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più come prima □ Paolo Sylos Labini Carlo Marx: è tempo


di un bilancio □ Georgy Skorov Perestrojka in panne □
Giacomo Becattini Dalla padella nella brace

Massimo Mastrogregori «Il giudice e lo storico» di Piero


Calamandrei □ Alfredo Romano Le langh e , il Nuto. Viaggio
intorno a Cesare Pavese

Augusto Barbera No a una nuova Costituzione □ Salvo Andò


Messaggio presidenziale e riforma dello Stato □ Franco Li­
vorsi Unità socialista e repubblica presidenziale. Perch é no?
□ Nicola Tranfaglia Tradizione comunista, tradizione socia­
lista, tradizione democratica: i problemi aperti
IL GIUOCO DI LUSSO. A PROPOSITO DE « IL GIUDICE
E LO STORICO » DI PIERO CALAMANDREI *

Tra l'azione del giudice e quella dello storico, si dice spes-


so, c'è questa differenza: che il mondo di cui si occupa il-giu-
dice è regolato, da leggi, mentre il paesaggio che lo storico
percorre non conosce regole fìsse. « Nella vita pratica », scrive
infatti Calamandrei nel 1914, « non si ha mai un fatto perfet-
tamente uguale ad un altro: ora, se gli effetti giuridici dei
fatti dovessero essere diversi ogni volta che diverso fosse il
materiale avvenimento [...] sarebbe distrutta [...] la possi-
bilità di norme generali, cioè di leggi che disponessero un
eguale effetto giuridico per tutta una categoria di fatti » \
È per questo, quindi, che non possono esistere leggi stori-
che: perché non esistono due fatti uguali. La conoscenza sto-
rica s!interessa del come, non del perché degli svolgimenti, e
non è prescrittiva.
Ma siamo poi cosi sicuri, considerando la circolazione
delle idee e la.loro influenza sulla società, che il giudizio sto-
rico non venga tradotto mai in termini prescrittivi? Nell'Ita-
lia repubblic'ana il.giudizio storico sul fascismo, magari vul-
gato, ha influito e influisce sul comportamento politico; lo
stesso può dirsi ora del giudizio sulla storia del comunismo
intemazionale. Laddove non è possibile separare con un ta-
glio netto il giudizio classificatorio (a sfondo pratico, prescrit-
tivo) dal giudizio storico puro — e nelle nostre società, in cui
la circolazione delle idee è ampia e velocissima, non sempre
questo è agevole — la possibilità d'una coincidenza della-pra-
tica e della teoria, della comprensione e del comando è sem-
pre possibile. Potrà sembrare paradossale, quindi, ma forse
* Riprendiamo liberamente da una nostra introduzione alla ristampa de
// giudice e lo storico, « Rivista di storia della storiografia moderna »,
1990, 1-2. Anche questo testo, come quello da cui è tratto, è dedicato alla
memoria di Eugenio Battisti.

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nella nostra società sono operanti delle « leggi storiche », con
tanto di sanzione peri trasgressori.
Lo storico si .riavvicina dunque al giudice. E del resto,
nella nostra storia politica recentissima, non abbiamo forse
visto i giudici ricostruire vicende, come quella del terrorismo,
. che gli storici di professione continuano a trascurare?
Questi interrogativi sommari, direttamente o indiretta-
mente, sono al centro delle nostre preoccupazioni. Ricercando
la distinzione tra l'opera del giudice e quella dello storico in-
contriamo problemi politici, discutiamo frontiere teoriche, im-
maginiamo svolgimenti storiografici da ricostruire. Ci sembra
utile, allora, rileggere le pagine dedicate a questo problema
dal fondatore de << Il Ponte ».
Il giudice e lo storico di Piero Calamandrei (1939)2 non
è soltanto un saggio di metodologia storiografica, e non è nean-
che semplicemente un contributo di dottrina processualistica;
è piuttosto il punto di confluenza di alcune tesi giuridiche con
una meditazione filosofica: un raro esempio di filosofia parti-
colare e determinata oppure — che è lo stesso — di teoria
giuridica ragionata secondo una visione della realtà. Da un
lato troviamo infatti una sistemazione coerente dell'azione del
giudice nel processo, dall'altro l'inserimento della procedura
giurisdizionale nel più ampio sistema del diritto; con la pole-
mica, che ne deriva, contro la scuola del diritto libero, per la
quale il giudice non si limita ad applicare una norma creata
dal legislatore, ma crea la norma di legge con la sentenza,
ispirandosi alla « politica generale del governo » (come nella
Russia comunista) o al « sano sentimento del popolo » (come
nella Germania nazista). Argomenti (distinzione tra questione
di diritto e questione di fatto, natura della prova, relazione
tra giurisdizione e formulazione del diritto, rapporto tra giu-
stizia e politica, ecc.) che qui si combinano e si articolano con
armonia, ma che erano venuti a maturazione nel corso degli
anni 3 .
Ora, quel che ci colpisce, se leggiamo con attenzione que-
ste pagine, è innanzitutto l'atteggiamento del nostro autore
verso l'oggetto che prende a trattare; atteggiamento, che è di
partecipazione assai prudente, e direi pure distaccata: all'ini-
zio egli espone le tesi di Calogero4 e le critiche di Croce e di
Antoni5, ma da non filosofo, da semplice « procedurista », e
non vorrebbe, in questo dibattito, « assidersi terzo ». Egli si

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limiterà ad alcune osservazioni « di carattere tecnico » sul
« metodo secondo il quale magistrati e avvocati lavorano nel
processo a ricostruire la verità giudiziaria ». E in effetti que-
sto metodo è chiarito in modo esemplare, e le differenze con
il procedere dello storico risultano nette. La prudenza ini-
ziale viene superata, Calamandrei entra nell'argomento con
tutta la sua esperienza, e dedica una buona parte del saggio
a questo chiarimento (punti 3-7). Subito dopo prende in esame
l'aspetto più propriamente giurisdizionale dell'attività del giu-
dice, l'applicazione del diritto al fatto. Al punto 9 egli critica
la teoria « conoscitiva » del giudizio, per la quale « il diritto
si applica da sé: e il giudice non fa altro che verificarne la
esistenza, con quella sua speciale chiaroveggenza di giurispe-
rito, che gli permette di aggirarsi nel mondo giuridico come
se fosse un mondo reale e di scorgervi come avvenimenti acca-
duti gli incontri degli uomini colle leggi, e le vicende dei rap-
porti giuridici come peripezie di organismi viventi ».
Se però si esce fuori da questo mondo giuridico, sostiene,
appare evidente che « la legge, se manca nel cittadino la vo-
lontà attuale di osservarla, cioè di conformare al suo precetto
la propria condotta pratica, o nel giudice la volontà attuale di
farla pràticamente osservare nel caso concreto, rimane in se
stessa una ipotesi inerte ed astratta, superata dalla realtà che
va innanzi per conto suo, ribelle a tutti gli schemi e sprez-
zante di tutti i prognostici ». Calamandrei si allinea cosi alle
tesi della Filosofia della pratica di Croce, che cita in nota. La
sentenza del giudice è un atto pratico. Ma anche qui il suo
allineamento è'solo momentaneo. L'identificazione del giudice
con il politico « produce un senso di disagio e di turbamen-
to ». Ecco che, attraverso un gioco di adesioni e distacchi, il
nostro scrittore raggiunge un tema che gli premeva moltis-
simo: il.rapporto della giustizia con la politica.
Se l'idea del giudice come politico provoca disagio e tur-
bamento, prosegue Calamandrei, l'unica soluzione che resta
aperta è quella classica dell'indipendenza della giustizia, dalla
politica. La sentenza dei giudice indipendente è però soltanto
un parere tecnico: non è un atto, pratico, ma conoscitivo.
Quindi nei sistemi in cui la formulazione del diritto è legi-
slativa, egli conclude, allontanandosi definitivamente da Croce,
il giudice fa opera di storico. « Ma anche se questa conclu-
sione », aggiunge il nostro autore, « dovesse considerarsi, sotto

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l'aspetto filosofico [si legga: della filosofìa crociana], una ere-
sia, mi domando se sotto l'aspetto pratico questa eresia non
sarebbe assai meno pericolosa di quanto potrebbe forse rive-
larsi, abbandonata in mano agli ignari di filosofia, la contraria
verità ».
Diventa chiara, ora, la ragione per cui Calamandrei segue
in questa dimostrazione un itinerario cosi incerto: prima cri-
tica la teoria « conoscitiva », poi s'avvicina alla soluzione della
sentenza come comando, infine ripiega sull'identificazione del
giudice con lo storico, ma suggerisce che si tratta d'una con-
clusione errata filosoficamente. Calamandrei porta infatti il
pensiero — l'attività « storiografica » — dove in realtà c'è
azione — il comando del giudice — ma l'eresia è compiuta a
fini pratici. L'errore teoretico è voluto qui come atto pratico,
per scongiurare il fraintendimento delle rigorose verità filosofi-
che, anch'esso produttore di prassi pericolose 6 . Dobbiamo
comportarci, egli conclude, quindi, come se la sentenza fosse
solo un atto conoscitivo, altrimenti l'unica porta aperta è
quella, che affaccia sul vuoto, del diritto libero.

Questo scritto, insomma, non è direttamente un atto co-


noscitivo, ma un atto pratico che si risolve in atto conosci-
tivo; e poiché mostra all'opera e motiva con finezza di ragiona-
mento la distinzione tra conoscenza e volontà — ed equilibra
gli esiti effettuali dell'una a vantaggio dell'altra — ci appare
come un gran laboratorio metodologico, in cui si distingue il
pensiero dall'azione.
Come tale, non poteva, in quel 1939,- che entusiasmare
Benedetto Croce, il quale ne scrisse una recensione favorevo-
lissima su « La Critica » 7 , lo citò in uno dei Paralipomeni alla
Storia compresi ne II carattere della filosofia moderna e in una
ristampa della recensione del libro di Calogero sulla logica del
giudice, nella serie quinta delle Conversazioni critiche, uscite
nel 1939.
Eppure, malgrado questo favore di Croce, non direi che
Calamandrei attui pacificamente i teoremi del filosofo: ri-
spetto al « problema difficile » dei rapporti tra pensiero e azio-
ne, la sua adesione alla soluzione crociana vuol essere parziale
e dubitativa. Le sue riserve sull'astrattezza della filosofia coin-
cidono non solo con la necessità, da lui avvertita, che la teo-
ria abbia un'utilità pratica, ma anche con una riflessione gene-

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rale sullo storicismo, che trova negli avvenimenti, contempo-
ranei la sua ispirazione. Il Diario di Calamandrei s documenta
in modo preciso i vari momenti di questa riflessione. In una
discussione con Luigi Russo del 10 settembre 1940 — che
ne riprende una precedente del 20 agosto 1939 — il dubbio
sulla validità dello storicismo è già presente. L'idea — che
Russo fa sua — di essere più realisti a guardare la storia che
non a volerla modificare — qui, nei sentimenti (si parla della
resistenza degli inglesi all'offensiva germanica) — è interpre-
tata da Calamandrei come un sentimento espresso sotto forma
di teoria:
Questa faccenda del capire la storia, della « critica », come unico
programma intellettuale e morale, mi par che cominci a puzzare. La
giustificazione storica degli eventi è sempre fatta a posteriori [...]. Ma
l'avvenire non è la storia: la storia dell'avvenire la fabbrichiamo noi:
colla nostra fede o colla nostra vigliaccheria, colla nostra volontà o colle
nostre remissività. Che la Germania abbia vinto (per ora) la Francia è
un fatto: e negarlo sarebbe da bestie; ma mentre ancora la guerra è in
corso, mentre l'Inghilterra resiste, che cosa c'entra la storia con queste
previsioni ottimistiche o pessimistiche? Qui c'entra il sentimento: e il
sentimento mio che augura la vittoria dell'Inghilterra vale il tuo che la
nega a priori. Qui non siamo'più storici, siamo uomini di azione (sia
pure costretti a questa inerte forma di azione che è l'imprecazione) [...].
Eppoi c'è il problema, che in sostanza rimane insoluto in tutto il si-
stema di Croce, dei rapporti fra storia e morale, fra critica e azione, fra
liberalismo forma e contenuto di esso. Russo limita la sua critica a ca-
pire, ma con questo si isola dall'azione, con questo rinuncia a creare
l'avvenire [...]. Il critico puro è un po' come il letterato puro: fuori
del mondo, lascia che il mondo crolli per capire le ragioni del crollo
o per descrivere il crollo. Ma di questi critici e letterati puri ne ab-
biamo piene le tasche: a questo ci hanno portato. E come si concilia
questo storicismo (Russo non vuole che gli si dica) colla necessità di un
credo morale da cui partire con sicurezza per ricostruir l'avvenire? E
può bastare questo storicismo a costituire esso stesso il credo morale?
Basta dire che questa è la storia, per poter con questa chiarezza di idee
partire verso l'avvenire? Negli ultimi libri di Croce si tenta di superare
questo dissidio: di conciliare la libera critica coll'esistenza di un dogma
morale, di un sentimento su cui non si discute, che bisogna prender
come dato. Ma questo è il punto centrale in cui sfocia ogni filosofia:
e in cui par quasi che ogni filosofìa abbia bisogno di una religione nei
cui' dogmi non può entrare la critica. Liberalismo, liberalismo, giuoco
di lusso di dilettanti distaccati, ai quali preme più far la parte degli-
intelligenti che delle persone oneste...

Il giorno dopo Calamandrei annota sul suo .diario:


A proposito di storicismo, il Rossi [professore" di "diritto penale

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nell'Università di Genova, poi presidente della Corte costituzionale]
che si dice calvinista, osservava che lo storicismo degli idealisti è in-
conciliabile colla esistenza di una morale; ma allora, dissi io, alla mo-
rale bisogna dare una giustificazione dogmatica, religiosa, irrazionale.
Mi par giusto: e proprio io non so come faccia Russo a conciliare il
suo storicismo colla sua moralità. [...] Sta bene: io domani ammazzo
il passante e lo depredo: l'assassinio diventa storia: signori giurati, non
è il caso di giudicarmi e di condannarmi, è il caso di comprendermi.
Intelligenza «liberale» ci vuole; non morale «esclamativa»!!!

Il 17 ottobre 1940 Calamandrei discute con Calogero « sui


rapporti fra attualismo e morale, tra storicismo e morale » e
il 26 ottobre riprende:
[...] se si crede a dei principi eterni, superiori alle contingenze
storiche, indiscutibili, religiosi, su questi si può edificare il pensiero
liberale, ma se questa religione manca, lo storicismo porta naturalmente
a dire che anche la filosofìa deve inchinarsi al fatto compiuto e che
anche i filosofi devono, immergersi in questa realtà, anche se quésta
realtà è un mare di fango.

Il nostro autore vedeva diffondersi intorno a sé l'accetta-


zione del fatto compiuto, ed era portato, nelle discussioni con
Russo, a ritrovarne una causa nello storicismo. Il 29 ottobre
1940 parla con Pancrazi « del punto cruciale della nostra si-
tuazione », il rapporto tra conoscenza, storicismo e morale.
E Pancrazi gli ricorda « quello che gli dicevano in collegio i
Gesuiti: " ricordatevi ragazzi che se non si crede in Dio non
può esistere morale " ».
Azione morale, conoscenza critica, ideale religioso, sono i
termini, variamente indagati, di un problema solo, al quale
si rannoda l'idea stessa di giustizia. « La religione », scrive
Calamandrei il 25 gennaio 1941, « è una fede nella giustizia
più che una fede nella gioia e nell'eternità personale. La reli-
gione cristiana finisce i secoli, in un gran giudizio... ». E an-
che lo storicismo, secondo Russo, è una religione.
L'uomo non crede più nell'aldilà, ma sa che egli continua nella
storia, e quindi è eterno. Ma la storia è eterna? E quando il mondo
finirà? E poi, questa fede, che norma morale ti dà per orientarti su
quello che devi fare nell'avvenire? Anche il brigante col suo brigantag-
gio si perpetua nei briganti che gli succederanno: anche per lui serve
questa religione dello storicismo. Una illusione come le altre.

E in nota aggiunge:
Anche questo dello storicismo è uno dei modi con cui gli uomini

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cercano di nascondere questa continua illogicità della loro condotta, in
cui il pensiero e l'azione vanno ognuno per conto suo. Se si volesse
essere coerenti colla nostra filosofìa, l'idea della nostra mortalità, della
brevità di questa nostra apparizione, della precarietà di tutto ci porte-
rebbe coerentemente o al suicidio o all'inerzia fatalistica: tutto è uguale,
nulla conta. E invece tutti si continua a lavorare disperatamente, febbril-
mente, come se tutto questo avesse uno scopo, obbedendo a un Inco-
sciente e irreprimibile impulso vitale. Si sa che nulla serve a nulla, ep-
pure si lavora e si fatica per far qualcosa: questa escogitazione dello
storicismo è un modo per cercare di nascondere questa contraddizione.

Il testo continua con queste parole:


In fondo lo storicismo non è che una trasformazione del positivi-
smo. Esempi portati da Russo per dimostrare la importanza pratica
della sua fede: Croce a settantacinque anni lavora con imperturbata
freschezza: è lo storicismo... Sono povere illusioni che non si confu-
tano: che si rispettano con tenerezza come la illusione di chi crede nel
paradiso. In realtà siamo tutti ciechi: e il più logico di tutti è Leo-
pardi 9.

In un momento di sconforto, Calamandrei combatte con-


tro la sua filosofìa (« la nostra filosofia » della nota), contro
quella visione della vita che pure gli permetteva di continuare
a lavorare. Ma queste tesi « avversarie », che si esprimevano
con le parole di Luigi Russo,' erano un fraintendimento del
pensiero di Croce. Il quale, mentre Calamandrei liberava la
sua amarezza nelle note del diario segreto, affrontava questi
stessi argomenti nella sua meditazione. Nel gennaio 1938 era
uscito in volume La storia come pensiero e come azione, e già
dall'agosto successivo Croce comincia a lavorare al nuovo vo-
lume filosofico, che diventerà, nei primi mesi del 1941, II ca-
rattere- dellafilosofiamoderna. Il rapporto tra pensiero e azione
è l'oggetto specifico di uno dei saggi filosofici, abbozzato al-
l'inizio del febbraio .'39 (nei Taccuini: storicismo e azione,
Storicismo e azione morale, Storicismo e moralità), scritto e
rivisto — non a caso assieme al saggio travagliatissimo sulla
teoria della libertà — intorno al 20 febbraio '39, terminato,
dopo molte interruzioni, ad agosto dei 1940 e pubblicato nel
fascicolo di novembre de « La Critica », con il titolo di Giu-
dizio storico e azione morale; con lo stesso titolo verrà stam-
pato come sesto capitolo de II carattere dellafilosofiamoderna.
Ora, sembra che il filosofo, in queste pagine, risponda di-
rettamente a Calamandrei:

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[...] non ha senso la corrente accusa data allo storicismo che esso,
spiegando nella sua spirituale necessità e perciò giustificando il pas-
sato, induca all'adorazione del fatto compiuto e al quietismo, perché
quello stimolo I0 è pur stimolo di azione e interroga il passato per far-
sene base di nuova azione, e il passato che cosi si pensa non fu mai
compiuto e stabile, ma sempre in movimento e cangiamento, ed è in-
scindibile dal nostro presente, inquieto anch'esso e non adagiantesì in
soluzioni, ma laborioso nel porre problemi che saranno nuove soluzioni.

E riferendosi all'esempio dei gesuiti, di cui aveva ragio-


nato, proseguiva:
La conoscenza storica ci pacifica bensì coi gesuiti del passato, che
con tutta la restante storia sono il nostro stesso passato, ma non ci pa-
cifica con gli uomini del presente, coi quali e contro i quali a noi spetta
di creare una nuova storia. Essa è un momento e non il tutto della vita
dello spirito, un momento che, se mancasse, neanche il tutto sarebbe;
ma un altro momento, e non meno necessario, è la spontaneità dell'azio-
ne e dell'invenzione morale n, su cui la conoscenza storica non preme
sforzandola e costringendola a seguire un arbitrario modello, e alla
quale apporta unicamente la consapevolezza della serietà nella risolu-
zione da prendere u.

Quel nodo irrisolto, quella separazione tra pensiero e


azione che Calamandrei constatava, nel saggio sulla libertà
sono svaniti; e l'ideale religioso che Calamandrei richiedeva
è proprio la libertà:
Per intanto, a noi studiosi e pensatori spetta di mantenere e accre-
scere il preciso concetto della libertà e costruirne la teoria filosofica; ed
è questo il contributo che si ha il diritto di richiedere a noi nel com-
plesso lavoro della restaurazione e risorgimento dell'ideale e del co-
stume liberale. C'è chi dubita e sorride dell'importanza di questo con-
cetto: l'albero della teoria (si ripete col poeta) è grigio e quello" della
vita è verde, concetti e ragionamenti non producono la passione e la
forza della volontà, che sole operano praticamente. Ma questa divisione
e reciproca indifferenza e inefficacia di pensiero e di azione non regge
allo sguardo che penetra nel fondo. Nella viva e concreta realtà spiri-
tuale si ha la perfetta unità dei due termini, e nell'atto del pensiero tut-
t'insieme un atto di volontà, non nascendo da altro il pensiero che da
uno stimolo morale, dal dolore, dall'angoscia e dalla necessità di to-
gliere un impedimento al fluire della vita e non mettendo capo ad altro
che a un nuovo atteggiamento del volere, a un nuovo contegno e com-
portamento, a un nuovo modo di agire nel campo pratico 13.

Vale la pena dì notare la contemporaneità tra i dubbi di


Calamandrei e le meditazioni di Croce: per osservare che, in
fondo, Calamandrei era molto più vicino alle posizioni del

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filosofo non solo di Russo, ma anche di quanto egli stesso non
credesse14. Se ora confrontiamo la soluzione crociana del-
l'unità e distinzione di pensiero e azione con la conclusione
suggerita da Calamandrei ne II giudice e lo storico dobbiamo
riconoscere che i due percorsi, quello del « procedurista » e
quello del filosofo, sono paralleli e molto vicini. Attraverso
il dialogo con Croce, Calamandrei arriva quindi a disegnare,
nella figura del giudice, un modello critico, in cui l'azione
nasce dalla conoscenza.
Al termine di queste osservazioni possiamo tentare, forse,
alcuni appunti marginali. L'aver mostrato che Croce e Cala-
mandrei hanno cercato di superare le stesse difficoltà in rela-
zione ai rapporti tra pensiero e azione, e che le loro soluzioni
convergono nel riconoscere che il pensiero si attua nell'azione
senza annullarsi come conoscenza — l'aver mostrato, dicevo,
lo svolgimento di queste difficoltà teoriche non sposta di un
centimetro l'ingombrante problema storico del come queste
soluzioni abbiano « funzionato » di fronte alla realtà dei fatti
successivi al 1939. Affrontare con impegno questo problema
è compito che certamente cade fuori dai limiti di questi ap-
punti marginali. Si può far cenno, però, al giudizio vulgato,
che vuole che queste posizioni teoriche, portate in politica da
liberali e azionisti, siano fallite nel dopoguerra nel volgere di
pochi anni. Nel momento drammatico del passaggio dal fasci-
smo all'antifascismo e della rifondazione politica dell'Italia,
questi avanzamenti teorici avrebbero dato risultati incerti nei
loro stessi protagonisti.
Dovremmo ammettere, insomma, che la distinzione tra
pensiero e azione ritrovata da Croce e da Calamandrei, esatta
filosoficamente, non abbia agito in quei momento come pro-
pulsione per l'azione. Ecco riprendere corpo, allora, il fanta-
sma del giuoco di lusso, dello storicismo del filosofo puro,
« che lascia che il mondo crolli per capire le ragioni del crol-
lo ». Ma nonostante quégli esiti pratici, che peraltro andreb-
bero accertati storicamente, noi continuiamo a credere che que-
sta teoria della distinzione rimanga una forma filosofica va-
lida, un'impostazione corretta del problema: e abbiamo in
mente che, se non ci soddisfa pienamente, è solo perché non
ci soddisfa l'attuazione concreta (e politica) che ne diamo: il
materiale che offriamo, in questo presente, a quella forma.
MASSIMO MASTROGREGORI

160
1
Cfr. P. Calamandrei, La genesi logica della sentenza civile, in Opere
giuridiche (d'ora in poi: Op. g.), Napoli, Morano, I, p. 26.
2
Cfr. Op. g., I, pp. 393414.
3
Si vedano, oltre il saggio citato sulla genesi della sentenza, la prolu-
sione senese del 1921 (Op. g., I, pp. 195-221) e il saggio del 1939 su La rela-
tività del concetto di azione (Op. g., I, pp. 427-449).
4
Cfr. G. Calogero, La logica del giudice e il suo controllo in cassazione,
Milano 1937.
5
Cfr. B. Croce, in « La Critica », 1937, p. 376; C. Antoni, in « Giornale
critico della filosofìa italiana», 1938, p. 161.
6
Sui pericolosi effetti pratici del fraintendimento delle teorie filosofiche,
cfr. anche La certezza del diritto e le responsabilità della dottrina (1942), in
Op. g., I, p. 505, a proposito del libro di F. Lopez De Onate, La certezza del
diritto, Roma 1942: « Hanno cominciato i filosofi a parlare di "irrealtà delle
leggi " e a dimostrare che la volontà enunciata in forma generale ed ipotetica
non è vera volontà. Ma finché queste teorie rimanevano custodite nei secreti
laboratori della speculazione, non facevano male ad alcuno; il guaio è comin-
ciato quando queste teorie, cadute in mano ai politici, sono diventate argo-
menti per tradurre il problema filosofico in un problema pratico, e per soste-
nere [...] il sistema del diritto libero e della giustizia del caso concreto».
7
Cfr. « La Critica », 1939, pp. 445-446; essa fu ristampata in Pagine
sparse, Bari, Laterza, I9602, pp. 447-450.
8
Cfr. P. Calamandrei, Diario 1939-1945, Firenze, La Nuova Italia, 1982.
9
Contro lo storicismo in cui « c'è qualcosa che non va » anche la nota
del 3 agosto 1942, a p. 58 del II voi. del Diario.
10
Cfr. B. Croce, Il carattere della filosofia moderna, Bari, Laterza, 19633,
p. 100: « lo stimolo [,..] che muove alla domanda dell'indagine e della co-
struzione storica ».
11
Mio il corsivo. Nel testo pubblicato in rivista Croce aveva scritto « la
spontaneità dell'azione morale»; è durante la revisione per la pubblicazione
in volume che aggiunge « e dell'invenzione», insistendo sull'originalità e
creatività dell'agire.
12
Cfr. B. Croce, // carattere della filosofia moderna, cit., pp. 100-101.
13
Ibid., pp. 110-111.
14
Per raccogliere indicazioni meno congetturali sul rapporto con Croce
sarà utilissima la Corrispondenza tra i due, in corso di pubblicazione presso
il Mulino, a cura dell'Istituto italiano di studi storici di Napoli.

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