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Paolo Grossi
Oltre la legalità
Editori Laterza
© 2020, Gius. Laterza & Figli
Premessa
I.
Oltre la legalità
II.
Sul diritto europeo
come diritto giurisprudenziale
III.
Dalle ‘clausole’ ai ‘principii’:
a proposito della interpretazione
nel tempo pos-moderno
IV.
Storicità versus prevedibilità:
sui caratteri di un diritto pos-moderno
V.
A proposito
de ‘Il diritto giurisprudenziale’
Agli allievi di sempre, con i quali sempre ho colloquiato assiduamente, dai quali sempre ho tratto ricchezza
spirituale
Ho fatto come quei medici che, in ogni organo estinto, cercano di sorprendere le leggi della vita
Alexis de Tocqueville, L’antico regime e la rivoluzione
Premessa
Dopo tante riflessioni sul problema delle fonti del diritto, che è nodale –
oggi – in una esperienza appartenente al pianeta di civil law; dopo avere
tante volte accennato – in modo particolare, negli anni della mia presenza
nella Corte costituzionale – agli espedienti tutti moderni della loro
scansione gerarchica, della ipervalutazione del potere legislativo, del
mantello mitico con cui si è voluto avvolgere la legge; giunto – come
sono – all’età in cui si redigono bilanci e si traggono delle conclusioni, ho
ritenuto di non potermi esimere da una compiuta osservazione –
serenamente critica – su alcuni pilastri portanti del vecchio ‘Stato di
diritto’, ponendo in stretta comparazione le nostre attuali condizioni e le
nostre reali esigenze rispetto a un passato che pretende di imporci
dogmaticamente le sue soluzioni, soluzioni che, passivamente (per
pigrizia culturale o per convinzioni ideologicamente fondate), la
maggioranza odierna dei giuristi italiani fa tranquillamente sue.
Come storico del diritto, mi sento di essere tra i pochi (con, accanto, il
comparatista, e il filosofo del diritto quando smette di acchiappar nuvole e
fa il suo mestiere) che sono in grado di scompigliare fecondamente una
assuefazione collettiva adagiata su delle pretese degnità ormai ridotte a dei
veri luoghi comuni. Questo è espresso a inchiostro forte nel titolo che
sovrasta l’intiero libro, consegnatario di una carica che taluno riterrà
provocatoria se non demolitrice, ma che io ho inteso unicamente
stimolatrice, come si dirà nel corso delle prossime pagine.
Il titolo intende sottolineare un problema che oggi si impone alla scienza
giuridica italiana, e intende soprattutto sottolineare che i cinque saggi che
compongono il volume sono sorretti da esigenze culturali assolutamente
unitarie e perseguono uno stesso fine (che vorrei chiamare) di
affrancazione culturale per l’odierno giurista.
Il primo, quale riflessione maturata nell’estate/autunno del 2019,
raccoglie e fonde parecchie riflessioni precedenti e dà l’avvìo in grazia di
questa sua compiutezza; compiutezza che gli consente una generale
visione critica con alcune proposte finali1. Gli altri quattro saggi, i primi
tre dei quali definiti in precedenza2, si aggiungono perché
approfondiscono aspetti particolari e sono, quindi, in grado di offrire delle
proficue integrazioni alla sintesi contenuta nel saggio primo e principale.
Ho, in esergo, tenuto a riprodurre anche qui una penetrantissima
considerazione (da me già altre volte menzionata) di Alexis de
Tocqueville, un personaggio che continua ad offrire preziosi spunti
riflessivi anche al giurista3. In essa il grande pensatore francese, in
premessa a una sua indagine sull’evento rivoluzionario di fine Settecento
nei suoi rapporti con l’antico regime, afferma il proprio canone
metodologico: lungi dal mettersi a contare i granelli di polvere depositati
dal tempo sugli scaffali della storia, vuole instaurare un dialogo
arricchente tra passato e presente. In un siffatto dialogo si innervano
anche le presenti pagine, che vengono a costituire di per sé, proprio per
l’identica scelta metodologica, un contributo a recuperare le tipicità
dell’ieri e dell’oggi; anzi, a esaltare le rispettive tipicità nei loro specifici
messaggi.
Questa pubblicazione appartiene alle mie ‘ultime’ soste di
raccoglimento, frutto cioè di questo ultimo frammento di vita, che
raccoglie e ulteriormente dispiega tutto un lungo itinerario. È dedicata ai
miei allievi di sempre, con un sentimento di sincera gratitudine: la
costante e intensa familiarità con essi ha dato al mio sguardo una
giovinezza che il trascorrere del tempo non è riuscito ad attenuare.
Citille in Chianti, Ognissanti del 2019
1
È doveroso segnare qui un duplice caloroso ringraziamento: ai docenti del «Collegio del
dottorato di ricerca in discipline giuridiche» dell’Ateneo Roma Tre, che mi hanno invitato a
tenere la prima lezione di un ciclo intitolato Sulla legalità; ai docenti del «Dottorato in
scienze giuridiche – Curriculum in Teoria dei diritti fondamentali, Giustizia costituzionale,
Comparazione giuridica» dell’Ateneo di Pisa, che hanno organizzato una giornata di studio
in ricordo di Alessandro Pizzorusso su Il diritto giurisprudenziale, invitàndomi a tenere la
«Introduzione ai lavori». La preparazione congiunta dei due interventi, temporalmente
distanziati assai poco l’uno dall’altro, dedicati a temi fra di loro strettamente connessi, mi ha
fornito l’occasione preziosa per consolidare riflessioni finora sparse e disorganiche.
2
Il primo di essi, con il titolo Die Botscha des europäischen Rechts und ihre Vitalität: gestern,
heute, morgen, fu pubblicato in «Rechtsgeschichte. Legal History», 22, 2014; il secondo, con
il titolo Dalle ‘clausole’ ai ‘principii’: a proposito dell’interpretazione come invenzione, in «Giustizia
civile», 1, 2017; il terzo, con lo stesso titolo che serba in questo volume, in «Rivista
internazionale di filosofia del diritto», aprile-giugno 2018; il quarto è inedito.
3
A. de Tocqueville, L’antico regime e la rivoluzione, a cura di G. Candeloro, Rizzoli, Milano
1989, p. 32.
I.
Oltre la legalità
1. Credo che sia giunta l’ora di una indispensabile revisione dei due pilastri
che la cultura politico-giuridica del Settecento ha, nell’Occidente
continentale europeo, offerto allo Stato ottocentesco, troppo
ottimisticamente chiamato ‘Stato di diritto’ (Rechtsstaat)4: la separazione
dei poteri e il principio di legalità. Ed è proprio in questa orientazione
che va interpretato il titolo che l’autore ha voluto, Oltre la legalità, titolo
probabilmente per molti provocatorio e per taluni addirittura oltraggioso
di certezze radicate nel sacrario di una dimensione etica. Certamente, c’è
in esso il rifiuto fermo di ogni sentiero che possa condurre verso la deriva
della ‘illegalità’, ma, al tempo stesso, vuole esser chiaro in esso il segno di
una schietta insofferenza per come, hic et nunc, noi – generalmente – si
riafferma il principio della separazione dei poteri quale dogma intangibile
e, quindi, indiscutibile, e ci si sta comportando con la legalità
attualizzando fino al giorno d’oggi, senza alcuna variazione, un fossile
settecentesco, quasi che fosse un carbone capace di dare attualmente lo
stesso calore, malgrado il gran tempo trascorso, malgrado gli enormi
eventi che la vicenda storica ha dovuto registrare in un paese di civil law
come l’Italia, malgrado le decisive novazioni nel nostro approccio con il
diritto.
I due pilastri, nella loro genesi settecentesca, avevano delle fondazioni
così salde da risultare incontestabili. Frutto di scienziati e politici
‘illuminati’, si proponevano come delle verità sottoposte non a discussione
o problematizzazione, bensì a una prona credenza. Si origina qui quella
mitizzazione5 che si trascina stancamente fino ad oggi, ma che è senza
dubbio accolta con fervore dalla pigrizia intellettuale di parecchi odierni
giuristi beatamente immersi nelle appaganti certezze (o ritenute tali, o
presunte tali) del pianeta giuridico di civil law. Conviene cominciare col
porre attenzione alla rigida e irrigidente impronta settecentesca.
Con la separazione dei poteri si volle creare arginamenti ai poteri del
Principe moderno, che pretendeva di assommare in sé legiferazione
governo giurisdizione. In un secolo che viveva la caoticità delle estreme
ramificazioni del pluralismo giuridico medievale6 e, nello stesso tempo,
un acceso ottimismo riguardo alle capacità regolative del Principe,
l’indirizzo separatorio offriva garanzie formali al cittadino ma si
concretizzava altresì in una consistente strategia: sottraeva a giudici e
sapienti ogni coinvolgimento nel processo produttivo del diritto,
consegnàndolo interamente alla volontà del titolare del supremo potere
politico.
A sua volta, il principio di legalità rappresentava una integrazione
necessaria al fine di compiere quello che è veridico chiamare un autentico
‘assolutismo giuridico’. Infatti, la invenzione del diritto7 era sottratta al
particolarismo consuetudinario strettamente connesso alla
frammentatissima empiria dei fatti e, ugualmente, a giudici notai sapienti,
che sempre di più avevano assunto il ruolo di leggere interpretare definire
tecnicamente il complesso e variegato materiale consuetudinario. Ormai,
il nuovo diritto – specchio dell’età dei Lumi – doveva disdegnare una
genesi dal basso: non più di invenzione doveva trattarsi8, ma di regole
generali e astratte, progettate da una volontà suprema e tali da evitare il
condizionamento da parte dei fatti; pertanto, sì generali e astratte ma
anche rigide. E la inflessibilità del nuovo diritto si contrapponeva alla
elasticità del vecchio ius commune9. Un solco profondo si veniva a creare
fra diritto e società. Assai pernicioso perché causa di un marcato
inaridimento.
È apprezzabile franchezza ammetterlo: molti, tra noi giuristi, sono
ancora i proseliti del verbo illuministico, destinatarii e, in certo modo,
anche vittime del messaggio forte dell’Illuminismo settecentesco. Un
messaggio in cui spiccava la rivalutazione (consistente in una
ipervalutazione) del titolare del potere politico, cui veniva convintamente
affidato il ruolo della produzione di tutto il diritto10.
Non dimentichiamo che, fino al secolo XVIII (come si accennava
all’inizio), quel ruolo era nelle mani dei giuristi – cioè di coloro che
sapevano di diritto e che, in quanto tali, potevano offrire garanzie di
competenza tecnica e di una conseguente imparzialità –, particolarmente
dei grandi dottrinarii maestri nelle università disseminate in tutto il
continente, ma anche di giudici notai avvocati. Tutto era nato in quel
secolo XII11 in cui l’esperienza medievale ci propone un paesaggio socio-
politico-giuridico di un diritto senza Stato, senza organismi politici
totalizzanti e omnicomprensivi12, paesaggio che si trascina poi per inerzia
anche durante i primi secoli della modernità, quando – a cominciare dal
Regno di Francia – gli Stati emergono in modo sempre più vigoroso
affermando, in sempre maggiore progressione, un proprio protagonismo,
ossia facendosi sempre più legislatori, facitori del diritto.
Nel secolo dei Lumi, al termine di un itinerario plurisecolare, si era
arrivati alla situazione paradossale di un diritto comune (quello dei
giuristi) diventato un cùmulo enorme di opinioni, sentenze, pratiche
consuetudinarie, incertissimo perché caotico, in presenza di Stati assoluti
dove il Principe era in grado di sostituirsi (e tendeva a farlo) con alcuni
immediati risultati da raggiungere modellando l’ordine giuridico dall’alto
del potere supremo: una sicura unitarietà e, quindi, una sicura coerenza;
la sua facile riduzione a sistema con le apprezzabili qualità della chiarezza
e della certezza; la sua perfetta controllabilità perché ormai inglobato
nell’orbita del potere politico.
Nasce qui, in questo fertile Settecento, l’icona del Principe come
modello di uomo, immune dalle passioni umane di cui sono facili prede il
sapiente e il giudice13, e, quindi, come modello di una imparzialità
conseguente alla sua assoluta superiorità, capace – ripetiàmolo pure,
perché si tratta di una convinzione fondativa – di produrre un diritto che,
provenendo dalla volontà di un solo soggetto, non potrà che essere
saldamente compatto. Avrebbe in ciò riflesso la compattezza della
struttura politica, un bene da salvarsi ad ogni costo con il rifiuto più netto
all’interno dello Stato di ogni rischiosissima articolazione comunitaria14;
resta, in basso, alla società il non-ruolo di piattaforma meramente passiva.
Nasce qui quella sfiducia nella dottrina e nel ceto giudiziario – di cui è
testimone in Italia, a metà Settecento, il libello virulento ma efficace di
Muratori contro i ‘difetti della giurisprudenza’15 – che è calata e riposa
ancora nel nostro animo (e, forse, più nel nostro cuore) di giuristi odierni
in un paese di civil law, rendendo alterata e viziata la nostra valutazione di
viventi e operanti in un frangente storico tanto diverso (e, ohimè, perciò
tanto bisognevole di non avere dei paraocchi prefabbricati trecento anni fa
e totalmente inadatti).
Ovviamente, i ‘Lumi’, con la ipervalutazione del Principe, furono
portatori della ipervalutazione della legge e del principio di legalità come
totale conformità a quella; principio che, così immedesimato, non
dovrebbe poter restare ancora tra le convinzioni più ferme di tanti giuristi
e sul quale ormai è stato deposto un fardello di luoghi comuni, dei quali è
sperabile che ci si sbarazzi quanto prima per costruire qualcosa di
veramente nuovo, invece di ribiascicare decrepiti e inutili ritornelli. A ciò
vorrebbe, pur nella sua modestia, contribuire questa lezione.
2. Quella illuministica fu, nella storia del diritto continentale europeo,
una rivoluzione di grande rilievo, anche perché, pienamente confermata
dai giacobini francesi, si trasformò nel programma giuridico del nuovo
Stato moderno nelle sue varie epifanie. Si trattava di un formidabile
riduzionismo, formidabile perché, consegnando il diritto nelle mani di un
solo soggetto, lo rendeva straordinariamente compatto, certo ed efficiente.
Il risultato più vistoso fu in Francia (e, poi, dappertutto) la codificazione
del diritto attuata dal despota Napoleone, ma che è ben segnata tra i primi
auspicii della stessa Rivoluzione16. Si progettano le linee di una fonte
novissima, il Codice, nuova per i contenuti che si vogliono dare a questo
arcivecchio vocabolo17: la riduzione, pensata e attuata in alto, di una intiera
branca dell’ordine giuridico in una dettagliatissima quantità di
disposizioni composte in un armonico sistema.
Ciò a cominciare da quel ‘diritto civile’ concernente le relazioni private
fra soggetti privati, lasciato intatto dai legislatori dell’antico regime18 e
affrontato decisamente dal legislatore napoleonico, espressione di quel
potere borghese che esige la protezione massima per le proprietà
individuali, per la loro libera circolazione, per la loro trasmissione mortis
causa. Il diritto civile è – inevitabilmente – il primo ad essere codificato e,
malgrado che costituisca la disciplina dei quotidiani fatti di vita del
cittadino, è voluto e redatto quale disciplina meta-temporale, immessa in
categorie astratte immuni dalla fangosità dei fatti e destinate a durare (se
non per l’eternità) almeno per un futuro indefinito. Ora, 1804, lo si può
fare, perché ormai la Francia pos-rivoluzionaria è uno Stato unitario e
centralizzato assolutamente distante, come puntualizza efficacemente
Portalis nel suo celebre discorso inaugurale, da quella ‘société de sociétés’
in cui si incarnava la vecchia monarchia borbonica19.
Il riduzionismo, a livello di una rinnovata sistemazione delle fonti, si
traduce in una ferrea gerarchizzazione20, che riduce a una mera parvenza il
mantenimento formale di una pluralità. Infatti, solo la fonte situata sul
sommo gradino gerarchico, la legge, rappresenta una volontà
indipendente e incondizionata chiamata a condizionare tutte le altre fonti
dei gradini inferiori ridotte a una semplice ancillarità. È una verità, questa,
che non è discutibile e che, purtroppo, dopo la Costituzione troviamo
dommaticamente affermata nelle Preleggi al Codice Civile del 1942,
ultima reliquia durevole nell’ordinamento italiano – anche se oggi
soltanto formale – di un regime autoritario.
Un solo ordinamento può qualificarsi come giuridico, ed è lo Stato,
titolare del supremo potere politico; ed è la volontà dello Stato – la legge
– che è norma per eccellenza. Il diritto si identifica in un creativo atto di
volontà21, in un comando che deve essere obbedito. In questa visione
rigorosamente monistica non può che imporsi il principio di legalità, inteso
nel senso più costrittivo (e al di là dello specifico riferimento ai rapporti
tra politica e amministrazione), l’unico senso che gli si può dare in un
universo giuridico che tiene a identificarsi nella legge. Una legge – si badi
– che non è la lex di cui parla san Tommaso quasi novecento anni prima,
una ordinatio rationis22, un ordinamento della ragione, un atto cognitivo,
una lettura dell’assetto sociale che rinviene nella suprema autorità politica
soltanto l’organo affidatario della solenne proclamazione23; piuttosto, una
legge che è il comando strettamente collegato ad una situazione di potere,
proiettato dall’alto verso il basso della società con la pretesa ineludibile
dell’obbedienza.
3. Questa premessa storico-giuridica è necessaria per puntualizzare che
una siffatta ‘legalità’ esprime il momento della modernità giuridica,
momento riduzionistico per il diritto, momento di acme del monopolio
giuridico da parte dello Stato. Ed è in grazia di questa premessa che
diventa legittima una pressante domanda: possiamo noi, oggi, accettare
una siffatta concezione di legalità dopo che abbiamo vissuto in Italia, alla
metà del secolo scorso, una rivoluzione non meno rilevante di quella
effettuata tre secoli prima dalle innovazioni illuministico-giacobine e di
segno assolutamente diverso se non opposto?
È
È chiaro che non lo possiamo per il semplicissimo motivo che questa
nuova rivoluzione investe in pieno la sistemazione illuministica delle fonti
e la sconvolge a fundamentis. Il che avviene nel secolo nuovo, il
Novecento, secolo pos-moderno che tenderà a distanziarsi sempre più
dall’assetto settecentesco della modernità giuridica. Questo fa spicco sul
piano del costituzionalismo, che solo in apparenza sembra distendersi in
continuità dalla Déclaration del 1789 alla Carta nostra del 1948, ma che, al
contrario, ha una vicenda segnata da una forte discontinuità, rendendo il
costituzionalismo novecentesco la testimonianza più vivace di un nuovo
cammino pos-moderno.
Infatti, la Costituzione italiana entrata in vigore nel 1948 – ché di essa
per noi soprattutto si tratta – non è l’ultima delle ‘carte dei diritti’
disseminate in buona parte del mondo dalla fine del Settecento in poi,
ponèndosi rispetto ad esse in rapporto di palese discontinuità24. Le ‘carte’
– quelle nordamericane e francesi, per citare gli esempii più illustri e più
noti – si risolvevano in dichiarazioni, senza dubbio di grande portata storica
ma dichiarazioni; disegnavano cioè un nobile programma affrancatorio e
disegnavano per il legislatore le linee di una filosofia politica, che lui era
chiamato ad attuare per fornire al cittadino adeguati strumenti di
garanzia. Galleggiavano, però, al di sopra delle fonti di diritto
caratterizzàndosi per la loro astrattezza. Il loro messaggio più innovativo e
anche il più nobile, la égalité, ha, infatti, il suo fondamento in un
originario stato di natura, dove una benevola divinità ha voluto gli
uomini tutti uguali. Il suadente paesaggio si risolve, purtroppo, in
qualcosa di meramente potenziale, giacché lo stato di natura è realtà
meta-storica, più favola che storia, senza alcun riscontro esperienziale25,
senza che si abbia il coraggio di scendere a quel basso livello dei fatti dove
il divenire storico si svolge e dove si distende l’esistenza quotidiana
dell’uomo comune.
Non si deve mai dimenticare che la civiltà giuridica moderna,
affermàtasi in Europa con la rivoluzione francese, è contrassegnata dagli
interessi e dai programmi del vittorioso ceto borghese; un ceto che
identifica la possibilità di conservare quella posizione vincente solo
facendo leva su una affermazione di principii astratti e sulla convinzione
che astratti debbono restare, disdegnando il rischioso misurarsi con la
fattualità. L’uguaglianza deve restare formale, né lo Stato borghese farà
nulla per renderla sostanziale: l’essenziale è che il povero non abbia
impedimenti giuridici a divenire ricco, che abbia la libertà di divenire
ricco, rimanendo irrilevante se le situazioni di fatto o la incapacità del
non-abbiente lo hanno impedito. A meno che non si voglia cedere ad
atteggiamenti apologetici, si deve ammettere che siamo di fronte a una
‘democrazia’ incompiuta, e, se qualcuno serbasse dei dubbii, basterebbe
far mente locale alla lunga vicenda parlamentare del Regno unitario
d’Italia sulla estensione del suffragio; ancora nel 1882, in Parlamento,
dopo una accanita discussione, la si respinge a larga maggioranza, e si
dovrà attendere fino al 1913.
Occorre, infatti, il secolo nuovo, il Novecento, per avere da noi una
democrazia veramente plurale, nella quale l’avere ha finalmente perduto il
suo carattere di salvacondotto politico26. La prima guerra mondiale manda
in soffitta, in più di un’occasione, il culto borghese dell’astrattezza,
incrina le certezze su cui si era costruito l’ordine giuridico moderno,
inaugurando un ordine nuovo edificato su nuove fondazioni27: dopo la
ventennale esperienza della dittatura fascista e dopo la tragedia della
seconda guerra mondiale, la prima, essenziale e determinante, è la
Costituzione, che non è la legge suprema di uno Stato per il cui varo è
bastevole una maggioranza in Parlamento; che è, invece, il complesso dei
principii giuridici letti e registrati entro il sostrato valoriale della società
italiana da una Assemblea Costituente quale espressione della intiera
comunità popolare. Qui, intenso e determinante, emerge il discrimine
che separa nettamente il vecchio Stato borghese (cosiddetto di diritto)
dalla novissima Repubblica costituzionale: questa si fonda direttamente
sulla società, traendo dalla lettura dei valori radicali il proprio basamento
giuridico e istituzionale. È, dunque, la società che qui produce diritto,
mentre è allo Stato di produrre le sue leggi.
Può apparire – questa conclusione – un brillante ma vacuo esercizio
retorico; è – al contrario – gravida di conseguenze, sia sul piano della
costruzione teorica, sia su quello dell’esperienza concreta. Sì, perché la
Costituzione, riflettendo la società, non può non riflettere il pluralismo
che ad essa è intrinseco. Se lo Stato, nel suo essere anche e soprattutto
potere, è intrinsecamente monista nella sua compattezza, la società
esprime un ordine culturale sociale economico che è convivenza di
diversità. Al livello che interessa noi, quello del diritto, se lo Stato si
traduce in un solo ordinamento giuridico, la società è – al contrario e
necessariamente – articolata in una pluralità ordinamentale, all’interno
della quale non può non spiccare per la sua prevalenza l’ordinamento
statuale; che, tuttavia, non ha il monopolio della giuridicità, che era stato
il frutto di quel riduzionista assolutismo giuridico dominante nella
modernità anche all’interno delle cosiddette democrazie parlamentari.
Col che si può arrivare spediti alla conclusione che l’attuale monismo
giuridico, così caro al cuore (!) di tanti giuristi di oggi (2019!), è un
espediente dell’edificio politico borghese, ma è un artificio che va a
sacrificare la naturale espansione del diritto, espansione che trova rispetto
e tutela soltanto nella civiltà costituzionale del tempo pos-moderno, nella
civiltà che genera nel 1919 il primo esperimento rigorosamente
costituzionale, quello di Weimar, e il nostro del 1948. Con essi siamo di
fronte ai primi esperimenti politici autenticamente democratici perché
autenticamente plurali28, e autenticamente plurali perché ciascuno può
sentirsi presente e coinvolto in queste Costituzioni novatrici, senza alcuna
esclusione, tanto meno se motivata sulla condizione economica del
soggetto. Queste parlano di lui e per lui, fornèndogli un prezioso
breviario giuridico per la sua esistenza quotidiana.
La giuridicità non è il frutto esclusivo del laboratorio statuale. Come
ammoniva più di cinquanta anni fa, in un saggio preveggente, l’ingegno
aguzzo di Nicola Matteucci, «per ripensare in modo adeguato ai problemi
che, oggi, deve affrontare la nostra democrazia costituzionale» si deve in
primo luogo effettuare la rinuncia «al dogma positivistico secondo cui lo
Stato è la fonte di tutto il diritto»29. Infatti, la giuridicità è ormai
individuata e scoperta nel grembo più riposto della società, che ha nel
diritto la originaria immancabile nervatura del proprio ordine30. Grazie al
costituzionalismo pos-moderno si ha un poderoso recupero per il
diritto31, che riscopre la sua indole sociale, la sua natura essenziale di
essere innanzi tutto ordinamento (anche se nell’esperienza d’ogni giorno ci
appare ammantato nella veste stringente e autoritaria del comando). Si
deve ribadire qui la mutazione profonda che è connessa a questa novità
lessicale, non innocua, anzi, sostanziosissima, perché essa sposta
inevitabilmente verso il basso della società il perno dell’universo
giuridico. Infatti, se essenza del diritto è ordinare il magma sociale, lo può
fare solo a condizione che tenga conto di valori, interessi, bisogni
circolanti in quel magma. La nuova visione del diritto come ordinamento
non produce, dunque, delle mere variazioni ma addirittura un
capovolgimento rispetto alle concezioni normativistiche tradizionali entro
un pianeta di civil law.
È la feconda lezione di quel giurista squisitamente pos-moderno che fu
Santi Romano, e che fu tale perché volle senza inibizioni osservare la
transizione che si andava lentamente svolgendo fuori dalle finestre del suo
studio. La crisi dello Stato moderno esaminata senza troppi rammarichi
nel 190932 (ma con presentimenti precedenti33) e la sistemazione teorica –
di superba teoria generale – dell’intiero ordine giuridico nel 191834 sono,
per così dire, il manifesto di una civiltà giuridica che cerca nuove basi al di
là degli artificii messi in opera dalla occhiuta ideologia borghese. La
riflessione del ’18 è la risposta teoretica alla diagnosi storica del 1909,
quella in rapporto di stretta connessione consequenziale con questa, l’una
e l’altra segnali di un giurista che, soffrendo sulla propria pelle l’aridità di
artificii mitologizzanti, guarda finalmente in basso e, spassionatamente,
senza prevenzioni ideologiche, quasi sbarazzàndosi di un ingombro
coartante la propria libertà di ricercatore, registra la complessa dinamica
che in basso si scorge e che si va lentamente anche consolidando.
Da tutto questo si profila un nuovo protagonismo della società e,
soprattutto, della sua irriducibile complessità; una complessità che, pur con
le inevitabili patologie, è la sua naturale dimensione, il suo essere storia
vivente, e che può subire riduzioni solo al prezzo oneroso di infliggerle
violenza, di sacrificarla, di anchilosarla e anche di paralizzarla nella sua
forza dinamica. Se astrazioni e dogmatizzazioni sono congeniali al potere,
esse sono sofferte dal divenire sociale come innaturali inchiodamenti.
Infatti, la fondamentale e rivoluzionaria riscoperta del diritto pos-
moderno è proprio la sua socialità e, quindi, la sua storicità, ritrovate come
caratteri intrinseci al diritto.
Per restringere lo sguardo alla dimensione costituzionale, da tutto questo
si profila, come abbiamo accennato più sopra, una nuova fase del
costituzionalismo, che abbiamo chiamato pos-moderno per sottolineare la
decisa discontinuità con il costituzionalismo delle ‘carte dei diritti’. La
nuova Costituzione, infatti, non galleggia nella meta-storia dello stato di
natura; è essa stessa storia ed esprime un tempo storico, anche se di questo
identifica i valori, cioè i fermenti che tendono a durare e a caratterizzare
una comunità in cammino, ma che certamente non sono immobili.
4. Tiriamo alcune fila dalla necessaria premessa storica e dalla nostra
diagnosi di un tempo giuridico pos-moderno inaugurato circa cento anni
fa e che stiamo tuttora vivendo. Possiamo puntualmente farlo,
riprendendo qui le mie parole d’avvìo sui due pilastri del moderno Stato
di diritto: il principio della separazione dei poteri e il principio di legalità,
nella loro simbiotica congiunzione (l’uno congiunto funzionalmente
all’altro), vengono a costituire la serrata cerniera di chiusura di una
concezione/visione del diritto essenzialmente potestativa. Anche se c’è –
all’inizio – la legittimazione ‘democratica’ di libere elezioni, il legalismo
statalista non può non arrivare a consistere in un inscindibile vincolo fra
produzione del diritto e potere politico. Lo è ancor più oggi, quando
assistiamo all’imperversare sempre più massiccio dell’attività legislativa da
parte del potere esecutivo, tanto da rendere abbastanza formali quei «casi
straordinari di necessità e di urgenza» che nell’articolo 77 della Carta sono
segnati con inchiostro forte.
All’isolamento torreggiante del potere legislativo, grazie al principio di
legalità si accompagnava, ben oltre l’indubbio èsito garantistico, la
gigantizzazione di quel potere. Il principio di legalità era, infatti, sorretto
da una sola finalità: la creazione da parte dello Stato di un diritto legislativo
espressione della sua volontà, né letto né inventato altrove. Con un
ulteriore ed essenziale punto fermo: al di là di questo v’era solo il vasto
territorio della irrilevanza giuridica, una complessa realtà socio-
economica trasformabile in diritto unicamente mediante un atto di
volontà dello Stato, un novello re Mida, l’unico capace di mutare in oro
(ossia in leggi) l’incomposta fattualità pullulante nel basso della società. Il
principio di legalità realizzava perfettamente il più rigido monismo
giuridico e indicava chiaramente l’unico itinerario possibile per arrivare
alla creazione del diritto.
Ciò che si deve respingere è l’utilizzazione del principio di legalità allo
stesso modo di quando si adotta l’espediente retorico della sineddoche: ci
si riferisce a una parte per esprimere il tutto, ci si riferisce alla legge per
ricomprendervi tutta la complessità dell’ordine giuridico e per arrivare
sostanzialmente alla identificazione del tutto nella parte. Questo rifiuto
salvante si impone, giacché una conquista culturale del Novecento in
Italia è stata la riscoperta della complessità giuridica. Abbagliati dai
cristalli dei ‘Lumi’, o, se si vuole, abituati a guardare l’ordine giuridico
con le lenti deformanti dei nostri padri settecenteschi, per troppo tempo
non è stato messo a fuoco quel tutto – al di là delle leggi – che lenti
finalmente non deformanti hanno consentito all’osservatore novecentesco
di percepire nitidamente.
Il vocabolo/concetto ‘legalità’ sa di passato, di passato remoto; è un
fossile lontano, che rinvia a un momento in cui il diritto fu ridotto a un
solo produttore, lo Stato, e a una sola manifestazione/fonte, la legge. Ma è
anche innegabilmente equivoco, perché, recando palesemente in sé il
riferimento esclusivo alla legge, si presta a dare soccorso ai molti laudatores
temporis acti che rimpiangono il vecchio protagonismo dello Stato e della
sua legge e tengono – come lo struzzo di un noto aforisma – la testa sotto
la sabbia per non constatare l’evidenza del movimento/mutamento, che c’è
stato, che c’è ed è erosivo di decrepite schematizzazioni.
È semplicemente antistorico perpetuare oggi una nozione di legalità
cristallizzando e immobilizzando i suoi contenuti esaltati da tanti nostri
illuministi. Da allora, di acqua ne è passata molta sotto i ponti dei nostri
fiumi. La nuova società novecentesca tende ormai ad auto-ordinarsi,
malgrado il costante tentativo del potere di soffocarne la dinamica, e
l’ordine giuridico riesce a rispecchiare più fedelmente l’ordine sociale; alla
complessità del ‘sociale’ corrisponde la complessità del ‘giuridico’.
L’universo giuridico, che il potere borghese aveva voluto – per sue finalità
– il più semplice possibile, recupera in complessità. Ma complessità
significa pluralismo sociale senza esclusioni predeterminate, e al
pluralismo sociale si accompagna un intenso pluralismo giuridico,
pluralismo di fonti, ricomposte in una rete anziché in una strutturazione
gerarchica.
È il paesaggio giuridico che il costituzionalismo sociale del Novecento
ha disegnato quale frutto della sua lettura, della sua invenzione nel sostrato
valoriale della società civile. Ormai, le Costituzioni parlano questo
linguaggio e registrano questo assetto socio-giuridico, con un evidente
spostamento del suo asse portante da un legislatore/tutto-fare,
crogiolàntesi nella sua omnipotenza, a quegli interpreti (prassi
consuetudinaria, sapienti, giudici, notai, uomini di affari) cui è oggi
affidato il cómpito grave ma vitale di un adeguamento. E
l’interpretazione, esclusa ieri drasticamente dal processo di rinnovazione
giuridica e, quindi, dal nòvero delle fonti, riacquisisce un rango attivo e
propulsivo35, affatto necessario in un momento di forte transizione, di
intensa mobilità, di assoluta insufficienza di certezze dogmatiche ormai
prive di fondazione nelle sabbie mobili al di sotto dei nostri piedi;
momento – ammettiàmolo pure, perché è il paesaggio che in Italia si
sciorina ogni giorno dinanzi ai nostri occhi – in cui lo Stato legislatore
dimostra la sua desolante incapacità di ordinare il magma socio-
economico e il rapido attuale movimento/mutamento36. È una situazione
di cui lo Stato stesso ha oggi coscienza; e lo dimostrano parecchi
comportamenti sostanzialmente abdicativi, grazie ai quali si dà spazio a un
concorso di altre fonti. Ai miei occhi, l’esempio più vistoso è l’assai
rilevante iniziativa del 2010 per un ‘Codice del processo amministrativo’,
dove il legislatore si limita a disegnare una cornice di principii lasciando
implicitamente un ruolo non indifferente agli interpreti e, primo fra tutti,
al giudice.
La società ha ormai relegato entro un tempo del tutto perento la propria
immagine di piattaforma amorfa meritevole solo di essere calpestata, e si
presenta ora a noi come una realtà giuridicamente assai articolata, una
realtà pluri-ordinamentale. Le intuizioni pròvvide di una riflessione
scientifica di avanguardia avevano operato disegni lungimiranti durante i
primi svolgimenti del Novecento: il diritto quale ordinamento non si
risolveva in un vacuo preziosismo paroliero, ma era – piuttosto – il
disegno anticipatorio di futuri svolgimenti, con quel suo togliere lo
sguardo dai palazzi alti del potere, con quel suo guardare in basso, sul
terreno dell’effettività che sarebbe stato – di lì a poco – l’officina feconda
del rinnovamento giuridico.
Di tutta questa rivoluzione – tacita, nascosta, ma innovativa – si è fatta
portatrice l’Assemblea Costituente italiana, anche in ciò interprete attenta
di un tempo nuovo e bisognoso di architetture nuove. Ed è significativo
che di questo respiro – libero, aperto, proiettato verso il futuro – si siano
fatti propugnatori alcuni sapienti di raffinata cultura giuridica, che
avevano avidamente bevuto alle sorgenti ristoratrici dell’istituzionalismo
pos-moderno. Penso, soprattutto, ai costituenti Giorgio La Pira,
Giuseppe Dossetti, Aldo Moro, tutti e tre docenti di Diritto nelle
università italiane, cui si deve un contributo determinante per la messa a
punto dei ‘principii fondamentali’ della Carta del 194837.
La ‘Repubblica’, che esce dalla loro officina, ha una dimensione
decisamente pluri-ordinamentale, dove, al centro, sta l’ordinamento dello
Stato – Stato legislatore –, ordinamento prevalente e prezioso per
garantire in una ordinata convivenza le libertà dei cittadini, ma senza
dubbio non il demiurgo totalizzante della giuridicità. Accanto, destinata
finalmente ad esprimere la complessità dell’universo giuridico, sta quella
pluralità ordinamentale che le brutali ideologie fondative della modernità
avevano ufficialmente cancellato o di cui si era – almeno – soffocata
l’autonomia.
L’incantamento verticistico, che aveva dominato nel suo distendersi
l’esperienza giuridica moderna caratterizzàndola intensamente, aveva dato
dei frutti precisi: si era, in qualche modo, realizzata l’aspirazione a una
scienza pura e, di conseguenza, la sua riconduzione a sistema. A uno
sguardo più penetrante l’operazione non riesce però a nascondere anche
una valenza assai negativa: si era snaturato il diritto separàndolo dal
divenire sociale e dissanguàndolo della sua intrinseca storicità, o, per usare
un vocabolo più evocativo, della sua intrinseca carnalità.
Questo pluralizzarsi di ordinamenti, questo riconoscere che il diritto
nasce negli strati profondi della società, pluralizza le sue fonti e anche le
de-tipicizza, ed è vistosa la loro impurità, ovvia conseguenza della loro
fattualità. La Repubblica, dal punto di vista giuridico, si connota dunque
come una realtà squisitamente policentrica. Accanto al legislatore, la
prassi con i suoi usi pretende una propria presenza, mentre il ceto
giurisprudenziale (sapienziale e giudiziale) riacquista una voce
determinante, disegnando quei principii che maggiormente si prestano a
ordinare il movimento/mutamento del nostro tempo giuridico38. E poiché
usi e principii vanno interpretati (a differenza delle leggi, che pretendono
di essere obbedite), non si può oggi negare agli interpreti (sapienti,
giudici, notai) un coinvolgimento nella dinamica produttiva del diritto.
A questo punto, sarebbe grave trascurare l’esempio più illuminante e la
tappa fra le più rilevanti del cambiamento che stiamo vivendo in Italia. Mi
riferisco alla corposissima novità nel nostro paesaggio giuridico della
Corte costituzionale, con una effettiva presenza dal 1956. Accennando ad
essa, mi piace chiudere con il massimo risalto possibile, giacché è proprio
la Corte la testimonianza evidente che le vecchie dogmatiche fondate
sulla separazione dei poteri e sul principio di legalità debbono essere
sottoposte a una intensa revisione. Si sa bene che sull’inserimento di
questo singolare organismo nel tessuto della costruenda Carta vi fu accesa
discussione e furono motivatissimi gli accesi dissensi, che – peraltro –
provenivano da voci di notevole spicco come quelle di Vittorio Emanuele
Orlando e di Francesco Saverio Nitti. Per i convinti assertori della
perenne validità del vecchio Rechtsstaat era, infatti, difficile trangugiare
l’idea di un tribunale, sia pure con caratteri assai singolari, quale titolare di
poteri che arrivavano ad annullare leggi (e atti aventi forza di legge) che,
nella nostra tradizione giuridica, erano considerati insindacabili. Ai
guardiani della sovranità del Parlamento ciò suonava come assolutamente
inaccettabile, tanto più che, nella discussione, ebbe il sopravvento il
progetto del costituente Giovanni Leone proponente un controllo
accentrato della Corte attivabile in via incidentale da qualsiasi giudice e
sottolineante in tal modo la giudizialità come carattere intrinseco al
nuovo organismo. Qui preme soltanto una conclusione: questa scelta
veniva a incrinare corposamente sia il principio di separazione dei poteri,
sia il principio di legalità. Si dava, infatti, uno scossone a un vecchio
edificio e ci si avviava con sicurezza nel disegno di un paesaggio giuridico
segnato da forte discontinuità con il tradizionale assetto di un paese di civil
law.
Con una precisazione significativa: nel procedere, in Italia, dell’attuale
cammino, il protagonismo di una giustizia costituzionale si è andato
accentuando, almeno dall’ultimo decennio del Novecento. Fu qui che,
per merito indubbio della stessa Corte39, ha preso forma quel canone
interpretativo che siamo soliti identificare nel sintagma ‘interpretazione
conforme a Costituzione’40 e che consiste in un sostanziale allargamento
del nòvero dei primattori del giudizio di costituzionalità con l’investitura
per il giudice ordinario della valutazione circa la conformità di una fonte
ai valori costituzionali. È chiaro che si attua così il suo coinvolgimento in
un ingranaggio esteso ben al di là dei ristretti confini della Corte.
5. Se tutto questo corrisponde all’esperienza che stiamo vivendo anche in
Italia, paese che ha alle spalle una ferma tradizione legalistica e codicistica,
possiamo ancora parlare del principio di legalità e, anzi, continuare ad
assumerlo a colonna portante di tutto l’edificio giuridico? È vero che si
parla sempre più di «un’altra legalità», di «legalità ibrida», di «legalità
sostanziale», di «legalità costituzionale», di «legalità legale»41, ma
giustamente, venticinque anni fa, ci fu chi parlò, dominato già allora da
una sacrosanta impazienza, di «questa nozione passe-partout che
continuiamo per stanchezza a chiamare principio di legalità»42.
Riandando alle parole con cui ho avviato questa lezione, io credo che si
debba avere il coraggio di incamminarsi per una strada che permetta di
sbarazzarsi di luoghi comuni e di icone che non meritano le nostre
riverenze. Con una fermissima precisazione: rendere effettive le garanzie
che la vecchia ‘legalità’ pretendeva di assicurare al cittadino, profittando
dei nuovi strumenti di comprensione dell’universo giuridico alla luce di
una consapevolezza epistemologica più affinata.
Non ho esitazioni nel riaffermare, a chiusura, che il vocabolo/concetto
‘legalità’ sia oggi, di per sé, inadatto, perché incapace di evocare tutta la
complessità giuridica che stiamo vivendo; un vocabolo/concetto che è un
fossile, che ci riporta precipitosamente all’indietro, al momento lontano
quando si è rattrappita nel continente europeo la dimensione giuridica
della società, a differenza del pianeta insulare inglese dove il common law
vive – anche durante la modernità – una storia senza cesure mantenendo
intatte le sue radicazioni storiche.
Insomma, e per farmi meglio comprendere: intendo solo dire che
‘legalità’ è vocabolo/concetto intrinsecamente monodico, incapace di
esprimere quella realtà polifonica che è oggi, anche sul continente, la
dimensione giuridica. Oggi che il diritto, riconquistata la sua natura
polifonica, non può e non deve essere identificato nella legge; oggi, noi,
attuali giuristi, dobbiamo sentirci investiti di un impegno culturale
altissimo: quello di non smentire un preciso carattere del nostro tempo,
contrassegnato da un manifesto ‘ritorno al diritto’43, ritorno a un diritto
che ha recuperato tutta la sua latitudine di ordinamento della umana
convivenza. Anzi, noi dovremmo sentirci chiamati a un impegno
educativo proprio in questa direzione: additare soprattutto ai giovani che
questo recupero non è solo un portato del tempo pos-moderno, ma è
un’autentica conquista di civiltà giuridica; educare i giovani a concepire la
svolta che stiamo vivendo – liquidata frettolosamente e in chiave negativa
come ‘crisi’ – quale affrancazione dai riduzionismi artificiosi della civiltà
borghese e, quindi, da valutarsi come una ricchezza di questo nostro
difficile tempo.
Una volta che si convenga su queste premesse, in luogo di ‘principio di
legalità’, si deve cominciare a parlare di ‘primato del diritto’, di
‘supremazia del diritto’, di ‘dominanza del diritto’, con riferimento a
sintagmi che siano maggiormente comprensivi e perfettamente in grado
di evidenziare quello che si chiede oggi al cittadino: l’osservanza dei valori
giuridici che fondano la Repubblica italiana, valori – però – di cui non è
portatrice soltanto la ‘legge’. Non è affatto un problema nominalistico,
ma di sostanza. A differenza della lingua inglese, dove ‘law’ è termine
assolutamente comprensivo di ogni manifestazione del giuridico, nella
lingua italiana, così come nelle altre lingue neo-latine e in quella tedesca,
la differenziazione formale e sostanziale fra ‘legge’ e ‘diritto’ esige che ci si
tolga dall’equivoco, nel quale inevitabilmente incorriamo usando il
termine ‘legalità’. I sintagmi sopra indicati verrebbero, infatti, ad
assumere il contenuto largo che, nella tradizione anglo-sassone, ha il
sintagma ‘Rule of Law’.
6. Qui, però, si impone un deciso chiarimento, perché accostare sic et
simpliciter (come con assai poco lodevole pressapochismo culturale si è
fatto) il ‘Rule of Law’, proprio e tipico della tradizione di Oltremanica, al
principio di legalità dello ‘Stato di diritto’ continentale, di conio liberal-
borghese, testimonia l’ignoranza (o la non esatta comprensione) delle
diversissime tipicità di due diversi percorsi storico-giuridici, con una
rappresentazione all’insegna di equivoci fuorvianti.
Assai differenziati sono i contesti. Da una parte, il Regno d’Inghilterra,
che continua a vivere durante tutta l’età moderna una impronta
tipicamente medievale ricevendo echi lontani della sconvolgente
rivoluzione francese, con un ordine giuridico sostanziosamente
autonomo rispetto al potere politico. La fiera affermazione «Nihil aliud
potest rex in terris, nisi id solum quod de iure potest», che leggiamo,
ferma nella sua solennità, in una pagina del giurista Bracton, è la
testimonianza sonora della autonomia ma anche supremazia del diritto
quale cardine della società inglese, un cardine che dal lontano tempo di
Bracton, il Dugento, è stato una costante sempre sorretta da una forte
condivisione, costituendo un salvataggio contro i futuri tentativi
assolutistici della monarchia. Dall’altra parte, sul continente e, innanzi
tutto, nel Regno (Repubblica, Impero) di Francia, dove si ha, nel solco
della vampa illuministica e giacobina, una completa frattura con l’antico
regime di stampo pos-medievale e una pesante affermazione dello Stato
come apparato di poteri, con una totale ancillarità ad esso del diritto, di
tutto il diritto, a cominciare dal complesso delle relazioni private fra
privati cittadini.
In altre parole (e per venire a una analisi storico-giuridica), il retroterra
del ‘Rule of Law’ non è monistico; è, anzi, decisamente pluralistico,
anche se con una prevalente orditura giudiziale; il retroterra del Rechtsstaat
è prettamente monistico, identificàndosi nella realtà compatta dello Stato,
disegnato dalla grande rivoluzione come il solo monopolizzatore/creatore
della intiera giuridicità. Realismo cognitivo, da un lato, volontarismo
soggettivista, dall’altro.
7. Per una maggior completezza del quadro odierno, si devono
aggiungere almeno due puntualizzazioni. Infatti, altro discorso è da fare
per esperienze giuridiche di più recente formazione (e, anzi, tuttora in
formazione) intensamente pervase dal pluralismo pos-moderno.
Innanzi tutto, per quanto concerne il progrediente diritto eurounitario,
in cui un ruolo promotore (io direi volentieri: inventivo) lo ha certamente
la Corte di Giustizia. Credo che non possano sussistere dubbii sul
carattere giudiziale (e, più in genere, giurisprudenziale, con un ruolo non
indifferente della dottrina) di questo diritto44, e giustamente ci si è posti la
domanda, in un bilancio fatto agli inizii degli anni Novanta e a proposito
del ruolo cospicuo della Corte lussemburghese, se ciò «non determini
nella Comunità un governo di giudici, un’Europa di giudici e se il
fenomeno sia conforme alla rule of law»45.
L’Europa giuridica appare sempre di più un organismo che si costruisce
come ‘comunità di diritto’ (‘Community based on the Rule of Law’).
Ciò fin dal 1986 nella rilevante sentenza «Parti écologiste Les
Verts/Parlamento europeo», che trova i suoi capisaldi nei «principii
generali del diritto, di cui fanno parte i diritti fondamentali»; tra questi
principii campeggia quello di ragionevolezza, che segnala – grazie al suo
fare i conti con la materialità dei fatti di vita – la alienità dalla razionalità
del freddo formalismo legalista46. Del resto, anche una recente analisi
complessiva su Il principio di legalità nell’ordinamento comunitario, pur se –
almeno a mio avviso – troppo dominata dalla invasiva icona della
‘legalità’, non poteva che arrivare ad una conclusione: i tratti essenziali del
diritto della Unione sembrano «rispondere ad una impostazione più
anglo-sassone che europea continentale»47. È, semmai, il caso di
aggiungere che, se v’è un rischio che l’eurodiritto corre, questo consiste
nella dominanza della fattualità economica. L’Unione, in molte
manifestazioni, mostra di serbare nella propria ossatura l’impronta che le
viene dalla sua conformazione originaria di mercato, con un conseguente
gigantismo dei fatti economici e delle libertà economiche, con una
conseguente scarsa propensione alla valorizzazione della dimensione
sociale (quella dimensione che è il tratto identitario della Costituzione
italiana).
Uguale conclusione credo che si debba fare per quell’ormai
ramificatissimo tessuto della globalizzazione giuridica, frutto di
un’esigenza dell’attuale assetto capitalistico, che, insoddisfatta dai diritti
statuali nonché da quelli interstatuale e internazionale, è venuta e viene a
consistere in una germinazione spontanea entro il mercato mondiale di
schemi ordinanti nuovi, nati nella empiria della prassi e definiti
tecnicamente da attrezzate officine giuridiche private. A questo fenomeno
globalizzatorio si addice perfettamente il ‘Rule of Law’, giacché anche qui
si rifiuta «il monopolio di un’unica dominante autorità generatrice di
diritto»48. È, semmai, il caso di aggiungere che qui incombe un duplice
rischio: lo scopo del maggior profitto da raggiungere ad ogni costo; la
dominanza dei soggetti economicamente più forti.
Più sopra, citando il volume di Antonino Alì e condividèndone la
conclusione, formulavo una nota critica sulla persistente icona del
‘principio di legalità’ al fine di cogliere l’identità culturale e tecnica del
diritto eurounitario. Debbo formulare la stessa osservazione per il citato
volume, culturalmente assai provveduto, del filosofo Gianluigi Palombella
sul diritto della globalizzazione, libro coraggioso dove si mette a fuoco
acutamente il perno dell’ordine giuridico globale ma dove si continua a
parlare di una «legalità al plurale»49. Non sarebbe l’ora di togliere questo
ingombro della ‘legalità’ per esperienze cui tale principio non si addice? E
di cassare il termine dal lessico usuale, sì da non perpetuare possibili
equivoci? Unione Europea e globalizzazione sono realtà permeate da un
arricchente pluralismo giuridico, dove giuristi teorici e pratici sono gli
autentici inventori; sì arricchente, anche se non ci si deve nascondere il
rischio di una dominanza puramente tecnocratica. Perché complicare il
quadro con la nozione stonata di ‘legalità’? Stonatissima in un ‘so law’
globale, ma stonata anche per il diritto europeo in cui la fonte ‘legge’ ha
un ruolo ben inferiore a quello della dottrina e soprattutto della
giurisprudenza pratica. Pigrizia di giuristi? Forza penetrante di vecchie
mitologie giuridiche? Probabilmente! Ma, se così è, è più corretto parlare
di ‘Rule of Law’, rendèndolo in italiano con ‘primato del diritto’.
4
Il perché dell’avverbio ‘ottimisticamente’ sarà chiarito nel corso della lezione.
5
È mitizzazione, per esempio, l’affermare apoditticamente che la legge è l’unica fonte di
diritto capace di rappresentare la volontà generale, dopo che penetranti riflessioni di politologi
e giuspubblicisti hanno messo in luce sue sostanziose carenze proprio nel suo essere
espressione di rappresentanza.
6
Ramificazioni, come si preciserà in seguito, consistenti in un cùmulo di opinioni
dottrinali, sentenze di giudici, formularii di notai, norme di potentati politici stratificàtisi
nel corso di un cammino plurisecolare.
7
Invenzione nel significato che, negli ultimi anni, ho provato a precisare: non un creare
artificiosamente (com’è oggi nella comune lingua italiana), bensì un cercare per trovare
(com’è proprio del latino invenire/inventio). Mi permetto di rimandare il lettore a tutte le
precisazioni contenute in una mia recente raccolta di saggi: L’invenzione del diritto, Laterza,
Bari-Roma 2017.
8
Giacché, come si è puntualizzato nella nota precedente, immedesimare il diritto in una
‘invenzione’ aveva il significato di scoprirlo e di leggerlo nel sostrato radicale della società.
9
Perché flessibili erano le sue fonti, consistenti soprattutto in quella dimensione fattuale
dell’ordinamento che è la consuetudine, nonché in sentenze di giudici e in opinioni di
‘dottori’.
10
Ed in questo consiste l’assolutismo giuridico proprio dell’assetto borghese della società
moderna: l’esasperato liberismo economico pretende un ordine giuridico assolutamente
controllato da un potere politico unitario e centralizzato.
11
È questo il momento in cui il tempo storico medievale comincia ad essere percorso da
una forte dinamica economica, non più soltanto agraria ma anche commerciale, con una
circolazione che investe tutta l’Europa occidentale e, insieme, con un risveglio della
riflessione scientifica sul diritto in seno alla fioritura di tante officine universitarie, dando
vita a uno ius commune europeo di stampo prettamente giurisprudenziale.
12
Per maggiori chiarimenti, mi permetto di rinviare a un mio lontano specifico saggio: Un
diritto senza Stato (la nozione di autonomia come fondamento della costituzione giuridica medievale)
(1996), ora in Assolutismo giuridico e diritto privato, Giuffrè, Milano 1998, e in Paolo Grossi, a
cura di G. Alpa, Laterza, Roma-Bari 2011.
13
Questo è comune in tutta la propaganda di ispirazione illuministica, ed è anche
abbastanza indimostrato.
14
Il cittadino individuo doveva avere un rapporto diretto e frontale con lo Stato, rapporto
che eventuali comunità intermedie avrebbero – mediàndolo – attenuato e complicato. Allo
Stato forte giova una società resa innocua dalla sua estrema frammentazione in una miriade
di soggetti, mentre una società che si organizza in realtà collettive (sindacali, religiose,
professionali, assistenziali) è un rischio grave per la sua compatta unitarietà. Lo spauracchio
del ‘collettivo’ in tutte le sue manifestazioni incomberà sulla civiltà borghese sino all’inizio
del Novecento, tempo ormai pos-moderno. Esemplare, in questo, a metà Seicento, la
testimonianza dello statalista Hobbes, che, in un capitolo famoso del suo Leviatano (cap.
XXIX), equipara le comunità intermedie, così congeniali al da lui deprecato ordine
medievale, a «tanti Stati minori negli intestini di uno maggiore, simili ai vermi negli
intestini di un uomo naturale» (cfr. la citazione in N. Matteucci, Positivismo giuridico e
costituzionalismo [1963], ora nella ristampa anastatica curata da Il Mulino [Bologna 1996, p.
107], e ripetuta in M. Vogliotti, Legalità, in Enciclopedia del diritto. Annali, VI, Giuffrè,
Milano 2012, p. 381).
15
Il motivo che funge da colonna portante di tutto il libello muratoriano (datato 1742) è la
contrapposizione (assolutamente manichea) tra la superiorità e impassibilità del
Principe/legislatore sovrastante la fangosità dei fatti e ‘iudices’ e ‘doctores’ in essa immersi e
da essa inquinati.
16
Nella «Constitution Française» del 3 settembre 1791 c’è un impegno nettissimo: «Il sera
fait un Code de lois civiles et communes à tout le Royaume».
17
Di ‘Codici’ si è parlato fin dall’età romana e durante la prima modernità, ma senza che
quel vocabolo avesse il carattere specifico e tipicissimo del Codice pos-rivoluzionario e
napoleonico.
18
Lo stesso Luigi XIV, un re ‘legislatore’ che disciplina, nel tardo Seicento, con le sue
Ordonnances, parecchie zone dell’ordinamento giuridico del Regno, si guarda bene
dall’innovare sul terreno del ‘diritto civile’.
19
Il giurista Jean-Étienne-Marie Portalis (1746-1807), uno dei protagonisti del processo
codificatorio napoleonico ma la cui formazione culturale era avvenuta negli ultimi tempi
dell’antico regime, di cui conosceva bene la situazione, complessa e frammentatissima, sotto
il profilo giuridico, una situazione che rendeva del tutto impossibile (e tuttavia necessario) il
progetto di un Codice unitario. Nel testo si fa riferimento al suo Discours préliminaire al
progetto di Codice dell’anno IX.
20
Giustamente si parla «della dominazione culturale che il principio di gerarchia ha
storicamente espresso» (F. Modugno, Fonti del diritto (Gerarchia delle), in Enciclopedia del diritto.
Aggiornamenti, I, Giuffrè, Milano 1997, p. 562).
21
Non ha torto Gustavo Zagrebelsky, quando afferma con frase solo apparentemente
paradossale: «il principio di legalità non era che il compimento della tradizione assolutistica
dello Stato» (G.Z., ll diritto mite, Einaudi, Torino 1992, p. 25).
22
La definizione di san Tommaso è la seguente: «quaedam rationis ordinatio ad bonum
commune, ab eo qui curam communitatis habet promulgata» (Summa Theologica, Prima
Secundae, q. 90, art. 4).
23
La lex, nella visione tomistica, assolutamente coerente con le soluzioni del complesso
ordine giuridico medievale, è lettura di un sostrato valoriale, che vede impegnate forze
molteplici: in prima linea, dottori giudici notai e, solo in seconda linea, i titolari del potere
politico.
24
Mi permetto rinviare a una mia recentissima sintesi: Costituzionalismi tra ‘moderno’ e ‘pos-
moderno’. Tre lezioni suor-orsoliane, Editoriale Scientifica, Napoli 2019.
25
È quello che, altre volte (cfr. La cultura del civilista italiano, Giuffrè, Milano 2002, pp. 1
sgg., e Fattualità del diritto pos-moderno: l’emersione di un diritto ‘agrario’ in Italia, in «Diritto
Agroalimentare», I, 2016), ho chiamato il vizio giusnaturalistico dell’intiero diritto messo a
punto a fine Settecento, nel colmo di una modernità giuridica di impronta
fondamentalmente borghese.
26
L’impronta della moderna civiltà borghese non può che essere un liberismo economico
che si traduce in elitarismo economico. Un elitarismo che trova una indispensabile
protezione, come si puntualizzava più sopra, in un assolutismo giuridico.
27
Le gigantesche esigenze provocate dal conflitto costrinsero, infatti, i governi belligeranti –
fra cui quello del Regno d’Italia – a emanare una legislazione eccezionale, dove, mettendo
da parte il ‘virtuoso’ cànone della astrattezza, si dava un pesante rilievo alla fattualità sociale
ed economica. Sulla enorme rilevanza storico-giuridica della guerra 1914-18, cfr. le
dettagliate segnalazioni da me fatte già in Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-
1950, Giuffrè, Milano 2000, pp. 130 sgg.
28
Abbiamo insistito su questo carattere pluralistico nella lezione inaugurale dell’anno
accademico 2016-17, tenuta nella Sapienza Università di Roma il 19 gennaio 2017: La
Costituzione italiana quale espressione di una società plurale, ora in «Nuova Antologia», CLI, 1,
2017, fasc. 2280, pp. 5 sgg.
29
Matteucci, Positivismo giuridico e costituzionalismo, cit., p. 3. Il saggio di Nicola Matteucci
(1926-2006), che non mi sentirei di condividere in certi suoi atteggiamenti individualistici
di marca prettamente liberale, saggio scritto da un filosofo e politologo munito di una
eccellente educazione giuridica, è preveggente perché sorretto dalla precisa intuizione che lo
statalismo legalista della nostra tradizione gius-positivistica è veste troppo costrittiva per la
democrazia costituzionale del Novecento. È apprezzabile la sua disponibilità autenticamente
storicistica vòlta a comprendere una determinata civiltà storica facendo leva sui valori che
essa esprime. A questo proposito, ho un preciso ricordo personale. Quando il mio volume
di sintesi L’ordine giuridico medievale ebbe, subito dopo la sua pubblicazione nel 1995, una
presentazione presso l’Università di Bologna, promossa (se non ricordo male) da Ovidio
Capitani, Matteucci fu tra i presentatori e rammento bene la sua piena adesione al mio
rifiuto di utilizzare per l’esperienza medievale nozioni come ‘Stato’ e ‘sovranità’ perché
sostanzialmente antistoriche.
30
Sul carattere ‘originario’ del ‘giuridico’ e ‘derivativo’ del ‘legale’ cfr. le meditate
osservazioni di A. De Nitto, Ancora a proposito di «giuridico» e «legale», in Liber amicorum in
onore di Augusto Cerri. Costituzionalismo e democrazia, Editoriale Scientifica, Napoli 2016, p.
338.
31
A un Ritorno al diritto fa riferimento, fin dalla intitolazione, un mio recente libriccino
(Laterza, Roma-Bari 2015).
32
A Lo Stato moderno e la sua crisi è dedicato proprio in quell’anno un suo, giustamente
famoso, discorso inaugurale nell’Ateneo di Pisa, su cui ho recentemente riflettuto, dietro
l’onorevole invito della Facoltà giuridica pisana: «Lo Stato moderno e la sua crisi» (a cento anni
dalla prolusione pisana di Santi Romano) (2011), ora in Introduzione al Novecento giuridico,
Laterza, Roma-Bari 2012.
33
L’ho rilevato recentemente: Il giovane Santi Romano: un itinerario verso L’ordinamento
giuridico, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», ottobre-dicembre 2017.
34
È appena il caso di precisare che il riferimento è al libretto romaniano del 1918:
L’ordinamento giuridico.
35
È quanto ho cercato di porre in luce in un saggio specifico: Dalle ‘clausole’ ai ‘principii’: a
proposito dell’interpretazione come invenzione, in «Giustizia civile», 1, 2017, pp. 5 sgg. (ora in
questo volume, pp. 63 sgg.).
36
Ciò è ben puntualizzato nella recente riflessione di un assai consapevole filosofo italiano
del diritto: B. Pastore, Interpreti e fonti nell’esperienza giuridica contemporanea, Cedam, Padova
2014, cui si può aggiungere il mio plauso recensorio: Per ripensare le fonti del diritto (su un libro
recentissimo e sulle sue sollecitazioni), in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico
moderno», 44, 2015, p. 1047.
37
Una mia messa a punto in proposito in La Costituzione italiana quale espressione di un tempo
giuridico pos-moderno (2013), ora in L’invenzione del diritto, cit.
38
Sulla odierna centralità dei ‘principii’ e sul nuovo ruolo della interpretazione ho insistito
nella relazione introduttiva Sulla odierna ‘incertezza’ del diritto, tenuta nel 2014 al Convegno
annuale della Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo (ora in Ritorno al
diritto, cit., pp. 51 sgg.).
39
Una prima indicazione si ebbe, se non erro, con la sentenza 443 (12/23 dicembre 1994),
relatore il giudice Renato Granata.
40
Sul quale i pareri dei giuristi sono assai differenziati. Si confrontino quello decisamente
negativo di M. Luciani, Interpretazione conforme a Costituzione, in Enciclopedia del diritto. Annali
IX, Giuffrè, Milano 2016, e quello decisamente positivo che ho creduto di manifestare in
L’invenzione del diritto, cit., pp. 128-129.
41
Vogliotti, Legalità, cit., p. 402.
42
S. Cassese, Alla ricerca del sacro Graal. A proposito della Rivista ‘Diritto pubblico’, in «Rivista
trimestrale di diritto pubblico», XLVI, 1995, p. 796.
43
Intendo riferirmi a un invito che Federico Spantigati, un ingegno giuridico munito di un
formidabile acume diagnostico, aveva lanciato nel 2004 quale divisa di un «Manifesto dei
giuristi» dalla valenza altamente progettuale; ritorno al diritto, dove hanno un ruolo non
esiguo legislatore e legge, però accanto a consuetudini, riflessioni dottrinali, sentenze di
giudici, prassi, tutto nel segno di un arricchente pluralismo giuridico (cfr. F. Spantigati,
Manifesto dei giuristi, in «Ritorno al diritto: i valori della convivenza», 1, gennaio 2005, pp.
15-16). È nel solco di questo itinerario culturale che io volli intitolare il libriccino ricordato
nella nota 28.
44
Rinvio alla documentazione da me offerta in Il messaggio giuridico dell’Europa e la sua
vitalità: ieri, oggi, domani, in «Contratto e impresa/Europa», XVIII, 2, 2013, e in «Rivista di
storia del diritto italiano», LXXXVI, 2013, nonché, in lingua tedesca, in «Rechtsgeschichte.
Legal History», 22, 2014 e, in lingua inglese, in «European Business Law Review», 25,
2014.
45
Se lo domandava un ‘sapiente’ che – in quanto internazionalista e comunitarista, e quindi
meno invischiato dal formalismo del vecchio costituzionalismo legalista italiano – poteva
osservare il formando diritto europeo con occhio più libero (cfr. P. Mengozzi, La Rule of
Law e il diritto comunitario di formazione giurisprudenziale, in «Rivista del diritto europeo»,
1993, p. 512).
46
Lo sottolinea A. Adinolfi, Il principio di legalità nel diritto comunitario, che denuncia la
incongruenza di un discorso ‘legalitario’ per la comprensione dell’ordinamento europeo (il
saggio è ricompreso nella raccolta Il principio di legalità nel diritto amministrativo che cambia,
Giuffrè, Milano 2008, p. 96; il che ha sicuramente influenzato la Autrice nel conservare
anche per il diritto comunitario l’icona ‘scomoda’ del ‘principio di legalità’ campeggiante
nel titolo della intiera raccolta).
47
A. Alì, Il principio di legalità nell’ordinamento comunitario, Giappichelli, Torino 2005, p. 96.
48
G. Palombella, È possibile una legalità globale? Il Rule of Law e la Governance del mondo, Il
Mulino, Bologna 2012, p. 46.
49
Ivi, p. 107.
II.
Sul diritto europeo
come diritto giurisprudenziale50
1. L’Europa del diritto e i suoi tempi storici; 2. Il messaggio ‘europeo’ dello ius commune medievale;
3. Tra moderno e pos-moderno: l’avvìo di un nuovo messaggio ‘europeo’; 4. L’Europa del diritto:
le diversità nell’unità; 5. Il ruolo della Corte di Giustizia nella formazione di un diritto ‘europeo’:
il problema della individuazione dei diritti fondamentali; 6. Il diritto europeo e il suo bisogno di
principii: il ruolo della scienza giuridica; 7. L’Europa del diritto e la odierna globalizzazione
giuridica.
50
Discorso di apertura, tenuto (in versione tedesca) a Frankfurt am Main il 2 settembre
2013, in avvìo del Symposium su Europäische Normativität: Globalhistorische Perspektiven,
organizzato dal Max-Planck-Institut für europäische Rechtsgeschichte.
51
Vale la pena di ricordare un saggio in cui, nel 1990, Helmut Coing, promotore e primo
direttore del nostro Istituto, cercava di richiamare i tanti giuristi, già allora impegnati nella
costruzione di un diritto europeo, alla esigenza di un preliminare ma essenziale esame di
coscienza da parte della scienza giuridica operante nell’Europa di civil law e ancora troppo
legata a modelli giuridici statalistici e legalistici (H. Coing, Europäisierung der
Rechtswissenscha, in «Neue Juristische Wochenschri», 1990, pp. 937 sgg.).
52
P. Grossi, Modelli storici e progetti attuali nella formazione di un futuro diritto europeo, in Norm
und Tradition. Welche Geschichtlichkeit für die Rechtsgeschichte?/Fra norma e tradizione. Quale
storicità per la norma giuridica?, Atti del Convegno tenutosi al Monte Verità dal 24 al 27 aprile
1996, a cura di P. Caroni e G. Dilcher, Böhlau, Köln-Weimar-Wien 1998. Leggibile anche
in «Rivista di diritto civile», XLII, 1996, parte I, nonché, in lingua spagnola, in «Anuario de
historia del derecho español», LXVII, 1997 (Homenaje a Francisco Tomás y Valiente).
53
P. Grossi, Il punto e la linea (L’impatto degli studi storici nella formazione del giurista) (1995) e
Storia del diritto e diritto positivo nella formazione del giurista di oggi (1998), ora in P.G., Società,
diritto, Stato. Un recupero per il diritto, Giuffrè, Milano 2006.
54
P. Grossi, Un diritto senza Stato (la nozione di autonomia come fondamento della costituzione
giuridica medievale) (1996), ora in P.G., Assolutismo giuridico e diritto privato, Giuffrè, Milano
1998 (in lingua tedesca: Ein Recht ohne Staat: der Autonomiebegriff als Grundlage der
mittelalterlichen Rechtsverfassung, in Staat, Politik, Verwaltung in Europa. Gedächtnisschri für
Roman Schnur, Duncker & Humblot, Berlin 1997).
55
Che è la vera ‘costituzione’ non scritta dell’ordine politico-giuridico medievale.
‘Costituzione’ nel senso brunneriano di Verfassung.
56
P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Laterza, Roma-Bari 1995.
57
Cfr. P. Grossi, Il sistema giuridico medievale e la civiltà comunale, in «Rivista di storia del
diritto italiano», LXXVIII, 2005.
58
Per una analisi della nozione di ‘ordine’ cfr. P. Grossi, Ordine/compattezza/complessità. La
funzione inventiva del giurista, ieri ed oggi (2011), ora in P.G., Introduzione al Novecento giuridico,
Laterza, Roma-Bari 2012.
59
P. Grossi, Dalla società di società alla insularità dello Stato: fra medioevo ed età moderna (2003),
ora in P.G., Società, diritto, Stato. Un recupero per il diritto, cit.
60
Per dei precisi chiarimenti su questa nozione, apparentemente generica ed ambigua, cfr.
P. Grossi, Novecento giuridico. Un secolo pos-moderno (2010), ora in P.G., Introduzione al
Novecento giuridico, cit.
61
L. Adamovich, Ansprache, in 1952-2002. Cinquantesimo anniversario della Corte di Giustizia
delle Comunità Europee, Udienza solenne del 4 dicembre 2002, Ufficio delle pubblicazioni
ufficiali delle Comunità Europee, Luxembourg 2003, p. 36.
62
G.C. Rodríguez Iglesias, Discurso, in 1952-2002. Cinquantesimo anniversario della Corte di
Giustizia delle Comunità Europee, cit., p 42.
63
Un bilancio dei primi sessanta anni di lavoro è stato promosso dalla stessa Corte con la
collaborazione di un folto numero di valenti giuristi: The Court of Justice and the Construction
of Europe: Analyses and Perspectives on Sixty Years of Case Law, Springer, Berlin-Heidelberg
2013.
64
Sentenza del 12 novembre 1969 (causa 29/69), In diritto, n. 7.
65
«La tutela dei diritti fondamentali costituisce [...] parte integrante dei principi giuridici
generali di cui la Corte di Giustizia garantisce l’osservanza. La salvaguardia di questi diritti,
pur essendo informata alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, va garantita
entro l’ambito della struttura e delle finalità della Comunità» (sentenza del 17 dicembre
1970 [causa 11/70], In diritto, n. 4).
66
«Come questa Corte ha già avuto occasione di affermare, i diritti fondamentali fanno
parte integrante dei principi generali del diritto, di cui essa garantisce l’osservanza. La
Corte, garantendo la tutela di tali diritti, è tenuta ad inspirarsi alle tradizioni costituzionali
comuni agli Stati membri e non potrebbe, quindi, ammettere provvedimenti incompatibili
con i diritti fondamentali riconosciuti e garantiti dalle costituzioni di tali Stati» (sentenza del
14 maggio 1974 [causa 4/73], In diritto, n. 13).
67
Art. 6, c. 2: «L’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni
degli Stati membri, in quanto princìpi generali del diritto comunitario».
68
Art. 6, c. 3: «I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni
costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto
principi generali».
69
Per primo, in rapporto alle tradizioni costituzionali comuni, H.W. Rengeling,
Grundrechtsschutz in der Europäischen Gemeinscha. Bestandsaufnahme und Analyse der
Rechtssprechung des Europäischen Gerichtshofs zum Schutz der Grundrechte als allgemeine
Rechtsgrundsätze, Beck, München 1993.
70
G. Tesauro, Commento allo art. 19 del Trattato dell’Unione Europea, in Trattati dell’Unione
Europea e della Comunità Europea, a cura di A. Tizzano, Giuffrè, Milano 2013, VII, n. 3.
71
Mi sia consentito il rinvio ad alcune mie pagine commemorative: P. Grossi, Alberto
Trabucchi civilista europeo, ora in P.G., Nobiltà del diritto. Profili di giuristi, Giuffrè, Milano 2008.
Assai opportunamente la Corte di Giustizia ha organizzato a Lussemburgo, il 13 maggio
2013, un Convegno di studii commemorativo della sentenza, che fu emanata dalla Corte il
5 febbraio 1963.
72
Cfr. il ricco ‘numero speciale’ di «Contratto e impresa/Europa» (XVII, 1, 2012)
contenente le testimonianze di Trenta giuristi europei sull’idea di codice europeo dei contratti.
73
Per una visione d’insieme, cfr. R. Zimmermann, «Wissenschaliches Recht» am Beispiel (vor
allem) des europäischen Vertragsrechts, in Privates Recht, a cura di C. Bumke e A. Röthel, Mohr
Siebeck, Tübingen 2012.
74
Si veda l’eccellente puntualizzazione di R. Zimmermann, Principles of European Contract
Law, in Handwörterbuch des Europäischen Privatrechts, a cura di J. Basedow, K.J. Hopt, R.
Zimmermann, Mohr Siebeck, Tübingen 2009.
75
G. Ajani, Un diritto comune europeo della vendita? Nuove complessità, in Trenta giuristi europei
sull’idea di codice europeo, cit., p. 83.
76
È esemplare, in proposito, la distesa, lucidissima analisi di G. Vettori, Contratto e rimedi,
Cedam, Padova 2009, cap. I. Da ultimo, nella letteratura italiana, cfr. S. Mazzamuto, Il
contratto di diritto europeo, Giappichelli, Torino 2012.
77
Risoluzione del 26 maggio 1989.
78
Risoluzione sul diritto contrattuale europeo del 7 settembre 2006, lettera B, nn. 1 e 2.
79
Risoluzione sul diritto contrattuale europeo del 23 marzo 2006.
80
Comunicazione, in data 11 ottobre 2004, della Commissione al Parlamento europeo e al
Consiglio, Diritto contrattuale europeo e revisione dell’acquis: prospettive per il futuro (par. 2.1.1). Più
dettagliatamente, nell’àmbito della stessa Comunicazione (al par. 3.1.3), si precisava: «La
struttura ipotizzata per il quadro comune di riferimento [...] prevede che esso stabilisca in
primo luogo princìpi fondamentali comuni di diritto contrattuale [...] tali princìpi sarebbero
supportati dalla definizione di concetti fondamentali [...] tali princìpi e definizioni sarebbero
poi completati da modelli di regole, che costituirebbero il corpo centrale del quadro
comune di riferimento».
81
Ivi, par. 2.1.1.
82
Ivi, par. 2.3.
83
Ivi, par. 3.1.2.
84
Decisione della Commissione in data 26 aprile 2010, Considerando, n. 7.
85
Ivi, n. 9.
86
Ivi, Articolato, art. 4, n. 4.
87
Per esempio, limpidamente, da un notevole civilista italiano, che ha dedicato una
continua attenzione al fenomeno globalizzatorio: cfr. F. Galgano, Lex mercatoria, Il Mulino,
Bologna 20105.
88
A. Pellet, La lex mercatoria ‘tiers ordre juridique’? Remarques ingenues d’un internationaliste de
droit public, in Mélanges en l’honneur de Philippe Kahn, Litec, Paris 2000.
89
Ivi, p. 60.
90
M.R. Ferrarese, Prima lezione di diritto globale, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 72.
III.
Dalle ‘clausole’ ai ‘principii’:
a proposito della interpretazione
nel tempo pos-moderno
91
Si tratta del notissimo Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in «Rivista del diritto
commerciale», LXV, 1967.
92
Per la Enciclopedia del diritto, rispettivamente nel 1960 e nel 1964.
93
Di un ‘vizio giusnaturalistico’ della scienza civilistica italiana moderna ho parlato
espressamente in La cultura del civilista italiano, Giuffrè, Milano 2002, pp. 1 sgg., e più
recentemente, in Fattualità del diritto pos-moderno: l’emersione di un diritto ‘agrario’ in Italia, in
«Diritto Agroalimentare», I, 2016, dove il primo paragrafo è intitolato Sul vizio
giusnaturalistico del diritto civile moderno: individuo e cose nell’irrealtà dell’astrattezza.
94
Ci ho riflettuto sopra in Sulla odierna incertezza del diritto (2014), ora in Ritorno al diritto,
Laterza, Roma-Bari 2015.
95
Su questo innovato paesaggio giuridico sono incentrati i saggi contenuti nel mio
Introduzione al Novecento giuridico, Laterza, Roma-Bari 2012.
96
L’essere specchio di una società autenticamente plurale è il contrassegno fondamentale
della nostra Costituzione; questo ho ritenuto di puntualizzare nella recente lectio inaugurale
dell’anno accademico 2016-17 della Sapienza Università di Roma, tenuta nella Aula Magna
di quell’Ateneo il 19 gennaio 2017 (cfr. P. Grossi, La Costituzione italiana quale espressione di
una società plurale, lectio pubblicata in www.uniroma1.it e in «Nuova Antologia», CLI, 1,
2017, fasc. 2280, pp. 5-10).
97
Rinvio a quanto ne ho detto in una lezione maceratese di qualche anno fa, La
Costituzione italiana quale espressione di un tempo giuridico pos-moderno, poi in «Rivista
trimestrale di diritto pubblico», LXIII, 2013, pp. 607 sgg., ora in L’invenzione del diritto,
Laterza, Bari-Roma 2017, pp. 39 sgg.
98
Già in una lezione napoletana del 2011: Ordine, compattezza, complessità. La funzione
inventiva del giurista, ieri ed oggi, ora in P. Grossi, Introduzione al Novecento giuridico, Laterza,
Roma-Bari 2012. Percezione pienamente ripresa in La Costituzione italiana quale espressione di
un tempo giuridico pos-moderno, cit.; in L’invenzione dell’ordine costituzionale: a proposito del ruolo
della Corte, in «Giustizia civile», 2, 2016; in L’invenzione della Costituzione: l’esperienza
italiana, in «Diritto pubblico», 3, 2016; in Il giudice civile. Un interprete?, in «Rivista
trimestrale di diritto e procedura civile», 4, 2016. Saggi tutti ricompresi nel sopracitato
volume L’invenzione del diritto.
99
Di grosso rilievo culturale è, oggi, il volume di Nicolò Lipari, Il diritto civile tra legge e
giudizio, Giuffrè, Milano 2017.
100
Una documentazione in P. Grossi, Il messaggio giuridico dell’Europa e la sua vitalità: ieri, oggi,
domani, in «Contratto e impresa/Europa», XVIII, 2, 2013, pp. 681-695 (in lingua inglese:
Europe’s Message about Law and its Vitality: Past, Current and Future Perspectives, in «European
Business Law Review», 25, 2014, pp. 349-360; in lingua tedesca: Die Botscha des
europäischen Rechts und ihre Vitalität gestern, heute, morgen, in «Rechtsgeschichte. Legal
History», 22, 2014, pp. 257-267).
101
Grossi, Sulla odierna incertezza del diritto, cit., pp. 93-95.
102
Gli Atti del Congresso sono ora raccolti in Principi e clausole generali nell’evoluzione
dell’ordinamento giuridico, a cura di G. D’Amico, Giuffrè, Milano 2017.
103
Non mi resta che rinviare a quanto ne ho scritto in Mitologie giuridiche della modernità,
Giuffrè, Milano 2007 (terza ed. accresciuta).
104
Nelle due ordinanze (la n. 248 del 2013 e la n. 77 del 2014) la Corte non aveva mancato
di rilevare che il Tribunale rimettente «non aveva tenuto conto dei possibili margini di
intervento riconoscibili al giudice a fronte di una clausola negoziale che rifletta (come da sua
prospettazione) un regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente sbilanciato in
danno di una parte. E ciò in ragione della rilevabilità ex officio della nullità (totale o
parziale) ex art. 1418 cod. civ. della clausola stessa, per contrasto con il precetto dell’art. 2
Cost. (per il profilo dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà), che entra
direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui
attribuisce vis normativa».
105
G. D’Amico, Principi costituzionali e clausole generali: problemi (e limiti) nella loro applicazione
nel diritto privato (in particolare nei rapporti contrattuali), in Principi e clausole generali, cit., p. 99.
106
Prendo a prestito da Capograssi questo aggettivo, da lui efficacemente adottato in un suo
saggio del 1918, per qualificare lo Stato novecentesco (G. Capograssi, Saggio sullo Stato
[1918], ora in Opere, Giuffrè, Milano 1959, vol. I, p. 5).
107
Tutte tese a dipingerci un giudice immerso nelle sue passioni e, quindi, pressoché
incapace di decisioni serenamente critiche.
108
F. Di Marzio, Ringiovanire il diritto? Spunti su concetti indeterminati e clausole generali, in
Principi e clausole generali, cit., p. 139.
109
Ivi, p. 141.
110
Ivi, p. 139.
IV.
Storicità versus prevedibilità:
sui caratteri di un diritto pos-moderno
111
È il tema di una famosa conferenza tenuta da Filippo Vassalli nel 1951 (cfr. F. Vassalli,
Estrastatualità del diritto civile, ora in Studi giuridici, Giuffrè, Milano 1960, vol. III, t. II).
112
Si pensi, per esempio, alla vicenda davvero esemplare del Code Civil napoleonico, che
solo di recente ha avuto un sostanzioso (peraltro, non felice) rinnovamento.
113
Un assolutismo giuridico funzionale a conservare e tutelare un assoluto liberismo
economico.
114
Maggiori precisazione ho offerto in Novecento giuridico: un secolo pos-moderno (2010), ora in
Introduzione al Novecento giuridico, Laterza, Roma-Bari 2012.
115
Per maggiori precisazioni cfr. P.G., Sulla odierna fattualità del diritto (2013), ora in Ritorno
al diritto, Laterza, Roma-Bari 2015.
116
Le occasioni furono molteplici, ma si veda soprattutto Santi Romano, Le prime carte
costituzionali (1907), ora in Lo Stato moderno e la sua crisi. Saggi di diritto costituzionale, Giuffrè,
Milano 1969.
117
È il famoso discorso per l’inaugurazione dell’anno accademico nella Università di Pisa.
Per un più approfondito esame del problematizzante testo romaniano mi permetto di
rinviare a quanto dissi in occasione della celebrazione pisana del centenario: «Lo Stato
moderno e la sua crisi» (a cento anni dalla prolusione pisana di Santi Romano) (2010), ora in
Introduzione al Novecento giuridico, cit.
118
Sinceramente, non riesco a capire come tutto ciò sia identificato da qualche civilista nella
‘eclissi del diritto civile’ (così si intitola un recente volume di Carlo Castronovo edito da
Giuffrè, Milano 2015).
119
È il giovane Francesco Carnelutti che, nella felicissima raccolta di sue indagini sul tema –
tutto nuovo per le teorizzazioni del civilista – degli infortuni sul lavoro, parla
coraggiosamente di quel carattere «imperturbabilmente borghese» che rende la scienza
giuridica italiana tanto sorda ai problemi del lavoro e della nuova organizzazione industriale
(cfr. F. Carnelutti, Infortuni sul lavoro (Studi), vol. I, Athenaeum, Roma 1913, Introduzione,
p. XII).
120
Ne ho discusso ampiamente in Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950,
Giuffrè, Milano 2000, pp. 97 sgg.
121
Anche per questo tema storicamente di grande rilievo mi si permetta di rinviare al mio
Scienza giuridica italiana, cit., pp. 130 sgg.
122
Pioniere assoluto e coraggioso di questa osservazione più complessa della dimensione
proprietaria è, in Italia, Enrico Finzi, la cui voce solitaria negli anni Venti e Trenta del XX
secolo apparve sostanzialmente ereticale (cfr. P. Grossi, Enrico Finzi: un innovatore solitario, in
E. Finzi, «L’officina delle cose». Scritti minori, Giuffrè, Milano 2013, p. XXXII).
123
È nel 1922 che, per merito di Giangastone Bolla, nasce in Firenze la «Rivista di diritto
agrario».
124
‘Invenire’, ‘invenzione’ secondo l’ètimo latino, nel significato di cercare e trovare. Io
volli pubblicamente sottolineare questa caratterizzazione del diritto pos-moderno, e di
quello straordinario modello operativo che è la Corte costituzionale, nella relazione
introduttiva al Convegno per il sessantennio della stessa Corte tenuta nel palazzo del
Quirinale il 19 maggio del 2016 (oggi si può leggere, oltre che negli Atti congressuali, in
P.G., L’invenzione dell’ordine costituzionale: a proposito del ruolo della Corte, in L’invenzione del
diritto, Laterza, Bari-Roma 2017).
125
Il riferimento è alla nota recensione di Calamandrei al libro del filosofo Lopez de Oñate
su La certezza del diritto. Nel secondo dopoguerra e soprattutto grazie al diretto
coinvolgimento del grande processualista nella officina fervida della Assemblea Costituente
c’è un significativo ripensamento del vecchio legalismo post-illuminista. Ho tentato di
sottolineare questa conversione pluralista in Lungo l’itinerario di Piero Calamandrei (2008), ora
in Nobiltà del diritto. Profili di giuristi, vol. II, Giuffrè, Milano 2014.
126
N. Irti, La crisi della fattispecie, in «Rivista di diritto processuale», 1, 2014, p. 41.
127
U. Breccia, Il pensiero di Salvatore Romano, in Salvatore Romano, a cura di G. Furgiuele,
ESI, Napoli 2015, p. 5.
128
P.G., La Costituzione italiana quale espressione di un tempo giuridico pos-moderno (2013), ora in
L’invenzione del diritto, cit.
129
Irti, La crisi della fattispecie, cit., p. 41.
130
Ivi, p. 42.
131
Ivi, pp. 42 e 43.
132
Ivi, p. 44.
133
Ibid.
134
Sull’esperienza giuridica pos-moderna (a proposito dell’odierno ruolo del notaio), in «Quaderni
fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 47, 2018, p. 337.
V.
A proposito
de ‘Il diritto giurisprudenziale’
1. Un invito a guardare l’oggi con gli occhi di oggi; 2. Su ‘moderno’ e ‘pos-moderno’ quali
strumenti interpretativi della storia del diritto; 3. Sulla gènesi di un tempo giuridico pos-moderno
in Italia; 4. Sui caratteri di un diritto pos-moderno in Italia: in particolare, sulla sua ritrovata
complessità; 5. Sui caratteri di un diritto pos-moderno in Italia: in particolare, sul messaggio
innovatore della Costituzione repubblicana; 6. Sul ‘diritto giurisprudenziale’, in Italia, oggi.
135
La manifestazione più sonora fu in occasione del discorso inaugurale per l’anno
accademico 2010-11 tenuto nella Università di Ferrara il 22 novembre 2010: Novecento
giuridico: un secolo pos-moderno, ora in Introduzione al Novecento giuridico, Laterza, Roma-Bari
2012.
136
Questo itinerario è seguìto distesamente nel discorso citato alla nota precedente.
137
Cancellando autoritariamente, d’un solo colpo, nel 1791, tutte le formazioni sociali.
138
Questa apòstrofe si spiega, essendo il testo una lezione tenuta a Pisa nell’Aula Magna
Storica dell’Ateneo.
139
È il notissimo discorso inaugurale per l’anno accademico 1909-10 nella Università di
Pisa, tenuto il 4 novembre 1909 e intitolato Lo Stato moderno e la sua crisi.
140
Su questa folta legislazione di carattere eccezionale mi sono diffuso in altra occasione:
Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, Giuffrè, Milano 2000, pp. 130 sgg.
141
Tema sviluppato nei saggi raccolti in L’invenzione del diritto, Laterza, Bari-Roma 2017.
142
Sul diritto come ‘ordinamento osservato’ da una comunità mi permetto di rinviare alle
precisazioni da me offerte in Prima lezione di diritto, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 19 sgg.
143
Su questo sintagma, programma ed emblema della serrata giacobina della rivoluzione
francese e, poi, del dispotismo del codificatore Napoleone, chi volesse saperne di più
potrebbe consultare un mio risalente volume: Assolutismo giuridico e diritto privato, Giuffrè,
Milano 1998.
144
Insisto per una netta distinzione fra un primo costituzionalismo, quello delle ‘carte dei
diritti’, proprio dell’età borghese, e le Costituzioni del Novecento democratico, che
vogliono essere dei breviarii giuridici per l’esistenza quotidiana di ogni cittadino e anche del
socialmente ultimo, in alcune mie recenti lezioni napoletane: Costituzionalismi tra ‘moderno’ e
‘pos-moderno’. Tre lezioni suor-orsoliane, Editoriale Scientifica, Napoli 2019.
145
È il tema di una mia lezione maceratese: La Costituzione italiana quale espressione di un
tempo giuridico pos-moderno (2013), ora in L’invenzione del diritto, cit.
146
Si impone qui una precisazione sul sintagma da noi usato ‘costituzione materiale’,
sintagma coniato negli anni Quaranta del secolo scorso da Costantino Mortati intendèndolo
nella ristretta accezione di forze politiche dominanti. Qui si fa riferimento a forze, più che
politiche, etiche sociali culturali, che, per essere condivise, si trasformano in valori di una
intiera comunità, valori fondativi di principii e, quindi, di diritti fondamentali per ogni
componente di essa.
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Per la loro diretta influenza, sono da ricordare almeno i francesi Maurice Hauriou e
Georges Renard.
148
La necessità di una disciplina legislativa si impone per quei settori dell’ordine giuridico
dove sono in gioco problemi di sicurezza pubblica, per esempio nel campo del ‘penale’;
anche se da qualche autorevole esponente della riflessione penalistica italiana si ha una decisa
problematizzazione di quello che fino a ieri era un principio indiscutibile.
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È un canone individuato già in una sentenza della Corte costituzionale, la 443 (12-23
dicembre 1994), relatore Renato Granata.
150
Dove protagonisti sono i grandi maestri delle Università diffuse in tutta Europa,
costruttori, sulla base del diritto romano e del diritto canonico, di una rete giuridica
sovrastante la minuta frammentazione politica e costituente un autentico diritto comune
europeo.
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Lezione che costituisce il primo dei saggi contenuti in questo volume.