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di Pietro Alotto
All’origine questo scritto avrebbe dovuto essere una breve ricerca su: i filosofi e la
pena di morte. Anzi, proprio questo era il titolo che avevo pensato di darle. Poi,
però, mi sono domandato a chi poteva servire una mera sequenza di considerazioni
teoriche e di prese di posizione contrastanti, per quanto autorevoli. Se non si
corresse il rischio di rafforzare la convinzione che, nascondendosi dietro le parole di
Kant, piuttosto che di Beccaria o Stuart Mill, ognuno, alla fine, in questa materia
si sentisse autorizzato a pensarla come vuole.
Esporre le diverse posizioni filosofiche, discutendone le argomentazioni a sostegno
non era possibile in così breve spazio, e senza correre un ulteriore rischio: quello di
assommare la mia povera voce a quella ben più forte e potente dei grandi filosofi.
Da qui l’idea del dialogo.
Il dialogo rende possibile il confronto e lo scontro delle diverse posizioni su un
terreno aperto, quello della disfida delle buone ragioni.
Questo escamotage mi ha permesso di presentare le argomentazioni dei
sostenitori della pena di morte e quelle degli abolizionisti, di valutarne la diversa
solidità argomentativa, di evidenziarne quelli che, a mio avviso, sono i punti deboli
e i punti di forza.
Gli argomenti a sostegno delle due posizioni sono quelli prevalenti nel dibattito
sulla pena di morte. Ho provato a riportarli nel modo più obiettivo, cercando di
renderli più solidi e convincenti che ho potuto.
Gli studenti che si sono cimentati nella produzione degli elaborati su questo tema
riconosceranno in molte di queste argomentazioni, alcune delle loro idee (questo a
testimonianza del fatto che si può essere filosofi senza saperlo), e vi potranno
trovare e valutare anche le possibili obiezioni ai loro argomenti. A loro continuare
il gioco con le possibili contromosse.
Questo dialogo vuole essere un modesto esempio di discussione razionale di un
tema che si presta facilmente a prese di posizione emotive. Quello che ho cercato di
fare, è di esplicitare le diverse posizioni sul tema, di rendere visibili le loro
conseguenze logiche, il loro significato e le ricadute sul piano etico, sperando di
alimentare se non altro il seme del dubbio, in ragazzi che troppo spesso tendono a
manifestare ostinate certezze.
C. Ma chi ti dice che la vita sia il massimo dei beni che un uomo può
perdere?
E. Ce lo dice, p. e., Kant nella Metafisica dei Costumi:
E. Non sarà quello che sto pensando? Certo che potresti sceglierti
meglio i tuoi compagni di strada! Citare in difesa dell’abolizione della
pena di morte un passo tratto da un discorso all’Assemblea Nazionale
di M. de Robespierre, è come citare una perorazione di Hitler a
favore degli ebrei.
C. Mi rendo conto che ha un po’ dell’umorismo nero, eppure
Robespierre, come ci attesta anche Bobbio, è stato uno dei più
efficaci difensori dell’abolizione della pena di morte! Proseguiamo.
L’analogia dell’individuo con il “corpo sociale” è discutibile. E’
improprio parlare di diritti riferendosi allo Stato: solo gli individui
hanno diritti non le istituzioni.
Per finire, la legittima difesa è riconosciuta come una valida
giustificazione per un reato, soltanto nel caso in cui il reo non avesse
altre vie d’uscita (come la fuga). E questo non sembra il caso dello
Stato. Lo Stato ha una molteplicità di vie alternative (come
l’ergastolo) per difendersi e infliggere la pena. Inoltre, com'è stato più
volte rilevato, la pena di morte viene comminata dopo un lungo processo,
eseguita a freddo ed in modo premeditato.
E. Tu dai per scontate troppe cose. La principale è questa: tu sostieni
che gli stessi obiettivi (la difesa sociale) lo Stato li può ottenere nello
stesso modo con pene alternative, ma come fai a dirlo? Io credo che
la pena di morte sia l’unica forma di pena adeguata agli scopi che
vogliamo raggiungere: la giusta punizione del reo, la difesa dell’ordine
sociale e l’effetto-deterrenza.
Per quanto riguarda la giusta punizione abbiamo già detto. Veniamo
alla difesa dell’ordine sociale. Punire un assassino con la morte serve
per impedire che una volta rimesso in circolazione quest’individuo
possa rifarlo. Le cronache sono piene di casi di omicidi efferati
commessi da persone condannate per omicidio e rimesse in libertà
per le più svariate ragioni. Eliminare i condannati evita questo rischio.
E’ un atto di pulizia sociale: la società sarà migliore senza
quest'individuo.
C. Mi chiedo da dove proviene tutta questa rabbia. La tua è una
visione sociale terrificante, quella di uno Stato che difende la società
da tutti quegli elementi che possono disturbarne l’ordine. Mi chiedo
che tipo di Stato possa venirne fuori, anzi lo so già: è lo Stato di
Polizia, che tiene d’occhio e punisce anche preventivamente coloro i
quali possono turbare in qualche modo l’ordine costituito. Ma chi
stabilirà che cosa è bene per la società e quale ordine sia il più
adeguato?
Se portiamo con coerenza alle estreme conseguenze la tua tesi,
arriveremo a tenere in carcere per tutta la vita chi si sarà macchiato di
qualsiasi colpa, ritenuta gravemente dannosa per l’ordine sociale. Se
un assassino può essere recidivo, lo potrà essere anche il rapitore, lo
stupratore, il ladro e così via. Chi può negare che una società non
sarebbe migliore se non ci fossero ladri, assassini, stupratori ecc.?
La paura, la rabbia e la frustrazione sono un mix deleterio per la
Ragione. Impediscono di pensare con lucidità, e fanno rincorrere le
facili soluzioni, che tali non sono. La morte di un uomo, ormai
costretto in galera e quindi non in grado di nuocere, forse diminuisce
il nostro senso di frustrazione, ma non elimina in alcun modo il
pericolo di rimanere vittima di altri criminali. Salvo che esso non
riesca ad avere un'efficacia deterrente.
E. E’ evidente che la paura di perdere la vita sia l’unica minaccia
plausibile, talmente grave da impedire che persone ragionevoli, in
grado di intendere e volere, commettano un grave reato. Quanto alla
rabbia ed alla frustrazione, è vero sono arrabbiato e frustrato, e penso
che siano sentimenti legittimi, in una società impazzita come questa,
sempre più preda della piccola e grande criminalità, dell'efferatezza e
crudeltà dei delitti, della mancanza di rispetto per la vita delle persone
innocenti! Tuttavia, non è vero che sostenere che la società sarà
migliore con un criminale in meno, porti per coerenza a simpatizzare
per lo Stato di polizia.
C. Ma è possibile che nella tua visione della pena non vi sia nessuno
spazio per la possibilità del recupero, della rieducazione, del rimorso e
del pentimento?
E. Dammi una sola ragione per la quale dovrei essere interessato al
pentimento, al rimorso, alla rieducazione di un assassino? Ha
commesso il crimine più grave, ha con ciò perso il diritto al rispetto
dei suoi diritti, la società non gli deve più niente. Egli con il suo atto
ha rotto il patto che lo legava agli altri cittadini, ha seriamente minato
il fondamento della comunità politica, il rispetto dei diritti altrui e, in
particolare, del più sacro di tutti, il diritto al rispetto della vita. Perché la
società dovrebbe prendersi cura di lui? Cosa ne può venire di buono
alla società dalla sua rieducazione, dal suo rimorso o dal suo
pentimento? Parlo naturalmente di chi si macchia del più grave dei
reati, diverso è il discorso per coloro che si sono macchiati di delitti
non gravi, per i quali è utile alla società rieducare in vista di un
reinserimento.
C. Io nella tua argomentazione vedo, ancora una volta, soltanto un
concentrato di rabbia, di paura e di frustrazione. Il compito dello
Stato non è solo quello di garantire la sicurezza dei cittadini, ma è
anche quello di garantire una civile e umana convivenza. Una forma
di convivenza fondata non solo sul freddo rispetto dei diritti e dei
doveri, ma anche sul sentimento di “simpatia”, di altruismo, di
benevolenza e di solidarietà nei confronti dell’altro. Non già soltanto
perché è bene provare questi sentimenti, ma anche perché è utile alla
società. Una società di indifferenti fa paura. L’individuo
nell’indifferenza degli altri è solo ad affrontare le sue paure, le sue
difficoltà, gli imprevisti della vita. Prendersi cura dell’altro è un valore
sociale che va difeso e che lo Stato, in primis, deve tenere sempre alto.
Ora, prendersi cura dell’altro significa innanzitutto tenere per sacri il
benessere e la vita altrui, e questo comporta il non sacrificarli senza
necessità. E questo vale per qualsiasi vita, anche per quella degli
assassini!
Io non sono di quelli che ritengono che il diritto alla vita sia un diritto
assoluto. Ci sono casi in cui occorre scegliere fra la vita di chi è già e
quella di chi sta per nascere; fra la propria vita e quella di un
aggressore e via dicendo… Tuttavia, ritengo che nessuna vita debba
essere distrutta se non è assolutamente necessario.
Ebbene è assolutamente necessario sacrificare la vita di un criminale? E se
si, quale messaggio dà lo Stato ai suoi cittadini, uccidendo un
assassino? Io credo che abbia ragione Beccaria quando parla de:
Questo è il punto.
E. Non so perché, ma quest’ultimo argomento non mi ha mai
convinto. L'imprigionamento non legittima il rapimento, né una
multa legittima la rapina. La differenza tra omicidio ed esecuzione o
tra il rapimento e l’imprigionamento è che il primo è illegale e
immeritato, il secondo una legittima e meritata punizione per un atto
illegale. La somiglianza fisica delle due punizioni è irrilevante.
D’altra parte, se è vero che la vita è il più sacro dei diritti lo è a
maggior ragione quella degli innocenti. Non ha forse calpestato
proprio il più sacro dei diritti anche il criminale?
Vedo che su questo punto non c’è possibilità di accordo, ma voglio,
per amore di discussione accettare la tua provocazione.
Mi chiedi se sia proprio necessario uccidere un assassino. Ebbene io ti
rispondo di sì. Innanzitutto perché è l’esempio più efficace, è il
messaggio più forte che può essere dato ai cittadini: la vita è sacra, chi
la viola perde la propria. In secondo luogo, perché è il mezzo più
efficace e definitivo per eliminare il pericolo della recidività. In terzo
luogo, perché è il solo modo per ripristinare l’ordine violato, secondo
quanto diceva anche Hegel; la crudeltà di certi delitti manifesta
l’ingresso del Male nel mondo, e il Male deve esserne cacciato fuori
negandolo. E ancora, perché è il modo più efficace e più adeguato di
rispondere all’esigenza di giustizia dei cittadini e dei familiari delle
vittime. Potrei aggiungere che è un mezzo deterrente molto efficace,
ma so che è un argomento facilmente contestato dagli abolizionisti e
non lo userò. Gli abolizionisti citano statistiche su statistiche per
dimostrare che dove la pena di morte è stata abolita il crimine non è
aumentato; tuttavia, chi ci assicura che con la pena di morte esso non
sarebbe diminuito? Per quante persone abbiano potuto commettere
omicidi senza preoccuparsi della pena, noi non sapremo mai quanti
sono stati fermati sull’orlo dell’omicidio dalla minaccia della pena di
morte. Io, comunque, pur ritenendo che la minaccia della morte sia
un ottimo deterrente, sostengo che, anche se non lo fosse, gli altri
argomenti che ho citato bastano e avanzano per provare la necessità
etica e (questa sì) civile della pena di morte.
C. Innanzitutto, tu fai una distinzione discutibile fra esecuzione legale
e meritata ed omicidio illegale e immeritato. Il problema è proprio
questo: può uno Stato che voglia essere giusto dare veste di legalità alla
messa a morte di un cittadino? Agendo in questo modo, non va
contro uno dei suoi compiti fondamentali: la tutela della vita di tutti i
suoi cittadini? Soltanto se rispondiamo sì alla prima domanda e no
alla seconda, il tuo argomento funziona, altrimenti cadi in una
tautologia. Un'esecuzione capitale è sicuramente legale se prevista dalla
Legge di uno Stato, ma è meritata soltanto se prima abbiamo
convenuto che la pena di morte è una giusta compensazione per il
reato che la prevede? Ciò che io sostengo è che la pena di morte in
quanto ingiusta è una forma di omicidio legalizzato. Ergo, vale quanto
sostiene Beccaria.
Andiamo avanti. Visto che parli di sacralità della vita delle vittime
innocenti, come la mettiamo con la vita degli innocenti condannati
alla pena di morte? Chi ci assicura che la pena venga comminata ai
soli colpevoli? Anzi, la storia giudiziaria degli Stati Uniti riporta molti
casi d'innocenti condannati e salvati sull’orlo della sedia elettrica o
puniti, malgrado la loro innocenza sia poi risultata evidente. La
possibilità se non l’inevitabilità dell’errore umano è un forte
argomento contro la pena di morte. La vita di un innocente
condannato ingiustamente non è equivalente a quella della vittima di
un omicidio?
Certo, si può obiettare che la pena di morte è e deve essere ristretta ai
soli casi in cui la colpevolezza sia palese, conclamata, ma, ripeto:
quanti sono i casi in cui c’è l’evidenza della colpa? Quante volte la
presunta evidenza si è dimostrata non essere tale? E una volta fatto e
riconosciuto l’errore come si fa a rimediare se la sentenza è stata
eseguita?
Voglio leggerti un’altra citazione da Robespierre su questo argomento
che a me piace molto: