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Saggi Tascabili Laterza

Paolo Grossi

Oltre la legalità

Editori Laterza
© 2020, Gius. Laterza & Figli

Edizione digitale: giugno 2020


www.laterza.it

Proprietà letteraria riservata


Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma
 

Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy)


per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 9788858142578
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata
Indice

Premessa
I.
Oltre la legalità
II.
Sul diritto europeo
come diritto giurisprudenziale
III.
Dalle ‘clausole’ ai ‘principii’:
a proposito della interpretazione
nel tempo pos-moderno
IV.
Storicità versus prevedibilità:
sui caratteri di un diritto pos-moderno
V.
A proposito
de ‘Il diritto giurisprudenziale’
Agli allievi di sempre, con i quali sempre ho colloquiato assiduamente, dai quali sempre ho tratto ricchezza
spirituale

Ho fatto come quei medici che, in ogni organo estinto, cercano di sorprendere le leggi della vita
Alexis de Tocqueville, L’antico regime e la rivoluzione
Premessa

Dopo tante riflessioni sul problema delle fonti del diritto, che è nodale –
oggi – in una esperienza appartenente al pianeta di civil law; dopo avere
tante volte accennato – in modo particolare, negli anni della mia presenza
nella Corte costituzionale – agli espedienti tutti moderni della loro
scansione gerarchica, della ipervalutazione del potere legislativo, del
mantello mitico con cui si è voluto avvolgere la legge; giunto – come
sono – all’età in cui si redigono bilanci e si traggono delle conclusioni, ho
ritenuto di non potermi esimere da una compiuta osservazione –
serenamente critica – su alcuni pilastri portanti del vecchio ‘Stato di
diritto’, ponendo in stretta comparazione le nostre attuali condizioni e le
nostre reali esigenze rispetto a un passato che pretende di imporci
dogmaticamente le sue soluzioni, soluzioni che, passivamente (per
pigrizia culturale o per convinzioni ideologicamente fondate), la
maggioranza odierna dei giuristi italiani fa tranquillamente sue.
Come storico del diritto, mi sento di essere tra i pochi (con, accanto, il
comparatista, e il filosofo del diritto quando smette di acchiappar nuvole e
fa il suo mestiere) che sono in grado di scompigliare fecondamente una
assuefazione collettiva adagiata su delle pretese degnità ormai ridotte a dei
veri luoghi comuni. Questo è espresso a inchiostro forte nel titolo che
sovrasta l’intiero libro, consegnatario di una carica che taluno riterrà
provocatoria se non demolitrice, ma che io ho inteso unicamente
stimolatrice, come si dirà nel corso delle prossime pagine.
Il titolo intende sottolineare un problema che oggi si impone alla scienza
giuridica italiana, e intende soprattutto sottolineare che i cinque saggi che
compongono il volume sono sorretti da esigenze culturali assolutamente
unitarie e perseguono uno stesso fine (che vorrei chiamare) di
affrancazione culturale per l’odierno giurista.
Il primo, quale riflessione maturata nell’estate/autunno del 2019,
raccoglie e fonde parecchie riflessioni precedenti e dà l’avvìo in grazia di
questa sua compiutezza; compiutezza che gli consente una generale
visione critica con alcune proposte finali1. Gli altri quattro saggi, i primi
tre dei quali definiti in precedenza2, si aggiungono perché
approfondiscono aspetti particolari e sono, quindi, in grado di offrire delle
proficue integrazioni alla sintesi contenuta nel saggio primo e principale.
Ho, in esergo, tenuto a riprodurre anche qui una penetrantissima
considerazione (da me già altre volte menzionata) di Alexis de
Tocqueville, un personaggio che continua ad offrire preziosi spunti
riflessivi anche al giurista3. In essa il grande pensatore francese, in
premessa a una sua indagine sull’evento rivoluzionario di fine Settecento
nei suoi rapporti con l’antico regime, afferma il proprio canone
metodologico: lungi dal mettersi a contare i granelli di polvere depositati
dal tempo sugli scaffali della storia, vuole instaurare un dialogo
arricchente tra passato e presente. In un siffatto dialogo si innervano
anche le presenti pagine, che vengono a costituire di per sé, proprio per
l’identica scelta metodologica, un contributo a recuperare le tipicità
dell’ieri e dell’oggi; anzi, a esaltare le rispettive tipicità nei loro specifici
messaggi.
Questa pubblicazione appartiene alle mie ‘ultime’ soste di
raccoglimento, frutto cioè di questo ultimo frammento di vita, che
raccoglie e ulteriormente dispiega tutto un lungo itinerario. È dedicata ai
miei allievi di sempre, con un sentimento di sincera gratitudine: la
costante e intensa familiarità con essi ha dato al mio sguardo una
giovinezza che il trascorrere del tempo non è riuscito ad attenuare.
Citille in Chianti, Ognissanti del 2019

1
È doveroso segnare qui un duplice caloroso ringraziamento: ai docenti del «Collegio del
dottorato di ricerca in discipline giuridiche» dell’Ateneo Roma Tre, che mi hanno invitato a
tenere la prima lezione di un ciclo intitolato Sulla legalità; ai docenti del «Dottorato in
scienze giuridiche – Curriculum in Teoria dei diritti fondamentali, Giustizia costituzionale,
Comparazione giuridica» dell’Ateneo di Pisa, che hanno organizzato una giornata di studio
in ricordo di Alessandro Pizzorusso su Il diritto giurisprudenziale, invitàndomi a tenere la
«Introduzione ai lavori». La preparazione congiunta dei due interventi, temporalmente
distanziati assai poco l’uno dall’altro, dedicati a temi fra di loro strettamente connessi, mi ha
fornito l’occasione preziosa per consolidare riflessioni finora sparse e disorganiche.
2
Il primo di essi, con il titolo Die Botscha des europäischen Rechts und ihre Vitalität: gestern,
heute, morgen, fu pubblicato in «Rechtsgeschichte. Legal History», 22, 2014; il secondo, con
il titolo Dalle ‘clausole’ ai ‘principii’: a proposito dell’interpretazione come invenzione, in «Giustizia
civile», 1, 2017; il terzo, con lo stesso titolo che serba in questo volume, in «Rivista
internazionale di filosofia del diritto», aprile-giugno 2018; il quarto è inedito.
3
A. de Tocqueville, L’antico regime e la rivoluzione, a cura di G. Candeloro, Rizzoli, Milano
1989, p. 32.
I.
Oltre la legalità

1. La legalità dell’assolutismo giuridico; 2. Il riduzionismo monista della modernità giuridica; 3.


Oltre la legalità assolutistica: rigurgiti monistici ed emersioni pluralistiche nel tempo giuridico
pos-moderno; 4. Oltre la legalità: per corrispondere al pluralismo giuridico novecentesco; 5. Oltre
la legalità: per un impegno di coerenza con il nostro tempo pos-moderno; 6. ‘Legalità’ e ‘Rule of
Law’: qualche necessaria precisazione; 7. E qualche ulteriore precisazione sul diritto eurounitario e
sulla ‘globalizzazione giuridica’.

1. Credo che sia giunta l’ora di una indispensabile revisione dei due pilastri
che la cultura politico-giuridica del Settecento ha, nell’Occidente
continentale europeo, offerto allo Stato ottocentesco, troppo
ottimisticamente chiamato ‘Stato di diritto’ (Rechtsstaat)4: la separazione
dei poteri e il principio di legalità. Ed è proprio in questa orientazione
che va interpretato il titolo che l’autore ha voluto, Oltre la legalità, titolo
probabilmente per molti provocatorio e per taluni addirittura oltraggioso
di certezze radicate nel sacrario di una dimensione etica. Certamente, c’è
in esso il rifiuto fermo di ogni sentiero che possa condurre verso la deriva
della ‘illegalità’, ma, al tempo stesso, vuole esser chiaro in esso il segno di
una schietta insofferenza per come, hic et nunc, noi – generalmente – si
riafferma il principio della separazione dei poteri quale dogma intangibile
e, quindi, indiscutibile, e ci si sta comportando con la legalità
attualizzando fino al giorno d’oggi, senza alcuna variazione, un fossile
settecentesco, quasi che fosse un carbone capace di dare attualmente lo
stesso calore, malgrado il gran tempo trascorso, malgrado gli enormi
eventi che la vicenda storica ha dovuto registrare in un paese di civil law
come l’Italia, malgrado le decisive novazioni nel nostro approccio con il
diritto.
I due pilastri, nella loro genesi settecentesca, avevano delle fondazioni
così salde da risultare incontestabili. Frutto di scienziati e politici
‘illuminati’, si proponevano come delle verità sottoposte non a discussione
o problematizzazione, bensì a una prona credenza. Si origina qui quella
mitizzazione5 che si trascina stancamente fino ad oggi, ma che è senza
dubbio accolta con fervore dalla pigrizia intellettuale di parecchi odierni
giuristi beatamente immersi nelle appaganti certezze (o ritenute tali, o
presunte tali) del pianeta giuridico di civil law. Conviene cominciare col
porre attenzione alla rigida e irrigidente impronta settecentesca.
Con la separazione dei poteri si volle creare arginamenti ai poteri del
Principe moderno, che pretendeva di assommare in sé legiferazione
governo giurisdizione. In un secolo che viveva la caoticità delle estreme
ramificazioni del pluralismo giuridico medievale6 e, nello stesso tempo,
un acceso ottimismo riguardo alle capacità regolative del Principe,
l’indirizzo separatorio offriva garanzie formali al cittadino ma si
concretizzava altresì in una consistente strategia: sottraeva a giudici e
sapienti ogni coinvolgimento nel processo produttivo del diritto,
consegnàndolo interamente alla volontà del titolare del supremo potere
politico.
A sua volta, il principio di legalità rappresentava una integrazione
necessaria al fine di compiere quello che è veridico chiamare un autentico
‘assolutismo giuridico’. Infatti, la invenzione del diritto7 era sottratta al
particolarismo consuetudinario strettamente connesso alla
frammentatissima empiria dei fatti e, ugualmente, a giudici notai sapienti,
che sempre di più avevano assunto il ruolo di leggere interpretare definire
tecnicamente il complesso e variegato materiale consuetudinario. Ormai,
il nuovo diritto – specchio dell’età dei Lumi – doveva disdegnare una
genesi dal basso: non più di invenzione doveva trattarsi8, ma di regole
generali e astratte, progettate da una volontà suprema e tali da evitare il
condizionamento da parte dei fatti; pertanto, sì generali e astratte ma
anche rigide. E la inflessibilità del nuovo diritto si contrapponeva alla
elasticità del vecchio ius commune9. Un solco profondo si veniva a creare
fra diritto e società. Assai pernicioso perché causa di un marcato
inaridimento.
È apprezzabile franchezza ammetterlo: molti, tra noi giuristi, sono
ancora i proseliti del verbo illuministico, destinatarii e, in certo modo,
anche vittime del messaggio forte dell’Illuminismo settecentesco. Un
messaggio in cui spiccava la rivalutazione (consistente in una
ipervalutazione) del titolare del potere politico, cui veniva convintamente
affidato il ruolo della produzione di tutto il diritto10.
Non dimentichiamo che, fino al secolo XVIII (come si accennava
all’inizio), quel ruolo era nelle mani dei giuristi – cioè di coloro che
sapevano di diritto e che, in quanto tali, potevano offrire garanzie di
competenza tecnica e di una conseguente imparzialità –, particolarmente
dei grandi dottrinarii maestri nelle università disseminate in tutto il
continente, ma anche di giudici notai avvocati. Tutto era nato in quel
secolo XII11 in cui l’esperienza medievale ci propone un paesaggio socio-
politico-giuridico di un diritto senza Stato, senza organismi politici
totalizzanti e omnicomprensivi12, paesaggio che si trascina poi per inerzia
anche durante i primi secoli della modernità, quando – a cominciare dal
Regno di Francia – gli Stati emergono in modo sempre più vigoroso
affermando, in sempre maggiore progressione, un proprio protagonismo,
ossia facendosi sempre più legislatori, facitori del diritto.
Nel secolo dei Lumi, al termine di un itinerario plurisecolare, si era
arrivati alla situazione paradossale di un diritto comune (quello dei
giuristi) diventato un cùmulo enorme di opinioni, sentenze, pratiche
consuetudinarie, incertissimo perché caotico, in presenza di Stati assoluti
dove il Principe era in grado di sostituirsi (e tendeva a farlo) con alcuni
immediati risultati da raggiungere modellando l’ordine giuridico dall’alto
del potere supremo: una sicura unitarietà e, quindi, una sicura coerenza;
la sua facile riduzione a sistema con le apprezzabili qualità della chiarezza
e della certezza; la sua perfetta controllabilità perché ormai inglobato
nell’orbita del potere politico.
Nasce qui, in questo fertile Settecento, l’icona del Principe come
modello di uomo, immune dalle passioni umane di cui sono facili prede il
sapiente e il giudice13, e, quindi, come modello di una imparzialità
conseguente alla sua assoluta superiorità, capace – ripetiàmolo pure,
perché si tratta di una convinzione fondativa – di produrre un diritto che,
provenendo dalla volontà di un solo soggetto, non potrà che essere
saldamente compatto. Avrebbe in ciò riflesso la compattezza della
struttura politica, un bene da salvarsi ad ogni costo con il rifiuto più netto
all’interno dello Stato di ogni rischiosissima articolazione comunitaria14;
resta, in basso, alla società il non-ruolo di piattaforma meramente passiva.
Nasce qui quella sfiducia nella dottrina e nel ceto giudiziario – di cui è
testimone in Italia, a metà Settecento, il libello virulento ma efficace di
Muratori contro i ‘difetti della giurisprudenza’15 – che è calata e riposa
ancora nel nostro animo (e, forse, più nel nostro cuore) di giuristi odierni
in un paese di civil law, rendendo alterata e viziata la nostra valutazione di
viventi e operanti in un frangente storico tanto diverso (e, ohimè, perciò
tanto bisognevole di non avere dei paraocchi prefabbricati trecento anni fa
e totalmente inadatti).
Ovviamente, i ‘Lumi’, con la ipervalutazione del Principe, furono
portatori della ipervalutazione della legge e del principio di legalità come
totale conformità a quella; principio che, così immedesimato, non
dovrebbe poter restare ancora tra le convinzioni più ferme di tanti giuristi
e sul quale ormai è stato deposto un fardello di luoghi comuni, dei quali è
sperabile che ci si sbarazzi quanto prima per costruire qualcosa di
veramente nuovo, invece di ribiascicare decrepiti e inutili ritornelli. A ciò
vorrebbe, pur nella sua modestia, contribuire questa lezione.
2. Quella illuministica fu, nella storia del diritto continentale europeo,
una rivoluzione di grande rilievo, anche perché, pienamente confermata
dai giacobini francesi, si trasformò nel programma giuridico del nuovo
Stato moderno nelle sue varie epifanie. Si trattava di un formidabile
riduzionismo, formidabile perché, consegnando il diritto nelle mani di un
solo soggetto, lo rendeva straordinariamente compatto, certo ed efficiente.
Il risultato più vistoso fu in Francia (e, poi, dappertutto) la codificazione
del diritto attuata dal despota Napoleone, ma che è ben segnata tra i primi
auspicii della stessa Rivoluzione16. Si progettano le linee di una fonte
novissima, il Codice, nuova per i contenuti che si vogliono dare a questo
arcivecchio vocabolo17: la riduzione, pensata e attuata in alto, di una intiera
branca dell’ordine giuridico in una dettagliatissima quantità di
disposizioni composte in un armonico sistema.
Ciò a cominciare da quel ‘diritto civile’ concernente le relazioni private
fra soggetti privati, lasciato intatto dai legislatori dell’antico regime18 e
affrontato decisamente dal legislatore napoleonico, espressione di quel
potere borghese che esige la protezione massima per le proprietà
individuali, per la loro libera circolazione, per la loro trasmissione mortis
causa. Il diritto civile è – inevitabilmente – il primo ad essere codificato e,
malgrado che costituisca la disciplina dei quotidiani fatti di vita del
cittadino, è voluto e redatto quale disciplina meta-temporale, immessa in
categorie astratte immuni dalla fangosità dei fatti e destinate a durare (se
non per l’eternità) almeno per un futuro indefinito. Ora, 1804, lo si può
fare, perché ormai la Francia pos-rivoluzionaria è uno Stato unitario e
centralizzato assolutamente distante, come puntualizza efficacemente
Portalis nel suo celebre discorso inaugurale, da quella ‘société de sociétés’
in cui si incarnava la vecchia monarchia borbonica19.
Il riduzionismo, a livello di una rinnovata sistemazione delle fonti, si
traduce in una ferrea gerarchizzazione20, che riduce a una mera parvenza il
mantenimento formale di una pluralità. Infatti, solo la fonte situata sul
sommo gradino gerarchico, la legge, rappresenta una volontà
indipendente e incondizionata chiamata a condizionare tutte le altre fonti
dei gradini inferiori ridotte a una semplice ancillarità. È una verità, questa,
che non è discutibile e che, purtroppo, dopo la Costituzione troviamo
dommaticamente affermata nelle Preleggi al Codice Civile del 1942,
ultima reliquia durevole nell’ordinamento italiano – anche se oggi
soltanto formale – di un regime autoritario.
Un solo ordinamento può qualificarsi come giuridico, ed è lo Stato,
titolare del supremo potere politico; ed è la volontà dello Stato – la legge
– che è norma per eccellenza. Il diritto si identifica in un creativo atto di
volontà21, in un comando che deve essere obbedito. In questa visione
rigorosamente monistica non può che imporsi il principio di legalità, inteso
nel senso più costrittivo (e al di là dello specifico riferimento ai rapporti
tra politica e amministrazione), l’unico senso che gli si può dare in un
universo giuridico che tiene a identificarsi nella legge. Una legge – si badi
– che non è la lex di cui parla san Tommaso quasi novecento anni prima,
una ordinatio rationis22, un ordinamento della ragione, un atto cognitivo,
una lettura dell’assetto sociale che rinviene nella suprema autorità politica
soltanto l’organo affidatario della solenne proclamazione23; piuttosto, una
legge che è il comando strettamente collegato ad una situazione di potere,
proiettato dall’alto verso il basso della società con la pretesa ineludibile
dell’obbedienza.
3. Questa premessa storico-giuridica è necessaria per puntualizzare che
una siffatta ‘legalità’ esprime il momento della modernità giuridica,
momento riduzionistico per il diritto, momento di acme del monopolio
giuridico da parte dello Stato. Ed è in grazia di questa premessa che
diventa legittima una pressante domanda: possiamo noi, oggi, accettare
una siffatta concezione di legalità dopo che abbiamo vissuto in Italia, alla
metà del secolo scorso, una rivoluzione non meno rilevante di quella
effettuata tre secoli prima dalle innovazioni illuministico-giacobine e di
segno assolutamente diverso se non opposto?

È
È chiaro che non lo possiamo per il semplicissimo motivo che questa
nuova rivoluzione investe in pieno la sistemazione illuministica delle fonti
e la sconvolge a fundamentis. Il che avviene nel secolo nuovo, il
Novecento, secolo pos-moderno che tenderà a distanziarsi sempre più
dall’assetto settecentesco della modernità giuridica. Questo fa spicco sul
piano del costituzionalismo, che solo in apparenza sembra distendersi in
continuità dalla Déclaration del 1789 alla Carta nostra del 1948, ma che, al
contrario, ha una vicenda segnata da una forte discontinuità, rendendo il
costituzionalismo novecentesco la testimonianza più vivace di un nuovo
cammino pos-moderno.
Infatti, la Costituzione italiana entrata in vigore nel 1948 – ché di essa
per noi soprattutto si tratta – non è l’ultima delle ‘carte dei diritti’
disseminate in buona parte del mondo dalla fine del Settecento in poi,
ponèndosi rispetto ad esse in rapporto di palese discontinuità24. Le ‘carte’
– quelle nordamericane e francesi, per citare gli esempii più illustri e più
noti – si risolvevano in dichiarazioni, senza dubbio di grande portata storica
ma dichiarazioni; disegnavano cioè un nobile programma affrancatorio e
disegnavano per il legislatore le linee di una filosofia politica, che lui era
chiamato ad attuare per fornire al cittadino adeguati strumenti di
garanzia. Galleggiavano, però, al di sopra delle fonti di diritto
caratterizzàndosi per la loro astrattezza. Il loro messaggio più innovativo e
anche il più nobile, la égalité, ha, infatti, il suo fondamento in un
originario stato di natura, dove una benevola divinità ha voluto gli
uomini tutti uguali. Il suadente paesaggio si risolve, purtroppo, in
qualcosa di meramente potenziale, giacché lo stato di natura è realtà
meta-storica, più favola che storia, senza alcun riscontro esperienziale25,
senza che si abbia il coraggio di scendere a quel basso livello dei fatti dove
il divenire storico si svolge e dove si distende l’esistenza quotidiana
dell’uomo comune.
Non si deve mai dimenticare che la civiltà giuridica moderna,
affermàtasi in Europa con la rivoluzione francese, è contrassegnata dagli
interessi e dai programmi del vittorioso ceto borghese; un ceto che
identifica la possibilità di conservare quella posizione vincente solo
facendo leva su una affermazione di principii astratti e sulla convinzione
che astratti debbono restare, disdegnando il rischioso misurarsi con la
fattualità. L’uguaglianza deve restare formale, né lo Stato borghese farà
nulla per renderla sostanziale: l’essenziale è che il povero non abbia
impedimenti giuridici a divenire ricco, che abbia la libertà di divenire
ricco, rimanendo irrilevante se le situazioni di fatto o la incapacità del
non-abbiente lo hanno impedito. A meno che non si voglia cedere ad
atteggiamenti apologetici, si deve ammettere che siamo di fronte a una
‘democrazia’ incompiuta, e, se qualcuno serbasse dei dubbii, basterebbe
far mente locale alla lunga vicenda parlamentare del Regno unitario
d’Italia sulla estensione del suffragio; ancora nel 1882, in Parlamento,
dopo una accanita discussione, la si respinge a larga maggioranza, e si
dovrà attendere fino al 1913.
Occorre, infatti, il secolo nuovo, il Novecento, per avere da noi una
democrazia veramente plurale, nella quale l’avere ha finalmente perduto il
suo carattere di salvacondotto politico26. La prima guerra mondiale manda
in soffitta, in più di un’occasione, il culto borghese dell’astrattezza,
incrina le certezze su cui si era costruito l’ordine giuridico moderno,
inaugurando un ordine nuovo edificato su nuove fondazioni27: dopo la
ventennale esperienza della dittatura fascista e dopo la tragedia della
seconda guerra mondiale, la prima, essenziale e determinante, è la
Costituzione, che non è la legge suprema di uno Stato per il cui varo è
bastevole una maggioranza in Parlamento; che è, invece, il complesso dei
principii giuridici letti e registrati entro il sostrato valoriale della società
italiana da una Assemblea Costituente quale espressione della intiera
comunità popolare. Qui, intenso e determinante, emerge il discrimine
che separa nettamente il vecchio Stato borghese (cosiddetto di diritto)
dalla novissima Repubblica costituzionale: questa si fonda direttamente
sulla società, traendo dalla lettura dei valori radicali il proprio basamento
giuridico e istituzionale. È, dunque, la società che qui produce diritto,
mentre è allo Stato di produrre le sue leggi.
Può apparire – questa conclusione – un brillante ma vacuo esercizio
retorico; è – al contrario – gravida di conseguenze, sia sul piano della
costruzione teorica, sia su quello dell’esperienza concreta. Sì, perché la
Costituzione, riflettendo la società, non può non riflettere il pluralismo
che ad essa è intrinseco. Se lo Stato, nel suo essere anche e soprattutto
potere, è intrinsecamente monista nella sua compattezza, la società
esprime un ordine culturale sociale economico che è convivenza di
diversità. Al livello che interessa noi, quello del diritto, se lo Stato si
traduce in un solo ordinamento giuridico, la società è – al contrario e
necessariamente – articolata in una pluralità ordinamentale, all’interno
della quale non può non spiccare per la sua prevalenza l’ordinamento
statuale; che, tuttavia, non ha il monopolio della giuridicità, che era stato
il frutto di quel riduzionista assolutismo giuridico dominante nella
modernità anche all’interno delle cosiddette democrazie parlamentari.
Col che si può arrivare spediti alla conclusione che l’attuale monismo
giuridico, così caro al cuore (!) di tanti giuristi di oggi (2019!), è un
espediente dell’edificio politico borghese, ma è un artificio che va a
sacrificare la naturale espansione del diritto, espansione che trova rispetto
e tutela soltanto nella civiltà costituzionale del tempo pos-moderno, nella
civiltà che genera nel 1919 il primo esperimento rigorosamente
costituzionale, quello di Weimar, e il nostro del 1948. Con essi siamo di
fronte ai primi esperimenti politici autenticamente democratici perché
autenticamente plurali28, e autenticamente plurali perché ciascuno può
sentirsi presente e coinvolto in queste Costituzioni novatrici, senza alcuna
esclusione, tanto meno se motivata sulla condizione economica del
soggetto. Queste parlano di lui e per lui, fornèndogli un prezioso
breviario giuridico per la sua esistenza quotidiana.
La giuridicità non è il frutto esclusivo del laboratorio statuale. Come
ammoniva più di cinquanta anni fa, in un saggio preveggente, l’ingegno
aguzzo di Nicola Matteucci, «per ripensare in modo adeguato ai problemi
che, oggi, deve affrontare la nostra democrazia costituzionale» si deve in
primo luogo effettuare la rinuncia «al dogma positivistico secondo cui lo
Stato è la fonte di tutto il diritto»29. Infatti, la giuridicità è ormai
individuata e scoperta nel grembo più riposto della società, che ha nel
diritto la originaria immancabile nervatura del proprio ordine30. Grazie al
costituzionalismo pos-moderno si ha un poderoso recupero per il
diritto31, che riscopre la sua indole sociale, la sua natura essenziale di
essere innanzi tutto ordinamento (anche se nell’esperienza d’ogni giorno ci
appare ammantato nella veste stringente e autoritaria del comando). Si
deve ribadire qui la mutazione profonda che è connessa a questa novità
lessicale, non innocua, anzi, sostanziosissima, perché essa sposta
inevitabilmente verso il basso della società il perno dell’universo
giuridico. Infatti, se essenza del diritto è ordinare il magma sociale, lo può
fare solo a condizione che tenga conto di valori, interessi, bisogni
circolanti in quel magma. La nuova visione del diritto come ordinamento
non produce, dunque, delle mere variazioni ma addirittura un
capovolgimento rispetto alle concezioni normativistiche tradizionali entro
un pianeta di civil law.
È la feconda lezione di quel giurista squisitamente pos-moderno che fu
Santi Romano, e che fu tale perché volle senza inibizioni osservare la
transizione che si andava lentamente svolgendo fuori dalle finestre del suo
studio. La crisi dello Stato moderno esaminata senza troppi rammarichi
nel 190932 (ma con presentimenti precedenti33) e la sistemazione teorica –
di superba teoria generale – dell’intiero ordine giuridico nel 191834 sono,
per così dire, il manifesto di una civiltà giuridica che cerca nuove basi al di
là degli artificii messi in opera dalla occhiuta ideologia borghese. La
riflessione del ’18 è la risposta teoretica alla diagnosi storica del 1909,
quella in rapporto di stretta connessione consequenziale con questa, l’una
e l’altra segnali di un giurista che, soffrendo sulla propria pelle l’aridità di
artificii mitologizzanti, guarda finalmente in basso e, spassionatamente,
senza prevenzioni ideologiche, quasi sbarazzàndosi di un ingombro
coartante la propria libertà di ricercatore, registra la complessa dinamica
che in basso si scorge e che si va lentamente anche consolidando.
Da tutto questo si profila un nuovo protagonismo della società e,
soprattutto, della sua irriducibile complessità; una complessità che, pur con
le inevitabili patologie, è la sua naturale dimensione, il suo essere storia
vivente, e che può subire riduzioni solo al prezzo oneroso di infliggerle
violenza, di sacrificarla, di anchilosarla e anche di paralizzarla nella sua
forza dinamica. Se astrazioni e dogmatizzazioni sono congeniali al potere,
esse sono sofferte dal divenire sociale come innaturali inchiodamenti.
Infatti, la fondamentale e rivoluzionaria riscoperta del diritto pos-
moderno è proprio la sua socialità e, quindi, la sua storicità, ritrovate come
caratteri intrinseci al diritto.
Per restringere lo sguardo alla dimensione costituzionale, da tutto questo
si profila, come abbiamo accennato più sopra, una nuova fase del
costituzionalismo, che abbiamo chiamato pos-moderno per sottolineare la
decisa discontinuità con il costituzionalismo delle ‘carte dei diritti’. La
nuova Costituzione, infatti, non galleggia nella meta-storia dello stato di
natura; è essa stessa storia ed esprime un tempo storico, anche se di questo
identifica i valori, cioè i fermenti che tendono a durare e a caratterizzare
una comunità in cammino, ma che certamente non sono immobili.
4. Tiriamo alcune fila dalla necessaria premessa storica e dalla nostra
diagnosi di un tempo giuridico pos-moderno inaugurato circa cento anni
fa e che stiamo tuttora vivendo. Possiamo puntualmente farlo,
riprendendo qui le mie parole d’avvìo sui due pilastri del moderno Stato
di diritto: il principio della separazione dei poteri e il principio di legalità,
nella loro simbiotica congiunzione (l’uno congiunto funzionalmente
all’altro), vengono a costituire la serrata cerniera di chiusura di una
concezione/visione del diritto essenzialmente potestativa. Anche se c’è –
all’inizio – la legittimazione ‘democratica’ di libere elezioni, il legalismo
statalista non può non arrivare a consistere in un inscindibile vincolo fra
produzione del diritto e potere politico. Lo è ancor più oggi, quando
assistiamo all’imperversare sempre più massiccio dell’attività legislativa da
parte del potere esecutivo, tanto da rendere abbastanza formali quei «casi
straordinari di necessità e di urgenza» che nell’articolo 77 della Carta sono
segnati con inchiostro forte.
All’isolamento torreggiante del potere legislativo, grazie al principio di
legalità si accompagnava, ben oltre l’indubbio èsito garantistico, la
gigantizzazione di quel potere. Il principio di legalità era, infatti, sorretto
da una sola finalità: la creazione da parte dello Stato di un diritto legislativo
espressione della sua volontà, né letto né inventato altrove. Con un
ulteriore ed essenziale punto fermo: al di là di questo v’era solo il vasto
territorio della irrilevanza giuridica, una complessa realtà socio-
economica trasformabile in diritto unicamente mediante un atto di
volontà dello Stato, un novello re Mida, l’unico capace di mutare in oro
(ossia in leggi) l’incomposta fattualità pullulante nel basso della società. Il
principio di legalità realizzava perfettamente il più rigido monismo
giuridico e indicava chiaramente l’unico itinerario possibile per arrivare
alla creazione del diritto.
Ciò che si deve respingere è l’utilizzazione del principio di legalità allo
stesso modo di quando si adotta l’espediente retorico della sineddoche: ci
si riferisce a una parte per esprimere il tutto, ci si riferisce alla legge per
ricomprendervi tutta la complessità dell’ordine giuridico e per arrivare
sostanzialmente alla identificazione del tutto nella parte. Questo rifiuto
salvante si impone, giacché una conquista culturale del Novecento in
Italia è stata la riscoperta della complessità giuridica. Abbagliati dai
cristalli dei ‘Lumi’, o, se si vuole, abituati a guardare l’ordine giuridico
con le lenti deformanti dei nostri padri settecenteschi, per troppo tempo
non è stato messo a fuoco quel tutto – al di là delle leggi – che lenti
finalmente non deformanti hanno consentito all’osservatore novecentesco
di percepire nitidamente.
Il vocabolo/concetto ‘legalità’ sa di passato, di passato remoto; è un
fossile lontano, che rinvia a un momento in cui il diritto fu ridotto a un
solo produttore, lo Stato, e a una sola manifestazione/fonte, la legge. Ma è
anche innegabilmente equivoco, perché, recando palesemente in sé il
riferimento esclusivo alla legge, si presta a dare soccorso ai molti laudatores
temporis acti che rimpiangono il vecchio protagonismo dello Stato e della
sua legge e tengono – come lo struzzo di un noto aforisma – la testa sotto
la sabbia per non constatare l’evidenza del movimento/mutamento, che c’è
stato, che c’è ed è erosivo di decrepite schematizzazioni.
È semplicemente antistorico perpetuare oggi una nozione di legalità
cristallizzando e immobilizzando i suoi contenuti esaltati da tanti nostri
illuministi. Da allora, di acqua ne è passata molta sotto i ponti dei nostri
fiumi. La nuova società novecentesca tende ormai ad auto-ordinarsi,
malgrado il costante tentativo del potere di soffocarne la dinamica, e
l’ordine giuridico riesce a rispecchiare più fedelmente l’ordine sociale; alla
complessità del ‘sociale’ corrisponde la complessità del ‘giuridico’.
L’universo giuridico, che il potere borghese aveva voluto – per sue finalità
– il più semplice possibile, recupera in complessità. Ma complessità
significa pluralismo sociale senza esclusioni predeterminate, e al
pluralismo sociale si accompagna un intenso pluralismo giuridico,
pluralismo di fonti, ricomposte in una rete anziché in una strutturazione
gerarchica.
È il paesaggio giuridico che il costituzionalismo sociale del Novecento
ha disegnato quale frutto della sua lettura, della sua invenzione nel sostrato
valoriale della società civile. Ormai, le Costituzioni parlano questo
linguaggio e registrano questo assetto socio-giuridico, con un evidente
spostamento del suo asse portante da un legislatore/tutto-fare,
crogiolàntesi nella sua omnipotenza, a quegli interpreti (prassi
consuetudinaria, sapienti, giudici, notai, uomini di affari) cui è oggi
affidato il cómpito grave ma vitale di un adeguamento. E
l’interpretazione, esclusa ieri drasticamente dal processo di rinnovazione
giuridica e, quindi, dal nòvero delle fonti, riacquisisce un rango attivo e
propulsivo35, affatto necessario in un momento di forte transizione, di
intensa mobilità, di assoluta insufficienza di certezze dogmatiche ormai
prive di fondazione nelle sabbie mobili al di sotto dei nostri piedi;
momento – ammettiàmolo pure, perché è il paesaggio che in Italia si
sciorina ogni giorno dinanzi ai nostri occhi – in cui lo Stato legislatore
dimostra la sua desolante incapacità di ordinare il magma socio-
economico e il rapido attuale movimento/mutamento36. È una situazione
di cui lo Stato stesso ha oggi coscienza; e lo dimostrano parecchi
comportamenti sostanzialmente abdicativi, grazie ai quali si dà spazio a un
concorso di altre fonti. Ai miei occhi, l’esempio più vistoso è l’assai
rilevante iniziativa del 2010 per un ‘Codice del processo amministrativo’,
dove il legislatore si limita a disegnare una cornice di principii lasciando
implicitamente un ruolo non indifferente agli interpreti e, primo fra tutti,
al giudice.
La società ha ormai relegato entro un tempo del tutto perento la propria
immagine di piattaforma amorfa meritevole solo di essere calpestata, e si
presenta ora a noi come una realtà giuridicamente assai articolata, una
realtà pluri-ordinamentale. Le intuizioni pròvvide di una riflessione
scientifica di avanguardia avevano operato disegni lungimiranti durante i
primi svolgimenti del Novecento: il diritto quale ordinamento non si
risolveva in un vacuo preziosismo paroliero, ma era – piuttosto – il
disegno anticipatorio di futuri svolgimenti, con quel suo togliere lo
sguardo dai palazzi alti del potere, con quel suo guardare in basso, sul
terreno dell’effettività che sarebbe stato – di lì a poco – l’officina feconda
del rinnovamento giuridico.
Di tutta questa rivoluzione – tacita, nascosta, ma innovativa – si è fatta
portatrice l’Assemblea Costituente italiana, anche in ciò interprete attenta
di un tempo nuovo e bisognoso di architetture nuove. Ed è significativo
che di questo respiro – libero, aperto, proiettato verso il futuro – si siano
fatti propugnatori alcuni sapienti di raffinata cultura giuridica, che
avevano avidamente bevuto alle sorgenti ristoratrici dell’istituzionalismo
pos-moderno. Penso, soprattutto, ai costituenti Giorgio La Pira,
Giuseppe Dossetti, Aldo Moro, tutti e tre docenti di Diritto nelle
università italiane, cui si deve un contributo determinante per la messa a
punto dei ‘principii fondamentali’ della Carta del 194837.
La ‘Repubblica’, che esce dalla loro officina, ha una dimensione
decisamente pluri-ordinamentale, dove, al centro, sta l’ordinamento dello
Stato – Stato legislatore –, ordinamento prevalente e prezioso per
garantire in una ordinata convivenza le libertà dei cittadini, ma senza
dubbio non il demiurgo totalizzante della giuridicità. Accanto, destinata
finalmente ad esprimere la complessità dell’universo giuridico, sta quella
pluralità ordinamentale che le brutali ideologie fondative della modernità
avevano ufficialmente cancellato o di cui si era – almeno – soffocata
l’autonomia.
L’incantamento verticistico, che aveva dominato nel suo distendersi
l’esperienza giuridica moderna caratterizzàndola intensamente, aveva dato
dei frutti precisi: si era, in qualche modo, realizzata l’aspirazione a una
scienza pura e, di conseguenza, la sua riconduzione a sistema. A uno
sguardo più penetrante l’operazione non riesce però a nascondere anche
una valenza assai negativa: si era snaturato il diritto separàndolo dal
divenire sociale e dissanguàndolo della sua intrinseca storicità, o, per usare
un vocabolo più evocativo, della sua intrinseca carnalità.
Questo pluralizzarsi di ordinamenti, questo riconoscere che il diritto
nasce negli strati profondi della società, pluralizza le sue fonti e anche le
de-tipicizza, ed è vistosa la loro impurità, ovvia conseguenza della loro
fattualità. La Repubblica, dal punto di vista giuridico, si connota dunque
come una realtà squisitamente policentrica. Accanto al legislatore, la
prassi con i suoi usi pretende una propria presenza, mentre il ceto
giurisprudenziale (sapienziale e giudiziale) riacquista una voce
determinante, disegnando quei principii che maggiormente si prestano a
ordinare il movimento/mutamento del nostro tempo giuridico38. E poiché
usi e principii vanno interpretati (a differenza delle leggi, che pretendono
di essere obbedite), non si può oggi negare agli interpreti (sapienti,
giudici, notai) un coinvolgimento nella dinamica produttiva del diritto.
A questo punto, sarebbe grave trascurare l’esempio più illuminante e la
tappa fra le più rilevanti del cambiamento che stiamo vivendo in Italia. Mi
riferisco alla corposissima novità nel nostro paesaggio giuridico della
Corte costituzionale, con una effettiva presenza dal 1956. Accennando ad
essa, mi piace chiudere con il massimo risalto possibile, giacché è proprio
la Corte la testimonianza evidente che le vecchie dogmatiche fondate
sulla separazione dei poteri e sul principio di legalità debbono essere
sottoposte a una intensa revisione. Si sa bene che sull’inserimento di
questo singolare organismo nel tessuto della costruenda Carta vi fu accesa
discussione e furono motivatissimi gli accesi dissensi, che – peraltro –
provenivano da voci di notevole spicco come quelle di Vittorio Emanuele
Orlando e di Francesco Saverio Nitti. Per i convinti assertori della
perenne validità del vecchio Rechtsstaat era, infatti, difficile trangugiare
l’idea di un tribunale, sia pure con caratteri assai singolari, quale titolare di
poteri che arrivavano ad annullare leggi (e atti aventi forza di legge) che,
nella nostra tradizione giuridica, erano considerati insindacabili. Ai
guardiani della sovranità del Parlamento ciò suonava come assolutamente
inaccettabile, tanto più che, nella discussione, ebbe il sopravvento il
progetto del costituente Giovanni Leone proponente un controllo
accentrato della Corte attivabile in via incidentale da qualsiasi giudice e
sottolineante in tal modo la giudizialità come carattere intrinseco al
nuovo organismo. Qui preme soltanto una conclusione: questa scelta
veniva a incrinare corposamente sia il principio di separazione dei poteri,
sia il principio di legalità. Si dava, infatti, uno scossone a un vecchio
edificio e ci si avviava con sicurezza nel disegno di un paesaggio giuridico
segnato da forte discontinuità con il tradizionale assetto di un paese di civil
law.
Con una precisazione significativa: nel procedere, in Italia, dell’attuale
cammino, il protagonismo di una giustizia costituzionale si è andato
accentuando, almeno dall’ultimo decennio del Novecento. Fu qui che,
per merito indubbio della stessa Corte39, ha preso forma quel canone
interpretativo che siamo soliti identificare nel sintagma ‘interpretazione
conforme a Costituzione’40 e che consiste in un sostanziale allargamento
del nòvero dei primattori del giudizio di costituzionalità con l’investitura
per il giudice ordinario della valutazione circa la conformità di una fonte
ai valori costituzionali. È chiaro che si attua così il suo coinvolgimento in
un ingranaggio esteso ben al di là dei ristretti confini della Corte.
5. Se tutto questo corrisponde all’esperienza che stiamo vivendo anche in
Italia, paese che ha alle spalle una ferma tradizione legalistica e codicistica,
possiamo ancora parlare del principio di legalità e, anzi, continuare ad
assumerlo a colonna portante di tutto l’edificio giuridico? È vero che si
parla sempre più di «un’altra legalità», di «legalità ibrida», di «legalità
sostanziale», di «legalità costituzionale», di «legalità legale»41, ma
giustamente, venticinque anni fa, ci fu chi parlò, dominato già allora da
una sacrosanta impazienza, di «questa nozione passe-partout che
continuiamo per stanchezza a chiamare principio di legalità»42.
Riandando alle parole con cui ho avviato questa lezione, io credo che si
debba avere il coraggio di incamminarsi per una strada che permetta di
sbarazzarsi di luoghi comuni e di icone che non meritano le nostre
riverenze. Con una fermissima precisazione: rendere effettive le garanzie
che la vecchia ‘legalità’ pretendeva di assicurare al cittadino, profittando
dei nuovi strumenti di comprensione dell’universo giuridico alla luce di
una consapevolezza epistemologica più affinata.
Non ho esitazioni nel riaffermare, a chiusura, che il vocabolo/concetto
‘legalità’ sia oggi, di per sé, inadatto, perché incapace di evocare tutta la
complessità giuridica che stiamo vivendo; un vocabolo/concetto che è un
fossile, che ci riporta precipitosamente all’indietro, al momento lontano
quando si è rattrappita nel continente europeo la dimensione giuridica
della società, a differenza del pianeta insulare inglese dove il common law
vive – anche durante la modernità – una storia senza cesure mantenendo
intatte le sue radicazioni storiche.
Insomma, e per farmi meglio comprendere: intendo solo dire che
‘legalità’ è vocabolo/concetto intrinsecamente monodico, incapace di
esprimere quella realtà polifonica che è oggi, anche sul continente, la
dimensione giuridica. Oggi che il diritto, riconquistata la sua natura
polifonica, non può e non deve essere identificato nella legge; oggi, noi,
attuali giuristi, dobbiamo sentirci investiti di un impegno culturale
altissimo: quello di non smentire un preciso carattere del nostro tempo,
contrassegnato da un manifesto ‘ritorno al diritto’43, ritorno a un diritto
che ha recuperato tutta la sua latitudine di ordinamento della umana
convivenza. Anzi, noi dovremmo sentirci chiamati a un impegno
educativo proprio in questa direzione: additare soprattutto ai giovani che
questo recupero non è solo un portato del tempo pos-moderno, ma è
un’autentica conquista di civiltà giuridica; educare i giovani a concepire la
svolta che stiamo vivendo – liquidata frettolosamente e in chiave negativa
come ‘crisi’ – quale affrancazione dai riduzionismi artificiosi della civiltà
borghese e, quindi, da valutarsi come una ricchezza di questo nostro
difficile tempo.
Una volta che si convenga su queste premesse, in luogo di ‘principio di
legalità’, si deve cominciare a parlare di ‘primato del diritto’, di
‘supremazia del diritto’, di ‘dominanza del diritto’, con riferimento a
sintagmi che siano maggiormente comprensivi e perfettamente in grado
di evidenziare quello che si chiede oggi al cittadino: l’osservanza dei valori
giuridici che fondano la Repubblica italiana, valori – però – di cui non è
portatrice soltanto la ‘legge’. Non è affatto un problema nominalistico,
ma di sostanza. A differenza della lingua inglese, dove ‘law’ è termine
assolutamente comprensivo di ogni manifestazione del giuridico, nella
lingua italiana, così come nelle altre lingue neo-latine e in quella tedesca,
la differenziazione formale e sostanziale fra ‘legge’ e ‘diritto’ esige che ci si
tolga dall’equivoco, nel quale inevitabilmente incorriamo usando il
termine ‘legalità’. I sintagmi sopra indicati verrebbero, infatti, ad
assumere il contenuto largo che, nella tradizione anglo-sassone, ha il
sintagma ‘Rule of Law’.
6. Qui, però, si impone un deciso chiarimento, perché accostare sic et
simpliciter (come con assai poco lodevole pressapochismo culturale si è
fatto) il ‘Rule of Law’, proprio e tipico della tradizione di Oltremanica, al
principio di legalità dello ‘Stato di diritto’ continentale, di conio liberal-
borghese, testimonia l’ignoranza (o la non esatta comprensione) delle
diversissime tipicità di due diversi percorsi storico-giuridici, con una
rappresentazione all’insegna di equivoci fuorvianti.
Assai differenziati sono i contesti. Da una parte, il Regno d’Inghilterra,
che continua a vivere durante tutta l’età moderna una impronta
tipicamente medievale ricevendo echi lontani della sconvolgente
rivoluzione francese, con un ordine giuridico sostanziosamente
autonomo rispetto al potere politico. La fiera affermazione «Nihil aliud
potest rex in terris, nisi id solum quod de iure potest», che leggiamo,
ferma nella sua solennità, in una pagina del giurista Bracton, è la
testimonianza sonora della autonomia ma anche supremazia del diritto
quale cardine della società inglese, un cardine che dal lontano tempo di
Bracton, il Dugento, è stato una costante sempre sorretta da una forte
condivisione, costituendo un salvataggio contro i futuri tentativi
assolutistici della monarchia. Dall’altra parte, sul continente e, innanzi
tutto, nel Regno (Repubblica, Impero) di Francia, dove si ha, nel solco
della vampa illuministica e giacobina, una completa frattura con l’antico
regime di stampo pos-medievale e una pesante affermazione dello Stato
come apparato di poteri, con una totale ancillarità ad esso del diritto, di
tutto il diritto, a cominciare dal complesso delle relazioni private fra
privati cittadini.
In altre parole (e per venire a una analisi storico-giuridica), il retroterra
del ‘Rule of Law’ non è monistico; è, anzi, decisamente pluralistico,
anche se con una prevalente orditura giudiziale; il retroterra del Rechtsstaat
è prettamente monistico, identificàndosi nella realtà compatta dello Stato,
disegnato dalla grande rivoluzione come il solo monopolizzatore/creatore
della intiera giuridicità. Realismo cognitivo, da un lato, volontarismo
soggettivista, dall’altro.
7. Per una maggior completezza del quadro odierno, si devono
aggiungere almeno due puntualizzazioni. Infatti, altro discorso è da fare
per esperienze giuridiche di più recente formazione (e, anzi, tuttora in
formazione) intensamente pervase dal pluralismo pos-moderno.
Innanzi tutto, per quanto concerne il progrediente diritto eurounitario,
in cui un ruolo promotore (io direi volentieri: inventivo) lo ha certamente
la Corte di Giustizia. Credo che non possano sussistere dubbii sul
carattere giudiziale (e, più in genere, giurisprudenziale, con un ruolo non
indifferente della dottrina) di questo diritto44, e giustamente ci si è posti la
domanda, in un bilancio fatto agli inizii degli anni Novanta e a proposito
del ruolo cospicuo della Corte lussemburghese, se ciò «non determini
nella Comunità un governo di giudici, un’Europa di giudici e se il
fenomeno sia conforme alla rule of law»45.
L’Europa giuridica appare sempre di più un organismo che si costruisce
come ‘comunità di diritto’ (‘Community based on the Rule of Law’).
Ciò fin dal 1986 nella rilevante sentenza «Parti écologiste Les
Verts/Parlamento europeo», che trova i suoi capisaldi nei «principii
generali del diritto, di cui fanno parte i diritti fondamentali»; tra questi
principii campeggia quello di ragionevolezza, che segnala – grazie al suo
fare i conti con la materialità dei fatti di vita – la alienità dalla razionalità
del freddo formalismo legalista46. Del resto, anche una recente analisi
complessiva su Il principio di legalità nell’ordinamento comunitario, pur se –
almeno a mio avviso – troppo dominata dalla invasiva icona della
‘legalità’, non poteva che arrivare ad una conclusione: i tratti essenziali del
diritto della Unione sembrano «rispondere ad una impostazione più
anglo-sassone che europea continentale»47. È, semmai, il caso di
aggiungere che, se v’è un rischio che l’eurodiritto corre, questo consiste
nella dominanza della fattualità economica. L’Unione, in molte
manifestazioni, mostra di serbare nella propria ossatura l’impronta che le
viene dalla sua conformazione originaria di mercato, con un conseguente
gigantismo dei fatti economici e delle libertà economiche, con una
conseguente scarsa propensione alla valorizzazione della dimensione
sociale (quella dimensione che è il tratto identitario della Costituzione
italiana).
Uguale conclusione credo che si debba fare per quell’ormai
ramificatissimo tessuto della globalizzazione giuridica, frutto di
un’esigenza dell’attuale assetto capitalistico, che, insoddisfatta dai diritti
statuali nonché da quelli interstatuale e internazionale, è venuta e viene a
consistere in una germinazione spontanea entro il mercato mondiale di
schemi ordinanti nuovi, nati nella empiria della prassi e definiti
tecnicamente da attrezzate officine giuridiche private. A questo fenomeno
globalizzatorio si addice perfettamente il ‘Rule of Law’, giacché anche qui
si rifiuta «il monopolio di un’unica dominante autorità generatrice di
diritto»48. È, semmai, il caso di aggiungere che qui incombe un duplice
rischio: lo scopo del maggior profitto da raggiungere ad ogni costo; la
dominanza dei soggetti economicamente più forti.
Più sopra, citando il volume di Antonino Alì e condividèndone la
conclusione, formulavo una nota critica sulla persistente icona del
‘principio di legalità’ al fine di cogliere l’identità culturale e tecnica del
diritto eurounitario. Debbo formulare la stessa osservazione per il citato
volume, culturalmente assai provveduto, del filosofo Gianluigi Palombella
sul diritto della globalizzazione, libro coraggioso dove si mette a fuoco
acutamente il perno dell’ordine giuridico globale ma dove si continua a
parlare di una «legalità al plurale»49. Non sarebbe l’ora di togliere questo
ingombro della ‘legalità’ per esperienze cui tale principio non si addice? E
di cassare il termine dal lessico usuale, sì da non perpetuare possibili
equivoci? Unione Europea e globalizzazione sono realtà permeate da un
arricchente pluralismo giuridico, dove giuristi teorici e pratici sono gli
autentici inventori; sì arricchente, anche se non ci si deve nascondere il
rischio di una dominanza puramente tecnocratica. Perché complicare il
quadro con la nozione stonata di ‘legalità’? Stonatissima in un ‘so law’
globale, ma stonata anche per il diritto europeo in cui la fonte ‘legge’ ha
un ruolo ben inferiore a quello della dottrina e soprattutto della
giurisprudenza pratica. Pigrizia di giuristi? Forza penetrante di vecchie
mitologie giuridiche? Probabilmente! Ma, se così è, è più corretto parlare
di ‘Rule of Law’, rendèndolo in italiano con ‘primato del diritto’.

4
Il perché dell’avverbio ‘ottimisticamente’ sarà chiarito nel corso della lezione.
5
È mitizzazione, per esempio, l’affermare apoditticamente che la legge è l’unica fonte di
diritto capace di rappresentare la volontà generale, dopo che penetranti riflessioni di politologi
e giuspubblicisti hanno messo in luce sue sostanziose carenze proprio nel suo essere
espressione di rappresentanza.
6
Ramificazioni, come si preciserà in seguito, consistenti in un cùmulo di opinioni
dottrinali, sentenze di giudici, formularii di notai, norme di potentati politici stratificàtisi
nel corso di un cammino plurisecolare.
7
Invenzione nel significato che, negli ultimi anni, ho provato a precisare: non un creare
artificiosamente (com’è oggi nella comune lingua italiana), bensì un cercare per trovare
(com’è proprio del latino invenire/inventio). Mi permetto di rimandare il lettore a tutte le
precisazioni contenute in una mia recente raccolta di saggi: L’invenzione del diritto, Laterza,
Bari-Roma 2017.
8
Giacché, come si è puntualizzato nella nota precedente, immedesimare il diritto in una
‘invenzione’ aveva il significato di scoprirlo e di leggerlo nel sostrato radicale della società.
9
Perché flessibili erano le sue fonti, consistenti soprattutto in quella dimensione fattuale
dell’ordinamento che è la consuetudine, nonché in sentenze di giudici e in opinioni di
‘dottori’.
10
Ed in questo consiste l’assolutismo giuridico proprio dell’assetto borghese della società
moderna: l’esasperato liberismo economico pretende un ordine giuridico assolutamente
controllato da un potere politico unitario e centralizzato.
11
È questo il momento in cui il tempo storico medievale comincia ad essere percorso da
una forte dinamica economica, non più soltanto agraria ma anche commerciale, con una
circolazione che investe tutta l’Europa occidentale e, insieme, con un risveglio della
riflessione scientifica sul diritto in seno alla fioritura di tante officine universitarie, dando
vita a uno ius commune europeo di stampo prettamente giurisprudenziale.
12
Per maggiori chiarimenti, mi permetto di rinviare a un mio lontano specifico saggio: Un
diritto senza Stato (la nozione di autonomia come fondamento della costituzione giuridica medievale)
(1996), ora in Assolutismo giuridico e diritto privato, Giuffrè, Milano 1998, e in Paolo Grossi, a
cura di G. Alpa, Laterza, Roma-Bari 2011.
13
Questo è comune in tutta la propaganda di ispirazione illuministica, ed è anche
abbastanza indimostrato.
14
Il cittadino individuo doveva avere un rapporto diretto e frontale con lo Stato, rapporto
che eventuali comunità intermedie avrebbero – mediàndolo – attenuato e complicato. Allo
Stato forte giova una società resa innocua dalla sua estrema frammentazione in una miriade
di soggetti, mentre una società che si organizza in realtà collettive (sindacali, religiose,
professionali, assistenziali) è un rischio grave per la sua compatta unitarietà. Lo spauracchio
del ‘collettivo’ in tutte le sue manifestazioni incomberà sulla civiltà borghese sino all’inizio
del Novecento, tempo ormai pos-moderno. Esemplare, in questo, a metà Seicento, la
testimonianza dello statalista Hobbes, che, in un capitolo famoso del suo Leviatano (cap.
XXIX), equipara le comunità intermedie, così congeniali al da lui deprecato ordine
medievale, a «tanti Stati minori negli intestini di uno maggiore, simili ai vermi negli
intestini di un uomo naturale» (cfr. la citazione in N. Matteucci, Positivismo giuridico e
costituzionalismo [1963], ora nella ristampa anastatica curata da Il Mulino [Bologna 1996, p.
107], e ripetuta in M. Vogliotti, Legalità, in Enciclopedia del diritto. Annali, VI, Giuffrè,
Milano 2012, p. 381).
15
Il motivo che funge da colonna portante di tutto il libello muratoriano (datato 1742) è la
contrapposizione (assolutamente manichea) tra la superiorità e impassibilità del
Principe/legislatore sovrastante la fangosità dei fatti e ‘iudices’ e ‘doctores’ in essa immersi e
da essa inquinati.
16
Nella «Constitution Française» del 3 settembre 1791 c’è un impegno nettissimo: «Il sera
fait un Code de lois civiles et communes à tout le Royaume».
17
Di ‘Codici’ si è parlato fin dall’età romana e durante la prima modernità, ma senza che
quel vocabolo avesse il carattere specifico e tipicissimo del Codice pos-rivoluzionario e
napoleonico.
18
Lo stesso Luigi XIV, un re ‘legislatore’ che disciplina, nel tardo Seicento, con le sue
Ordonnances, parecchie zone dell’ordinamento giuridico del Regno, si guarda bene
dall’innovare sul terreno del ‘diritto civile’.
19
Il giurista Jean-Étienne-Marie Portalis (1746-1807), uno dei protagonisti del processo
codificatorio napoleonico ma la cui formazione culturale era avvenuta negli ultimi tempi
dell’antico regime, di cui conosceva bene la situazione, complessa e frammentatissima, sotto
il profilo giuridico, una situazione che rendeva del tutto impossibile (e tuttavia necessario) il
progetto di un Codice unitario. Nel testo si fa riferimento al suo Discours préliminaire al
progetto di Codice dell’anno IX.
20
Giustamente si parla «della dominazione culturale che il principio di gerarchia ha
storicamente espresso» (F. Modugno, Fonti del diritto (Gerarchia delle), in Enciclopedia del diritto.
Aggiornamenti, I, Giuffrè, Milano 1997, p. 562).
21
Non ha torto Gustavo Zagrebelsky, quando afferma con frase solo apparentemente
paradossale: «il principio di legalità non era che il compimento della tradizione assolutistica
dello Stato» (G.Z., ll diritto mite, Einaudi, Torino 1992, p. 25).
22
La definizione di san Tommaso è la seguente: «quaedam rationis ordinatio ad bonum
commune, ab eo qui curam communitatis habet promulgata» (Summa Theologica, Prima
Secundae, q. 90, art. 4).
23
La lex, nella visione tomistica, assolutamente coerente con le soluzioni del complesso
ordine giuridico medievale, è lettura di un sostrato valoriale, che vede impegnate forze
molteplici: in prima linea, dottori giudici notai e, solo in seconda linea, i titolari del potere
politico.
24
Mi permetto rinviare a una mia recentissima sintesi: Costituzionalismi tra ‘moderno’ e ‘pos-
moderno’. Tre lezioni suor-orsoliane, Editoriale Scientifica, Napoli 2019.
25
È quello che, altre volte (cfr. La cultura del civilista italiano, Giuffrè, Milano 2002, pp. 1
sgg., e Fattualità del diritto pos-moderno: l’emersione di un diritto ‘agrario’ in Italia, in «Diritto
Agroalimentare», I, 2016), ho chiamato il vizio giusnaturalistico dell’intiero diritto messo a
punto a fine Settecento, nel colmo di una modernità giuridica di impronta
fondamentalmente borghese.
26
L’impronta della moderna civiltà borghese non può che essere un liberismo economico
che si traduce in elitarismo economico. Un elitarismo che trova una indispensabile
protezione, come si puntualizzava più sopra, in un assolutismo giuridico.
27
Le gigantesche esigenze provocate dal conflitto costrinsero, infatti, i governi belligeranti –
fra cui quello del Regno d’Italia – a emanare una legislazione eccezionale, dove, mettendo
da parte il ‘virtuoso’ cànone della astrattezza, si dava un pesante rilievo alla fattualità sociale
ed economica. Sulla enorme rilevanza storico-giuridica della guerra 1914-18, cfr. le
dettagliate segnalazioni da me fatte già in Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-
1950, Giuffrè, Milano 2000, pp. 130 sgg.
28
Abbiamo insistito su questo carattere pluralistico nella lezione inaugurale dell’anno
accademico 2016-17, tenuta nella Sapienza Università di Roma il 19 gennaio 2017: La
Costituzione italiana quale espressione di una società plurale, ora in «Nuova Antologia», CLI, 1,
2017, fasc. 2280, pp. 5 sgg.
29
Matteucci, Positivismo giuridico e costituzionalismo, cit., p. 3. Il saggio di Nicola Matteucci
(1926-2006), che non mi sentirei di condividere in certi suoi atteggiamenti individualistici
di marca prettamente liberale, saggio scritto da un filosofo e politologo munito di una
eccellente educazione giuridica, è preveggente perché sorretto dalla precisa intuizione che lo
statalismo legalista della nostra tradizione gius-positivistica è veste troppo costrittiva per la
democrazia costituzionale del Novecento. È apprezzabile la sua disponibilità autenticamente
storicistica vòlta a comprendere una determinata civiltà storica facendo leva sui valori che
essa esprime. A questo proposito, ho un preciso ricordo personale. Quando il mio volume
di sintesi L’ordine giuridico medievale ebbe, subito dopo la sua pubblicazione nel 1995, una
presentazione presso l’Università di Bologna, promossa (se non ricordo male) da Ovidio
Capitani, Matteucci fu tra i presentatori e rammento bene la sua piena adesione al mio
rifiuto di utilizzare per l’esperienza medievale nozioni come ‘Stato’ e ‘sovranità’ perché
sostanzialmente antistoriche.
30
Sul carattere ‘originario’ del ‘giuridico’ e ‘derivativo’ del ‘legale’ cfr. le meditate
osservazioni di A. De Nitto, Ancora a proposito di «giuridico» e «legale», in Liber amicorum in
onore di Augusto Cerri. Costituzionalismo e democrazia, Editoriale Scientifica, Napoli 2016, p.
338.
31
A un Ritorno al diritto fa riferimento, fin dalla intitolazione, un mio recente libriccino
(Laterza, Roma-Bari 2015).
32
A Lo Stato moderno e la sua crisi è dedicato proprio in quell’anno un suo, giustamente
famoso, discorso inaugurale nell’Ateneo di Pisa, su cui ho recentemente riflettuto, dietro
l’onorevole invito della Facoltà giuridica pisana: «Lo Stato moderno e la sua crisi» (a cento anni
dalla prolusione pisana di Santi Romano) (2011), ora in Introduzione al Novecento giuridico,
Laterza, Roma-Bari 2012.
33
L’ho rilevato recentemente: Il giovane Santi Romano: un itinerario verso L’ordinamento
giuridico, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», ottobre-dicembre 2017.
34
È appena il caso di precisare che il riferimento è al libretto romaniano del 1918:
L’ordinamento giuridico.
35
È quanto ho cercato di porre in luce in un saggio specifico: Dalle ‘clausole’ ai ‘principii’: a
proposito dell’interpretazione come invenzione, in «Giustizia civile», 1, 2017, pp. 5 sgg. (ora in
questo volume, pp. 63 sgg.).
36
Ciò è ben puntualizzato nella recente riflessione di un assai consapevole filosofo italiano
del diritto: B. Pastore, Interpreti e fonti nell’esperienza giuridica contemporanea, Cedam, Padova
2014, cui si può aggiungere il mio plauso recensorio: Per ripensare le fonti del diritto (su un libro
recentissimo e sulle sue sollecitazioni), in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico
moderno», 44, 2015, p. 1047.
37
Una mia messa a punto in proposito in La Costituzione italiana quale espressione di un tempo
giuridico pos-moderno (2013), ora in L’invenzione del diritto, cit.
38
Sulla odierna centralità dei ‘principii’ e sul nuovo ruolo della interpretazione ho insistito
nella relazione introduttiva Sulla odierna ‘incertezza’ del diritto, tenuta nel 2014 al Convegno
annuale della Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo (ora in Ritorno al
diritto, cit., pp. 51 sgg.).
39
Una prima indicazione si ebbe, se non erro, con la sentenza 443 (12/23 dicembre 1994),
relatore il giudice Renato Granata.
40
Sul quale i pareri dei giuristi sono assai differenziati. Si confrontino quello decisamente
negativo di M. Luciani, Interpretazione conforme a Costituzione, in Enciclopedia del diritto. Annali
IX, Giuffrè, Milano 2016, e quello decisamente positivo che ho creduto di manifestare in
L’invenzione del diritto, cit., pp. 128-129.
41
Vogliotti, Legalità, cit., p. 402.
42
S. Cassese, Alla ricerca del sacro Graal. A proposito della Rivista ‘Diritto pubblico’, in «Rivista
trimestrale di diritto pubblico», XLVI, 1995, p. 796.
43
Intendo riferirmi a un invito che Federico Spantigati, un ingegno giuridico munito di un
formidabile acume diagnostico, aveva lanciato nel 2004 quale divisa di un «Manifesto dei
giuristi» dalla valenza altamente progettuale; ritorno al diritto, dove hanno un ruolo non
esiguo legislatore e legge, però accanto a consuetudini, riflessioni dottrinali, sentenze di
giudici, prassi, tutto nel segno di un arricchente pluralismo giuridico (cfr. F. Spantigati,
Manifesto dei giuristi, in «Ritorno al diritto: i valori della convivenza», 1, gennaio 2005, pp.
15-16). È nel solco di questo itinerario culturale che io volli intitolare il libriccino ricordato
nella nota 28.
44
Rinvio alla documentazione da me offerta in Il messaggio giuridico dell’Europa e la sua
vitalità: ieri, oggi, domani, in «Contratto e impresa/Europa», XVIII, 2, 2013, e in «Rivista di
storia del diritto italiano», LXXXVI, 2013, nonché, in lingua tedesca, in «Rechtsgeschichte.
Legal History», 22, 2014 e, in lingua inglese, in «European Business Law Review», 25,
2014.
45
Se lo domandava un ‘sapiente’ che – in quanto internazionalista e comunitarista, e quindi
meno invischiato dal formalismo del vecchio costituzionalismo legalista italiano – poteva
osservare il formando diritto europeo con occhio più libero (cfr. P. Mengozzi, La Rule of
Law e il diritto comunitario di formazione giurisprudenziale, in «Rivista del diritto europeo»,
1993, p. 512).
46
Lo sottolinea A. Adinolfi, Il principio di legalità nel diritto comunitario, che denuncia la
incongruenza di un discorso ‘legalitario’ per la comprensione dell’ordinamento europeo (il
saggio è ricompreso nella raccolta Il principio di legalità nel diritto amministrativo che cambia,
Giuffrè, Milano 2008, p. 96; il che ha sicuramente influenzato la Autrice nel conservare
anche per il diritto comunitario l’icona ‘scomoda’ del ‘principio di legalità’ campeggiante
nel titolo della intiera raccolta).
47
A. Alì, Il principio di legalità nell’ordinamento comunitario, Giappichelli, Torino 2005, p. 96.
48
G. Palombella, È possibile una legalità globale? Il Rule of Law e la Governance del mondo, Il
Mulino, Bologna 2012, p. 46.
49
Ivi, p. 107.
II.
Sul diritto europeo
come diritto giurisprudenziale50

1. L’Europa del diritto e i suoi tempi storici; 2. Il messaggio ‘europeo’ dello ius commune medievale;
3. Tra moderno e pos-moderno: l’avvìo di un nuovo messaggio ‘europeo’; 4. L’Europa del diritto:
le diversità nell’unità; 5. Il ruolo della Corte di Giustizia nella formazione di un diritto ‘europeo’:
il problema della individuazione dei diritti fondamentali; 6. Il diritto europeo e il suo bisogno di
principii: il ruolo della scienza giuridica; 7. L’Europa del diritto e la odierna globalizzazione
giuridica.

1. La porzione occidentale del continente eurasiatico (appunto, l’Europa)


ha costituito durante l’età moderna soltanto una espressione geografica,
essendo rilevanti politicamente e giuridicamente solo gli Stati, che la
frazionavano in tante entità sovrane e la riducevano a un vero arcipelago
politico e giuridico. Da un punto di vista rigorosamente giuridico
quell’ampio territorio ha conseguito, invece, una indiscutibile unità e
anche una indiscutibile tipicità in due momenti storici, ampii ma ben
precisabili: quello del maturo medioevo, all’incirca fra i secoli XI e XIV;
quello della pos-modernità, ossia a partire dagli anni Cinquanta del
Novecento.
Momenti storicamente diversissimi ma accomunabili, agli occhi dello
storico del diritto, per il modo con cui il diritto fu percepito vissuto
teorizzato, per i messaggi culturali che da essi provengono e che sono
meritevoli della massima attenzione oggi che, superato il frazionismo
statalistico di ieri, non siamo soddisfatti nemmeno dei confini europei ma
lanciamo sempre più lo sguardo verso un paesaggio decisamente globale.
I tratti accomunanti sono i seguenti: realizzazione di una unità giuridica
nel rispetto delle diversità ad essa interne; rapporto intensamente
dialettico fra unità giuridica e singole diversità; valorizzazione dei giuristi
nella produzione del diritto (giacché il diritto è cosa da giuristi e non da
politici) e soprattutto della scienza giuridica per la sua capacità di
disegnare principii armonicamente accomunanti e tendenzialmente
sconfinati.
Una precisazione, però, si impone al fine di togliere ogni equivoco a
questa premessa. Non crédano i miei uditori che io voglia proporre un
modello medievale per la costruzione del diritto di oggi e di domani.
Sarebbe una ingenuità imperdonabile particolarmente per uno storico,
che commetterebbe una disinvoltura innanzi tutto epistemologica. La
storia, infatti, non ha modelli da imporre al presente e al futuro, giacché,
come insegna già la antica sapienza sacra, ogni cosa ha il suo tempo e ogni
tempo ha le sue cose. Dal forziere della storia si può solo trarre una
ricchezza da mettere in rapporto dialettico con la nostra odierna
consapevolezza all’unico fine di renderla più complessa, più ricca, più
matura.
Il mio discorso, che inaugura la nuova fase di vita di un Istituto attento
al passato ma teso a offrire strumenti culturali al giurista di oggi e di
domani, al giurista europeo e al giurista globale51, ha solo il modesto
scopo di puntualizzare la tipicità del messaggio giuridico europeo, quello
medievale e quello di oggi, esaltando questa tipicità nella sua indubbia
vitalità senza cedere alla tentazione di appiattirla e, pertanto, di de-
storicizzarla. Ha l’ulteriore scopo di coglierne la ricchezza in rapporto alle
‘globalhistorische Perspektiven’, entro le quali è immerso il giurista del
presente e del futuro.
È in tal modo che lo storico del diritto adempie quello che io considero
il suo ruolo culturalmente più rilevante: acuire la coscienza critica del
cultore di un diritto vigente52, dàndogli il senso della linea storica in cui il
punto preciso del diritto vigente si còlloca, impedèndogli di isolarlo
assolutizzarlo mitizzarlo53.
2. La civiltà medievale non conobbe quel soggetto politico totalizzante,
monopolizzatore di ogni manifestazione sociale (e, quindi, anche del
diritto) che siamo soliti indicare con il sostantivo ‘Stato’ e che è la forte
presenza protagonistica nella civiltà moderna54. Con il risultato
rilevantissimo che i detentori del potere politico si òccupano del diritto
soprattutto per quanto attiene all’ordine pubblico e all’organizzazione
delle pubbliche potestà, lasciando alla società di auto-ordinarsi. E si
profila netto un secondo rilevantissimo risultato: sono plurali le forze
chiamate a produrre diritto e grandeggia un generalmente vissuto
pluralismo giuridico.
Il diritto, che disciplina la vita quotidiana dei privati cittadini, nasce qui
dall’esperienza, si intride dei fatti quotidiani, si contraddistingue per la sua
fattualità. Ed è per questo che la fonte prevalente del diritto medievale in
tutto il suo quasi millenario distendersi è la consuetudine55, o, meglio, la
pluralità delle mille consuetudini locali. Accanto, ma sempre
marginalmente, si pongono le norme dei Principi locali o delle città
libere. Poiché le consuetudini sono fatti ripetuti durevolmente nel tempo
e poiché il rischio che potrebbe derivarne è incertezza confusione
disordine, un ruolo enorme è giocato dai giuristi, cioè da coloro che
sanno di diritto e che sono in grado – col proprio sapere – di tradurre i
fatti economici e sociali in un ordine compiuto56.
Sono nel primo medioevo notai e giudici (ossia uomini di prassi), sono
nel maturo medioevo notai e giudici, ma in maniera decisiva scienziati,
doctores, docenti ascoltati e ammirati nelle numerosissime Università che,
dai primi del secolo XII, costèllano buona parte dell’Europa occidentale.
In una civiltà dove sacro e profano tendono a fondersi, la scienza,
mediatrice fra cielo e terra, è illuminazione, è approssimazione alla verità,
e non può non avere un ruolo determinante nella invenzione e
sistemazione del diritto. Spetterà soprattutto alla scienza di offrire quelle
categorie concettuali, quei principii ordinanti capaci di mettere ordine nel
magma incomposto dei fatti sociali ed economici; e poiché non si ha un
potere politico arrogante e invadente, la scienza può costruire un tessuto
giuridico universale valevole per ogni dove e proiettato nei tempi lunghi.
Il diritto, da essa forgiato sulla base del diritto giustinianeo e del diritto
canonico, si risolve in una elaboratissima costruzione interpretativa. Al di
sopra delle auctoritates romana e canonica si innalza la interpretatio doctorum,
voce schietta del tempo medievale e di esso espressione genuina. Un
tessuto che riveste tutta l’Europa civilizzata, teorizzato da docenti che si
diffondono a insegnare in tutte le Università più prestigiose, attentamente
studiato da giovani allievi che sciàmano al di sopra dei tanti confini
politici per ascoltare le lezioni dei Maestri più accreditati.
È l’età dello ius commune, di un diritto che è universale perché
scientifico, di un diritto plasticissimo poiché i principii hanno il privilegio
della elasticità che manca al comando autoritario. Lo ius commune non si
incarna, infatti, in una entità politica, né fa capo ad una istituzione; è
soltanto una comunità di sapienti, forti unicamente della loro cultura e
del loro sapere tecnico, presenti in ogni dove, sorretti dalla precisa
consapevolezza di essere chiamati a costruire quella armatura giuridica
unitaria di cui l’Europa medievale, così slabbrata nelle sue molteplici
articolazioni politiche, ha un disperato bisogno.
Né si creda che il tessuto dello ius commune soffochi i particolarismi
giuridici57. Gli iura propria (consuetudini e norme locali) si ìntegrano
armonicamente con le elaborazioni scientifiche componendo un ordine
autentico, autentico com’è quell’ordine che riduce ad unità rispettando le
diversità58. Dove le consuetudini non parlano, dove i Principi locali non
parlano (convinti come sono che l’essenzialità del loro potere non consiste
nel produrre norme), lì arriva il patrimonio giuridico del diritto
sapienziale dove – al contrario – tutto è effettivamente o potenzialmente
previsto in grazia della virtù naturalmente espansiva dei principii. Lo ius
commune rappresenta l’unità giuridica della intiera Europa allora
civilizzata.
3. Questo singolarissimo primo messaggio europeo, cioè di un diritto a
irraggiamento europeo, resta sepolto nel suo terreno storico
apparentemente così remoto. Infatti, il messaggio giuridico medievale è
quello di una civiltà senza Stato.
La civiltà moderna, montante dal Trecento in su quale civiltà di Stati,
lentamente cancellerà quel paesaggio di ordinamenti giuridici autonomi
dalle centrali del potere politico, assolutamente pluralistico perché segnato
da ordinamenti giuridici conviventi e concorrenti in uno stesso territorio
politico. Essa proporrà, all’opposto, il controllo più stretto sulla
produzione del diritto. Questo – nel colmo della modernità, ossia con la
serrata giacobina della rivoluzione francese – avrà nello Stato il suo unico
artefice (o, almeno, lo si pretenderà ufficialmente) e nella legge la sua
unica manifestazione59.
Il paesaggio giuridico cambierà quando, nel corso del Novecento (secolo
tipicamente pos-moderno60), si hanno eventi di straordinario rilievo. Gli
Stati vedono indebolirsi le corazze delle loro sovranità di fronte a una
dinamica economica sempre più bisognosa di ampie proiezioni spaziali e
di fronte a tecniche e tecnologie sempre più insofferenti a oppressivi e
artificiosi confini politici. Gli Stati, nell’area continentale di civil law
dominata da un rigido legalismo, non riescono più a ordinare il divenire
socio-economico, e lo stesso osannato strumento del Codice, nella sua
presunzione di ridurre entro un sistema chiuso e completo di regole una
intiera branca disciplinare, si vede impotente a realizzare un fine
irraggiungibile.
Sul piano della cultura giuridica si deve sottolineare un evento incisivo: a
partire dal secondo dopoguerra, il mondo del common law, segregato fino
ad allora in un pianeta lontano e separato a causa del persistere in esso di
un modo tutto medievale di percepire e vivere il diritto, ha frequentazioni
sempre più assidue e intense con l’area di civil law, permeando dei suoi
valori la mentalità del giurista continentale, inguaribile statalista e
legalista. È il nuovo paesaggio giuridico che, lentamente ma
progressivamente, da Roma (1957) a Maastricht (1992), ad Amsterdam
(1997), a Lisbona (2009), da una ‘comunità economica’ a una Unione
sovra-statuale, si va nettamente profilando con il significativo ingresso
nella Comunità del Regno Unito nel 1973.
È con grandi difficoltà che, nel solco di un itinerario molto accidentato
(perché le vecchie insularità sovrane sono dure a morire), si tenta
l’edificazione di un diritto europeo. L’itinerario è tuttora incompiuto, ma
– nel già fatto e in ciò che si sta facendo – ci permette di cogliervi un
messaggio di straordinaria nitidità: si intende realizzare una unità
giuridica rispettando le diversità; si percepisce che il diritto è cosa da
giuristi e che il ruolo del legislatore non potrà mai essere totalizzante. Al
contrario, scienza giuridica e prassi giudiziale non possono non essere le
fonti capaci di disegnare senza forzature un divenire giuridico, che è
mobilissimo come il continuo farsi delle istituzioni unitarie europee.
4. Come è puntualmente scritto nel ‘Preambolo’ della ‘Carta dei diritti
fondamentali’ – che ora, con il patto di Lisbona, «ha lo stesso valore
giuridico dei Trattati» – l’Unione contribuisce alla salvaguardia e allo
sviluppo di comuni valori «nel rispetto della diversità delle culture e delle
tradizioni dei popoli d’Europa, nonché dell’identità nazionale degli Stati
membri». Dizione che è ancor più irrobustita e sottolineata già nel
‘Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa’ del 2004 e in quello
successivo di Lisbona, dove non ci si limita a parlare delle diversità, bensì
della «ricchezza della sua diversità culturale e linguistica» (Roma: Parte I,
tit. I, art. I-3; Lisbona: Disposizioni generali, art. 2). E in tutti gli
strumenti pattizii, che si sono stratificati in più di sessanta anni, si fa scialo
di riferimenti alle identità nazionali e alle culture, alle eredità culturali e
alle tradizioni costituzionali, con un uso costante di un plurale che vuole
segnalare le diversità ricomposte in una unità, le diversità che l’unità né
soffoca né intende soffocare; che intende – anzi – valorizzare.
Questo perché, più che un raccordo di Stati e di governi, l’Europa
giuridica ha preteso di essere una comunità di popoli. Si commetterebbe,
infatti, un pernicioso fraintendimento, se si dimenticasse che l’Unione
Europea è un progetto che i popoli di una estesa (e sempre più estesa) area
geografica hanno deliberato di condividere. Popoli: dunque, storie e
tradizioni diverse, che si uniscono sulla solida base di comuni valori
fondamentali, ma che non intendono scomparire all’interno di una realtà
compatta e massificante.
L’Europa, invece, ci si presenta come un autentico ordine, ossia come una
realtà complessa tesa a tutelare la ricchezza della propria complessità: il
proprium delle varie componenti, la loro diversa storia, la loro singolare
tipicità, trovano nella comune dimensione europea la concreta possibilità
di affermare – ciascuna – la sua specialità e tipicità come una ricchezza da
confrontare con altri propria ugualmente concepiti quali ricchezze.
Come ebbe opportunamente ed efficacemente ad insegnare, in
occasione del cinquantesimo anniversario della Corte di Giustizia, nella
udienza solenne del 4 dicembre 2002, il Presidente del
Verfassungsgerichtshof della Repubblica Austriaca, Ludwig Adamovich,
«Ohne diese Vielfalt wäre Europa nicht, was es ist»61.
5. La storia del diritto europeo mostra sicuramente all’osservatore un
processo lento e faticoso, contrassegnato però da una singolarissima
peculiarità che corrisponde fedelmente alla peculiarità del suo difficile
trasformarsi da mercato comune in comunità politico-giuridica, con gli
organismi politici spesso condannati all’inerzia nella loro funzione
regolativa. E poiché il diritto aborrisce dal vuoto e poiché l’ordinamento
giuridico vive scorrendo senza interruzioni, i vuoti non possono che
essere colmati dai giudici, unica fonte capace di garantire una presenza
attiva nella trincea dell’esperienza.
Il che avviene, nell’Europa in formazione, grazie alla funzione
sostanzialmente inventiva di cui si carica la Corte di Giustizia. Un suo
Presidente, Gil Carlos Rodríguez Iglesias, nel discorso celebrativo del
cinquantenario, nel 2002, accennava a «críticas que reprochan al Tribunal
de Justicia que actúe más como motor de la integración que como
guardián del derecho»62, essendoci immancabilmente stato – tra i giuristi
continentali inguaribilmente malati di positivismo giuridico e ancora
imbevuti di mitologie illuministiche – chi ha storto la bocca nel
contemplare un collegio di giudici non interamente rinchiuso nella bassa
corte della mera esegesi testuale.
È, però, grazie alla attenzione di quei giudici per il costante divenire e
alla loro consapevolezza di essere chiamati a un cómpito costruttivo, che
si ha un contributo determinante al disegno del nascendo diritto
europeo63; che ha – e non può non avere – dei lineamenti marcatamente
giurisprudenziali; e li ha specialmente in quello che è il cuore di un
ordinamento giuridico: il campo dei diritti fondamentali della persona.
Ci sia consentita una breve sosta su questo punto, perché si ha
precisamente qui il messaggio giuridico più vitale dell’Europa del diritto.
Diritti fondamentali, ossia posizioni giuridiche basilari per la persona,
che non traggono la loro validità da dimensioni dell’ordine legale ma –
immediatamente, ossia senza mediazione alcuna – da sottostanti valori di
indole soprattutto etica. Al qual proposito due dati vanno rilevati e
sottolineati: nell’impianto originario del Trattato di Roma l’individuo
singolo, nei suoi diritti e nei suoi doveri, non riscuoteva attenzione,
focalizzata invece sulla libera circolazione dei prodotti e dei fattori della
produzione all’interno dell’area comunitaria; per quanto atteneva ai suoi
diritti fondamentali, sia il Trattato, sia il ‘mercato’ (tutto preso dalla
organizzazione economica), nei primi anni di esperienza comune,
tacevano.
Fino a che non avviene una precisa presa di coscienza da parte dei
giudici della Corte di Giustizia: che non era rinviabile il momento di
assolvere alla funzione altissima di garantire l’osservanza di «quei diritti
fondamentali della persona, che fanno parte dei principii generali del
diritto comunitario», come si esprime la Corte in quella sentenza Stauder,
del 196964, primizia di una fertilissima concatenazione giudiziale.
E prende forma il disegno – squisitamente giurisprudenziale – di un
ordine giuridico complesso, che si vuole scandito in più strati, che si
vuole soprattutto poggiante su uno strato profondo, radicale, dove i valori
diventano principii e i principii consentono il riconoscimento di diritti
fondamentali. E prende, così, avvìo una ardita costruzione teorica, che
trae origine dalle decisioni di casi concreti e si traduce in una maggiore
robustezza giuridica del cittadino europeo e della sua esistenza
quotidiana.
Un anno dopo la sentenza Stauder, nel giudicato Internationale
Handelsgesellscha65, la Corte poneva in stretta connessione la salvaguardia
dei diritti fondamentali e le «tradizioni costituzionali comuni agli Stati
membri». Connessione e riferimento nuovi, che venivano ripresi e
sviluppati, tre anni dopo, nella sentenza Nold66, dando inizio a un
susseguirsi di giudicati confermativi e avvalorativi.
Il collegamento ‘diritti fondamentali/tradizioni costituzionali comuni’ –
di pretto conio giudiziale – diventa presto una risorsa teorica per la
soddisfacente identificazione di situazioni soggettive vitali per il cittadino
europeo. Lo vediamo campeggiare nell’articolo 6 del Trattato sull’Unione
Europea del 199267, arrivando intatto nel Trattato di Lisbona entrato in
vigore il 1° dicembre 200968. In questa sede non interessa affrontare il
problema, come invece giustamente fanno alcuni comunitaristi, se le
tradizioni sopradette siano delle semplici Erkenntnisquellen o vere e proprie
Rechtsquellen69; qui ciò che preme puntualizzare è il carattere
giurisprudenziale del diritto europeo nella sua formazione, e carattere
tipizzante del suo messaggio culturale e tecnico.
Premono due rilievi, il primo dei quali è di segno generale.
Interpretando in maniera estensiva le quattro libertà fondamentali del
mercato comune – di circolazione delle merci, di circolazione dei
lavoratori, di stabilimento, di circolazione dei servizii e dei capitali –,
nonché le nozioni di discriminazione diretta e indiretta, la Corte ha
promosso e sviluppato la tutela dei diritti fondamentali del cittadino
comunitario in quanto garantiti dalle tradizioni costituzionali comuni
degli Stati membri e dai Trattati internazionali (specialmente dalla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali). Grazie alla sua opera interpretativa,
teleologicamente indirizzata e sempre sorretta da una vigilante attenzione
alla dinamica complessiva dell’ordinamento, essi sono riconosciuti quali
principii generali del diritto comunitario, e il loro rispetto viene imposto,
sia alle istituzioni comunitarie, sia agli Stati membri.
In tal modo, la Corte è venuta via via elaborando un breviario dei diritti
fondamentali, facendo una straordinaria ma indispensabile opera di
supplenza. Ed è dalla sua sottile efficace vigile opera casistica che i
redattori della cosiddetta carta di Nizza, del 2000, hanno tratto le pietre
già pronte per la costruzione dell’edificio.
Il secondo rilievo ha un segno specifico ma di grosso significato sul
piano storico-giuridico, e concerne quel sintagma ‘tradizioni
costituzionali comuni’, eloquentissima invenzione di giudici alla ricerca di
fondazioni sicure. Perché eloquentissima? Perché questi giudici europei
non vogliono comodamente rifugiarsi all’ombra di testi cartacei o di
ineludibili comandi normativi, ma scelgono il terreno complesso e
inespresso delle tradizioni. Tradizioni, ossia esperienze tanto
intensamente radicate ed effettivamente vissute da immedesimarsi nella
storia di un popolo, e da considerarsi come quel patrimonio di valori che
prende la forma di un corredo di principii e, infine, di diritti
fondamentali.
Il significato storico-giuridico di una tale scelta sta nel fatto che le
tradizioni vanno individuate, interpretate e consolidate in principii; il
procedimento è soprattutto interpretativo. Un cómpito che è proprio
della comunità dei giuristi, siano essi uomini di scienza o, come nel caso
nostro, componenti di un collegio giudiziale. Anche se è vero che la carta
di Nizza ha irrigidito in un catalogo cartaceo la ricchezza storica affiorata
nella casistica della Corte e se è vero che il Trattato di Lisbona,
nell’articolo 6, le dà oggi un particolare risalto, resta indubbio che è stato
determinante il ruolo della Corte di Giustizia nello svilupparsi e
trasformarsi (come insegna un giudice della Corte costituzionale italiana
che è stato lungamente avvocato generale presso la Corte di Giustizia) del
primitivo ‘mercato comune’ in un «ambito giuridico in cui trovano
riconoscimento tutte le istanze che caratterizzano le moderne
democrazie, la tutela e la promozione del lavoro, dell’ambiente, della
cultura, delle aree sfavorite, fino all’attenzione per i valori e i diritti
fondamentali»70.
6. Come si è appena detto, il collegio giudiziale di Lussemburgo appare
come una operosa officina, dove prestigiosi giuristi sono alla ricerca di
valori su cui costruire dei principii capaci di dare adeguata fondazione a
situazioni giuridiche vitali per l’esistenza del cittadino europeo. Non si è,
invece, detto – e vale la pena di precisarlo ora – che essi erano in
prevalenza docenti in illustri Università dell’Europa e studiosi
universalmente ammirati per la loro opera scientifica. Consentìtemi di
nominarne uno solo, cui ero legato da vincoli personali e culturali assai
forti, Alberto Trabucchi, civilista di altissimo rango, convinto edificatore
di un diritto europeo, convinto assertore di quella sentenza Van Gend en
Loos che si staglia nel lontano 1963 come il primo robusto pilastro
giurisprudenziale dell’Europa giuridica71.
Anche se si trattava di un Tribunale e di giudici chiamati a decidere casi
concreti, le risorse della scienza giuridica erano tutt’altro che estranee a
quelle severe aule giudiziarie. Si trattava, insomma, di una iurisprudentia in
azione, intesa nella sua accezione più lata.
Ma l’Europa, nella sua essenziale novità di un mercato che tende a
trasformarsi in unità politica e giuridica rispettosa delle sue interiori
diversità, si rivela essere un laboratorio bisognoso di nuovi attrezzi teorici,
e, pertanto, apertissimo a contributi dottrinali e assai seducente per quegli
scienziati del diritto aperti a nuove sperimentazioni. Per non appesantire
questo discorso con uno sguardo troppo vasto, mi limiterò a puntare il
mio occhiale su quel complesso di atti dell’autonomia privata ricompresi
entro la categoria generale del contratto, costituenti il nucleo dinamico
dell’organizzazione economica.
Infatti, accanto a un incessante fiorire di ‘manuali’, saggi, riviste dedicati
alle intelaiature teoriche del costruendo diritto privato europeo e, in
particolare, del diritto dei contratti, spiccano, accanto a progetti di
codificazione privatistica (più o meno originali ma tutti sostanzialmente
caduchi72), libere iniziative di gruppi di studiosi con il fine specifico di
disegnare dei principii tesi ad aiutare la prassi e che la prassi può
spontaneamente seguire quale disciplinamento dei proprii affari
quotidiani73. L’esempio più compiuto è offerto da quei «Principles of
European Contract Law» elaborati e perfezionati sotto la guida del noto
commercialista danese Ole Lando in tre fasi di lavoro dal 1982 al 200374.
Anche a un diverso livello, quello delle istituzioni politiche europee –
Parlamento, Commissione –, si deve però constatare una pari e
significativa apertura verso la dimensione dottrinale del diritto. È vero –
ed è stato spesso rilevato – che questi ultimi venticinque anni sono
disseminati da incertezze, stasi e anche contraddizioni, nonché da una
alterna vicenda che vede ampliarsi o restringersi la portata dei varii
progetti; è, però, anche vero, come osserva opportunamente un
comparatista italiano, che si è svolto comunque con continuità «un
dialogo [...] fra istituzioni comunitarie e accademia, che non ha
precedenti nella storia della codificazione»75. Ed è proprio questo che
preme di rilevare nell’economia del nostro discorso76.
Da parte del Parlamento si percepisce assai presto, fin dal 198977,
l’esigenza di una azione volta a ravvicinare il diritto privato degli Stati
membri, percezione diventata – col passare degli anni – convinzione che
«un mercato interno uniforme non può essere pienamente funzionante
senza ulteriori progressi verso l’armonizzazione del diritto civile» e che
«l’iniziativa in materia di diritto contrattuale europeo è la più importante
iniziativa in corso nel campo del diritto civile»78. Del resto, il Parlamento
aveva già79 invitato la Commissione «ad avvalersi senza indugio
dell’attività dei gruppi di ricerca in materia di definizione del diritto
contrattuale europeo e della rete per un ‘quadro comune di riferimento’».
A sua volta, la Commissione, che, dal 2001, aveva dedicato
comunicazioni e rapporti al problema di un diritto contrattuale europeo,
in una rilevante Comunicazione del 2004 aveva dato mano alla
realizzazione di un ‘Common Frame of Reference’, fissando come suoi
contenuti «definizioni chiare di termini giuridici, principii fondamentali e
modelli coerenti di regole di diritto contrattuale»80 e prevedendo
«l’istituzione di un gruppo di lavoro permanente di esperti degli Stati
membri»81. In perfetta armonia con quello che è il modo di essere tipico
dell’ordine giuridico europeo (unità delle diversità, diversità nell’unità), la
Comunicazione puntualizzava «la necessità di rispettare le diverse culture
amministrative e giuridiche negli Stati membri»82 e di «tener conto della
molteplicità e della varietà delle tradizioni giuridiche esistenti nell’UE»83.
Nel 2010 la Commissione, che già nel 2005 aveva finanziato una rete
universitaria di ricercatori per realizzare uno studio giuridico finalizzato a
basare un progetto teorico di ‘quadro comune di riferimento’, ritiene
«necessario istituire un gruppo di esperti nel settore del diritto civile e in
particolare del diritto dei contratti»84, «esperti altamente qualificati»85
provenienti in primo luogo da «organismi scientifici e di ricerca, istituti
accademici»86.
Questi accenni bastano per confermare quello che mi sembra essere un
messaggio giuridico tipico proveniente dal laboratorio Europa: oltre le
norme valgono i principii. È l’affrancamento da una visione
inflessibilmente positivistica, che è stata il vizio capitale del mondo di civil
law e che si rivela oggi inadeguata a ordinare la nostra società pos-
moderna. Ciò è rivelato in pieno dalla opzione per i principii. Il
principio, infatti, non ha né la secchezza né la durezza – pertanto, non ha
la rigidità – del comando, ossia della regola autoritaria. La sua naturale
elasticità lo rende permeabile dalla dinamica rapida degli interessi e da
quella lentissima dei valori; serba, pertanto, una preziosa virtù espansiva,
tendendo ad appropriarsi di tutto il meglio che circola intorno durante il
cammino.
Il diritto europeo, in perenne marcia, oltre che su meri atti normativi,
preferisce poggiare su fonti duttili, giurisprudenza pratica e dottrina, l’una
e l’altra disponibili verso il futuro, l’una e l’altra inventrici ed elaboratrici
di principii.
7. Questo nostro incontro francofortese ha, però, una mira precisa:
proiettare i messaggi giuridici provenienti dall’Europa in un paesaggio
globale, che va sempre più ispessèndosi, anticipando oggi le linee di un
prossimo futuro. E la intitolazione del nostro Symposium parla chiaro:
Europäische Normativität: Globalhistorische Perspektiven. Il Max-Planck di
Francoforte – che più di ogni altro Centro di ricerche storico-giuridiche
ha nutrito una congiunta attenzione verso le dimensioni temporali del
passato, del presente e del futuro – corrisponde, così, pienamente al ruolo
culturale che fin dall’origine si è proposto.
Proprio sotto questo profilo l’Europa giuridica non può evitare di
confrontarsi con una formazione giuridica vecchia solo di alcuni
decennii, in costante crescita e, quindi, decisamente rivolta verso il
futuro: è il fenomeno che viene comunemente denominato
‘globalizzazione giuridica’, o ‘diritto globale’, oppure con un discutibile
uso del vecchio sintagma latino lex mercatoria. Denominazioni generiche e,
pertanto, equivoche, che abbisognano immediatamente che si dia loro un
contenuto al fine di sottrarre il nostro discorso dalle sabbie mobili di
nozioni troppo vaghe.
È evidente che ci si sta riferendo a quell’insieme di principii, di regole, di
istituti nuovi che la comunità degli operatori economici – una comunità a
estensione sempre più globale – sta costruendo per proprio conto per
supplire alle sordità ostilità impotenze degli Stati e dello stesso
ordinamento internazionale. Sono principii regole istituti ignorati dalle
norme positive dei varii Stati e dell’ordine giuridico internazionale, ma di
cui l’attuale traffico economico ha una indilazionabile necessità: la loro
fucina prima sono gli stessi uomini di affari (in primo luogo, le grandi
imprese multinazionali), cui dall’esperienza viva è reclamata l’esigenza di
ordinare giuridicamente bisogni nuovi, il più delle volte dilatati dalle
innovative tecniche informatiche in un’area globale insofferente ad
artificiosi confini politici.
Si tratta di un complesso di canali giuridici che scorrono paralleli
accanto a quelli dei singoli Stati, o di unioni interstatali, o dell’ordine
internazionale, ma non si tratta ormai più di qualcosa di frammentario e
slegato, bensì di un fenomeno che si sta sempre maggiormente
organizzando dando vita a quello che viene ormai qualificato come un
ordinamento giuridico primario87, un «tiers ordre juridique»88.
Già da qui si profilano nette alcune analogie con l’Europa giuridica.
Entità – ambedue – nate da una piattaforma economica, ambedue giovani
e incompiute: se la cosiddetta lex mercatoria globale è, come suggerisce con
frasario efficace un acuto internazionalista, Alain Pellet, un ordinamento
«qui se cherche»89, altrettanto si può dire anche dell’Europa malgrado le
sue consolidazioni istituzionali e le tappe sempre più marcate di
unificazione politica e giuridica. Del resto, che l’Europa giuridica sia un
processo in corso risulta chiaro fin dal ‘Preambolo’ della ‘Carta dei diritti
fondamentali’, dove non si afferma solo che l’Unione contribuisce allo
sviluppo dei valori comuni, ma ci si pone come finalità il «rafforzare la
tutela dei diritti fondamentali alla luce dell’evoluzione della società, del
progresso sociale e degli sviluppi scientifici e tecnologici». Anche l’Europa
è un ordine giuridico incompiuto ancora alla ricerca di se stesso.
Ma il colloquio si impone anche per più specifiche consonanze. Se gli
istituti della globalizzazione giuridica emergono dalla prassi economica e
sono rivolti a soddisfare esigenze di carattere economico, è essenziale
l’apporto dei giuristi per tradurre le percezioni economiche in
disciplinamenti giuridici. Sono le grandi law firms, ma sono il più delle
volte dei maestri universitarii a consentire a quelle percezioni di prendere
la forma di compiute architetture giuridiche. La testimonianza più nota e
più autorevole della attuale lex mercatoria globale, gli ‘Unidroit Principles
of International Commercial Contracts’, anche se vogliono proporsi come
un tentativo di restatement, sono, nella loro prima redazione del 1994, il
frutto della operosità teorica di diciassette professori di Diritto (fra i quali
Ole Lando, che abbiamo più sopra menzionato).
Al di là dello sforzo sistematorio portato a termine dietro iniziativa
dell’Istituto Internazionale per l’Unificazione del Diritto Privato, la prassi
economica globale conosce un continuo affioramento di invenzioni
contrattuali (atipiche rispetto a quelle dei Codici statuali), che richiedono
il costante apporto ordinatorio dei giuristi, sì da trasformarsi in veri
modelli contrattuali che la prassi quotidiana può seguire con sicurezza.
Come per l’Europa giuridica, il contratto è istituto cardine del flusso
globalizzatorio, ed è comprensibile la attenzione che vi dèdicano le
istituzioni europee così come la comunità globale degli operatori
economici.
Ciò non basta. Posto che il diritto globale non presuppone, alle sue
spalle, l’esistenza di una istituzione politica con la sua polizia e il suo
apparato giudiziale; posto, però, che anche il diritto globale non può fare a
meno di organi che dirimano le possibili controversie per eventuali
inadempimenti, un personaggio protagonista è qui il giudice privato
(l’arbitro), al quale i moduli contrattuali impongono usualmente che sia
rimessa la decisione. E fonte prevalente – accanto ai modelli contrattuali e
agli usi commerciali – sono i lodi arbitrali, che si tende a raccogliere in
compilazioni organiche, e che appaiono come un vero e proprio diritto
sapienziale. Dall’autorevolezza di un arbitro dipende, poi, il trasformarsi
di un lodo in un precedente meritevole di essere seguìto.
Credo che ci si possa arrestare qui. Il messaggio dell’Europa giuridica,
una civiltà che si sta facendo, trova riscontro nella giudizialità e
sapienzialità del diritto globale. La ‘irrequietezza’ di quest’ultimo –
secondo la brillante qualificazione della massima esperta italiana90 – esige
fonti duttili facilmente adattabili al movimento e al mutamento. E su fonti
duttili ha voluto, fino ad oggi, contare soprattutto il diritto europeo
durante il suo faticoso cammino. Il più ‘irrequieto’ diritto globale ha
qualcosa da apprendere dal messaggio giuridico della vecchia e nuova
Europa.

50
Discorso di apertura, tenuto (in versione tedesca) a Frankfurt am Main il 2 settembre
2013, in avvìo del Symposium su Europäische Normativität: Globalhistorische Perspektiven,
organizzato dal Max-Planck-Institut für europäische Rechtsgeschichte.
51
Vale la pena di ricordare un saggio in cui, nel 1990, Helmut Coing, promotore e primo
direttore del nostro Istituto, cercava di richiamare i tanti giuristi, già allora impegnati nella
costruzione di un diritto europeo, alla esigenza di un preliminare ma essenziale esame di
coscienza da parte della scienza giuridica operante nell’Europa di civil law e ancora troppo
legata a modelli giuridici statalistici e legalistici (H. Coing, Europäisierung der
Rechtswissenscha, in «Neue Juristische Wochenschri», 1990, pp. 937 sgg.).
52
P. Grossi, Modelli storici e progetti attuali nella formazione di un futuro diritto europeo, in Norm
und Tradition. Welche Geschichtlichkeit für die Rechtsgeschichte?/Fra norma e tradizione. Quale
storicità per la norma giuridica?, Atti del Convegno tenutosi al Monte Verità dal 24 al 27 aprile
1996, a cura di P. Caroni e G. Dilcher, Böhlau, Köln-Weimar-Wien 1998. Leggibile anche
in «Rivista di diritto civile», XLII, 1996, parte I, nonché, in lingua spagnola, in «Anuario de
historia del derecho español», LXVII, 1997 (Homenaje a Francisco Tomás y Valiente).
53
P. Grossi, Il punto e la linea (L’impatto degli studi storici nella formazione del giurista) (1995) e
Storia del diritto e diritto positivo nella formazione del giurista di oggi (1998), ora in P.G., Società,
diritto, Stato. Un recupero per il diritto, Giuffrè, Milano 2006.
54
P. Grossi, Un diritto senza Stato (la nozione di autonomia come fondamento della costituzione
giuridica medievale) (1996), ora in P.G., Assolutismo giuridico e diritto privato, Giuffrè, Milano
1998 (in lingua tedesca: Ein Recht ohne Staat: der Autonomiebegriff als Grundlage der
mittelalterlichen Rechtsverfassung, in Staat, Politik, Verwaltung in Europa. Gedächtnisschri für
Roman Schnur, Duncker & Humblot, Berlin 1997).
55
Che è la vera ‘costituzione’ non scritta dell’ordine politico-giuridico medievale.
‘Costituzione’ nel senso brunneriano di Verfassung.
56
P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Laterza, Roma-Bari 1995.
57
Cfr. P. Grossi, Il sistema giuridico medievale e la civiltà comunale, in «Rivista di storia del
diritto italiano», LXXVIII, 2005.
58
Per una analisi della nozione di ‘ordine’ cfr. P. Grossi, Ordine/compattezza/complessità. La
funzione inventiva del giurista, ieri ed oggi (2011), ora in P.G., Introduzione al Novecento giuridico,
Laterza, Roma-Bari 2012.
59
P. Grossi, Dalla società di società alla insularità dello Stato: fra medioevo ed età moderna (2003),
ora in P.G., Società, diritto, Stato. Un recupero per il diritto, cit.
60
Per dei precisi chiarimenti su questa nozione, apparentemente generica ed ambigua, cfr.
P. Grossi, Novecento giuridico. Un secolo pos-moderno (2010), ora in P.G., Introduzione al
Novecento giuridico, cit.
61
L. Adamovich, Ansprache, in 1952-2002. Cinquantesimo anniversario della Corte di Giustizia
delle Comunità Europee, Udienza solenne del 4 dicembre 2002, Ufficio delle pubblicazioni
ufficiali delle Comunità Europee, Luxembourg 2003, p. 36.
62
G.C. Rodríguez Iglesias, Discurso, in 1952-2002. Cinquantesimo anniversario della Corte di
Giustizia delle Comunità Europee, cit., p 42.
63
Un bilancio dei primi sessanta anni di lavoro è stato promosso dalla stessa Corte con la
collaborazione di un folto numero di valenti giuristi: The Court of Justice and the Construction
of Europe: Analyses and Perspectives on Sixty Years of Case Law, Springer, Berlin-Heidelberg
2013.
64
Sentenza del 12 novembre 1969 (causa 29/69), In diritto, n. 7.
65
«La tutela dei diritti fondamentali costituisce [...] parte integrante dei principi giuridici
generali di cui la Corte di Giustizia garantisce l’osservanza. La salvaguardia di questi diritti,
pur essendo informata alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, va garantita
entro l’ambito della struttura e delle finalità della Comunità» (sentenza del 17 dicembre
1970 [causa 11/70], In diritto, n. 4).
66
«Come questa Corte ha già avuto occasione di affermare, i diritti fondamentali fanno
parte integrante dei principi generali del diritto, di cui essa garantisce l’osservanza. La
Corte, garantendo la tutela di tali diritti, è tenuta ad inspirarsi alle tradizioni costituzionali
comuni agli Stati membri e non potrebbe, quindi, ammettere provvedimenti incompatibili
con i diritti fondamentali riconosciuti e garantiti dalle costituzioni di tali Stati» (sentenza del
14 maggio 1974 [causa 4/73], In diritto, n. 13).
67
Art. 6, c. 2: «L’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni
degli Stati membri, in quanto princìpi generali del diritto comunitario».
68
Art. 6, c. 3: «I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni
costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto
principi generali».
69
Per primo, in rapporto alle tradizioni costituzionali comuni, H.W. Rengeling,
Grundrechtsschutz in der Europäischen Gemeinscha. Bestandsaufnahme und Analyse der
Rechtssprechung des Europäischen Gerichtshofs zum Schutz der Grundrechte als allgemeine
Rechtsgrundsätze, Beck, München 1993.
70
G. Tesauro, Commento allo art. 19 del Trattato dell’Unione Europea, in Trattati dell’Unione
Europea e della Comunità Europea, a cura di A. Tizzano, Giuffrè, Milano 2013, VII, n. 3.
71
Mi sia consentito il rinvio ad alcune mie pagine commemorative: P. Grossi, Alberto
Trabucchi civilista europeo, ora in P.G., Nobiltà del diritto. Profili di giuristi, Giuffrè, Milano 2008.
Assai opportunamente la Corte di Giustizia ha organizzato a Lussemburgo, il 13 maggio
2013, un Convegno di studii commemorativo della sentenza, che fu emanata dalla Corte il
5 febbraio 1963.
72
Cfr. il ricco ‘numero speciale’ di «Contratto e impresa/Europa» (XVII, 1, 2012)
contenente le testimonianze di Trenta giuristi europei sull’idea di codice europeo dei contratti.
73
Per una visione d’insieme, cfr. R. Zimmermann, «Wissenschaliches Recht» am Beispiel (vor
allem) des europäischen Vertragsrechts, in Privates Recht, a cura di C. Bumke e A. Röthel, Mohr
Siebeck, Tübingen 2012.
74
Si veda l’eccellente puntualizzazione di R. Zimmermann, Principles of European Contract
Law, in Handwörterbuch des Europäischen Privatrechts, a cura di J. Basedow, K.J. Hopt, R.
Zimmermann, Mohr Siebeck, Tübingen 2009.
75
G. Ajani, Un diritto comune europeo della vendita? Nuove complessità, in Trenta giuristi europei
sull’idea di codice europeo, cit., p. 83.
76
È esemplare, in proposito, la distesa, lucidissima analisi di G. Vettori, Contratto e rimedi,
Cedam, Padova 2009, cap. I. Da ultimo, nella letteratura italiana, cfr. S. Mazzamuto, Il
contratto di diritto europeo, Giappichelli, Torino 2012.
77
Risoluzione del 26 maggio 1989.
78
Risoluzione sul diritto contrattuale europeo del 7 settembre 2006, lettera B, nn. 1 e 2.
79
Risoluzione sul diritto contrattuale europeo del 23 marzo 2006.
80
Comunicazione, in data 11 ottobre 2004, della Commissione al Parlamento europeo e al
Consiglio, Diritto contrattuale europeo e revisione dell’acquis: prospettive per il futuro (par. 2.1.1). Più
dettagliatamente, nell’àmbito della stessa Comunicazione (al par. 3.1.3), si precisava: «La
struttura ipotizzata per il quadro comune di riferimento [...] prevede che esso stabilisca in
primo luogo princìpi fondamentali comuni di diritto contrattuale [...] tali princìpi sarebbero
supportati dalla definizione di concetti fondamentali [...] tali princìpi e definizioni sarebbero
poi completati da modelli di regole, che costituirebbero il corpo centrale del quadro
comune di riferimento».
81
Ivi, par. 2.1.1.
82
Ivi, par. 2.3.
83
Ivi, par. 3.1.2.
84
Decisione della Commissione in data 26 aprile 2010, Considerando, n. 7.
85
Ivi, n. 9.
86
Ivi, Articolato, art. 4, n. 4.
87
Per esempio, limpidamente, da un notevole civilista italiano, che ha dedicato una
continua attenzione al fenomeno globalizzatorio: cfr. F. Galgano, Lex mercatoria, Il Mulino,
Bologna 20105.
88
A. Pellet, La lex mercatoria ‘tiers ordre juridique’? Remarques ingenues d’un internationaliste de
droit public, in Mélanges en l’honneur de Philippe Kahn, Litec, Paris 2000.
89
Ivi, p. 60.
90
M.R. Ferrarese, Prima lezione di diritto globale, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 72.
III.
Dalle ‘clausole’ ai ‘principii’:
a proposito della interpretazione
nel tempo pos-moderno

1. Le ‘clausole generali’ in un consapevole messaggio del 1966; 2. Il tempo giuridico pos-moderno


tra ‘clausole generali’ e ‘principii’; 3. Il tempo dei ‘principii’ e il ruolo dell’interpretazione; 4. In
particolare, sui principii costituzionali e sulla loro carica assiologica; 5. Sulla odierna giudizialità
del diritto e sul rischio di un estremo soggettivismo.

1. Sembra appartenere a un tempo remoto quel 18 dicembre del 1966,


quando io, già da alcuni mesi incardinato a Firenze ma ancora
spiritualmente legato al caro Ateneo di Macerata, ascoltai – decisamente
ammirato – il discorso inaugurale dell’anno accademico maceratese, che il
Rettore, con gesto assai provveduto, aveva affidato a un giovane
‘professore straordinario di Diritto civile’, Stefano Rodotà91.
A molti quel discorso parve una voce volutamente provocatoria, a taluno
– addirittura – una dissacrazione. A me, legatissimo già allora a Stefano da
vincoli di sincera stima, parve quel che effettivamente era e volle essere:
un atto di grosso coraggio culturale. Facendo tesoro degli spunti
contenuti nelle voci Codice Civile e Diritto Civile scritte appena qualche
anno prima, con un piglio tutto nuovo, da Rosario Nicolò92, vi si parlava
di storicità del diritto, di un nuovo ruolo delle ‘clausole generali’, di una
‘legislazione per principii’ e del connesso problema – ormai ritenuto
stringente – «dell’apporto del giudice alla elaborazione ed alla applicazione
del diritto»; vi si parlava soprattutto della improrogabile necessità per ogni
giurista (e, in primis, del privatista) di fare i conti in Italia con quel forziere
di valori e, al tempo stesso, breviario di vita giuridica concretizzato nella
‘Carta’ del 1948.
Il vecchio castello legale del diritto civile veniva a incrinarsi nelle
fondamenta: la Costituzione, infatti, era ancora ritenuta dai più un
fastidioso ingombro, che era generalmente rimosso da un gregge di civilisti
ancora beati di navigare nel mare tranquillo dell’eredità giusnaturalistica93
e ancora convintissimi del bene supremo di una indefettibile astrattezza
delle forme giuridiche, immuni in tal modo dalla fangosità dei fatti
quotidiani. E un testo persisteva nel suo primato fra i libri di iniziazione
giuridica, quelle Dottrine generali redatte venti anni prima da Santoro
Passarelli e che continuavano a proporsi per la maggioranza silenziosa
quale modello degno di imitazione, se non di venerazione.
Alle spalle del discorso maceratese del ’66, l’atteggiamento generale
comune a tutti i civilisti sanamente legalisti era fortemente riduttivo verso
le ‘clausole generali’: queste, frutto specifico della civiltà dei Codici, non
potevano che avere il carattere di maledette eccezioni all’interno di un
tessuto potenzialmente completo e percorso da una formidabile coerenza
interiore quale è, nella visione legolatrica moderna, ogni Codice.
Eccezioni che non si poteva non tollerare, perché consentivano al chiuso
sistema cartaceo di non separarsi interamente dalla dinamica
dell’esperienza, ma che dovevano mantenere il carattere della assoluta
eccezionalità a causa del loro carattere massicciamente intrusivo. Però,
sempre e comunque maledette dalla coinè ufficiale, giacché – essendo
troppo spesso inserimenti di corpi estranei di indole fattuale – turbavano
la compattezza di un messaggio legislativo rigidamente unitario.
2. Rodotà, lungi dal mettersi al seguito del corteggio ufficiale, si guardò
bene dal cogliere in esse delle eccezioni a stento tollerate. Per lui
assumevano, piuttosto, la funzione di un grimaldello per ottenere un non
eversivo rinnovamento dell’ordine giuridico. Nel ’66, il giovane civilista
assai attento al divenire socio-economico parlava, infatti, espressamente di
un nuovo e più efficace ruolo che il nuovo contesto storico stava
assegnando alle clausole generali: «rappresentano gli strumenti più
adeguati a regolare una realtà dal dinamismo crescente e quindi
irriducibile alla tipizzazione di ipotesi già definite». Percezione precisa
inserita all’interno di una percezione non meno precisa ma assai più
ampia, e cioè entro «il problema degli strumenti da mettere a disposizione
del giudice per esaltare al massimo la sua responsabilità».
E qui risalta con chiarezza quanto poco innocuo fosse il progetto
dell’allievo romano di Nicolò, almeno per quanto concerneva il rispetto
delle decrepite mitologie giuridiche della modernità.
Ma c’è da chiarire un punto: io ho, all’inizio, esordito enfaticamente
cogliendo nel discorso inaugurale maceratese un qualcosa che ci appare
oggi assai remoto. Intendevo sottolineare come quel discorso, coraggioso
per il momento in cui fu pronunciato e ben proiettato verso un tempo
futuro percorso da mutamenti squassanti, laddove faceva leva sulle
clausole generali si sarebbe visto superare dagli eventi degli ultimi
decennii del secolo scorso, ormai nettamente incamminati verso nuovi
orizzonti.
Il tempo delle clausole generali – per riprendere il titolo di certe
successive riflessioni di Rodotà (anno 1987) – avrebbe ceduto a un tempo
sempre più dominato dalla primazia dei principii94. Infatti, oltre il
problema specifico delle ‘clausole’, il recente tempo pos-moderno ha fatto
affiorare disagii, esigenze, soluzioni così innovativi, sul piano radicale
delle fonti del diritto in Italia, da disegnare un paesaggio giuridico
diametralmente innovato rispetto al mondo dei Codici e delle valvole
respiratorie aperte nel loro seno95.
3. Sembra di essere di fronte a una inversione di valori: certezza,
chiarezza, determinatezza sembravano essere i pregii imperituri della
Norma, che – grazie ad essi – poteva assurgere al rango di pietra portante
di un intiero edificio; pregii imperituri, perché si era creduto di costruire
per un periodo lunghissimo, se non per sempre. È che il movimento e
mutamento, rapidissimi e sconvolgenti, hanno eroso architetture ritenute
robustissime, spazzando via alla base verità stabilite da una generale
credenza come dogmi.
La Costituzione, evocata da Nicolò nelle sue ‘voci’ enciclopediche e da
Rodotà nel suo discorso, non è una variazione sul tema delle fonti, ma –
piuttosto – una carica assiologica munita di tale intensità da pretendere
nuove orientazioni e nuove bussole per il novello navigatore. Il
costituzionalismo pos-moderno, quello pos-weimariano per intenderci,
che ha assai poco a vedere con le vecchie ‘carte dei diritti’ di impronta
giusnaturalistica, proprio per radicarsi in un autentico pluralismo sociale e
giuridico96, ha mostrato che è fallace (e, pertanto, falsante) arrestarsi a una
dimensione giuridica identificata in una epifania di comandi; che, ben al
di là dello Stato e della legge, v’è una realtà radicale collocata negli strati
più riposti di una civiltà, dove il diritto ha la sua gènesi e dove trova i suoi
essenziali tratti distintivi, impressionando di sé ogni manifestazione
riscontrabile alla superficie.
La carica rivoluzionaria, che il costituzionalismo pluralistico del
Novecento nutre in sé, sta precisamente nel richiamo pressante a cercare e
trovare il diritto nel sostrato valoriale di una civiltà storica; ed è quello che
hanno, per esempio, fatto, nel biennio straordinariamente fertile tra il
1946 e il ’48, i nostri Padri Costituenti: seppero leggere nel profondo
d’una società finalmente libera e responsabile, finalmente in grado di
costruire consapevolmente la propria storia. In quel profondo lessero con
sguardo acuto i valori circolanti (oh, quel verbo riconoscere così frequente e
così eloquente sulla bocca dei Patres!), ne trassero una consolidazione di
principii, che, ricchi di contenuti assiologici, risultano innervati da una
vivace carica espansiva (rilevata scrupolosamente dai giuristi più vigili) e
possono egregiamente fungere da matrici dello specifico e dettagliato
articolarsi in norme97.
Più volte, nel corso di questi ultimi anni98, mi è capitato di esprimere
con piena persuasione che il diritto costituzionale è, in sostanza, il
risultato di una invenzione, ribadendo l’accenno di prima a un invenire, un
cercare e trovare in riposte realtà radicali; persuasione che vorrei estendere
ora anche al terreno del diritto civile. E a un mio libro ho dato
risolutamente un titolo dal timbro icastico: «L’invenzione del diritto».
Quanto è accaduto (e sta tuttora accadendo in questa nostra maturità
pos-moderna) segnala grosse vistosissime modificazioni del paesaggio
giuridico: quale conseguenza del moltiplicarsi e anche del de-tipicizzarsi
delle fonti, è – tra l’altro – sminuita quella dimensione potestativa che
aveva contrassegnato pesantemente il diritto – diritto legale – per tutta
l’età moderna, supportàndolo ma anche condizionàndolo e alteràndolo; al
contrario, si è indubbiamente ingigantito il ruolo dell’interprete, di ogni
interprete, il quale non potrà non identificarsi nelle competenze
specifiche dei giuristi, teorici e pratici99. L’asse portante, in un mondo
giuridico investito da mutamenti troppo rapidi e incisivi, si sposta sulla
interpretazione, e la linea di svolgimento è disegnata nettamente: dalla
centralità della produzione del diritto come atto creativo dello Stato alla
centralità del momento interpretativo.
Non può che essere così: i principii vanno interpretati, spettando solo
all’interprete di definirli, ordinarli, categorizzarli. L’affidamento ai
principii è l’insegna del nostro tempo e ha irradiazioni molteplici in Italia
come in Europa100, in numerose manifestazioni sia private sia ufficiali.
Segno di una convinzione diffusa, di cui si è sempre più consapevoli:
convinta sfiducia nelle capacità dei legislatori a ordinare la complessità
giuridica; convinta sfiducia nella stessa ‘legge’, inadeguata per la sua
intrinseca rigidità di fronte a una dinamica socio-economica troppo
rapida. Si ha, insomma, coscienza che non servono strumenti rigidi,
anche se certi nella loro determinatezza. Se i principii soffrono di
generalità e di indeterminatezza, garantiscono quel grado elevato di
elasticità di cui la dimensione giuridica ha bisogno, tanto più in un tempo
di transizione, se vuole essere effettivamente ordinamento del sociale.
In Italia, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, è stato un
atteggiamento di cui si è fatto portatore perfino lo stesso legislatore
positivo, spesso decisamente teso a offrire principii più che
dettagliatissime regole. L’esempio più cospicuo appare il cosiddetto
‘Codice del processo amministrativo’ del 2010, modello indiscusso di
questo nuovo legiferar per principii, più consolidazione che codificazione
vera e propria, indubbio gesto di responsabilità del nomoteta che intende
salvaguardare il risultato della propria operosità affrancàndola dalla
vecchia sicumera (diventata ormai oltremodo rischiosa) di voler tutto
prevedere e disporre dall’alto101.
4. I principii – lo abbiam detto – hanno un costo (l’indeterminatezza)
ampiamente compensato da quella elasticità che sembra particolarmente
idonea a ordinare un momento di transizione. Sia però chiaro: l’opacità,
che l’indeterminatezza conferisce ai principii, si vanifica quando si tratta
di principii costituzionali. Il loro essere radicati con immediatezza nello
humus dei valori ne fa qualcosa che ha una indiscutibile forza intrinseca e
che permette loro di campeggiare con stabilità sul mare movimentato
delle semplici accidentalità.
È il nodo centrale messo a fuoco in un recente Congresso avente a
oggetto la problematica di cui qui si discorre102 e concerne precisamente il
tema/problema della applicazione diretta dei principii costituzionali.
Capisco le perplessità che può generare una simile ammissione, ma credo
che oggi – anno di grazia 2017, ovverosia a settanta anni dalla entrata in
vigore della nostra Costituzione – si debba da parte nostra un atto di lealtà
verso il messaggio che da essa proviene e che risulta assolutamente franco
e sonoro nel dettato dei primi tre articoli.
Dobbiamo, insomma, prendere alfine quella coscienza che abbiamo
faticosamente e stentatamente trascinato incompiuta fino ad oggi a causa
della nostra pigrizia culturale. Negare, per esempio, la intrinseca – cioè
nativa, originaria – giuridicità del principio di solidarietà enunciato
nitidamente nell’articolo 2 avrebbe il deplorevole risultato di dimostrarci
ancora irretiti da quelle mitologie giuridiche della modernità, che sono
scese tanto suadentemente nella statua interiore del giurista italiano fino a
conformarne una sorta di pseudo-ossatura103.
Chi scrive queste poche righe apparteneva, nel 2013, al Collegio che
varò due memorabili ordinanze della Corte costituzionale proprio su
questo delicato ma significativissimo punto. Solo per comodità del lettore
distratto ne rammemoro i tratti distintivi: nel contrasto fra clausola
contrattuale che prevede una caparra eccessiva e il principio di solidarietà
previsto dall’articolo 2, quale la soluzione costituzionalmente corretta?
Non posso celare che io fui tra quei giudici che – accolta la soluzione
proposta dal relatore, il giudice Mario Morelli, di inammissibilità per
difetto di motivazione in ordine alla rilevanza e alla non manifesta
infondatezza – ne condivisero pienamente la affermazione che il giudice
rimettente avrebbe dovuto risolvere il problema facendo applicazione
diretta del principio di solidarietà consacrato nell’articolo 2104.
È ovvio che è in gioco il vólto essenziale di un ordinamento giuridico e
che «il rischio è quello di affiancare – senza che ciò trovi supporto in una
modificazione formale del sistema delle fonti – al diritto ‘scritto’ (fondato
sulla legge) un diritto di fonte ‘giurisprudenziale’ (fondato sull’equità),
considerato idoneo a derogare al primo ogni qualvolta le caratteristiche
del caso concreto segnalino come ‘ingiusto’ l’esito che in base ad esso
dovrebbe essere sancito»105. Né è da tralasciare che un altro rischio può
incombere, ossia un margine elevato di soggettivismo.
Sono perplessità seriamente meditate, ma che, forse, almeno ai miei
occhi, indulgono troppo a cogliere l’ordinamento in una sua statica
immobile. E, mentre indulgono ugualmente troppo sulle virtù
taumaturgiche del legislatore, sono incomprensibilmente restìe a utilizzare
le enormi risorse disponibili nel ricco forziere valoriale della
Costituzione, un forziere sulla cui appartenenza al patrimonio giuridico
della Repubblica non è lecito ad alcuno dubitare. Quel che, forse, il
giurista di diritto positivo non fa abbastanza è di aprire le finestre del
proprio studio e dare uno sguardo attento fuori, fuori dove la società è
preda di un continuo auto-ordinarsi, tacito, fattuale, senza brusche
forzature ma sicuro nel tentativo di consolidare qualcosa di effettivo.
Sarà che l’avere insegnato per tanti anni la storia del diritto e l’essermi
dedicato per tanti anni a cogliere le relazioni fra i più diversi contesti
storici e la dimensione giuridica hanno inserito nelle mie vene delle
salvanti dosi di realismo, ma la verifica che io mi sentirei di affrontare
come liminale e indispensabile chiarimento è di registrare, con uno
sguardo disponibile, l’attuale svolgimento della dinamica giuridica della
Repubblica. Dove lo spettacolo, sconcertante, è il seguente: lo Stato
sociale costituzionale stenta a realizzarsi soprattutto nelle sue
concretizzazioni pluralistiche, e resta invece, anche se abbastanza
antinomico, lo scheletro del vecchio Stato di diritto di impronta liberal-
borghese con tutta la sua rigidezza monistica; e perdura l’assolutismo
giuridico fissato nelle ‘Preleggi’ del 1942, che parlano ormai un
linguaggio antistorico e sono soltanto la figurazione emblematica della
nostra pigrizia culturale. E noi continuiamo a parlare di legalità dando
tuttora a questa nozione il contenuto che ad essa avrebbero dato Donato
Donati e Oreste Ranelletti.
C’è, in Italia, come sopra si accennava, un grande processo in atto, che
non è frutto di un dèspota, o di una classe politica, o di una riflessione
scientifica, ma è piuttosto una dinamica spontanea che la prassi
giurisprudenziale, per il suo inevitabile collocarsi sulle trincee estreme
dell’esperienza quotidiana, non ha potuto fare a meno di affrontare; che,
piuttosto, il potere politico, pur investito di precise funzioni
rappresentative in una democrazia parlamentare, non ha avuto né la forza
né la volontà di assecondare, lasciando al ceto dei giuristi la responsabilità
di formare una nuova coscienza giuridica e di avviare la trama di un
nuovo diritto di marchio prevalentemente giudiziario. E ai legislatori non
è restato che scendere dal vecchio trono monarchico constatando che la
monocrazia legislativa apparteneva ad un passato irrimediabilmente
passato.
Lo storico del diritto ha solo un modesto messaggio da offrire, ed è
l’unico di fronte alla effettività di un rivolgimento storico: diffidiamo
dell’improvvisarci cantori e laudatori di un tempo trascorso, diffidiamo di
inutili esorcismi; la storia li rifiuta soprattutto quando si fanno consistere
nella riesumazione di improponibili mitologie.
5. Su un’altra perplessità conviene che si rifletta, riprendendo il semplice
accenno fatto poco sopra: il soggettivismo estremo nel quale si
piomberebbe in un ordinamento dalla forte impronta giudiziale. E lo
spettro evocato è proprio la discrezionalità nelle mani dei giudici.
Respingo, innanzi tutto, il primo presupposto di un tale assunto, il quale
non può che consistere nella persistenza ingiustificata della credenza
mitologica la più fondativa della modernità giuridica: la visione
ottimistica di ogni legislatore, con la riproduzione nel presente anno di
grazia 2017 delle pseudoverità propinàteci nel secolo XVIII da fisiocrati,
illuministi, giacobini, tesi tutti a ingigantire (idealizzàndola) la figura del
Principe nomoteta.
Oggi, questo Principe è stato ‘scoronato’106 dalla storia, perché,
misuràndosi coi grandi eventi storici del Novecento, la corona gli è
clamorosamente caduta dalla testa. Pertanto, credo proprio che il primo
lavacro culturale da compiere da parte del giurista di civil law sia di
detergere il fondo del suo animo dai residui post-illuministici che vi si
sono sedimentati e che hanno alterato la criticità delle sue capacità
cognitive. La nozione di discrezionalità del giudice non può ricevere oggi
una reazione pari a quelle di Muratori, di Beccaria, dei fratelli Verri,
invecchiate dal trascorrere impetuoso di ben duecentocinquanta anni107.
Peccheremmo macroscopicamente di antistoricità.
Condividerei, invece, totalmente quello che si è detto con franchezza da
talune voci in seno al Convegno poco sopra menzionato: «quando si
discorre di discrezionalità del giudice in tema di clausole generali,
dovrebbe sempre puntualizzarsi che questa discrezionalità, da intendersi
come discrezionalità interpretativa, non si spinge mai fino al punto della
creazione della regola da parte del giudice»108. L’attività giudiziale non ha,
né potrebbe mai avere, quella impronta di arbitrarietà con cui la
tradizione moderna si è premurata di contrassegnarla, perché sempre la
connoterà una attività di ricerca e di lettura all’interno di un sentire
diffuso e condiviso109. L’attività del giudice di individuazione di regole
non sarà inventiva «se non nel senso etimologico di trovare, scoprire
cercando»110.
È ovvio, poi, che il discorso in tema di clausole generali a maggior
ragione potrà essere confermato nell’impatto del giudice con quella realtà
più ampia che sono i principii. Nulla di creativo, ma sempre un’attività
inventiva che, questa volta, attinge direttamente agli strati più riposti di
una civiltà giuridica dove allignano i valori.

91
Si tratta del notissimo Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in «Rivista del diritto
commerciale», LXV, 1967.
92
Per la Enciclopedia del diritto, rispettivamente nel 1960 e nel 1964.
93
Di un ‘vizio giusnaturalistico’ della scienza civilistica italiana moderna ho parlato
espressamente in La cultura del civilista italiano, Giuffrè, Milano 2002, pp. 1 sgg., e più
recentemente, in Fattualità del diritto pos-moderno: l’emersione di un diritto ‘agrario’ in Italia, in
«Diritto Agroalimentare», I, 2016, dove il primo paragrafo è intitolato Sul vizio
giusnaturalistico del diritto civile moderno: individuo e cose nell’irrealtà dell’astrattezza.
94
Ci ho riflettuto sopra in Sulla odierna incertezza del diritto (2014), ora in Ritorno al diritto,
Laterza, Roma-Bari 2015.
95
Su questo innovato paesaggio giuridico sono incentrati i saggi contenuti nel mio
Introduzione al Novecento giuridico, Laterza, Roma-Bari 2012.
96
L’essere specchio di una società autenticamente plurale è il contrassegno fondamentale
della nostra Costituzione; questo ho ritenuto di puntualizzare nella recente lectio inaugurale
dell’anno accademico 2016-17 della Sapienza Università di Roma, tenuta nella Aula Magna
di quell’Ateneo il 19 gennaio 2017 (cfr. P. Grossi, La Costituzione italiana quale espressione di
una società plurale, lectio pubblicata in www.uniroma1.it e in «Nuova Antologia», CLI, 1,
2017, fasc. 2280, pp. 5-10).
97
Rinvio a quanto ne ho detto in una lezione maceratese di qualche anno fa, La
Costituzione italiana quale espressione di un tempo giuridico pos-moderno, poi in «Rivista
trimestrale di diritto pubblico», LXIII, 2013, pp. 607 sgg., ora in L’invenzione del diritto,
Laterza, Bari-Roma 2017, pp. 39 sgg.
98
Già in una lezione napoletana del 2011: Ordine, compattezza, complessità. La funzione
inventiva del giurista, ieri ed oggi, ora in P. Grossi, Introduzione al Novecento giuridico, Laterza,
Roma-Bari 2012. Percezione pienamente ripresa in La Costituzione italiana quale espressione di
un tempo giuridico pos-moderno, cit.; in L’invenzione dell’ordine costituzionale: a proposito del ruolo
della Corte, in «Giustizia civile», 2, 2016; in L’invenzione della Costituzione: l’esperienza
italiana, in «Diritto pubblico», 3, 2016; in Il giudice civile. Un interprete?, in «Rivista
trimestrale di diritto e procedura civile», 4, 2016. Saggi tutti ricompresi nel sopracitato
volume L’invenzione del diritto.
99
Di grosso rilievo culturale è, oggi, il volume di Nicolò Lipari, Il diritto civile tra legge e
giudizio, Giuffrè, Milano 2017.
100
Una documentazione in P. Grossi, Il messaggio giuridico dell’Europa e la sua vitalità: ieri, oggi,
domani, in «Contratto e impresa/Europa», XVIII, 2, 2013, pp. 681-695 (in lingua inglese:
Europe’s Message about Law and its Vitality: Past, Current and Future Perspectives, in «European
Business Law Review», 25, 2014, pp. 349-360; in lingua tedesca: Die Botscha des
europäischen Rechts und ihre Vitalität gestern, heute, morgen, in «Rechtsgeschichte. Legal
History», 22, 2014, pp. 257-267).
101
Grossi, Sulla odierna incertezza del diritto, cit., pp. 93-95.
102
Gli Atti del Congresso sono ora raccolti in Principi e clausole generali nell’evoluzione
dell’ordinamento giuridico, a cura di G. D’Amico, Giuffrè, Milano 2017.
103
Non mi resta che rinviare a quanto ne ho scritto in Mitologie giuridiche della modernità,
Giuffrè, Milano 2007 (terza ed. accresciuta).
104
Nelle due ordinanze (la n. 248 del 2013 e la n. 77 del 2014) la Corte non aveva mancato
di rilevare che il Tribunale rimettente «non aveva tenuto conto dei possibili margini di
intervento riconoscibili al giudice a fronte di una clausola negoziale che rifletta (come da sua
prospettazione) un regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente sbilanciato in
danno di una parte. E ciò in ragione della rilevabilità ex officio della nullità (totale o
parziale) ex art. 1418 cod. civ. della clausola stessa, per contrasto con il precetto dell’art. 2
Cost. (per il profilo dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà), che entra
direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui
attribuisce vis normativa».
105
G. D’Amico, Principi costituzionali e clausole generali: problemi (e limiti) nella loro applicazione
nel diritto privato (in particolare nei rapporti contrattuali), in Principi e clausole generali, cit., p. 99.
106
Prendo a prestito da Capograssi questo aggettivo, da lui efficacemente adottato in un suo
saggio del 1918, per qualificare lo Stato novecentesco (G. Capograssi, Saggio sullo Stato
[1918], ora in Opere, Giuffrè, Milano 1959, vol. I, p. 5).
107
Tutte tese a dipingerci un giudice immerso nelle sue passioni e, quindi, pressoché
incapace di decisioni serenamente critiche.
108
F. Di Marzio, Ringiovanire il diritto? Spunti su concetti indeterminati e clausole generali, in
Principi e clausole generali, cit., p. 139.
109
Ivi, p. 141.
110
Ivi, p. 139.
IV.
Storicità versus prevedibilità:
sui caratteri di un diritto pos-moderno

1. Alcune precisazioni liminali; 2. Il diritto ‘moderno’ e la sua perfetta prevedibilità; 3. Il


riduzionismo giuridico ‘moderno’ e le sue salde risultanze: semplicità, chiarezza, certezza; 4.
Complessità e fattualità di un diritto ‘pos-moderno’; 5. Ancora sulla fattualità del diritto pos-
moderno; 6. Certezza e prevedibilità alle prese con la fattualità; 7. Il profondamente ‘nuovo’ della
Costituzione repubblicana; 8. Della nuova posizione dello Stato entro il pluralismo giuridico della
Repubblica; 9. Il ‘pos-moderno’ quale tempo di ‘crisi’: crisi di modelli (in particolare ‘crisi della
fattispecie’).

1. Forse, è bene – liminalmente, sia pure concisamente – fare chiarezza


sui due vocaboli che, evidenziati nella intitolazione, sono chiamati a
fungere da intelaiatura portante delle prossime pagine.
Storicità. Puntualizza il continuo intridersi del diritto coi valori interessi
fatti, di cui è intessuta la società; anzi, di più: la inseparabilità da questi,
proprio perché il diritto, solo in astruse e sterili discettazioni, è una
nuvola che galleggia alta sul divenire sociale.
Prevedibilità. È nozione inscindibilmente connessa, in astratto, a quella di
certezza. Anzi, la certezza è il suo necessario presupposto. Solo che, mentre
la ‘certezza’ si limita a una fase enunciativa, la prevedibilità si connette
direttamente anche a una fase applicativa, ossia ai pronosticabili èsiti.
2. L’età, nella quale la prevedibilità del diritto, conclamata e realizzata, è
assunta – addirittura – a valore fondante dell’ordine giuridico, può
individuarsi indubbiamente nella modernità, quella modernità che si
esprime appieno con il momento giacobino della rivoluzione francese e,
sempre in Francia, con l’opera legislativa a proiezione amplissima di
Napoleone. Ora che il ceto borghese ha finalmente conquistato il potere
supremo dello Stato, anche quel diritto civile, prima costantemente
generato e rinnovato da consuetudini e ordinato dalla sapienza tecnica dei
giuristi, proprio per il suo occuparsi di temi direttamente implicati nel
disciplinamento delle ricchezze (proprietà privata, contratto, atti mortis
causa, rilevantissimi per quell’assetto socio-politico), non può che essere
sottoposto a un rigido controllo statuale e, per la prima volta nella storia
del diritto, quel diritto civile perde il carattere che lo rendeva
essenzialmente privato e cioè la sua estra-statualità111.
Ormai, spettava solo allo Stato di trasformare gli accadimenti sociali in
leggi, e al vecchio pluralismo si sostituiva un monismo rigidissimo: un
solo produttore di diritto, una sola fonte, la legge, rispetto alla quale, se
altre potevano prevedersi, sarebbero sempre state confinate a un livello
inferiore, assolutamente ancillari perché prive di autonomia. Si trattò,
nella modernità, di un drastico riduzionismo: il paesaggio giuridico era
ridotto a una realtà formale estremamente semplice, tanto che si poté
avere l’orgogliosa presunzione di racchiudere una intiera branca
dell’esperienza entro un sistema di previsioni normative chiamato
‘Codice’, una fonte che tende ad essere esclusiva e che è pensata per
durare senza limiti di tempo (come, in genere, ogni legge)112.
Norme sepolte nella immobilità di un testo cartaceo e che trovavano la
capacità di proiettarsi in un futuro senza limiti in grazia di un carattere
impresso nelle loro trame costruttive: la astrattezza, la separatezza dai fatti
sociali ed economici in perpetuo divenire. Ad essi era tenuto a guardare
solo il legislatore, che avrebbe continuato per tutta la modernità (ossia per
tutto il secolo XIX) a godere della idealizzazione e, insieme, della
gigantizzazione voluta nei progetti filosofici e politici dell’Illuminismo
settecentesco, nei quali si amava proporlo quale personaggio modello,
immune da triviali passioni, imparziale e lungimirante. Grazie a un
processo decisamente mitizzatorio, egli si vedeva investito di un autentico
potere creativo, spettando a lui di manipolare il mondo dei fatti secondo
una volontà che ben può dirsi assoluta.
Il risultato era un paesaggio non soltanto estremamente semplicizzato,
ma ridotto in una geometria di categorie, suadenti perché composte in un
sistema logicamente coerente. Il Codice, che era la fonte esemplare di
questo momento storico, si presentava quale intelaiatura astratta, formale,
però vincolatissima – nella sostanza – alla forza politica che lo aveva
voluto, e pertanto coerente all’assolutismo giuridico messo in atto con
durezza durante la modernità113.
3. Al fondo di tale imponente operazione di politica del diritto si avevano
delle conseguenze vistose: si raggiungeva pienamente l’ideale
illuministico di un diritto chiaro e certo, al contrario del caotico
pluralismo giuridico di ogni società di antico regime (a cominciare da
quella francese prima del 1789). E questo interessava assai all’imperante
assolutismo giuridico, perché certezza e chiarezza rendevano
inammissibile l’ignoranza e ineludibile l’obbedienza. Infatti, l’esercizio
delle libertà economiche, vero perno portante di una civiltà borghese
(libertà di gestione del patrimonio, libera circolazione dei beni, libera loro
trasmissione per via ereditaria), esigeva la protezione efficace di uno Stato
tanto forte da poter garantire la impietosa disuguaglianza fra ricchi e
poveri. Sia ribadito che, a questo fine, accanto a un diritto semplice e
quindi ben prevedibile, giovava parecchio il culto osservatissimo della
astrattezza delle regole; giovava che la égalité scritta su ogni vessillo
rivoluzionario, il vanto più orgogliosamente ostentato fra le novazioni
rivoluzionarie, si riducesse a una mera possibilità della uguaglianza di
fatto.
Un simile assetto, che poco aveva di autenticamente democratico,
poteva funzionare fino a quando l’apparato statuale borghese fosse riuscito
a comprimere il magma ribollente della ‘sottostante’ società,
mantenendola al rango infimo di piattaforma inerte impunemente
calpestabile. Tutto diventa problematico quando in essa, negli ultimi
decennii dell’Ottocento, comincia a diffondersi una coscienza tutta nuova
capace di tradursi in assetti organizzativi di rilievo sempre maggiore;
quando in essa, di conseguenza, comincia una dinamica interiore che
bandisce la vecchia inerzia e avanza pretese turbative per la quiete
dell’ordine stabilito. In quei decennii è, per il giurista, il segno che un
tempo storico – il moderno – si sta esaurendo, mentre ne compare uno
profondamente nuovo e diverso, un tempo che chiameremo pos-
moderno per puntualizzare che si stanno preparando, in Italia e in tutta
l’Europa continentale, novità cospicue con l’emersione di valori nuovi114.
4. La dinamica, che percorre la piattaforma sociale, dà indubbiamente a
questa un ruolo ormai sempre più protagonistico. Il che significa che il
paesaggio socio-giuridico, da semplicissimo che era (o, meglio, che si era
forzosamente ottenuto), sta diventando complesso, ed è proprio con
questa complessità che si deve fare i conti: dapprima vivacizzatrice della
dimensione sociale, non può che aspirare alla pretesa di un ordinamento
giuridico a se stessa coerente, un ordinamento che registri puntualmente
la svolta avvenuta e prenda atto che tutto il ‘sociale’ è alla base del nuovo
paesaggio giuridico come ineliminabile e condizionante presenza.
La vera novità – e pesante, e incisiva – sta proprio nelle conseguenze che
questa nuova presenza comporta, consistenti soprattutto nel
coinvolgimento dei fatti. Sì, perché di fatti – strutturali, economici,
culturali – la società si nutre e si intride, sicché protagonismo della società
significa protagonismo anche di questa grezza fattualità115, che il diritto
moderno aveva respinto nella irrilevanza, lasciando all’arbitrio del
Sovrano di selezionare con un filtraggio rigorosissimo guidato soltanto
dal suo progetto politico.
Il giurista, che, a mio avviso, più d’ogni altro ha intuito e denunciato in
Italia il mutamento in corso tra fine Ottocento e primo Novecento, è
Santi Romano. Dopo avere, in parecchie lezioni solenni, valutato in
modo decisamente riduttivo le universalmente osannate ‘carte dei diritti’
sette/ottocentesche perché troppo astratte e incapaci di offrire al comune
cittadino strumenti concreti per migliorare la propria esistenza116,
scegliendo nel 1909 quale tema di un paludato discorso accademico «Lo
Stato moderno e la sua crisi»117, lo assume come occasione propizia per
diffondere tra i giuristi italiani la sua veridica diagnosi della realtà
circostante, da lui osservata con attenzione e coraggiosamente constatata
nella sua cruda effettività: lo Stato moderno, voluto come compatto e
unitario, impassibile di fronte alle richieste provenienti dal basso, trova i
fattori della sua crisi precisamente in una piattaforma sociale che rivendica
un proprio ruolo, organizzàndosi e articolàndosi in coagulazioni
collettive, ora sindacali, ora corporative, ora assistenziali, ora cooperative,
tutte lesioni della vecchia compattezza, tutte testimoni di una complessità
prima soffocata e ora capace di esprimersi fronteggiando l’apparato di
potere dello Stato borghese.
5. Il diritto civile è il segno più tangibile di quanto sia logorante per le
architetture giuridiche moderne (guglie gotiche svettanti ben al di sopra
della esperienza storica) l’impatto con la fattualità. Assunto come ratio
scripta nella tradizione romanistica, ammantato nella sua astrattezza e nella
conseguente unitarietà, aveva trovato nel ‘Codice’ la sua perfetta
intelaiatura in categorie formali praticamente de-storicizzate. Ora – primi
anni del secolo pos-moderno – deve fare i conti con l’incalzare di fatti
sociali ed economici non più eludibili nella nuova società italiana, che va
finalmente fornèndosi di un assetto, via via, autenticamente democratico
(dopo un lungo, faticoso itinerario si ha nel 1913 la conquista di un quasi
perfetto suffragio universale maschile!); che vivrà nel 1948 l’evento
fondamentale di una Costituzione estremamente incisiva su tutta la realtà
giuridica (a cominciare dal diritto privato)118.
Due esempii sono illuminanti, e concernono un fatto sociale, il lavoro, e
un fatto strutturale ed economico insieme, la cosa/terra quale fattore
produttivo.
Nella civiltà moderna il lavoro, valutato in modo simile agli antichi
romani immersi in una società inflessibilmente proprietaria, è nulla più di
quella cosa, l’unica di cui il lavoratore subordinato ha il dominio, che egli
offre non gratuitamente a chi voglia fruirne. È completamente estraneo a
una civiltà borghese individualista e anch’essa rigidamente proprietaria
che il lavoro sia, come lo percepiamo noi, una dimensione della persona,
inerente alla sua dignità ma anche contributo a una migliore esistenza
nella concretezza della vita. Qui si ha invece la più sorda mercificazione,
come è dimostrato dalla assenza nel Code Civil (1804) e nel primo Codice
Civile unitario italiano (1865) di un contratto di lavoro con caratteri di
autonomia, nonché dalla imperturbabile119 qualificazione tecnica della
prestazione lavorativa come ‘locazione d’opere’, in tutto tecnicamente
identica alla locazione di cose, l’una e l’altra ricomprese entro il genus
unitario ‘locazione’. Ancora nel 1900 il troppo apologizzato Lodovico
Barassi, nella sua ampia trattazione che pure si intitolava Il contratto di lavoro
nel diritto positivo italiano, non riusciva ad affrancarsi da questa pesante
eredità risalente al diritto romano e risolveva il lavoro subordinato quale
«rapporto locativo di lavoro». Qualcosa – si potrebbe anche dire molto –
cominciò a cambiare con il secolo pos-moderno, quando, sulla scorta
delle ineludibili spinte sociali e delle conquiste della scienza giuridica
tedesca, una coraggiosa dottrina italiana invertì decisamente la rotta
recuperando due dimensioni totalmente discare alla chiusa visione dei
moderni, quella sociale e quella collettiva; e si affaccia, per la prima volta
in Italia, il profilo di un contratto collettivo di lavoro, profilo che ferisce a
morte l’imperante individualismo giuridico120.
Anche il secondo esempio, che propongo al lettore, è parimente
eloquente. Civiltà esasperatamente proprietaria, la modernità giuridica
ebbe una assoluta sordità verso le specifiche qualità della grande
cosa/madre, la terra, che si presentava ancora quale fonte prevalente di
ricchezza, mentre l’attenzione era tutta per l’individuo proprietario,
fornito dall’ordinamento di una gamma amplissima di poteri. La cosa era
passibile dello sfruttamento più massiccio, con una sola funzione, quella
di procurare il massimo reddito al proprietario. Fu, però, soprattutto
durante la prima guerra mondiale che il bisogno di una maggiore
produttività congiunto a una carenza di prodotti vitali per la
sopravvivenza obbligò gli Stati a una legislazione eccezionale di guerra
che, bandendo l’infecondo culto della astrattezza, si dette a valorizzare
apertamente la concretezza di scelte agronomiche ed economiche.
Emergeva il rispetto per le strutture della terra, per le sue regole interne,
per la sua vita, per le sue diverse vocazioni a seconda della diversità dei
terreni121. Accanto ai soggetti, un altro protagonismo si venne a
giustapporre, quello delle cose, che, dagli anni Venti, una coraggiosa
scienza civilistica comincia a studiare inaugurando una visione più
complessa, non più unicamente antropo-centrica ma altresì rei-
centrica122. Insomma, accanto al nascente ‘diritto del lavoro’, si profila il
nascente ‘diritto agrario’123.
La accanitamente difesa unità del diritto civile codicistico si incrina e
prendono forma assetti disciplinari che ricavano la propria autonomia dal
loro intridersi di carnalità, dal loro caratterizzarsi per una intrinseca
fattualità.
6. Quello che al lettore impaziente è parsa una di-versione rispetto alla
tematica che ci interessa – il richiamo, cioè, alle due emersioni
novecentesche or ora delineate – mi sembra, al contrario, un appropriato
avvìo a percepire come la tanto esaltata prevedibilità del diritto – forse,
addirittura, il carattere di cui la modernità giuridica era più orgogliosa –
sia destinata ad attenuarsi parecchio con il riaffiorare durante il
Novecento di valori diversi caratterizzanti un nuovo vólto del diritto.
La ritrovata fattualità, segno certo che si è deposto il vecchio dispregio
illuministico verso i fatti, è il primo grosso contributo a dare dei tratti
nuovi a quel vólto. Sì, perché i fatti sono riottosi a farsi ridurre e soffocare
in geometrie; perché i fatti sono sempre gremiti di storicità, tutti, in
modo particolare quelli sociali ed economici, ma non ne sono immuni
neanche quelli naturali anche se entro la lentezza che sovraintende
all’evolversi della rerum natura.
E storicità significa plasticità, disponibilità a farsi modellare dal costante
divenire, senza aver la pretesa di interromperlo fissàndolo in una sorta di
modello a-temporale e quindi antistorico. Storicità significa, in fondo,
umiltà di fronte alla complessità riscoperta, umiltà di fronte al
mutamento e al nuovo che questo comporta; storicità significa
consapevolezza che, se si vuole conseguire il risultato di un diritto
autenticamente umano, non lo si può ridurre a una volontà potestativa
imposta dall’alto, bensì occorre ricondurlo alla umile ricerca delle molte
risorse che il flusso storico porta con sé seppellendo, variando,
confermando.
Se il diritto è, come io fermamente credo, frutto di invenzione124, allora il
canone della storicità del diritto, quale approccio indiscutibilmente
congeniale alla dimensione giuridica, rappresenta la bussola orientativa
per il legislatore e per la comunità dei giuristi/interpreti, nonché il
salvataggio di un diritto che è sempre e soltanto esperienza, cioè
dimensione della vita.
È ovvio, però, che, se fattualità significa storicità, significa anche
presupporre che movimento e mutamento sono scansioni naturali,
intrinseche al ‘giuridico’, con tutta una buona dose di imprevedibilità per
ogni manifestazione di quello. Significa che si pongono come prevalenti
altri valori rispetto a quelli – esaltati nella modernità – della certezza e
della prevedibilità.
7. È opportuno, ora, riprendere un mero accenno fatto più sopra a un
evento del 1913, che incide a fondo sul secolo nuovo e sui caratteri di un
diritto pos-moderno: si ha, nel Regno d’Italia, un quasi perfetto suffragio
universale maschile. Caduti gli arginamenti censitarii voluti e difesi dallo
Stato borghese, il clima è sostanzialmente democratico (a parte,
ovviamente, l’esclusione dell’elettorato femminile, che durerà fino al
1946), perché si attua un effettivo pluralismo sociale. Purtroppo, il
coinvolgimento italiano nella guerra mondiale, le turbolenze e le
impotenze dominanti nel momento immediatamente pos-bellico, il
ventennio (dal 1922 in poi) della dittatura fascista, rinviarono al secondo
dopoguerra sia la conquista di un suffragio universale per tutta la
popolazione, sia la coerente traduzione del pluralismo dal piano socio-
politico a quello giuridico.
Il che si attua con l’evento rivoluzionario della Costituzione entrata in
vigore il 1° gennaio 1948. ‘Rivoluzionario’ potrebbe sembrare
aggettivazione eccessiva e, pertanto, enfatica, ma non lo è affatto se si
considera che la nostra Carta non è un secondo momento nella storia del
costituzionalismo italiano continuando la tradizione instaurata cento anni
prima dal re Carlo Alberto con il suo ‘Statuto’. Infatti, novissima è la
realtà repubblicana, novissima è la ‘carta’ del 1948, e un profondo fossato
segna di una insopprimibile discontinuità l’una e l’altra rispetto alla nostra
storia prossima e remota.
Restando su un piano rigorosamente costituzionale, il quid novi, che
provoca insanabilmente la rottura anche con la tradizione nostra
prefascista e risorgimentale, è la svolta pluralistica che mette
definitivamente in crisi statalismo e legalismo, baluardi dell’assetto
politico borghese.
Sia chiaro: il messaggio dei Costituenti non è affatto anarcoide e si
occupa diffusamente nella seconda parte della Costituzione di
quell’apparato di poteri necessario alla sicurezza interna e internazionale
del popolo italiano; lo Stato, però, non esaurisce né la dimensione socio-
politica, né quella giuridica; risultato che è messo bene in evidenza dalla
dialettica ‘Repubblica/Stato’ che arricchisce tutto il tessuto della
Costituzione (dove Repubblica rappresenta quella realtà ampia e
complessa, che è proiezione di un popolo articolato in una pluralità di
coagulazioni ordinamentali). Insomma, positività del diritto, oggi, in Italia
non può coincidere con statualità.
Né è un messaggio anti-legalistico, giacché nella Carta si dà un rilievo
grande alla legge e alla sua produzione, ma ci si guarda bene dal ridurre il
diritto a un insieme di leggi, essendo – al contrario – sommamente chiaro
il nesso diritto/società con una impostazione apertamente pluralistica: la
Repubblica custodisce, per di più, nel suo seno una pluralità di
ordinamenti giuridici, il primo dei quali, ovviamente immancabile e
prevalente, è lo Stato.
Dove, purtroppo, Stato e legge mantengono la loro monocrazia è in
quegli articoli delle ‘Preleggi’ al Codice Civile del 1942 laddove trattano
della gerarchia delle fonti di diritto e della interpretazione della legge,
ultima reliquia del regime autoritario allora imperante, e di dubbia
costituzionalità, ma dei quali nessun legislatore ha tentato una modifica
ufficiale e nessun giurista ha promosso la rimozione. Segno, quest’ultimo,
del consueto vizio della pigrizia, ma – forse, peggio! – di un
atteggiamento di fondo dei giuristi di civil law, che reca ben calato nel loro
subconscio quel culto della legge ad ogni costo (malgrado le aberrazioni
in essa contenute) di cui parlava Piero Calamandrei ancora nel 1942,
ancora conquistato dalle sirene legalistiche del giacobinismo di fine
Settecento125.
Ma sia ribadito con forza: molto poco ha da spartire la nostra
Costituzione con lo Statuto albertino, una ‘carta di diritti’ concessa
graziosamente da un sovrano assoluto, dove non si va al di là di un
catalogo di libertà galleggiante sradicato ben al di sopra della quotidianità
dei cittadini. La Costituzione italiana, frutto genuino del
costituzionalismo democratico del Novecento, nasce in un momento di
profonda rigenerazione per il popolo italiano finalmente artefice della sua
vicenda storica, con una proiezione per l’innanzi, nei tempi lunghi e
lunghissimi. Né è questo un gesto temerario, perché si origina dalla
lettura attenta da parte dei Costituenti dei valori e interessi ben inscritti
alle radici del nostro popolo e universalmente condivisi, pertanto atti a
costituire un complesso di principii basilare per l’intiero edificio giuridico,
certamente non eterni, ma altrettanto certamente destinati a durare, come
è consolante verificare, per quanto attiene ai ‘principii fondamentali’ e alla
‘prima parte’, in questo settantesimo anno di vita della Costituzione.
8. Dunque, pluralità di ordinamenti giuridici, con il pluralizzarsi delle
fonti del diritto e, conseguentemente, con il loro de-tipicizzarsi. Con
questa significativa appendice: lo stesso legislatore statale, ora che gli è
sfuggito di mano il vecchio monopolio, consapevole delle proprie
incapacità, si arrende all’onda pluralistica attraverso il riconoscimento di
molteplici realtà. Due esempii, uno recente e l’altro recentissimo, ne
dànno eloquente testimonianza.
Il primo risale al 2010 ed è il cosiddetto ‘Codice del processo
amministrativo’, che ho ritenuto di qualificare riduttivamente con
l’aggettivo ‘cosiddetto’ unicamente perché ha poco da spartire con le
realizzazioni codicistiche della modernità e di cui, in Italia, l’ultimo
campione è il Codice Civile del 1942. Infatti, consiste soprattutto in una
sorta di grande cornice, un disegno di principii, che, in quanto principii e
non regole vincolanti nel loro dettagliato contenuto, vengono
implicitamente a concedere ampio spazio all’interprete, in particolare al
giudice chiamato a fornire contenuti specifici in relazione alla concretezza
del caso.
Il secondo risale al novembre del 2017, ed è la legge 168, che affronta e
risolve – una volta per tutte – il plurisecolare difficile problema della
cospicua presenza nell’intiera penisola italiana di assetti fondiarii collettivi.
Dopo quasi due secoli di atti legislativi che ne hanno sancito la
‘liquidazione’, testimoni di una valutazione pienamente negativa per
queste forme peculiarissime di appartenenza, la legge 168 – che vede
attore protagonista in Senato un egregio uomo di scienza,
l’amministrativista Giorgio Pagliari – per la prima volta li riconosce quali
ordinamenti giuridici primarii; in essa è da sottolineare l’intento preciso
di proporsi come attuazione del dettato costituzionale bene espresso negli
articoli 2, 9, 42, 43.
Gli esempii potrebbero davvero moltiplicarsi e mostrerebbero l’odierno
recupero della complessità dell’ordine giuridico, mentre l’azione dello
Stato si fa sostanzialmente abdicativa, riconoscendo che il diritto italiano,
nel seno ampio della Repubblica, è realtà che non può ricomprendersi
nella sola dimensione legislativa. Si deve aggiungere (e ribadire) l’accenno
fatto più sopra, e cioè che il momento transitorio, che abbiamo vissuto e
stiamo tuttora vivendo, pone in evidenza l’incapacità dello Stato a tener
dietro al movimento/mutamento di straordinarie rapidità e intensità,
accentuàndosi la tendenza a spostare l’asse portante dell’ordinamento dal
legislatore agli interpreti, calati nell’esperienza quotidiana e chiamati a una
necessaria supplenza.
9. E se si parla frequentemente di crisi, non è un farfugliare a vuoto; ma si
sbaglia – e di grosso, e proprio su un piano epistemologico – se si parla di
crisi del diritto, ripetendo oggi la frusta e respingibile rappresentazione
del monopolio della produzione giuridica nelle mani del legislatore.
La crisi c’è, ed è crisi, appunto, dello statalismo legalista; ed è la
riscoperta della complessità giuridica a investire e travolgere il modello
legale. E sono proprio i caratteri di questo modello a dimostrarsi inadatti a
disciplinare giuridicamente il tempo pos-moderno tuttora contrassegnato
dalla instabilità di una transizione. Astrattezza, generalità, rigidità, che
fino a oggi hanno identificato il vólto virtuoso della legge, appaiono,
proprio oggi, quali cagioni prime della sua condanna. Ogni legalismo si
concreta sempre in una proposta di modelli, modelli rigidi, che
garantiscono i beni della certezza e della prevedibilità, ma che sono
intrinsecamente inidonei all’attuale instabile tempo.
Tutto ciò è espresso con veridica efficacia dalla ‘crisi della fattispecie’, di
cui – quattro anni fa – ha scritto con grande probità intellettuale (sia pure
con sincera mestizia) Natalino Irti, cui mi lega una fraterna amicizia che
la profonda diversità di approccio al diritto non è mai riuscita a incrinare.
Se è vero, come ci insegna Irti, che la fattispecie è «uno strumento di
precisione che permette di ‘disporre’ per il futuro e di convertire
innumerevoli fatti in caso di applicazione normativa»126; se è vero,
dunque, che la fattispecie è un modello che vìncola, irrigidisce, stabilizza
in quanto «strumento di precisione», nulla di più inadatto per l’odierno –
tormentato, complesso, mutevole – itinerario dei nostri giorni. E do
ragione a un acuto e cólto civilista, Umberto Breccia (con cui la sintonia
è totale), quando si lascia volentieri alle spalle quella che lui chiama «la
logica monistica della fattispecie»127.
È proficuo ritornare ancora al testo di Irti, che è prezioso laddove, con
penetrante diagnosi, con sostanziale adesione a quello che da tempo vo
sostenendo128, coglie nella nostra Costituzione del 1948 (nel suo essere –
dico io – espressione di un tempo pos-moderno) il fattore determinante
della crisi. Infatti, quelle che egli chiama «norme costituzionali»
«enunciano principi» e «appartengono bensì al diritto positivo, il quale
tuttavia mostra, proprio nella sua cima più alta, di indebolire o
abbandonare il concetto di fattispecie»129. Sì, perché «non c’è più bisogno
di fattispecie normativa o di stampelle sussuntive e sillogistiche:
l’argomentazione giuridica batte ormai altre strade»130. La Costituzione è
un breviario di principii generato dalla identificazione di valori, e «il valore
(ad esempio, di solidarietà o della salute e del paesaggio, o di dignità
sociale, e via seguitando) non ha bisogno di fattispecie», poiché «la
fattispecie serve a ricondurre il fatto entro il modello tipico»131.
Parole, queste, assai veritiere, che collegano il concetto di fattispecie,
«proprio di società stabili»132, a un mondo che può essere disciplinato da
modelli, da tipi predeterminati, dove la tipicità è l’assetto sicuro delle
diverse manifestazioni giuridiche, sicuro perché espressione di una
stabilità retrostante e, quindi, in grado di dare sicurezza. Connessa a
questa sicurezza è anche la certezza e la prevedibilità.
Ovviamente, all’amico Irti è penoso «spogliarsi di un vecchio utensile,
che ci era caro per educazione mentale e tradizione di studi» (come segna
nelle ultime parole del saggio), avvertendo, però, che si tratta di una
«necessità storica»133. Chi, come me, ha coltivato e insegnato per decennii
la storia del diritto, ed è avvezzo all’usura del tempo e alla storicità delle
invenzioni giuridiche, non ne è turbato. Prende atto di un itinerario che
si sta distanziando dalle certezze moderne, ordinando la società e i suoi
bisogni con approcci e soluzioni profondamente nuovi. Il costo da pagare
sono una diffusa incertezza e scarsa, difficile prevedibilità. Però, è anche la
strada che permette al diritto di avvicinarsi alla giustizia.
Se sono in crisi i modelli, è necessariamente in crisi il primo artefice di
modelli, e cioè il legislatore. «A fronte di questo logorarsi della
dimensione legislativa, il salvataggio si incarna nella interpretazione, ed è
naturale che l’esperienza affidi ad essa un adeguamento efficace dell’ordine
giuridico», come ho scritto di recente puntualizzando l’odierno rilievo
della funzione notarile134. Al di là della politica giudici, notai, avvocati e
scienziati attenti alla dinamica socio-economica, precisamente perché in
approccio continuo coi fatti di vita e di essi percettori, assumono anche da
noi quel ruolo protagonistico che hanno sempre avuto in assetti giuridici
pluralistici.

111
È il tema di una famosa conferenza tenuta da Filippo Vassalli nel 1951 (cfr. F. Vassalli,
Estrastatualità del diritto civile, ora in Studi giuridici, Giuffrè, Milano 1960, vol. III, t. II).
112
Si pensi, per esempio, alla vicenda davvero esemplare del Code Civil napoleonico, che
solo di recente ha avuto un sostanzioso (peraltro, non felice) rinnovamento.
113
Un assolutismo giuridico funzionale a conservare e tutelare un assoluto liberismo
economico.
114
Maggiori precisazione ho offerto in Novecento giuridico: un secolo pos-moderno (2010), ora in
Introduzione al Novecento giuridico, Laterza, Roma-Bari 2012.
115
Per maggiori precisazioni cfr. P.G., Sulla odierna fattualità del diritto (2013), ora in Ritorno
al diritto, Laterza, Roma-Bari 2015.
116
Le occasioni furono molteplici, ma si veda soprattutto Santi Romano, Le prime carte
costituzionali (1907), ora in Lo Stato moderno e la sua crisi. Saggi di diritto costituzionale, Giuffrè,
Milano 1969.
117
È il famoso discorso per l’inaugurazione dell’anno accademico nella Università di Pisa.
Per un più approfondito esame del problematizzante testo romaniano mi permetto di
rinviare a quanto dissi in occasione della celebrazione pisana del centenario: «Lo Stato
moderno e la sua crisi» (a cento anni dalla prolusione pisana di Santi Romano) (2010), ora in
Introduzione al Novecento giuridico, cit.
118
Sinceramente, non riesco a capire come tutto ciò sia identificato da qualche civilista nella
‘eclissi del diritto civile’ (così si intitola un recente volume di Carlo Castronovo edito da
Giuffrè, Milano 2015).
119
È il giovane Francesco Carnelutti che, nella felicissima raccolta di sue indagini sul tema –
tutto nuovo per le teorizzazioni del civilista – degli infortuni sul lavoro, parla
coraggiosamente di quel carattere «imperturbabilmente borghese» che rende la scienza
giuridica italiana tanto sorda ai problemi del lavoro e della nuova organizzazione industriale
(cfr. F. Carnelutti, Infortuni sul lavoro (Studi), vol. I, Athenaeum, Roma 1913, Introduzione,
p. XII).
120
Ne ho discusso ampiamente in Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950,
Giuffrè, Milano 2000, pp. 97 sgg.
121
Anche per questo tema storicamente di grande rilievo mi si permetta di rinviare al mio
Scienza giuridica italiana, cit., pp. 130 sgg.
122
Pioniere assoluto e coraggioso di questa osservazione più complessa della dimensione
proprietaria è, in Italia, Enrico Finzi, la cui voce solitaria negli anni Venti e Trenta del XX
secolo apparve sostanzialmente ereticale (cfr. P. Grossi, Enrico Finzi: un innovatore solitario, in
E. Finzi, «L’officina delle cose». Scritti minori, Giuffrè, Milano 2013, p. XXXII).
123
È nel 1922 che, per merito di Giangastone Bolla, nasce in Firenze la «Rivista di diritto
agrario».
124
‘Invenire’, ‘invenzione’ secondo l’ètimo latino, nel significato di cercare e trovare. Io
volli pubblicamente sottolineare questa caratterizzazione del diritto pos-moderno, e di
quello straordinario modello operativo che è la Corte costituzionale, nella relazione
introduttiva al Convegno per il sessantennio della stessa Corte tenuta nel palazzo del
Quirinale il 19 maggio del 2016 (oggi si può leggere, oltre che negli Atti congressuali, in
P.G., L’invenzione dell’ordine costituzionale: a proposito del ruolo della Corte, in L’invenzione del
diritto, Laterza, Bari-Roma 2017).
125
Il riferimento è alla nota recensione di Calamandrei al libro del filosofo Lopez de Oñate
su La certezza del diritto. Nel secondo dopoguerra e soprattutto grazie al diretto
coinvolgimento del grande processualista nella officina fervida della Assemblea Costituente
c’è un significativo ripensamento del vecchio legalismo post-illuminista. Ho tentato di
sottolineare questa conversione pluralista in Lungo l’itinerario di Piero Calamandrei (2008), ora
in Nobiltà del diritto. Profili di giuristi, vol. II, Giuffrè, Milano 2014.
126
N. Irti, La crisi della fattispecie, in «Rivista di diritto processuale», 1, 2014, p. 41.
127
U. Breccia, Il pensiero di Salvatore Romano, in Salvatore Romano, a cura di G. Furgiuele,
ESI, Napoli 2015, p. 5.
128
P.G., La Costituzione italiana quale espressione di un tempo giuridico pos-moderno (2013), ora in
L’invenzione del diritto, cit.
129
Irti, La crisi della fattispecie, cit., p. 41.
130
Ivi, p. 42.
131
Ivi, pp. 42 e 43.
132
Ivi, p. 44.
133
Ibid.
134
Sull’esperienza giuridica pos-moderna (a proposito dell’odierno ruolo del notaio), in «Quaderni
fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 47, 2018, p. 337.
V.
A proposito
de ‘Il diritto giurisprudenziale’

1. Un invito a guardare l’oggi con gli occhi di oggi; 2. Su ‘moderno’ e ‘pos-moderno’ quali
strumenti interpretativi della storia del diritto; 3. Sulla gènesi di un tempo giuridico pos-moderno
in Italia; 4. Sui caratteri di un diritto pos-moderno in Italia: in particolare, sulla sua ritrovata
complessità; 5. Sui caratteri di un diritto pos-moderno in Italia: in particolare, sul messaggio
innovatore della Costituzione repubblicana; 6. Sul ‘diritto giurisprudenziale’, in Italia, oggi.

1. Una necessaria premessa. Noi giuristi italiani – o, almeno, una grossa


maggioranza – crediamo di trovarci all’estremo di una lunga strada che
corre assolutamente liscia dal Settecento al 2019, una strada connotata da
una perfetta continuità, tanto che, grazie ad essa, ci arrivano da allora
messaggi con dei contenuti originarii ritenuti tranquillamente,
pianamente, applicabili nel contesto attuale.
Ma non è così! Anzi, è tanto discontinuo il cammino che ci separa dai
fervori illuministici e giacobini del secolo XVIII, da rendere necessaria
una precisa presa di coscienza in proposito, sì da non soffocare il nostro
presente entro un ideario troppo costringente. Noi dobbiamo leggere
l’odierno paesaggio giuridico non con gli occhiali confezionati a fine
Settecento, ormai superati da eventi di straordinaria incisività e perciò
assolutamente deformanti, bensì con occhiali capaci di mettere a fuoco
ciò che – oggi e non ieri – bolle nell’attuale magma socio-politico-
giuridico.
2. Oggi, abbiamo acquisito una rinnovata consapevolezza della natura del
diritto e della sua gènesi, nonché della relazione società/diritto e
Stato/diritto. È proprio per marcare il riscontro di questo rilevantissimo
traguardo e marcare anche l’avvìo di un nuovo itinerario e non la stanca
prosecuzione di una vecchia strada, che, decisamente almeno negli ultimi
dieci anni, ho cominciato a parlare di un tempo giuridico pos-
moderno135.
Pos-moderno: intanto, è aggettivazione che pecca di genericità; soffre di
eccessiva vaghezza e, appunto perché è vaga, può dare l’impressione che si
tratti di una categoria storiografica generale e che si misuri con nozioni
similari usate da filosofi e da storici. Mi preme, al contrario, di precisare,
al fine di evitare malevole interpretazioni, che, da giurista, intendo
riferirmi soltanto a una scansione che vedo nettissima nello svolgersi del
diritto – del diritto come esperienza e come scienza – fra Ottocento e
Novecento; uno svolgersi consistente in un sempre più forte distacco dai
valori affermati in un tempo giuridico moderno, in una sempre più forte
sfiducia su di essi, in una sempre più forte stabilizzazione di valori altri e
diversi. Uno svolgersi, che germina chiaramente negli ultimi decennii del
secolo XIX, prosegue e aumenta durante il corso del Novecento in un
faticoso itinerario che non è ancora concluso136.
In questo angolo visuale, certamente assai modesto, che è quello di un
giurista senza distorcenti velleità teorizzatrici ma tendente solo a fornirsi
di un pròvvido strumento per sceverare realtà storicamente distinte e
pertanto non accomunabili, ribadisco l’utilità della dialettica
moderno/pos-moderno nelle mani dello storico del diritto.
3. Le prime germinazioni pos-moderne sono, a mio avviso, da rinvenire
soprattutto in un risveglio rilevabile a fine Ottocento nel grembo della
società.
Ciò che contraddistingueva la modernità giuridica (illuministica e
giacobina, per rendere più concreto il nostro dire) era un insanabile
distacco fra Stato e società, fra potere politico e società, fra un diritto
potestativamente inteso e la società. Questa aveva il non-ruolo di una
mera piattaforma inerte, assolutamente passiva nella sua statica inerzia,
tale cioè da non turbare l’ordine delle strutture politiche e giuridiche
sovrastanti. Si trattava, però, di una pesante coercizione, efficace fino a
quando l’apparato di poteri fosse in grado di attuarla. Quando, invece, a
fine Ottocento, l’apparato ha le prime incrinature, quando la società,
sorretta da una nuova e vigilante presa di coscienza, spontaneamente
riesce a trasformare il suo immobilismo in una articolazione dinamica,
allora comincia a profilarsi in Italia un vólto sempre più pos-moderno.
È, dapprima, una rivolta dei fatti, ufficialmente repressa anche in modo
sanguinoso, ma che guadagna sempre più in effettività. Spicca quello che
sarà il primo contrassegno del secolo e del diritto pos-moderni: la
fattualità; e spicca, contro il vecchio criterio della validità, cioè della
corrispondenza a un modello autorevole a proiezione generale e da
obbedire rigidamente, quello della effettività, cioè della peculiare carica
intrinseca a taluni fatti e, di per sé, giuridicamente incisiva.
La piattaforma sociale, cui la grande rivoluzione aveva negato il potere di
auto-ordinarsi137 essendo per lo Stato estremamente giovevole il suo
permanere nella condizione di magma piattamente inerte, ha come un
risveglio nella riscoperta di quel collettivo che rende più forte il socialmente
ed economicamente debole. Sono anni in cui si assiste a una fioritura di
coagulazioni sociali differenziatissime nei loro scopi ma tutte accomunate
da una istanza di protezione e promozione per quel ‘quarto stato’ che non
aveva fatto la rivoluzione del 1789. Sono associazioni sindacali,
professionali, religiose, assistenziali, cooperative, certamente le più varie
ma certamente tutte costituenti un pullulare che univa fragili
individualità per una prossima riscossa sociale ed economica.
Amici pisani138, è il pullulare che nel 1909, centodieci anni fa, il giovane
professore di Diritto costituzionale nella vostra Facoltà di Giurisprudenza,
Santi Romano, osservava dalle finestre del suo studiolo ben aperte sulla
vivace quotidianità cittadina. Osservava e registrava, da giurista qual era,
attentissimo al contesto sociale e nemico di mitizzazioni formalismi
dogmatismi; e identificava in esso con ammirevole lucidità la causa prima
del palese declino del borghese Stato di diritto, delle sue chiusure e
sordità sociali, dei suoi forzosi riduzionismi139.
La società, infatti, cominciava a prendere coscienza del suo ruolo e
avanzava le proprie pretese. Rispetto alla concezione elitaria di un
apparato potestativo quale unico produttore di diritto, se ne cominciava a
profilare una di segno decisamente contrario: quasi in un moto
ascensionale dal basso in alto, la società esigeva una massiccia
partecipazione alle elezioni politiche e riscopriva progressivamente di
essere la nicchia genetica dell’intiero ordine giuridico.
4. Ecco, dunque, quello che – sinteticamente – potremmo assumere come
l’emblema di un tempo giuridico pos-moderno, il Novecento: sempre più
società, sempre meno Stato, nel senso che sempre meno lo Stato è capace di
esprimere la società. E questo ‘sociale’, compresso e represso dalla civiltà
borghese, non tardò ad acquisire rilevanza: nel 1913, la conquista del
suffragio universale maschile rompe l’involucro economicamente elitario
conservato in Italia da una rigida discriminazione censitaria, mentre
(dopo il 1915) l’immane sforzo bellico, ponendo il potere politico di
fronte a enormi esigenze di carattere economico e sociale, lo costringe ad
inaugurare una legislazione eccezionale di guerra gremita di una greve
fattualità e ben lontana dai canoni della astrattezza e della generalità,
vanto conclamato del vecchio legislatore borghese. Una dimensione
sociale, sempre rintuzzata, ora emergeva, e certamente non per spontanee
scelte solidaristiche140.
Ma v’è qualcosa di più. Santi Romano, che aveva posto nel 1909 in
strettissima connessione la nuova dinamica sociale da lui oggettivamente
registrata e la crisi della forma di Stato imperante nella modernità, trova
in quella osservazione lungimirante il pungente sprone a riflettere
ulteriormente sulla relazione fra ‘diritto’ e ‘Stato’ e, consequenzialmente,
sulla ‘essenza’ del diritto, mettendo a nudo le mitologie e gli artificii
sottostanti alla concezione liberale del Rechtsstaat (da lui, costituzionalista,
attentamente studiato e per certi aspetti anche ammirato); però, alla fine,
proponendo una decisa inversione di rotta e un totale capovolgimento per
una corretta osservazione/valutazione.
È il 1918, anno finale della cosiddetta ‘grande guerra’, grande non per i
milioni di morti e per le distruzioni perpetrate ma perché i quattro anni di
sforzo bellico, al di là delle volontà dei governanti, vengono a segnare il
logoramento e la fine di un mondo socio-politico-giuridico e l’avvìo di
un altro connotato da ben altri caratteri; ed è l’anno in cui viene
pubblicato da Romano lo smilzo libretto L’ordinamento giuridico. Se si
mettono da parte le marginali aporie sottolineate da molti contraddittori e
sicuramente derivanti dalla duplice qualità dello scrittore (cultore del
diritto positivo italiano, cultore della teoria generale del diritto), quelle
pagine sono da considerarsi un vero manifesto del secolo pos-moderno e
del diritto pos-moderno; ciò, per il capovolgimento che lì si attua nella
visione/concezione del diritto, proponendo un nuovo angolo di
osservazione da cui lo si deve guardare e valutare (da sotto in su, per così
dire), se si vuole mettere correttamente a fuoco la sua essenziale natura.
Spieghiàmoci meglio: qui si abbandona definitivamente la concezione
verticistica e potestativa del diritto, per sorprenderlo nelle radici più
riposte – ma intensamente determinanti – della società, in un sostrato di
valori diffuso e universalmente condiviso.
Il vocabolo ‘ordinamento’ nella bocca di Romano non è innocuo, ma è,
al contrario, il segno del capovolgimento, o, per dirla in altro modo, della
conversione che il giurista deve attuare nel proprio interior homo per
individuarne puntualmente l’essenza. ‘Ordinamento giuridico’, infatti,
indica con precisione la finalità principale del diritto: ordinare la società e,
ordinàndola, salvarla; la quale, però, si può effettivamente ordinare solo se
si tiene conto dei valori e interessi che la percorrono.
È da questa contemplazione di quanto avviene in basso che si può
conseguire un vero ordinamento. S’intende che, con questa grezza
locuzione avverbiale ‘in basso’, si vuole solo icasticamente rendere lo
spazio genetico della dimensione giuridica, che è alle radici profonde di
una comunità, che esprime quelle radici consistenti in valori orientativi
dall’autentico carattere identitario. Siamo qui, pertanto, in una visione
addirittura opposta a quella che chiamerei stringatamente illuministico-
giacobina: mentre lì il diritto è creazione del potere politico (per quanto
rappresentativo), si identifica in una volontà creativa e nasce in alto e
dall’alto si proietta sui chiamati all’obbedienza, qui il diritto è frutto di
una invenzione141, di uno sguardo che mira al basso e in basso lo scopre; lì
c’è volontà e comando, al quale consegue una secca indiscutibile
obbedienza; qui c’è quell’atto di umiltà che è sempre il conoscere e il
riconoscere, al quale consegue l’osservanza dei consociati (atteggiamento
duplice, perché in esso l’obbedienza non può non avere venature di
persuasione)142.
A questo punto, si può tirare la conclusione, a cui mira tutto il nostro
discorso: il diritto nasce dalla società, la esprime compiutamente e non
può pertanto non esprimere la complessità che è tipica di essa. Se lo Stato è
realtà vocazionalmente riduzionistica, monistica, la società,
vocazionalmente plurale, si presenta in tutta la sua complessità. Se il
diritto dello Stato moderno, la legge, può ridursi alla volontà del titolare
del potere supremo, il diritto pos-moderno, ab origine sociale, natura sua
sociale, non è suscettibile di riduzionismi se non al rischio di amputare od
opacizzare la sua complessità. Insomma, lo statalismo legalistico del
pianeta di civil law, che ama manifestarsi in quelle fonti serrate in sé stesse
che sono i Codici, è sicuramente un grosso evento della storia giuridica
occidentale, ma è un evento legato a una precisa strategia del potere, che
vuole la piena ancillarità della dimensione giuridica.
L’operazione scientifica di Santi Romano appare, sotto questo profilo,
affrancatrice, perché, affermando il pluralismo giuridico quale assetto
naturale del diritto in quanto contrappunto del naturale pluralismo
sociale, afferma implicitamente una naturale espansione della dimensione
giuridica ben al di là di una dimensione legislativa. Il paesaggio è ormai
percorso da una pluralità di ordinamenti giuridici primarii e da una
pluralità di fonti certamente non più collegate da una rigida scansione
gerarchica secondo la vulgata dell’assolutismo giuridico143 dominante
nell’Occidente continentale europeo a far data dal secolo XVIII.
5. Dunque, dal 1918, in Italia incipit vita nova; si sarebbe potuto sperarlo,
ma non avvenne proprio così.
Infatti, il positivismo giuridico – penetrato nel cervello e nel cuore dei
giuristi italiani nella sua veste di un legalismo protetto dal principio di
stretta legalità e ben rivestito di un adeguato mantello mitizzante – è duro
a morire. Del messaggio romaniano si discute fittamente, ma ad un livello
puramente astratto, senza trarne (o, meglio, senza volerne trarre) quei
contraccolpi demolitivi e innovativi insieme, che avrebbe dovuto esigere
un radicale ripensamento del sistema delle fonti del diritto. Anzi, in Italia,
il ventennale regime autoritario si impegna a ribadire nelle ‘disposizioni
preliminari’ al Codice Civile unitario del 1942 una secca scansione
gerarchica unita a una riduzione a mera esegesi di ogni attività
interpretativa delle leggi.
Sarà nel secondo dopoguerra che il messaggio si farà strada, una strada
però sempre in salita e anche costellata di intoppi (ma non ci vogliamo
immergere nel cammino variegatissimo della scienza giuridica italiana
nella seconda metà del Novecento). Ai fini di questa ‘Lezione
introduttiva’ è conveniente evocare il più grosso evento politico e
giuridico nella protostoria del nostro ritrovato assetto democratico, e cioè
la Costituzione del 1948.
La Costituzione nostra è un evento che può ben qualificarsi
rivoluzionario per la storia politica e giuridica italiana. Essa ci si propone
come un solido cippo confinario, che segna nettamente – e differenzia
funditus – passato e presente anche del diritto. E nessuno – credo – si
sentirebbe oggi di ripetere le tante voci che si levarono negli anni
Cinquanta del secolo scorso, quando era facile udire sulla bocca di molti
giuristi la spicciativa considerazione che si trattava di nobili ma nuvoleschi
principii di ìndole filosofico-politica. Era il permanere di una concezione
vetero-costituzionale, imperiosa durante tutta la modernità borghese: la
Costituzione doveva galleggiare molto al di sopra della positività giuridica;
questa doveva, infatti, essere formata da Codici e leggi, manufatti
provenienti dal legislatore positivo, che, identificàndosi nel titolare del
potere politico, era in grado di controllare efficacemente i contenuti delle
norme in gestazione, rendèndoli perfettamente coerenti con i progetti di
quel potere. Le Costituzioni di allora – quelle del sessennio rivoluzionario
francese, per esempio – si incarnavano in delle Dichiarazioni, in delle Carte
dei diritti, alate proposizioni che solo il legislatore avrebbe potuto e saputo
tradurre in norme positive144.
Oggi, anno 2019, a nessuno è lecito dubitare sulla giuridicità di una
Costituzione che appartiene al momento pos-moderno della vicenda
storica del costituzionalismo, quando assemblee qualificate ‘costituenti’
leggono il sostrato valoriale di una comunità democratica e, con
un’attività prevalentemente cognitiva (meglio: inventiva!), individuano
valori giuridici, generanti principii giuridici, basamenti – a loro volta – di
diritti e doveri dei cittadini. Per esempio, i nostri Patres, nel 1946-47,
questo fecero dando vita a un breviario giuridico prezioso per la
quotidiana esistenza di ciascuno145.
Riprendiamo l’espressione usata poco sopra e che a qualcuno sarà
sembrata pesantemente enfatica: ‘evento rivoluzionario’. Sì,
rivoluzionario perché da quel 1° gennaio 1948 la dimensione
costituzionale della Repubblica offriva a ogni giurista strumenti ordinativi
nuovi ma anche adeguati ai tempi, nonché una formidabile bussola
orientativa. Sottolineo il sintagma ‘dimensione costituzionale’
comprensivo non soltanto dei 139 articoli varati dai Patres dopo il loro
fecondo lavoro collegiale, ma altresì di quella ‘costituzione materiale’
formata dal sostrato valoriale ancora inespresso ma vivo e vivace alle radici
del popolo italiano, realtà durevole perché valoriale, ma non immobile e
perciò bisognosa di essere continuamente interpretata per realizzare una
disciplina in coerenza con la società in perenne marcia146.
Quel che importa puntualizzare è che la Costituzione si intride del
messaggio salvante propugnato dalla riflessione istituzionalistica della
prima metà del Novecento147 e, in Italia, soprattutto da Santi Romano,
facèndone la nervatura fondante di tutta la Carta e improntando la
nascente Repubblica di un tessuto giuridico spiccatamente pluralistico:
pluralità di ordinamenti giuridici primarii prosperanti nel suo seno,
pluralità di fonti dell’ordine giuridico repubblicano. La Carta nostra parla
chiaro in due precise direzioni, che si ìntegrano perfettamente all’interno
della Repubblica: afferma la centralità dello Stato, di uno Stato legislatore,
che si propone con le sue leggi in un ruolo fortemente garantistico per il
cittadino, suprema garanzia esso stesso della piena armonizzazione fra le
libertà dei singoli individui; afferma una visione ampia della dimensione
giuridica, non consegnata – nella sua produzione – alla potestà esclusiva
dello Stato.
Che i principii fondanti del vecchio Rechtsstaat – separazione dei poteri e
stretta legalità – debbano essere rivisti e anche ridimensionati dopo il 1°
gennaio 1948 lo dimostra, accanto alla impostazione generale dei
‘principii’ e della ‘prima parte’, la presenza espressa di un supremo
giudice, la Corte costituzionale, titolare di poteri incisivi sulla produzione
legislativa dello Stato e delle Regioni, ma anche produttrice autonoma di
diritto, senza contare quel potere interpretativo delle vicende del sostrato
valoriale della Repubblica che la Corte si è sempre assunta nei suoi
sessantatré anni di attività, incrementando il sussidio garantistico del
cittadino con la individuazione di nuovi diritti fondamentali. So
benissimo che l’inserimento della Corte suscitò discussioni fra le più
accese nello svolgimento dei lavori della Costituente, ma le assumo come
segno non edificante del persistere (ancora nel secondo dopoguerra), tra
parecchi politici e giuristi dell’Assemblea, di una visione ancorata a una
dogmatica settecentesca ritenuta inattaccabile perché ritenuta una acme
insuperabile del progresso giuridico.
6. La veste imbutiforme di questa lezione introduttiva può ora restringersi
pianamente a una riflessione sul tema del nostro odierno incontro: ‘Il
diritto giurisprudenziale’; tema che mette a fuoco quella che appare come
una tendenza inarrestabile che percorre il diritto italiano pressoché in
ogni zona dell’ordinamento, cioè lo spostamento progressivo dell’asse
portante dell’ordine giuridico dai produttori di leggi agli interpreti
connotando sempre più il diritto italiano come ‘giurisprudenziale’148.
Dopo quanto ho tentato di premettere nella prima parte della lezione, mi
sento di fare una raccomandazione a me stesso e a tutti i giuristi operanti
nel pianeta di civil law: di valutare quella tendenza alla luce del profondo
rinnovamento del diritto italiano dopo il 1948. Non si tratta di una
novazione che viene perniciosamente a turbare l’armonia semplice dello
Stato di diritto e del suo legalismo, bensì della conseguenza del crollo di
un credo mitologico e di un profondamente innovativo assestamento del
diritto pos-moderno in Italia.
Si ha, innanzi tutto, il dovere di registrare l’assetto pluralistico delle fonti
del diritto attuato dalla Costituzione repubblicana; sia chiaro che si attua
la Costituzione liberàndosi da un ‘legalismo a ogni costo’ appartenente
ormai al passato e attuando, invece, un liberante pluralismo giuridico. Il
‘diritto giurisprudenziale’ è oggi, accanto all’opera legislativa dello Stato e
delle Regioni, una sorta di pròvvida valvola che permette un più congruo
respiro al diritto positivo italiano. È il respiro che, da sessantatré anni,
effettua in modo assai profittevole il supremo organismo giudiziale della
Corte costituzionale, avvalorato e ampliato da quel cànone interpretativo
intuito e definito dalla stessa Corte a cominciare dagli anni Novanta del
secolo scorso e che siamo soliti chiamare ‘interpretazione conforme a
Costituzione’, un cànone che espande il giudizio di costituzionalità
coinvolgendo in esso il giudice ordinario149.
Ripeto: valga – in primo luogo – la certezza che il pluralismo giuridico
è in perfetta coerenza con il nostro impianto costituzionale. A questa
considerazione – che si scrive qui con inchiostro forte per i troppi
laudatores temporis acti ancora pervicacemente incombenti – si deve anche
aggiungere l’invito a dare uno sguardo al momento di transizione e di
‘crisi’ che stiamo tuttora vivendo, quando è tangibile l’incapacità del
legislatore a ordinare tutto il tessuto dell’esperienza ed è visibilissima
quella tendenza che, più sopra, abbiamo menzionato qualificàndola come
inarrestabile.
‘Giurisprudenziale’ significa sostanzialmente un diritto elaborato da
coloro che sanno di diritto, dai giuristi, che posseggono il tesoro di
tecniche collaudate da esperienze almeno bimillenarie. Nel corso della
nostra storia occidentale, la giurisprudenzialità ha assunto caratterizzazioni
diverse, essenzialmente sapienziale, dottrinale, nello ius commune
medievale e pos-medievale150, essenzialmente giudiziale nel common law di
Oltremanica. Oggi, da noi, si erge a protagonista il giudice, coinvolto
com’è sulla trincea dell’esperienza quotidiana e ben spesso chiamato a
colmare i vuoti creati inevitabilmente dalla assenza di interventi
legislativi.
Non si parli, però, come da taluno si fa stracciàndosi le vesti, di
creazionismo dei giudici (e, più generalmente, dei giuristi teorici e pratici),
di giuristi che, creando ex nihilo, rompono in tal modo l’unità
dell’ordinamento dando vita – se non al caos – almeno a una corrosiva
incertezza. Oggi che abbiamo ben percepito il vincolo simbiotico fra
diritto e valori radicali di una comunità, oggi che abbiamo provvidamente
riscoperto il diritto come invenzione, se v’è qualcosa che dobbiamo temere
è quella gerarchia delle fonti in cui abbiamo tanto creduto e che
avvertiamo ormai come un ingabbiamento soffocante; è il mantenimento
di un legalismo ‘ad ogni costo’, che è causa dell’inaridimento che troppe
volte contempliamo sgomenti nel distacco fra produzione legislativa e
movimento/mutamento incessante (e oggi rapidissimo) della vita sociale
economica culturale; legalismo che deve cogliersi per quel che è, un
vulnus alla nervatura portante della Costituzione nella complessità del suo
messaggio, espresso e inespresso, formale e materiale, percorso da una
dinamica espansiva e intensamente teso anche ben oltre il presente.
Conclusivamente: oggi, grazie alla attuale consapevolezza della intima
storicità della dimensione giuridica, il ‘diritto giurisprudenziale’ deve
essere còlto quale insostituibile presenza nell’odierno cammino oltre la
legalità, come ho avuto occasione di dire in una recente lezione alla
Università Roma Tre151.

135
La manifestazione più sonora fu in occasione del discorso inaugurale per l’anno
accademico 2010-11 tenuto nella Università di Ferrara il 22 novembre 2010: Novecento
giuridico: un secolo pos-moderno, ora in Introduzione al Novecento giuridico, Laterza, Roma-Bari
2012.
136
Questo itinerario è seguìto distesamente nel discorso citato alla nota precedente.
137
Cancellando autoritariamente, d’un solo colpo, nel 1791, tutte le formazioni sociali.
138
Questa apòstrofe si spiega, essendo il testo una lezione tenuta a Pisa nell’Aula Magna
Storica dell’Ateneo.
139
È il notissimo discorso inaugurale per l’anno accademico 1909-10 nella Università di
Pisa, tenuto il 4 novembre 1909 e intitolato Lo Stato moderno e la sua crisi.
140
Su questa folta legislazione di carattere eccezionale mi sono diffuso in altra occasione:
Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, Giuffrè, Milano 2000, pp. 130 sgg.
141
Tema sviluppato nei saggi raccolti in L’invenzione del diritto, Laterza, Bari-Roma 2017.
142
Sul diritto come ‘ordinamento osservato’ da una comunità mi permetto di rinviare alle
precisazioni da me offerte in Prima lezione di diritto, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 19 sgg.
143
Su questo sintagma, programma ed emblema della serrata giacobina della rivoluzione
francese e, poi, del dispotismo del codificatore Napoleone, chi volesse saperne di più
potrebbe consultare un mio risalente volume: Assolutismo giuridico e diritto privato, Giuffrè,
Milano 1998.
144
Insisto per una netta distinzione fra un primo costituzionalismo, quello delle ‘carte dei
diritti’, proprio dell’età borghese, e le Costituzioni del Novecento democratico, che
vogliono essere dei breviarii giuridici per l’esistenza quotidiana di ogni cittadino e anche del
socialmente ultimo, in alcune mie recenti lezioni napoletane: Costituzionalismi tra ‘moderno’ e
‘pos-moderno’. Tre lezioni suor-orsoliane, Editoriale Scientifica, Napoli 2019.
145
È il tema di una mia lezione maceratese: La Costituzione italiana quale espressione di un
tempo giuridico pos-moderno (2013), ora in L’invenzione del diritto, cit.
146
Si impone qui una precisazione sul sintagma da noi usato ‘costituzione materiale’,
sintagma coniato negli anni Quaranta del secolo scorso da Costantino Mortati intendèndolo
nella ristretta accezione di forze politiche dominanti. Qui si fa riferimento a forze, più che
politiche, etiche sociali culturali, che, per essere condivise, si trasformano in valori di una
intiera comunità, valori fondativi di principii e, quindi, di diritti fondamentali per ogni
componente di essa.
147
Per la loro diretta influenza, sono da ricordare almeno i francesi Maurice Hauriou e
Georges Renard.
148
La necessità di una disciplina legislativa si impone per quei settori dell’ordine giuridico
dove sono in gioco problemi di sicurezza pubblica, per esempio nel campo del ‘penale’;
anche se da qualche autorevole esponente della riflessione penalistica italiana si ha una decisa
problematizzazione di quello che fino a ieri era un principio indiscutibile.
149
È un canone individuato già in una sentenza della Corte costituzionale, la 443 (12-23
dicembre 1994), relatore Renato Granata.
150
Dove protagonisti sono i grandi maestri delle Università diffuse in tutta Europa,
costruttori, sulla base del diritto romano e del diritto canonico, di una rete giuridica
sovrastante la minuta frammentazione politica e costituente un autentico diritto comune
europeo.
151
Lezione che costituisce il primo dei saggi contenuti in questo volume.

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