Sei sulla pagina 1di 61

I supplizi capitali -origine e funzioni delle pene di morte in Grecia e a Roma

LO STATO CHE UCCIDE; COME E PERCHÉ, IERI E OGGI


Oggi gli stati che prevedono la pena capitale hanno alle spalle un plurisecolare dibattito teorico sulle ragioni di
questa pratica, e giustificano la loro scelta di farvi ricorso attribuendo alla morte di Stato:
- una funzione riabilitativa e deterrente
- una funzione retributiva
- le due funzioni assieme

Originariamente, tanto in Grecia quanto a Roma, le pene di morte non svolgevano una sola funzione ma tre assieme,
ciascuna delle quali rivelata dalle modalità delle esecuzioni previste per i diversi tipi di reato.
Le tre funzioni erano:
1. la funzione di affermare l’autorità del nuovo ordinamento sovraordinato alle famiglie, che si stava
affermando come città stato.
2. la funzione di soddisfare almeno in parte il desiderio di vendetta delle vittime (o dei familiari, se il crimine
era un omicidio).
3. la funzione di eliminare una persona che, a causa del suo comportamento, era considerata un “mostro”
portatore di impurità, causa di contagio, e del quale far sparire ogni traccia.

L’esecuzione capitale, e più in generale la pena, è ancora sentita come un modo di dare soddisfazione alle vittime e
alle loro famiglie; in alcuni stati, infatti, si consente ai parenti delle vittime di assistere all’esecuzione: il caso noto è
quello di Timothy McVeigh, il terrorista che aveva messo una bomba in un edificio nel 1995, provocando la morte di
168 persone.
Lunedì 11 giugno 2001 Timothy venne condotto nella camera delle esecuzioni di Terre Haute e sia ai parenti delle
vittime sia ai sopravvissuti, era stato permesso di assistere all’esecuzione.
Secondo una dichiarazione del presidente Bush, l’esecuzione aveva dato alle vittime giustizia ma non vendetta,
anche se le reazioni dei familiari delle vittime dimostravano ben altro. Molti di loro, dichiararono, infatti, di aver
provato sollievo vedendolo morire e ciò lascia intendere che essi si aspettassero proprio la vendetta.
A seguito dell’esecuzione, alcuni sostenitori della pena capitale cominciarono a nutrire dubbi sulla sua efficacia e sul
modo in cui le sentenze venivano pronunziate.

Negli ultimi decenni la pena di morte è stata riconcettualizzata in modo da lasciar sempre più spazio ai sentimenti
vendicativi che, spesso, animano i parenti delle vittime.
Di fronte ai crimini più efferati, l’esecuzione viene percepita come la risposta all’esigenza di sapere che il mostro non
c’è più, che la terra è stata liberata dal male, purificata da una presenza intollerabile che rendeva il mondo
pericoloso.

René Girard parla del capro espiatorio e sostiene che, nelle società tribali, in alcune situazioni di conflitto, tutto il
male e ciò che c’è di negativo si concentra su una sola persona, che diventa vittima arbitraria della comunità.
Ritroviamo questo concetto nel pharmakos greco, il personaggio che gli ateniesi conservavano al fine di ucciderlo,
qualora si verificassero eventi che segnalavano la diffusione di un contagio che andava eliminato.
La morte del condannato alla pena capitale dà oggi alla collettività la stessa sensazione di purificazione che dava agli
ateniesi l’uccisione del pharmakos.

Il dibattito sull’abolizione della pena di morte nasce nel Settecento, sull’onda di opere come “dei delitti e delle pene”
di Cesare Beccaria.
Possiamo però dire che la riflessione sulle ragioni che giustificano l’irrogazione delle pene e sulla funzione di queste
ebbe inizio molti secoli prima, a opera dei pensatori greci.

Alla pena Platone dedica notevole attenzione. Nel Protagora si trova l’esposizione più celebre e chiara delle possibili
ragioni per le quali uno stato può infliggere ai propri cittadini una pena in tutte le sue possibili forme e gradazioni.
Platone si chiede: “può la virtù essere insegnata?” e per Protagora la risposta è positiva, e la prova sta nella pena.
Chi cerca di punire secondo ragione, infatti, non punisce a motivo del delitto trascorso, ma in considerazione del
futuro, affinché non commetta nuovamente ingiustizia colui che viene punito, né altri che vedano il primo punito. La
giustizia è quindi prospettiva, non retrospettiva.
Nel Protagora la pena ha funzione di deterrenza sia specifica, in quanto evita che un criminale ripeta lo stesso
delitto, sia generale, in quanto evita che altri commettano quel reato.
Protagora appare quindi come precursore delle moderne teorie riabilitative nel dialogo platonico.

“sia che si tratti di un fanciullo, sia che si tratti di un uomo o una donna, bisogna correggere e castigare chi non
partecipa alla virtù sino a quando, subendo la pena, non diventa migliore; tuttavia, colui che si mostri renitente alle
correzioni e ai castighi, si deve cacciare o uccidere perché inguaribile”

La pena estrema per Protagora (l’allontanamento o la morte) non va inflitta in considerazione di quel che è stato
fatto nel passato, non è retribuzione. Va inflitta per proteggere la polis ed è la misura estrema che garantisce
l’effettività della funzione deterrente specifica.

Altre riflessioni platoniche interessanti sono quelle fatte nel Gorgia, dove Platone si chiede se, per guidare l’azione
politica, è sufficiente saper persuadere gli ascoltatori, diffondere con abile propaganda le proprie idee e ottenere
il favore del popolo assecondandone le passioni o se, invece, bisogna cercare la verità.
Per Platone fare giustizia è più dannoso che riceverla, ed è più felice chi viene punito per le ingiustizie commesse di
chi riesce a evitare la pena.
L’ingiustizia e la malvagità, spiega Socrate per bocca di Platone, sono malattie morali; per questo, esattamente come
chi è malato nel corpo va dal medico, chi soffre di mali morali deve andare dai giudici per scontare la pena.
Al termine del dialogo troviamo il racconto del mito sul giudizio delle anime per il quale, secondo una regola in
vigore già ai tempi di Crono, al momento della morte le anime di coloro che avevano vissuto bene andavano nelle
Isole dei Beati, dove vivevano felici e immuni dai mali; chi aveva vissuto male invece andava a espiare nel Tartaro.
Quando a Crono successero Zeus, Poseidone e Plutone, Plutone e i custodi delle Isole dei Beati andarono da Zeus,
denunciando che nel Tartaro e nelle Isole Felici giungevano anime che avrebbero dovuto avere altra destinazione.
Zeus spiegò perché questo accadeva: le persone venivano giudicate ancora vestite, in quanto vive, e poiché molti,
pur avendo anime malvagie, erano vestiti di corpi belli, i giudici, a loro volta vivi e vestiti, venivano influenzati dal
rivestimento dei corpi. Dunque, concluse Zeus, si rendevano necessari due provvedimenti:
1. gli uomini non dovevano più prevedere quando sarebbero morti (sino ad allora lo prevedevano)
2. gli uomini dovevano venire giudicati nudi, vale a dire dopo la morte, da giudici anch’essi morti e nudi.
A giudicare le anime sarebbero stati i suoi tre figli, Minosse, Radamante ed Eaco, che avrebbero emesso le loro
sentenze stando su un prato da cui partivano due vie, una diretta al Tartaro, l’altra all’Isola dei Beati.

“Coloro che subiscono la pena, se hanno commesso colpe sanabili, diventano migliori, così come diventano migliori
coloro che, vedendoli scontare la pena, vengono presi dalla paura. Ma coloro che hanno commesso le colpe più gravi
e per questo sono diventati insanabili non possono migliorare. Essi non sono di alcun giovamento a sé stessi e per
questo sono veri e propri esempi sospesi là nell’Ade, spettacolo e ammonimento agli ingiusti che continuano a
giungere.”

Alla pena viene affidata quindi una funzione riabilitativa e deterrente.

Nel dialogo “le leggi”, Platone lascia la metafisica per affrontare l’aspetto istituzionale della pena.
Nella città ideale (Magnesia), il buon ordine della città è affidato alle leggi, cui spetta il compito di formare la
cittadinanza. Il buon legislatore non deve quindi limitarsi a minacciare delle punizioni.
Il buon legislatore non deve limitarsi a reprimere, il suo compito è in primo luogo, persuadere i cittadini a rispettare
le leggi. Ma come? La soluzione prospettata da Platone è quella che il legislatore faccia precedere la sanzione da un
proemio, capace di persuadere i cittadini della saggezza e dell’opportunità delle regole e della necessità di
rispettarle.
Solo se i cittadini identificheranno la loro volontà con quella delle leggi, e solo se lo faranno anche nel privato, sarà
possibile raggiungere il fine comune di garantire la giustizia ed evitare conflitti interni alla città.
Le leggi prospettano un programma cupo e opprimente di una teocrazia intesa ad addomesticare la vita attraverso
un apparato legislativo onnipervasivo e immutabile.

La città nelle leggi si regge su alcuni princìpi fondamentali e alcune certezze che tutti devono condividere: gli dèi
esistono, essi si prendono cura dei mortali e sono incorruttibili. Senonché, purtroppo, alcuni uomini non si lasciano
convincere dalle leggi e non condividono questi princìpi, commettendo il crimine più grave che si possa commettere,
l’empietà. Platone osserva che esistono vari tipi di empietà e diversi tipi di persone empie. Può darsi, infatti, che tra
coloro che non credono negli dèi vi siano individui per natura giusti; altri, invece, oltre a non credere negli dei, sono
incontinenti e sfrenati nel cercare il piacere ed evitare il dolore; essi sono ingiusti e pericolosi, si impadroniscono
dell’anima altrui, si vantano di saper invocare i morti, dicono di potersi conquistare il favore degli dei con preghiere e
scongiuri. A causa di costoro possono diffondersi pratiche magiche, celebrazioni di misteri privati, possono nascere
tiranni e regimi demagogici.
Le pene, dunque, devono essere differenziate:
- Gli empi del primo tipo, quelli giusti, dovranno essere rinchiusi in un carcere riabilitativo per almeno cinque
anni. Se riacquisteranno la saggezza, verranno liberati, in caso contrario, saranno condannati a morte.
- Gli empi del secondo tipo devono essere rinchiusi a vita in un carcere collocato lontano da ogni luogo
abitato, al quale mai alcun uomo libero deve avvicinarsi, e al momento della morte il loro cadavere deve
essere gettato, insepolto, al di fuori dei confini dello Stato.
Nelle leggi la pena di morte è un rimedio estremo, cui la città deve ricorrere per difendersi, mettendo a morte gli
irrecuperabili o rinchiudendoli a vita in carcere (la reclusione a vita, inoltre, tornerà come pena peggiore della morte
anche in Beccaria).

In Grecia, comunque, la concezione dominante della funzione della pena era quella retributiva e ciò appare in tutta
la sua evidenza attraverso gli occhi degli oratori giudiziari.
In un celebre dialogo, riportato nel terzo libro della Guerra del Peloponneso di Tucidide, gli abitanti di Mitilene,
ribellatisi ad Atene, erano stati sconfitti; il quesito era: come punirli? Una parte degli ateniesi, rappresentata da
Cleone, riteneva che si dovessero uccidere tutti gli uomini e vendere come schiavi le donne e i bambini, e Cleone li
esortava a farlo subito, sull’onda dell’ira provocata dal tradimento. Discutere troppo a lungo giovava agli offensori,
perché “l’indignazione si placa, e questo è male”: la vendetta fatta al più presto era una punizione più adeguata.
Secondo Cleone, quindi, la vendetta non solo è giusta, ma anche utile.
Appunto importante da fare è che, per Cleone, l’ira era da vedersi come passione che consente di infliggere la giusta
pena.

Nel V secolo a.C., a distanza di secoli dal momento in cui la prima legge ateniese aveva vietato di farsi giustizia da soli
imponendo il ricorso ai tribunali, lo scontro tra la vecchia cultura dell’ira (e della vendetta) e quella della
pacificazione (e della cooperazione cittadina) è ancora in atto.
I testi dei logografi segnalano la coesistenza nel mondo greco della concezione retrospettiva (retributiva) della pena,
con quella prospettiva (riabilitativa e deterrente).

Le due concezioni della pena nascono ad Atene.


A Roma, nel II secolo d.C., si discuteva della funzione della pena di morte; secondo il giurista Sesto Cecilio, la pena di
morte aveva funzione deterrente, mentre il filosofo Favorino sosteneva che essa non era altro che vendetta.
Il dibattito continuò a svolgersi in questi termini e fra queste alternative per secoli, sino e oltre il momento in cui
Cesare Beccaria si dichiarò contrario alla pena di morte non solo sul piano delle idee, ma anche e soprattutto su
quello della politica legislativa.
Tommaso d’Aquino scriveva che “il bene comune vale più di quello di un solo individuo. Pertanto, se la vita di alcuni
delinquenti è contraria al bene comune, vale a dire all’ordine della società umana, questi potranno essere uccisi”.
Quindi, se un uomo con i suoi peccati è un pericolo per la società, e può disgregarla, sopprimerlo è lodevole e
salutare per la conservazione del bene comune; ma come è possibile farlo senza peccare?
“se l’uomo si serve delle piante per gli animali, e degli animali per gli uomini, non c’è niente di illecito; è il più
necessario dei servizi dare le piante in cibo agli animali, e gli animali agli uomini: il che è impossibile senza
distruggere la vita. Sebbene uccidere un uomo che rispetta la propria dignità sia cosa essenzialmente peccaminosa,
uccidere un uomo che pecca può essere un bene, come uccidere una bestia. Infatti, un uomo cattivo è peggiore e più
nocivo di una bestia.”

Sono sempre esistiti anche coloro che non approvavano la pena di morte; nel ‘500 e nel ‘600, per esempio, erano
contrari alla sua applicazione personaggi come Tommaso Moro.
Per Tommaso Moro il crimine aveva due classi sociali: miseria e ignoranza. Per combatterlo bisognava eliminare
queste due cose.
Pertanto, se qualcuno commetteva un reato, bisognava curarlo con la preghiera e la prigione aperta.
A Moro spetta un posto nella storia del pensiero preabolizionista, che trovò altri sostenitori in personaggi come
Andrea Alciato. Alciato leggeva e commentava i testi giustinianei ed è in questi testi che trova argomenti per
sostenere la necessità di sostituire la pana di morte con la reclusione a vita.
Alciato, dopo aver deprecato che si interpreti sempre il termine nel significato peggiore, e mai in quello più mite,
commenta che nelle pene c’era solo carneficina; e che i condannati dovessero essere condannati ai lavori forzati in
favore dello stato e alla condanna a vita, per essere di maggiore esempio per gli altri.

Il maggior contributo storico dell’Illuminismo è stato la riforma in senso umanitario del diritto penale.
Nel Settecento, nei paesi europei, la pena capitale veniva applicata a un numero altissimo di comportamenti, che
includeva i “delitti” detti “religiosi” (bestemmia, sacrilegio, eresia, magia), nonché delitti quali il furto o la
falsificazione di monete, considerati crimine di “lesa maestà”.
Quale fu l’atteggiamento degli illuministi di fronte a un diritto penale di questo tipo? Sui delitti “religiosi” la loro
posizione fu radicale: una cosa era il “peccato” (trasgressione della legge religiosa o morale), altra il “delitto”
(violazione di una norma del diritto penale). I peccati, in quanto non violavano i diritti altrui e non provocavano danni
sociali, non andavano puniti dalla legge dello stato. Altrettanto netta e unanime fu la presa di posizione contro i
supplizi che accompagnavano le esecuzioni, ma la questione della pena di morte registrò pareri diversi.
Contro di essa si pronunciò in primo luogo Beccaria, nel 1764. E lo fece basandosi su due ordini di argomenti, l’uno
fondato sulla teoria del contratto sociale, l’altro di natura utilitaristica (consiste nella confutazione dell’idea che la
pena capitale avesse efficacia deterrente: quel che impressiona, e può indurre a evitare di delinquere, non è lo
spettacolo di un’esecuzione).
Per Beccaria, alla pena di morte, andava sostituita la prigione a vita.

Le reazioni alla pubblicazione del libro di Beccaria furono diverse: a favore della pena di morte si schierò Kant, in
aperta polemica con Beccaria e sottoponendo le tesi di questi a serrata critica. Ma tra i più accesi sostenitori
dell’intellettuale milanese stava Voltaire.

Che effetti pratici ottenne il libro di Beccaria? Il primo governo che accolse le tesi abolizioniste fu quello di Leopoldo
I granduca di Toscana: il 30 novembre 1786 nel granducato vennero abolite la tortura e la pena di morte. Ma la
regola ebbe vita breve: solo quattro anni dopo, la pena capitale venne reintrodotta.
Il 30 aprile 1859 il governo provvisorio toscano vietò nuovamente il ricorso alla pena capitale, determinando una
situazione legislativa problematica.
Le legislazioni della nascente Italia unita prevedevano tutte la pena capitale, ma ebbe inizio un nuovo dibattito che
venne risolto nel 1889 con l’entrata in vigore del nuovo Codice penale, che aboliva la pena di morte.
Nel 1926 Mussolini reintrodusse la pena contro coloro che commettevano una serie di reati contro lo Stato, fra cui
l’attentato alla vita o alla libertà della famiglia reale o del capo del governo; e il nuovo Codice penale (il codice
Rocco), entrato in vigore il 1° luglio 1931, previde nuove ipotesi di reati contro lo Stato punibili con la morte,
reintrodotta anche per i reati comuni più gravi.
Con il decreto-legge 224 del 1944 venne abolita la pena di morte per tutti i reati previsti dal Codice penale del 1930,
mantenendola in vigore per i reati fascisti e di collaborazione coi nazifascisti.
Dal 5 ottobre 1994 l’Italia entrò a far parte dei paesi totalmente abolizionisti, con qualche anno di ritardo sulla
Francia, che l’ha abolita per tutti i crimini nel 1981, ma in anticipo rispetto alla Spagna, al Belgio e all’Inghilterra, che
l’hanno abolita rispettivamente nel 1995, nel 1996 e nel 1998.

Ad oggi il numero di paesi che ammettono la pena di morte è ancora alto. Secondo dei dati del 2011, gli stati che
l’hanno completamente abolita sono 96, mentre quelli che continuano a prevederla o ad applicarla sono 58.
Non esiste ancora una norma internazionale che vieti la pena di morte. Si può dire, forse, che una norma non scritta
che vieta in linea generale l’applicazione della pena di morte esiste, se non a livello internazionale, a livello europeo.
A livello mondiale invece? diversi indizi segnalano che, se una norma internazionale che vieta la pena di morte
ancora non esiste, essa sta tuttavia formandosi.

Sempre più alto negli Usa, è il numero di coloro che, pur senza pensare a un’abolizione totale, ripensano alla
necessità di limitare i casi nei quali la pena di morte può essere applicata, sia per ragioni oggettive (tipo di reato
commesso), sia per ragioni soggettive (stato mentale o psicologico di chi lo ha commesso).
Il percorso in questa direzione è stato avviato e prosegue sia sul piano politico sia su quello giudiziario. Sul piano
politico una delle tappe più importanti di questo mutamento di indirizzo è stata la nomina della commissione Ryan.
George Ryan, ex governatore repubblicano dell’Illinois, era stato colpito da diversi errori giudiziari che avevano
portato alla condanna di persone poi rivelatesi innocenti. Il 31 gennaio del 2000 proclamò una moratoria a tempo
indeterminato sulle esecuzioni in corso e istituì una commissione composta da esperti di diversa opinione e
tendenza politica.
Quello che il governatore chiedeva alla commissione era di dire se esistevano riforme che potevano rendere giusta,
equa e precisa l’applicazione della pena di morte. Seguendo le indicazioni di Ryan, la commissione esaminò i casi dei
tredici imputati che negli ultimi anni, nell’Illinois, dopo essere stati condannati a morte, avevano ottenuto
l’annullamento della condanna; e al termine dei lavori, che si protrassero per due anni, conclusero che il livello delle
indagini non consentiva di fidarsi dei risultati raggiunti. Se si decideva di continuare ad applicare la pena di morte era
necessaria una serie di riforme.

Sul piano giudiziario, la consapevolezza della necessità di un forte ripensamento è emersa, ai massimi livelli
istituzionali, da una serie di importantissime sentenze della Corte Suprema.
- Nel 2002 la corte stabilì l’incostituzionalità dell’esecuzione delle persone mentalmente ritardate, sulla base
dell’ottavo emendamento della costituzione, che vieta il ricorso a punizioni crudeli e inusuali.
- Il 1° marzo del 2005 la corte ha concluso il caso di un omicidio commesso dall’allora diciassettenne
Christopher Simmons, stabilendo l’incostituzionalità della condanna a morte e dell’esecuzione capitale di
coloro che hanno commesso o commetteranno omicidi rima dei 18 anni. Questa sentenza ha posto fine a
una pratica che era ancora in vigore in 19 dei 50 stati dell’unione.

Negli ultimi anni, alle tendenze abolizioniste, o comunque volte a limitare le esecuzioni, si è affiancato un
movimento di diversa natura, che tende a evitare che l’amministrazione della giustizia comporti spargimento sia pur
legittimo di sangue.
Si parla della recente teorizzazione di una restorative justice, l’ipotesi di una nuova giustizia criminale diversa sia da
quella “riabilitativa” sia da quella “retributiva”, di ciascuna delle quali segnala limiti e inadeguatezze.
Emersa negli anni ’90 questo tipo di giustizia è stato teorizzato da politici, accademici, lavoratori sociali, gruppi
religiosi e, in determinate situazioni, realizzata grazie all’opera di nuove figure professionali dette “mediatori di
giustizia.
Chi studia il fenomeno ha da individuare almeno tre proposizioni fondamentali:
- I sostenitori della restorative justice ritengono sbagliato considerare il crimine solo come un’infrazione alla
legge: il crimine offende e danneggia le vittime, la comunità e lo stesso criminale.
- Essi credono che, più che punire il criminale, la giustizia debba riparare alle offese e alle ingiustizie che il
crimine ha provocato.
- Contestano il monopolio dello Stato nella risposta al crimine, a svantaggio (se non a esclusione) della società.
La restorative justice poggia su quattro pilastri: incontro, riparazione, reintegrazione e partecipazione.

Il caso più noto di restorative justice è l’azione della Trc (Truth and Reconciliation Commission) incaricata di riportare
l’ordine e la riconciliazione in Sudafrica. Nata per evitare i processi politici, la Trc si proponeva di applicare una
giustizia restorative, offrendo riparazione alle vittime e concedendo un’amnistia ai colpevoli.
Questa “altra giustizia” ha un importante potenziale, legato al superamento dell’idea che gli interessi della vittima e
del criminale siano diametralmente opposti. Ma accanto alle potenzialità, essa ha anche aspetti che possono
ingenerare ambiguità.
Due aspetti fondamentali della restorative justice sono:
- l’ingresso nel mondo del diritto e della giustizia criminale delle vittime come attori
- la considerazione di temi come le emozioni.
Tra le emozioni sta anche il desiderio di vendetta delle vittime, la cui posizione processuale, nel corso degli anni, è
sensibilmente cambiata.
In risposta a un diffuso malcontento delle vittime è nato infatti un movimento che, a partire dagli anni Settanta, ha
preso a denunziare la disparità di trattamento tra gli accusati, i cui diritti erano riconosciuti e protetti nel processo, e
le vittime, cui non spettava alcun diritto e tantomeno alcun ruolo nel procedimento giudiziario.
Definito Victim’s Rights Movement, il gruppo di coloro che sostenevano i diritti delle vittime non era in realtà un
movimento con obiettivi uniformi e coerenti. Esso comprende gruppi di persone che si prefiggono obiettivi diversi, e
tra gli strumenti per raggiungere questi obiettivi trova spazio la richiesta di concedere alle vittime di testimoniare
durante il processo.
A giustificazione di questa richiesta abbiamo due considerazioni:
- essa era considerata e presentata come un’istanza di giustizia: poiché la difesa ha il diritto di produrre
testimoni che possono contribuire a sostenere le sue tesi. Era quindi ingiusto che a coloro che sono stati
legati da vincoli di parentela o affetto alla vittima non sia concesso di testimoniare.
- se nel processo fosse stata concessa maggior voce ai parenti delle vittime, questi sarebbero riusciti più
facilmente a chiudere il periodo della loro vita che era stato devastato dal crimine, riconquistando il
controllo di sé e la capacità di reintegrarsi nella comunità dalla quale spesso si erano o erano stati estraniati.
Il dibattito su queste richieste e sul ruolo processuale dei parenti delle vittime è stato ampio e acceso. Accanto a chi
ha approvato l’accoglimento di queste richieste, vi sono stati quelli che, invece, le hanno giudicate in modo negativo.
Col passare del tempo le richieste del victim’s rights movement sono diventate un problema politico che chiedeva
risposta.
Se è certamente cosa buona e nobile dare sollievo alle vittime e ai loro parenti, questa non è cosa di cui debba
preoccuparsi la giustizia criminale. Ma negli Stati Uniti questa posizione è attualmente minoritaria: e a far
comprendere le ragioni che la rendono tale aiutano le considerazioni recentemente svolte da Franklin E. Zimring.
Secondo Zimring, la pena di morte sarebbe ancora in vigore negli Usa perché sarebbe una manifestazione
dell’american exceptionalism, vale a dire della “peculiarità” americana, ovvero quell’insieme di princìpi, credenze,
pratiche e valori che danno alla cultura americana una sua particolare fisionomia, che la distingue dalle altre.
La pena capitale, in particolare, si ricollegherebbe ai valori che ispiravano la cultura dei vigilantes, che specie negli
Stati del Sud prospettava l’idea del farsi giustizia personalmente, e che, nella sua forma estrema, si esprimeva nella
pratica del linciaggio.

A partire dal 1972 la corte suprema dichiarò l’incostituzionalità della pena capitale nelle forme crudeli e inusuali
allora in voga; venne quindi introdotta l’iniezione letale.
Ma perché la morte di Stato non incontrasse eccessive opposizioni non bastava che le esecuzioni apparissero più
accettabili: bisognava convincere l’opinione pubblica dell’opportunità di reintrodurle.
Negli stati uniti, oggi, esiste un legame personale tra la pena, le vittime del crimine e le loro famiglie che non esiste in
alcuno stato europeo. L’America accetta le sentenze capitali in quanto le percepisce come la soddisfazione di
interessi privati.
De il diritto dei parenti di assistere alle esecuzioni è concessione evidente ai sentimenti di vendetta, l’ammissione dei
Victim Impact Statements nella sentencing phase di un processo capitale è qualcosa di più.
Ai parenti delle vittime, con questa concessione, viene attribuito un ruolo che è dichiarato dalla Corte Suprema
come determinante nella formazione della sentenza. Pur non avendo diritto di voto, dunque, i parenti delle vittime
contribuiscono, o quantomeno possono contribuire a determinare i voti dei giurati.

Attualmente la vendetta è oggetto di riflessione da parte non solo dei giuristi, ma anche dei filosofi e dei sociologi
del diritto.
William Ian Miller osservava che la vendetta è un motivo dell’azione individuale che non può essere pubblicamente
ammesso: Chiesa, Stato e ragione la condannano concordemente; ufficialmente la vendetta è un peccato per il
teologo, è illegale per il principe ed è irrazionale per l’economista. Ma oggi la vendetta è una motivazione dell’azione
che non solo non ci si vergogna di dichiarare, ma della quale si arriva a proporre una giustificazione teorica.

IN GRECIA
La prima fonte alla quale è possibile rivolgersi alla ricerca di informazioni sulla pena di morte in Grecia sono i poemi
omerici.
Nella società omerica, la sfera privata e quella pubblica erano due mondi diversi, organizzati secondo regole proprie
e distinte. I supplizi, nel mondo dei poemi, non venivano inflitti nelle piazze, ma nelle case, per un motivo preciso: il
diverso livello di organizzazione del pubblico e del privato.
Gli organi pubblici avevano caratteri istituzionali ancora imprecisi, non del tutto privi di una specializzazione, ma non
ancora fissati da regole definite.
Nel mondo omerico non esisteva ancora un organo pubblico istituzionalmente competente a punire chi avesse
violato le regole di comportamento nate nella secolare consuetudine di vita comune; esisteva chi infliggeva la pena
di morte in casa: il capofamiglia, titolare di una potestà personale assoluta e illimitata sugli appartenenti al gruppo,
tutti indistintamente sottoposti a un potere disciplinare che comprendeva il diritto di mettere a morte chi non
rispettava la sua autorità.

IL CASTIGO
Il castigo nelle case dei vivi
L’oikos più celebre dei poemi omerici è quello di Odisseo.
Al ritorno dalla ventennale, proverbiale, assenza, Odisseo non manca di esercitare il proprio diritto di punire i
membri dell’oikos, sottoponendo a castighi severissimi coloro che avevano tradito la sua fiducia e dimenticato i loro
doveri.

1. In casa di Odisseo: l’impiccagione delle ancelle infedeli


Mentre il padrone vagava per i mari le ancelle, dimenticando i loro doveri, avevano assecondato i pretendenti alla
mano di Penelope e si erano inoltre unite sessualmente a costoro. Due volte traditrici, le ancelle erano state infedeli
alla casa e anche al padrone e il castigo che meritavano era la morte.

L’esecuzione scelta da Odisseo fu quella dell’impiccagione, ma perché proprio l’impiccagione?


In Grecia l’impiccagione era una morte tipicamente femminile, non solo nel momento in cui era inflitta come
punizione, ma anche quando era decisa dalle donne stesse come scelta di morte.
Nella tragedia omonima muore infatti impiccata Antigone che, suicidandosi col laccio, si sottrae alla condanna di
Creonte, che la voleva sepolta viva.

Ciò che rientra nei nostri interessi sono le numerose impiccagioni di vergini, il cui ricordo torna nei miti e nei riti di
molte zone della Grecia, dall’Arcadia alla Focide, dalla Tessaglia all’Attica. È la ricostruzione di questi miti e riti che
aiuta a chiarire le regole che presiedevano alla morte delle donne.

2. Divagazioni sulla morte tra rito, mito e pratica punitiva


2.1 in altalena o impiccate: le Kariatidi, Charlia, Aletis-erigone
A Karyai, in Arcadia, al culto di Artemide partecipavano ritualmente dei cori di vergini spartane. Il rito ricordava un
avvenimento drammatico: mentre giocavano, le vergini si impiccarono a un noce, temendo un pericolo.
La festa arcadica celebra quindi un’impiccagione femminile e lo stesso fa la festa delfica di Charlia, descritta da
Plutarco.

Charlia era una povera orfana; recatasi a chiedere cibo al re fu da questi scacciata e, poco dopo, si impiccò
appendendosi alla cintura.
La città a quel punto venne investita da un’epidemia di gravità tale che fu necessario interrogare l’oracolo.
Quest’ultimo disse che bisognava espiare la morte di Charlia e da quel momento in poi, ogni 8 anni, si celebrò una
festa che prevedeva di condurre in processione una bambola dalle sembianze di Charlia, che veniva poi sepolta con
una corda al collo nel luogo dove era stata sepolta la vera Charlia.

Ad Atene, annualmente, si celebrava il rito delle pentole, nel corso del quale veniva preparato un cibo speciale in dei
pentoloni. Durante la cerimonia le ragazze andavano in altalena e questo rito può essere spiegato attraverso un
famoso mito: Quando Oreste, per vendicare il padre, uccise Egisto e Clitemnestra, la figlia di costoro, Erigone inseguì
Oreste fino ad Atene, dove pose fine ai suoi giorni impiccandosi. A questo punto accadde un fatto strano: le vergini
ateniesi presero a impiccarsi come in preda al contagio, mettendo in pericolo l’avvenire della città, ormai quasi
completamente priva di fanciulle da marito. L’oracolo di Apollo, interpellato, risolse il problema suggerendo di
costruire delle altalene, sulle quali le fanciulle avrebbero potuto dondolare sospese nell’aria, come chi si impiccava.

I riti di passaggio da una classe di età a quella successiva sono stati costantemente accompagnati da un periodo di
separazione, caratterizzato da un simbolismo di morte. L’individuo muore per la classe di età dalla quale esce e
rinasce in una collocazione sociale nuova e diversa, alla quale il gruppo lo ha destinato.
I miti di impiccagione riflettono la struttura di questi riti e trovano in essi una spiegazione:
- Karyai: le vergini impiccate all’albero risorgevano sotto forma di noci. Le vergini risorgevano in una forma
nuova che simboleggiava il cambiamento di status della fanciulla e il suo nuovo ruolo sociale.
- Charlia: la festa che celebra la sua storia era connessa alla festa detta Herois, una rappresentazione della
rinascita di Semele. Collegando le due feste delfiche, la struttura del rito di passaggio appare nella sua
completezza con una discesa sottoterra, rappresentata da Charlia sepolta, e una risalita, rappresentata dal
ritorno sulla terra di Semele.
- Atene: dondolarsi sull’altalena, in Grecia, non era solo un gioco infantile, ma anche un rito. L’altalena
simboleggiava infatti l’impiccagione e una testimonianza esplicita dell’identificazione tra i due atti sta nella
descrizione, fatta da Pausania, del dipinto di Polignoto, che rappresentava Fedra in altalena: il dipinto, scrive
infatti Pausania, lascia intendere chiaramente il modo con il quale Fedra si diede la morte (si impiccò). Ma
l’impiccagione, a sua volta, era simbolicamente legata al rapporto sessuale.

Che conseguenze si possono trarre dal collegamento tra l’altalena, l’impiccagione, il rapporto sessuale e i riti di
passaggio? I riti erano destinati a far morire una vergine e a far nascere al suo posto una donna.
Le fanciulle si dondolavano sull’altalena, simbolo sia del rapporto sessuale che faceva di loro delle donne, sia
dell’impiccagione, la morte simbolica legata a sua volta alla sfera sessuale femminile.
L’altalena era dunque uno strumento simbolico che segnalava l’abbandono dello stato di verginità e la rinascita delle
fanciulle come donne atte alla riproduzione.
Così Odisseo, quando scelse di uccidere le ancelle infedeli appendendole al laccio, riservò alle traditrici una morte
tipicamente femminile.

2.2 Tra le viscere della Terra Madre: Antigone e Kore


Antigone, la donna che sacrifica la vita in nome del diritto non scritto che va difeso contro le leggi secolari e ingiuste,
si è resa colpevole di un delitto per il quale le leggi della città hanno stabilito la pena di morte.

Creonte, il tiranno di Tebe, ha proibito di dare sepoltura al cadavere di Polinice, traditore della patria, minacciando di
lapidare chi violerà il suo bando. Ma Antigone, sorella di Polinice, rende gli onori funebri alle spoglie mortali del
fratello. Ella è colpevole, dunque, e deve morire.
Nel momento della condanna, però, la pena pronunziata da Creonte è diversa da quella minacciata: Antigone sarà
murata viva.

La lapidazione è un’esecuzione pubblica, collettiva, ha luogo nello spazio aperto della città. L’esecuzione riservata ad
Antigone, invece, è tale da portarla a morire in un luogo segreto, destinato a richiudersi su di lei per sempre.
La vergine tebana è dunque sottoposta a una prova che altre donne, prima di lei, hanno dovuto subire (es. Danae,
figlia del re di Argo, murata viva perché era stato predetto che il figlio da lei partorito avrebbe ucciso suo padre).

Antigone è condannata a morire con un rito che fa pensare a un’ordalia; saranno infatti le divinità a decidere se ella
sarebbe morta o meno, consentendo a Creonte di non versare direttamente il suo sangue.
È quindi possibile che anche la vivisepoltura sia stata l’utilizzazione in funzione punitiva di una delle morti
iniziatiche femminili?
A suggerire una risposta positiva abbiamo alcuni dei riti che continuavano, in età cittadina, a ricordare la struttura di
antiche cerimonie iniziatiche: la festa delle tesmoforie e quella delle panatenaiche.

Ogni anno, ad Atene, durante le tesmoforie, si celebrava la storia di Persefone (chiamata anche kore), rapita da Ade.
Demetra, madre di Persefone, ottenne da Zeus che la figlia le fosse restituita e così tornò alla luce del sole.
Si può cogliere una corrispondenza tra il mito di Persefone e lo schema dei riti di passaggio: si può infatti interpretare
il suo rapimento e la discesa sottoterra come una morte simbolica e il ritorno alla terra come una resurrezione.

Durante le feste panatenaiche le fanciulle compivano un rito notturno che consisteva nello scendere per un
passaggio sotterraneo, portando sulla testa un oggetto misterioso che poi abbandonavano per tornare alla luce con
un altro oggetto misterioso.

Durante le cerimonie iniziatiche, in conclusione, le giovani greche morivano simbolicamente sia sospese in aria sia
rinchiuse sottoterra.
Le fanciulle condannate a morte morivano così anche nella realtà, ma la loro esecuzione non entrò a far parte del
panorama cittadino dei supplizi, restò infatti chiusa tra le mura domestiche, al riparo da sguardi estranei.

3. Il supplizio al palo del capraio di Odisseo


Odisseo non si limita a impiccare le ancelle infedeli. Anche il capraio Melanzio lo aveva tradito, sottraendo dalle sue
stanze scudi, lance e elmi di cuoio che aveva poi distribuito ai proci. Come punirlo?
Sollevato da terra come le ancelle, Melanzio è sottoposto a un supplizio il cui strumento è nuovamente la corda, ma
la diversità tra le esecuzioni non è irrilevante.
Mentre le ancelle sono sospese alla corda, Melanzio, con essa, è saldamente legato alle travi. Il brochos (laccio che
strangola le ancelle, qui non appare). Melanzio è avvinto a una colonna con una fune.
Le ancelle muoiono in pochi secondi, Melanzio soffre invece atroci torture.

La sospensione alla trave e le mutilazioni inferte al capraio fanno parte di due rituali distinti ma le seconde non sono
fatali, in quanto vengono inferte al cadavere post-morte.
Perché il cadavere viene mutilato? Una possibile spiegazione è suggerita dall’analogia tra le mutilazioni inflitte al
cadavere di Melanzio e quelle che, in epoca più avanzata, gli assassini infliggeranno al cadavere delle loro vittime, nel
corso della pratica denominata maschalismos. Questa pratica è descritta con precisione dai lessicografi: dopo aver
tagliato al morto mani, piedi, genitali, naso e orecchie, l’assassino legava le parti recise con una corda che, passata
sotto le “ascelle” del morto, faceva ricadere le parti recise dietro il suo collo.
Essendo stato mutilato, il morto perdeva la sua forza e quindi non poteva più vendicarsi facendo del male al suo
assassino.
Il maschalismos era un atto più complesso di una semplice mutilazione e la sua funzione di allontanamento del
maligno era affidata alla pratica di legare le parti recise dietro il collo.

Non possiamo però considerare lo sfregio al cadavere di Melanzio un maschalismos perché l’uomo omerico non
temeva i morti e non considerava l’aldilà come qualcosa di terrificante.
Le ragioni delle lesioni inferte a Melanzio sono da ricercarsi nel piano sociale. La loro funzione non era diversa da
quella che avevano le mutilazioni che l’eroe omerico infliggeva in guerra al cadavere del nemico.
Per dimostrare la superiorità e disonorare l’ucciso, l’eroe omerico trovava normale decapitare l’avversario, infiggere
la sua testa su un palo o usarla come una palla.
Al capraio non venne tagliata la testa ma privato degli arti, dei genitali, del naso e delle orecchie perché non degno
dello stesso rispetto di coloro che morivano combattendo per la patria. L’offesa fatta al suo cadavere era quindi volta
a privare la sua memoria dell’onore, in quanto uomo indegno e morto per aver tradito.
Le mutilazioni inflitte a Melanzio sono una sorta di castigo accessorio.

Il castigo nelle case dei morti


Le case dei defunti sono quelle visitate da Odisseo quando si reca “nelle case dell’ade e della tremenda Persefone”
per interrogare l’anima dell’indovino Tiresia.

1. La punizione dei ladri


Odisseo, nell’ade, incontra alcuni personaggi ai quali gli dèi hanno riservato una sorte che rende la loro vita
ultraterrena un supplizio ininterrotto: Tizio, Tantalo e Sisifo.
I fatti descritti dall’epos possono non essere veri ma sono senza dubbio verosimili. I castighi che il poeta descrive nel
narrare la vita familiare e cittadina, di conseguenza, devono essere castighi che gli ascoltatori, nel corso della loro
vita, hanno visto infliggere o hanno personalmente subito.

1.1 Il supplizio di Tizio, Tantalo e Sisifo


I personaggi puniti nelle case dell’ade sono tre:
- Tizio, colpevole di aver violato Leto, compagna di Zeus.
- Tantalo, colpevole di aver rubato nettare e ambrosia agli dèi e di averli dati ai mortali.
- Sisifo, figlio di Eolo. Avendo assistito al ratto di Egina, rapita da Zeus, avrebbe svelato al padre di lei il nome
del rapitore.

Come sono puniti i tre?


- Tizio è disteso e legato a terra, tormentato da due avvoltoi che gli rodono il fegato.
- -Tantalo, ritto in una palude immerso nell’acqua, sta all’ombra di fronzuti alberi carichi di frutti ma è
condannato a una fame e a una sete eterne.
- Sisifo è condannato a spingere per l’eternità un masso in cima a un colle. Ogni volta che egli giunge sulla
cima il masso sfugge di mano e riprecipita a valle.
La descrizione di questi supplizi svela il riferimento a una pena realmente praticata in Grecia.
Negli scolii all’odissea, il supplizio inflitto a Tantalo risulta diverso da quello immaginato da Omero. Secondo lo
scoliaste, Tantalo sarebbe stato appeso a una montagna con le mani legate; un supplizio che da un canto ricorda
quello subito da Melanzio e che presenta non poche analogie con quello al quale fu sottoposto prometeo.

1.2 Il supplizio di prometeo


Prometeo aveva rubato il fuoco agli dèi, una colpa così grave da determinare due diverse punizioni:
- Una collettiva, diretta a colpire tutto il genere umano
- Una personale, rivolta esclusivamente a prometeo, colpevole di aver infranto le regole del rapporto uomo-
dio.

La pena inflitta al genere umano fu la venuta di pandora, appositamente costruita da Efesto a immagine di una casta
vergine; ella, definita come “il male così bello” o “la trappola alla quale non si sfugge”, era il castigo perfetto per la
razza degli uomini che era stata felice fino ad allora.

Nella teogonia di Esiodo, Prometeo è legato a una colonna e tormentato da un avvoltoio che, ogni giorno, gli mangia
il fegato. Esattamente come Tantalo, dunque, viene incatenato.
Nel “Prometeo incatenato” di Eschilo, Prometeo viene legato ad una roccia in modo da non poter piegare le
ginocchia, con i piedi e le caviglie immobilizzati da catene ribattute con un martello. Possiamo notare una
corrispondenza tra questa procedura e la descrizione di un supplizio capitale fatta da Aristofane nelle tesmofriazuse.
In questa commedia Mnesiloco, parente di Euripide, camuffato in vestiti femminili, tenta di difendere il poeta dalle
donne che lo vogliono condannare a morte. Scoperto, Mnesiloco, viene condannato a essere legato al palo (sanis).
Appena gli viene comunicata la condanna l’uomo chiede di essere legato al palo nudo, senza la tunica gialla; questa
richiesta rivela chiaramente che la veste gialla era una sorta di pena accessoria, inflitta ai condannati colpevoli di
reati particolarmente gravi.

Chi veniva condannato alla sanis non veniva semplicemente incatenato, veniva avvinto in ceppi regolabili, con polsi e
caviglie chiusi da anelli che potevano essere stretti grazie a una vite.

Mnesiloco, dal palo al quale è stato legato, si produce poi in una dissacrante parodia, fingendo di essere Andromeda.
Andromeda era stata condannata a una morte sacrificale per salvare il suo paese da un mostro. Per questo era stata
legata a delle rocce e abbandonata al suo destino di morte, esattamente come Prometeo.

Il tormento di Prometeo e Mnesiloco evoca e riproduce le modalità di uno stesso supplizio: chiaramente un supplizio
cittadino che sia il pubblico di Eschilo, sia quello di Aristofane, potevano facilmente riconoscere.

Il castigo nelle città

1. I crocifissi del Falero


Uno dei supplizi capitali in uso ad Atene era chiamato apotympanismos. Secondo l’interpretazione tradizionale
l’apotympanismos sarebbe consistito nell’uccidere il condannato a bastonate, colpendolo con un randello.
A partire dai primi decenni del secolo scorso a quest’interpretazione è stata contrapposta quella secondo la quale
questo supplizio sarebbe consistito in una sorta di crocifissione.
Quale delle due ricostruzioni è esatta?
Tra il 1911 e il 1915 fu scoperta una fossa, all’interno della quale stavano gli scheletri di 17 cadaveri gettati senza
onori funebri. I condannati a morte del Falero erano stati gettati nella fossa con un cerchio di ferro intorno al collo e
dei ramponi alle estremità. Ai ramponi che erano stretti a mani e piedi aderivano ancora dei pezzi di legno,
evidentemente il residuo di un palo sul quale costoro erano stati issati. Da ciò si deduce che l’apotympanismos
consisteva nell’attaccare i condannati a un palo, per poi abbandonarli a una lunga agonia.

L’apotympanismos era un supplizio simile, ma non identico, alla crocifissione romana. Lo strumento di legno al quale
veniva legato il condannato non aveva forma di croce, era semplicemente un palo. Le sue mani e i suoi piedi, in più,
non venivano inchiodati, come le estremità di chi moriva crocifisso.
Quali erano i delinquenti ai quali veniva riservata questa terribile morte?
Nell’orazione contro Agorato di Lisia, l’oratore si dilunga nel descrivere la personalità morale e civile dell’accusato.
L’uomo era fratello di tre delinquenti: il più anziano era stato scoperto mentre faceva segnali luminosi ed era stato
sottoposto al apotympanismos e il terzo era stato condannato a morte come ladro di abiti, e come tale fu sottoposto
ad apotympanismos.
Il passo indica quindi due categorie di delinquenti ai quali era riservata la crocifissione: i traditori e i malfattori
(kakourgoi). Ad Atene erano definiti kakourgoi i ladri, i trafficanti di schiavi e numerosi altri delinquenti, tra cui coloro
che avevano commesso adulterio.
Gli adulteri, per gli ateniesi, erano accomunati ai traditori e ai ladri dal fatto di aver commesso uno dei reati nascosti.
Se sorpresi sul fatto, qualora non venissero uccisi dal padre, dal marito, dal figlio o dal fratello dell’adultera, i moichoi
(adulteri) venivano trattati come malfattori, così come capitava agli assassini, e venivano sottoposti ad
apotympanismos.

L’ apotympanismos era un’esecuzione particolarmente infamante. A renderla tale contribuiva il fatto che i pali del
supplizio venivano issati alle porte della città, così che quanti vi agonizzavano fossero esposti alla vista e alla curiosità
di tutti quelli che per mille ragioni avevano occasione o necessità di passarvi. Inoltre, i condannati
all’apotympanismos dovevano subire una pena accessoria, studiata al fine di aumentare la loro vergogna: talvolta
essa era “la veste gialla” di cui parla Aristofane; altre volte era la “passeggiata ignominiosa” che i condannati
dovevano compiere per le strade più affollate della città, perché tutti potessero constatare la fine miserrima cui la
loro colpa li aveva destinati; altre volte ancora, avvinti in ceppi, venivano abbandonati per un certo tempo sulla
piazza e impietosamente esposti alla curiosità, alle beffe e agli inevitabili maltrattamenti della folla.

Il ceppo (sanis) era lo strumento di supplizi graduabili nella gravità e negli esiti: nei casi meno gravi era il legno della
gogna; nei casi estremi era il palo della crocifissione.
La terminologia ci riporta inevitabilmente a Melanzio, il capraio infedele di Odisseo. Il supplizio del palo inflitto a
Melanzio può configurarsi come una prima, rudimentale, forma di crocifissione.

Il supplizio cittadino più diffuso, l’apotympanismos, trova dunque un precedente in uno dei castighi mortali che, nel
mondo omerico, venivano inflitti “nelle case”: sia in quella di Odisseo, sia in quelle dell’Ade.

La morte delle donne


Dall’interno delle case omeriche il supplizio del palo era passato agli spazi esterni della città. Nelle case omeriche non
si infliggeva solo il supplizio del palo (le ancelle infedeli di odisseo erano state impiccate e un’altra punizione inflitta
alle donne era la vivisepoltura), perché, a differenza del palo, le esecuzioni rivolte alle donne non erano state
introdotte nel numero dei supplizi cittadini? Per quale ragione la polis fece sue solo le esecuzioni riservate agli
uomini? Qual era il rapporto tra il diritto criminale e le donne?

La polis non si disinteressava del comportamento femminile. La sua ordinata riproduzione, come corpo sociale e
giuridico, dipendeva dal loro comportamento e, più precisamente, da quello sessuale. Per questo motivo Atene si
preoccupò di individuare il reato di moicheia. Questo termine indicava tutti i rapporti eterosessuali al di fuori del
matrimonio e del concubinato con donna nubile o coniugata.
La moicheia era considerata un comportamento così intollerabile da indurre Draconte (primo legislatore ateniese) a
stabilire che il moichos, sorpreso sul fatto, potesse essere ucciso impunemente dal marito, dal convivente, dal padre,
dal fratello o dal figlio della donna alla quale si era unito.
Draconte non parlò però della donna. Perché questo silenzio? Una spiegazione potrebbe essere che dell’uccisione
della donna la legge non aveva bisogno di parlare, in quanto punirla con la morte rientrava nei poteri del familiare
che aveva potestà su di lei.
L’esame delle fonti induce però a cautela. Dalle fonti non risultano casi di esercizio di un simile potere; non è quindi
documentato il diritto paterno di mettere a morte i figli, né un potere simile tra quelli maritali.
La legge del nomos moicheias imponeva al marito di ripudiare la donna sorpresa in flagrante di adulterio e
prevedeva che ella subisse pene, ad eccezione della morte, nel momento in cui partecipava a un culto pubblico.

Anche se la donna adultera non poteva essere messa a morte dai suoi familiari maschi, esisteva la possibilità che
alcune donne venissero condannate a morte, se accusate di un reato che prevedeva questa pena e che veniva
perseguito con un’azione pubblica, che poteva essere esperita da qualunque cittadino desiderasse esperirla.
1. I processi pubblici: Aspasia, Frine e le altre
Raramente le fonti parlano di donne accusate e processate pubblicamente, a meno che non si tratti di donne celebri.
Tra gli esempi più lampanti abbiamo:
- Quello del processo contro Aspasia, concubina di Pericle, accusata di empietà nella speranza di colpire
l’uomo di stato. Aspasia era stata accusata di aver trasformato la sua casa in un bordello nel quale si
prostituivano donne libere, dei cui favori avrebbe goduto lo stesso Pericle. Pericle assunse personalmente la
difesa della concubina e perorò la causa con passione, arrivando a versare lacrime di dolore al processo.
Colpiti da un simile spettacolo, i giudici assolsero Aspasia.
- Il processo contro Frine, una cortigiana. Frine era stata accusata di empietà per aver fatto un bagno nuda
presso il tempio di Poseidone. Iperide il logografo, innamorato di lei decide di difenderla a processo:
vedendo che la posizione processuale di Frine era tutt’altro che semplice, Iperide tolse la veste alla sua
cliente, consentendo ai giurati di ammirare lo straordinario spettacolo, inducendoli così ad assolverla da ogni
accusa.

Non tutte le donne accusate di reati pubblici potevano però contare su difensori come Pericle o Iperide e, per
questo, poteva capitare che venissero condannate. Esempi lampanti sono:
- La sacerdotessa Ninos, accusata da Menecle di aver introdotto culti stranieri e di aver fatto ricorso a pratiche
magiche.
- La sacerdotessa Teoride di Lemno.
- Una donna accusata di essere un’avvelenatrice, accusata dall’aeropago. La donna era incinta e Eliano ci dice
che la sentenza venne eseguita dopo il parto, senza però specificare come.

Sulle modalità dei supplizi femminili le fonti serbano un rigoroso silenzio, e quando accade che lo rompano lo fanno
con riferimento a ipotesi che non ci sono di alcuna utilità. Un esempio è la schiava preferita di Filoneo, che dopo
essere stata indotta ad avvelenare il proprio padrone, venne punita per mezzo della ruota. La ruota non era però un
supplizio cittadino ma una tortura servile quindi non ci è dato sapere come morissero le donne libere, regolarmente
condannate da un tribunale della città.
Non possiamo assumere che le donne libere subissero la stessa esecuzione riservata agli uomini per il medesimo
reato e per dirlo basta pensare ad Antigone: la sua esecuzione per lapidazione venne commutata in vivisepoltura e
ciò si accosta con la considerazione di quanto accadeva a Roma in casi analoghi, dove le donne condannate a morte a
seguito di un pubblico processo venivano consegnate ai familiari perché questi le mettessero a morte privatamente.
Se non esistevano familiari venivano lasciate in carcere, in attesa di una fine meno plateale, meno crudele e più
dignitosa.
Pubblicamente, dunque, morivano solamente gli uomini.

LA VENDETTA

La vendetta privata nella società omerica


Accanto alla violenza fisica esercitata da chi puniva in forza di un potere familiare assoluto e illimitato, nel mondo
greco arcaico esisteva un altro tipo di violenza, profondamente diverso: quella esercitata da chi compiva una
vendetta privata.
Nel mondo descritto dai poemi, la vendetta privata era un dovere sociale. Vendicare i torti subiti era un atto non solo
lodevole, ma anche inevitabile, quantomeno per chi voleva godere del rispetto e del prestigio che la voce popolare
riconosceva a chi si adeguava ai modelli di comportamento considerati confacenti a seconda del sesso, dell’età e
dello status sociale.
I modelli di comportamento (es. vergine casta, figlio obbediente, guerriero valoroso) emergono immediatamente
dalla lettura dell’iliade e dell’odissea.
La cultura omerica era per definizione una cultura di eroi, fatta di uomini per i quali morire in battaglia era il sommo
onore e ideale di vita.

Leggendo l’iliade e l’odissea non possiamo evitare di constatare che gli eroi più famosi e invincibili, spesso e
volentieri, scoppiano in lacrime; non lo fanno solo per vicende private e in privato ma anche in pubblico, in
assemblea, dinanzi alla popolazione riunita.
Gli eroi greci sono violenti, collerici e incontrollati nella manifestazione delle emozioni e spesso appaiono privi di
quelli che oggi consideriamo degli ideali.
Nel mondo omerico ciascuno tendeva ad affermarsi, a imporre agli altri la propria volontà e ad acquistare prestigio
grazie alla capacità di farlo. In un mondo così violento e competitivo, eroe era colui che riusciva a raggiungere gli
scopi che si era prefisso. Di conseguenza, la prima fondamentale qualità, senza la quale un uomo era un vile, era la
“forza fisica” (bie), accompagnata, come virtù strumentale, dal coraggio.
Era alla forza e al coraggio che l’eroe doveva la sua time (il suo “onore”) e quindi il suo status sociale.
Ma forza fisica e coraggio non erano sufficienti; se voleva essere veramente nel numero dei nobili (agathoi) e dei
migliori, l’uomo omerico doveva essere anche buon oratore.
In modo diverso dalla forza fisica, anche la parola era strumento di potere. Solo se avesse posseduto forza fisica,
coraggio e abilità nel parlare, l’uomo omerico avrebbe potuto raggiungere i propri scopi.
Il migliore era anche inevitabilmente bello (kalos); secondo un modello che passerà al mondo classico, la bellezza
fisica era così inscindibilmente legata al valore da formare, anche lessicalmente, un’unica virtù: la kalokagathia. Un
solo termine, tanto celebre quanto intraducibile, era sufficiente a descrivere l’eccellenza morale, fisica e sociale.
Solo chi eccelleva possedeva il massimo onore (time), che voleva dire prestigio sociale e potere.
Poiché l’onore di chi subiva un torto diminuiva, mentre aumentava quello dell’offensore, la vendetta era un dovere
sociale, al quale chi voleva restare nel numero degli agathoi non poteva sottrarsi.
Se il torto subìto, poi, era stato l’uccisione di un parente o di un amico, uccidere per vendetta l’assassino era
inevitabile. Solo così, vendicandosi, un agathos mostrava di essere tale e faceva sì che la sua famiglia non fosse
disonorata.
Chi non si vendicava era un vile, un essere spregevole del quale nessuno, neppure le donne, poteva avere la benché
minima considerazione.

La vendetta era l’arma che assicurava la time. Da essa non dipendeva solo l’onore individuale, ma anche la
riconferma di posizioni di privilegio sociale che non dovevano essere discusse.
All’interno di queste gerarchie trovavano equilibrio i rapporti di potere tra le famiglie nobili. In altre parole, la
vendetta era garanzia dell’equilibrio sociale. Ma questo non toglie che, anche in un mondo dominato da questi
valori, siano già percepibili i primi tentativi di limitare, controllandolo, l’uso indiscriminato della forza.

Il controllo pubblico sulla vendetta privata: lo scudo di Achille


Nel mondo omerico si era venuta affermando una prassi sociale che aveva ridotto le vendette private: si trattava
dell’offerta di una poine, un riscatto in denaro che l’offensore faceva all’offeso e che costui poteva liberamente
accettare o respingere.
L’offeso che aveva ricevuto la riparazione poteva recedere dalla sua ira, che non è solo un sentimento; è anche
espressione della sua nobiltà, del suo coraggio e della sua forza.
Perché questa “ira” potesse cessare, chi era stato offeso doveva ricevere una soddisfazione pubblica, le cui modalità
erano regolate da norme ben precise, chiaramente illustrate dalla procedura con la quale Agamennone paga ad
Achille la poine per l’oltraggio che gli ha inflitto sottraendogli Briseide.

Agamennone giura ad Achille che Briseide era rimasta intoccata nella sua tenda. Solo a quel punto il Pelide dismette
la sua ira funesta perché tutti hanno assistito ad Agamennone che riconosceva la sua superiorità.
A volte, però, la vendetta dava più onore e maggiore soddisfazione, mentre altre, chi aveva accettato la poine veniva
portato come esempio di magnanimità.

Al modello eroico si affianca nei poemi omerici quello di un uomo la cui azione è ispirata a principi che non sono
esclusivamente competitivi e che non tendono solo ad affermare il suo esasperato individualismo. Vediamo
affermarsi valori nuovi e diversi, ispirati a un’ottica di tipo collaborativo.
La coscienza sociale non solo aveva preso a considerare positiva la scelta di chi accettava il riscatto, ma aveva
lentamente stabilito che, una volta fatta, essa dovesse essere definitiva. La poine era quindi alternativa alla vendetta.
Il valore fondamentale di questa regola era stato consacrato dall’introduzione di un organo giurisdizionale,
rappresentato dal consiglio dei gerontes, chiamato a risolvere le eventuali controversie in materia.

A chiarire come venisse esercitata la giurisdizione dei gerontes interviene la descrizione del processo scolpito da
Efesto sullo scudo di Achille: Un uomo aveva ucciso un altro uomo. Gli appartenenti alla famiglia del morto volevano
esercitare la vendetta su un appartenente al gruppo dell’omicida. Ma costui, affermando di aver già pagato una
poine, aveva fatto ricorso ai gerontes. Dinanzi al popolo raccolto nella piazza, ciascuno dei due contendenti aveva
deposto un talento d’oro. Al termine della lite i due talenti sarebbero stati assegnati a colui che aveva detto la verità.
I gerontes dovevano quindi accertare se il riscatto era stato pagato o meno.
Il loro giudizio di accertamento dei fatti conteneva implicitamente un comando: se la poine era stata pagata, il
tentativo di vendetta da parte di chi aveva affermato di non averla ricevuta doveva cessare. Se la poine non era stata
pagata, invece, colui che non aveva ricevuto o non aveva voluto accettare la compensazione aveva il diritto di
condurre a termine la rappresaglia.
Implicitamente autorizzato dai gerontes a uccidere, il parente del morto non agiva più esclusivamente per difendere
il suo onore e il suo interesse privato. La sentenza gli conferiva una delega implicita a usare la forza fisica per
assicurare il rispetto di una regola di comportamento che la compagine sociale riteneva fondamentale per la sua
sopravvivenza: chi aveva ucciso doveva morire.

La vendetta privata nella città

1. La legge di Draconte
Nel VII secolo a.C. si compì una rivoluzione profonda: si stabilì che l’inosservanza delle regole di comportamento
comunemente considerate vincolanti non fosse più sanzionata dall’esposizione alla vendetta, ma dall’applicazione
delle pene stabilite dalla città.
Questa rivoluzione venne attuata senza rotture violente e traumatiche, nel costante tentativo di conciliare vecchio e
nuovo e di imporre solo ciò che la coscienza sociale poteva accettare senza traumi eccessivi.
La polis si limitò quindi a statuire le regole di cui ci si poteva ragionevolmente aspettare il rispetto: ed è in questo
quadro che tali regole vanno valutate e che è possibile intendere la portata dell’intervento cittadino in materia di
omicidio.

L’antica prassi della vendetta andava eliminata, ma non poteva essere del tutto e d’improvviso cancellata. Quel che
si poteva ragionevolmente fare era regolarla e sottoporla in misura crescente al controllo dello Stato.
Se in età omerica i gerontes erano stati delegati a esercitare un primo controllo al fine di accertare che non fosse
esposto alla vendetta chi aveva già pagato un riscatto, nessun controllo esisteva in quell’epoca sul fatto che
l’omicidio fosse stato realmente commesso: su questa circostanza il controllo era solo sociale.
Nessun controllo esisteva inoltre sulle circostanze dell’uccisione (più specificamente sull’atteggiamento della volontà
colpevole di chi aveva ucciso). Una volta accertato che la famiglia dell’ucciso non aveva già ricevuto una poine, la
città omerica si ritirava e lasciava il passo ai parenti della vittima, che provvedevano personalmente a uccidere
l’omicida, come avevano fatto per secoli.

Nel VII secolo a.C., ad Atene, la celebre legge sull’omicidio attribuita a Draconte introdusse alcune fondamentali
novità. La legge stabilì che gli omicidi andavano divisi a seconda del diverso atteggiamento della volontà colpevole, e
di conseguenza andavano puniti con pene diverse:
- Se l’omicidio era stato premeditato la pena era la morte;
- Se era stato non premeditato o involontario la pena era l’esilio.
- Era previsto l’omicidio legittimo, commesso in circostanze che si riteneva giustificassero la reazione omicida
e che pertanto era esente da pena (erano considerate giuste l’uccisione involontaria durante le gare
atletiche, l’uccisione di un brigante in caso di assalto per strada, l’uccisione di un uomo sorpreso mentre
intratteneva un rapporto sessuale con la moglie/figlia/madre/sorella/concubina dell’omicida).
La nuova regola voleva che nessuno potesse essere ucciso senza una previa condanna di colpevolezza.

Dal VII secolo a.C. entrano in funzione degli organi giudicanti incaricati di accertare se l’omicidio era stato
effettivamente commesso, di valutare il grado di colpevolezza dell’assassino e di irrogare la pena. Questi organi
giudicanti erano due: il tribunale dell’Areopago, al quale spettava giudicare gli omicidi premeditati, e il tribunale dei
Cinquantuno (i cinquantun Efeti), ai quali spettava giudicare tutti gli altri omicidi.

2. La procedura per i reati di sangue


I processi per omicidio, ad Atene, venivano celebrati per iniziativa dei familiari della vittima, che a questo scopo
dovevano compiere due atti solenni:
- Recarsi dinanzi all’arconte-re e indicare il nome del presunto assassino.
- Recarsi sulla tomba del morto e piantarvi una lancia, quasi a dichiarare simbolicamente l’apertura di una
guerra.
Solo a questo punto e a queste condizioni il processo poteva aver luogo.

Il primo atto del processo consisteva in una solenne proclamazione con la quale l’arconte-re intimava all’accusato di
tenersi lontano dai luoghi indicati dalla legge (tribunali, agora, i giochi e le sacre Amfizionie).
Successivamente, dopo che i parenti della vittima avevano iscritto la causa al ruolo del basileus aveva inizio la fase
istruttoria del processo, che si svolgeva nel corso di tre udienze, durante le quali le parti esponevano le loro ragioni
venendo contemporaneamente a conoscere nelle grandi linee le ragioni dell’avversario.
L’arconte, una volta individuato il tipo di omicidio, assegnava la causa all’organo giudicante cui spettava emanare la
sentenza.
Iniziava a questo punto la fase dibattimentale, il cui primo atto era di nuovo un atto dell’accusatore, detto diomosia
kat’exoleias: un giuramento particolare. Chi accusava un omicida, infatti, giurava stando in piedi dinanzi ai resti di un
orso, un agnello e un toro sacrificati secondo le prescrizioni, e invocava, se aveva giurato il falso, che la maledizione
ricadesse su di lui, i suoi figli e la sua casa. L’accusato faceva analogo giuramento, portando così a termine un rito che
veniva compiuto stando in piedi su due pietre: dette pietra dell’implacabilità e pietra del delitto.
A questo punto si tenevano le orazioni, pronunciate a turno dall’accusa e dalla difesa (due per parte). Dopo la prima
orazione della diesa, nel caso in cui si trattasse di omicidio volontario, l’accusato poteva prendere spontaneamente
la via dell’esilio, evitando la pena di morte.

3. Il sistema dell’esecuzione delegata


La legge di Draconte non aveva fatto alcun cenno all’esecuzione della sentenza, il che significava che nulla in questo
settore era mutato.
Anche nella città del VII secolo la messa a morte degli assassini era affidata ai parenti delle vittime e la situazione
rimase inalterata per alcuni secoli. A un certo punto accadde che l’esecuzione della sentenza venisse affidata a
organi pubblici, anche se la condanna dell’omicida era stata la conseguenza di un’azione privata intentata dai
familiari.

Nell’orazione di Demostene contro Aristocrate leggiamo che se una persona viene condannata per omicidio, su di lei
hanno potere le leggi e coloro che le amministrano. Chi ha intentato l’azione avrà quindi solo il diritto di assistere alla
sua esecuzione.
Quali erano quindi i modi nei quali l’omicida veniva messo a morte nei secoli della delega agli amministratori della
legge?

La vendetta pubblica

1. Paride e il chitone di pietre


Esiste, nei poemi omerici, un episodio che ha indotto a pensare che il primo tipo di pena capitale della Grecia post-
micenea fosse la lapidazione: nel terzo canto dell’Iliade Ettore, accusando di viltà Paride, fuggito dinanzi a Menelao,
disse che, se i troiani non fossero stati paurosi com’erano, Paride sarebbe stato coperto da “un chitone di pietre”.

Ma è lecito considerare la lapidazione uno dei modi istituzionali dell’esecuzione capitale?


I dubbi sulla validità di questa ipotesi sono più che legittimi: la lapidazione, nelle fonti, non ha e non assume mai i
caratteri di una pena istituzionale. Per tutto il corso della storia ateniese, essa continua ad apparire con i caratteri
che aveva nei poemi.
Uccidendo con la pietra, il popolo esprimeva la sua rabbia, manifestava il giusto desiderio di vendicarsi nei confronti
di chi aveva provocato dei danni alla collettività; in altre parole, rendeva esplicito e attuava il principio della morale
sociale secondo il quale chi provocava un male ai concittadini meritava una punizione. Ma l’atto con il quale questa
punizione veniva inflitta non era l’espressione del volere ufficiale del gruppo, era l’atto spontaneo.

2. La lapidazione come vendetta nei tragici e nella realtà sociale


I riferimenti alla lapidazione, a cominciare dai tragici, sono tutt’altro che rari (es. nell’Agamennone di Eschilo;
nell’Aiace di Sofocle; nelle Troiane, nell’Ifigenia di Euripide). In ognuno di questi casi la lapidazione appare con le
caratteristiche e nella funzione di una vendetta collettiva di tipo istintivo, giusta ma non istituzionale.
Le fonti successive non fanno che confermare questa considerazione (es. la vita di Solone di Plutarco).
I traditori venivano quindi uccisi senza processo, a furor di popolo, talvolta assieme a mogli e figlie innocenti, in
un’epoca nella quale la responsabilità penale era rigorosamente personale.

Talvolta però la lapidazione appare sotto una luce diversa che fa pensare a una sorta di uso istituzionale della pietra.
In un passaggio dell’orazione di Eschine contro Timarco, il primo accusava il secondo di essersi prostituito. Nel corso
delle lotte politiche che avevano diviso gli ateniesi dopo la pace di Filocrate, Timarco alleato politico di Demostene,
aveva accusato Eschine di non aver rispettato le istruzioni ricevute e di aver concluso la pace tradendo gli interessi
della città.
Timarco, secondo Eschine, non aveva il diritto di parlare nei tribunali. Egli si era prostituito e una legge della città
faceva divieto a chi si era prostituito di esercitare pubbliche funzioni e di partecipare alla vita pubblica.
Lo sforzo complessivo di Eschine per mostrare l’indegnità morale di Timarco è sostenuto da ogni tipo di
argomentazione, compreso un appello alla sensibilità civica dei giudici:

“Immaginate che due persone abbiano concluso un contratto di prostituzione. E immaginate che colui che ha pagato
si veda poi rifiutare le prestazioni pattuite. O immaginate il contrario: che il cliente non abbia pagato il prostituto.
Cosa accadrebbe in un caso simile? Forse che, dopo aver parlato dinanzi a voi, colui che ha violato le leggi della città
affittando un prostituto non verrebbe lapidato?”

La legge sulla prostituzione non prevedeva in realtà la pena di morte per chi avesse concluso quel tipo di contratto.
Poteva essere inflitta solo se, dopo la condanna, Eschine avesse violato uno dei divieti.
Il riferimento di Eschine alla lapidazione, quasi che questa fosse la pena per la prostituzione, è quindi inattendibile.

Altri testi sembrano alludere alla pietra come strumento istituzionale di morte, come ad esempio l’Oreste di
Euripide. In questo testo si dice siano trascorsi sei giorni da quando Elettra e il fratello Oreste hanno vendicato il
padre, uccidendo la madre. Gli argivi erano quindi riuniti in assemblea per decidere se i colpevoli dovessero morire
lapidati o decapitati con la spada e Oreste riesce a ottenere che lui e la sorella potessero suicidarsi con la spada.
Questo riferimento potrebbe sostenere l’ipotesi che la lapidazione fosse una pena cittadina, intendendo per pena
cittadina quella prevista normalmente per una determinata categoria di reati.

Il passo di Euripide sembra alludere alla lapidazione come alla pena prevista per coloro che hanno commesso il reato
di matricidio ma questa interpretazione non è convincente.
Nella rappresentazione tragica non era tanto la corrispondenza dei fatti alla realtà giuridica quel che interessava,
quanto la drammaticità dell’azione e la sua capacità di descrivere fatti emotivamente e socialmente sconvolgenti. La
descrizione di un’assemblea popolare, suggerendo l’idea (giuridicamente falsa) di un coinvolgimento dell’intera
collettività nel giudizio sul matricidio, era particolarmente idonea a produrre questo tipo di effetti.
Il riferimento di Euripide assume un significato diverso da quello che sembra avere anche in base alla lettura delle
Leggi di Platone.

3. La lapidazione come rito espiatorio


Nelle Leggi, là dove elenca le pene che nella sua città ideale dovrebbero sanzionare i delitti più gravi, Platone scrive
che coloro che uccideranno con premeditazione il padre, la madre, i figli o i fratelli dovranno essere messi a morte, e
che i magistrati dovranno gettare delle pietre sul loro capo.
La pena di cui parla Platone non è però una lapidazione del condannato a morte, è quella rituale del suo cadavere.
Non si tratta quindi di una sentenza capitale.

Il lancio della pietra puramente rituale aveva esplicitamente una funzione di carattere espiatorio.
Per comprenderne le ragioni è necessario ripensare all’uso della pietra come strumento di morte. Bisogna pensare al
lontanissimo momento in cui la pietra era l’unico strumento per uccidere.
Le origini del sacrificio cruento vanno ricercate nella pratica della caccia. La possibilità di alimentarsi era legata alla
capacità di usare la pietra per uccidere. Ma non appena ha ucciso, l’uomo che affidava la sua sopravvivenza
all’uccisione, viene sopraffatto dal senso di colpa. Ed ecco quindi che l’uccisione diventa sacrificio, rito espiatorio: il
rito di morte diventa cerimonia sacra.
Molte espressioni dei popoli cacciatori rivelano un senso di colpa evidente nei confronti della vittima e molti rituali
contengono dei tentativi di scusa e di riparazione spinti a tal punto da apparire come una “commedia
dell’innocenza”.
Sia nell’iliade sia nell’odissea le tracce di questa concezione sono evidenti: nel corso del sacrificio, sul capo della
bestia da immolare venivano gettati dei chicchi d’orzo. Contemporaneamente, da ogni lato, i partecipanti al rito
colpivano la vittima, le cui reazioni venivano interpretate come assenso al sacrificio.
Capitava che gli oggetti scagliati fossero delle pietre; la pietra infatti purificava, espiava e discolpava e ciò fa pensare
a un uso religioso della pietra, il cui ricordo riaffiora anche in età classica.

In età classica, in molte città, era diffusa la pratica di uccidere i pharmakoi, uomini tenuti in vita e nutriti a spese
pubbliche allo scopo esclusivo di essere sacrificati all’occorrenza, per espellere il male dalla città. I pharmakoi
venivano lapidati.

L’omicidio è un crimine che contamina, che provoca impurità e deve essere espiato attraverso la pietra, capace di
purificare. Perché quindi in Omero la lapidazione è vendetta collettiva di tipo laico?
Perché la dottrina della polluzione provocata dal sangue è nata nei secoli successivi a quelli riflessi dai poemi. In
Omero il sangue non era impuro: chi aveva ucciso era costretto ad abbandonare la patria, ma solo per evitare la
vendetta.
Fu solo in un’epoca successiva che nacque la teoria della polluzione.

L’omicidio divenne atto impuro che richiedeva una purificazione per influsso dell’oracolo di Apollo a Delfi.
L’autorità dell’oracolo era il fondamento dei diritti cittadini, la parola indiscutibile che rendeva sacre le scelte
legislative e legittimava le regole fondamentali del vivere civile. Tra queste, anche quella secondo la quale l’omicidio
richiedeva una purificazione. Il sangue versato aveva detto l’oracolo, provocava una macchia, determinava
un’infezione che doveva essere eliminata, perché in caso contrario si sarebbe estesa contaminando tutti coloro che
sarebbero entrati in contatto con l’omicida.

4. Il principio della retribuzione e la giustizia non istituzionale della pietra


Nella storia della Grecia delle città, nella società successiva a quella descritta da Omero, la lapidazione appare in una
duplice veste:
- In alcuni casi come rito catartico.
- In altri come gesto laico, espressione del desiderio collettivo di punire chi ha recato dei danni all’intero
gruppo.
Il mondo omerico conosceva tipi di reazioni collettive la cui unica differenza, rispetto a quelle private, stava nel fatto
di contrapporre città a città anziché famiglia a famiglia.

Ad esempio, la vendetta che Paride avrebbe meritato di subire era diversa dalle altre vendette collettive. Essa non
era rivolta all’esterno, ma all’interno del gruppo; non avrebbe dovuto colpire un estraneo ma uno dei suoi
appartenenti.
Paride avrebbe dovuto essere lapidato dai suoi concittadini, costretti a subire le conseguenze della sua leggerezza e
vanità.
Il desiderio di vendetta nei confronti di paride appariva guidato da un sentimento diverso da quello che ispira la
vendetta interfamiliare o intercittadina.

Il principio che determina la vendetta collettiva, a differenza di quella privata, è dunque un principio retributivo di
tipo morale. Una volta affermatosi il principio, esplicito nei poemi, secondo il quale è male provocare dei danni alla
collettività, nasce anche l’idea che colui che li ha causati deve essere punito. E lo strumento della sua punizione è la
pietra, usata contro di lui da tutti coloro che hanno subìto le conseguenze negative del suo comportamento.

Nel momento in cui si afferma, il diritto deve necessariamente controllare l’uso della forza fisica. La lapidazione è
tipicamente un modo di usare la forza fisica che, in una società che voglia essere anche solo moderatamente
pacifica, non può che suscitare preoccupazioni.

La pietra, ad un certo punto della storia greca, venne esclusa dagli strumenti che davano la morte di stato. Tra le
antiche pratiche di morte, la polis operò una selezione, evitando quelle che, per le loro caratteristiche, erano in
contrasto con l’esigenza di assicurare la pace sociale.
L’ESPIAZIONE

La precipitazione
Talvolta in Grecia la violenza fisica, spinta all’estremo della messa a morte, era un atto di culto che poteva essere
visto come un rito propiziatorio o purificatorio.
Di nostro interesse è quella forma di sacrificio che offriva e consegnava agli dèi chi si era reso colpevole di un atto di
empietà nei loro confronti.

I greci pensavano che l’offesa arrecata agli dèi richiedesse un’espiazione, vale a dire un atto che, placando la divinità,
impedisse alla vendetta divina di manifestarsi in eventi che avrebbero messo in pericolo la sopravvivenza del gruppo.
L’uccisione si collocava sul crinale tra il sacrificio e la pena e conteneva elementi propri di ciascuno di questi due
diversi tipi di esecuzione

La morte per precipitazione era una pratica la cui vicenda si snoda attraverso i secoli, delineando con chiarezza la
lenta e progressiva trasformazione di un atto religioso in istituto del diritto sacrale e successivamente in esecuzione
capitale laica.

1. Dal mito alla storia


- Dall’acropoli di Atene si gettavano, secondo il mito, le Cecropidi (figlie del re Cecrope), per non aver saputo
resistere alla curiosità di aprire la cesta loro affidata da Atena.
- A Tebe, la sfinge, sconfitta da Edipo, si getta dall’alto di una roccia e una delle diverse tradizioni sulla morte di Edipo
vuole che anch’egli si sia ucciso precipitandosi da una voragine.
- a Corinto, Melisso si suicida gettandosi da un’altura.

Le motivazioni sono diverse ma l’immagine è la stessa: quella di un corpo che precipita dall’alto, che piomba in una
voragine, trovando la morte nell’impatto col suolo.

La precipitazione è stata una punizione, più o meno istituzionale, ma sempre chiaramente ispirata a un principio
retributivo. Essa era la risposta a un comportamento colpevole, in particolare a un atto di empietà, alla mancanza di
rispetto verso un dio. In sostanza una punizione sacrale con caratteristiche ben precise.

Schiantarsi a terra non dava la morte solo materialmente. Precipitando, il corpo raggiungeva la terra, con la forza
dell’urto la percuoteva e sembrava sprofondare in essa. Sottoterra, dove il corpo voleva giungere, risiedevano inoltre
le divinità infere che accolgono i morti.
Gettare qualcuno in un precipizio era quindi uno dei modi per fargli raggiungere l’aldilà.

La precipitazione era una morte sacrale ma non colpiva vittime innocenti. Coloro che venivano sacrificati per
precipitazione erano quelli che, avendo commesso una colpa verso gli dèi, venivano a questi consacrati in espiazione
della loro colpa: vittime sacrificali, dunque, la cui morte è al tempo stesso ispirata a un principio retributivo.

Secondo la leggenda, Esopo, accusato di sacrilegio dagli abitanti di Delfi, venne precipitato dalla roccia Hyampeia. La
storicità dell’episodio non è sicura ma il suo valore non cambia: a Delfi i colpevoli religiosi venivano precipitati.
Collegata a questa è anche la notizia secondo la quale la precipitazione era prevista per i crimini religiosi dal diritto
delle Amfizionie.

A sparta i delinquenti venivano gettati in una voragine chiamata kaiadas, recentemente tornata agli onori della
cronaca per il ritrovamento di numerose parti di scheletri umani.

Da menzionare anche l’antica legge di Elide, secondo la quale le donne che venivano sorprese nel territorio al di là
dell’Alfeo nei giorni dei giochi olimpici, venivano precipitate dal monte Tipeo.

2. In fondo al Barathron: la precipitazione nel diritto ateniese


Secondo un decreto proposto da Cannonos verso la metà del V secolo a.C. a partire da quel momento sarebbero
stati messi a morte per precipitazione tutti coloro che fossero stati condannati per reati politici.
La pena stabilita per iniziativa di Cannonos era particolarmente grave, non solo per la crudeltà dell’esecuzione, ma
anche per la previsione di un’infamia cui erano sottoposti coloro che venivano accusati di aver ingannato il popolo:
l’incatenamento durante la fase dibattimentale del processo, davanti al tribunale popolare.
Nel diritto greco, secondo le regole venivano incatenati solo i prigionieri di guerra, gli schiavi e i condannati.

Quali erano i reati puniti con la precipitazione? Secondo il decreto di Cannonos quelli politici.
Nei cavalieri di Aristofane, Aristocrate discute con Agoracrito che riesce a persuadere gli ateniesi a liberarsi di
Paflagone.

“lo alzo per aria e lo getto nel barathron con Iperbolo appeso al collo”

Iperbolo, cattivo cittadino, aveva chiesto cento triremi per una spedizione contro Cartagine. Il proponimento di
legare Iperbolo insieme al corruttore dei giudici, prima di precipitare entrambi nel barathron, mostra con chiarezza
che il riferimento a questo tipo di esecuzione non era casuale: come il corruttore Paflagone, anche Iperbolo si era
macchiato di colpa contro il popolo.

La conferma che la precipitazione era la sorte riservata ai traditori del popolo viene da un passo di Platone che, nel
Gorgia, ricorda che Milziade era stato condannato dagli ateniesi a essere precipitato nel baratro. La precipitazione
era quindi una sorte riservata a chi era accusato di reati politici.

Nel Pluto, Aristofane parla del proponimento di Zeus di gettare Carione nel barathron, insieme al padrone e alla
famiglia. Egli viene punito per una colpa gravissima: non aver sacrificato agli dèi.
Esopo era stato invece precipitato perché accusato di sacrilegio; mentre a Elide una legge puniva con la
precipitazione chi violava i sacri confini.

L’uso che veniva fatto del barathron in età classica era collegabile a consuetudini antichissime che attribuivano un
significato religioso al gesto della precipitazione.

Al tempo della guerra contro i messeni, gli spartani gettarono nel kaiadas i nemici sconfitti.

La precipitazione, in una prima fase della sua storia, era intesa e utilizzata come un’ordalia (giudizio di dio). Gettare
nel precipizio non significava uccidere, ma sottoporre l’accusato al giudizio divino: l’eventuale morte era il segno
della colpevolezza.

Strabone racconta che a Leucade, durante la festa annuale in onore di Apollo, si gettava da una roccia,
precipitandolo in mare, il colpevole di uno sbaglio, al cui corpo erano state incollate delle ali.
Il katapontismos (precipitazione nelle acque), dunque, era un altro modo di dare e darsi la morte per precipitazione,
di cui mito e storia testimoniano la frequenza.
Nel racconto storico la precipitazione in mare di nemici e traditori è documentata da Demostene, Lisia, Isocrate e
Polibio.
Il katapontismos conserva le tracce di un carattere ordalico, evidentemente diffuso in tutte le precipitazioni.

Considerata da tempo immemorabile uno dei modi per raggiungere la divinità, e in particolare le divinità ctonie, la
precipitazione venne utilizzata in un primo momento come forma di ordalia. Perso il carattere ordalico, essa venne
recepita in molte legislazioni cittadine come un’esecuzione sacrale, riservata a coloro che avevano offeso gli dèi.

Ad Atene, a seguito del decreto di Cannonos, si stabilì che la precipitazione venisse adottata anche per eseguire le
sentenze capitali per reati politici.
Alcuni studiosi hanno avanzato però dei dubbi sulla sua effettiva utilizzazione. Ritengono, infatti, che in età cittadina
gli ateniesi non avrebbero mai utilizzato il barathron per precipitarvi i condannati a morte, ma solo per gettarvi i loro
cadaveri.
L’ipotesi si basa su un lungo passo di Plutarco, che nella vita di Temistocle parla di un tempio a Melite, eretto presso
il luogo dove “ora i carnefici gettano i corpi dei condannati a morte e portano i mantelli e i lacci degli impiccati”.
Il riferimento ai vestiti e al laccio starebbe a significare che i condannati, prima di essere gettati nel barathron,
venivano uccisi per impiccagione.
In uno scolio ad Aristofane leggiamo che, nel V secolo, gli ateniesi colmarono il barathron per espiare una colpa
commessa contro la madre degli dèi: gli ateniesi avevano gettato nel Barathron il sacerdote di Cibele (la Madre degli
dèi), colpevole di aver iniziato le donne ai culti bacchici. Ma poiché, a seguito di questo fatto, Atene era stata colpita
da una carestia e l’oracolo aveva ordinato di espiare il sacrilegio, essi avevano riempito il barathron.

Nel V secolo il barathron non fu più usato per precipitarvi i condannati a morte, ma questo non significa che la
precipitazione come forma di esecuzione venne abbandonata.

Tornando all’affermazione di Plutarco che prevede che nel barathron venissero gettati i mantelli degli impiccati e i
lacci che ne avevano provocato la morte, possiamo dire che: se mantelli e lacci fossero stati quelli con cui i
condannati a morte erano stati uccisi, essi sarebbero stati lanciati nel precipizio insieme ai cadaveri e non
separatamente. I vestiti e i lacci in questione, evidentemente, non erano quelli dei condannati: erano quelli usati da
coloro che si erano suicidati impiccandosi. E l’abitudine di gettare nel Barathron gli strumenti che erano serviti per
attuare questo tipo di suicidio non era sorprendente.
L’impiccagione, nel mondo classico, era una morte maledetta, che non consentiva all’anima del defunto di trovare la
pace nell’aldilà. Per di più era tradizionalmente riservata alle donne. Chi si era impiccato non meritava né pietà né
rispetto, e gli oggetti che erano venuti a contatto col suo cadavere andavano eliminati dalla vista e dal ricordo degli
ateniesi.

A sostegno dell’ipotesi che il barathron non venne mai utilizzato per uccidere abbiamo il fatto che, a partire dalla fine
del V secolo, il termine barathron scompare. Solo Erodoto, Senofonte, Aristofane, Platone e Plutarco, che parlano di
eventi precedenti il IV secolo, usano il termine barathron.
Licurgo e Dinarco indicano invece il precipizio con il termine orygma, che può contrassegnare qualsiasi cavità. Non è
quindi un nome preciso che indica un luogo specifico, destinato a una funzione istituzionale.

In Licurgo leggiamo di un decreto che stabiliva che, se qualcuno di coloro che durante la guerra contro Sparta si
erano rifugiati a Decelea fosse tornato in patria, qualunque cittadino ateniese avrebbe potuto portarlo ai Tesmoteti,
perché costoro lo consegnassero “to epi to orygmati”: “a quello della fossa”. L’“uomo della fossa” altri non era che il
boia, incaricato di eseguire la condanna a morte per precipitazione.
Sostanzialmente, Licurgo avrebbe detto che i condannati venivano consegnati agli undici, i magistrati incaricati di
eseguire le sentenze capitali.

Per quanto riguarda i riferimenti al barathron contenuti nelle commedie di Aristofane, il barathron è presentato,
senza possibilità di equivoci, come una forma di messa a morte. L’ipotesi, quindi, che la precipitazione come forma di
esecuzione capitale sia stata abbandonata sul finire del V secolo non trova conferma nelle fonti ma sembra da esse
contraddetta.

A partire da V secolo, i condannati per reati politici venivano uccisi in carcere con la cicuta, ma essa non venne mai a
sostituire completamente l’esecuzione per precipitazione. Essa fu introdotta solo come alternativa possibile alla
morte per precipitazione.
La morte dolce, la morte col veleno, altro non fu che un privilegio concesso a poche persone.

La cicuta
Sul finire del V secolo a.C. ad Atene, i condannati a morte (o quantomeno alcuni condannati a morte) venivano
avvelenati in carcere.

1. La morte dolce
Il koneion era una varietà della cicuta.
Nell’antichità, del koneion parlano Teofrasto, Plinio e Dioscoride. Il suo veleno era potentissimo e i suoi fiori erano
simili a bianchi ombrelli velenosissimi; nonostante la concentrazione massima di sostanze tossiche fosse nel seme.
La cicuta veniva spesso usata anche per scopi terapeutici ed era quindi ben nota nell’antichità, specialmente in Attica
dove divenne “veleno di stato”.
La preparazione del farmaco mortale era semplicissima. Frantumando il seme in un mortaio si otteneva una pozione
che conduceva alla morte lentamente e, si dice, in modo indolore. Più avanti nel tempo la preparazione cambiò: il
seme veniva sbucciato, il nocciolo veniva liberato dal tegumento, polverizzato e infine filtrato con un po’ di acqua.

Attendibile era la credenza che il vino, riscaldando la temperatura corporea, fosse un antidoto al koneion.
Si diceva che gli alcolizzati assumessero piccole quantità di veleno per neutralizzare l’effetto del vino.
Inoltre, Plutarco racconta che, coloro che si recavano a rubare nei templi, ingerissero una dose di cicuta sufficiente a
dar loro la morte in caso di arresto; ma portavano con sé del vino per avere salva la vita nel caso in cui il colpo fosse
andato a buon fine.

La descrizione della morte di Socrate è la fonte più preziosa e più ricca di dettagli che ci sia pervenuta.
Critone dice che, dopo che il veleno gli fu somministrato Socrate si mise a passeggiare nella stanza, lentamente, fino
al momento in cui sentì le gambe intorpidirsi.

Si dice che la cicuta agisse raffreddando il corpo dai piedi fino al cuore: nel racconto di Platone, in modo
assolutamente indolore. Ma viene il dubbio che la descrizione platonica idealizzi la morte del maestro, tacendo
alcuni particolari fisiologici che avrebbero turbato la solenne serenità dell’atmosfera e dell’atteggiamento di Socrate.
Altre descrizioni, più realistiche, raccontano infatti la morte di chi aveva ingerito il veleno in modo assai diverso: in
preda al capogiro, con la mente oscurata, la vista deformata, gli occhi che roteavano selvaggiamente.
La morte con la cicuta era quindi probabilmente meno dolce di quel che si è soliti pensare.

1.1 Diritto o privilegio?


La morte fredda venne introdotta sotto i trenta tiranni (404 a.C.), quando molti cittadini ateniesi morirono avvelenati
in prigione.
A quanto sembra non si trattò però di esecuzioni capitali previste dalla legge.
Verosimilmente i trenta si servirono della cicuta come di uno strumento idoneo a eliminare in sordina, senza
eccessivo clamore, i loro avversari politici. La cicuta, insomma, cominciò a essere usata non per evitare sofferenze a
coloro che dovevano morire, ma per evitare, a chi se ne serviva per sbarazzarsi dei nemici, di esporsi al rischio di
processi che sarebbero stati comunque controproducenti.
Non è quindi all’epoca dei trenta tiranni che la cicuta divenne una forma di esecuzione capitale.

Dopo essere stato utilizzato dai Trenta come strumento di eliminazione dei nemici politici, il koneion divenne uno dei
modi con cui si eseguivano alcune condanne a morte, regolarmente pronunziate nel rispetto della legge. Di fatto,
dunque, esso divenne uno dei supplizi di Stato.
A differenza dell’apotympanismos e della precipitazione, la morte con il veleno non era destinata a tutti coloro che
avevano commesso un determinato reato. La cicuta era un’alternativa concessa solamente ad alcuni condannati: più
precisamente, ai condannati per crimini politici e per “empietà”.

Il veleno veniva somministrato in carcere con la supervisione degli undici; ma questo non toglie che, anche se
regolata dalle leggi della città, l’esecuzione col veleno fosse diversa da tutte le altre: il koneion doveva essere pagato
dal condannato.

Focione, condannato alla pena capitale per crimini politici nel 318 a.C., venne condotto in carcere. Uno degli altri
condannati chiese di bere il veleno per primo, consumando l’intera quantità disponibile. Il carceriere allora si rifiutò
di portare a Focione un’altra porzione, dicendo che lo avrebbe fatto solo se gliene fosse stato pagato il prezzo.
Focione, amareggiato, aveva quindi commentato:

“ad Atene, ormai, non si può neppure morire senza pagare questo privilegio”

Pur essendo somministrato in carcere, il veleno non era dunque una forma di esecuzione capitale ordinaria, ma
sostitutiva di un altro supplizio.
Esso era riservato solo ad alcuni condannati a morte, quelli ai quali, prima della sua introduzione, veniva inflitta la
morte per precipitazione. Inoltre, per i condannati a questa morte, la cicuta non era un diritto.
A prescindere dal fatto che l’apotympanismos continuò a essere praticato, il veleno non sostituì in linea generale la
precipitazione nel Barathron; esso risparmiò il Barathron solo a chi poteva pagare il suo prezzo.
Secondo alcuni studiosi l’introduzione della cicuta come forma di esecuzione capitale è la prova finale dell’umanità
degli ateniesi, che li indusse a scegliere un mezzo di esecuzione che causava al tempo stesso il minimo dolore e la
minima infamia.
La cicuta era però qualcosa di diverso da un atto di umanità, o almeno era anche qualcos’altro. Il veleno era
un’alternativa di morte concessa per ragioni di opportunità e di calcolo politico. Non a caso i condannati che
potevano beneficiare della morte dolce erano, accanto ai criminali politici, i condannati per “empietà” (asebeia).
Questo reato, infatti, era diventato lo strumento della repressione politica più difficile e più delicata: quella degli
intellettuali.

1.2 Il processo di Socrate


Socrate era stato accusato di aver “investigato quel che c’è sottoterra e in cielo, tentando di far apparire migliore la
ragione peggiore, e questo insegnando ad altri”; di essere “reo di corrompere i giovani, di non riconoscere gli dèi che
la città riconosce e anzi di praticare culti nuovi e diversi”.

Si ritiene che l’accusa di empietà fatta a Socrate fosse del tutto pretestuosa. L’asebeia, infatti, sarebbe consistita nel
compiere azioni o tenere comportamenti rituali contrastanti con i precetti religiosi.
Il semplice fatto di professare idee religiose non ortodosse era asebeia.
L’accusa contro Socrate non sarebbe quindi stata un’aberrazione giuridica, ma l’impiego di uno strumento
istituzionale di normalizzazione sociale e religiosa.

Socrate fu condannato a morte per empietà. Il che non significa che la pena per gli “empi” fosse sempre e
necessariamente la morte.
L’azione di empietà era un tipo di azione caratterizzato da una particolare procedura: l’accusato, dopo che era stata
chiesta la sua condanna e qualora fosse stato dichiarato colpevole, doveva indicare la pena che riteneva di meritare.
E la giuria, a questo punto, poteva scegliere tra le due diverse pene.
Quale fu la controproposta di Socrate? Che egli aveva così bene meritato dalla città che questa avrebbe dovuto
mantenerlo nel Pritaneo a spese pubbliche. Solo le insistenze degli amici lo indussero, infine, a dichiararsi pronto a
pagare una multa.

A seguito della proposta di Socrate avvenne la nuova votazione relativa alla scelta tra la pena di morte proposta
dall’accusa o la multa. Il popolo, che aveva votato la colpevolezza del filosofo con una piccola maggioranza, lo
condannò a morte.

Il processo di Socrate fu un processo politico e i processi politici sono sempre impopolari, così come lo sono le
esecuzioni delle sentenze.
Ogni processo politico, in ogni tempo e in ogni luogo, può ritorcersi contro chi lo ha voluto: ecco perché il koneion
era offerto a chi, sostanzialmente, era stato condannato per ragioni politiche.
Più che un ritrarsi degli ateniesi di fronte alla crudeltà della pena di morte, l’introduzione della “morte dolce”
sembra dunque la scelta di un modo più discreto di esercitare il potere, di una consapevolezza della necessità di
usare la forza senza esibizioni e senza eccessi.
Ma non fu la sola motivazione. Consentire ai condannati politici di evitare la pena capitale pubblica e infamante era
anche il riconoscimento di un privilegio sociale.
I condannati per ragioni politiche appartenevano comunque al numero di quelli che contavano e che meritavano
rispetto. Consentire loro di morire senza dolore e senza infamia era un modo per riconoscere questa posizione e non
privarli di una dignità che, in definitiva, era la stessa di chi li aveva condannati.

A ROMA
I supplizi greci, per quanto crudeli, avevano una loro razionalità. Ciascuno dei gesti che li componeva aveva una
funzione evidente, una logica chiara e penetrabile. Il sistema greco rivelava immediatamente gli obiettivi di chi lo
compiva.
I supplizi romani, invece, non si limitavano a dare una morte più o meno dolorosa; essi si complicavano di riti
misteriosi, comportando cerimonie articolate e incomprensibili (es. la pena del sacco che prevedeva che ai piedi del
reo venissero calzati zoccoli di legno e il suo capo venisse coperto da una pelle di lupo. Al momento stabilito per
l’esecuzione egli veniva fustigato con delle speciali verghe dette sanguineae, veniva chiuso in un sacco
ermeticamente sigillato con la pece insieme a un cane, un gallo, una vipera e, in età più tarda, una scimmia. Infine,
sempre chiuso nel sacco, veniva caricato su un carro trainato da buoi neri e, in compagnia dei suoi feroci coinquilini,
veniva gettato nel più vicino corso d’acqua).

Quel che colpisce quando si contempla il sistema romano dei supplizi è la loro varietà.
Per capire la ragione della complessità della teatralità di alcuni riti di morte, perché i supplizi erano così numerosi e
perché ciascuno di essi era riservato a un determinato tipo di delinquenti e non ad altri, è necessario sforzarsi di
leggere il significato che sta dietro ogni gesto, dietro ogni luogo utilizzato come strumento e teatro delle
sceneggiature di morte.

Ogni supplizio ha alle spalle una lunga storia precittadina.


Quello che interessa sono i supplizi originari, quelli che Roma scelse di applicare nel momento in cui si pose come
custode e garante del rispetto delle regole giuridiche e dalla cui struttura possiamo risalire alla funzione originaria
dei diversi riti di morte. Questi supplizi rispondevano a tre diverse esigenze: espiare, castigare e vendicare.

Problemi di metodo
A differenza delle fonti greche, le fonti romane consentono di conoscere il sistema dei supplizi solamente a partire
dal momento in cui le esecuzioni capitali vennero previste dalla civitas come necessaria e inevitabile conseguenza di
comportamenti che avrebbero messo in pericolo il suo ordine interno e la sua sussistenza.

La ricostruzione del diritto criminale romano è resa facile dalla serie di testi giuridici che permettono la ricostruzione
sicura e puntuale del diritto di un’età relativamente tarda. La protostoria della città è affidata all’interpretazione
critica di documenti posteriori all’età di cui descrivono le regole.

Anche se i romani non hanno tramandato un corpus di miti paragonabile a quello greco, anche Roma aveva le sue
leggende e alcune di esse possono aiutare a comprendere il significato perduto di alcuni riti di morte.

In contesti differenti e con scopi diversi, autori come Cicerone, Tito Livio, Dionigi di Alicarnasso, Plutarco, Valerio
Massimo o Plinio, riferiscono con una certa ampiezza le regole che la tradizione attribuisce ai re di Roma e al
decemvirato legislativo che nel 451-450 dettò le dodici tavole.

L’insieme delle regole attribuite all’età regia è noto come leges regiae. Le leges regiae sono le più antiche
disposizioni autoritative romane, che talvolta individuano alcuni comportamenti che dovevano essere puniti con la
morte e stabiliscono i modi in cui essa doveva essere inflitta.
A integrare le informazioni fornite dalle leges regiae intervengono poi le Dodici Tavole. Redatte secondo la tradizione
da due successivi collegi di magistrati detti decemviri legibus scribundis, nominati allo scopo di dare a Roma le prime
leggi scritte, le Dodici Tavole andrebbero datate al 451-450 a.C.
Distrutte, secondo la tradizione, durante l’incendio appiccato dai galli, le Dodici Tavole sono ricostruibili attraverso le
citazioni di autori più tardi e (come le leges regiae) sono considerate sostanzialmente attendibili dalla critica.

A completare il quadro, integrandolo con la descrizione di supplizi di cui le leges regiae e le dodici tavole non
serbano traccia, intervengono i racconti di antiquari e storici, concernenti una serie di processi celebrati nei primi
secoli della città a carico di personaggi resisi colpevoli del primo tra i crimini capitali che lo Stato si assunse l’incarico
di punire direttamente: il reato di tradimento.

IL CASTIGO

Il castigo nelle case


Anche a Roma, come in Grecia, accadeva che alcuni comportamenti illeciti venissero puniti in casa. Stabilendo la sua
autorità, la civitas non aveva spogliato i patres delle loro prerogative e non li aveva privati dei loro poteri.

1. morire di inedia: le adultere e le donne che bevevano vino


Una delle più antiche leges regiae, attribuita a Romolo, si preoccupò di stabilire in quali casi il marito poteva uccidere
la moglie. Scrive infatti Dionigi di Alicarnasso: “Romolo stabilì che la moglie fosse punita con la morte dai parenti in
caso di rapporto sessuale illecito e in caso avesse bevuto vino.

La legge si preoccupò di stabilire quando una moglie poteva essere uccisa perché il matrimonio, nei primi secoli, era
regolarmente accompagnato dal trasferimento della donna nella familia del marito. La moglie, di conseguenza, si
trovava in posizione di figlia presso il marito.
Anche se giuridicamente appartenente alla famiglia del marito, la donna sposata manteneva i collegamenti con la
sua famiglia di origine: il paterfamilias originario non perdeva quindi del tutto il potere personale sulla figlia
coniugata.
La necessità di coordinare i rapporti tra le due diverse potestà personali che gravavano sulla donna coniugata è di
tutta evidenza. Romolo, a questo scopo, tentò di delimitare gli ambiti di esercizio del ius vitae ac necis maritale,
stabilendo una regola il cui contenuto appare singolare.

Una spiegazione di tale severità si può trovare in diversi ambiti:


- Il vino conteneva secondo i romani un principio di vita non diverso da quello contenuto nel seme maschile.
La donna che lo beveva, di conseguenza, ammetteva in sé un principio di vita estraneo e compiva un atto che
metteva in pericolo la purezza del sangue, esattamente come l’adulterio.
- Il vino era considerato abortivo.
- Bere vino portava le donne ad essere più disinibite e per questo potevano svelare segreti familiari, dire cose
disdicevoli e creare situazioni imbarazzanti.

Le spiegazioni sono diverse ma tutto può essere ricondotto a un unico principio: il vino era proibito perché, facendo
perdere il controllo, poteva indurre le donne a venir meno ai loro doveri.

La donna che aveva commesso adulterio o aveva bevuto vino veniva messa a morte. L’esecuzione era familiare e
alcuni fatti di cronaca riportati da Valerio Massimo e da Plinio il Vecchio forniscono indicazioni più precise.
Nel racconto di Valerio Massimo, Ignazio Mecennio, avendo visto la moglie bere vino, la uccise a bastonate. Tutti
giudicarono che ella avesse pagato la violazione della sobrietà nella misura più esemplare.
Non bisogna però pensare che le bastonate fossero il sistema abituale di esecuzione riservato alle donne che
dimenticavano la loro virtù. Quello di Ignazio Mecennio fu evidentemente un caso anomalo.

Plinio, nel riferire lo stesso episodio di Valerio Massimo, afferma che la moglie di Ignazio Mecennio avrebbe dovuto
morire di inedia.
Per i romani, infatti, la morte per inedia era meno crudele di altre; a dimostrarlo interviene la leggenda (riportata da
Valerio Massimo e Plinio) che spiega la ragione per cui, nel 181 a.C., gli Acilii Glabrioni costruirono un tempio
dedicandolo alla Pietas: Una donna di umili condizioni era stata condannata a morte, ma il carceriere, imbarazzato di
dover eseguire la sentenza, aveva deciso di lasciarla morire di inedia.
La pietas celebrata dai Galabrioni era quella della figlia della condannata che, autorizzata dal carceriere a visitare la
madre a condizione di non portarle del cibo, grazie a questa concessione nutriva la madre con il latte del suo seno:
finché un giorno, insospettito dall’incredibile resistenza della condannata, il carceriere, spiando le due donne scoprì
l’inganno.
L’eccezionale avvenimento, una volta reso noto, colpì a tal punto i romani che la donna ebbe salva la vita e sul luogo
in cui era costruita la prigione venne eretto il tempio alla Pietà.
L’episodio sembra confermare che, per i romani, la morte per inedia era più appropriata alle donne di altre morti. A
confermare che il mancato rispetto dei doveri femminili comportava questa morte, interviene la considerazione
della sorte riservata alle Vestali incestae, vale a dire “impudiche”. La morte delle sacerdotesse di Vesta presenta
evidenti e indiscutibili analogie con quella delle donne comuni.

2. Il castigo delle vestali come paradigma del castigo delle donne comuni
Le sacerdotesse di Vesta erano vincolate da un voto di castità trentennale. Le fanciulle più nobili, al momento della
consacrazione uscivano dalla potestà paterna ed erano le uniche donne sui iuris (non sottoposte al potere di un
paterfamilias) alle quali fosse concesso compiere atti di rilevanza giuridica.
Al momento della consacrazione, durante una cerimonia chiamata “cattura” (captio), il Pontifex Maximus, con una
formula solenne acquistava su di loro un potere che, nel caso esse infrangessero il voto di castità, comportava la loro
condanna a morte.
Al termine di una solenne e lugubre cerimonia, dopo aver attraversato la città su una lettiga coperta all’esterno e
stretta con cinghie, esse giungevano al luogo del loro supplizio, sulla porta Collina. Lì, coperte di veli, venivano fatte
scendere dal Pontifex in una camera sotterranea dove erano stati messi un letto, del pane, dell’acqua, del latte,
dell’olio e una fiaccola. E quindi venivano murate vive.

I romani tramandavano il ricordo delle esecuzioni delle vestali che, anche se non molto frequenti, si snodarono
regolarmente attraverso i secoli.
La prima vestale sepolta viva fu Pinaria, che sarebbe stata messa a morte sotto il regno di Tarquinio Prisco.

A Roma, così come in Grecia, una donna non commetteva reato solo se veniva meno alla fede coniugale, ma più in
generale, indipendentemente dal fatto che fosse sposata, ogniqualvolta intratteneva un rapporto sessuale al di fuori
del matrimonio.
I rapporti sessuali extramatrimoniali (definiti stuprum, anziché adulterium) erano sempre illeciti, anche se
intrattenuti da una donna nubile, e spettava al padre della donna punire.

Vestali e donne comuni morivano nello stesso modo, sfinite dall’inedia, rinchiuse per sempre in un luogo che
sarebbe divenuto la loro tomba.
La morte delle Vestali si connotava in modo diverso da quella delle donne comuni: la loro impudicizia, infatti, era un
atto sacrilego. La loro colpa, se provata, provocava una contaminazione che richiedeva un’“espiazione” (piaculum),
capace di ristabilire la pax deorum.
La morte delle Vestali incestae, quindi, era al tempo stesso una punizione e un’offerta propiziatoria agli dèi.

Le vestali non venivano sepolte nella nuda terra, bensì in una stanza sotterranea illuminata da una fiaccola, fornita di
un letto e di un minimo di provviste. Venivano quindi murate vive in una casa sotterranea, in un ambiente che
ricreava lo spazio riservato in vita alle donne. L’analogia tra la loro morte e il castigo domestico è quindi evidente.
Il dovere di castità delle vestali era la proiezione nel campo sacrale dell’analogo dovere di tutte le donne,
esattamente come i loro compiti rituali erano la proiezione dei compiti domestici femminili (dovevano provvedere
alla stercoratio, ossia alla pulizia dell’altare; e alla preparazione della mola salsa, una farina salata che doveva essere
sparsa sugli animai sacrificali, sull’altare e sul coltello sacrificale).

Perché alle donne era riservata un’esecuzione che le portava a morire d’inedia tra le viscere della terra o nei
sotterranei della loro casa?
A Roma, la scelta di far morire le donne di inedia sembra dovuta al carattere discreto e domestico di questo tipo di
esecuzione.
Se nel caso delle Vestali la riservatezza veniva meno, era da un canto a causa del loro status di pubbliche
sacerdotesse e della loro visibilità sociale in vita, che rendevano necessaria una morte altrettanto pubblica e visibile;
e dall’altro perché la loro esecuzione era un sacrificio agli dèi e i sacrifici richiedono solennità. Ma questo non toglie
che, nella sua funerea spettacolarità, la morte delle Vestali incestae ricalcasse fedelmente la morte silenziosa e
invisibile delle donne comuni, alle quali era riservata anche la morte per strangolamento.
Furono strangolate, in base a una sentenza dei parenti, Publicia e Licinia: accusate di aver avvelenato i rispettivi
mariti.

3. Tra casa e città: il suicidio onorevole e la morte privilegiata per strangolamento o per inedia
Quando un romano decideva di mettere fine ai suoi giorni, uno degli strumenti che consentivano di attuare il suo
proponimento era il laqueum, il laccio.
Per i romani suicidarsi era spesso una necessità dettata dalla violenza della vita politica e dalla facilità con cui una
sorte felice poteva trasformarsi in una situazione così avversa da non lasciare altra possibilità che la morte.
Suicidarsi era quindi una scelta di libertà moralmente encomiabile.
La scelta del mezzo utile per darsi la morte era, per un romano, tutt’altro che secondaria.
Il giudizio sociale sul suicidio dipendeva dal modo in cui la morte era stata cercata e ottenuta: il primo posto nella
graduatoria dei suicidi onorevoli spettava indiscutibilmente alla spada, l’arma virile per eccellenza.
Il romano non doveva consentire ad altri di ucciderlo. Doveva piuttosto suicidarsi, possibilmente con la spada. E se
accadeva che la spada fallisse, non per questo doveva arrendersi: da vero uomo, egli non doveva temere alcuna
sofferenza (es. Nel 150 a.C., Plauzio Numida, che alla morte della moglie amatissima aveva tentato di suicidarsi con
la spada, venne salvato dai suoi schiavi. Ma non appena fu in grado di farlo, senza esitazione strappò le bende con
mano coraggiosa e si strappò le viscere).
L’ipotesi della morte di Plauzio era del tutto implausibile: la scarsa passionalità dei rapporti coniugali romani era tale
da far dubitare della realtà del racconto ma la storia di Plauzio costituisce una dimostrazione di come potesse essere
truculento l’ideale romano del coraggio virile.
Analoga a quella di Plauzio è la morte di Catone Uticense: fallito un primo tentativo di suicidio, Catone, strappate le
bende con cui il medico aveva legato le ferite, si strappò le viscere.

Alcune forme di suicidio sommesse e discretissime erano considerate perfettamente onorevoli. Se disonorevole era
l’impiccagione, tutt’altro che tali erano il dissanguamento, l’inedia e il veleno.
A volte era necessario togliersi la vita in pochi istanti e non sempre la spada o il veleno erano a portata di mano: in
questi casi ecco apparire il laqueum che poteva risolvere situazioni drammatiche, consentendo a chi lo utilizzava di
togliere ai suoi nemici la soddisfazione di ucciderlo.
Che il laqueum desse una morte più che rispettabile è confermato dalle cronache: Licinio Macro, per esempio,
strangolandosi, salvò i figli dalla miseria e dall’onta di una condanna.
Il laccio, dunque, era strumento di morte ben noto ai romani. E al carattere dignitoso della morte che esso procurava
era legato il suo uso come strumento ufficioso dell’esecuzione capitale.

Anche se non venne mai ufficialmente ricompreso tra i supplizi di stato, lo strangolamento trovò uno spazio non
istituzionale nel sistema dei supplizi. A volte, infatti, i carcerieri sottraevano i condannati alla morte pubblica e li
giustiziavano discretamente in carcere, strangolandoli o cessando di alimentarli.
Quali erano le persone per cui veniva usato questo riguardo?
- I condannati di posizione sociale elevata o la cui esecuzione pubblica era sconsigliabile per ragioni politiche:
attorno al 280 a.C., Caio Cornelio fu accusato di aver avuto una relazione omosessuale con un giovane
romano. Poiché a Roma i rapporti omosessuali erano consentiti solo con gli schiavi, gli fu incarcerato e,
secondo il racconto di Valerio Massimo, “fu costretto a morire in carcere”. Fu costretto a morire significa che
fu lasciato morire, evidentemente per inedia.
Il caso più celebre e significativo è però quello dei seguaci di Caio Gracco, strangolati in carcere nel 121 a.C.
la riservatezza dell’esecuzione, più che un riguardo, fu una precauzione politica volta a evitare eventuali
sommosse o manifestazioni di protesta.
- Le donne condannate a seguito di un processo pubblico: a Roma poteva accadere che le donne non
venissero processate in casa. Oltre ai reati tipicamente femminili esse potevano commettere reati che la
civitas aveva deciso di giudicare e punire personalmente: per esempio esse potevano tradire la patria. A
ricordare che anche le donne, se tradivano, erano destinate alla morte, i romani tramandavano la leggenda
di Tarpea e quella di Orazia. Le loro storie, in modo esemplare, servivano a ricordare che la patria doveva
stare al primo posto nella scala dei valori di tutti.
Passando alla storia non si trova però traccia di donne che si siano rese colpevoli di tradimento.

A partire dall’epoca di Augusto, l’adulterio e lo stuprum divennero un crimine e le donne di discutibile virtù vennero
da quel momento processate pubblicamente.

L’omicidio, come l’adulterio, era un reato che le donne romane commettevano con frequenza. Come venivano
giustiziate le donne condannate in un processo pubblico, quando la pena era la morte? Teoricamente tra donne e
uomini non c’era differenza alcuna, ma nella pratica le donne ben raramente venivano giustiziate in pubblico.

La morte dolce per inedia era solo una delle possibili morti riservate alle donne pubblicamente condannate: accanto
a essa stava lo strangolamento, che non aveva luogo in carcere, bensì nelle case: di regola, infatti, dopo la pubblica
condanna, le donne venivano consegnate ai familiari, perché provvedessero personalmente a metterle a morte. Esse
venivano giustiziate in pubblico solo se non vi era un giustiziere familiare idoneo.

Le uniche esecuzioni femminili pubbliche di cui siamo a conoscenza sono quelle delle martiri cristiane.
4. Morire sotto le verghe
In casa non venivano punite solo le donne; al ius puniendi paterno erano infatti sottoposti anche i maschi.
Il rapporto padre figlio era molto particolare: al raggiungimento della maggiore età il filiusfamilias, pur restando
sottoposto alla patria potestas, acquistava la capacità di diritto pubblico e poteva votare, partecipare alla gestione
della cosa pubblica e intraprendere la carriera politica.

Cittadino di pieno diritto, il figlio adulto si trovava in una posizione ambivalente nei confronti del padre. Esempio
significativo è il caso in cui un filiusfamilias diventasse magistrato. In quanto tale aveva un potere pubblico sul padre,
al quale, come figlio era tuttavia sottoposto come un minorenne o una donna.

Cosa accadeva se un figlio, nell’esercizio di funzioni pubbliche, si macchiava di reati che meritavano una pubblica
pena? Il padre poteva punire il figlio che aveva infranto le regole della disciplina domestica.
Una delle forme più diffuse del castigo domestico era la fustigazione a morte.

4.1 Il supplizio di Spurio Cassio


Spurio aveva proposto di dividere il territorio sottratto agli ernici tra la plebe e gli alleati latini, aggiungendovi una
parte del terreno pubblico. Ma l’altro console, Proculo Virginio, si era opposto e oltre al sostegno dei patrizi aveva
trovato l’appoggio della plebe.
Quello che secondo Valerio Massimo accadde a Spurio nel 485, quando uscì dal carcere, fu la condanna in casa per il
crimine di adfectatio regni da parte del padre. Molti dicono che lo stesso padre fu l’esecutore del supplizio.
Per un crimine come quello di cui era incolpato Spurio, il potere paterno concorreva con quello dello Stato e la
punizione del reo poteva essere sia privata sia pubblica.

4.2 La disciplina paterna: castigo privato e castigo pubblico


L’esecuzione di Spurio appare come una forma normale e quasi scontata dell’esecuzione domestica, decisa dal padre
nella totale autonomia che il più antico diritto gli riconosceva: i giudizi domestici, infatti, erano sottratti al controllo
pubblico. I padri, in altre parole, valutavano la gravità della colpa e stabilivano la pena in base ai loro personali criteri.
A limitare i loro poteri non intervenivano né lo Stato né i parenti e gli amici con i quali a volte si consultavano.

Il padre poteva decidere di uccidere il figlio senza consiglieri, senza testimoni e senza istruttorie; nessuno poteva
impedirglielo.

Ciò che al massimo poteva accadere al padre che uccideva il figlio senza concedergli un minimo di possibilità di difesa
era una blanda condanna sociale.
La liceità del suo comportamento era fuori discussione. Egli non aveva fatto altro che esercitare il suo potere.
Non a caso nelle fonti leggiamo che il padre per i figli è “un censore”,“un magistrato domestico”. Per questo il
filiusfamilias colpevole di un reato politico continuò a poter essere chiamato a rispondere delle sue azioni anche di
fronte all’autorità familiare.

Il castigo nella città


Nel momento in cui nacque, la città si assunse il compito di mettere a morte i pubblici traditori, definiti colpevoli di
perduellio.
Secondo alcune ipotesi solo l’attentato al potere regale poteva essere definito perduellio; i crimini perpetrati
alleandosi con il nemico erano invece considerati proditio o defectio.

I confini del perduellio rimasero incerti per tutto il corso della storia romana.
Nel III secolo d.C., ulpiano definisce il reo di perduellio come un delinquente animato da spirito ostile allo stato o
all’imperatore e la decisione di persegiure un comportamento classificabile come tale era, in buona sostanza, una
scelta politica.
I colpevoli di tradimento, qualsiasi fosse la forma in cui esso era stato perpetrato, venivano messi inesorabilmente a
morte. E sin dalle origini della città, a differenza degli altri criminali che dopo la condanna venivano uccisi da privati
autorizzati a far ciò dalla civitas, essi venivano uccisi dal rex o dai suoi aiutanti.
Di norma i traditori venivano decapitati con la scure, fustigati a morte o precipitati dalla rupe Tarpea.

1. La decapitazione con la scure (securi percussio)


Lo strumento con cui, in origine, il rex giustiziava i traditori era la scure.
Sui fasci littori (le insegne portate dagli aiutanti del rex, chiamati lictores), la scure era affiancata da alcune verghe di
olmo o betulla, le stesse che venivano utilizzate per flagellare i condannati prima di decapitarli.

La storia della scure come strumento di esecuzione capitale è storia del potere regale: il suo atto di nascita non è
anteriore alla civitas e la sua fine coincide con quella delle istituzioni regie.
Con la città essa divenne simbolo e strumento del potere militare del rex (imperium).

Con il passaggio dalla monarchia alla repubblica, la vita dei cittadini cessa di dipendere dal potere incontrollato del
rex. In quell’epoca la titolarità del potere del rex passa a una magistratura collegiale composta da due consoli, la cui
carica non è più vitalizia.
In età repubblicana la scure scomparve dalle insegne della magistratura; i magistrati non potevano più esercitare, in
città, il potere punitivo (coercitio) che derivava loro dall’imperium. A questo punto la possibilità di usare la scure
come strumento di esecuzione capitale rimase prerogativa dei comandanti delle spedizioni militari.
In città i magistrati potevano emettere sentenze capitali in forza di un potere diverso dalla coercitio, la iurisdictio.
Esercitare quest’ultima non voleva dire passare per le armi gli eventuali o supposti traditori ma, semplicemente,
amministrare la giustizia. In materia criminale, in particolare, voleva dire amministrare la giustizia senza poter
decretare in prima e ultima istanza la morte.

In epoca repubblicana viene concesso agli abitanti di Roma di poter provocare ad populum, ossia opporsi all’esercizio
del potere punitivo del magistrato, rivolgendosi al popolo riunito nei comizi.
La data in cui questo diritto venne riconosciuto è dibattuta; secondo alcuni, sarebbe avvenuto con la lex valeria
publicola approvata nel 509 a.C. (primo anno della repubblica), secondo altri sarebbe avvenuto con la lex valeria
horatia del 449 a.C.
In età repubblicana l’esecuzione capitale decisa in prima e ultima istanza dai magistrati ed eseguita con la scure per
loro ordine scomparve.

1.1 I figli di Bruto


L’ultima esecuzione con la scure ebbe luogo nel 509. In quell’anno era stata scoperta una congiura, volta a
restaurare la monarchia dei Tarquini e tra i congiurati vi erano i figli del console Lucio Bruto, colui che aveva cacciato
i re.

Secondo Livio, “la sorte volle che esecutore delle pene fosse proprio colui che avrebbe dovuto tenersi lontano da
tale spettacolo”, Lucio Bruto.
A quanto ci è dato sapere, quella del 509 fu l’ultima esecuzione con la scure eseguita in città, che segnò l’inizio di un
periodo nel quale, a Roma, le condanne a morte divennero sempre più rare.

Entrata in uso la provocatio ad populum, le esecuzioni capitali finirono col diventare eventi del tutto eccezionale.
Dopo il 90 a.C. (data dell’ultima esecuzione registrata dalle fonti), infatti, a Roma la pena di morte venne inflitta
solamente in circostanze straordinarie come la congiura di Catilina, ma non significa che la pena di morte in età
repubblicana scomparve.

La securi percussio continuò ad essere usata per uccidere non solo soldati insubordinati e ribelli, ma anche
prigionieri di guerra e per eseguire le sentenze pronunciate dal dictator, che non erano soggette a provocatio.

Il rito della decapitazione veniva eseguito dinanzi al maggior numero di persone, convocate a questo scopo da un
araldo. Era quindi uno spettacolo pubblico che si svolgeva dopo che il condannato era già stato sottoposto a un altro
rituale: la passeggiata ignominiosa. Con le mani legate dietro al dorso e la schiena curva sotto il peso della furca, il
reo veniva fustigato e pungolato dagli aiutanti del magistrato, insultato dalla folla e talvolta preso a sassate fino al
luogo dell’esecuzione.
Mentre la tromba suonava, dopo che il magistrato aveva ripetuto solennemente la sentenza, la scure colpiva il collo
del condannato, ponendo fine alle sue sofferenze. La sua testa rotolava al suolo e Tito Livio sostiene che la visione
avesse un formidabile effetto deterrente sugli spettatori.
Lo scopo principale della decapitazione non era però la sua funzione deterrente, quanto più dimostrare l’autorità di
chi la infliggeva.

1.2 Sacrificio agli dèi o esecuzione laica?


Un’ipotesi alquanto discutibile vede la decapitazione con la scure come un’esecuzione sacrale, un sacrificio agli dèi.

Quando i romani celebravano sacrifici di sangue animali, seguivano un rituale rigorosamente prescritto nei minimi
dettagli. Se fosse esistita un’epoca in cui il sacrificio di sangue era anche umano, è quindi plausibile che questo
venisse celebrato nelle forme attestate per il sacrificio animale o con modalità analoghe, ma così non è.

Nel caso del sacrificio cruento, la vittima doveva essere uccisa nel silenzio più assoluto. Nei sacrifici di stato l’araldo
invitava i presenti al rispetto della regola del silenzio e solo quando l’ordine era stato rispettato, il sacerdote dava
inizio al rito. dopo aver preso nelle mani un piatto contenente la mola salsa e aver immolato con questa la vittima,
spargendo la salsa sul suo capo e sul coltello sacrificale, egli rivolgeva ai presenti una domanda di rito: “Agone?”,
“Devo agire?”. E dopo aver ottenuto la risposta dava inizio alla parte centrale del rito, vale a dire all’uccisione della
bestia e alla divisione delle sue carni.
L’arma non era sempre la scure: la bestia, preventivamente stordita da un colpo di martello alla testa, veniva finita
con la scure solo se si trattava di un bovino; se era un suino o un ovino veniva finita con il coltello e immolata.

Nella securi percussio, inoltre, il magistrato non aveva la testa velata. L’arma veniva calata sul collo della vittima
senza alcuna preghiera, senza che il minimo cenno segnalasse l’intenzione di entrare il contatto con il dio e senza
traccia del proposito di destinare a questo il condannato.

1.3 I soldati di Cesare: teste umane affisse alla Regia


Cesare, che si avviava a diventare dittatore, aveva voluto dare un segno inequivocabile del suo modo di intendere la
disciplina militare. Le truppe protestavano per l’acquisto di tende volte a impedire che il sole, durante i giochi,
disturbasse gli spettatori e Cesare non poteva fare altro che punirli.
Dopo aver fatto arrestare uno dei colpevoli, lo consegnò al carnefice e diede ordine di uccidere altri due soldati, ma
questa volta secondo un particolare rito religioso. Dione descrive la procedura dicendo “essa non è prescritta né
dalla Sibilla né da alcun oracolo di questo tipo. È peraltro sicuro che i soldati furono sacrificati nel campo di Marte dai
pontefici e dal sacerdote di Marte, e che le loro teste furono portate alla Regia”.

Che l’esecuzione ordinata da Cesare affondasse le sue origini in una precedente pratica religiosa è evidente, ma che
questa fosse un’antica forma di esecuzione capitale è invece da escludere. Di teste umane affisse alla Regia, infatti,
non esiste alcuna traccia nella storia di Roma.

Esistono casi di normale e accettabile desiderio di esibire le spoglie nemiche, come ad esempio la testa di Lucio
Calpurnio Pisone Liciniano che venne condotta, nel 69 a.C., per la città in cima a una picca, o la testa recisa di Catilina
che venne inviata a Roma nel 62.
L’esibizione o l’infissione in pubblico delle teste non era quindi una pratica istituzionale, ma aveva solo un uso sociale
e bellico.
L’esecuzione ordinata da Cesare, dunque, non può essere collegata a una forma di decapitazione sacrificale umana.

1.4 Il cavallo di ottobre (october equus)


A Roma, nel mese di ottobre, veniva celebrata una solenne cerimonia religiosa, al termine della quale una testa
veniva tagliata e affissa al muro di un edificio pubblico. La testa non era umana ma equina e il rito prendeva il nome
di “cavallo di ottobre”.
Si può pensare che Cesare, quando decise di punire i soldati ribelli, si sia ispirato a questo rito?
Il rito veniva celebrato nel campo di Marte e in onore di Marte. Prevedeva che al cavallo sacrificato a questo dio
venissero tagliate la testa e la coda. La testa veniva affissa a una parete, che talvolta era quella della Regia, ma non
era sempre e necessariamente questa. Per la testa appena tagliata, infatti, si apriva una contesa tra gli abitanti del
quartiere di suburra e quelli della via sacra, e solo in caso di vittoria dei primi la parete alla quale la testa veniva
affissa era quella della Regia.
Per la coda invece non c’era alcuna contesa; appena staccata, essa veniva portata ancora grondante alla Regia, così
che il suo sangue ne bagnasse l’altare.

Perché mai il sangue della coda doveva bagnare l’altare? Bisogna partire da due constatazioni:
1. Marte, oltre che il duo della guerra, era il dio della fecondità.
2. La parola cauda, in latino, non significa solo “coda” ma anche “pene”.

Se la cauda tagliata al cavallo di ottobre era il suo pene, dunque, il rito secondo il quale l’altare veniva imbevuto del
sangue che ne scendeva aveva una funzione evidente: era un rito di fecondità in onore di Marte agrario.
L’october equus poteva quindi essere un rito di fecondità. Ma se così stavano le cose perché Cesare avrebbe dovuto
ispirarsi all’october equus per punire un atto di ribellione? L’idea di affiggere alla Regia le teste dei colpevoli può
spiegarsi solo pensando che la cerimonia dell’october equus fosse un sacrificio bellico.

Il tempo necessario per giungere correndo dal campo di Marte sino alla Regia era di due minuti e trenta secondi.
Quanto può sanguinare la coda di un cavallo e per quanto tempo può invece sanguinare il suo pene?
“La coda, nel punto di sezione, ha lasciato gocciolare o trasudare sangue naturalmente per tre minuti quando la
parte amputata era rivolta verso il basso, per tre minuti e quindici secondi quando era rivolta verso l’alto. Il sangue
che rimane nel pene e nei suoi muscoli, invece, anche dopo il dissanguamento gocciola continuamente. È stato facile
farne fuoriuscire dell’altro, per pressione, perfino dieci minuti dopo il taglio.”
La parte del cavallo portata di corsa alla Regia, dunque, poteva essere la coda; nulla impediva, quindi, di credere che
l’october equus fosse un sacrificio al dio della guerra.
Il sacrificio veniva celebrato sul campo di Marte, ove si svolgevano gli esercizi militari. La data del sacrificio, il 15
ottobre, era quella che segnava la fine delle campagne militari, iniziate tra febbraio e marzo, in un periodo durante il
quale, sempre sul campo di Marte, avevano luogo delle gare di carri. Inoltre, il cavallo sacrificato era il cavallo di
destra del carro di colui che aveva vinto gare analoghe a quelle che avevano accompagnato all’inizio della stagione
bellica.

Secondo una prima ipotesi, il rito rappresentava l’uccisione del cavallo di Troia; secondo un’altra il cavallo era offerto
a Marte perché animale bellicoso e quindi particolarmente gradito al dio. Una terza ipotesi immaginava che il rito
simboleggiasse la punizione di coloro che usavano la loro agilità per prendere la fuga.
Secondo gli storici moderni, il sangue versato sul focolare della Regia eliminava le impurità provocate dalla guerra, e
l’affissione della testa significava l’attribuzione della vittoria allo stato.

Tornando all’esecuzione voluta da Cesare nel 46, possiamo dire che essa non fu un’improvvisazione del momento,
ma il recupero di un rito. E la constatazione che si trattasse di un rito di guerra rende ragione alla scelta di Cesare.
L’esecuzione fu al tempo stesso una punizione esemplare e un sacrificio a Marte.

1.5 Conclusioni sulla decapitazione


A sostegno della natura sacrificale della decapitazione con l’ascia non restano indizi.

La securi percussio era un atto punitivo laico che venne utilizzato dapprima a Roma e successivamente fuori città,
nonostante, anche qui, cedette il passo ad altri strumenti.
Nel corso degli anni ricorrere alla scure era considerato disdicevole. Ad esempio, quando un soldato di Caracalla la
utilizzò, l’imperatore lo rimproverò; o ancora durante l’ultima persecuzione d’Africa, quando alcuni cristiani furono
decapitati in questo modo, la cosa venne registrata da Eusebio come evento straordinario.

Sarebbe sbagliato dedurre che, quando la securi percussio venne abolita, coloro che avevano commesso crimini
contro lo stato continuassero a essere decollati, con l’unica differenza della sostituzione dell’arma.
In età repubblicana, quando venne proibito ai magistrati di esercitare la coercitio in città e fu introdotta la nuova
regola secondo la quale le condanne a morte potevano essere pronunziate esclusivamente dai comizi centuriati, la
morte inflitta ai traditori prevedeva un supplizio diverso: quello descritto per la prima volta dal celebre racconto
liviano della morte di Orazia e del processo di Orazio.

L’ESPIAZIONE

Il supplizio all’albero infelice

1. La morte di Orazia, il processo di Orazio


Durante il regno di Tullo Ostilio, la potenza etrusca minacciava sia la città di Roma sia quella di Alba Longa. Pur divisi
da una latente inimicizia, romani e albani decisero di allearsi contro il comune nemico, affidando a un duello la scelta
della città cui sarebbe spettata la posizione egemone.
Gli albani scelsero come campioni i tre fratelli Curiazi, i romani i tre fratelli Orazi. Ma nonostante il valore di questi
ultimi il duello rischiava di vedere Roma sconfitta: due dei tre Orazi erano stati uccisi dai campioni nemici. L’Orazio
superstite allora, consapevole di non poter vincere con le sue sole forze ben tre avversari, ricorse a uno
stratagemma. Fingendo di darsi alla fuga riuscì a distanziare tra loro i Curiazi, e, affrontando ciascuno di loro
individualmente, portò Roma alla vittoria.
La città finalmente esultava, ma la felicità collettiva venne turbata da un grave fatto di sangue. Mentre Orazio
rientrava in città tra le acclamazioni del popolo, portando orgogliosamente sulle spalle le spoglie dei rivali, sua
sorella Orazia vide tra di esse il mantello da lei tessuto per il fidanzato Curiazio. Non riuscendo a controllare il dolore,
dimentica di essere una cittadina romana, con i capelli sciolti in segno di lutto, la fanciulla prese a invocare tra le
lacrime il suo amore perduto. Orazio venne allora preso da ira incontrollabile e trafisse Orazia con la spada.

Il gesto di Orazio apparve così orribile ai romani che, nonostante i meriti recentemente acquisiti, il giovane venne
condotto in giudizio davanti al re. Ma questi, che non voleva assumersi la responsabilità di condannare a morte un
eroe nazionale, riunì l’assemblea popolare, nominando, secondo la lex horrendi carminis, i duumviri che avrebbero
giudicato Orazio per perduellio.

I duumviri non ritenendo di poter assolvere, secondo la legge, neppure un innocente, condannarono Orazio.
Nel momento in cui uno dei littori aveva già legato le mani al condannato, il padre di Orazio chiese la verifica
popolare (provocatio). La parola passò così al popolo, davanti al quale il padre intervenne in difesa del figlio. Orazio
padre disse che il figlio non aveva fatto altro che anticipare quello che egli stesso avrebbe fatto nell’esercizio dei suoi
poteri paterni. Orazia era quindi stata legittimamente uccisa.

Perché Orazio viene accusato di Perduellio?


Le fonti diverse da Livio non parlano di perduellio, dicono che Orazio fu accusato di parricidium. Parte della dottrina
ritiene che, in effetti, il comportamento dell’eroe giustificasse questa accusa. Una celebre legge, infatti, diceva che
“chiunque uccide volontariamente una persona di stato libero paricidas esto”; e “paricidas esto” vorrebbe dire “sia
considerato parricida”.
L’interpretazione di questa legge è controversa e con ogni probabilità il significato è diverso da quello riportato.

La qualificazione del comportamento dell’eroe come perduellio non è incomprensibile. Piangendo il fidanzato morto,
Orazia era infatti venuta meno al suo dovere di lealtà alla patria e aveva quindi tradito.
A punire un figlio colpevole di un crimine pubblico potevano essere solo il padre nell’esercizio del suo potere
domestico, oppure il rex in forza del suo imperium. Orazio aveva quindi usurpato un potere che non era suo e la
sostituzione al pater costituiva un’infrazione alla sua disciplina domestica.

Abbiamo a questo punto due interpretazioni:


- Secondo alcuni un crimine compiuto da chiunque mettesse a morte una persona che il magistrato non aveva
ancora condannato, rientrava nella perduellio.
- La seconda interpretazione vede l’accusa di perduellio come una concessione fatta dal re per offrire a Orazio
una possibilità di salvezza: qualora fosse stato accusato di parricidium, infatti, l’eroe non avrebbe avuto la
possibilità di provocare ad populum, concessa solamente a coloro che erano accusati di tradimento.
2. La lex horrendi carminis
Il testo della lex horrendi carminis è autentico ma il riferimento alla provocatio è certamente un’inserzione
successiva. Esisteva dunque una legge che stabiliva come i traditori dovevano essere uccisi: essa dettava “al
condannato venga velato il capo. Sia sospeso all’albero infelice e sia fustigato sia nel pomerio sia fuori dal pomerio”.

L’interpretazione della legge ha posto una serie di problemi, il primo dei quali è rappresentato dall’identificazione
dell’albero detto “infelice”.

3. Albero felice, albero infelice


Arbor infelix per i romani era, in primo luogo, l’albero che non portava frutti o che portava frutti selvatici e non
commestibili.

L’arbor felix era l’albero di buon auspicio, mentre quello infelix era di cattivo augurio. Gli arbores infelices erano
sotto la protezione degli dèi infernali ed erano il linterno, il sanguine, la felce, il fico nero, gli alberi che portano
bacche o frutti neri, l’agrifoglio, il pero selvatico, il pungitopo, il lampone selvatico e i rovi.
Quale fosse il criterio in base al quale alcuni alberi erano considerati protetti dagli dèi infernali non è facile dire ma
Plinio sostiene che “sono sacre agli dei le arbores che non vengono seminate e non portano frutti”.

La classificazione laica e quella magico-religiosa vengono a riconiugarsi ma il loro collegamento non è sufficiente a
render conto di tutti gli alberi considerati infelices: oltre a quelli che lo erano per natura, esistevano alberi che lo
diventavano per circostanze esterne e sopravvenute, come ad esempio le vigne che diventavano impure se una
persona si impiccava nei suoi dintorni, o i boschi che erano stati colpiti da fulmini e non potevano quindi essere usati
per i sacrifici.

È possibile pensare che l’albero del supplizio non dovesse essere infelix per natura, ma fosse così definito perché
diventava tale dopo il supplizio.
L’infelicità del legno potrebbe sembrare legata alla sua sorte di sostenere un condannato a morte ma, in realtà,
l’ipotesi non è seriamente sostenibile.
La legge prescriveva che il supplizio avvenisse a un’arbor infelix; evidentemente, dunque, a un albero che era già
tale. Inoltre, essa prescriveva che il condannato vi fosse sospeso con il capo velato come le vittime sacrificali.
Poiché l’arbor infelix era un albero sacro agli dèi inferi, il condannato per tradimento veniva consacrato a questi dei,
ma qual era la sua funzione? Qual era la morte che era inflitta a chi veniva suppliziato ai suoi rami?

4. Albero infelice e impiccagione


Secondo un’ipotesi che ha trovato molti seguaci, la suspensio all’arbor infelix sarebbe stata un’impiccagione.
Suspendere significa stare in una posizione sopraelevata ma anche quando l’oggetto sospeso in una posizione
sopraelevata era un corpo legato a una fune, non si trattava necessariamente di un impiccato.

In un passo di Seneca leggiamo di alcuni condannati a morte sospesi con il capo rivolto in basso, verso il suolo. Egli
allude a dei condannati alla croce assicurati al legno in quella posizione.
Nonio, in una glossa a cicerone, commenta la lex horrendi carminis dicendo: “suspensum dicitur alte ligatum”. Colui
che viene sospeso all’arbor infelix per Nonio è assicurato all’albero in modo da non toccare il suolo ma non pende
dai suoi rami, non dondola da essi. All’albero egli è solo “ligatum”, vale a dire avvinto.

4.1 I fantasmi degli impiccati: ideologia funeraria e credenze magico-religiose


A Roma l’impiccagione era una morte maledetta: le anime degli impiccati, non trovando riposo nell’aldilà,
continuavano ad aggirarsi tra i vivi ed erano motivo di terrore invincibile.

Quali erano le ragioni di questa maledizione? Abbiamo diverse ipotesi:


- L’impiccagione, come lo strangolamento, sarebbe stata considerata una forma di decapitazione. L’ombra del
morto quindi, non avendo la testa al posto dovuto, sarebbe stata esclusa dalla società dei morti. Ma se così
fosse stato avrebbero dovuto suscitare terrore anche le anime di coloro che erano stati decapitati con la
scure e quelle di coloro che si erano suicidati strangolandosi, ma così non era. Evidentemente l’ipotesi non è
accettabile.
- Non è accettabile nemmeno l’ipotesi secondo la quale gli impiccati sarebbero stati colpiti da un tabù che
avrebbe accomunato tutti coloro che erano morti per asfissia. Secondo quest’ipotesi, infatti, gli antichi
avrebbero creduto che l’anima dimorasse nel respiro e che con questo dovesse abbandonare il corpo.
L’anima di chi moriva per asfissia sarebbe dunque rimasta imprigionata nel defunto, impedendo alla sua
ombra di raggiungere l’aldilà, costringendolo a vagare tra i vivi come un fantasma. Tra i morti per asfissia
stavano, però, anche gli annegati, i sepolti vivi e gli strangolati: il fatto che la maledizione eterna colpisse
solo gli impiccati rende inaccettabile anche questa spiegazione.
- Altra ipotesi è legata alla constatazione che gli impiccati, a differenza di tutti gli altri morti, esalavano l’ultimo
respiro sospesi nell’aria, e questo per i romani era un fatto gravissimo: per loro morire significava tornare
alla terra, e a essa si tornava solo se il corpo, nell’attimo estremo, giaceva a contatto con l’elemento
originario, sede del regno nel quale abitavano i defunti.

I romani erano prevalentemente inumatori; essi destinavano il cadavere alla terra e l’abitudine di cremare si diffuse
per timore della violazione dei sepolcri.
Quando cremavano un cadavere i romani, prima di darlo alle fiamme, usavano tagliargli un dito, che quindi
seppellivano gettandovi sopra tre manciate di terra. Il dito tagliato, che rappresentava simbolicamente il cadavere
distrutto dal fuoco, consentiva il ritorno del defunto al luogo d’origine.

Per i romani la tomba era la casa eterna. Un tempo, ciascuno veniva seppellito in casa sua, ma poi questa usanza fu
vietata dalle leggi, perché il fetore non contagiasse i viventi.
Le tombe erano quindi concepite come una dimora, ove il morto veniva sepolto con i suoi vestiti, gli utensili di cui si
era servito in vita, i gioielli e le armi.
Al defunto che continuava a vivere nel suo sepolcro, i romani auguravano che la terra fosse lieve, e ai nemici si
augurava che la terra fosse loro pesante.

Presto si diffuse la credenza che dalla tomba i morti discendessero sottoterra, nel regno di Orco, messo in
comunicazione con il mondo dei vivi dai vulcani incandescenti.
La terra di Orco era collegata alla terra mortale da un ingresso artificiale: quando fondavano una città, i romani
usavano scavare un pozzo verticale, che terminava in una cella dal soffitto concavo come la volta del cielo, per
questo denominato mundus; e tre volte l’anno aprivano il mundus per consentire ai defunti di tornare tra i viventi.

Si può collegare quanto visto al fatto che una delle forme del sacrificio agli dèi era la vivisepoltura, e che la
precipitazione dalla rupe Tarpea era considerata un modo per inviare agli dèi i colpevoli di crimini religiosi.
La morte per impiccagione era maledetta non solo per chi finiva così i suoi giorni, ma anche per i viventi destinati a
essere tormentati dalle loro ombre.

I libri pontificali vietavano di rendere ai suspendiosi gli onori funebri; i loro corpi potevano essere interrati, ma senza
il conforto delle cerimonie che normalmente accompagnavano la sepoltura.

Poiché la loro anima vagante era maligna, appartenente alla categoria temibile di defunti che i romani chiamavano
Lemures, era in qualche modo necessario proteggersi. Era a questo che servivano gli oscilla, piccole bambole che
venivano appese agli alberi e oscillavano alla brezza come piccole altalene. Si dice che gli oscilla avessero capacità
purificatorie; appendendoli agli alberi, a cui rami un impiccato aveva trovato la morte, si purificava l’aria e si faceva
tornare felix l’albero divenuto infelix.

4.2 Conclusioni sull’impiccagione


La suspensio ad arbor infelix non poteva dunque essere un’impiccagione. Essa, infatti, non trovò spazio nel
panorama dei supplizi di stato.

La ragione per cui non si fece ricorso all’impiccagione era legata all’antico tabù mai del tutto cancellato e per i
romani, impiccagione e esecuzione capitale erano due termini inconciliabili.
Coloro che hanno dondolato appesi ai rampi dell’albero non sarebbero quindi stati messi a morte, ma si sarebbero
suicidati.
Il solo supplizio capitale che un romano poteva legare all’immagine dell’albero era la croce.

5. Albero infelice e crocifissione


Secondo un’ipotesi, il supplizio previsto dalla lex horrendi carminis sarebbe stata la crocifissione. Più precisamente
una forma primitiva di crocifissione, che non prevedeva ancora la costruzione di un apposito strumento di morte e
che sarebbe stata effettuata legando il condannato a un albero con la corda e abbandonandolo alla sua sorte.

Tra gli argomenti a sostegno di questa tesi abbiamo la celebre orazione di Cicerone pro caio rabirio.
Nel 53 a.C. Rabirio fu accusato di aver ucciso, trentasette anni prima, il tribuno della plebe Apuleio Saturnino. Ad
accusarlo era stato Labieno, che partecipò al processo in veste di duumviro; l’accusa era di perduellio.
Cicerone, che aveva assunto la difesa di Rabirio, si soffermò a illustrare le modalità della morte prevista dalla legge
invocata da Labieno.
Nel descrivere il supplizio previsto dalla lex horrendi carminis, cicerone lo qualifica esplicitamente come una
crocifissione. Il valore di questa testimonianza è tutt’altro che indiscutibile dal momento che la crocifissione non era
un supplizio riservato agli uomini liberi, se non in via del tutto eccezionale.

5.1 La crocifissione come supplizio servile


A Roma la morte sulla croce era riservata agli schiavi.
Nel miles gloriosus, Sceledro, schiavo di Pirgopolinice, viene minacciato di morte. Senza nutrire alcun dubbio sul tipo
di morte che gli toccherà, Sceledro si limita a replicare: “non minacciare. So che la croce sarà la mia tomba”.

I condannati non sempre venivano issati sulla croce, talvolta erano costretti a salirvi da soli.

Come definire il comportamento di quel padrone che, avendo incaricato uno schiavo di servire a tavola, lo fa
crocifiggere perché ha mangiucchiato un avanzo di pesce o bevuto un sorso di salsa ancora tiepida? A porsi la
domanda è Orazio, nella terza Satira del primo libro, e la risposta è molto significativa: quel padrone è un pazzo. Ma
alla crudeltà dell’atto, Orazio, non fa la benché minima allusione.

Nella sesta satira di Giovenale, una moglie e un marito stanno discutendo e la moglie sostiene che lo schiavo vada
messo in croce. Il dialogo ha lo scopo di mostrare le nefandezze delle donne, la loro insopportabile arroganza,
prepotenza, saccenteria e dissolutezza. Ma al di là degli eccessi personali dell’autore e del genere letterario di cui è
forse il massimo esponente, il brano resta nondimeno significativo. E la caratterizzazione della croce come servile
supplicium trova conferma nelle fonti più disparate.

La morte sulla croce di un uomo libero, quando veniva eccezionalmente stabilita, era un fatto che provocava nei
romani sconcerto e sgomento.
Anche nell’ipotesi che quest’uomo fosse un personaggio come Publio Gavio, accusato di essere una spia degli schiavi
unitisi a Spartaco. Che Spartaco e i ribelli che con lui avevano combattuto venissero crocifissi era una cosa normale;
assai sconvolgente era invece la crocifissione di Publio Gavio, civis romanus. L’idea di un cittadino romano appeso
alla croce era inaccettabile.

5.2 Il supplizio di Attilio Regolo


Nel corso della Prima guerra punica, nel 255 a.C., Attilio Regolo, generale romano, cadde prigioniero dei cartaginesi.
Allo scopo di ottenere il rilascio dei loro compatrioti prigionieri in cambio della sua libertà e di concludere con Roma
un trattato di pace, i cartaginesi inviarono Regolo a Roma, incaricandolo di riferire al Senato le loro condizioni. Ma
Regolo, che poneva la gloria di Roma al di sopra della sua vita, esortò il Senato a resistere a ogni pressione, e per non
venir meno al giuramento di tornare a Cartagine, fatto al momento del rilascio, tornò eroicamente in terra nemica.
Regolo morì dunque per mano dei cartaginesi, secondo alcune fonti inchiodato a una croce.

Si devono considerare questi racconti degli indizi a favore dell’ipotesi di un’origine cartaginese della crocifissione?
L’ipotesi dell’origine cartaginese della crocifissione è priva di fondamento.
Nel racconto di Tudidiano, console nel 206 a.C. i cartaginesi somministrarono a Regolo un veleno diluito e a effetto
lentissimo: nelle loro intenzioni, infatti, Regolo doveva vivere abbastanza a lungo per persuadere i romani allo
scambio. E quando Regolo tornò a Cartagine gli riservarono una morte atroce ma diversa dalla croce: impedendogli
di dormire, lo fecero morire di insonnia.

Nel racconto di Tuberone, giurista e annalista dell’età di Cesare, Regolo fu sottoposto a un diverso supplizio: dopo
essere stato chiuso in un luogo oscuro, venne esposto in pieno giorno alla luce accecante del sole, con le palpebre
cucite sia verso l’alto sia verso il basso.

La tradizione che vuole Regolo crocifisso è dunque poco attendibile: il suo obiettivo era evidentemente quello di
ribadire la crudelitas dei nemici che avevano osato riservare a un cittadino romano la morte servile, ma anche quello
di creare un eroe che a questa crudelitas contrapponesse la capacità quasi sovraumana di resistere al più infame dei
supplizi, cancellando con la sua romanità invincibile l’immagine turpe di una morte che toglieva non solo la vita, ma
anche la dignità di uomo.

Con l’ipotesi di regolo crocifisso cade l’ipotesi della derivazione cartaginese della croce. Se di importazione estera,
l’ipotesi orientale è più plausibile, ma si tratta comunque di un’ipotesi che nulla toglie all’originalità della
crocifissione romana.
I romani, infatti, realizzavano il supplizio della croce con una tecnica assolutamente peculiare e inedita: alla croce,
essi assicuravano il reo perforando le sue mani e i suoi piedi con dei chiodi.

5.3 Originalità della crocifissione romana: tecnica di costruzione e di esecuzione


La croce romana era composta di due legni separati tra loro, che venivano uniti e assumevano la forma di una croce
solo nel momento finale dell’esecuzione. Questi due legni erano detti stipes e patibulum.

Lo stipes era la parte verticale della croce: un tronco, un palo di legno, abitualmente. Di regola erano poco più alti di
un uomo, così che i piedi del condannato si venissero a trovare a pochi centimetri dal suolo. In questo caso gli
stipites davano luogo alle croci definite “humiles”, che esponevano i condannati ai morsi dei lupi e alle beccate degli
avvoltoi. Per queste sue caratteristiche, la crux humilis, oltre a rispondere all’abituale e diffuso bisogno di
repressione, pare si prestasse a soddisfare, a volte, istinti particolari e del tutto personali di crudeltà. Ad esempio,
Nerone, narra Svetonio, aveva l’abitudine di avvolgersi nella pelle di una fiera, di farsi spingere fuori da una gabbia e
di avventarsi all’inguine dei malcapitati crocifissi a stipites.

Il patibulum era una trave separata e autonoma, che veniva unita allo stipes solo nel momento in cui il condannato
veniva messo a morte e che giungeva sul luogo del supplizio insieme al condannato, o meglio caricata sulle sue spalle
e avvinta ai suoi polsi con delle corde.
A volte nel patibulum veniva predisposto un incavo destinato a essere poggiato in un risalto al termine dello stipes,
così che la croce che ne risultava, detta crux commissa, aveva forma di T. Altre volte, invece, l’incavo veniva
predisposto nello stipes, così che la parte terminale di questo, superando il punto di congiunzione con il patibulum,
formava una croce a quattro braccia, detta crux immissa o capitata.

5.4 L’uso dei chiodi: l’iscrizione di Pozzuoli e la Sacra Sindone


Possiamo essere sicuri che la crocifissione romana prevedesse l’uso dei chiodi?
Nella mostellaria di Plauto, lo schiavo Tranione promette un talento a chi riuscirà a scendere dalla croce, ma a
condizione che le sue mani e i suoi piedi siano inchiodati due volte.
Da Lucano sappiamo che i chiodi delle croci venivano usati per compiere sortilegi e i vangeli attestano che Cristo fu
inchiodato alla croce. Fu proprio a partire dalla descrizione della morte di cristo che sorsero i primi dubbi e dibattiti
sull’essenziale e contestata necessità dell’uso dei chiodi.

In un passo di Tertulliano leggiamo che Cristo fu il solo ad essere crocifisso “tam insigniter”; Tertulliano non pensava
però ai chiodi, ma all’uso di una croce particolarmente alta e visibile.
Alle testimonianze si aggiunge quella di un’iscrizione pubblicata nel 1967, contenente alcune regole sui possibili modi
di mettere in croce gli schiavi delinquenti. Si legge che, se il padrone decideva di provvedere privatamente
all’esecuzione, doveva rivolgersi a un redemptor, il cui compito era quello di fornire il materiale necessario per
eseguirla (travi, cinvoli e corde per i fustigatori), e doveva retribuire gli operai che avevano collaborato alla
costruzione della croce, i fustigatori e il carnefice con una somma fissata dalla lex stessa.
Le corde di cui parla l’iscrizione non servivano quindi ad assicurare il condannato alla croce, ma a frustarlo.
Che alla croce egli venisse assicurato con dei chiodi risulta dalle righe 11-14, che prevedevano l’ipotesi che il padrone
chiedesse che l’esecuzione avesse luogo con la supervisione dei magistrati municipali. In questo caso gli strumenti
dell’esecuzione che dovevano essere predisposti gratuitamente erano croci, chiodi, pece e torce.

L’iconografia abbonda di immagini di cristo con i chiodi piantati nel mezzo del metacarpo. La sacra sindone sembra
invece indicare che i chiodi non venivano infissi nella mano ma nella linea di flessione del polso.
Dimostrare che i chiodi venissero piantati nel carpo significava avvalorare l’autenticità della reliquia e per questo
Barbet svolse una serie di esperimenti su cadaveri.
Da alcuni dei suoi esperimenti possiamo dimostrare che le braccia venivano inchiodate al patibulum con due chiodi
infissi nella linea di flessione dei polsi, perché le mani trafitte dai chiodi non reggevano il peso del corpo e si
laceravano trascinando con sé il cadavere nella caduta.

Se i chiodi erano piantati nel carpo, la crocifissione con i chiodi era possibile: nessun ostacolo tecnico si frappone alla
possibilità di credere che i condannati alla croce venissero inchiodati.
Risulta quindi evidente perché Cicerone, per rendere credibile l’accusa rivolta a Labieno di aver tentato di far
crocifiggere un romano in forza della lex horrendi carminis (secondo la quale il condannato doveva essere legato con
una corda a un albero), fu costretto a omettere la parola “reste” (vale a dire “con la corda”): perché a Roma si
crocifiggeva con i chiodi.
La caratterizzazione del supplizio all’arbor infelix come una crocifissione si rivela chiaramente un abilissimo
espediente retorico.

L’interpretazione ciceroniana della lex horrendi carminis è volutamente falsa. Della presenza della croce tra gli
strumenti della morte di Stato in età regia e repubblicana non resta alcuna traccia.
La croce entrò a far parte del panorama dei supplizi di Stato solo a partire dall’età imperiale, quando il supplizio, una
volta servile, venne riservato anche agli uomini liberi, e più ai delinquenti di condizione sociale inferiore (humiliores).

6. L’albero infelice e la fustigazione a morte (supplicium more maiorum)


Tornando alla descrizione liviana del supplizio che Orazio avrebbe dovuto subire se fosse stato condannato per
perduellio, ricordiamo il fatto che egli avrebbe dovuto essere “legato sub furca, torturato dalle verghe”. Con questa
espressione Livio non allude alla passeggiata sub furca che l’eroe avrebbe dovuto compiere per recarsi al luogo del
supplizio, per una ragione che appare evidente rileggendo la lex horrendi carminis.

“venga legato con una corda all’arbor infelix, venga fustigato sia dentro il pomerio sia fuori dal pomerio”

Il riferimento alla fustigazione, nel testo della legge, è successivo a quello della suspensio all’albero. Evidentemente
la fustigazione prevista per il traditore non poteva essere quella subita per le vie della città. Essa avveniva dopo che,
condotto sul luogo del supplizio, costui era stato legato all’albero.
Sappiamo quindi che il reo di tradimento, legato all’arbor infelix, veniva fustigato fino alla morte.

La suspensio era l’atto che consentiva di immobilizzare il reo nella posizione in cui era destinato a restare sino a che
non avesse perso la vita, stremato dai colpi delle verghe.
Quando Livio immagina Orazio legato alla forca, tormentato dalle verghe, quindi, si riferisce al supplizio capitale
dell’albero, chiamato anche supplicium more maiorum o antiqui moris.

Nel racconto di Svetonio, Claudio volle assistere a un supplicium antiqui moris e per questo attese sino alla sera i
condannati legati al palo.

Essere puniti per more maiorum prevedeva che la vittima venisse denudata, venisse inserito il suo collo nella forca e
nel battere a morte il suo corpo con le verghe.

Tutte le condanne al supplicium more maiorum di cui siamo a conoscenza sono legate a reati di tradimento.
La conclusione è quindi che il supplicium more maiorum altro non fosse che il supplizio previsto dalla lex horrendi
carminis e il fatto che coloro che venivano condannati in forza di questa legge venissero fustigati a morte è
confermato.

6.1 Il supplizio di Marco Manilo Capitolino


Nel 384 a.C. Marco Manilo Capitolino venne condannato per aver tentato di ristabilire la monarchia.
La fama di Manilo era legata all’eroica difesa di Roma durante l’occupazione dei galli e la sedizione da lui guidata.
Com’era potuto accadere che colui che aveva salvato il campidoglio fosse diventato un pericolo per la sua città?

Manilo, già violento per carattere e insuperbito dalla sua impresa, aveva cominciato a pensare di non essere onorato
come meritava. Per questa ragione egli si sarebbe avvicinato alla plebe difendendone le ragioni per conquistarne il
favore. Un giorno, vedendo trascinar via per debiti un centurione noto per le sue imprese militari, Manlio era
intervenuto in suo favore. Aveva poi pagato i debiti del centurione ed era stato acclamato dalla folla.
La sua popolarità era ormai tale che, quando fu arrestato, venne liberato a furor di popolo. Quando giunse al punto
di istigare apertamente la plebe alla rivolta armata commise l’errore che lo portò alla rovina. I suoi progetti sediziosi
preoccupavano i tribuni della plebe, perché Manilo avrebbe potuto causare la rovina della città se il popolo gli avesse
dato ascolto.
Per liberarsi di lui, insieme ai tribuni militari con potere consolare, i tribuni della plebe lo accusarono di aver tentato
di restaurare la monarchia e lo condannarono ad essere fustigato a morte.

In questa versione della storia la fustigazione appare quindi chiaramente come pena pubblica per il tradimento.

7. Conclusioni sulla lex horrendi carminis


Quale fu il momento nel quale, a Roma, si stabilì che i traditori venissero uccisi sotto le verghe dopo essere stati
legati all’albero infelice?
La riposta più immediata è che questo momento sia da collegare al divieto di usare la scure in città. Ma l’uso della
scure venne vietato all’inizio dell’età repubblicana, mentre la lex horrendi carminis è di età monarchica.

L’ipotesi più convincente è che il supplizio all’albero sia stato introdotto durante il dominio etrusco. La classificazione
degli alberi in felices e infelices, infatti, era di origine etrusca.
Nella superstiziosa cultura a cui i re etruschi appartenevano, il crimine era un atto che contaminava e che richiedeva
un’espiazione: uccidere il traditore legandolo a un albero consacrato agli dèi inferi, e qui fustigarlo a morte,
significava offrirlo a questi dei.
Che il supplizio all’albero avesse carattere sacrificale è confermato dalla prescrizione “al reo sia coperto il capo”,
perché la copertura del capo era segno della consacrazione della vittima agli dèi.

Nella lex horrendi carminis la prescrizione “caput obnutio” confermava che il reo veniva consegnato agli dèi cui era
sacro l’albero infelice. Infine, a ulteriore conferma dell’origine etrusca di questo supplizio vediamo la regola secondo
la quale il reo poteva essere frustato sia nel pomerio sia fuori da esso. Una simile regola non può infatti essere
precedente all’età etrusca.

Il supplizio all’albero venne introdotto quindi sul finire dell’età monarchica, ma sotto i colpi delle verghe non
morivano solo i rei di perduellio condannati in forza della lex horrendi carminis. La fustigazione a morte era riservata
anche ad altri criminali come, ad esempio, coloro che si erano uniti sessualmente a una vestale.

Altre fustigazioni a morte

1. L’amante della vestale


Nell’atrio della libertà era conservata una legge che stabiliva che gli amanti delle vestali, che erano venute meno al
loro voto di castità, dovessero morire nudi, con la forca al collo come degli schiavi, fustigati a morte nel comizio.

Quale fosse la natura dell’atto con cui l’amante della Vestale veniva messo a morte è stato lungamente dibattuto.
Secondo alcuni si sarebbe trattato di un castigo domestico: la fustigazione del reo, infatti, non era affidata al
magistrato, bensì al Pontefice Massimo. Nel momento in cui metteva a morte la Vestale o uccideva il suo complice, il
Pontefice Massimo avrebbe agito nell’esercizio di un potere disciplinare analogo a quello esercitato dai
patresfamilias quando uccidevano le figlie impudiche.
Secondo altri le esecuzioni non erano né esecuzioni domestiche né atti di giurisdizione criminale, ma riti di
espiazione di un evento che denunziava l’ira divina (prodigium).

Contro l’ipotesi che si trattasse di un castigo domestico esistono diversi ostacoli:


In primo luogo, la decisione di mettere a morte il reo non veniva presa dal solo Pontefice Massimo, ma dal collegio
pontificale, il cui ruolo era assai diverso da quello puramente consultivo che spettava al consiglio domestico, se e
quando il paterfamilias decideva di convocarlo.
Il Pontefice Massimo, inoltre, non aveva alcun potere personale sull’uomo che veniva condannato a morire. Per lui, il
complice della Vestale era un cittadino come tutti gli altri, nei confronti del quale il solo diritto che egli poteva
esercitare era quello di fare vendetta.

Il comportamento del reo aveva messo in pericolo l’intera civitas, profondamente turbata da un atto che, avendo
provocato l’ira divina, richiedeva un’espiazione: il delitto commesso era quindi religioso; ma ciò non significa che
questo delitto fosse un prodigium. Il prodigium non era l’atto che offendeva gli dèi, era l’evento portentoso che
denuncaiva la rottura della pax deorum.

La fustigazione a morte era l’esecuzione di una pena pubblica il cui carattere cittadino risultava dal fatto di essere
eseguita nel comizio, il luogo politico per eccellenza.

2. L’incantatore: chi incanta il raccolto, chi i nemici, chi i debitori, chi l’innamorata
Le dodici tavole, scrive Plinio, stabilivano che colui che avesse attentato nottetempo all’altrui raccolto sarebbe stato
messo a morte sospeso a Cerere.
A quale comportamento alludeva? E per quale ragione l'attentatore alle messi doveva essere ucciso in onore di
Cerere? Per rispondere a queste domande è necessario specificare in cosa consistessero esattamente gli attentati
così puniti.
Per capire in cosa consistevano è necessario pensare al significato dei termini con cui Plinio li descrive:
- Tagliare: il comportamento criminalizzato consisteva nel tagliare nottetempo il raccolto altrui.
- Pascolare: chi faceva pascolare il proprio gregge sul campo altrui coltivato.
- Spaventare: danneggiava il raccolto altrui “spaventando” con canti magici.

Secondo le 12 Tavole era punito con la morte colui che trasportava nel suo campo le messi già raccolte dal
vicino, ma lo spostamento non era compiuto a braccia o con l'aiuto di materiali, bensì ottenuto grazie alle
virtù di una formula magica cantata o recitata.
La regola ci porta a un momento in cui si riteneva che esistessero parole e riti aventi efficacia attiva, capaci di
produrre necessariamente e fatalmente un determinato effetto, voluto da chi li compiva, dannoso per colui al quale
erano rivolti. Una tale mentalità non era ancora stata superata all’epoca delle dodici tavole.
Abbiamo infatti la testimonianza della credenza dei romani nel valore magico delle formule rituali. Essi erano
convinti che il raccolto potesse essere fisicamente trasportato grazie ad un incantesimo.

Plinio parla di un processo intentato contro Furio Cremiso. Egli traeva dal suo campicello più frutti di quanti i suoi
vicini traessero da ben più vaste proprietà, essendo molto invidiato venne sospettato di attirare i raccolti altrui con
gli incantamenti. Egli venne citato in giudizio da Spurio Albino, e temendo di essere condannato dal voto dei tribuni,
Cremiso portò sul Foro tutto il suo equipaggiamento agricolo, gli schiavi vigorosi, ben curati e ben vestiti, gli utensili
ben fatti, i buoi ben nutriti e disse che erano quelle le sue magie. Venne poi assolto all'unanimità.

Le formule magiche servivano anche a gettare il malocchio su un campo, al fine di rovinare il raccolto. Questo però
riportava ad altri due delitti magici, a loro volta punti con la morte.
Sempre all’interno delle dodici tavole vengono citati il malum carmen incantare e occentare. Nell'interpretazione più
avanzata occentare e malum carmen incantare erano atti che offendevano l'onorabilità e l'immagine altrui, come
l'atto di indirizzare a qualcuno una poesia infamante.
Il significato originario era diverso da quello assunto. Carmen, che in età avanzata acquisto il senso di "poesia" e di
"canto", era in origine una formula cadenzata, che traeva la sua inevitabile efficacia dal ritmo delle parole.
Indicava, infatti, il canto finalizzato a un determinato obiettivo. Malum carmen incantare voleva dire recitare una
formula magica che avrebbe portato del male al destinatario.

Cosa significava, invece, occentare, a sua volta composto da ob e cantare? Il prefisso ob indica, in latino, qualcosa
che "in cambio di", che sta "contro". Occentare, che appare nella forma ob-cantare in Apuleio e nelle Sentenze di
Paolo, indicava l'atto di chi recitava una formula all'indirizzo di colui che gli aveva fatto un torto. E non di rado,
significativamente, questo atto veniva compiuto dinanzi alla porta del nemico.
La porta era un luogo magico-religioso, custodito dal dio Ianus, armato di rami di spino.
Dalla porta entravano gli spiriti benevoli e malevoli, con le relative conseguenze; dunque, risulta evidente la ragione
per cui, chi voleva il male di un avversario, compiva una magia dinanzi alla sua porta.
A darne conferma nelle dodici tavole è il menzionato rito detto obvagulatio.
Esso serviva a rendere di pubblico dominio l’azione infame ed era pertanto una sanzione alla quale si era aggiunta
quella rappresentata dal divieto di rendere testimonianza.
In età più antica la obvagulatio era una vendetta magica. Davanti alla porta gli innamorati traditi o respinti
invocavano l’amata, cantando una canzone che avrebbe costretto le sue porte ad aprirsi.
L'effetto della Occentatio compiuta davanti a una porta era anche quello di punire chi la teneva ostinatamente
chiusa. Nel Curculio, il giovane Fedromo progetta di fare alla bella Planesio quella che viene definita una serenata,
ma che pare essere una nenia magica.

Tornando all’uso delittuoso della magia, Cicerone, parlando della occentatio e del malum carmen incantare, specifica
che è malum il carmen che fa ad altri infamia o falgitium. E flagitium, all’epoca, indicava il disonore inteso come
sensazione di vergogna o come sanzione sociale.
L'incantare un malum carmen, dunque, era diventato un atto di diffamazione, ma, forse era anche una vendetta
magica. Con la frusta, anticamente, si portava a compimento una vendetta privata di carattere rituale.

La flagellazione aveva tanto il valore positivo di atto propiziatorio, quanto quello negativo di atto espiatorio.
Basta ricordare che, A Roma, durante la festa dei Lupercalia, i luperci (membri di un sodalizio le cui selvagge riunioni
sono state istituite prima della libertà e delle leggi) correvano per le strade coperti da un perizoma, fustigando quelli
che incontravano. Le donne adulte, scrive Plutarco non cercavano di sottrarsi alle frustate perché credevano che
favorisse la gravidanza.
Il flagitium poteva quindi essere effettivamente una vendetta di carattere rituale.

La occentatio e la flagitatio compiuta dinanzi alla porta dell'offensore, presentano analogie con i riti quali l’assedio
alla porta del debitore e il drastico suicidio per vendetta.

La pena per i comportamenti descritti con i verbi secuisse e pavisse (furto e danneggiamento magico notturno delle
messi) era la suspensio cereri.
L’analogia tra la formula che prevedeva questa esecuzione e quella con cui la lex horrendi carminis stabiliva che il reo
doveva essere fustigato a morte porta a una conclusione inevitabile: chi aveva rubato o danneggiato con mezzi
magici l’altrui raccolto moriva sotto i colpi implacabili delle verghe come il reo di perduellio.

Come morivano coloro che avevano invece fatto una magia alle persone? Alcuni versi di Orazio indicano che essi
venivano probabilmente uccisi a randellate.
La pena per il malum carmen (poesia diffamatoria) sembra infatti essere il cosiddetto fustuarium supplicium, la
morte inflitta a colpi di bastone. Ma la notizia è poco attendibile.
Il fustarium supplicium, infatti, era una pena riservata ai militari. La sua applicazione a un delitto civile
rappresenterebbe un’eccezione sorprendente, in quanto legata alla punizione di un delitto come la diffamazione.
Il testo di Orazio non alludeva quindi alla bastonatura ma alla flagellazione a morte.

L’ipotesi che tutte le magie venissero sanzionate con la stessa previsione è più che plausibile.
La fustigazione, originariamente, era una delle forme in cui si faceva una magia alle persone. In questo caso,
all’origine della punizione starebbe l’idea di una vendetta, esercitata secondo modalità che possono far pensare alla
legge del taglione.
In questo caso, sull’esigenza del far vendetta, prevalgono delle esigenze di tipo magico-religioso che inducono a
collocare la pena tra quelle di tipo espiatorio. Qualora una magia avesse turbato la pax deorum, la civitas voleva che
il “mago” venisse fustigato a morte in onore della divinità.
Quando qualcuno aveva rubato o danneggiato con mezzi magici le messi altrui, il reo veniva ucciso in onore di Cerere
perché Cerere era la dea della fertilità. A Cerere, dunque, al momento del raccolto, dopo il sacrificio della porca
praecidanea spettava l’offerta delle primizie. Ecco perché l’attentato alle messi offendeva Cerere, perché la privava
di queste offerte. Sulla funzione magica della fustigazione, in questo caso, si innestava una funzione religiosa tramite
la quale si ristabiliva la pax deorum.

L’antico valore magico della fustigazione venne recepito dalla civitas, che nel trasformarlo in esecuzione cittadina lo
utilizzò ai suoi fini. Grazie al suo valore espiatorio, la fustigazione a morte ben si prestava a celebrare quelle
esecuzioni capitali che, in ragione del comportamento punito, venivano dedicate agli dèi: il ricordo della sua natura
magica contribuì a farla selezionare tra i supplizi destinati a punire i delitti religiosi. Ma questo non significa che tutti
i delitti religiosi venissero puniti in questa forma.

Il rogo
In età imperiale alcune sentenza capitali venivano eseguite bruciando vivi i condannati. Nelle pauli sententiae, ad
esempio, si legge che i maghi venivano condannati alle bestie o al rogo.
Nel 390, una costituzione di Teodosio I stabilì che venissero briciati vivi gli omosessuali passivi che si prostituivano
nei bordelli della capitale.
L’elenco dei comportamenti puniti con il vivicomburium potrebbe continuare ma il riferimento al caso dei maghi e
degli omosessuali è sufficiente a mostrare che il fuoco puniva reati diversi, accomunati esclusivamente dalla loro
gravità.

Quale fu il momento in cui il rogo entrò nel numero delle pene capitali, e quale fu il reato che indusse a farvi ricorso?
In un passo di Tacito del 64 d.C. si legge che le vittime della persecuzione neroniana contro i cristiani furono date in
pasto alle belve, affisse alle croci o consumate dalle fiamme.
La vivicombustione non entrò a far parte del sistema romano dei supplizi all’età di Nerone o Caligola; il rogo era
infatti un’esecuzione capitale antichissima. Le dodici tavole stabilivano che colui che avesse dolosamente dato fuoco
a un edificio e al covone di frumento a questo appoggiato avrebbe dovuto essere legato, fustigato e bruciato vivo.

Dopo furto e danneggiamento, l’incendio era l’unico delitto per il quale le dodici tavole prevedevano la morte sul
rogo. Le fiamme che consumavano l’incendiario appaiono come un’ulteriore esecuzione di tipo purificatorio-
espiatorio.

1. I tribuni bruciati: supplizio del fuoco o ordalia?


Valerio Massimo ricorda il drammatico episodio dei nove tribuni combusti.

Muzio, tribuno della plebe, pensando di avere gli stessi diritti del senato e del popolo romano, fece bruciare vivi i
suoi colleghi perché avevano impedito di sostituire i magistrati e, istigati da Spurio Cassio, avevano messo in pericolo
la libertà di tutti. Un solo tribuno osò infliggere ai nove colleghi una pena che nove tribuni avrebbero temuto di far
subire a uno solo.

Alla vicenda allude anche Festo, che si limita a parlare di nove tribuni bruciati, senza specificare la ragione della loro
morte.
Si può semplicemente dire che nella prima metà del V secolo a.C. un tribuno mise a morte nove colleghi o, forse, ne
provocò la morte.

I tribuni, il cui numero variò nel tempo, non furono mai nove. Il numero nove si spiega solo pensando che un decimo
tribuno sfuggì alla sorte dei colleghi. Sotto questo profilo, il racconto di Valerio Massimo ha il vantaggio di far tornare
i conti: il decimo tribuno era Muzio. Ma questo non significa che esso sia attendibile.
Un tribuno, infatti, non aveva il potere di condannare a morte i suoi colleghi. Tutto quel che si può supporre, se si
vuole pensare a un ruolo attivo di Publio Muzio Scevola in questa vicenda, è che egli, senza bruciarli vivi
personalmente e senza ordinare di farlo, ne abbia tuttavia provocato la morte: forse denunziandoli, o forse
accettando in loro nome e per conto loro (o proponendo) un’ordalia del fuoco, alla quale lui solo sarebbe riuscito a
scampare.
2. Le ordalie a Roma
Che i romani un tempo usassero affidare la soluzione delle questioni controverse al giudizio della divinità emerge da
numerose testimonianze.

Il ricordo di un giudizio di dio può essere facilmente letto dietro al racconto del combattimento tra gli Orazi e i
Curiazi. L’ipotesi che il confronto tra i campioni romani e quelli albani fosse un duello giudiziario non è la sola
spiegazione della vicenda. Secondo alcuni, infatti, l’episodio serberebbe le tracce di un’iniziazione magico-militare.

Si potrebbe fare un parallelo tra le gesta dell’Orazio vincitore degli albani all’Orazio soprannominato Coclite, che
salvò la patria sostenendo da sol l’assalto etrusco sull’unico ponte che avrebbe permesso al nemico di entrare in
città. Orazio Coclite, gettandosi nel Tevere, poté rientrare in Roma purificato dalle sue acque, così come l’Orazio
vincitore degli albani poté rientrare in città solo dopo essersi purificato passando sotto il tigellum sororium.

Altre tracce ordaliche si ritrovano nel più antico processo privato, la legis actio sacramento. In questo processo la
soluzione della lite dipendeva da una scommessa-giuramento tra i contendenti, che in età storica portava alla
condanna del soccombente al pagamento di una somma di denaro. A questa scommessa le parti arrivavano al
termine di un rito caratterizzato da un rigoroso formalismo verbale che lascia trasparire il ricordo di una lotta fisica
tra i due contendenti, il cui esito era originariamente affidato all’intervento divino.

Il momento in cui il ricordo di antiche ordalie appare con più frequenza è quello dell’accertamento dei
comportamenti criminali come l’accertamento del reato di incesto contestato alle vestali.
Quando le vestali venivano accusate di aver violato il voto di castità, si credeva che se l’accusa era ingiusta esse
potessero essere salvate dall’intervento divino, come successe ad esempio alla vestale Emilia (stracciò un lembo
della veste e lo gettò sull’altare. Si accese allora una fiammella che avvolse la garza, provando l’innocenza di Emilia).
Un altro esempio è quello di Claudia: la voce popolare accusava Claudia di cattiva condotta. Consapevole della sua
cattiva reputazione, la ragazza voleva dimostrare che le accuse che le venivano rivolte erano infondate. I romani
avevano fatto venire da Pessinunte, in Frigia, la statua di Cibele, la Magna Mater Idaea. Ma la nave che trasportava la
dea si era incagliata all’imbocco del Tevere e tutti gli sforzi fatti per disincagliarla erano stati vani. Per Claudia, era
l’occasione propizia: dopo aver pregato Cibele di aiutarla se la sua vita era stata improntata alla virtù, ella liberò
senza sforzo alcuno la nave, semplicemente tirandola con la sua cintura.

L’analogia tra la vicenda di Claudia e quella di Emilia è chiara: la falsità delle accuse viene provata dall’intervento
della divinità, invocata dalla presunta colpevole prima di sottoporsi a una prova.

Ancora tra il III e il II secolo a.C. i romani ritenevano che la divinità potesse intervenire nell’accertamento della verità,
consentendo a chi era stato ingiustamente accusato di superare una prova altrimenti impossibile.
Il giudizio di dio, in conclusione, non era estraneo alla mentalità romana.

3. L’ordalia del fuoco e i tribuni “bruciati”


Negli episodi dei tribuni bruciati appare un personaggio di nome Scevola: Caio Muzio nel primo e Publio Muzio nel
secondo. Non è strano pensare che il nome Scevola rinvii in qualche modo a una prova del fuoco.

Talvolta si dice che, se la prova affrontata da Muzio Scevola fosse stata un’ordalia, essa sarebbe stata un’ordalia
etrusca.

Nel racconto di Dionigi di Alicarnasso, Prosenna minaccia Muzio di torturarlo con il fuoco. Tito Livio lascia invece
intendere che l’idea di sottoporsi alla prova fu dello stesso Muzio.
Quando fu sottoposto o si sottopose alla prova, Caio Muzio riuscì a sopravvivere ma perse la mano destra, quella
parte del corpo che avrebbe dovuto resistere alle fiamme. Sulla colpevolezza di Muzio non esisteva nessun dubbio:
sorpreso in flagrante, l’eroe non aveva tentato in alcun modo di discolparsi e tantomeno aveva chiesto clemenza. Il
sacrificio della mano con la quale aveva giurato di uccidere Porsenna aveva, semmai, il valore di una minaccia: come
Caio Muzio, nessuno dei congiurati sarebbe mai venuto meno alla parola data.
Se Caio Muzio tese la mano sul fuoco per ordine di Porsenna, dunque, il rogo, nelle intenzioni del re etrusco, appare
piuttosto come una pena che come un’ordalia. Solo se l’eroe tese spontaneamente la mano il suo gesto può apparire
lo strumento di una prova; che nella specie non è certamente una prova di innocenza, bensì di valore.
Pensando alle feste palilia, durante le quali i giovani romani dovevano saltare oltre i mucchi di paglia in fiamme, i
giovani compivano una prova di destrezza che fa pensare a quella degli hirpi sorani, i sacerdoti che camminavano a
piedi nudi sui carboni ardenti senza bruciarsi.

Tornando a Muzio Scevola, egli aveva superato una prova del fuoco perdendo la mano destra. La sua bruciatura era il
segno del suo valore, rivelato dal fuoco. Il fuoco permetteva di compiere gesta incredibili, e nel fuoco accadevano
eventi assolutamente straordinari.
Mettendo la mano sul fuoco, Muzio non compì un’ordalia nel senso vero e proprio del termine. Tuttavia, la sua storia
e tutte le considerazioni fatte a partire da essa mostrano chiaramente che questo tipo di ordalie non era estraneo
alla cultura romana.

In una cultura che utilizzava il fuoco per compiere prove di destrezza o di valore l’idea di utilizzarlo come prova
giudiziaria era tutt’altro che peregrina. E l’esistenza di un collegamento tra il fuoco e l’accertamento giudiziale della
verità emerge con evidenza ove si pensi al senso figurato del termine ambustus. A Roma, ambustus, era chi, indiziato
di un delitto che comportava la pena di morte, era uscito dalle indagini senza essere condannato o assolto.
Nel ricordare i processi più celebri e istruttivi, Valerio Massimo riserva una speciale rubrica agli ambusti.
Chi non veniva condannato ma neppure assolto non poteva che soffrirne, per questo ambustus assunse anche il
significato di “bruciato”, nel senso di compromesso, squalificato. Si può quindi pensare che i nove tribuni combusti
non furono bruciati vivi da Publio Muzio, ma furono invece sottoposti a un’ordalia del fuoco.

L’atteggiamento dei romani nei confronti del fuoco è tale da far seriamente considerare la possibilità che essi
ricorressero alle fiamme per ottenere dei giudizi ordalici.

4. Il supplizio del fuoco


La morte con il fuoco prevista dalle Dodici Tavole per l’incendiario fa pensare, più che a una vendetta privata, alla
derivazione del rogo da un’antica ordalia.
Come sappiamo, gli attentati alle messi, che privavano Cerere dell’offerta delle primizie, richiedevano la morte
sacrificale del reo in onore della dea. Poiché l’incendio del covone di frumento provocava la stessa offesa,
apparirebbe molto strano che la pena per questo reato non fosse a sua volta una morte sacrificale.

Il collegamento del fuoco con la dea delle messi risulta evidente alla luce di un rito che veniva celebrato ogni anno
durante le feste in onore di Cerere (Ceralia). In quest’occasione aveva luogo nel circo Massimo una folle corsa di
volpi, alla cui coda era stata legata della paglia infiammata.
Per i contadini le volpi erano pericolose esattamente come il sole cocente, che bruciava il raccolto e lo distruggeva.
Per loro, le volpi erano bestie malefiche come la Canicola, il terribile Cane astrale. La corsa delle volpi che portavano
l’incendio attraverso le messi era evidentemente una magia.

Tornando all’esecuzione: l’incendiario moriva bruciato vivo, come le volpi rosse che simboleggiavano la Canicola. Chi
aveva fatto del male a Cerere veniva a lei sacrificato nel corso di un rito che rappresentava l’azione che aveva offeso
la dea.
A questo punto si potrebbe obiettare che, nel caso degli attentati alle messi che comportavano la morte sotto la
frusta, il fatto che il reo venisse messo a morte in onore della dea era reso esplicito dalla clausola sanzionatoria: il
reo, diceva la legge, deve essere ucciso “sospeso” in onore di Cerere.
Nel caso dell’incendiario, invece, il riferimento a Cerere non era esplicito. Ma pensare che il rogo fosse in suo onore
non è azzardato: l’ipotesi può basarsi anche su un’analogia tra la clausola sanzionatoria che prevedeva la
fustigazione a morte (per Cerere) e quella che prevedeva la vivicombustione.
La morte inflitta in onore della dea, infatti, viene indicata con il verbo necare (per Cerere). E questo verbo appare
nelle Dodici Tavole solo due volte: in questa regola e in quella che stabiliva quale morte toccasse all’incendiario, che
doveva “igni necari”, “essere ucciso con il fuoco”, e “igni Cereri necari”, vale a dire “essere bruciato vivo in onore di
Cerere”.

La precipitazione dalla rupe Tarpea

1. Tarpea: la ragazza, la rupe e i traditori


1.1 La ragazza
Tarpea, figlia di Spurio Tarpeo (guardiano del campidoglio), recandosi un giorno ad attingere acqua alle fonti fuori
dalle mura della cittadella, vide il re dei sabini. Presa da un desiderio irresistibile di possedere i monili del re, Tarpea
gli promise che, se gliene avesse fatto dono, gli avrebbe aperto la porta della rocca. Appena penetrato nel
campidoglio, il re Tito Tazio, scagliò su di lei lo scudo e la stessa cosa fecero i suoi soldati. Tarpea morì quindi sepolta
dalle armi nemiche, o almeno questo è ciò che racconta Tito Livio.

Dionigi di Alicarnasso, dopo aver riportato a sua volta la storia, dichiara di non poter prestare fede alla versione di
Tito Livio. Dopo la morte, Tarpea era stata infatti onorata dai suoi concittadini, che nel luogo dove era morta
avevano eretto una tomba, alla quale ogni anno le vestali portavano offerte. Perché avrebbero dovuto farlo se fosse
stata una traditrice?
Secondo Dionigi, Tarpea non aveva tradito. In cambio del tradimento avrebbe chiesto a Tito Tazio e ai suoi quello che
portavano al braccio sinistro: gli scudi. Così, i nemici, entrati nel campidoglio disarmati, sarebbero stati sorpresi dai
soldati di Romolo, avvertito da un suo messaggero. Il messaggero aveva però tradito e Tazio, entrato nella rocca,
avrebbe punito Tarpea, ordinando ai suoi soldati di seppellirla sotto agli scudi.

A complicare la questione interviene Plutarco che parla di due diverse tradizioni:


1. la prima risale ad Antigono e secondo quest’ultima, Tarpea non sarebbe stata romana, bensì figlia di Tito Tazio.
Convinta da Romolo, cui era stata data in sposa, la ragazza avrebbe tradito la patria sabina. La morte, quindi, era
stata la giusta punizione inflittale dal padre.
2. la seconda tradizione risale a un poeta di nome Symilos, secondo cui Tarpea non era vissuta al tempo di Romolo,
bensì all’epoca della guerra gallica, circa 350 anni più tardi.

Le leggende su Tarpea non si limitano a trasmettere un messaggio civile e morale, ricordando quali sono i doveri
verso la patria. Esse consentono di cogliere, dietro la sua morte, le modalità di una delle esecuzioni effettivamente in
uso a Roma. Diversa dalla securi percussio e dalla fustigazione a morte, anche l’esecuzione di Tarpea pareva essere
destinata ai traditori; Tarpea tradì la patria e per questo morì.

La morte leggendaria di Tarpea simboleggia una morte reale, un’esecuzione che ha uno spazio tutt’altro che
irrilevante nel panorama cittadino dei supplizi. Sepolta dagli scudi, Tarpea muore, simbolicamente, della stessa
morte di cui morivano coloro che venivano precipitati dalla rupe che non a caso portava il suo nome: la rupe Tarpea.

1.2 La rupe
Sul campidoglio esisteva una rupe detta saxum tarpeium o rupe tarpeia. Alle alture del campidoglio, anticamente,
conducevano le cosiddette scale dei sospiri.
Le scale dei sospiri conducevano sulla cima del campidoglio, dove si trovava il saxum, sulla cima denominata arx. Qui
venivano puniti con la precipitazione i rei.

1.3 I traditori
Il primo traditore che rischiò di essere precipitato dal saxum fu Marcio Coriolano, nel 491 a.C. Coriolano era animato
da fortissima ostilità verso la plebe; quando, durante una carestia, essa reclamò una distribuzione di grano, egli si
oppose violentemente. I tribuni lo condannarono quindi a essere precipitato dalla rupe.
I tribuni avevano ritenuto che per aver attentato ai diritti conquistati dalla plebe, Coriolano meritasse la
precipitazione.

Altro celebre caso di precipitazione è quello di Spurio Cassio, console accusato di tradimento per aver proposto la
contestata legge agraria. Sarebbe morto nello stesso modo anche Manilo Capitolino, accusato nel 384 di aver
tentato di instaurare la tirannide.Inoltre, ci informa Tito Livio, il saxum fu utilizzato per precipitare nel foro 370
disertori.

Anche se nessuna delle disposizioni di legge di cui siamo a conoscenza collega saxum e tradimento, che il
collegamento esistesse è confermato da un passo di Seneca.
Nel de ira, a proposito dei rimedi per curare i mali che derivano allo stato dai numerosi vizi dei cittadini, Seneca
dichiara che egli per suo conto salirà al tribunal sempre sereno, recitando con voce pacata le regole del diritto e che
condannerà i criminali alla decapitazione, i parricidi alla pena del sacco e i nemici politici e i traditori a essere
precipitati “e tarpeio”.

Nelle dodici tavole la precipitazione compare come punizione di altri crimini. Due disposizioni decemvirali, contenute
nelle tavole, stabiliscono che saranno precipitati e saxo il falso testimone e il ladro sorpreso in flagrante, se di stato
servile; se libero, il ladro, veniva messo a morte solo in alcune ipotesi di furto qualificato.

La precipitazione è prevista, dalle Dodici Tavole, per due reati accomunati tra loro e al tradimento da un elemento
che rende evidente l’omogeneità delle diverse fattispecie: anche se in modo diverso, traditori, ladri e falsi testimoni
venivano tutti meno alla fides, vale a dire a un dovere di fedeltà. Nel caso del tradimento, alla fedeltà pubblica; nel
caso del furto e della falsa testimonianza, all’affidamento che i privati dovevano poter fare nei reciproci rapporti. E
venir meno alla fede (sia pubblica sia privata) voleva dire venir meno a un dovere verso la divinità.
Il rispetto dei patti era garantito a Roma da dius fidus, detto anche semo sancus, al quale era affidato più in generale
il rispetto di tutti i patti di fiducia, compresi quelli matrimoniali.
Il venir meno della fides, sia pubblica sia privata, era dunque un illecito religioso. L’antica pratica di venire precipitati
da coloro che erano stati traditi da chi aveva violato la fede privata, viene quindi messa al servizio della vendetta
privata, trasformandola in una pena cittadina.

2. La precipitazione come sacrificio


A Roma e in Grecia la precipitazione era considerata un modo di raggiungere gli dèi. Così risulta da numerose
testimonianze, tra le quali sono particolarmente significative la storia e la sorte del soldato votato alla morte.

2.1 Il soldato devoto


Perché la battaglia fosse coronata dal successo, captava che i soldati romani sacrificassero la propria vita agli dèi.
Livio racconta che prima della battaglia che ebbe luogo alle falde del Vesuvio, i consoli Decio Mure e Tito Manlio,
prima di far uscire le truppe per il combattimento, fecero sacrifici agli dèi. In questo caso il normale sacrificio non
bastò: non reggendo alla pressione dei latini, i romani ebbero un momento di sbandamento e si ritirarono. Decio
pensò allora che bisognasse ottenere dagli dèi maggior protezione.
Agli dèi, Decio aveva dunque deciso di immolare sé stesso.

“io consacro le legioni e gli alleati dei nemici agli dèi Mani e alla Terra, in favore della repubblica del popolo romano,
dell’armata, delle legioni e degli alleati del popolo romano dei Quiriti”

Decio ordinò ai littori di avvertire al più presto il suo collega Manlio che egli si era “votato” a favore dell’esercito e,
montato a cavallo, si lanciò in mezzo ai nemici. Agli occhi delle due armate “apparve di una maestà più che umana,
come un’offerta mandata dal cielo per placare ogni collera divina, distogliere la sciagura dai suoi, e mandarla sui
nemici”.
Cosa accadeva se la devotio non andava a buon fine? se il “devoto” scampava alla morte? Egli non poteva più
compiere atti di culto, né privati né pubblici, e doveva consacrare le sue armi a Vulcano o a un’altra divinità; tutti,
inoltre, dovevano aver cura di impedire che il giavellotto sul quale aveva pronunziato la formula deprecatoria
cadesse nelle mani dei nemici.

Il magistrato che voleva distruggere la legione nemica non doveva necessariamente sacrificare sé stesso, poteva
consacrare alla morte qualunque soldato arruolato. Se questi sopravviveva bisognava compiere un rito: bisognava
seppellire una sua effigie alta almeno sette piedi, offrire un piaculum e, dove l’effigie era stata interrata, era vietato a
qualunque magistrato romano di posare il piede.
Il devotus sopravvissuto veniva quindi simbolicamente consegnato agli dèi. Il modo per far sì che questo avvenisse
era farlo scomparire nella terra, simbolicamente affondandolo nelle sue profondità.
La morte del devotus era la stesas della vittima sacrificale, e uno dei modi in cui la vittima sacrificale veniva
consegnata agli dèi era l’interramento.
2.2. I sepolti vivi nel Foro Boario
Nel novembre del 228 a.C. una coppia di greci e una di galli vennero sepolte vive nel Foro Boario. Nel 216 e nel 214-
13 vennero sepolte altre due coppie, sempre di greci e galli. In ricordo del fatto, ogni anno, a titolo di espiazione, i
romani compivano sacrifici nel mese di novembre.

A prima vista la circostanza che la vivisepoltura venisse espiata con un sacrificio può far pensare che si trattasse di
atto empio e condannabile. Che si trattasse invece di un atto rituale, perfettamente lecito e gradito agli dèi, si evince
dall’affermazione che questo atto venne compiuto secondo la prescrizione dei libri sibillini, alla presenza dei
decemviri.
Si trattava quindi di un rito sacrificale e l’evidenza delle fonti è difficilmente discutibile: anche se in via eccezionale, i
tre sacrifici furono compiuti e forse non furono i soli.
Nel 97 a.C., infatti, un senatoconsulto vietò di immolare i prigionieri di guerra quindi perché, nel giro di meno di dieci
anni, vennero sacrificate tre coppie di stranieri? Secondo alcuni, a questi sacrifici si sarebbe fatto ricorso in anni in
cui Roma correva gravissimi pericoli bellici. Le vittime, non a caso appartenenti a popolazioni nemiche, avrebbero
quindi avuto la funzione di “capri espiatori.
A questa spiegazione venne successivamente affiancata quella secondo la quale le vivisepolture sarebbero da
collegare a celebri e clamorosi casi di “incesto” commessi dalle Vestali negli stessi anni dei sacrifici delle coppie di
greci e galli, che avevano reso palese l’ira divina.

Che le sepolture avessero carattere espiatorio è detto esplicitamente da Livio, quando racconta i fatti del 216.
Una serie di prodigi,scrive Tito Livio, avevano indotto i decemviri a far consultare i Libri Sibillini e a mandare Quinto
Fabio Pittore a Delfi, per consultare l’oracolo e per sapere “con quali preghiere e con quali sacrifici gli dei potessero
essere placati”. Nel frattempo, i romani, secondo le prescrizioni dei libri fatales (come venivano chiamati i Libri
Sibillini), “fecero alcuni sacrifici straordinari, un uomo e una donna greci, un uomo e una donna galli furono sepolti
vivi nel Foro Boario in un luogo prospiciente una rupe, sino a quel momento mai bagnato di sangue umano, con rito
estraneo ai costumi religiosi dei romani.

Nel momento in cui, spinti da eventi straordinari, i romani decisero di immolare vite umane, riemerse l’antica idea
che la vittima consacrata dovesse raggiungere gli dèi sottoterra. Di fronte all’ira divina, resa palese da fenomeni
inspiegabili e portentosi, la morte delle Vestali (a loro volta sepolte vive) non fu considerata sufficiente a placare gli
dèi: perché la loro ira cessasse era necessario offrire anche vittime innocenti.

Se in questo caso la consegna delle vittime agli dèi non avvenne attraverso un lancio, il significato del gesto
sacrificale è lo stesso. Precipitare e seppellire avevano il medesimo valore simbolico.

2.3 Gli Argei, l’origine dei Saturnalia, i sessantenni gettati dal ponte
Il 14 maggio, durante una festa in onore dei cosiddetti Argei, dall’alto del ponte Sublicio venivano gettati nel Tevere
dei fantocci di giunco in forma di uomo. Per quale ragione? Secondo Epicado:

“Ercole, dopo aver ucciso Gerione, conduceva vittorioso i suoi armenti per l’Italia: dal ponte che ora chiamiamo
Sublicio, costruito in quella circostanza, egli gettò nel fiume tante statuette in forma di uomini quanti erano stati i
compagni morti durante il suo peregrinare. Egli riteneva, infatti, che queste statuette, trasportate dall’acqua
corrente, sarebbero state restituite alla terra d’origine invece dei corpi dei defunti.”

Occorre tornare al passo in cui Macrobio, tra le ipotesi sull’origine della festa saturnalia, riferisce: scacciati dalle loro
terre e in cerca di una nuova sede, seguendo il responso dell’oracolo di Dodona sarebbero giunti nel Lazio, su
un’isola che sorgeva nel mezzo del lago di Cutilia, ove abitava gente di stirpe siciliana. Cacciata questa popolazione e
stanziatisi nella regione, i pelasgi avrebbero innalzato un tempio a Dite e un altare a Saturno, chiamando Saturnalia
la festa in onore del dio, e per molto tempo avrebbero ritenuto di dover sacrificare teste umane a Dite e immolare
uomini a Saturno.
Tornando in Italia con il gregge di Gerione, Ercole avrebbe persuaso i discendenti dei pelasgi “a mutare i sacrifici
funesti in sacrifici fausti, offrendo a Dite non teste umane, bensì statuette che riproducevano fattezze umane, e
onorando gli altari di Saturno non con l’immolazione di un uomo, bensì con luci accese, poiché in greco la parola
phota significa sia uomo sia luci.
I romani, in conclusione, condividevano la convinzione dei greci secondo la quale sprofondare nell’acqua e
schiantarsi al suolo erano gesti equivalenti.

3. La precipitazione come ordalia


La precipitazione, esattamente come in Grecia, venne utilizzata come forma di ordalia sia a Roma sia in molti dei
territori che i romani conquistarono. A provarlo sta una serie di fonti di varia età e di varia provenienza, tra cui un
singolare e affascinante racconto di Macrobio.

Secondo Macrobio, nella pianura del Simeto si trovavano due crateri profondissimi, che gli abitanti del luogo
chiamavano Delloi. Questi crateri, pieni di acque biancastre ribollenti e sature di gas e di zolfo, erano considerati
sacri agli dèi, il cui culto era precedente allo stanziamento greco nel territorio.
Coloro che dovevano prestare giuramento solenne raggiungevano il cratere con una corona sul capo, indossando il
semplice chitone, senza cintura e tenendo nelle mani un ramo fiorito. Giunti sul bordo delle acque giuravano
secondo la formula scritta su una tavoletta e attendevano il responso divino. Se avevano giurato il vero, non gliene
veniva alcun male. Se avevano giurato il falso, morivano.

I Memorabilia dello pseudo-Aristotele riferiscono a loro volta il rito, ma con alcune modifiche: chi giurava gettava le
tavolette nell’acqua. Se queste avessero galleggiato, il giuramento sarebbe stato vero. Se affondavano, era falso, e lo
spergiuro doveva morire.
I Memorabilia riportano il rito così come veniva compiuto in età più avanzata. Ma il ricordo dell’antica ordalia restava
nelle leggende popolari, secondo le quali le acque del cratere, alzandosi e ricadendo sullo spergiuro, ne provocavano
la morte.

Da Festo sappiamo che un certo Terenzio di Tusco, uscì vivo dalla precipitazione dalla rupe Tarpea. La sopravvivenza,
in quanto evento miracoloso, comportava la concessione al reo della grazia.
La storia della precipitazione si snoda, in territorio italico, secondo linee già riscontrate in Grecia: da sacrificio a
ordalia a esecuzione che punisce dei crimini religiosi.

4. La precipitazione come castigo


Durante un incontro cui aveva convocato i capi delle città latine, Tarquinio il Superbo fu accusato da Turno Erdonio
di voler dominare tali città. Per sbarazzarsi di lui, dopo avere fatto nascondere nella sua casa delle spade, Tarquinio
lo accusò di essere lui a voler dominare il Lazio e di aver ordito una congiura per prendere il potere con le armi.
Si stabilì alla fine che turno venisse ucciso.
Senza un regolare giudizio e con un nuovo genere di supplizio, Turno fu gettato nell’acqua della fonte Ferentina,
coperto con un graticcio carico di pietre.

A quanto è dato sapere, Turno Erdonio fu l’unica vittima effettiva di questo supplizio, nonostante esso non fosse
ignoto ai romani.
Nel poenulus di Plauto, lo schiavo Miliphion traduce al padrone Agorastocles quanto diceva il cartaginese Annone:

“attento, guardati bene dal fare quello che ti chiede”


“e cosa chiede?”
“che tu lo faccia stendere sotto una grata, che verrà poi coperta di grosse pietre, per metterlo a morte”

Si deve pensare che il supplizio di Turno abbia origini puniche? O che esso abbia invece origini germaniche, come
pensano quelli che ricordano il passo in cui Tacito afferma che i germani immergono nel fango di una palude, coperti
da un graticcio, gli ignavi, gli imbelli e coloro che hanno infamemente peccato con il corpo?
La ricerca dell’origine esterna può essere giustificata dal fatto che il supplizio del graticcio non compare tra quelli
previsti dal diritto di Roma. Ma appena si riflette sulla simbologia dei gesti che lo compongono, esso appare
tutt’altro che estraneo alla cultura dei romani.
In qualche modo può richiamare più di una tra le pratiche di morte cui essi facevano ricorso. Secondo alcuni, infatti,
le pietre usate per ricoprire il graticcio che sommerse Turno potrebbero ricordare la lapidazione.
Secondo Livio, Turno fu deiectus nell’acqua, ma sappiamo che acqua e terra erano simbolicamente equivalenti.
Secondo Dionigi di Alicarnasso, inoltre, Turno fu precipitato in una ossa che venne immediatamente colmata su di
lui. Un’esecuzione sacrale, resa ancor più evidente, nel caso di Turno, sia dalla scelta del luogo in cui venne attuata,
sia dalle particolarissime modalità che la caratterizzarono. La fonte Ferentina era un luogo di culto ove, secondo la
testimonianza di Plutarco, vennero celebrate per secoli “cerimonie di purificazione. E il modo in cui Turno venne in
essa sprofondato ricorda chiaramente un atto di culto. La grata che gli copre il capo, certamente utile al fine di
sommergerlo, ma altrettanto certamente non indispensabile a questo scopo, costringe inevitabilmente a pensare al
velo steso sul capo delle vittime sacrificali. Non a caso, dunque, Livio e Dionigi descrivono il supplizio di Turno come
una precipitazione.

L’esecuzione di Turno altro non fu che quella di chi aveva tradito la fides. Se, anziché dalla rupe Tarpea, egli fu
gettato nella fonte Ferentina, fu perché non aveva tradito la città, ma la lega: era nel luogo sacro ove l’assemblea dei
latini si riuniva.

5. La precipitazione e la plebe
Per quali ragioni a Roma il tradimento era punito con la deiectio? La scelta della precipitazione era forse legata ai
modi in cui il tradimento era perpetrato?

Ripensando alla distinzione tra perduellio e proditio è possibile ipotizzare che la perduellio fosse punita con la
fustigazione a morte e la proditio con la deiectio e tarpeio.
L’idea della pena differenziata sembra resistere a ogni tentativo di verifica. E con essa resiste a ogni tentativo di
verifica l’idea che sia possibile delineare con certezza i confini tra perduellio e proditio.

Un elemento a favore dell’ipotesi che a essere precipitati fossero i proditores sembra venire dal passo in cui Seneca,
descrivendo l’atteggiamento con cui, in veste di magistrato, emetterà le sentenze capitali, parla dei traditori che
condannerà alla deiectio definendoli proditores.
Sia Tito Livio sia valerio Massimo definiscono proditores i figli di Bruto, accusati di aver tentato di restaurare la
monarchia.

L’analisi delle fonti rivela una continua sovrapposizione tra le ipotesi di tradimento di volta in volta definite
proditiones e perduelliones.
L’unico tratto che sembra accomuniare i casi in cui il tradimento è punito con la precipitazione è il suo costante
collegamento con il difficile problema dei rapporti tra patrizi e plebei, e con quello che ne discendeva dei poteri e dei
diritti dei magistrati della plebe.

Coriolano rischiò di essere precipitato per aver offeso i tribuni. Spurio Cassio fu precipitato per aver avanzato una
proposta di legge che era dispiaciuta ai plebei non meno che ai patrizi. Il tribuno Sesto Lucilio venne gettato dalla
rupe per aver tradito la plebe.
La precipitazione era stata per lungo tempo strumento della lotta rivoluzionaria contro il patriziato. Già prima di
essere riconosciuti come magistrati cittadini, i tribuni vi avevano fatto ricorso, a torto o a ragione, per eliminare
fisicamente i loro nemici.
Fino al momento imprecisato in cui la precipitazione venne formalmente vietata, il compito di eseguirla spettò ai
magistrati plebei: anche quando, durante il principato, le condanne venivano emesse dal senato.

A partire dal momento in cui alla plebe era stato riconosciuto il diritto di cittadinanza, chi offendeva i tribuni non
ledeva più solamente gli interessi plebei. Costui provocava o rischiava di provocare una frattura tra i due ordini,
metteva in discussione gli equilibri indispensabili per la pace dell’intera collettività. Era un traditore perché era
venuto meno alla fides, il patto che legava i due ordini e di cui era garante Dius Fidius.

Semplicissima da realizzare, la precipitazione era al tempo stesso un gesto di consolidata religiosità, che di fatto
conferiva all’esecuzione un valore ben diverso da quello di un qualunque atto di violenza, e consentiva ai tribuni di
non considerarsi e di non essere considerati dei comuni assassini.
Quando la città riconobbe che gli atti che mettevano in pericolo la convivenza dei due ordini dovevano essere
considerati tradimento, i tribuni continuarono istituzionalmente a presiedere alle deiectiones, come magistrati
cittadini che eseguivano una sentenza di morte pronunziata dalla città.
6. La precipitazione in città: conclusioni su Tarpea
La storia della traditrice Tarpea e quella del luogo dal quale venivano precipitati i traditori non sono legate
solamente dal nome e dal fatto che dal saxum venissero precipitati i traditori come Tarpea.
Vivisepoltura, precipitazione e sommersione appaiono chiaramente realizzazioni diverse di un’esecuzione ispirata
allo stesso principio e volta a raggiungere lo stesso scopo: consegnare la vittima agli dei inferi. A confermarlo
ulteriormente intervengono due passi di Seneca e di Quintiliano.
- “Nelle Controversiae, Seneca discute il caso di una Vestale incesta precipitata dalla rupe Tarpea e
sopravvissuta al lancio: la precipitazione andava ripetuta?
- Quintiliano, riproponendo il caso e chiedendosi se una disposizione eccezionale come questa possa avere
applicazione più generale, specifica che la vestale fosse sopravvissuta per intervento divino.

Seneca e Quintiliano utilizzarono questo tema, pur essendo perfettamente consapevoli del fatto che la pena per le
Vestali era diversa. Sembra inevitabile dedurne che per loro, come per tutti i romani, precipitazione e vivisepoltura
erano lo stesso tipo di morte, o quantomeno erano due morti ispirate allo stesso principio.

Varrone e Plutarco considerano Tarpea una Vestale: come le Vestali incestae, Tarpea venne ricondotta alla terra
come vittima sacrificale, con un’esecuzione certamente anomala, ma altrettanto certamente riconducibile a quella
prevista per chi aveva tradito. Tarpea, dunque, fu punita non solo perché traditrice, ma anche come una traditrice.

La pena del sacco


Nel linguaggio della vita quotidiana il culleus era un contenitore di cuoio a tenuta stagna, destinato a conservare o a
trasportare derrate alimentari. Nel lessico dei supplizi, invece, era lo strumento dell’esecuzione riservata ai parricidi.

Si tratta di un’esecuzione descritta da un passo di Modestino: i colpevoli di parricidio, dice il testo, dopo essere stati
percossi con delle virgae sanguineae, devono essere cuciti in un culleus insieme a un cane, un gallo gallinaccio, una
vipera e una scimmia, e devono essere gettati in mare o nel più vicino corso d’acqua.

Che la pena del sacco (poena cullei) fosse un rito del tutto particolare appare subito evidente, e a segnalare la sua
eccezionalità concorre il fatto che fosse prevista una procedura misteriosa, che regolava i modi con i quali,
immediatamente dopo la condanna, il reo veniva tradotto in carcere in attesa dell’esecuzione: al parricida, dicono le
fonti, venivano fatti calzare degli zoccoli di legno e attorno al suo volto veniva legato un cappuccio di pelle di lupo”

La poena cullei era qualcosa di molto diverso e più complesso rispetto a una normale esecuzione per sommersione.

L’abitudine di chiudere i criminali o il loro cadavere in un contenitore non era estranea alla cultura antica del
supplizio. Sia in Polibio sia in Plutarco, per esempio, leggiamo di cadaveri appesi a un palo dopo essere stati chiusi in
un otre di pelle.
Sempre da Plutarco risulta che i condannati al katapontismos, prima di essere gettati in mare, venivano cuciti in un
sacco di cuoio.

L’idea di chiudere il condannato in un contenitore, prima di sommergerlo, non fu invenzione romana. L’invenzione
romana che rese la poena cullei un supplizio privo di qualunque riscontro nell’antichità fu l’inserzione nell’otre di
quattro animali destinati a essere una compagnia letale per il parricida. La possibilità che egli giungesse ormai
cadavere nel luogo ove il culleus sarebbe stato gettato nelle acque era, quindi, tutt’altro che remota.
I compagni di viaggio del parricida dilaniavano il suo corpo, rendendo particolarmente straziante la sua morte. Ma
non possiamo essere sicuri che questa fosse la ragione che indusse i romani inserire nel sacco gli animali.

L’eterogeneo manipolo animale aveva probabilmente un’altra ragione d’essere: simbolica, rituale o forse magico-
religiosa.

Quale fu il momento in cui si affacciò alla mente dei romani l’idea di condannare a morte, con il parricida, anche un
cane, un gallo, una vipera e, come dice Giovenale, una scimmia innocente?
Secondo la tradizione essa sarebbe stata introdotta da Tarquinio: per primo il re etrusco ordinò di utilizzare il culleus
per punire il decemviro Atinio, colpevole di aver divulgato i segreti dei sacri riti civili.
Di una legge che contempla la pena del sacco parlano si Seneca sia Quintiliano. L’auctor ad herennium ne riporta il
testo: “chi è stato condannato per aver ucciso il genitore, avvolto e chiuso in un otre sia gettato in un corso d’acqua”.
L’auctor ad herennium non allude alla necessità di inserire nel sacco delle bestie.

Dobbiamo concludere che la pratica di inserire gli animali nell’otre venne a configurarsi come parte del rito in un
momento successivo a quello in cui la poena cullei cominciò a essere applicata?
Alla lettura delle Istituzioni di Giustiniano, sembra essere stata introdotta nel 55 o 52 a.C., data di approvazione della
lex Pompeia de parricidiis, secondo la quale, appunto, il parricida doveva essere “cucito nel culleus con un cane, un
gallo, una vipera e una scimmia.
secondo alcuni la lex Pompeia si sarebbe limitata a stabilire che nell’otre fosse inserita una vipera. La scimmia
sarebbe stata aggiunta dall’imperatore Claudio, a simboleggiare il gesto inumano del parricida, e il cane e il gallo
sarebbero stati destinati al cuellus da Costantino.

L’abitudine di cucire nel sacco alcuni animali nacque spontaneamente nella fantasia di coloro che provvedevano
all’esecuzione, che al di fuori di ogni dettato normativo cominciarono a cucire nel culleus gli animali di più facile
reperimento e di più garantita aggressività: solo con il tempo, dopo essersi lentamente affermata e consolidata, la
pratica venne confermata per legge.
La regola che prevedeva l’inclusione delle bestie nell’otre fu confermata da un intervento legislativo, che tutto
induce a pensare sia stata la lex Pompeia, ma è assai più antica di questo.

Perché proprio il cane, il gallo, la vipera e la scimmia? Solo perché erano bestie estremamente aggressive o anche
perché avevano delle caratteristiche che le rendevano particolarmente idonee ad accompagnare il parricida verso la
morte?”

1. Il bestiario del parricida


Il cane per i romani non era necessariamente fedele. Plinio dice infatti che il cane è l’amico più fedele dell’uomo, ma
Virgilio definisce le cagne “oscene” e Orazio considera il cane “immondo”. In Agostino leggiamo che il cane,
“disprezzabile e ignobile”, è “l’ultimo degli uomini e delle bestie”.
Che un cane venisse destinato ad accompagnare il parricida, a questo punto, non è incomprensibile.
Gli interpreti hanno cercato altre caratteristiche atte a spiegare il suo affiancamento al parricida: i cani, scrive per
esempio Matthaeus, sono bestie che “proprio generi non parcunt,” che “non risparmiano neppure i loro simili.

Il gallo, dice Plinio, è un animale talmente battagliero da terrorizzare persino i leoni.


Sotto il profilo funzionale, la presenza del gallo nell’otre trova dunque ragioni evidentissime, soprattutto ove si
consideri che il gallo cucito nel culleus, come specificano le fonti, era il “gallo gallinaccio”, vale a dire il cappone, e
che il cappone nell’antichità era considerato particolarmente feroce.
Il gallo era inoltre autore della luce e il parricida uccide chi gli ha dato la luce.
Nel De re rustica di Columella leggiamo che il gallo uccide le serpi. La presenza del gallo e della serpe nel culleus,
dunque, suggeriva l’idea di una catena senza fine di uccisioni, della violazione, all’interno del culleus, di quella regola
fondamentale della convivenza civile che il parricida aveva infranto nella città, riconducendo la società degli uomini
al livello di quella ferina.

La vipera era un animale che, secondo Plinio, se femmina, partoriva una piccola vipera al giorno e le altre, smaniose
di uscire, sbucavano dal fianco della madre, uccidendola.

La scimmia era legata al parricida da una duplice metafora. Secondo Plinio, infatti, le scimmie amavano a tal punto i
figli neonati da soffocarli nel loro abbraccio. In più, per la loro somiglianza all’uomo, erano considerate la sua
orripilante caricatura.

Bisogna valutare anche le ipotesi orientate verso una lettura magico-religiosa del ruolo svolto dalla combriccola
animale. Per cominciare, quella secondo la quale il cane, il gallo, la vipera e la scimmia sarebbero stati inseriti nel
culleus perché erano tutti animali “prodigiosi”, vale a dire esseri mostruosi, che bisognava eliminare per evitare che
diffondessero il contagio che portavano in sé: mostruosi, si dice, esattamente come il parricida, a sua volta
considerato un prodigium.
Cosa autorizza a sostenere che il cane, il gallo, la vipera e la scimmia erano animali prodigiosi? Un prodigium è per
definizione un essere che presenta caratteristiche orrende, spaventose, inaccettabili: come pensare che fossero
considerati tali animali banalissimi come il cane o il gallo?”
Chiuso con questi nel sacco, il pericoloso bestiario svolgeva un duplice compito: finché il reo era in vita, lo aggrediva,
lo tormentava, lo straziava con una ferocia e una disumanità pari a quella che egli aveva dimostrato quando aveva
compiuto il più infame dei crimini. Dopo la morte, confondeva i suoi resti con quelli dell’uomo, in un ossario
promiscuo che forse un giorno sarebbe stato sospinto su una riva più o meno lontana. E colui che avesse trovato le
misere spoglie avrebbe immediatamente capito la ragione dell’esecuzione.

Non tutti coloro che venivano uccisi nel culleus erano parricidi. La sommersione veniva usata anche al di fuori delle
previsioni legislative, non di rado per eliminare nemici pubblici.
In età postclassica si stabilì che nel culleus venissero cuciti i condannati per adulterio.

Si è pensato che nel culleus dell’adultero venisse cucito un mugile, pesce notissimo per la sua mordacità e per questo
tradizionalmente utilizzato dai mariti romani per infliggere una sorta di atroce contrappasso a chi aveva attentato
alle virtù delle loro mogli. La cosiddetta “pena del mugile” (in realtà un semplice atto di vendetta privata) compare
non di rado nelle fonti, che amano presentare la raccapricciante immagine di un adultero appeso per i piedi e
“percorso dai mugili”.

2. Il supplizio di Malleolo
Nelle periochae di Livio si legge che Publicio Malleolo, nel 101 a.C, avendo ucciso la madre per primo fu gettato nel
mare, cucito nell’otre. “per primo” significa che fu la prima persona condannata alla poena cullei o perché fu il primo
a esservi condannato per matricidio?
La prima ipotesi è da scartare perché sappiamo che, sul finire della seconda guerra punica, Luio Ostio era stato
condannato alla poena cullei per aver ucciso il padre.
I riferimenti al culleus nelle commedie di Plauto mostrano chiaramente che il pubblico romano, già prima del 202,
collegava la pena del sacco alla condanna per parricidio.

È necessario seguire la storia del processo a Malleolo attraverso il racconto di Cicerone e dell’auctor ad herennium.
Un tale, scrive cicerone nel de inventione, fu condannato per aver ucciso il genitore, e subito, perché non avesse
possibilità di darsi alla fuga, gli furono calzati ai piedi degli zoccoli di legno, gli fu avvolto il viso in un sacchetto di
pelle di lupo e fu condotto in carcere, in attesa che fosse preparato il culleus, chiuso nel quale sarebbe stato gettato
in un corso d’acqua.
Il racconto dell’Auctor ad Herennium dice invece: “Malleolo fu giudicato per aver ucciso la madre. Immediatamente
dopo la condanna, il viso gli fu avvolto in una pelle di lupo, gli furono fatti calzare degli zoccoli di legno e fu condotto
in carcere”.
Zoccoli di legno ai piedi, cappuccio di pelle di lupo: tra la condanna a morte e la sua esecuzione la poena cullei
prevedeva anche questi due singolari adempimenti.

A cosa servivano il cappuccio e gli zoccoli? Secondo Cicerone, a impedire la fuga del condannato, ma questa
interpretazione lascia enormi perplessità. Più sensata appare semmai l’interpretazione simbolica, che fa riferimento
alla ferocia del lupo: con il viso coperto da una sorta di maschera lupina, il parricida assumeva l’aspetto di una belva,
svelando l’animo crudele e disumano che aveva dimostrato di possedere. Neppure questa interpretazione è
sufficiente a spiegare le ragioni del rito.
Il cappuccio di pelle lupina ha origini e funzioni ben più antiche e complesse di quanto si sia soliti pensare. Per capire
quali siano, bisogna partire da un episodio dell’Iliade.

2.1 Travestirsi da lupo: la spedizione di Dolone


Nel decimo canto dell’iliade, Dolone si copre con una pelle di lupo. Questo tipo di travestimento aveva un significato
religioso.
Dolone descrive un travestimento che non è solamente un’astuzia: il mito greco rivela chiaramente che il lupo è un
animale iniziatico. A dimostrarlo basterà il riferimento al mito di Licaone. Figlio di Pelasgo e re d’Arcadia, Licaone
ricevette un giorno la visita di Zeus, che aveva chiesto la sua ospitalità per scoprire se e fino a che punto fosse
meritata la fama di empietà di cui ovunque godeva. Ma Licaone, a sua volta, voleva essere certo che il misterioso
ospite fosse veramente un dio: dopo aver sgozzato un bambino, quindi, mescolò le sue viscere a quelle delle vittime
animali e imbandì con esse il pasto sacrificale. Di fronte al gesto che confermava i suoi sospetti, Zeus decise di far
pagare a Licaone il fio delle sue colpe trasformandolo in lupo.
Diventare lupo significava far parte di un gruppo iniziatico, quale per esempio a Roma quello dei Luperci, voleva dire
vivere allo stato selvaggio, in modo analogo a quello in cui, a Sparta, vivevano i giovani spartiati nel periodo della
krypteia. Travestirsi da lupo, insomma, era un rito di passaggio.

Nel caso del condannato alla poena cullei, la pelle di lupo sul capo e sul volto stesse a significare il passaggio del
parricida al di là dei confini della società umana.

Il valore iniziatico del travestimento lupino è una spiegazione capace di rendere conto dell’inusitato cerimoniale:
originariamente il parricida veniva punito con la trasformazione in lupo. Veniva, cioè, cancellato dal numero degli
esseri umani, espulso dal consorzio civile.

2.2 Gli zoccoli del parricida


Oltre a indossare la pelle di lupo sul capo, il parricida doveva calzare degli zoccoli di legno.
Il legno aveva capacità ed effetti ben precisi: esso impediva che un oggetto o un individuo impuro diffondessero gli
influssi malefici che portavano in sé. Era materiale isolante.
Costringere il parricida a camminare sulle soleae ligneae significava dunque impedirgli di sporcare la terra con il suo
contatto, di propalare il male che era in lui, di contagiare il suolo della città e con esso i suoi abitanti.

Il fatto che si facessero calzare al parricida le soleae ligneae sembra fornire un primo elemento a favore dell’ipotesi
che egli fosse considerato un essere “portentoso” da eliminare e con il quale, sino al momento della sua
eliminazione, bisognava evitare qualsiasi contatto: l’ipotesi che la poena cullei fosse una procuratio prodigii (vale a
dire una cerimonia volta a eliminare un mostro, più che a punire un reo) comincia a profilarsi come tutt’altro che
priva di fondamento.

3. Le verghe colore del sangue


Prima di essere chiuso nell’otre e gettato nelle acque, il parricida doveva essere frustato con verghe sanguineae.
Perché le verghe che colpivano il parricida dovevano essere color del sangue?

Le verghe sono definite sanguineae nel momento in cui se ne prescrive l'uso: evidentemente dovevano essere rosse
nel momento in cui venivano adibite alla fustigazione, e non al termine di questa.

Da tempo qualcuno sostiene la necessita di correggere il testo e, al posto si sanguineae, sarebbe opportuno leggere
sagmineae, ossia fatte di sgamen, quegli arbusti che i feziali portavano con sé come segno e garanzia della loro
inviolabilità. Accanto a sagmineae è stata proposta anche la lettura salgineae, ossia fatte di salice.
Sanguineus è un termine diffuso, che appartiene sia al campo semantico della botanica sia a quello della magia. I
romani, infatti, definivano sanguinei frutices il corniolo, un arbusto al quale venivano attribuite proprietà mediche e
magiche: le verghe fatte con il legno dei sanguinei frutices servivano a scarificare le ferite curate troppo
frettolosamente.

La ragione per la quale le virgae sanguineae venivano usate per fustigare il parricida risulta dalla notizia, fornita da
Macrobio, che la cornus sanguinea apparteneva al numero degli alberi infelici, con i quali “conviene ordinare che
vengano bruciati i portenta e i cattivi prodigi”.

Secondo una legge attribuita a Romolo e riportata da Dionigi di Alicarnasso, era consentito uccidere il neonato
anaperon (malformato, mutilato) o quello che aveva le caratteristiche di un teras, vale a dire di un monstrum.
A questo punto è necessario capire cosa si intendeva esattamente per monstrum.
Secondo un’ipotesi che risale a G.B. Vico, in questo caso i mostri erano i figli nati fuori del matrimonio: “mostri civili”.
se è indiscutibile che dei figli illegittimi ci si sbarazzasse spesso e volentieri uccidendoli o abbandonandoli, i monstra
cui alludono le disposizioni erano altra cosa: erano esseri la cui deformità era tale da indurre a considerarli “prodigi
funesti” (prodigia mala). Qualcosa di diverso, dunque, dai neonati deformi di cui parla Cicerone, quando riferisce la
regola secondo la quale l’“insignis ad deformitatem puer” doveva essere ucciso.
I monstra erano esseri che non avevano quasi sembianze umane e che, come dice Ulpiano, erano più simili a un
animale che a un uomo. Per evitare la diffusione del contagio che era in loro, i monstra dovevano essere allontanati
dal consorzio umano e civile in modo definitivo e irreversibile. Più precisamente andavano sommersi, esattamente
come gli androgini, considerati mostri per eccellenza.

La poena cullei comprendeva una cerimonia purificatoria. Il parricida, prima di essere cucito nell’otre, veniva
fustigato con verghe ricavate da infelicia ligna: evidentemente si trattava di qualcosa di diverso dalla fustigazione che
precedeva abitualmente l’esecuzione.
In Grecia si usava trasferire la contaminazione su dei “capri espiatori”, che quindi venivano eliminati. E il modo per
trasferire il male su di loro e farlo perire con loro era la fustigazione con rami magici: così accadeva ai pharmakoi
ateniesi.

3.1 L’aria, la terra, l’acqua e il parricida


Prima di iniziare il viaggio verso le acque che lo avrebbero ricevuto, il parricida veniva cucito nel cuellus.
Il parricida non veniva privato solamente della sepoltura, dunque, ma anche e soprattutto (già da vivo) del contatto
con gli elementi: l’aria, la terra, l’acqua.
Nel linguaggio più burocratico delle costituzioni imperiali questa privazione è considerata la ragion d’essere del
culleus.

Nel momento in cui si cominciò a utilizzare il sacco, esso non serviva a privare il parricida dell’uso degli elementi:
serviva, invece, a proteggere l’aria, l’acqua e la terra dal contatto con il parricida.
Cicerone non aveva del tutto dimenticato la funzione originaria del culleus: coloro che istituirono la pena per i
parricidi, egli scrive, “non vollero dare il corpo alle belve, perché non ci trovassimo poi di fronte ad animali resi ancor
più feroci dal contatto con tale scelus; non vollero gettarli nudi nel fiume, affinché, giunti al mare, non lo
contaminassero.

Secondo Quintiliano il parricida doveva avere per legge il volto coperto affinché “i tetri occhi non contaminassero la
bella vista del cielo.

L’idea che il culleus servisse a impedire al cadavere del parricida di trovare riposo negli abissi del mare o sulla terra si
affermò solo quando la consapevolezza della funzione originaria del culleus andò perduta, sostituita dall’idea che
esso fosse una pena, qual era effettivamente e indiscutibilmente divenuto. Ma il ricordo della sua funzione primitiva
conferma inequivocabilmente la natura di monstrum del parricida.

La consacrazione agli dèi


Una delle sanzioni più antiche previste dalla civitas era la dichiarazione di “sacertà” del reo, vale a dire la sua
consacrazione agli dèi. E di regola si afferma che la dichiarazione di sacertà equivaleva a una condanna a morte.
Qual era il modo in cui l’homo sacer perdeva la vita? Bisogna individuare i comportamenti criminosi di fronte ai quali
la civitas riteneva di irrogare una pena il cui carattere religioso non emerge dalle modalità del supplizio, ma è reso
esplicito dalla stessa formula di condanna.

1. Le ipotesi criminose colpite da sacertà


Sul cippo marmoreo rinvenuto nel comitium è leggibile il testo di una lex regia.
La legge prevedeva la sanzione a carico di coloro che avevano violato i luoghi sacri o i sacri confini.

Il re Numa, scrive Dionigi di Alicarnasso, ordinò a tutti i cittadini di delimitare i confini dei propri campi ponendovi
delle pietre e consacrandole a Zeus Horios (Giove Terminus), e stabilì che “se qualcuno avesse tolto o spostato i
confini (horoi) fosse sacro al dio.
Che la violazione dei confini fosse sanzionata dalla dichiarazione di sacertà è confermato da una legge riportata da
Festo: “colui che, arando, abbia sconfinato nel terreno altrui sia sacro, insieme ai buoi”.

La violazione di tutti i confini era colpita dalla sanzione della sacertà.


I termini, sia pubblici sia privati, erano oggetto di culto: ai segni di confine della città, nel corso di una cerimonia
probabilmente identificabile con la festa Ambarvalia, venivano offerte vittime dette amburbiales hostiae.
Ai segni privati di confine era dedicata la festa Terminalia, nel corso della quale i proprietari dei fondi confinanti
offrivano cereali, focacce, favi di miele e vino, mentre i termini venivano spalmati con il sangue delle vittime
sacrificali e adornati di bende e corone.

I confini non erano considerati semplicemente delle cose; essi, secondo ovidio, avevano un numen.
Essi erano terminus, il dio che si identificava con qualunque oggetto servisse a delimitare un’estensione di terreno, e
sovrintendeva alla stabilità dei confini.

I confini non erano immutabili e potevano essere spostati. Lo spostamento dei confini privati richiedeva una
cerimonia cui dovevano partecipare i proprietari dei terreni interessati, che presiedevano al rito religioso di
infissione delle pietre che delimitavano i nuovi termini, per l’occasione ornati di ghirlande e di bende come durante
la festa Terminalia.

Esisteva una previsione normativa regale, secondo la quale sarebbero stati dichiarati sacri il figlio e la nuova nuora
che avessero percosso il parens. La regola è riportata da Festo e specifica che il padre oggetto delle percosse
(“parens verberatus”) doveva “plorare”. Un verbo antico, che secondo Festo significava “chiamare a voce alta”.
Secondo Cicerone “chiamare i vicini perché accorressero” serviva allo scopo di subordinare l’applicazione della
sanzione alla presenza di testimoni che garantissero dall’eventualità di abusi.
In origine la funzione della ploratio era diversa: essa era un grido, un’imprecazione con effetto magico, capace di far
cadere la maledizione sul colpevole.

La ploratio ha precedenti nel mondo greco. Nell’Iliade, per esempio, Altea maledice il figlio Meleagro, colpevole di
aver ucciso i fratelli: e Meleagro nella leggenda muore improvvisamente, colpito dall’Erinni materna.

A Roma, nel 55 a.C. il triumviro Crasso partì per combattere contro i parti, ma la sua partenza non fu accompagnata
dalle abituali manifestazioni di entusiasmo popolare. Il tribuno della plebe Caio Ateio Capitone, in particolare, che si
era invano opposto alla partenza, manifestò il suo sdegno in modo plateale: accese un grande fuoco alle porte della
città e, quando Crasso giunse nei suoi pressi, pronunziò contro di lui imprecazioni spaventose, invocando dei terribili
e strani.

Tornando alla dichiarazione di sacertà: non di rado si afferma che essa colpiva, sempre nel campo dei rapporti
familiari, anche il marito che avesse venduto la moglie.
Una lex regia attribuita a Romolo e riportata da Plutarco stabiliva infatti che in questo caso il marito dovesse “essere
sacrificato agli dèi inferi”. Ma “essere sacrificato” è diverso da “essere dichiarato sacer“: le conseguenze delle due
sanzioni non erano le stesse. Chi veniva dichiarato sacer non veniva immolato, come accadeva alla vittima sacrificale.
Il comportamento del marito che vendeva la moglie, dunque, non rientrava tra i delitti familiari colpiti da sacertà. Tra
di essi stava piuttosto la violazione dei rapporti di patronato, costantemente ed esplicitamente equiparati dai romani
a quelli tra figli e genitori.
Tra i doveri che derivavano dal rapporto di patronato: i clienti dovevano contribuire a costituire una dote alle figlie
dei patroni, qualora questi versassero in difficoltà economiche; dovevano pagare il riscatto per liberare il patrono e i
suoi figli che fossero caduti nelle mani del nemico e dovevano pagare le condanne pecuniarie inflitte ai patroni nei
processi privati. Inoltre, patroni e clienti dovevano reciprocamente astenersi dall’accusarsi in giudizio e dal
testimoniare gli uni contro gli altri. Ed ecco la sanzione: chi commetteva uno di questi illeciti, dopo essere stato
condannato, poteva essere ucciso da chiunque volesse farlo, in quanto sacro a Dite.

Secondo le dodici tavole “Il padrone che si è comportato fraudolentemente con il cliente, sia sacer.
si trattava di integrazione di una norma che, originariamente, puniva solo la violazione dei doveri dei clienti nei
confronti dei patroni.

La legge di Romolo (o a lui attribuita) sanzionava con la sacertà solamente l’inadempienza dei clienti. I decemviri,
dunque, estesero ai patroni la sanzione sino a quel momento riservata solo ai clientes infedeli.

Nel 449 una legge stabilì che colui che avesse violato la sacrosanctitas tribunizia “fosse sacro a Giove e i suoi beni
venissero venduti a vantaggio di Cerere, Libero e Libera.
2. L’homo sacer era un condannato a morte?
La sacratio era una sanzione antica. Secondo alcuni sarebbe stata addirittura la prima pena prevista dal diritto
criminale romano: e generalmente si ritiene che fosse una pena di morte.
Nata come rito religioso, in età cittadina essa appare inequivocabilmente come la conseguenza di una pronunzia
giudiziaria. A confermarlo sta la definizione di homo sacer data da Festo: “l’homo sacer è colui che il popolo ha
giudicato per un delitto”.

A sostegno dell’ipotesi che l’homo sacer venisse condannato a morte sembra deporre un’affermazione di Macrobio.
Nei Saturnalia, infatti, leggiamo che “si chiama sacro ciò che è destinato agli dèi, e non può giungere agli dèi se
l’anima non è liberata dal peso del corpo”. Di regola, ciò che veniva dichiarato sacer (se si trattava di un essere
vivente) veniva inviato agli dèi attraverso il sacrificium, vale a dire l’immolazione.

Festo, dopo aver definito l’homo sacer, riferisce che costui “non poteva essere immolato”. Il che non significa che
l’uomo sacro non corresse alcun rischio di morte: “ma chi lo uccide,” aggiunge Festo, “non viene condannato per
parricidio. Quel che Festo vuol dire, in realtà, è che l’uccisione dell’homo sacer non era un omicidio.

Perché la sorte dell’homo sacer era affidata all’arbitrio di chiunque volesse ucciderlo? l’homo sacer era un
condannato a morte che, in assenza del magistrato patrizio, non era possibile immolare e che pertanto poteva
essere ucciso impunemente da chiunque, affinché la condanna venisse comunque eseguita. Anche ammesso che
l’esecuzione patrizia e quella plebea fossero ispirate a concezioni diverse del castigo, che il carattere sacrale fosse
proprio dell’esecuzione patrizia è tutt’altro che dimostrato.

Il divieto di immolare l’homo sacer deriverebbe dal fatto che, essendo impuro per aver commesso un delitto, costui
non era una vittima gradita agli dèi. L’homo sacer, insomma, non avrebbe potuto essere sacrificato nelle forme di
rito; egli poteva solo essere offerto agli dèi inferi che, non avendo altari sacrificali, potevano ricevere le vittime in
modo non rituale. La dichiarazione di sacertà, che rendeva il colpevole tabù (nel senso di maledetto), avrebbe
pertanto consentito a qualunque cittadino di uccidere il criminale in onore di questi dei.
Una simile ipotesi si scontra con la considerazione che sia chi aveva violato i termini, sia chi era venuto meno ai
doveri legati al patronato, sia chi aveva violato la sacrosanctitas tribunizia veniva dichiarato sacro a Giove. E Giove
non era una divinità infernale.

La sacratio non comportava necessariamente che chi era stato dichiarato sacer morisse. “Sacro” era ciò che veniva
offerto agli dei. Sacrificium era l’atto che consegnava al dio ciò che gli era stato offerto, che portava a compimento il
destino della vittima sacrificale”. Quel che era sacro, insomma, diventava vittima sacrificale solo in un secondo
momento. La sacratio in sé non significava destinazione all’immolazione.

La sacertà non comportava né l’accettazione né la presa di possesso da parte degli dei. Essa era solo un’offerta. Nella
definizione di sacer, in altre parole, non era implicito un destino di morte.

3. La condizione e il destino dell’homo sacer


Se l’immolazione non era la conseguenza inevitabile della sacratio (come rito), essa era tuttavia una delle sue
conseguenze possibili: dire che non era fas immolare l’homo sacer, dunque, significava escludere che questa
possibile conseguenza si verificasse. Significava rendere esplicito che la civitas, nel momento in cui aveva assunto la
sacratio nel quadro istituzionale delle pene, aveva scelto, tra le possibili conseguenze di questa solenne
dichiarazione, la “separazione” del reo, la sua messa al bando, il suo ripudio. L’offerta al dio, fatta al momento della
condanna, veniva eseguita facendo del reo un outlaw, una persona con cui la collettività interrompeva ogni contatto.
Questa persona poteva essere uccisa senza che la sua uccisione fosse considerata un omicidio.

A confermare l’ipotesi della pluralità di effetti della sacratio sta l’analisi delle diverse tipologie di reato colpite da
sacertà. Tra queste, solo una comportava che il reo venisse ucciso nelle forme di una delle esecuzioni cittadine, ed
era la violazione della sacrosanctitas dei tribuni.
Cloro che avevano commesso questo reato venivano precipitati dalla rupe Tarpea. Ma il caso delle cosiddette leges
sacratae era del tutto particolare. Esse erano state approvate nel quadro della lotta tra patrizi e plebei, ed era
interesse della plebe dimostrare con i fatti che nessuno poteva permettersi di violarle. Più che logico, dunque, che i
tribuni non abbandonassero alla sua sorte colui che era stato dichiarato sacer per aver attentato alla loro persona
(con il rischio, sia pur estremamente ridotto, che avesse salva la vita), e che tenessero a mostrare a tutta la civitas
che il colpevole aveva pagato per loro mano il fio delle sue colpe.
La precipitazione dalla rupe Tarpea, in questo caso, non era un’esecuzione specificamente prevista dalla legge, era
solo il modo in cui di fatto i tribuni, con un gesto che era stato tradizionalmente una delle loro forme di lotta,
uccidevano impunemente l’homo sacer, come del resto avrebbe potuto fare qualunque cittadino.

La legge sul patronato conferma esplicitamente la validità della nostra interpretazione. Essa, infatti, stabiliva che i
clienti e i patroni infedeli fossero consacrati a Giove e che chiunque potesse ucciderli. “Chiunque” vuol dire,
evidentemente, che il reo, con la condanna, veniva messo al bando. E il diritto della città, di conseguenza, non
puniva colui che eventualmente decideva di ucciderlo.

LA VENDETTA

Cultura e pratica della vendetta


In una società preletterata la vendetta può avere un ruolo così determinante da rappresentare uno degli strumenti
più potenti di regolamentazione dei rapporti sociali. E ovviamente, là dove la vendetta ha svolto un simile ruolo, essa
continua a segnare la mentalità di questa società e le sue pratiche di relazione anche nell’epoca in cui, divenuto un
gruppo politico, la società si sia preoccupata di sottoporre a controllo l’uso della forza fisica privata, talvolta
vietandola radicalmente.

L’assenza di fonti capaci di rivelare l’organizzazione e la mentalità precivica rende la situazione dello storico di Roma
assai più problematica di quella dello storico greco: lo storico di Roma non ha a sua disposizione l’Iliade e l’Odissea.
Ma questo non gli impedisce di constatare che l’istinto e la pratica della vendetta erano profondamente radicati
nella cultura romana, e non solo in quella dei primi secoli.
Anche quando la vendetta era stata ormai vietata, l’idea che la pena servisse a dare soddisfazione sociale e conforto
psicologico a chi aveva subìto un torto permane inalterata, ed è non di rado teorizzata esplicitamente.

La coscienza sociale considerava la vendetta una pratica nobile e valutava la sua attuazione come prova del coraggio
e dell’onore di chi vi aveva fatto ricorso, anche quando la sola vendetta consentita era ormai quella legale, ottenuta
attraverso la pubblica esecuzione di una sentenza capitale.
Non a caso era stato eccezionalmente riconosciuto alle donne il diritto di accusare in giudizio chi avesse ucciso i loro
genitori: esercitando questo diritto esse potevano evitare che un simile crimine restasse invendicato. E se facevano
questo, esse acquistavano fama imperitura.

Il dovere di non lasciare invendicata la morte dei parenti più stretti (nonché quella dei patroni) aveva inoltre indotto
a derogare alla regola secondo la quale i minori e coloro che erano stati condannati in un processo pubblico non
potevano intentare azioni criminali. E la sanzione che colpiva coloro che avevano ignobilmente trascurato di
vendicare la morte dei propri cari non era solo sociale. Tra le cause di indegnità a succedere, stava quella di non aver
perseguito in giudizio i loro eventuali assassini.

Se accadeva che qualcuno si facesse vendetta di propria mano, senza ricorrere alla mediazione della civitas, non
mancava chi riteneva questa vendetta assai più onorevole di quella legale.

Farsi vendetta personalmente era stato vietato da tempo. Cosa accadeva a chi ignorava il divieto? Teoricamente, chi
uccideva per vendetta doveva essere condannato come assassino. Ma non sempre era così. Torna alla mente la
storia delle due donne ambustae: accusate in un pubblico processo, né condannate né assolte. La prima aveva ucciso
a bastonate la madre, spinta dal dolore per la morte del figlio avvelenato dalla di lei madre, l’aveva uccisa per
vendicarlo. La seconda, invece, aveva ucciso il secondo marito e il figlio avuto da questo per vendicare la morte del
figlio di primo letto, ucciso da costoro.
Gli exempla di Valerio Massimo sono scelti accuratamente, selezionati con criteri ben precisi e con intenti chiarissimi.
Evidentemente egli voleva segnalare che persino gli omicidi più efferati, quando erano dettati da una motivazione
così nobile, non meritavano condanna.

Se la vendetta era stata vietata, esistevano dei casi in cui, sia pur eccezionalmente, essa poteva continuare a essere
esercitata.
La lex Iulia de adulteriis di Augusto, del 18 a.C., aveva stabilito che a determinate condizioni il padre e il marito
potessero uccidere l’amante della figlia e della moglie senza incorrere in alcuna sanzione: di nuovo, questa licenza di
uccidere altro non era che la legalizzazione, sia pur eccezionale, della vendetta.
Quel che è certo è che molti mariti, se non arrivavano a uccidere il complice della moglie, si abbandonavano a
vendette diverse, attuate infliggendo a chi li aveva offesi delle torture certamente vietate dalla legge, ma consentite
dalla prassi.
Grazie alla testimonianza di autori diversi, come Orazio, Marziale, Valerio Massimo, Quintiliano, Apuleio o Aulo
Gellio, veniamo a sapere di ardenti e baldanzosi amanti sottoposti alla terribile e infamante pena del rafano e del
mugile, di seduttori più o meno professionali la cui carriera era stata messa a serio rischio dal taglio del naso.

Tornando alle vendette autorizzate dal diritto, significativa è la storia del diritto di uccidere l’amante della moglie.
Secondo la lex Iulia, il marito poteva uccidere l’amante della moglie solo se lo sorprendeva in flagrante all’interno
della sua casa, e solo se l’amante era schiavo o appartenente alle classi sociali più basse. Infine, qualora sussistessero
tutte queste condizioni, la legge subordinava l’impunità maritale a un adempimento successivo all’uccisione: entro
tre giorni dalla medesima, il marito doveva informare dell’accaduto il magistrato territorialmente competente. Ma
con il trascorrere dei secoli i limiti dell’impunità maritale, anziché restringersi, andarono progressivamente
estendendosi.
Per volere di Marco Aurelio e Commodo, il marito che avesse ucciso l’amante della moglie al di fuori delle condizioni
richieste dalla legge non veniva punito come omicida, ma subiva una pena più lieve. Il iustus dolor del marito, infatti,
vale a dire il suo giusto desiderio di vendetta, giustificava in larga misura la sua azione.

La cultura della vendetta, dunque, non caratterizzò solo la Roma dei primi secoli, ma continuò a svolgere un ruolo
tutt’altro che secondario nella società romana per tutto il corso del suo sviluppo. E non solo nei rapporti privati.
Accanto alla vendetta privata esisteva la vendetta pubblica, che la civitas riteneva di dover compiere nei confronti
dei nemici, dei traditori, degli amici o degli alleati infedeli.

La vendetta pubblica

1. Il supplizio di Mezio Fufezio


Racconta Livio, nel primo libro delle Storie, che Mezio Fufezio, dittatore di Alba, concluse la pace col re Tullo Ostilio e
si alleò con i romani. Ma era un alleato tutt’altro che leale. Nascostamente, infatti, egli istigava i popoli vicini alla
ribellione. E così accadde che gli abitanti di Fidene, contando sulle sue promesse di appoggio, si allearono ai veienti e
dichiararono guerra a Roma.
Il re Tullo, allora, chiamò in aiuto Mezio, che ovviamente e inevitabilmente si schierò al suo fianco. Ma in battaglia
non si comportò come un alleato. Egli aveva deciso di prendere tempo, di vedere come la battaglia si sarebbe svolta
e, al momento opportuno, di schierarsi dalla parte dei vincitori. Stupiti e disorientati dal suo comportamento, i
romani avvertirono il re di quanto stava accadendo.
Dopo aver fatto voto di istituire un nuovo collegio sacerdotale e di fondare un tempio dedicato a Pallore e Terrore,
Tullo dichiarò a gran voce che gli alleati stavano compiendo, dietro suo ordine, una manovra di aggiramento.
I fidenati allora, che comprendevano la lingua dei romani, furono presi dal panico e si diedero alla fuga. Roma aveva
vinto la guerra e Mezio, convinto che la sua manovra fosse passata inosservata, si presentò al re, complimentandosi
con lui per la vittoria.
Il re lo ringraziò e gli ordinò di unire il suo accampamento a quello dei romani. Sempre più convinto che il suo
atteggiamento non avesse destato alcun sospetto, Mezio eseguì gli ordini, e il mattino seguente si recò con i suoi
all’assemblea convocata da Tullo. E qui, finalmente, il re di Roma smascherò pubblicamente il traditore. Dopo aver
ordinato che gli alleati prendessero i posti centrali, così che potessero essere facilmente circondati, Tullo parlò ai
suoi soldati e a Mezio: “Come, dunque, hai tenuto l’animo diviso tra la fortuna fidenate e quella romana, ora sarà il
tuo corpo a essere diviso”. E a questo punto, fatte avanzare due quadrighe, fece legare a queste le estremità di
Mezio e spronò i cavalli in opposte direzioni, così che questi “si portarono via il corpo, squarciato là dove le membra
erano state avvinte, su ciascuno dei carri”.
Un’applicazione minuziosa e accurata della vendetta2 che resterà a lungo nel ricordo dei romani.

Il supplizio di Mezio non poteva non sollevare discussioni contenute nel XX libro delle Notti attiche di Aulo Gellio. Nel
corso della disputa tra Cecilio e Favorino, infatti, il giurista, sostenendo che la pena aveva funzione deterrente, citava
a supporto della sua tesi il supplizio di Mezio. Ma Favorino ribatteva che questo supplizio, semmai, dimostrava la tesi
da lui sostenuta, quella secondo la quale la pena altro non era che vendetta.
Il supplizio inflitto a Mezio fu una vendetta pubblica, attuata dal re per conto della collettività.
A volte, poteva anche accadere che l’esercizio della vendetta pubblica venisse delegato dalla civitas a dei privati,
considerati più legittimati di altri a compierla: più precisamente, poteva accadere che esso venisse affidato ai parenti
di chi per la civitas aveva perduto la vita.

2. Vendicare Attilio Regolo


Narra Tuditano, che quando a Roma si venne a sapere della morte di Attilio Regolo, il senato consegnò i più nobili tra
i prigionieri ai figli di costui, perché ne vendicassero la morte.
Vendetta fu fatta per mano della vedova dell’eroe. Ricevuti gli ostaggi cartaginesi in consegna, costei avrebbe legato
uno di questi, Amilcare, ancora vivo, al cadavere del compagno Bodostare. Un supplizio che, a quanto pare, a Roma
fu applicato solo in questo caso, ma che non fu, tuttavia, un’invenzione della vendicativa signora. A questa pratica,
infatti, fanno riferimento sia Virgilio sia Valerio Massimo.

Valerio Massimo ritiene si trattasse di un supplizio etrusco ma più interessante è il resoconto di Gellio. Secondo una
delle versioni della sua storia, Attilio Regolo era stato sottoposto a una tortura realizzata cucendo le sue palpebre,
esponendolo ai dardi del sole più accecante e lasciandolo morire straziato dalla mancanza di sonno. Ed ecco il
racconto della vendetta: “I più nobili tra i prigionieri cartaginesi furono consegnati dal Senato ai figli di Regolo, e
chiusi in una botte irta di chiodi acuminatissimi morirono tormentati dalla stessa insonnia”. Una vendetta non solo
crudele, ma minuziosa, attenta ai particolari.
Un supplizio che rivela l’abitudine a una prassi vendicativa applicata secondo forme che rispondevano a regole
tutt’altro che improvvisate o estemporanee, che valutavano i gesti, che misuravano le sofferenze, le confrontavano,
volevano che fossero non solo equivalenti nella misura, ma simbolicamente tali da riprodurre le modalità con le quali
il male era stato inflitto.

La vendetta privata e la sua utilizzazione in funzione di pena cittadina


La storia romana e quella greca rivelano che il controllo della vendetta fu una delle prime preoccupazioni della
civitas. Ed evidenziano quali furono i passi che la civitas compì per realizzare questo obiettivo.
- Il primo di essi fu quello di individuare i casi nei quali la vendetta poteva essere fatta.
- Il secondo fu quello di stabilire che in alcuni casi la vendetta non era solo un atto autorizzato, ma anche
dovuto.
- Il terzo passo fu quello di stabilire che la reazione doveva essere proporzionata all’offesa subita, e di
riservarsi il diritto di individuare la misura della risposta consentita per ciascuno dei delitti che legittimavano
la vendetta.
Quali erano questi delitti? l’omicidio, alcuni tipi di furto e alcune ipotesi di lesioni personali. Delitti di diversa gravità,
puniti con pene-vendette di tipo minore, e cioè le lesioni personali definite come membri ruptio.
Le dodici tavole stabilivano: “subisca il taglione, a meno che la vittima non accetti una composizione pecuniaria”.

In che cosa consisteva il taglione, come veniva applicato, dove e a opera di chi? Il taglione scrive Isidoro, è simile alla
vendetta ed è strutturato in modo che uno subisca quello che a fatto.
Il taglione risulta essere una vendetta regolamentata in riferimento all’entità del male che può essere inflitto
all’offensore.

La regola del taglione può derivare da una pratica sociale spontanea e tradursi in una regola consuetudinaria che
limita la vendetta ancor prima che lo Stato nasca.
A stabilire il taglione può essere lo stato. Come esempio di regolamentazione legislativa del taglione bisogna
ricordare quella alla quale, nel racconto di Demostene, fecero ricorso gli abitanti di Locri Epizefiri: a Locri, ove per le
lesioni personali vigeva la legge del taglione, si stabilì per legge che, se un monocolo avesse privato di un occhio un
concittadino, non lo si potesse privare dell’unico occhio di cui disponeva. Così facendo, infatti, gli si sarebbe fatto
subire un male maggiore di quello da lui provocato.

La diffusione della legge del taglione nel mondo antico sta a rivelare la minuziosità estrema con cui si riteneva di
dover valutare l’equivalenza tra il male inflitto e quello subito.
La civitas, dunque, stabilì che si applicasse la pena del taglione a carico di chi “aveva “rotto un membro” ad altri.
Cosa significava “rompere un membro”? Secondo alcuni, significava asportare violentemente un arto o un organo;
secondo altri, significava compiere qualunque atto di violenza contro la persona che annullasse o turbasse anche
solo temporaneamente la normale funzionalità di una parte del corpo.

Per quanto riguarda la procedura con la quale il taglione veniva applicato: trattandosi di una vendetta rigorosamente
commisurata al danno inflitto, è evidente che essa dovesse essere compiuta sotto il controllo pubblico. Ma poiché
sui modi di questo controllo le fonti non dicono parola, non possiamo che formulare delle ipotesi e dire che,
comunque, si trattava di un duplice controllo: un primo solo eventuale e un secondo inevitabile. Il primo, infatti, si
rendeva necessario solo qualora colui che veniva accusato di aver “rotto un membro” negasse ogni addebito, ed era
evidentemente volto ad accertare se l’accusa fosse o meno fondata. Il secondo, invece, era quello che doveva essere
svolto al momento in cui la vendetta veniva compiuta, per accertare che essa si limitasse alla misura del taglione.

Da chi veniva compiuta la vendetta se l’integrità fisica della vittima era stata danneggiata? Secondo Catone, essa
veniva eseguita dal parente più stretto.

1. La punizione dell’omicidio volontario: paricidas esto


Diceva la cosiddetta legge di Numa: “Se qualcuno ha volontariamente ucciso un uomo libero, paricidas esto”. Cosa
significa paricidas esto?
Significa forse, come sostiene una parte della dottrina, che l’omicida doveva essere considerato e punito come un
parricida? Se così fosse, la pena per l’omicidio sarebbe stata la poena cullei. A questa soluzione del problema sono
successivamente approdati, per vie diverse, numerosi autori. La parola parici, tramandata da Festo, è il dativo di
parix (o parrex), e il significato di parix è “sacco”. Paricidas, pertanto significa “sia dato al sacco”. Altri, invece, hanno
ricondotto parici a pera, che indicava a sua volta il “sacco” come strumento di morte: di nuovo, paricidas esto
significherebbe che la pena per l’omicidio era la poena cullei.
Un’altra serie di interpretazioni prospetta però una soluzione completamente diversa, secondo la quale la formula
paricidas esto avrebbe legittimato la vendetta. Secondo alcuni, più precisamente, il significato di paricidas esto
sarebbe stato “vi sia un parente vendicatore”. Secondo altri la traduzione sarebbe “sia ucciso a titolo di
rappresaglia”; e secondo altri ancora, paricidas dovrebbe essere scomposto in parici das.
parici sarebbero stati dei magistrati incaricati di applicare la regola del pareggio, la sanzione suonerebbe: “Sia
consegnato ai parici”.
Infine, v’è chi ritiene che paricidas sia un sostantivo derivato, attraverso paricium, da paria facere, ossia “sanzione
equivalente”, e che la formula, pertanto, autorizzerebbe l’applicazione del taglione.

Tra le ipotesi riportate sono da preferire quelle secondo le quali paricidas esto avrebbe autorizzato la vendetta.
A sostegno dell’ipotesi che la legge di Numa autorizzasse i parenti della vittima a uccidere l’omicida sta la
considerazione, tutt’altro che secondaria, della realtà di fatto nella quale la legge venne a inserirsi. In una situazione
e in un ambiente in cui la risposta all’omicidio era stata per secoli la vendetta privata, la civitas nascente, nel
momento in cui decise di avocare a sé il diritto di stabilire quali fossero i comportamenti meritevoli di una sanzione,
si trovò a dover fare i conti con una prassi vendicativa così radicata da rendere estremamente difficile pensare di
poterla cancellare da un giorno all’altro.
La civitas romana decise di intervenire operando una sorta di mediazione: esattamente come fece Atene, con la
legge di Draconte, anche Roma, in alcuni casi, autorizzò i parenti della vittima a uccidere l’assassino.
Nell’autorizzare questa pratica essa ne modificò radicalmente il carattere e la natura, sottraendola al campo
dell’iniziativa familiare e trasformando i parenti autorizzati a uccidere da vendicatori privati in agenti delegati dalla
civitas ad applicare la pena di morte. In secondo luogo, essa limitò la possibilità di uccidere l’assassino all’ipotesi che
costui avesse commesso un omicidio volontario, riservandosi il diritto di accertare se e quando un omicidio era tale,
e incaricando delle relative indagini gli aiutanti del re significativamente chiamati quaestores parricidi.

Stabilendo che l’omicida volontario doveva essere ucciso, vietò ai parenti di accettare una composizione pecuniaria:
chi aveva commesso un omicidio volontario, a partire da quel momento non poteva più sottrarsi alla pena di morte.
2. La lapidazione: esecuzione delegata per l’omicidio?
Quali erano i modi in cui i parenti della vittima uccidevano l’assassino? i parenti potevano scegliere liberamente
l’esecuzione che preferivano: e tutto induce a pensare che, non di rado, essa rinviasse, in qualche modo, al tipo di
morte che la vittima aveva subìto. La pratica della vendetta prevedeva spesso questa corrispondenza.

I modi dell’esecuzione delegata erano svariati e uno di questi sarebbe stata la lapidazione. A Roma, esattamente
come in Grecia, la pietra non era strumento della giustizia cittadina, ma di una giustizia collettiva e spontanea che, di
regola, colpiva chi aveva provocato un male alla collettività. Più che come strumento della vendetta privata, dunque,
la lapidazione era vista, dai romani, in un’ottica afflittivo-retributiva tesa ad affermare il principio morale che non era
lecito provocare un male alla collettività.

L’idea che la pietra fosse strumento della giustizia popolare è espressa da Quintiliano, là dove afferma che il legatus
che ha causato una carestia di grano non verrà punito dal tribunale, ma verrà lapidato dal popolo. Ma l’episodio che
meglio di ogni altro illustra il senso dell’uso romano della pietra è, senza alcun dubbio, il racconto di quel che
accadde quando morì Germanico.
Germanico riunì in sé, come nessun altro, tutte le qualità del corpo e dell’animo,” scrive Svetonio. Per queste ragioni,
egli era tanto amato dal popolo che “ogni volta che andava in qualche posto, o lo lasciava, questo accorreva in folla a
riceverlo o ad accompagnarlo, al punto da fargli rischiare la morte per soffocamento. Quando tornò dopo aver
sedato la rivolta in Germania, tutte le coorti pretoriane gli andarono incontro, anche se solo due avevano ricevuto
l’ordine di uscire, e il popolo romano si riversò nelle vie, senza distinzione di sesso, di età e di condizione sociale”.
Ma Germanico, l’idolo della folla, morì: “Quel giorno vennero rovesciati gli altari degli dei e lanciati sassi contro i
templi”.
Gli dèi quel giorno vennero lapidati in effigie, come sarebbe stato lapidato chiunque avesse inflitto un simile male al
popolo.

Talora la lapidazione si trasformò in strumento di prevaricazione, in esplosione di violenza fine a sé stessa, in arma
della lotta politica.
Ad esempio, nella Vita di Silla, Plutarco racconta che i tribuni militari mandati a Nola per condurre l’esercito a Mario
furono lapidati dai soldati di Silla, per istigazione di questi.

A volte la lapidazione era effettivamente lo strumento di una vendetta. Cominciamo da un caso narrato nelle
Metamorfosi di Apuleio: la maga Merope, che aveva causato molti mali, grazie alle sue arti magiche riesce a sottrarsi
a un tentativo di vendetta delle sue vittime, che avevano deciso appunto di lapidarla.

La lapidazione non appare nella veste di una delle forme dell’esecuzione capitale, che la città, con la legge di Numa,
aveva affidato ai parenti di chi era stato vittima di un omicidio volontario. Il che non significa, peraltro, che, qualora i
“delegati” volessero farvi ricorso, la lapidazione fosse vietata. Per quanto è dato saperne, i parenti della vittima
avevano la massima libertà in materia: ma come abbiamo già osservato a proposito del mondo greco, la lapidazione
non offriva loro tutta la soddisfazione sociale che essi potevano trarre dal mettere a morte l’assassino.

La lapidazione aveva caratteristiche che inducevano i parenti della vittima a scegliere altre esecuzioni. Anche se non
fu mai espressamente vietata, la lapidazione, anche a Roma, rimase al di fuori del mondo del diritto.

3. La punizione dell’omicidio involontario: il sacrificio sostitutivo dell’ariete


A re Numa viene attribuita la legge che stabiliva la pena per l’omicidio involontario. Vi fanno riferimento un passo del
commento di Servio alle georgiche e un passo del commento alle bucoliche.
Nel commento alle Georgiche leggiamo che anticamente chi aveva commesso un omicidio doveva “lavare” la sua
colpa con un ariete.
A che tipo di omicidio si riferisce la regola? Teoricamente, in assenza di ogni specificazione, essa potrebbe riferirsi
anche all’omicidio volontario. Ma a qualificare l’ariete come sanzione per l’omicidio involontario interviene il
commento del servius auctus, dove leggiamo che al re Numa la tradizione attribuisce un’iniziativa legislativa
articolata e sistematica, rivolta non solo a criminalizzare l’omicidio, ma anche e forse soprattutto a valutare
l’atteggiamento psichico di chi aveva ucciso, individuando diversi livelli di colpevolezza e stabilendo pene diverse,
commisurate alla gravità del crimine.
Avendo commesso un crimine meno grave di quello commesso da chi aveva ucciso volontariamente, chi aveva
ucciso “imprudens” non poteva essere messo a morte dai parenti della vittima. Tutto quel che si poteva pretendere
da lui era che consegnasse un ariete.
A confermare l’esistenza di questa regola sta anche una norma delle Dodici Tavole, che con riferimento a un’ipotesi
specifica di omicidio involontario, relativa all’uso delle armi, stabiliva: “Se il dardo sfuggì di mano, più che essere
lanciato, venga offerto un ariete.

L’ariete aveva quindi funzione di piaculum, vale a dire di offerta espiatoria.


Tra i crimini che turbavano la pax deorum, infatti, alcuni erano ritenuti “inespiabili”, altri “espiabili”. Quelli inespiabili
richiedevano la morte di chi li aveva commessi. Gli altri, invece, potevano essere espiati con un sacrificio sostitutivo,
quale, nella specie, il sacrificio di un ariete.

La funzione dell’ariete era quella di rimuovere la maledizione divina.

Che il sacrificio dell’ariete avesse la funzione di ristabilire la pax deorum sembra dunque innegabile: ma questo non
significa, tuttavia, che esso avesse solamente questa funzione. La legge di Numa stabiliva che la vittima sacrificale
sostitutiva dovesse essere consegnata ai parenti della vittima dinanzi al popolo riunito.
La pubblica consegna apparirebbe del tutto priva di logica se il sacrificio dell’ariete avesse avuto solo funzione
espiatoria. Evidentemente, accanto alla funzione di vittima sostitutiva, l’ariete aveva anche quella di poine: era la
riparazione sostitutiva che consentiva ai parenti della vittima di ricevere quella soddisfazione che il divieto di farsi
vendetta impediva loro di prendersi personalmente, ma di cui la civitas non li aveva completamente privati.
I parenti della vittima, dopo averlo ricevuto, provvedevano personalmente a sacrificarlo; mentre compivano un rito
religioso nell’interesse della civitas, essi ottenevano anche la soddisfazione psicologica di mettere a morte, di loro
mano, una vittima che rappresentava simbolicamente chi era stato causa del loro dolore.
Grazie alla consegna e al sacrificio dell’ariete, le due esigenze che avevano da sempre spinto a fare vendetta
continuavano a essere soddisfatte.

Nel regolare il ricorso alla forza fisica da parte dei privati (nel caso dell’omicidio involontario, nell’escludere che vi si
potesse fare ricorso), la città si preoccupò di non privare i parenti delle vittime di un qualche ruolo attivo, concreto,
che consentisse la loro partecipazione alla punizione del reo.

A differenza della legge sull’omicidio involontario, chiaramente ispirata anche alla necessità di placare l’ira divina,
quella sull’omicidio volontario sembra ignorare una simile esigenza. Solo l’accostamento tra le due leggi permette di
sapere che l’omicidio era considerato uno scelus, a seconda dei casi inespiabile o espiabile.

A Roma, sin dalle origini dell’organizzazione cittadina, l’omicidio era considerato un illecito che turbava la pax
deorum, e la vendetta si colorava di conseguenza di un carattere sacrale che rendeva duplicemente indispensabile la
morte dell’omicida: egli doveva morire sia per compensare socialmente e psicologicamente i parenti dell’ucciso, sia
per purificare la città, espiando lo scelus e allontanando l’ira divina.

4. La punizione del furto: il ladro notturno e quello che si difende con le armi
Una norma delle Dodici Tavole stabiliva che, se qualcuno avesse ucciso un ladro sorpreso a rubare di notte,
l’uccisione di questi fosse legittima.

Anche nel caso del furto, la città aveva stabilito che la vendetta poteva essere esercitata solo in ipotesi di particolare
gravità, che in questo caso non si qualificavano come tali per la presenza di un atteggiamento più o meno colpevole
della volontà. Nel caso del furto, la maggior gravità del reato discendeva dalle circostanze o dalle modalità in cui il
delitto era stato compiuto e il ladro era stato scoperto.

Il rubare nottetempo era considerato indice di un atteggiamento particolarmente antisociale: e questa antisocialità
giustificava l’esercizio immediato della forza fisica. Ma in alcuni casi anche chi rubava di giorno poteva essere ucciso:
più precisamente, poteva essere ucciso qualora, scoperto in flagrante, si difendesse ricorrendo alle armi. Così
stabiliva, infatti, un’altra norma decemvirale, che sottoponeva la legittimità della reazione omicida a una condizione:
chi sorprendeva il ladro doveva plorare, vale a dire doveva “chiamare a gran voce” i vicini perché lo aiutassero e,
soprattutto, perché testimoniassero che il ladro scoperto sul fatto si era difeso con le armi.
Il semplice fatto che il ladro fosse armato non giustificava la sua uccisione. Perché questa fosse giustificata, egli
doveva far ricorso a un’arma, indicata dalla legge come una “freccia”.
Nel caso del fur nocturnus la norma che autorizzava la vendetta, trasformandola in pena cittadina era determinata
dall’impossibilità di tollerare un atteggiamento considerato di particolare antisocialità. Nel caso del ladro che si
difende con le armi, invece, essa era dettata dalla necessità di tutelare il derubato da un pericolo reale e concreto.

Con riferimento al furto notturno, si può leggere in un passo di Gaio che l’uccisione del ladro era consentita solo se il
derubato aveva “testificato con clamore”, ossia aveva chiamato a gran voce dei testimoni.
Gli altri testi in nostro possesso richiedono questa formalità solo per la messa a morte del ladro che si difende a
mano armata. Evidentemente, dunque, siamo di fronte a una restrizione del diritto di uccidere, successiva alle Dodici
Tavole.

Regolamentazione delle altre ipotesi di furto flagrante: Se non rubava di notte, o se rubando di giorno, non si
difendeva a mano armata, il ladro sorpreso in flagrante non poteva essere ucciso, a meno che non fosse di
condizione servile: nel qual caso veniva precipitato dalla rupe Tarpea. Se era libero, invece, egli veniva fustigato e
assegnato al derubato, che disponeva di lui come di uno schiavo.

Tornando ai casi in cui il furto legittimava l’uccisione del ladro: in questi casi la vendetta veniva autorizzata e
legittimata dalla civitas, ma non veniva imposta. Chi sorprendeva il ladro, se voleva, poteva accettare una
compensazione in denaro, grazie alla quale il ladro evitava la morte.
Come scrive Ulpiano, infatti, la legge permette di accettare una pactio per i furti.
La formula che in questi casi consentiva la vendetta di sangue, infatti, suonava “sia ucciso legittimamente”. E “sia
ucciso legittimamente” significava, appunto, che il ladro poteva, non che doveva essere ucciso. La regola, in altri
termini, considerava “legittima” l’uccisione del ladro, ma non la rendeva obbligatoria.

Il furto era un delitto laico. La civitas, pertanto, non aveva alcuna ragione di imporre l’uccisione del ladro. Quel che le
interessava era solo controllare la vendetta di sangue, riaffermando, anche in questo caso, il suo diritto esclusivo di
stabilire quali erano i comportamenti che meritavano la morte.

Così come la pena del taglione prevista per le lesioni personali, la pena di morte inflitta ai ladri rivela in modo ancor
più evidente e immediato delle norme sull’omicidio i modi in cui la città, controllando progressivamente l’uso della
forza privata, trasformò i vendicatori privati in “agenti” autorizzati a usare la forza in nome e per conto della
collettività. Le vittime del furto continuavano a ottenere la soddisfazione sociale e psicologica cui ritenevano di avere
diritto: e al tempo stesso, nel far questo, affermavano il principio che il furto, così come l’omicidio, era un
comportamento intollerabile per l’intero corpo sociale, di fronte al quale era interesse comune reagire, infliggendo
un male al trasgressore per il bene di tutti. La loro vendetta era una pena cittadina.

Potrebbero piacerti anche