una zattera, attraversare così a proprio rischio, il mare della vita, salvo che uno non sia in
grado di fare il tragito più sicuramente e meno pericolosamente su più solida barca, affidandosi a una divina rivelazione”.

4
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CAPITOLO I
FILOSOFIA DEL DIRITTO, TEORIA DEL DIRITTO, DOGMATICA GIURIDICA

La filosofia del diritto è un ramo della filosofia, non un ramo della scienza del diritto 13. Ma con ciò non si deve
intendere la filosofia del diritto come una specie del genere “filosofia generale”. La filosofia ha sempre a che fare, in
tutte le sue forme, con i problemi fondamentali dell’esistenza umana, con ciò che Karl Jaspers definisce “il tutto
abbracciante” (das Umgreifende)14. Nella filosofia, detto brevemente, si fa sempre questione del “generale”
(Überhaupt).
A filosofia del diritto non si differenzia, dunque, da altri rami della filosofia perché ne sia un ramo speciale, ma
perché le sue domande, ciò attorno a cui essa riflette, sono questioni e problemi giuridici di principio; li discute in
maniera filosofica e per essi, nel limite del possibile, cerca risposte. Si può dire, forse un o alla buona: nella filosofia del
diritto il giurista fa la domanda e il filosofo dà la risposta. Perciò un valente filosofo del diritto deve essere di casa in
tutte e due discipline, nella scienza del diritto e nella filosofia. La filosofia dei “filosofi puri” o dei “giuristi puri” sono
ugualmente cattive.
Dunque la filosofia del diritto non è scienza del diritto, non è soprattutto dogmatica del diritto. La dogmatica,
secondo Kant, è “il procedimento dogmatico che la ragion pura segue, senza una precedente critica della sua propria
capacità”15. Il dogmatico parte da premesse che accetta come vere, egli pensa ex datis. Il giurista dogmatico non si
domanda cos’è il diritto in genere, né sotto quali condizioni, in che misura e in che maniera è possibile la conoscenza
del diritto. Ciò significa che la dogmatica giuridica argomenta sempre, non acriticamente, ma sempre system-
immanent.IL sistema vigente resta non toccato. Questo comportamento è legittimo nell’ambito della dogmatica
giuridica ma diventa pericolo se la dogmatica respinge il modo non dogmatico (meta dogmatico) di pensare della
filosofia del diritto e della teoria del diritto, come superfluo, come “puramente teorico” o, addirittura, come non
scientifico.
Naturalmente non è che la filosofia, e la filosofia del diritto possano procedere del tutto senza premesse. Ciò si
comprende facilmente grazie a ciò che Pascal, nella Logica di Port Royal (1662), ha indicato come il “metodo più
perfetto” – ma irraggiungibile: non si dovrebbe usare nessun concetto, che non sia stato prima definito univocamente e
non si dovrebbe fare nessuna asserzione senza avere verificato la sua autenticità.
Ma la filosofia – diversamente della dogmatica – deve almeno tentare di porre domande sui problemi
fondamentali e sulle premesse di base delle scienze e dei sistemi: essa deve prendere – in altre parole - nei confronti
d’un sistema una posizione che lo trascenda. Questa posizione non è quella della tabula rasa. Proprio l’ermeneutica più
recente ha dimostrato che il “pregiudizio” o la “precomprensione” è addirittura una condizione della comprensione di
ciò che è o ha senso, dunque ha il suo particolare significato nelle scienze del linguaggio (cf. Gadamer). Ma la filosofia
non si deve fermare a tale assunto preliminare; non c’è niente nella filosofia che possa essere non problematico, ivi
compreso il suo stesso essere. Il filosofo, e il filosofo del diritto, non può accettare nulla come indiscutibile. Perciò la
filosofia procede essenzialmente come le altre scienze. Il rapporto tra filosofia e dogmatica non è di “più o meno”,
“importante o non importante”, ma un rapporto di diversità, dove nessuna può sostituire l’altra.

1. Il campo di ricerca della filosofia del diritto

Filosofia del diritto e dogmatica giuridica hanno diversità di campi di ricerca. Nella teoria della scienza si
intende per oggetto materiale l’oggetto concreto, oggetto del quale si occupa una scienza nella sua totalità; si intende
con oggetto formale, invece, la prospettiva particolare con la quale questa totalità viene indagata (l’oggetto “formale”
spesso si chiama “oggetto della ricerca”). Caratteristico do ogni scienza è il suo oggetto formale, mentre l’oggetto
materiale può essere comune, nella sua identità, anche a più scienze contemporaneamente. Così il “diritto” è il comune
oggetto materi8ale di tutte le discipline giuridiche; la sua “differenza”come diritto civile, diritto canonico, diritto
processuale, diritto penale, etc. sta nelle prospettive particolari e distinte in quanto oggetto formale. La scissione degli
oggetti materiali, che si può vedere nei numerosi oggetti formali (per esempio la criminologia come ramo del diritto
penale, e la criminologia stessa divisa fra più discipline speciali), ha portato ad una progressiva specializzazione delle

13
Cf. Per i capitoli I e III cf. l’opera di KAUFMANN, A., Filosofia do direito, traduzione dell’originale tedesco 1997, ed. Fundação Calouste
Gulbenkian, Lisboa 2004.
14
JASPERS, K., Einführung in die Philosophie, 25. Aufl. 1986, p. 24ss.
15
KANT, Kritik der reinen Vernunft, Ausgabe B, p. xxxv.

7
scienze. Questo processo porta il rischio naturale di una costrizione dello sguardo su “settori specialisti” limitati; i
rapporti, la totalità, i fondamenti sfuggono alla vista. Ecco perché diventa importante la filosofia.
Al contrario delle singole scienze che si orientano verso il singolo fenomeno, la filosofia si caratterizza proprio
per la totalità del suo oggetto formale. Nella filosofia, come sappiamo, non si tratta mai di cose singole, neanche della
molteplicità delle singole cose, ma della totalità, delle connessioni, del fondamento. Questo è uno dei problemi più
difficili della filosofia.
Proprio delle singole scienze è il legame a un oggetto materiale determinato, ad un ente concreto, che esse
esaminano sotto un certo aspetto, quello proprio dell’oggetto formale. Nella filosofia non abbiamo questo tipo di doppio
legame all’oggetto, materiale e formale. Ma ha essa un oggetto? In ogni caso essa non ha un oggetto materiale
determinato, e l’oggetto formale, che è alla sua base, è indefinito: “l’essere in generale”. Questa mancanza di un
determinato oggetto materiale da una parte e l’universalità dell’oggetto formale dall’altra, rendono problematica, in
questo modo, la conoscenza e il metodo filosofico. Sebbene debba valere anche per la filosofia che il suo punto di
partenza è in un singolo dato d’esperienza (per esempio una certa norma del diritto), questo o quel dato particolare non
è mai il suo proprio oggetto, ma sempre solo il mezzo per arrivare a qualcosa che sta prima, a qualcosa che lo trascende.
Perché la filosofia non ha un oggetto materiale determinato, ma un oggetto formale universale, essa è necessariamente
ricerca speculativa. Il filosofo deve comprendere la totalità, ma il suo intelletto è fatto per potersi volgere sempre
solamente al particolare non riusciamo mai ad afferrare immediatamente la totalità dell’essere e del diritto. Dunque la
filosofia non può afferrare mai il suo “oggetto” direttamente e uno actu, bensì deve prendere il suo avvio dal particolare,
con lo sguardo avanti e in considerazione dello scopo di tuta la ricerca filosofica: quello della totalità. Per dirla con
Jaspers: “Nonostante si rivolga alla totalità, la filosofia, come sapere, si realizza di volta in volta solo nel particolare”16.
Nelle scienze particolari, proprio perché l’oggetto è particolare, anche un ricercatore solitario, nel suo studio,
può fare una scoperta scientifica. Nella filosofia una cosa del genere è impossibile. La conoscenza umana può arrivare
al tutto solo in quanto si muova da più parti. Lo scopo della filosofia, perciò, può essere raggiunto solo nel discorso, con
la cooperazione dei moti che fanno filosofia insieme. Per questo la comunicazione, “la comunità per il tramite della
comunicazione”, svolge un ruolo così importante nella filosofia; per essa, l’interazione, l’inter-soggettività, il consenso,
la convergenza sono ben più importante che nelle scienze particolari. Il pluralismo è una condizione per lo sviluppo
della filosofia.
Solo chi comprende la filosofia nella prospettiva della cooperazione di molti attraverso i secoli e i millenni, chi
riesci a vedere la convergenza nelle divergenze, scamperà al relativismo.

2. Il domandare corretto nella filosofia del diritto

Al contrario delle scienze dogmatiche, per la filosofia e per la filosofia del diritto il suo “oggetto” è l’essere
nella sua totalità, vale a dire il diritto. Ma poiché non possiamo appropriarci immediatamente e uno actu di questa
totalità, allora bisogna cominciare dal particolare, da una parte della totalità. Più che iniziare con la domanda cos’è
l’essere nella sua totalità o cos’è il diritto nella sua totalità si deve cominciare di maniera particolareggiata, per esempio
con la domanda sullo scopo del diritto, sul significato del positivismo giuridico, sul rapporto fra diritto e morale o etica
etc. Nessuna filosofia che si voglia scientifica può rinunciare al metodo analitico; ma in verità esso deve essere seguito
anche dalla sintesi.
Ma in che modo vien determinata in filosofia la giusta posizione del problema, il giusto interrogativo? In linea
di principio si può arrivare all’insieme, al tutto movendo da ogni particolare, sempre che si proceda correttamente
(rapporto parte-tutto del “circolo ermeneutico”: la parte non può venire che da una (pre) comprensione del tutto, il tutto
non può essere compreso se non si abbia conseguito conoscenza di ciò che è parte). La questione filosofico-giuridica
può venire fuori tanto con la pena di morte o con la colpevolezza, quanto con l’articolo di qualche codice penale. Una
prescrizione cosi tecnica come quella di “guidare a destra” può essere un punto di partenza per una domanda filosofico-
giuridica sul senso, sulla natura e sul significato della “norma giuridica in generale”.
Il numero delle questioni, ricerche, domande e delle problematiche filosofiche possibili sono illimitati anche se
la filosofia è volta, in fondo, sempre verso lo stesso fine: la totalità dell’essere, la totalità della verità, la totalità del
diritto.
La filosofia, siccome filosofia di un determinato tempo, non ha mai la visione della totalità, ma sempre e solo,
di parti del tutto; ecco perche non può mai trascurare la storia. Dalla storia, dalle concrete situazioni storiche, vengono
continuamente nuovi e differenti compiti per la filosofia. Concretamente: l’accentuazione unilaterale del momento
razionale e ideale nel diritto, la dottrina natural-razionale e ideale dei sec XVII e XVIII, doveva di necessità cedere il
campo alla scuola storica del diritto, ed infine al positivismo giuridico. Il positivismo giuridico del secolo XIX aveva
senz’altro un compito storico: doveva nuovamente mettere a fuoco il momento esistenziale del diritto, la sua positività.
Ma dopo l’enorme abuso che se ne è fatto, fino al positivismo estremo del secolo XX, il nostro compito è ormai quello
di rivolgerci alla ricerca di un “non-disponibile” che ponga limiti all’arbitrio del legislatore ed a quello, nella ricerca del
diritto, della giurisprudenza, senza che esso stia, da qualche parte in un celo dei valori, bensì nella concretezza della vita
giuridica (cf. W. Hassemer).

3. Gli errori dello scientismo, del filosofismo e le mere trasposizioni delle vari filosofie nella filosofia del diritto

16
JASPERS, K., Philosophie, 1. Bd., 3. Aufl 1956, p. 322.

8
Una filosofia del diritto dei “filosofi puri” è un errore non meno che una filosofia del diritto dei “puri giuristi”.
Il filosofo del diritto che abbia un esclusivo orientamento da giurista cade nell’errore dello scientismo, vale a
dire in una sopravalutazione della scienza, nella specie della singola disciplina dogmatica, con un orientamento, e
preferenza unilaterale verso il pensiero scientifico. Egli vorrebbe dare una risposta ai problemi filosofici-giuridici – e
anche alle domande fondamentali del diritto – senza ritornare alla filosofia e spesso senza conoscenze filosofiche.
Questa pretesa molto generalizzata tra i giuristi di pensare che sono competenti in materia di filosofia del
diritto, questo scientismo giuridico, si è mostrato più marcato, all’inizio del secolo XX, con la cosiddetta teoria generale
del diritto, questa “eutanasia della filosofia del diritto” (cf. Radbruch) dove il giurista “specialista” ha preteso di
filosofare e volgere così la filosofia del diritto in una “filosofia dei giuristi”.
L’errore contrario, quello del filosofismo, lo commette il “filosofo del diritto” ispirato e orientato solo
filosoficamente, il quale non si preoccupa dei particolari problemi del diritto, vale a dire delle questioni che la scienza
del diritto pone, qui e adesso, alla filosofia. Il rischio è rispondere a domande che non sono state poste affatto in una
precisa situazione storica e perciò hic et nunc non sono vere e proprie questioni.
Un diffuso errore nei modi di fare dei non-filosofi contro la filosofia è quello di prendere dottrine e formule,
teorie filosofiche e portarle nei propri studi, applicare, vale a dire, la filosofia, quasi che fosse una cura o ricetta. Da
questo derivano i noti orientamenti della filosofia del diritto: tomismo, kantismo, hegelismo, marxismo… Ci si
appropria della dottrina d’un filosofo solo quando si abbia con essa un dialogo attivo, inteso a svolgerla e parteciparla,
solo grazie ad un lavoro filosofico. Una tale appropriazione è tutt’altra cosa da una assunzione solamente estrinseca:
“quel prendere che trasforma ciò che si è acquisito, assorbendolo nel proprio fare, non è un furto” (Jaspers, p. 7).

4. Filosofia del diritto e teoria del diritto

La distinzione tra filosofia del diritto e teoria del diritto è più difficile di fare che non con quella della
dogmatica del diritto. La differenza è molto incerta. Potrà convincere, cum grano salis, che l’una ha più riguardo al
contenuto e l’altra alla forma, ma, ad ogni modo, per il fatto che non si dà contenuto senza forma e forma senza
contenuto non è agevole trovare un criterio di delimitazione. Con la filosofia del diritto la teoria del diritto ha in comune
il fatto che essa non si limita ad un dato diritto vigente (in questo senso lavora anche essa systemtranszendent), ma,
seppure indirettamente, ha di mira, anch’essa, il “diritto giusto”, nel senso, naturalmente, di adeguato; e, oltre a ciò, non
si muove tra i fatti della vita giuridica, come invece fa la sociologia del diritto.
Fondamentalmente la teoria del diritto si distingue della filosofia del diritto solo per questo motivo: si tratta
d’una sorta d’emancipazione dalla filosofia; il giurista vuole dar risposta alle questioni filosofiche del diritto da sé,
venendo ad una “filosofia dei giuristi” (Roellecke). Heidegger notava già che nell’epoca della filosofia greca veniva
fuori un tratto decisivo della filosofia: la preparazione di scienze all’interno dell’orizzonte, che la filosofia apriva (…).
Basti ricordare il costituirsi in maniera autonoma della psicologia, della sociologia, della antropologia etc. (cf.
Heidegger). La stessa cosa vale per la filosofia del diritto. Da essa si sono costituiti ambiti diversi. Kant nei suoi
Fondamenti metafisici della dottrina del diritto ha trattato ancora il diritto delle cose, il diritto matrimoniale, il diritto
della famiglia e altri. Hegel nella Filosofia del diritto ha dei capitoli sulla proprietà, sul contratto, sull’ingiustizia, sulla
colpevolezza, sulla famiglia, etc. Gustav Radbruch ha anche queste capitoli, per esempio sul diritto privato e pubblico,
sul diritto canonico, il diritto matrimoniale, il diritto penale, etc. In fondo tutte le questioni giuridiche possono essere
discusse filosoficamente. Ciò non toglie che il diritto reale, il diritto penale, il diritto canonico, etc., sono diventati, nel
frattempo, discipline autonome.
Nel corso del tempo, per il progressivo complicarsi della scienza, si è fatto sempre più difficile il dominio e lo
sguardo d’insieme, e così, negli ultimi cinque, sei decenni, determinati temi di filosofia del diritto vengono discussi
sotto il nome di “teoria del diritto” – come la teoria delle norme, la teoria della legislazione, la teoria del linguaggio
giuridico, etc. Ma questi problemi fanno ancora parte della filosofia del diritto, perché fino a questo momento non esiste
alcun criterio che rende possibile la delimitazione della teoria del diritto dalla filosofia del diritto. Si può tuttavia porre
un certo punto fermo: nella teoria del diritto l’interesse è orientato prevalentemente verso momenti formali e strutturali,
nella filosofia del diritto, in senso stretto, esso è orientato di più verso i contenuti.

5. Origini della filosofia e della filosofia del diritto

La filosofia, benché nell’idea non sia che philosophia perennis (che è sempre una), sottostà alla legge della
storicità. Jaspers ha dimostrato che esistono tre origini principali della filosofia: la meraviglia; il dubbio; il perdersi e
ritrovarsi della coscienza (Erschutterung). Quindi esistono tre discipline fondamentali della filosofia: l’ontologia; la
teoria della conoscenza; e l’esistenzialismo.

5.1. L’ontologia (il mondo come oggettività)

Ogni filosofia ontologica è rivolta primariamente verso l’essere: verso l’oggetto (anche se non necessariamente
debba trattarsi di una considerazione sostanziale, può trattarsi anche di una ontologia delle strutture e delle relazioni).
Questo modo d’essere nasce della meraviglia per il miracolo di tutti i miracoli: l’essere è e non il nulla. Ciò può essere
riscontrato in Platone, Aristotele, in Tommaso d’Aquino, in Goethe. La meraviglia per l’essere di un mondo che non è

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fatto da noi ci spinge al desiderio di sapere, a porre domande: di ciò mi sorprendo, di non sapere niente. Io voglio
sapere: qual è la ragione per cui l’essere è e non piuttosto il nulla. Questa è la questione dell’ontologia.
L’ontologia è, pertanto, una filosofia che si fonda sulla fiducia verso l’essere, una filosofia che parte da ciò:
l’essere è ed esiste indipendentemente dal nostro pensiero. Non è rivolta verso la coscienza, ma verso l’essere. L’essere
è, principalmente, non disponibile: è a servizio dell’uomo solo nella misura in cui l’uomo osserva le leggi proprie
dell’essere, della natura e nella natura. Si capisce che una tale filosofia segnata dalla fiducia nell’essere e orientata verso
una realtà oggettiva è possibile solo in un’epoca fortemente strutturata, che si basa su fondamenti sicuri e che ha anche e
soprattutto fiducia in se stessa. L’ontologia rappresenta la tendenza del pensiero filosofico dominante nelle grandi
stagioni culturali e spirituali all’apice dell’antichità, con Aristotele, con la più antica scolastica, Tommaso d’Aquino, al
vertice dell’idealismo con Hegel.
Anche una filosofia del diritto oggettivistica prende il suo punto di partenza della meraviglia: stupore perché
l’essere, fin dall’origine, racchiude in sé tensione all’ordine ed alla forma, perché esiste un ordine “naturale” delle cose
e dei rapporti. Perché, laddove gli uomini vivono in comunità, c’è già originariamente anche il diritto (ubi homo, ibi
societas; ubi societas ibi ius). Chi non sia mai stato preso dallo stupore di come e perché la legge della civiltà umana sia
insita nell’essere, non potrà affrontare nel modo giusto il tema del diritto naturale. Come può anche solo porre
l’interrogativo su un diritto giusto e non disponibile, chi consideri il diritto un semplice fatto degli uomini? Una vera
dottrina del diritto naturale è possibile solo laddove il diritto viene compreso come realtà esistente, secondo la sua
natura indipendente dal nostro pensare e volere, dove non viene negato l’essere proprio del diritto. Non ci può essere
nessun’altra ragione valida per il diritto naturale, che l’essere stesso. La dottrina del diritto naturale è sempre ontologia
del diritto, anche se non necessariamente ontologia della sostanza. Perciò i periodi fiorenti del diritto naturale
coincidono con la fioritura dell’ontologia. Il diritto naturale prospera solo sul terreno di una fiducia essenziale
nell’essere. Solo le generazioni che hanno fiducia in se stesse e nel mondo si rivolgono al diritto naturale.

5.2. La teoria della conoscenza (il mondo come soggettività)

Se alla base di tutta la filosofia oggettiva c’è la meraviglia e la fiducia, nella filosofia orientata primariamente
al soggetto, la tendenza fondamentale è la diffidenza e il dubbio. Poiché non è certo che i sensi non ci ingannino, poiché
sbagliamo di continuo nella nostra ansia e ricerca di conoscenze, siccome troppo spesso dobbiamo riconoscere che il
nostro pensiero s’impiglia in contraddizioni insolubili, tutto ciò che noi crediamo di percepire e di riconoscere deve
essere messo in dubbio, perché si possa dimostrare cosa resiste a tale dubbio radicale e cosa possa veramente valere
come certezza. A questa certezza del nostro conoscere, alla “clara et distincta perceptio” mirava Descartes quando
poneva, nelle sue Meditationes de prima philosophia, il principio di mettere in dubbio tutto quello che può essere messo
in dubbio e Kant che nell’Introduzione alla Critica della ragion pura (1787) affermò che si sarebbe dovuto andare oltre
il sapere della vecchia metafisica, per far posto alla fede.
Quando si comincia a filosofare a partire dal dubbio, l’atteggiamento di fronte al mondo diventa un altro. Lo
sguardo non è rivolto alle cose come realmente sono, ma la coscienza, l’essere viene definito come prodotto della
coscienza. L’uomo diventa la misura di tutte le cose come insegnava già Protagora. La filosofia diventa del tutto
soggettivistica, essa diventa filosofia della coscienza. E la domanda filosofica fondamentale è perciò: come posso, a
partire dalla mia coscienza, raggiungere una conoscenza del “mondo esterno”? Vale a dire: come posso aver conoscenza
di qualcosa? Non si tratta più primariamente della cosa, dell’oggetto, dell’essere, bensì della conoscenza, della
coscienza, del metodo. Ora non è l’ontologia la prima filosofia, bensì la teoria della conoscenza. Allora si verifica ciò
che Goethe ha rimproverato alla filosofia di Kant, che la “filosofia non arriva più all’oggetto”. Una tale filosofia che
non comprende più fiduciosamente l’essere, ma resta catturata dall’eterno dubbio, è un segno certo che il vertice di
un’epoca è superato e sono iniziate tendenze dissolventi. “Tutte le epoche in procinto di regredire e di dissolversi sono
soggettive, mentre, al contrario, tutte le epoche in progressione hanno un orientamento oggettivo”, diceva Goethe a
Eckermann (1826). E ancora “Tutto il nostro tempo moderno è regressivo, dunque è soggettivo”.
Quanto è stato detto vale in maniera particolare per la filosofia del diritto. Nel suo principio non c’è la
meraviglia per un ordine predato dell’essere, bensì il dubbio che esista un tale ordine: quindi di primaria importanza non
è più l’interrogativo sul giusto diritto, bensì il problema del “conoscere il diritto” (Rudolf Stammler). Al diritto viene
negato un suo essere autonomo, ed esso è solo un nome, un nome per l’insieme di tutte le leggi, frutto del potere pieno
ed assoluto del legislatore (positivismo). L’idea del diritto naturale non viene più compresa. Così come nelle leggi della
natura si riesce a vedere solamente “la generalizzazione scientifica”, allo stesso modo il diritto naturale viene spiegato
come un mero “prodotto della teoria” (Engisch). Della filosofia del diritto non resta più che una dottrina generale del
diritto. Allora qui si mostrano tendenze dissolventi (Radbruch).

5.3. L’esistenzialismo (il mondo come processo che diviene a se stesso).

A terza via ed origine del filosofare è il sommovimento esistenziale che colpisce l’uomo quando viene messo
di fronte a “situazioni limite” dell’esistenza, situazioni che non può oltrepassare e che non può cambiare, per le quali
egli (o la società, l’intera comunità) apprende il limite della sua esistenza, la non-definitività del mondo che è
quotidianamente oggetto della cura: colpa, malattia, morte, guerra, epidemie etc. Il prendere coscienza della propria
debolezza e impotenza, spinge a una presa di posizione, all’interrogativo sul significato dell’esistenza umana. “Il
bisogno insegna a pensare” (Ernst Bloch). Tutto dipende da come l’uomo si pone in queste situazione limite. Egli può

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chiudere gli occhi e questo sarebbe il modus della inautenticità, della deficienza della esistenza: esistenza di massa.
L’uomo giunge alla esistenza autentica, all’essere, solo quando egli si pone con determinazione nei confronti delle
situazioni limite, quando egli le inserisce sensatamente nei suoi piani e nelle sue azioni e quando egli diventa
completamente se stesso attraverso la metamorfosi della sua autocoscienza. Così interessa la filosofia esistenziale: essa
esorta gli uomini a resistere all’impulso di fuga nell’inautenticità del semplice vegetare, a decidere per le sue possibilità
e così giungere alla realizzazione di se stesso.
Perciò l’esistenzialismo s’incontra prevalentemente là dove e quando un’epoca è in rivolgimento e perciò in
crisi. Essa è la filosofia tipica delle epoche di svolta: anche con altri nome, la si ritrova alla soglia dell’antichità con i
pre-socratici, alla soglia del medioevo con Agostino, alla soglia dell’età moderna con Pascal e nei nostri tempi…
Anche nel ambito del diritto esiste codesto sommovimento (convulsao) esistenziale, il diventare cosciente delle
situazioni limite, l’esperienza dell’inevitabile fallimento del nostro diritto positivo e del suo incessante venire in
questione a fronte dei valori assoluti. Il giurista che chiude gli occhi davanti alla limitatezza, all’imperfezione e alla
inattendibilità del diritto così come esso si rappresenta a noi, diventa ciecamente il suo schiavo, esposto a tutte le sue
fatalità. Questo modo d’essere è caratteristico tanto per il positivista quanto per il giurista del diritto naturale. Il
positivista vede solo legge, egli si chiude di fronte ad ogni momento sopralegislativo del diritto ed è, perciò, come
abbiamo sperimentato nel sec. XX, impotente di fronte a ogni perversione del diritto da parte del potere politico. Il
giusnaturalista tiene in poco conto il diritto positivo, egli punta su norme predate; ma, siccome non può mostrale in
maniera pienamente riconoscibile, il risultato è – come è accaduto nel XVIII secolo, il secolo del “diritto naturale” –
insicurezza del diritto e arbitrio.
Le due teorie dimenticano, e non danno conto del diritto nella sua esistenza: in nessuna delle due il diritto si
ritrova e realizza se stesso.

5.4. La sintesi dei diversi orientamenti: il pensiero di Kaufmann

La suddivisone va intesa come ideale tipica; nessun movimento appare con tale purezza.
La vecchia concezione ontologico-sostanziale del diritto è sbagliata. Il diritto non è un “oggetto”, come alberi e
case. Il diritto è piuttosto la struttura dei rapporti nei quali gli uomini stanno l’uno verso l’altro e verso le cose. Invece di
una ontologia sostanziale va sviluppata una ontologia delle relazioni.
Ma è anche sbagliato eclissare tutto nel soggettivo, e alla fine nel funzionale, e negare del tutto l’ontologico
(ciò che non è disponibile). Da qui il rischio che il diritto appaia essere tutto quanto nella disponibilità del legislatore.
Entrambi i modi d’essere – quello oggettivo e quello soggettivo – sono legati allo schema soggetto-oggetto
(soggetto e oggetto rimangono, nella conoscenza, l’uno distinto dall’altro) anche se, con letture di segno opposto.
Questo schema oggi viene messo in discussione anche nelle scienza naturali, e comunque non è adeguato per le scienze
ermeneutiche e comprendenti. Esso deve far posto ad un pensiero della persona.
Deve essere evitato, tanto l’estremo dell’esistenzialismo nella versione di Jean Paul Sartre, in base al quale
l’uomo dà egli a se stesso la sua morale, quanto anche l’estremo del funzionalismo nel senso di Niklas Luhmann,
secondo il quale il diritto si forma e viene legittimato solamente attraverso la procedura. La persona, e così anche il
diritto, sono, del pari, dati e non dati, sono, in uno, oggettività e soggettività, sono tanto il “cosa” quanto il “come” d’un
processo di formazione. Attraverso tale processo diritto e persona raggiungono la loro forma esistenziale concreta,
senza che siano, tuttavia, esclusivamente il prodotto di questo processo. Questa è, in forma breve, l’idea di una teoria
della giustizia procedurale, fondata oggettivamente (ma, perciò, anche fondata sulla persona).

6. Il compito della filosofia e della filosofia del diritto oggi

Noi viviamo in un tempo di “transizione e di rivolgimenti. Si parla di “mutamento di paradigma”, dell’era


“post moderna”. Il malessere che ha preso il moderno e l’illuminismo con il trionfo della ragione ha dato così grande
forza d’attrazione al post-moderno come una specie di ritorno dell’irrazionale. La “costrizione al compimento del
moderno”, la “ragione totalizzante”, il “perenne illuminismo”, hanno orientato tutto ad un mero sapere per il dominio e
l’utilità, proprio per questo la filosofia s’è dimostrata incapace di dare delle risposte agli interrogativi che sono
veramente importanti per gli uomini (Peter Koslowski). E come si può spiegare questo fallimento?
La storia ci insegna che sul compito della filosofia del diritto sono state sempre prospettate idee che stanno
l’una contro l’altra. Una tendenza assegna alla filosofia il compito di dare delle risposte assolute, generalmente valide e
immutabili sul mondo, sugli uomini, sul diritto (diritto naturale), ma ogni volta questi sforzi sono falliti.
Da questo esito vieni fuori un’altra tendenza. Essa rinuncia, per la “purezza” del filosofare, ad ogni contenuto,
in maniera particolare ai valori (per esempio Max Weber: “neutralità della scienza rispetto ai valori”; Hans Kelsen:
“dottrina pura del diritto”) e si volge solo verso le forme dell’essere, del pensiero, del diritto. È questa purezza che molti
ritengono il criterio determinante della razionalità; perciò rifiutano tutto il filosofare contenutistico come irrazionale e
quindi non scientifico. Ma proprio questa razionalità ridotta ad una purezza formale deve sopportare il rimprovero di
non aver alcuna risposta alle domande che hanno importanza.
Non si può avere entrambe: purezza formale e forza espressiva per la significatività del contenuto. Gustava
Radbruch fu il primo che dopo un secolo di generale dottrina formalistica del diritto cominciò a filosofare sui contenuti
del diritto. Quando nella filosofia si veniva richiesto il ritorno alle “cose stesse” (Husserl), a filosofia del diritto si è

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rivolta nuovamente alla “cosa-diritto” (Radbruch). Con Radbruch si avvia un nuovo capitolo della filosofia del diritto:
una filosofia del diritto al di là del diritto naturale e del positivismo.
Per questa apertura della sua filosofia del diritto ai contenuti, Radbruch a dovuto pagare un prezzo, che fu il
relativismo fiolosofico-giuridico o teoretico del valore. Lui riteneva limitato il numero dei possibili valori supremi del
diritto, ma impossibile una risposta scientifica alla domanda sul solo valore esatto. Dietro a questo relativismo stava
l’etica della libertà, della tolleranza, della democrazia. Con il tradimento di questa etica nella dittatura (Hitler), anche il
relativismo nella filosofia del diritto è stato abbandonato; su quali dovessero essere i contenuti dello diritto è stato
deciso autoritariamente (è diritto quello che dice l’autorità). Ma questo non significa che si debba abbandonare le idee
di una filosofia del diritto “materiale”. Radbruch si è arreso troppo presto. Poiché egli ritenne di non poter venire ad una
verifica chiara dei supremi valori del diritto – valori individuali, valori collettivi, valori del lavoro – rinunciò, fin dal
principio, alla “comunicazione” con tutti coloro che non erano convinti da questi contenuti.
In questo assunto c’è un ‘”abbreviazione della filosofia”. Lui riteneva che solo una conoscenza chiara e “pura”
fosse conoscenza (infatti lui era kantiano e riteneva che potesse esser data una sola risposta scientificamente corretta a
ciascuna questione!), ma, a prescindere da ciò, l’intero processo della conoscenza filosofica è, per Radbruch, impresa
del tutto individuale. E questo fu il suo errore. La conoscenza filosofica richiede però uno sforzo cooperativo; il
compimento della filosofia si verifica nell’azione, nella comunicazione filosofica con altri filosofi. Già nella accademia
ateniese fondata da Platone il filosofare è filosofare con altri filosofi. Jurgen Habermas, Karl-Otto Apel parlano, nella
teoria moderna del discorso, che la verità, la giustezza/adeguatezza può essere trovata solo cooperativamente;
certamente l’intento è venire, attraverso il discorso, ad un “fondamento ultimo” e non quello di tornare a cadere in un
obiettivismo di tipo prekantiano, antirelativista ed antipluralista (come è stato per il diritto naturale e per il diritto
positivo).
Il pensiero autoritario rende impossibile fin dal principio una comunicazione. Il relativismo rinuncia troppo
presto al discorso comunicativo, dal momento che non esiste dapprima nessuna concordanza riguardo ai contenuti.
Perciò nessuna delle due vie coglie il compito del filosofare, realizzare, volta per volta, nel corso della comunicazione,
una “comunità attraverso la comunicazione”. Certamente tale comunicazione non è semplicemente fine a se stessa. Lo
scopo del discorso filosofico è il raggiungimento di un consenso tra i soggetti e, in questo senso, della verità. Ma ciò
non va inteso come se un fallimento del consenso possa equivalere al fallimento della comunicazione, piuttosto la
comunicazione può significare comprensione e accettazione reciproca, proprio anche a riguardo di interrogativi che
debbono restare senza risposta. Questa è una conseguenza del Principio della tolleranza.
Che gli uomini comunichino reciprocamente, liberi da costrizioni e da violenze, sugli interrogativi che
“contano” e trovino, in questo modo, la loro realizzazione. Il “post-moderno” è un ammonimento: non dobbiamo
portare all’estremo la razionalità tecnica e dimenticare perciò l’uomo e le sue domande fondamentali.

CAPITOLO II
ALCUNE NOZIONI DI GIUSTIZIA E DI DIRITTO

I. Nozione di diritto

1. Passando sopra alla etimologia della parola "diritto", sia nella lingua latina che in quella greca, e alla
definizione nominale, sia presso Aristotele che San Tommaso17, ci soffermiamo sulla definizione reale.

2. La parola "diritto" ha fondamentalmente tre significati18:

(1) "Ciò che è mio"; "ciò che è dovuto"; "Ciò che è giusto", ossia che è conforme alla giustizia19.

(2) Diritto è il diritto soggettivo o pretesa, definito come la facoltà o potestà morale (in opposizione a “fisica”)
di ottenere, possedere, fare, agire, esigere o omettere, o di obbligare qualcuno a fare o ad agire, o ad omettere qualche
cosa20.

17
cf. R. Pizzorni, Filosofia del diritto, p. 20s.
18
cf. R. Pizzorni, Filosofia del diritto, pp. 22-35.
19
La nozione di diritto come cosa (“res”) dà origine al “realismo giuridico”. E’ la mentalità particolarmente di San Tommaso, per il quale le
parole e i nomi raggiungono le cose e non sono solo “nomi” (nominalismo). Cf. J. Schouppe, Lé realisme juridique, Bruxelles, 1987: per l’autore,
padre del realismo giuridico è lo stesso Aristotele; tale è anche la concezione del diritto romano, come pure di San Tommaso. Il passaggio alla
concezione del diritto come “facultas”, ossia diritto soggettivo, sarebbe avvenuto con lo spostamento all’aspetto giudiziario; il primo a parlare di
diritto nel senso soggettivo sembra essere stato G. di Occam. Oggi la concezione oggettiva, realista sembra essere in ripresa, specialmente attraverso
Hervada (p. 179s).
20
La definizione latina suona: “Facultas moralis inviolabilis aliquid agendi, exigendi, omittendi”. E’ detto “soggettivo, non perché è qualche
cosa di soggettivistico, senza fondamento nella realtà, ma in quanto è un potere del soggetto. Elemento essenziale è il rapporto tra soggetto e oggetto.
L’oggetto è legato moralmente alla persona, così che questa ne può disporre. Si tratta di una facoltà morale, in opposizione al potere fisico: il diritto
non nasce dalla forza; esso si fonda sull’ordine morale. Si tratta di una facoltà “inviolabile”, per il suo nesso con la persona. Ognuno deve rispettarlo e
non può essere violato. Ragione della inviolabilità è la inviolabilità della persona e della sua dignità. Il diritto è come un prolungamento della persona

12
(3) Diritto è la norma che stabilisce ciò che è giusto, ciò che è conforme alla giustizia, ciò che è dovuto a
ciascuno: è la legge in senso ampio (non necessariamente la legge in senso formale e rigoroso). Questa può essere sia
divina che umana, a seconda che l'autore è Dio stesso o l'uomo. Nel primo caso, si parla di una legge divina naturale o
positiva, a seconda che viene promulgata da Dio con la creazione o con la Rivelazione successiva, in particolare nel
Figlio suo Gesù Cristo, compimento e pienezza della rivelazione; nel secondo caso si parla di legge umana positiva,
civile o ecclesiastica, a seconda che abbia come autore umano lo stato o la chiesa.

3. La legge divina naturale promulgata con la stessa creazione non è altro che la partecipazione al piano eterno
di Dio, che è stato attuato precisamente nell' atto creativo: tale piano eterno è precisamente la "lex aeterna", definita da
Agostino come "la ragione o la volontà di Dio che comanda di conservare l' ordine naturale e proibisce di perturbarlo” 21.
Essa viene conosciuta attraverso la ragione umana, "recta ratio", data da Dio all'uomo, per conoscere la sua volontà.

4. Il diritto naturale è per natura sua universale ed immutabile; quello positivo invece mutevole secondo le
circostanze storiche e i tempi. In questa visione pertanto il diritto è insieme immutabile e mutabile, come è l'uomo
stesso insieme immutabile e mutabile. Anzi la mutabilità non si può spiegare se non in relazione alla immutabilità: non
potrebbe esservi un soggetto che muta, se non esistesse un soggetto che sempre permane nel tempo e al di là del
tempo22.

5. Esiste una stretta relazione tra i tre significati di "diritto". Il primo è il significato detto oggettivo: ed è il
significato proprio di diritto. Il secondo è sconosciuto agli antichi: propriamente la facoltà morale di agire o non agire,
non è diritto, ma una conseguenza del diritto in senso oggettivo. Il terzo significato è diritto in senso analogico, in
quanto la legge è la "regula iuris", è la causa che costituisce il diritto in senso oggettivo, sia essa la stessa natura umana
o la volontà positiva, divina o umana23.

6. La nozione di diritto soggettivo è piuttosto recente; vede il diritto in una dimensione piuttosto soggettiva e
processualistica. E’ la garanzia del diritto in senso oggettivo. Essa era comunque sconosciuta agli antichi, in particolare
a San Tommaso, il quale definisce il diritto prima di tutto in senso oggettivo, ma intendendo per diritto oggettivo: la res
stessa (ius è lo stesso che il suum, la res debita, ciò che è giusto: “ius sive iustum”). San Tommaso si muove in una
concezione "realista" del diritto. Esso è regolato dalla giustizia: caratteristiche essenziali sono l’oggettività e l’eticità
del diritto. In questa prospettiva non c'è spazio per il diritto come facoltà, in quanto la facoltà di potere esigere non è il
diritto, ma una derivazione o esigenza del diritto inteso come cosa giusta. La cosa è giusta poi a seconda che essa venga
dalla stessa natura umana o dalla volontà umana positiva. La norma non è il diritto, ma la regola del diritto (la
norma=regula iuris). La regola pertanto è essenziale all’esperienza giuridica; ma non è la regola in sè che rende giusto
propriamente il rapporto giuridico. La regola per essere giusta deve rispondere ai criteri oggettivi del rapporto 24. Non è
la virtù della giustizia che stabilisce ciò che è giusto; questa si qualifica per il fatto che adempie ciò che è giusto.

7. Il diritto è essenzialmente relazione. Il diritto è una proprietà dell’uomo in quanto uomo, cioè “essere
intermedio tra gli animali e gli dei”25. A differenza degli animali, l’uomo non è regolato da leggi fisiche, ma di libertà;
stessa. Tale diritto può essere anche rivendicato con la forza., ma il diritto non è forza.
21
"Ratio et voluntas Dei ordinem naturalem conservari iubens, perturbari vetans", Contra Faustum, XXII, c. 27; PL, XLII, 418.
22
cf. O. Robleda, L'assoluto e il contingente nel diritto e l'esperienza romana, in Diritto e potere nella storia europea, Atti del quarto congresso
internazionale della Società italiana di Storia del diritto, Ed. Leo S. Olschki, Firenze, 1982, pp. 125-137; cf. anche O. Robleda, La costante evoluzione
dell'antico sistema giuridico romano: principi invocati per legittimare le diverse fasi evolutive, in Ortodossia e revisionismo, Università Gregoriana
editrice, 1974, pp.11-57.
23
A livello terminologico non è facile trovare un linguaggio comune tra gli studiosi. Alcuni infatti qualificano il diritto oggettivo non quello
inteso come “res iusta”, ma quello che risulta dall’insieme di norme. Noi prferiamo parlare rispettivamente di diritto oggettivo (“quod iustum est”) di
diritto soggettivo (facultas) e di diritto normativo (l’insieme di norme).

24
Scrive F. D’Agostino: “Affermare il carattere associativo del diritto significa sottolineare il carattere regolato dell’esperienza giuridica: non ci
deve pertanto meravigliare che il riferimento alla regola sia sempre stato tradizionalmente ritenuto essenziale per individuare lo specifico
dell’esperienza giuridica (al punto che in alcune esperienze linguistiche legge e diritto vengono di fatto usati come sinonimi). Nel diritto però -si tenga
sempre ben presente- è la regola ad essere funzionale al rapporto e non viceversa (questo e non altro, del resto, significa la giustizia: una regola è
giusta, quando regolamenta il rapporto secondo le esigenze obiettive di questo). La regola, in altre parole, esiste non per gratificare la volontà
normativa di chi la pone (o, peggio, suoi inconfessabili interessi privati), ma per garantire che il rapporto tra soggetti possa essere autenticamente
relazionale, possa essere autenticamente pacificante e associativo, cioè propriamente giuridico; come mostra il fatto che i soggetti, quando agiscono
giuridicamente, agiscono col fine di garantire reciprocamente se stessi e i loro interessi, e non certo per mero desiderio di mostrarsi ossequiosi alle
prescrizioni delle norme” (Filosofia del diritto, p. 13s). Conseguentemente la norma non può essere altro che un comando razionale, così che “il
carattere generalissimo della razionalità è assolutamente irrinunciabile, pena l’inversione del senso stesso del plesso che unisce i soggetti
giuridicamente relazionati alla norma che regola i loro rapporti. Quando una norma è in grado di dare un senso a un rapporto intersoggettivo, ciò
significa che la norma possiede una sua intrinseca ratio e che quindi è ben ragionevole il comportamento degli individui che, agendo, adottano la
norma a criterio guida del loro rapporto; su di una norma dotata di senso ben si può costruire un rapporto che sia, a sua volta, sensato. Ma se una
norma giuridica fosse costitutivamente priva di senso, perché mai i soggetti dovrebbero relazionarsi reciprocamente additandola come principio e
modello della loro relazione? Qualora lo facessero, la spiegazione non potrebbe che essere una sola: il loro essere costretti dalla volontà (non dalla
ragione!) del legislatore” (Id. p. 15s).
25
F. D’Agostino, filosofia del diritto, p. 9.

13
questa tuttavia non è assoluta, ma legata al rispetto del suo stesso essere. Il diritto non consiste pertanto nella forza, ma
trae la sua forza dalla stessa dignità dell’uomo e dal rispetto di essa. “Le azioni che fomentano l’aggressività, la
violenza, l’odio, pur essendo strutturalmente proprie dell’essere dell’uomo, ne rendono invivibile l’esistenza. Quelle
invece che potenziano la collaborazione, l’amicizia e comunque i legami intersoggettivi, sono invece coerenti con la
vivibilità dell’esistenza e consequenzialmente tali da strutturarsi in vere e proprie forme coesistenziali, tutte rivolte ad
un unico fine, quello appunto di garantire che l’essere-con-gli-altri si sviluppi in un essere-per-gli-altri, anziché
degradarsi in un (sempre incombente) essere-contro-gli-altri. Sotto questo profilo diviene chiara la radice ontologica di
ogni “dovere” e di quello giuridico in particolare... Come attività pratica, il diritto ci appare perciò come doveroso e
pacificante, doveroso perché pacificante. Questo carattere è proprio del diritto e ci impedisce di riconoscere come
giuridico qualunque sistema normativo che anziché la pace fomenti o istituzionalizzi la violenza nelle diverse forme
storiche, in cui la violenza si può manifestare”26. Rispetto ad altre forme che perseguono lo stesso scopo (amicizia,
liberalità, ecc.), il diritto ha un modo proprio, con cui si fa strumento di pace. “Come forma associativa, il diritto crea tra
gli uomini vincoli che superano l’affettività interpersonale. Nel rapporto giuridico non mi relaziono all’altro come al
mio <amico> o come al mio <prossimo>, sul fondamento cioè di una intenzionalità affettiva, che può essere chiusa,
come quella di timbro amicale (tale cioè da escludere la necessità della presenza di terzi per la costituzione del rapporto)
o aperta, come quella filantropica-agapica (che necessita invece il superamento della dualità del rapporto, data la sua
carica -almeno potenzialmente- universale, cioè onni-includente), ma semplicemente come socius (nel senso
generalissimo che si può dare alla dimensione della societas), come cioè a colui col quale sono legato dall’oggettività di
una legge comune di coesistenza, prima ancora che dalla mia buona volontà”27.

8. J. Finnis28 riassume come segue i diversi significati semantici della parola diritto. Egli dopo aver ricordato
che la parola diritto può essere riconducibile, secondo alcuni autori, ad una delle seguenti quattro: “(a) diritto-pretesa;
(b) libertà; (c) potere; (d) immunità, annota che affermare un diritto significa “affermare una relazione a tre termini; tra
una persona, un certo tipo di atto ed un’altra persona”. Tuttavia annota che questo schema non sembra apparire
esaustivo del significato di diritto. Di fatto i giuristi a volte parlano dei diritti “non come relazioni a tre termini, fra due
persone ed un atto di un certo tipo, ma come relazioni a due termini tra persone ed un oggetto o (in senso lato) ad una
cosa”.
Ciò premesso, egli è del parere che “la domanda fondamentale è: “esiste una spiegazione generale di che cosa
significa avere un diritto?”.
Egli rileva due tendenze, le quali considerano il diritto rispettivamente come : 1) beneficio o privilegio in forza
di legge; 2) scelta.
Per dare una sua risposta egli ripercorre il cammino della storia, ossia il significato di “diritto” nel corso della
storia.

Per san Tommaso d’Aquino, il significato primario di diritto è “res iusta”. Altri significati sono derivati:
“l’arte con la quale il giusto si conosce o si determina (e il principio e la regola di quest’arte, egli aggiunge, è la legge”;
“il luogo in cui si rende giustizia” (i tribunali); “infine, la sentenza data dal giudice che ha l’ufficio di rendere giustizia,
anche se quanto egli decide è un’iniquità”29.
F. Suarez introduce una grande innovazione: il diritto “è un potere morale (facultas) che ogni uomo ha o su ciò
che è suo o riguardo ciò che è dovuto”30. Suarez dimentica del tutto il significato principale di Tommaso.
Grozio parte dal significato di “ciò che è giusto” di Tommaso; ma poi precisando ciò che è giusto lo identifica
con la qualità della persona e considera il diritto come facultas. Questa poi avrebbe tre significati: potere su se stessi
(libertas), o su altri (patria potestas), sulle cose (dominium) credito, a cui corrisponde il debitum. Anche Grozio si
trova sostanzialmente dal lato di Suarez: “Jus è essenzialmente qualcosa che qualcuno ha, e soprattutto (o almeno
paradigmaticamente) un potere o libertà. Se si preferisce, è il significato principale di Jus dell’aquinate, ma trasformato
riferendolo esclusivamente al beneficiario della relazione giusta, innazitutto a ciò che egli fa e possiede. Questo
mutamento di prospettiva poté essere così drastico da trasportare il titolare del diritto, e il suo diritto, completamente al
di fuori dalla relazione giuridica fissata dalla legge (morale o positiva) e che fonda Jus nel senso dell’Aquinate: “ciò che
è giusto”31.

-Hobbes separa e contrappone diritto e legge: “Jus e lex, diritto e legge... debbono essere distinti, perché il
Diritto consiste nella libertà di fare o di astenersi dal fare, mentre la legge determina e vincola a una delle due cose;
cosicché la legge e il diritto differiscono come l’obbligo e la libertà che sono incompatibili in una sola e medesima
materia”32.
26
F. D’Agostino, Filosofia del diritto, p. 10.
27
F. D’Agostino, Filosofia del diritto, p. 11.
28
J. Finnis M. , Legge naturale e diritti naturali (a cura di F. Viola), G. Giappichelli Editore, cap. VIII, Diritti, pp. 215-250.
29
Cf. S.T:, q. 57, a,lc, ad 1 e ad 2.
30
De Legibus, I, II, 5.
31
De Jure belli ac pacis, I, I, III..
32
Leviatano, cap. XIV, traduzione italiana del 1976, p. 124.

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Finnis, a conclusione di questo cammino, osserva: “Spinto fino al limite estremo di Hobbes, questo contrasto
con la legge priva virtualmente la nozione di diritti di tutto il suo significato normativo. Hobbes voleva dire che un
uomo ha più diritti quando si trova nello <<stato di natura>>, cioè in un vuoto di legge e obbligo, poiché <<in una tale
condizione ogni uomono ha diritto ad ogni cosa, anche al corpo di un altro uomo>>. Ma noi potremmo dire, e a maggior
ragione, che in uguale stato di cose, in cui non vi è alcun dovere di non prendere tutto ciò che si vuole, non vi è alcun
diritto. E il fatto che noi potremmo ben affermare ciò dimostra che il comune idioma moderno dei “diritti” non segue
Hobbes lungo tutto il suo cammino che porta al contrasto tra legge e diritti. Né lo fecero Locke e Pufendorf, anche se
essi adottarono il suo presupposto per cui un “diritto” (jus) è paradigmaticamente una libertà. I loro successori sono
coloro che oggi difendono la teoria dei diritti basata sulla scelta”, teoria che, come abbiamo visto nel paragrafo
precedente, rappresenta un possibile modo di spiegare in gran parte, non in toto, la moderna grammatica dei diritti. Ma
anche chi difende la teoria dei diritti basata sul “beneficio” è lontano dall’usare l’idioma dell’Aquinate, perché (in
comune con chi parla il linguaggio ordinario e con i giuristi di tutte le moderne aree linguistiche) pensa a “un diritto”
come a qualcosa di vantaggioso che una persona ha (nella terminologia di Grotius, una “qualità morale” (nel senso
anche di giuridica) e non come a “ciò che è giusto in una data situazione”, non come all’insieme delle relazioni
giuridiche stabilite normativamente tra due o più persone in riferimento a qualche oggetto (atto, cosa o rapporto”33.
Finnis osserva che non è il caso di fare una battaglia di parole e di tornare indietro nel tempo. Egli afferma: “E’
utile tenere a mente che la moderna enfasi sui poteri del titolare del diritto, e la conseguente sistematica biforcazione tra
“diritto” (ivi inclusa la libertà) e dovere, sono qualcosa di cui i giuristi raffinati erano in grado di fare a meno durante
tutta l’esistenza del classico diritto romano”34. Di fatto, “Nel pensiero giuridico romano, “jus” frequentemente indica
assegnazioni fatte alle parti secondo giustizia in base alla legge; e la parte di una parte in tale tipo di assegnazione
potrebbe essere un peso, non un beneficio -né tanto meno un potere o una libertà di scelta” 35. In questa prospettiva il
diritto romano assomiglia ad alcuni diritti primitivi di oggi, dove la stessa parola significa le due cose: diritto e dovere
insieme, indica ciò che è dovuto. Ma “ciò che è dovuto si volge in entrambe le direzioni di una relazione giuridica, sia
verso ciò che è dovuto da qualcuno, sia verso ciò che è dovuto a qualcuno”36.
Pertanto non è il caso di fare un problema di modificare il linguaggio, o di discutere se il diritto precede il
dovere o viceversa. “Ma quando si tratta di spiegare le esigenze della giustizia, cosa che facciamo riferendoci ai bisogni
del bene comune nei suoi vari livelli, allora troviamo che esiste una ragione per ritenere che i concetti di dovere,
obbligo o esigenza possiedono un ruolo esplicativo e strategico superiore del concetto di diritti. Quest’ultimo, tuttavia,
non ha minore importanza o dignità; poiché il bene comune è precisamente il bene degli individui il cui beneficio,
derivante dall’adempimento del dovere da parte di altri, costituisce un diritto, perché richiesto a quegli altri secondo
giustizia”37. Anzi oggi con l’affermazione dei diritti umani, divenuti sinonimi con diritti naturali o morali, “la
grammatica dei diritti costituisce un modo per esprimere virtualmente tutte le esigenze della ragionevolezza pratica” 38.
“Si constaterà, infatti, che la logica rintracciabile negli usi giuridici dell’espressione “un diritto” e di quelle affini sarà
largamente applicabile alla comprensione del linguaggio “morale” dei diritti; dei diritti morali particolari o concreti... si
può dire che sono “umani” o “naturali”, ma è più usuale parlare di essi in termini di diritti “morali”, derivati,
naturalmente, dalle forme generali della moralità, cioè dai diritti umani: la distinzione così tracciata in base all’uso non
è comunque molto stabile o chiara39.

II. Diritto e giustizia40

1. Il punto di partenza del fenomeno giuridico

Le cose sono ripartite. Il punto di partenza è il fatto che le cose sono attribuite a soggetti diversi. La giustizia è
un atto secondo; segue il diritto e pertanto presuppone la preesistenza del diritto. Non va dimenticato però che le cose
stanno o possono stare in possesso di altri.

2. La definizione di giustizia.

La giustizia viene definita così da Ulpiano: "Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum unicuique
tribuere" (Dig., I, I, 10). Si tratta di una disposizione interiore profonda (virtù) con la quale riconosciamo, nelle
relazioni interpersonali, l’altro come persona, uguale in dignità e inviolabile nei suoi diritti. Fondamento della giustizia
è precisamente la dignità della persona. La giustizia afferma l’autonomia (singolarità) e la distinzione originale (alterità)
della persona. Il suo campo è la vita sociale. Essa si fonda sull’eminente dignità della persona umana, propria e altrui.
Propria, in quanto l’uomo se vuole vivere secondo la sua dignità, deve rispettare l’altro; l’ingiustizia è un’offesa
33
Finnis, Legge naturale, p. 225-226.
34
Id. p. 226.
35
Id. p. 227.
36
Ib.
37
Id. p. 227-228.
38
Id. p. 215
39
Id. p. 216.
40
Per le note che seguono ci rifacciamo particolarmente a J. Hervada, Introduzione al diritto naturale, pp. 10-191.

15
anzitutto alla propria dignità. Ma è un’offesa anche alla dignità dell’altro, in quanto chi non rispetta i diritti altrui non
riconosce la dignità e la inviolabilità della persona.

(1) dare (“tribuere”): non indica un imperativo, ma un atto. La giustizia non fonda o crea il dovere di dare, ma
lo adempie. Il fondamento del dovere è previo alla giustizia.

(2) a ciascuno: la g. termina a tutte e a ciascuna persona; la g. non fa distinzione di persone e stabilisce il
principio di non discriminazione; ma non significa dare a tutti la stessa cosa.

(3) ciò che è suo: si tratta di cose non necessariamente materiali; di cose esterne, nel senso che possono venire
in relazione con altre persone; cosa= qualsiasi diritto del soggetto. Questo diritto che si suppone già patrimonio
giuridico del soggetto, in base ad altra fonte, come la legge naturale o positiva, viene adempiuto in forza della virtù
della giustizia.

3. Ciò che è giusto

E’ giusto ciò che è mio, il mio diritto; è giusto ciò che risponde al mio: il giusto come uguaglianza. Tre
possono essere i tipi di uguaglianza: identità; equivalenza; proporzionalità.

4. Il titolo, il fondamento e la misura di ciò che è giusto.

(1) “Il titolo è ciò in cui ha origine il diritto, ciò da cui nasce, la fonte del dominio del soggetto sulla cosa. In
altre parole, il titolo è ciò che attribuisce la cosa al soggetto, ciò che fa sì che la cosa sia sua”41.

(2) “Il fondamento è ciò che fa sì che un soggetto possa essere soggetto di un diritto o di determinati diritti. Il
fondamento abilita ad essere titolare di un diritto, ma non lo concede” 42. Ogni diritto si fonda in ultima analisi sulla
persona; possono esserci però altri fondamenti più prossimi, come la cittadinanza, o la figliolanza, ecc.

(3) “Per misura del diritto intendiamo la sua caratterizzazione ed delimitazione intrinseca ed estrinseca” 43. La
misura del diritto comprende tutto ciò che va dalla sua configurazione intrinseca fino all’insieme della sua regolazione.
La delimitazione deriva dalla cosa stessa (materiale e immateriale): quantità, qualità, valore, natura, ecc.; dal modo
della titolarità: proprietà, affitto, uso, ecc.; dalle facoltà giuridiche, ecc.

5. La relazione di giustizia

E’ la relazione esistente tra due o più soggetti a motivo di rispettivi diritti. Essa implica: uguaglianza, alterità,
relazione.

(1) La relazione di giustizia esige che due soggetti siano uguali: solo così è possibile che il debito sia
soddisfatto.
Si notino però i diversi significati di uguaglianza: a) uguaglianza tra il dovuto e il dato (tra le cose); b)
uguaglianza tra i soggetti della relazione giuridica (tra le persone); c) uguaglianza nel modo di trattare le persone, senza
discriminazione (nel modo di riconoscere un diritto).

(2) Alterità, ossia intersoggettività: due o più soggetti si pongono in relazione diversa e complementare. La
giustizia si rivolge all’altro, in quanto altro, ossia distinto proprio in riferimento al “diritto”.

(3) La relazione comprende: soggetti, vincolo giuridico, contenuto o situazioni giuridiche (diritti soggettivi,
doveri, facoltà, poteri, ecc. che la relazione comporta). Ciò che mette in relazione i soggetti è il diritto, la cosa giusta.
Essendo compito della giustizia rispettare il diritto, dare a ciascuno ciò che gli è dovuto, essa esiste solo là dove c’è un
diritto.

6. Tipi fondamentali di relazione di giustizia

(1) Il dovuto tra persone (giustizia commutativa): uguaglianza di identità o di valore o di qualità
(uguaglianza aritmetica; tra cose).

(2) Ciò che la collettività deve all' individuo (giustizia distributiva)

41
Hervada, introduzione, p. 37.
42
Id., p. 38.
43
Id., p. 39.

16
La misura di ciò che è giusto: dare a ciascuno secondo la sua condizione, le sue capacità, il suo apporto alla
società e le sue necessità.

(3) Ciò che l' individuo deve alla collettività (giustizia legale).

7. Il fondamento del diritto

(1) La persona, fondamento del diritto: è un soggetto razionale capace di disporre di sé, non in qualche modo,
ma nel rispetto della propria dignità, per realizzarsi come persona.

(2) Il diritto sistema razionale delle relazioni umane.

(3) La persona ha la caratteristica della libertà.

III. Diritto-legge44

1. Nozione di legge

La legge, sia naturale che positiva, non è propriamente “il diritto”, ma misura del diritto: "regula et mensura
iuris".

San Tommaso definisce la legge a partire dalla quattro cause aristoteliche45. La legge "non è altro che un
ordinamento della ragione verso il bene comune, promulgato da colui che ha la cura della comunità" 46.

La causa formale della legge sta nel fatto che essa è “ordinatio quaedam rationis”. San Tommaso non intende certo
escludere il ruolo della volontà, ma vuole affermare che la formalità propria della legge è data dalla ragione pratica e non
dalla volontà, in quanto quest'ultima non può fungere di per sé da regola e misura.

La causa finale sta nel fatto che la legge è in vista del bene comune. La legge riguarda il fine ultimo, al quale siamo
protesi. In tal modo viene esclusa una concezione puramente formalistica o vuota della legge, in cui la ragione sarebbe
principio assoluto e creativo della legge: la legge stessa è principio partecipato, sottostà al bene da perseguire come fine,
“principium primum in agendis”. Una comunità si dà delle leggi per realizzare il suo fine, ossia il suo bene.

La causa efficiente è il legislatore. Si pone il rapporto tra la razionalità e la legge: "Certamente si può dire che ogni
essere razionale è "legge a se stesso" (Cf. Rm 2, 14), ma questo può essere inteso in duplice senso: che la ragione di
ciascuno sia principio regolante assoluto, o che ognuno, in forza della sua ragione, partecipi, come principio regolato,
all'ordine stabilito dal legislatore. Giacché la nozione di legge non si definisce solo in base alla razionalità formale, ma anche
in base all'ordinazione al bene comune, si esclude la prima interpretazione: ciascuno è legge a se stesso partecipative, sicut
in regulato"47.

La causa materiale è la promulgazione della legge: "una regola o misura fisica deve essere posta in contatto
(applicatur) con la cosa materiale per poterla regolare o misurare; così il precetto della legge deve essere posto in un
contatto di ordine spirituale con gli uomini che devono regolarsi in base ad essa, e questo contatto consiste nella conoscenza
(notitia) del precetto medesimo".

L'effetto, che propriamente non entra nella definizione della legge, consiste nel rendere buono, ossia virtuoso
l'uomo. La virtù consiste nella sottomissione al dettame della ragione: "La virtù del suddito consiste nel ben sottostare a
colui dal quale si è governati: come vediamo che la virtù dell'irascibile e del concupiscibile consiste nell'essere ben ordinati
alla ragione" (I-II, q. 92, a. 1,c). La virtù del legislatore a sua volontà consiste nel sottostare alla razionalità della legge stessa
("ordinatio rationis").

San Tommaso quando passa alle specificazioni della legge, distingue diverse specie: legge eterna, naturale, umana,
divina, Vecchio testamento, nuovo Testamento, del peccato, ecc.. La nozione di legge è dunque predicata sia di Dio che
degli uomini: è dunque un concetto analogo, in quanto "è impossibile che alcuna cosa si predichi di Dio e delle creature
univocamente" (I, q. 13, a. 5,c). San Tommaso esamina pertanto gli elementi essenziali della legge, che si realizzano in

44
Per l’approfondimento delle note seguenti, cfr. Pizzorni, Filosofia del diritto, 37-96.
45
Cf. Vendemiati, A., La legge naturale nella Summa Theologiae di S. Tommaso d’Aquino, pp. 71-81.
46
"quae (lex) nihil est quam quaedam rationis ordinatio ad bonum commune, ab eo qui curam communitatis habet promulgata"( Sum.
Theol., I-II, q. 90, a. 4).
47
A. Vendemiati, La legge naturale, p. 75.

17
modo diverso secondo le leggi prese in considerazione. L' “analogatum princeps” sembra essere la legge eterna, anche se
San Tommaso sembra che sia giunto alla nozione di legge a partire dalla realtà umana. Tuttavia non si può concludere che
San Tommaso parta così dal più perfetto al meno perfetto. Di fatto in realtà san Tommaso termina con la Lex nova. L'ordine
va inteso nella prospettiva dell'analogia. "L'analogia ripete nell'ordine logico semantico la dipendenza essenziale, quale si ha
nell'ordine reale secondo il prius et posterius, per cui si ha un doppio movimento dell'analogia: una formale per imitazione
della forma divina ed un altro reale per derivazione della causalità divina. Mentre la partecipazione predicamentale univoca,
come tale, non si fonda sulla dipendenza causale diretta, la partecipazione trascendentale comporta il salto infinito della
dipendenza totale nella causalità e quindi anche nella dipendenza dell'esse"48. In base alla partecipazione predicamentale,
abbiamo l'analogia di proporzionalità, e in primo piano abbiamo la legge umana; alla partecipazione trascendentale
corrisponde l'analogia di attribuzione intrinseca, in base alla quale Tommaso considera come analogatum princeps la legge
eterna: legge naturale, legge umana e legge divina positiva hanno ragione di legge in quanto causate per partecipazione dalla
legge eterna49.

2. Fine del diritto

(1) “un ordine secondo giustizia",


(2) che deve portare alla pace e alla virtù,
(3) e quindi all' amicizia.

Si tratta di un ordine razionale, fondato sulla dignità, rispetto ed esigenze della persona umana. Di fatto
l’esperienza giuridica è concepibile solo nell’ambito delle relazioni umane. Lo specifico dell’ordine giuridico è il
“diritto”, la determinazione e il rispetto di ciò che appartiene a ciascuno. L’ordine giuridico pertanto è per natura sua
“pacificante”50, è al servizio dell’uomo e della sua realizzazione. Ha come suo scopo finale la carità51.

IV. Note caratteristiche del Diritto52

1. L’alterità del diritto

I diritto riguarda il nostro modo di agire, cioè le nostre azioni esteriori con le quali noi ci mettiamo in relazione
con l’altro “est ad alterum”, che di volta in volta può essere socio e nemico. Di qui la nota formale della giustizia,
l’alterità, il “suum unicuique tribuere”, e questo “altro” è la persona presa sia individualmente che collettivamente
come società.
La giustizia ha cosi come propria materia il dovuto all’altro, il bene dell’altro, cioè ha per fine garantire la
giustizia del ricevente, il quale può pretendere qualche cosa cui l’altro è obbligato: ciò che uno può fare non deve essere
impedito da un altro. Così per esempio quando dico: io la notte ho diritto a dormire, non vuol dire che debba per forza
dormire, ma che l’altro non può fare rumori molesti, non può quindi impedirmi di dormire.
Dalla nota dell’alterità del diritto viene di conseguenza che, supponendo “l’altro”, si presuppone che l’uomo
viva in società, per cui si deve concludere che l’azione umana che forma la materia prossima del diritto è l’azione
sociale: “ubi societas ibi ius”; e poichè “ubi homo ibi societas”, possiamo concludere “ubi homo ibi ius”. Cosi il diritto
ha avuto origine dopo la morale.
Riassumendo, il diritto tende a regolare i rapporti esterni. Ma il fatto dell’alterità, o intersubbiettività, o
bilateralità non significa di per sé giuridicità, poiché i doveri morali verso un’altra persona non diventano giuridici
semplicemente perché si riferiscono ad altri; lo diventano in quanto pongono in una persona l’obbligo di rispettare e non
impedire un’attività propria dell’altra. Anche la morale pura, non giuridica, ci inculca molti doveri verso il prossimo.

48
C. Fabro, Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino, Torino 1961, pp. 596-597, citato da A. Vendemiati, La legge naturale, p.
79.
49
A. Vendemiati, La legge naturale, p. 81, osserva: "Dunque anche il trattato sulla legge è teologia, anche qui siamo nell'ambito della
subalternatio, anche qui la scienza di Dio e dei beati è architettonica rispetto alla nostra scienza. Ed inoltre anche nel trattato sulla legge si realizza la
struttura concentrica, e precisamente cristocentrica, che abbiamo individuato nel capitolo precedente: tutto ha origine dalla lex aeterna, ma tutto tende
alla lex nova".
50
“Il diritto, come, a suo modo la morale e la politica (e, più in generale, come ogni forma di attività che ponga gli uomini in reciproco
rapporto) è sentito come doveroso proprio perché rinsalda i legami positivi tra gli uomini e mette un freno alla (sempre presente) possibilità che tra
essi si scatenino inimicizia e guerra. Come attività pratica, il diritto ci appare perciò come doveroso e pacificante, doveroso perché pacificante” (F.
D’Agostino, Filosofia del diritto, p. 10). Vedi anche le riflessioni di G. Cosi, Il logos del diritto, pp. 3-60.
51
Già per Aristotele il senso della convivenza nella “polis” era l’amicizia. Cicerone scriveva: “natura propensi sumus ad diligendos homines,
quod fundamentum iuris est” (De Legibus, I, 15, 43)..L’amicizia per san Tommaso è lo scopo di tutta la legge umana e divina. “Fine del precetto è la
carità: infatti tutta la legge ha lo scopo di promuovere l’amicizia degli uomini tra loro, e dell’uomo con Dio. Ecco perché tutta la legge si compendia
in questo unico comandamento: <Amerai il prossimo tuo come te stesso>, trattandosi del fine di tutti i comandamenti (Summa Theol., I-II, q. 99, a. 1
ad 2); <L’intenzione principale della legge umana è di stabilire l’amicizia degli uomini tra loro” (Summa Theol. I-II, q. 99, a. 2). Giovanni D’Andrea,
detto per la sua scienza giuridica Tuba iuris, scrive: “Quapropter sicut potissima virtus, ad quam conatur inducere ius civile, est ipsa legalis iustitia,
sive civilis amicitia. Ita potissima virtus, ad quam conatur ius canonicum est illa coelestis amicitia, quam charitatem vocamus” (In Tit. De Reg. Jur.
Commentariii (vulgo Novella) insignes... Regula II, Appendix, n, 25, Lugduni, apud heredes Jacobi Giunctae, 1551, p. 165. E’ infatti nella natura del
diritto partire dall’alterità, per affermarla come valore e presupposto, per realizzare la comunione, l’unione, la carità.
52
R. Pizzorni, Filosofia del diritto, pp. 48-77.

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Per poter essere giuridici, quindi, gli atti e le norme debbono avere quella nota, che non é necessaria per la semplice
moralità.

2. L’esteriorità del diritto

La giustizia ha essenzialmente a che fare con l’altro col quale siamo in rapporto con l’esteriorità delle nostre
azioni. Questa nota dell’esteriorità, é cosi intimamente connessa con quella dell’alterità, che alcuni autori vogliono
ridurre queste due note ad una sola. Ma è meglio considerarle distinte.
La giustizia riguarda non tanto le cose esterne in sé, ma in quanto ce ne serviamo nei nostri rapporti con gli
altri. La giustizia riguarda perciò l’uso che noi facciamo di queste cose nella nostra attività esteriore, con la quale ci
mettiamo in rapporto con gli altri. La nostra attività esteriore è materia della giustizia in quanto è attività; in quantum
est agere, non in quanto è fare: non in quantum facere.
Morale e diritto, considerano gli atti umani, ma da un diverso punto di vista: la morale regola e giudica tali atti
nel loro punto di origine: il suo oggetto immediato è la volontà libera, la coscienza, l’interiorità del soggetto, in cui si
trova l’origine delle azioni. Il diritto, invece, ordina e valuta gli atti umani nel loro punto di arrivo: il suo oggetto
immediato è l’azione dell’agente, piuttosto che la sua intenzione, l’esteriorità in cui si trova il termine, cioè l’azione
stessa.
Quindi l’imperativo morale comanda inseparabilmente l’intenzione e l’azione, pur avendo per oggetto
immediato la prima e per oggetto mediato la seconda. Parimenti l’imperativo giuridico non può comandare l’azione,
senza indirettamente rivolgersi all’intenzione che ne è la sorgente e la determina. Cosi l’atto di giustizia oggettivamente
inteso, può prescindere dalle disposizioni dell’agente, ma soggettivamente inteso non lo può perche non può esistere
senza un volere interiore dell’uomo, altrimenti, anche un distributore automatico farebbe continui atti di giustizia dando
anch’esso a ciascuno il suo, cioè quello che gli è dovuto.

3. La possibile prestazione amorale del diritto

Dalle due precedenti caratteristiche del diritto, l’alterità e l’esteriorità, sorge una questione molto controversa
circa un famoso testo di S. Tommaso riguardante la possibile amoralità del diritto. Nel realismo giuridico di S.
Tommaso il diritto, essendo ipsa res iusta, non saranno mai permesse scissioni oggettive tra morale e diritto, che é e
deve essere informato dalla giustizia, cioè dalla moralità.
Si potrà quindi agire in conformità dell’ordine giuridico, cioè fare il giusto, ed agire non in virtù dell’abito
della giustizia, cioè senza essere giusti. Nell’ambito della giustizia v’é quindi realmente qualcosa come una scissione tra
fatto e intenzione. Quindi, la giustizia, considerata nella sfera giuridica, consiste nel porre il giusto oggettivo, ma la
virtù c’é solo come valore morale, come perfezione immanente, se vi è l’interiore volontà e adesione, nel senso di scelta
libera e mediata di ciò che è obiettivamente giusto e obbligante. Cosi, per es., “l’autorità sociale mi può far pagare le
tasse, ma non può obbligarmi ad amare quel prossimo che beneficerà di scuole ed ospedali, creati con il denaro di
queste tasse.
Riassumendo, la rettitudine della giustizia ha il suo oggetto, “ex natura sua”, nelle cose; quindi chi paga un
debito anche con cattive intenzioni, pur tuttavia fa sempre un atto oggettivamente giusto e buono.

4. La coattività del diritto

Dalle note precedenti nasce il carattere più appariscente della norma giuridica: la coattività, perche un’azione
esterna, che può avere valore per altri indipendentemente dall’animo dell’agente, potrà anche essere estorta con la forza
ai debitori renitenti, e ciò è necessario “affinché desistendo dal male fare, rendessero quieta agli altri la vita: aliis
quietam vitam redderent”.
Tre specie di coazioni: coazione legale pura; coazione fisica; coazione psicologica.
a) Coazione legale pura: si ha quando la legge è cosi forte che ottiene il suo effetto in qualunque
caso, anche contro la volontà dei destinatari della legge. Questa prima coazione che è “praeter
voluntatem subditorum” si ha nelle leggi irritanti ed inabilitanti: contratto fatto da un minorenne.
b) Coazione fisica: si ha quando la legge si attua nonostante la resistenza del destinatario ribelle che,
per esempio, non vuole pagare un debito. Allora la legge ottiene il suo effetto con l’uso della forza;
ed il diritto fa frequente ricorso a questa coazione fisica (pignoramenti, sequestri...).
c) Coazione psicologica: si ha quando la legge tenta di infrangere la resistenza della volontà del
soggetto ribelle mediante la minaccia di pene, cercando di rendere la trasgressione della legge piú
gravosa della sua osservanza. È il “coactus volui” cioè, non il volere non volontario, che è assurdo
e contraddittorio, ma solo il volere non spontaneo.

Quindi, riguardo alla giustizia, possiamo avere non solo un modo virtuoso di agire, ma anche un modo non
virtuoso: il modo coatto, onde ottenere l’esecuzione di una norma anche senza la volontaria cooperazione ed adesione
del soggetto obbligato “la cui volontà discorda dalla legge”, e questo perchè possa esistere la comunità, necessaria per il

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raggiungimento dei fini umani naturali, e affinché l’altro, cioè il soggetto di diritto, possa ottenere il suo, il suo dovuto.
Se il diritto non potesse disporre di questa forza fisica, non potrebbe raggiungere il suo vero fine, che è il bene comune.
La morale non ha una “vim coactivam”, altrimenti non sarebbe piú morale, perché la forza fisica
distruggerebbe lo stesso fondamento della morale che è l’atto umano, libero, pensato e voluto. L’azione morale si
impernia sulla nozione di dovere, ma ignora quella di pretesa; nell’atto morale è essenziale la spontaneità. Per questo
l’azione giuridica non perde la sua qualità per venire realizzata con la forza; mentre l’azione morale ottenuta con la
forza, con la coazione del pubblico potere, perde la sua qualità morale, come abbiamo visto parlando della possibile
prestazione amorale del diritto.
Riassumendo, la coattività è etica nella sua funzione, anche se il soggetto la subisce solo in quanto non é in
buoni rapporti con l’etica. Dal punto di vista dell’ordinamento statale, quindi, è chiaro l’intento profondamente morale
della coattività: distogliere i cittadini dall’iniquità e sospingerli verso l’attività oggettivamente buona. Cosi la punizione
costituisce espiazione, che deve essere intesa e attuata come via alla redenzione. Possiamo allora affermare che “il
diritto è essenzialmente coercibile”.

CAPITOLO III
LA QUESTIONE DEL DIRITTO NATURALE E DEL POSITIVISMO NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO

A. Sintesi storica della Filosofia del Diritto occidentale

Perché discutere problemi storici? Abbiamo detto che la filosofia del diritto deve, come tutte gli altri scienze,
appoggiarsi nella esperienza; anch’essa deve procedere “in modo sperimentale”; in essa si deve studiare e discutere i
problemi in vista del “caso”. Dunque, il caso della filosofia del diritto è il suo sorgere lungo la storia.
Nella filosofia si tratta, come abbiamo già visto, delle questioni fondamentali, ossia: che cos’è il diritto? Perché
dobbiamo punire? Ciò non vuol dire che queste questioni siano messi totalmente all’infuori della storia. Ci sono delle
questioni che emergono in tutti i tempi e in tutte le culture giuridiche, anche se le risposte sono diverse. Una delle più
importanti questioni è di sapere se l’Uomo può disporre liberamente del Diritto oppure se sono imposti loro limiti nella
creazione del medesimo. Da molto che si usa la designazione “Positivismo Giuridico” per la prima concezione (l’Uomo
può disporre liberamente del Diritto), e “Diritto Naturale” per la seconda (ci sono dei limiti nella creazione del Diritto).
Queste correnti hanno conosciuti diversi nomi lungo la storia (la parola “Positivismo” vieni fuori solo con l’epoca
Moderna).
Questo ci conduce ad una terza idea. La filosofia del diritto comparativa prova a trovare i principi giuridici
universali che viggorarono in tutte le epoche e per tutti i popoli. Se un giorno si riuscirà a fare una tale filosofia del
diritto comparativa si farà una buona parte della Storia Universale del Diritto.

1. Dal mythos all’Logos

Nell’epoca arcaica prefilosofica (prima del sec. VII a.C), l’uomo non faceva delle domande a se stesso sulla
legalità di ciò che accade. La amekhania, l’abbandono ai poteri occulti, e ad una cosmovisione integralmente mitologica
determinava il suo modo d’esistere. La scienza è iniziata nel momento in cui si sono scoperte le regolarità (razionali)
negli eventi del mondo, la scienza iniziò con il passaggio del mythos all’logos. Se nella natura fisica c’erano delle leggi,
perché mai non ci doveva essere anche nella natura metafisica? Ecco la domanda circa un “indisponibile” nel diritto,
che fino ad oggi è nel centro di tutte le domande filosofiche del diritto. Per molto tempo si pensò di poter trovare questo
indisponibile nella natura, anche se ciò che s’intendeva per “natura” (si attribuiva addirittura altre nomi: logos, idea,
essenza) variasse molto, in funzione del tempo e del luogo.

2. La filosofia del diritto nell’Antichità

Così si spiega che per molti secoli la storia della filosofia del diritto è coincisa sostanzialmente con la storia
della dottrina del diritto naturale. Sin dai presocratici che si è cercato di trovare “il giusto”, la “giustizia”, nella
“natura”, dandosi dalla natura le più variegate spiegazioni. Fino a Kant (e dopo di lui) si è capita la natura soprattutto in
modo ontologico-sostanziale (con molte differenze di dettagli), anche se già in Plotino ci sia qualche accenno ad un
concetto procedurale di natura, che più tardi riapparirà con Schelling.
Nei presocratici, è stato Eraclito (circa 500 a.C) il primo a mettere in opposizione un’immagine dinamica del
mondo contro quella statica e oggettivistica della prima dottrina giuridica occidentale, ed ha riconosciuto nella Ragione
Universale, nel Logos, il potere che domina tutti gli accadimenti: “tutte le leggi umane si nutrono dell’Uno Divino”. Per
la prima volta è fatta la differenziazione tra la giustizia delle norme umane (dikaion nomoi) e la giustizia naturale
(dikaion physei), il diritto positivo e il diritto naturale, nonostante questi siano passati ancora come essenzialmente
come unità.
I Sofisti (100 anni dopo di Eraclito più o meno) hanno insegnato che non solo “tutto è in movimento”
(Eraclito) ma che tutto è relativo. Non il Logos, ma l’uomo “è la misura di tutte le cose” e certamente l’uomo nella sua
natura empirica, non come persona etica (Protagora, 485-415 a. C circa).

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In opposizione a tutto ciò, Aristotele (384-322 a. C) ha basato la moralità nel concetto di natura, e con ciò
diventò il fondatore di una dottrina idealizzante (o meglio: morale) del diritto naturale. Mentre prima Socrate (469-399
a. C) pensava di trovare la legge naturale al centro dell’uomo e Platone nell’Idee come vero essere, Aristotele ha visto
la natura come inerente ai dati oggettivi. La conformità alla natura è, secondo lui, lo stato migliore di un ente53. La
differenza tra giustizia naturale e giustizia legale l’ha compresa Aristotele per la prima volta per il fatto che ambedue
possono essere in opposizione nel piano dei fatti, e con ciò ha riconosciuto la possibilità “dell’ingiusto legale”. Nel
Libro V dell’Etica Nicomachea, Aristotele ha sviluppato la sua dottrina della giustizia che, ancor’oggi, rimane
fondamentale. Il perno della giustizia è l’“uguaglianza”, che non è in lui una uguaglianza formale o numerica ma una
uguaglianza proporzionale o geometrica, cioè, di concordanza (analogia), essendo il punto di riferimento della
concordanza il “valore” (Würdigkeit)54. Risale anche ad Aristotele la distinzione tra giustizia commutativa (iustitia
cummutativa) e giustizia distributiva (iustitia distributiva)55.
Con la corrente filosofica della Stoa (stoici) (sec. I a. C - II d. C), si getta il ponte non solo tra la filosofia
d’Atena a Roma ma anche del diritto naturale al diritto medievale. Il diritto naturale non vale già soltanto per i cittadini
liberi della Città-Stato, ma pure per tutti gl’uomini del mondo, cittadini o stranieri, liberi o schiavi. A tutti deve essere
dato ciò che è il suo, ci deve essere dato il suo diritto. In Cicerone (106-43 a. C) si trova questa formula che non è sua:
“ius suum cuique tribuere”56.
Plotino (203-269), con la sua concezione soggettivistica e procedurale del diritto naturale, non appartiene più
alla Stoa.

3. La filosofia del diritto nel Medioevo

La filosofia giuridica medioevale segnata dal Cristianesimo si caratterizzò soprattutto per il fatto di aver
cercato di metterla sul filo della tradizione della filosofia antica (Platone ed Aristotele). Così, la tradizionale
bipartizione in diritto naturale e diritto legale (positivo) si trasmutò in una tripartizione: diritto divino (eterno); diritto
naturale e diritto umano (positivo, temporale). Questo si nota in Agostino (354-430) e Tommaso d’Aquino (1225-
1274); Agostino interpretava il diritto divino e il diritto naturale in forma volontaristica (Platone) e Tommaso d’Aquino,
invece, in forma intellettualistica (Aristotele). Tutti i due sono d’accordo che una norma umana, che sia in
contraddizione con il diritto naturale, o addirittura con il diritto divino, non ha qualsiasi validità, dato che è una “lex
corrupta”57.
La fine della Scolastica inizia con Guglielmo d’Ockam (1300-1359 circa). Secondo il nominalismo, esiste solo
il singolare, il particolare, non il generale (il “problema degli universali” ancora oggi continua: esiste il generale – il
“Diritto” – ante rem, prima ancora del particolare – de ciascuna delle norme legali –, oppure è costruito solamente dalla
ragione post rem come mero “nome” per una molteplicità di particolari – il “Diritto” come designazione comprensiva
delle leggi esistenti?). Dal punto di vista del nominalismo non può esserci un diritto naturale universale esistente nella
realtà; ciò che si contiene nelle norme generali, non è qualcosa predeterminato (“incondizionato”), ma una
generalizzazione fatta dalla scienza, dalla filosofia del diritto. Il diritto naturale è un “prodotto della teoria”. Questa tesi
è stata seguita anche dalla concezione giuridica dei protestanti (Lutero, 1483-1546). Secondo lui non c’è un
collegamento diretto tra la lex aeterna e la lex humana, ma solo tramite la Grazia. Con tutto questo si ferisce quasi
mortalmente il lumen naturale.

4. La filosofia del diritto nell’epoca Moderna

Dopo tutto, il diritto naturale dell’epoca Moderna poteva solo essere un diritto naturale secolarizzato, basato
nella massima che il diritto dovrebbe valere anche davanti all’ipotesi che Dio non ci sia: “etiamsi daremus non esse
Deus” (Hugo Grozio, 1583-1645)58. Allo stesso tempo un diritto naturale illuminista che, d’accordo con il modello di
René Descartes (1596-1659) e Francis Bacon (1561-1626) ma anche degli empiristi John Locke (1632-1704) e David
Hume (1711-1776), si limitava a ciò che è sperimentabile e si costruisce more geometrico. Si insisteva nella idea che
caratterizza tutto il diritto naturale classico: il diritto naturale è assoluto, universale e sopra-storico, ossia, vale al di
sopra del diritto positivo stabilito dall’uomo, vale per tutti gli uomini e vale per tutti i tempi.
Metodologicamente si procedeva nella determinazione del “diritto giusto” domandando dalla natura dell’
uomo e facendo venir fuori da lì, per deduzione logica, i diritti e i doveri naturali del uomo. Un ruolo importante ha
giocato la Teoria del contratto sociale (Jean-Jacques Rosseau, 1772-1778), come lo stato originario fittizio in cui gli
uomini stabiliscono di libero accordo i suoi reciproci diritti e doveri (oggi l’erede di questo pensiero è John Rawls, con
la sua Teoria della Giustizia). Si pensava così di poter fondare un ordine giuridico con le basi sul consenso generale e
che avrebbe, tale come l’inalterabile ragione umana, carattere universale.

53
Aristotele, Politica, 1254a.
54
Aristotele, Etica a Nicomaco, 1131a.
55
Aristotele, Etica a Nicomaco, 1130 ss.
56
Cicerone, De re publica III, 22 (33).
57
Cf. Agostino, De civitate Dei, Lib. IV, cap. 4; Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, II, 95, 2.
58
Grozio, De iure belli ac pacis libri tres, Prolegomena 11.

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Non stupisce che quasi tutti i tentativi di fondare un tale diritto naturale si siano limitati a rilevare un piccolo
numero di principi giuridici fondamentali molto astratti, come per esempio non lederai nessuno (regola d’oro
“negativa”); obbedisce ai contrati, rispetta la proprietà, tratta gli altri come uguali nei suoi diritti (suum cuique tribuere),
aiuta i bisognosi (regola d’oro “positiva”).
Le concezioni sulla “natura” dell’uomo divergevano molto: in Thomas Hobbes (1588-1679) era diversa di
Hugo Grozio o Spinoza (1632-1677), Pufendorf (1632-1694), in Christianus Thomasius (1655-1728).
Il diritto naturale ha assunto il suo più grande significato pratico con la nascita dei grandi Codici
“giusnaturalisti”, come: Codex Maximilianeus Bavaricus Civilis (1756), Codice di Diritto Prussiano (1794); Codice
Civile (1804), Codice Civile Austriaco (1811).

5. La filosofia del diritto del sec. XIX

a) Con le codificazioni il razionalismo è arrivato troppo lontano. Ogni volta cresceva di più l’interesse per lo
storico e per l’irrazionale. Il grande rappresentante della Scuola Storica del Diritto, Friedrich Carl v. Savigny (1779-
1861) ha caratterizzato il diritto naturale come un “abissale pedanteria dei filosofi”; il diritto non è un prodotto della
ragione ma una creazione fatta “dalle forze silenziose dello spirito del popolo”.
b) La Scuola Storica del Diritto si è rivelata profondamente influente; essa ha superato, nel sec. XIX, il Diritto
Naturale. Filosoficamente, il diritto naturale è stato combattuto dallo criticismo, da Kant (1724-1804), soprattutto nella
Critica della Ragion Pura.
c) L’essenziale nella teoria della conoscenza di Kant è il fatto di attribuire all’intendimento solo la possibilità
di pensare l’oggetto della intuizione sensibile, cioè, non gli appartiene nessuna facoltà creatrice di conoscenza, ma
soltanto la spontaneità dei concetti. L’oggetti del pensiero non hanno origine nell’intendimento ma nella sensibilità e
valgono, perciò, solo a posteriori (non di forma inalterabile, neanche senza rischio di errore). A priori soltanto ci sono
dati le forme della sensibilità e le forme del pensiero. Per il diritto naturale ciò significa che “non è possibile una
proposizione giuridica che nella specificità del suo contenuto si garantisca come assolutamente corretta” (Stammler). La
filosofia di Kant implica, quindi, la fine del diritto naturale oggettivista, ontologico-sostanziale, statico, universalmente
valido. Solo un “diritto naturale di contenuto mutabile”, processuale, storico, dinamico, si potrebbe mantenere… Ma ciò
non si trova nella filosofia di Kant.
Ciò che è mancato alla filosofia critica di Kant fu la ricerca del empirico e , con esso, è venuto a mancare in un
fattore importantissimo nei secoli XIX e XX: il fattore della storicità del uomo e, perciò, del diritto.
d) Il primo che ha capito il problema storico-filosofico del diritto naturale fu Hegel (1770-1831). In base ai
principi del suo idealismo storico tutto lo spirituale si realizza secondo una permanente progressiva alternanza di tesi,
antitesi, sintesi (dialettica hegeliana). Essenziale è che questo sviluppo dialettico non sia un regno oscuro di uno Spirito
del Popolo, ma che si realizzi secondo una logica necessaria secondo la legge della Ragione. Anche la Storia è uno
sviluppo della Ragione: “nella storia del mondo le cose succedettero di forma razionale”. E mentre la Scuola Storica
vedeva nel Popolo il valore definitivo, Hegel ha messo, in questa posizione, lo Stato, che è il più elevato concetto, la più
perfetta realtà, cioè, “la realtà dell’Idea Etica” e così anche il valore giuridico supremo. La filosofia di Hegel è una
filosofia della identità: tale come esiste un solo Stato, esiste pure un solo Diritto, non essendo oltre il diritto positivo un
altro ancora, naturale.
Hegel considerava fondamentale l’Idea e, perciò, ha dimenticato la realtà. Così presto è venuto il movimento di
reazione: il materialismo storico di Karl Marx (1818-1883) e di Friedrich Engels (1820-1895). Secondo Marx, la logica
di Hegel dovrebbe essere capovolta: non è l’essere che dipende della coscienza (idea), ma, al contrario, la coscienza
dipende dell’essere, o più esattamente, dei rapporti effettivi di produzioni (Marx). Il Diritto (come la Morale e la
Religione) sono superstrutture, senza qualche tipo di autonomia. La “dittatura del proletariato” condurrà ad una “società
senza classi” e così anche alla “estinzione” dello Stato e del Diritto (Marx). La evoluzione degli eventi dopo l’anno
1989 ha dimostrato la fine di questo dogma escatologico dell’ordine giuridico ed economico socialista.
e) Il XIX secolo non è decisamente un secolo marxista ma piuttosto il secolo del “positivismo giuridico
scientifico” (Franz Wieacker). La sua principale pretesa fu trovare fondamento nello Stato di Diritto e ciò fu già
segnalato da Paul Johann Anselm Feuerbach (1775-1833). Lui rigetta la possibilità di un diritto naturale oggettivistico,
ma riconosce diritti soggettivi degli uomini che sono indisponibili, perché provengono della sua autonomia etica (diritti
fondamentali e diritti umani). Dall’altra parte lui difende che la positività è una caratteristica essenziale ed irrinunciabile
del diritto oggettivo. Per i casi del diritto assolutamente ingiusto lui prevedeva il diritto della resistenza, soprattutto dal
giudice.
Nel decorso del XIX secolo si sono sviluppati numerosi altre teorie positivistiche del Diritto: il positivismo
logico di Rudolf Stammler (1856-1938); la Teoria Generale del Diritto (Adolf Merkel, 1836-1896) che più tardi ha
portato alla “teoria pura del diritto” di Hans Kelsen; la Giurisprudenza dei Concetti (Friedrich Puchta, 1798-1846); il
Positivismo empirista; la Sociologia del Diritto (Max Weber, 1864-1920), etc.
f) Nel decorso del XX secolo si è sviluppato anche la metodologia positivistica, di Savigny. Secondo questa
teoria il giudice deve soltanto “sussumere”, cioè, articolare due grandezze oggettive – la legge ed il caso – dovendo egli
stesso mantenersi totalmente a margine del processo. Ecco il concetto oggettivistico della conoscenza nella sua massima
purezza. Era il tempo della idea che il diritto non c’aveva lacune. Oggi è comune considerare che il diritto ha delle
lacune che il giudice dovrà risolvere tramite un atto giuridico creatore.

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g) La degenerazione del positivismo scientifico nel puro positivismo legalista (nel XIX secolo alcuni giuristi
difendevano che il “più infame diritto legale” ottiene vigenza, se è stato prodotto in modo formalmente corretto) si è
manifestata nel nazional-socialismo. Tuttavia con questo non è pervertito solamente il positivismo; anche si è abusato
dell’idea del diritto naturale quando si è ricorso all’applicazione di leggi in nome di un “diritto naturale etnico”.

6. Il riavvio dopo la Seconda Guerra Mondiale

La esperienza storica mostra che sia le dottrine classiche del diritto naturale sia il positivismo giuridico
classico hanno fallito. Il diritto naturale, con il suo rigido sistema di norme, è riuscito a funzionare in società con
strutture molto semplice, ma non più con le società molto complesse, con un sistema economico molto sensibile. Il
positivismo giuridico, d’altra parte ha prodotto le grande opere legislative dell’inizio del sec. XIX, perché i legislatori
ancora si lasciavano guidare per una forte coscienza morale, ma questo presupposto non si è verificato nelle dittature dei
nostri tempi; le “leggi ignominiose” da esempi meramente accademici sono diventati, purtroppo, realtà. Il concetto di
legge puramente formale è fallita.
a) La rinascita del diritto naturale: dopo il dominio nazionale-socialista in cui il diritto fu pervertito molti
hanno pensato nel ritorno del diritto naturale. “Ogni messa ed ogni guerra attivano nuovi diritti naturali” (Jean Paul).
Ma in quella situazione di miseria giuridica in un certo qual modo giustificava il ricorso, forse eccessivo, alle
considerazioni giusnaturalistiche dei tribunali, che si ricusavano ad applicare le norme legali ingiuste e quindi
invocavano il bisogno di decidere in base ad un “diritto essenziale soprapositivo”. Questa rinascita del diritto naturale fu
molto criticata ma la giurisprudenza non era stata preparata per i fenomeni dell’“ingiustizia legale”.
Anche se la “rinascita del diritto naturale” fu episodica qualcosa di positivo è rimasto. 1. La “legge morale” –
ossia il “diritto naturale” – è qualcosa di sostanziale, intemporale, soprapositivo; 2. Da questa legge morale o diritto
soprapositivo si possono inferire, in forma puramente deduttiva, esigenze concrete, decisioni giuridiche, possono
“sussumersi” situazioni di fatto. È un ragionamento sussuntivo d’indole ontologico-sostanziale. Non si va oltre ciò.
b) Il neopositivismo giuridico: il neopositivismo della fine degli anni 50 rigettò qualsiasi idea di un diritto
soprapositivo, ma le strutture del pensiero erano e sono uguali a quelle del diritto naturale. La dottrina del diritto
naturale (quello classico, assolutistico e razionalistico) e il positivismo legalista si distinguono, è certo, dal punto di
vista della ontologia soggiacente, per la concezione su la ragione d’essere, la validità del Diritto: in quella è la “natura
dell’uomo” predeterminata ed immutabile, in questa è la contingente “volontà del legislatore” svincolata da qualsiasi
ordine naturale previamente sussistente. Dal punto di vista teorico e metodologico si possono equiparare nella
comprensione del processo di determinazione del diritto: secondo la dottrina del diritto naturale (razionalista) si possono
dedurre le norme giuridiche positive dai principi etici-giuridici assolute e dopo, partendo da essi, le concrete decisioni
giuridiche; secondo il positivismo legalista (normativistico) si possono ottenere, con l’aiuto delle direttive del
legislatore (“materiali legislativi”), le decisioni giuridiche concrete in forma puramente deduttiva, e in questo senso
“strettamente logica”, senza considerazione per la esperienza. Così, il diritto concreto-positivo è, d’accordo con
gl’ambedue modelli di pensiero, qualcosa di rigido, prestabilito a priori.
Il ritorno al “prima di Kant”, la rinascita del diritto naturale, è fallito. Ma è fallito anche il ritorno al “prima
della perversione del diritto dalla dittatura nazi”. Ma la soluzione non è insistere nell’alternativa: o diritto naturale o
diritto positivo, tertium non datur.
c) Teoria funzionalista del diritto: quando si contrappone al diritto naturale ontologico-sostanziale una
concezione funzionalista del diritto, come ha fatto Niklas Luhman, si arriva anche ad una aporia. Secondo questo
funzionalismo non interessa che il diritto sia giusto (così non esiste la “giustizia” oppure la “indisponibilità” che sono
meramente simboli); decisivo è che il diritto funzione, nelle grandi società complesse. È certo che “l’indisponibile” non
può esistere in una “natura” rigida, cosificata, pietrificata e intesa ontologico-sostanzialmente; è certo che non deve
essere qualcosa “preesistente” come il logos, il ius divinum o la natura razionale dell’ uomo nel senso dell’antico diritto
naturale. Ma tutto ciò non è un argomento in favore della non esistenza degl’“indisponibili” nel Diritto. È certo che
Kant superò la ontologia sostanzialista. Ma fu Charles S. Peirce chi ha dato il passo dalle sostanze alle situazioni e alle
relazioni, superando la logica aristotelica e kantiana in vista della logica delle relazioni. Questo è il passaggio da seguire
anche nella filosofia del diritto.

B. Oltre il Diritto Naturale e il Positivismo Giuridico: la terza via

La bibliografia è già molto lunga e quindi giustifica la difesa della esistenza di una “terza via” tra oppure oltre
il diritto naturale e il positivismo giuridico. Questa ricerca di una terza via è oggi, addirittura, “il” tema della filosofia
del diritto. Infatti, dobbiamo riconoscere che tra diritto naturale e diritto positivo non c’è un rapporto di “aut … aut…,
tertium non datur”. Per il giusnaturalismo, il diritto è oggettivamente conoscibile e preesistente, nel logos, nella legge
divina, nella ragione. Secondo il positivismo giuridico il diritto non è predeterminato, o per lo meno i contenuti giuridici
preesistenti non sono conoscibili, essendo pertanto arbitrario il contenuto del diritto. In modo diverso, i difensori della
“terza via” difendono che, infatti, i concreti contenuti giuridici non stanno tutti prestabiliti, ma soltanto certe strutture,
principi, oppure, allora, soltanto negativamente nei termini degli “argomento della ingiustizia”, che in nessun caso vale
una manifesta ingiustizia legale; e che oltre ciò non esiste un qualche vincolo assoluto a contenuti oggettivi (“natura”),
ma invece un vincolo soltanto relativo, o meglio, relazionale, all’interno de determinati rapporti (quando si vuole
regolare, per esempio, la relazione giuridica di “compra-vendita”, non si può disporre liberamente dei ruoli di

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compratore e venditore). Ecco alcuni tentativi di una terza via, a titolo meramente esemplificativo ma anche le più
significative: la filosofia del diritto di Gustava Radbruch; l’ermeneutica giuridica; la teoria della argomentazione
giuridica; la teoria dei “General Principles of Law” e, molto sinteticamente, i “Critical Legal Studies”.

1. La filosofia del diritto di Gustav Radbruch

Con Radbruch c’è stato un “cambiamento di paradigma”: l’abbandono della filosofia del diritto intrapresa
dopo Hegel (la cosiddetta “teoria generale del diritto”) e la rifondazione di una filosofia giuridica materiale nella quale
si tratta dei contenuti e non soltanto delle forme e strutture. È certo che Radbruch fu, come Kelsen, kantiano, nella
misura in cui lui soltanto considera possibili affermazioni aprioristiche, univoche e cogenti, circa le forme, non dei
contenuti. Mentre Kelsen si limitava, per questo motivo, al formale, Radbruch ha filosofato, invece, anche sui contenuti
e, in modo speciale, sui valori. Per questo, lui ha dovuto pagare, dal punto di vista della sua posizione kantiana, un
prezzo elevato: cioè il relativismo assiologico (giusfilosofico).
Nella letteratura su Radbruch molti si domandano si c’è stata una “rottura” o addirittura una “esperienza di
Damasco” in cui il vecchio “positivista” è diventato un “giusnaturalista” dopo l’esperienza dello Stato di non-Diritto del
nazionale-socialismo.
In 1919 lui parlava già del positivismo come “una idolatria del potere” e in 1914 difendeva che “non si può
mai concepire nessuna giustificazione per la vigenza di un diritto manifestamente ingiusto”. Ma, dall’altra parte lui non
ha mai sacrificato la sicurezza giuridica, come una parte costitutiva della idea del diritto, a uno vago pensiero
giusnaturalista. Non c’è in lui la minima traccia di voler rinnovare la idea “classica” del diritto naturale, d’accordo con
la quale si potrebbe dedurre tutto un sistema di proposizioni giuridiche oggettive e sempre vere partendo di un concetto
di natura sostanzialmente pensato. Quello che lui considera e riconosce come diritto naturale sono, come già in
Feuerbach, certi diritti soggettivi dell’uomo che, nonostante storici, sono dati previamente e sono indisponibili per il
legislatore storico, pertanto, nel essenziale, quello che noi oggi chiamammo Diritti Umani e Fondamentali.
Radbruch costituì un ponte che va oltre le posizioni antagoniste di una volta. Questo ponte è costruita prima di
tutto con il suo concetto di diritto. Nel diritto naturale classico, il “diritto” è equiparato al valore giuridico assoluto, alla
Giustizia. Per il concetto di diritto positivista il contenuto è irrilevante: anche il diritto ingiusto fa parte del concetto di
diritto, basta che sia stato prodotto in maniera formalmente corretta. Il concetto di diritto di Radbruch non va in nessuna
di queste direzioni. È, infatti, una “terza via”.
Per capire meglio il suo concetto di diritto bisogna conoscere un po’ la sua filosofia. I suoi punti di partenza
filosofici sono stati il neokantismo della Scuola dello Sudovest della Germania, in cui ha esercitato le sue influenze
soprattutto il principio assiologico di Emil Lask, e, dall’altra parte, il dualismo metodico del dovere e dell’essere. Da
qui lui distingue l’atteggiamento valutativo neutro delle scienze della natura, l’atteggiamento valutativo dell’etica, tra
queste due, l’atteggiamento di riferimento a valori delle scienze culturali, e, sopra queste, l’atteggiamento di
superamento dei valori della religione. Il diritto, che è parte della cultura, si riferisce a valori: è “la realtà che ha come
suo senso servire la giustizia”. Primo, questo è un concetto che non è positivista, perche questo si limita a dire che il
diritto è un insieme di norme di contenuto arbitrario promulgate in modo formalmente corretto (il Diritto in se stesso
non esiste, è soltanto una designazione d’insieme per le norme legali). Radbruch sottolinea, invece, che hanno la qualità
di norme giuridiche soltanto quelle leggi che si riferiscono alla Giustizia, che si orientano verso essa. Secondo, questo
concetto non è giusnaturalista, poiché il “diritto giusto” non è equiparato al valore giuridico assoluto, alla Giustizia (i
valori in se appartengono, secondo la concezione assiologia di Radbruch, soltanto al mondo ideale, non al reale).
In Radbruch il diritto giusto esiste solo “approssimativamente” ma il “diritto infame” non fu mai accettato da
lui. La sua tesi sulla nullità della “legge ingiusta” del 1946 causò gran bramo ma era già stata formulata nel 1914 ed è
una conseguenza del suo concetto di diritto; soltanto ha cambiato la intonazione: nei primi tempi radicava sulla
sicurezza giuridica, nel periodo tardivo radicava sulla giustizia materiale.
Lui ha sviluppato partendo della sua definizione di diritto una teoria della giustizia e più specificamente dei
contenuti della giustizia ed oggi è ancora la base fondamentale per la discussione giusfilosofica sulla Giustizia.
La teoria della giustizia parte del fatto che il principio della uguaglianza (trattare l’ uguale come uguale e il
diverso in modo proporzionalmente diverso) vale, in verità, in termini assoluti, ma ha un carattere meramente formale.
Bisogna, dunque, aggiungere un principio materiale, la idea-fine; questo principio è materiale ma vale soltanto in modo
relativo, giacché ci appaiono tre diversi tipi di valori giuridici supremi, senza un ordine gerarchico razionale stabilito: i
valori individuali; i valori sopra-individuali e i valori trans-personali.Per ragioni di sicurezza giuridica è necessario
stabilire autoritariamente il contenuto del diritto. Una volta ancora, la dottrina di Radbruch non è positivista, perché
sono inclusi anche i valori, pagando comunque il prezzo del relativismo; e non è neppure giusnaturalista perché non
deduce un diritto “assolutamente giusto” dalla idea di diritto.
Lui si è dichiarato sin dal inizio difensore della “teoria oggettivistica della interpretazione”. A questa dottrina
non interessa esclusivamente ciò che il legislatore storico effettivamente ha voluto, ma invece ciò che la legge, cioè un
ipotetico legislatore attuale, deve ragionevolmente pretendere, hic et nunc, per una determinata situazione. Il
positivismo, invece, favorisce una “teoria soggettiva della interpretazione”, in cui il giudice deve attenersi unicamente
alla volontà del legislatore reale incorporata nella legge (il che, in rigore, presuppone l’assenza di lacune
nell’ordinamento giuridico legale).

2. Ermeneutica giuridica

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Il diritto naturale e il positivismo hanno prescritto: un concetto oggettivistico di conoscenza, un concetto
ontologico-sostanziale del diritto (della legge), l’ ideologia della sussunzione e l’idea di un sistema chiuso.
L’ermeneutica si dichiara contro tutti questi dogmi.
Per ermeneutica s’intende solitamente, secondo la espressione di Schleiermacher, “l’arte di comprendere”.
Nella sua essenza, l’ermeneutica non è un metodo, ma una filosofia trascendentale (Schleiermacher, Dilthey, Gadamer,
Ricoeur). È filosofia trascendentale nel senso che indica le condizioni generali di possibilità della comprensione del
senso. In quanto tale essa non prescrive nessun metodo. Dice soltanto, su quale presupposti si può comprendere
qualcosa nel suo senso. E come non c’è nulla che non possa essere abbracciato da una spirito interpretante,
l’ermeneutica ha un carattere universale.
La comprensione (non il metodo!) sia della “fisica”, sia della “religione” o della “economia” si fa sotto le
stesse condizioni trascendentali che la comprensione del “diritto”. Ma questa universalità dell’ermeneutica non è un
assoluto; essa è una di tante possibilità per trattare con il mondo e cosi anche con il diritto. Perciò non si può chiudere
ad altre possibilità come la teoria analitica o della argomentazione.
Vediamo in sintesi le condizioni trascendentali di possibilità di una comprensione del senso.
- L’ermeneutica si rivolge contro il concetto oggettivista della conoscenza, superando lo schema
soggetto/oggetto (il soggetto conoscente conoscerebbe l’oggetto nella sua oggettività senza interferenza di elementi
soggettivi – il conoscimento come “riproduzione” dell’oggetto nella coscienza) nel fenomeno della comprensione. La
comprensione è sempre allo stesso tempo oggettiva e soggettiva; l’interprete s’inserisce nel “orizzonte della
comprensione” e non si limita a rappresentare passivamente l’oggetto nella sua coscienza ma lo conforma, o in altre
parole: non si limita a “sussumere” il caso nella legge rimanendo a margine del processo, ma disimpegna un ruolo
conformatore attivo nella cosiddetta “applicazione del diritto”.
- Questo superamento dello schema soggetto/oggetto nella conoscenza non significa, comunque, un ritorno al
soggettivismo. L’ermeneutica vive della “eredità” della tradizione, come patrimonio acquisito di conoscenze comuni.
Chi vuole comprende è in rapporto con quello che fu trasmesso ed è o entra in contatto con la tradizione da dove
proviene quello che è stato trasmesso.
- Il diritto non è qualcosa di sostanziale, non è “nelle cose” (Stifters). Tutto il diritto ha un carattere
situazionale, il diritto è qualcosa di relazionale, esiste nei rapporti degli uomini tra se stessi e con le cose. Con ciò si
capisce facilmente che un tal pensiero giuridico può esistere soltanto in un “sistema aperto” e, dentro di questo, solo
“intersoggettività”.
- La comprensione del senso non è un processo puramente recettivo, essendo sempre pure e prima di tutto una
auto-comprensione del soggetto interpretante (il giudice che pensa di estrarre la decisione “solo della legge” senza
nessun interferenza della sua persona sbaglia). Solo quando l’interprete si avvicina del testo con una “pre-
comprensione”(Josef Esser) o “pre-giudizio” (Gadamer) potrà cominciare a parlare del testo; solo quando lui – con tutta
la tradizione che si porta dietro- entra nell’orizzonte della comprensione potrà trovare un fondamento ragionevole a ciò
che previamente aveva anticipato come risultato “provvisorio” (“circolo” o “spirale ermeneutica”). L’ermeneutica non è
teoria dell’argomentazione, ma la esige.

3. La teoria della argomentazione giuridica

La teoria dell’argomentazione non è in buon rapporti con l’ermeneutica. La teoria dell’argomentazione


proviene principalmente dall’analitica, dei principale oppositori all’ermeneutica. Non è possibili accennare alla teoria
dell’argomentazione giuridica nel suo insieme, tanto più che non esiste solo una teoria dell’argomentazione giuridica
(Ulfrid Neumann).
Una delle sue più importanti conclusioni è appunto quello di allontanare, per erronea, la dottrina
dell’interpretazione dovuta a Savigny, il quale ammette soltanto un numero chiuso di quattro “elementi” (modi di
argomentazioni): il grammatico, il logico; lo storico e il sistematico (il positivismo esigeva questa limitazione). Ci sono
tanti altri argomenti, però, con cui fondare i giudizi giuridici, oltre quei quattro, come per esempio: la garanzia della
sicurezza giuridica o della giustizia, la ponderazione delle conseguenze, il sentimento giuridico, la praticabilità,
l’armonia giuridica, ecc. Il numero dei possibili argomenti è potenzialmente illimitato.
Un problema centrale, però anche molto difficile, per questa teoria dell’argomentazione (e tante altre) è la
questione del peso relativo degli argomenti. Ci sono argomenti forti e deboli, “argomenti vincitori e perdenti”. Ci sono
regole de preferenze di livelli differenti. Ma non ci sarà un ordine gerarchico, basati in criteri puramente razionali, che
sia logicamente vincolante? Oppure non sarà vero che è pratica dei tribunali “scegliere, caso a caso, il metodo
d’interpretazione che conduce al risultato considerato più adeguato?”
Ecco alcuni punti di vista che caratterizzano la teoria dell’argomentazione giuridica:
- sistema aperto, o anzi nessun sistema, e, anziché questo, un “pensiero problematico”.
- esclusione di un catalogo chiuso di canoni d’interpretazione. Esiste un numero illimitato di argomenti e tutti
devono essere ammessi. Fin qui teoria dell’argomentazione e l’ermeneutica vanno d’accordo.
- ma questa teoria è anti ermeneutica, perche la considera una metafisica irrazionale, il che è falso,
l’ermeneutica è razionale e si occupa di processi (totali o parziali) in conformità con la divisa: trattare con l’irrazionale
della forma più razionale possibile.

25
- questa teoria è anti-ontologica (e per loro questa parola si assimila a ontologico-sostanziale, ma d’altra parte
neanche l’ermeneutica l’accetta). Questa teoria non accetta presupposti “ontologici”.
- finalmente, la teoria dell’argomentazione non condivide con l’ermeneutica il superamento dello schema
cognitivo soggetto/oggetto, ma insiste nella oggettività, pretendendo addirittura la possibilità di esaurimento degli
argomenti e l’esaurimento delle casualità. Ma questa è solo una oggettività pretesa e, in questo punto, la teoria non va
oltre il diritto naturale e il positivismo.
La pretesa di oggettività risiede essenzialmente nel fatto che grande parte loro rigettano il pluralismo nella
scienza e nella filosofia, mentre invece il pluralismo non è un ostacolo alla scoperta della verità, ma un importante
presupposto per arrivare alla verità, certamente non una verità “oggettiva” (solo la Chiesa può, a modo suo, pretenderla)
ma una verità intersoggettiva.

4. General Principles of Law

Un tentativo molto importante, discusso negli ultimi anni nell’ambito anglo-americano, scandinavo e polacco,
in vista del superamento del dilemma della controversia “diritto naturale – diritto positivo” e del percorso di una terza
via è la teoria dei “general principles of law”.
Il nome più importante per questa teoria è Ronald Dworkin. Vediamo la sua dottrina:
Per comprendere meglio la sua posizione dobbiamo dire qualcosa sulla teoria del diritto del suo professore H.
L. A. Hart. Partendo dalla sua analitica positivista, Hart soltanto riconosci come obbligatorie (oltre il costume) le
“rules”. Comunque non sempre queste “rules” sono esatte; loro lasciano “zone di ombre” e le sue margini sono
“vaghe”. Se una caso difficile (“hard case”) non sta chiaramente coperto da una regola giuridica, allora il giudice
decide d’accordo con il suo giudizio; all’interno dello suo spazio di discrezione, la sua decisione è sempre corretta.
In questo punto, in cui Hart finisce, incomincia Dworkin. Per lui la pura analitica non è sufficiente ormai. Lui
domanda, com’è che il giudice arriva, nei casi difficili in cui sono possibili diverse soluzioni giuridiche, ad un
determinato giudizio. Nella sua prospettiva, siamo davanti ad un problema d’interpretazione. Ciò, comunque, non
sarebbe, ancora, per se, niente di fondamentalmente nuovo a riguardo della posizione di Hart.
La novità è che Dworkin non ammette soltanto “rules”, ma pure “general principles of law” (facendo
menzione soprattutto di tre valori fondamentali: giustizia, fairness e Stato di Diritto), i quali sono vincolanti e con
effetto per tutti i poteri statali: legislativo, giudiziale, esecutivo. In questo senso, lui concepisce la sua teoria
decisamente como un “general attack on positivism”. Dworkin vede la differenza tra “rules” e “principles” nel fatto
che quelle hanno una funzione di tutto-o-niente non lasciando per ciò qualsiasi spazio di libero apprezzamento, mentre
invece questi (“principles”) hanno una dimensione di peso ed importanza. Con questa distinzione tra “rules” e
“principles”, il concetto positivistico di diritto è, senza dubbio, allontanato.
Secondo lui il giudice deve tenere in considerazione i “general principles of law” soprattutto nella
interpretazione dei “hard cases”. Lui è convinto che può solo avere una unica soluzione corretta per ogni caso.
Certamente, lui è consapevole che per la determinazione di questa unica soluzione corretta, si deve presupporre un
giurista con capacità sovraumane (Dworkin chiamagli Ercole), a chi non c’è mai la possibilità di una scelta libera,
discrezionale. Questo Ercole è evidentemente una fiction, ma Dworkin esige che il giudice nell’esercizio della sua
facoltà di giudicare prenda in considerazione i “general principles”, per lo meno, per lo chiarimento delle “zone
d’ombre”.

5. Critical Legal Studies

Questo movimento si contrappone soprattutto all’Economic Analysis of Law e con questo al positivismo
giuridico empirico. Dall’altra parte rigetta pure la pretesa della dogmatica giuridica di essere un metodo autonomo di
determinazione del diritto e capisce questo come un insieme di regole sociali. Robert Unger, uno dei principali
rappresentanti dei “Critical Legal Studies”, cerca soprattutto un fondamento di una teoria della emancipazione
dell’Uomo. Per questo lui esercita una critica radicale al tipo di pensiero giuridico tradizionale che, in sua opinione, si
esprime specialmente nel formalismo ed oggettivismo. È un movimento ancora poco sviluppato.

CAPITOLO IV
DIRITTO E MORALE (I)59

Premessa storica

Quando si parla del problema dei rapporti tra diritto e morale si è soliti dire, con B. Croce (1866-1952), che è il
“capo delle tempeste (o dei naufragi?) della scienza giuridica”.
Questo problema “delle relazioni tra morale e diritto, essendo tra i piú importanti della Filosofia del diritto,
occupò spesso i teorici, e costituisce un punto caratteristico di paragone tra vari sistemi”; esso costituisce veramente
59
R. Pizzorni, Filosofia del diritto, pp. 78-96.

26
“l’assunto storico, la ragion d’essere della moderna Filosofia del diritto”. Perciò, “la relazione tra diritto e morale è il
punto cruciale dell’intera dottrina del diritto naturale”. Tale dottrina esige una estensione del concetto di diritto e un
punto di vista ben definito circa i suoi limiti. Il problema non é piú un problema di forma o di struttura, ma di contenuto;
e il contenuto del diritto è un contenuto morale”.
Si suole dire che come Grozio (1583-1645) aveva reso autonomo il diritto della morale, cosi Cristiano
Thomasio (1655-1728) sarebbe stato il primo ad affrontare il problema della distinzione e dell’opposizione tra diritto e
morale, rendendo autonomo il diritto anche dalla morale: con Thomasio quindi si potrebbe parlare di una vera Filosofia
del diritto, indipendente dalla Filosofia morale. Egli distingue tre fonti del bene o tre forme del rectum, che
corrispondono a tre aspetti del comportamento umano:

1) il giusto (iustum), il cui principio fondamentale è: “Non fare all’altro quello che non vuoi che sia fatto a te”
(quod tibi non vis fieri, alteri ne feceris); è l’ambito del giusto, delle cose che ciascuno può chiamare sue con esclusione
degli altri e che corrisponde al Diritto, con il quale si vuole indicare che lo Stato deve proteggerlo perché si abbia un
ordine minimo nella società che la legge deve difendere anche coattivamente;

2) il decoro (decorum), il cui principio fondamentale è: “Fà agli altri quello che vuoi che gli altri facciano a te”
(quod vis ut alii tibi faciant, tu ipsis facies); è l’ambito del decoro o conveniente, oggetto della Politica che tratta di
stabilire le regole che decidono quello che è più conveniente per una società umana in una determinata circostanza;

3) l’onesto (honestum), il cui principio fondamentale è: “Fà a te stesso quello che voi che gli altri facciano a se
stessi”: (quod vis ut alii sibi faciant, tute tibi facies); è l’ambito dell’onesto, il cui studio e regolazione corrisponde
all’Etica; é l’ambito delle intenzioni della coscienza dell’uomo, con la quale indica che la moralità non sta nell’atto
esteriore ma nella buona intenzione, nella volontà (elemento specifico della morale).

La norma dell’onesto e del decoro, o della morale e dell’eticchetta, agisce sulla coscienza e si rivolge
all’individuo; riguarda solo il foro interno (forum internum) e costituisce un’obbligazione interna che è la più perfetta e
deve tendere alla pace interna degli uomini. La norma del giusto, o del diritto, agisce per via di autorità esteriore e
impone il rispetto degli altri; riguarda solo il foro esterno (forum externum) e costituisce un’obbligazione esterna per
salvaguardare la pace esterna fra gli uomini. Di qui l’incompetenza dello Stato nell’ambito della interiorità, nella sfera
della coscienza e della morale. La morale quindi riguarda l’individuo, l’interiorità o i doveri verso se stessi; il diritto
riguarda la società, l’esteriorità o i doveri verso gli altri. Di conseguenza il diritto è coercibile, e quindi è un dovere
perfetto, mentre concepire la morale come coercibile significherebbe snaturarne il carattere.

La antitesi tra il diritto e la morale veniva ripresa da Kant (1724-1804), fondandola sulla distinzione tra i
motivi dell’operare (che Kant chiama “azioni interne”), e l’aspetto fisico dell’operare (“azioni esterne”). Abbiamo cosi
la legalità, i doveri giuridici, la legislazione esterna o diritto che prescrive come dovere il fare l’azione, e la moralità, i
doveri morali, la legislazione interna o morale che si fonda sull’imperativo categorico e che eleva a dovere anche il
motivo d’azione. Di qui i tre caratteri distintivi della morale: autonomia, interiorità, spontaneità, e i tre caratteri opposti
del diritto: eteronomia, esteriorità, coattività. Quindi ogni legislazione che erige un’azione a dovere, e questo dovere ad
impulso, é morale, mentre la legislazione che ammette anche un impulso diverso dal dovere stesso, è giuridica.
Col Fichte (1762-1814) la separazione del diritto dalla morale fu portata all’estreme conseguenze. Egli scavò
tra di loro un abisso incolmable, per cui il giusto non avrá più nulla a che vedere con l’ordine morale: sono fra loro in
opposizione. Il diritto diventa un semplice termine convenzionale; denota solo la legalità. Il dovere morale, infatti, è
categorico, mentre il dovere giuridico consiglia: “mentre la morale comanda categoricamente, la legge giuridica
permette soltanto, ma non impone che si eserciti il proprio diritto. Anzi la morale spesso vieta l’esercizio di un diritto
che nonostante ciò rimane un diritto, come tutti ammettono”. Così la coazione viene concepita come essenziale al
diritto, onde la necessità dello Stato.

1. Relazioni e distinzioni tra diritto e morale

La diferenza tra il diritto e morale si porrà, così, come distinzione nell’unità: la teoria di Kant e di Fichte
finiscono per distruggere l’uno e l’altra.
Vediamo la distinzione tra morale e diritto in funzione del loro oggetto specifico, del fine, dei mezzi e delle
determinazioni concrete.

a) Per quanto riguarda l’oggetto, la morale abbraccia tutte le virtù, tutto l’insieme dell’attività umana; il diritto
invece si restringe al campo della giustizia, intesa come campo delle relazioni sociali e come esigenza del minimo di
moralità necessaria ai fini della vita sociale, ordinata anch’essa al bene comune. Perciò il diritto non è tutta la morale,
ma solo una parte integrante di essa, che riguarda “l’ordine della ragione nelle operazioni esterne (della giustizia)”. Di
conseguenza, mentre la legge naturale, come principio morale, si estende a tutti gli atti umani, a tutti gli atti delle virtù,
il campo della legge umana o del diritto umano è molto più ristretto (minimum etico); si limita a quegli atti che hanno
rilevanza sociale.

27
b) Per le finalità, mentre la morale dirige l’uomo insediandosi nella coscienza, pur riguardando e dominando
anche le azioni della persona umana nelle sue relazioni esteriori e sociali, che considera sempre in funzione della
interiorità del singolo, il diritto tende a dettare norme per i rapporti esteriori ed obiettivi, data l’intrinseca natura della
giustizia che ordina l’uomo “in his quae sunt ad alterum”. Il fine dell’ordine giuridico è il bene sociale, il fine
dell’uomo in società, mentre il fine dell’ordine morale è il bene dell’uomo in se stesso, in quanto uomo.

c) Per i mezzi, la morale non ricorre mai alla forza fisica ed esterna, mentre il diritto si appella o può far
ricorso alla coazione.
d) Riguardo poi alle determinazioni concrete, nella morale è sempre la “natura rei” quella che decide della
intrinseca ed oggettiva bontà o malizia di un atto, di modo che in morale viene comandata una cosa perchè è buona o
viene proibita perché è cattiva; invece nel diritto positivo, almeno nel diritto meramente positivo, una cosa è buona solo
perché comandata, od è cattiva solo perché proibita; ma per il fatto che viene comandata o proibita, diviene eticamente
buona o cattiva e quindi rientra nella morale. Mentre la materia della morale e del diritto naturale sono sempre azioni
che hanno una loro intrinseca moralità, il diritto positivo, talvolta, comanda o proibisce azioni di per sé moralmente
indifferenti.

2. Il diritto parte della morale

Tra diritto e morale vi é dunque una necessaria coerenza ed anche una integrazione reciproca, poichè né l’una
né l’altra forma sono sufficienti per reggere compiutamente l’umano operare; vi é cioè, distinzione ma non separazione
né tantomeno contrasto.
I molteplici riferimenti ai valori che i Codici hanno (la solidarietà, il buon costume, uguaglianza morale e
giuridica dei coniugi, i diritti umani, i doveri morali e sociale, ecc.) rivelano che l’ordine morale avvalora l’ordine
giuridico positivo ed infonde ad esso la virtù di obbligare. Così ogni legge morale non è legge giuridica, ma ogni legge
giuridica è legge morale in quanto obbliga in coscienza e trova il suo fondamento nel dovere, che è l’essenza della
moralità.
Ma se ogni attività umana cade sotto la luce della morale, tuttavia ogni attività ha un suo specifico contenuto
che non è sempre un contenuto eticamente commendevole. Così, “non tutto ciò che giuridicamente è lecito è anche
conforme alla morale”. Ora è vero che il diritto permette molte cose che la morale vieta, ma ciò non implica
contraddizione; questa vi sarebbe, se il diritto comandasse di fare ciò che fosse proibito dalla morale, ma questo in un
medesimo sistema non può mai avvenire, per logica necessità e coerenza intrinseca. Quindi vera contraddizione può
avversi, non già tra morale e diritto come parti di uno stesso sistema, ma tra sistema e sistema: ossia tra diversi criteri
etici, ognuno dei quali però si traduce necessariamente in determinazioni morali e giuridiche coerenti tra loro.
Lo scopo immediato del diritto, infatti, è di procurare all’uomo la possibilità di compiere liberamente i suoi
obblighi, e disporre dei mezzi necessari. E ciò non vuol dire che ogni uso di questo diritto sia, in generale, moralmente
lecito; ma soltanto che esso non va contro la giustizia. Dal fatto quindi che ciò che è lecito giuridicamente non è sempre
lecito moralmente, e dal fatto contrario che ciò che è moralmente illecito non è sempre illecito giuridicamente, o
contrario al diritto e alla giustizia, non ne segue che i due ordini siano fra loro in contraddizione o opposizione ma che
vi è semplice distinzione. L’ordine giuridico, infatti, è semplicemente una parte, sebbene parte essenziale, dell’ordine
morale.

3. Diritto naturale, e diritto e morale60


Per i giusnaturalisti tradizionali, la soluzione di questo dibattuto problema dei rapporti tra diritto e morale
apparirebbe molto facilitata se si ritornasse alla dottrina del diritto naturale che sempre ha difeso, come suo tratto
distintivo, l’intima relazione tra diritto e morale.
La legge naturale è cosi morale e diritto, e da essa deve derivare il diritto positivo se vuole conservare il nome
di diritto e non avere il nome di violenza, decadendo alla condizione di puro fatto, risolvendosi cosi in un mero rapporto
fondato sulla forza bruta e non sulla razionalità.
Il “giusto”, infatti, che è oggetto del diritto, è una parte del bonum, oggetto della morale; ne viene di
conseguenza che la giustizia è una parte della moralità; la nozione di dovere deve racchiudere un’obbligazione morale e
pertanto il dovere è sempre etico, perciò anche le leggi giuridiche sono una classe delle leggi morali. Come le varie
specie di virtú non sono che una sola virtú, e le varie specie di giustizia, una giustizia, cosí, infine, anche la virtú e la
giustizia, si unificano.

60
F. D’Agostino, a proposito del rapporto tra morale e diritto presenta tre grandi modelli: “a) primato della morale sul diritto; b) irrilevanza per
la morale e della morale per il diritto; c) primato del diritto sulla morale. Tutte e tre queste soluzioni possono essere delineate ricorrendo ad alcune
considerazioni storico-sistematiche. Si può infatti sostenere che nella storia della cultura occidentale è possibile individuare tre grandi fasi, quella
dell’età antica e medievale, quella dell’età moderna e infine quella dell’età contemporanea, che sono caratterizzate ognuna dal prevalere di ciascuno
dei tre modelli cui abbiamo accennato... Se poi si considera che, a parere di molti, siamo ormai entrati in un’epoca che andrebbe risolutamente
qualificata come post-moderna, si capirà ancora meglio l’utilità di una simile radicale schematizzazione... Ed infine, che l’epoca post-moderna possa
elaborare un quarto modello... un suo post-modello, è problematico” (Filosofia del diritto, p. 26).

28
Conclusione: i due concetti di diritto e morale, sono in intima ed essenziale connessione, in quanto, dal punto
di vista del valore, la giuridicità implica sempre, per sua natura, razionalità e conformità all’etica: il vero diritto è
sempre degno di morale approvazione. Tuttavia diritto e morale si distinguono, perché non tutto ciò che è morale è
diritto. Le leggi della carità, della benevolenza, della temperanza, ecc., sono leggi etiche, eppure non sono leggi
giuridiche. La morale infatti abbraccia tutte le virtú, mentre il diritto si riferisce solo alla virtú della giustizia.
Alcuni parlano anche di diritto come il “minimum etico”. La legge positiva, infatti, tende all’attuazione esterna
dell’azione comandata, e si accontenta quindi del minimo etico per ciò che si riferisce all’intenzione del suddito, ed
anche perché il diritto tende a garantire e proteggere quel tanto di etica, quel minimum sufficiente, che è strettamente
necessario a rendere possibile al singolo, come alla comunità, il raggiungimento del suo fine ultimo.

DIRITO E MORALE (II):


Diritto e morale nelle principali filosofie del diritto

Proprio sui rapporti fra diritto e morale i filosofi del diritto si dividono in due grande famiglie: il
giusnaturalismo, che mira soprattutto a stabilire cosa il diritto debba essere, e il positivismo giuridico, che invece mira
soprattutto a sapere cosa il diritto sia. Vediamo la differenza fra giusnaturalismo e positivismo giuridico ricorrendo
all’esempio del processo di Norimberga (1); poi queste due filosofie del diritto e loro variante odierne come realismo
giuridico e neo-costituzionalismo (2).

I. Differenza fra giusnaturalismo e positivismo giuridico ricorrendo all’esempio del processo di Norimberga

1. Il processo di Norimberga

Partiamo di un esempio concreto che serve per illustrare la differenza tra giusnaturalismo e positivismo ma
anche per vedere il tipo di questioni che s’affrontano in un corso di filosofia del diritto.
Alla fine della seconda guerra mondiale, le potenze vincitrici (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Unione
Sovietica) decisero di procesare i capi della Germania nazista per tre ordini di imputazioni:
a) crimini contro la pace (aver scatenato il conflitto);
b) crimini di guerra (violazione delle convenzioni internazionali);
c) crimini contro la umanità (sterminio sistematico di milioni di ebrei, zingari, omossessuali e avversari
politici).

Il processo si tenne nella città tedesca di Norimberga, dal novembre 1945 all’ottobre 1946 e si concluse con la
condanna di gran parte degli accusati, in qualche caso alla pena di morte.
I giudici dovettero affrontare problemi giuridici molto complessi: giustificare lo stesso processo, le cui base
giuridiche erano incerte. Contro le accuse i gerarchi nazisti potevano difendersi sostenendo di aver obbedito al diritto
vigente nella Germania nazista; ma contro il processo essi potevano invocare l’indeterminatezza del diritto
internazionale: che vietava sì molti dei crimini loro attribuiti, ma senza stabilire né pene né procedure né, meno che mai,
tribunali per giudicarli. Come si può vedere il processo solleva soprattutto il problema generalissimo dei rapporti fra
diritto e morale, che ottengono risposte diverse da parte del giusnaturalismo e del positivismo giuridico.

1.1. La risposta del giusnaturalismo

Il giusnaturalismo sostiene la tesi della conessione necessaria fra diritto e morale: solo il diritto moralmente
giusto sarebbe autentico diritto e andrebbe obbedito; il diritto ingiusto non potrebbe dirsi diritto e comunque non
andrebbe obbedito (dai cittadini) né applicato (dai pubblici funzionari e in particolari dai giudici). Gli imputati nazisti
non potevano dunque giustificarsi affermando di essersi limitati ad applicare il diritto nazista: questo non avrebbe
dovuto considerarsi diritto né, a maggior ragione, essere obbedito o applicato.
Per la corrente neo-costituzionalista la tesi giusnaturalista della connessione necessaria consiste in realtà di tre
sotto-tesi, non tutte egualmente convincenti; fra diritto e morale, in particolare, si darebbero tre connessioni necessarie:
l’una definitoria; l’altra giustificativa, l’altra ancora interpretativa.

a) Il giusnaturalismo sostiene, anzitutto, la sotto-tesi della connessione necessaria definitoria, ossia relativa al
significato, alla definizione, al concetto delle parole “diritto” e “morale”: il vocabolo “diritto”, cioè, dovrebbe essere
definito come l’insieme delle norme giuste, o non intollerabilmente ingiuste, sicché il diritto immorale o ingiusto non
potrebbe neppure chiamarsi diritto. Questa è la sotto-tesi meno plausibile: infatti non c’è nulla di contraddittorio
nell’affermare che qualcosa è diritto ma è ingiusto. I giusnaturalisti preferiscono, comunque, la seconda sotto-tesi,
giustificativa.

29
b) Il giusnaturalismo sostiene, in effetti, la sotto-tesi della connessione necessaria giustificativa fra diritto e
morale: al diritto nazista non si sarebbe comunque mai dovuto obbedire; da un punto di vista sia morale sia giuridico,
vista la connessione necessaria fra le due nozioni, l’obbedienza al diritto moralmente ingiusto sarebbe ingiustificata.
Questa sotto-tesi sembra molto plausibile: nessuno – tranne gli stessi nazisti – sarebbe disposto ad affermare che il
diritto nazista dovesse venire obbedito, e i crimini nazisti restare impuniti.

c) Il giusnaturalismo sostiene, infine, la sotto-tesi della connessione necessaria interpretativa fra diritto e
morale: il diritto non potrebbe che essere interpretato in base a valori morali. Questa terza sotto-tesi va letta con gli altre
due sotto-tesi e si applica al diritto internazionale applicato dai giudici del processo di Norimberga: è questo che deve
essere interpretato moralmente, in modo da fare comunque giustizia. Questa terza sotto-tesi può apparire plausibile in
un caso eccezionale come il processo di Nuremberga o nella giusrisprudenza delle Corti costituzionali, impegnata a
tutelare valori morali o politici come i diritti dell’uomo; nei processi ordinari – civili, penali o amministrativi – essa
appare però molto meno convincenti.

1.2. La risposta del positivismo giuridico

Il positivismo, per contro, avanza la tesi della separabilità, o della non necessaria connessione fra diritto e
morale. I termini “diritto” e “morale” indicano insieme di norme che, nella storia del mondo, sono sempre stati
strettamente connessi; anzi, nella maggior parte delle culture – primitive, ma anche sviluppate come quella cinese e
indiana – questi insieme di regole, e anche le nozioni usati per indicarli, tendono a confondersi. Anche nell’Occidente
moderno diritto e morale, benché distinti, continuano a presentare innumerevole connessioni: ma fattuali, empiriche e
contingenti.
Detto altrimenti: le norme morali, di fatto, influiscono sulle norme giuridiche, e viceversa; i loro rapporti sono
empirici, dipendenti dall’esperienza; questi stessi rapporti, infine, sono contingenti, ossia mutevole. La tesi
giuspositivista – che è una tesi della separabilità, non della separazione – nega solo rapporti definitori, concettuali o
necessari: i vocaboli “diritto” e “morale” possono essere definiti indipendentemente l’uno dall’altro, il diritto ingiusto è
pur sempre diritto.
Anche il giuspositivismo si articola in almeno tre sotto-tesi – definitoria, giustificativa e interpretativa –
accomunate da una caratteristica che vale a distinguerli dalle tre sotto-tesi giusnaturalistiche: si tratta sempre di sotto-
tesi conoscitive, descrittive dei rapporti fra diritto e morale, mentre le tre sotto-tesi giusnaturaliste sono piuttosto
normative, prescrittive di come essi dovrebbero essere.
a) Il giuspositivismo, anzitutto, sostiene la sotto-tesi della separabilità definitoria: il vocabolo “diritto” può
ben essere definito anche senza riferirsi alla morale, alla giustizia o al diritto naturale. Lo stesso diritto nazista, benché
moralmente mostruoso, era pur sempre diritto. I giuspositivisti inclusivi sostengono solo che il diritto non
necessariamente includa la morale, benché poi l’includa molto spesso, in particolare nelle costituzioni degli odierni
Stati costituzionali; i giuspositivisti esclusivi, invece, sostengono che il diritto necessariamente non includa la morale,
perché trasformerebbe in diritto qualsiasi cosa incorpori.

b) Il giuspositivismo, poi, sostiene la sotto-tesi della separabilità giustificativa fra diritto e morale: il diritto
richiede ai giudici solo di motivare le proprie decisioni in base allo stesso diritto, non alla morale; la conessione
giustificativa rivendicata dai giusnaturalisti, dunque, è solo normativa e contingente, e non concettuale e necessaria. Qui
conviene distinguere due giuspositivismi: detti rispetivamente ideologico e metodologico. Il giuspositivismo ideologico
sostiene che al diritto positivo si deve comunque obbedire; il giuspositivismo metodologico, invece, sostiene che prima
di poter dire qualsiasi cosa circa il diritto come deve essere, bisogna sapere che cosa esso sia: il filosofo del diritto deve
anzitutto analizzare concetti e spiegare fatti, e solo poi – ma distinguendo le due cose – invitare la gente a obbedire o
disobbedire il diritto. Mentre il giuspositivismo ideologico è incompatibile con il giusnaturalismo, trattandosi di due
dottrine normative opposte – l’una che prescrive di obbedire al diritto, l’altra che prescrive di obbedire alla morale – il
giuspositivismo metodologico potrebbe invece essere compatibile: l’incompatibilità consiste solo nel fatto che il
giusnaturalismo sostiene una connessione giustificativa necessaria e il giuspositivismo una connessione giustificativa
contingente fra diritto e morale.

c) Il giuspositivismo, infine, sostiene la sotto-tesi della separabilità interpretativa fra diritto e morale: il
diritto può ben essere interpretato anche senza fare ricorso alla morale. Pure nel caso dell’interpretazione del diritto
costituzionale e internazionale – basati entrambi su valori morali come i diritti umani – l’interpretazione morale è una
scelta, non una necessità: a Norimberga i giudici avrebbero anche potuto decidere di non essere competenti a giudicare,
sulla base del diritto internazionale vigente.

Conclusione: L’esempio del processo di Norimberga mostra che il problema dei rapporti fra diritto e morale
può essere affrontato dal solo punto di vista giuridico o anche dal punto di vista morale, come fanno rispettivamente
giuspositivismo e giusnaturalismo; dal solo punto di vista conoscitivo, come nelle sotto-tesi della separabilità, o anche
dal punto di vista normativo, come nelle sotto-tesi della connessione necessaria. Il problema dei rapporti fra diritto e
morale sembra irresolubile proprio per questo: gli interlocutori sono in realtà interessati a questioni diversi.

30
II. Le varie filosofie del diritto

Schematicamente vediamo le quattro tesi tipiche o rappresentative per le varie filosofie del diritto e che
riguardano sempre: 1. i rapporti fra diritto e morale; 2. l’oggettività o soggettività delle valutazioni o delle norme etiche
(morali, politiche, giuridiche); 3. il problema dell’interpretazione.

1. Giusnaturalismo

a) Connessione necessaria fra diritto e morale: il diritto può essere definito, giustificato e
interpretato in riferimento alla morale;
b) Oggettivismo etico: norme e valutazioni etiche (morali, politiche, giuridiche) sono vere o
false, o almeno oggettivamente giuste o ingiuste;
c) Formalismo interpretativo: ogni disposizione giuridica, a ben vedere, ha uno e un solo
significato.

Sulla tesi a) occorre distinguere fra due versioni della tesi: una versione forte, troppo esigente e assai meno
diffusa: qualsiasi violazione della morale farebbe perdere carattere giuridico al diritto ingiusto, e venir meno l’obbligo
di applicarlo e di interpretarlo. Vi è, in secondo luogo, una versione debole, meno esigente e assai più diffusa, espressa
della cosiddetta formula di Radbruch; a far perdere carattere giuridico al diritto, e a far venir meno l’obbligo di
applicarlo e di interpretarlo, non sarebbe qualsiasi violazione della morale, ma solo le violazioni intollerabilmente
ingiuste (es. Crimini nazisti).
Sulla tesi b), l’oggettivismo etico, per millenni il giusnaturalismo ha coltivato l’etica normativa: la proposta di
norme e istituzioni garantita dalla fede nella loro verità od oggettività. Nella prima metà del Novecento, peraltro, questa
fede è entrata in crisi, e si è cominciato a discutere soprattutto di meta-etica: il problema dell’oggettività o soggettività
della stessa etica normativa. Per oltre mezzo secolo ha prevalso il soggettivismo etico tipico del giuspositivismo: i
valori, cioè, sono stati considerati soggettivi, relativi allo stesso soggetto che valuta. Almeno a partire dall’opera di John
Rawls, Una dottrina della giustizia (1971), peraltro, si sono fornite soluzioni di compromesso ai dubbi meta-etici e si è
tornati a discute di etica normativa, compresi quei suoi settori in continua espansione che sono l’etica applicata e la
bioetica.
Quanto alla tesi c), il formalismo interpretativo, se distingue in tre teorie dell’interpretazione: lo stesso
formalismo interpretativo (ogni disposizione giuridica ha uno e un solo significato); la teoria mista (alcune disposizioni
giuridiche hanno un unico significato, mentre altre ne hanno più di uno); lo scetticismo interpretativo (ogni disposizione
può sempre avere più significati).
Vediamo adesso tre forme di giusnaturalismo: antico (giusnaturalismo: epoca classica e medievale), moderno
(giusrazionalismo: epoca dopo la scoperta dell’America) e contemporaneo (neo-giusnaturalismo: periodo che comincia
con la Rivoluzione Francese). Fra questi tre giusnaturalismi ci sono differenze teoriche: il giusnaturalismo antico è
spesso formulato in termini di natura; il giusrazionalismo moderno in termini di ragione; i neo-giusnaturalismi
contemporanei talvolta recuperano tesi del giusnaturalismo antico, altre volte del giusnaturalismo moderno.

2. Positivismo giuridico

L’espressione “positivismo giuridico” è stata coniata alla fine dell’Ottocento, come calco di “positivismo
filosofico”: la tesi metodologica secondo cui l’unica autentica conoscenza è fornita dalla scienza moderna e ha ad
oggetto fatti accertabili con l’osservazione e l’esperimento, e in questi sensi positivi. “Positivismo giuridico” indicò tesi
analoghe: oggetto della scienza giuridica non sono i valori (il diritto naturale), ma fatti (il diritto positivo), o comunque
norme positive, prodotte dall’uomo e conoscibili alla stregua di fatti.
a) Tesi della separabilità, o della non necessaria connessione fra diritto e morale: il diritto può essere
definito, giustificato e interpretato anche senza riferirsi alla morale;
b) Soggettivismo etico: norme e valutazioni etiche (morali, politiche, giuridiche) non sono vere o
false, e neppure oggettivamente giuste o ingiuste;
c) Teoria mista: le disposizione giuridiche hanno talvolta un unico significato, altre volte più
significati.

Nella tesi a) non si tratta qui della tesi della separazione (empirica), ma della separabilità (analitica): diritto e
morale possono distinguersi concettualmente anche ove siano di fatto connessi. Poi si tratta sempre della negazione
della tesi giusnaturalista della connessione necessaria (identificativa, giustificativa e interpretativa); quel che i
giuspositivisti contestano, non è la connessione, ma la sua pretesa necessità: che nasconderebbe solo una prescrizione di
identificare, giustificare e interpretare il diritto in base alla morale.
La tesi b) costituisce anch’essa una negazione di una tesi giusnaturalista: in questo caso, l’oggettivismo etico.
Il soggettivismo etico giuspositivista discende dall’oggettivismo giusrazionalista: in particolare, dalla sostituzione
dell’unica ragione universale con le molteplice ragioni individuali come fonte del valore. La sua età d’oro è la prima

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metà del Novecento con Hans Kelsen, che sosteneva che proprio la soggettività dei valori, congiunta con l’esigenza di
prendere comunque decisioni valide per tutti, giustificherebbe la democrazia, ossia la decisione a maggioranza. Per
“soggettivismo meta-etico” allora s’intendeva qualsiasi forma di scetticismo sui valori, dal relativismo al pluralismo
etico.
Quanto alla tesi c), oggi la maggioranza dei giuspositivisti aderisce alla teoria mista, intermedia a formalismo e
scetticismo interpretativi. Anche il giuspositivismo ha vari sensi: giuspositivismo ideologico, metodologico e teorico.
Per giuspositivismo teorico, o formalismo giuridico, s’intende una lunga serie di teorie (solo conoscitive), e di
dottrine (anche normative), sostenute a partire dall’Ottocento da autori soprattutto tedeschi, francesi e inglesi. Il
giuspositivismo teorico può essere definito solo enumerando le sue varie tesi: la tesi della positività (“diritto”
indicherebbe il solo diritto positivo); la tesi della normatività o imperativa o prescrittiva (“diritto” indicherebbe le
norme, o comandi, o prescrizioni); la tesi della coattività (le norme giuridiche si distinguerebbero dalle norme morali
perché sanzionate, o comunque tali da imporsi ai destinatari anche contro la sua volontà); la tesi della statualità (le
norme giuridiche sarebbero prodotte solo dallo Stato); la tesi della coerenza (le norme giuridiche, a ben vedere, non si
contraddirebbero mai); la tesi della completezza (le norme giuridiche, a ben vedere, risolverebbero tutti i casi); la tesi
della univocità (il formalismo interpretativo); la tesi della scientificità (la dottrina giuridica sarebbe una scienza, benché
di norme e non di fatti).
Per giuspositivismo ideologico s’intende la tesi che il diritto positivo sia obbligatorio, abbia forza vincolante,
insomma debba essere obbedito e applicato: tesi già sostenuta da Hobbes. Dopo Auschwitz, peraltro, i giuspositivisti
aderiscono normalmente al giuspositivismo metodologico e sostengono solo teorie (conoscitive) del diritto: non dottrine
(normative), e comunque non la tesi che al diritto si debba sempre obbedire.
La etichetta “giuspositivismo ideologico” viene ancora usata per almeno tre tesi, anche se sembra oggi una tesi
senza sostenitori: la prima tesi è il legalismo etico (il diritto sarebbe sempre moralmente giusto); la seconda tesi è la
teoria di Kelsen secondo cui “validità” significa anche obbligatorietà di norme (una tesi può essere giuridicamente e non
moralmente obbligatoria e vice versa); la terza è il cosidetto giuspositivismo etico: il diritto può essere politicamente e
moralmente obbligatorio a patto che rispetti valori come democrazia e diritti del’uomo.
Per giuspositivismo metodologico, a rigore, dovrebbe intendersi solo una tesi di metodo: la tesi che il diritto
vada studiato scientificamente e avalutativamente, formulando solo teorie (conoscitive) e non anche dottrine
(normative). Questa tesi incontra grosse dificoltà: la dottrina, infatti, non si limita a conoscere il diritto, ma lo interpreta:
attività che contribuisce alla produzione del diritto.

3. Realismo Giuridico

Nel corso del Novecento la bipartizione ha lasciato posto alla tripartizione: giusnaturalismo, giuspositivismo e
giusrealismo (USA e Scandinavia). Che il giusrealismo costituisca una posizione davvero distinta dal giuspositivismo,
peraltro, non è affatto ovvia.
a) Tesi della separabilità, o della non necessaria connessione fra diritto e morale: il diritto deve
essere definito, giustificato e interpretato senza riferirsi alla morale;
b) Soggettivismo etico: norme e valutazioni etiche (morali, politiche, giuridiche) non sono vere o
false, e neppure oggettivamente giuste o ingiuste.
c) Scetticismo interpretativo: tutte le disposizioni giuridiche, a ben vedere, hanno più significati.

La tesi a) sembra coincidere con quella tesi a) del positivismo giuridico. In realtà i giusrealisti contestano,
ancor più dei giuspositivisti, la possibilità di parlare di un diritto naturale.
La tesi b) è sostanzialmente comune a ambedue. Per i giusrealisti scandinavi le valutazioni morali sono poco
più che espressione di emozioni soggettive. I giuspositivisti odierni sono invece approdati a forme più moderate di
soggettivismo etico: per loro, il confronto delle ragioni di ognuno può spesso permettere di raggiungere quel surrogato
della giustizia oggettiva che è il consenso intersoggettivo.
L’unica delle tre tesi in questione che permette davvero di distinguere giusrealismo e giuspositivismo, dunque,
è la tesi c), relativa alla teoria dell’interpretazione. Tutti i giusrealisti sostengono lo scetticismo interpretativo: che ogni
disposizione giuridica può esprimere più significati.

4. Neo-costituzionalismo

Negli ultimi trent’anni si ha delineato una quarta filosofia del diritto, certamente critica del giuspositivismo ma
non necessariamente assimilabile al giusnaturalismo: filosofia del diritto che non ha ancora contorni netti e neppure un
nome consolidato, ma che potrebbe chiamarsi neo-costituzionalismo e si presenta come la teoria (conoscitiva) che
meglio spiega, o la dottrina (normativa) che meglio giustifica il diritto prodotto dall’odierno Stato (di diritto)
costituzionale.
Lo Stato (di diritto) legislativo dell’Ottocento, oggetto del giuspositivismo ottocentesco, attribuiva un ruolo
dominante, se non esclusivo, alla legislazione; di fatto, le legislazioni erano spesso flessibili, ossia modificabili da parte
della legge ordinaria, e non c’era modo di impedirne la violazione a opera del legislatore: ciò che induceva a
considerarle come documenti più filosofici e politici che strettamente giuridici. Lo Stato (di diritto) costituzionale della

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seconda metà del Novecento, oggetto del neo-costituzionalismo odierno, si distacca dallo Stato legislativo ottocentesco
soprattutto per due aspetti: la rigidità della costituzione, non più modificabile dalla legge ordinaria ma solo da leggi
costituzionali, approvate con maggioranze rinforzate; il controllo di legittimità costituzionale delle leggi, con il quale le
Corti costituzionali annullano le leggi ordinarie che violano la costituzione.
Il passaggio dallo Stato legislativo ottocentesco allo Stato costituzionale novecentesco è stato chiamato
processo di costituzionalizzazione del diritto: la rigidità e il controllo di legittimità costituzionale hanno permesso ai
principi costituzionali di pervadere la legislazione, che è stata sempre più spesso interpretata in modo da adeguarla alla
costituzione. Poiché peraltro gli stessi principi costituzionali si esprimono normalmente in termini di valori morali
generalissimi, come libertà, eguaglianza, solidarietà sociale, la tesi giuspositivista della separabilità fra diritto e morale
viene ritenuta superata dai neo-costituzionalisti; e benché non manchi un neo-costituzionalismo più prossimo al
giuspositivismo, i neo-costituzionalisti tornano a difendere la tesi della connessione necessaria, sia pure limitandola agli
Stati costituzionali.

Neo-costituzionalismo

a) Connessione necessaria fra diritto e morale: il diritto – limitatamente agli Stati costituzionale –
può solo essere definito, giustificato e interpretato in relazione alla morale.
b) Oggettivismo etico: norme e valutazioni etiche (morali, politiche, giuridiche) sono vere o false, o
almeno oggettivamente giuste o ingiuste.
c) Formalismo interpretativo: ogni disposizione giuridica, a ben vedere, ha uno e un solo significato.

Quanto alla tesi a), i neo-costituzionalisti tendono a difendere tutt’e tre le sotto-tesi della tesi giusnaturalista
della connessione necessaria – definitoria, giustificativa e interpretativa – sempre limitandone la validità agli Stati
costituzionali: i maggiori rappresentanti del neo-costituzionalismo sono Dworkin, americano, Alexy, tedesco, Nino,
argentino.
Quanto alla tesi b) tutti i neo-costituzionalisti tornano a forme di oggettivismo etico: sia pure diverse dal
tradizionale oggettivismo giusnaturalista, e più prossime all’oggettivismo delle odierne dottrine della giustizia. Per loro,
in particolare, le qualità etiche non sono già date nella natura o nella ragione universale, ma vengono costruite e
attribuite ai loro oggetti per mezzo della stessa discussione razionale: anche se, entro questi limiti, sarebbe ammissibile
parlare di valori veri o almeno oggettivamente giusti, riconoscibili come tali da chiunque si impegni a discutere.
Quanto alla tesi c), tutti i neo-costituzionalisti tendono ad avanzare, non teorie (conoscitive), ma dottrine
(normative) dell’interpretazione: dottrine che di regola le assegnano il compito di assicurare la giustizia. Nino ammette
la tesi scettica che ogni disposizione giuridica possa esprimere più norme: proprio per questo, peraltro, sostiene che
occorra un criterio ultimo per scegliere fra le diverse interpretazioni, e questo può essere solo la giustizia. Alexy avanza
una teoria procedurale dell’argomentazione giuridica, come parte dell’argomentazione morale: assumendo che
seguendo la procedura si possa pervenire a risultati relativamente oggettivi. Solo Dworkin, a rigore, sostiene
espressamente la tesi formalista dell’unica soluzione corretta (one right answer): ogni problema interpretativo sarebbe
in realtà morale o etico, e avrebbe un’unica soluzione, almeno nel senso di più giusta di tutte le altre.

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