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Cataldo Zuccaro

Roccia o farfalla?
La coscienza morale cristiana

Editrice AVE
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Introduzione

Giocare a carte scoperte

Dichiarazione di intenti

Ogni pretesa di raccontare e descrivere i fenomeni e la


realtà non può prescindere dall’esperienza vissuta di chi la
propone. Nell’ascolto di ogni racconto è sempre possibile
trovare tracce vissute del narratore. Esiste, pertanto, una
sorta di «dissolvenza» dell’autore del racconto dentro il rac-
conto stesso. La partecipazione ai fatti narrati diventa sem-
pre più coinvolgente nella misura in cui essi riguardano le
esperienze più intime di chi li propone. E lo stesso accade
alla persona che ascolta o legge: più l’oggetto della narrazio-
ne entra nel suo orizzonte affettivo intimo, più lo coinvolge
e lo spinge a interagire con il narratore1.
I libri di storia raccontano le battaglie della seconda guer-
ra mondiale nel teatro dei Balcani in modo decisamente

1 Mi limito a richiamare la lezione di H.G. GADAMER, Verità e meto-


do, Fabbri, Milano 1972 e di P. RICOEUR, Il conflitto delle interpreta-
zioni. Saggi di ermeneutica, Jaca Book, Milano 1982. Cfr. inoltre la
riflessione di J. LADRIÈRE, L’articulation du sens. I. Discours scientifi-
que et parole de la foi; II. Les langages de la foi, Cerf, Paris 1984.
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diverso da quello del reduce che si trovava lì nel 1941.


Scrivere che “la Grecia soccombeva ad un attacco italo-tede-
sco” non ha la stessa forza del racconto di mio padre che
gridava ai suoi amici commilitoni di non bere ‘il cordiale’
che veniva distribuito prima dell’assalto. Mio padre sapeva
che l’alcool inibiva la paura, ma che attenuava anche la luci-
dità, così necessaria in quei frangenti. E la partecipazione
dello studente elementare alla lettura del libro è diversa da
quella del nipote che ascolta il nonno reduce dall’ultimo
conflitto mondiale.
Queste elementari norme di base dell’ermeneutica sono
particolarmente necessarie quando l’oggetto che si vuole
indagare è quello della coscienza morale. Sia chi scrive, che
chi legge hanno già un’esperienza vissuta della realtà della
coscienza morale e non possono, perciò, impedire che una
sorta di pregiudizio condizioni la loro comprensione. Non
c’è nulla di male in questo. Anzi, sembrerebbe piuttosto una
condizione favorevole per stimolare il dialogo, perché ognu-
no possiede una vera titolarità sull’argomento. Così l’inten-
to di chi scrive è quello di proporre una riflessione molto
aperta, nel senso che in qualunque momento il lettore può
interagire sulla base delle proprie convinzioni. La mancan-
za di un apparato critico puntiglioso e massiccio è pensata
proprio a partire da questa esigenza. Ciò, tuttavia, non signi-
fica che manchi il necessario rigore scientifico nella propo-
sta o che tutto ciò che si dice sia inficiato, già in partenza, da
uno spirito relativista. La verità esiste, va cercata e va cerca-
ta insieme: questa è la prospettiva.
Naturalmente occorre premettere un’altra considerazio-
ne: la proposta di riflessione che segue è di natura teologi-
co-morale. Questa breve frase è come un ventaglio chiuso
che nasconde tante pieghe: l’epistemologia della teologia
morale, il suo rapporto con la Scrittura e con la Tradizione,
la sua capacità di dialogo con le scienze umane, la giustifi-
cazione della sua pretesa normativa, il confronto con il plu-
ralismo culturale e con la postmodernità, la specificità cri-
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Introduzione

stiana dell’etica in un mondo globalizzato e così via2. Nella


mia proposta, questa volta, più che privilegiare gli aspetti
epistemologici, intendo mostrare la concezione e l’espe-
rienza che ho della coscienza morale alla luce della rivela-
zione e della storia. Per una volta, voglio esprimere la mia
convinzione sul «che cosa» piuttosto che sul «come e per-
ché»: alla fine del percorso dovrebbe emergere la «mia»
idea di coscienza morale. Meglio, l’idea di coscienza mora-
le così come compresa da un credente cristiano, convinto di
poter e dover dare ragione della propria speranza in un con-
testo pluralista.

Per lavorare al puzzle della coscienza

Alcune immagini «laiche»

Ecco alcuni input iniziali, concepiti come una serie di indi-


zi che possono servire per tessere la trama della coscienza.
Si tratta di luoghi comuni presi dal linguaggio di ogni giorno
e dalla comune esperienza della chiesa. Riflettere su di essi
è utile per cogliere, già all’inizio, alcuni aspetti che riguarda-
no la coscienza morale. Per ora non interessa tanto capire
se siano o no veri, ma soprattutto convincerci che occorre
fare i conti con essi, nel momento in cui si vuole riflettere
sulla coscienza morale.
Nessuno mi può giudicare nemmeno tu! Alla fine degli
anni Sessanta ebbe un discreto successo questa canzone lan-
ciata al Festival di Sanremo e cantata da Caterina Caselli, sim-
paticamente soprannominata ‘caschetto d’oro’ per via del

2Rimando al mio C. ZUCCARO, «Etica laica ed etica cristiana», in


Euntes Docete 60 (2007) 2, 67-92.
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taglio dei capelli. Il testo afferma l’autonomia della persona


che esclude ogni giudizio che provenga dall’esterno e che
voglia determinare la correttezza o meno del proprio com-
portamento. La verità dipende totalmente dal singolo, “per
questo una cosa mi piace e quell’altra no”, per il fatto che
“ognuno ha il diritto di vivere come può”. La coscienza non
è esplicitamente menzionata, ma si capisce immediatamente
come sia proprio essa a giustificare la pretesa autonomia della
persona. Inoltre il termine giudizio allude già ad una dimen-
sione ulteriore della coscienza che è legata al verdetto circa la
condotta da seguire. Non interessa la distinzione tra giudizio
sul comportamento e giudizio sulla persona; ciò che il testo
esprime è la necessità che ciascuno possa seguire il proprio
giudizio, la propria verità. Non sfugge come alla base emerga
un’idea di libertà che si configura come l’autonomia piena del
soggetto di gestire la propria vita secondo ciò che più gli piace.
Ciò che faccio non deve riguardare gli altri, almeno fino a
quando le mie decisioni non impediscono le loro. La mia
autonomia o libertà finisce dove comincia la tua!3
Il tutto diventa maggiormente comprensibile se facciamo
memoria di un altro luogo comune: Ma io, davanti alla mia
coscienza, mi sento a posto! L’immagine evocata qui è quel-
la del tribunale in cui c’è un imputato e ci sono degli accu-

3 Ricordo come una tale autonomia sia alla base di tanti progetti etici
e bioetici contemporanei: per tutti cfr. H.T. ENGELHARDT, Manuale di
bioetica, Il Saggiatore, Milano 1999; un ventaglio di posizioni sono pre-
senti in P. CATTORINI - E. D’ORAZIO - V. POCAR, edd. Bioetiche in dia-
logo. La dignità della vita umana. L’autonomia degli individui, Zadig,
Milano 1999. Si può vedere inoltre G. DWORKIN, The Theory and
Practice of Autonomy, Cambridge University Press, Cambridge 1998;
D. NERI, «La nozione di autonomia in etica e bioetica», in E. SORICELLI
- R. BARCARO, edd. Bioetica e antropocentrismo etico, Franco Angeli,
Milano 1998, 60-75; S. MAFFETTONE, Etica pubblica. La moralità delle
istituzioni nel terzo millennio, Il Sagittario, Milano 2002.
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Introduzione

satori davanti ad un giudice. La testimonianza della persona


davanti al tribunale della propria coscienza fa sì che il ver-
detto emesso sia di assoluzione piena. In coscienza, non ho
nulla da rimproverarmi! Non c’è colpa o peccato quando la
coscienza non fa sentire la propria voce di disapprovazione.
Questo significa che la coscienza è la parte più intima e gelo-
samente custodita della persona. A tal punto è così intima la
coscienza morale alla persona che l’innocenza della prima
coincide con l’innocenza di quest’ultima. Eppure, se la per-
sona attesta la propria integrità morale davanti alla coscien-
za, allora significa che in qualche modo non esiste una sem-
plice sovrapposizione tra coscienza e persona. La coscienza
morale è un’istanza irriducibile e difficilmente addomestica-
bile: solo così la persona può confrontarsi realmente con il
suo giudizio, ‘fare i conti’ con essa. Infatti, nessuno sarebbe
buon giudice della propria causa: i conti bisogna farli con
l’oste! In una parola, esiste un’alterità della coscienza mora-
le nei confronti della persona.

Alcune immagini religiose

La coscienza è la voce di Dio. Questa è una consapevolez-


za cristiana che parte da molto lontano, cioè dalla riflessione
dei Padri della Chiesa e, in modo particolare da sant’Agos-
tino. Si tratta della dimensione spirituale e religiosa della
coscienza morale, vista come luogo intimo dell’incontro del-
l’uomo con Dio. Non solo, ma anche come l’auditorium nel
quale l’uomo ascolta la voce del Signore che gli comunica la
sua volontà circa il modo di vivere correttamente le vicende
terrene. L’intimità di questo rapporto dell’uomo con Dio è
così stretta che san Bernardo non esita ad impiegare ardite
espressioni prese dall’esperienza coniugale per descriverla.
La coscienza, così, è come il talamo nel quale il fedele incon-
tra il suo Signore, in un’intimità così profonda da escludere
ogni contaminazione con qualunque forma di male.
L’immagine della voce dice dunque dialogo, cioè chiama-
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ta e risposta. La coscienza è voce di Dio perché ascolta la


sua parola, anzi a condizione che ascolti la sua parola. In
questo senso, partendo dalla convinzione che la coscienza è
voce di Dio, si capisce il circolo virtuoso che ne consegue:
la coscienza fa riferimento a Dio e Dio fa riferimento alla
coscienza dell’uomo. Pertanto, la coscienza morale si trova
ad essere quasi l’interfaccia tra la domanda di Dio e le
domande della storia. Ascoltando la domanda di Dio il cri-
stiano riesce a capire e a rispondere anche alle domande
degli uomini. È così che la fedeltà alla propria coscienza
diventa anche fedeltà alla storia. Talvolta, però, la comuni-
cazione può essere disturbata; sia quella tra Dio e l’uomo sia
quella tra l’uomo e la storia. I motivi che interferiscono sul
buon esito della comunicazione rendendola falsa sono tanti
e dipendono dall’ambiente esterno e dalla stessa volontà
della persona. Anche allora è possibile continuare a parlare
della coscienza come voce di Dio?
Il primo vicario di Cristo in terra. Si tratta di un’espres-
sione del cardinal Newman che si trova nella celebre Lettera
al Duca di Norfolk:

“La coscienza è il primo vicario di Cristo. È un profeta che ci


rivela la verità, un re che impone i suoi comandi, un prete che
scomunica e benedice. Se il sacerdozio eterno della Chiesa scom-
parisse, il principio sacerdotale sopravvivrebbe a questa rovina e
continuerebbe ad esistere incarnato nella coscienza”.

Con questa immagine continuiamo ancora a rimanere den-


tro una dimensione religiosa della coscienza morale. La
coscienza è legata a Cristo allo stesso modo con cui un vica-
rio è legato a colui che detiene la potestà ordinaria. Sono pos-
sibili due accentuazioni. La prima è la straordinarietà della
funzione vicaria della coscienza: non si tratta di un vicario
qualunque, ma del primo vicario. Pertanto, non c’è niente e
nessuno tra la coscienza e Cristo. Non esiste una mediazione
ulteriore; anzi, chiunque voglia incontrare Cristo, per così
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Introduzione

dire, deve passare attraverso il suo vicario che è la coscienza


morale. Solo questa sta nella condizione di contatto diretto e
intimo con il Maestro. Talvolta le persone importanti si ser-
vono di tanti filtri per impedire di soffocare a causa delle tante
domande che le raggiungono. Tra Cristo e la coscienza mora-
le non esistono filtri. Ciò significa che, accettando la respon-
sabilità vicaria, la coscienza morale non può assumere altrove
gli aiuti per applicare la volontà del mandante: è sola. In tal
senso, il primo vicario diventa anche ‘vicario generale’. Una
sorta di delegato «ad omnia», per cui non c’è nulla che la
coscienza morale non possa giudicare nel nome di Cristo. La
sua competenza si estende ad ogni aspetto dell’esistenza vis-
suta alla luce della intenzionalità cristiana.
La seconda accentuazione scritta dentro l’immagine riguar-
da il carattere comunque vicario della coscienza. La forza
della sua autorità non le deriva da sé, ma le viene data da un
altro. In tanto essa può rivendicare il privilegio del primato su
ogni altra autorità, in quanto accetta su di essa l’autorità di
Cristo. L’enfasi qui viene posta sul carattere costitutivamente
dipendente della coscienza, carattere che non lascia alcuno
spazio ad un’autonomia che rifiuti il legame con Cristo. La
dignità dell’esercizio della potestà vicaria deriva dalla fedeltà
alla volontà del mandante e dalla capacità di interpretarla
senza una pedissequa invocazione del suo parere4.
Il pamphlet del cardinal Newman mirava a difendere il
cristianesimo dalle accuse lanciate dal Primo Ministro
Gladston, soprattutto circa quell’odiosa dipendenza dei cat-
tolici inglesi dal Papa. In questa cornice il cardinale rivendi-
ca l’autorità della coscienza personale che non può essere in

4 Sul tema richiamo lo studio di F. MACERI, La formazione della


coscienza del credente. Una proposta educativa alla luce dei Parochial
and Plain Sermons di John Henry Newman, Gregorian University
Press-Morcelliana, Brescia 2001.
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contrapposizione con l’autorità del Papa. Infatti il motivo


che legittima tale autorità è in tutti e due i casi la verità ogget-
tiva e non il capriccio della coscienza o quello del Romano
Pontefice. Per questo “se il papa parlasse contro la coscien-
za si suiciderebbe, farebbe crollare il terreno sotto i suoi
piedi”. L’immagine della coscienza morale come vicario di
Cristo non risolve, però, il problema di come intendere il
rapporto: la coscienza dove trova i comandi da eseguire?
Come comporre dipendenza e libertà della coscienza mora-
le? Quale rapporto esiste tra la coscienza e le altre media-
zioni di Cristo, come la legge naturale o il Magistero?

Immagini meno famose della coscienza morale

Vorrei ora proporre altre immagini con le quali intendo


alludere al mistero della coscienza morale. Sebbene non si
trovino nella tradizione, mi sembrano utili perché hanno un
immediato riferimento alla vita di ogni giorno.
Innanzitutto vorrei indicare la coscienza come il filtro della
vita morale. Con ciò intendo riferirmi al fatto che essa diventa
la condizione di possibilità della stessa esperienza morale.
Infatti, al di fuori della coscienza non si dà alcuna esperienza di
moralità personale. Ma l’immagine richiama ed evoca anche
un altro aspetto non meno importante: la stessa accoglienza del
dono della fede, come adesione alla persona di Cristo, diventa
umanamente possibile solo attraverso il dinamismo della deci-
sione di coscienza. Naturalmente, non voglio, con questo, ope-
rare una sorta di riduzione antropologica della fede. Questa,
infatti, non può essere adeguatamente spiegata solo a partire
dall’attività della coscienza. Non voglio neppure sottovalutare o
addirittura negare l’influsso che la fede esercita sulle decisioni
della coscienza morale del cristiano. Queste, infatti, saranno
illuminate proprio dalla fede in Cristo.
La mia intenzione è semplicemente ricordare che esiste
una decisione della coscienza «sulla fede», nel senso che l’a-
desione a Cristo non può bypassare il dinamismo proprio
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Introduzione

della coscienza, caratterizzato per la sua libera e consapevo-


le responsabilità. Allo stesso tempo, però, esiste anche una
decisione «di fede» ad opera della coscienza, nel senso che
il discernimento del bene avviene alla luce del senso della
vita che scaturisce dall’iniziale adesione a Cristo. Pertanto,
se è vero che l’adesione di fede non può avvenire al di fuori
della struttura decisionale della coscienza morale, è vero
anche che essa non può avvenire al di fuori dell’influsso
della grazia di Cristo. Questa, infatti, si deve pensare all’o-
pera non solo dopo che il fedele, in libera e consapevole
responsabilità, ha deciso di accogliere la persona di Cristo
come orientamento fondamentale per la sua vita, ma anche
prima e durante tale decisione.
La seconda icona della coscienza morale cristiana è quel-
la del cuore. Con tale immagine intendo evocare come la
coscienza stia al centro della vita morale e, in particolare,
rappresenti la passione per il bene. La coscienza non opera
mai all’interno di un ambiente sterile e non contaminato da
sentimenti e da passioni, quasi fosse sotto una campana di
vetro. Al contrario, essa giudica e decide sempre all’interno
di un crocevia di impulsi affettivi di forte intensità, che scuo-
tono la vita della persona. La coscienza è sempre meticcia,
mai pura. Il colore della coscienza, pertanto, non è il cami-
ce bianco dei medici nella corsia, ma quello rosso del san-
gue nella sala operatoria. Infatti “decidere è sempre recide-
re”, cioè tagliare dal campo delle possibilità reali molte alter-
native, che pure sarebbero praticabili e positive per la per-
sona. In un contesto più specificamente teologico, la
coscienza morale ‘cristiana’ ha la passione del cuore di
Cristo per il bene. Di conseguenza, nell’orientare le proprie
decisioni all’interno della storia, ne condividerà le sofferen-
ze, la solitudine e anche la morte.
La terza immagine evocativa della coscienza è quella della
regia: la coscienza è come la mente che raccoglie le infor-
mazioni e le organizza per uno scopo. La natura particolare
della regia, il suo specifico, possiamo dire che consiste nel
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non avere nessuno specifico. Essa assume, di volta in volta,


tutto ciò che è utile e disponibile perché la necessaria diver-
sità di attori e di mezzi venga posta a servizio del progetto che
il regista ha concepito e che intende comunicare allo spetta-
tore. In modo analogo possiamo pensare l’attività della
coscienza, pur nella consapevolezza che il progetto che essa
è chiamata ad interpretare non può essere arbitrario, ma
deve riferirsi ad una verità che la persona non può indiffe-
rentemente barattare con qualsiasi altra. Pertanto, per giun-
gere alla determinazione della verità morale obiettiva, la
coscienza deve impegnarsi per raccogliere tutte le informa-
zioni utili al raggiungimento del suo scopo. Il giudizio della
coscienza morale per essere autentico e oggettivo non può
prescindere dalle informazioni che provengono dalla storia,
dalla legge morale, dal rapporto con gli altri, dalle istituzioni,
dallo studio, dalle scienze o dalle religioni. Eppure non sono
le singole agenzie informative che possono determinare la
verità morale dell’agire, nemmeno se fossero sommate tutte
insieme, ma è soltanto la coscienza morale. Nel suo compi-
to di regia, la coscienza morale cristiana non può dimentica-
re che è fondata su Cristo e respira la tradizione ecclesiale,
per cui l’interpretazione oggettiva del valore morale non può
avvenire al di fuori di tale contesto. Questo non ci autorizza
ad assumere il riferimento a Cristo come un ulteriore ele-
mento di informazione che la coscienza può acquistarsi
accanto agli altri. La naturale costituzione cristiana ed eccle-
siale della coscienza ci spinge, però, a concludere che ogni
agenzia informativa sulla verità morale deve ‘fare i conti’,
cioè deve essere letta alla luce dell’intenzionalità cristiana.

Il percorso

L’intento principale non è quello di descrivere in modo


concettuale la natura della coscienza morale, ma arrivare a
questa conclusione attraverso l’osservazione di come essa
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Introduzione

funzioni. Pertanto, la parte iniziale del percorso sarà dedi-


cata a vedere come avviene il processo della decisione della
coscienza morale, con particolare attenzione alla dimensio-
ne cristiana. E ciò significa decidere alla luce della fede.
In un secondo momento si metteranno a fuoco gli ele-
menti che entrano nel processo della decisione: legge, veri-
tà, libertà. In questo ambito mi pare importante recuperare
anche la realtà del peccato come uno degli ostacoli maggio-
ri non solo per la conoscenza della verità, ma anche per la
sua praticabilità. Non di rado, infatti, l’errore della coscien-
za dipende proprio da un cuore e una mente inquinati a
causa del peccato.
Rimane ancora un aspetto importante da trattare: la
dimensione specificamente cristiana della coscienza, così
come emerge dalla Sacra Scrittura. Essa occuperà la parte
finale della riflessione. La scelta è determinata dal metodo
seguito che prende avvio dall’osservazione empirica e antro-
pologica per rileggere il tutto a partire dall’ottica religiosa e
teologica. La mia convinzione è che questo metodo assicu-
ra la possibilità di vedere la continuità tra umano e cristiano.
Ma, nello stesso tempo, permette anche di individuare una
sorta di ulteriorità del cristiano che non avviene attraverso
un salto mortale e che quindi rispetta l’autonomia e il valo-
re dell’indagine razionale.

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ROCCIA O FARFALLA?

Su una roccia di montagna E con un nuovo tremito di


s’è posata leggermente ali si distacca
come piuma una farfalla. volteggia sulla roccia
accarezzandola
Tremano con la sua ombra
ad ogni alito di vento che danza nel sole.
le sue ali Poi vola via.
dai colori iridescenti.
E la roccia rimane
“Resta qui con me più sola, più spoglia
-le mormora la roccia- più triste:
Staremo bene insieme: monumento perenne di un
con me forte ed eterna bel
diventerai e tu vita sogno svanito.
e bellezza mi donerai”.
(M. Rosin s.j.)
“Non posso
-sussulta la farfalla-
troppo poche
sono le mie ore di vita
per restare.
Sono nata per volare.
Troppo fragile
è la mia bellezza
per durare.
Sono nata per passare…”.

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