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LA VENDETTA, DAL DESIDERIO ALLE ISTITUZIONI

di Gérard Courtois 1
trad. di Licia Colombo

I. Il rifiuto della vendetta

1. Il dispositivo

Da molto tempo la vendetta è sottoposta a un rifiuto insistente. Il suo concetto è


richiamato solo per essere escluso dalla vita morale e giuridica. Spesso rientra nei discorsi
dei filosofi o dei giuristi per far valere il suo opposto, ovvero la giustizia anonima dello
stato. È diffusa ovunque la credenza che la giustizia di un ordine sociale sia proporzionale
all'allontanamento dai metodi e dallo spirito della vendetta. La vendetta è più oggetto di
biasimo che di analisi e appare sempre caratterizzata da quattro aspetti negativi.
La vendetta, si dice anzitutto, è inefficace. La controffensiva del vendicatore,
invece di sedare il conflitto nato dalla prima aggressione, non fa che rilanciare la violenza.
La vendetta non cesserebbe mai di concatenare compensazioni e contro-compensazioni.
Hegel, con molti altri, dà ragione di questa inefficacia che dà per certa. Per il fatto che
l'offeso interviene spinto dal sentimento e secondo il suo punto di vista, la riparazione,
anche se giusta in sé, si presenta come una nuova violenza; agli occhi del primo offensore
non appare come la realizzazione del diritto violato e provoca nuove vendette all'infinito,
senza possibilità di espiazione. La vendetta

è giusta secondo il contenuto in quanto essa è retribuzione. Ma


secondo la forma essa è l'azione di una volontà soggettiva,
volontà che può porre in ciascuna lesione avvenuta la sua infinità
e la cui giustizia perciò è in genere accidentale, così come tale
volontà anche per l'altro è soltanto come particolare. Per il fatto
che essa è come azione positiva di una volontà particolare, la
vendetta diviene una nuova lesione: intesa come questa
contraddizione essa cade nel progresso all'infinito e si trasmette
in eredità di generazione in generazione senza limite 2.

René Girard, in questo molto vicino a Hegel, vede nella vendetta «un processo
infinito, interminabile» 3. Paradigma dei disordini "mimetici", porta le società alla

1 Gérard Courtois, La vengeance, du désir aux institutions, in Gérard Courtois (éd.), La


vengeance dans la pensée occidentale, Cujas, Paris 1984, pp. 7-45; trad. it. di Licia Colombo.
2 G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di Giuliano Marini, Laterza, Bari
1995, § 102, p. 92; cfr. Id., Propedeutica filosofica, a cura di Giorgio Radetti, Sansoni, Firenze
1951, § 21, I, pp. 46-47. Dallo Spirito del Cristianesimo e il suo destino (1798-1799) ai
Lineamenti di filosofia del diritto (1821) Hegel ha meditato sul carattere polivalente della vendetta
(cfr. J.-Ph. Guinle, Hegel et la vengeance, in Gérard Courtois (éd.), La vengeance dans la pensée
occidentale, cit., pp. 203-217).
3 R. Girard, La violence et le sacré, Grasset, Paris 1972, trad. it. di Ottavio Fatica e Eva
Czerkl: La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 19801, p. 31.
reiterazione rovinosa di un primo assassinio 4. Paradigma della violenza, essa partecipa
prima di tutto delle forze terribili del sacro, che si prendono gioco dell'uomo quanto più
questi ha la pretesa di controllarle 5.
Ancora, la vendetta è senza misura. Severa o lassista, è comunque incapace di
assicurare l'equilibrio di aggressione e riparazione. Il solo sentimento della collera che la
anima sarebbe il più lontano dall'idea di eguaglianza inerente la giustizia. Per Seneca, la
collera è una passione «sfrenata ed indomabile». La ragione non può né moderarla né
collaborare con essa: «mai la ragione chiamerà in aiuto impulsi dissennati e violenti, sui
quali non ha alcun potere» 6. Kant, che pure ritiene lo jus talionis «l'unico principio a
priori del diritto penale», precisa che solo un tribunale può rendere eguali in modo
efficace la qualità e la quantità del danno e della riparazione 7. F. Tricaud nota che il
"regolamento di conti" fra le parti delle vendetta non sa valutare il giusto peso
dell'affronto e della ritorsione perché «la saggezza delle nazioni è sufficiente a ricordarci
che usiamo una misura differente per valutare il nostro danno e quello dell'altro,
soprattutto se quest'ultimo è un avversario» 8.
La vendetta costituisce anche un concetto che respinge la costruzione di una
"storia del diritto penale". Il modello è semplice: poiché la vendetta è lo "stadio" più
arcaico (nel doppio senso temporale di priorità cronologica ed assiologica del regno del
puro fatto), il senso e la realtà dell'evoluzione penale si ridurrebbero facilmente a una
gradazione crescente del rifiuto della vendetta, culminando nel monopolio statale della
punizione. Questo schema lineare è stato messo a punto dalla sociologia comparata dei
diritti primitivi alla fine dell'Ottocento 9. Prima di esporre la sua teoria sui delitti privati
nel diritto romano, P. F. Girard afferma che, riguardo alla questione del fondamento
generale del sistema,

esiste un'unica risposta. Il fondamento del sistema è di tipo


storico. Il sistema dei delitti privati romani, come le istituzioni
parallele di molti altri popoli, si spiega unicamente come una
tappa della storia del diritto penale, dell'evoluzione compiuta
normalmente da tutti i popoli che sono giunti alla nozione
moderna di delitto pubblico punito dallo stato, evoluzione che è
possibile ricondurre a quattro fasi: la fase della vendetta privata,

4 R. Girard, Des choses cachées depuis la fondation du monde, Grasset & Fasquelle, Paris
1978, trad. it. di Rolando Damiani: Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi,
Milano 1983, pp. 25 sgg.
5 R. Girard, La violence et le sacré, trad. cit., passim.
6 Seneca, De Ira, I, X, 1 [si utilizza la traduzione di Nino Marziano, Mursia, Milano 1987].
7 Cfr. I. Kant, La metafisica dei costumi, trad. it. a cura di G. Vidari, Laterza, Roma-Bari
1973, p. 165.
8 F. Tricaud, L'accusation, recherche sur les figures de l'aggression éthique, Paris 1977, p.
71. Questo testo pregevole mira a sottrarre la vendetta all'eccesso di misconoscimento nel quale
è caduta.
9 Cfr. Le Tourneau, L'évolution juridique dans les différentes races humaines, Paris 1891,
pp. 22 sgg. e le risposte di diversi specialisti al questionario di T. Mommsen pubblicate sotto il
titolo Zum ältesten Strafrecht der Kulturvölker, Duncker-Humblot, Leipzig 1905; R. Garraud,
Traité théorique et pratique de droit pénal français, 1911, I, pp. 101 sgg.

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quella delle composizioni volontarie, quella delle composizioni
legali e quella della repressione da parte dello stato 10.

Si contesta infine l'intenzione stessa della vendetta. La giustizia penale non


sarebbe rivolta al passato e alla sua riparazione ma al controllo del futuro. Le pene
sarebbero mezzi per rinforzare le leggi e sviluppare la loro efficacia. Avrebbero come
fine l'emendamento dei colpevoli e, mediante il loro potere esemplare, sarebbero parte di
una politica di prevenzione.
La sostanza della questione penale risiederebbe nel confronto fra il colpevole e la
legge; la vittima passa in secondo piano nel dibattito e la sua lesione è solo l'occasione
per un esame della personalità dell'aggressore. Per Protagora e Platone, che inaugurano
questo modo di vedere, la legge penale deve portare il delinquente e quelli che lo
vedranno punire a detestare l'ingiustizia e a riconciliarsi con le leggi.

Nessuno punisce i colpevoli tenendo presente il fatto che hanno


commesso ingiustizia e per il fatto che l'hanno commessa, chi,
almeno, non voglia vendicarsi irrazionalmente come una bestia;
chi, invece, si pone a punire, seguendo ragione, non pretende
vendicarsi dell'avvenuto misfatto [...], ma punisce pensando al
futuro, sì che più non commetta la colpa, né lo stesso colpevole
né chi lo vede punito 11.

La città delle Leggi riprenderà questa tesi sofistica. Una volta pagato il danno, «la
legge [...] costringerà [il colpevole] per l'avvenire assolutamente o a non osare più di
commettere, volontariamente [azioni ingiuste], o a limitare moltissimo il numero dei suoi
errori» 12.
I teorici del diritto moderno non si esprimono diversamente. La settima legge di
natura di Hobbes richiede che il diritto penale non consideri più la grandezza del male
passato, ma solamente quella del bene che può produrre:

La vendetta che non tenga conto dell'esempio e del vantaggio a


venire è un trionfo o un gloriarsi del male di un altro senza alcun
fine (poiché il fine è sempre qualcosa a venire). Ora, il gloriarsi
senza alcun fine è vanagloria ed è contrario alla ragione 13.

Beccaria propone una concezione "utilitaristica" delle pene:

10 P. F. Girard, Manuel élémentaire de Droit Romain, 1929, pp. 420 sgg. (con una biografia
per un gran numero di popoli, p. 420n). La teoria si complica negli autori più recenti ma il suo
principio resta lo stesso (cfr. M. Kaser, Das römische Privatrecht, München 19712).
11 Plat. Protag. 324a-b [si utilizza la traduzione di Francesco Adorno, in Opere complete,
Laterza, Roma-Bari 1975, V, pp. 92-93].
12 Plat. Leg. IX, 862d [si utilizza la traduzione di Attilio Zadro in Opere complete, Laterza,
Roma-Bari 1971, IX, p. 302]; ibi, XI, 934a; Gorg. 525b-c.
13 T. Hobbes, Leviatano, I, 15 [si utilizza la traduzione di Arrigo Pacchi con la
collaborazione di Agostino Lupoli, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 124].

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Il fine [delle pene] dunque non è altro che d'impedire il reo dal far
nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne
eguali 14.

Per Bentham la pena "utile" ha come unica ragione di essere un mezzo generale
di prevenzione. È anche un «servizio imposto a quelli che la subiscono per il bene della
società» 15.

2. Il sospetto

È così stabilito un dispositivo teorico che nega alla vendetta un posto nella
costituzione della giustizia. La vendetta è inefficace, senza misura, intempestiva e
superata, irrazionale nel suo stesso principio: questi temi costituiscono l'armatura
dell'opinione comune e filosofica sulla questione, ciascuno di essi riconduce agli altri e
la loro solidarietà ha la densità di un sistema 16. È tuttavia possibile che, a forza di
respingere la vendetta nell'ingiustizia e nell'irrazionale, la sua nozione ci sia diventata
oscura e inafferrabile. Ammettendo, con Hegel, che «la vendetta è perpetua ed infinita
nei popoli non civilizzati» 17, non ci si è impedita la comprensione delle condizioni del
funzionamento reale di una forma di interazione sociale la cui universalità è una delle
meglio attestate? Questo sospetto si rinforza con una constatazione: nella tradizione
occidentale i giudizi negativi sulla vendetta non compaiono in ogni tempo e in ogni
discorso, ma solo quando il coinvolgimento del cittadino negli scambi sociali rifluisce
davanti alla socializzazione statale degli individui e solo negli autori che annunciano o
riflettono le implicazioni etiche di questo cambiamento.
Nella storia della filosofia, la critica dei princìpi della vendetta è opera della scuola
stoica. Questa filosofia, che ci richiede di non reagire agli attacchi degli altri, si sviluppa
nel momento in cui la città sprofonda. L'individuo stoico si scopre nella sua solitudine. Il
suo ideale non è più quello di essere riconosciuto dai concittadini o di dare buoni consigli
in un'assemblea politica. Egli ha di mira l'autonomia individuale sotto un potere pubblico

14 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di Franco Venturi, Einaudi, Torino 1978, §
12, p. 31.
15 J. Bentham, General View, in The Works, ed. Bowring, rist. Russell & Russell, New York
1962, I, 12, p. 179.
16 Kant e Hegel ammettono che lo jus talionis sia la forma della giustizia. Essi rifiutano
dunque, nella loro critica a Beccaria, di rapportare la ragione della pena all'utilità comune, ma
sostituiscono il punto di vista pubblico a quello della vittima. La parte lesa per loro è il pubblico
o la legge universale. Per Hegel occorre tenere di vista «il crimine non come produzione di un
danno, ma come violazione del diritto in quanto tale» (Lineamenti di filosofia del diritto, ed. cit.,
p. 99). Entrambi mantengono il taglione non come principio di giustizia che regola i rapporti fra
membri dell'ordine giuridico, ma come il principio in base a cui il diritto in quanto tale riafferma
la sua validità e la sua autorità contro un trasgressore particolare.
17 Hegel, ibi, aggiunta al § 102 (in Sämtliche Werke, Jubiläümsausgabe, Frommann,
Stuttgart 192, VII, p. 161).

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già diventato stato 18. Ci si deve stupire se è il poeta tragico meno coinvolto nella vita
della città a criticare la vendetta? Mentre Eschilo, nelle Coefore (vv. 120-121) confondeva
giustiziere e vendicatore, Euripide non parla più di «assassinio vendicatore» se non per
sottolinearne l'ingiustizia (Elettra, vv. 1093-1096). Considera solo l'orrore delle vendette,
fino a non comprenderne più il senso 19. In Euripide il legame sociale non ha valore
costitutivo per l'individuo. Al suo posto si sviluppa una psicologia che insiste sul carattere
irrazionale delle passioni e delle emozioni coinvolte nei conflitti, nella quale si riconosce
già l'anima "moderna". A questo disordine interiore, che non ha correttivi nella città o
negli dèi, resta come soluzione la fuga «lontano dalla città, lontano dagli uomini, lontano
dalla sofferenza» 20. A Roma la critica stoica della vendetta si impone con la decadenza
della città e il suo rifiuto dal parte dello stato 21. Seneca scrive il De Ira, analisi
sorprendentemente moderna delle tesi che affermano l'esclusione teorica della vendetta a
vantaggio del diritto penale statale. Come ha mostrato Hegel, Seneca è il filosofo che
riflette sulle condizioni della vita nello stato quando il fatto civico è ormai morto. Colui
che ci "consola" della perdita della soggettività antica e che ci insegna a praticare sotto la
tutela dello stato i doveri dell'umanesimo universale è anche il critico sistematico della
vendetta.
Il dispositivo teorico sul quale ci fondiamo ha assunto i suoi tratti essenziali nel
momento in cui la gestione degli scambi sociali diventa compito dello stato 22. In questo
momento la forma dell'individualità subisce una doppia mutazione: l'individuo si scopre
come coscienza privata e si vede rappresentato socialmente nel diritto privato come
persona giuridica astratta, indifferente ai poteri reali di cui dispone negli scambi sociali
concreti. Perciò ci è sembrato che, per riflettere sulla vendetta e per evitare di ripetere il
divieto che il punto di vista statocentrico fa pesare su essa, sia opportuno rileggere i testi
della tradizione occidentale alla luce di un'altra esperienza giuridica, quella dei popoli per

18 Nella loro teoria della causa gli stoici pongono i quadri concettuali della critica della
vendetta (cfr. G. Courtois, Il senso e il valore della vendetta in Aristotele e Seneca, infra).
19 Cfr. S. Saïd, La tragédie de la vengeance, in Gérard Courtois (éd.), La vengeance dans
la pensée occidentale, cit., pp. 47-90.
20 J. De Romilly, Précis de littérature grecque, PUF, Paris 1980, p. 102. Con l'autore, si
ricorderà che Euripide è il poeta della rinuncia serena alla vita. I suoi eroi, Macaria ne Gli Eraclidi,
Megara nell'Eracle e soprattutto Polissena nell'Ecuba, Meneceo nelle Fenicie o Ifigenia in
Ifigenia in Aulide superano la loro misera sorte insistendo sulla libera accettazione della morte o
sulla gloria da questa implicata (cfr. L'évolution du pathétique d'Eschyle à Euripide, Les Belles
Lettres, Paris 1980, p. 120).
21 Fra il I secolo a. C. e il I secolo d. C. molti autori compongono trattati sulla collera:
Posidonio, Cicerone che affronta la questione da un punto di vista strettamente stoico (non
avviene sempre così) nella Quarta Tuscolana, l'epicureo Filodemo, Sozione di Alessandria,
Seneca, Plutarco (cfr. A. Bourgery, Introducion au De Ira de Sénèque, Les Belles Lettres, Paris
1922). È fra la fine del II secolo a. C. e il regno di Silla che le cause di assassinio, furto e adulterio
passano da cause private, al di fuori dell'influenza di un giudice o di un arbitro, a cause pubbliche
che mettono in gioco il corpo sociale intero, punite in nome suo dai tribunali delle quaestiones
(cfr. Y. Thomas, Se venger au Forum. Solidarités traditionnelles et système pénal à Rome, in R.
Verdier - Y. Thomas (éds.), Vengeance, pouvoirs et idéologies dans quelques civilisations de
l'antiquité, Cujas, Paris 1980).
22 Cfr. J.-L. Vullierme, La juste vengeance d'Aristote et l'économie libérale, in Gérard
Courtois (éd.), La vengeance dans la pensée occidentale, cit., pp. 169-201.

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i quali la vendetta è una pratica pubblica riconosciuta collettivamente. La nostra ricerca
deve dunque congiungere due linee: la presa d'atto delle pratiche e dei valori della
vendetta che ci sono resi noti dai lavori di antropologi e storici 23 e il reperimento nel
discorso occidentale dei momenti forti di un pensiero della vendetta 24.
Il nostro studio permette di formulare due grandi conclusioni: lo studio della
vendetta deve distinguere dal momento vendicativo puro una logica vendicatoria. Dove
sono riconosciute legittime, le vendette non sono mai esercitate senza essere inscritte nei
costumi o nelle istituzioni. Queste considerazioni determineranno l'articolazione degli
elementi costitutivi di una teoria della vendetta.

II. ELEMENTI PER UNA TEORIA DELLA VENDETTA

1. Dal desiderio di vendetta alla logica vendicatoria

La questione della vendetta resta irrimediabilmente vaga se non si distinguono un


registro del vendicativo e un registro del vendicatorio. Il desiderio vendicativo si riferisce
a tutta l'energia passionale della collera, tesa all'abreazione più o meno violenta di un
trauma. Quando Freud costruisce la sua teoria dell'isteria, propone di chiamare abreazione
la scarica emozionale che il soggetto deve in qualche modo effettuare per mantenere
costante la tensione dell'apparato psichico che è stata aumentata pericolosamente da
un'aggressione 25. La necessità di abreagire gli affetti è all'opera nel desiderio di vendetta:
così Freud approda naturalmente al nostro oggetto di indagine. Egli fa della vendetta uno

23 Il nostro lavoro è parte di una ricerca pluridisciplinare condotta nell'ambito del seminario
Cultures et langages juridiques, costituito nel 1974 per iniziativa di R. Verdier. Nei primi tre tomi
delle nostre pubblicazioni si trovano i lavori che hanno contribuito a precisare il nostro concetto
di vendetta. Vi faremo riferimento frequentemente.
24 La nostra indagine è limitata al pensiero occidentale. Si tratta di una scelta arbitraria in
due sensi. Le teorie "non occidentali" della vendetta non sono qui state prese in considerazione
(nel terzo tomo si trova tuttavia uno studio sulla vendetta nell'India brahmanica). Questa
esclusione dipende, per motivi empirici, dalle competenze dei membri del nostro seminario.
Tuttavia, poiché il rifiuto della vendetta è uno degli aspetti più profondi della nostra cultura, ci è
parso necessario restituire, in se stessa, la forma occidentale della teoria della vendetta. Infine, se
si ammette che la vendetta è parte dello "spirito oggettivo" dei popoli di tradizione orale, si
riconoscerà ancora il marchio forte della loro teoria in questo studio. L'altra ragione
dell'arbitrarietà della scelta è il tentativo di evitare una certa presunzione. Era senza dubbio vano
cercare, in poco più di duecento pagine, di determinare una teoria occidentale della vendetta
quando drammaturghi, romanzieri, psicologi, teorici del diritto, filosofi, "autori" religiosi se ne
sono occupati in tutte le epoche. Abbiamo scelto di privilegiare il punto di vista dei teorici perché
crediamo che nella filosofia possano essere reperiti i diversi momenti di una teoria della vendetta.
Non potevamo però lasciare fuori dalla nostra ricerca gli "avvenimenti" maggiori della tragedia
greca e del cristianesimo, perché li si incrocia ad ogni svolta della riflessione occidentale. Si
troverà perciò in queste pagine uno studio dedicato ad entrambi.
25 Il soggetto può anche correggere e annullare un trauma psichico integrandolo per
associazione con altre rappresentazioni. Senza questo lavoro di associazione e senza abreazione
la "mortificazione" del soggetto apre la strada alla conversione isterica dell'affetto o al suo
spostamento nell'ossessione (cfr. J. Breuer e S. Freud, Studi sull'isteria, 1886-1895, in S. Freud,
Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1967, I).

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dei modi dell'abreazione, accanto alle repliche verbali, alle lacrime ecc., ed enuncia la
legge: «quanto più intenso è stato il trauma psichico, tanto più forte è la reazione
adeguata» 26. Dal punto di vista del soggetto, la reazione migliore appartiene all'ordine
dell'agire; scrive Freud:

La reazione della persona colpita dal trauma ha propriamente un


effetto "catartico" completo solo quando è una reazione adeguata,
come la vendetta 27.

La vendetta come pulsione vendicativa è una reazione a scopo catartico, ma trova


in ciò stesso la misura della sua violenza?
Se si pensa che il vendicativo come tale appartenga al solo registro immaginario,
è giusto temere che i furori della vendetta non siano sottomessi ad alcun limite 28. Finché
domina la relazione speculare, mancano le differenze che permetterebbero di considerare
l'altro e il suo atto, anch'esso limitato, come eventuale responsabile di un attacco
circoscritto. Nell'immaginario l'altro rischia di apparire un deprivatore di essere, un
grande castratore, e nessuna punizione limitata sembra poter colmare il vuoto prodotto
dalla sua aggressione 29. Seneca, meglio di chiunque altro, ha avvicinato quello che può
diventare il teatro crudele della vendetta ridotta alla pulsione vendicativa:

Bisogna mostrare il suo furore sfrenato e sbigottito e renderle il


suo armamentario, cavalletti e corde e prigioni e fuochi accesi
intorno ai corpi impalati e addirittura l'uncino per trascinare i
cadaveri e i vari tipi di catene, di supplizi, lo slogamento delle
membra, i marchi sulla fronte, le gabbie delle bestie feroci 30.

In base alla legge di Freud, la vendetta si misura sulla mutilazione incalcolabile


che prova il soggetto 31. Inoltre, quando il vendicatore è coinvolto in una relazione
mimetica, binaria, la sua posizione e quella del suo aggressore tendono a scambiarsi e a
confondersi. Il gesto vendicativo riproduce la [prima] ferita. In definitiva si tratta meno
di suturarla che di effettuarla, come se l'atto reattivo fosse in realtà l'atto originario, per il

26 S. Freud, Meccanismo psichico dei fenomeni isterici, ibi, II, p. 98


27 S. Freud, Studi sull'isteria, ed. cit., I, p. 180.
28 Sulla distinzione fra immaginario, simbolico e reale rinviamo agli studi di J. Lacan, in
particolare: Le stade du miroir comme formateur de la fonction du Je (1949), Le Séminaire sur la
lettre volée (1955), Situation de la psychanalyse (1956), in Ecrits, Paris 1966.
29 Seguiamo su questo aspetto le osservazioni di G. Nicolas, La question de la vengeance
au sein d'une société soudanaise, in R. Verdier (éd.), Vengeance et pouvoir dans quelques sociétés
extra-occidentales, Cujas, Paris 1980, II.
30 Seneca, De Ira, III, 3, 6.
31 La letteratura ha spesso affrontato la tematica del desiderio di annientamento totale
dell'altro, che opera nella pulsione vendicativa pura. In Colomba Prosper Mérimée mostra l'eroina
pronta a tutto per ottenere la morte di tutti i Barricini maschi che hanno ucciso suo padre.

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fatto che il vendicatore si identifica con il suo protagonista. Al limite, l'operazione
vendicativa diviene di fatto l'alibi di un gesto di mutilazione primordiale 32.
Euripide ha ben mostrato con Medea l'impasse della vendetta nel registro
immaginario. Per vendicarsi di Giasone, Medea distrugge tutto ciò che ancora conta nella
sua vita. Uccidendo i figli che ama (Euripide insiste su questo punto, vv. 1024-1035,
1070-1075), ella elargisce in modo suicida la ferita originaria dalla quale intendeva
guarire.
Non si può negare la forza di queste considerazioni, anche se il vero problema è
sapere se si deve derivare uno studio della vendetta dalla sola analisi della sua iscrizione
nell'immaginario. Si noterà in primo luogo che J. Lacan non ha smesso di insistere sulla
supremazia del simbolico sull'immaginario:

Come è noto, è nell'esperienza inaugurata dalla psicanalisi che è


possibile cogliere attraverso quali vie dell'immaginario si
esercita, fino al luogo più intimo dell'organismo umano, questa
presa del simbolico 33.

La distinzione lacaniana di immaginario e simbolico (se ci atteniamo ad essa) non


instaura una dicotomia insormontabile. L'immaginario è sempre intaccato dalla legge
dello scambio linguistico che costituisce l'essere dell'uomo, e così «nessun immaginario
funziona mai abbastanza allo stato puro perché non lasci supporre che l'altro comprenderà
la ritorsione come un segno» 34. La vendetta si rivela sempre, nell'esperienza dei popoli
che la praticano, relativa a una "legge" che fissa, per una gerarchia di oltraggi, quella delle
risposte significanti autorizzate.
Aristotele è il massimo teorico di questa articolazione del desiderio di vendetta e
dell'ordine etico e politico 35. In lui non si trova una dicotomia manichea fra passioni
essenzialmente disordinate e un ordine sociale o razionale che si impone ad esse solo
dall'esterno e a prezzo della loro sottomissione 36. La collera vendicatrice è parte delle
passioni che sanno ascoltare i consigli della ragione e tenere conto dei suoi avvisi, come
«si tien conto del padre e dei figli» 37. La collera è un movimento globale dell'individuo,
«dell'anima unita al corpo», che mira a superare una messa in causa sprezzante o
oltraggiosa e ritrovare integrità e calma. A. Smith — lettore molto attento di Aristotele

32 G. Nicolas, op. cit.


33 J. Lacan, Le stade du miroir comme formation de la fonction du Je, Le Seuil, Paris 1966,
pp. 11, 51-52, 546, 728.
34 J. Clavreul, Le vengeur et l'auteur de la loi, in G. Courtois (éd.), La vengeance dans la
pensée occidentale, cit., pp. 243-253.
35 Cfr. G. Courtois, op. cit.; J.-L. Vullierme, op. cit.
36 Questa dicotomia (stoica) costituisce al contrario un quadro per la riflessione sulla
vendetta da parte dei fondatori della scuola del diritto naturale moderno (cfr. G. Courtois, Hugo
Grotius. La bonne et la mauvaise vengeance, in Gérard Courtois (éd.), La vengeance dans la
pensée occidentale, cit., pp. 137-152.; P. F. Moreau, La vengeance dans le droit naturel et dans
le droit de la nature, in Gérard Courtois (éd.), La vengeance dans la pensée occidentale, cit., pp.
153-157).
37 Cfr. Arist. Eth. Nic. I, 13, 1102b30 sgg. (trad. it. di Armando Plebe, in Opere, Laterza,
Roma-Bari 1973, VII, p. 28).

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— ha presentato un modello di soppesamento dei sentimenti da parte dell'opinione
pubblica che viene applicato in particolare al sentimento della vendetta 38. Dalla simpatia
che lega gli uomini e i gruppi deriva la pietà, che ci mette con l'immaginazione al posto
di colui che soffre:

Il sentimento di partecipazione indolente e passivo con cui lo


accompagniamo nelle sue sofferenze cede subito il posto a quel
sentimento più vigoroso e attivo che ci fa condividere lo sforzo
che lui fa per respingerle […]; ci rallegriamo nel vederlo a sua
volta dar contro al suo avversario, e siamo ansiosi e pronti ad
assisterlo quando si sforza di difendersi, o, entro certi limiti,
persino quando cerca di vendicarsi 39.

Il sentimento del vendicatore, come ogni sentimento, è dotato di una certa inerzia
e, lasciato a se stesso, proseguirebbe assai a lungo, prima di essere soddisfatto. Tuttavia,
per compiere ciò che desidera, chi si vendica ha bisogno dell'aiuto e del sostegno altrui.
Ora, l'identificazione degli altri, dal punto di vista di Adam Smith, è la chiave della loro
alleanza. Da qui, tutto ciò che nella ricerca di vendetta suscita simpatia verrà favorito,
mentre tutto ciò che suscita indifferenza o ostilità si rivelerà vano e senza forza. Grazie
all'immaginazione simbolica, che elimina la particolarità e rafforza chi sarebbe solo uno
"spettatore imparziale", la vendetta può essere mantenuta entro limiti accettabili ed
approvati dall'opinione pubblica.
La vendetta non va confusa con odio e risentimento. L'odio non è il movente della
collera vendicatrice, perché l'odio desidera in modo puro e semplice la soppressione
dell'altro, mentre la collera non è separabile dal linguaggio. Essa rende il male che infligge
una risposta e un segno. Perseguita il suo aggressore per imporgli un "segno" di potere,
al fine di fargli riconoscere un valore che ci ha negato 40. La collera vendicativa si
distingue poi dal risentimento. Nietzsche ha fatto del "padrone" l'uomo della vendetta e
dello "schiavo" l'uomo del risentimento 41. Max Scheler, seguendolo, nota che il
desiderio di vendetta diviene risentimento quando si accompagna al sentimento
dell'impotenza a tradursi in atto. Coloro che si vendicano ignorano il risentimento, che è

l'esperienza e il la rimuginazione di una reazione affettiva diretta


contro un altro, che permettono a questo sentimento di aumentare
in profondità e di penetrare poco a poco nel cuore stesso della
persona, abbandonando l'ambito dell'espressione e dell'attività
42.

38 Cfr. il coerente studio di A. Smith in J.-L. Vullierme, op. cit.


39 A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, trad. it. di S. Di Pietro, Rizzoli, Milano 1995, p.
185.
40 Cfr. Arist. Rhet. II, 4, 1382a3-15.
41 Cfr. A. Kremer-Marietti, Nietzsche et la vengeance comme restitution de la puissance, in
Gérard Courtois (éd.), La vengeance dans la pensée occidentale, cit., pp. 153-157.
42 M. Scheler, Das Ressentiment im Aufbau der Moralen, in Umsturz der Werte, Der Neue-
Geist-Verlag & Reinhold, Leipzig 1923, I, p. 51.

9
Il risentimento, come l'isteria, proviene dunque dall'impossibilità del soggetto di praticare
l'abreazione catartica di un affetto. Dopo il rifiuto istituzionale e ideologico della
vendetta, è sintomatico che la modernità ci abbia lasciato una teoria del risentimento
mentre l'antichità meditava piuttosto sull'abreazione collerica 43.

Un'analisi puramente psicologica della vendetta è in verità insufficiente, poiché il


vendicativo puro è già integrato in un ordine simbolico che gli offre il solo mezzo per
inscriversi in modo durevole nella realtà sociale. Ma è necessario procedere oltre: i
rapporti vendicatori, il più delle volte, si impongono agli attori della vendetta. I sistemi
vendicatori che costituiscono come dei codici della vendetta sono portatori di norme e
doveri della vendetta. Anche se è vero che un sistema vendicatorio non potrebbe essere
vitale senza essere supportato da un desiderio generale di vendetta, è altrettanto vero che
esso prescrive caso per caso doveri di vendetta che vanno compiuti anche in assenza del
sentimento corrispondente. Gli atti di vendetta sono il più delle volte praticati "a freddo".
Quando un parente o un alleato sono aggrediti, bisogna rispondere. Ma lo zelo del
vendicatore non è mai garantito, né è assicurata la riuscita della vendetta. Gli offesi
mettono in gioco, in queste dispute, la loro considerazione sociale e la loro identità. Da
qui le molteplici pratiche che mirano a ottenere l'esecuzione dell'obbligo dal vendicatore.
Presso i Maenge della Nuova Bretagna, «i nomi personali attribuiti solennemente alla
nascita e sempre impiegati durante la vita […] per buona metà […] non dicono altro che
"suo zio è rimasto invendicato" o "il prezzo convenuto non è stato pagato"» 44. Al ricordo
ossessivo dell'obbligo altri preferiscono sostituire privazioni o angherie fino alla
realizzazione della vendetta. L'arabo pre-islamico giurava solennemente di rinunciare ai
piaceri del mondo (vino, carne, donne, profumi ed abluzioni) finché non avesse compiuto
il suo dovere 45.
Questo dovere dei vendicatori è il rovescio di un debito contratto dagli aggressori
e la vendetta di sangue è come l'ultimo atto di uno scambio di valori negativi. I popoli
che praticano la vendetta ne parlano in termini di debito in una contabilità inter-gruppale.
Quando, all'interno di un'etnia, un sottogruppo A infligge una perdita a un sottogruppo B,

43 Aristotele non elabora una teoria del risentimento ma ritiene che la collera non sia un
automatismo psicologico. Non è separabile da un certo rapporto di forze: chi prova timore non
può essere in collera. Per farlo, bisognerebbe che concepisse la vendetta come possibile, dato che
la collera è un'anticipazione della vendetta in atto (cfr. Rhet., II, 2).
44 M. Panoff, Homicide et vengeance chez les Maenge de la Nouvelle-Bretagne, in R.
Verdier (éd.), Vengeance et pouvoir dans quelques sociétés extra-occidentales, Cujas, Paris 1980,
II. L'educazione delle orfane in funzione della loro "macchia" futura è ancora attestata nella
Grecia classica, cfr. Lisia, Contro Agorato, 40-42.
45 Cfr. J. Chelhod, Le droit dans la société bédouine, Paris 1971, p. 275. Numerosi esempi
simili nella Grecia arcaica in G. Glotz, La solidarité de la famille dans le droit criminel en Grèce,
Paris 1904, pp. 54-55. Nella Frisia del XIII secolo la famiglia conservava il cadavere del defunto
in una stanza dell'abitazione fino a quando non era stata ottenuta vendetta. Gli studiosi di oggi
discutono se non si trattasse forse di un modo di provare ad ottenere dal tribunale la consegna del
colpevole ai parenti della vittima perché fosse giustiziato. Notiamo semplicemente che Tommaso
di Cantimpré (nostra fonte nella fattispecie) afferma che non si sotterrava il cadavere «prima di
avere vendicato l'assassinio con una morte sostitutiva» (cfr. H. Platelle, Vengeance privée et
réconciliation dans l'oeuvre de Thomas de Cantimpré, "Révue d'Histoire du Droit", XLII - 2, pp.
269 sgg).

10
lo squilibrio comparso nella loro relazione produce un debito del primo nei confronti del
secondo; come le regole dell'esogamia prevedono che un gruppo che ha dato una donna
in sposa a un altro sia creditore di un'altra donna 46.
In Omero, la vendetta si presenta letteralmente come un regolamento di conti.
Quando il troiano Acama ha vendicato il fratello ucciso da Promaco, grida agli Argivi:
«Guardate come dorme Promaco, vinto dalla mia lancia perché la morte di mio fratello
non resti a lungo senza vendetta» 47.
Achille non vuole più vivere finché Ettore non avrà «perduto la vita e pagato così
il crimine di aver fatto di Patroclo la sua preda» 48. Prima della distinzione netta
dell'economico e del penale, si nota l'esistenza di un vocabolario dello scambio che si
applica indifferentemente a valori positivi o negativi. Si ricorre allo stesso lessico —
pagamento, debito, credito, rimborso ecc […] — per riferirsi alla circolazione dei beni,
delle donne e delle violenze. Fra molti esempi africani, citiamo un certo numero di
sostantivi e di verbi della lingua Hausa, così come sono stati tradotti in inglese 49:
- rāmūwā: retaliation, rewarding, paying back, compensation, repayment;
- sākāmakō: requital, recompense (good for good, evil for evil), return of kindness;
- fansā: redemption for slavery, ransom, revenge, repaying for kindness;
- rāmā: repaid action for (good with good or evil for evil), take one's revenge, give in
place of, compensate.
Come nota G. Nicolas, presso gli Hausa il concetto di vendetta può essere espresso
solo per mezzo di termini ambivalenti, con il senso generale di restituzione reciproca. È
il contesto ad indicare se l'atto reso è buono o malvagio 50.

46 La vendetta è considerata «un dovere che una delle parti è tenuta ad accettare, l'altra ad
esigere» (R. Verdier, Le système vindicatoire, in R. Verdier (éd.), Vengeance et pouvoir dans
quelques sociétés extra-occidentales, Cujas, Paris 1980, I, p. 17). Rinviamo ai numerosi esempi
da lui forniti (ibi, pp. 17-18). Il "debito" è a carico del gruppo dell'aggressore, ma allo stesso
tempo lo studio del vocabolario della vendetta mostra che essa può essere concepita come
qualcosa che è a carico del vendicatore. Per i Bulsa vendicare (e non subire una vendetta) si dice
tuni (pagare), pami (debito). Un Bulsa può così affermare: «Ad ogni modo (con l'autorità statale),
non ricorrerai a lungo alla tua forza per restituire il tuo debito (sottolineatura mia)» (R. Schott,
Vengeance and violence among the Bulsa of Northern Ghana, in R. Verdier (éd.), Vengeance et
pouvoir dans quelques sociétés extra-occidentales, Cujas, Paris 1980, I, p. 183). Per i Kabili la
famiglia colpita "deve" un morto per rimborsare il "prestito di cadavere" che ha rappresentato il
crimine iniziale.
47 Omero, Iliade, XIV, 483-484 (trad. it. di Maria Grazia Ciani, in Opere, UTET, Torino
1998, I, p. 669).
48 Ibi, XVIII, 92-93; stesso lessico in XV, 116; XVII, 34 etc…
49 Questo lessico è tratto da G. Nicolas, op. cit.
50 Ibidem; per i Maenge il termine valicale ha, fra gli altri significati: fare un contro-dono,
uccidere qualcuno per vendetta. Se gli si aggiunge il prefisso pali, indica il doppio flusso delle
prestazioni fra due clan che sono uniti da matrimoni (cfr. M. Panoff, op. cit.; Id., Intertribal
Relations of the Maenge people of New Britain, Canberra, 1969). Ch. Malamoud nota che in
sanscrito non esiste un termine specifico per indicare la vendetta: «Ciò che noi traduciamo
"vendetta" sono parole che significano "azione di risposta", "compenso" (pratīkāra, pratikriyā) e
possono essere impiegate anche per indicare una ricompensa» (C. Malamoud., Vengeance et
sacrifice dans l'Inde brahmanique, in R. Verdier - Y. Thomas (éds.), Vengeance, pouvoirs et
idéologies dans quelques civilisations de l'antiquité, Cujas, Paris 1980).

11
Nei tragici greci, la poinè perseguita dai vendicatori è una contropartita, come
mostra la ripetizione di parole composte con il prefisso anti- per riferirsi alla vendetta 51.
Se i sistemi vendicatori formano un sotto-sistema nelle regole generali dello
scambio, non ci si stupirà se la relazione di avversità che lega le parti della vendetta ha
una tonalità fortemente egualitaria. Di questo aspetto si era reso conto Nietzsche dopo
aver letto i lavori di A. H. Post 52:

La vendetta suppone già l'esistenza di un'organizzazione


superiore; è un duello inter pares, fra due avversari eguali
appartenenti allo stesso insieme sociale. L'ostilità verso la
famiglia del colpevole è radicalmente diversa dall'ostilità verso
tutto ciò che non appartiene all'organizzazione superiore comune.
È assente il disprezzo, come l'idea che il nemico sia di una razza
e di una natura inferiore. C'è nella vendetta un fondo di onore e di
eguaglianza di rango 53.

Questa eguaglianza permette di distinguere le vendette dalle violenze con le quali


i padroni fanno sentire ai servi che non si è in grado di contestare la loro autorità. Come
nota F. Tricaud, i padroni non si vendicano dei loro servitori, ma li puniscono. L'apparato
che si abbatte su quelli che hanno sfidato le organizzazioni sociali ineguali «è molto più
simile a una punizione religiosa che a una vendetta» 54.
Se la vendetta è una restituzione fra eguali, quale mancanza vuole colmare, quale
debito intende saldare? Le rappresentazioni dei popoli che la praticano sono differenti e
spesso una stessa cultura fornisce più giustificazioni. Può essere un attacco all'onore dei
viventi, per i Greci "arcaici" 55, in Calabria, nel Nord-Est Costantino 56, presso i Beduini

51 Cfr. S. Saïd, op. cit.


52 A. Kremer-Marietti, op. cit., mostra che i testi genealogici di Nietzsche, nell'ambito delle
istituzioni, si fondano sui lavori di antropologia giuridica pubblicati da A. H. Post fra il 1872 e il
1878.
53 F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente 1882-1884, hrsg. von Giorgio Colli - Mazzino
Montinari, Deutscher Taschenbuch Verlag - de Gruyter, p. 331.
54 F. Tricaud, op. cit., pp. 69-70. In Aristotele, la punizione è applicata dalla società in
quanto potenza mentre la vendetta si riferisce soprattutto ai rapporti di rivalità fra eguali.
55 Vendetta si dice timoria. Nell'antichità, in Pindaro e in Eschilo, chi si vendica è chiamato
timaoros. La parola si compone di timè (onore, che darà per metonimia «pagamento») e di un
secondo termine assimilabile a oromai (vegliare, fare la guardia). Il timoros è colui che tiene
all'onore (cfr. L. Gernet, Recherches sur le développement de la pensée juridique et morale en
Grèce, Paris 1917, pp. 139 sgg.; P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grècque,
Paris 1968-1980, p. 1120; S. Saïd, op. cit.).
56 «L'onore è l'attitudine a reagire alla minima offesa. In queste culture, tale attitudine è
attribuita esclusivamente all'uomo e negata alla donna. Per questo motivo la vendetta, monopolio
sessuale, cerca di restituire la differenza uomo/donna costitutiva dell'ethos di queste culture» (cfr.
C. Breteau - N. Zagnoli, L'honneur et la vengeance dans deux communautés rurales
méditerranéennes, relazione presentata al Secondo Congresso Internazionale di Studi sulle
Culture del Mediterraneo Occidentale; Le système de gestion de la violence en Calabre
méridionale et dans le Nord-est Costantinois, in R. Verdier (éd.), Vengeance et pouvoir dans
quelques sociétés extra-occidentales, Cujas, Paris 1980, I; Vengeance, épuration et pouvoir d'état,

12
di Giordania 57. La vendetta può anche costituire una riparazione per la condizione nella
quale è stato messo il morto stesso e avere un quindi significato religioso, come per i
Greci 58 e gli Arabi pre-islamici 59. La vendetta può mirare a manifestare la solidità del
gruppo familiare del quale va provato che non è stato indebolito dall'assassinio che in
modo contingente. Così per i Bulsa 60, per i Moundang del Ciad 61, per i Kabiye 62. La
vendetta può apparire come la volontà manifesta di cancellare lo squilibrio introdotto fra

essai de comparaison méditarranéen, in Littérature Arabo - Berbère, Bulletin de l'ERA 357,


9/1978, EHESS, pp. 53-86).
57 La «dignità del volto» impone di «lavare l'onta» con la vendetta (cfr. J. Chelhod, op. cit.;
Equilibre et parité dans la vengeance du sang chez les Bédouins de Jordanie, in R. Verdier (éd.),
Vengeance et pouvoir dans quelques sociétés extra-occidentales, Cujas, Paris 1980, I, p. 125 sgg).
58 Per i Greci, la morte non comporta la distruzione totale dell'individuo. Questo permane
diminuito sotto la forma di un eidolon, un'ombra, uno spirito, un'anima. Omero mostra Achille
desideroso di procurare all'anima di Patroclo tutto quello che gli deve (Iliade, 65-101; XXIV,
592-595). In epoca classica, Antifonte afferma che la condanna dell'assassino è una vendetta
offerta alla vittima (Sul coreuta, 6; Sulla morte di Erode, 10). Per il resto, i Greci riconoscono
all'anima del morto il pericoloso potere di torturare l'assassino (Eschilo, Agamennone, 439 sgg.)
e, nel caso in cui il vendicatore designato si sottraesse al suo compito, il morto potrebbe rivalersi
contro di lui (Coefore, 276-290. 924-925). Sull'ira dei morti e la necessità imperativa di
soddisfarla, cfr. G. Glotz, op. cit., p. 59 sgg.
59 L'anima dello scomparso, separandosi dal corpo in seguito ad una morte violenta, si
trasforma in una civetta che reclama senza sosta di bere il sangue del nemico (cfr. J. Chelhod, Le
sacrifice chez les Arabes, Paris 1955, pp. 100-104).
60 «Vendicarsi da soli o rivalersi è il modo di pensare dei Bulsa per dimostrare il potere o la
superiorità di qualcuno quando questa è messa in dubbio» (R. Schott, op. cit).
61 «La vendetta non è l'applicazione di una pena ma l'attuazione di un diritto che non esiste
se non nella misura in cui si è in grado di farlo valere» (A. Adler, La vengeance du sang chez les
Moudang du Tchad, in R. Verdier (éd.), Vengeance et pouvoir dans quelques sociétés extra-
occidentales, Cujas, Paris 1980, I, p. 75).
62 «Non restituire il colpo significa ammettere la propria debolezza e riconoscere la
superiorità dell'altro» (R. Verdier, Pouvoir, justice et vengeance chez les Kabiyes du Togo, in R.
Verdier (éd.), Vengeance et pouvoir dans quelques sociétés extra-occidentales, Cujas, Paris 1980,
I, pp. 210-211).

13
due sottogruppi sociali da una lesione iniziale. Questo è il valore che le attribuiscono i
Beti 63, i Maenge 64, gli Hausa 65 ecc…
È possibile riunire diversi aspetti di vendetta sotto un unico concetto: sembra che
i sistemi vendicatori si preoccupino tutti di equiparare valori o perdite di valore a
proposito dei quali può porsi una questione di potere. Il deficit di cui soffre un gruppo
leso è ambivalente: è fisico e, per dir così, etico. Perdendo un individuo, il gruppo vede
diminuita la propria capacità economica, generatrice e guerriera, in assoluto e in rapporto
ai gruppi con i quali è in relazione. A questo punto di vista statico, per il quale la perdita
si avvicina al concetto moderno di danno, occorre aggiungere ciò che questa perdita può
significare da un punto di vista dinamico. A causa dell'aggressione, il gruppo ha subito
uno scacco nella solidità e nell'efficacia dei suoi legami, nella sua attitudine a preservarsi
identico, nel suo sforzo di mantenersi nell'essere. Da questo punto di vista la perdita è
sempre più di se stessa, rischia di significare che la capacità di auto-affermazione del
gruppo non è più quella di prima. Il gruppo è attaccato non solo in uno dei suoi effetti
(punto di vista statico) ma nella sua energia vitale: la sua forza è in declino. È questo che
intendiamo con il concetto di potere. Il fine del vendicatore è, riparando un danno, avere
la possibilità di manifestare o riattualizzare il potere del suo gruppo a danno di colui che
era parso metterlo in questione 66.
La differenza fra un danno "materiale" e un danno "etico" è stata sviluppata da
Aristotele e Leibniz. Dalle lesioni valutabili in abstracto Aristotele distingue il quantum
di svalutazione di cui ha sofferto l'offeso in occasione del danno subito. L'oltraggio fisico
è insieme un danno "materiale" non etico e una perdita etica nell'equilibrio delle relazioni

63 «La vendetta mira a ristabilire un equilibrio, a restaurare l'eguaglianza o il rapporto di


forze fra clan, lignaggi o segmenti di lignaggio coinvolti […]. Il processo finale ha come oggetto
lo stabilire un bilancio contabile nel quale i danni causati (così come i servizi resi) vengono
valutati e resi eguali» (P. Laburthe-Tolra, Note sur la vengeance chez les Beti du Cameroun, in
R. Verdier (éd.), Vengeance et pouvoir dans quelques sociétés extra-occidentales, Cujas, Paris
1980, I, pp. 157 sgg).
64 «Il ricorso alla vendetta non è unilaterale, ma è sempre preceduto o seguito da un atto
violento inteso come equivalente. È dunque nel mezzo di tutte queste pratiche di reciprocità che
si inscrivono razionalmente gli scambi di violenze, come una semplice specie particolare in un
genere ampio» (M. Panoff, Homicide et vengeance chez les Maenge de Nouvelle-Bretagne, in R.
Verdier (éd.), Vengeance et pouvoir dans quelques sociétés extra-occidentales, Cujas, Paris 1980,
II).
65 «La legge del contro-dono è la stessa di quella del taglione. Si tratta nei due casi di
ristabilire un equilibrio (fra sottogruppi) messo in causa da un eccesso. Questo apre un vuoto che
il "recettore" deve assolutamente colmare, per non subire l'umiliazione più grave: si rende il male
per il male come si rende un regalo con un regalo, o una donna con un'altra», (G. Nicolas, op. cit).
66 R. Verdier ha proposto una spiegazione vicina alla nostra, parlando del capitale-vita che
il gruppo deve difendere e far fruttare: «Questo capitale-vita, un insieme di persone e beni, di
forze e valori, credenze e riti, che fondano l'unità e la coesione del gruppo, è raffigurato da due
simboli: il sangue, simbolo di unione e continuità del lignaggio e delle generazioni, e l'onore,
simbolo di identità e di differenza che permette di riconoscere l'altro e di esigere da lui il rispetto»
(R. Verdier, Le système vindicatoire, in R. Verdier (éd.), Vengeance et pouvoir dans quelques
sociétés extra-occidentales, cit., pp. 18-20). Quando è in questione il "sangue", la vendetta mira
a riparare o a compensare quella perdita determinata e nello stesso tempo a riattestare la "qualità
del sangue" del sotto-gruppo. Quando si tratta di onore, in qualche modo il significato di "perdita
di potere" tende a riferirsi all'occasione concreta che ne è stata la materia.

14
interpersonali. L'Etica Nicomachea mostra che la lesione iniziale instaura fra due soggetti
una squilibrio di passione e azione. La reazione vendicativa della persona lesa mira
espressamente a superare lo stato di passività relativa nel quale è stato collocato.
Vendicarsi è ritornare attivi. Il binomio attività/passività indica la posta in gioco nella
vendetta perché supera la questione del danno non etico. In Leibniz il danno si distingue
dall'affronto (contumelia) che accompagna l'intenzione malevola o dolosa. Accanto
all'indennizzo del danno non etico la giustizia impone una indemnitas morale che è una
«giusta vendetta» per il danno «onorifico o mentale» causato a quella che Leibniz chiama
tranquillitas. Con questo termine è da intendere il grado medio di rispettabilità che ci
evita ogni forma di disprezzo. Ogni riparazione dovrà dunque comprendere una parte
"civile" e una parte penale privata per «calmare lo spirito con qualche vantaggio o con il
male altrui» 67.
Le obiezioni morali avanzate contro la vendetta ci permettono di precisare
ulteriormente il suo statuto. In particolare il Cristianesimo, sviluppando le sue critiche
con una radicalità senza pari, attacca la vendetta nei suoi due aspetti essenziali, in quanto
scambio e in quanto apre l'uomo alla violenza. Il Nuovo Testamento, è stato ampiamente
notato, annuncia qualcosa che trascende lo scambio. Gesù si propone come critico
definitivo dell'idea di reciprocità sotto tutti gli aspetti. Alla domanda posta dall'apostolo
Pietro: «Quante volte devo perdonare mio fratello? Fino a sette volte?», Gesù risponde:
«Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette 68». Il perdono è illimitato e la
reciprocità negativa condannata. Ma lo è anche la reciprocità positiva:

Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i


peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui pensate
ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono
prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri
nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla 69.

Gesù sostiene la sua critica della legge dello scambio (ammessa da tutta l'antichità
come la forma canonica di giustizia) fino a enunciare il "paradosso" del suo
rovesciamento completo:

Fate del bene a coloro che vi odiano. A chi ti percuote sulla


guancia porgi anche l'altra. [...]. A chi prende del tuo, non
richiederlo 70.

Se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra; e a


chi ti vuole chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia
anche il mantello 71.

67 Su questo aspetto, cfr. R. Sève, La rançon du mépris, la vengeance chez Leibniz, in Gérard
Courtois (éd.), La vengeance dans la pensée occidentale, cit.
68 Matteo, 18, 21-22.
69 Luca, 6, 32-35; Matteo, 5, 46-48.
70 Luca, 6, 27 sgg.
71 Matteo, 5, 38-45.

15
All'idea di una circolazione regolata e attenta di valori - quali che siano - sotto la
forma del dare-dare, Gesù oppone un dono che non risponde a niente di precedente e non
si aspetta una contro-prestazione altrui 72. Ci propone insomma di non essere reattivi 73.
Si tratta di fare avvenire in ciascuno la sovrana irradiazione, la dilatazione contagiosa
dell'amore con la quale Gesù ci lascia decifrare il nome proprio del sacro. Chi giunga ad
abitare il mondo al modo dell'amore sviluppa ipso facto i benefici e i semi dell'amore
attorno a sé, ma è nell'atto d'amore in quanto tale che si è salvati e felici 74.
Il Nuovo Testamento mette dunque in causa i fondamenti stessi della vendetta.
Mentre Gesù predica il Dono, i vendicatori fanno della categoria dello scambio un dogma.
La loro regola di giustizia è rivolta all'annullamento del passato, mentre Gesù rifiuta l'idea
di una giustizia rinchiusa nei limiti di un "gioco a somma zero". Il Cristo non cerca di
livellare i valori ma di aumentare la parte buona. I vendicatori misurano il loro valore in
base al posto che occupano nell'interazione sociale mentre il Nuovo Testamento propone
un valore che misura lo scambio sociale stesso. Quelli cercano una catarsi dell'anima
mediante la violenza, mentre il Cristianesimo oppone alla purificazione del male con il
male la trasfigurazione di ogni vivente per mezzo dell'amore.
Fin dallo Spirito del Cristianesimo Hegel riflette sulle aporie del perdono. Chi
sceglie, per principio, di non difendere mai il suo diritto contro un aggressore e di
riconciliarsi sempre con lui è

come la sensitiva, [che] si racchiude in sé ad ogni contatto e,


prima di rendersi nemica alla vita, si sottrae alla vita 75.

E senza dubbio Gesù tenta di sfuggire a questa aporia. Hegel vede bene che Gesù
non è "rinunciatario" ma cerca la «verità dei due opposti del coraggio e della passività».
Il perdono è un'attività, l'espressione di una forza spirituale e non il sotto-prodotto di un
puro disimpegno nei confronti del diritto e della realtà oggettiva. Ma questa difficile
posizione sfugge alla contraddizione secondo cui «per poter perdonare chi l'ha offeso, è
necessario che l'uomo conservi almeno un residuo di vita, non fosse altro che per la
ragione che, dopo la sua morte, i parenti potrebbero farsi suoi vendicatori e ammettere
l'esercizio della vendetta che lui aveva rifiutato all'inizio» 76. Per conservare la vita,

72 Il dono, dice Agostino, è «al di là della ragione». Non si basa su una gerarchia di meriti.
Non sposa i contorni di un mondo già dato, ma lo rifà ad ogni disposizione.
73 I padri dei primi secoli hanno spesso interpretato il messaggio di Gesù con l'aiuto del
concetto stoico di apatheia. Diversamente da Crisippo, Gesù non chiede di sopportare ciò che è
conforme alla legge suprema dell'universo, ma propone di modificare il male con l'amore.
74 Si tratta meno di fare il bene degli altri che essere amorevole, è questo che salva. Ma
l'amore ha questa particolarità: di essere buono come tale per quello che lo prova, seminando
buone azioni attorno. Con questo l'aspetto fortemente individualista del cristianesimo evita
l'opposizione fra beatitudine individuale e altruismo.
75 G.W.F. Hegel, Lo spirito del Cristianesimo e il suo destino, a cura di E. Mirri, Japadre,
L'Aquila 1970, p. 86.
76 Cfr. J. P. Guinle, op. cit., che mostra come la presa di coscienza da parte del giovane
Hegel del rischio del superamento della vendetta nell'amore l'abbia condotto ad approfondire -
escludendo tuttavia ogni soluzione non violenta - la problematica della vendetta nel Sistema della
vita etica, prima della sintesi dei Lineamenti di filosofia del diritto.

16
necessaria al perdono, è costretto a difendere la sua esistenza e a opporsi al suo
aggressore.
Questa contraddizione ha reso possibile l'interpretazione che ha cercato
l'integrazione della vendetta nel Cristianesimo invece del suo superamento. Di questo
movimento Tommaso d'Aquino è senza dubbio l'esponente teorico e storico più
importante 77. Per la Summa theologica il desiderio di vendetta può essere buono o
malvagio. Se è regolato dalla ragione e mira alla punizione degli ingiusti, è buono;
altrimenti la natura ci avrebbe dotato invano della collera, «che è un appetito di vendetta»
78. L'Aquinate fa sua la formula di Giovanni Crisostomo:

Chi non è in collera quando vi è motivo per esserlo commette


peccato. Infatti la pazienza sragionata semina i vizi; comporta
negligenza e invita non solo i malvagi ma anche i virtuosi stessi a
comportarsi male 79.

La catarsi attraverso il male è assolutamente proibita. Chi gioisce del male di colui
sul quale si vendica commette un peccato incompatibile con la carità 80. Si può però
gioire del bene procurato da questo male 81, se è un mezzo per «correggere o punire gli
ingiusti, assicurare la pace pubblica, mantenere la giustizia o onorare Dio» 82. Tutto si
riduce a una questione di intenzione. Ciò che è proibito per "dare soddisfazione" alla
vittima è autorizzato e diventa persino virtuoso dal momento in cui ci si difende da un
colpevole e si rafforzano la giustizia terrestre o il diritto divino 83. In particolare
Tommaso fa del vendicatore il cavaliere servente di un valore collettivo o dell'Essere
supremo e sottolinea che la vendetta legittima ha lo scopo di sottomettere i colpevoli.
Tuttavia egli insiste a lungo sul radicamento passionale 84 e affettivo del desiderio di
vendetta e sul piacere che vi è connesso 85. Tommaso è il filosofo della soddisfazione del

77 La Summa theologica dedica non meno di ventotto articoli in cinque questioni al


problema della vendetta: Ia IIae 46 De Ira secundum se; 47 De Causa effectiva irae et de remediis
ejus; 48 De effectibus irae; IIa IIae 108 De Vindicatione; 158 De Iracundia.
78 Tommaso d'Aquino, Summa theologica, IIa IIae, 158, I, 3.
79 Ibi, 158, VIII, Sed contra.
80 Ibi, 108, I, Respondeo; 158, I, 3.
81 «Si prova piacere nel vendicarsi perché la vendetta è considerata un bene» (Ia IIae 42, II,
Respondeo).
82 IIa IIae 108, I, Respondeo. Le forme della vendetta, come in Cicerone — al quale san
Tommaso si riferisce in modo esplicito —, comprendono la pena di morte, le pene corporali
secondo la legge del taglione oppure no, la privazione della libertà o di tutti gli altri beni esteriori
(ricchezza, patria, reputazione) (cfr. ibi, 108, III, Respondeo).
83 Fin dal cristianesimo primitivo l'idea che la vendetta appartiene solo a Dio (Deuteronomio
32, 35) non impedisce ai cristiani di esercitare la vendetta a suo nome e per lui.
84 «La ragione della collera è sempre qualcosa che è stato fatto contro chi ne è il soggetto»
(Ia IIae 47, I, Respondeo). Anche quando vendichiamo un altro, ciò avviene per il fatto che questo
è unito a noi «dalla parentela, dall'amicizia o semplicemente dalla comunità di natura» (ibi, II).
85 San Tommaso fa dell'appetitus vindictae una delle passioni fondamentali dell'uomo
studiate nell'ambito della teoria generale a fianco dell'amore, del desiderio, del timore e di altre.

17
giustiziere; mostra che la giustizia terrestre non dipende solamente da una ragione
impersonale e oggettiva ma da un appetito incarnato: la passione vendicatrice che
permette la mediazione sensibile del particolare e dell'universale.
Resta al di là del Cristianesimo l'obiezione morale sollevata nell'antichità: come
può una sofferenza riparare un'altra sofferenza? C'è qualcosa, oltre all'«ordine del tempo»,
che distingua aggressione e ritorsione e che impedisca al vendicatore di sommare le
violenze e accrescere la sofferenza? La risposta dei sistemi vendicatori sarebbe senza
dubbio che, poiché l'insieme delle interazioni sociali è una distribuzione di poteri e onori,
quando un soggetto subisce una lesione, se non se segue alcuna ritorsione significa che
l'aggredito riconosce ipso facto la superiorità dell'altro e la propria inconsistenza. Perde
il suo posto nel tessuto sociale e ammette con la fragilità della sua identità una nuova
distribuzione nell'equilibrio delle dignità. Questo punto di vista si rafforza se si prende in
considerazione ciò che M. Mauss ha chiamato «l'unità religiosa del clan» 86. Quando le
parti della vendetta sono coinvolte in relazioni indivise con gruppi «familiari», questi
formano quasi una «sola carne» animata da un «unico sangue». La forza e l'onore del
gruppo si identificano allora con un bene morale posseduto collettivamente, un bene la
cui lesione o diminuzione coinvolge l'intero gruppo 87. D'altra parte — questo aspetto si
nota nelle società individualiste — la vendetta, in quanto modalità della catarsi, agisce
come eliminazione simbolica di un trauma. Per la società nel suo complesso le violenze
si sommano ma, per le parti della vendetta, si annullano quando ognuno ritrova
l'equilibrio di «passività e attività» 88.
A parere di Leibniz la vendetta ripara un attacco etico mediante un profitto o il
male altrui. Il male si può spingere fino alla morte dell'aggressore. Se si adotta il punto di
vista ristretto del soggetto colpito dalle offese più gravi, la morte sembra la replica più
adatta ad ottenere, insieme, la scarica degli affetti patogeni e il riequilibrio dei rapporti di
potere e onore. Non bisogna però pensare che la vendetta implichi necessariamente una
vendetta di sangue. La maggior parte dei sistemi vendicatori ammette il caso nel quale
solo un secondo omicidio può compensare il primo e il caso, ben più frequente, nel quale
è ammissibile una riparazione simbolica (prezzo di sangue, "prezzo della fidanzata",
adozione, matrimonio). La ricompensa non fa uscire dall'ambito della vendetta. Il punto

86 M. Mauss, La religion et les origines du droit pénal d'après un livre récent (1895), in
Oeuvres, 1969, t. 3. Il libro criticato dall'autore è quello di S. R. Steinmetz, Ethnologische Studien
zur ersten Entwicklung der Strafe, Leiden-Leipzig 1892-1894, I; le conclusioni di quest'opera
sono analizzate e discusse da M. Scheler in Das Ressentiment, cit., p. 10, e nello studio dal titolo
Vom Wege der Reue, in Vom Ewigen im Menschen, I, Leipzig 1921.
87 R. Verdier, Le système vindicatoire, in R. Verdier (éd.), Vengeance et pouvoir dans
quelques sociétés extra-occidentales, cit., p. 16; F. Tricaud, op. cit., pp. 65-66.
88 La teoria della catarsi vendicatrice deve ancora essere elaborata. Per operare in questa
direzione si può partire dagli elementi che ci hanno lasciato Aristotele, Nietzsche e Freud. Dal
primo deriva l'idea che la salute psichica si presenti come una certa ratio di passione e azione. La
depressione che segue ad un'offesa esige di rinviare verso l'esterno, in particolare verso l'autore
della lesione, una certa quantità di attività per ritrovare la calma. Nietzsche ha parlato del «piacere
di esercitare in sicurezza la propria potenza su un essere ridotto all'impotenza prendendo così
parte al diritto dei padroni» (Genealogia della morale, seconda dissertazione). Si ritrova in lui
un'unità inquietante di reazione psicologica e di recupero sociale dell'onore. Di Freud vanno
trattenute in particolare le affermazioni riguardo le equivalenze affettive e l'efficacia delle
simbolizzazioni con le quali possono essere abreagiti gli affetti patogeni.

18
decisivo in questa materia è sapere se la "pena", qualunque sia la sua forma, sia anzitutto
una soddisfazione per il gruppo offeso. L'intervento di terzi fra le parti della vendetta può
avvenire secondo differenti gradi di istituzionalizzazione. Finché la loro mediazione ha
di vista la riparazione dovuta al gruppo aggredito, restiamo nell'universo della vendetta.
Quando un costume giuridico o un potere collettivo si preoccupano di far funzionare la
logica della ritorsione, la giustizia non punisce, ma resta rivolta all'aggredito e al
compenso che gli è dovuto. Come afferma Aristotele: «Vi è differenza tra la vendetta
(timoría) e la punizione (kólasis): la punizione ha come fine chi la subisce, la vendetta
invece chi la effettua per aver soddisfazione» 89. Come questa logica della soddisfazione
può essere iscritta nelle interazioni sociali concrete? Con quali mezzi e fino a dove i
gruppi riescono a mantenere la vendetta nei limiti di un regolamento di conti equilibrato?
Queste sono le questioni alle quali deve poter rispondere l'analisi
dell'istituzionalizzazione della vendetta.

2. L'istituzionalizzazione della vendetta

Nell'interazione sociale reale la vendetta si presenta come un fatto culturale. Non


è separabile dalle istituzioni o dai costumi che le danno i fini, le norme, i limiti e il luogo
sociale del suo esercizio. La vendetta non è né fondamentalmente sregolata, né
radicalmente incapace di risolvere i litigi che la fanno nascere, non lascia faccia a faccia
due puri avversari. La questione dei pericoli e dei difetti della vendetta non deve essere
affrontata ingenuamente come se essa fosse altro rispetto alla cultura. La vendetta si lascia
al contrario dominare in modo sorprendente dalle istituzioni, fornendo loro un contenuto.

a) Pena, vendetta, guerra

La vendetta non ha luogo in uno spazio sociale qualunque. Precisare il luogo del
suo esercizio serve a mettere in rilievo tre forme di violenza con le quali le società cercano
di rendere più solidi i loro costumi e i loro poteri.
È noto da lungo tempo che la Grecia arcaica ha conosciuto due forme di giustizia.
La thémis "familiare" o del ghénos e la díke interfamiliare 90. La prima non ammette la
vendetta, reprime i crimini "religiosi", l'omicidio, l'adulterio, la stupro commessi
all'interno del gruppo principale da uno dei suoi membri. Le sue sanzioni, pronunciate
dall'autorità indiscutibile del «re della casa» 91, sottoscritte da tutto il gruppo, sono
terribili. Il colpevole si ritrova, solo, di fronte alla volontà di epurazione e al «terrore
etico» 92 del suo ghénos. Nella maggior parte dei casi, scacciato da tutti, spogliato di
tutto, i suoi beni distrutti o confiscati, deve fuggire nudo, preda del primo venuto senza

89 Arist. Rhet. I, 10, 1369b12-13 [si utilizza la traduzione di Armando Plebe, Laterza, Roma-
Bari 1973].
90 Lo studio di G. Glotz, op. cit., p. 19 sgg. ha mostrato bene questa opposizione. Lo stesso
hanno fatto E. Benveniste, Vocabulaire des institutions indo-européennes, t. 2, pp. 99-11; F.
Tricaud, op. cit., pp. 50-75.
91 Omero, Odissea, I, 397.
92 F. Tricaud, op. cit., p. 61.

19
alcuna possibilità di difesa. Dopo aver provato il supplizio morale della riprovazione
collettiva riservata ai "traditori", se ne va con vergogna, con il peso della sua «colpa» 93.
G. Tarde ha ben notato il rapporto fra la struttura sociale "familiare" e questo tipo di
violenza penale: «La fonte principale [della pena] […] è la punizione domestica,
espressione di biasimo morale e traduzione di un rimorso» 94.
La díke interfamiliare, al contrario, è estranea a questo pathos. In quest'epoca,
l'assassino di un membro del ghénos diverso dal proprio non è soggetto a biasimo morale.
Omero mostra autori di omicidi che vivono, in esilio, con tutti gli onori dovuti a ospiti
ordinari. Ulisse si presenta a Eumeo come l'uccisore del figlio di Idomeneo. Il guardiano
di porci riceve il presunto assassino, che non ha riconosciuto, con il rispetto e gli onori
che avrebbe avuto per un viandante qualunque 95. L'omicida non macchia coloro che
avvicina e il contatto con lui non richiede purificazione. Sarà necessario attendere le
riforme di Dracone e forse anche la fine del VI secolo a. C. perché il concetto di impurità
contagiosa dell'assassino venga attestato 96. Come è mostrato da M. Mauss, in questo
ambito sociale «l'omicidio non è un crimine ma una lesione inflitta ad un gruppo
familiare, un insulto» 97. Il mondo della díke è quello degli scambi fra eguali sotto tutte
le forme: valori economici, matrimoni esogamici, doni e contro-doni, vendette,
regolamenti di conti di tutti i generi. Qui funziona la giustizia come reciprocità. Il
responsabile di una lesione non mette in causa i fondamenti dell'ordine sociale deve
semplicemente "pagare" il turbamento che ha causato e sottomettersi a una legge di
scambio.
Questa opposizione attestata nel mondo greco ha un valore più generale.
L'antropologia giuridica nota in molti luoghi la distinzione fra una giustizia di tipo penale,
interiore all'unità sociale "familiare", autoritaria, e una giustizia calcolatrice e agonistica
che presiede alle interazioni fra gruppi posti su un piano di eguaglianza, che è il luogo
della vendetta. Ma è necessario aggiungere un terzo termine a questa dicotomia.
I rapporti extra-familiari sono suscettibili di essere regolati, in base al caso, con la
vendetta o con la guerra. R. Verdier ha mostrato che vi sono come tre cerchi concentrici
che determinano lo spazio della vendetta. Nel più stretto, la prossimità sociale delle parti
proibisce la vendetta; nel più grande, la lontananza, la distanza sociale troppo ampia,
l'assenza di riconoscimento fra gruppi lasciano il posto solo alla guerra. Il luogo della
vendetta è lo spazio intermedio dove ci si riconosce come avversari da affrontare e non
come nemici da soggiogare o eliminare 98. Non si può sottostimare l'interesse di questa
tripartizione, che permette di distinguere, dopo la vendetta e la pena domestica, la
vendetta e la guerra. La vendetta riguarda parti determinate da un contenzioso circoscritto
(un omicidio, un'offesa grave) e da solidarietà ristrette. Il suo obiettivo è limitato e

93 G. Glotz, op. cit., pp. 22-23.


94 G. Tarde, Les transformations du droit, 1893, p. 61.
95 Cfr. Omero, Odissea, XIV, 1 sgg.
96 Quest'ultima opinione è sostenuta da D. M. Macdowell, Athenian omicide law in the age
of the orators, Manchester 1963, capp. 1 e 14. Per quella opposta, cfr. R. Bonner e G. Smith, The
administration of justice from Homer to Aristote, Chicago 1930, tomo 1, pp. 53 sgg.
97 M. Mauss, op. cit. Solo il parricidio è condannato universalmente.
98 R. Verdier, Le système vindicatoire, in R. Verdier (éd.), Vengeance et pouvoir dans
quelques sociétés extra-occidentales, Cujas, Paris 1980, I, pp. 24-25, 34-35.

20
obbedisce allo schema di un riequilibrio dei debiti. Si annoda fra membri della stessa
cultura, i quali possono così mediare le loro vendette. La guerra, al contrario, oppone dei
nemici, determinati ciascuno per parte sua da solidarietà di grande ampiezza. Il suo
obiettivo è la supremazia di un campo sull'altro o almeno la ridefinizione dei loro rapporti.
Riguarda collettività senza istituzioni comuni. La dicotomia vendetta/guerra permette
così di evitare alla prima quelle lotte lunghe o eccessivamente violente che coinvolgono
intere collettività per il dominio di un valore raro o impossibile da condividere (territorio,
popolazione, autorità, vantaggio economico, ecc.). Nella guerra si tratta invece di ottenere
un vantaggio o un cambiamento decisivo il cui prezzo può essere la distruzione
dell'avversario, mentre la comunità di cultura e i legami di scambio fra le parti della
vendetta impongono loro di mantenere il confronto nei limiti di una ritorsione regolata 99
.
L'opposizione vendetta/guerra si ritrova nel lessico dell'antico Israele, che conosce
due verbi per designare le violenze: nâqam e gâ'al 100. Il primo, che non sarebbe corretto
tradurre con vendetta, è impiegato per indicare le guerre che gli israeliti devono condurre
contro i loro nemici quando la loro nazione è oppressa o il loro territorio occupato (dai
Filistei o dagli Edomiti, per esempio). Il secondo indica la vendetta in senso proprio, la
reazione che si deve avere per difendere i parenti. Leggiamo nell'Antico Testamento che
in caso di omicidio fra israeliti, «il vendicatore del sangue (go'êl haddâm) dovrà a mettere
a morte l'omicida, quando lo incontrerà» 101. La distinzione vendetta/guerra chiarisce
anche il noto episodio della violenza su Dina e della vendetta cui ha dato luogo 102.
Quando Giacobbe arriva davanti alla città di Sichem (probabilmente Nablus), compra
dagli abitanti un pezzo di terra dove pianta la sua tenda. Sua figlia Dina va in città. Il
giovane principe della città se ne innamora, la rapisce e le usa violenza. Propone poi,
secondo la logica della vendetta, di riparare l'oltraggio sposandola e di dare «una grossa
somma come prezzo e come regalo». Iscrive questa operazione anche nella promessa di
un accordo generale fra i Sichemiti e i figli di Giacobbe: «Voi darete a noi le vostre figlie
e prenderete le nostre per voi […]; potrete abitare […], viaggiare […] e stabilirvi nel
paese». A questo i figli di Giacobbe rispondono con lo sterminio degli adulti sichemiti e
il saccheggio dei loro beni e delle loro case. Di fronte al padre, preoccupato per questi
eccessi, giustificano le loro azioni con un perentorio «Dovevamo lasciare che nostra
sorella fosse trattata come una prostituta?». Risposta sorprendente, considerando che gli
antenati di Giacobbe non avevano problemi a far passare la loro donna per la sorella e di
metterla nel letto dei sovrani dei paesi in cui si stabilivano, in cambio di vantaggi materiali
o politici 103. È infatti chiaro che qui non si tratta di vendetta ma dell'instaurazione di un
nuovo rapporto fra Israele e i vicini. Con un atto di guerra, i figli di Giacobbe dicono ai
Sichemiti e ai loro alleati che Israele ormai è abbastanza forte per costituire un'entità
politico-religiosa autonoma. Le nostre conclusioni si accordano con quelle di J. Pitt-

99 Sulla differenza di significato fra vendetta e guerra, rinviamo alla bibliografia di R.


Verdier, op. cit., pp. 39-40.
100 Questa questione semantica è stata analizzata da A. Lemaire in Vengeance et justice dans
l'Ancien Israël, in in R. Verdier - Y. Thomas (éds.), Vengeance, pouvoirs et idéologies dans
quelques civilisations de l'antiquité, Cujas, Paris 1980.
101 Numeri, 35, 19.
102 Cfr. Genesi, 34, 18 sgg.
103 Per Abramo, cfr. Genesi, 22, 10-20.

21
Rivers 104. Il caso di Sichem mostra che gli Israeliti non fanno più dipendere la loro
sicurezza dal dono delle donne agli stranieri; da quel momento in poi la regola sarà
l'endogamia, i giudei si sposeranno tra di loro e sarà così evitata l'edulcorazione del
messaggio di Jahvé. La differenza israeliti/non israeliti diventa insormontabile. Solo un
atto di guerra poteva rispondere a quelli che credevano ancora di poter dissolvere la
cultura israelita negli scambi interetnici. La distinzione vendetta/guerra permette al
contrario di riconoscere la vendetta nei luoghi in cui alcuni autori parlano di guerra. Ogni
volta che vediamo dei gruppi misurare i loro atti violenti e praticare una contabilità dei
debiti alla luce di un'ideologia comune, è più appropriato indicare i loro scambi violenti
come vendette 105.
Senza dubbio la distinzione pena domestica/vendetta/guerra deve essere concepita
come qualcosa che segnala soprattutto differenze concettuali. Al di fuori delle società
studiate dall'antropologia, la società storica offre spesso combinazioni di questi tre modi
di esercizio della violenza. Nell'Atene storica si assiste ad una fusione complessa di
vendetta e pena domestica. Dopo le riforme di Dracone e Solone, «la díke, intrisa di
thémis domina la società» 106. Da una parte la città recupererà il tema "familiare"
dell'assassinio come insozzamento del corpo sociale, mentre il motivo della vendetta
continuerà ad animare le proprie pene con il mantenimento del carattere privato
dell'azione contro l'omicida, la tolleranza per le composizioni relative a crimini di sangue,
la presenza di un membro della famiglia lesa a fianco del boia. La guerra, d'altronde, può
combinarsi con la vendetta. Nell'Iliade si vedono continuamente i guerrieri cercare di
vendicare coloro che cadono al loro fianco. Deifobo uccide Ipsenore, persuaso che la
morte di questo vendichi il compagno Asio, caduto per mano di Idomeneo:

E Deifobo trionfa allora con violenza, ad alta voce: "È vendicata


la morte di Asio e io credo che, mentre scende nelle dimore di
Ade, guardiano feroce, sarà lieto nell'animo perché gli ho dato
una scorta" 107.

Più profondamente si dirà: non è proprio della vendetta eludere tutte le


classificazioni? In particolare, una vendetta che comporti una contro-vendetta, mettendo
in moto un ciclo infinito di violenze e mobilizzando sempre più uomini, non opera il
passaggio dalla vendetta alla guerra 108? C'è un «freno automatico e onnipotente» che
impedisca alla violenza di nutrirsi da sola 109? Senza dubbio no, ed è proprio delle società
"primitive" che praticano la vendetta disporre di numerosi mezzi istituzionali per evitare
che le vendette si tramutino in guerra, senza avere al loro fianco una forza che ne escluda

104 J. Pitt-Rivers, Anthropologie de l'honneur. La mésaventure de Sichem, Le Sycomore,


Paris 1983.
105 Si trovano numerosi esempi di questo in R. Verdier, op. cit., pp. 24-25.
106 G. Glotz, op. cit., pp. 21-22.
107 Omero, Iliade, XIII, 413-416 (trad. it., p. 617); XVII, 34-35, etc […] Quando Gedeone
uccide i capi dei Madianiti (Giudici, 8, 18-21), l'episodio si riferisce ad una vendetta personale
all'interno di una guerra.
108 F. Tricaud, op. cit., p. 74, n. 44.
109 R. Girard, La violence et le sacré, trad. cit., p. 38.

22
categoricamente la possibilità 110. Qui bisogna richiamarsi all'esperienza. Una volta
distinti i casi che derivano dalla guerra o dalla pena domestica, occorre constatare che la
vendetta non porta necessariamente all'autodistruzione sociale. Questa è certo
un'eventualità minacciosa; certamente drammatica, non deve però celare la maggioranza
dei casi nei quali la vendetta resta nei limiti di un'interazione integrabile da parte del corpo
sociale, prima di tutto perché le vendette sono praticate sotto il controllo di un'ideologia
che le accetta.

b) L'accettazione della vendetta

Come hanno notato Durkheim e Kelsen, l'espressione "vendetta privata" non ha


molto senso 111. Il rapporto fra le parti della vendetta è sempre mediato da una regola di
giustizia condivisa, un "codice" ideologico. La vendetta è tanto più accettata da coloro
che la subiscono se il sentimento della giustizia come scambio è comune all'offensore e
all'offeso. Vi sono poi pochi casi nei quali la famiglia dell'aggressore cercherebbe di
colpire preventivamente quella dell'aggredito per evitare ritorsioni. L'offensore può avere
un atteggiamento attivo: può preparare la fuga, far intervenire dei mediatori, proporre altri
compensi oltre il sangue, ma si rassegna all'inevitabile. Attende la risposta dell'offeso. Per
i Greci l'opinione pubblica, la démou phátis, dà una forza immensa al diritto di vendetta
e accorda sempre un appiglio morale agli offesi 112. La forza dell'ideologia della
reciprocità impedisce a calabresi e costantini «di sfruttare il vantaggio acquisito [con un
primo omicidio] e li obbliga ad attendere la risposta violenta del gruppo vittima» 113. La
famiglia di un offensore può anche rifiutare di farsi carico dei suoi crimini e negargli
solidarietà. L'abbandono "noxale" è attestato in varie società 114. Per i greci è
rappresentato dall'apochéryxis con la quale il ghénos ripudia il colpevole di un omicidio
iniziale e lo abbandona in qualche modo alla famiglia offesa. Pressi i Maenge, il sottoclan

110 L. Pospisil, Anthropology of Law, 1971; nell'articolo "Feud" dell'International


Encyclopedia of social sciences egli ha proposto di distinguere la guerra nella quale si affrontano
due gruppi distinti politicamente da due forme di vendetta che riguardano i gruppi membri della
stessa unità politica. Nel self redress una vendetta risponde ad un'offesa precedente e colma la
differenza. Il Feud costituirebbe così un grado intermedio fra il self redress e la guerra. Per questa
classificazione cfr. la nota critica di F. Tricaud, op. cit., p. 71.
111 Durkheim scrive: «La vendetta è una punizione che la società riconosce come legittima
ma che lascia infliggere agli individui» (La division du travail social, 1893, p. 61). Kelsen, nella
sua critica a Steinmetz scrive: «La vendetta è un comportamento socialmente determinato,
un'istituzione giuridica e morale che applica le norme sociali più antiche» (Society and Nature,
1943, pp. 49-55, testi citati in R. Verdier, op. cit., p. 37).
112 Si vedono così assassini ricchi e potenti fuggire dopo un crimine iniziale (cfr. Omero,
Odissea, XXIII, 118-120). Vi è in questo, dice Glotz, «un curioso effetto dell'influenza morale»
(op. cit., pp. 52-54).
113 C. Breteau - N. Zagnoli, op. cit., pp. 49-50.
114 Cfr. i numerosi riferimenti di G. Glotz, op. cit., p. 169 sgg. e di P. F. Girard, op. cit., pp.
720-721. Questa pratica è stata studiata in modo approfondito dai romanisti. Dopo i classici studi
di P. F. Girard, Les actions noxals, RHD, 188, p. 409 sgg; 1888, p. 31 sgg.; F. de Visscher, Le
régime romain de la noxalité, 1947, si può citare l'analisi più sociologica di H. Lévy - Bruhl, Sur
l'abandon noxal, Mélanges Meylan, 1963, tomo 1.

23
che disapprovi l'atto di uno dei suoi membri può abbandonarlo ai persecutori 115.
Aristotele ha presentato una spiegazione dell'accettazione della vendetta da parte degli
offensori stessi mostrando la differenza fra offesa e ritorsione. L'offesa iniziale è avvolta
dal disprezzo o dal rischio di disprezzo. Ma la ritorsione non comporta disprezzo. Questa
differenza permette agli affari d'onore di trovare un punto finale.

Verso coloro che hanno agito per ira o non ci si adira o ci si adira
di meno; essi infatti non sembrano avere agito per mancanza di
riguardo, poiché nessuno, quando è adirato, manca di riguardo
116.

La vendetta non è essenzialmente mimetica. Chi subisce la vendetta può accettarla


nella misura in cui il vendicatore non disprezza. Fa la controprova del suo valore, non lo
offende. Nella Calabria meridionale e nel nord Costantino dopo una vendetta
intervengono dei mediatori per sottolineare la reciprocità degli assassinii e la pari dignità
degli attori della vendetta 117. Si spiega così come i gruppi familiari non reagiscano allo
stesso modo a tutte le offese che subiscono. L'assassinio che va vendicato deve essere
percepito come iniziale; in caso contrario non dà luogo a vendetta. È ciò che è provato da
numerosi studi sulle popolazioni dell'Oceania dominate dalla legge dello scambio. Presso
i Maenge, quando un membro del sotto-clan è ucciso, se i suoi presunti assassini non sono
membri di un gruppo rivale, «i potenziali vendicatori iniziano a cercare se l'omicidio in
questione non risponda ad una violenza commessa prima dalla vittima o da uno dei suoi»
118.
In questo caso, il ciclo degli omicidi si arresta. Lo stesso avviene nelle tribù
australiane studiate da Elkin 119.

c) La vendetta misurata

La vendetta non è "cieca", ma è sempre sottoposta ad un codice di costume che


obbedisce ad una ricerca di parità ed equilibrio. Presso i Beduini di Giordania un
complesso codice prescrive di fare attenzione alla particolare dignità dell'assassinato
(sceicco, giovane o anziano, donna, bambino, schiavo, ospite, straniero protetto o no) e si
deve scrupolosamente colpire o ottenere compensazione con una persona della stesso
valore 120. Gli Ifugao dell'arcipelago delle Filippine sono suddivisi in unità molto
indipendenti e tuttavia un codice dettagliato stabilisce l'atteggiamento da tenere in materia
di violenza 121. «Gli Ifugao si fanno notare per la cura particolare che mettono nel

115 Cfr. M. Panoff, op. cit.


116 Arist. Rhet. II, 3, 1380a34 sgg; Eth. Nic. VII, 7, 1149b20 sgg.
117 Cfr. P. Breteau e N. Zagnoli, op. cit., pp. 51-52.
118 Cfr. M. Panoff., op. cit.
119 Cfr. Elkin, Oceania, 1931, vol. II, n. 2, citato in R. Verdier, op. cit., p. 40.
120 Cfr. J. Chelhod, op. cit. , capp. 6-7.
121 Cfr. R. F. Barton, Ifugao Law, University of California, Publications in American
archeology and ethnology, 1919, XV, pp. 1-127.

24
distinguere fra atti volontari e atti involontari» 122. Questa differenza permette di
distinguere i casi nei quali una vendetta di sangue è necessaria e quelli nei quali un prezzo
di sangue può essere accettato. In caso di adulterio è necessario tenere conto di più criteri:
il momento nel quale si colloca (prima o dopo la seconda cerimonia matrimoniale, prima
o dopo il rito finale), la ricchezza di chi lo commette (gli individui sono suddivisi in tre
classi). Se il marito uccide il rivale sorpreso in delicto, la famiglia di questo può
vendicarne la morte. Non è che non ne voglia sapere dell'adulterio iniziale, ma afferma
semplicemente che lo sposo tradito avrebbe dovuto esigere il risarcimento finanziario
abituale: «Se la riparazione non fosse stata pagata immediatamente dall'amante, persino
la famiglia di questi avrebbe ammesso che il marito aveva il diritto di ucciderlo» 123.
Esiste spesso un calendario delle ritorsioni legittime. Per i Moudang, passati due
periodi di due giorni, se il contro-omicidio non avviene gli anziani dei due clan
concludono il litigio con un sacrificio rituale e il versamento di un indennizzo 124. Stesso
intervento degli anziani dopo il termine di tre anni per i Georgiani delle montagne 125.
Per i Beduini giordani in caso di violenza è permessa la distruzione totale dei beni del
gruppo aggressore solo nei corso dei primi tre giorni 126. Accanto alle proroghe, molte
società ammettono una sorta di diritto di asilo che lascia agli offesi il tempo di valutare
l'offesa e la sua ritorsione legittima. Nell'antico Israele l'assassino sospendeva l'esercizio
della vendetta rifugiandosi in un santuario (in epoca antica) o in una delle tre città indicate
dal codice del Deuteronomio 127. Un assassino può ancora trovare rifugio nello spazio
sacro di un marabutto (nord-est costantino), in una chiesa (Calabria meridionale) 128,
oppure presso un capo potente (Beduini giordani) 129.
Tutte queste istituzioni mostrano che la vendetta non è mai nuda, ma ha
un'architettura complessa di costumi che ne fissano i limiti. Come nota R. Lowie, alcuni
codici primitivi sono simili a legislazioni internazionali e «ciò che manca loro sotto
l'aspetto della coesione formale è compensato in parte dalla forza dell'opinione pubblica
che delibera, con grande abbondanza di dettagli, sui più piccoli incidenti nei rapporti
sociali» 130.

d) La vendetta equilibrata

122 R. Lowie, Traité de sociologie primitive, trad. fr., 1935, pp. 388 sgg.
123 R. F. Barton, op. cit.
124 Cfr. A. Adler, op. cit., p. 83.
125 Cfr. G. Charachidze, Types de vendetta au Caucase, in R. Verdier (éd.), Vengeance et
pouvoir dans quelques sociétés extra-occidentales, Cujas, Paris 1980, II.
126 Cfr. J. Chelhod, op. cit., p. 253; p. 272. Al contrario, alcune società non ammettono la
prescrizione degli omicidi. Su alcune popolazioni eschimesi, cfr. R. Lowie, op. cit., p. 404.
127 Deuteronomio, 19, 1-10.
128 Cfr. P. Breteau e N. Zagnoli, op. cit., p. 51.
129 Cfr. L. Chelhod, op. cit., cap. 6.
130 R. Lowie, op. cit., p. 400.

25
La vendetta ha come scopo l'equilibrio. Si è visto che in molte lingue la vendetta
è pensata all'interno di un vocabolario del debito. Come dal punto di vista contrattuale, lo
scambio di valori negativi si inscrive in una contabilità fatta di guadagni e perdite. L'idea
regolatrice della vendetta è raffigurata in modo efficace dall'eguaglianza fra i due piatti
della bilancia. Si tratta solo di un ideale smentito in modo grossolano dai fatti? Le
valutazioni abituali dei danni e delle ritorsioni sono sempre derise, e il loro "diritto"
impotente?
Notiamo intanto che la prudenza impone ai vendicatori di praticare solo esazioni
ammissibili secondo le norme del gruppo. Presso i Kabye del Togo, il gruppo vendicatore
regola la risposta in modo che non sia eccessiva, a rischio di esporsi in caso contrario a
rappresaglie 131. Inoltre, dei terzi intervengono affinché la vendetta resti conforme al suo
scopo. Per i Bulsa del Nord Ghana, dopo che le famiglie si sono "scambiate" gli omicidi,
interviene il capo del villaggio per organizzare una cerimonia di riconciliazione 132. Per
i Beti del Camerun del Nord, la lotta fra clan e lignaggi dura finché le perdite non siano
pari. Quando gli omicidi reciproci appaiono equilibrati, gli alleati dei due gruppi si
frappongono per ottenere la cessazione dei combattimenti e l'avvio delle procedure di
pace 133. Nel Nord del Costantino dopo la vendetta intervengono delle "persone d'onore"
per

sottolineare l'equilibrio realizzato dallo scambio negativo —


equilibrio sincronico, si potrebbe dire — a spese della mancanza
subita dal gruppo che ha avuto una perdita: si sforzano di rendere
presente il primo affronto e sottolineare così la relazione di
scambio che la diacronia tenderebbe a cancellare 134.

Per i Maenge, se un omicidio oppone due fazioni dello stesso villaggio, le due
parti si affrontano in un combattimento leale

fino a quando una donna unanimemente rispettata nel villaggio,


sposa del "padre del villaggio" o decana di uno dei sotto-clan, vi
pone fine compiendo il gesto rituale che consiste nel versare
acqua pulita su un tizzone ardente e nel pronunciare le formule
sacre della riconciliazione 135.

Questa donna può dosare la soddisfazione del clan che pensa di avere un debito
da riscuotere. Può fermare la lotta prima o dopo la morte di un uomo. Ipoteticamente il
bilancio funebre è fatto e bisogna indennizzare chi conserva un credito 136.

131 Cfr. R. Verdier, op. cit., p. 205; pp. 210-211.


132 Cfr. R. Schott, op. cit., pp. 189-190.
133 Cfr. P. Laburthe - Tolra, op. cit., pp. 163-164.
134 P. Breteau e N. Zagnoli, op. cit., p. 51.
135 Cfr. M. Panoff, op. cit.
136 L'intervento delle donne è attestato in questo stesso senso presso i Kabiye (cfr. R. Verdier,
op. cit).

26
Questi diversi esempi mostrano che i sistemi vendicatori possono sfuggire alla
disintegrazione completa del legame sociale che R. Girard considera la conseguenza
necessaria della nuda vendetta:

La vendetta costituisce […] un processo infinito, interminabile.


Ogni volta che affiora in un punto qualunque di una comunità essa
tende a estendersi e a raggiungere l'insieme del corpo sociale [...].
Il moltiplicarsi delle rappresaglie mette in giuoco l'esistenza
stessa della società 137.

La disintegrazione delle comunità non è il termine della vendetta perché essa


funziona come un'istituzione sociale. È già sempre compresa all'interno di un codice nel
senso largo del termine. Ciò impedisce di considerarla qualcosa che proviene dall'esterno
nel corpo sociale per distruggerlo.
Con questo non si intende dire che i sistemi vendicatori abbiano la sicurezza dei
sistemi giudiziari statalizzati. Come si è detto a proposito:

Usiamo una misura differente per valutare il nostro danno e quello


degli altri, soprattutto se questi ultimi sono nostri avversari. Il
fatto che la vendetta tenda verso una sorta di contabilità non
implica che le parti tengano il libro contabile esattamente allo
stesso modo 138.

Anche solo da un punto di vista empirico le ritorsioni violente effettuate in


situazioni di pericolo e spesso all'improvviso o di notte sono difficili da dosare e
qualunque surplus di violenza può suscitare altre vendette. La vittima può "perdere la
testa" e abbandonare ogni misura nell'esercizio della vendetta. L'aggressore iniziale può
rifiutare di riconoscere, nella violenza che subisce, il pagamento di un vecchio debito.
Queste quattro considerazioni sono assai forti e le vendette cicliche, quando si verificano,
trovano senza dubbio in ciò la loro origine. La vendetta può dunque dilatarsi quando i
sistemi vendicatori sono superati da una hybris vendicativa. Ma questo stesso
sconfinamento ha un significato sociologico. Non si produce sempre e ovunque. Non è la
vendetta in generale a distruggere un ordine sociale dato. Ogni anomia rinvia a una
struttura o a uno stato sociale determinato, la cui natura permette di comprendere perché
certi atti di vendetta sembrano sfuggire al suo controllo. Al posto di considerare normale
l'anomia vendicatrice, è necessario spiegarla ogni volta con ragioni sociologiche
determinate. Questo mutamento di prospettiva non definisce per ora che un programma
di ricerca; il punto di vista comune, senza eccezione, ha fin qui prevenuto ogni indagine
in questo senso. Speriamo che il nostro lavoro collettivo contribuisca ad aprire una via di
ricerca. Si può comunque già sottolineare un certo numero di correlazioni.
La vendetta può diventare distruttrice dell'ordine sociale se questo è già entrato in
una fase di decomposizione. Così si spiega il caso degli indios Kaingang, deportati
dall'amministrazione brasiliana e sottoposti ad un processo di acculturazione che li priva

137 R. Girard, La violence et le sacré, trad. cit., p. 31.


138 F. Tricaud, op. cit., p. 71.

27
di ogni possibilità di stabilizzare i loro scambi violenti 139. Quando una società è
sottomessa a due istituzioni contraddittorie o quando un sistema della vendetta entra in
conflitto con il sistema penale che un potere statale vuole imporre, le vendette perdono
appoggi e regolazioni istituzionali: l'azione (poliziesca e giudiziaria) dello stato si
presenta agli occhi degli interessati come un supplemento di vendetta. Il sistema
vendicatorio può comportare vendette a catena se smarrisce il senso di sistema di giustizia
e diventa occasione di una competizione per l'onore che si avvicina alla guerra. La pratica
sistematica della sfida, nota a numerose società mediterranee, mostra che, quando si tratta
di ottenere una differenza di onore esponendosi liberamente alla vendetta, si genera una
sorta di integrazione di guerra e vendetta in un "potlatch" di violenza che ci allontana
dall'universo del regolamento di conti proprio della vendetta 140. In senso generale la
vendetta diventa tanto più sregolata quando interviene in un contesto sociale e storico
(conflitto interno a una famiglia, lotta per la divisione del potere, guerra, etc…) estraneo
al sistema vendicatorio 141.
Quando la vendetta si dilata, infine, non si entra necessariamente in un ciclo di
vendette interminabili. I sistemi vendicatori, accanto agli equilibri "colpo su colpo",
conoscono altri modi per mettere termine a conflitti che si sono prolungati al di là di un
primo contro-omicidio. Il ciclo degli assassini può terminare con un matrimonio. Per gli
Ifugao «la lotta può proseguire fino a quando un patto matrimoniale ristabilisce delle
relazioni pacifiche» 142. Presso gli Eschimesi studiati da Boas le famiglie in lotta si

139 Cfr. J. Henri, Jungle People, New York 1941, rist. Vintage Books 1964. R. Girard
commenta a lungo il caso in cui vede l'esempio stesso di una società che si auto-distrugge per
mezzo di una serie di vendette a catena. Si resta tuttavia colpiti per il fatto che, come sottolinea
l'autore, la vendetta Kaingang costituisce «la degradazione di un sistema più stabile». Questo
«sregolamento della loro cultura», che, dimenticando «qualsiasi mitologia più antica a vantaggio
di racconti [...] riferentisi esclusivamente ai cicli della vendetta», si rinchiude nella vendetta, è
contemporaneo a quello della loro dislocazione, in tutti i sensi del termine, perpetrata dallo stato
brasiliano (R. Girard, La violence et le sacré, trad. cit., pp. 81 sgg.).
140 Così si spiega il caso nella Calabria meridionale (cfr. P. Breteau e N. Zagnoli, op. cit.). E
anche quello degli Iqariani del Marocco (cfr. R. Jamous, Honneur et Baraka: les structures
sociales traditionnelles dans le Rif).
141 Gli esempi letterari di vendetta devono essere usati con precauzione perché spesso
presentano situazioni atipiche. L'Orestea descrive vendette di sangue interne ad una famiglia
mentre, almeno nella Grecia arcaica, la vendetta di sangue non esiste all'interno del gruppo
patriarcale. Solo il detentore dell'autorità familiare (il padre o il consiglio di famiglia) può
dispensare le pene, e all'occorrenza la messa al bando. Del resto la leggenda può antica riportata
da Omero fa soprattutto di Clitennestra una donna onesta ma senza volontà e il conflitto ha luogo
conformemente alla díke fra Oreste ed Egisto (cfr. P. Mazon, Introduction à l'Orestie d'Eschyle,
Belles Lettres, 1955). Si può anche notare che Medea, al momento della sua vendetta, è esclusa
da ogni relazione sociale. Non ha alcun appoggio istituzionale o tradizionale per regolare la
propria azione: «è insieme senza città, senza famiglia e senza marito» (cfr. S. Saïd, op. cit).
Colomba è animata da un desiderio di annientamento totale della famiglia Barricini più vicino a
un ideale di purificazione religiosa che a quello di un regolamento di conti. È evidente il contrasto
fra la sua volontà di uccidere tre persone per vendicare l'assassinio di suo padre e i "codici"
beduini o beti che prescrivono di rendere solo morto per morto, facendo attenzione alla dignità e
alla qualità equivalente delle persone coinvolte.
142 R. Lowie, op. cit., p. 391.

28
riconciliano, presto o tardi, anche se «molti innocenti» sono morti nel frattempo 143.
L'opinione pubblica, impersonata da un intermediario qualificato, può intervenire dopo
un certo numero di scambi violenti. Presso i Bulsa

il capo della Terra va a trovare i due partiti e li esorta a smetterla.


Se ne hanno abbastanza, accettano di farlo. Il capo della Terra
chiede allora un capo di bestiame ad ogni partito e ne fa sacrificio
alla Terra davanti a tutti i capi locali. Poi divide tra di loro la
carne. E allora è finita 144.

Presso i Beti, dopo ritorsioni squilibrate possono tuttavia avvenire negoziati di


pace (favoriti dagli alleati dei due gruppi). Il bilancio contabile dei danni causati (in morti,
prigionieri, villaggi bruciati, etc…) è stabilito e «parificato secondo il buon diritto, se non
lo ha fatto la guerra». In un caso presentato nel 1919

un gruppo A che ha rapito una donna al gruppo B è tenuto a


restituire la donna e a compensare le perdite in uomini subite da
B, costretto a prendere le armi per saldare il debito. La
valutazione delle compensazioni varia a seconda della notorietà e
della condizione dell'individuo in oggetto: un notabile ucciso o
fatto prigioniero, per esempio, sarà considerato equivalente a più
donne o schiavi 145.

Anche i combattimenti rituali possono servire a liquidare conti di violenza prima


intricati. Presso i Maenge si tengono regolarmente combattimenti rituali pubblici il cui
oggetto, luogo, numero di lottatori è determinato in anticipo. Quando il combattimento
ha termine, viene fatto un conto delle perdite e il "saldo" è regolato sotto forma di
compenso. Infine hanno luogo cerimonie di riconciliazione 146.

e) Il sangue e i suoi equivalenti

Una delle regolazioni più efficaci del sistema vendicatorio risiede nel fatto che
esse lasciano coesistere la vendetta di sangue come ritorsione suprema con diverse
ricomposizioni in denaro o in "natura". Ora, che queste siano obbligatorie o eccezionali
oppure oggetto di negoziazione, è sempre implicato un accordo tra le parti della vendetta.
Ogni sistema ammette i casi nei quali la vendetta di sangue è ineluttabile e quelli nei quali
non lo è. Per i Maenge vi sono casi nei quali la composizione è la regola, mentre in altri
la parte lesa ha un'opzione. Presso i Beduini

143 Ibi, p. 404.


144 L. Tauxier, Le Noir du Soudan. Pays Mossi et Gorounsi, Paris 1912, citato in R. Schott,
op. cit., pp. 178-179.
145 Atangana e Messi, Jaunde - Texte, a cura di M. Heepe, Kolonial Institut, Hamburg 1919,
pp. 314-315, citato in Laburthe - Tolra, op. cit., p. 164.
146 Cfr. M. Panoff, op. cit.

29
il ricorso alla vendetta ha luogo solo quando si tratta di un'offesa
grave e volontaria all'integrità fisica di una persona. In tutti gli
altri casi, a parte quello dello stupro che è assimilato ad un
omicidio, la regola è la ricomposizione 147.

Presso gli Ifugao, solo l'omicidio volontario non può essere espiato che con il
sangue 148. L'usanza è meno rigida presso i Ciukci della Siberia, che tuttavia «sono più
inclini ad accettare un wehrgeld nei misfatti veniali, al posto della punizione personale,
che non nel caso di omicidio» 149. Nella Grecia arcaica la poiné (che attraverso la poena
latina darà la "pena") designa prima la vendetta di sangue ed è anche una delle Erinni. Poi
significa il riscatto dell'offensore, il riscatto della vendetta, e infine indica la soddisfazione
monetaria dovuta al leso che accetti di trattare con l'offensore 150. Omero è il testimone
di questa evoluzione semantica. Nell'Iliade e nell'Odissea la poiné non è la "pena"
dell'assassino ma il pagamento (di sangue, in denaro o in natura) che è dovuto a un offeso
per una lesione 151. La compensazione per omicidio è dunque molto antica presso i Greci,
secondo G. Glotz, e in pieno IV secolo aveva ancora corso 152.
Nelle società "primitive" il prezzo di sangue è in stretta relazione con la perdita
vitale subita. Può essere oggetto del mercanteggiare ma non è fissato arbitrariamente e ha
un valore di riferimento per una cultura determinata. Si constata spesso che equivale al
prezzo di una fidanzata. Per i Moudang del Ciad 153, i Maenge 154, gli Shusta della
California «ogni individuo ha il suo prezzo determinato dal prezzo pagato per la madre
quando si è sposata» 155. Non bisogna perciò stupirsi se il debito di vendetta può essere
spesso regolato con una transazione matrimoniale o un'adozione.
Nelle società melanesiane il prezzo di sangue può essere sostituito dall'adozione
definitiva di un bambino o di un adolescente del clan degli assassini 156. Un assassino
può soddisfare un vendicatore se diventa il "figlio" di sua madre o della sua sposa in modo
simbolico: rifugiandosi nella sua casa (Nord-Est Costantino); prendendo il suo latte (per

147 J. Chelhod, Equilibre et parité dans la vengeance de sang chez les Bédouins de Jordanie,
cit., p. 127.
148 Cfr. R. Lowie, op. cit., p. 393.
149 Ibidem.
150 Cfr. G. Glotz, op. cit., pp. 109-111.
151 «Il genitivo che segue poiné indica la persona lesa e non l'offensore, sia che l'attentato sia
un omicidio sia che sia un rapimento, che il compenso sia monetario oppure no» (G. Glotz, op.
cit., p. 106).
152 Cfr. ibi, pp. 312 sgg ; pp 439 sgg. Esamineremo più avanti il dibattito su questo aspetto.
153 Cfr. A. Adler, op. cit., p. 84.
154 Cfr. M. Panoff, op. cit.
155 R. B. Dixon, The Shusta. Anthropological papers of the American museum of natural
history, XVII, 1907, p. 452, citato in R. Lowie, op. cit.
156 Cfr. W. G. Ivens, Melanesians of the south east Solomon islands, London 1927, p. 223,
citato in M. Panoff, op. cit.

30
gli Osseti) 157. La Grecia arcaica ammette la riparazione mediante la concessione di una
fidanzata agli offesi 158. A Ilio una legge del III secolo a. C. vi fa ancora allusione 159.
Per i Beduini giordani il sistema vendicatorio combina prezzo di sangue, matrimonio e
adozione e la sua mira compensatrice è particolarmente chiara. La parentela agnatizia
della vittima richiede un prezzo di sangue (valutato tradizionalmente in cammelli) e una
giovane vergine da dare in sposa al figlio della persona uccisa, a suo fratello o al padre.
Gli sarà richiesto di provvedere alla sostituzione dello scomparso dando alla luce un
maschio. Dovrà restare nella nuova famiglia finché il figlio sia in grado di assumere il
ruolo di difensore della casa.

Quando un ragazzo ha l'età per portare le armi […] la madre lo


veste con gli abiti da uomo, lo cinge di un pugnale e lo presenta
all'assemblea dei notabili. Allora è compiuta la sua missione, da
ghorra, serva, ella ritorna horra, libera. Lascia il marito, che non
ha più diritti su di lei. Lo sposo potrà tuttavia tenerla se i parenti
prossimi sono d'accordo, e dovrà pagare loro un indennizzo 160.

f) Vendetta e tribunale

Nel discorso dei giuristi la vendetta spesso viene spesso definita incompatibile con
il regno del diritto 161. L'evoluzionismo ha convertito questa opposizione nei gradi di un
progresso nel quale lo stadio della vendetta è sostituito da quello degli accordi, e questo
a sua volta sostituito dalla pena pubblica. Senza misconoscere il senso generale di
un'evoluzione che tende a limitare il ruolo e il senso dell'intervento della vittima a
vantaggio di un diritto penale statale, bisogna riconoscere, anche nella lunga durata, la
contemporaneità della vendetta con le istituzioni che, per l'evoluzionismo, sarebbero ad
essa posteriori.
Da un punto di vista antropologico, è già chiaro che la vendetta si può integrare in
una combinazione sincronica di pratiche differenziate di ritorsione. La vendetta, la

157 Cfr. Kowalewsky, Costume contemporaine et loi ancienne. Droit coutumier Ossètien
éclairé par l'histoire comparée, Paris 1893; cfr. A. Iteanu, Violence et Mariage chez les Ossètes,,
in La vengeance, cit., tomo 2.
158 Cfr. i casi riportati in G. Glotz, op. cit., pp. 130-131.
159 La legge di Ilio, all'occorrenza, proibisce questa pratica per una categoria di omicidi.
«L'assassinio non sarà riscattato né con un matrimonio né con il pagamento. Chiunque procederà
oltre sarà passibile della stessa pena (cioè sarà considerato un assassino)» (Inscriptions juridiques
grècques, n. XXII, III, L 19-21). Stesso genere di riparazione in Africa presso i Beti e i Moudang
(cfr. R. Verdier, op. cit., pp. 28-30 con la bibliografia). Si trovano altre differenze nello stesso
senso in F. Tricaud, op. cit., p. 68.
160 J. Chelhod, op. cit., pp. 316 sgg. L'autore segnala (ibi, p. 135) che in Iraq, per l'uccisione
di un capo, bisogna offrire dodici donne: «ad ognuna di loro è chiesto di dare alla luce un maschio
e di crescerlo; poi potrà fare ritorno alla sua famiglia».
161 R. Girard, al contrario, non esita ad ammettere che nel sistema penale «non vi è alcun
principio di giustizia che differisca realmente dal principio di vendetta»; la specificità del penale
risiede nel semplice fatto che evita il «pericolo di escalation» (R. Girard, La violenza e il sacro,
cit., p. 32).

31
ricomposizione, un sistema di pene pubbliche possono coesistere come elementi dello
stesso insieme giuridico. Per gli Indiani delle praterie del Nord America alcuni omicidi
comportano vendette di sangue, mentre altri si regolano con composizioni; e infine
l'autorità tribale riconosce i casi di "crimini" che riguardano l'intera società
(sostanzialmente le ribellioni) 162.
Nell'antichità mediterranea stessa si può sempre leggere l'articolazione sincronica
della vendetta con altre istanze penali. Ad Atene, dopo le riforme di Dracone e fino al IV
secolo, l'omicidio rimane una questione fra privati. Davanti ai tribunali non c'è un'accusa
pubblica per omicidio (graphé phónou), ma solo una via del diritto penale privato (díke
phónou) che appartiene esclusivamente alla famiglia. Se questa manca o transige,
l'assassinio non sarà perseguito 163. Le transazioni monetarie per l'omicidio
(hypophónia) proseguiranno fino al IV secolo a. C . Demostene ne parla «come di cose
naturali cui si ricorre ogni giorno» 164. Erano ammesse dalla legge? Si è detto di no 165.
Senza dubbio vanno distinti, a parere di G. Glotz, quattro casi: l'omicidio involontario
prima e dopo il giudizio, e l'omicidio volontario prima e dopo il giudizio. Nei primi due
casi la transazione monetaria è possibile perché il tribunale stesso condanna l'assassino
all'esilio fino a quando la famiglia colpita non acconsenta alla riconciliazione 166. Questa
poteva essere gratuita oppure no. In ogni caso, essa dimostra che anche in materia di
omicidio involontario si trattava di "dare soddisfazione" alla vittima o alla sua famiglia.
Platone e Demostene danno la stessa interpretazione dell'esilio dell'omicida involontario:
deve sparire dai luoghi che la vittima aveva l'abitudine di frequentare 167. La durata
dell'esilio dipende unicamente dalla volontà libera e unanime dei membri della famiglia

162 Cfr. R. Lowie, op. cit., p. 393; pp. 405-406.


163 Cfr. G. Glotz, op. cit., pp. 314 sgg; pp. 352 sgg. R. Bonner e G. Smith ritengono che gli
altri possano intervenire mediante un sequestro (apagoghé) dell'assassino, ma solo se la famiglia
ha cominciato ad agire contro di lui senza aver dato seguito alla sua azione. Il parere di M. D.
Macdowell: «Le graphaì ponou sono esistite» (op. cit., p. 135, seguita da F. Tricaud, op. cit., pp.
96 sgg.) resta isolata. Vedere anche la critica di A. R. W. Harrisson, The Law of Athens, Oxford
University Press, Oxford 1971, tomo 2. L'autore conclude: «L'omicidio, il crimine "per
eccellenza" per il modo di pensare moderno, non è mai stato soggetto a graphé ad Atene» (ibi, p.
9; p. 77, n. 2).
164 «Somme date in seguito ad un omicidio alla famiglia della vittima». Harpocratione,
completato da Suida, riporta due arringhe di Dinarco e l'opinione di Teofrasto nel XVI libro delle
Leggi.
165 D. M. Macdowell, op. cit., p. 9, scrive: «L'opinione riportata dai grammatici non mette in
evidenza che il pagamento in sangue fosse legale».
166 Cfr. Inscriptions juridiques grècques, II, 1, trad. Dareste, Parigi 1898, p. 2; Demostene,
contro Aristocrate, 72.
167 Plat. Leg. IX, 865d5: «Si dice che l'uomo ucciso di morte violenta se abbia visssuto con
la fiera coscienza di essere libero, appena morto monta in collera contro il suo uccisore e poiché
egli stesso è pieno di paura e di terrore per la violenza subita, nel vedere il suo omicida aggirarsi
nei luoghi già a lui un tempo familiari, si spaventa e sconvolto sconvolge l'uccisore, lui e tutte le
sue azioni, quanto più può, e trova come alleata la memoria. Per questa ragione l'uccisore deve
ritirarsi dinanzi alla sua vittima per tutte le stagioni di un anno ed evitare per un anno intero tutti
i luoghi familiari al morto, dovunque siano nella patria». Per Demostene (Contro Aristocrate, 40)
lo scopo dell'esilio è di escludere l'assassino «da tutte le cose e i luoghi abituali che la sua vittima
condivideva quando era in vita».

32
della vittima. Nel caso di assassinio volontario è chiaro che, dopo un giudizio di
condanna, non era autorizzata alcuna transazione fra la famiglia e l'assassino che ha scelto
l'esilio perpetuo piuttosto della pena di morte 168. La città del IV secolo, e certamente
anche quella precedente, non accetta che le sue decisioni formali vengano rimesse in
causa da un accordo privato 169. Al contrario, prima del giudizio la famiglia conservava
la possibilità di patteggiare con l'assassino, anche se era più onorevole ottenere la sua
condanna capitale 170. Tuttavia, dato che non esisteva accusa pubblica, se la famiglia
intraprendeva un processo, essa sola aveva il diritto di richiedere la pena di morte. Se
questa era accordata dal tribunale, all'epoca di Dracone la famiglia stessa poteva eseguire
la sentenza 171. In seguito l'esecuzione materiale della vendetta è riservata al carnefice
pubblico, anche se fino al IV secolo a. C. l'accusatore della famiglia mantiene il diritto di
assistere all'esecuzione 172.
Si nota che Atene, anche in epoca classica, conosce una sorta di diritto penale
assai complesso, che riunisce elementi della vendetta di sangue, di soddisfazione
compensatoria e di intervento della giustizia civile. Questa ha un dominio proprio e
autonomo sono nel caso di crimini di sacrilegio, tradimento e rovesciamento della
costituzione 173, crimini che sono puniti con la morte e il divieto della sepoltura.
Aristotele è il testimone di quest'epoca del diritto nella quale lo stato non si ritiene leso
da ogni ingiustizia che accada al suo interno:

È possibile compiere azioni ingiuste e azioni giuste in due modi:


o verso una singola, determinata persona oppure verso la
comunità; chi commette adulterio oppure percuote commette
ingiustizia verso un membro determinato; chi si rifiuta di fare il
soldato lo commette verso la comunità 174.

A Roma si può notare l'integrazione della vendetta in un insieme "penale"


complesso fino alla fine del II secolo a. C . Il crimine (crimen) in senso stretto, soggetto
ad una pena pubblica, non è una categoria del diritto privato ma del diritto
"costituzionale". Come ad Atene, esso designa sostanzialmente gli attacchi alla sovranità

168 È noto che ad Atene, per evitare una condanna a morte che sembra certa, chi è sotto
processo può abbandonare il paese per un esilio perpetuo (e perdere con questo tutti i suoi beni),
scomparendo prima della seconda arringa dei suoi accusatori (cfr. Antifonte, Tetralogia, V, 13;
Demostene, Contro Aristocrate, 69). Questa libertà non è tuttavia permessa al parricida.
169 Chi ritorna dall'esilio nonostante una condanna formale attacca il potere della stessa legge
civile e non si può transigere con lui. Dopo il verdetto, afferma Demostene, «la legge deve restare
padrona del colpevole e della sua pena» (Contro Aristocrate, 28-32).
170 Demostene (Contro Timocrate,, 28-29) si indigna per una transazione per omicidio
volontario senza però dire che espone chi la attua ad una pena.
171 Cfr. G. Glotz, op. cit., p. 306 sgg. Questa combinazione di accusa privata davanti ad un
tribunale seguita da un'esecuzione privata si ritrova presso un gran numero di popoli.
172 Cfr. Demostene, Contro Aristocrate, 69.
173 Cfr. Senofonte, Elleniche, I, 7, 22; Licurgo, Contro Leocrate, 124; Demostene, Contro
Timocrate, 144.
174 Arist. Rhet. I, 13, 1373b20 sgg.

33
di una città, come tradimento, insubordinazione militare, diserzione 175, violazione delle
istituzioni della plebe 176. In quest'epoca l'omicidio 177, l'adulterio, lo stupro, il
rapimento, l'incesto, le "offese" fisiche, il furto sono delitti privati. La procedura penale
si distingue poco dalla procedura civile. La vittima persegue l'aggressore davanti al
magistrato (il quale enuncia i princìpi che devono presiedere al giudizio), e in seguito
davanti al giudice o all'arbitro, al fine di ottenere una pena soddisfattoria privata e non la
punizione pubblica di un colpevole 178. Il tribunale agisce come un regolatore della
vendetta. Nei casi più gravi può rimettere (addictio) l'aggressore alla parte lesa e questa
salderà il debito sul corpo dell'addictus. Dionigi di Alicarnasso riporta avvenimenti
leggendari che mostrano come, per il pensiero antico, la vendetta può perfettamente
integrarsi in una procedura di giustizia 179. Dovendo giudicare una disputa su un furto di
bestiame accompagnato da omicidio, il re d'Alba Amulio fece un verdetto con il quale
lasciava la vendetta (timoría) a chi la richiedeva, «dicendo che colui che aveva commesso
un'offesa doveva essere punito da chi l'aveva subita» 180. Nel caso dei furti commessi
sul territorio di Lavinio, Romolo decide in due casi che i colpevoli saranno abbandonati
nelle mani delle vittime.
I colpevoli "aggiudicati" dal magistrato alla vittima possono in alcuni casi essere
messi a morte o ridotti ad una condizione simile a quella dello schiavo, incatenati nella
prigione privata della loro vittima. Le prigioni private esistono di certo in tutto il periodo
repubblicano e abbiamo una traccia della loro proibizione ufficiale in una costituzione
imperiale dell'anno 388 d. C. 181.
Nel caso di injuria (amputazione, invalidità totale di un membro, perdita degli
occhi, ferite gravi in generale), il tribunale autorizza la vittima a infliggere la stessa
lesione se non accetta una transazione monetaria 182. Nel diritto antico, in caso di furto
in flagrante, se il ladro non è ucciso all'istante dalla persona derubata (misura autorizzata

175 È il crimine di perduello; cfr. Digesto, 48, 4, 11.


176 È crimen majestatis, cfr. Digesto, 48, 4, 1, 1. T. Mommsen considera che indicava
anticamente la violazione dei diritti della plebe prima di essere esteso alla violazione dei diritti
collettivi del populus in generale (Droit pénal romain, Leipzig 1899, pp. 537-595).
177 Cfr. W. Kunkel, Untersuchungen zur Entwicklung des römischen Kriminalverfahrens in
Vorsullanischer Zeit, München 1962.
178 Sulla questione generale dell'integrazione della vendetta nel diritto romano, rinviamo a
Y. Thomas, op. cit.
179 Dionigi di Alicarnasso, I, 81, 1-3; II, 51, 1-2.
180 Y. Thomas, op. cit.
181 Cfr. Codice di Teodosio,9, 11, De privatis carceribus inhibendis, 1; Codice di
Giustiniano, 9, 5, De priv. Carcer., 1. Un testo di Tito Livio, XXIII, 14, 2, afferma che dopo la
sconfitta di Canne del 216 il dittatore M. Giunio Pera avrebbe dato l'ordine di liberare dalle
prigioni (private) i debitori insolventi (pecuniae judicati) e gli autori dei crimini capitali (qui
capitalem fraudem ausi) per il bisogno di reclutamento. Su questo aspetto cfr. Y. Thomas, op.
cit., e W. Kunkel, op. cit., p. 104.
182 Legge delle XII Tavole, 8, 2: «Si membrum rupsit, ni cum eo pacit, talio esto». È alle parti
in causa e non tanto alla città che spetta intraprendere i negoziati che decideranno se la
composizione è preferibile al taglione. Y. Thomas (op. cit.) ha mostrato come, attraverso le
suppliche, il colpevole, circondato dalla famiglia e dagli amici, tentava di ottenere dalla vittima
un accordo di ricomposizione.

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dalla legge delle XII Tavole nel caso di furto a mano armata o di notte), oppure non riesce
a giungere ad un accordo di ricomposizione con lui 183, il tribunale può ancora (dopo
averlo fatto frustare) "aggiudicare" il ladro, uomo libero, alla persona derubata. La vita e
la libertà del ladro sono allora a discrezione della vittima. Anche verso la fine del II secolo
la città impone una composizione obbligatoria che resta assai onerosa, perché corrisponde
al quadruplo del valore del furto 184. In caso di furto non manifesto, secondo la legge
delle XII Tavole l'accordo corrisponde al doppio 185.
Le composizioni e le transazioni sono pene private che hanno il fine di dare
soddisfazione alla vittima. Includono implicitamente due parti: alla riparazione del danno
economico si aggiunge la parte che rappresenta la riparazione del danno etico per
soddisfare la "giusta vendetta". Questa è misurata in base all'importanza del trauma e
all'estensione dell'offesa subita dal proprietario. Dato che i Romani considerano, come i
Greci, che il furto in flagrante è da questo punto di vista più grave del furto non manifesto,
per uno stesso valore economico sottratto vi sono pene differenti. Se i ladri agiscono in
gruppo, ciascuno non deve una parte della pena, ma la sua totalità, perché ciascuno ha
stretto lo stesso rapporto di aggressione con la vittima. Nel diritto antico, gli eredi della
vittima possono esercitare l'azione penale contro il ladro, ma se questo muore non
possono rivalersi sui suoi eredi (lo stesso avviene nel diritto classico). Tutto questo mostra
che il danno non crea un semplice debito economico che si può collocare a fianco degli
altri elementi attivi e passivi in un patrimonio, L'elemento etico, l'affronto, il disonore, la
vendetta riguardano soggetti in concreto. L'antico diritto romano rappresenta perciò un
grado assai elevato di istituzionalizzazione della vendetta. Combina l'iniziativa delle
vittime, le pene soddisfattorie e l'azione dei tribunali, che intervengono per regolare le
vendette e non per impedirle.
Questa analisi mostra, speriamo, che non è possibile sottostimare la portata teorica
e pratica dei sistemi vendicatori e ciò è chiaro per due motivi. L'idea di giustizia che li
anima è quella di una retribuzione stretta centrata sul punto di vista della vittima. Il male
da riparare non è mai quello che esisterebbe per l'aggressore. L'intenzione e le circostanze
del suo agire possono essere prese in considerazione ma solo per determinare se, nel caso
del danno, è stato attaccato il valore dell'aggredito. Questi sistemi sono complessi.
Congiungono il self help e diverse istanze: ideologia, riti, usanze, diritto, persone
qualificate dall'alleanza, parentela, notorietà, tribunali, in modo che tutti questi elementi,
in gradi differenti, rendano possibile l'effettività e la regolarità delle vendette. I sistemi
vendicatori non sono dunque la preistoria mostruosa della forma penale ma coesistono a
lungo con questa. Si rende così manifesto che le cause della violenza possono venire
regolate in altro modo che non con lo stretto monopolio statale del diritto.

183 La legge delle XII tavole ammette per l'injuria come per il furto le transazioni penali. A
parere di Ulpio, Digesto, 2, 14, De Pactis, 7, 14: Nam et de furto patisci lex permittit. Si sa che
nel diritto moderno queste transazioni sono contrarie all'ordine pubblico (cfr. Parigi 14 dicembre
1898, e il suo ricorso Ch. Criminelle, 17 maggio 1901, Periodici Dalloz, 1902, 1303).
184 Cfr. Gaio, Istituzioni, 3, 189.
185 Cfr. ibi, 3, 190; XII Tavole, 8, 16.

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