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A

Alla mia famiglia


A Clizia, ch’è sempre con me
A tutti quelli che illuminano la Vita
Alessandro Rosario Rizza
La lex Aquilia
Profili evolutivi della responsabilità extracontrattuale
nel diritto romano
Aracne editrice

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 Canterano (RM)
() 

 ----

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I edizione: giugno 


Indice

7 Introduzione

13 Capitolo I
Nozioni generali e premesse esegetiche
1.1. Il concetto di damnum nella letteratura latina. Spunti etimologici, 13 –
1.2. Breve cronistoria delle XII Tavole, 20 – 1.3. La norma decemvirale tra
lex e pax deorum, 22 – 1.4. Il ruolo della giurisprudenza pretoria nel diritto
romano, 24 – 1.5. La colpa. Per un’analisi ragionata del fondamento storico, 25

33 Capitolo II
Premesse di carattere storico
2.1. La responsabilità extracontrattuale prima della lex Aquilia: il concetto di
rupitias sarcito nelle XII Tavole, 33 – 2.2. La lex Aquilia nell’ordinamento
giuridico romano e il problema della datazione, 40 – 2.3. Struttura e contenu-
ti della lex, 45

51 Capitolo III
La lex Aquilia: profili interni e contenutistici
3.1. Osservazioni generali. L’approccio causale: dal danneggiamento al dan-
no, 51 – 3.2. Il capo I: l’uccisione del servo o del quadrupede, 53 – 3.3. Il ca-
po II: l’acceptilatio in fraudem creditori. La scelta contenutistica e la pro-
gressiva desuetudine della fattispecie tra problemi storici e giuridici, 55 –
3.4. Il capo III e le ipotesi di danneggiamento: riflessioni sulla tipicità della
condotta, 66

71 Capitolo IV
I requisiti per agire ex lege Aquilia
4.1. Iniuria e culpa: dal facere contra ius al requisito soggettivo, 71 – 4.1.1.
Le cause di eliminazione dell’iniuria tra ius naturale e ius civile, 78 – 4.1.2.
L’incapacità d’intendere e di volere come causa di esclusione della colpa e
altre ipotesi teorizzate, 97 – 4.1.3. Il principio della compensazione: il con-
corso di colpa e il difficile rapporto con il dolo, 100 – 4.1.4. Responsabilità
extracontrattuale e fatalità: il casus fortuitus, 107 – 4.2. La colpa e
6 Indice

l’esercizio della professione: l’imperizia, 109 – 4.3. Il damnum corpore cor-


pori datum: la sua elaborazione giurisprudenziale e la responsabilità degli
agenti, 118 – 4.4. La damni datio rebus alienis. Il danno arrecato al bene ne-
cessariamente altrui e criteri applicativi, 126 – 4.5. Il damnum datum:
l’effettività del danno e la contemporaneità della lesione, 128 – 4.6. I casi
particolari della condotta frazionata nel tempo e il danno indiretto, 131 – 4.7.
La responsabilità oggettiva nella configurazione dei casi pratici, 139

151 Capitolo V
La stima del danno
5.1. L’aestimatio damni: qual è il danno risarcibile? Cenni, 151 – 5.2. Il lucro
cessante e il danno emergente: le nuove frontiere del danno risarcibile, 152 –
5.3. Il pretium doloris: la (non) configurazione del dolore affettivo, 160 –
5.4. Ipotesi particolari: la stima del danno tra problemi pratici ed esigenze si-
stematiche, 162 – 5.5. La repetitio temporis. Il maggior valore risarcibile tra
il primo e il terzo capo della legge, 166 – 5.6. La litiscrescenza: confessio in
iure e infitiatio. Definizione dei concetti e ipotesi particolari, 171

179 Capitolo VI
L’actio legis Aquiliae: aspetti processuali
6.1. L’azione diretta e la rigidità del disposto letterale, 179 – 6.2. L’actio uti-
lis e l’actio in factum: verso la tutela effettiva, 184 – 6.3. La legittimazione
attiva ex lege Aquilia, 190 – 6.4. La legittimazione attiva dell’actio utilis nel-
le ipotesi di usufrutto, possesso e pignoramento. La posizione della giuri-
sprudenza e le divergenze dottrinali sul tema, 193

201 Capitolo VII


La tutela aquiliana nella sistematica europea
7.1. Il modello romanistico nella tradizione europea. Premesse, 201 – 7.2. Il
risarcimento del danno nell’esperienza francese, 203 – 7.3. Il risarcimento
del danno nell’esperienza austriaca, 205 – 7.4. Il risarcimento del danno
nell’esperienza tedesca, 206 – 7.5. Il risarcimento del danno nell’esperienza
italiana, 209

217 Considerazioni conclusive

227 Bibliografia

243 Ringraziamenti
Introduzione

Il risarcimento del danno è uno dei temi più affascinanti e degni


di nota che la tradizione romanistica ha consegnato al mondo
giuridico moderno e contemporaneo. Giuristi e addetti ai lavori,
comunemente, si riferiscono al danno extracontrattuale con
l’espressione “tutela aquiliana”, trascurandone, talvolta, le ori-
gini storiche, culturali, nonché etimologiche. La lex Aquilia de
damno iniuria dato rappresenta, a un tempo, punto di arrivo e di
partenza dell’elaborazione giuridica romana in tema di risarci-
mento del danno. Punto di arrivo, perché il risarcimento cono-
sce, sia nella tradizione romana che in quella precedente, disci-
pline profondamente diverse, che rispondono a esigenze del tut-
to differenti. Punto di partenza, perché i verba legis non saran-
no altro che l’humus, per estendere e allargare, in via pretoria,
la tutela del risarcimento del danno a ipotesi che – sebbene as-
similabili a quanto contemplato dalla lex Aquilia – rimarrebbe-
ro, ingiustamente, prive di tutela.
La materia risarcitoria ha permesso ai giuristi romani la con-
tinua ricerca di corrispondenza tra caso concreto e fattispecie
astratta, ricerca che si è tramandata nei secoli caratterizzando
l’intero sistema normativo, che – come ha messo sapientemente
in luce Giuseppe Marazzita – vive in un equilibrio dinamico,
dove si modificano in continuazione le esigenze sociali, politi-
che ed economiche1.
Il risarcimento del danno, nella sua forma più mistica e ar-
caica, nasce già nelle società tradizionali, società in cui i fonda-
tori del diritto sono intermediari tra gli uomini e gli dei2. Ante-

1. L’interessante e inedita ricostruzione del sistema normativo nei termini breve-


mente esposti in narrativa è proposta da G. MARAZZITA, Io solo sono il tuo sovrano.
Per una teoria complessa del diritto, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2015, p. 48.
2. Nelle società tribali, in cui esiste un diritto non formalmente definito, l’anziano
assolve la funzione di capo-tribù: è lui, eventualmente assistito da un consiglio di an-

7
8 Introduzione

nata del risarcimento del danno è la legge del taglione, la quale


prevede che al colpevole sia inflitto lo stesso danno di cui si
renda autore. Questa legge è presente nelle consuetudini di vari
popoli ed è riportata anche in molti codici scritti: nel codice del
re babilonese Hammurabi, la legge del taglione è prevista sola-
mente tra gli appartenenti alla medesima classe sociale, sicché,
se una persona di classe inferiore sia offesa da un nobile, può
pretendere solamente una compensazione monetaria3. Si deve
ricordare, comunque, che le leggi di Hammurabi, incise su una
stele, sono espressione di uno stato complesso e burocratizzato,
in cui la sfera giuridica inizia a separarsi da quella religiosa, ac-
quistando una propria relativa autonomia e il sovrano stesso di-
viene il garante della legge. Il risarcimento del danno è presente
anche nelle leggi hittite, le quali sembrano, secondo quanto ri-
sulta dai frammenti pervenuti, sostituire alla più arcaica legge
del taglione la più moderna compensazione pecuniaria4.
Sarà il mondo romano al centro di questa trattazione. Si per-
correrà l’evoluzione della teoria del risarcimento del danno,
cercando di comprendere il suo significato prima dell’emanazione
della lex Aquilia, si analizzerà il contenuto della legge stessa, i
suoi requisiti e presupposti, nonché la sua elaborazione in via

ziani, a dirimere le controversie e a infliggere le punizioni. Il capo-tribù è un interme-


diario tra gli uomini e la natura, e ciò gli attribuisce, a un tempo, carattere magico e ri-
tuale. Anche in società più complesse persiste questo modello: basterà solo ricordare in
questa sede che, secondo la Bibbia, Mosè avrebbe ricevuto le leggi direttamente da Dio.
Nello stesso modo, Licurgo, secondo la tradizione primo legislatore di Sparta, sembra
essere ricollegato, per mezzo del suo stesso nome, al mondo mistico dei lupi e al trave-
stitismo iniziatico. Lo stesso Numa Pompilio avrebbe concesso le sue prime leggi dopo
essersi ritirato in un bosco sacro e aver interloquito con la ninfa Egeria. Egli fu, secondo
la tradizione, il primo legislatore di Roma e creatore delle sue istituzioni religiose, come
ben emerge dalla chiara testimonianza di Dionigi di Alicarnasso e di Plutarco, oltre che,
in modo più abbreviato, da Livio, poi epitomato in età tardoantica da Eutropio.
3. Sul taglione nel codice di Hammurabi, una buona sintesi in E. VON DASSOW,
Freedom in Ancient Near Eastern Societies, in K. RADNER, E. ROBSON (edd.), The Ox-
ford Handbook of Cuneiform Culture, Oxford 2011, p. 214-217.
4. A mio parere la compensazione pecuniaria, qualora avesse realmente sostituito la
riparazione dell’“occhio per occhio, dente per dente”, dovrebbe intendersi quale espres-
sione di una società più evoluta e probabilmente più caratterizzata in senso commercia-
le. Sulla caratterizzazione commerciale delle società mediorientali dell’età del bronzo
ha scritto di recente M. CIAN, Le antiche leggi del commercio. Produzione, scambi, re-
gole, il Mulino, Bologna 2016.
Introduzione 9

giurisprudenziale. Solo dopo un’attenta esegesi della disciplina


romana sarà possibile comprendere l’importanza che la tradi-
zione romanistica ha svolto in tale materia, che oggi si pone
quale caposaldo degli ordinamenti giuridici moderni.
Dopo avere analizzato la storia della responsabilità extra-
contrattuale nel contesto del diritto romano si confronteranno
gli aspetti della disciplina romanistica con quella recepita dal
nostro codice, facendo, per quanto possibile, delle incursioni
nei principali sistemi europei, mettendone in luce continuità e
discontinuità rispetto al mondo romano. Ricordiamo che nel di-
ritto italiano vigente la materia è disciplinata dagli articoli 2043
e seguenti del Codice civile. La tutela aquiliana è esemplificata
proprio dall’articolo 2043, collocato all’interno del libro IV, nel
titolo IX “Dei fatti illeciti”. Il legislatore del 1942 ha deciso di
rubricarlo “Risarcimento per fatto illecito”:

Art. 2043 c.c.: Risarcimento per fatto illecito – Qualunque fatto dolo-
so o colposo, che cagiona ad altri un fatto ingiusto, obbliga colui che
ha commesso il fatto a risarcire il danno.

La lettera dell’articolo presenta, sostanzialmente, una fatti-


specie aperta, fondata sull’atipicità della condotta. Si avrà mo-
do, nel corso della trattazione, di metterne in luce affinità e di-
vergenze rispetto alla disciplina romanistica.
Bisogna premettere che il sistema giuridico romano è carat-
terizzato dalla tipicità, non solo in materia di contratti, ma an-
che in materia d’illeciti extracontrattuali. Nel sistema giustinia-
neo delle Istituzioni5, le obbligazioni sorgono, principalmente,
dal contractus, dall’obligatio ex quasi contractu, dai delicta e
dai quasi delicta. Ciò che più interessa, nel corso di questa ri-
cerca, sono i delitti, all’interno dei quali si colloca il danno: al
contrario dell’ordinamento positivo italiano, ispirato (almeno

5. Invece, come è altrettanto noto, il sistema del Digesto è impostato sul frammento
delle Res cottidianae di Gaio conservato in D. 44, 7, 1 che prevede una tripartizione:
Obligationes aut ex contractu nascuntur aut ex maleficio aut proprio quodam iure ex
variis causarum figuris. Sul problema cfr. ad es. C.A. CANNATA, Sulla «divisio obliga-
tionum» nel diritto romano repubblicano e classico, in Iura, 1970, p. 52 ss.
10 Introduzione

letteralmente) all’atipicità della condotta, il sistema giuridico


romano contempla quattro figure tipizzate di delitti, che sono il
furtum, la rapina, l’iniuria e – per l’appunto – il damnum iniu-
ria datum. Mentre le prime tre figure richiedono il dolo quale
elemento soggettivo, solo il danno può essere sanzionato anche
a titolo di colpa. Un accenno sarà dovuto anche ai quasi-delitti,
che si differenziano da quanto sopra esposto, poiché in siffatte
ipotesi non sarà necessario ricercare l’elemento soggettivo, in
quanto ci si trova innanzi a una sorta di responsabilità di tipo
oggettivo, secondo l’ottica espressa da Ulpiano in riferimento
all’actio de effusis vel deiectis, del cui danno era chiamato a ri-
spondere non colui che avesse effettivamente gettato la cosa
che aveva ucciso o ferito il passante, ma l’habitator:

Ulpiano, 23 ad edictum, D. 9, 3, 1, 4: Haec in factum actio in eum da-


tur, qui inhabitat, cum quid deiceretur vel effunderetur, non in domi-
num aedium: culpa enim penes eum est. nec adicitur culpae mentio
vel infitiationis, ut in duplum detur actio, quamvis damni iniuriae
utrumque exiget.

Spero che dopo un’attenta riflessione sul risarcimento del


danno, in epoca romana, possa essere più chiara e limpida al
lettore la comprensione ragionata del medesimo istituto ai gior-
ni nostri. Dietro a ogni disposizione si cela la nostra più intima
tradizione giuridica e – allora – non serviranno più pindariche in-
terpretazioni, guardando – magari – ai sistemi di common law.
Basterà guardare al nostro passato, nella speranza che, al termi-
ne di questa lettura, questo stesso passato possa sembrare più
vicino ai nostri problemi e alle nostre sensibilità.
Certe volte si guarda al diritto romano come al diritto di un
popolo che dominò e civilizzò il mondo in un antico passato e
di cui noi dovremmo essere gli eredi, anche se spesso si dimen-
ticano le proprie tradizioni romanistiche perché «nel mondo
d’oggi dell’usa e getta non vi è più posto per ciò che non si usa
e rimane», come ha notato Vittorio Chiusano6.

6. L’espressione, che critica la società consumistica odierna, la si ritrova nella pre-


fazione del manuale di I. BELLINA, Salvis iuribus. Il latino degli avvocati, UTET, Tori-
Introduzione 11

Espressioni come nemo damnum facit, nisi qui id facit, quod


facere ius non habet oppure ibi sit poena, ubi et noxia est po-
tranno risuonare come espressione di principi attuali, che la tra-
dizione romanistica ha voluto trasmettere, quale frutto di un la-
voro e di una raffinazione continua, di un ininterrotto sforzo di
adeguare il diritto vigente alle esigenze della vita quotidiana, in
quel vivace ambiente, fucina delle più grandi invenzioni del di-
ritto, che fu il mondo romano.

no 1998, in cui l’Autore propone i brocardi della tradizione romana classica più utilizzati.
Capitolo I

Nozioni generali e premesse esegetiche

1.1. Il concetto di damnum nella letteratura latina. Spunti


etimologici

Ai fini dello studio della lex Aquilia si analizzerà il concetto del


damnum così come emerso nella letteratura giuridica romana.
Nella ricerca, dunque, potrebbe tornare utile, anche in virtù di
un approccio interdisciplinare al tema, fare un excursus nella
terminologia latina, così come viene proposta non solo dai giu-
risti, ma anche dagli scrittori dell’epoca.
Brevi considerazioni si possono muovere dal fatto che per
danno s’intende, oggi come allora, una diretta o indiretta dimi-
nuzione del patrimonio del danneggiato. Il danno assurge ad
aspetto fondamentale delle nostre vite (e le fonti romane lo te-
stimoniano appieno). Il criterio generale, attraverso il quale si
possono distinguere i rapporti giuridici dagli altri, è la loro pos-
sibilità di essere valutati in denaro e la loro determinatezza di
fronte alla legge e ai principi del diritto. Solo a questo punto si
potrà giustamente parlare di danno inteso in senso giuridico.
Questa nozione non si è imposta facilmente tra le civiltà del
passato, e la stessa evoluzione della lex Aquilia può essere
esemplificativa di ciò che è avvenuto (e avviene tutt’oggi) nel
nostro ordinamento e in tutti gli ordinamenti moderni, nei quali
si cerca di dare sempre maggior spazio all’area del risarcibile.
Le principali e più antiche parole che vengono in rilievo nel
mondo romano sono fraus, noxia e iniuria1.

1. M. VOIGT, Über den Bedeutungswechsel gewisser die Zurechnung und den öco-
nomischen Erfolg einer That bezeichnender technischer lateinischer Ausdrücke, Ab-
handlungen der Philologisch-Historischen Classe der Kȍniglich Sächsischen Gesell-

13
14 La lex Aquilia

La parola fraus ha il significato di dolo, ma è tradotta anche


come inganno, astuzia, captatio e altri significati simili. Viene
in soccorso, per chiarirne meglio il senso, la testimonianza di
Quinto Cicerone, il fratello dell’oratore, in un piccolo trattatello
di tecnica elettorale:

Q. Cicerone, Commentariolum petitionis, 39: Fraudis atque insi-


diarum et perfidiae plena sunt omnia. Non est huius temporis perpetua
illa de hoc genere disputatio, quibus rebus benevolus et simulator
diiudicari possit; tantum est huius temporis admonere. Summa tua vir-
tus eosdem homines et simulare tibi se esse amicos et invidere coegit.

Secondo Paolo un contratto di società rivolto espressamente


alla frode non avrebbe alcuna validità:

Paolo, 32 ad edictum, D. 17, 2, 3.3: Societas si dolo malo aut frau-


dandi causa coita sit, ipso iure nullius momenti est, quia fides bona
contraria est fraudi et dolo.

Si deve rilevare che il principale significato di fraus, utiliz-


zato soprattutto nell’ambiente giuridico, era quello di danno.
Non solo: il termine veniva utilizzato anche per indicare lo
stesso atto (sicuramente antigiuridico) da cui avrebbe avuto ori-
gine il danno stesso, insomma una parola bivalente, che indica-
va tanto la causa quanto l’effetto.
Per completezza sistematica si può ricordare l’opinione di
Corssen, secondo il quale fraus altro non voglia dire se non
commettere un delitto e indichi, perciò, sia il delitto in sé e per
sé considerato sia il dolo. Tuttavia s’imporra il significato di
“danno sofferto”, così come emerge da varie fonti. Vediamole
partitamente:

Livio, 1, 24, 5: Foedera alia aliis legibus, ceterum eodem modo omnia
fiunt. Tum ita factum accepimus, nec ullius vetustior foederis memo-
ria est. Fetialis regem Tullum ita rogavit: “Iubesne me, rex, cum patre
patrato populi Albani foedus ferire?” Iubente rege, “Sagmina” inquit
“te, rex, posco”. Rex ait: “Pura tollito”. Fetialis ex arce graminis her-

schaft der Wissenschaften, Leipzig, Hirzel 1872, p. 109-156.


I. Nozioni generali e premesse esegetiche 15

bam puram attulit. Postea regem ita rogavit: “Rex, facisne me tu re-
gium nuntium populi Romani Quiritium, vasa comitesque meos?”
Rex respondit: “ Q u o d s i n e f r a u d e m e a p o p u -
l i q u e R o m a n i Q u i r i t i u m f i a t , f a c i o ” . Fe-
tialis erat M. Valerius; is patrem patratum Sp. Fusium fecit, verbena
caput capillosque tangens. Pater patratus ad ius iurandum patrandum,
id est, sanciendum fit foedus; multisque id verbis, quae longo effata
carmine non operae est referre, peragit. Legibus deinde, recitatis,
“Audi” inquit, “Iuppiter; audi, pater patrate populi Albani; audi tu,
populus Albanus. Ut illa palam prima postrema ex illis tabulis cerave
r e c i t a t a s u n t s i n e d o l o m a l o , utique ea hic ho-
die rectissime intellecta sunt, illis legibus populus Romanus prior non
deficiet. S i p r i o r d e f e x i t p u b l i c o c o n s i l i o
d o l o m a l o , tum ille Diespiter populum Romanum sic ferito ut
ego hunc porcum hic hodie feriam; tantoque magis ferito quanto ma-
gis potes pollesque”. Id ubi dixit porcum saxo silice percussit. Sua
item carmina Albani suumque ius iurandum per suum dictatorem suo-
sque sacerdotes peregerunt.

In questo passo il termine è utilizzato nell’accezione di dan-


no. Non sfuggirà il rapporto strettissimo individuato, nella for-
mula feziale, tra la fraus e il dolus malus.
Altri riferimenti si possono trovare nelle leggi delle XII Ta-
vole, in particolare nella terribile norma sulla divisione del cor-
po del debitore insolvente nel contesto della manus iniectio:

XII Tavole, 3, 6: Tertiis nundinis partis secanto. Si plus minusve se-


cuerunt, se fraude esto.

Anche nell’editto degli edili curuli era menzionata l’ipotesi


di una frode passibile di pena capitale, commessa da uno schia-
vo. In tal caso, l’editto imponeva al venditore dello schiavo di
esprimere esplicitamente l’esistenza di questo fatto come vizio
occulto:

Ulpiano, 1 ad edictum aedilium curulium, D. 21, 1, 1, 1: Aiunt aedi-


les: “Qui mancipia vendunt certiores faciant emptores, quid morbi vi-
tiive cuique sit, quis fugitivus errove sit noxave solutus non sit: ea-
demque omnia, cum ea mancipia venibunt, palam recte pronuntianto.
[…] Item si quod mancipium capitalem fraudem admiserit, mortis
consciscendae sibi causa quid fecerit, inve harenam depugnandi causa
16 La lex Aquilia

ad bestias intromissus fuerit, ea omnia in venditione pronuntianto: ex


his enim causis iudicium dabimus. Hoc amplius si quis adversus ea
sciens dolo malo vendidisse dicetur, iudicium dabimus".

E nella lex Mamilia Roscia Peducaea Alliena Fabia2:

Lex Mamilia Roscia Peducaea Alliena Fabia, FIRA, I2, 12: Quo ex
loco terminus aberit, si quis in eum locum terminum restituere volet,
sine fraude sua liceto facere, neve quid cui is ob eam rem hac lege da-
re damnas esto.

Venendo al secondo termine, noxia, osserviamo che esso ri-


veste una particolare importanza sempre nello stesso ambito: la
parola è di radice simile al termine noxa (risarcimento del dan-
no), e veniva utilizzata dai Romani come sinonimo di dolo, an-
che se Festo la usa per indicare l’atto dannoso:

Festo, v. No>xia, p. 180 Lindsay: No>xia ut Ser. Sulpicius Ru<fus ait,


damnum significat in XII.> apud poëtas autem et oratores ponitur pro
culpa; at noxia peccatum, aut pro peccato poenam, ut Accius in Mela-
nippo […]. Item, cum lex iubet noxae dedere, pro peccato dedi iubet.

Tuttavia, anche in questo frangente, bisogna sottolineare


come noxia possa significare anche il danno stesso, come si
evince da Servio3:

Servio, ad Aeneida, 1, 41: Noxam pro 'noxiam'. Et hoc interest inter


noxam et noxiam, quod noxia culpa est, noxa autem poena. Quidam
noxa quae nocuit, noxia id quod nocitum accipiunt.

Il terzo termine è damnum, che altro non sarebbe se non il


neutro di una forma verbale di dare, e indica la pena astratta-
mente considerata, e, di conseguenza, anche il danno sofferto4.
Nonostante la somiglianza, va tenuto separato il verbo damnare

2. Cfr. sul passo W. SIMSHÄUSER, Iuridici und Munizipalgerichtsbarkeit in Italien,


Beck Verlag, München 1973, p. 127-129.
3. Cfr. Anche G. THOME, Vorstellungen vom Bösen in der lateinischen Literatur:
Begriffe, Motive, Gestalten, Steiner Verlag, Stuttgart 1993, p. 212-215.
4. Secondo l’opinione di F.W. RITSCHL, Etymologie von damnum damnare dam-
nas, in Rheinisches Museum für Philologie, 16, 1861, p. 304.
I. Nozioni generali e premesse esegetiche 17

che assume la diversa accezione di “essere condannati”.


Non mancano, tuttavia, moltissime tesi sull’etimologia della
parola damnum, a lungo oggetto di attenzione da parte degli
studiosi5.
Agli albori il termine indica l’obbligazione, mentre nelle XII
Tavole sarà utilizzato come sinonimo di adempimento, correla-
to all’azione di pagamento di un debito6:

XII Tavole, 12, 3: Si vindiciam falsam tulit, si velit is, <prae>tor arbi-
tres tres dato. Eorum arbitrio rei, fructus duplione damnum decidito.

Damnum assume una connotazione negativa e ingloba il con-


cetto di irrogazione di una pena; mentre il verbo iudicare è uti-
lizzato quale sinonimo di conoscere o, secondo un’altra acce-
zione, dichiarare il diritto in sé, ricordando la formula che il
magistrato pronuncia contro chi ammette l’esistenza del debito7.
È giusto fare un riferimento al significato di iudicare, non

5. Tra le molte, possono essere citate quella di L. MEYER, Vergleichende Gramma-


tik der griechischen und lateinischen Sprache, Weidmann, Berlin 1882. Egli sostiene
che la parola damnum debba necessariamente derivare da dam cioè perdere; invece, per
ultimo, deve essere ricordato M. VOIGT, Bedeutungswechsel, cit. secondo il quale la ra-
dice della parola damnum deve essere ricercata nel sanscrito, e in particolar modo deve
essere connessa alla radice da, la quale, a propria volta, sarebbe collegata al greco δε-ω.
Da ciò, egli deduce che i termini damnum, damnas e anche damnare, contenendo la
stessa radice, si riferirebbero tutti al concetto del vincolo.
6. Si possono riportare ulteriori fonti nelle quali sembrerebbe esservi un significato
analogo; tra le molte, si può ricordare la formula dell’intentio, secondo cui damnum de-
cidere oportet. Preziosa testimonianza la si può rinvenire anche in M.O. SERVIO, In
vergilii Aeneida commentarius, 4, 699: Damnum (…) est damno adficere, id est debito
liberare; ideo et cum vota suscipimus, rei voti dicimur, donec consequamur beneficium,
et donec condemnamur id est praemissa solvamur. Va citato M.O. SERVIO, In vergilii
Georgica et Bucolica commentarii, 3, 387: Homicidii poenam noxius arietis damno
luebat. Importante testimonianza ci perviene anche da A. GELLIO, Noctes Atticae, 20, 1,
32: Iniurias atrociores (…) impensiore damno vindicaverunt. Per ultimo, una fonte
squisitamente letteraria è M.T. CICERONE, De Officiis, 3, 5, 23: Leges (…) eos morte,
exilio, vinclis, damno coercent.
7. Quandoque ais tu Aulo Augerio decem dare, damnas esto. Ma si può ricordare,
per avere una visione completa sul tema, anche M.O. SERVIO, In vergilii Aeneida com-
mentarius, 12, 927: In iure cum dicitur, damnas esto, hoc est damnatus es ut des, hoc
est damno te ut des. Ancora Paolo, 9 ad Plautium, D. 42, 2, 3: Confessum certum se de-
bere legatum omnimodo damnandum. Sul testo paolino cfr. E. PENDÓN MELÉNDEZ, Las
interrogationes in iure, Editorial Dykinson, Madrid 2014, p. 80-81.
18 La lex Aquilia

fosse altro perché non è mancato chi8, in dottrina, partendo da


un passo di Gaio9 inerente la formula della legis actio per ma-
nus injectionem, affidi alle parole iudicatus e damnatus lo stes-
so significato. Circa le opinioni più significative in materia, si
può sottolineare come Georg Philipp Eduard Huschke10 sostie-
ne che iudicatus si riferisse sia alle azioni reali che a quelle per-
sonali, invece damnatus, sempre a detta dello stesso studioso,
avrebbe fatto riferimento solo alle azioni personali. Ancora, Jo-
hann Jakob Bachofen11 riteneva che iudicatus si riferisse ai con-
tratti, invece il termine damnatus ai delitti.
Appare, per ultima, degna di nota l’impostazione di Rudolf
von Jhering12, secondo il quale iudicatus debba riferirsi a una
sentenza del giudice, nel momento in cui statuisce sull’esistenza
(o inesistenza) di un diritto dedotto in giudizio, al contrario il
termine damnatus sembrerebbe riferirsi alla valutazione pecu-
niaria da effettuarsi in un momento successivo rispetto alla
condanna.
Tralasciando questi contrasti dottrinali, che hanno animato
gli studiosi in passato, e che si pongono oggi quali problemi an-
cora aperti e non risolti, si deve constatare che damnum, dam-
nare e damnas, nel loro più arcaico significato, si riferiscono
generalmente alla prestazione obbligatoria, la quale dev’essere
determinata, ma anche realizzabile. Da queste prime teorizza-
zioni nasce il damnum moderno, concetto molto più ristretto,
che indica il pregiudizio (economico, ma anche morale) arreca-
to o subito da qualcuno.
Un concetto già evoluto del termine13 lo si rinviene nelle XII

8. M.A. BETHMANN-HOLLWEG, Der Civilprozess des gemeinen Rechts: in ge-


schichtlicher Entwicklung, Adolph Marcus, Bonn 1865, 1, p. 159.
9. Gaio, 4, 21: Quod mihi iudicatus sive damnatus es sestertium X.
10. G.E. HUSCHKE, R.G. ASVERUS, Über die legis actio sacramenti, in Kritische
Jahrbücher für deutsche Rechtswissenschaft, 3, 1839, p. 685.
11. J.J. BACHOFEN, De Romanorum judiciis civilibus, de legis actionibus, de for-
mulis et de condictione: dissertatio historico-dogmatica, In Libraria Dieterichiana, Got-
tingae 1840, p. 102.
12. R. VON JHERING, Geist des römischen Rechts auf den verschiedenen Stufen sei-
ner Entwickelung, Breitkopf und Härtel, Lepzig 1866, 1, p. 174.
13. L’evoluzione storica ed etimologica del termine damnum qui proposta si spiega
nella visione prospettata da M. VOIGT, Die XII Tafeln; Geschichte und System des Ci-
I. Nozioni generali e premesse esegetiche 19

Tavole. La dottrina del passato14 ha fatto un’acuta osservazione,


che richiama quanto già affermato, e cioè che siccome damnum
ha una connotazione negativa viene spesso messo in relazione
con il dolo, mentre noxia è solitamente riferita alla colpa:

Aulo Gellio, Noctes Atticae, 11, 18, 8: Ex ceteris autem manifestis fu-
ribus liberos verberari addicique iusserunt ei, cui furtum factum esset,
si modo id luci fecissent neque se telo defendissent; servos item furti
manifesti prensos verberibus adfici et e saxo praecipitari, sed pueros
inpuberes praetoris arbitratu verberari voluerunt noxiamque ab his
factam sarciri.

Ricapitolando, si può dire che il termine damnum, inteso


come condanna o in via ancora più generale come obbligazio-
ne15, è destinato a lasciare spazio all’accezione moderna, e sarà
inteso come diminuzione patrimoniale, come il seguente passo,
riportato a mero scopo esemplificativo, mette in luce:

Paolo, 47 ad edictum D. 39, 2, 3: Damnum et damnatio ab ademptio-


ne et quasi deminutione patrimonii dicta sunt.

Chiara espressione di questo significato è D. 4, 17, 151 se-


condo cui nemo damnum facit, nisi qui id fecit, quod facere ius
non habet. Sono invece rari i casi in cui il termine damnum vo-
glia significare la pena pecuniaria; si può rinviare, per questo
significato del termine a

Ulpiano, 9 de officio proconsulis, D. 48, 19, 8 pr.: Aut damnum cum


infamia aut dignitatis aliquam depositionem aut alicuius actus prohibi-
tionem.

vil- und Criminalrechtes, wie-Processes der XII Tafeln, nebst deren Fragmenten, A. G.
Liebeskind, Leipzig 1883, 1, p. 324, rist. digitale, Nabu Press, USA.
14. O. KARLOWA, Der römische Civilprozess zur Zeit der Legisactionen, Weid-
mann’sche Buchhandlung, Berlin 1872, p. 59 ss.
15. D. 16, 3, 30: Damnari litis aestimatione. Ma questo concetto si rinviene anche
in D. 4, 17, 173: Damnari in id quod facere possunt. In materia testamentaria si può ri-
cordare D. 8, 4, 16: In testamento heredem damnare ut.
20 La lex Aquilia

1.2. Breve cronistoria delle XII Tavole

Le XII Tavole sono un unicum all’interno dell’ordinamento


giuridico romano; secondo il racconto tradizionale vengono ri-
chieste, nel V secolo, dai plebei, i quali esigono a gran voce una
codificazione scritta che possa dare loro maggiori garanzie e
che sia capace di sottrarre la conoscenza del diritto al ristretto
gruppo pontificale. Non sembra per niente apprezzabile quella
dottrina, ormai antica e destituita di qualsiasi fondamento, che
ravvisa nelle XII Tavole un falso storico. Depone contro questa
affermazione quanto riportato dai Fasti capitolini, i quali testi-
moniano la presenza di dieci magistrati eponimi per gli anni
451 e 450 a.C. invece dei consueti due; né sembra apprezzabile
ritenere che i Fasti siano stati falsificati a seguito del loro rior-
dino avvenuto sotto Ottaviano Augusto.
Inoltre, gli scrittori latini testimoniano riferimenti alla legge
in un latino talmente arcaico, benché già rimodernato, da risul-
tare difficilmente comprensibile, e ciò esclude la tesi della falsi-
tà delle XII Tavole. Basti ricordare quanto attesta Marco Tullio
Cicerone a riguardo dell’antico consortium ercto non cito16.
Poi, nel corpo delle XII Tavole, sono riportati istituti talmente
arcaici (come, ad esempio, il taglione, il diritto gentilizio o la
sacertà del reo) da escluderne una redazione in epoca successi-
va. Non sembrano condivisibili neppure quelle opinioni dottri-
nali secondo le quali le XII Tavole corrisponderebbero, niente
più e niente meno, al ius Flavianum, come sostenne a suo tem-
po Ettore Pais. Si ricordi, infatti, che il liber actionum di
Gneo Flavio, scriba di Appio Claudio Cieco, vede la luce ap-
pena nel 304 a.C.
Si è sostenuta, ancora, la corrispondenza delle XII Tavole al
ius Aelianum, oppure ai Tripertita, composti da Sesto Elio Peto
Cato, il quale – secondo le fonti – sarebbe vissuto tra il III e il II
secolo a.C., a detta di Pomponio (D. 1, 2, 2, 7). È innegabile che
le opere fin qui citate guardano con estremo favore alle XII Ta-
vole, pur tuttavia l’idea che si identificassero con queste opere

16. M.T. CICERONE, De oratore, 1, 56, 237.


I. Nozioni generali e premesse esegetiche 21

repubblicane è decisamente da scartare. La stesura delle XII Ta-


vole seguita da questi eventi, può essere salutata come la nascita
del ius civile, a detta dello stesso Pomponio in D. 1, 2, 2, 5-6.
È grazie alla testimonianza liviana che si possono ricostruire
gli eventi delle XII tavole. È necessario ripercorrere le tappe
fondamentali, che vedono nel 462 a.C. il tribuno Terentilio Ar-
sa, a seguito delle prepotenze dei patrizi, richiedere un collegio
incaricato di redigere le leggi. Si tratta dei quinqueviri legibus
de imperio consulari scribendis. La proposta non viene accolta,
e le tensioni tra patrizi e consoli, da un lato, e plebei e tribuni,
dall’altra, si fanno sempre più accese. Le stesse iniziano a pla-
carsi quando i plebei conquistano l’aumento dei tribuni (che
vengono portati a dieci) e la concessione del suolo Aventino,
grazie alla lex de Aventino publicando, nel 456. Due anni più
tardi, i tribuni propongono la nomina di un collegio misto, inca-
ricato di stendere il corpo tavolare, i quali utrisque utilia ferrent
quaeque aequandae libertatis essent. Una siffatta proposta non
può che essere rifiutata, così i patres accettano sì di concedere
le leggi, ma vogliono un collegio di completa estrazione patri-
zia e inviano un’ambasciata di tre delegati in Grecia, affinché
studino le leggi di Solone, al ritorno dei quali vengono nominati
i decemviri sine provocatione17.
Sono sospese le magistrature ordinarie18, e il potere affidato
al collegio dei dieci membri, i quali vengono incaricati di sten-
dere le XII Tavole: si tratta dei decemviri legibus scribundis,
presieduti da Appio Claudio. La plebe accetta la nomina dei de-
cemviri, a condizione che rimanga in vigore la lex de Aventino
publicando. Eletti nel 451 a.C., si fanno rieleggere l’anno suc-
cessivo, poiché manca ancora la redazione di due tavole, dimo-
strando, questa volta, comportamenti tirannici e autoritari, mo-
tivo per cui vengono destituiti e si ripristinano le magistrature
ordinarie. Bisogna sottolineare come, secondo la tradizione di

17. Veniva, cioè, sospeso il diritto del cittadino incriminato di potersi appellare al
giudizio popolare.
18. Livio dice che mutatur forma civitatis, poiché si assistette al passaggio
dell’imperium dai consoli ai decemviri, paragonabile, per certi versi, al passaggio dalla
monarchia alla repubblica.
22 La lex Aquilia

Livio, il secondo decemvirato, sebbene presieduto da Appio


Claudio, si caratterizzi per la presenza di molti elementi plebei.
Scoppiata una rivolta, i decemviri vengono destituiti e si ri-
costituiscono il consolato, il tribunato della plebe e il diritto di
provocatio.
Nonostante ciò le Tavole vengono completate e pubblicate
nel 449 a.C. a opera dei consoli Valerio e Orazio: si tratta di un
complesso di XII Tavole, le cui ultime due cosiddette iniquae,
perché redatte durante il secondo decemvirato, periodo in cui i
decemviri dimostrano di volersi trasformare in altrettanti re. Le
Tavole iniquae assumono questo nome anche perché non ispira-
te alla aequatio iuris e a quel principio dell’aequare leges om-
nibus che anima la plebe: basti solo ricordare che in esse è riba-
dito il divieto di conubium tra patrizi e plebei19. Le XII Tavole
hanno dispiegato i propri effetti in via tralatizia, giungendo fino
a noi, si può menzionare il principio della generalità ed astrat-
tezza delle leggi20, oppure la “successione di altri parenti” ex ar-
ticolo 572 c.c.21

1.3. La norma decemvirale tra lex e pax deorum

A questo punto, dopo aver visto la storia delle XII tavole, e per
poter rapportare la valenza sistematica del loro contenuto a
quella dalla lex Aquilia, è necessario fare riferimento alla natura

19. Se da un lato non si può dubitare dell’esistenza delle XII Tavole, il racconto di
Livio solleva non poche contraddizioni: risulta strano che il secondo decemvirato abbia
redatto le Tavole iniquae, poiché vi erano dei plebei: risulta strano credere che questi
abbiano voluto riconfermare il divieto del conubium, come sembra altrettanto strano che
i consoli Valerio e Orazio, da un lato promotori della libertà, abbiano provveduto a
pubblicare anche le iniquae. Secondo una diversa costruzione, invece che un secondo
decemvirato si avrebbe avuto un gruppo di arconti, e le Tavole inique sarebbero state
redatte proprio dai consoli Valerio e Orazio, ma tale ricostruzione appare priva di ogni
fondamento, e in più contrastante con le fonti, le quali testimoniano lo scontento popo-
lare verso il secondo decemvirato e il desiderio di ripristinare il consolato.
20. È la norma secondo cui privilegia ne irrogatio (Tav. 9, 1, M.T. CICERONE, De
legibus, 3, 4, 11).
21. L’art. 572 c.c. è espressione del principio nomina hereditaria ipso iure dividun-
tur in Tav. 5, 9 e anche in C. 2, 3, 26 e C. 3, 36, 6.
I. Nozioni generali e premesse esegetiche 23

delle norme in esse contenute. È da dire che queste si trovano in


una posizione intermedia tra un diritto laico e un diritto ancora
innervato dall’influenza religiosa, indubbio lascito dell’età ar-
caica. In questo periodo, infatti, il sistema di repressione penale
si ispira, più che a principi giuridici, a principi di natura religio-
sa, e ha come ultimo fine quello di mantenere la pax deorum.
Ciò vuol dire che un comportamento è sanzionato non perché
lesivo di un bene giuridico, come avverrà ex lege Aquilia, ma
più semplicemente perché il comportamento del singolo in-
fluenza negativamente l’intera collettività e il rapporto con gli
dei. Si punisce per restaurare l’amicitia con gli dei e ristabilire,
in tal modo, la pax deorum.
Questo sistema giuridico è ispirato al concetto della pena
privata, per questo motivo non esiste una disposizione generale
sulla responsabilità extracontrattuale, ma singole ipotesi volte a
sanzionare determinati comportamenti del singolo che hanno
delle influenze negative nella società e destabilizzano il rappor-
to con le divinità.
Alcune norme delle leggi delle XII Tavole sembrano ancora
ispirate a quel sistema religioso-giuridico che ha caratterizzato
l’età arcaica. È una situazione del tutto particolare, in cui
l’ordinamento giuridico, per giustificare l’uso della sanzione,
ricorre a un fondamento religioso e mistico. Il primo riflesso di
quanto sopra detto, è la sottrazione alla gens, o – quanto meno
alla familia – anche dei poteri di autotutela privati, un tempo
ammessi. Questo concetto di repressione lo si ritrova anche
all’interno delle XII Tavole, poiché queste, molto spesso, recepi-
scono le leggi regie o, più in generale, alcuni antichissimi mores.
Tra le sanzioni, si possono ricordare la purificazione espia-
toria (piaculum) per un crimen expiabile, che si traduce in un
sacrificio sostitutivo (di regola veniva sacrificato un animale
per una divinità). Un altro tipo di sanzione consiste nella conse-
cratio dell’offensore, la quale può tradursi nel sacrificio della
sua persona medesima (consecratio capitis), ma anche dei suoi
beni materiali (consecratio bonorum). Ancora diversa è la figu-
ra dell’homo sacer; si tratta di una figura controversa, ma si può
riassumere come quella situazione per cui un soggetto, accusato
24 La lex Aquilia

di aver commesso crimini molto gravi, verrà ucciso da un altro


uomo, che – in virtù del proprio ruolo di stabilizzatore tra gli
uomini e le divinità – non potrà essere accusato di omicidio22.
Per ultimo va precisato che di regola la sanzione dev’essere ir-
rogata dalla collettività, altre volte invece può essere commina-
ta da un singolo soggetto, invece veramente rare sono le ipotesi
nelle quali si permette al colpevole di potersi redimere da solo.

1.4. Il ruolo della giurisprudenza pretoria nel diritto ro-


mano

L’actio legis Aquiliae, per essere utilmente esercitata, richiede


che siano rispettati gli stringenti criteri previsti dalla lettera del-
la legge. Il danno deve essere cagionato iniuria, deve trattarsi,
in poche parole, di un danno ingiusto. Rilievo particolare assu-
me anche la tipicità della condotta, che deve rientrare nelle fat-
tispecie indicate. A tutto ciò si aggiunge il requisito per cui, per
ragioni che vedremo a tempo debito, il danno debba essere pro-
vocato corpore corpori. Si comprende, fin da subito, come cer-
te ipotesi, pur degne di difesa e di protezione, possano rimanere
prive di tutela. Per questo genere di problemi si può fin da ora
anticipare che un ruolo determinante è svolto dal pretore23, il
quale interviene principalmente adiuvandi, corrigendi, supplendi
iuris civilis gratia, secondo quanto espresso nel celebre testo
del secondo libro delle Definitiones di Papiniano, D. 1, 1, 7, 1.
Il pretore, nell’esercitare la propria giurisdizione, deve atte-
nersi a quanto egli stesso predispone nel proprio editto, per as-
sicurare la certezza del diritto24. All’inizio dell’anno di carica, il

22. L. GAROFALO, Studi sulla sacertà, CEDAM, Padova 2009.


23. La carica del praetor viene istituita nel 367 a.C. e si caratterizza per le sue fun-
zioni giurisdizionali. Egli è incaricato a risolvere le controversie tra privati. Nel 242
a.C. si assiste alla nascita di un secondo pretore detto peregrinus, il quale – a differenza
del primo detto urbanus – è incaricato a risolvere le controversie private in cui fosse
parte uno straniero.
24. La lex Cornelia de iurisdictione stabiliva un obbligo in capo al pretore di atte-
nersi a quanto disposto dall’editto. In esso trovano collocazione sia le azioni di natura
civile sia i mezzi processuali del pretore, che vengono addirittura definiti magis im-
I. Nozioni generali e premesse esegetiche 25

pretore emana l’editto perpetuo, tuttavia, nel corso dell’anno,


possono darsi delle situazioni non contemplate dal medesimo,
motivo per cui si ritiene necessario emanare l’editto repentino,
mentre quello tralatizio nasce dalla prassi pretoriale di ingloba-
re nel proprio editto le regole stabilite dal predecessore.
Anche in materia di risarcimento del danno, il pretore con-
cede delle azioni utili o in factum. Tale genere di azioni vengo-
no concesse utiliter in tutte quelle ipotesi nuove, ma analoghe a
quelle tutelate dalla lex Aquilia. La clausola con la quale il pre-
tore concede l’azione termina con l’espressione iudicium dabo.
In materia aquiliana spetta al danneggiato dimostrare i requisiti
necessari per poter esperire l’actio legis Aquiliae oppure
l’azione in factum concessa dal pretore. Spetta eventualmente al
convenuto proporre invece un’eventuale exceptio25, capace di
paralizzare la pretesa attorea, a cui poteva comunque seguire
una replicatio.

1.5. La colpa. Per un’analisi ragionata del fondamento


storico

Il sistema della responsabilità extracontrattuale ruota intorno a


tre principali elementi che sono la causa, l’effetto e il rimedio.
Questi tre concetti assumono un significato atecnico, in partico-
lare modo la causa e l’effetto sono degli eventi casuali, mentre
il rimedio è dominato dall’intervento dell’uomo. La causa as-
sume un significato giuridico nel senso di colpa, l’effetto invece
sarà il danno, mentre il rimedio – inteso quale momento conci-
liativo – è dato dal risarcimento.
Quest’ultimo è il fondamento dell’azione giudiziaria, e sorge
indipendentemente da un rapporto tra l’agente e la vittima e
serve a rimediare al pregiudizio arrecato e subito. La responsa-

perii quam iurisdictionis (D. 2, 1, 4).


25. L’exceptio si distingue dalla denegatio actionis; solo quest’ultima è rilevabile
d’ufficio in iure dal magistrato. Ai fini della trattazione, si ricordi che l’azione era de-
negata, per esempio, al biscazziere per tutti gli illeciti subiti nell’esercizio della sua pro-
fessione (D. 11, 5, 1 pr.).
26 La lex Aquilia

bilità – ovvero, per voler usare una definizione di tipo nozioni-


stico di Carlo Augusto Cannata, «la situazione di un soggetto X
contro il quale l’ordinamento riconosce ad un altro soggetto Y
una pretesa (protetta da azione) per un danno sofferto dallo stes-
so Y»26 – relativa a qualunque fatto dell’uomo, nasce all’interno
di questo schema.
Pertanto, emerge come la colpa ha per presupposto l’azione
umana, che può assumere molte declinazioni, come – ad esem-
pio – un fatto diretto o indiretto, derivante da un comportamen-
to commissivo od omissivo.
L’iniuria è il fondamento della responsabilità, grazie alla
quale si rende obbligatorio l’accertamento (per mezzo di un
processo probatorio), insieme al fatto causale, e solo dopo que-
sti momenti, si ritornerà alla stima della responsabilità in
un’ottica conseguente. Bisogna prendere atto che il danno non
costituisce un elemento sufficiente affinché possa sorgere la re-
sponsabilità, qualora sia stato iure datum: per cui sarebbe privo
di antigiuridicità il comportamento del soggetto legittimato da
un preciso diritto, anche se più avanti verranno fatte le dovute
precisazioni riguardanti soprattutto i limiti d’esercizio al pro-
prio diritto, in virtù del nuovo significato d’iniuria, che va deli-
neandosi nella configurazione dei giureconsulti27.
Qual è dunque il carattere dell’iniuria? È il torto in cui si
trova l’autore, che non ha diritto di fare qualcosa. In questa ipo-
tesi sorge un danno che deve essere riparato, perché derivante
da un fatto che è – al tempo stesso – illecito e dannoso. Bisogna
chiedersi per quale elemento interno la colpa differisca da tutte
le altre cause di responsabilità. Per iniuria si intende la lesione
ingiusta del diritto altrui, lesione che deve essere collegata a un
determinato evento28. L’iniuria, in un’ottica più arcaica, è

26. In tal senso, C.A. CANNATA, Sul problema della responsabilità nel diritto priva-
to romano, Materiali per un corso di diritto romano, Libreria Editrice Torre, Catania
1996, p. 6.
27. Sulla massima ora citata cfr. da ult., F. LONGCHAMPS DE BÉRIER, L'abuso del
diritto nell'esperienza del diritto privato romano, Giappichelli, Torino 2013, p. 139 ss.
28. Un’interessante espressione di iniuria oggettivamente si ritrova in G.P. CHIRO-
NI, Istituzioni di diritto civile italiano, Fratelli Bocca, Torino 1888-1889, p. 117.
I. Nozioni generali e premesse esegetiche 27

l’offesa ingiusta a un diritto giuridicamente tutelato e deve con-


sistere in un fatto positivo (perché inizialmente l’omissione non
viene sanzionata). Tra l’altro, va sottolineato come i giuristi ro-
mani non dessero, almeno nell’epoca più arcaica, alcun peso al-
la capacità dell’agente, guardando solamente all’ingiustizia del
danno provocato, in un’ottica tutta rivolta alla tutela della pro-
prietà privata.
Sono necessarie alcune premesse sul fondamento storico e
sociale della colpa, perché, ancor prima di essere un istituto
giuridico, è un fenomeno sociale sottoposto a una evoluzione
logica e a uno sviluppo storico. Da un punto di vista più stretta-
mente sociologico, può sostenersi che la responsabilità extra-
contrattuale nasce perché il singolo (offeso da un’azione ingiu-
sta di un suo pari) reagisce e suscita – conseguentemente – una
presa d’atto del disvalore subito in capo alla società, pertanto il
giudizio di responsabilità rappresenterebbe un momento transa-
tivo dal singolo verso la collettività. In un primo momento, si
sarebbe riconosciuto un compenso alla vittima, poi sarebbe ve-
nuta in rilievo la colpa solo nella violazione del diritto dell’uguale,
ma non ancora nell’abuso del potere sopra una cosa propria,
uno schiavo o il proprio dipendente.
A tal proposito, si può ricordare che presso i popoli germani
il fatto illecito veniva preso in considerazione facendo riferi-
mento alla sua conseguenza materiale. Si guardava al danno ar-
recato al terzo: il soggetto che aveva subito l’offesa era legitti-
mato a farsi giustizia da solo. In un primo momento avrebbe
potuto usare le armi, successivamente si sarebbe fatta spazio la
composizione in valore patrimoniale, il wergeld. Il soggetto che
aveva ricevuto un danno diventava titolare di un credito, anzi, si
formava una vera e propria obbligazione tra l’offensore e l’offeso.
Si può sostenere che il delitto (in un’ottica del tutto estranea al
diritto moderno, e pertanto inteso come una fattispecie tra il di-
ritto penale e il diritto civile) rappresenta la prima e più antica
forma di obbligazione.
È necessario fare un cenno alla figura dei quasi-delicta, per-
ché assume importanza la responsabilità che si impone a un
soggetto per l’azione di un altro, o per le offese che sono state
28 La lex Aquilia

arrecate alle persone o alle cose altrui da parte di uno schiavo,


di un animale, o – addirittura – per le offese arrecate da cose ina-
nimate, senza la colpa del proprietario. Che fine fa la colpa? Si
può ravvisare la prevalenza dell’elemento oggettivo e materiale
su quello soggettivo dell’imputabilità. Anzi, si può dire di più:
nel diritto germanico29 chiunque avesse cagionato un danno ri-
spondeva della propria azione, essendo del tutto irrilevante la
presenza dell’elemento soggettivo30. Su questa materia il diritto
germanico aveva delle idee diverse rispetto al mondo romano,
anche se è apprezzabile collegare questo fenomeno al significa-
to primitivo che l’iniuria ebbe anche tra i giuristi romani. Il
mondo germanico giunge a questa conclusione perché caratte-
rizzato da una diffusa severità sistematica, basterà ricordare che
il debitore era sempre presunto in colpa, una presunzione giuri-
dicamente invalicabile, se non mediante il ricorso al giuramen-
to, istituto che in una società arcaica assumeva una valenza del
tutto peculiare, rappresentando un punto di contatto tra il singo-
lo e le divinità inaccessibili31. Si può rilevare, in questa sede,
che la storia è stata caratterizzata da un ampliarsi del raggio del-
la responsabilità, tanto nel mondo antico quanto in quello mo-
derno: la stessa lex Aquilia amplia il suo campo d’azione grazie
all’attività pretoria e alle frequenti estensioni giurisprudenziali,
che oggi caratterizzano l’articolo 2043 del Codice civile oppure
l’articolo 2059 in tema di risarcimento del danno morale, fino
alla configurazione di determinate aree di responsabilità atipi-
che dove sembrerebbe dominare una concezione oggettiva
dell’illecito civile, vuoi perché la giurisprudenza è di difficile
interpretazione vuoi perché l’opera della dottrina avalla talvolta
gli orientamenti più semplicistici (mi riferisco alla, di recente,
dibattuta questione della responsabilità oggettiva, che oggettiva

29. Queste informazioni si rinvengono in G. SALVIOLI, Manuale di storia del dirit-


to italiano, dalle invasioni germaniche ai nostri giorni, Unione tipografica editrice, To-
rino 1899, p. 508.
30. Sulle nozioni di faida, wergeld etc., cfr. ora K. MODZELEWSKI, L’Europa dei
barbari. Le culture tribali di fronte alla cultura romano-cristiana, Bollati Boringhieri,
Torino 2008, p. 54-92.
31. Sulla severità dell’ordinamento germanico, preziose informazioni si ritrovano
in C. CALISSE, Storia del diritto italiano, Barbera, Firenze 1891, p. 208.
I. Nozioni generali e premesse esegetiche 29

a parer di chi scrive non può essere, dell’illecito legislativo).


Nonostante non sia questa la sede più opportuna si può ricorda-
re che il sistema di diritto positivo dovrebbe ispirarsi alla visio-
ne romanistica di iniuria intesa come colpa e – dunque – come
elemento soggettivo del reato, e ricordare che all’interno del
mondo romano la responsabilità oggettiva, propria dei quasi-
delicta, si pone come eccezione e non come regola.
Va ricordato che già nella dottrina del XX secolo non è
mancato chi auspicasse a una configurazione oggettiva della re-
sponsabilità32. Avallare una visione di questo genere, vuol dire
disattendere completamente l’insegnamento romanistico, dar
maggior valore al danno economicamente suscettibile di valuta-
zione ed eliminare completamente il giudizio di responsabilità,
che oggi – grazie alla valenza trasversale dell’art. 25 Cost. – è
un principio fondamentale dell’ordinamento. È necessario che il
danno sia opera dell’agente in base a un nesso di causalità, pre-
supponendo che ciascuno deve svolgere l’attività per il proprio
interesse, e non deve mai farlo a danno altrui: anzi, dovrebbe
impegnarsi affinché il proprio bene si accordi con quello degli
altri consociati.
Concludendo queste brevi considerazioni sul fondamento
storico della colpa, si può constatare che oggi, come avveniva
nel diritto romano, è giusto tener fermo il concetto di iniuria,
inteso come colpa, e strettamente legato – come dalle fonti clas-
siche si può evincere – all’imputabilità del fatto, fino a quando
l’idea di una responsabilità oggettiva generale resterà sullo
sfondo, esprimendosi solo con piccoli segni: è necessaria
l’iniuria, ancora oggi, per far sorgere una responsabilità civile,
come voluta dal diritto, mentre la responsabilità oggettiva resta
relegata alle ipotesi tassative previste dalla legge33.

32. Questo concetto lo si ritrova in E. PIRMEZ, De la Responsabilité. Project de ré-


vision, des Articles 1382 à 1386 du Code civil sousmis à la Commision de Révision du
Cod Civil 1888, ricordato nelle Pandectes Belges, 43, sotto la voce Faute.
33. Sarebbe auspicabile che il legislatore tenesse presente che la responsabilità og-
gettiva, nel mondo romano, è sempre ispirata a un nesso di causalità: ad esempio, la re-
sponsabilità del rischio d’impresa si spiega nel senso che i padroni, come si giovano dei
vantaggi dell’impresa, così dovrebbero assumere a loro carico tutti i rischi, tutti gli in-
convenienti e dovrebbero risarcire i danni diretti e indiretti che derivano dall’attività che
30 La lex Aquilia

Venendo a parlare del grado della colpa, non è chiaro se la


gradazione possa estendersi alla responsabilità extracontrattua-
le, essendo tipica della responsabilità contrattuale. Il tutto si
spiega nella voglia degli interpreti di ridurre tutto a sistema e a
classificazione. Non è mancato chi ha sostenuto «come alcuni
non si tenessero paghi delle tre specie o gradi di colpa, ma ne
fecero quattro, o con l’ammettere una culpa latior, o con
l’inferire una categoria di culpa levior fra la levis e la levissi-
ma»34.
La colpa grave35 (definita anche magna culpa o negligentia),
consiste in una negligenza superiore alla media. Vuol dire non
prestare l’attenzione più banale, non intendere quello che tutti
intendono: questa colpa è talmente grave da potersi identificare
col dolo. La si può, pertanto, definire dolo proxima.
La colpa è lieve (detta anche levis o semplicemente culpa)
quando l’agente non usa l’attenzione dell’uomo regolare e ordi-
nato, ossia quando non si comporta come il buon pater familias in
astratto. La colpa levis è la colpa ordinaria, quella che caratterizza
il discostamento dal comportamento proprio dell’uomo medio.
Va osservato che la gradazione della colpa, che dianzi è sta-
ta brevemente illustrata, è tipica della responsabilità contrattua-
le, mentre è del tutto sconosciuta al sistema della responsabilità

esercitano. Si può richiamare, fin da ora, quel principio di diritto che si rinviene in Pao-
lo, D. 50, 17, 10: Secundum naturam est commoda, cuiusque rei eum sequi, quem se-
quuntur incommoda. Si tratta del fondamento precipuo della responsabilità per i danni
cagionati dalle cose.
34. Questa affermazione la si rinviene in V. POLACCO, La culpa in concreto nel vi-
gente diritto civile italiano, G.B. Randi, Padova 1894 (Memoria letta alla R. Accademia
di scienze, lettere ed arti in Padova nella giornata del 10 giugno 1894 e inserita nel vo-
lume X°, Dispensa IV degli Atti e memorie della regia Accademia di scienze, lettere e
arti, 10 giugno 1894, p. 7).
35. D. 50, 16, 2, 213; questa nozione è rinvenibile nel manuale di P. BONFANTE,
Istituzioni di diritto romano, Barbera, Firenze 1896, p. 76 ss. (=Istituzioni di diritto ro-
mano, a cura di G. BONFANTE-G. CRIFÒ, Giuffrè, Milano 1987). È interessante la se-
guente citazione, che si trova in E. PACIFICI MAZZONI nelle Istituzioni di diritto civile,
Cammelli, Firenze 1871, p. 184: “colpa lata, grave, quando il debitore trascura le pre-
cauzioni più comuni e omette di fare quello che ognuno farebbe per impedire il peri-
mento o il danneggiamento della cosa, o non intende né prevede ciò che tutti inten-
dono e prevedono, o essendo incaricato di amministrare gli affari altrui, adopera
nell’amministrazione minore accuratezza che né propri”.
I. Nozioni generali e premesse esegetiche 31

aquiliana, in cui il soggetto agente è più semplicemente in col-


pa, non importa se più o meno grave, mentre va detto che tutte
quelle volte in cui i giuristi richiamano la gradazione della col-
pa in materia extracontrattuale lo fanno per esemplificazione,
come se facessero un paragone con la responsabilità contrattua-
le, e lo stesso va detto nel caso in cui venga fatto un richiamo
alla culpa levissima, essa infatti non è un nuovo grado di colpa,
ma solo un’espressione idonea a rappresentare il labile confine
che può esistere tra la colpa e il caso nella difficile applicazione
pratica della legge. In questa circostanza la responsabilità non
può commisurarsi al grado maggiore o minore della colpa, ma
si pone in relazione all’entità del danno, di cui la legge impone
il risarcimento36.

36. La materia viene largamente trattata da A. DE CUPIS, Il Danno: teoria generale


della responsabilità civile, Giuffrè, Milano 1954, p. 85 ss. Per un approfondimento su
questo tema si può consultare anche A. BUCCELLATI, Istituzioni di diritto e procedura
penale secondo la ragione e il diritto romano, Hoepli, Milano 1884, p. 159. Questo Au-
tore mette in luce l’inesistenza della gradazione della colpa nella responsabilità extra-
contrattuale, rifacendosi solamente al maggior o minor discostamento dal comporta-
mento dell’uomo medio. Ma furono i giuristi romani a elaborare la gradazione della
colpa o guardarono a qualche altro ordinamento? È suggestivo aderire alla tradizione li-
viana, secondo cui i Romani avrebbero inviato un’ambasciata di tre delegati in Grecia,
affinché studiassero le leggi di Solone, al ritorno dei quali vennero nominati i decemviri
sine provocatione. Probabilmente già qui i Romani vennero a conoscenza della grada-
zione così come prospettata dai greci: questi, in un primo momento, individuarono il
concetto generico di colpa, definito αἰτία (cioè fallo) e successivamente individuarono
la colpa massima, che veniva in rilievo quando per evitare il danno sarebbe bastata poca
diligenza (µίκρα ἐπιµέλεια), la colpa lieve, quando sarebbe stata necessaria la media di-
ligenza (µίοη ἐπιµέλεια), e, infine, la colpa lievissima, quando sarebbe stata necessaria
la massima diligenza, che essi chiamarono µεγαλή ἀκρα o ancora ἀκριβης.
Capitolo II

Premesse di carattere storico

2.1. La responsabilità extracontrattuale prima della lex


Aquilia: il concetto di rupitias sarcito nelle XII Tavole

L’istituto del risarcimento del danno affonda le sue radici in


epoche più remote rispetto a quelle della lex Aquilia; infatti si è
riscontrata una disciplina sul risarcimento del danno anche
all’interno delle XII Tavole. In materia sono sorte varie idee e
scuole di pensiero: secondo alcuni autori, che oggi rappresenta-
no la maggioranza, le leggi delle XII Tavole prevedono tipiche
e circoscritte ipotesi di risarcimento del danno, invece, secondo
altri, esse prevedono già una disciplina generale del risarcimen-
to. Secondo questa scuola di pensiero, l’aver prospettato tipiche
ipotesi risarcitorie sarebbe espressione del fatto che vi fosse an-
che una disciplina generale in materia risarcitoria. Chi ha dato
origine a questa disputa dottrinale è Festo, o meglio Verrio
Flacco, da cui il grammatico del II secolo trasse il suo vocabo-
lario: secondo la sua preziosa e chiara testimonianza, all’interno
delle XII Tavole figurano le parole “danno” e “risarcimento”,
indicate rispettivamente coi termini rupitias e sarcito1. Fin qua,
nulla di eccezionale, se non fosse per il fatto che Festo riporta
espressamente il significato di queste due nozioni:

Festo, v. Rupitias, p. 320 L.: Rupitias <in> XII significat damnum


dederit.

1. Per la complessa ricostruzione, di cui si darà conto nel corpo del testo, si riman-
da a P.G. CASTELLARI, Della lex Aquilia ossia del danno dato, Tipografia Fava e Gara-
gnani, Bologna 1879, p. 1-7.

33
34 La lex Aquilia

Sotto la voce sarcito, invece, Festo riporta il seguente inciso:

Festo, v. Sarcito, p. 430 L.: Sarcito in XII Servius Sulpicius ait signi-
ficare damnum solvito, praestato.

Si è osservato che rupitias sarcito ben si adatta allo stile les-


sicale delle XII Tavole, come testimonia un interessante passo
di Aulo Gellio:

Aulo Gellio, Noctes Atticae, 11, 18: Voluerunt decemviri noxiam ab


his (scil. pueris impuberibus) factam sarciri.

Il termine sarcito esprime la sanzione di un precetto. Parten-


do da questa base, la dottrina ha osservato come la presenza di
tipiche ipotesi risarcitorie, quali il membrum ruptum e l’os frac-
tum aut collisum, bene si prestano a giustificare la presenza di
una norma risarcitoria avente portata generale: nel caso oppo-
sto, le ipotesi delittuose che non rientrano in questi concetti ri-
marrebbero impunite; una norma avente portata generale è ido-
nea ad evitare questa disparità di trattamenti. Tuttavia, questa
lettura delle XII Tavole è stata rigettata unanimemente, e si è
detto che l’espressione rupitias sarcito è estranea al contesto
legislativo decemvirale; Festo non avrebbe mai utilizzato il vo-
cabolo rupitias, semmai rupit o rupsit. In questo modo, il passo
di Festo non farebbe altro riferimento se non al seguente passo:

Tav. 8, 2: Si membrum rupit, ni cum eo pacit, talio esto.

Il passo dianzi riportato lo si ritrova in Festo, sotto la voce


talionis. Si argomenta, perciò, che Festo, con la spiegazione che
si rinviene sotto la voce Rupitias, altro non vuole fare se non ri-
ferirsi alla disposizione del membrum ruptum.
A propria volta, questo ragionamento è stato, in passato, du-
ramente criticato da Sell: secondo questo Autore, tutto nasce-
rebbe da un equivoco, dato dal fatto di voler inserire, in un
modo quanto meno forzoso, la preposizione in, che non si rin-
viene in Festo. La dottrina che egli vuole criticare giustifica le
II. Premesse di carattere storico 35

proprie argomentazioni affermando che non si dovrebbe leggere


rupitias, ma rupit in. Da un punto di vista grammaticale va
detto che è raro l’utilizzo dell’ablativo preceduto da in, in
quanto in letteratura si preferisce utilizzare direttamente
l’ablativo semplice, e lo stesso Festo – allineandosi a questa
osservazione generale – non utilizza mai la particella in2. Tra
l’altro va anche detto che leggere rupit al posto di rupitias non
si adatta a Tav. 8, 2 perché questo passo si riferisce a una forma
d’ingiuria (che sarebbe, appunto, il membrum ruptum), mentre la
descrizione data da Festo non si riferisce a una ipotesi di iniuria,
bensì alla definizione del damnum dare. Questo passo è stato
utilizzato per dimostrare come l’ipotesi del membrum ruptum
possa essere ricompresa all’interno della nozione più ampia di
iniuria:

Gaio, 3, 223: Poena autem iniuriarum ex lege XII Tabulorum propter


membrum ruptum quidem ruptum talio erat; propter os vero fractum
aut collisum trecentorum assium poena erat statuta, si libero os frac-
tum erat; at si servo, CL; propter coeteras vero iniurias XXV assium
poena erat constituta.

Fatta questa considerazione, si è sostenuto che qualora si


voglia leggere rupit, collegando in questo modo il passo di Fe-
sto all’ipotesi del membrum ruptum, si giungerebbe a una con-
clusione assurda e cioè che le leggi delle XII Tavole punisse-
ro col taglione qualsiasi lesione corporale, anche minima, men-
tre nell’ipotesi della frattura di un osso si sarebbe prevista so-
lamente un’ammenda. Se si ammette la possibilità di leggere
rupit al posto di rupitias, Tav. 8, 2 assumerebbe questo tenore:

2. Si possono vedere alcune voci, presenti in Festo, come ad esempio Navus: Ennio
libro VI…; ningulus, nullus: Ennius libro secundo…; Nuncupata: Santra libro secun-
do…; Sanates: Itaque XII cautum est ut idem iuris esset Sanatibus… Si possono vedere
ulteriori esempi di autori differenti: Gaio 4, 14: Nam ita lege XII Tabularum cautum
erat…; D. 2, 11, 12: Ex causis depositi XII Tabulis in duplum actio datur; G. PLI-
NIO,Naturalis historia, 17, 1: Frugem quidem aratro quaesitam furtim noctu pavisse et
secuisse puberi XII Tabulis capitale erat; P.C. TACITO, Annali, 6, 16: Nam primo XII
Tabulis sanctum… Dall’analisi delle fonti risulta che i Romani non abbiano fatto molto
uso della preposizione in seguita dall’ablativo.
36 La lex Aquilia

Si membro damnum dederit, ni cum eo pacit, talio esto.

Questa ricostruzione si basa sulla sostituzione di rupit con il


dederit già utilizzato in Festo e l’utilizzo del sostantivo damnum,
che viene ricavato attraverso una sinonimia tra rupitias e
damnum. Una lettura siffatta, però, si pone in contrasto con il
frammento successivo delle XII Tavole (8, 3), come ci viene ri-
portato da Gaio, perché mette in luce una disparità di trattamento:

Gaio, 3, 223: Propter os vero fractum aut collisum trecentorum assium


poena erat statuta, si libero os fractum erat; at si servo, CL.

Per contrastare questa ricostruzione – espressiva di un contra-


sto insolubile – il passo di Festo viene riletto nel seguente modo:

Si quis rupitias (in XII significat damnum) dederit sarcito.

Come a dire che Festo utilizzerebbe un inciso tra rupitias e


dederit con la funzione di specificare il termine rupitias
all’interno della norma decemvirale.
Ma si tratta di una ricostruzione sintattica poco soddisfacen-
te: non convince il motivo per cui un glossatore, che “crea” una
voce per dargli un significato, poi preferisca spiegarla ricorren-
do a un inciso. Inoltre Festo era un glossatore, per cui il suo
obiettivo primario doveva essere spiegare un singolo vocabolo
e non un’intera frase. Per ultimo, non è chiaro perché Festo ab-
bia utilizzato il verbo dederit, verbo che non serve – in alcun
modo – a far luce sul termine rupitias, il cui significato è già
espresso da damnum.
Ancora meno convincente è ritenere che il dederit venga uti-
lizzato per evitare una ripetizione grammaticale (damnum dede-
rit… dederit sarcito), optando dunque per l’elisione del verbo.
Va nuovamente posta l’attenzione sul fatto che Festo sia un
glossatore e una scelta del genere potrebbe giustificarsi solo
all’interno di un’opera letteraria e non all’interno di un glossa-
rio: così facendo si sarebbe rischiato di rendere del tutto incerto
il significato della frase, difatti sarebbe stato (come di fatto è)
II. Premesse di carattere storico 37

difficile al lettore comprendere se il dederit appartenga a Festo


o al testo delle XII Tavole, considerando che – in favore di una
maggiore chiarezza espositiva – si sarebbe potuto ricorrere
all’utilizzo di un sinonimo, cosa non sconosciuta neppure alle
fonti romanistiche, come risulta da D. 9, 2, 1, 52 in cui si utiliz-
za il verbo fecerit. Si può rilevare, ancora, come lo stesso Servio
Sulpicio al damnum solvito abbia aggiunto anche il praestato.
Si può dire che Festo avesse voluto spiegare il rupitias ricor-
rendo all’utilizzo del verbo invece di un nome?
Probabilmente no, perché l’obiettivo di Festo era quello di
descrivere un’azione, con l’obiettivo di dimostrare che rupitias,
in un’ottica dinamica, può intendersi come l’effetto della con-
dotta nociva (il damnum dare), in altri termini – e aderendo a
questa ulteriore ricostruzione – non sembra privo di fondamen-
to sostenere che Festo abbia disatteso l’espressione rupitias est
effectus eius, qui damnum dederit e abbia preferito ricorrere
all’uso di una forma ellittica in cui rupitias significat damnum
dederit. La questione interpretativa è di difficile risoluzione, pe-
rò va osservato che ricercare una ratio grammaticale nel passo
di Festo non è determinante, infatti bisogna partire dalla consta-
tazione obiettiva per cui si dice che rupitias sarcito e questa
espressione è idonea ad esprimere un generale principio risarci-
torio, avente una portata simile a quella che sarà poi la lex Aqui-
lia.
Questa interpretazione non è neppure scevra di una ricostru-
zione filologica, infatti nel vocabolario latino il rupitias può
giustificarsi come un derivato di rupitia, che affonderebbe le
sue radici più profonde nel verbo rupere, forma arcaica abban-
dondata in favore del più attuale rumpere3.
Accanto a una norma generale, che pone il principio, sono
tuttavia presenti singole ipotesi di danneggiamento, come
l’actio de pauperie, che veniva concessa quando l’autore del
danno fosse un animale, come testimonia il seguente passo:

3. Questa tesi appare molto accreditata, anche perché la grammatica latina prospet-
ta ipotesi similari: da aequare, amicare, durare, impolire, inimicare, laetere, planare,
saevire e tristari derivano rispettivamente aequitia, amicitia, duritia, impolitia, inimici-
tia, laetitia, planitia, saevitia e tristitia.
38 La lex Aquilia

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 1, 1 pr. = Tav. 8, 6: Si quadrupes pau-


periem fecisse dicitur, actio ex lege duodecim tabularum descendit:
quae lex voluit aut dari id quod nocuit, id est animal quod noxiam
commisit, aut aestimationem noxiae offerri.

La portata di questa normativa è oggetto di una profonda


evoluzione, perché, se inizialmente è limitata solo all’ipotesi in
cui il danno sia stato arrecato da un quadrupede domestico, suc-
cessivamente verrà estesa anche alla diversa ipotesi del danno
provocato da un bipede, come si legge in D. 9, 1, 44:

Paolo, 22 ad edictum, D. 9.1.4: Haec actio utilis competit et si non


quadrupes, sed aliud animal pauperiem fecit.

Si può sottolineare come vi sia una certa affinità tra questo


passo e la responsabilità del pater o del dominus per i danni ar-
recati, rispettivamente, dai figli o dagli schiavi: anche in queste
ipotesi è possibile concedere a nossa colui che ha cagionato il
danno, affinché possa rimediare col proprio lavoro. Merita sot-
tolineare che, nonostante l’actio de pauperie possegga tutti i re-
quisiti propri di un’azione penale, quali il cumulo passivo in so-
lido a tutti i correi, l’intrasmissibilità passiva e la nossalità, ha
natura meramente risarcitoria. Va messo in luce che tale azione
subisce, in modo non dissimile rispetto a quanto avviene con la
lex Aquilia, una interessante evoluzione giurisprudenziale, poi-
ché – originariamente – si riferisce alla sola ipotesi in cui il dan-
no sia stato arrecato alle cose inanimate. Successivamente que-
sta azione verrà concessa dal pretore anche nell’ipotesi in cui il
danno venga arrecato a un uomo libero5.
La norma decemvirale propone, altresì, l’ipotesi in cui il
danno venisse cagionato dall’uomo, come nel caso in cui si an-
dava a sanzionare il pascolo abusivo nel fondo altrui, conceden-
do l’actio de pastu pecoris6. L’ipotesi può essere letta insieme al

4. Sull’azione in esame ha scritto, peraltro con non pochi punti discutibili, M.V.
GIANGRIECO PESSI, Ricerche sull'Actio de pauperie dalle XII tavole ad Ulpiano, Jove-
ne, Napoli 1995.
5. Come testimonia Gaio in D. 9, 1, 3.
6. Tav. 8, 7, riportata in D. 19, 5, 14, 3.
II. Premesse di carattere storico 39

danneggiamento notturno delle messi di proprietà altrui. In que-


sta particolare ipotesi, però, si stabilivano due pene differenti a
seconda che l’autore del danno fosse stato un adulto o un impube-
re, come si evince da Tav. 8, 9, tramandata da Plinio il Vecchio:

Plinio, Naturalis Historia, 18, 12: Frugem quidem aratro quesitam


furtim noctu pavisse ac secuisse puberi XII tabulis capital erat, su-
spensumque Cereri necari iubebant gravius quam in homicidio con-
victum, impubem praetoris arbitratu verberari noxiamve duplionemve
decerni.

Pene severe vengono comminate anche nell’ipotesi in cui si


incendi un edificio, e – in questo caso – l’autore deve subire la
morte tra le fiamme, anticipandosi così la figura di quello che
sarà il celebre contrappasso dantesco, come testimonia Tav. 8, 9:

Gaio, 4 ad l. XII tabularum, D. 47, 9, 9: Qui aedes acervumve frumen-


ti iuxta domum positum combusserit, vinctus verberatus igni necari
iubetur, si modo sciens prudensque id commiserit. Si vero casu, id est
neglegentia, aut noxiam sarcire iubetur, aut, si minus idoneus sit, le-
vius castigatur. Appellatione autem aedium omnes species aedificii
continentur.

Il passo risulta di particolare importanza perché stabilisce


pene differenti nell’ipotesi in cui l’incendio sia stato compiuto
dolosamente, prevedendo il rogo, e in quella in cui sia accaduto
per negligenza, prevedendo, in questo diverso caso, il risarci-
mento del danno. Ciò si esplica, dal punto di vista della costru-
zione sintattica della norma, con una contrapposizione tra
sciens prudensque e neglegentia.
Ipotesi simili si susseguono all’interno delle Tavole decem-
virali: non mancano ipotesi di reati “magici”, dove si punisce
chi cagioni, con un canto rituale, la distruzione delle messi al-
trui (è l’ipotesi del fruges excantare). È prevista, ancora, la san-
zione per colui che abbia provocato, mediante incantamenti, la
sottrazione del raccolto (alienam segetem pellicere7).

7. Si tratta, per lo più, di reati aventi natura agricola: queste due fattispecie, espres-
sione sicuramente di una Roma ancora arcaica, e probabilmente già presenti nelle leggi
40 La lex Aquilia

Altra ipotesi tipica è data dal caso in cui un soggetto abbia


iniuria reciso degli alberi altrui (Tav. 8, 11): sarà condannato a
pagare venticinque assi. La stessa pena viene poi comminata a
chi abbia cagionato iniuria semplice, consistente in atti di vio-
lenza, quali pugni o schiaffi.
Nonostante siano presenti circoscritte ipotesi risarcitorie, il
legislatore romano, ricorrendo al binomio rupitias sarcito ha
voluto porre, in questo sistema casistico, una norma di chiusura,
per evitare che potesse rimanere impunito l’autore di condotte
dannose, ma non contemplate dalle singole ipotesi legali.

2.2. La lex Aquilia nell’ordinamento giuridico romano e il


problema della datazione

Se non fosse esistita alcuna fattispecie aperta all’interno delle


XII Tavole, il ruolo della lex Aquilia sarebbe stato quello di
sopperire a un vuoto normativo. In realtà non fu così, infatti –
premessa doverosamente l’esistenza di una ipotesi risarcitoria
atipica – la lex Aquilia ha la funzione di delineare meglio il
giudizio di responsabilità, infatti la formula rupitias sarcito è
eccessivamente generica, non si fa menzione delle condizioni
dell’azione, dei danneggiamenti degni di tutela, delle modalità
di calcolo del danno né di ogni aspetto processuale (che – vero-
similmente – era contenuto nel testo della lex).
A tutti questi problemi pratici, che non possono sorgere da
una semplice lettura della disposizione – fin troppo generale –
di rupitias sarcito, bensì da una sua applicazione pratica, viene
in soccorso la lex Aquilia, la quale sostituisce al generico concet-
to di rupitias quello più circoscritto di damnum iniuria datum.
La lex Aquilia delinea specifiche condotte sanzionate, una
modalità per calcolare il danno, guardando al maggior valore
del bene nell’ultimo arco temporale, tecnica che ricorda oggi la
struttura del danno punitivo. Inoltre, si dava compiuta disciplina

regie (molte delle quali vennero recepite nella norma decemvirale) sono contenute in Tav.
8, 8a (G. PLINIO, Naturalis Historia, 28, 2) e in Tav. 8, 8b (M.O. SERVIO, Op. cit., 8, 99).
II. Premesse di carattere storico 41

alle modalità di assunzione dell’onere probatorio, stabilendo


una pena raddoppiata in capo al soggetto che avesse negato la
propria responsabilità nel corso del giudizio, questa tecnica ha
assunto il nome di litiscrescenza a seguito della negativa del reo.
Il ruolo della lex Aquilia non è quello di abrogare le disci-
pline precedenti, ma quello di porre una valida alternativa (e
dunque una sostituzione) della formula eccessivamente vaga di
rupitias sarcito, pertanto alcune ipotesi risarcitorie delle XII
Tavole restano in vigore, come ad esempio l’actio arborum fur-
tim caesarum, l’actio noxalis nomine servi e l’actio aedium in-
censarum e in questo senso si spiega perché Ulpiano afferma
che la lex Aquilia non abroga, ma deroga omnes legibus, quae
ante se de damno iniuria locutae sunt:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 1 pr.: Lex Aquilia omnibus legibus,


quae ante se damno iniuria locutae sunt, derogavit, sive duodecim ta-
bulis, sive alia quae fuit: quas leges nunc referre non est necesse.

Per quanto riguarda la natura giuridica della lex Aquilia va


osservato che, nonostante porti il nome di legge, si tratta di un
plebiscito, tuttavia la differenza è solo formale, in quanto essa
viene votata in un periodo in cui le decisioni assunte nei comizi
tributi possiedono la stessa valenza delle leges e certe volte ne
portano persino il nome8.
Il problema di gran lunga più arduo riguarda l’autore della
legge e la sua datazione9. Le fonti tramandano che questo plebi-
scito viene proposto da un tribuno della plebe di nome Aquilio.
Senonché la storia romana conosce più persone con questo no-
me e dunque sono nate le tesi più disparate, che – data ancora
l’incertezza che regna sul tema – sarà opportuno riferire. Un
primo Publio Aquilio Gallo, come lo stesso Cicerone testimo-
nia10, fu amico e collega dell’Arpinate nella pretura nel 66 a.C.,

8. D. 9, 2, 1, 1: Quae lex Aquilia plebiscitum est, cum eam Aquilia tribunus plebis a
plebe rogaverit. Ulpiano fa comprendere che, nonostante porti il nome di legge, si tratta
di un plebiscito.
9. Un’importante disamina sul tema, di cui si darà succintamente conto, è riportata
in P.G. CASTELLARI, Op. cit., p. 8-10.
10. La notizia si rinviene in M.T. CICERONE, De natura Deorum, 3, 30; ma anche
42 La lex Aquilia

infatti Dione Cassio e Valerio Massimo testimoniano che egli è


tribuno della plebe nel 54 a.C., insieme ad Ateio Capitone, sotto
il consolato di Cneo Pompeo e di M. Licinio Crasso. Questa te-
si però è insoddisfacente, perché Bruto (collocato storicamente
intorno al 133 a.C.) e Quinto Mucio commentano le disposizio-
ni della lex Aquilia11.
Un’altra dottrina, che nel passato fu sostenuta dall’antica
voce di Juan Suárez de Mendoza, riteneva che l’autore della
legge fosse il M’. Aquilio console nel 128 a.C. e con grande
probabilità tribuno della plebe nel 132 a.C.12
Queste congetture vanno però respinte, dal momento che
appare certo che la legge viene approvata tra il 286 a.C. e il 285
a.C., e, dunque, in un’epoca assai anteriore a quella in cui sono
vissuti gli autori sopra riportati.
In secondo luogo bisogna ricordare che nel 98 a.C. la legge
viene invocata da Cesuleno contro Sabellio, contemporaneo di
Sesto Calvino, pretore nello stesso anno. Questa informazione,
sicuramente molto preziosa, è nota grazie a una testimonianza
dell’Arpinate:

Cicerone, Brutus, 131: Eodem tempore accusator de plebe L. Caesu-


lenus fuit, quem ego audivi iam senem, cum a L. Sabellio mulctam le-
ge Aquilia de iniuria petivisset.

Va anche ricordato che nel 77 a.C. il pretore Lucullo, intro-


ducendo l’edictum de vi, parlava della lex Aquilia come di una
disposizione già molto antica, come emerge dal testo di Cicerone:

Cicerone, Pro Tullio, 9: M. Lucullus, qui summa aequitate atque sa-


pientia ius dixit, primus hoc iudicium composuit… et, cum sciret de
damno legem esse Aquiliam, tamen hoc ita existimavit, apud maiores

in De officiis, 3, 14.
11. L’interpretatio di Bruto è riportata in D. 9, 2, 27, 22. Il passo è oggetto di
un’attenta analisi da parte di M. BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi romani,
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1982, p. 72, 258. Che Bruto e Mucio abbiano vis-
suto nella medesima epoca viene testimoniato in D. 2, 39-41. Una simile informazione
la si rinviene anche in A. GELLIO, Noctes Atticae, 6, 15 e 17, 7.
12. J. SUAREZII DE MENDOZA, Commentarii ad Legem Aquiliam, apud Tabernier,
Salmanticae 1640, p. 5.
II. Premesse di carattere storico 43

nostros, cum… perraro fieret ut homo occideretur, idque nefarium ac


singulare facinus putaretur, nihil opus fuisse iudicio de vi coactis ar-
matisque hominibus.

La certezza della datazione proviene, ancora, da


un’affermazione di Teofilo13, nel seguente passo della sua para-
frasi, qui citato nella traduzione latina:

Teofilo, Parafrasi, 4, 3, 15: Plebs romana eo tempore, quo inter ple-


bem et patres erat dissensio, Aquilio (is tunc tribunus plebis erat) hanc
legem rogante, contenta fuit quod in primo capite dictione plurimi
fuisset usa.

Con Teofilo si ammette che la legge fu pubblicata in


un’epoca in cui inter plebem et patres erat dissensio; il passo
successivo è inerente l’individuazione del momento storico a
cui lo scrittore si riferisce, dato che la storia di Roma conosce
più secessiones. È pacifico che non si possa riferire alla prima
secessione, che avviene nel 492 a.C. sul monte Sacro, perché
questa si verifica prima ancora della promulgazione delle XII
Tavole; lo scrittore non può riferirsi neppure alla seconda se-
cessione sull’Aventino, nel 448 a.C., poiché avviene quasi con-
temporaneamente alle XII Tavole, e dunque bisogna ragione-
volmente escludere, che si possa già sentire il bisogno di una
legge ulteriore rispetto alla disciplina decemvirale.
Parimenti va escluso che la legge Aquilia possa collocarsi
nel periodo dei Gracchi (di cui si ricordano gli scontri nel 132
a.C. e 122 a.C.): se la legge era stata commentata da Bruto e
Quinto Mucio intorno al 133 a.C., vuol dire che essa contava
già su un periodo di vigenza non breve. Alla luce di queste con-
siderazioni, va detto che l’unica secessio rimasta è quella am-
bientata sul Gianicolo nel 286 a.C.14

13. In materia si può confrontare anche B. 60, 3, 1, 2-5.


14. Questa è l’interpretazione che ha riscosso maggior successo, e che si è imposta
a oggi fin dal XIX secolo: basti ricordare che tale affermazione si rinviene già in A.
DOVERI, Istituzioni di diritto romano, Le Monnier, Firenze 1866, 2, 474, p. 314 e in F.
SERAFINI, Istituzioni di diritto romano: comparato col diritto civile patrio, Athenaeum,
Roma 1920-1921, 2, 154, p. 107, nota 5.
44 La lex Aquilia

Con questa interpretazione è possibile spiegare anche perché


si tratterebbe di un plebiscito, avente la forza di legge: con la
lex Valeria, promulgata nel 305, e con quella Publilia Philonis,
emanata nel 339 a.C., le deliberazioni dei comizi tributi inizia-
no ad acquistare lo stesso valore di quelle dei comizi centuriati:
la lex Aquilia altro non sarebbe se non un plebiscito, munito di
auctoritas senatoria, e come tale vincolante per tutta la popola-
zione15, non essendo in alcun modo collegata alla legge Horten-
sia del 285 a.C.
Nonostante questa sia la datazione classica, il ragionamento
sopra svolto è stato di recente messo in dubbio da alcune di-
scrasie che sono emerse dal confronto tra il passo di Teofilo e
dello scoliaste, che mettono in evidenza l’atteggiamento del
concilio plebeo e una testimonianza di Sabino, riportata in
Gaio, attenta soprattutto alla volontà del tribuno proponente:

Gaio, 3, 218 = I. 4, 3, 14: Sed Sabino placuit proinde habendum ac si


etiam hac parte 'plurimi' verbum adiectum esset; nam legis latorem
contentum fuisse, quod prima parte eo verbo usus esset.

Da questi testi emergerebbe che Teofilo e lo scoliaste riten-


gano che il testo della legge esprima la volontà della plebe di
voler limitare le proprie pretese: lo si capirebbe con l’utilizzo
dell’avverbio plurimi al solo primo capo. Secondo questa inter-
pretazione lo scenario del conflitto patrizio-plebeo altro non sa-
rebbe se non una montatura, per camuffare questa situazione
compromissoria16. Così è stato revocato in dubbio il riferimento
alla secessione plebea, aprendosi lo scenario al nuovo problema

15. L’argomento è ampiamente trattato da A. BISCARDI, Sulla data della lex Aqui-
lia, in Scritti in memoria di Antonino Giuffrè, Giuffrè, Milano 1967, p. 81, e da G.
VALDITARA, Damnum iniuria datum, Giappichelli, Torino 2005, p. 6, nota 36.
16. Questa teoria è sostenuta da vari autori, tra cui C.A. CANNATA, Delitto e obbli-
gazione, in Illecito e pena privata in età repubblicana, (Atti Copanello 1990), Napoli
1992, p. 34 ss.; A. BIGNARDI, Theof. Par. 4, 3, 15: ancora sulla data della lex Aquilia,
in Annali Università di Ferrara, 3, 1989, p. 1 ss. Tuttavia contrario a questa teoria si è
dichiarato G. VALDITARA, Op. cit., p. 7, secondo il quale è del tutto inverosimile che “il
richiamo storico alla secessione sia stato inventato da Teofilo e dallo scoliaste, prospet-
tando che questo invece affondi le sue radici nella tradizione in tema di commento al
plebiscito”.
II. Premesse di carattere storico 45

della datazione.
Su tale tema si può ricordare una nuova scuola di pensiero17,
secondo cui la legge dovrebbe datarsi tra il 207 e il 195 a.C. La
legge andrebbe inserita all’interno di un programma volto alla
tutela della proprietà: in questo contesto la penalità variabile sa-
rebbe un valido strumento per contrastare il periodo di forte in-
flazione, che si verifica immediatamente dopo la seconda guer-
ra punica.
Nonostante queste ultime teorie siano molto affascinanti, bi-
sogna prendere atto che sono delle mere supposizioni, poiché
non trovano riscontro in nessuna fonte e devono, per ciò solo,
ritenersi meno attendibili rispetto a quella sopra riportata, che
colloca la datazione della lex Aquilia nel 286 a.C.
In conclusione, si può rilevare come il problema della data-
zione possa apparire prima facie poco importante: al contrario
esso riveste un ruolo fondamentale, perché influisce sulla porta-
ta della medesima legge. Collocare la lex Aquilia in un periodo
arcaico vuol dire farla regredire e divenire portavoce di una so-
cietà poco più che rurale, diminuendone, di conseguenza, la ri-
levanza.
Al contrario, collocarla nella seconda metà del III secolo
a.C., a ridosso delle guerre puniche, fa sì che essa esprima le
tendenze di una società in crescita e in forte espansione, sino-
nimo di una Roma finemente evoluta, che inizia a battere mone-
te d’argento e d’oro, a propria volta espressione di un paese che
si affaccia, oramai, al grande commercio internazionale.

2.3. Struttura e contenuti della lex

Un problema di non poco conto riguarda la struttura della lex


Aquilia, nonostante oggi si discuta sul numero dei capita della
legge, Teofilo afferma che haec constitutio in tria dividitur ca-
pita. Il primo capo della legge è noto grazie a una testimonianza

17. A.M. HONORÉ, Linguistic and social context of the Lex Aquilia, in The Irish Ju-
rist, 7, 1972, p. 145 ss.
46 La lex Aquilia

di Gaio, che sembrerebbe riportare testualmente il contenuto del


plebiscito:

Gaio, 7 ad edictum provinciale, D. 9, 2, 2: Lege Aquilia capite primo


cavetur, ut qui servum servamve, alienum alienamve, quadrupedem
vel pecudem iniuria occiderit, quanti id in eo anno plurimi fuit, tantum
aes dare domino damnas esto.

Gli interpreti hanno sostenuto che il testo tramandato non sia


quello esatto, motivo per cui hanno proposto delle varianti. Una
parte della dottrina, tra cui anche Mommsen, ha sostituito l’ut
con si quis, fondandosi sul testo del terzo capo della legge:

Gaio, 3, 210: Damni iniuriae actio constituitur per legem Aquiliam,


cuius primo capite cautum est, ut si quis hominem alienum alienamue
quadrupedem, quae pecudum numero sit, iniuria occiderit, quanti ea
res in eo anno plurimi fuerit, tantum domino dare damnetur.

La struttura grammaticale della legge è stata oggetto di mol-


te ricostruzioni di cui è impossibile darne pienamente conto, si
può ricordare – per quanto qui interessa – che si tende a leggere
quadrupedemve pecudem, utilizzando un ragionamento analo-
gico dall’uso del binomio servum servamve e alienum alienam-
ve. Oggetto di disputa dottrinale è anche l’utilizzo della forma
verbale, per cui vi è incertezza tra l’uso di fuit o di fuerit,
quest’ultimo infatti sembrerebbe esprimere meglio il concetto
di retroattività del risarcimento, e – per ultimo – si predilige
l’utilizzo del sostantivo hero invece di domino:

Si quis servum servamve alienum alienamve quadrupedemve pecu-


dem iniuria occiderit, quanti id in eo anno plurimi fuerit, tantum aes
hero dare damnas esto.

Il secondo capo del plebiscito, destinato comunque a essere


abrogato per desuetudine, viene tramandato ancora da Gaio:

Gaio, 3, 215: Capite secundo in adstipulatorem, qui pecuniam in frau-


dem stipulatoris acceptam fecerit, quanti ea res esset, tanti actio con-
stituitur.
II. Premesse di carattere storico 47

Anche sul secondo capo della legge sono state avanzate al-
cune ricostruzioni, così la dottrina ha rilevato che l’espressione
in fraudem stipulatoris debba considerarsi una parafrasi della
parola iniuria. Dunque, la ricostruzione del secondo capo della
legge, dovrebbe essere la seguente:

Adstipulator, qui pecuniam acceptam fecerit iniuria, quanti id fuerit,


tantum aes stipulatori dare damnas esto.

Il terzo e ultimo capo della lex viene riportato da Ulpiano, e


presenta tre condotte tipiche sanzionate, ossia l’ustio, la fractio
e la ruptio:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 27, 5: Tertio autem capite ait eadem


lex Aquilia: “ceterarum rerum praeter hominem et pecudem occisos si
quis alteri damnum faxit, quod usserit fregerit ruperit iniuria, quanti
ea res erit in diebus triginta proximis, tantum aes domino dare damnas
esto”.

Del terzo capo non convince particolarmente l’inizio, difatti


si esordisce con l’espressione ceterarum rerum, praeter homi-
nem et pecudem occisos, espressione che non sembra propria
del linguaggio legislativo, e sembrerebbe quasi un tentativo di
connessione tra il primo capo e il terzo, dopo che il secondo
cadde in desuetudine, in tal senso Carlo Augusto Cannata18 ha
ampiamente riflettuto sul tema:

il terzo capo della lex Aquilia si presentava come l’enunciato di una


norma relativa alle ceterae res, e cioè alle cose che non erano ancora
né lo schiavo o la pecus del primo capo né la pecunia, intensa come
credito, di cui al secondo capo. Infatti, scrivendo ceterarum rerum
praeter hominem et pecudem occisos Ulpiano intende l’allusione alle
ceterae res in tutt’altro senso: anzitutto dà al vocabolo res il senso non

18. Così C.A. CANNATA, Sul testo della Lex Aquilia e la sua portata originaria, in
L. VACCA (a cura di), La responsabilità civile da atto illecito nella prospettiva storico
comparatistica, Atti congresso ARISTEC, Madrid 7-10 ottobre 1993, Torino 1995, p.
25 ss. Sul problema si veda anche A.M. HONORÈ, Art. cit., p. 140 ss.; D. NÖRR, Causa
Mortis auf den Spuren einer Redewendung, C.A. Beck, München 1986, p. 215 ss.; J.A.
CROOK, Lex Aquilia, in Athenauem, 72, 1984, p. 73 ss.; C.A. CANNATA, Delitto e Ob-
bligazione, in Illecito e Pena privata in età repubblicana, cit., p. 38.
48 La lex Aquilia

di cose, ma di casi; in secondo luogo, tali res divengono ceterae non


rispetto a tutto quanto nella legge precede (come il testo originario
non poteva invece non significare) ma solo rispetto ai casi del primo
capo: il chè egli poteva fare perché evidentemente scriveva seguendo
non il filo logico della legge ma quello della sua propria trattazione,
nella quale il secondo capo era liquidato con poche parole che infor-
mavano (forse con un breve chiarimento che i compilatori hanno sop-
presso) della sua desuetudine.

Si discute anche sull’originaria collocazione dei verbi usse-


rit, fregerit e ruperit: i dubbi sorgono a causa di un diverso or-
dine riscontrato in altre fonti19. Tuttavia, l’ordine riportato da
Ulpiano sembra quello corretto: egli afferma che non esse no-
vum ut lex specialiter quibusdam enumeratis (usserit, fregerit)
generale subiiciat verbum (ruperit), quo specialia complectan-
tur, inoltre anche in questo caso sarebbe più corretto usare hero
invece di domino:

Si quis alteri damnum faxit quod usserit, fregerit, ruperit iniuria, quan-
ti id fuerit in diebus triginta proximis tantum aes hero dare damnas
esto.

Fino a questo momento della trattazione, si è visto il testo


della legge Aquilia nella sua classica formulazione, tuttavia da
un passo di Gaio è possibile sostenere che il testo era forse mol-
to più complesso, contenendo anche delle disposizioni di natura
strettamente processuale:

Gaio, 7 ad edictum provinciale, D. 9, 2, 2, 1: Et infra deinde cavetur,


ut adversus infitiantem in duplum actio esset.

Il passo illustra l’ipotesi in cui il convenuto neghi la propria


responsabilità: in questo caso l’importo della condanna sarà
raddoppiato. Come già accennato in precedenza, si tratta
dell’ipotesi della litiscrescenza, che nel diritto romano è stretta-
mente legata alla manus iniectio e, solo successivamente, ad al-

19. In D. 9, 2, 27, 33 si legge quid ruperit vel fregerit, mentre in D. 36, 1, 70, 1 si
legge: ruperit quid vel fregerit vel usserit.
II. Premesse di carattere storico 49

cune azioni (actio iudicati, actio depensi, actio legatorum no-


mine). Si ritiene che il danno aquiliano si faccia valere mediante
questa azione esecutiva. Un’altra regola processuale, che pro-
babilmente era contenuta all’interno del testo normativo, è atti-
nente al carattere della nossalità, tipico delle azioni penali: que-
sto permette al proprietario, convenuto in giudizio, di concedere
a nossa il servo, consegnandolo all’offeso:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 4, 2 pr.: Si servus sciente domino occi-


dit, in solidum dominum obligat, ipse enim videtur dominus occidis-
se: si autem insciente, noxalis est, nec enim debuit ex maleficio servi
in plus teneri, quam ut noxae eum dedat.

Il passo è di particolare importanza, perché pone una diffe-


renza circa la conoscenza o meno del delitto da parte del padro-
ne: qualora egli sia stato sciens, deve essere tenuto personal-
mente per il delitto del servo, proprio come se fosse stato lui a
commetterlo. Inoltre, egli è tenuto anche nell’ipotesi in cui non
abbia fatto nulla per evitare il compimento del delitto20. Al con-
trario, qualora egli non lo sapesse, non sarebbe obbligato a far
nulla di più che dare il servo a nossa. Questa disciplina, propo-
sta dalla legge Aquilia, è una novità rispetto alla disciplina de-
cemvirale, secondo una testimonianza di Ulpiano:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 4, 2, 1: Is qui non prohibuit, sive domi-


nus manet sive desiit esse dominus, hac actione tenetur: sufficit enim,
si eo tempore dominus, quo non prohibeat, fuit, in tantum, ut Celsus
putet, si fuerit alienatus servus in totum vel in partem vel manumis-
sus, noxam caput non sequi: nam servum nihil deliquisse, qui domino
iubenti obtemperavit. et sane si iussit, potest hoc dici: si autem non
prohibuit, quemadmodum factum servi excusabimus? Celsus tamen
differentiam facit inter legem Aquiliam et legem duodecim tabularum:
nam in lege antiqua, si servus sciente domino furtum fecit vel aliam
noxam commisit, servi nomine actio est noxalis nec dominus suo no-
mine tenetur, at in lege Aquilia, inquit, dominus suo nomine tenetur,
non servi. Utriusque legis reddit rationem, duodecim tabularum, quasi
voluerit servos dominis in hac re non obtemperare, Aquiliae, quasi
ignoverit servo, qui domino paruit, periturus si non fecisset. Sed si

20. D. 9, 4, 3.
50 La lex Aquilia

placeat, quod Iulianus libro octagensimo sexto scribit “si servus fu-
turum faxit noxiamve nocuit” etiam ad posteriores leges pertinere, po-
terit dici etiam servi nomine cum domino agi posse noxali iudicio, ut
quod detur Aquilia adversus dominum, non servum excuset, sed do-
minum oneret. Nos autem secundum Iulianum probavimus, quae sen-
tentia habet rationem et a Marcello apud Iulianum probatur.

La normativa decemvirale prevede che – anche qualora il pa-


drone sia stato consapevole del delitto – possa concedere a nossa
il servo; invece nella legge Aquilia, nella medesima ipotesi, il
padrone sarebbe responsabile in proprio.
Vi è una profonda differenza tra le XII Tavole e la legge
Aquilia: infatti le prime si caratterizzano per un tono severo nei
confronti del servo, servo che verrà punito per aver obbedito a
un ordine illecito, invece nella lex Aquilia vi è una concezione
molto più adeguata alle esigenze della vita, e che prende in con-
siderazione anche la volontà del servo, per certi versi sottomes-
sa a quella del padrone, e per questo motivo egli verrà tutelato
nel caso in cui abbia compiuto un illecito per salvarsi dalla mi-
naccia di morte che il padrone gli avrebbe sicuramente inferto
nel caso in cui si fosse sottratto all’esecuzione dell’ordine, ma –
su questo argomento – si avrà modo di ritornare nel corso della
trattazione.
Ma il testo aggiunge un importante rilievo in tema di ius
controversum: Giuliano si dichiara in disaccordo con Celso sul
valore nossale della legge; a suo dire, la locuzione si servus fu-
turum faxit noxiamve nocuit assumerebbe una portata generale
(e trasversale) all’interno dell’ordinamento giuridico romano, e
pertanto non sarebbe derogata dalla lex Aquilia. Così, afferma
Ulpiano, dando conto che i giuristi continuano ancora a discute-
re sul problema, chi aderisce all’interpretazione di Giuliano po-
trà sostenere che l’actio legis Aquiliae può ammettersi in via
nossale contro il padrone. Seguendo questa interpretazione, la
visione di Celso andrebbe disattesa, perché nell’azione risarci-
toria – che trova fondamento nella lex Aquilia – andrebbe ap-
plicata la regola generale per cui noxa caput sequitur.
Capitolo III

La lex Aquilia: profili interni e contenutistici

3.1. Osservazioni generali. L’approccio causale: dal dan-


neggiamento al danno

Come già sopra si è avuto modo di precisare, nella lex Aquilia il


termine damnum equivale a diminuzione patrimoniale, assu-
mendo una sfumatura tutta economica:

Paolo, 47 ad edictum, D. 39, 2, 3: Damnum et damnatio ab ademptio-


ne et quasi deminutione patrimonii dicta sunt.

Il danno è così la conseguenza dell’azione umana che lo ha


provocato, e – quest’ultima – integra gli estremi del danneggia-
mento. La differenza risulta evidente nel terzo capo della legge:
si quis alteri damnum faxit quod usserit, fregerit, ruperit; in
queste parole, il quod diventa un sinonimo di quia, si nota che il
damnum è considerato quale effetto dell’aver bruciato, infranto
o rotto. I due concetti vanno comunque tenuti profondamente
separati, perché il danno è un requisito, per così dire, processua-
le, nel senso che esso legittima l’azione, invece il danneggia-
mento (requisito secondario) sarà oggetto di discussione e
quantificazione all’interno del giudizio, per cui – in assenza del
danno – non sarà possibile esperire utilmente la lex Aquilia1:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 27, 17: Rupisse eum utique acci-


piemus, qui vulneraverit, vel virgis vel loris vel pugnis cecidit, vel te-

1. Lo stesso accade anche nell’ipotesi di taglio di alberi a epoca regolare (D. 9, 2,


27, 27), nella raccolta di frutti maturi (D. 9, 2, 27, 25), nell’ipotesi di evirazione di un
servo (D. 9, 2, 27, 28) e nel caso di uccisione di un servo manomesso e istituito erede
(D. 9, 2, 23, 1).

51
52 La lex Aquilia

lo vel quo alio, ut scinderet alicui corpus, vel tumorem fecerit, sed ita
demum, si damnum iniuria datum est: ceterum s i n u l l o
servum pretio viliorem deterioremve
fecerit, Aquilia cessat iniuriarumque
e r i t a g e n d u m d u m t a x a t : Aquilia enim eas ruptiones,
quae damna dant, persequitur. Ergo etsi pretio quidem non sit deterior
servus factus, verum sumptus in salutem eius et sanitatem facti sunt,
in haec mihi videri damnum datum: atque ideoque lege Aquilia agi
posse.

Per poter esperire con risultati positivi la lex Aquilia è ne-


cessario che esista sia l’elemento del danno sia quello del dan-
neggiamento, tuttavia il concorso cumulativo non implica anche
un concorso temporale dei due requisiti: per esperire l’azione è
sufficiente la prova di un nesso causale tra il danneggiamento e
il danno. Solo in questo senso è comprensibile il motivo per cui
viene concessa l’azione nel caso in cui il servo venga ferito
mortalmente ma muoia in un momento successivo2. In questo
caso assumono particolare rilievo due eventi: la ferita, che rap-
presenta il danneggiamento, e la morte, che raffigura il danno,
nonostante non siano concomitanti, è certa l’esistenza del nesso
causale diretto e immediato tra la causa e l’effetto.
La differenza tra danneggiamento e danno permette anche di
spiegare il motivo per cui l’azione non viene concessa in caso
di uccisione e venga ammessa in caso di ferita nell’ipotesi dello
schiavo, che – vulneratus – muoia a seguito del verificarsi di un
evento successivo:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 15, 1: Si servus vulneratus mortifere


postea ruina vel naufragio vel alio ictu maturius perierit, de occiso agi
non posse, sed quasi de vulnerato, sed si manumissus vel alienatus ex
vulnere periit, quasi de occiso agi posse Iulianus ait. Haec ita tam va-
rie, quia verum est eum a te occisum tunc cum vulnerabas, quod mor-
tuo eo demum apparuit: at in superiore non est passa ruina apparere an
sit occisus. Sed si vulneratum mortifere liberum et heredem esse ius-
seris, deinde decesserit, heredem eius agere Aquilia non posse.

Il passo è molto importante e necessita di un preciso, seppur

2. D. 9, 2, 21, 1.
III. La lex Aquilia: profili interni e contenutistici 53

veloce, inquadramento. Il soggetto che ha ferito il servo ha di


certo provocato la ferita, per cui è corretto che risponde de vul-
nerato, tuttavia egli non risponderà de occiso non perché si ne-
ga l’astratta esistenza tra una ferita inferta (prima) e la morte
sopraggiunta (dopo), ma perché è intervenuto un evento terzo e
imprevedibile, non addossabile alla responsabilità dell’agente,
che pertanto risponderà, per così dire, della “condotta minima”.

3.2. Il capo I: l’uccisione del servo o del quadrupede

Il primo capo della legge presenta, quale forma tipica di dan-


neggiamento, la caedes servi vel pecudis. Il capo fa riferimento
all’uccisione di uno schiavo o di un animale da gregge. Secon-
do il dettato legislativo: si quis servum servamve alienum alie-
namve quadrupedemve pecudem iniuria occiderit, quanti id in
eo anno plurimi fuerit tantum aes hero dare damnas esto. Meri-
ta soffermarsi sul significato del termine occiderit, poiché desi-
gna il fatto illecito di colui che compie l’azione direttamente:
qui sua manu causam mortis praebuit, secondo la definizione
che ne fornisce Ulpiano3. Il verbo occidere, se letto in un conte-
sto estraneo a quello della legge Aquilia, è utilizzato non solo
per indicare una morte violenta ma anche per indicare quella
che si è verificata in qualsiasi altro modo, delineando un’azione
atipica, realizzata quolibet modo, come avviene nella lex Cor-
nelia de sicariis et veneficis4. Fatta questa premessa, si com-
prende perché la legge Aquilia non possa trovare applicazione
nel caso in cui un servo muoia per causa estrinseca e indipen-
dente rispetto alle ferite, come potrebbe essere la negligenza del
padrone a curarlo5.
Non è semplice specificare il significato di quadrupedem vel
pecudem. Alla luce delle fonti va sicuramente sminuito il valore
di vel, altrimenti la legge risulterebbe applicabile nel caso in cui

3. D. 9, 2, 7, 1.
4. D. 48, 8, 1, 1.
5. D. 9, 2, 30, 4.
54 La lex Aquilia

l’animale ucciso sia solo quadrupede o solo pecude, e diverreb-


be incomprensibile il passo di Gaio, secondo cui la lex Aquilia
non dispiega tutela verso i cani, che – comunque – rientrano nella
categoria dei quadrupedi:

Gaio, 7 ad edictum provinciale, D. 9, 2, 2, 2: Sed canis inter pecudes


non est.

L’apparente semplicità del passo, fa incorrere in errore il


glossatore Accursio, che ha letto nel vel un sinonimo di id est,
incorrendo, però, in una grave censura: così facendo ha reso
inutile una delle due parole della legge, sostenendo che tutti i
pecudes sono anche dei quadrupedi.
Partendo dalla formulazione che sembra essere più corretta
(quadrupedemve pecudes), si può ritenere che la norma accordi
tutela soltanto ai quadrupedi che sono anche pecudes, ossia –
per utilizzare un’espressione cara a Varrone – ai quadrupedes,
quae perpascunt6.
Il capo primo della legge, verosimilmente, si riferisce
all’uccisione di pecore, capre, buoi, mucche, muli, cavalli, asi-
ni, maiali, cammelli ed elefanti utilizzati per il traino. Isidoro
esclude, da questa elencazione, le ferae bestiae, quae vel ore vel
unguibus saeviunt et ferae dicuntur a vi, qua saeviunt, i sempli-
ci quadrupedes, come i cani e gatti, e – ancora – tutti quanti i
bipedes: Pietro Onida ha posto giustamente l’attenzione sul
“vivere in gregge”, osservando che il vivere gregatim «costitui-
va un potente selettore delle specie animali astrattamente anno-
verabili tra i quadrupedes, e dunque una vera e propria chiave
di lettura, almeno a partire da Labeone, della classificazione dei
quadrupedes»7.

6. M.T. VARRONE, De re rustica, 2, 3. Nella letteratura latina si rinvengono altre


espressioni simili, come quae gregatim habentur (D. 9, 2, 2, 2); quae non silvestri sed
humano usui aluntur (M.O. SERVIO, In Aeneida, cit., 4, 458), quae sunt ad vescendum
apta aut usui hominum commoda (ISIDORO, Origines, 12, 1).
7. P. ONIDA, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico
romano, Giappichelli, Torino 2012, p. 178-179.
III. La lex Aquilia: profili interni e contenutistici 55

3.3. Il capo II: l’acceptilatio in fraudem creditori. La scelta


contenutistica e la progressiva desuetudine della fatti-
specie tra problemi storici e giuridici

Il secondo capo dell’Aquilia è quello che certamente ha fatto


più discutere la dottrina nei secoli, poiché non si comprende
esattamente la sua portata, il suo significato e la connessione
che vi possa essere tra questo testo e gli altri capita della legge8.
Il secondo capo contempla l’ipotesi dell’accettilazione effettua-
ta in frode al creditore. Il problema nasce dal fatto che i giuristi
si siano limitati a dire che tale capitolo in desuetudinem abiit.
Tale affermazione la si riscontra in molteplici autori, tra cui Ul-
piano9, i compilatori delle Istituzioni imperiali10 e Teofilo11. È
opportuno passare a un breve vaglio critico le dottrine avanzate,
prima del rinvenimento del secondo capo della legge Aquilia.
Una parte della dottrina12 ha sostenuto che il capitolo di cui
si discute serva a ristorare il danno causato per l’utilitas inter-
cepta, e trova argomentazione e conferma da un passo di Plinio:

Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, 9. 182: Ferunt discordem so-


cium duci insidiatum pulchre noto cepisse malefica voluntate; agni-
tum in macello socio, cuius iniuria erat, et damni formulam editam
condemnatumque addit Mucianus aestimata lite.

Lo scrittore presenta il celebre caso del pesce anthias, af-


fermando che è possibile agire con la formula damni dati contro
il pescatore che dolosamente abbia ucciso una anthias al solo
scopo di danneggiare i propri compagni. A questa teoria si può

8. In dottrina, si vedano: L. LÉVY BRUHL, Le deuxième chapitre de la loi Aquilia,


RIDA, 5, 1958, p. 507 ss.; G. GROSSO, La distinzione tra res corporales e res incorpora-
les e il secondo capo della Lex Aquilia, in Syinteleia Vincenzo Arangio Ruiz. Raccolta
di studi di diritto romano, filologia classica e di vario diritto, 2, Jovene, Napoli 1965, p.
791 ss.; C. TOMULESCU, Les trois chapitres de la lex Aquilia, in Iura, 21, 1970, p. 19
ss.; G. VALDITARA, Op. cit., p. 11.
9. D. 9, 2, 27, 4.
10. D. 9, 2, 12.
11. D. 9, 2, 12.
12. Questa scuola di pensiero ha il suo massimo esponente proprio in G. CUIACIO,
nei Paratitla alla legge Aquilia.
56 La lex Aquilia

obiettare – però – che per giustificare il passo di Plinio non è ne-


cessario supporre che il secondo capo dell’Aquilia si riferisca
necessariamente all’utilitas intercepta, poiché il pescatore –
danneggiato dalla condotta dei compagni – può agire in forza (e,
a parer di chi scrive, unicamente) del terzo capo, che mira preci-
puamente a ristorare il damnum datum, e – anche qualora non si
possa agire ex verbis13 – sicuramente è ammesso agire ex mente
legislatoris14. La dottrina ha proposto anche una lettura diffe-
rente del secondo capo, affermando che si riferisca all’ipotesi in
cui il vicino non costituta servitute, ita altius aedes suas extru-
xit et contra veterem formam legitimumque modum ut lumini-
bus vicini officeret. Questo è quanto si legge nella rubrica di
Cuiacio al secondo capo della lex Aquilia. Anche questa visione
può essere sottoposta a critica, in quanto presuppone l’esistenza
di una lex de modo aedificiorum anteriore, o quanto meno coe-
va, all’Aquilia, mentre è certo che una legge tendente a disci-
plinare il modus da osservarsi nel fabbricare giunge solamente
sotto l’impero di Augusto15. Altra scuola di pensiero16 collegava
il secondo capo della legge al concetto della pauperies. Si tratta
di una ipotesi già contemplata nelle leggi delle XII Tavole, in
altre parole è sembrato coerente, a seguito di una lettura siste-
matica della legge, che al primo capo si prevedesse l’ipotesi del
danno arrecato al pecus, mentre nel capo successivo l’ipotesi
inversa, e cioè che fosse stato proprio il bestiame ad arrecare un
danno; si tratterebbe di un’interpretazione assai vicina al seguente
passo di Ulpiano:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 1, 1 pr.: Si quadrupes pauperiem fecisse

13. D. 9, 2, 29, 3 e D. 19, 1, 23, 1.


14. L’azione pretoria è volta a espandere l’ambito di applicazione della legge Aqui-
lia: che una siffatta ipotesi possa trovare tutela ex verba legis emerge da D. 9, 2, 10.
15. Lo testimoniano M. VITRUVIO, De architectura, 1, 1, e 2, 8; G. SVETONIO, Vita
di Augusto, 30; G. PLINIO, Naturalis Historia, 35, 14 e D. 8, 2, 14. Sul tema anche R.
CARAVELLA, Le limitazioni del dominio per ragioni di vicinanza in diritto romano,
L’Erma di Bretschneider, Roma 1971.
16. È stata capeggiata da M. FREHERI, Verisimilium Libri Duo: in Quis Varia Juris
Civilis Loca Nove explicantur, emendatur, illustrantur. Opus Posthumum ac ob Insi-
gnes accessiones, ex schediasmatis auctoris depromptas & additas, pene novum editum,
cura & impensa Simonis Halbmayeri, Norimbergae 1628.
III. La lex Aquilia: profili interni e contenutistici 57

dicetur actio ex lege XII Tabularum descendit, quae lex voluit: aut da-
ri quod nocuit, id est id animal, quod noxiam commisit, aut aestima-
tionem noxiae offerre.

Conseguentemente, un’attenta analisi della disciplina da par-


te dei giuristi, li avrebbe condotti a notare che si tratta di
un’ipotesi priva dell’iniuria, aprendosi un’importante discre-
panza con l’intera volontà del legislatore di ricondurre il danno
al requisito dell’iniuria, inteso dapprima come antigiuridicità e
– successivamente – come elemento soggettivo. A seguito di
ciò, il secondo capo cadde in disuso, anche se sembra inverosi-
mile che lo stesso legislatore, nel momento della promulgazione
della legge non si sia reso conto che un animale non può provo-
care un danno colposamente, perché privo della capacità
d’intendere e di volere propria degli esseri umani (non potest
animal iniuriam quod sensu caret17); al massimo, una ricostu-
zione di questo tipo si sarebbe potuta fare solo nel primo perio-
do di vigenza della lex, in cui la tutela è orientata a ristorare
“oggettivamente” la lesione di un diritto, prefigurandosi – già
solo per questo motivo – come ingiusta.
Così, altra dottrina18 ha visto nel secondo capo la fattispecie
del danno provocato all’uomo libero (damnum liberi hominis
occisi), ma – in questo caso – non si spiegherebbe né la sua de-
suetudine né l’analoga espansione dell’azione utile nelle stesse
ipotesi: perché, infatti, ricorrere all’interpretazione analogica
laddove era disponibile anche un’ipotesi legale? Per sostenere
questa tesi si è preso spunto, in particolar modo, dalla parola
hominem che si ritrova nell’inciso del terzo capo della legge:
ceterarum rerum praeter pecudem et hominem occisos.
Secondo un altro orientamento, il secondo capitolo si riferi-
sce a delle speciali disposizioni in materia di corruptio servi.
Tale idea ha preso spunto da alcune fonti in materia di corru-
zione del servo19, ed è stata avallata dall’inverosimiglianza che i

17. D. 9, 1, 1, 3.
18. H. CANNEGIETER, Observationes iuris Romani, Luzac, Lugduni Batavorum 1772.
19. Questa tesi è stata sostenuta, prima del rinvenimento del manoscritto veronese
delle Istituzioni di Gaio, da Claude Chifflet (1541-1580): C. CHIFFLETII, Disquisitio de
58 La lex Aquilia

Romani potessero dimenticare di dettare una apposita disciplina


in una materia così importante. Questa fattispecie, infatti, non
appare disciplinata da nessuna normativa anteriore all’editto
pretorio. Per sostenere questa teoria si è fatto leva su un passo
di Plauto:

Plauto, Paenulus, 591-593: Agorastocles. – Vidistis, leno quom au-


rum accepit?
Advocati. – Vidimus.
Agorastocles. – Eum vos meum esse servum scitis?
Advocati. – Scivimimus.
Agorastocles. – Rem advorsus populi semper leges.
Advocati. – Scivimus.

In assenza del testo originale, si è fatto leva sulla ricostru-


zione di Plauto, e – in particolare modo – l’attenzione è ricaduta
su due parole, che sono populi e leges. Sostanzialmente, il ri-
corso a queste due espressioni sembrerebbe evocare l’esistenza
di un testo normativo (sicuramente redatto per iscritto) mai per-
venuto, e da identificarsi proprio nel secondo capo della legge
Aquilia, tesi comunque non esente da critica, perché l’opera di
Plauto è ambientata inizialmente a Cartagine e successivamente
in Grecia, cosa che escluderebbe, già in via preliminare,
l’attendibilità delle sue riflessioni in relazione ai modelli romani.
Il problema del contenuto del secondo capo è risolto com-
pletamente con il rinvenimento del testo originale da parte di
Gaio, avvenuto solo nel 1816: come è fin troppo noto, le Istitu-
zioni gaiane, che ci trasmettono la notizia del secondo capitolo
della legge, furono scoperte da Niebhur a Verona. Una volta
pubblicato il testo, si è potuto notare quanto tutte le dottrine na-
te nei secoli fossero sbagliate e prive di fondamento. Tra quelle
già analizzate, che in un certo qual modo, in assenza del testo
gaiano, potevano essere anche condivisibili, quella senza dub-

secundo capite legis Aquiliae, in E. OTTONIS, Thesaurus Iuris Romani, continens rario-
ra meliorum Interpretum opuscula, Basileae, Impensis Joh. Ludovici Brandmulleri
1744, V, coll. 876-8772. A lui si sono uniti Johann Gottlieb Heinecke, Eugen Huber,
Johannes Voet e G.O. Westenberg. Il passo a cui tale dottrina ha fatto particolare rife-
rimento è D. 11, 3, 5, 2.
III. La lex Aquilia: profili interni e contenutistici 59

bio più singolare era stata sostenuta da Ludwig Julius Friedrich


Höpfner, secondo il quale Ulpiano in D. 9, 2, 27, 4 avrebbe ta-
ciuto il contenuto del secondo capo perché lo ignorava egli
stesso20. Oggi che si possiede il manoscritto, si può affermare
che la forma di danneggiamento presa in considerazione dal se-
condo capitolo è l’acceptilatio fatta dall’adstipulator in frode al
creditore21.
Bisogna fare qualche considerazione sul motivo per cui si
diffonde la figura dell’adstipulator e su quale sia il suo ruolo
all’interno dell’ordinamento giuridico romano.
Il ricorso a questa figura trova una molteplicità di giustifica-
zioni, tra le quali si possono annoverare le attenzioni verso la
politica22, verso gli affari esteri, soprattutto riferiti agli scontri
armati23 (ed è chiaro che il riferimento è alle guerre puniche) e
– non per ultimo – gli ostacoli alla libera rappresentanza del
procuratore all’interno dei giudizi24, come sembra evocare
Gaio:

Gaio, 2, 95: Ex his apparet per liberos homines, quos neque iuri no-
stro subiectos habemus neque bona fide possidemus, item per alienos
servos, in quibus neque usumfructum habemus neque iustam posses-
sionem, nulla ex causa nobis adquiri posse. Et hoc est, quod vulgo di-
citur per extraneam personam nobis adquiri non posse; tantum de pos-
sessione quaeritur, an per liberam personam nobis adquiratur.

A ciò si aggiunge il divieto delle stipulazioni aventi per

20. L.J.F. HÖPFNER, Theoretisch-practischer Commentar über die Heineccischen


Institutionen nach deren neuesten Ausgabe, Siebente Auflage, von Neuem durchgese-
hen, mit einigen Anmerkungen und Zusätzen begleitet von D. Adolph Dieterich Weber.
Frankfurt am Main, bey Varrentrapp und Wenner 1803, p. 1053.
21. Gaio, 3, 215.
22. Il contesto in cui si applica la legge Aquilia appare ormai più evoluto rispetto a
quello della norma decemvirale, come si evince da AA.VV., Società e diritto dell’epoca
decemvirale: Atti del Convegno di diritto romano: Copanello 3-7 giugno 1984, Edizioni
Scientifiche Italiane, Napoli 1988.
23. Sul diritto di guerra nel mondo romano si legga V. ILARI, L’interpretazione sto-
rica del diritto di guerra romano fra tradizione romanistica e giusnaturalismo, Giuffrè,
Milano 1981.
24. Sul ruolo del procuratore un’interessante lettura è F. SERRAO, Il procurator,
Giuffrè, Milano 1947.
60 La lex Aquilia

obiettivo una prestazione che dispieghi i propri effetti dopo la


morte di una delle parti (si tratta della nota regola, valida sia per
la stipulatio sia per il mandato, secondo cui obligatio ab heredis
persona incipere non potest25). Tra l’altro, Cicerone sottolinea
che questo particolare periodo storico si caratterizza per
l’assenza di un’abilità nella trattazione degli affari economici,
che rende necessario rivolgersi a soggetti specializzati nella ma-
teria26:

Cicerone, Pro Murena, 11: An cum sedere in equis triumphantium


praetextati potissimum filii soleant, huic donis militaribus patris tri-
umphum decorare fugiendum fuit, u t r e b u s c o m m u -
niter gestis paene simul cum patre
triumpharet?

Stabiliti i motivi storici e sociali che hanno condotto alla na-


scita di una figura specializzata, vanno posti in luce i suoi pote-
ri. Va premesso che si tratta di competenze ampie, perché il suo
ruolo è proprio quello di sopperire a tutte le problematiche con-
tingenti sopra viste. I poteri dell’adstipulator sono sostanzial-
mente tre: a) farsi promettere dal debitore lo stesso bene che po-
trebbe farsi promettere il creditore; b) stare validamente in giu-
dizio e c) ricevere validamente un pagamento. Questi tre poteri,
così sintetizzati, trovano illustrazione nel passo di Gaio:

Gaio, 3, 110: Possumus tamen ad id, quod stipulamur, alium adhibere,

25. È quanto afferma Gaio in 3, 117 e in D. 3, 19, 13. La questione è fatta oggetto
di un’attenta disamina in F. SERAFINI, Op. cit., p. 62. Più di recente cfr. T. FINKENHAU-
ER, Vererblichkeit und Drittwirkungen der Stipulation im klassischen römischen Recht,
Mohr Siebeck,Tübingen 2010.
26. Un approfondimento sul tema in F. SERRAO, Impresa e responsabilità a Roma
nell’età commerciale: forme giuridiche di un’economia-mondo, Pacini, Pisa 1989. Sul-
lo sviluppo economico di Roma, con particolare riferimento al rapporto intercorrente tra
diritto, economia e costumi, si legga ancora F. SERRAO, Diritto privato, economia e so-
cietà nella storia di Roma, Jovene, Napoli 1984. Cfr. anche F. GRELLE, L. FANIZZA,
Diritto e società nel mondo romano, L’Erma di Bretschneider, Roma 2005 e ancora
M.G. BIANCHINI (a cura di), Diritto e società nel mondo romano, New Press, Como
1988, Atti di un incontro di studio: Pavia, 21 aprile 1988; F. DE MARTINO, Diritto, eco-
nomia e società nel mondo romano, con una nota di lettura di Federico D’Ippolito, Jo-
vene, Napoli 1995. Limitatamente agli aspetti finanziari si legga P. CERAMI, Aspetti e
problemi di diritto finanziario romano, Giappichelli, Torino 1997.
III. La lex Aquilia: profili interni e contenutistici 61

qui idem stipuletur, quem vulgo adstipulatorem vocamus. 111. Et huic


proinde actio conpetit proindeque ei recte solvitur ac nobis; sed
quidquid consecutus erit, mandati iudicio nobis restituere cogetur.
112. Ceterum potest etiam aliis verbis uti adstipulator, quam quibus
nos usi sumus. itaque si verbi gratia ego ita stipulatus sim: DARI
SPONDES? ille sic adstipulari potest: IDEM FIDE TUA PROMIT-
TIS? vel: IDEM FIDE IUBES? vel contra.

Tra il creditore e l’adstipulator si crea un rapporto che trova


il proprio fondamento giuridico nell’adstipulatio, la quale per-
mette di poter fare una donazione o una delegazione di credito27
e soprattutto si rivela utilissima per poter opporre al promittente
una persona attiva e capace di farsi pagare a ogni costo. In-
somma, la figura dell’adstipulator nasce per rispondere a una
esigenza pratica, che è quella di assicurare al creditore di rice-
vere il pagamento.
Bisogna premettere che l’obbligazione pecuniaria si estingue
irrevocabilmente, nell’ordinamento giuridico romano, con la
presenza o con la partecipazione degli adstipulatores, mediante
il pagamento e la successiva acceptilatio; ma già in età medio
repubblicana i creditori cominciarono a non richiedere più l’atto
formale di estinzione dell’obbligazione contratta verbis della
quale il debitore avesse fatto adempimento informale. A seguito
di questo mutamento, che non è solo giuridico, ma anche politi-
co e sociale, cambia la funzione dell’acceptilatio, che si tra-
sforma in uno strumento volto alla remissione di un’obbligazione
non ancora adempiuta dalla controparte, trasformandosi – con
un’espressione molto pittoresca – in una modalità di risoluzione
“immaginaria”:

Gaio, 3, 169: Item per acceptilationem tollitur obligatio, acceptilatio


autem est veluti imaginaria solutio.

Nella prassi poteva avvenire che vi fosse una collusione tra

27. Sulla delegazione si rimanda alla lettura monografica di S. CUGIA, Indagini sul-
la Delegazione nel diritto romano con cenni di diritto romano comune e moderno,
Giuffrè, Milano 1947 e di G. SACCONI, Ricerche sulla delegazione in diritto romano,
Giuffrè, Milano 1971.
62 La lex Aquilia

il debitore e l’adstipulator, motivo per cui quest’ultimo rimet-


teva all’altro il debito, provocando un evidente danno in capo al
creditore principale, che si vedeva in tal modo privato della
propria somma di denaro. È questa la condotta tipica che viene
sanzionata dal secondo capitolo della lex Aquilia: l’attenzione si
pone, in particolar modo, sul danneggiamento avvenuto me-
diante una collusione tra adstipulator e debitore fondato sulla
frode. Per tale motivo Gaio, avendo parafrasato il secondo capi-
tolo della legge, esprime molto esattamente questo concetto, per
cui viene punito l’adstipulator, qui pecuniam in fraudem credi-
tori acceptam fecerit.
In questa affermazione Gaio, con la parola fraus, richiama
alla mente l’idea di un pregiudizio arrecato a un terzo mediante
l’uso di artifici28. Bisogna chiedersi quale fosse l’interesse che
spingeva l’adstipulator a porre in essere una siffatta condotta: si
può verosimilmente ritenere che lo stipulante trovasse nella re-
missione del debito uno strumento per poter acquistare favore
presso il promittente. Insomma, l’adstipulator avrebbe potuto
sfruttare una tale situazione per accreditare la propria persona
innanzi ad altri eventuali debitori.
Nel corso dei secoli, il secondo capitolo dell’Aquilia è stato
oggetto di ampie trattazioni. Di grande spessore, nel XIX seco-
lo, fu la dissertazione inaugurale di Adrian Heinrich van der
Kemp29. Secondo questo scrittore, la legge Aquilia avrebbe tro-
vato applicazione non solo nell’ipotesi in cui lo stipulante aves-
se rimesso il debito, ma anche nell’ipotesi in cui l’adstipulator
avesse – in danno al creditore – esatto (e trattenuto) il denaro.
In questo caso l’abuso del diritto non ha per finalità quella di
accreditare la propria persona, ma un vero e proprio dolo, con-
sistente nel trattenere la somma di denaro, e questa particolare

28. A. MAIERINI, Della revoca degli atti fraudolenti fatti dal debitore in pregiudi-
zio dei creditori, con note dell’avv. Giorgio Giorgi, Fratelli Cammelli, Firenze 1898, p.
104. Ancora G. IMPALLOMENI, Studi sui mezzi di revoca degli atti fraudolenti nel dirit-
to romano classico, CEDAM, Padova 1958 e da ult. L. DESANTI, La legge Aquilia: Tra
verba legis e interpretazione giurisprudenziale, Giappichelli, Torino 2015, p. 11.
29. A.H. VAN DER KEMP, Dissertatio juridica inauguralis De capite secundo legis
aquiliae, seu ad locum Gai de adstipulatoribus, Lugduni Batavorum, apud Haak et so-
cios 1829, p. 49.
III. La lex Aquilia: profili interni e contenutistici 63

lettura può essere avallata da una ricostruzione grammaticale,


ricordando che rendere accepta una somma di denaro equivale
all’utilizzo dell’espressione pecuniam accipere, che rende me-
glio l’idea dell’atto di ricezione della somma.
Nonostante le conclusioni a cui giunse la dottrina capeggiata
da Adrian Heinrich van der Kemp siano particolarmente inte-
ressanti, perché sostenute da un’attenta analisi etimologica, non
sembrano condivisibili, perché l’Aquilia non prendeva mai in
considerazione il danno derivante dal lucro. Affermare che il
secondo capitolo della lex contemplasse anche un’ipotesi di ac-
cettilazione indiretta contravviene al seguente insegnamento di
Ulpiano:

Ulpiano, 41 ad Sabinum, D. 9, 2, 41, 1: Interdum evenire Pomponius


eleganter ait, ut quis tabulas delendo furti non teneatur, sed tantum
damni iniuriae, ut puta si non animo furti faciendi, sed tantum damni
dandi delevit: nam furti non tenebitur: cum facto enim etiam animum
furis furtum exigit.

Con questo inciso, i giureconsulti mettono in luce la ratio


della legge: il danno contemplato dall’Aquilia ha sempre e sol-
tanto come causa un danneggiamento e non l’intenzione di pro-
vocare un furto30 (animus furti faciendi), motivo per cui optare
per un’interpretazione estensiva del secondo capo non sembra
possibile.
Qui il discorso diventa nettamente più complicato, perché
sarebbe interessante scoprire se questa particolare ipotesi possa
ricomprendersi nella tutela di un’azione utile: le fonti romani-
stiche non offrono alcun tipo di supporto, pertanto da un lato si
potrebbe sostenere che il pretore potesse giungere a un ruolo
talmente innovativo31, dall’altro andrebbe messo in luce come

30. In tema di furto si può rinviare a E. ALBERTARIO, Animus furandi: contributo


alla dottrina del furto nel diritto romano e nel diritto bizantino, Vita e Pensiero, Milano
1923. Più recenti: R. LA ROSA, La repressione del «furtum» in età arcaica. “Manus
iniectio” e “duplione dammum decidere”, Jovene, Napoli 1990; I. FARGNOLI, Ricerche
in tema di furtum: qui sciens indebitum accipit, Giuffrè, Milano 2006; F. BATTAGLIA,
Furtum est contrectatio. La definizione romana del furto e la sua elaborazione moder-
na, CEDAM, Padova 2012.
31. Sul ruolo del pretore e sulla sua capacità di modernizzare il diritto, come già
64 La lex Aquilia

questa ipotesi di frode indiretta perda ogni genere di aggancio


con la disciplina contemplata dal testo della norma: mentre il
primo e il terzo capo sono oggetto di un’interpretazione esten-
siva, senza mai travolgere il dato letterale della norma, nel se-
condo capo della legge Aquilia si giungerebbe a stravolgerne
completamente il significato.
La presenza di un danneggiamento di una cosa immateriale32
(tale può dirsi il diritto di credito) all’interno di un contesto
normativo che contempla sempre la lesione di un bene materia-
le non è del tutto illogica. La figura dell’adstipulator corrispon-
de a soggetti muniti di grandi competenze nel settore economi-
co, erano pertanto dei patrizi, a cui i plebei decidevano di rivol-
gersi, anche per sfruttare l’importanza (e, dunque, la forza con-
trattuale) del singolo patrizio all’interno della società. Lesi nei
propri interessi proprio dalla parte chiamata a tutelarli, ed es-
sendo proprio la legge Aquilia un plebiscito, essa si rivela la
sede più idonea per far valere questo interesse, trasformandosi
così la legge in un testo composito, in cui si uniscono le ipotesi
della distruzione di un bene materiale e del deterioramento
semplice al danno arrecato a un bene immateriale.
A ciò si aggiunge un’ulteriore considerazione: il primo e il
terzo capo della legge Aquilia hanno una portata talmente gene-
rale da giovare tanto ai plebei quanto ai patrizi, e – proprio per
questo motivo – la classe nobiliare romana non si oppose parti-
colarmente all’emanazione della lex Aquilia: calcolando il rap-
porto tra costi e benefici, ha ritenuto più conveniente accettare
una legge che contemplasse un’ipotesi a proprio sfavore (il se-
condo capo) che privarsi dell’innovativa tutela del primo e del
terzo capo, al contrario, la plebe avrebbe dovuto creare un’apposita
legge che contemplasse il solo caso dell’acceptilatio: in questo

messo in luce nella trattazione, cfr. M.G. ZOZ DE BIASIO, Premesse esegetiche allo stu-
dio del diritto romano, Giappichelli, Torino 1995. Per quanto riguarda invece il ruolo
del pretore peregrino si rinvia a F. SERRAO, La iurisdictio del pretore peregrino, Giuf-
frè, Milano 1953.
32. Sullo sviluppo della nozione di res si legga G. ASTUTI, Cosa: diritto romano
intermedio, Giuffrè, Milano 1962. Si veda ancora G. GROSSO, Problemi sistematici nel
diritto romano: cose, contratti, pubblicazione postuma, a cura di Lelio Lantella, Giap-
pichelli, Torino 1974.
III. La lex Aquilia: profili interni e contenutistici 65

caso si sarebbe accentuato irreversibilmente il contrasto tra pa-


trizi e plebei33.
La soluzione fatta propria del plebiscito rappresenta un otti-
mo contemperamento di interessi, che per un certo senso ri-
chiama la moderna nascita delle leggi, espressione del portato
sociale di singole classi, che trovano nel parlamento il momento
di confronto e sintesi politica.
Ma il punto successivo è stabilire il perché cadde in desue-
tudine il secondo capo: l’adstipulatio perde importanza a causa
del ricorso all’istituto del mandato34, privo delle forme rigorose,
e scompare definitivamente dall’ordinamento giuridico nel pe-
riodo di Giustiniano, perché è riconosciuta la validità delle sti-
pulazioni post mortem, in forza della costituzione del 222 a.C.;
a ciò va detto che l’istituto dell’acceptilatio era considerato uno
strumento soggetto a un notevole rischio, alla luce di quanto
dianzi visto, mentre, dal punto di vista economico, era molto
più costoso rispetto al mandato semplice.
Va segnalato, sotto il profilo cronologico, che vi è una sfasa-
tura tra il momento della caduta in desuetudine (a cui fa riferi-
mento Ulpiano) e l’abrogazione dell’istituto avvenuta in epoca
giustinianea. In un primo momento coesistono adstipulatio e
mandato, ed è proprio in questo momento che l’adstipulatio ca-
de in desuetudine (insieme al secondo capo dell’Aquilia) pur
essendo astrattamente in vigore, ed è proprio a seguito di una
situazione di fatto, che si procede all’abrogazione ufficiale
dell’istituto, rivelandosi questa ipotesi un altro esempio di come
il diritto romano fosse aderente ai casi della vita e
all’evoluzione del costume sociale e politico.

33. Sul rapporto, spesso instabile, tra patriziato e plebe si rinvia alla lettura interes-
sante di F. SERRAO, Classi, partiti e legge nella Repubblica romana, Pacini, Pisa 1974;
IDEM, Legge e società nella Repubblica romana, Jovene, Napoli 1981.
34. Gaio, 3, 111, 117 e 216. Per quanto concerne la revoca degli atti fraudolenti,
avendo analizzato l’ipotesi inerente al secondo capo dell’Aquilia, si può rinviare a S.
SOLAZZI, La revoca degli atti fraudolenti nel diritto romano, Jovene, Napoli 1934; G.
IMPALLOMENI, Op. cit.; L. D’AMATI, Considerazioni in tema di actio utilis rescissa ca-
pitis deminutione, in Diritto@Storia, 8, 2009, visitato il 15 maggio 2016.
66 La lex Aquilia

3.4. Il capo III e le ipotesi di danneggiamento: riflessioni


sulla tipicità della condotta

Il terzo capo della legge Aquilia è formulato come norma di


chiusura del sistema sulla responsabilità civile: questo capitolo
trova applicazione tutte le volte in cui si siano verificate una
ustio, fractio o ruptio. Il capo terzo – perciò – si riferisce alle
ipotesi di un servo ferito o di un animale che non fosse pecus,
della combustione, della frattura, della rottura e, in termini ge-
nerali, della corruptio di cosa materiale altrui, come, ricordia-
molo, afferma Ulpiano:

Ulpiano, 18 ad edictum, 9, 2, 27, 5: Tertio autem capite ait eadem lex


Aquilia: “Ceterarum rerum praeter hominem et pecudem occisos si
quis alteri damnum faxit, quod usserit fregerit ruperit iniuria, quanti
ea res erit in diebus triginta proximis, tantum aes domino dare damnas
esto”.

Rientrano all’interno del terzo capo della legge tutte le spe-


cie di danno arrecate mediante attività distruttiva, come strac-
ciare, rompere, bruciare, versare e deteriorare, in quest’ultima
condotta vi rientra anche il mescolamento di una sostanza con
un’altra, senza che vengano in rilievo né la qualità degli stru-
menti utilizzati né l’animus dell’agente35.
Affinché potesse trovare spazio l’actio legis Aquiliae era ri-
chiesto che la condotta posta in essere dall’offensore rientrasse
nei casi indicati dai capita della lex, venendo in risalto la tipici-
tà della condotta. Nonostante l’ampliamento semantico a cui si
è fatto cenno sopra, operato sempre per sinonimia, va detto che
il terzo capo della legge Aquilia sanziona ipotesi circoscritte,
ipotesi che – in altre parole – possono ricondursi alla tipicità del-
le parole utilizzate nel testo normativo. Le condotte menzionate
devono essere provocate mediante un’actio, pertanto la tipicità
della condotta si traduceva non solo come tipicità di contenuto,
ma anche come necessità di porre in essere un’azione positiva.

35. Gaio 3, 217; D. 9, 2, 27, 5 e 15. I passi sono oggetto di un’attenta analisi nello
storico manuale di A. DOVERI, Op. cit., p. 315.
III. La lex Aquilia: profili interni e contenutistici 67

Con questa prima interpretazione della legge, colui che si


fosse recato nel fondo del vicino e avesse incendiato, con dolo36
o con colpa, gli alberi, sarebbe stato tenuto con l’actio legis
Aquiliae. Il soggetto danneggiato avrebbe potuto agire contro
l’autore, perché questi si era reso colpevole di un danno provo-
cato mediante un’azione positiva. Tutte quelle volte in cui, in-
vece, il danno risultasse frutto di un’omissione, ad esempio a
causa di una mancata sorveglianza, la tutela aquiliana non avreb-
be potuto trovare applicazione. Un esempio potrà chiarire quan-
to esposto: se Tizio avesse provocato un incendio nel proprio
fondo, ma si fosse addormentato, e una raffica di vento avesse
spinto l’incendio nel fondo del vicino e bruciato i suoi alberi da
frutto, il danneggiato non avrebbe ottenuto alcun genere di
tutela.
L’attività pretoria – del cui importante ruolo si è già parlato –
conduce a un progressivo superamento della tipicità della condot-
ta. Il primo passo verso questa direzione porta ad assimilare il
rumpere, previsto nel terzo capo della legge, a un più generico
corrumpere:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 27, 15: Inquit lex “ruperit”. Rupisse


verbum fare omnes veteres sic intellexerunt “corruperit”.

Questo passo testimonia lo slittamento semantico del verbo


rumpere verso un più generico corrumpere, inteso nel senso di
deteriorare. È Ulpiano che testimonia il fatto che nonostante il
terzo capo della lex Aquilia si riferisca al rompere, quasi tutti i
giuristi diedero una interpretazione più ampia di questo termine,
molto probabilmente grazie all’opera innovativa della magistra-
tura pretoria. Preziosa, sempre in questo contesto, è una testi-
monianza di Ulpiano, che riporta il pensiero di Celso:

ivi: Cum eo plane, qui vinum spurcavit vel effudit vel acetum fecit vel
alio modo vitiavit, agi posse Aquilia Celsus ait, quia etiam effusum et
acetum factum corrupti appellatione continentur.

36. Per un approfondimento sul dolo cfr. F. CANCELLI, Il dolo nel diritto penale
romano, Giuffrè, Milano 1965.
68 La lex Aquilia

Il giurista testimonia come anche colui che avesse arrecato


un danno al vino, deteriorandolo, versandolo o facendolo diven-
tare aceto, fosse tenuto con la legge Aquilia perché – sebbene
non si potesse tecnicamente trattare di un rumpere – era sicura-
mente un’ipotesi di deterioramento, rientrante nella più ampia
categoria del corrumpere (quia etiam effusum et acetum factum
corrupti appellatione continentur).
Si può notare come, pur partendo dai verba legis, e conside-
rando tutte le limitazioni che questi importavano, il pretore, so-
stenuto dall’opera dei giuristi, sia giunto ad allargare le fatti-
specie contemplate dai verba legis.
Sul terzo capo della legge, nel XVII secolo, François Hot-
man sostenne che dovesse rientrarvi anche la caedes degli ani-
mali non compresi nella categoria dei pecudes37. Questa scuola
di pensiero, avendo sospettato un’interpolazione, corresse il te-
sto, proponendo la seguente versione: ceterarum rerum si quis
alteri damnum faxit quod aliquod animal praeter hominem et
pecudem occiderit, quod usserit. Il punto di partenza era costi-
tuito da D. 9, 2, 27, 17 nel quale si menziona la parola rupisse
riferita alla sola ipotesi del ferimento:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 27, 17: Rupisse eum utique acci-


piemus, qui vulneraverit, vel virgis vel loris vel pugnis cecidit, vel te-
lo vel quo alio, ut scinderet alicui corpus, vel tumorem fecerit, sed ita
demum, si damnum iniuria datum est: ceterum si nullo servum pretio
viliorem deterioremve fecerit, Aquilia cessat iniuriarumque erit agen-
dum dumtaxat: Aquilia enim eas ruptiones, quae damna dant, perse-
quitur. Ergo etsi pretio quidem non sit deterior servus factus, verum
sumptus in salutem eius et sanitatem facti sunt, in haec mihi videri
damnum datum: atque ideoque lege Aquilia agi posse.

Tuttavia, la soluzione di cui si discute è basata su una giusti-


ficazione grammaticale che non può essere accolta, perché si da
per scontato la corrispondenza semantica tra occidere e rumpe-
re, ed è impossibile che quest’ultimo verbo potesse essere inte-
so solo in modo così ristretto, anzi, il verbo rumpere è oggetto

37. F. HOTOMANNI, Observationum iuris civilis libri IX, Lugduni, Vignon 1604, p. 88.
III. La lex Aquilia: profili interni e contenutistici 69

di un’interpretazione così estensiva da essere letto come cor-


rumpere, ponendosi dunque quale nuova categoria generale,
che ricomprende la nozione dell’occidere38, ma non si risolve in
essa:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 27, 13: Inquit lex “ruperit”. Rupisse


verbum fere omnes veteres sic intellexerunt “corruperit”.

Le fonti testimoniano un’interpretazione estensiva del verbo


rumpere39, a significare che questa fattispecie inizia ad assume-
re una portata talmente ampia da ricomprendere anche l’ipotesi
in cui si fossero mescolate delle sostanze insieme al frumento
altrui, tanto da renderle difficilmente separabili da quest’ultimo40.
Inoltre rientra in questa condotta anche la spurcatio vini e il
rumpere diviene un concetto talmente generale (e astratto), al
pari delle moderne leggi, da ricomprendere anche le condotte
particolari che si risolvono nel frangere e nell’urere:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 27, 15: Cum eo plane, qui vinum


spurcavit vel effudit vel acetum fecit vel alio modo vitiavit, agi posse
Aquilia Celsus ait, quia etiam effusum et acetum factum corrupti ap-
pellatione continentur. 16. Et non negat fractum et ustum contineri
corrupti appellatione, sed non esse novum, ut lex specialiter quibu-
sdam enumeratis generale subiciat verbum, quo specialia complecta-
tur: quae sententia vera est.

Infatti, afferma Celso, non è nuovo che una legge, enumera-


te in modo specifico alcune fattispecie, ponga una nozione ge-
nerale che includa le precedenti; e secondo Ulpiano la statui-
zione di Celso è pienamente condivisibile, escludendosi ogni
ipotesi di ius controversum (sententia vera est).
La tutela deve anche riferirsi all’ipotesi in cui venga dan-

38. Il verbo rumpere può essere riconnesso ad occidere, perché evoca anche l’idea
del processo di decomposizione della materia.
39. D. 9, 2, 27, 17; D. 47, 2, 27, 3; D. 48, 11, 9. Sul significato del verbo rumpere
si può consultare A. PERNICE, Zur Lehre von den Sachbeschädigungen nach rȍmischrn
Rechte, Verlag Böhlau, Weimar 1867, p. 152.
40. D. 9, 2, 27, 18 e 20.
70 La lex Aquilia

neggiato un testamento41: “corrompe” la sostanza anche chi so-


lamente opera una cancellatura. L’evoluzione terminologica poi
non è estranea neppure all’urere che verrà inteso come exurere
e – ancora – adurere: si tratta nuovamente di tipologie di danno
non distruttivo, come, ad esempio, il bruciare una piantagione
(in tal caso il danno è provocato al raccolto futuro e non al
campo in sé) o il provocare un’ustione (qui, invece, si è lontani
da un danneggiamento in senso stretto, poiché la ferita tende a
guarire). Su tutte queste ipotesi si tornerà nel corso della tratta-
zione, perché esse assumono importanza nell’evoluzione appli-
cativa della lex Aquilia.

41. Sul testamento nel diritto romano una ricerca fondamentale è quella di M.
AMELOTTI, Le forme classiche di testamento: Lezioni di diritto romano raccolte da
Remo Martini, Giappichelli, Torino 1966-1967.
Capitolo IV

I requisiti per agire ex lege Aquilia

4.1. Iniuria e culpa: dal facere contra ius al requisito sog-


gettivo

Si è già avuto modo di definire il danno e il danneggiamento


(soprattutto nella loro portata cronologica e causale), ora vanno
visti i requisiti da soddisfare affinché si possa essere responsa-
bili ex lege Aquilia. È necessario che il danneggiamento abbia
quattro requisiti: l’iniuria (intesa nel senso di colpa), la damni
datio corpore corpori (il danno provocato con un’azione mate-
riale alla struttura fisica del bene), la damni datio rebus alienis
(l’appartenenza della cosa a un terzo) e – infine – il damnum
datum (cioè l’effettività del danno stesso). Il requisito dell’iniuria1
è oggetto di un’attenta evoluzione giurisprudenziale, se in un
secondo momento diventerà sinonimo di colpa, inizialmente ha
per presupposto la sola lesione di un diritto altrui2, ed è proprio
in questa lesione (oggettivamente ed economicamente) rilevan-
te che si può dire venga in rilievo, per il diritto, un damnum
iniuria datum3, traducendosi in un comportamento difforme dal
diritto e privo di un fondamento legale (omne, quod non iure
fit4); la lettura del seguente passo potrà delinearne meglio il
concetto:

1. Gaio, 3, 215 e D. 9, 2, 2, e 27, 5.


2. Il legame tra maleficio e violazione del diritto è messo in luce da F. SERAFINI,
Op. cit., p. 102.
3. D. 44, 7, 4.
4. D. 4, 4, 3. Una lettura estesa in materia è rinvenibile in E. POLAY, Iniuria dicitur
omne, quod non iure fit, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano “Vittorio Scialo-
ja”, 1985, p. 73. Sullo stesso tema IDEM, “Iniuria” Types in Roman Law, Akadémiai
Kiado, Budapest 1986.

71
72 La lex Aquilia

Ulpiano, 56 ad edictum, D. 47, 10, 1 pr.: Iniuria ex eo dicta est, quod


non iure fiat, omne enim, quod non iure fit, iniuria fieri dicitur.

Il passo di Ulpiano ha una portata generale e classificatoria


(iniuria ex eo dicta est), inoltre la conclusione con l’impersonale
dicitur lascia intravedere un’interpretazione comunemente ac-
colta nella prassi giuridica. Inoltre il passo può essere letto an-
che alla luce di un altro testo, sempre di Ulpiano, proveniente
dal libro 18 (in cui il giurista trattava proprio della lex Aquilia
de damno) e in cui affiora la sfaccettatura soggettiva dell’iniuria,
attraverso il richiamo a un esempio di omicidio colposo:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 5, 1, 1: Iniuriam autem hic accipere


nos oportet non quemadmodum circa iniuriarum actionem contume-
liam quandam, sed quod n o n i u r e f a c t u m e s t , h o c
est contra ius, id est si culpa quis oc-
ciderit.

Ulpiano osserva che iniuria nell’Aquilia è usato diversa-


mente rispetto all’actio iniuriarum, dove designa l’offesa
all’onore della persona. Ai fini della lex Aquilia, il termine as-
sume una sfaccettatura soggettiva, laddove si faccia riferimento
alla mancanza del diritto in capo all’agente. Questa accezione
soggettiva andrà a sostituire quella oggettiva, che prendeva in
considerazione l’offesa arrecata al diritto altrui: si tratta del
contra ius5. In un primo e limitatissimo momento, il concetto di
iniuria corrispondeva al significato etimologico di non iure fac-
tum. In questo periodo equivale a ciò che viene arrecato non iu-
re, con riferimento all’agente, e contra ius, con riferimento al
diritto del danneggiato. Successivamente, matura la considera-
zione che chi agisce “in colpa” agisce sempre in assenza di un
proprio diritto, o, in alternativa, ledendo il diritto altrui.
L’elemento soggettivo della culpa rientra, a propria volta,
nella nozione più ampia di iniuria, e ciò si spiega partendo dal
fatto che in testi come D. 9, 2, 5, 1, 1 appena citato si legge che

5. Gaio, 3, 211. Viene in rilievo anche in D. 9, 2, 2; D. 9, 2, 7, 3 e D. 9, 1, 1, 3.


IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 73

iniuria equivale a culpa6. Inoltre, si può ricordare il celeberrimo


frammento D. 9, 2, 44 pr. secondo il quale è tenuto come respon-
sabile anche chi abbia arrecato un danno per colpa lievissima:

Ulpiano, 42 ad Sabinum, D. 9, 2, 44 pr.: In lege Aquilia et levissima


culpa venit.

Secondo l’interpretazione preferibile la colpa levissima non


definisce la sfera della responsabilità del danneggiante materia-
le «ma quella del “padrone consapevole”», riferendosi alla par-
ticolare circostanza in cui il padrone conosca le intenzioni del
servo che voglia arrecare un danno, «una responsabilità che
sussisterebbe anche in presenza di una culpa minima»7.
Grazie al passaggio da requisito oggettivo a soggettivo, la
iniuria e la culpa coincidono e affluiscono nell’omogeneo con-
cetto del facere non iure e contra ius. Lo stesso Ulpiano, che fa
riferimento a questa corrispondenza terminologica, metterà in
luce come iniuria sia suscettibile di più interpretazioni:

Ulpiano, 56 ad edictum, D. 47, 10, 1 pr.: Iniuria ex eo dicta est, quod


non iure fiat: omne enim, quod non iure fit, iniuria fieri dicitur. Hoc
generaliter. S p e c i a l i t e r a u t e m i n i u r i a d i c i -
tur contumelia. Interdum iniuriae ap-
pellatione damnum culpa datum signi-
ficatur, ut in lege Aquilia dicere so-
l e m u s : interdum iniquitatem iniuriam dicimus, nam cum quis
inique vel iniuste sententiam dixit, iniuriam ex eo dictam, quod iure et
iustitia caret, quasi non iuriam, contumeliam autem a contemnendo.

Inoltre, che la colpa rientri all’interno del concetto più am-


pio dell’iniuria è messo in luce nel seguente testo di Paolo,
tramandatoci attraverso la Collatio, che secondo Floriana Cursi
fornì il modello per un testo delle Istituzioni giustinianee:

Collatio Legum Mosaicarum I. 4, 4 pr.: Generaliter iniuria


et Romanarum, 2, 5, 1, dicitur omne quod non iure

6. D. 47, 10, 1 pr.


7. S. GALEOTTI, Ricerche sulla nozione di damnum. I criteri d’imputazione del
danno tra lex e interpretatio prudentium, Jovene, Napoli 2016, p. 247.
74 La lex Aquilia

PAULUS libro singulari et ti- fit specialiter alias contume-


tulo de iniuriis: Generaliter lia, quae a contemnendo dicta
dicitur iniuria omne, quod est, quam Graeci ὕβριν appel-
non iure fit: specialiter alia lant; alias culpa, quam Graeci
est contumelia, quam Graeci ἀδἰχηµα dicunt, sicut in lege
ὔβριν appellant, alia culpa Aquilia damnum iniuria acci-
quam Graeci ἀδίκηµα dicunt, pitur; alias iniquitas et iniusti-
sicut in lege Aquilia damnum tia, quam Graeci ἀδἰχιαν vo-
iniuriae accipitur, alia iniqui- cant. cum enim praetor vel
tas et iniustitia, quam Graeci iudex non iure contra quem
ἀδικίαν vocant. Nam cum pronuntiat, iniuriam accepis-
praetor non iure adversum se dicitur.
nos pronuntiat, iniuriam nos
accepisse dicimus: unde ap-
paret non esse verum, quod
Labeo putabat, apud praeto-
rem iniuriam ὔβριν dumtaxat
significare.

Si può dedurre che, secondo i giuristi romani, le due espres-


sioni damnum iniuria datum e damnum culpa datum sono equi-
valenti, come ha anche osservato Carlo Augusto Cannata, se-
condo cui «resta il fatto che l’agire culpa è agire iniuria – per-
ché la culpa, come si è visto, restituisce al comportamento del
danneggiante l’illiceità che una causa giustificatrice gli aveva
tolto – e, d’altro lato, che l’agire iniuria, anche nel significato
iniziale di “agire senza giustificazione”, è agire culpa ove si ag-
gredisca un diritto altrui, perché è riprovevole aggredire un di-
ritto altrui senza giustificazione»8. Come dal passo di Ulpiano
sopra riportato, il nuovo significato di iniuria si sviluppa lungo
due direzioni, come ha messo in luce anche Sara Galeotti, e si
tratta della ricerca di un elemento in grado di assumere un ruolo
unificante delle varie condotte e della sostituzione terminologi-
ca di facere con dare. Al proposito l’Autrice osserva che il ver-
bo facere valorizza9

soprattutto il momento causativo della lesione, isolando una serie di


condotte, secondo la dottrina maggioritaria, dai profili di “materialità”

8. C.A. CANNATA, Sul testo della lex Aquilia, cit., p. 41.


9. S. GALEOTTI, Op. cit., p. 146.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 75

e volontarietà. Il verbo dare, al contrario, pone in evidenza il risultato


più del modo in cui la lesione è stata prodotta; la distruzione,
l’alterazione sostanziale del bene – da cui deriva, per il danneggiato,
una perdita economica – più del fatto dannoso. Lo spostamento termi-
nologico dal facere al dare non implica, tuttavia, né che la riflessione
giurisprudenziale trascuri l’analisi delle meccaniche causative della
lesione (…). La locuzione damnum iniuria datum sintetizza, al contra-
rio, una casistica nella quale l’idea del facere persiste all’interno di un
verbo – dare – che guarda al prodotto delle condotte umane in
un’accezione più ampia di quella descritta dalle azioni materiali tipi-
che individuate dai verba legis.

Come si è già detto, in un primo momento rimane prevalente


il concetto di iniuria in termini oggettivi, poiché una volta che
si cagioni un danno, e lo si cagioni iniuria, per l’applicazione
della legge è del tutto indifferente la condizione soggettiva
dell’agente. In altre parole, provocato un danno, non assume ri-
lievo alcuno il fatto che l’agente abbia agito con l’intenzione di
nuocere (cioè con dolo), o che abbia cagionato il danno per sua
imprudenza (colpa) o, addirittura, che si sia reso colpevole di
una negligenza minima e irrilevante (è l’ipotesi della colpa lie-
vissima). Ciò perché, in queste tre diverse ipotesi, viene in ri-
lievo esclusivamente il fatto che l’agente non iure fecit.
Chiarendo quanto fin qui esposto, si può tracciare un percor-
so evolutivo del termine. L’actio legis Aquiliae richiedeva, co-
me primo presupposto, l’iniuria, concetto che inizialmente si
identifica con l’antigiuridicità. Successivamente, iniuria diverrà
sinonimo di colpevolezza. Ciò vuol dire che agli albori della
lex, il danno doveva essere cagionato iniuria, e dunque essere
un danno ingiusto. Per determinare l’ingiustizia del danno era
necessario fare esclusivo riferimento a un dato di natura ogget-
tiva: la condotta posta in essere dall’offensore doveva essere
antigiuridica, posta in essere – cioè – contra ius. Ciò vuol dire
che non risultavano essere dati iniuria tutti quei danni provocati
in presenza di una causa giustificatrice, come potrebbe essere la
legittima difesa, lo stato di necessità o l’esercizio di un proprio
diritto10, ciò perché la legittimità della condotta si fondava

10. Potrebbe risultare interessante riportare l’insegnamento di Giorgio Giorgi, se-


76 La lex Aquilia

sull’assolutezza dei diritti, e le stesse cause di giustificazione


venivano intese come forme di tutela prive di ogni limite,
escludendosi un abuso delle stesse.
Dobbiamo notare come una concezione oggettiva di iniuria,
che rende estraneo qualsivoglia riferimento alla colpevolezza,
quanto meno in un primo momento, a parere di chi scrive, abbia
influito su un’autorevole dottrina11, diffusasi nei primi anni del
XX secolo e che, facendo leva sul requisito oggettivo di iniuria,
tendeva a eliminare l’elemento della colpa nella tutela aquilia-
na, affermando che fosse sufficiente la semplice lesione del di-
ritto, la quale ricorre sempre quando un’attività giuridica si con-
trappone a un’altra, provocando in tal modo una situazione di
disuguaglianza, che per se stessa deve essere riparata senza che
sia necessario indagare sull’elemento soggettivo di chi ha posto
in essere la condotta, come provano – del resto – molti casi spe-
cifici indicati dal legislatore in cui si ricorre alla responsabilità
oggettiva.
È possibile confrontare la colpa aquiliana con quella ordina-
ria, per mettere in luce almeno due differenze. La prima è che la
responsabilità contrattuale nasce dall’omissione della diligenza

condo il quale «non havvi diritto contro il diritto, ed è assurdo che l’esercizio del diritto
proprio possa condurre alla violazione del diritto altrui, perché la legge non può proteg-
gere in pari tempo l’interesse del danneggiato e l’interesse contrario del danneggiante»
(Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano, Cammelli, Firenze 1887, p.
167). Certo è che la violazione del diritto altrui non può mai giustificarsi come esercizio
del diritto proprio, essendo di per sé sempre illegittima, contrariamente a quanto si po-
trebbe dedurre, muovendo i passi da una concezione oggettiva di iniuria. La posizione
dell’autore fiorentino si giustifica con l’osservazione che il diritto moderno ha lasciato un
campo molto marginale all’autodifesa, mentre il diritto romano dava ampie possibilità al
privato di difendersi, anche con mezzi violenti, contro altrui comportamenti illegittimi.
11. Sebbene non molto nota, questa dottrina è bene esemplificata in N. COVIELLO,
La responsabilità senza colpa, in Rivista Italiana di Scienze Giuridiche, 1897, p. 23; ma
per una trattazione più ampia sul tema si può vedere anche in L. BARASSI, Contributo
alla teoria della responsabilità civile, in Rivista italiana di Scienze Giuridiche, 1897, p.
56 ss. e in G. BIANCHINI, Il problema della responsabilità, in Monitore dei Tribunali,
1900, p. 161. Bisogna osservare che non pare che si possa – almeno virtualmente –
scindere nella valutazione dell’iniuria l’elemento personale della colpa, ossia il fatto di-
retto, voluto o non voluto, dell’agente, anche se questo assuma la forma della negligen-
za, dell’imprudenza o dell’imperizia, perché esso presuppone la mancanza di quel grado
di diligenza che ogni uomo deve esplicare, in astratto o in concreto.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 77

richiesta dal contratto12, mentre quella aquiliana viene in rilievo


solo nell’ipotesi in cui si rechi un danno a un’altra persona con
la quale non si è legati da alcun genere di rapporto precostituito.
In secondo luogo, ma si tratta di una differenza già nota al
lettore, la colpa contrattuale ammette una gradazione, che si ba-
sa sul comportamento tenuto dalla parte inadempiente13, al con-
trario, la gradazione è del tutto irrilevante nella responsabilità
aquiliana, in cui si preferisce un concetto indeclinabile di re-
sponsabilità14, in modo che i singoli riferimenti diventano dei
semplici metri di paragone a una gradazione, giuridicamente ir-
rilevante, della colpa. Si spiega come la ratio della tutela aqui-
liana, escludendo ogni rilevanza del comportamento tenuto
dall’agente, mira a un concreto, reale, e, chiaramente, per certi
versi, punitivo risarcimento del danno, idoneo non solo a ripri-
stinare qualsiasi perdita patrimoniale, ma anche a incrementare,
quasi a titolo di ulteriore beneficio, la sfera economica del dan-
neggiato, mediante il richiamo al maggior valore del bene nel
tempus praeteritum.
Sull’irrilevanza della gradazione della colpa, ma con parti-
colare riferimento all’inesistenza della culpa levissima, si pos-
sono ricordare le parole di Gerhard Noodt, che nella prefazione
alla sua opera De lege Aquilia osserva15:

eam legem esse everriculum omnis non solum malitiae sed etiam cul-
pae levissimae; eoque fines suos, non ut pleraque solent leges, angusta
innocentia, sed virtute et sapientia metiri; et, cum illae communi fragi-
litati multa indulgeant, quae alioquin non probet ratio, hac nihil, nisi
quod naturae lege absolvatur, innoxium haberi.

12. Si ritrovano delle riflessioni, in particolar modo attinenti all’imputabilità


dell’inadempimento in materia contrattuale, in E. BETTI, Imputabilità dell’inadempimento
dell’obbligazione in diritto romano: Anno accademico 1957-58, Edizioni Ricerche, Roma
1958. Sul tema anche U. BRASIELLO, Obbligazioni: diritto romano, UTET, Torino 1938.
13. Una ricerca rilevante in tema di interpretazione contrattuale, con vari riferimen-
ti anche alla colpa, in G. GANDOLFI, Sulla interpretazione degli atti negoziali nel diritto
romano, Giuffrè, Milano 1964.
14. F. SERAFINI, Op. cit., p. 103.
15. G. NOODT, Opera Omnia, apud Johannem vander Linden, Lugduni Batavorum
1724, p. 175.
78 La lex Aquilia

Poco sopra si è già negata l’esistenza della colpa lievissima,


e si è già detto come, secondo la dottrina preferibile, questa va-
da calata nella particolare ipotesi del danno provocato dal servo
con l’avallo (o, quanto meno, la conoscenza) del padrone. At-
traverso questa ricostruzione si nega alla regola una portata ge-
nerale e sistematica, confermandosi l’esclusione della gradazio-
ne della colpa in materia extracontrattuale: «i giuristi non si
pongono, quindi, il problema di individuare più gradi di culpa,
quanto quello di definire i confini della responsabilità di chi
agisce attraverso soggetti in potestate e, per mezzo delle loro
azioni, come mediante l’uso di un qualunque altro “tramite dan-
noso”, procuri alteri un danno»16.

4.1.1. Le cause di eliminazione dell’iniuria tra ius naturale e


ius civile

L’iniuria incontra alcuni limiti, che vanno a configurarsi come


cause di eliminazione della responsabilità, ampiamente docu-
mentate dai giuristi. La prima forma di esclusione è data dal ius
naturale, che si trova in una posizione intermedia tra l’equità e
il diritto civile. L’elemento cardine sta nel presupposto che cia-
scuno possa servirsi illimitatamente dei propri diritti17, e questa
ricostruzione è coerente con l’accezione ancora oggettiva di
iniuria e – con lo slittamento semantico – necessiterà di una ri-
modulazione:

Paolo, 64 ad edictum, D. 50, 17, 151: Nemo damnum facit, nisi qui id
fecit, quod facere ius non habet.

Si costituisce un vero e proprio principio di diritto18, per cui


non si potrà muovere un rimprovero a quel soggetto che ha ar-
recato un danno per difendere se stesso o le proprie cose, quan-
do si esclude la possibilità di ricorrere a una condotta diversa

16. S. GALEOTTI, Op. cit., p. 247.


17. Questa è la definizione che emerge da D. 9, 2, 12; D. 4, 3, 7, 4 e D. 20, 1, 27.
18. Sui principi del diritto romano cfr. C. GIOFFREDI, I principi del diritto penale
romano, Giappichelli, Torino 1970.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 79

(cum aliter periculum effugere non possumus) come emerge dal


seguente passo:

Paolo, 10 ad Sabinum, D. 9, 2, 45, 4: Qui, cum aliter tueri se non pos-


sent, damni culpam dederint, innoxii sunt: vim enim vi defendere
omnes leges omniaque iura permittunt. Sed si defendendi mei causa
lapidem in adversarium misero, sed non eum, sed praetereuntem per-
cussero, tenebor lege aquilia: illum enim solum qui vim infert ferire
conceditur, et hoc, si tuendi dumtaxat, non etiam ulciscendi causa fac-
tum sit.

Come ogni principio, ne vanno sicuramente individuati i li-


miti applicativi, e bisogna sostanzialmente domandarsi fino a
che punto l’agente potesse arrecare un danno altrui, giustificato
dallo scopo di apprestare tutela a se stesso o ai propri beni. Dal-
la lettura delle fonti, emerge che l’agente, mosso dall’intento di
salvarsi da un pericolo imminente, potesse anche uccidere il pro-
prio aggressore, probabilmente proprio in forza dell’impossibilità
di richiedere all’aggredito un preciso ed equilibrato bilancia-
mento tra la propria azione e il danno che si stava profilando:

Gaio, 7 ad edictum provinciale, D. 9, 2, 4 pr.: Itaque si servum tuum


latronem insidiantem mihi occidero, securus ero; nam adversus peri-
culum naturalis ratio permittit se defendere.

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 5 pr.: Sed et si quemcumque alium


ferro se petentem quis occiderit, non videbitur iniuria occidisse: et si
metu quis mortis furem occiderit, non dubitabitur, quin lege Aquilia
non teneatur. Sin autem cum posset adprehendere, maluit occidere,
magis est ut iniuria fecisse videatur: ergo et Cornelia tenebitur.

Il passo di Gaio è molto conciso, il giurista ammette e giusti-


fica il comportamento di chi abbia ucciso il servo altrui (servum
tuum), perché è un principio ascrivibile all’interno del diritto
naturale (naturalis ratio) quello che permette di difendersi da un
pericolo imminente (adversus periculum… se defendere); inoltre,
nell’esempio di Gaio, il soggetto aggredito non avrebbe potuto
evitare diversamente l’assalto alla propria incolumità se non
uccidendo il servo, e ciò è ravvisabile, a parere di chi scrive,
80 La lex Aquilia

nell’espressione latronem insidiantem.


Il testo di Ulpiano invece si spinge oltre e afferma qualcosa
in più. Quando, per difendersi da un’aggressione, si uccide il
servo altrui, potendolo anche fermare in modo diverso, l’agente
risponderà di omicidio e sarà tenuto (in via criminale) con la lex
Cornelia de sicariis et veneficis; ma secondo alcuni giuristi (tra
i quali si trova anche Ulpiano, che si dichiara d’accordo) si sa-
rebbe dovuto prefigurare un concorso con l’azione ex lege
Aquilia per il risarcimento del danno; una prospettiva, però, che
non vedeva concordi tutti i giuristi, come è evidenziato dal ma-
gis est con cui Ulpiano introduce la sententia. Pertanto, una di-
versa giurisprudenza individuerebbe una scusante in capo
all’agente per via dell’incertezza complessiva della situazione di
fatto, a seguito della quale, agendo diversamente, l’aggredito
avrebbe potuto rischiare la propria vita, questi giuristi concepi-
scono la legittima difesa – forse in certe condizioni fattuali –
come un istituto privo di limiti applicativi e di bilanciamento,
ma si tratta comunque di una scuola di pensiero disattesa. Ve-
diamo meglio, invece, i requisiti della legittima difesa.
La defensio era idonea ad escludere l’iniuria qualora ricor-
ressero due requisiti indefettibili: a) la condotta doveva essere
necessaria (e cioè porsi come unica alternativa) e b) l’aggressore,
attraverso una propria condotta, aveva provocato la reazione del
danneggiante19. Per utilizzare un’espressione più concisa, la dife-
sa è idonea ad escludere l’applicazione dell’Aquilia tutte le volte
in cui venga in rilievo il moderamen inculpatae tutelae20. Il
quadro può complicarsi perché l’agente, per difendersi da
un’aggressione altrui, poteva provocare un danno al terzo, ed è
chiaro che in questa circostanza egli non possa scusarsi:

Paolo, 10 ad Sabinum, D. 9, 2, 45, 4: Qui, cum aliter tueri se non pos-


sent, damni culpam dederint, innoxii sunt: vim enim vi defendere

19. È quanto emerge da D. 8, 4, 1 e D. 43, 16, 3, 9.


20. Sull’applicazione del principio nel diritto medievale cfr. ora K. PENNINGTON,
Moderamen Inculpatae Tutelae: The Jurisprudence of a Justifiable Defense, in Rivista
internazionale di diritto comune, 2014, di cui ho potuto visionare un pre-print messo
generosamente in rete dall’editore, in law.edu, esaminato il 18 maggio 2016.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 81

omnes leges omniaque iura permittunt. Sed si defendendi mei causa


lapidem in adversarium misero, sed non eum, sed praetereuntem per-
cussero, tenebor lege Aquilia: illum enim solum qui vim infert ferire
conceditur, et hoc, si tuendi dumtaxat, non etiam ulciscendi causa fac-
tum sit.

Tizio, per difendere se stesso, prende a pietrate l’avversario


ma, sbagliando mira, colpisce un ignaro schiavo passante: in
questo caso l’actio legis Aquiliae si applicherà, anche se sareb-
be interessante chiedersi in base a quale elemento possa affer-
marsi la responsabilità: si tratta di un eccesso di legittima difesa
o – piuttosto – di una sfumatura dell’elemento soggettivo, una
sorta di “colpa” configurabile – quasi paradossalmente – nella
(non) correttezza dell’esecuzione?
La legittima difesa non può essere invocata dal soggetto, che
– volontariamente – abbia predisposto un’azione per arrecare il
danno, per esempio non potrebbe giovarsi della scriminante
quel soggetto che abbia deciso di intraprendere un combatti-
mento, ma al di fuori di una zona dedicata:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 7, 4: Si quis in colluctatione vel in


pancratio, vel pugiles dum inter se exercentur alius alium occiderit, si
quidem in publico certamine alius alium occiderit, cessat Aquilia, quia
gloriae causa et virtutis, non iniuriae gratia videtur damnum datum.
Hoc autem in servo non procedit, quoniam ingenui solent certare: in
filio familias vulnerato procedit. Plane si cedentem vulneraverit, erit
Aquiliae locus, aut si non in certamine servum occidit, nisi si domino
committente hoc factum sit: tunc enim Aquilia cessat.

Per quanto concerne il danno cagionato alle cose altrui, colui


il quale esercita sì un proprio diritto, ma eccedendo dai confini
di questo, agisce iniuria. In questo caso, pur agendo secondo il
diritto, potrà considerarsi in colpa per non aver fatto ricorso
all’ordinaria diligenza:

Pomponio, 17 ad Quintum Mucium, D. 9, 2, 39 pr.: Quintus Mucius


scribit: equa cum in alieno pasceretur, in cogendo quod praegnans
erat, eiecit. Quaerebatur, dominus eius possetne cum eo qui coegisset
lege Aquilia agere, quia equam in iciendo ruperat. Si percussisset aut
consulto vehementius egisset, visum est agere posse.
82 La lex Aquilia

Il passo assume un’importanza particolare, poiché si com-


prende che il termine iniuria dell’Aquilia non viene inteso co-
me “ciò che è fatto contro il diritto”, ma come sinonimo di col-
pa. La cavalla, utilizzando un linguaggio colorito, è stata rupta,
cioè ha abortito mentre pascolava in un fondo altrui, e questo
evento sicuramente non si sarebbe verificato qualora l’agente
avesse utilizzato l’ordinaria diligenza. Proseguendo nell’analisi
della questione, Pomponio in D. 9, 2, 39, 1 afferma che chi al-
lontana il bestiame altrui dal proprio campo, deve farlo come se
fosse il suo (quomodo si suum deprehendisset): l’animale, più
precisamente, non va rinchiuso, ma va allontanato senza arre-
cargli danno e avvisando il proprietario, ma – su questo aspetto
– ci si soffermerà più avanti.
Il principio appena visto incontra, però, alcune eccezioni
nelle quali è possibile arrecare danno ai beni altrui, senza che
venga in rilievo l’iniuria. Così, si può legittimamente abbattere
la casa del vicino in cui vi sia un incendio. L’agente agisce sulla
considerazione del timore che il fuoco possa propagarsi, arre-
cando danni ulteriori al fondo del vicino (o a quelli del soggetto
agente):

Ulpiano, 56 ad edictum, D. 47, 9, 3, 7: Quod ait praetor de damno da-


to, ita demum locum habet, si dolo damnum datum sit: nam si dolus
malus absit cessat edictum. Quemadmodum ergo procedit, quod La-
beo scribit, si defendendi mei causa vicini aedificium orto incendio
dissipaverim, et meo nomine et familiae iudicium in me dandum? cum
enim defendendarum mearum aedium causa fecerim utique dolo ca-
reo. puto igitur non esse verum, quod Labeo scribit. An tamen lege
Aquilia agi cum hoc possit? et non puto agendum: nec enim iniuria
hoc fecit, qui se tueri voluit, cum alias non posset. Et ita Celsus scribit.

Il giureconsulto afferma che, nella specie descritta, colui che


distrugge una casa altrui lo fa non per arrecare un danno, ma
per il timore che il fuoco possa estendersi alla propria. È chiaro
che anche in questa circostanza, deve trattarsi di un’azione “ob-
bligata”, nel senso che l’agente non si prefigura (e, di fatto, non
può prefigurarsi) un altro modo di agire, pertanto, in questa cir-
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 83

costanza, non è configurabile né l’elemento soggettivo né


l’antigiuridicità del danno (nullam iniuriam aut damnum dare vi-
deretur aeque perituris aedibus21). Ulpiano, aderendo alla visio-
ne di Celso, evidenzia un mutamento di rotta nella giurispru-
denza a lui precedente, poiché Labeone aveva affermato che, al
contrario, l’azione fosse esperibile.
Può accadere che il fuoco non giunga nel luogo in cui si tro-
vava l’edificio abbattuto: in questo caso, l’agente dovrà dimo-
strare di non aver provocato il danno iniuria, e quindi dovrà
dimostrare la fondatezza del proprio agire, in tal modo, gravan-
do sull’agente la prova, si vuole scoraggiare il ricorso ad azioni
lesive del diritto altrui, in assenza di un timore ragionevole22.
Diversamente dai privati, gode di maggior favore il praefe-
ctus vigilum, difatti vi è una presunzione legale per cui egli agi-
sca sempre in difesa dell’ordine pubblico, anche se emerge un
contrasto giurisprudenziale circa la possibilità di poterlo citare
in giudizio:

Ulpiano, 9 disputationum, D. 9, 2, 49, 1: Quod dicitur damnum iniuria


datum Aquilia persequi, sic erit accipiendum, ut videatur damnum
iniuria datum, quod cum damno iniuriam attulerit: nisi magna vi co-
gente fuerit factum, ut Celsus scribit circa eum, qui incendii arcendi
gratia vicinas aedes intercidit: nam hic scribit cessare legis Aquiliae
actionem: iusto enim metu ductus ne ad se ignis perveniret, vicinas
aedes intercidit: et sive pervenit ignis sive ante extinctus est, existimat
legis Aquiliae actionem cessare.

Questo passo appare coerente con quello dianzi riportato, in


quanto esprime il principio, sostenuto da Ulpiano, secondo cui
chi agisce distruggendo gli edifici altrui a causa dell’incendio,
debba ritenersi irresponsabile: ma con una differenza. Celso
aveva ritenuto che lo fosse in ogni caso, sia che il fuoco avesse
raggiunto la sua casa, sia che l’incendio fosse stato estinto pri-
ma; Ulpiano aveva introdotto un ulteriore elemento, consistente
nella materiale impossibilità di agire in modo diverso: è quella

21. D. 43, 24, 7, 4.


22. D. 19, 2, 27, 1.
84 La lex Aquilia

locuzione cum alias non posset contenuta in D. 47, 9, 3, 7 visto


poco sopra23. Questa affermazione appare, e qui sorge il pro-
blema, limitata da un altro passo dello stesso Ulpiano:

Ulpiano, 71 ad edictum, D. 43, 24, 7, 4: Est et alia exceptio, de qua


Celsus dubitat, an sit obiciend: ut puta si incendii arcendi causa vicini
aedes intercidi et quod vi aut clam mecum agatur aut damni iniuria.
Gallus enim dubitat, an excipi oporteret: “Quod incendii defendendi
causa factum non sit?” Servius autem ait, si id magistratus fecisset,
dandam dandam esse, privato non esse idem concedendum: si tamen
quid vi aut clam factum sit neque ignis usque eo pervenisset, simpli li-
tem aestimandam: si pervenisset, absolvi eum oportere. Idem ait esse,
si damni iniuria actum foret, quoniam nullam iniuriam aut damnum
dare videtur aeque perituris aedibus. Quod si nullo incendio id feceris,
deinde postea incendium ortum fuerit, non idem erit dicendum, quia
non ex post facto, sed ex praesenti statu, damnum factum sit nec ne,
aestimari oportere Labeo ait.

In questo passo viene in rilievo un ulteriore problema: ci si


interroga se colui che abbia distrutto le case del vicino, per fare
in modo che l’incendio non si fosse propagato, possa difendersi
contro l’interdetto quod vi aut clam, servendosi dell’exceptio
quod incendii defendendi causa factum sit. Secondo Aquilio
Gallo la soluzione non sarebbe stata ammissibile; Celso, condi-
videndo le osservazioni di quest’ultimo, disattende la diversa
posizione assunta da Labeone in materia; invece Servio Sulpi-
cio Rufo aveva concesso l’eccezione solamente ai magistrati,
negandola ai privati.
Tra queste scuole di pensiero si inserisce l’opinione di Ul-
piano, secondo cui questa eccezione è invocabile dai privati
nella sola ipotesi in cui ignis usque eo pervenisset: nella sola
ipotesi, cioè, in cui il fuoco fosse giunto fino al luogo in cui si
trovava l’edificio, anche i privati avrebbero potuto paralizzare
l’interdetto quod vi aut clam con l’exceptio quod incendii causa
factum sit.
Bisogna cercare il motivo per cui Servio ammetteva, senza

23. I problemi giuridici connessi agli incendi sono ora esaminati compiutamente da
L. MINIERI, Exurere Adurere Incendere. Studi sul procurato incendio in diritto romano,
Satura editrice, Napoli 2012.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 85

alcun dubbio, l’utilizzo dell’exceptio in capo ai magistrati. Si


può giustificare la scelta non perché il magistrato, in caso con-
trario, fosse tenuto de iniuria, ma forse perché si voleva conce-
dere loro la possibilità di paralizzare immediatamente la prete-
sa attorea, anche alla luce della portata dell’interdetto quod vi
aut clam:

Ulpiano, 71 ad edictum, D. 43, 24, 1, 2: Et parvi refert, utrum ius


habuerit faciendi, an non: sive enim ius habuit sive non, tamen tenetur
interdicto, propter quod vi aut clam fecit: tueri enim ius suum debuit,
non iniuriam comminisci.

È giusto domandarsi perché Servio escludesse la possibilità


di usare tale exceptio per i privati. Il frammento ulpianeo attesta
l’esistenza di un ius controversum: l’opinione che si impone col
tempo fu quella di Ulpiano, perché contempera e adatta il diritto
ai casi della vita. Peraltro l’antinomia è solo apparente, poiché
si può constatare che, nel frammento del quod vi, Ulpiano non
ammetteva l’exceptio perché l’abbattimento dell’edificio si era
verificato prima che l’incendio giungesse in quel luogo24, men-
tre in D. 9, 2, 49, 1 Ulpiano analizzava l’ipotesi in cui
l’incendio fosse già giunto nel luogo in cui si trovava l’edificio
distrutto25.
Ulteriore eccezione al principio in base al quale colui che
danneggia le cose altrui è responsabile quando abbia agito iniu-
ria è data dal caso in cui siano tagliati gli ormeggi di una nave
attraccata al fine di salvare la propria imbarcazione. Qualora
non si provvedesse a tagliare gli ormeggi, la nave vicina, mossa
dal vento, avrebbe colpito quella dell’agente, danneggiandola:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 29, 3: Item Labeo scribit, si, cum vi


ventorum navis impulsa esset in funes anchorarum alterius et nautae

24. Nullam iniuriam aut damnum dare videretur aeque perituris aedibus – si nullo
incendio id feceris, deinde postea incendium ortum fuerit non idem erit dicendum.
L’attenzione va posta sul nullo incendio e sul deinde postea incendium ortum fuerit.
25. Iusto metu ductus ne ad se ignis perveniret vicinas aedes intercedit, et sive per-
venerit ignis, sive ante extinctus sit, existimat legis Aquiliae actionem cessare. Qui vie-
ne in rilievo soprattutto l’espressione iusto metu, ma anche ad se ignis perveniret.
86 La lex Aquilia

funes praecidissent, si nullo alio modo nisi praecisis funibus explicare


se potuit, nullam actionem dandam. Idemque Labeo et Proculus et cir-
ca retia piscatorum, in quae navis piscatorum inciderat, aestimarunt.
Plane si culpa nautarum id factum esset, lege Aquilia agendum. Sed
ubi damni iniuria agitur ob retia, non piscium, qui ideo capti non sunt,
fieri aestimationem, cum incertum fuerit, an caperentur. Idemque et in
venatoribus et in aucupibus probandum.

Analizzate le ipotesi di esclusione dell’iniuria a opera del


ius naturale, bisogna vedere quali siano quelle derivanti dal di-
ritto civile. Quest’ultimo offre una serie di ipotesi di danneg-
giamento non punibile, si tratta del disposto della lex Iulia de
adulteriis, in base alla quale l’uccisore dell’adultero colto in
flagrante non può essere punito, sempre che la donna venga
contemporaneamente cacciata e venga avvertita – entro tre
giorni – la pubblica autorità.
Non è soggetta all’Aquilia neppure l’ipotesi in cui si verifi-
chi una modica coercitio dell’usufruttuario26 e il damnum sia
prodotto con la ratifica del proprietario27.
Come abbiamo visto anche in precedenza, era considerata
lecita l’uccisione dell’avversario avvenuta durante i giochi pub-
blici, perché, in questa circostanza, il danno è arrecato non in-
giustamente, ma per ottenere la vittoria nel combattimento
(quia gloria causa et virtutis, non iniuriae gratia videtur
damnum datum28).
Qualora un soggetto immettesse senza diritto un acquedotto
nel fondo altrui, era possibile rimuoverlo iure, poiché una co-
struzione illegittima, nel fondo altrui, danneggia le ragioni pro-
prietarie (unicuique fas est tueri possessionem suam, etsi alie-
nam invadere nefas sit29), ipotesi che – nello stesso passo – vie-

26. Un interessante studio sull’usufrutto del servus in S. DI MARZO, Sull’usufrutto


delle persone giuridiche nel diritto romano classico, Istituto di diritto romano, Roma
1902. In tema di quasi-usufrutto cfr. G. CRIFÒ, Sudi sul quasi-usufrutto in diritto roma-
no, Giuffrè, Milano 1969.
27. D. 9, 2, 5, 3 e D. 9, 2, 7, 4.
28. D. 9, 2, 7, 4. Ma si veda anche D. 11, 5, 2, 1.
29. D. 9, 2, 29, 1. Dopo aver ammesso la tutela del proprietario a cui è stata danne-
giata la tettoia, riportando l’opinione di Proculo, Ulpiano dice che «aliud est dicendum
ex rescripto imperatoris Severi, qui ei, per cuius domum traiectus erat aquae ductus ci-
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 87

ne tenuta ben distinta dalla facoltà, concessa al dominus di una


tettoia protesa sull’abitazione vicina, di poter agire con la legge
Aquilia contro colui che l’avesse abbattuta.
Un’altra causa di estinzione dell’iniuria deriva dalle XII Ta-
vole, secondo le quali è ammissibile l’uccisione del ladro di
notte in qualunque modo effettuata30. È ammissibile anche –
senza incorrere in nessuna sanzione – uccidere il ladro diurno,
si se telo defendat31. Affinché però il comportamento possa es-
sere impunito è necessario che intervenga il clamor32.
Ma c’è anche la difesa dal ladro notturno:

Ulpiano, 37 ad edictum, D. 48, 8, 9: Furem nocturnum si quis occide-


rit, ita demum impune feret, si parcere ei sine periculo suo non potuit.

Come si può vedere, Ulpiano introduce un requisito per con-


siderare l’uccisione del ladro legittima difesa, richiedendosi che
l’aggredito non avesse altro modo di difendersi se non ucciden-
do l’aggressore. La norma decemvirale non aveva detto niente
in proposito, affermando la totale liceità dell’omicidio, senza
contemplare limiti. La condizione richiesta da Ulpiano per la li-
ceità dell’uccisione del ladro notturno richiama molto da vicino
quella che le XII Tavole avevano prescritto per il ladro diurno,
che si fosse difeso a mano armata: in questo caso la norma de-
cemvirale aveva richiesto il requisito dell’endoploratio, ossia
della richiesta d’aiuto ai vicini.
Il ius civile rende anche lecito l’uso della violenza, da parte
dei magistrati municipali, nei confronti di coloro che opponga-
no resistenza a un proprio comando33:

Ulpiano, 57 ad edictum, D. 47, 10, 13, 1: Is, qui iure publico utitur,
non videtur iniuriae faciendae causa hoc facere: iuris enim executio

tra servitutem, rescripsit iure suo posse eum intercidere, et merito: interest enim, quod
hic in suo pretexit, ille in alieno fecit».
30. Si nox furtum factum sit, si im occisit, iure caesus esto (Tav. 8, 12 in F. SERA-
FINI, Op. cit., p. 128).
31. D. 47, 2, 54, 2.
32. D. 9, 2, 4, 1. L’importanza del clamor si ritrova anche in A. GELLIO, Op. cit., 20, 1.
33. D. 9, 2, 29, 7. Si veda anche D. 47, 10, 15, 10.
88 La lex Aquilia

non habet iniuriam, quia iuris executio non habet iniuriam.

È necessario ricordare che il termine iniuria, a seguito del


proprio slittamento semantico, è inteso quale sinonimo di culpa,
e cioè quale requisito avente natura strettamente soggettiva. Al-
la luce di questa considerazione si spiega bene il motivo per cui
il magistrato municipale in funzione giudicante contro uno
schiavo non può eccedere i limiti del proprio potere, e cioè la
levis coercitio, in caso contrario il proprietario del servo può
esperire l’azione ex lege Aquilia. Questa conclusione si osserva,
per così dire, dal combinato disposto di due fonti. Nella prima
Ulpiano afferma che il magistrato municipale può, nei confronti
di un servo, esercitare solo una castigatio di modica entità:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 2, 1, 12: Magistratibus municipalibus sup-


plicium a servo sumere non licet, modica autem castigatio eis non est
deneganda.

Il secondo testo prospetta la conseguenza dell’inottemperanza


del limite imposto al magistrato giudicante:

Ulpiano, 57 ad edictum, D. 47, 10, 17, 2: Servus meus opera vel que-
rella tua flagellis caesus est a magistratu nostro. Mela putat dandam
mihi iniuriarum adversus te, in quantum ob eam rem aequum iudici
videbitur, et si servus decesserit, dominum eius agere posse Labeo ait,
quia de damno, quod per iniuriam factum est, agatur. Et ita Trebatio
placuit.

L’ipotesi fatta da Ulpiano è la flagellazione dello schiavo,


disposta dal magistrato sulla base della segnalazione di un ter-
zo. Secondo Fabio Mela al padrone sarebbe spettata l’actio
iniuriarum contro quest’ultimo, ma se lo schiavo fosse decedu-
to per la tortura (si servus decesserit), Labeone aveva ritenuto
che il padrone avesse l’actio legis Aquiliae contro colui che
aveva dato inizio alla procedura contro lo schiavo, a causa del
danno ingiustamente provocato (dominum eius agere posse La-
beo ait, quia de damno, quod per iniuriam factum est, agatur
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 89

34
). Sul punto, tra l’altro, sembra esservi stato un contrasto giu-
risprudenziale, testimoniato dall’uso del verbo putativo, mentre
Ulpiano sembrerebbe concordare con l’opinione di Fabio Mela,
difatti et ita Trebatio placuit sembra riferito, oltre che al pensie-
ro dei giuristi menzionati, anche all’opinione dello stesso Ulpiano.
Un problema differente ma collimante riguarda la possibili-
tà, per il privato, di citare in giudizio un magistrato. Il problema
era agitato ancora nell’età antonina, quando Aulo Gellio insce-
na una storia nelle sue Notti Attiche, nel cui ambito cita un pas-
so delle Antiquitates di Varrone:

Aulo Gellio, Noctes Atticae, 13, 13, 4: Ego, qui tum adsiduus in libris
M. Varronis fui, cum hoc quaeri dubitarique animadvertissem, protuli
unum et vicesimum rerum humanarum in quo ita scriptum fuit: “Qui
potestatem neque vocationis populi viritim habent neque prensionis,
eos magistratus a privato in ius quoque vocari est potestas. M.
Laevinus aedilis curulis a privato ad praetorem in ius est eductus;
nunc stipati servis publicis non modo prendi non possunt, sed etiam
ultro submovent populum”. 5. Hoc Varro in ea libri parte de aedilibus,
supra autem in eodem libro quaestores neque vocationem habere ne-
que prensionem dicit.

Ed Ulpiano va più in là:

Ulpiano, 42 ad Sabinum, D. 47, 10, 32: Nec magistratibus licet aliquid


iniuriose facere. Si quid igitur per iniuriam fecerit magistratus vel
quasi privatus vel fiducia magistratus, iniuriarum potest conveniri.
Sed utrum posito magistratu an vero et quamdiu est in magistratu? sed
verius est, si is magistratus est, qui sine fraude in ius vocari non po-
test, exspectandum esse, quoad magistratu abeat. Quod et si ex mino-
ribus magistratibus erit, id est qui sine imperio aut potestate sunt ma-
gistratus, et in ipso magistratu posse eos conveniri.

Tutte le volte in cui il magistrato abbia arrecato un danno,


con il solo fine di oltraggiare, potrà essere convenuto in giudi-
zio: qui, si noti bene, non si tratta di un semplice sconfinamento
dei limiti del proprio potere, al pari di quanto indicato da Var-
rone, ma di un’intera azione finalizzata ad arrecare un danno

34. Sul passo ulpianeo cfr. ora L. DESANTI, Op. cit., p. 137.
90 La lex Aquilia

dolosamente. In questa particolare circostanza, trattandosi di


una magistratura minore, si potrà procedere al giudizio anche
prima della scadenza del mandato, ricadendo l’attenzione sulla
mancanza dell’imperium, e lo stesso discorso si può applicare ai
magistrati municipali e agli edili35:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 29, 7: Magistratus municipales, si


damnum iniuria dederint, posse Aquilia teneri. Nam et cum pecudes
aliquis pignori cepisset et fame eas necavisset, dum non patitur te eis
cibaria adferre, in factum actio danda est. Item si dum putat se ex lege
capere pignus, non ex lege ceperit et res tritas corruptasque reddat, di-
citur legem Aquiliam locum habere: quod dicendum est et si ex lege
pignus cepit. Si quid tamen magistratus adversus resistentem violen-
tius fecerit, non tenebitur Aquilia: nam et cum pignori servum cepisset
et ille se suspenderit, nulla datur actio.

Il passo, oltre a testimoniare come il magistrato possa essere


convocato personalmente in giudizio, pone due situazioni diffe-
rentemente risolte: se il magistrato ha pignorato del bestiame, e
gli animali muoiono di fame, è evidente che egli verserà in col-
pa, e potrà dunque essere citato in giudizio (anche se, non es-
sendo un danno corpore, potrà essere esperita l’azione utile) e
rispondere in forza della legge Aquilia, ma egli sarà esente da
responsabilità nel diverso caso in cui il servo, preso in pegno
dal magistrato, si suicidi, aprendo uno squarcio sulla psicologia
del suicidio nell’antichità romana, su cui ha scritto belle pagine
Arrigo Manfredini36
Un altro esempio circa l’esercizio istituzionale dei propri po-
teri da parte del magistrato viene riportato sia nelle fonti lettera-
rie sia in quelle giuridiche. Un caso emblematico è descritto da
Pomponio:

Pomponio, 13 ad Sabinum, D. 10, 3, 20: Si is, cum quo fundum com-


munem habes, ad delictum non respondit et ob id motu iudicis villa
diruta est aut arbusta succisa sunt, praestabitur tibi detrimentum iudi-
cio communi dividundo: quidquid enim culpa socii amissum est, eo
iudicio continetur.

35. D. 43, 10, 1, 1 e D. 50, 2, 12.


36. A.D. MANFREDINI, Il suicidio. Studi di diritto romano, Giappichelli, Torino 2008.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 91

Si tratta di un iudex che decide di far spianare una casa in


comproprietà o di tagliare alberi comuni (villa diruta est aut
arbusta succisa sunt), come pena accessoria di una condanna
penale (ad delictum) contro uno solo dei condomini. Poiché
l’altro non avrebbe dovuto essere coinvolto nella perdita del
bene, il socius precedentemente condannato ad maleficium gli
dovrà risarcire il danno subito, in sede di azione divisoria dei
beni comuni. In pratica, il comproprietario ingiustamente dan-
neggiato converrà in giudizio l’altro e il giudice valuterà l’entità
del danno subito dall’attore condannando il convenuto (prae-
stabitur tibi detrimentum iudicio communi dividundo: quidquid
enim culpa socii amissum est, eo iudicio continetur). La stessa
soluzione emerge in un caso analogo. Ricordando nuovamente
l’approccio casistico del diritto romano, va detto che i giuristi
ricercano sempre la medesima ratio nell’applicazione della leg-
ge Aquilia, consistente nel sanzionare la culpa (nelle sue mol-
teplici sfumature) del soggetto agente; così si impone la stessa
soluzione nel caso in cui il giudice ordina la distruzione delle
abitazioni di coloro che non aderivano alla leva obbligatoria,
prefigurandosi un danno ingiusto in capo agli altri soci37, questi
potranno agire in giudizio contro il comproprietario.
Si è avuto già modo di sottolineare come inizialmente il re-
quisito dell’iniuria fosse concepito in maniera strettamente og-
gettiva. Veniva inteso come condotta antigiuridica, non molto
differente da quanto faranno i Codici moderni di area germani-
ca, ai quali il legislatore italiano del 1942 guarderà con partico-
lare favore. Tuttavia nell’elaborazione giurisprudenziale si assi-
ste a uno slittamento del campo semantico, per cui iniuria inizia
a significare dolo o colpa e ad assumere una connotazione tipi-
camente soggettiva, come emerge da un passo di Pomponio38,

37. Il caso in cui si procedesse alla distruzione, per punire il soldato, è ipotesi dia-
metralmente opposta rispetto a quella dell’espropriazione effettuata per pubblica utilità,
analizzata compiutamente e analiticamente da F.M. DE ROBERTIS, La espropriazione
per pubblica utilità nel diritto romano, Istituto di diritto romano, Bari 1936 e più di re-
cente da M. PENNITZ, Der “Enteignungsfall” im römischen Recht der Republik und des
Prinzipats, Böhlau Verlag, Wien, Köln, Weimar 1991.
38. Per un approfondimento della giurisprudenza di Pomponio cfr. E. STOLFI, Studi
sui “Libri ad edictum” di Pomponio, vol. 1, Trasmissione e fonti, Jovene, Napoli 2002.
92 La lex Aquilia

riportato solo parzialmente qualche pagina prima e che necessi-


ta, adesso, di un nuovo inquadramento:

Pomponio, 17 ad Quintum Mucium, D. 9, 2, 39 pr.: Quintus Mucius


scribit: equa cum in alieno pasceretur, in cogendo quod praegnas erat
eiecit: quaerebatur, dominus eius possetne cum eo qui coegisset lege
Aquilia agere, quia equam in iciendo ruperat. Si percuisset aut consul-
to vehementius egisset, visum est agere posse. Pomponius. Quamvis
alienum pecus in agro suo quis deprehendit, sic illud expellere debet,
quomodo si suum deprehendisset, quoniam si quid ex ea re damnum
cepit, habet proprias actiones. Itaque qui pecus alienum in agro suo
deprehenderit, non iure id includit, nec agere illud aliter debet quam ut
supra diximus quasi suum: sed vel abigere debet sine damno vel ad-
monere dominum, ut suum recipiat.

Il passo in esame riporta la convincente opinione di Pompo-


nio, rivediamolo brevemente nel contenuto: tratta di una cavalla
gravida, che pascola nel fondo altrui. Il proprietario – alla vista
della cavalla – la allontana con tale violenza da causarne
l’aborto. Inizialmente questa ipotesi sarebbe rimasta al di fuori
dell’ambito di applicazione della lex Aquilia, poiché – inten-
dendo iniuria quale requisito oggettivo – il proprietario stava
agendo in base al diritto, in quanto stava esercitando un potere
rientrante nella tutela della sua proprietà. Il quesito verte sulla
possibilità di concedere una qualche azione al padrone della ca-
valla. Il frammento, secondo Francesco Maria De Robertis po-
trebbe interamente riferirsi a Pomponio e andrebbe, pertanto,
disattesa l’originalità del quesito di Quinto Mucio, perché «c’è
da dubitare, data l’assolutezza dei poteri dominicali nella sua
età, che questo fosse anche l’orientamento di Quinto Mucio»39;
ad ogni modo è innegabile che il passo testimonia come i giuri-
sti iniziano a interpretare differentemente il concetto di iniuria:
chi troverà del bestiame nel proprio fondo avrà il diritto di al-
lontanarlo, tuttavia dovrà comportarsi come se fosse il proprio
(quasi suum): non potrà rinchiuderlo, non potrà arrecargli nes-

39. F.M. DE ROBERTIS, Damnum iniuria datum. La responsabilità extracontrattua-


le nel diritto romano, con particolare riguardo alla Lex Aquilia de damno, Cacucci,
Bari 2002, p. 67.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 93

sun danno e dovrà avvisare il proprietario, in questo modo si


«indica come criterio di massima quello di gestire la bestia al-
trui come se fosse propria, segno che l’esercizio legittimo delle
prerogative dominicali (compresa l’autotutela) non esonera dal
rispetto della sfera proprietaria di terzi soggetti»40.
Una particolare attenzione va riservata anche a un passo di
Paolo, che testimonia come iniuria sia ormai divenuto un requi-
sito soggettivo della fattispecie in esame:

Paolo, 10 ad Sabinum, D. 9, 2, 31: Si putator ex arbore ramum cum


deiceret vel machinarius hominem praetereuntem occidit, ita tenetur,
si is in publicum decidat nec ille proclamavit, ut casus eius evitari
possit. Sed Mucius dixit, etiam si in privato idem accidisset, posse de
culpa agi: culpam autem esse, quod cum a diligente provideri poterit,
non esset provisum aut tum denuntiatum esset, cum periculum evitari
non possit. Secundum quam rationem non multum refert, per publi-
cum an per privatum iter fieret, cum plerumque per privata loca vulgo
iter fiat. Quod si nullum iter erit, dolum dumtaxat praestare debet, ne
immittat in eum, quem viderit transeuntem: nam culpa ab eo exigenda
non est, cum divinare non potuerit, an per eum locum aliquis transi-
turus sit.

Il passo di Paolo riveste particolare importanza41 perché fa


comprendere come i giuristi iniziano ad abbandonare il concet-
to oggettivo di iniuria e a interpretare questa parola in termini
differenti, ossia, in termini soggettivi. Non è più sufficiente,
come ci testimonia il passo, che un soggetto ponga in essere
un’azione nell’esercizio del proprio diritto. Bisogna vedere se
questo soggetto, nell’esercitare l’azione, si trovi o meno in col-
pa: vi potrebbe, infatti, essere una qualche sfumatura soggettiva
che lo renda responsabile del danno. Nel caso di specie, un po-
tatore sta tagliando un ramo il quale, cadendo, colpisce e uccide
uno schiavo altrui. Il giurista ci informa che colui il quale ha ta-
gliato l’albero è responsabile del danno che ha causato se lo ha fat-
to nella pubblica via e non ha gridato affinché lo si potesse evitare.

40. S. GALEOTTI, Op. cit., p. 105.


41. Il passo viene analizzato da L. DESANTI, Op. cit.; non sembra accoglibile la tesi
per cui providere debba essere tradotto con provvedere, invece che con prevedere. Si
tratta, a parere di chi scrive, di un rapporto tra causa ed effetto.
94 La lex Aquilia

Il punto nodale del caso è la circostanza che il potatore non


ha previsto quanto avrebbe dovuto prevedere una persona di
normale diligenza: cum a diligente provideri poterit, non esset
provisum. Si tratta di una locuzione entrata di prepotenza nel
frasario comune anche avvocatesco, ma che esprime efficace-
mente un principio fondamentale in tema di imputabilità42.
In tal senso si ricordi che il carattere generale di culpa viene
successivamente distinto dalla giurisprudenza in funzione di
specifici profili della volontà, riferendo la parola dolo alle ipo-
tesi di consapevolezza delle conseguenze del fatto dannoso e la
parola colpa a quelli in cui un soggetto avesse mantenuto un
comportamento difforme da quello che si era «in diritto di at-
tendere da lui»43. Va detto anche che il diritto romano conosce
molteplici modelli comportamentali, in relazione ai quali i giu-
risti non utilizzano «espressioni tecniche ma semplici descri-
zioni atte alla precisa individuazione del modello stesso»44. Il
criterio generale è rappresentato dalla diligenza: il putator si è
comportato in modo difforme rispetto all’uomo frugi et dili-
gens, si è discostato dal paradigma dell’uomo medio, detto an-
che diligens pater familias o prudens et diligens pater familias.
Il giurista Paolo riferisce la definizione di diligenza, come
sopra illustrata e formulata da Quinto Mucio, mettendo in risal-
to il dovere di diligenza attiva, nel caso di specie consistente
nella segnalazione tempestiva della caduta di un ramo, con con-
seguente responsabilità per colpa omissiva (probabilmente con-
nessa a un obbligo di facere derivante dallo stesso esercizio
dell’attività o forse anche dal comportamento richiesto all’uomo

42. Sull’applicazione del principio nel campo della responsabilità contrattuale cfr.
R. CARDILLI, L’obbligazione di praestare e la responsabilità contrattuale in diritto ro-
mano, Giuffrè, Milano 1995.
43. C.A. CANNATA, Genesi e vicende della colpa aquiliana, in Labeo, 1971, p. 66.
Per quanto riguarda l’evoluzione etimologica del termine responsabilità, con particolare
attenzione al momento in cui viene recepito dalla lingua italiana si può fare riferimento
a S. SCHIPANI, Schede sull’origine del termine responsabilità, in Le ragioni del diritto.
Scritti in onore di Luigi Mengoni, I, Milano 1995, p. 885 ss.
44. C.A. CANNATA, Op. cit., p. 55. Ancora sul tema cfr. S. SCHIPANI, Dalla legge
Aquilia a D. 9: prospettive sistematiche del diritto romano e problemi della responsabi-
lità extracontrattuale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2007.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 95

diligente). Per completezza sul punto, il giurista riporta proprio


l’opinione dello stesso Quinto Mucio, secondo cui è possibile
intentare l’azione risarcitoria anche quando il fatto avvenga in
un luogo privato. Secondo l’opinione del giurista, e come ab-
biamo già segnalato poco sopra, sussiste la colpa tutte quelle
volte in cui non si sia preveduto ciò che un uomo diligente si
sarebbe potuto prefigurare (culpam autem esse, quod cum a di-
ligente provideri poterit). Il putator poteva gridare per tempo,
avvisando così il servo dell’imminente pericolo. Secondo Quin-
to Mucio è proprio per questo motivo che non è ravvisabile una
differenza tra luoghi pubblici e luoghi privati, e perché – inoltre
– per publicum an per privatum iter fieret. Tuttavia, secondo
sempre l’opinione di Quinto Mucio, qualora non vi sia una stra-
da, l’agente sarà responsabile solamente a titolo di dolo, poiché,
se non vi è passaggio, normalmente, ivi non passerà nessuno e
il potatore non avrebbe in alcun modo potuto prefigurarsi una
simile ipotesi (quod si nullum iter erit, dolum dumtaxat prae-
stare debet, ne immittat in eum, quem viderit transeuntem: nam
culpa ab eo exigenda non est, cum divinare non potuerit, an per
eum locum aliquis transiturus sit). Un passo significativo in
questo senso è il seguente:

Gaio, 3, 211: Iniuria autem occidere intellegitur, cuius dolo aut culpa
id acciderit, nec ulla alia lege damnum, quod sine iniuria datur, repre-
henditur, itaque inpunitus est, qui sine culpa et dolo malo casu
quodam damnum committit.

Il passo di Gaio testimonia come si consideri uccidere ingiu-


stamente colui, per il dolo o la colpa del quale, l’evento risulta
essersi verificato. Evidentemente, nell’ipotesi in cui mancherà
l’elemento soggettivo, non si potrà agire in forza della legge
Aquilia e colui il quale avrà cagionato il danno resterà impunito
(itaque inpunitus est, qui sine culpa et dolo malo casu quodam
damnum committit). Viene ancora in rilievo un passo di Ulpiano:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 5, 1: Iniuriam autem hic accipere nos


oportet non quemadmodum circa iniuriarum actionem contumeliam
quandam, sed quod non iure factum est, hoc est contra ius, id est si
96 La lex Aquilia

culpa quis occiderit: et ideo interdum utraque actio concurrit et legis


aquiliae et iniuriarum, sed duae erunt aestimationes, alia damni, alia
contumeliae. Igitur iniuriam hic damnum accipiemus culpa datum
etiam ab eo, qui nocere noluit.

Il passo fa comprendere, ancor meglio, come il termine iniu-


ria corrisponda, oramai, alla culpa; e serve a indicare il danno
cagionato con dolo oppure con colpa. Ciò vuol dire che anche
colui che provoca un danno per legittima difesa potrebbe – qua-
lora vi fosse un eccesso colposo o il dolo – essere tenuto ex lege
Aquilia. I giuristi hanno definitivamente accolto il nuovo signi-
ficato del termine iniuria:

Ulpiano, 56 ad edictum, D. 47, 10, 1: Iniuria ex eo dicta est, quod non


iure fiat: omne enim, quod non iure fit, iniuria fieri dicitur. Hoc gene-
raliter. Specialiter autem iniuria dicitur contumelia. Interdum iniuriae
appellatione damnum culpa datum significatur, ut in lege Aquilia di-
cere solemus: interdum iniquitatem iniuriam dicimus, nam cum quis
inique vel iniuste sententiam dixit, iniuriam ex eo dictam, quod iure et
iustitia caret, quasi non iuriam, contumeliam autem a contemnendo.
Interdum iniuriae appellatione damnum culpa datum significatur, ut in
lege Aquilia dicere solemus.

Nel frammento, il giurista afferma che col termine iniuria si


indica il danno che è stato cagionato colpevolmente (culpa),
con un rimando diretto e palese al contenuto della legge Aqui-
lia, sottolineando che l’uso del verbo solemus indica la consue-
tudine dell’interpretazione, ormai pacificamente accolta dai giu-
risti (interdum iniuriae appellatione damnum culpa datum si-
gnificatur, ut in lege Aquilia dicere solemus).
Da questo momento in poi verrà punito quel soggetto che
provoca un danno perché non si adegua al paradigma della dili-
genza, prefigurandosi così il ricorrente vehementius agere45.
Quindi è cagionato iniuria il danno prodotto da chi si esercita in
giochi leciti, ma in luoghi e tempi inopportuni e – come oramai
noto al lettore – il magistrato che ecceda dalle proprie funzio-

45. L’espressione è frequentemente usata dai giureconsulti, si vedano D. 9, 2, 17, 1;


D. 9, 2, 39 pr.; D. 9, 2, 45, 4. Ancora D. 20, 1, 27 e D. 47, 8, 2, 20.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 97

ni46. Tra tutti, il caso più eclatante è quello in cui si provveda a


cacciare gli animali altrui in modo diverso da quello col quale si
allontanerebbero i propri47, sul cui argomento ci siamo già sof-
fermati: si comprende bene che chi compie queste azioni eserci-
ta un proprio diritto, perché esercita il ius utendi e abutendi
connesso alla proprietà48 del terreno; tuttavia, qualora ecceda
colposamente, provocherà il danno iniuria.

4.1.2. L’incapacità d’intendere e di volere come causa di


esclusione della colpa e altre ipotesi teorizzate

Bisogna, a questo punto, prendere in considerazione


l’incapacità d’intendere e di volere: non è prefigurabile alcun
tipo di responsabilità in capo a quel soggetto che abbia agito
privo di volontà. Il problema assume particolare importanza in
tema di lex Aquilia, perché essa presuppone – ai fini del risar-
cimento del danno – che siano soddisfatti tutti i requisiti, per-
tanto la persona incapace sembrerebbe agire sine iniuria, non
sarebbe prefigurabile, in altri termini, la volontà di arrecare un
pregiudizio con la propria azione. Anche in questo caso le fonti
romane lo mettono in luce:

D. 9, 2, 5, 2: Et ideo, si furiosus damnum dederit, an legis Aquiliae


actio sit? et Pegasus negavit: quae enim in eo culpa sit, cum sanae
mentis non sit? et hoc est verissimum: cessabit igitur Aquilia actio:
quemadmodum, si quadrupes damnum dederit, aut si tegula ceciderit.
Sed, et si infans damnum dederit, idem erit dicendum. Quodsi impu-
bes id fecerit, Labeo ait, quia furti tenetur, teneri et Aquilia eum: et
hoc puto verum, si sit iam iniuriae capax.

Ulpiano, nell’ipotesi, di certo non priva di complessità, del fu-

46. D. 9, 2, 29, 7; D. 4, 2, 3, 1; D. 18, 6, 13; D. 47, 10, 13, 1.


47. D. 9, 2, 39, 1.
48. A proposito di proprietà nel diritto romano, con un particolare riferimento
all’evizione, interessanti letture in materia in E. SALVI, Teorica dell’evizione nel diritto
romano e nel diritto patrio, Laterza & Figli, Bari 1903. Sul tema ancora si può rinviare
alla lettura di M. SARGENTI, L’evizione nella compravendita romana, Giuffrè, Milano
1958. E più di recente S. ROMEO, L’appartenenza e l’alienazione in diritto romano. Tra
giurisprudenza e prassi, Giuffrè, Milano 2010.
98 La lex Aquilia

riosus, sembra condividere l’opinione di Pegaso49, che pone


l’accento sulla capacità d’agire “imperfetta” del furiosus. La si-
tuazione de qua viene paragonata, con una metafora assai vivi-
da, al danno cagionato da un quadrupede, da una tegola caduta
o – ancora – dall’infans, tant’è che egli, con una domanda reto-
rica che esprime la forza del suo linguaggio, si chiede dove
possa risiedere la colpa in quella persona che non è sana di
mente (quae enim in eo culpa sit, cum sanae mentis non sit?).
De jure condendo, può discutersi sulla razionalità della scelta:
da un lato è comprensibile che il soggetto privo di volontà non
possa dirsi responsabile del danno, e – per una questione siste-
matica – è evidente che i giuristi non potessero concludere per
l’applicazione della legge Aquilia nel caso in cui difettassero gli
elementi minimi di applicabilità, dall’altro però, per un senso di
giustizia sostanziale, è evidente che il danneggiato debba avere
una qualche tutela, egli la troverà potendo agire nei confronti
dei soggetti obbligati a sorvegliare il furiosus, scelta di grande
pregnanza teorica che esprime l’esigenza dell’elaborazione giu-
risprudenziale di sopperire alla rigidità dei verbi dell’Aquilia,
tanto da essere ereditata dal Codice civile italiano del 1942,
come testimoniano gli articoli 2046 e 2047.
Un’ipotesi più complessa riguarda la posizione degli impu-
bes50. Secondo l’opinione di Labeone, siccome egli è tenuto con
l’azione di furto nel caso in cui possa dirsi capace di compren-
dere il senso delle proprie azioni (lo si desume dall’espressione,
di certo più concisa e suscettibile di più interpetazioni, di capax
iniuriae), debba conseguentemente essere responsabile anche in
forza della legge Aquilia. Ciò vuol dire che se in capo al furio-
sus vige una presunzione d’incapacità, nel caso dell’impubes è
richiesto un accertamento concreto della capacità d’agire, ma,
da un ulteriore passo, sembrerebbe emergere un’idea differente:

49. Per un approfondimento di questa figura all’interno dell’ordinamento giuridico


romano si può rinviare alla lettura di C. LANZA, Ricerche sul furiosus in diritto romano,
I, La Sapienza, Roma 1990. Il tema era stato però già analizzato in profondità da E.
NARDI, Squilibrio e deficienza mentale in diritto romano, Giuffrè, Milano 1983.
50. Si era impuberi, nel diritto romano, fino ai quattordici anni per i maschi e fino
ai dodici anni per le femmine.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 99

Ulpiano, 41 ad Sabinum, D. 47, 2, 23: Impuberem furtum facere pos-


se, si iam doli capax sit, Iulianus libro vicensimo secundo digestorum
scripsit: item posse cum impubere damni iniuria agi, quia id furtum ab
impubere fit. Sed modum esse adhibendum ait: nam in infantes id non
cadere. non putamus cum impubere culpae capace Aquilia agi posse.
Item verum est, quod Labeo ait, nec ope impuberis furto facto teneri
eum.

Ulpiano, riportando l’opinione di Giuliano, sostiene che un


impubere sia capace di compiere un furto, nel solo caso in cui
possa dirsi capax di agire dolosamente, ma dopo sostiene che,
potendosi verificare qualcosa di simile anche nella legge Aqui-
lia, non putamus cum impubere culpae capace Aquilia agi pos-
se, richiamando e approvando l’opinione di Labeone (ma si
tratta, a parere di chi scrive, di un’idea di Ulpiano e non di Giu-
liano) si dice che l’impubere non può dirsi responsabile neppure
nel caso in cui sia stato compiuto un furto su sua commissione
(ope impuberis51). La contraddizione con il passo prima riporta-
to sembra, però, solamente teorica, infatti il passo precedente,
discernendo le ipotesi in cui l’impubere sia capace o meno
d’intendere il senso delle proprie azioni, avrebbe un approccio
di teoria generale, quasi a voler essere didascalico, invece il
passo per ultimo riportato non parlerebbe di tutti gli impuberi,
ma solo degli impuberi infantiae proximi. Dal lato opposto si
collocano invece gli impuberi ormai vicini all’età adulta (impu-
bes pubertati) i quali possono dirsi capaci furandi et iniuriae
faciendae52. Ciò vuol dire che la regola dianzi vista, che impone
una ricerca della capacità d’agire, si applica per tutti quelli im-
pubes che si trovano in una posizione intermedia tra le due si-
tuazioni riportate, rispettivamente di esclusione della responsa-
bilità e presunzione della stessa, mentre non assume alcun rilie-
vo la condizione di minore, ai fini della responsabilità civile.

51. Le problematiche connesse all’espressione ope nel diritto penale romano sono
estremamente complesse. Per varie posizioni sul punto cfr. ad es. L. WINKEL, “Sciens
dolo malo” et “ope consiliove” : ancêtres des conceptions modernes?, in AA.VV.,
Mélanges Felix Wubbe: offerts par ses collègues et ses amis à l'occasion de son soixan-
te-dixième anniversaire, Editions universitaires, Fribourg 1993, p. 571-585; P. FERRET-
TI, Complicità e furto nel diritto privato, Giuffrè, Milano 2005.
52. D. 4, 1, 18; D. 4, 13, 1 e D. 50, 17, 111 pr.
100 La lex Aquilia

Tuttavia, quest’ultimo potrà giovarsi di un trattamento proces-


suale di favore, egli andrà esente dalla condanna “al doppio”
(duplum) nel caso in cui neghi, durante la pendenza della lite, la
sua responsabilità:

Ulpiano, 11 ad edictum, D. 4, 4, 9, 2: Nunc videndum minoribus


utrum in contractibus captis dumtaxat subveniatur, an etiam delin-
quentibus: ut puta dolo aliquid minor fecit in re deposita vel commo-
data vel alias in contractu, an ei subveniatur, si nihil ad eum pervenit?
et placet in delictis minoribus non subveniri. Nec hic itaque subvenie-
tur. Nam et si furtum fecit vel damnum iniuria dedit, non ei subvenie-
tur. Sed si, cum ex damno dato confiteri possit ne dupli teneatur, ma-
luit negare: in hoc solum restituendus sit, ut pro confesso habeatur.
Ergo et si potuit pro fure damnum decidere magis quam actionem du-
pli vel quadrupli pati, ei subvenietur.

4.1.3. Il principio della compensazione: il concorso di colpa e


il difficile rapporto con il dolo

L’istituto giuridico della compensazione delle colpe prende ad


esame la particolare ipotesi in cui concorra contestualmente sia
la colpa dell’agente sia quella del danneggiato, infatti il sistema
romano, lungi dal prefigurare il moderno istituto del concorso
di colpa, tende ad “annullare” la responsabilità, in altri termini
chi ha subito un danno trovandosi anch’egli in colpa, “sembra”
non aver subito alcun danno, come, di nuovo pittorescamente,
emerge dalle fonti:

Pomponio, 8 ad Quintum Mucium, D. 50, 17, 203: Quod quis ex culpa


sua damnum sentit, non intelligitur damnum sentire.

La compensazione della colpa è una tecnica di diritto so-


stanziale che nasce dall’applicazione dei casi pratici, in cui i
giuristi romani reputano conforme ai principi di diritto naturale,
e in particolar modo all’equitas, non ricercare la percentuale del
concorso di colpa, ricerca che il più delle volte si base su calcoli
aleatori e privi di un fondamento pratico. La compensazione, al
contrario, permette di valutare unitariamente le condotte degli
agenti, affidando un particolare disvalore a quella del danneg-
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 101

giato a cui sostanzialmente si rimprovera una mancanza di dili-


genza, pari a quella del danneggiante. La ratio dell’istituto non
può rinvenirsi, come nel passato si è sostenuto, nella rettifica da
parte del danneggiato della condotta dell’agente: in questo sen-
so si annullerebbe un elemento cardine della responsabilità ex-
tracontrattuale (la culpa) rimettendo l’applicazione della legge
Aquilia non più alla previsione legislativa ma alla volontà del
danneggiato. La scelta dei giuristi romani non solo è conforme
a un principio di equità, come sopra detto, ma è perfettamente
aderente ai canoni giuridici della responsabilità aquiliana e – in
particolar modo – inficia il nesso di causalità: la condotta del
danneggiato rende incerto il nesso di causalità tra il danno e
l’azione del danneggiante, che non potrà più dirsi diretta, uni-
voca ed esclusiva dell’evento. Salvo, appunto, il ricorso alla
finzione del concorso di colpa.
Gli esempi e le applicazioni pratiche si susseguono nelle
fonti romane, un caso celebre di compensazione della colpa è
dato dall’ipotesi in cui un viandante attraversa un campo desti-
nato alle esercitazioni con l’arco rimanendo ferito. Egli non po-
trà lamentarsi del danno subito perché non avrebbe dovuto at-
traversare imprudentemente dei luoghi in cui si svolge
un’attività pericolosa (quia non debuit per campum iaculato-
rium iter intempestive facere). In altre parole, se avesse usato
l’ordinaria diligenza, avrebbe potuto evitare il verificarsi
dell’evento:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 9, 4: Sed si per lusum iaculantibus


servus fuerit occisus, Aquiliae locus est: sed si cum alii in campo ia-
cularentur, servus per eum locum transierit, Aquilia cessat, quia non
debuit per campum iaculatorium iter intempestive facere. Qui tamen
data opera in eum iaculatus est, utique Aquilia tenebitur.

Lo stesso ragionamento si applica a tutti i casi simili, per cui


non potrà servirsi della tutela aquiliana colui che cammina nei
luoghi destinati alla caccia degli animali selvatici perché avreb-
be potuto evitare il pericolo (dum evitare periculum potuerit53)

53. D. 9, 2, 28 pr.
102 La lex Aquilia

o quando il servo – ferito a causa dell’azione di un terzo – suc-


cessivamente muoia a causa delle mancate cure del proprio pa-
drone: quest’ultimo non potrà agire in giudizio perché il fatto si
è verificato a causa della sua negligenza (si ex plagis servus
mortuus est, id domini negligentia accidit54); né potrà giovarsi
della lex Aquilia chi ha subito un danno per aver fatto imbizzar-
rire gli animali, questa persona dovrà, di nuovo con un’espressione
enfatica, “lamentarsi da solo” (de se quaeri debet55).
L’ipotesi di certo più celebre e affasciante è quella di un av-
ventore che decide di farsi radere in un luogo in cui si gioca a
palla: il barbiere, colpito dalla sfera, taglia inavvertitamente la
gola del malcapitato:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 11: Item Mela scribit, si, cum pila


quidam luderent, vehementius quis pila percussa in tonsoris manus
eam deiecerit et sic servi, quem tonsor habebat, gula sit praecisa
adiecto cultello: in quocumque eorum culpa sit, eum lege Aquilia te-
neri. Proculus in tonsore esse culpam: et sane si ibi tondebat, ubi ex
consuetudine ludebatur vel ubi transitus frequens erat, est quod ei im-
putetur: quamvis nec illud male dicatur, si in loco periculoso sellam
habenti tonsori se quis commiserit, ipsum de se queri debere.

Il passo in oggetto non è sicuramente privo di complicazio-


ni. Innanzitutto, vi è un giocatore che – colpita la palla in modo
violento – colpisce, a propria volta, un barbiere, il quale si sta
accingendo a radere la barba a un servo. Qui, anche se implici-
to, appare chiaro che si tratta di un barbiere di strada. Colpito,
egli taglia accidentalmente la gola del servo. Ci si domanda chi
sia il soggetto tenuto ex lege Aquilia. Secondo una prima lettura
del passo, Fabio Mela, dopo aver riportato il caso, non propor-
rebbe soluzione alcuna, limitandosi a sostenere che in quocum-
que eorum culpa sit, eum lege Aquilia teneri.
Secondo un’altra lettura del passo, l’espressione dianzi ri-
portata sarebbe frutto d’interpolazione, come affermato da Emi-
lio Albertario56: dunque Fabio Mela, lungi dal non esprimere

54. D. 9, 2, 52 pr.
55. D. 1, 15, 3.
56. Sull’interpretazione di Albertario cfr. E. VAN DONGEN, Contributory Negligen-
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 103

una propria convinzione, sosterrebbe la culpa in capo al gioca-


tore, e ciò lo si desumerebbe dall’utilizzo di vehementius, che
servirebbe a dare una connotazione già di per sé negativa al
comportamento del giocatore, che avrebbe colpito la palla con
eccessiva violenza. Tuttavia, altri studiosi57 tendono a escludere
che l’azione del giocatore potesse essere una causa immediata e
diretta del danno. Secondo Proculo, invece, la colpa spetterebbe
al barbiere: tuttavia questa soluzione appare non priva di con-
traddizioni, prima di tutto perché – in altre circostanze – lo stes-
so Proculo aveva negato la responsabilità di colui che fosse sta-
to colpito:

Paolo, 22 ad edictum, D. 9, 2, 7, 3: Proinde si quis alterius impulsu


damnum dederit, Proculus scribit neque eum qui impulit teneri, quia
non occidit, neque eum qui impulsus est, quia damnum iniuria non
dedit: secundum quod in factum actio erit danda in eum qui impulit.

Il tutto si potrebbe giustificare dalla posizione scelta dallo


stesso barbiere, che – dunque – lo esporrebbe a colpa, secondo
l’opinione sempre di Proculo. Quest’ultimo aveva rilevato che
il barbiere si era fermato ubi ex consuetudine ludebatur vel ubi
transitus frequens erat, ossia in un luogo ove, notoriamente, i
ragazzi usavano giocare a palla. Si tratterebbe perciò di un caso
di negligenza, o come si direbbe oggi, di una culpa in eligendo,
poiché aveva scelto un luogo notoriamente pericoloso.
Secondo l’opinione di altri, la colpa sarebbe in capo allo
stesso servus, il quale – accettando di farsi radere in una situa-
zione talmente pericolosa – si sarebbe addossato il rischio di
siffatta attività. A chi poi debba essere ascritta questa opinione
è discusso: se alcuni affermano che l’obiezione è dello stesso
Proculo (tesi che a me non pare plausibile, per l’eccessiva con-
traddittorietà delle due opinioni), si potrebbe al contrario ipotiz-
zare che l’obiezione sia stata espressa da qualche giurista suc-

ce: A Historical and Comparative Study, Martinus Nijhoff-Brill, Leiden, New York
2014, p. 85.
57. S. SCHIPANI, Responsabilità ex lege Aquilia: criteri d’imputazione e problema
della culpa, Giappichelli, Torino 1969, p. 330 ss.
104 La lex Aquilia

cessivo a Fabio Mela, alla quale Ulpiano si è accodato, affer-


mando che non si dica che quello abbia detto una cosa sbagliata
(nec illud male dicatur); a meno che non si voglia ipotizzare (ed
anche questo appare abbastanza plausibile) che l’obiezione sia
dello stesso Ulpiano.
Un caso che necessita di qualche chiarimento, perché tratta
anche del vizio della cosa acquistata, riguarda il servo ferito da
alcuni animali che il proprio padrone aveva preso in prova. La
regola generale, che necessita però di una precisazione, è quella
per cui il padrone non potrà domandare il risarcimento del dan-
no al venditore:

Alfeno, 2 digestorum, D. 9, 2, 52, 3: Quidam boves vendidit ea lege,


uti daret experiundos: postea dedit experiundos: emptoris servus in
experiundo percussus ab altero bove cornu est: quaerebatur, num ven-
ditor emptori damnum praestare deberet. Respondi, si emptor boves
emptos haberet, non debere praestare: sed si non haberet emptos, tum,
si culpa hominis factum esset, ut a bove feriretur, non debere praesta-
ri, si vitio bovis, debere.

Il giurista si preoccupa altresì di stabilire un’eccezione, da


identificarsi nel vizio della cosa venduta, che prende in conside-
razione l’indole, osservando che se il danno subito dal servo sia
imputabile al carattere dell’animale (non corrispondente, pertan-
to, a quello che comunemente bisogna attendersi) il venditore po-
trà essere citato in giudizio e dovrà rispondere dell’accaduto: in
questo caso assume importanza la natura dell’animale, che di-
viene un requisito giuridico, quasi fondante della responsabilità
civile, al proposito Pietro Onida58 ha osservato che

nelle fonti giuridiche il termine natura compare, con una certa fre-
quenza, anche con riferimento al tema del comportamento
dell’animale. In linea di massima – lo ha bene rilevato il Maschi, nella
sua fondamentale indagine sulla “concezione naturalistica” del diritto
romano – la categoria indica, con riguardo agli animali, ciò che è “es-
senza” o “normalità”, da cui il diritto trae conseguenze giuridiche.
(…) Il criterio è stato considerato come un parametro attraverso il

58. P. ONIDA, Op. cit., p. 355-357.


IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 105

quale valutare la normalità del comportamento dell’animale in rela-


zione alla specie di appartenenza. (…) In linea di massima, dopo i
glossatori, la dottrina si è orientata nel ritenere che il criterio del con-
tra naturam implichi la sussistenza del danno in caso di divergenza tra
il comportamento dell’animale e le caratteristiche della specie di ap-
partenenza.

Pacificamente ammessa la compensazione delle colpe, va


visto se sia ammissibile una compensazione tra il dolo e la col-
pa: per escludere questa ricostruzione si può far leva su due di-
versi ragionamenti, il primo di carattere giuridico e il secondo
ispirato al principio dell’equità. Per quanto riguarda il primo è
vero che nelle fonti si legge spesso che la culpa lata può essere
paragonata al dolo59, ma si tratta solamente di una riflessione
circa gli effetti della condotta, che rimangono ben separati dalla
qualificazione soggettiva60, per cui va disattesa la possibilità di
equiparare la grave negligenza al dolo61. Per quanto riguarda il
secondo aspetto, va notato che nel caso in cui si ammettesse la
compensazione tra la colpa grave e il dolo si giustificherebbe la
condotta di un soggetto che ha arrecato volutamente un danno,
approfittando della colpa altrui: si tratterebbe di una rigida ap-
plicazione della compensazione, fondata, oltretutto sulla scor-
retta equiparazione tra due elementi soggettivi profondamente
diversi:

Alfeno Varo, 2 digestorum, D. 9, 2, 52, 1: Tabernarius in semita noctu


supra lapidem lucernam posuerat: quidam praeteriens eam sustulerat:
tabernarius eum consecutus lucernam reposcebat et fugientem reti-
nebat: ille flagello, quod in manu habebat, in quo dolor inerat, verbe-
rare tabernarium coeperat, ut se mitteret: ex eo maiore rixa facta ta-
bernarius ei, qui lucernam sustulerat, oculum effoderat: consulebat,
num damnum iniuria non videtur dedisse, quoniam prior flagello per-

59. D. 11, 6, 1, 1.
60. Il fatto che la comparazione sia limitata agli effetti civili e non alla natura giuri-
dica è messo chiaramente in luce in A. DOVERI, Op. cit., p. 39.
61. Lo si è argomentato citando le seguenti fonti: D. 27, 1, 29 pr.: Dissoluta negli-
gentia prope dolum est; D. 26, 10, 7, 1: Lata negligentia prope fraudem acceditur; D.
36, 1, 22, 3: Culpae, quae dolo proxima est; D. 36, 4, 5, 15: Dolum accipere debemus et
culpam latam; D. 43, 26, 8, 3: Culpa dolo proxima; D. 47, 4, 1, 2: Culpa dolo proxima
dolum repraesentat.
106 La lex Aquilia

cussus esset. Respondi, nisi data opera effodisset oculum, non videri
damnum iniuria fecisse, culpam enim penes eum, qui prior flagello
percussit, residere: sed si ab eo non prior vapulasset, sed cum ei lu-
cernam eripere vellet, rixatus esset, tabernarii culpa factum videri.

Alfeno sostiene che se è stato il ladro a percuotere per primo


l’oste, e questi si difende, non sarà responsabile del danno pro-
vocato, salva la diversa ipotesi in cui abbia provocato il danno
volontariamente (data opera): «la condotta – riprovevole – di
chi ecceda nell’esercizio del proprio diritto, infatti, può consi-
derarsi tenuta non iure, dunque illecita»62.
Nel caso in cui sia l’oste ad arrecare dolosamente un danno
al ladro, per recuperare la cosa che gli è stata rubata, dovrà ri-
spondere ex lege Aquilia (sed si ab eo non prior vapulasset sed,
cum ei lucernam eripere vellet, rixatus esset, tabernarii culpa
factum videndi). Si intravede, in questa particolare ipotesi, un
esempio di eccesso di legittima difesa, strettamente connesso
all’elemento soggettivo, come ha osservato Giovanni Pacchio-
ni63

è evidentemente implicito il concetto di colpa come fondamento di


una responsabilità che si sarebbe potuta evitare, tenendo un diverso
contegno. Posto ciò, ci sembra naturale supporre che l’assenza di dolo
o colpa venisse in seguito invocata come causa di esonero della re-
sponsabilità aquiliana da chiunque con un proprio atto avesse causato
la morte di uno schiavo o il danneggiamento di una cosa altrui.
L’Uomo, infatti, ha sì il diritto di svolgere la sua attività nell’ambiente
sociale nel quale vive, ma a condizione che nell’esercitare questo di-
ritto non ecceda certi limiti. Così, applicando al diritto generico di agi-
re liberamente, il principio che da prima era stato applicato solo a certi
diritti speciali di uccidere o danneggiare, si passò insensibilmente dal-
lo stadio della responsabilità basato sul principio della imputabilità in
base al quale l’iniuria della antica legge aquilia assume un significato
più largo e diverso. Agisce iniuria chi compie un atto qualsiasi, senza
usare le precauzioni necessarie ad evitare che l’atto stesso causi danno
ad altri. Allo stesso modo pertanto in cui nelle origini si ammetteva ir-
responsabilità in chiunque avesse ucciso esercitando il suo diritto di
legittima difesa, o il suo potere di magistrato, o di maestro o simile,

62. S. GALEOTTI, Op. cit., p. 102.


63. G. PACCHIONI, Dei delitti e quasi delitti, CEDAM, Milano-Padova 1940, p. 21.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 107

salvo però sempre che in tale esercizio non avesse esorbitato da que-
sto limite, così pure si finì per ammettere la irresponsabilità per gli atti
compiuti nell’esercizio della propria libertà, quando di tale libertà si
fosse fatto uso moderato e prudente.

Il passo, comunque, pone un interessante problema nell’inciso


in cui sembra crearsi una promiscuità lessicale tra l’ingiustizia
del danno e l’elemento soggettivo della colpa (non videri
damnum iniuria fecisse, culpam enim penes eum, qui prior fla-
gello percussit, residere).
Disattesa l’interpolazione del passo a opera dei compilatori
giustinianei, intenti a ricercare l’elemento soggettivo in ogni
ipotesi, può verosimilmente ritenersi che la colpa, nella costru-
zione sintattica, sostituisce l’ingiustizia del danno e assume, ri-
spetto a quest’ultima, una valenza maggiore, idonea a – come si
è detto – «trancher la question de l’iniuria»64, e ciò permette-
rebbe di «valutare se l’esito dannoso ultimo sia imputabile al
servo o al tabernarius: è, infatti, proprio la riprovevolezza del
contegno di quest’ultimo che determina l’ingiustificatezza del
suo agire e ne qualifica la condotta come iniusta»65.

4.1.4. Responsabilità extracontrattuale e fatalità: il casus for-


tuitus

Non si può agire con la legge Aquilia tutte le volte in cui la re-
sponsabilità colposa dell’agente sia esclusa dal caso fortuito66,
descritto attentamente da Gerhard Noodt67:

ubi ius apparet, quia iniuria non est, inhibenda Aquilia est. Idem, si
casus probatur, sed merus: qui necessitatem habet, neque homini im-
putatur sed fato; et, cum ultra humanum modum sit, non humanitate
modo sed et lege Aquilia excusatur.

64. B. WINIGER, La responsabilité aquilienne romaine – Damnum Iniuria Datum,


Helbing & Lichtenhahn, Basel/Frankfurt am Main 1997, p. 120.
65. S. GALEOTTI, Op. cit., p. 103.
66. A. DE MEDIO, Caso fortuito e forza maggiore in diritto romano, Istituto di di-
ritto romano, Roma 1908.
67. G. NOODT, Op. cit., p. 180.
108 La lex Aquilia

Il danno va imputato al caso fortuito e non alla colpevolezza


degli agenti nel caso in cui i marinai tagliano le cime della na-
ve, a causa della tempesta cum vi ventorum navis impulsa esset
in funes anchorarum alterius68 (è un brano già analizzato più
sopra), oppure quando vi sia un forte incendio sollevato da una
bufera non prevista69:

Paolo, 22 ad edictum, D. 9, 2, 30, 3: In hac quoque actione, quae ex


hoc capitulo oritur, dolus et culpa punitur: ideoque si quis in stipulam
suam vel spinam comburendae eius causa ignem immiserit et ulterius
evagatus et progressus ignis alienam segetem vel vineam laeserit, re-
quiramus, num imperitia eius aut neglegentia id accidit. Nam si die
ventoso id fecit, culpae reus est (nam et qui occasionem praestat,
damnum fecisse videtur): in eodem crimine est et qui non observavit,
ne ignis longius procederet. At si omnia quae oportuit observavit vel
subita vis venti longius ignem produxit, caret culpa.

Nel passo di Paolo vengono presentate due situazioni diffe-


renti in cui la colpa e il caso fortuito sono posti su due piani dif-
ferenti. L’elemento caratterizzante è dato dalle condizioni cli-
matiche che il soggetto agente è chiamato a valutare: se egli
avrà acceso un fuoco con condizioni climatiche favorevoli, e il
fuoco incendierà il terreno del vicino, egli risponderà nel caso
in cui ciò sia avvenuto per propria imperizia (che sarà oggetto
di trattazione nel prossimo paragrafo) o negligenza, e lo stesso
rimprovero gli si potrà muovere nel diverso caso in cui egli ab-
bia deciso di accenderlo in un giorno ventoso, ma se egli ac-
cenderà il fuoco in un giorno privo di condizioni climatiche av-
verse e il fuoco si propagherà nel campo del vicino a causa di
una raffica di vento inaspettata (si omnia quae oportuit obser-
vavit vel subita vis venti longius ignem produxit), l’agente non
potrà dirsi responsabile perché non sarà integrato l’elemento
soggettivo (caret culpa). In quest’ultima espressione, a parere
di chi scrive, è ravvisabile sia l’ipotesi in cui all’agente non sia
in alcun modo possibile muovere un rimprovero (perché ha
adempiuto al suo normale obbligo di diligenza) sia la diversa

68. D. 9, 2, 29, 3.
69. D. 9, 2, 9, 4; Sul tema cfr. D. 9, 2, 11 pr; D. 9, 2, 31 e D. 9, 2, 52, 4.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 109

circostanza in cui la colpa dell’agente è, per così dire, “assorbi-


ta” dall’evento successivo e imprevedibile, ravvisandosi, in
quest’ultimo caso, un principio di colpa non punito, o scrimina-
to, dalla giurisprudenza.

4.2. La colpa e l’esercizio della professione: l’imperizia

Per concludere la disamina sulla culpa è necessario chiarirne


certi aspetti fondamentali per una sua miglior comprensione.
Va visto se all’interno della culpa rientri anche la nozione di
imperizia.
Dedicando spazio ad una breve digressione proprio sul con-
cetto di imperizia, la colpa fondata sulla stessa concerne le atti-
vità caratterizzate da regole tecniche, più o meno complesse,
ma consolidate nell’apprezzamento sociale e nella pratica quo-
tidiana. Si ricorda che sono artifices anche coloro che esercita-
no attività caratterizzate da tecniche precise, per quanto sempli-
ci e di facile acquisizione, come il fullo, il mulio, il politor
agrorum, il sarcinator e – ancora – la textrix70. L’imperizia
dev’essere sottoposta a un controllo pratico, che avverrà con-
frontando il comportamento del singolo agente con ciò che in-
vece ci si aspetta da un soggetto munito della medesima espe-
rienza, con un chiaro riferimento a quelle che oggi potremmo
definire le “regole dell’arte”. La colpa-imperizia può avere fon-
damento contrattuale e aver rilievo non solo in funzione
dell’actio legis Aquiliae, ma anche per l’eventuale azione con-
trattuale, come emerge dal seguente frammento:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 7, 8: Proculus ait, si medicus servum


imperite secuerit, vel ex locato vel ex lege Aquilia competere actionem.

70. Sul punto, C.A. CANNATA, Sul problema della responsabilità, cit., p. 57 e 58.
Si tratta, principalmente, di danni cagionati dalla violazione di specifiche regole. Qual-
che riflessione merita il danno provocato dal conductor mulio, che deriva dalla valuta-
zione di due elementi: «1. la ruptio della zampa è conseguenza diretta del sovraccarico,
quindi della condotta tenuta. (…) 2. La condotta che risulta iniuriosa, perché ha impo-
sto alla bestia un onus eccessivo (plus iusto, appunto), riconoscibile come dannoso da
un mulattiere diligente» (S. GALEOTTI, Op. cit., p. 167).
110 La lex Aquilia

Si può ancora ricordare la regola affermata da Gaio, secondo


cui l’imperizia va ricompresa nella categoria più ampia della
colpa, come testimonia l’uso del verbo adnumeratur che lascia
presagire anche l’esistenza di un’opinione non controversa
sull’argomento:

Gaio, 7 ad edictum provinciale, D. 50, 17, 132: Imperitia culpae ad-


numeratur.

La condotta del medico assume rilievo giuridico nel caso in


cui egli somministri delle medicine che non avrebbe dovuto da-
re o – più generalmente – non ha adempiuto al proprio dovere
professionale. La regola di carattere generale, per cui il medico
non deve rispondere dell’evento mortale (medico imputari
eventus mortalitatis non debet71), incontra il limite della corret-
ta esecuzione della cura, perché quod per imperitiam commisit,
imputari ei debet. Lo stesso principio si può affermare nel caso,
giuridicamente analogo, in cui emerge l’imperizia dell’artifex
che danneggia l’oggetto che gli viene affidato per la lavorazio-
ne, salva l’ipotesi in cui ciò avvenga per un difetto della materia
o per caso fortuito72: ciò perché «un artifex esperto, in fondo,
dovrebbe saper valutare in via preliminare se sia in grado o me-
no di eseguire l’opera richiesta e, di conseguenza, farsi carico
della responsabilità che ne deriva»73.
Il tutto ruota intorno al fatto che chi esercita una professio-
ne, caratterizzata dalla padronanza di particolari abilità tecni-
che, si fa pubblicamente garante delle proprie competenze, pre-
sentandosi come una persona esperta (pro perito se locat74).
La colpa-imperizia può essere però esclusa direttamente dal
professionista, che – attraverso l’apposizione di un patto specia-
le – può limitare la propria responsabilità, ad esempio apponen-

71. Si tratta di un principio accolto, almeno in via generale, anche nel diritto con-
temporaneo in tema di responsabilità medica: cfr. ad es. M. DRAGONE, Responsabilità
medica danni da trasfusione e da contagio, Giuffrè, Milano 2007, p. 3.
72. D. 9, 2, 27, 29.
73. S. GALEOTTI, Op. cit., p. 196.
74. D. 19, 2, 9, 5 e D. 19, 2, 13, 5.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 111

do un cartello con cui egli dichiara di non volersi rendere re-


sponsabile per determinati danni. Tuttavia, anche l’eccezione è
a propria volta suscettibile di un’ulteriore deroga, nel caso in
cui il professionista (indicando con questo termine il soggetto
che svolge un’attività specifica, per cui sono richieste delle
competenze tecniche) accetti, disattendendo il suo stesso patto
limitativo della responsabilità, di svolgere comunque la presta-
zione accollandosi gli eventuali danni, e si tratta del celebre ca-
so in cui l’horrearius accetta in deposito degli oggetti75, nono-
stante abbia dichiarato, con una scritta affissa alla propria ta-
verna, di non volerne ricevere76. Ciò induce a rilevare come vi
sia un rapporto tra l’imperizia e la vicenda contrattuale, perché,
come ha osservato Sara Galeotti77

la sottoscrizione della clausola di esonero dell’artifex dal rischio di


fractio (…) può essere considerata, invero, alla stregua di una causa di
giustificazione. Con la progressiva affermazione di un modello di di-
ligenza “astratto”, costruito sulla base di specifiche regole professio-
nali, il contenuto del singolo contratto non solo definisce allora la re-
sponsabilità di un soggetto per i danni discendenti dall’esercizio della
sua arte, giacchè si è impiegato ut artifex.

Per gli stessi motivi, è tenuto ex lege Aquilia colui che carica
in maniera imperita la merce su un carro78 e il timoniere che
non abbia saputo governare in modo corretto la nave79. A questi
casi è equiparata la situazione in cui il danno venga cagionato
per colpa del cocchiere, che non ha la forza di frenare l’impeto

75. Sul deposito irregolare si può rinviare alla lettura della monografia di G. SE-
GRÈ, Sul deposito irregolare in diritto romano: nota, in Bullettino dell’Istituto di diritto
romano “Vittorio Scialoja”, 1907, p. 197 ss. Più di recente ha trattato il tema anche F.
BONIFACIO, Ricerche sul deposito irregolare in diritto romano, in Bullettino
dell’Istituto di diritto romano “Vittorio Scialoja”, 1947, p. 49-50; e, con una prospetti-
va inconsueta, A. VALMAÑA OCHAÍTA, The Use Of The Money In The Deposits Bank-
ing. Some Questions Of Roman Law Within The Framework Of The Present Financial
Crisis, in Journal of Business Case Studies, 2010, p. 37-43.
76. D. 13, 6, 5, 10; D. 19, 2, 60, 6 e D. 50, 17, 23.
77. S. GALEOTTI, Op. cit., p. 197.
78. D. 9, 2, 27, 33; D. 9, 2, 52, 2 e D. 19, 2, 13 pr.
79. D. 9, 2, 29, 2.
112 La lex Aquilia

dei cavalli80. Quest’ultimo caso importa l’introduzione di un


nuovo concetto, da ricondursi alla debolezza fisica dell’agente:
si tratta dell’infirmitas.
In un primo tentativo di definizione si può dire che si trova
in una posizione intermedia tra la colpa-imperizia e la colpa-
imprudenza e ha per presupposto una carenza delle condizioni
fisiche, ed è generalmente ricondotta alla violazione delle rego-
le tecniche:

Gaio, 7 ad edictum provinciale, D. 9, 2, 8: Idem iuris est, si medica-


mento perperam usus fuerit. Sed et qui bene secuerit et dereliquit cu-
rationem, securus non erit, sed culpae reus intellegitur. Mulionem
quoque, si per imperitiam impetum mularum retinere non potuerit, si
eae alienum hominem obtriverint, volgo dicitur culpae nomine teneri.
idem dicitur et si propter infirmitatem sustinere mularum impetum
non potuerit: nec videtur iniquum, si infirmitas culpae adnumeretur,
cum affectare quisque non debeat, in quo vel intellegit vel intellegere
debet infirmitatem suam alii periculosam futuram. Idem iuris est in
persona eius, qui impetum equi, quo vehebatur, propter imperitiam vel
infirmitatem retinere non poterit.

Inoltre, il concetto dell’infirmitas non è limitato solo al ri-


spetto delle regole dell’arte, ma è generalmente esteso anche al-

80. D. 9, 2, 8. Nel diritto indiano, si rinviene un testo che sembrerebbe dare partico-
lare rilievo alla culpa: si tratta del Manawa-Darma-Sastra: da un lato si può mettere in
rilievo un aspetto ancora involuto, e cioè che il delitto è ancora intimamente legato al
peccato e all’espiazione; dall’altro si può mettere in luce che nei testi si distingue net-
tamente l’atto commesso inavvertitamente da quello commesso secondo intenzione (9,
sloca 73-75, 90 e 92). Vorrei riportare un caso particolare di un delitto colposo: il coc-
chiere, imperito nel guidare, cagiona un danno al terzo. Questo passo (8, sloca 293, 294,
295.) assume importanza perché vuol dire che anche nell’antico mondo indiano si cono-
sceva la colpa. Nel passo si dice che il fatto colposo deve essere tenuto ben distinto dal
caso fortuito (8, sloca 291 e 292.). Secondo gli scrittori, il caso fortuito lo si ha quando
il veicolo si rovescia a causa dellla via sconnessa oppure nell’ipotesi in cui si rompa la
ruota o l’asse. L’imperizia è tenuta, nel passo, ben distinta dalla negligenza. A mio pa-
rere è distinguibile anche la figura del responsabile civile quando il danno avviene per
imperizia del nocchiere. Da ciò si può avanzare l’ipotesi che il principio che ispirerebbe
i quasi-delicta, affermatosi nella formula (probabilmente interpolata) mala electio est in
culpa, porrebbe le sue radici già nell’antico diritto indiano. Sul punto cfr. E. VOLTER-
RA, Diritto romano e diritti orientali, con una nota dell’autore ed una introduzione di D.
PIATTELLI, Jovene, Napoli 1999. Per avere degli ulteriori riferimenti bibliografici in
materia cfr S. ROMANO, Bibliografia del diritto romano e dei diritti orientali per gli
anni 1924-1930, Industria tipografica romana, Roma 1932.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 113

lo svolgimento di tutte le attività pericolose che hanno per pre-


supposto l’esistenza di una particolare forza fisica in capo
all’agente; ciò permette di ravvisare nell’infirmitas una catego-
ria più ampia dell’imperizia, sebbene si basi concettualmente su
quest’ultima:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 1, 1, 5: Sed et si canis, cum duceretur


ab aliquo, asperitate sua evaserit et alicui damnum dederit: si contineri
firmius ab alio poterit vel si per eum locum induci non debuit, haec
actio cessabit et tenebitur qui canem tenebat.

Il passo di Ulpiano è particolarmente importante, perché è


escluso il ricorso all’azione de pauperie contro il proprietario
del cane, prefigurandosi una responsabilità in capo al soggetto
che in quel momento lo tratteneva, soggetto che sarà responsa-
bile solo nel caso in cui un uomo diverso (con un riferimento al
modello-agente) fosse riuscito a trattenere l’animale (si contine-
ri firmius ab alio poterit): in questo caso, Sara Galeotti ha os-
servato che l’infirmitas va valutata «in rapporto alle capacità
dell’uomo comune (si parla di un generico alius), cioè di un
soggetto cui non sia richiesta una forza particolare e che, non-
dimeno, avrebbe potuto controllare il cane firmius di quanto
non abbia fatto», si tratterebbe di una negligenza-colpevole,
«benché, infatti, il portare l’animale al guinzaglio non sia sicu-
ramente un’arte, un soggetto diligente dovrebbe conoscere il
potenziale pericolo che rappresenta per i terzi un cane (specie
se mordace) non adeguatamente trattenuto. Chi dunque, pur non
essendo nelle condizioni di controllare l’animale, lo conduca
dove possa procurare danni, tenebitur»81.
Inizialmente la tutela aquiliana sanziona solo il danno pro-
vocato da un’azione positiva, non assumendo alcun rilievo giu-
ridico la semplice omissione. Questa visione iniziale, verrà su-
perata dall’interpretazione pretoria.
Va osservato che nell’ipotesi in cui vi sarà un’omissione sarà
concessa un’azione utile, non perché la colpa contempla necessa-

81. S. GALEOTTI, Op. cit., p. 199.


114 La lex Aquilia

riamente un’azione positiva, ma perché l’esercizio dell’azione


diretta ha come indefettibile presupposto il danno arrecato “col
corpo” dell’offensore “al corpo” dell’offeso, presupposto chia-
ramente non verificato nel caso di un’azione omissiva.
Quest’ultima, poi, per assumere una reale portata giuridica
sarà sanzionata solo nel caso in cui l’agente era comunque
tenuto a intraprendere un’azione positiva: ciò vuol dire irri-
levanza dell’omissione astrattamente considerata e rilevanza
dell’omissione connessa alla violazione di un obbligo di facere:

Gaio, 7 ad edictum provinciale, D. 9, 2, 8 pr.: Idem iuris est, si medi-


camento perperam usus fuerit. Sed et qui bene secuerit et dereliquit
curationem, securus non erit, sed culpae reus intellegitur. Mulionem
quoque, si per imperitiam impetum mularum retinere non potuerit, si
eae alienum hominem obtriverint, volgo dicitur culpae nomine teneri.
Idem dicitur et si propter infirmitatem sustinere mularum impetum
non potuerit: nec videtur iniquum, si infirmitas culpae adnumeretur,
cum affectare quisque non debeat, in quo vel intellegit vel intellegere
debet infirmitatem suam alii periculosam futuram. Idem iuris est in
persona eius, qui impetum equi, quo vehebatur, propter imperitiam vel
infirmitatem retinere non poterit.

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 27, 9: Si fornicarius servus coloni ad


fornacem obdormisset et villa fuerit exusta, Neratius scribit ex locato
conventum praestare debere, si neglegens in eligendis ministeriis fuit:
ceterum si alius ignem subiecerit fornaci, alius neglegenter custodie-
rit, an tenebitur qui subiecerit? nam qui custodit, nihil fecit, qui recte
ignem subiecit, non peccavit: quid ergo est? puto utilem competere
actionem tam in eum qui ad fornacem obdormivit quam in eum qui
neglegenter custodit, nec quisquam dixerit in eo qui obdormivit rem
eum humanam et naturalem passum, cum deberet vel ignem extingue-
re vel ita munire, ne evagetur.

Ulpiano, 42 ad Sabinum, D. 9, 2, 44, 1: Quotiens sciente domino ser-


vus vulnerat vel occidit, Aquilia dominum teneri dubium non est:
scientiam hic pro patientia accipimus: ut qui prohibere potuit teneatur
si non fecit.

Nei passi dianzi riportati si afferma la responsabilità del me-


dico, per aver abbandonato le cure, dell’addetto a una fornace,
perché non ha prestato l’attenzione dovuta e del padrone per
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 115

non aver evitato che il proprio servo uccidesse lo schiavo altrui.


In queste tre circostanze la responsabilità omissiva consiste nel
non aver posto in essere quella condotta che, di regola, ci si
aspetta, pertanto il medico, violando le regole dell’arte, non ha
dato al paziente le cure necessarie, l’addetto alla fornace sarà
tenuto in forza della legge Aquilia non perché ha acceso il fuo-
co, ma perché non ha vigilato come avrebbe dovuto fare e – lo
stesso – lo si può dire del padrone, che ha un obbligo di control-
lo (e responsabilità) circa l’operato del suo servo.
Qualche riflessione merita la posizione del medico (vista
poco sopra in D. 9, 2, 8): per indicare la condotta negligente si
utilizza il termine culpa, disattesa una responsabilità fondata sul
“non aver preveduto”, si è detto che «la riflessione circa il con-
tenuto della responsabilità del medico dovrebbe essere traslata,
anche in questo caso, su quello del “provvedere”: la prestazione
richiesta ha, infatti, un preciso contenuto tecnico»82.
Ritornando al discorso principale, i soggetti dianzi menzio-
nati sono responsabili di aver posto le condizioni affinché si ve-
rificasse l’evento dannoso (damni causam praebuerunt83). A
questa conclusione non sembra opporsi neanche il seguente
passo:

Ulpiano, 18 ad Sabinum, D. 7, 1, 13, 2: De praeteritis autem damnis


fructuarius etiam lege Aquilia tenetur et interdicto quod vi aut clam,
ut Iulianus ait: nam fructuarium quoque teneri his actionibus nec non
furti certum est, sicut quemlibet alium, qui in aliena re tale quid com-
miserit. Denique consultus, quo bonum fuit actionem polliceri praeto-
rem, cum competat legis Aquiliae actio, respondit, quia sunt casus,
quibus cessat Aquiliae actio, ideo iudicem dari, ut eius arbitratu uta-
tur: nam qui agrum non proscindit, qui vites non subserit, item
aquarum ductus conrumpi patitur, lege Aquilia non tenetur. Eadem et
in usuario dicenda sunt.

Si comprende dal testo che l’azione negata da Giuliano è

82. S. GALEOTTI, Op. cit., p. 187.


83. Sul passo si rimanda a B. ALBANESE, Studi sulla legge Aquilia. I. Actio utilis e
actio in factum ex lege Aquilia, in Annali del Seminario Giuridico della Università di
Palermo, 1950, p. 18 ss.
116 La lex Aquilia

l’actio legis Aquiliae directa. Lo scopo di Giuliano è quello di


dimostrare l’ammissione, nei confronti dell’usufruttuario, di
un’altra azione, quella praetoria, tutte le volte in cui l’azione
diretta, ammissibile contro l’usufruttuario, venga a cessare per
contingenze speciali. È pacifico che nelle fonti romane quando
si utilizza l’espressione legis Aquiliae actio si faccia riferimento
all’actio directa84. Pretendere, al contrario, che con
l’espressione quia sunt casus, quibus cessat Aquiliae actio, il
giurista alluda sia alla directa sia a quella utilis vuol dire attri-
buire al passo una notevole incongruenza, perché, interrogato il
giurista sulla possibilità di concedere un’azione utile quando
sussiste anche quella diretta, è come se egli rispondesse che è
necessario concedere un’azione generale… perché in alcuni ca-
si manca quella utile!
Pertanto, come già sopra ricordato, l’azione diretta è esclusa
non per una irrilevanza dell’omissione, quanto per l’assenza
della datio corpore corpori, e dunque per la mancanza del dan-
neggiamento materiale per aver lasciato incolto un fondo (nam
qui agrum non proscindit, qui vites non subserit, item aquarum
ductus conrumpi patitur, lege Aquilia non tenetur), ciò non to-
glie, comunque, la possibilità di esperire l’azione utile. Nel caso
dell’aquarum ductus corrumpi pati85, ultima ipotesi contempla-
ta dal giurista, lo si può spiegare facendo riferimento alla natura
speciale dell’usufrutto. Anche nel caso dell’aquarum ductus vi
sono delle ipotesi in cui è ammissibile la mancanza della lesio-
ne sostanziale della res: immaginiamo il caso in cui
l’usufruttuario lasci scorrere le acque liberamente senza rego-
larne il corso. Per avvalorare questa tesi si può rilevare il fatto

84. Per un uso in tal senso del termine si leggano D. 9, 2, 5, 1 e 2; D. 9, 2, 11, 6-8;
D. 9, 2, 11, 10; D. 9, 2, 13, 3; D. 9, 2, 15 pr.; D. 9, 2, 23, 1; D. 9, 2, 27, 3; D. 9, 2, 27, 7;
D. 9, 2, 27, 12; D. 9, 2, 30, 1; D, 9, 2, 36, 1; D, 9, 2, 49, 1; D. 9, 2, 54 e 55.
85. Per un approfondimento sulle azioni in tema di gestione delle acque, con parti-
colare riferimento all’actio pluviae arcendae, cfr. M. SARGENTI, L’actio aquae pluviae
arcendae: contributo alla dottrina della responsabilità per danno nel diritto romano,
Giuffrè, Milano 1940; F. SITZIA, Ricerche in tema di “actio aquae pluviae arcendae”,
Giuffrè, Milano 1977; M. BRETONE, I fondamenti del diritto romano: le cose e la natu-
ra, Roma-Bari 1998, p. 100-108, 260-263; F. SITZIA, Aqua pluvia e natura agri. Dalle
XII tavole al pensiero di Labeone, Edizioni AV, Cagliari 1999.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 117

che si parla generalmente di un corso d’acqua (aquarum ductus)


e non di aquaeductus.
Si tratta di un’ulteriore esempio di coltivazione mal esegui-
ta, per cui l’ipotesi di non aver curato adeguatamente lo scorre-
re delle acque è equiparato all’aver lasciato il campo incolto e il
ricorso all’azione utile, in luogo di quella diretta, si spiega per-
ché l’agente non arreca un danno diretto volto a diminuire il va-
lore patrimoniale del fondo, ma influenza negativamente la ca-
pacità produttiva (e, dunque, futura) del terreno, venendo meno
anche il requisito della concretezza della lesione (il damnum
datum).
Per correttezza e completezza espositiva, si reputi errata la
visione dell’aquarum ductus e si ammetta la presenza di un
aquaeductus tecnicamente inteso, sulla cui disciplina giuridica
ha scritto illuminanti pagine Mario Fiorentini86.
Anche in questo caso il fructuarius non ha arrecato un danno
materiale all’acquedotto, perché questo potrebbe essere inservi-
bile per via del fango e dei detriti. Si spiega, così, l’esclusione
dell’azione diretta in favore dell’azione utile, perché, una volta
intervenuta la manutenzione dell’acquedotto, questi tornerà per-
fettamente funzionante, trattandosi di un danno “momentaneo”
al bene, le cui conseguenze negative sono facilmente eliminabi-
li, ripristinando integralmente lo stato dei luoghi.
Il fructuarius, per quanto riguarda il godimento del fondo
usufruito, ha gli stessi diritti del proprietario, per cui rientra –
tra le sue facoltà – anche quella di non servirsi dell’acquedotto.
È vero che egli è tenuto a utilizzare la res, e questo è anzi

86. Con particolare riferimento alla gestione degli acquedotti, ed estrema chiarezza
espositiva M. FIORENTINI, Struttura ed esercizio della servitù d’acqua nell’esperienza
giuridica romana, in Quaderni del Dipartimento di Scienze Giuridiche, 8, Contributi
romanistici (estratto), Università degli Studi di Trieste, Trieste 2003. Il tema della ge-
stione idrica, caro all’Autore, trova un ulteriore approfondimento in IDEM, Fiumi e mari
nell’esperienza giuridica romana. Profili di tutela processuale e di inquadramento si-
stematico, Giuffrè, Milano 2003. Per un approccio de iure condendo sulla gestione
dell’acqua, in una prospettiva di riforma cfr. IDEM, L’acqua da bene economico a “res
Communis omnium” a bene collettivo, in Analisi Giuridica dell’Economia, 1/2010, p.
39-78. Ancora sulle servitù cfr. G. GROSSO, Le servitù prediali nel diritto romano,
Giappichelli, Torino 1969.
118 La lex Aquilia

l’obiettivo primo dell’usufrutto, salva rerum substantia, ma ciò


si riferisce solamente alla modalità di godimento: se egli si ser-
virà dell’acquedotto dovrà farlo diligentemente, senza danneg-
giarlo, ma ciò non vuol dire che egli sia obbligato a servirse-
ne87.

4.3. Il damnum corpore corpori datum: la sua elaborazione


giurisprudenziale e la responsabilità degli agenti

Il secondo requisito per agire ex lege Aquilia è la damni datio


corpore corpori, ossia la lesione di un bene materiale attraverso
una condotta positiva dell’agente, e questo è appunto l’ambito
naturale di applicazione della tutela aquiliana. Letteralmente, il
danno deve essere inflitto col corpo (dell’offensore) al corpo
(dell’offeso). Per ricorrere all’uso di una metafora, può dirsi che
il danneggiante deve trasformare il proprio corpo in uno stru-
mento per danneggiare, in tal senso l’agente potrà servirsi diret-
tamente della propria forza fisica oppure potrà ricorrere – me-
diatamente – all’utilizzo di un’arma88. A tal proposito si può ci-
tare il seguente passo:

I. 4, 3, 16: Ceterum placuit, ita demum ex hac lege actionem esse, si


quis praecipue corpore suo damnum dederit. Ideoque in eum qui alio
modo damnum dederit, utiles actiones dari solent: veluti si quis homi-
nem alienum aut pecus ita incluserit ut fame necaretur, aut iumentum
tam vehementer egerit ut rumperetur, aut pecus in tantum exagitaverit
ut praecipitaretur, aut si quis alieno servo persuaserit ut in arborem
ascenderet vel in puteum descenderet, et is ascendendo vel descen-
dendo aut mortuus fuerit aut aliqua parte corporis laesus erit, utilis in
eum actio datur. Sed si quis alienum servum de ponte aut ripa in flu-

87. Una soluzione alternativa e radicalmente opposta rispetto a quella adottata in


narrativa, e che comunque si presta a numerose critiche, consiste nel ritenere esclusa
anche l’applicazione dell’azione utile, per ammettere la specialità del rapporto contrat-
tuale, e regolare la responsabilità delle parti in forza della cautio fructuaria: l’Aquilia,
nel caso del non usus, non troverebbe applicazione per l’esistenza di questa cauzione e
non perché, come si vuol far credere, manchi la culpa in faciendo.
88. A. DOVERI, Op. cit., p. 315. Si possono leggere alcuni passi, tra cui D. 9, 2, 7,
1; D. 9, 2, 9 pr. ; D. 9, 2, 11, 5 e D. 9, 2, 29, 2. Il tema è anche analizzato da F. SERAFI-
NI, Op. cit., p. 277.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 119

men deiecerit et is suffocatus fuerit, eo quod proiecerit corpore suo


damnum dedisse non difficiliter intellegi poterit ideoque ipsa lege
Aquilia tenetur. Sed si non corpore damnum fuerit datum neque cor-
pus laesum fuerit, sed alio modo damnum alicui contigit, cum non
sufficit neque directa neque utilis Aquilia, placuit eum qui obnoxius
fuerit in factum actione teneri: veluti si quis, misericordia ductus,
alienum servum compeditum solverit, ut fugeret.

Il passo sembra permeato dall’idea di fondo per cui la fun-


zione del damnum corpore corpori è quella di delimitare l’area
del risarcibile, rappresentando un ottimo compromesso tra una
soddisfazione della lesione economica e una protezione conces-
sa a tutti coloro che svolgono un’azione astrattamente lesiva di
un diritto altrui89.
Questa ricostruzione è sistematicamente apprezzabile, se
non fosse che, nel corso dell’applicazione della legge Aquilia,
ci si accorge dell’esistenza di azioni che – seppur espressive di
un disvalore – non erano suscettibili di essere tutelate, così, una
scelta originariamente mossa da buoni propositi, si rivela nella
pratica priva di efficacia e lacunosa, così da spingere i giuristi,
nuovamente, ad adattare il diritto ai casi della vita: se Tizio
avesse rinchiuso uno schiavo altrui e lo avesse lasciato morire
di fame, egli non si sarebbe potuto citare in giudizio con l’actio
legis Aquiliae, perché, nonostante il danno fosse stato arrecato
corpori, non risultava essere stato compiuto corpore, in quanto
consistente in un’azione omissiva.
Se lo stesso soggetto avesse liberato uno schiavo altrui,
rompendo le catene, non sarebbe stato, per ciò solo, responsabi-
le del danno arrecato al dominus: nonostante il danno sia stato
cagionato corpore90, non è stato arrecato corpori, avendo agito
solamente sulle catene e non sullo schiavo, né, tanto meno, sul
dominus.

89. Il testo giustinianeo è stato da ultimo affrontato da A. CORBINO, Actio directa,


actio utilis e actio in factum nella disciplina giustinianea del danno aquiliano, in
AA.VV., Studi per Giovanni Nicosia, Giuffrè, Milano 2007, p. 1-43.
90. Sull’imputabilità del danno arrecato solamente corpore (cioè col corpo) senza
la lesione del bene cfr. P. ZILIOTTO, L’imputazione del danno aquiliano: tra iniuria e
damnum corpore datum, CEDAM, Padova 2000.
120 La lex Aquilia

Davanti a questi casi, in cui si percepisce il disvalore


dell’azione a cui si è fatto riferimento poco sopra, soccorrerà
l’interpretazione dei giuristi e del pretore91, notandosi quanto
sia labile la differenza che intercorre tra la datio damni corpore
corpori e il danno arrecato corpori ma non corpore. Ripetiamo
il testo delle Istituzioni giustinianee riportato sopra:

I. 4, 3, 16: Veluti si quis hominem alienum aut pecus ita incluserit, ut


fame necaretur; aut jumentum ita vehementer egerit, ut rumperetur;
aut pecus in tantum exagitaverit, ut praecipitaretur; aut alieno servo
persuaserit ut in arborem adscenderet vel in puteum descenderet, et is,
adscendendo vel descendendo, aut mortuus aut aliqua parte corporis
laesus fuerit; aut alienum servum de ponte vel de ripa in flumen deje-
cerit, et is suffocatus fuerit.

Giuristi e pretori (e questi ultimi sulla spinta dei primi) ini-


ziano a interpretare il requisito del damnum corpore corpori
datum in modo sempre più estensivo. S’inizia a concedere una
tutela a quelle fattispecie assimilabili alle ipotesi contemplate
dalla lex Aquilia, e – in particolar modo – al danno che, nono-
stante fosse stato compiuto corpori, e quindi fosse stato lesivo
dell’integrità materiale del bene, fosse stato causato senza lo
sforzo fisico del danneggiante, si inizia a parlare allora del
damnum non corpore datum:

Gaio, 3, 219: Ceterum placuit ita demum ex ista lege actionem esse, si
quis corpore suo damnum dederit; ideoque alio modo damno dato uti-
les actiones dantur, veluti si quis alienum hominem aut pecudem in-
cluserit et fame necaverit, aut iumentum tam vehementer egerit, ut
rumperetur; item si quis alieno servo persuaserit, ut in arborem ascen-
deret vel in puteum descenderet, et is ascendendo aut descendendo ce-
ciderit et aut mortuus fuerit aut aliqua parte corporis laesus sit.

Il passo di Gaio è di particolare interesse, in quanto elenca


una serie di attività che non vengono in alcun modo commesse
corpore. Il giurista mette in luce l’ambito di applicazione della

91. Cfr. sul punto D. 9, 2, 7, 2 e 7; D. 9, 2, 27, 6; D. 9, 2, 27, 22-24 e 33; D, 9, 2, 28


pr.; D. 9, 2, 29,pr. e 4; D. 9, 2, 39 pr.; D. 9, 2, 52 pr. e D. 9, 2, 2. Si può vedere anche D.
19, 2, 30, 2.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 121

lex Aquilia: questa trova applicazione tutte le volte in cui venga


in rilievo un danno cagionato col proprio corpo. Il passo di
Gaio ci informa che il pretore concesse, nelle differenti ipotesi
che si accinge ad elencare, delle azioni utili: se qualcuno rin-
chiude lo schiavo o un animale, facendoli morire di fame, arre-
cherà un danno al dominus, ma non lo cagionerà mediante
un’azione positiva (si quis alienum hominem aut pecudem in-
cluserit et fame necaverit).
Lo stesso si può affermare quando qualcuno iumentum tam
vehementer egerit ut rumperetur: anche in questa ipotesi com-
prendiamo come maltrattare il bestiame, così tanto da farlo
“scoppiare”, prefigura un danno in capo al proprietario. Le stes-
se considerazioni valgono, poi, quando il servo altrui viene per-
suaso a salire su un albero o a calarsi in un pozzo, e, cadendo,
muoia o rimanga ferito (item si quis alieno servo persuaserit, ut
in arborem ascenderet vel in puteum descenderet, et is ascen-
dendo aut descendendo ceciderit et aut mortuus fuerit aut ali-
qua parte corporis laesus sit).
È il servo, in queste ipotesi, ad aver compiuto l’azione e
dunque manca anche qui il requisito corpore necessario per po-
ter esercitare l’actio legis Aquiliae. Queste situazioni, le quali si
discostano dall’ambito di applicazione della tutela aquiliana per
l’assenza di questo requisito, trovano ristoro grazie al pretore,
che – avendo notato una netta similitudine tra queste circostan-
ze e quelle tutelate dalla lex Aquilia – concede delle actiones ad
exemplum. Si tratta di una interpretazione accettata comune-
mente dai giuristi, difatti il passo di Gaio sembrerebbe suggeri-
re che sul punto vi sia già stata una discussione risolta in termi-
ni positivi (ceterarum placuit).
Tra le fonti si legga ancora:

I. 4, 3, 16 fin.: Sed si non corpore damnum fuerit datum, neque corpus


laesum fuerit, sed alio modo damnum alicui contigit, cum non sufficit
neque directa neque utilis Aquilia, placuit eum qui obnoxius fuerit in
factum actione teneri: veluti si quis, misericordia ductus, alienum ser-
vum compeditum solverit, ut fugeret.
122 La lex Aquilia

Con questo passo si esemplifica il massimo sviluppo di ap-


plicazione della tutela aquiliana, prendendo in considerazione
l’ipotesi del soggetto che – mosso da uno spirito di compassio-
ne – decide di liberare il servo altrui. Col proprio comportamen-
to non compie né un’azione positiva (limitandosi a far fuggire il
servo) né danneggia fisicamente una proprietà altrui (il servo
non è ferito), pur tuttavia arreca, indirettamente, una lesione al-
la sfera giuridica del padrone, che si vedrà privato di una pro-
pria res.
È ancora Alfeno Varo, vissuto nel I secolo a.C., e autore
dell’opera Digesta in quaranta libri, a testimoniare l’evoluzione
della tutela concessa in via pretoria. Egli profila un’ipotesi in
cui il danno risulta esser cagionato nec corpore nec corpori; il
passo di sotto riportato è esemplificativo dell’evoluzione com-
piuta dalla giurisprudenza, la quale capovolge, letteralmente, i
requisiti per agire con la lex Aquilia:

Alfeno Varo, 3 a Paulo epitomarum, D. 19, 5, 23: Duo secundum Ti-


berim cum ambularent, alter eorum ei, qui secum ambulabat, rogatus
anulum ostendit, ut respiceret: illi excidit anulus et in Tiberim devolu-
tus est. Respondit posse agi cum eo in factum actione.

Nel frammento testé riportato si assiste alla presenza di due


uomini che passeggiano lungo il fiume Tevere. Uno dei due,
pregato in tal senso, mostra l’anello al compagno, porgendo-
glielo, ma – accidentalmente – l’anello cade nel fiume, e si
perde. È possibile, in una siffatta ipotesi, agire in factum actio-
ne, tra l’altro, in dottrina si è osservato che, almeno in un primo
momento, un’ipotesi come quella dianzi presentata doveva es-
sere ricompresa nell’ambito del furto, che «in epoca preclassi-
ca, doveva abbracciare qualsiasi comportamento doloso da cui
derivasse la perdita di un bene per il suo proprietario. Tuttavia,
precisatisi gli elementi essenziali della contrectatio, ossia del
contatto materiale con la cosa altrui, nonché del dolo specifico
consistente nel fine di lucro, le ipotesi di danneggiamento di cui ci
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 123

occupiamo non potevano più venire sanzionate a questo titolo»92.


Nel caso riportato manca il requisito corpore perché il dan-
no non è cagionato col corpo dell’offensore, ma non solo: man-
ca anche il requisito corpori, poiché l’anello, cadendo nel Teve-
re, non risulta in alcun modo leso, rectius l’azione del danneg-
giante non lede il corpo del bene, inteso come struttura fisica.
Appare plausibile l’opinione di Lucetta Desanti, secondo la
quale in origine (cioè al tempo di Alfeno Varo) questo e gli altri
casi in cui il pretore concedeva azioni utili sarebbero stati indi-
pendenti dalla legge Aquilia, e sarebbero stati attratti progressi-
vamente nella sua orbita ad opera della giurisprudenza di età
imperiale.
La letteratura giurisprudenziale latina propone ulteriori ipo-
tesi di danno cagionato nec corpore nec corpori, come, ad
esempio, un celeberrimo passo di Ulpiano, che riporta un re-
sponso di Labeone:

Ulpiano, 37 ad edictum, D. 47, 2, 50, 4: Cum eo, qui pannum rubrum


ostendit fugavitque pecus, ut in fures incideret, si quidem dolo malo
fecit, furti actio est: sed et si non furti faciendi causa hoc fecit, non
debet impunitus esse lusus tam perniciosus: idcirco Labeo scribit in
factum dandam actionem.

Il passo del giurista contempla due ipotesi differenti: nella


prima un soggetto mette in fuga il bestiame altrui, affinché ven-
ga catturato dai ladri, e lo fa con dolo malo. In questa ipotesi
egli sarà tenuto con l’actio furti e si aprirà spazio per la compli-
cità93. Nella seconda ipotesi, ed è quella che interessa ai fini
della ricerca qui svolta, il soggetto ha messo sì in fuga il be-
stiame agitando un panno rosso, ma questa volta non lo ha fatto
con lo scopo che incappasse nei ladri, ma per giuco (lusus): La-
beone scrive che egli non può restare impunito ma deve essere
sanzionato mediante un’azione concessa in factum, perché non
sarebbe conforme a giustizia che una condotta così dannosa

92. L. DESANTI, Op. cit., p. 77.


93. Sul dolo si può rinviare alla lettura di G. MACCORMACK, Sciens dolo malo, in
AA.VV., Soliditas. Scritti in onore di Antonio Guarino, Giuffrè, Napoli 1984, p. 1445 ss.
124 La lex Aquilia

(tam perniciosus) restasse impunita (si tratta, verosimilmente,


dell’opinione di Ulpiano, che ricerca la ratio della decisione di
Labeone). Si tratta di un’altra ipotesi di danno, che non è cagio-
nata né corpore, in quanto manca un’azione materiale
dell’offensore, il quale si limita a sventolare, più genericamen-
te, un panno rosso, né corpori, poiché è il bestiame stesso, che
– impaurito – si allontana incappando, casualmente, nei ladri.
Labeone nota come questa fattispecie, pur non ricadendo nel li-
mitato spettro dell’actio legis Aquiliae, è degna di essere tutelata.
Ulpiano ci riporta poi una preziosa testimonianza di Pompo-
nio, che analizza l’ipotesi in cui un soggetto abbia gettato in
mare un calice d’argento. L’agente, lungi dal voler ottenere un
profitto economico (infatti, non fa suo il prezioso monile) vuole
semplicemente arrecare un danno al proprietario:

Ulpiano, 41 ad Sabinum, D. 19, 5, 14, 2: Sed et si calicem argenteum


quis alienum in profundum abiecerit damni dandi causa, non lucri fa-
ciendi, Pomponiius libro septimo decimo ad Sabinum scripsit neque
furti neque damni iniuriae actionem esse, in factum tamen agendum.

In questa ipotesi, non vi è un danno cagionato corpore, né


corpori, in quanto non viene danneggiata la struttura intima del
calice, che semplicemente viene lasciato cadere nelle profondità
marine. Pomponio scrive che in tale circostanza non fosse pos-
sibile agire con l’actio furti né sulla base della lex Aquilia, ma
una siffatta ipotesi non poteva restare priva di tutela. In tal sen-
so si spiega la concessione, da parte del pretore, di un’azione
nel fatto. La tutela aquiliana sembra essere l’azione più adegua-
ta per tutelare il proprietario. Potrebbe darsi che l’azione utile e
l’evoluzione giurisprudenziale della lex Aquilia siano anche do-
vute alle delimitazioni applicative delle altre azioni: da un lato
gli stringenti requisiti della responsabilità extracontrattuale,
dall’altra l’applicazione circoscritta delle altre azioni, rendono
necessaria la creazione di una sfera di responsabilità suscettibile
di applicazione estensiva, basti pensare che nello stesso passo
dianzi riportato l’azione di furto è inesplicabile perché l’agente
non ha ottenuto nessun lucro, mancando il noto requisito della
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 125

lucri faciendi causa.


Altro passo degno di nota è collocato nel quarantunesimo li-
bro dei Digesta e si tratta di una testimonianza di Proculo:

Proculo, 2 epistolarum, D. 41, 1, 55: In laqueum, quem venandi causa


posueras, aper incidit: cum eo haereret, exemptum eum abstuli: num
tibi videor tuum aprum abstulisse? et si tuum putas fuisse, si solutum
eum in silvam dimisissem, eo casu tuus esse desisset an maneret? et
quam actionem mecum haberes, si desisset tuus esse, num in factum
dari oportet, quaero. Respondit: laqueum videamus ne intersit in pu-
blico an in privato posuerim et, si in privato posui, utrum in meo an in
alieno, et, si in alieno, utrum permissu eius cuius fundus erat an non
permissu eius posuerim: praeterea utrum in eo ita haeserit aper, ut ex-
pedire se non possit ipse, an diutius luctando expediturus se fuerit.
Summam tamen hanc puto esse, ut, si in meam potestatem pervenit,
meus factus sit. Sin autem aprum meum ferum in suam naturalem la-
xitatem dimisisses et eo facto meus esse desisset, actionem mihi in
factum dari oportere, veluti responsum est, cum quidam poculum alte-
rius ex nave eiecisset.

Colui che avrà cagionato un danno, liberando un cinghiale


catturato da altri, sarà tenuto non in base alla lex Aquilia ma in
base a un’azione concessa in factum.
La situazione è talmente degna di tutela che il giurista utiliz-
za il verbo oportere, cioè “essere necessario”: da un punto di
vista grammaticale è interessante notare come l’utilizzo del
verbo oportere è spesso correlato al dovere del magistrato di
concedere un’azione, invece l’azione “in fatto” è sempre rimes-
sa alla volontà del pretore, che – esaminato il caso concreto –
dovrà decidere se la situazione possa considerarsi o meno degna
di tutela. Ciò lascia immaginare che siamo innanzi a un caso
pratico così facilmente delineabile da prefigurarsi un vero e
proprio dovere, per il pretore, di concedere l’azione, tant’è che
il giurista paragona il caso all’ipotesi in cui Tizio abbia lancia-
to, da una nave, un calice altrui in mare (quidam poculum alte-
rius ex nave eiecisset) che ricorda, per contenuto, quanto già vi-
sto in D. 19, 5, 14, 2.
126 La lex Aquilia

4.4. La damni datio rebus alienis. Il danno arrecato al bene


necessariamente altrui e criteri applicativi

Il terzo requisito per poter agire ex lege Aquilia è la necessità


d’infliggere il danno a una cosa altrui. Dunque, il danneggia-
mento deve colpire la res aliena. Alla regola generale, si con-
trappongono delle ipotesi particolari e che necessitano di un
adattamento della legge alle esigenze pratiche, come nel caso in
cui un servo in comproprietà venga ucciso da uno dei proprieta-
ri: questi non risponderà integralmente del danno, ma solo limi-
tatamente a quella parte di cui non è proprietario (pro ea parte
tenetur, pro qua dominus non est), e pertanto sottraendo al va-
lore del servo la percentuale di sua proprietà, come emerge dal-
la lettura di due passi di Ulpiano:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 19: Sed si communem servum occi-


derit quis, Aquilia teneri eum Celsus ait: idem est et si vulneraverit.

Ulpiano, 42 ad Sabinum, D. 9, 2, 20: Scilicet pro ea parte, pro qua


dominus est qui agat.

Per converso, bisogna ritenere che questo principio non si


possa applicare agli animali selvatici, in quanto questi non ap-
partengono a nessuno, situazione che – a propria volta – differi-
sce dal caso in cui gli animali siano sotto custodia o nel caso in
cui siano dotati dell’animus revertendi94, però va specificato
che, nel momento in cui l’animale perda l’animus revertendi95
ritornando nello stato di natura (et in naturalem libertatem se
receperit), suscettibile di costituire di nuovo una proprietà altrui
(et rursus occupantis fit), una volta adempiuto l’onere probato-
rio, si estenderà nuovamente la disciplina prevista per gli ani-
mali selvatici, e l’agente non potrà essere responsabile del dan-
no provocato:

94. D. 9, 2, 27, 12; D. 10, 2, 8, 1 e D. 41, 1, 5, 5. Sul tema ha scritto, con precisio-
ne, P. ZAMORANI, Precario habere, Giuffrè, Milano 1968; e cfr. IDEM, Possessio e ani-
mus. I, Giuffrè, Milano 1977.
95. Cfr. anche D. 9, 1, 1, 10.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 127

I. 2, 1, 12 fin.: Quidquid autem eorum ceperis, eo usque tuum esse in-


tellegitur, donec tua custodia coercetur: cum vero evaserit custodiam
tuam et in naturalem libertatem se receperit, tuum esse desinit et rur-
sus occupantis fit. Naturalem autem libertatem recipere intellegitur,
cum vel oculos tuos effugerit vel ita sit in conspectu tuo, ut difficilis
sit eius persecutio.

Emerge fin da subito il binomio legge Aquilia-danneggiamento


di un bene altrui, binomio che conduce a escludere (forse sempre
nell’ottica di delimitazione della responsabilità) tutto ciò che
non appartiene a un soggetto preciso. Si è giustamente osserva-
to che tutte quelle volte in cui la lex Aquilia è messa in rapporto
con gli animali selvatici non ci «si riferisce ad un animale allo
stato brado», ma si «vuole indicare o quello catturato durante
una battuta di caccia, ovvero, per lo più, una fera bestia allevata
nei vivai o cresciuta in gabbia; non vi è dubbio che tal fera bestia
è in proprietà di colui che la detiene»96. Insieme all’esempio de-
gli animali selvatici, si può ricordare l’ipotesi del danno arreca-
to ai sepolcri e alle statue, che – essendo dei beni religiosi97 –
non possono costituire una proprietà privata98, suscettibile di
un’autonoma valutazione economica, in quanto il valore venale
del bene sembrerebbe corrispondere all’interesse della colletti-
vità, né gioverebbe riferirsi al ius sepeliendi99 per giustificare
un’applicazione estensiva della tutela aquiliana, trattandosi non
di una proprietà privata strettamente intesa, quanto di una situa-
zione solo per alcuni versi riconducibile al diritto reale in que-
stione, tanto che si parla di una situazione vicina, ma non iden-
tica, al diritto di proprietà (dominio proximum100):

96. G. POLARA, Le “venationes”. Fenomeno economico e ricostruzione giuridica,


Giuffrè, Milano 1983, p. 156.
97. D. 43, 24, 11, 2 e D. 47, 12, 2. Il tema è trattato con precisione, in F. BUONA-
MICI, Il delitto di violato sepolcro, Tip. Nistri, Pisa 1873, p. 36 e 38.
98. Per quanto riguarda l’occupazione delle res, per acquisirne la proprietà, si legga
S. ROMANO, L’occupazione delle res derelictae nel diritto romano, T.E.S.A., Fabriano
1930. Sul tema cfr. anche IDEM, Studi sulla derelizione nel diritto romano, CEDAM,
Padova 1933.
99. Il ius sepeliendi e il diritto romano classico sono analizzati in P. VOCI, Diritto
sacro romano in età arcaica, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 1953, p. 44-109.
100. Che non si tratti di un vero e proprio diritto di proprietà lo si può argomentare sulla
base di D. 3, 44, 13; D. 6, 37, 14 e D. 11, 7, 5-6 e 9. Si rimanda a P.G. CASTELLARI, Op.
128 La lex Aquilia

Ulpiano, 71 ad edictum, D. 43, 24, 11, 2: Si quis de monumento sta-


tuam sustulerit, an ei, ad quem ius sepulchri pertineret, agere permitti-
tur? et placet et in his interdicto locum esse. Et sane dicendum est, si
qua sepulchri ornandi causa adposita sint, sepulchri esse videri. Idem
est et si ostium avellat vel effringat.

Da un lato è vero che la legge Aquilia verrà estesa anche alla


tutela dei diritti reali diversi dalla proprietà privata, ma il vero
problema di fondo – nel caso affrontato – riguarda anche
l’essenza più intima della religione nel mondo romano. In altri
termini, se è vero che non è possibile agire in forza dell’azione
diretta, potrebbe sostenersi che un’azione utile, diretta a tutelare
anche le situazioni diverse dal diritto di proprietà, sia astratta-
mente configurabile; tuttavia le esigenze fattuali limitano il ri-
corso alla legge Aquilia: non dunque un limite del diritto e
dell’applicabilità della legge, quanto – anche questa volta –
un’esigenza pratica, che rende molto più conveniente concedere
il quod vi aut clam, che va a sanzionare il danno provocato con
violenza o clandestinamente: ciò in quanto solo attraverso il ri-
corso a questo interdetto è possibile condannare l’agente non
solo al risarcimento del danno, ma anche al ripristino dei luoghi
danneggiati101, in un ambiente, come quello romano, in cui
l’interesse collettivo verso la religione caratterizza trasversal-
mente la società, e gli stessi interessi economici (magari suscet-
tibili di una maggiore valutazione ex lege Aquilia) passano in
secondo piano rispetto alla venerazione pagana del mondo degli
estinti.

4.5. Il damnum datum: l’effettività del danno e la contem-


poraneità della lesione

Quarto e ultimo requisito per poter agire in forza della legge


Aquilia è che venga in rilievo un damnum datum: un danno
“verificato”, e, dunque, effettivo. Da un punto di vista sistema-

cit., p. 50.
101. D. 43, 24, 1, 1; D. 43, 24, 15, 7-12.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 129

tico questo requisito avvicina la legge Aquilia ad altre azioni,


che richiedono il medesimo presupposto dell’effettività del
danno come il quod vi aut clam, il de effusis et deiectis o il de
servo corrupto e – di converso – allontana la legge Aquilia da
tutte quelle ipotesi in cui si contempla un danno solamente “te-
muto” ed eventuale, come ad esempio la cautio damni infecti e
la novi operis nuntiatio102 .
L’effettività del danno, requisito apparentemente semplice,
offre il campo a interessanti questioni dottrinali e giurispruden-
ziali, non sempre di facile soluzione. Un primo problema viene
in rilievo quando il danno è arrecato da più persone. In queste
situazioni non si può discutere sulla responsabilità degli agenti,
quanto più sul grado di essa rapportato al danno. Si discute, par-
ticolarmente, se debba trovare applicazione il primo o il terzo
capo della legge. Il caso esemplificativo – trattato da Ulpiano in
D. 9, 2, 11, 2 – riguarda l’ipotesi in cui un servo venga ucciso
da più persone:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 11, 2: Sed si plures servum percusse-


rint, utrum omnes quasi occiderint teneantur, videamus. et si quidem
apparet cuius ictu perierit, ille quasi occiderit tenetur: quod si non ap-
paret, omnes quasi occiderint teneri Iulianus ait, et si cum uno agatur,
ceteri non liberantur: nam ex lege Aquilia quod alius praestitit, alium
non relevat, cum sit poena.

Giuliano, 86 digestorum, D. 9, 2, 51, 1: Idque est consequens auctori-


tati veterum, qui, cum a pluribus idem servus ita vulneratus esset, ut
non appareret cuius ictu perisset, omnes lege aquilia teneri iudicaverunt.

Il tutto ruota intorno alla identificazione o meno del primo


agente: se questi è facilmente identificabile, egli sarà responsa-
bile ex capite primo103 e sarà responsabile del risarcimento del
danno perché sembra essere il responsabile della morte, sebbe-
ne attraverso il ricorso alla presunzione (ille quasi occiderit te-
netur). S’impone una diversa soluzione nel caso in cui l’identità
del primo agente sia sconosciuta, in questa circostanza si pre-

102. P.G. CASTELLARI, Op. cit., p. 50.


103. Ulpiano dice si quidem apparet cuius ictu servus perierit.
130 La lex Aquilia

suppone che tutti siano responsabili dell’uccisione (omnes quasi


occiderint tenentur). In queste due particolari situazioni, il dirit-
to fa un passo indietro e l’equitas un passo avanti: si verifica
una perdita di effettività del nesso di causalità e
un’accentuazione di una giustizia concreta, volta a ristorare
economicamente il soggetto che ha subito una lesione patrimo-
niale: solo così si comprende perché l’identificazione del primo
agente, fa passare in secondo piano l’identificazione e il ruolo
assunto dagli altri agenti, invece, nel caso in cui ciò non sia
possibile, si prevede una responsabilità solidare, per evitare che
il dominus sia privato di una tutela effettiva. Non si tratta di una
soluzione isolata, ma di un vero e proprio orientamento conso-
lidato, Ulpiano invoca l’opinione di Giuliano e questi, a propria
volta, fa riferimento all’autorità di non meglio precisati veteres:
consequens auctoritati veterum. Lucetta Desanti individua que-
sti veteres nei “più antichi giuristi”104 . Il che non fa fare un pas-
so in avanti nella soluzione del problema di identificazione di
questi veteres105.
Giuliano non nasconde la ratio decidendi della propria scelta
notando che da un lato è impossibile applicare l’Aquilia al vero
colpevole per l’incertezza su chi sia l’autore del danno e
dall’altro sarebbe assurdo che il delitto rimanesse impunito. A
parere di chi scrive, e come sopra detto, sarebbe questa la vera
giustificazione, in quanto dire che la responsabilità solidale
soccombe all’incertezza sull’autore del danno non è in grado di
giustificare il motivo per cui l’identificazione del primo autore
fa passare in secondo piano la responsabilità degli altri agenti:

104. L. DESANTI, Op. cit., p. 50.


105. Sull’identificazione dei veteres hanno scritto in molti: tra questi cfr. M. BRE-
TONE, La nozione romana di usufrutto, I, Jovene, Napoli 1962; O. BEHRENDS, Les “ve-
teres” et la nouvelle jurisprudence romaine, in Révue Historique du Droit Romain et
étranger, 1977, p. 7 ss.; F. HORAK, Wer waren die veteres? Zur Terminologie der
klassischen römischen Juristen, in Vestigia iuris romani: Festschrift für Gunter Wesen-
er zum 60. Geburtstag am 3. Juni 1992, Leykam, Graz 1992, p. 201-236; C.A. CANNA-
TA, Quod veteres constituerunt, Sul significato originario della ‘Perpetuatio obliga-
tionis’, in M.J. SCHERMAIER, J.M. RAINER, L.C. WINKEL (a cura di), Iurisprudentia uni-
versalis, Festschrift für Th. Mayer-Maly, Böhlau, Cologne-Weimar-Vienne 2002, p. 85 ss.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 131

Giuliano, 86 digestorum, D. 9, 2, 51, 2: Aestimatio autem perempti


non eadem in utriusque persona fiet: nam qui prior vulneravit, tantum
praestabit, quanto in anno proximo homo plurimi fuerit repetitis ex die
vulneris trecentum sexaginta quinque diebus, posterior in id tenebitur,
quanti homo plurimi venire poterit in anno proximo, quo vita excessit,
in quo pretium quoque hereditatis erit. Eiusdem ergo servi occisi no-
mine alius maiorem, alius minorem aestimationem praestabit, nec mi-
rum, cum uterque eorum ex diversa causa et diversis temporibus occi-
disse hominem intellegatur. Quod si quis absurde a nobis haec consti-
tui putaverit, cogitet longe absurdius constitui neutrum lege aquilia
teneri aut alterum potius, cum neque impunita maleficia esse oporteat
nec facile constitui possit, uter potius lege teneatur. Multa autem iure
civili contra rationem disputandi pro utilitate communi recepta esse
innumerabilibus rebus probari potest: unum interim posuisse conten-
tus ero. Cum plures trabem alienam furandi causa sustulerint, quam
singuli ferre non possent, furti actione omnes teneri existimantur,
quamvis subtili ratione dici possit neminem eorum teneri, quia nemi-
nem verum sit eam sustulisse.

4.6. I casi particolari della condotta frazionata nel tempo e


il danno indiretto

Il caso affrontato fino a questo momento ha per presupposto


l’intervento contemporaneo degli agenti, mentre un’ipotesi dif-
ferente attiene al caso in cui il danno si verifichi a causa delle
azioni di più soggetti, che si susseguono cronologicamente,
aprendosi anche un problema riguardante il ruolo del caso for-
tuito tra un’azione e l’altra. In materia sembra esserci un con-
trasto giurisprudenziale tra Ulpiano e Giuliano106.
A una prima lettura, può dirsi che Ulpiano sostiene che il
primo agente sia responsabile delle ferite (de vulnerato), mentre
al secondo dev’essere imputato l’evento morte (de occiso). Giu-
liano sembrerebbe giungere a una conclusione diversa, ponendo
i due agenti sul medesimo piano, e affermando che entrambi
dovranno rispondere de occiso:

106. Il rapporto tra il pensiero dei due giuristi è analizzato in P.G. CASTELLARI, Op.
cit., p. 51-54, di cui si riporta, con un debito approfondimento, il pensiero in narrativa.
132 La lex Aquilia

Giuliano, 86 digestorum, D. 9, 2, 51: Ita vulneratus est servus, ut eo


ictu certum esset moriturum: medio deinde tempore heres institutus
est et postea ab alio ictus decessit: quaero, an cum utroque de occiso
lege Aquilia agi possit. Respondit: occidisse dicitur vulgo quidem, qui
mortis causam quolibet modo praebuit: sed lege Aquilia is demum te-
neri visus est, qui adhibita vi et quasi manu causam mortis praebuis-
set, tracta videlicet interpretatione vocis a caedendo et a caede. rursus
Aquilia lege teneri existimati sunt non solum qui ita vulnerassent, ut
confestim vita privarent, sed etiam hi, quorum ex vulnere certum esset
aliquem vita excessurum. Igitur si quis servo mortiferum vulnus infli-
xerit eundemque alius ex intervallo ita percusserit, ut maturius interfi-
ceretur, quam ex priore vulnere moriturus fuerat, statuendum est
utrumque eorum lege Aquilia teneri.

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 11, 3: Si alius tenuit, alius interemit,


is qui tenuit, quasi causam mortis praebuit, in factum actione tenetur.

In realtà la differenza tra i due passi si spiega in forza di fatti


differenti, nel senso che il caso esaminato da Ulpiano ha per
presupposto che il primo agente ha arrecato una lesione sì letale
(vulnus mortiferum), ma inidonea a uccidere il servo senza
l’azione del secondo agente, ponendosi non come condizione
esclusiva quanto più come una conditio sine qua non, lo stesso
Ulpiano invoca l’opinione di Celso, che contrappone alla lesio-
ne mortale del primo agente, l’azione del secondo agente che
uccide il servo; e questa interpretazione è ritenuta “più attendi-
bile” anche dallo stesso Marcello (quod et Marcello videtur et
est probabilius):

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 11, 3: Celsus scribit, si alius mortife-


ro vulnere percusserit, alius postea exanimaverit, priorem quidem non
teneri quasi occiderit, sed quasi vulneraverit, quia ex alio vulnere pe-
riit, posteriorem teneri, quia occidit. Quod et Marcello videtur et est
probabilius.

L’attenzione va posta, come osservato, sulla condotta del se-


condo agente (alius postea examinaverit), sufficiente a inter-
rompere il nesso di causalità tra la condotta del primo agente e
l’evento morte, difatti sarebbe astrattamente immaginabile che
il servo si sarebbe potuto salvare in forza di un evento che – per
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 133

colpa del secondo aggressore – non si è verificato, restando


l’ineludibile constatazione per cui il servo è morto a causa di
un’altra ferita (ex alio vulnere periit).
Perché Giuliano sostiene, invece, una doppia responsabilità
per la morte del servo? Cambia la connotazione fattuale della
ferita causata dal primo agente: questa è talmente grave da ren-
dere certa la morte del servo (ita vulneratus est servus ut eo ictu
certum esset moriturum oppure, per usare una differente espres-
sione, vulnus, ex quo certum esset aliquem vita excessurum), la
seconda condotta altro non fa che anticipare l’evento morte,
mentre il nesso causale è tutto improntato tra l’azione del primo
agente e la morte, ponendosi la condotta del secondo agente
quale elemento accidentale, che fa di quest’ultimo aggressore la
persona sbagliata al momento sbagliato: la sua “accessorietà”
non lo renderà esente dalla responsabilità ex lege Aquilia. Cer-
to, una trattazione a parte meriterebbe il fondamento della re-
sponsabilità del secondo agente alla luce del fatto che già la
prima condotta avrebbe condotto alla morte del servo, quindi
perché Giuliano estende anche a questo soggetto la responsabi-
lità? Il problema, più che attenere a una circostanza di diritto
sostanziale, sembra evocare un problema processuale connesso
all’applicazione della legge Aquilia, che, nel suo significato let-
terale, richiede l’esistenza di un’azione diretta e immediata.
Giuliano corregge questa interpretazione e disattende la corri-
spondenza tra il verbo occidere e l’azione univoca dell’agente,
favorendo piuttosto un’estensione operativa della lex Aquilia.
Se questo è il tema che vede impegnato Giuliano, Ulpiano si
focalizza su un altro problema, ossia se la ferita mortale condu-
ce sempre all’imputabilità de occiso e lo nega nel proprio passo,
affermando che il primo agente non può considerarsi responsa-
bile dell’uccisione perché, essendo la morte provocata dalla se-
conda ferita, è incerto sapere se la morte si sarebbe ugualmente
verificata. Ulpiano continua a esaminare questo aspetto del nes-
so causale, fino a giungere alle considerazione nel caso descrit-
to in D. 9, 2, 15, 1 in cui prende in esame anche il caso fortuito:
il servo, sebbene ferito “mortalmente” (ricordando che con que-
sta espressione s’intende una ferita solo astrattamente idonea ad
134 La lex Aquilia

arrecare la morte), muore a causa di una ruina vel naufragio vel


alio ictu:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 15, 1: Si servus vulneratus mortifere


postea ruina vel naufragio vel alio ictu maturius perierit, de occiso agi
non posse, sed quasi de vulnerato, sed si manumissus vel alienatus ex
vulnere periit, quasi de occiso agi posse Iulianus ait. Haec ita tam va-
rie, quia verum est eum a te occisum tunc cum vulnerabas, quod mor-
tuo eo demum apparuit: at in superiore non est passa ruina apparere an
sit occisus. Sed si vulneratum mortifere liberum et heredem esse ius-
seris, deinde decesserit, heredem eius agere Aquilia non posse.

Conformemente al proprio punto di vista, egli sostiene che


colui che arreca la ferita debba rispondere solamente de vulne-
ratu. Fatto questo esempio, cita un passo di Giuliano che fa ri-
ferimento all’ipotesi di un servo manumissus vel alienatus,
morto a seguito delle ferite (ex vulnere periit): in questo caso
bisogna stabilire se il padrone possa chiedere il risarcimento del
danno nel caso in cui il servo muoia dopo la vendita, ma sempre
a causa delle stesse ferite che gli erano state inferte. Sia Giulia-
no che Ulpiano ammettono la soluzione positiva, perché le feri-
te hanno provocato la morte del servo, per cui l’assalitore dovrà
rispondere dell’evento (de occiso e non de vulnerato). Sottoli-
nea il giurista verum est a te occisum tunc cum vulnerabas,
quod mortuo eo demum apparuit. Questa circostanza viene con-
trapposta all’ipotesi in cui il servo sia morto a causa di un even-
to sopravvenuto, che rende del tutto incerto il nesso causale tra
le ferite e la morte, motivo per cui si preferisce imputare
all’aggressore solo la ferita e non anche la morte del servo.
Il passo in oggetto permette di mettere in luce l’ambito –
sempre più in espansione – della legge Aquilia, infatti iniziano
a trovare tutela anche i casi in cui il danno non è il risultato di
un’azione diretta, come quando il medico, invece di sommini-
strare la cura, somministra il veleno107 ; quando un soggetto for-
nisce delle armi all’incapace d’intendere o di volere108, quando

107. D. 9, 2, 7, 8 e D. 9, 2, 9, 1.
108. D. 9, 2, 7, 6.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 135

ancora si sottraggono le vesti al servo, nel pieno dell’inverno,


provocandone la morte109 , e decine di esempi simili vengono ri-
portati dai giuristi110. Analizzando queste ipotesi emerge imme-
diatamente la mancanza di un collegamento tra l’agente e il
danno provocato: si tratta di ipotesi in cui viene a mancare, tal-
volta, anche il requisito del danno inferto corpore o corpori,
che – a questo punto della trattazione – si può dire che fossero
concepiti come elementi presuntivi di una responsabilità diretta,
che, nell’elaborazione giurisprudenziale, lascia spazio alla ri-
cerca delle condotte che facilitano la realizzazione del danno.
La differenza tra le soluzioni adottate dai giuristi si spiega an-
che alla luce del valore che gli stessi affidano agli eventi ipote-
tici, e cioè a tutte quelle situazioni, da collocarsi cronologica-
mente tra la condotta dell’agente e il danno stesso, idonee a in-
terrompere il nesso di causalità (e da sé sufficienti a provocare
l’evento) oppure idonee a ripristinare la situazione iniziale: nei
tre casi riportati in narrativa potrebbe trattarsi, rispettivamente,
dell’uso di un antidoto, dell’azione di un terzo che decide di
sottrarre l’arma all’incapace d’intendere e di volere oppure del
fornire delle vesti al servo per ripararlo dal freddo. Una volta
verificata l’inesistenza di uno di questi eventi, i giuristi accolla-
no la responsabilità al soggetto che ha dato inizio all’evento che
poi si è dimostrato idoneo a provocare il danno. La differenza
esposta incontra una descrizione precisa nel linguaggio tecnico
dei giuristi, che utilizzano l’espressione damnum datum per ri-
collegarsi alla lesione immediata e diretta del bene, mentre ri-
corrono alla evocativa figura della causam damni praebere, per
indicare l’azione del soggetto che “prepara” la situazione di fat-

109. D. 19, 5, 14.


110. Si possono ricordare i casi in cui l’agente, urtando un’altra persona, gli arreca
un danno (D. 9, 2, 7), oppure la condotta di chi non somministra il cibo al servo o agli
animali, lasciandoli morire di fame (D. 9, 2, 16 e D. 9, 2, 9, 2), chi obbliga il servo a sa-
lire su un albero o a scendere in un pozzo, e successivamente, questi, cadendo, muoia o
rimanga ferito (D. 9, 2, 16). Si può ancora ricordare la condotta di chi tiene fermo un
servo, che viene ucciso dal complice (D. 9, 2, 11, 1) oppure chi, facendo del fumo, cau-
sa la fuga delle api dall’alveare (D. 9, 2, 49 pr.) e – infine – chi fa disperdere il vino,
danneggiando la botte o provoca un danno al grano, seminando piante infestive (D. 9, 2,
17, 20 e D. 9, 2, 17, 35).
136 La lex Aquilia

to idonea al verificarsi del danno:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 7, 6: Celsus autem multum interesse


dicit, occiderit an mortis causam praestiterit, ut qui mortis causam
praestitit, non Aquilia, sed in factum actione teneatur. unde adfert eum
qui venenum pro medicamento dedit et ait causam mortis praestitisse,
quemadmodum eum qui furenti gladium porrexit: nam nec hunc lege
Aquilia teneri, sed in factum.

Si tratta di un’evoluzione giurisprudenziale del plebiscito,


che sicuramente va riconnessa alla scomparsa del binomio cor-
pore-corpori. Uno degli esempi più importanti riguarda il man-
dato ad uccidere, per cui risponderà dell’uccisione il mandante,
sempre che questi possieda il ius imperandi sul mandatario111. Il
vincolo tra i due soggetti sostituisce, con il ricorso a una finzio-
ne, l’azione materiale, per cui sarà civilmente responsabile co-
lui che ha ordinato l’uccisione (eo est qui iussit):

Giavoleno, 14 ex Cassio, D. 9, 2, 37 pr.: Liber homo si iussu alterius


manu iniuriam dedit, actio legis Aquiliae cum eo est qui iussit, si mo-
do ius imperandi habuit: quod si non habuit, cum eo agendum est qui
fecit.

Paolo, 2 ad Plautium, D. 50, 17, 169 pr.: Is damnum dat, qui iubet da-
re: eius vero nulla culpa est, cui parere necesse sit.

Contro il mandante è possibile esperire due azioni: innanzi-


tutto l’Aquilia per ammettere il risarcimento del danno econo-
mico, mediante il pagamento di una somma di denaro. In se-
condo luogo è concessa l’actio decemviralis, per costringere il
padrone ad effettuare la noxae deditio dello schiavo sicario di
cui si è avvalso per commettere l’omicidio. Il passo di Paolo è
didascalico, perché provoca il danno (damnum dat) colui che ha
ordinato l’azione (qui iubet dare), e successivamente ritiene che
non è configurabile alcuna responsabilità in capo a quel sogget-
to obbligato a obbedire (eius vero nulla culpa est, cui parere
necesse est), tuttavia il carattere quasi sistematico di questo in-

111. P.G. CASTELLARI, Op. cit., p. 56.


IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 137

ciso fa sorgere qualche dubbio sulla sua riconducibilità al pen-


siero di Paolo, potendosi trattare di una interpolazione giusti-
nianea circa la (non) rilevanza dell’elemento soggettivo nel ca-
so in esame.
Il testo di Ulpiano è interessante:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 4, 2, 1: Is qui non prohibuit, sive domi-


nus manet sive desiit esse dominus, hac actione tenetur: sufficit enim,
si eo tempore dominus, quo non prohibeat, fuit, in tantum, ut Celsus
putet, si fuerit alienatus servus in totum vel in partem vel manumis-
sus, noxam caput non sequi: nam servum nihil deliquisse, qui domino
iubenti obtemperavit. Et sane si iussit, potest hoc dici: si autem non
prohibuit, quemadmodum factum servi excusabimus? Celsus tamen
differentiam facit inter legem Aquiliam et legem duodecim tabularum:
nam in lege antiqua, si servus sciente domino furtum fecit vel aliam
noxam commisit, servi nomine actio est noxalis nec dominus suo no-
mine tenetur, at in lege Aquilia, inquit, dominus suo nomine tenetur,
non servi. Utriusque legis reddit rationem, duodecim tabularum, quasi
voluerit servos dominis in hac re non obtemperare, Aquiliae, quasi
ignoverit servo, qui domino paruit, periturus si non fecisset. Sed si
placeat, quod Iulianus libro octagensimo sexto scribit "si servus fur-
tum faxit noxiamve nocuit" etiam ad posteriores leges pertinere, pote-
rit dici etiam servi nomine cum domino agi posse noxali iudicio, ut
quod detur Aquilia adversus dominum, non servum excuset, sed do-
minum oneret. Nos autem secundum Iulianum probavimus, quae sen-
tentia habet rationem et a Marcello apud Iulianum probatur.

Come già si è avuto modo di osservare sul mandato ad ucci-


dere, le leggi delle XII Tavole prevedono la concessione a nos-
sa del servo112, stabilendo un trattamento meno favorevole ri-
spetto alla legge Aquilia e sanzionando il disvalore dell’azione
del servo, il passo dianzi riportato «tratteggia le linee essenziali
di un sistema sensibile all’atteggiamento “soggettivo”
dell’esercente la potestà solo dopo l’avvento del plebiscito
aquiliano»113 , infatti la lex Aquilia affida un ruolo preminente al
concetto della colpa e a tutti quelli elementi idonei a distorcere

112. Un approfondimento della responsabilità nossale in M. SARGENTI, Limiti, fon-


damento e natura della responsabilità nossale in diritto romano, Garzanti, Pavia 1950.
113. S. GALEOTTI, Op. cit., p. 234.
138 La lex Aquilia

l’autodeterminazione individuale114 . Nella disciplina in esame,


si è ben consapevoli che il servo che esegue un’uccisione per
conto del proprio padrone non lo fa dolosamente, ma lo fa per-
ché spinto dal timore di poter subire, a propria volta, un danno
dal proprio dominus, per non aver obbedito al comando (quasi
ignoverit servo, qui domino paruit, periturus si non fecisset),
per cui la propria volontà di agire è fortemente compromessa
dall’ingiusto comando del padrone, insomma, per ricorrere a
un’altra espressione di grande successo di D. 50, 17, 4 laddove
non è ravvisabile la volontà dell’agente, non è possibile confi-
gurare un principio di colpa (ubi nulla est voluntas nulla est
culpa).
In un’ottica ormai pervasa dall’elemento soggettivo, intorno
al quale ruota tutto il giudizio di responsabilità, sembrerebbe
non trovare facile spiegazione la concessione sia dell’azione
aquiliana sia dell’azione nossale. Va escluso che quest’ultima
possa offrire una tutela maggiore rispetto all’ampia sperimenta-
zione dell’actio legis aquiliae, e la sua concessione è spiegabile
solo dove intesa come strumento sussidiario a tutela del credito:
laddove il mandante non possa far fronte al pagamento del dan-
no, così come calcolato in applicazione della legge Aquilia,
quest’ultima non avrà raggiunto il proprio scopo115 , e, in assen-
za di ulteriori forme di tutela, il danneggiato potrà ottenere la
noxae deditio, confermandosi così la regola per cui «chi sia al
corrente della noxia del servus non potrà più liberarsi della
condemnatio attraverso la dazione a nossa: contro di lui, infatti,
si agirà sine (o detracta) noxae deditione, per far valere, suo
nomine, una responsabilità in solidum, cioè per l’intera somma
della condanna»116.
Visto il caso del mandato ad uccidere, nel prossimo paragra-
fo si vedranno le ipotesi della responsabilità oggettiva, così co-
me emergono dalle fonti.

114. D 1, 8, 2 e D. 1, 6, 1, 1. Si può confrontare anche Gaio, 1, 3. In questi passi


emerge che il ius vitae et necis viene abolito da Antonino Pio e da Costantino.
115. D. 9, 2, 3; D. 39, 2, 7, 1 e D. 47, 10, 1.
116. S. GALEOTTI, Op. cit., p. 234.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 139

4.7. La responsabilità oggettiva nella configurazione dei


casi pratici

L’elaborazione dottrinale della responsabilità oggettiva, tipica


della letteratura giuridica di fine XIX secolo guarda con favore
agli analoghi casi del diritto romano, laddove i giuristi pongono
l’attenzione sul danno, sull’azione e sul nesso causale, esclu-
dendo la ricerca dell’elemento soggettivo. Questa teoria era sor-
ta in Germania e fu seguita, poi, da alcuni scrittori in Francia e
in Italia117. Il legislatore moderno ha così ritenuto di dover con-
cedere una tutela maggiore a quel soggetto che subisce un dan-
no in forza di particolari azioni, la cui messa in atto è già un si-
nonimo di responsabilità, esulando il danneggiato dalla prova
dell’elemento soggettivo. La teoria della responsabilità oggetti-
va riveste un duplice effetto: da un lato una maggior sicurezza
in capo ai danneggiati (che potranno contare su una posizione
processuale di favore) e dall’altro una richiesta legale di presta-
re un’attenzione superiore nello svolgimento di certe attività.
Torniamo al «diritto romano privato e puro», per dirla con
Anton Heimberger118 . Preso in considerazione il caso del man-
dato, è necessario dedicare qualche osservazione alla responsa-

117. C. CAVAGNARI, La responsabilità civile nella giurisprudenza, in Scuola posi-


tiva, 1895, p. 349 ss.; G. VENEZIAN, Danni e risarcimento fuori dei contratti, in Opere
Giuridiche, I, Studi sulle obbligazioni, Athenaeum, Roma 1919; N. COVIELLO, Art. cit.,
p. 23; L. BARASSI, Art. cit.; C.F. GABBA, Contributo alla teoria del danno e del risar-
cimento in materia di danno incolpevole, Nota a Corte di Appello di Bologna, 31 di-
cembre 1898, in Giurisprudenza Italiana, 1899, p. 738 e 748 ss.; G. GIORGI, Nota alla
sentenza citata del Tribunale di Roma, Ricciotti c. Parboni, in Diritto commerciale,
1911, p. 59. In giurisprudenza cfr. Appello Genova, 30 luglio 1912, Garcia c. Ferrovie
dello Stato, in Temi Genovese, raccolta di giurisprudenza in materia civile, commercia-
le amministrativa, finanziaria e penale: collezione ordinata della giurisprudenza della
Corte d'appello di Genova: repertorio completo della giurisprudenza commerciale ita-
liana, Volumi 1-37, 1889-1928, Stabilimento tipo-litografico dell’Annuario Generale
d’Italia, 1889, 1912, p. 588.
Il principio giuridico della responsabilità oggettiva, così formulato con mirabile
perspicuità dai giuristi latini, è passato in tutte le legislazioni oggi vigenti. A titolo
esemplificativo possono ricordarsi i § 1308, 1309 e 1310 del cod. civ. austriaco; i §§
823-829 del cod. civ. germanico, l’art. 42 e seguenti del codice svizzero delle obbliga-
zioni, 30 marzo 1911.
118. A. HEIMBERGER, Il diritto romano privato e puro, tr. it., Tipografia di C. Co-
lombi, Bellinzona 1851.
140 La lex Aquilia

bilità oggettiva119 strettamente intesa: fa sorgere responsabilità


anche il damnum prodotto dai propri servi o dipendenti120, in
questi casi viene in rilievo la responsabilità, rispettivamente, del
dominus e del datore di lavoro per i fatti commessi dai propri
sottoposti121 . Si legga il seguente passo:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 27, 11: Proculus ait, cum coloni servi


villam exussissent, colonum vel ex locato vel lege aquilia teneri, ita ut
colonus possit servos noxae dedere, et si uno iudicio res esset iudicata,
altero amplius non agendum. Sed haec ita, si culpa colonus careret:
ceterum si noxios servos habuit, damni eum iniuria teneri, cur tales
habuit. Idem servandum et circa inquilinorum insulae personas scribit:
quae sententia habet rationem.

Proculo riporta il caso dell’appaltatore, che impiega i propri


lavoratori all’interno di una villa, giungendo a due differenti so-
luzioni a seconda o meno che sia a conoscenza delle intenzioni
dei propri sottoposti.
In realtà, nel caso in esame, graverebbe una sorta di presun-
zione circa la conoscenza, in capo all’appaltatore, delle inten-
zioni dei propri dipendenti, in quanto a Roma era piuttosto dif-
fuso – come le fonti classiche testimoniano122 – l’utilizzo, nelle
campagne, di quei servi che non erano considerati, per varie ra-
gioni, idonei a poter lavorare nelle abitazioni cittadine, difatti
Sara Galeotti ha osservato, operando un parallelismo tra il co-
lono e la figura, di più largo respiro, del dominus, che il padro-
ne conosce il carattere dei propri lavoratori, perché egli «so-
vraintende all’assegnazione delle mansioni lavorative»123 .
In questo caso, e cioè nel caso in cui il datore di lavoro sia
consapevole delle intenzioni dei propri lavoratori, egli non sarà
considerato responsabile per la scelta del proprio personale, co-

119. Cfr. R. ROBAYE, Responsabilité objective et subjective en droit romain. Que-


stions de terminologie et de méthode, TR, 1990, p. 345 ss.
120. Sulla responsabilità per fatto altrui si può far riferimento a F. SERRAO, La re-
sponsabilità per fatto altrui, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano “Vittorio Scia-
loja”, 1964, p. 19 ss.
121. D. 13, 7, 31 e D. 25, 2, 21, 2.
122. A. GELLIO, Noctes Atticae, 18, 12 e G. PLINIO, Naturalis Historia, 18, 6.
123. S. GALEOTTI, Op. cit., p. 249.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 141

sa che avrebbe importato semmai il ricorso alla deditio124 , ma il


fondamento della sua responsabilità andrà ricercato nel fatto
che egli abbia deciso ugualmente di farli lavorare (damni eum
iniuria teneri cur tales servos habuit), per cui egli sarà condan-
nato all’aestimatio damni, ciò non toglie che il colono possa
dimostrare la propria diligenza, che assume il ruolo di prova li-
beratoria, in questo caso – però – rimarrà sempre la condanna
alla noxae deditio: in tale circostanza sì, allora, può dirsi che il
colono verrà condannato per non aver “scelto bene” i propri
servi, prefigurandosi la moderna culpa in eligendo, anche se va
detto che i giuristi classici non usarono mai questa espressione,
trattandosi sempre di ipotesi riconducibili alla responsabilità
oggettiva.
Nel caso in cui il colono non conosca le intenzioni del pro-
prio dipendente si ricade in una situazione simile a quella dianzi
vista: il colono sarà solamente obbligato a concedere il servo a
nossa, sia per quanto riguarda l’actio locati sia per quanto ri-
guarda l’actio legis Aquiliae e ciò lo si può notare nella parte
del passo in cui si ammette la possibilità per il colono di conce-
dere a nossa il servo (ut colonus possit servum noxae dedere):
sembrerebbe prefigurarsi un concorso elettivo tra le due azioni,
«una responsabilità diretta che gli viene dal dovere di praestare
la restituzione della res locata integra, pertanto tenere, secondo
i contenuti del contratto, un comportamento diligente (anche e
soprattutto nella scelta degli “strumenti” di cui si serve)»125.
La scelta fatta propria dai giuristi si basa sul fatto che il
danno, provocato dal dipendente, non possa soggettivamente
imputarsi al colono, difatti si legge che haec ita, si culpa co-
lonus careret: la parola “colpa” non essendo accompagnata da
nessun aggettivo, va concepita come una culpa levis, per cui
l’actio locati verrà esperita in via nossale perché il non cono-
scere il carattere dei propri dipendenti non può configurare una
culpa lata, ma solamente una colpa lieve, che si pone quale pre-
supposto per ricorrere alla deditio, solo qualora non sia imputa-

124. Cfr. D. 4, 9, 7, 4; D. 19, 2, 11; D. 39, 4, 1, 6 e 3.


125. S. GALEOTTI, Op. cit., p. 249.
142 La lex Aquilia

bile in capo al colono – ma il discorso è estendibile anche al


dominus in generale – una «imperdonabile trascuratezza»126 .
Inoltre, va aggiunta la considerazione che l’utilizzo dell’azione
nossale serve a rendere, in parte, il colono irresponsabile della
colpa dei servi, per certi versi assimilabile alla posizione del
venditore che non può essere condannato alll’aestimatio damni
per i danni che i suoi servi hanno provocato al bene venduto ma
non ancora consegnato. Nonostante la possibilità, dunque, di at-
tenuare la responsabilità del colono, che può dimostrare la pro-
pria diligenza, l’azione nossale va comunque a punire una colpa
lieve, consistente nella scelta del proprio personale: ben si
comprende come è tuttavia difficile ravvisare in questa azione
un vero e proprio principio di colpa, motivo per cui si può rite-
nere che il passo oggetto di discussione, laddove fa riferimento
alla colpa, sia stato interpolato. La prova sarebbe data dal con-
fronto della redazione giustinianea del testo con quella presente
nella Collatio:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. Collatio Legum Mosai-


9, 2, 27, 11: Proculus ait, carum et Romanarum,
cum coloni servi villam 12, 7, 1. ULPIANUS li-
exussissent, colonum vel bro XVIII ad edictum,
ex locato vel lege aquilia sub titulo si fatebitur
teneri, ita ut colonus possit iniuria occisum esse in
servos noxae dedere, et si simplum et cum diceret:
uno iudicio res esset iudi- […] 9. Sed et si qui ser-
cata, altero amplius non vi inquilini insulam
agendum. Sed haec ita, exusserint, libro X Ur-
si culpa co- seius refert Sabinum re-
lonus careret: spondisse lege Aquilia
ceterum si noxios servos servorum nomine domi-
habuit, damni eum iniuria num noxali iudicio con-
teneri, cur tales habuit. veniendum: ex locato
idem servandum et circa autem dominum teneri
inquilinorum insulae per- negat. Proculus autem
sonas scribit: quae senten- respondit, cum coloni
tia habet rationem. servi villam exusserint,
colonum vel ex locato
vel lege Aquilia teneri,

126. Ibidem, p. 248.


IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 143

ita ut colonus servos


posset noxae dedere et
si uno iudicio res esset
iudicata, altero amplius
non agendum.

Come si può vedere, nella versione del passo conservata nel-


la Collatio sono presenti cospicui riferimenti al ius controver-
sum (l’opposizione tra Proculo ed Urseio Feroce), ma è assente
la locuzione si culpa colonus careret. I giuristi classici avrebbe-
ro fatto sempre riferimento al “rischio” e non a una colpa pre-
sunta127 in habendo o in eligendo128. Si ritiene che questi riferi-
menti siano delle aggiunte dei compilatori giustinianei: il per-
ché dell’interpolazione potrebbe ravvisarsi nel tentativo dei
compilatori di dare coerenza sistematica alla responsabilità
aquiliana, ricercando – anche laddove mancava – un riferimento
all’elemento soggettivo, oppure potrebbe considerarsi una mera
aggiunta “descrittiva”, come ad esplicare il contenuto del passo
mediante un paragone, paragone poi oggetto di incomprensione
storica nella ricezione del modello, inducendo la dottrina mo-
derna a riferirsi a una colpa, in realtà, inesistente e mai immagi-
nata dai giuristi classici129. Caso ulteriore è dato dall’ipotesi in

127. Ad esempio, D. 4, 9, 7 pr. sulla responsabilità dell’armatore. I criteri


d’imputazione della colpa sono fatti oggetto di un’attenta analisi nell’opera monografi-
ca di S. SCHIPANI, Op. cit., 1969. Sul tema anche D. MAFFEI, Armatore. Diritto romano
e intermedio, in Enciclopedia del Diritto, Giuffrè, Milano 1958, p. 10-13.
128. Per un approfondimento, anche in chiave comparatistica, sul tema cfr. R.
SACCO, Culpa in contrahendo e culpa aquilia, culpa in eligendo e apparenza, in Rivista
di Diritto Commerciale, 1951, p. 86 ss. Ancora G. MACCORMACK, Culpa in eligendo,
in Révue Internationale des Droits de l’Antiquité, IIIe s., 18, 1971, p. 525-551; IDEM,
Aquilian Culpa, in Daube noster, cit., p. 201 ss.; O. TELLEGEN-COUPERUS, The limits
of culpa levissima, in Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis, 76, 2008, p. 19-25.
129. Questo genere di colpa, sconosciuto al diritto classico, viene recepito dagli or-
dinamenti moderni in virtù delle interpolazioni dei compilatori giustinianei, recepite, a
propria volta, dal diritto comune: sul tema cfr. S. SCHIPANI, La codificazione del diritto
romano comune, Giappichelli, Torino 1999. Sullo stesso argomento IDEM, Diritto ro-
mano e attuali esigenze della responsabilità civile: pluralità di prospettive e ruolo della
culpa come criterio elaborato della scienza del diritto nell’interpretazione della Lex
Aquilia, Wydawnictwo Uniwersytetu Warszawskiego (Varsavia) 1985. Cfr. anche, già
prima, S. RICCOBONO, Corso di diritto romano: formazione e sviluppo del diritto ro-
mano dalle XII tavole a Giustiniano, parte 2, Giuffrè, Milano 1933-1934. Per un appro-
fondimento sull’evoluzione del diritto in epoca giustinianea, interessanti riflessioni si
144 La lex Aquilia

cui si assiste all’acquiescenza del dominus innanzi al delitto com-


piuto dal servo, il padrone qui sarà tenuto personalmente (suo no-
mine) e solidalmente (in solidum130). Non sorprende leggere il se-
guente inciso:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 4, 2: Si servus sciente domino occidit,


in solidum dominum obligat, ipse enim videtur dominus occidisse: si
autem insciente, noxalis est, nec enim debuit ex maleficio servi in plus
teneri, quam ut noxae eum dedat.

Questa responsabilità si spiega perché il padrone, pur aven-


do il potere d’impedire il compimento del fatto, non si è curato
che il proprio servo non arrecasse un danno ingiusto al terzo.
Una responsabilità oggettiva potrebbe venire in rilievo quando
lo schiavo pone in essere un danneggiamento inscio aut invito
eo, e cioè senza che il padrone conosca le sue intenzioni, tro-
vando spazio – in questa diversa circostanza - l’actio Aquilia
sperimentata noxaliter131 , legittimato passivo, però, è solamente
il proprietario del servo, a differenza di quanto avviene per tutte
le altre azioni esperibili in via nossale anche contro il possessore.
La differenza sta nel rilievo che la responsabilità è accordata
al padrone in forza del suo diritto di proprietà132:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 27, 3: Servi autem occidentis nomine


dominus tenetur, is vero cui bona fide servit non tenetur. Sed an is,
qui servum in fuga habet, teneatur nomine eius Aquiliae actione,
quaeritur: et ait Iulianus teneri et est verissimum: cum et Marcellus
consentit.

rinvengono in L. DE GIOVANNI, Introduzione allo studio del diritto romano tardoanti-


co: lezioni, Jovene, Napoli 2000. Sul tema ha scritto nel passato, con riferimento al ri-
sarcimento del danno, N. NATALI, Nozioni storiche e concetto generale del risarcimen-
to del danno nella legislazione decemvirale e nella legge aquilia, Società Editoriale Li-
braria, Milano 1896. Per una visione generale sulla legislazione giustinianea cfr.
AA.VA., Legislazione, cultura giuridica, prassi dell’impero d’Oriente in età giustinia-
nea tra passato e futuro. Atti del Convegno (Modena 21-22 maggio 1998), Giuffré, Mi-
lano 2000.
130. D. 9, 4, 2 pr.
131. D. 4, 8, 4 e D. 9, 2, 27, 1 e 11.
132. Lo si può argomentare da D. 41, 2, 13.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 145

Esistono determinate circostanze in cui il padrone non sarà


responsabile dell’azione del proprio servo: si pensi all’ipotesi
dello schiavo in comproprietà133 che uccide, a insaputa di uno
dei proprietari, il servo che appartiene a un terzo soggetto134 .
Secondo Ulpiano, in una situazione di questo genere, il servo
non potrà essere concesso a nossa, perché appartiene a più
comproprietari, per cui il danneggiato – a cui non sarà concessa
la tutela aquiliana – potrà agire in forza dell’actio communi di-
vidundo, quodammodo noxalis135.
Tra le ipotesi di responsabilità oggettiva vanno annoverati
anche i quasi delicta: accanto alla responsabilità del proprieta-
rio per i danni cagionati da animali, merita attenzione, anche
per la sua valenza sistematica all’interno del Codice civile au-
striaco, la responsabilità derivante dai danni cagionati da cose
che siano state versate o gettate da un’abitazione. Un passo si-
gnificativo si rinviene in Ulpiano:

Ulpiano, 23 ad edictum, D. 9, 3, 5, 3: Si horrearius aliquid deiecerit


vel effuderit aut conductor apothecae vel qui in hoc dumtaxat conduc-
tum locum habebat, ut ibi opus faciat vel doceat, in factum actioni lo-
cus est, etiam si quis operantium deiecerit vel effuderit vel si quis di-
scentium.

Ulpiano ricorda l’ipotesi in cui un soggetto abbia gettato de-


gli oggetti dall’abitazione, provocando un danno: si tratta di un
chiaro esempio di responsabilità oggettiva, del danno non ri-
sponderà colui che realmente ha gettato l’oggetto, provocando
il danno, ma sarà presunta una responsabilità in capo
all’habitator.
Assume rilievo, nel mondo romano, la responsabilità deri-
vante dai danni che i clienti avessero subito dai sottoposti degli
exercitores, responsabilità propria degli armatori, degli alberga-
tori e degli stallieri:

133. Sulla comproprietà in diritto romano cfr. A. DELL’ORO, Le cose collettive nel
diritto romano, Giuffrè, Milano 1963. Si ricorda che il servus viene annoverato tra le
res, motivo per cui non è legittimato ad esercitare l’azione diretta, che compete al padrone.
134. D. 9, 2, 27, 1.
135. Cfr. D. 9, 2, 27, 1 e D. 9, 4, 41.
146 La lex Aquilia

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 4, 9, 7 pr.: Debet exercitor omnium nauta-


rum suorum, sive liberi sint sive servi, factum praestare: nec immerito
factum eorum praestat, cum ipse eos suo periculo adhibuerit. Sed non
alias praestat, quam si in ipsa nave damnum datum sit: ceterum si ex-
tra navem licet a nautis, non praestabit. Item si praedixerit, ut unu-
squisque vectorum res suas servet neque damnum se praestaturum, et
consenserint vectores praedictioni, non convenitur.

Si nota come emerge una responsabilità oggettiva in capo


agli exercitores per i danni che i loro sottoposti avessero cagio-
nato, nel luogo e nel periodo di lavoro, ma solo limitatamente
all’ipotesi che essi (il magister navis o l’institor) fossero liberi
(nel qual caso ai creditori sarebbero state concesse l’actio exer-
citoria o institoria utiles).
Si tratta di una responsabilità oggettiva molto particolare che
presuppone tre considerazioni: a) prima di tutto va osservato
come, nel caso qui prospettato, assume rilievo lo svolgimento di
un’attività economica (cuius commoda, eius et incommoda), per
cui si tratterà del normale rischio connesso allo svolgimento di
particolari mestieri, che presuppongono guadagni e spese su-
scettibili di essere ricondotti al medesimo quadro operativo; b)
emerge una nuova funzione della responsabilità aquiliana,
scompare la funzione punitiva del danno, ed emerge la funzione
ristoratrice, volta a riparare la sfera economica del danneggiato;
c) si prevede una prova liberatoria in capo all’esercente specifi-
cando la propria volontà di non rispondere delle azioni compiu-
te dai propri lavoratori, con espressa accettazione dei vectores.
Fino a questo punto della trattazione emerge una chiara se-
parazione tra la responsabilità soggettiva, inquadrata nella lex
Aquilia, e la responsabilità oggettiva, mancante di qualsivoglia
ricerca della volontà dell’agente. Questa netta divisione, come
ho già accennato prima, tende a scomparire in età tardo-antica e
giustinianea, in cui – ricorrendo all’uso di formule ambigue – si
vuole rapportare la responsabilità oggettiva a una colpa inesistente:

Ulpiano, 23 ad edictum, D. 9, 3, 1, 4: Haec in factum actio in eum


datur, qui inhabitat, cum quid deiceretur vel effunderetur, non in do-
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 147

minum aedium: culpa enim penes eum est. Nec adicitur culpae mentio
vel infitiationis, ut in duplum detur actio, quamvis damni iniuriae
utrumque exiget.

Si è già detto che quella dell’habitator è una responsabilità


oggettiva, per cui è davvero improbabile che Ulpiano cerchi
adesso di ricondurla a un’ipotesi di colpa ravvisando un com-
portamento colposo nell’habitator, laddove questi non ha ade-
guatamente vigilato sull’abitazione (e anche sul comportamento
dei propri ospiti), per cui l’inciso culpa enim penes eum est va
considerata un’interpolazione giustinianea136 con cui si cerca di
avvicinare la disciplina del de effusis vel deiectis alla legge
Aquilia.
Non mancano altri esempi in cui è riscontrabile una simile
tendenza: nell’ipotesi di un incendio provocato dal servo, già
sopra visto, si dice che il colono poteva essere in colpa qualora
avesse posseduto dei servi poco affidabili. In tale ipotesi il co-
lono sarebbe stato responsabile non in via nossale, ma ex lege
Aquilia, come è espresso in D. 9, 2, 27, 11: sed haec ita, si cul-
pa colonus careret: ceterum si noxios servos habuit, damni eum
iniuria teneri, cur tales habuit. L’interpolazione del riferimento
alla culpa, come abbiamo visto sopra, è provata dal confronto
tra la versione contenuta nel Digesto e quella trasmessa da Col-
latio, 12, 7, 1, 9137 .

136. Sull’evoluzione del diritto romano dall’epoca classica fino a quella giustinia-
nea, con particolare riferimento ai motivi che hanno spinto a tale evoluzione, E. AL-
BERTARIO, I fattori della evoluzione del diritto romano postclassico e la formazione del
diritto romano giustinianeo, Apollinaris, Roma 1935. Sempre dello stesso autore, per
una visione storica sul tema, IDEM, Introduzione storica allo studio del diritto romano
giustinianeo, Giuffrè, Milano 1935 e P. DE FRANCISCI, Sintesi storica del diritto roma-
no, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1962 e S. RICCOBONO, Profilo storico del diritto priva-
to romano, Herbita, Palermo 1976. Ancora sull’evoluzione del diritto romano nel tardo
impero, secondo varie prospettive, ha scritto M. SARGENTI, Studi sul diritto del tardo
impero, CEDAM, Padova 1986 e L. DE GIOVANNI, Diritto romano tardoantico, Jove-
ne, Napoli 2001. Per quanto riguarda le istituzioni, spunti in B. BRUGI, Istituzioni di di-
ritto romano: diritto privato Giustinianeo, UTET, Torino 1926. Per una visione invece
diacronica cfr. B. BRUGI, Diritto romano classico, diritto giustinianeo, diritto romano
comune, Direzione dell’Archivio giuridico, Pisa 1904; L. LANTELLA, E. STOLFI, Profili
diacronici di diritto romano, Giappichelli, Torino 2005.
137. Ricordiamo nuovamente il passo della Collatio: Sed et si qui servi inquilini
insulam exusserint, libro X Urseius refert Sabinum respondisse lege Aquilia servorum
148 La lex Aquilia

Dei mutamenti sembrano anche riscontrarsi nella responsa-


bilità degli exercitores a seguito dei furti compiuti dai propri
sottoposti. La culpa sarebbe data, anche in questa ipotesi,
dall’aver scelto delle persone poco accorte o affidabili:

Gaio, 3 aur., D. 44, 7, 5, 6138 : Item exercitor navis aut cauponae aut
stabuli de damno aut furto, quod in nave aut caupona aut stabulo fac-
tum sit, quasi ex maleficio teneri videtur, si modo ipsius nullum est
maleficium, sed alicuius eorum, quorum opera navem aut cauponam
aut stabulum exerceret: cum enim neque ex contractu sit adversus
eum constituta haec actio et aliquatenus culpae reus est, quod opera
malorum hominum uteretur, ideo quasi ex maleficio teneri videtur.

Il passo – che ribadisce un concetto ormai noto al lettore – si


sostanzia nell’affermazione di principio (probabilmente oggetto
di interpolazione) per cui la responsabilità si fonda sulla colpa,
consistente nell’aver utilizzato lavoratori poco affidabili (cul-
pae reus est, quod opera malorum hominum uteretur, ideo qua-
si ex maleficio teneri videtur).
L’interpolazione è attuata a livello sistematico per simulare
l’esistenza di un elemento soggettivo in capo agli exercitores139 ,
a titolo del tutto esemplificativo si può ricordare D. 4, 9, 7, 4,
dove i compilatori giustinianei, modificando il pensiero di Ul-
piano, dicono che la colpa vada ricercata nell’errata scelta fatta
dall’esercente (culpae scilicet suae qui tales adhibuit). Si tratta
di una linea di pensiero inconciliabile con i cardini della re-
sponsabilità extracontrattuale di epoca classica, in un contesto –

nomine dominum noxali iudicio conveniendum: ex locato autem dominum teneri negat.
Proculus autem respondit, cum coloni servi villam exusserint, colonum vel ex locato vel
lege Aquilia teneri, ita ut colonus servos posset noxae dedere et si uno iudicio res esset
iudicata, altero amplius non agendum. Per un approfondimento sulle collezioni bizanti-
ne cfr. S. RICCOBONO, Tracce di diritto romano classico nelle collezioni giuridiche bi-
zantine, Istituto di diritto romano, Roma 1907. Ma la Collatio è stata oggetto di nume-
rosi studi: E. VOLTERRA, Collatio Legum Mosaicarum et Romanarum, in Atti della
Reale Accademia Nazionale dei Lincei, Memorie, VI, 1930; e G. BARONE ADESI, L’età
della Lex Dei, Jovene, Napoli 1992.
138. Corrispondente a quanto si legge in I. 4, 5, 3.
139. In argomento cfr. ora R. FERCIA, Criteri di responsabilità dell’exercitor. Mo-
delli culturali dell’attribuzione di rischio e “regime” della nossalità nelle azioni penali
in factum contra nautas, Giappichelli, Torino 2003.
IV. I requisiti per agire ex lege Aquilia 149

quello delle attività economiche – in cui il risarcimento del


danno assume piena valenza riparatoria, sollevando il danneg-
giato dalla prova dell’elemento soggettivo, già insito nel rischio
d’esercizio dell’attività e letto specularmente all’osservazione
di Ulpiano, secondo cui gli exercitores non erano responsabili
dei danni provocati dai propri clienti, perché non avevano la fa-
coltà di sceglierli e respingerli140.

140. D. 47, 5, 1, 6.
Capitolo V

La stima del danno

5.1. L’aestimatio damni: qual è il danno risarcibile?


Cenni

La stima del danno è uno degli aspetti della legge Aquilia al


centro di una grande evoluzione giurisprudenziale. L’idea del
legislatore romano è quella di restaurare la sfera economica del
soggetto danneggiato. È evidente che la tutela apprestata si basa
su una stima fittizia del danno, tanto che la stessa legge Aquilia
è citata dai civilisti contemporanei come esempio di danno pu-
nitivo. La modalità di calcolo del danno prende in considera-
zione, infatti, il valore massimo del bene nell’ultimo anno (se si
agisce in forza del primo capo) o negli ultimi trenta giorni (se si
agisce in forza del terzo capo). Questa formulazione contempla
un danno che può dirsi per certi versi punitivo, perché
s’immagina la lesione come se fosse avvenuta nel momento in
cui la res avesse il suo massimo valore, salvo quanto accennato
nella parte dedicata al problema di datazione della legge Aquilia,
con riferimento anche alle teorie, avanzate da una parte della dot-
trina, che ravvisano nella modalità di stima del danno un valido
rimedio all’inflazione. Al momento può dirsi che la legge Aqui-
lia contempla solo inizialmente un danno punitivo, ma – grazie
all’evoluzione pretoria – si prenderanno in considerazione delle
voci di risarcimento, come il danno emergente e il lucro cessan-
te, che avvicineranno il risarcimento fittizio o “modello” al caso
concreto.
Inizialmente, il carattere punitivo lo si evince dalla dizione
damnum iniuria datum e dall’annoveramento della condotta tra
i delicta, i quali prevedono il ricorso alla sanzione penale, san-

151
152 La lex Aquilia

zione che – all’interno della legge Aquilia – svolge il solo com-


pito di punire l’agente, fino a quando i giuristi sposteranno
l’attenzione dal danneggiante al danneggiato, ricollegando il
damnum a qualsivoglia lesione patrimoniale:

Paolo, 47 ad edictum, D. 39, 2, 3: Damnum et damnatio ab ademptio-


ne et quasi deminutione patrimonii.

In un primo momento i verba legis permettono di prendere


in considerazione la sola aestimatio rei1, che pertanto si identi-
fica con l’aestimatio damni. Questa rigida visione è destinata a
lasciare spazio a una valutazione del danno pragmatica, che
adatta il diritto alle esigenze concrete della vita. Accanto ai cri-
teri legali di calcolo, che rappresentano la natura punitiva
dell’Aquilia, si aggiungeranno dei parametri più elastici che
imporranno ai giuristi di calarsi nelle realtà di ogni giorno.

5.2. Il lucro cessante e il danno emergente: le nuove frontie-


re del danno risarcibile

Così, grazie all’elaborazione pretoria, il danno cagionato non si


basa più sulla sola aestimatio rei, ma contempla anche
l’aestimatio utilitatis amissae2. Ciò impone una valutazione più
ponderata del caso concreto, e impone a prendere in considera-
zione non solo il valore del bene nel momento del danneggia-
mento (o, più correttamente, all’eventuale maggior valore del
passato), ma induce a considerare anche l’eventuale (e maggio-
re) valore che il bene avrebbe potuto avere nel futuro. Bisogna

1. Cfr. C.A. CANNATA, In tema di “aestimatio rei” nell’azione aquiliana, in Studia


et Documenta Historiae et Iuris, 1992, p. 386 ss.
2. D. 9, 2, 7 pr. e D. 9, 2, 40. Tuttavia, l’utilitas rei lascerà spazio a un criterio mol-
to più ampio, che è quello dell’id quod interest. Quest’ultimo concetto è unitario e non
frammentato come il primo e comprende tanto l’aestimatio rei quanto l’utilitas amissa,
come messo in luce da G. VALDITARA, Dall’aestimatio rei all’id quod interest
nell’applicazione della condemnatio aquiliana, in La responsabilità civile da atto illeci-
to nella prospettiva storico-comparatistica. Atti del Congresso ARISTEC, Madrid
1993, Torino 1995, p. 76 ss.
V. La stima del danno 153

prendere in considerazione ciò che è andato perso, ma anche ciò


che si sarebbe potuto evitare di spendere, qualora non si fosse
verificato il danno. Saranno risarciti i costi sostenuti a seguito
della condotta nociva (il danno emergente) e il denaro che si è
perso a causa della mancata disponibilità del bene (il lucro ces-
sante3). Il seguente passo mette in luce il punto di approdo giu-
risprudenziale, tipico di un ordinamento giuridico pienamente
sviluppato:

Paolo, 2 ad Plautium, D. 9, 2, 33 pr.: Si servum meum occidisti, non


affectiones aestimandas esse puto, veluti si filium tuum naturalem
quis occiderit quem tu magno emptum velles, sed quanti omnibus va-
leret. Sextus quoque Pedius ait pretia rerum non ex affectione nec uti-
litate singulorum, sed communiter fungi: itaque eum, qui filium natu-
ralem possidet, non eo locupletiorem esse, quod eum plurimo, si alius
possideret, redempturus fuit, nec illum, qui filium alienum possideat,
tantum habere, quanti eum patri vendere posset. In lege enim aquilia
damnum consequimur: et amisisse dicemur, quod aut consequi potui-
mus aut erogare cogimur.

3. Sono molteplici i passi nei quali viene preso in considerazione il danno risarcibi-
le: per completezza si possono riportare i passi più interessanti nei quali emerge la por-
tata delle regola a cui approda, senza particolari difficoltà, la giurisprudenza pretoria. D.
9, 2, 23, 4: Sed et si servus, qui magnas fraudes in meis rationibus commiserat, fuerit
occisus, de quo quaestionem habere destinaveram, ut fraudium participes eruerentur,
rectissime Labeo scribit tanti aestimandum quanti mea intererat fraudes servi per eum
commisas detegi, non quanti noxa ipsius servi valeat; D. 9, 2, 22, 1: Proinde si servum
occidisti, quem sub poena tradendum promisi, utilitas venit in hoc iudicium. Item cau-
sae corpori cohaerentes aestimantur: veluti si quis ex comoedis aut symphoniacis aut
gemellis aut quadriga pari mularum unum vel unam occiderit. Non solum enim peremp-
ti corporis aestimatio facienda est, sed et eius ratio haberi debet, quo coetere corpora
depretiata sunt. Circa il danno emergente si possono ricordare D. 9, 2, 37, 1: Si qua-
drupes, cuius nomine actio esset cum domino, quod pauperiem fecisset, ab alio occisa
est, et cum eo lege Aquilia agitur, aestimatio non ad corpus quadrupedis sed ad causam
eius, in quo de pauperie actio est, referri debet et tanti damnandus es is, qui occidit, iu-
dicio legis Aquiliae, quanti actoris interest noxae potius deditione defungi, quam litis
aestimatione; D. 9, 2, 10: Illud non ex verbis legis sed ex interpretatione placuit, non
solum peremti corporis aestimationem habendam esse secundum ea, quae diximus; se-
de o amplius, quicquid praeterea peremto eo corpore damni nobis illatum fuerit: veluti
si servum tuum haeredem ab aliquo institutum ante quis occiderit quam is iussu tuo
haereditatem adierit; nam haereditatis quoque amissae rationem esse habendam con-
stat. Item si ex pari mularum unam, vel ex quadrigis equorum unum quis occiderit, vel
ex comoedis unus servus occisus fuerit, non solum occisi fit aestimatio, sed eo amplius
id quoque computantur, quanti depretiati sunt qui supersunt.
154 La lex Aquilia

Su questo testo ci si soffermetà più avanti per il chiaro rife-


rimento al danno morale, in questa sede va osservata la conclu-
sione di Paolo, secondo cui – con la legge Aquilia – si vuole ot-
tenere sia ciò che si è economicamente perso (aut consequi po-
tuimus) sia ciò che si è stati costretti a spendere (aut erogare
cogimur).
In determinati casi può avvenire che calcolare il lucro cessan-
te, e cioè il mancato guadagno, comporti delle difficoltà, come
quando viene reso illeggibile un testamento4 o un chirografo:

Paolo, 3 ad edictum, D. 9, 2, 40: In lege Aquilia, si deletum chiro-


graphum mihi esse dicam, in quo sub condicione mihi pecunia debita
fuerit, et interim testibus quoque id probare possim, qui testes possunt
non esse eo tempore, quo condicio extitit, et si summatim re exposita
ad suspicionem iudicem adducam, debeam vincere: sed tunc condem-
nationis exactio competit, cum debiti condicio extiterit: quod si defe-
cerit, condemnatio nullas vires habebit.

Nel caso del testamento danneggiato si possono verificare


due situazioni tra loro alternative: la parte potrà provare – con
altri mezzi – il contenuto del testamento, in questo caso egli
non sarà pregiudicato nei suoi diritti5 e non sarà necessario che
agisca con la legge Aquilia, ma se invece non sarà capace di
provare il contenuto del testamento non potrà ugualmente agire
ex lege Aquilia, perché non avrà alcuno strumento per offrire un
sicuro calcolo del danno, soluzione ammissibile solamente
all’interno di un ordinamento giuridico e in una concezione del-
la responsabilità aquiliana ormai lontana dall’ambito punitivo e
sempre più vicina alla funzione risarcitoria, non standardizzata
e consapevole dei limiti pratici:

Ulpiano, 41 ad Sabinum, D. 9, 2, 41 pr.: Si quis testamentum deleve-


rit, an damni iniuriae actio competat, videamus. et Marcellus libro
quinto digestorum dubitans negat competere. quemadmodum enim,

4. Un approfondimento sul tema si rinviene in G. VALDITARA, A proposito di D. 9,


2, 41 pr. e dell’actio in factum concessa per il danneggiamento delle tavole testamenta-
rie, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 1994, p. 649 ss.
5. D. 47, 2, 32, 1: Si potest alias probare non patitur damnum. In questi termini
P.G. CASTELLARI, Op. cit., p. 63.
V. La stima del danno 155

inquit, aestimatio inibitur? ego apud eum notavi in testatore quidem


hoc esse verum, quia quod interest eius aestimari non potest, verum
tamen in herede vel legatariis diversum, quibus testamenta paene chi-
rographa sunt. Ibidem Marcellus scribit chirographo deleto competere
legis Aquiliae actionem. sed et si quis tabulas testamenti apud se de-
positas deleverit vel pluribus praesentibus legerit, utilius est in factum
et iniuriarum agi, si iniuriae faciendae causa secreta iudiciorum publi-
cavit.

Giuliano, 48 digestorum, D. 9, 2, 42: Qui tabulas testamenti depositas


aut alicuius rei instrumentum ita delevit, ut legi non possit, depositi
actione et ad exhibendum tenetur, quia corruptam rem restituerit aut
exhibuerit. Legis quoque Aquiliae actio ex eadem causa competit:
corrupisse enim tabulas recte dicitur et qui eas interleverit.

Marcello, nella propria interpretazione, ritiene che sia neces-


sario tener conto dell’interesse del creditore, ma non di quello
dell’erede. Una scelta del genere pone dei quesiti: probabilmen-
te egli annovera il testamento in quella categoria di atti di cui
non è possibile stimarne facilmente il valore. Ulpiano condivide
la visione di Marcello, però afferma che un ragionamento di-
verso dovrà farsi per l’erede e nell’ipotesi di un legato, perché
in questi casi sarà facile calcolarne il valore6. A questa visione
sembra opporsi il seguente passo:

Ulpiano, 30 ad edictum, D. 4, 3, 35: Si quis tabulas testamenti apud se


depositas post mortem testatoris deleverit vel alio modo corruperit,
heres scriptus habebit adversus eum actionem de dolo. Sed et his, qui-
bus legata data sunt, danda erit de dolo actio.

Si prende in considerazione la situazione in cui l’estraneo


istituito, haeres scriptus, non è a conoscenza del termine che il
testatore ha stabilito entro il quale bisogna accettare l’eredità
(cretio), perché le tavole sono state distrutte da chi aveva in de-
posito il testamento, quindi si ammette che gli eredi legittimi
possano ottenere l’intera eredità. In questo caso non si può con-
cedere l’Aquilia perché non è mai diventato padrone del testa-
mento; il soggetto rimarrebbe ingiustamente senza tutela, quin-

6. P.G. CASTELLARI, Op. cit., p. 64.


156 La lex Aquilia

di gli si concede l’azione di dolo, perché il testamento è stato


appunto dolosamente cancellato per impedirgli di assumere la
qualifica di erede.
Il primo passo verso una visione omnicomprensiva della ae-
stimatio rei è riscontrabile in Gaio:

Gaio, 3, 212: Nec solum corpus in actione huius legis aestimatur, sed
sane si servo occiso plus dominus capiat damni quam pretium servi
sit, id quoque aestimatur, velut si servus meus ab aliquo heres institu-
tus, antequam iussu meo hereditatem cerneret, occisus fuerit, non
enim tantum ipsius pretium aestimatur, sed et hereditatis amissae
quantitas.

Il passo considerato ha, per incipit, un’affermazione di carat-


tere universale, secondo la quale, nell’ambito di applicazione di
questa legge, non si stima solamente il corpo, ma anche il mag-
gior danno che il padrone possa aver subito a causa della con-
dotta altrui. Nel caso proposto da Gaio si assiste a un servo isti-
tuito erede. Affinché possa accedere all’eredità è necessario il
consenso del padrone, ecco che se il servo viene ucciso prima
che il dominus abbia dato il proprio assenso, potrà chiedere, in
forza della legge Aquilia, non solo il valore del servo (o, più
esattamente, il maggior valore), ma anche l’aestimatio
dell’eredità, intesa come mancato guadagno del padrone. In un
successivo passo, Gaio prende in considerazione il deprezza-
mento, a seguito dell’uccisione di un gemello, che – verosimil-
mente – si esibiva insieme agli altri, facendo degli spettacoli
comici o suonando qualche strumento:

Gaio, 3, 212: Item si ex gemellis vel e comoedis vel ex symphoniacis


unus occisus fuerit, non solum occisi fit aestimatio, sed eo amplius id
quoque conputatur, quod ceteri qui supersunt depretiati sunt. Idem iu-
ris est etiam si ex pari mularum unam vel etiam ex quadrigis equorum
unum occiderit.

Dall’uccisione del gemello il padrone subisce un danno no-


tevole, egli non potrà essere risarcito del solo valore economico
del servo ucciso, ma andrà considerata la complessiva perdita di
valore, l’attrattiva era infatti la presenza contemporanea, sul
V. La stima del danno 157

palcoscenico, di tutti i gemelli, che per via della condotta del


danneggiante hanno notevolmente perso consenso, e chiara-
mente valore (depretiati sunt). Il ragionamento del giurista si
applica per analogia a tutte quelle ipotesi in cui il valore di un
singolo bene è messo in relazione a un complesso più ampio,
così non sfugge il riferimento alla mula appartenente a una pa-
riglia o al cavallo di una quadriga.
L’elaborazione giurisprudenziale è attenta nel mitigare il
principio della risarcibilità del danno emergente e del lucro ces-
sante, che deve sopperire alle esigenze pratiche e non prestare il
fianco ad abusi del diritto, motivo per cui vengono categorica-
mente esclusi i risarcimenti del danno, fondati su pretese del
tutto spropositate7 o, come insegna il passo successivo, mera-
mente aleatorie:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 29, 3: Item Labeo scribit, si, cum vi


ventorum navis impulsa esset in funes anchorarum alterius et nautae
funes praecidissent, si nullo alio modo nisi praecisis funibus explicare
se potuit, nullam actionem dandam. Idemque Labeo et Proculus et cir-
ca retia piscatorum, in quae navis piscatorum inciderat, aestimarunt.
Plane si culpa nautarum id factum esset, lege Aquilia agendum. Sed
ubi damni iniuria agitur ob retia, non piscium, qui ideo capti non sunt,
fieri aestimationem, cum incertum fuerit, an caperentur. Idemque et in
venatoribus et in aucupibus probandum.

Sul punto si è formata un’opinione concorde dei giuristi, in-


fatti Ulpiano è condivide il pensiero di Labeone e di Proculo.
Nel caso proposto si discute del danno provocato alla reti dei
pescatori e viene sostanzialmente escluso il risarcimento del
danno dei pesci che fossero stati catturati, perché si tratta di un
maggior danno eventuale e non provato.
Inoltre, il pescatore si accorge della rottura delle reti sola-
mente quando le raccoglie, per cui è impossibile che il giudice
sia chiamato a stimare un risarcimento del danno che neppure la

7. D. 39, 40: Honestus modus servandus est, non immoderata cuiusque luxuria
subsequenda. Per un approfondimento sul lusso nel mondo romano cfr. A. BOTTIGLIE-
RI, La legislazione sul lusso nella Roma repubblicana, Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli 2002.
158 La lex Aquilia

parte attorea può provare nel suo preciso ammontare, situazione


comunque che va tenuta ben separata da un caso simile:

Celso, 27 digestorum, D. 19, 1, 12: Si iactum retis emero et iactare re-


tem piscator noluit, incertum eius rei aestimandum est: si quod extra-
xit piscium reddere mihi noluit, id aestimari debet quod extraxit.

Qui il giudice è chiamato a stimare il danno derivante da un


vincolo contrattuale e non da una responsabilità ex lege Aquilia:
il pescatore ha venduto a un terzo il valore del pesce che avreb-
be dovuto pescare, ma successivamente decide di non gettare le
reti. In questa ipotesi, che di certo possiede delle affinità con il
caso precedente, il giudice si pone non più dalla parte del pe-
scatore e non valuta il momento in cui sono o non state gettate
le reti, ma sposta la propria valutazione a un momento prece-
dente (quello della conclusione del contratto) e stima il valore
delle reti non prendendo in considerazione il lucro cessante, ma
direttamente il valore per come emerge nel contratto.
Si può pertanto dire che è l’incertezza sull’ammontare esatto
del risarcimento a limitare le nuove figure del danno emergente
e del lucro cessante e – con riferimento a quest’ultimo – è cate-
goricamente escluso il lucro cessante del lucro cessante, perché,
così facendo, non solo è impossibile calcolare il risarcimento
del danno, ma sembra difficilmente dimostrabile anche il nesso
causale, che – qualora si ammettesse una soluzione positiva –
sarebbe irragionevolmente esteso8. Lo stesso principio è ravvi-
sabile in un passo di Papiniano:

Papiniano, 7 responsorum, D. 22, 1, 8: Equis per fideicommissum rel-


ictis post moram fetus quoque praestabitur ut fructus, sed fetus secun-
dus ut causa, sicut partus mulieris.

Chi deve ottenere una cavalla, per fideicommissum, potrà


chiedere all’erede, messo già in mora (post moram), l’eventuale

8. Interessante, in quest’ottica, può essere D. 4, 8, 2, 5: Si indemnitas debiti frumen-


tariae pecuniae cum suis usuris sit, immodicae et illicitae computationis modus non ad-
hibeatur, id est ne commodorum commoda et usurae usurarum incrementum faciant.
V. La stima del danno 159

parto, e – ancora – il parto del parto. Il lettore noterà immedia-


tamente che si è in un’ottica del tutto estranea alla tutela aqui-
liana, in cui una soluzione simile non sarebbe stata ammessa.
Papiniano – obbligando l’erede alla consegna di ciò che sem-
brerebbe il lucro cessante del lucro cessante, fa invece riferi-
mento al parto effettivo (e non a quello meramente aleatorio),
che va a costituire un frutto naturale9, collocandosi in un’ottica
del tutto sconosciuta alla lex Aquilia.
Il lucro cessante conduce a un ulteriore problema, e cioè a
quel caso in cui dalla stessa condotta il danneggiante subisce un
danno, ma ottiene anche un guadagno. Il principio della com-
pensazione tra il lucro e il danno è accolto dai giuristi, secondo
cui absens pensare lucrum cum damno debet:

Pomponio, 21 ad Quintum Mucium, D. 3, 5, 10: Si negotia absentis et


ignorantis geras, et culpam et dolum praestare debes. sed Proculus in-
terdum etiam casum praestare debere, veluti si novum negotium, quod
non sit solitus absens facere, tu nomine eius geras: veluti venales no-
vicios coemendo vel aliquam negotiationem ineundo. Nam si quid
damnum ex ea re secutum fuerit, te sequetur, lucrum vero absentem:
quod si in quibusdam lucrum factum fuerit, in quibusdam damnum,
absens pensare lucrum cum damno debet.

Per il calcolo del danno, dovrà prendersi in considerazione


anche il guadagno, così il danneggiante, dalla pretesa risarcito-
ria dell’attore, si vedrà decurtato l’utile che quest’ultimo ha fat-
to già suo, per evitare così la liquidazione di un danno superiore
a quello effettivamente subito, scelta che avvicina sempre più la
legge Aquilia alla funzione riparatoria, allontanandola notevol-
mente da quella punitiva. Il medesimo problema assume una
sfumatura diversa nel caso in cui il danno e il lucro non deriva-
no dalla medesima azione, ma da due eventi tra loro distinti: in
questo caso non si potrà ricorrere alla compensazione10.

9. Per un approfondimento sui frutti nascenti dal pegno si legga la monografia di S.


ROMANO, Appunti sul pegno dei frutti nel diritto romano, CEDAM, Padova 1931.
Sull’accessorietà del pegno cfr. E. CARRELLI, Sulla accessorietà del pegno nel diritto
romano, con una nota di lettura di Witold Wolodkiewicz, Jovene, Napoli 1980.
10. D. 17, 2, 23: Idem Pomponius quaerit an commodum, quod propter admissum
socium accessit, compensari cum damno, quod culpa praebuit, debeat; et ait compen-
160 La lex Aquilia

5.3. Il pretium doloris: la (non) configurazione del dolore


affettivo

La tutela aquiliana, nonostante la sua evoluzione giurispruden-


ziale, resta comunque collegata al valore patrimoniale del bene
sempre oggettivamente inteso, ciò vuol dire che non viene mai
preso in considerazione il danno morale, come emerge dal se-
guente passo:

Paolo, 2 ad Plautum, D. 9, 2, 33 pr.: Si servum meum occidisti, non


affectiones aestimandas esse puto, veluti si filium tuum naturalem
quis occiderit quem tu magno emptum velles, sed quanti omnibus va-
leret. Sextus quoque Pedius ait pretia rerum non ex affectione nec uti-
litate singulorum, sed communiter fungi: itaque eum, qui filium natu-
ralem possidet, non eo locupletiorem esse, quod eum plurimo, si alius
possideret, redempturus fuit, nec illum, qui filium alienum possideat,
tantum habere, quanti eum patri vendere posset. In lege enim aquilia
damnum consequimur: et amisisse dicemur, quod aut consequi potui-
mus aut erogare cogimur.

Se qualcuno avrà ucciso un servo sarà tenuto a risarcire il


danno considerando il valore che lo stesso servo avrebbe avuto
per chiunque altro, e non va mai considerato il legame affettivo
intercorrente tra il padrone e il servo stesso (non affectiones ae-
stimandas esse puto). Paolo sembrerebbe un po’ scettico della
conclusione, e ciò lo si comprende dall’utilizzo del verbo puto,
anche se poi, lungi dall’entrare nel merito della questione, pre-
ferisce richiamare l’opinione concorde di Sesto secondo cui la
stima va fatta prendendo, si legge di nuovo, in considerazione il
valore generale e non quello individuale (pretia rerum non ex
affectione nec utilitate singulorum, sed communiter fungi). Ciò
non vuol dire che il danno morale non avesse alcun valore, ma
sicuramente – nella tutela aquiliana – è messo in secondo piano,
per cui se si vuole ottenere un ristoro economico per la soffe-

sandum. Quod non est verum, nam et Marcellus scribit, si servus unius ex sociis socie-
tati a domino praepositus negigenter versatus sit, dominum societati; qui praeposuerit,
praestiturum, nec compensandum commodum, quod per servum societati accessit, cum
damno; et ita Marcum pronunciare, nec posse dici socio: abstine commodo, quod per
servum accessit, si damnum petis.
V. La stima del danno 161

renza fisica o quella psicologica11, con un ambito che va a com-


prendere anche l’offesa alla dignità umana, bisogna agire in
forza dell’actio iniuriarum. Insomma, in un’ottica tutta impron-
tata alla sfera patrimoniale oggettiva, i giuristi escludono la ri-
levanza, almeno settoriale, del pretium affectionis12.
Il passo dianzi riportato ruota intorno a un servo che ha per
il padrone un valore superiore rispetto agli altri: si tratta del fi-
glio avuto con una schiava, e pertanto considerato giuridica-
mente uno schiavo, ma ben si comprende che sarebbe stato inte-
resse del padrone ottenere un risarcimento del danno non limi-
tato al valore patrimoniale, nel caso in cui il servo fosse stato
ucciso. Questo approccio è riconfermato in un ulteriore passo,
in cui viene ferito il figlio in potestà, anche in questo caso il pa-
drone potrà ottenere il risarcimento del danno corrispondente
alla perdita delle giornate lavorative del figlio (il lucro cessante,
ravvisabile nell’espressione quod minus ex operis filii) e alle
spese sostenute per curarlo (il danno emergente, sintetizzato
nella frase et impendia, quae pro eius caratione fecerit):

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 7 pr.: Qua actione patrem consecu-


turum ait, quod minus ex operis filii sui propter vitiatum oculum sit
habiturus, et impendia, quae pro eius curatione fecerit.

Secondo Ulpiano, per il ferimento del figlio, che nel caso di


specie ha subito un grave pregiudizio all’occhio (vitiatum ocu-
lum), spetterà al dominus un danno avente connotazione mera-
mente patrimoniale.
Va preso in considerazione solo il valore oggettivo del bene:
non bisogna considerare, insegnano i giuristi, il valore derivante
dall’affetto né quello derivante dall’utilità rispetto a singoli
soggetti, ma solo quello che lo stesso bene possa avere per tutti
(communiter), in un’ottica che orienta il risarcimento del danno
a un’eguaglianza che oggi si potrebbe definire formale, a scapi-
to, di certo, di quella sostanziale, che imporrebbe la valutazione

11. Sul tema ha scritto A. MARCHI, Il risarcimento del danno morale secondo il di-
ritto romano, Istituto di diritto romano, Roma 1904.
12. D. 9, 2, 33 pr.
162 La lex Aquilia

concreta e attuale delle singole voci risarcitorie, rapportata al


valore morale della res danneggiata.

5.4. Ipotesi particolari: tra problemi pratici ed esigenze


sistematiche

La varietà dei casi pratici ha permesso di adeguare la responsa-


bilità aquiliana a delle ipotesi molto particolari, che verranno
trattate all’interno di questo paragrafo. Va premesso che le te-
matiche coinvolte assumono una portata trasversale, e riguarda-
no i vari requisiti della legge Aquilia, tuttavia il filo conduttore
è rappresentato dalla modalità di liquidazione del danno.
Un’ipotesi peculiare è quella dello schiavo ucciso, mentre il te-
statore è ancora in vita. Qui vengono in rilievo due aspetti con-
trapposti: da un lato l’esistenza del servo è una condizione ne-
cessaria per il valido acquisto dell’eredità, dall’altro lato, es-
sendo ancora in vita il testatore, è possibile che questi faccia un
nuovo testamento, vanificando la volontà espressa nel primo at-
to. Bilanciando le due osservazioni – in D. 9, 2, 23, 2 che a pro-
pria volta rimanda a ulteriori casi – la scelta dei giuristi è chia-
ra: il padrone non potrà chiedere il risarcimento dell’eredità,
perché il danno non è da considerarsi certo a causa della volon-
tà ancora suscettibile di modifiche del testatore (ambulatoria
est enim voluntas defuncti usque ad vitae supremum exitum13);
a ciò si aggiunge la considerazione che la stima del danno va
fatta guardando al maggior valore contemplabile in un arco di
tempo passato e – per quanto riguarda il futuro – solo limitata-
mente al lucro cessante che abbia un preciso margine di apprez-
zamento, mentre, nel caso affrontato dai giuristi, l’eredità ap-
partiene ancora al testatore.
Il risarcimento è escluso anche in un’altra interessante ipote-
si14, in cui viene ucciso un servo, che per il padrone rappresenta

13. D. 34, 4, 4. Sul tema ha scritto con chiarezza S. SERANGELI, Studi sulla revoca
del testamento in diritto romano: contributo allo studio delle forme testamentarie,
Giuffrè, Milano 1982.
14. D. 9, 2, 23, 4.
V. La stima del danno 163

una “fonte di conoscenza”. Il servo, tradendo la fiducia del do-


minus, aveva organizzato delle frodi commerciali, motivo per
cui il padrone ha interesse a conoscere dallo schiavo (magari
sottoponendolo a tortura) i nomi dei suoi complici, al fine di re-
cuperare quanto perduto. Il tutto ruota intorno alla certezza che
il padrone possa accedere a quelle informazioni, ma soprattutto
viene meno il requisito della certezza del danno, che induce i
giuristi a porsi una domanda retorica circa le modalità di calco-
lo del risarcimento (quemadmodum aestimatio inibitur?). A
questo punto i giuristi avvicinano questo caso all’ipotesi del te-
stamento distrutto, per cui si dice che il padrone dovrà dare la
prova del danno ricorrendo ad altri fonti certe, altrimenti sarà
impossibile stimare il pregiudizio derivante dall’uccisione di
quel particolare schiavo. È possibile calcolare questo pregiudi-
zio facendo leva su un altro passo, che tratta di un banchiere
che perde una causa contro i suoi fraudatores, perché non riesce
ad accertare le frodi poste in essere contro di lui e non ha avuto
il tempo di torturare il proprio schiavo. Il suo servo viene ucci-
so e, quando muove la lite all’uccisore, viene a conoscenza del-
la prova delle frodi. Pare ovvio che, qualora il proprio servo
non fosse stato ucciso, egli avrebbe vinto la causa. In questa
circostanza, poiché non è possibile ritornare sulla cosa giudica-
ta, egli potrà pretendere dall’uccisore l’interesse determinato
sulla base della litis amissae computatio.
Un altro caso15 riguarda l’uccisione di un quadrupede, a
propria volta autore di un danno e oggetto di concessione nos-
sale. In questa particolare ipotesi, chi ha ucciso l’animale dovrà
far fronte anche all’aestimatio litis, non essendo più possibile
per il proprietario concedere l’animale a nossa. Ulpiano elabora
una soluzione ancora diversa, stabilendo che chi ha ucciso
l’animale subentrerà nel giudizio nossale, in luogo del proprie-
tario che – dunque – non sarà costretto a risarcire il danno:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 1, 1, 16: Si post litem contestatam ab


alio sit animal occisum, quia domino legis Aquiliae actio competit, ra-

15. D. 9, 2, 37, 1.
164 La lex Aquilia

tio in iudicio habebitur legis Aquiliae, quia dominus noxae dedendae


facultatem amiserit: ergo ex iudicio proposito litis aestimationem of-
feret, nisi paratus fuerit actionem mandare adversus eum, qui occidit.

L’attenzione deve esser posta su due casi particolari, nel


primo non viene preso in considerazione l’id quod interest e nel
secondo la perempti corporis16:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 23, 1: Iulianus ait, si servus liber et


heres esse iussus occisus fuerit, neque substitutum neque legitimum
actione legis Aquiliae hereditatis aestimationem consecuturum, quae
servo competere non potuit: quae sententia vera est. Pretii igitur so-
lummodo fieri aestimationem, quia hoc interesse solum substituti vi-
deretur: ego autem puto nec pretii fieri aestimationem, quia, si heres
esset, et liber esset.

Cosa accade? Mentre il testatore è in vita viene ucciso lo


schiavo che nel testamento è dichiarato libero e istituito erede.
L’erede legittimo è ben felice della morte del servo, perché se
essa non si fosse verificata gli avrebbe tolto la qualifica di ere-
de. Tuttavia egli non è ammesso a conseguire la stima
dell’eredità, perché a ciò non sarebbe stato ammesso neppure il
servo. Ulpiano e Giuliano sono di questa opinione: infatti sen-
tentia vera est. Però Giuliano si allontana dal pensiero di Ulpia-
no perché ritiene che deve calcolarsi almeno il valore dello
schiavo ucciso, affermando che pretii igitur solummodo fieri
aestimationem: questa soluzione è ammissibile nella sola ipote-
si in cui l’interesse che l’attore possedeva al tempo della litis
contestatio non esista più al momento della condanna, e non in
modo assoluto: non influisce il fatto che si tratta di un’azione
spettante al de cuius, poiché questa non può passare all’erede
senza l’interesse di quest’ultimo, e nel caso prospettato
l’interesse non sussiste perché nulla enim actio cum affectu
datur nisi eis, quorum interest17.
Il secondo passo riguarda l’esclusione della perempti corpo-
ris:

16. P.G. CASTELLARI, Op. cit., p. 70-72.


17. D. 10, 4, 19.
V. La stima del danno 165

Marcello, 21 digestorum, D. 9, 2, 36, 1: Si dominus servum, quem ti-


tius mortifere vulneraverat, liberum et heredem esse iusserit eique po-
stea Maevius exstiterit heres, non habebit Maevius cum Titio legis
Aquiliae actionem, scilicet secundum Sabini opinionem, qui putabat
ad heredem actionem non transmitti, quae defuncto competere non
potuit: nam sane absurdum accidet, ut heres pretium quasi occisi con-
sequatur eius, cuius heres exstitit. Quod si ex parte eum dominus he-
redem cum libertate esse iusserit, coheres eius mortuo eo aget lege
Aquilia.

Si prospettano due situazioni diverse. Nella prima il padrone


ha manomesso un servo, istituendolo anche erede universale,
però un terzo uccide lo schiavo e Mevio diventa erede. I giuristi
si chiedono se Mevio possa agire contro il terzo per l’uccisione
dello schiavo e la risposta è negativa, perché la legittimazione
della legge Aquilia non è mai spettata al servo, in quanto il le-
gittimato attivo era solo il suo padrone. Il altri termini non si
configura un’azione de occiso, esercitabile – paradossalmente –
solo dal servo… ma dopo la morte!
Nella seconda ipotesi lo schiavo non è istituito erede univer-
sale, ma solamente pro parte. In questo caso l’azione aquiliana
passa al coerede per intero, e ciò lo si comprende perché Mar-
cello si esprime in termini generali, sul presupposto che una
volta ucciso, il coerede perde la sua qualità di haeres ex parte,
diventando un erede universale, e ciò implica il passaggio delle
azioni che competevano al servo ucciso, tra cui la lex Aquilia da
esperire contro il terzo che ha provocato la morte18. Il passo
successivo riguarda l’evoluzione del maggior valore risarcibile
del bene: si tratta del rapporto della repetitio temporis tra il primo
e il terzo capo, oggetto di trattazione nel prossimo paragrafo.

18. Potrebbe sostenersi, al contrario, che il coerede sia obbligato solamente ex par-
te; oppure che l’azione sarebbe indivisibile contro il convenuto ma divisa per quanto
concerne la parte attorea. Tuttavia è necessario rilevare che questa divisione non sembra
ammissibile alla luce di D. 9, 2, 19 e D. 9, 2, 27, 2. Si potrebbe dire che l’azione non sia
ammissibile perché chi agisce non era, al momento del danno, ancora titolare
dell’azione. Sul punto si può vedere Pomponio in D. 9, 2, 43: Dominum lex Aquilia ap-
pellat, non utilique eum, qui fuerit tunc cum damnum daretur; nam isto modo ne ab eo
quidem, cui haeres quis erit, transire ad eum actio ea poterit. Sull’indivisibilità
dell’obbligazione cfr. A. GUARNERI CITATI, Studi sulle obbligazioni indivisibili nel di-
ritto romano, L’Erma di Bretschneider, Roma 1972.
166 La lex Aquilia

5.5. La repetitio temporis. Il maggior valore risarcibile tra il


primo e il terzo capo della legge

Tralasciando al momento la litiscrescenza, che sarà oggetto di


osservazione in un secondo momento, l’attenzione deve esser
posta su una singolare caratteristica della legge, e cioè sulla re-
petitio temporis. Questa, come anche la litiscrescenza, è espres-
sione di un principio penale volto a punire il reo, da cui la qua-
lificazione della legge come azione mista. In un primo periodo,
la repetitio temporis è considerata l’unico parametro in base al
quale valutare l’entità del danno, senza prendere in considera-
zione ulteriori parametri.
La stima del danno, in base all’azione esperita, può essere
calcolata in momenti differenti, per esempio si può prendere
come riferimento il momento della stipulazione di un contrat-
to19, nel caso in cui si agisca, appunto, ex causa contractu, op-
pure si potrà ancora guardare alla contestatio litis20, al tempo
della mora21 o al passaggio della pronuncia in giudicato22.
Quando si agisce ex causa delicti, invece, la stima si può ri-
portare al tempo trascorso tra il danno e la sentenza del giudice,
come avviene nell’actio de servo corrupto e nella condictio fur-
tiva23. A differenza di tutte queste ipotesi, la legge Aquilia è
l’unico esempio di azione, in cui, per procedere al calcolo del
danno, si può guardare anche al valore che il bene aveva nel pas-
sato, viene supposto un istante più remoto, in cui il bene danneg-
giato possedeva un più alto valore economico, per cui è verosi-
mile affermare che i beni del danneggiato, e la sua sfera patrimo-
niale generalmente intesa, abbiano risentito dell’influenza nega-
tiva dell’iniuria. La retroattività della stima, come già si è messo
in luce nel corso della trattazione, può svolgere una molteplicità
di funzioni, può intendersi come aspetto punitivo della tutela
aquiliana oppure come mezzo per rispondere all’inflazione; va

19. D. 19, 1, 3, 3.
20. D. 18, 1, 37 e D. 46, 2, 18.
21. D. 13, 3, 3.
22. D. 13, 6, 5, 4.
23. D. 11, 3, 5, 4; D. 13, 1, 8, 1 e D. 47, 2, 50.
V. La stima del danno 167

precisato però che la lex Aquilia non fa sorgere l’obbligo, in ca-


po al giudice, di prendere sempre in considerazione il passato,
perché può anche verificarsi l’ipotesi in cui già nel momento
del danneggiamento, il bene abbia il suo massimo valore:

Paolo, 22 quaestionum, D. 9, 2, 55: Stichum aut Pamphilum promisi


Titio, cum Stichus esset decem milium, Pamphilus viginti: stipulator
Stichum ante moram occidit: quaesitum est de actione legis Aquiliae.
Respondi: cum viliorem occidisse proponitur, in hunc tractatum nihi-
lum differt ab extraneo creditor. Quanti igitur fiet aestimatio, utrum
decem milium, quanti fuit occisus, an quanti est, quem necesse habeo
dare, id est quanti mea interest? et quid dicemus, si et Pamphilus de-
cesserit sine mora? iam pretium Stichi minuetur, quoniam liberatus est
promissor? et sufficiet fuisse pluris cum occideretur vel intra annum.
hac quidem ratione etiam si post mortem Pamphili intra annum occi-
datur, pluris videbitur fuisse.

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 23, 7: Si infans sit occisus nondum


anniculus, verius est sufficere hanc actionem, ut aestimatio referatur
ad id tempus, quod intra annum vixit.

Dalle parole di Ulpiano si può comprendere che se la stima


dovesse avvenire sempre con riferimento al passato (tempus
praeteritum), l’attore in determinati casi potrebbe subire un
danno invece che un vantaggio. Dunque, qualora si interpretas-
se alla lettera la legge Aquilia, l’attore sarebbe ingiustamente
leso nei suoi diritti perché, come osservava Mendoza nel pro-
prio commentario24, potius in poenam accipientis, quam in
damnum dantis id esset constitutum. Riferirsi anche al valore
passato del bene apre una grande discrezionalità sulla liquida-
zione del danno, così, per evitare ingiusti risarcimenti, il legi-
slatore romano si è preoccupato di inserire precisi riferimenti
temporali, volti a circoscrivere il margine cronologico di opera-
tività della tutela aquiliana.
Nel primo capo della legge si fa riferimento al più alto valo-
re che la cosa possedeva nell’anno precedente, computato a par-
tire dal giorno in cui fosse avvenuta la condotta lesiva25. Più

24. J. SUAREZII DE MENDOZA, Op. cit., p. 4-5, nota 27.


25. Lo si evince da D. 9, 2, 21 pr.; D. 9, 2, 23, 3 e D. 9, 2, 51, 2.
168 La lex Aquilia

specificatamente, sul punto è possibile aggiungere che proprio


il primo capo della legge Aquilia prevedeva il risarcimento del
danno nella misura del maggior valore di mercato raggiunto
dallo schiavo o dal quadrupede nell’anno precedente
all’uccisione, così superando – come ha notato la dottrina a ri-
guardo – la mancanza di un attuale «valore utile al riferimen-
to»26, venuto meno con la morte, e nel contempo prendendo an-
che in considerazione le oscillazioni di valore stagionalmente
ricorrenti in un contesto di economia agricola27. Però, anziché
decorrere dal momento della morte, l’anno poteva anche decor-
rere dalla data in cui venisse inferta una ferita mortale dalla
quale fosse derivata la morte della persona, come emerge da D.
9, 2, 21, 1 e D. 9, 2, 51, 2. In linea di principio si potrebbe rite-
nere che l’anno abbia la durata di 355 giorni, perché ai tempi
della lex Aquilia è in vigore il calendario di Numa, ma la giuri-
sprudenza persegue un indirizzo opposto, giustificato dal carat-
tere universale dell’Aquilia, secondo cui bisogna prendere a ri-
ferimento l’anno mobile28 costituito da 365 giorni:

Giuliano, 86 digestorum, D. 9, 2, 51, 2: Aestimatio autem perempti


non eadem in utriusque persona fiet: nam qui prior vulneravit, tantum
praestabit, quanto in anno proximo homo plurimi fuerit repetitis e x
die vulneris trecentum sexaginta quin-
q u e d i e b u s , posterior in id tenebitur, quanti homo plurimi
venire poterit in anno proximo, quo vita excessit, in quo pretium quo-
que hereditatis erit. Eiusdem ergo servi occisi nomine alius maiorem,
alius minorem aestimationem praestabit, nec mirum, cum uterque eo-
rum ex diversa causa et diversis temporibus occidisse hominem intel-
legatur. quod si quis absurde a nobis haec constitui putaverit, cogitet
longe absurdius constitui neutrum lege Aquilia teneri aut alterum po-
tius, cum neque impunita maleficia esse oporteat nec facile constitui
possit, uter potius lege teneatur. Multa autem iure civili contra ratio-
nem disputandi pro utilitate communi recepta esse innumerabilibus
rebus probari potest: unum interim posuisse contentus ero. Cum plu-
res trabem alienam furandi causa sustulerint, quam singuli ferre non
possent, furti actione omnes teneri existimantur, quamvis subtili ratio-

26. C.A. CANNATA, Delitto e obbligazione, in Illecito e pena privata in età repub-
blicana, cit., p. 36.
27. G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 43.
28. P.G. CASTELLARI, Op. cit., p. 75.
V. La stima del danno 169

ne dici possit neminem eorum teneri, quia neminem verum sit eam su-
stulisse.

Venendo a trattare del secondo capo, anche se questo cadrà


presto in desuetudine, è ugualmente opportuno porsi il proble-
ma della repetitio temporis. Qui sembra che non si facesse rife-
rimento al maggior valore del bene nel passato, perché oggetto
di tutela è un diritto di credito già certo nel suo ammontare, e
che non è suscettibile neppure di particolari oscillazioni per via
del ristretto movimento economico del periodo29. Si può dire
che il valore del danno corrisponda a quello dedotto in obbliga-
zione, per cui nel testo del secondo capo non si fa giustamente
riferimento al tempo antecedente, e Gaio si limita ad osservare
che l’azione dev’essere concessa limitatamente al valore come
emergente dal contratto (quanti ea res est tanti actio constitui-
tur30). Si nota l’utilizzo, nel secondo capo, della forma verbale
al tempo presente che riferisce il risarcimento del danno «alla
quantità di credito che, in forza della acceptilatio, risulta (at-
tualmente) soppressa»31. Inoltre, lo stesso Gaio fa riferimento
alla repetitio temporis adducendo come esempi l’annus del
primo capo e i XXX dies proximi del terzo capo32, essendo del
tutto assente un riferimento anche al secondo capo:

I. 4, 3, 15: Ac ne "plurimi" quidem verbum adicitur; sed Sabino recte


placuit, perinde habendam aestimationem ac si etiam hac parte "plu-
rimi" verbum adiectum fuisset: nam plebem Romanam, quae Aquilio
tribuno rogante hanc legem tulit, contentam fuisse, quod prima parte
eo verbo usa est.

29. La lex Aquilia deve esser letta tenendo sempre in considerazione la realtà eco-
nomica in cui nasce e si sviluppa. L’analisi del commercio e della sua evoluzione è
messa in luce da M. DUREAU DE LA MALLE, Economie politique des Romains, Vues
générales, in Journal Générale de l’Instruction Publique, 20 mars 1841, p. 2 ss. Il tema
è oggetto di un’attenta valutazione anche in G. BOCCARDO, Manuale di storia del com-
mercio, delle industrie e dell’economia politica ad uso specialmente degli Istituti Tecnici e
delle scuole superiori di Commercio, Roux e Favale, Torino 1886, p.53 ss., 64 ss.
30. Gaio 3, 215.
31. In tal senso C.A. CANNATA, Delitto e Obbligazione, in Illecito e Pena privata
in età repubblicana cit., p. 37.
32. Gaio 3, 210 e 218. Ancora D. 9, 2, 14 e D. 9, 2, 27, 5.
170 La lex Aquilia

Per quanto concerne il terzo capo, la stima del maggior valo-


re si riferisce agli ultimi trenta giorni anteriori al danneggia-
mento33:

Gaio, 3, 218: Hoc tamen capite non quanti in eo anno, sed quanti in
diebus XXX proxumis ea res fuerit, damnatur is, qui damnum dederit.

Paolo, 22 ad edictum, D. 9, 2, 14: Ex hoc tamen capite non quanti in


eo anno, sed quanti in diebus triginta proximi res fuerit, obligatur is,
qui damnum dederit.

Va da sé che il terzo capo della legge Aquilia comportava


originariamente la liquidazione del danno in misura corrispon-
dente al valore del bene «nel tempo immediatamente preceden-
te alla sua distruzione»34, convenzionalmente determinata in
trenta giorni, lasso abbastanza ampio per non far sorgere diffi-
coltà nella prova che l’attore avrebbe dovuto fornire e abba-
stanza breve da permettere una quantificazione precisa del valo-
re del bene35. In dottrina, Giuseppe Valditara aggiunge che il
terzo capo della legge Aquilia si riferisse non solo alle ipotesi di
distruzione economica del bene ma anche al danneggiamento
non distruttivo, che a propria volta poteva riferirsi ai beni, agli
schiavi e al bestiame in genere36, osservazione avallata anche
dalla portata semantica del verbo rumpere, come già amplia-
mente argomentato in precedenza. Giuseppe Valditara, com-
mentando il riferimento alla stima del danno riferita al maggior
valore del bene nel passato, rileva che

traspare da questa impostazione una evidente arcaicità del mezzo


aquiliano che riflette uno sviluppo appena abbozzato rispetto al siste-
ma della pena fissa, testimoniata ancora nelle XII Tavole proprio in
tema di danneggiamento materiale di un bene altrui con riguardo alle
distinte ipotesi di ossis fractio del servo o di taglio d’alberi, sviluppo
che forse teneva conto della necessità di fare fronte alla svalutazione

33. D. 9, 2, 27, 5 e D. 9, 2, 29, 8.


34. C.A. CANNATA, Sul testo della lex Aquilia, cit., p. 46.
35. Ibidem.
36. G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, cit., p. 14-15, ove anche la citazione
successiva.
V. La stima del danno 171

monetaria e alla conseguente esigenza di non predeterminare in modo


rigido il valore del bene, ma di commisurarlo alle oscillazioni del
mercato.

Successivamente, sul punto viene accolta l’opinione del giu-


rista Sabino37:

Gaio 3, 218: Hoc tamen capite non quanti in eo anno, sed quanti in
diebus XXX proximis ea res fuerit, damnatur is, qui damnum dederit.
Ac ne “plurimi” quidem verbum adicitur; et ideo quidam putaverunt
liberum esse iudici ad id tempus ex diebus XXX aestimationem redi-
gere, quo plurimi res fuit, vel ad id, quo minoris fuit. Sed Sabino pla-
cuit proinde habendum ac si etiam hac parte “plurimi” verbum
adiectum esset: nam legis latorem contentum fuisse, quod prima parte
eo verbo usus esset.

Sabino vuole opporsi all’opinione di certi innominati giuristi


(quidam) che avevano sostenuto, riguardo al terzo capitolo, che
il giudice potesse arrogarsi una libertà di apprezzamento del va-
lore che il bene avesse avuto nei trenta giorni precedenti, men-
tre gli era preclusa riguardo al primo. Sabino sostiene che anche
con riferimento al terzo capo il giudice non può guardare al va-
lore del bene rapportato a un giorno qualsiasi dei trenta prece-
denti, ma deve prendere sempre in considerazione quello in cui
il bene oggetto di danneggiamento possedeva il maggior valore,
per cui recepisce, all’interno anche del terzo capo della legge
Aquilia, la dizione plurimi.

5.6. La litiscrescenza: confessio in iure e infitiatio. Defini-


zione dei concetti e ipotesi particolari

Nel momento in cui vi è l’apertura del giudizio vengono pro-


spettate due soluzioni differenti. Quando vi è la contestatio litis,
il magistrato pone un quesito al convenuto sulla fondatezza

37. L’impegno di questo giurista nell’evoluzione giurisprudenziale della lex Aquilia


è compiutamente analizzato da R. ASTOLFI, Sabino e la culpa ex lege Aquilia, in Studia
et Documenta Historiae et Iuris, 1993, p. 315-320.
172 La lex Aquilia

dell’azione. In questo frangente, egli può ammettere la propria


responsabilità, dichiarando la correttezza dell’azione attorea
(confessio in iure), in questo caso il convenuto sarà costretto a
pagare l’aestimatio damni, non assumendo neppure rilievo la
correttezza o meno di quest’ultima:

Paolo, 15 ad Plautum, D. 42, 2, 4: Si is, cum quo lege Aquilia agitur,


confessus est servum occidisse, licet non occiderit, si tamen occisus
sit homo, ex confesso tenetur.

La confessione assume un ruolo cardine38 nel processo ro-


mano ed è concepita come un atto personalissimo, soprattutto in
rapporto con un’azione generale e dai confini sempre più estesi
come la lex Aquilia; ciò vuol dire che la confessione, anche se
fatta da soggetti particolarmente qualificati come il procuratore,
il tutore o il curatore non potrà opporsi validamente all’assente:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 25, 1: Si procurator aut tutor aut cu-


rator aut quivis alius confiteatur absentem vulnerasse, confessoria in
eos utilis actio danda est.

L’espressione quivis alius è sintomatica del carattere genera-


le dell’osservazione fatta da Ulpiano e svolge la funzione di
estendere l’elencazione – esemplificativa e aperta – di quei
soggetti che, sebbene legati da un particolare rapporto con
l’assente, non possono validamente “confessare” il fatto, mentre
l’in seguito dall’accusativo testimonia il fatto che la confessio-
ne andrà a vincolare direttamente il soggetto che l’ha resa, che
sarà tenuto al risarcimento del danno senza l’utilizzo di nessun
fattore moltiplicativo (si tratta della condanna al simplum39), per
cui sarà tenuto al risarcimento, così come emerge dalle risultan-
ze processuali creandosi un binomio tra danno stimato e danno

38. Per un approfondimento sul tema e la portata della confessione nel processo
romano si legga N. SCAPINI, La confessione nel diritto romano, Giuffrè, Milano 1983.
39. Su questo punto cfr. ad es. U. VON LÜBTOW, Untersuchungen zur lex Aquilia de
damno iniuria dato, Duncker & Humblot, Berlin 1971, p. 26 ss.; N. SCAPINI, Op. cit., p.
136; C. KRUSE, Alternative Kausalität im Deliktsrecht: eine historische und verglei-
chende Untersuchung, LIT Verlag, Münster 2006, p. 13.
V. La stima del danno 173

effettivo (rapporto che riguarda le tecniche di valutazione e non


la modalità del risarcimento, che ammette il riferimento al
maggior valore del bene nel passato):

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2 23, 10: Haec actio adversus con-


fitentem competit in simplum, adversus negantem in duplum.

Secondo il principio civilistico contenuto nella legge delle


XII Tavole, il pagamento deve essere effettuato entro trenta
giorni dalla confessione40, tuttavia il danneggiante potrà chiede-
re la concessione di un termine ulteriore per far fronte alla li-
quidazione del danno41. Quanto fin qui detto è valido solo nel
caso in cui si raggiunga un accordo sul quantum solutionis, os-
sia sulla somma da pagare. Nel caso in cui, esperita l’azione, il
convenuto confessasse in iure, l’azione stessa avrebbe avuto la
fisionomia di un’actio confessoria, a seguito della quale il giu-
dice deve stimare il danno senza instaurare il giudizio, ciò per-
ché la confessione non importa una novazione42, a differenza di
quanto accade nell’ipotesi del giuramento43, della litis contesta-
tio e della sentenza:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 25, 2: Notandum, quod in hac actio-


ne, quae adversus confitentem datur, iudex non rei iudicandae, sed ae-
stimandae datur: nam nullae partes sunt iudicantis in confitentes.

Il giudice, in questo caso, non potrà procedere al giudizio,


perché la confessione viene equiparata alla cosa giudicata (quia
in iure confessi pro iudicatis habentur), motivo per cui l’attività
giurisdizionale sarebbe concessa inutilmente:

40. Tav. 3, 1: Aeris confessis rebusque iudicatis XXX diesi usti sunto.
41. Lo si può argomentare dalla lettura di D. 42, 1, 31; ma anche da D. 5, 1, 21.
42. La novazione è fatta oggetto di un’attenta analisi in F. BONIFACIO, La novazio-
ne nel diritto romano, Jovene, Napoli 1959.
43. Sul ruolo svolto dal giuramento in materia di legis actiones si può leggere L.
AMIRANTE, Il giuramento prestato prima della litis contestatio nelle leggi actiones e
nelle formule, Jovene, Napoli 1954.
174 La lex Aquilia

Ulpiano, 27 ad edictum, D. 42, 1, 56: Post rem iudicatam vel iureiu-


rando decisam vel confessionem in iure factam nihil quaeritur post
orationem divi marci, quia in iure confessi pro iudicatis habentur.

Il ruolo della confessione necessita però di un adeguato bi-


lanciamento, per perseguire una situazione di fatto conforme a
giustizia, e per avvicinare la verità processuale a quella reale.
Da un lato, la confessione – come si è accennato – obbliga la
parte che la rende a risarcire il danno a prescindere da una reale
corrispondenza tra l’ammontare risarcitorio e l’offesa, perché
per l’ordinamento giuridico la ricerca della verità è sostituita
dalla confessione, ciò permette anche di confessare un fatto di
cui si è innocenti: lo si potrà fare consapevolmente, e in questo
caso l’ordinamento giuridico si accontenta della dichiarazione
resa dalla parte, ma lo si potrà fare anche a causa di un errore di
fatto, così si potranno verificare delle circostanze incerte che
inducono il convenuto a confessare la propria responsabilità,
magari disconoscendo ulteriori cause che hanno effettivamente
cagionato l’evento oppure lo abbiano impedito, in questo caso,
pur in presenza di una confessione, che trova il suo fondamento
su un errore di fatto, il convenuto – emersa successivamente la
sua estraneità ai fatti – non sarà condannato al risarcimento del
danno44:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 23, 11: Si quis hominem vivum falso


confiteatur occidisse et postea paratus sito stendere hominem vivum
esse, Iulianus scribit cessare Aquiliam, quamvis confessus sit se occi-
disse. Hoc enim remittere actori confessoriam actionem, ne necesse
habeat docere eum occidisse; ceterum occisum esse hominem a quo-
cumque oportet.

Paolo, 22 ad edictum, D. 9, 2, 24: Hoc apertius est circa vulneratum


hominem. Nam, si confessus sit vulneresse, nec sit vulneratus, aesti-
mationem cuius vulneris faciemus vel ad quos tempus recurremus?

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 25: Proinde, si occisus quidem non sit,


mortuus autem sit, magis est ut non teneatur in mortuo, licet fassus sit.

44. Cfr. P.G. CASTELLARI, Op. cit., p. 76-77.


V. La stima del danno 175

Ulpiano presenta l’ipotesi di un soggetto che confessa


l’uccisione di un uomo che si scopre – successivamente – vivo
(et postea paratus sito stendere hominem vivum esse) e richia-
ma l’opinione di Giuliano secondo cui non si può esperire la tu-
tela aquiliana (Iulianus scribit cessare Aquiliam), nonostante
l’avvenuta confessione (quamvis confessus sit se occidisse).
Questa decisione appare conforme a giustizia, perché, venendo
a mancare il danno, non può essere effettuata alcuna stima.
Paolo, invece, mette in evidenza il tutto ricorrendo a una
domanda retorica, nella quale si chiede quale danno debba con-
siderarsi ai fini risarcitori, mancando il substrato del risarcimen-
to. Si tratta di un approdo giurisprudenziale ben delineato. Pao-
lo ci informa, difatti, che hoc apertius est; tuttavia nel terzo
passo di Ulpiano si da conto dell’esistenza anche di
un’interpretazione giurisprudenziale probabilmente di segno
opposto e minoritaria (e di certo disattesa dallo stesso Ulpiano),
ravvisabile nell’espressione magis est.
I casi riportati si differenziano da altre ipotesi in cui non
viene ammessa la ritrattazione della confessio, come in D. 42,
2, 4 che abbiamo riportato sopra (secondo cui ex confesso tene-
tur), perché in quella circostanza si tratta di un damnum (anche
se diverso da quello oggetto di confessione) che è stato effetti-
vamente arrecato per cui il danneggiante sarà considerato col-
pevole fino a prova contraria, difatti, si legge che si tamen occi-
sus sit homo.
Un nuovo punto che deve esser affrontato riguarda la ripeti-
zione dell’indebito: bisogna domandarsi se è possibile ripetere
quanto pagato e per analizzare la questione si può vedere il se-
guente rescritto di Diocleziano e Massimiano:

C. 4, 5, 4, Imperatores Diocletianus, Maximianus aa. et cc. Heraclio:


Ea, quae per infitiationem in lite crescunt, ab ignorante etiam indebita
soluta repeti non posse, certissimi iuris est. Sed, et si cautio indebitae
pecuniae ex eadem causa interponatur, condictioni locum non esse
constat. s. v id. april. Byzantii aa. conss. <a 293 >.

È possibile chiarire la situazione in esame ricorrendo a un


176 La lex Aquilia

esempio: Tizio lancia un sasso da un ponte, e successivamente


viene convenuto da Caio, che lamenta l’uccisione del proprio
animale, perché, a sua detta, è stato colpito da una pietra. Tizio,
reputando verosimile il racconto di Caio, decide di confessare il
danno per evitare una successiva condanna al pagamento del
doppio. Dopo aver pagato il risarcimento del danno, si viene a
sapere che l’animale di Caio è morto non a causa della pietra
lanciata da Tizio, bensì a causa di un’altra caduta dalla parete
rocciosa. In una situazione di questa portata ci si chiede se Ti-
zio sia legittimato a richiedere il pagamento dell’indebito. Ap-
plicando il rescritto sopra riportato sembra escluso che Tizio pos-
sa chiedere il risarcimento del danno pagato, perché in tutti i giu-
dizi che “crescono” per la negatoria del reo, non si ammette mai
la ripetizione di quanto pagato. Nonostante un’affermazione di
questa portata possa suscitare dei dubbi, ancor più se si conside-
ra che neppure la condictio dell’indebito è ammessa cosa che
avviene nel caso del furtum nec manifestum, ipotesi, ricordia-
molo, molto più grave. La divergenza applicativa a cui giungo-
no i giuristi è verosimilmente spiegata perché nell’ultima ipote-
si menzionata è previsto che sia considerato responsabile solo
colui che ha commesso il fatto, non importa se ammetta o no la
propria responsabilità, invece, con riferimento all’azione aqui-
liana, si dice solamente che è tenuto al risarcimento del danno
chi confessa (teneatur qui fateatur).
L’attore, per provare la responsabilità del convenuto, può ri-
correre anche al giuramento, tuttavia in questa ipotesi egli non
potrà provare di aver subito un danno maggiore e dovrà – così –
accontentarsi della aestimatio damni

Paolo, 18 ad edictum, D. 12, 2, 30 pr.: Eum, qui iuravit ex ea actione


quae infitiando crescit aliquid sibi deberi, simpli, non dupli persecu-
tionem sibi adquirere pedius ait: abunde enim sufficere exonerare pe-
titorem probandi necessitate, cum omissa hac parte edicti dupli actio
integra maneat: et potest dici hoc iudicio non principalem causam
exerceri, sed iusiurandum actoris conservari.

Esaminato il caso della confessio in iure, la seconda possibi-


lità data al convenuto è quella di negare la propria responsabili-
V. La stima del danno 177

tà: in questo caso, però, laddove essa verrà accertata, il conve-


nuto sarà tenuto a pagare il doppio, anche nella lex Aquilia, co-
me in altre azioni, la condanna verrà raddoppiata (lis infitiando
crescit in duplum45).
Se da un lato può ravvisarsi nella condanna al doppio uno
degli aspetti ancora sanzionatori della tutela aquiliana va sotto-
lineato come, a differenza di altre azioni, si tratta di un aspetto
eventuale, perché solo nel caso in cui il convenuto abbia deciso
di negare la propria responsabilità andrà incontro a questo
aspetto sanzionatorio, che – per certi versi – ricorda l’istituto
della lite temeraria; in questo caso, però, l’aspetto sanzionatorio
non grava sulla parte attorea, bensì sul convenuto.
Va sottolineato che si tratta di una pena di diritto processua-
le e non di diritto sostanziale, quindi non riguarda gli approdi
giurisprudenziali che hanno reso la lex Aquilia un’azione ripa-
ratoria e non sanzionatoria. Si vuole evitare che il convenuto,
pur sapendo di essere il responsabile del danno, metta a repen-
taglio la parte attrice, esponendola anche al pagamento delle
spese del giudizio46.
A riprova del fatto che l’aspetto sanzionatorio della condan-
na al doppio è solo eventuale (e soprattutto connesso a interessi
processuali) si possono ricordare determinati casi in cui il con-
venuto sarà esente dal pagamento del doppio: si tratta del giudi-
zio in buona fede, dell’ipotesi del minore, che potrà giovarsi di
un vero e proprio “diritto al pentimento” anche dopo aver nega-
to la propria responsabilità e, infine, del convenuto che dopo
aver negato la propria responsabilità – iudicium acceptum – de-
cida di ritrattare le dichiarazioni rese.

45. Gaio 3, 216; D. 4, 6, 19, 23 e 26; D. 9, 2, 2, 1 e D. 9, 2, 23, 10. La litiscrescenza


in duplum è tipica anche di altre azioni: si rinviene ad esempio nell’actio iudicati, nella
depositi ex incendii, ruinae, naufragii, tumultusve causa. La si rinviene nei legati per
damnationem e in quelli fatti a favore delle chiese e altri luoghi degni di venerazione.
Ancora nelle azioni si certum petatur ex syngraphis o ex contractu cum argentariis ha-
bito ex Iustiniani edicto.
46. Tuttavia, l’infitiatio non sembra sempre ottenere i risultati sperati, come testi-
monia Seneca (De ira, 2, 9), che parla di inficiationes, quibus trina non sufficiunt fora.
Per un approfondimento sull’abuso del diritto processuale si può rinviare anche a C.
BUZZACCHI, L’abuso del processo nel diritto romano, Giuffrè, Milano 2002.
Capitolo VI

L’actio legis Aquiliae: aspetti processuali

6.1. L’azione diretta e la rigidità del disposto letterale

Al tempo delle legis actiones, la lex Aquilia ha come conse-


guenza la manus iniectio1. Una parte della dottrina, in età risa-
lente, ha sostenuto che il danneggiato non avrebbe potuto ser-
virsi della manus iniectio se prima non avesse fatto accertare la
responsabilità in un giudizio di cognizione mediante la legis ac-
tio sacramenti in personam, o mediante la legis actio per con-
dictionem. La manus iniectio è considerata un’azione esecuti-
va2, tuttavia si ritiene che il ricorso all’azione per sacramentum
sia solo eventuale, perché veniva esperita nelle ipotesi in cui
mancasse un’azione particolare3, e tale va considerata la lex
Aquilia:

Gaio, Institutiones, 4, 21: Per manus iniectionem aeque de his rebus


agebatur, de quibus ut ita ageretur, lege aliqua cautum est, velut iudi-
cati lege XII tabularum. Quae actio talis erat: qui agebat, sic dicebat:
QUOD TU MIHI IUDICATVS sive DAMNATUS ES SESTER-
TIUM X MILIA, QVANDOC NON SOLVISTI, OB EAM REM
EGO TIBI SESTERTIUM X MILIUM IUDICATI MANUM INICIO,
et simul aliquam partem corporis eius prendebat; nec licebat iudicato

1. Si tratta dell’opinione di P.G. CASTELLARI, Op. cit., p. 82-83, di cui si da conto –


e si condivide – di seguito in narrativa.
2. F. BUONAMICI, Delle legis actiones nell’antico diritto romano, Tip. Nistri, Pisa
1868, p. 67; G. PROVERA, Diritto e azione nell’esperienza giuridica romana, in Studi in
onore di Arnaldo Biscardi, Cisalpino, Milano 1983, IV, p. 325-348; C. BUZZACCHI,
Studi sull'actio iudicati nel processo romano classico, Giuffrè, Milano 1996; R. CAR-
DILLI, Damnas esto e manus iniectio nella lex Aquilia: un indizio paleografico?, in
Fundamina, 2014, p. 110-124, per un rilevante tentativo di rilettura del passo del codice
gaiano veronese nel punto cardine di 4, 21.
3. F. BUONAMICI, Op. cit., p. 23.

179
180 La lex Aquilia

manum sibi depellere et pro se lege agere, sed vindicem dabat, qui pro
se causam agere solebat. qui vindicem non dabat, domum ducebatur
ab actore et vinciebatur.

Va anche escluso il previo ricorso alla legis actio per con-


dictionem, perché la lex Aquilia era un’azione sottoposta
all’accertamento della responsabilità, per cui non si agiva in
giudizio per chiedere il risarcimento di una somma certa, ma
aleatoria, subordinata inoltre alla verifica dei requisiti della leg-
ge stessa4. Invece la manus iniectio si conciliava con la natura
della legge Aquilia: da un lato permetteva di fingere la condan-
na5 e questo emerge dalla formula utilizzata dall’attore nel mo-
mento in cui si impadroniva del proprio debitore (pro iudicato
tibi manum inicio) per condurlo innanzi al magistrato:

Gaio, 4, 21: Sed postea lege Vallia, excepto iudicato et eo, pro quo
depensum est, ceteris omnibus, cum quibus per manus iniectionem
agebatur, permissum est sibi manum depellere et pro se agere.

Questo procedimento si adatta bene alla funzione risarcitoria


della lex Aquilia, che guarda sempre con favore alla posizione
attorea, rispetto al convenuto, ciò in quanto con la formula
damnas esto dare si considera quest’ultimo già condannato e
passibile di un mezzo d’esecuzione.
Questa impostazione processuale è destinata a scomparire
con la lex Aebutia del 233 a.C. e con le due leggi Iuliae, che
impongono il sistema formulare come unico processo ordinario.
Con il nuovo quadro giuridico, scompare definitivamente il ri-
corso alla manus iniectio e l’azione aquiliana verrà considerata
come un’azione civile perpetua, che – in quanto tale – necessi-
terà di una collocazione sistematica. Sul punto va detto che, no-
nostante sembra esserci stato un contrasto tra i giuristi, la lex
Aquilia va considerata un’azione mista6:

4. F. BUONAMICI, Delle legis actiones, cit., p. 64.


5. Ibidem, p. 86.
6. A. DOVERI, Op. cit., p. 317. Sulla polivalente natura dell’Aquilia cfr. G. ROS-
SETTI, “Poena” e “Rei Persecutio” nell’Actio ex lege Aquilia, Jovene, Napoli 2013.
VI. L’actio legis Aquiliae: aspetti processuali 181

Gaio, 4, 9: Rem vero et poenam persequimur velut ex his causis, ex


quibus adversus infitiantem in duplum agimus; quod accidit per actio-
nem iudicati, depensi, damni iniuriae legis Aquiliae, aut legatorum
nomine, quae per damnationem certa relicta sunt.

La lex Aquilia è così collocata tra quelle azioni con cui – a


un tempo – si vuole conseguire il valore di un determinato bene
giuridico e infliggere una pena all’autore stesso del danno.
L’aspetto riparatorio e quello sanzionatorio coesistono all’interno
della tutela aquiliana, anche se, come si è visto, sembrerebbe es-
serci, con l’elaborazione giurisprudenziale, un sempre maggiore
avvicinamento tra la lex Aquilia e la riparazione del danno effet-
tiva, con un costante affievolimento dell’aspetto sanzionatorio.
Ciò non toglie che quest’ultimo venisse in rilievo in alcuni
casi. Si pensi al danno provocato da più soggetti appartenenti a
una familia7. In questo caso si agisce non contro ciascun com-
ponente, ma direttamente contro il dominus, il quale dovrà pre-
stare quanto è tenuto a pagare un uomo libero:

Gaio, 7 ad edictum provinciale, D. 9, 2, 32 pr.: Illud quaesitum est, an


quod proconsul in furto observat quod a familia factum sit (id est ut
non in singulos detur poenae persecutio, sed sufficeret id praestari,
quod praestandum foret, si id furtum unus liber fecisset), debeat et in
actione damni iniuriae observari. Sed magis visum est idem esse ob-
servandum, et merito: cum enim circa furti actionem haec ratio sit, ne
ex uno delicto tota familia dominus careat eaque ratio similiter et in
actionem damni iniuriae interveniat, sequitur, ut idem debeat aestima-
ri, praesertim cum interdum levior sit haec causa delicti, veluti si cul-
pa et non dolo damnum daretur.

La ratio della scelta è ravvisabile nel fatto che la responsabi-


lità «trova la propria giustificazione, da un lato, nel progressivo
prevalere dei profili risarcitori su quelli “punitivi” della sanzio-
ne penale; dall’altro, nell’avvertita esigenza di tutelare i terzi
dalle conseguenze dannose delle attività condotte non indivi-
dualmente da un soggetto sui iuris, ma attraverso sottoposti»8.
Il passo in esame differisce profondamente dall’ipotesi in

7. Il caso è trattato in A. DOVERI, Op. cit., p. 177.


8. S. GALEOTTI, Op. cit., p. 248.
182 La lex Aquilia

cui i giuristi romani prediligono la configurazione di più re-


sponsabilità in capo a ciascun agente, come accade nel passo D.
47, 10, 34 in cui i componenti di una famiglia danneggiano
l’albo pretorio.
Entrambi i casi però – a mio parere – fanno emergere, anche
se con intensità diverse, l’aspetto punitivo della responsabilità
aquiliana: nel passo sopra riportato lo si ravvede (attenuato) nel
fatto che sarà considerato responsabile direttamente il padrone,
però si esclude la possibilità di configurare una molteplicità di
risarcimenti, perché emerge il ruolo riparatorio: l’aspetto “pena-
le” si configura limitatamente alla posizione del responsabile,
non anche circa le modalità di liquidazione del danno. Al con-
trario nel secondo caso l’aspetto sanzionatorio sta nel fatto che
ciascun agente sarà responsabile per intero del danno che ha
provocato, perché viene punito il danneggiamento arrecato a un
bene che riveste un’importanza particolare, anche per l’intera
collettività.
Nel caso in cui non intercorra un preciso rapporto tra gli
agenti, per cui non si prefigura una familia, l’azione compete in
solido contro ciascun autore del danneggiamento9. L’aspetto
punitivo emerge nella finzione del danno risarcibile, si prenderà
in considerazione il maggior valore del bene, nell’arco tempora-
le precedente al danneggiamento, così come previsto dal primo
e dal terzo capo della legge, ma non si prenderà in esame il fat-
to che gli agenti hanno agito contemporaneamente, importando
questo una “sfasatura” sulla modalità di liquidazione del danno
per ciascun responsabile. Nel caso di specie troverà applicazio-
ne il principio della cumulatività soggettiva, tipico delle azioni
penali: ciascuno verrà, inoltre, condannato al risarcimento del
danno10, e il pagamento effettuato da uno dei responsabili non
potrà giovare ai coautori.

9. Sull’argomento cfr. P. VOCI, L’estensione dell’obbligo di risarcire il danno nel


diritto romano classico (estratto), Milano 1948, in Scritti beatificazione Ferrini, Vita e
Pensiero, Milano 1947, p. 361 ss. Sulla struttura dell’obbligazione cfr. F. PASTORI,
Concetto e struttura della obbligazione nel diritto romano. Corso di diritto romano
1968-69, Cisalpino-Goliardica, Milano 1971.
10. Si può leggere D. 9, 2, 11, 2 e D. 9, 2, 51, 1.
VI. L’actio legis Aquiliae: aspetti processuali 183

La tutela aquiliana non si può esperire nei confronti degli ere-


di del danneggiante, in forza del principio dell’intrasmissibilità
passiva, tipico delle azioni penali: questa regola viene derogata
nel caso in cui gli eredi abbiano ottenuto un ingiusto vantaggio
patrimoniale: la procedura applicativa sarà più complessa, per-
ché la prova del danno dovrà essere dimostrata contro il de
cuius, mentre la condanna sarà pronunciata verso l’erede, e li-
mitata al vantaggio patrimoniale che ha effettivamente ottenuto.
Va notato che l’intrasmissibilità passiva, nonostante sia una
caratteristica delle azioni penali, svolge una funzione mitigatri-
ce del risarcimento se applicata alla lex Aquilia, concependo la
responsabilità come qualcosa di strettamente personale ed evi-
tando l’arricchimento ingiusto degli eredi a seguito di una con-
dotta colposa. Inquadrata l’azione aquiliana tra quelle miste, va
osservato che essa conosce ulteriori declinazioni connesse alla
modalità in cui viene esperita, passando progressivamente dalla
tutela positiva, connessa al testo legislativo, alla tutela sostan-
ziale, tipica dell’azione pretoria.
La forma più rigida di applicazione della tutela aquiliana ca-
ratterizza l’azione diretta, che nelle fonti romane assume dizioni
differenti: talvolta è definita azione “volgare”, perché inserita
nell’editto del pretore, mentre altre volte ancora è detta azione
“legittima”, perché il suo ambito di applicazione è limitato ai
requisiti stringenti del testo normativo: nonostante nella tratta-
zione si sia dimostrata l’ampia sperimentazione della tutela, non
va dimenticato che – almeno inizialmente – il soggetto tutelato
era solo colui che avesse subito un danno “al corpo”, danno ar-
recato a sua volta “col corpo” del danneggiante, si rendeva ne-
cessaria ancora la presenza delle condotte tipiche, quindi
l’occidere del primo capo; l’urere, il frangere e il rumpere del
terzo.
L’elaborazione pretoria, come si è detto, estenderà la portata
applicativa della legge Aquilia, estensione a cui corrisponde-
ranno l’azione utile e l’azione in fatto (sebbene la differenza tra
le due azioni non è sempre pacifica), come adesso si vedrà.
184 La lex Aquilia

6.2. L’actio utilis e l’actio in factum: verso la tutela effetti-


va

Un elemento peculiare della trasformazione della tutela aquilia-


na è il passaggio dalla contemplazione del danno provocato con
violenza11 alla necessità di una giustizia sostanziale rivolta alla
ristorazione del danno provocato con una condotta “libera” non
contemplata letteralmente dal testo legislativo. I giuristi, per
ampliare la tutela, si servono sia di un’interpretazione letterale,
volta ad estendere la sfera semantica dei verbi della legge sia di
un’interpretazione logica, ricercando affinità applicative tra le
ipotesi legalmente previste e le sperimentazioni pratiche, così la
sensibilità giuridica del pretore condurrà alla concessione di
un’azione che verrà chiamata “utile”, perché possiede la stessa
funzione, altrimenti detta utilitas12, dell’azione diretta; ciò le
permetterà di essere anche definita ad exemplum legis Aquiliae,
espressione che da un lato la riconnette all’azione diretta,
dall’altro la svincola dai rigidi presupposti. Si ricorre all’azione
utile quando il danno è cagionato solo corpori, senza la condot-
ta materiale dell’agente, come questo passo, già riportato anche
in precedenza, mette in luce:

I. 4, 3, 16: Veluti si quis hominem alienum aut pecus ita incluserit, ut


fame necaretur; aut jumentum ita vehementer egerit, ut rumperetur;
aut pecus in tantum exagitaverit, ut praecipitaretur; aut alieno servo
persuaserit ut in arborem adscenderet vel in puteum descenderet, et is,
adscendendo vel descendendo, aut mortuus aut aliqua parte corporis
laesus fuerit.

Si ricorre all’azione utile quando generalmente si verifica un


deterioramento dei beni alimentari, in queste ipotesi è difficile
individuare la condotta dell’agente e ricomprenderla all’interno
dei verba della legge:

11. Un’interessante ricerca sul danno inferto violentemente è in M. BALZARINI, Ri-


cerche in tema di danno violento e rapina nel diritto romano, CEDAM, Padova 1969.
12. Studi accurati su questo concetto si rinvengono in E. VALIÑO, Actiones utiles,
Ediciones Universidad de Navarra, Pamplona 1974, ed in M. NAVARRA, Ricerche sulla
utilitas nel pensiero dei giuristi, Giappichelli, Torino 2002.
VI. L’actio legis Aquiliae: aspetti processuali 185

Paolo, 22 ad edictum, D. 9, 2, 30, 2: Si quis alienum vinum vel fru-


mentum consumpserit, non videtur damnum iniuria dare ideoque utilis
danda est actio.

Secondo Paolo se qualcuno ha “consumato” del vino o del


frumento non ha provocato un danno iniuria – mancando – sia
il requisito corpore sia la condotta tipica, pertanto bisogna con-
cedere un’azione utile (utilis danda est actio).
Qualche problema solleva un passo di Ulpiano, in cui non si
fa neppure riferimento alla possibilità di concedere un’azione
utile:

Ulpiano, 11 ad edictum, D. 4, 3, 7, 6: Si quadrupes tua dolo alterius


damnum mihi dederit, quaeritur, an de dolo habeam adversus eum ac-
tionem. Et placuit mihi, quod Labeo scribit, si dominus quadrupedis
non sit solvendo, dari debere de dolo, quamvis, si noxae deditio sit se-
cuta, non puto dandam nec in id quod excedit.

In questo caso Ulpiano si domanda quale sia la disciplina


applicabile nell’ipotesi in cui un quadrupede, a causa del com-
portamento di un terzo, abbia provocato un danno, e pone una
questione controversa sull’applicabilità dell’actio de dolo: Ul-
piano, approvando l’opinione giuridica di Labeone (et placuit
mihi, quod Labeo scribit), ritiene che se il padrone non sia sol-
vente, è necessario concedere l’actio de dolo, venendo meno
l’azione de pauperie. Anche Ulpiano concepisce l’azione sul
dolo come una tutela sussidiaria, generalmente concessa quan-
do non sia possibile ricorrere a un’altra azione, e, nel caso di
specie, nemmeno all’azione utile della tutela aquiliana, difatti in
altri casi i giuristi affermano che non bisogna concedere
l’azione de dolo laddove sia esperibile una diversa tutela (ac-
tionem de dolo non dari ubi est alia actio13), e ciò perché
l’actio de dolo aveva carattere esclusivamente sussidiario. Il ri-
corso all’actio Aquilia utile è esclusa perché in questo caso
l’attenzione va posta non tanto sulla colpa, quanto sul dolo del
terzo (dolo alterius); per certi versi il passo si colloca in linea di

13. D. 4, 3, 1, 4.
186 La lex Aquilia

continuità con D. 9, 2, 11, 5 in cui un cane provoca un danno


perché è stato istigato da qualcuno (quis canem irritaverat et ef-
fecerat ut aliquem morderet) e più generalmente con tutti quei
passi in cui gli animali selvatici provocano un danno, perché
istigati dolosamente: istigatu alterius fera damnum dedit14. Ul-
piano ritiene più opportuno concedere un’azione in factum no-
mine doli, come lascia intendere l’uso dell’espressione actio-
nem dari debere de dolo.
L’ambito applicativo dell’azione utile è notevole, così verrà
apprestata tutela anche nel caso in cui sia stato ferito non un
servo, ma un uomo libero15, e ciò vuol dire che la tutela aquilia-
na non prenderà più in considerazione la qualifica soggettiva, e
quindi sociale, del danneggiato, in un’ottica sempre più favore-
vole alla tutela del credito, in un clima di sempre più responsa-
bilità nell’azione quotidiana.
L’approdo finale sarà rappresentato dalla concessione
dell’azione utile al danno provocato nec corpore con progressi-
va attenuazione del requisito del corpori. Uno dei casi più
esemplificativi è dato dalla tutela del pascolo, inteso come bene
economicamente produttivo, si potrà chiedere il risarcimento
del danno provocato dal gregge sul campo16: il corpori viene in
rilievo solo perché il danno è provocato alla produzione del pa-
scolo e non, quindi, al terreno strettamente inteso. Infine la tute-
la del proprietario sarà affiancata a quella del soggetto che, seb-
bene non proprietario, sia titolare di un ius in re17: «anche in
questo caso, ciò doveva riflettere una rinnovata visione dell’actio
legis Aquiliae, come strumento fondamentalmente volto a risarci-
re il danno patrimoniale anziché a punire la violazione del diritto
di proprietà»18.
Il requisito del corpori, già attenuatosi nella più matura spe-

14. Cfr. M.F. CURSI, R. FIORI, Le azioni generali di buona fede e di dolo nel pen-
siero di Labeone, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano “Vittorio Scialoja”,
2011, p. 146-184.
15. D. 9, 2, 7 pr.
16. D. 9, 2, 39, 1.
17. D. 9, 2, 11, 8 e 10.
18. L. DESANTI, Op. cit., p. 92.
VI. L’actio legis Aquiliae: aspetti processuali 187

rimentazione dell’azione utile, può scomparire del tutto in certe


ipotesi di danneggiamento. Queste circostanze, in cui si perde
quel minimo di collegamento logico richiesto per ricorrere
all’azione aquiliana utile, indurranno i giuristi e il pretore alla
concessione di una nuova e diversa tutela aquiliana. Si tratta
della concessione dell’actio in factum:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 7, 6: Celsus autem multum interesse


dicit, occiderit an mortis causam praestiterit, ut qui mortis causam
praestitit, non Aquilia, sed in factum actione teneatur. Unde adfert
eum qui venenum pro medicamento dedit et ait causam mortis praesti-
tisse, quemadmodum eum qui furenti gladium porrexit: nam nec hunc
lege Aquilia teneri, sed in factum.

Ulpiano ricorre immediatamente alle acute osservazioni di


Celso (Celsus autem multum interesse dicit), ricollegando
l’azione in fatto a tutte quelle ipotesi in cui l’agente ha “predi-
sposto” la situazione lesiva del diritto altrui (causam praestiterit).
Si tratta di un pregiudizio derivante da “non lesione” della
struttura materiale del bene (rebus integris) come le volte in cui
viene fatto fuggire l’animale altrui, ad esempio slegando le ca-
tene19, o quando il vino viene danneggiato perché s’introducono,
all’interno della botte, altre sostanze20. L’azione in fatto viene
accordata principalmente nella ipotesi del damnum nec corpore
nec corpori datum:

Gaio, 6 ad edictum provinciale, D. 9, 2, 16: Si non corpore fuerit


datum, neque corpus laesum fuerit, sed alio modo alicui damnum con-
tigerit, cum non sufficiat neque directa neque utilis legis Aquiliae ac-
tio, placuit eum, qui obnoxius fuerit, in factum actione teneri.

Secondo Gaio, quando manca il requisito del corpore (si non


corpore fuerit datum) e quello del corpori (neque corpus
laesum fuerit) si esclude il ricorso all’azione diretta e a quella
utile (cum non sufficiat neque directa neque utilis legis Aquiliae

19. D. 9, 2, 53: Boves alienos quis in angustum locum coegit, eoque effectum est ut
eiicerent.
20. D. 9, 2, 27, 14: Quis lolium aut avenam in segetem alienam iniecerit.
188 La lex Aquilia

actio), e bisogna concedere un’azione in fatto (in factum actio-


ne teneri).
La particolarità di questa azione è che essa è concepita come
estremo rimedio giuridico, e si scollega definitivamente dal te-
sto normativo, si tratta di ipotesi particolari, comunque degne di
tutela, ma non contemplate né dai verbi presenti nella lex Aqui-
lia (ex verbis legis) né dalla volontà legislativa (ex mente legi-
slatoris), come testimonia il giurista Paolo21:

Paolo, 2 ad Plautum, D. 9, 2, 33, 1: In damnis, quae lege Aquilia non


tenentur, in factum datur actio.

In D. 41, 1, 57, già esaminato più sopra, viene concessa


un’azione utile contro chi concede la libertà a un cinghiale, cat-
turato da altri, liberandolo. Questa scelta è coerente, perché chi
fa fuggire un animale è come se ne cagionasse la morte,
l’animale smette immediatamente di appartenere al soggetto
che lo ha catturato (aper qui fugit desinit esse meus). Questo
caso è diverso dall’ipotesi in cui una persona decida di far fug-
gire lo schiavo compeditus altrui come riportato in D. 4, 3, 7, 7.
L’agente è mosso dalla compassione verso il servo (misericor-
dia ductus) e il pretore concede un’azione in factum perché il
servo, nonostante sia fugitivus, non ha mai smesso di appartene-
re al proprietario: in questo caso, però, sarebbe stato più coeren-
te la concessione dell’azione utile, constatazione che importa
una riflessione sulla “zona grigia” che le separa. Non mancano
delle ipotesi in cui i giuristi, forse per distrazione o forse per
opinioni divergenti, fanno un uso promiscuo delle due espres-
sioni. Il caso di scuola è quello dell’animale che viene rinchiuso
e viene fatto morire di fame: certe volte si concede un’azione
utile, altre volte un’azione in fatto, Ulpiano in D. 47, 8, 2, 20
concede un’azione utile, mentre in D. 9, 2, 7, 29 (come fa Nera-
zio in D. 9, 2, 9, 2) concede, per una fattispecie identica,
un’azione in factum.
Una divergenza si ritrova anche quando l’animale altrui,

21. L’osservazione in P.G. CASTELLARI, Op. cit., p. 90.


VI. L’actio legis Aquiliae: aspetti processuali 189

spaventato, precipita in un dirupo: Nerazio, in D. 9, 2, 53, con-


cede l’azione in factum, mentre Gaio predilige l’azione utile in
D. 47, 2, 51. L’uso incerto delle espressioni può derivare dal
fatto che esistono situazioni intermedie tra l’azione utile e quel-
la in fatto, come quando il servo muore per il freddo perché gli
vengono sottratte le vesti. In questo caso il danno non viene ar-
recato col corpo, perché il servo muore a causa del freddo e non
della sottrazione delle vesti (servus quis alienum spoliaverat,
isque frigore mortuus est), l’attenzione forse andrebbe posta sul
fatto che il danno sia stato comunque provocato al corpo, per-
ché il servo, si dice, è comunque morto (servus mortuus est).
Così ai giuristi importa soprattutto far presente che al soggetto
danneggiato viene concessa una tutela risarcitoria, senza foca-
lizzarsi troppo sul tipo di azione: in questo senso si spiega l’uso
di un linguaggio più rilassato che tende a confondere l’azione
utile con quella in fatto, fino a identificarle entrambe in
un’azione civile utile22.
Premesso che i giuristi dimostrano sempre attenzione alla giu-
stizia sostanziale, senza preoccuparsi troppo dell’impalcatura
giuridica, si potrebbe a lungo ragionare su quale possa essere,
sempre che vi sia, il diverso regime giuridico tra le due azioni. In
questa sede si può ritenere che si tratti di una differenza fatta
dai compilatori giustinianei, che – osservando il diverso rilievo
dei requisiti dell’Aquilia diretta così come ricorrenti nei casi
pratici – avrebbero deciso di introdurre una diversa terminolo-
gia, sconosciuta ai giuristi classici, con l’intento di ricondurre i
casi pratici all’interno di categorie giuridiche unitarie. Un’altra
ipotesi potrebbe essere quella di ritenere la differenza tra le due
azioni già presente in epoca classica, senza che i giuristi si sia-
no comunque impegnati a esprimerla, così in dottrina la diffe-
renza tra le due azioni è stata rapportata principalmente al tem-
po di prescrizione23, dicendosi che l’azione diretta sarebbe per-

22. In D. 9, 2, 16 l’azione in fatto non è annoverata come azione pretoria, ma già


come actio civilis utilis.
23. In materia di prescrizione delle azioni civili nel diritto romano si può rinviare
all’ancora fondamentale M. AMELOTTI, La prescrizione delle azioni in diritto romano,
Giuffrè, Milano 1958. Ancora sul tema, ma questa volta con riferimento al diritto cri-
190 La lex Aquilia

petua, l’azione utile sottoposta a una prescrizione trentennale,


mentre quella in fatto – trattandosi di azione pretoria – si sareb-
be prescritta nel più breve termine di un anno.
Una ricostruzione di questo genere, però, non sembra avere
un grande seguito, infatti vi sono alcuni esempi che smentisco-
no questa ipotesi, senza addentrarsi nei casi particolari, si può
dire che l’azione de servo corrupto aveva natura pretoria, ma
nonostante ciò era un’azione penale e perpetua. I dati a disposi-
zione non sono sufficienti per individuare un’esatta differenza
tra le azioni aquiliane, se non un ricorrere più o meno inteso dei
requisiti previsti dalla legge, il regime giuridico sembrerebbe
non variare nel diritto sostanziale, quanto, probabilmente, in
quello processuale, differenza che sarà destinata a sparire quan-
do tutti i iudicia diventeranno extraordinaria.

6.3. La legittimazione attiva ex lege Aquilia

Merita qualche riflessione la legittimazione attiva della legge


Aquilia. L’azione diretta è concessa solamente al padrone, pro-
prietario del bene danneggiato:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 11, 6: Legis autem Aquiliae actio ero


competit, hoc est domino.

È necessario che chi agisce sia proprietario nel momento in


cui esperisce l’azione e non anche quando il danno è stato infer-
to, e, dunque, quando si verifica il danneggiamento, si pensi al-
la posizione dell’erede di fronte al danneggiamento dell’eredità,
come emerge dal seguente passo:

Pomponio, 19 ad Sabinum, D. 9, 2, 43: Ob id, quod ante quam heredi-


tatem adires damnum admissum in res hereditarias est, legis Aquiliae
actionem habes, quod post mortem eius, cui heres sis, acciderit: domi-
num enim lex Aquilia appellat non utique eum, qui tunc fuerit, cum

minale cfr. E. VOLTERRA, Intorno alla prescrizione dei reati nel diritto romano, in Bul-
lettino dell’Istituto di Diritto Romano “Vittorio Scialoja”, 1929, p. 57-76.
VI. L’actio legis Aquiliae: aspetti processuali 191

damnum daretur: nam isto modo ne ab eo quidem, cui heres quis erit,
transire ad eum ea actio poterit: neque ob id, quod tum commissum
fuerit, cum in hostium potestate esses, agere postliminio reversus po-
teris: et hoc aliter constitui sine magna captione postumorum libero-
rum, qui parentibus heredes erunt, non poterit. Eadem dicemus et de
arboribus eodem tempore furtim caesis. Puto eadem dici posse etiam
de hac actione quod vi aut clam, si modo quis aut prohibitus fecerit,
aut apparuerit eum intellegere debuisse ab eis, ad quos ea hereditas
pertineret, si rescissent, prohibitum iri.

Il passo, nella parte iniziale, se letto anche in combinato con


altre testimonianze, offre lo spunto per mettere in luce
l’estensione della legittimazione processuale dell’Aquilia: si trat-
ta del danno arrecato a una res haereditaria o addirittura non
appartenente a nessuno nel momento in cui avviene il danneg-
giamento24. Il problema viene risolto mediante una finzione
giuridica, con la quale si riconosce l’eredità come padrona di se
stessa25; avvenuta poi l’assegnazione, l’azione, astrattamente
configurabile direttamente in capo all’eredità, passerà all’erede.
È possibile che vi sia un concorso di più soggetti interessati
al risarcimento del danno. In questo caso va detto che il pro-
prietario è generalmente preferito, per cui gli si concederà
l’azione diretta. L’attenzione dei giuristi ai casi pratici, li ha in-
dotti a concedere un’azione utile – e parallela a quella del do-
minus – a tutti quei soggetti interessati all’esercizio dell’azione,
sia in forza di una situazione legale (come la titolarità di un ius
in re), sia in forza di una situazione di fatto, che li ha visti in-
giustamente danneggiati26.
Chi agisce in giudizio mira in primo luogo al perseguimento
dell’aestimatio damni, che si risolve in una valutazione della le-
sione in denaro, in tal senso si spiega perché, nel caso in cui vi
sia una comproprietà, ciascuno può agire limitatamente alla pre-
tesa corrispondente al proprio credito27.

24. D. 8, 1, 1 pr.; D. 15, 1, 3 e D. 43, 24, 13, 5.


25. D. 11, 1, 15. L’idea della finzione giuridica la si rinviene in P.G. CASTELLARI,
Op. cit., p. 96.
26. D. 9, 2, 11, 10 e D. 9, 2, 12. Si può confrontare anche D. 7, 1, 17, 3.
27. È definita – in D. 9, 2, 19 e 20 – pro parte dominii.
192 La lex Aquilia

Questa ipotesi, comunque, differisce dal caso già analizzato


della pluralità di agenti, poiché ciascuno sarà tenuto per l’intero
venendo in rilievo il carattere penale della lex Aquilia, che in
quel caso mira a sanzionare l’iniuria di ciascun agente.
L’azione utile verrà concessa anche al non proprietario, e
una prima elaborazione in questo senso è data dal caso in cui il
danno sia stato subito non da un servo, ma da un uomo libero,
escludendosi, in questo caso, il ricorso all’azione diretta:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 13 pr.: Liber homo suo nomine uti-


lem Aquiliae habet actionem: directam enim non habet, quoniam do-
minus membrorum suorum nemo videtur. Fugitivi autem nomine do-
minus habet.

Il problema sorge dal fatto che nessuno può essere proprieta-


rio delle sue parti fisiche. Si comprende come una situazione
del genere non sia conforme a giustizia, ed è necessario che il
pretore intervenga per concedere un’azione utile. La legittima-
zione attiva verrà concessa direttamente al danneggiato o al pa-
dre, operandosi in questo caso un parallelismo tra la figura del
pater e quella del dominus28. In tal modo, essi potranno ottenere
la rifusione delle spese della malattia e il valore delle giornate
di lavoro perse. Si tratta di una valutazione che tiene in conside-
razione il danno emergente (le spese mediche) e il lucro cessan-
te (dato dalle giornate di lavoro non retribuite).
Nel prossimo paragrafo, si prenderà in esame l’estensione
della legittimazione attiva anche verso il soggetto non proprie-
tario, che potrà, in questo modo, esperire validamente la lex
Aquilia per far valere le proprie ragioni.

28. Sull’elaborazione pretoria e giurisprudenziale cfr. L. VACCA, La giurispruden-


za nel sistema delle fonti del diritto romano: corso di lezioni, Giappichelli, Torino
1989. Si può mettere in luce come la tutela viene accordata a soggetti inizialmente non
legittimati, e questo si spiega perché il diritto romano viene incontro alle esigenze della
vita pratica, nascendo essenzialmente dalla casistica dei giureconsulti; sul tema cfr. L.
VACCA, Contributo allo studio del metodo casistico nel diritto romano, Giuffrè, Milano
1982. Invece sulla filiazione cfr. F. LANFRANCHI, Ricerche sulle azioni di Stato nella fi-
liazione in diritto romano, Zanichelli, Bologna 1953-1964.
VI. L’actio legis Aquiliae: aspetti processuali 193

6.4. La legittimazione attiva dell’actio utilis nelle ipotesi


di usufrutto, possesso e pignoramento. La posizione
della giurisprudenza e le divergenze dottrinali sul
tema

Come si è avuto modo già di mettere in luce, la legge Aquilia,


almeno nella sua forma diretta, accorda protezione, tanto pro-
cessuale quanto sostanziale, solamente al proprietario. La prati-
ca, e soprattutto l’attività pretoriale, viene in soccorso al diritto
formale, e mette in luce come possano esistere degli interessi
affini, se non addirittura uguali, che meritano la stessa protezio-
ne. Così la legittimazione processuale viene estesa anche a tutti
coloro che possiedono un diritto reale sulla cosa danneggiata e
il pretore concede, in questo caso, un’actio utilis ex lege Aqui-
lia, senza considerare se il danno sia arrecato corpore corpori o
solamente corpori.
La legittimazione viene innanzitutto concessa al titolare di
un diritto di usufrutto o di un diritto d’uso:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 11, 10: An fructuarius et usuarius le-


gis Aquiliae actionem haberet, Iulianus tractat: et ego puto melius uti-
le iudicium ex hac causa dandum.

Viene accordata tutela anche quando il danno viene cagiona-


to direttamente dal proprietario. Partendo dalla constatazione, di
carattere generale, per cui il soggetto titolare di un diritto reale
non deve arrecare pregiudizio al proprietario (fructuarius cau-
sam proprietatis deteriorem facere non debet), Ulpiano specifi-
ca che è altrettanto vero che neppure il proprietario può arrecare
danno al diritto reale:

Ulpiano, 18 ad Sabinum, D. 7, 1, 17, 1: Ex eo, ne deteriorem condi-


cionem fructuarii faciat proprietarius, solet quaeri, an servum dominus
coercere possit. Et Aristo apud Cassium notat plenissimam eum coer-
citionem habere, si modo sine dolo malo faciat: quamvis usufructua-
rius nec contrariis quidem ministeriis aut inusitatis artificium eius cor-
rumpere possit nec servum cicatricibus deformare.
194 La lex Aquilia

Così se qualcuno danneggerà degli alberi , a prescindere che


si tratti di un terzo o del proprietario stesso (ab extraneo vel a
proprietario succisae fuerint), arrecando pregiudizio a un dirit-
to reale altrui, sarà tenuto con la legge Aquilia, come le fonti
mettono in risalto:

Ulpiano, 71 ad edictum, D. 43, 24 13 pr: Denique si arbores in fundo,


cuius usus fructus ad Titium pertinet, ab extraneo vel a proprietario
succisae fuerint, Titius et lege Aquilia et interdicto quod vi aut clam
cum utroque eorum recte experietur.

È interessante osservare il mutamento della funzione sociale


del risarcimento del danno: dapprima la legge nasce per tutelare
il proprietario, quel dominus che esercita il controllo sui suoi
averi e sui propri servi, che non sono nulla di più di una res.
Una prima apertura della tutela aquiliana conduce alla tutela
dell’uomo libero, che – se danneggiato – potrà chiedere il risar-
cimento del danno. La lex Aquilia diventerà un istituto giuridico
utilizzabile anche contro il proprietario, contro quel diritto di
proprietà che – agli albori – era l’unico contemplato e l’unico,
dunque, degno di essere protetto:

Paolo, 10 ad Sabinum, D. 9, 2, 12: Sed et si proprietatis dominus vul-


neraverit servum vel occiderit, in quo usus fructus meus est, danda est
mihi ad exemplum legis Aquiliae actio in eum pro portione usus fruc-
tus, ut etiam ea pars anni in aestimationem veniat, qua nondum usus
fructus meus fuit.

Si mette in evidenza il diritto innegabile dell’usufruttuario di


ottenere il risarcimento dei danni contro il proprietario: in que-
sto caso il proprietario ha danneggiato (ferendo o uccidendo) il
proprio servo sul quale, però, un terzo ha il diritto di usufrutto.
L’attenzione va posta sull’espressione pro portione usufructus,
che serve a spiegare l’entità del risarcimento che dev’essere ri-
servata all’usufruttuario. Ciò vuol dire, verosimilmente, che
egli avrà diritto al risarcimento del danno limitatamente alla
porzione di usufrutto che è andata perduta, e non con riferimen-
to all’intera durata: l’usufruttuario non potrà chiedere il risar-
VI. L’actio legis Aquiliae: aspetti processuali 195

cimento del danno riguardante la parte temporale di usufrutto di


cui si è già servito, ciò vuol dire che – in termini risarcitori – il
servo in usufrutto ha un valore minore del servo in proprietà. La
prima operazione consiste nel prendere ad esame il valore del
servo in usufrutto, e da questo valore (e non da quello della
proprietà) andrà comunque sottratto il prezzo dell’usufrutto di
cui il terzo si è giovato.
In tema di legittimazione attiva ex lege Aquilia, appare ne-
cessario ed opportuno affrontare la questione relativa
all’individuazione dei soggetti cui la relativa tutela era ricono-
sciuta, affrontando parimenti l’aspetto relativo all’evoluzione
esegetica dei concetti e dei termini concretamente adoperati dai
giuristi in ambito giurisprudenziale.
Un migliore inquadramento della legittimazione processuale
impone di ritornare sui sostantivi utilizzati nella lex Aquilia per
indicare il soggetto proprietario, e dunque erus (o herus) e do-
minus. Questi termini, già analizzati nella prima parte della trat-
tazione sotto un aspetto meramente grammaticale-ricostruttivo,
devono adesso essere inquadrati nuovamente.
La legittimazione attiva nelle ipotesi di cui al primo capo
della legge era originariamente riservata a specifiche figure di
proprietari definite mediante il sostantivo erus (o herus), indi-
cante il padrone di servi (e probabilmente anche di quadrupedi).
Il terzo capo presenta invece la tutela relativa ad ipotesi non li-
mitate alla proprietà su servi e quadrupedi riconosciuta al domi-
nus, tutela estesa all’integrità di ogni bene giuridico. Intorno al
I secolo a.C. erus diviene progressivamente sinonimo di domi-
nus, così la giurisprudenza pretoria inizia il processo di omolo-
gazione dei due capi della lex Aquilia, sostituendo nel primo
capo dominus con erus. Elaborata la costruzione del “prezzo
formale”29, nelle fasi di emersione del carattere anche risarcito-
rio del rimedio aquiliano, si discute sulla possibilità di estende-
re la tutela ex lege Aquilia a soggetti diversi dal dominus rei.
Sono significativi al riguardo taluni passi di Giuliano, in merito

29. Sul danno qualificato cfr. anche A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex
Aquilia: corso di diritto romano, CEDAM, Padova 2008.
196 La lex Aquilia

alla possibilità di riconoscere la tutela al pater per le ferite arrecate


al figlio, al comodatario e – come appena visto – all’usufruttuario.
Alla soluzione di carattere affermativo ostava l’esigenza di
procedere alla aestimatio rei che comportava di assumere quale
oggetto, almeno formale, della liquidazione il solo valore della
proprietà, precludendo in tal modo la possibilità di tutelare con
lo strumento aquiliano chi non rivestisse la qualifica di proprie-
tario, il quale – vedendosi risarcito l’intero valore del bene –
avrebbe visto superato il limite del proprio diritto. Questo pro-
blema è risolto, come si è visto dianzi nell’ipotesi del servo in
usufrutto, dallo sdoppiamento del valore tra il servo in proprietà
e quello in usufrutto, ed infine dalla sottrazione del valore del
diritto reale già goduto. Il fondamento di questo approdo giuri-
sprudenziale lo si ravvisa nel criterio dell’id quod interest che
faceva venire meno ogni ostacolo alla estensione della tutela
aquiliana ai soggetti non proprietari, con opportune azioni utili.
Ulpiano e Paolo, in particolar modo, ammisero l’azione aqui-
liana a favore dell’usufruttuario, del padre per le lesioni sofferte
dal figlio, qualora non fosse esperibile l’actio iniuriarum,
l’azione del creditore pignoratizio30 (e forse anche del comoda-
tario) e del liber homo posseduto in buona fede, aspetti che sa-
ranno meglio chiariti qui di seguito31.
Oltre all’usuario e all’usufruttuario, la legittimazione attiva
viene accordata anche al possessore di buona fede, quando il
terzo arrechi danno a un bene in suo possesso. L’attenzione può
esser posta sui seguenti passi:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 11, 8: Sed si servus bona fide alicui


serviat, an ei competit Aquiliae actio? et magis in factum actio erit
danda.

30. Per un approfondimento delle garanzie reali nel diritto romano cfr. A. BISCAR-
DI, Appunti sulle garanzie reali in diritto romano, Cisalpino-Goliardica, Milano 1976.
31. Sulla questione cfr. L. CAPOGROSSI COLOGNESI, La struttura della proprietà e
la formazione dei “iura praediorum” nell'età repubblicana, I, Milano 1969, p. 421; G.
VALDITARA, Superamento dell’aestimatio rei nella valutazione del danno aquiliano e
estensione della tutela ai non domini, Giuffré, Milano 1992, p. 201 ss., p. 447 ss. Rela-
tivamente alle fonti romane, si confronti invece D. 9, 2, 11, 6; D. 9, 2, 2, 2; D. 9, 2, 5, 3;
D. 19, 2, 13, 4; D. 9, 2, 11, 9; D. 9, 2, 11, 10 e D. 9, 2, 13.
VI. L’actio legis Aquiliae: aspetti processuali 197

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 13, 1: Iulianus scribit, si homo liber


bona fide mihi serviat, ipsum lege Aquilia mihi teneri.

La ratio di questa scelta va ricercata nella percezione socia-


le, in quanto il possessore in buona fede appare, nei confronti
del terzo che entra in contatto con lui, il legittimo proprietario32,
che potrà anche agire processualmente per richiedere il risarci-
mento del danno. Anche qualora non si voglia giungere ad af-
fermare l’uguaglianza tra proprietario e possessore, si può dire
che quest’ultimo appare ai terzi come almeno un sostituto del
proprietario: egli agisce come procuratore al posto del padrone
(loco domini), e in ragione della sua peculiare posizione potrà
giovarsi degli stessi mezzi processuali spettanti al proprietario,
si spiega perché il convenuto non possa opporre all’attore, che
esperisce l’utilis actio legis Aquiliae, la mancanza del diritto di
proprietà (ius dominii). Diversa è invece la situazione in cui si
trovano processualmente contrapposti da un lato il possessore
in buona fede e dall’altra il proprietario, che agirà con una rei
vindicatio. L’interesse del possessore dovrà cedere innanzi a
una posizione “maggiormente tutelata” come la proprietà, e nel
caso in cui il possessore abbia conseguito un risarcimento del
danno in un precedente giudizio, dovrà restituire la somma al
proprietario, si legge nelle fonti che non può trarre guadagno
dal bene spettante al legittimo proprietario (lucrum enim ex eo
facere non debet), vediamolo:

Giuliano, 60 digestorum, D. 5, 3, 55: Evicta hereditate bonae fidei


possessor quod lege Aquilia exegisset non simplum, sed duplum resti-
tuet: lucrum enim ex eo, quod propter hereditatem acceperit, facere
non debet.

Più complesso è stabilire se il proprietario possa agire con


l’azione aquiliana nei confronti del possessore in buona fede
che abbia arrecato un danno alla cosa. I giuristi sembrano am-

32. Sull’usucapione e i termini di acquisto della proprietà da parte del possessore in


buona fede cfr. L. VACCA, Possesso e tempo nell’acquisto della proprietà. Saggi roma-
nistici, CEDAM, Padova 2012.
198 La lex Aquilia

mettere questa possibilità:

Giavoleno, 9 epistolarum, D. 9, 2, 38: Si eo tempore, quo tibi meus


servus quem bona fide emisti serviebat, ipse a servo tuo vulneratus
est, placuit omnimodo me tecum recte lege Aquilia experiri.

Nonostante sia difficile immaginare che il possessore in


buona fede voglia arrecare un danno alla cosa che possiede,
l’esperibilità dell’azione trova fondamento nel nuovo concetto
di iniuria, ormai divenuto elemento soggettivo, separato e di-
verso dall’animus iniuriandi. Il proprietario, agendo contro il
possessore con la rei vindicatio, può – nel medesimo processo –
conseguire anche il risarcimento del danno.
È dubbio se possa avvenire il contrario, ossia se il possesso-
re di buona fede possa agire contro il proprietario che abbia ar-
recato un danno alla cosa. Anche in questo inverso caso
l’azione sembra ammessa:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 17: Si dominus servum suum occide-


rit, bonae fidei possessori vel ei qui pignori accepit in factum actione
tenebitur.

È vero che il proprietario possiede il ius utendi et abutendi,


inteso come diritto a utilizzare il proprio bene anche danneg-
giandolo, tuttavia i giuristi tendono a tutelare le posizioni giuri-
diche rilevanti che possono porsi, anche astrattamente, in con-
trasto con il diritto di proprietà, ponendosi l’attenzione sulla
stima economica dell’aspettativa del possessore in buona fede.
La legittimazione processuale è accordata all’usufruttuario,
all’usuario e al possessore, non assumendo alcun rilievo la po-
sizione giuridica del danneggiante, sia esso il legittimo proprie-
tario o un terzo.
Se è pacifico che l’azione possa essere esperita anche tra co-
niugi33 (e in questo caso i giuristi dicono che dubium non est) e

33. Sul matrimonio in diritto romano, interessanti riflessioni sono rinvenibili in R.


ASTOLFI, Il matrimonio nel diritto romano preclassico, CEDAM, Padova 2000 e E.
VOLTERRA, Matrimonio: diritto romano, Giuffrè, Milano 1975. Il tema viene compiu-
tamente analizzato anche da R. ORESTANO, La struttura giuridica del matrimonio ro-
VI. L’actio legis Aquiliae: aspetti processuali 199

che al danneggiato possono succedere anche i propri eredi (D.


9, 2, 23, 8), più complessa è la posizione del creditore pignora-
tizio rispetto a colui che distrugge o danneggia la cosa pignora-
ta. Gli interpreti hanno sostenuto delle tesi diverse: alcuni han-
no negato tutela al creditore pignoratizio perché non espressa-
mente menzionato tra i soggetti titolari dell’azione; altri – al
contrario – l’hanno ammessa, argomentando sul fatto che non
vengono tutelati i singoli diritti, ma ogni soggetto che abbia un
ius in re:

Paolo, 22 ad edictum, D. 9, 2, 30, 1: Pignori datus servus si occisus


sit, debitori actio competit. Sed an et creditori danda sit utilis, quia po-
test interesse eius, quod debitor solvendo non sit aut quod litem tem-
pore amisit, quaeritur. Sed hic iniquum est et domino et creditori eum
teneri. Nisi si quis putaverit nullam in ea re debitorem iniuriam passu-
rum, cum prosit ei ad debiti quantitatem et quod sit amplius consecu-
turus sit ab eo, vel ab initio in id, quod amplius sit quam in debito, de-
bitori dandam actionem: et ideo in his casibus, in quibus creditori
danda est actio propter inopiam debitoris vel quod litem amisit, credi-
tor quidem usque ad modum debiti habebit Aquiliae actionem, ut pro-
sit hoc debitori, ipsi autem debitori in id quod debitum excedit compe-
tit Aquiliae actio.

Nel passo, ci si chiede se anche al creditore bisogna conce-


dere un’azione utile (an et creditori danda sit utilis). L’azione
viene concessa quando il danno pregiudica il suo diritto di cre-
dito, prendendosi in considerazione non il danno provocato alla
cosa, quanto la cosa stessa intesa come mezzo di pagamento.
La scelta dei giuristi trova fondamento nel fatto che il credito-
re pignoratizio non possiede un’azione in termini generali, a dif-
ferenza del proprietario o dei titolari di un diritto reale sulla cosa,
legittimati ad agire innanzi a qualunque lesione arrecata al bene.

mano dal diritto classico al diritto giustinianeo, 1, Giuffrè, Milano 1951. Per
l’evoluzione dell’istituto in epoca successiva si rimanda a T. SPAGNUOLO VIGORITA,
Casta domus. Un seminario sulla legislazione matrimoniale augustea, Jovene, Napoli
2002 e D. GEMMITI, Il concubinato nel diritto romano e giustinianeo: con appendice
sul diritto bizantino, LER, Napoli 1993. Per una visione comparatistica, questa volta
non senza punti criticabili, si veda R.M. MANDIS MEZZETTI, La donna e il matrimonio:
nel diritto islamico e nel diritto romano, Valbonesi, Forlì 1991. Sul divorzio invece cfr.
G. BRINI, Matrimonio e divorzio nel diritto romano, G. Bretschneider, Roma 1975.
200 La lex Aquilia

Ultimo caso riguarda l’ipotesi in cui un soggetto abbia inte-


resse affinché si provveda alla conservazione di una determina-
ta cosa in forza di un vincolo contrattuale. Nel caso in cui il be-
ne venga danneggiato, potrà agire in forza della legge Aquilia?
La soluzione preferibile sembra quella per cui il proprietario,
tenuto in forza di un vincolo contrattuale alla conservazione
della cosa, non possa agire direttamente, ma sia obbligato a ce-
dere all’acquirente, insieme alla cosa, anche l’azione relativa:
per questo motivo l’azione non viene mai concessa allo stipu-
lante oppure all’acquirente.
L’unica eccezione è rappresentata dal colono, nell’ipotesi
della locazione del fondo:

Ulpiano, 18 ad edictum, D. 9, 2, 27, 14: Et ideo Celsus quaerit, si lo-


lium aut avenam in segetem alienam inieceris, quo eam tu inquinares,
non solum quod vi aut clam dominum posse agere vel, si locatus fun-
dus sit, colonum, sed et in factum agendum, et si colonus eam exer-
cuit, cavere eum debere amplius non agi, scilicet ne dominus amplius
inquietet: nam alia quaedam species damni est ipsum quid corrumpere
et mutare, ut lex Aquilia locum habeat, alia nulla ipsius mutatione ap-
plicare aliud, cuius molesta separatio sit.

Solo in questo caso Celso ritiene ammissibile l’azione, perché


si tratta dei frutti maturi del fondo. La scelta è giustificata dal fatto
che i frutti, spettando di diritto al colono, rappresentano l’oggetto
di una proprietà futura e ormai prossima, tanto è vero che nelle
fonti sono chiamati segetes. Per concludere, il soggetto chiamato a
custodire il bene non potrà agire con la legge Aquilia, perché egli
non è né il proprietario, né il possessore né possiede alcun altro di-
ritto degno di tutela. Va comunque detto che viene fatta salva la
possibilità del proprietario di cedere l’azione a questo soggetto, in
quanto è chiamato a ottemperare al proprio obbligo di custodia34.
Analizzati gli aspetti della responsabilità extracontrattuale nel dirit-
to romano, nel prossimo capitolo si cercherà di vedere come il
modello romanistico è stato recepito nella sistematica europea.

34. Cfr. A. METRO, L’obbligazione di custodire nel diritto romano, Giuffrè, Milano
1966.
Capitolo VII

La tutela aquiliana nella sistematica europea

7.1. Il modello romanistico nella tradizione europea. Pre-


messe

La responsabilità aquiliana è recepita dai moderni Codici euro-


pei del XIX e XX secolo i quali rispecchiano, da vari punti di
vista, la disciplina romanistica1. Nei paragrafi che seguiranno
prenderemo a oggetto della comparazione l’esperienza francese,
austriaca, tedesca e italiana. Le codificazioni di questi Paesi,
seppur diverse le une dalle altre, tendono a trovare un minimo
comun denominatore nella disciplina trasmessaci dal mondo
romano, mentre le differenze sembrano scomparire a seguito
dell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale2.
I Codici moderni prevedono talora delle fattispecie chiuse o
tipiche, ripercorrendo così l’esperienza romana, altre volte fatti-
specie aperte o atipiche; di questi Codici analizzeremo anche la
sistematica e bisogna notare, fin da ora, che tutti i Codici euro-
pei ricalcano la responsabilità per fatto proprio e per fatto altrui,
ponendosi, quest’ultima fattispecie, quale deroga alla massima

1. Sull’importanza della disciplina romanistica sugli attuali sistemi giuridici G. FO-


SCHINI, Istituzioni di diritto civile romano ed italiano, Stabilimento Tip. del Tasso, Na-
poli 1908; C. GRASSI, Istituzioni di diritto romano comparato col diritto moderno 1,
Società internazionale degli intellettuali, Catania 1921; A. ARNESE, Osservatorio: tra
diritto romano e diritto attuale, Cacucci, Bari 2008, passim. Sul tema cfr. anche P.
STEIN, Il diritto romano nella storia europea, edizione italiana a cura di Eva Cantarella,
Cortina, Milano 2001. Sul tema anche fondamentale R. ORESTANO, Introduzione allo
studio storico del diritto romano, Giappichelli, Torino 19632; R. BONINI, Crisi del dirit-
to romano, consolidazioni e codificazioni nel Settecento europeo, Patron, Bologna
1985. Una lettura interessante, inoltre, in L. LABRUNA, Matrici romanistiche del diritto
attuale, a cura di Francesco Salerno, Jovene, Napoli 1999.
2. R. SACCO, Introduzione al diritto comparato, UTET, Torino 2015, passim.

201
202 La lex Aquilia

romana secondo cui et delicta, et noxa, caput sequuntur, ri-


spondendo ad esigenze differenti.
I Codici europei recepiscono la nozione di antigiuridicità,
dimostrandosi ora più sensibili alla tradizione romanistica (è il
caso del sistema francese), ora recependo sia la nozione ogget-
tiva che quella soggettiva d’iniuria, come avviene nei Codici di
area germanica e nel Codice civile italiano del 1942, che da
questi ultimi trae diretta ispirazione. Una breve analisi riguarde-
rà anche il danno risarcibile, poiché nel mondo romano, come
già ampiamente dimostrato, assume rilievo solo quello avente
natura patrimoniale e non morale. Ci interrogheremo su quale
sia stata la scelta dei moderni Codici europei: alcuni non hanno
fatto menzione di tale genere di danno (come il Code civil), ri-
mettendo alla dottrina e alla giurisprudenza la sua più ampia
configurazione, altri, invece, hanno limitato la sua risarcibilità a
singole fattispecie, indicate direttamente dalla legge, anche se
assistite da una continua elaborazione in via giurisprudenziale,
volta al loro ampliamento, come è avvenuto nell’ordinamento
italiano.
Nella moderna tradizione europea, ancora, il danno svolge
principalmente una funzione riparatoria e non – come nel mon-
do romano – reipersecutoria, intimamente connessa alla natura
mista dell’actio legis Aquiliae. Emerge talvolta un’esigenza di
ritornare alla funzione sanzionatoria del risarcimento del danno,
in particolar modo per quanto concerne i diritti della persona
nell’ordinamento italiano, che saranno trattati nell’apposita se-
zione. In questa sede possiamo ricordare che il quadro giuridico
della responsabilità ambientale, rappresentato dalla direttiva
2004/35/UE, è ispirato al principio del “chi inquina paga”, il
contenuto di questa direttiva è ripreso, a livello nazionale, nella
Parte VI del decreto legislativo 152 del 2006. La disciplina che
emerge non ha il fine di compensare singole perdite economi-
che o sofferenze morali, ma quello di esercitare un controllo so-
ciale nei confronti di tutte quelle attività che arrecano danno
all’ambiente.
Nella disciplina predisposta dal legislatore scorgiamo (al-
meno a parole) un fine essenzialmente preventivo e punitivo,
VII. La tutela aquiliana nella sistematica europea 203

ispirato alla politica del command and control. Si tratta di un


indiscutibile lascito del diritto romano, in quanto l’ammontare
del danno, ove non ne sia possibile una precisa quantificazione,
sarà determinato dal giudice in via equitativa, tenendo conto
della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il
messa in pristino e dell’ingiusto profitto conseguito dal tra-
sgressore.

7.2. Il risarcimento del danno nell’esperienza francese

Il sistema francese recepisce la materia del risarcimento del


danno principalmente grazie all’opera di Jean Domat e Robert
Joseph Pothier3, le loro idee risultano influenzate non solo dal
giusnaturalismo, ma anche dalla grande conoscenza e padro-
nanza delle categorie e dei principi del diritto romano. La tutela
aquiliana viene rubricata “dei delitti e dei quasi delitti”. Ciò ba-
sta per farci comprendere come vi sia, all’interno della codici-
stica francese, un chiaro riferimento al fatto illecito quale fonte
dell’obbligazione, il quale ricorda, almeno etimologicamente,
l’antica natura penale riservata al risarcimento del danno.
Il Codice civile francese del 1804 riserva alla materia poche
disposizioni, in particolar modo gli articoli 1382 e 1383:

Art. 1382. Tout fait quelconque de l’homme, qui cause à autrui un


dommage, oblige celui par la faute duquel il est arrivé à le réparer.

Art. 1383. Chacun est responsable du dommage qu’il a causé non seu-
lement par son fait, mais encore par sa négligence ou par son impru-
dence.

3. L’impegno di R.J. POTHIER è testimoniato dalle Pandectae Iustinianeae in no-


vum ordinem digestae, Parisiis, Saugrin 1748, attraverso le quali si propose di risiste-
mare i Digesta, seguendo la tripartizione giustinianea in “soggetti”, “beni” e “azioni”.
Per un approfondimento sulle modalità della ricezione della sistematica romana
all’interno dell’ordinamento francese a opera della dottrina del XVI sec. cfr. V. PIANO
MORTARI, Diritto romano e diritto nazionale in Francia nel secolo 16°, Giuffrè, Mila-
no 1962.
204 La lex Aquilia

Il sistema francese recepisce la nozione di iniuria del di-


ritto romano classico, l’illecito si identifica nel fatto dannoso
(dommage), mancando qualsivoglia riferimento all’elemento
dell’antigiuridicità. Tuttavia, il sistema si discosta dalla tra-
dizione romanistica, poiché conosce il fatto illecito inteso
come fattispecie aperta, e non rinvia a tanti e singoli illeciti
come nel mondo romano4. Anche il Code Napoleon distingue
una responsabilità per fatto proprio e una responsabilità per fat-
to altrui, peraltro solo residuale5. Questo Codice riconosce la
responsabilità del padre o della madre per i danni che vengono
cagionati dai figli minori. È possibile ravvedere, in tale fattispe-
cie, una connessione con la responsabilità nossale del pater per
gli illeciti posti in essere dai servi e dai figli in potestà. In que-
sto modo si vuole addossare al pater familias una responsabilità
basata esclusivamente sul nesso parentale, e giustificata dal fat-
to che viene condannato quel soggetto che non solo è tenuto al-
la vigilanza sui comportamenti dei servi o dei figli, ma possiede
anche i mezzi economici per far fronte al pagamento del risar-
cimento del danno: una vera e propria culpa in vigilando.

4. Bisogna ricordare come siano state elaborate, nel sistema francese, singole figure
di danno, create in via dottrinale. Ricapitolando, il codice propone una fattispecie atipi-
ca, discostandosi così dal modello romano, tuttavia in letteratura vengono proposte sin-
gole fattispecie di danno, ritornando così alla tradizione romanistica.
5. Il Code civil è ricco di ipotesi di responsabilità per fatto altrui, in particolar mo-
do bisogna ricordare la responsabilità dei genitori, dei padroni e dei committenti, dei
precettori e degli artigiani, per i danni che sono stati causati, rispettivamente, dai figli
minori, dai domestici e commessi, dagli allievi e apprendisti (art. 1384, questa norma,
tra l’altro, ha ispirato gli articoli 1153 del Codice civile italiano del 1865 e 2049 del
Codice civile del 1942). Nell’ipotesi dei padroni e committenti, non è possibile avvaler-
si della prova liberatoria, in tal modo si ritorna alla responsabilità oggettiva, propria del
mondo romano. Si deve peraltro segnalare che, per quanto riguarda i precettori privati,
una legge del 5 aprile 1937 (loi du 5 avril 1937 modifiant les regles de la preuve en ce
qui concerne la responsabilité civile des instituteurs et l'art. 1384 du code civil relatif a
la substitution de la responsabilité de l'etat a celle des membres de l'enseignement pu-
blic) aveva stabilito che le imprudenze, invocate contro costoro, dovessero essere pro-
vate dall’attore, eliminando la presunzione di colpevolezza. È presente anche la respon-
sabilità del proprietario per i danni cagionati da un animale (art. 1385) e la responsabili-
tà del proprietario per i danni derivanti dalla rovina di un edificio (art. 1386). In queste
ipotesi si assiste a un’inversione dell’onere probatorio: spetterà al convenuto, presunto
colpevole, provare la propria diligenza. Si è qui innanzi a una presunzione di colpa, che
potrà essere, a seconda delle varie ipotesi, in eligendo, in vigilando o in educando.
VII. La tutela aquiliana nella sistematica europea 205

Infine, sulla natura del danno risarcibile, patrimoniale e non


patrimoniale, bisogna sottolineare come l’art. 1382 nulla dica in
merito: ciò ha condotto la dottrina e la giurisprudenza ad am-
mettere la risarcibilità del danno anche non patrimoniale6.

7.3. Il risarcimento del danno nell’esperienza austriaca

L’illecito extracontrattuale, all’interno dell’ordinamento giuridico


austriaco, è collocato nel capo trentesimo, nella parte seconda,
con il titolo Vom dem Rechte des Schadenersatzes und der Ge-
nugtuhung (“del diritto d’indennizzo e di soddisfacimento”).
Viene in luce che non vi è alcun riferimento al fatto illecito, co-
me avviene – a contrario – nel sistema francese. Si pone
l’attenzione su quel diritto d’indennizzo e di soddisfacimento,
che, già dal lessico, presenta una natura strettamente civilistica.
Se il sistema francese propone poche norme aventi carattere ge-
nerale, il sistema austriaco prevede una dettagliata disciplina, che
si articola in un complesso di ben quarantanove paragrafi.
L’Allgemeines bürgerliches Gesetzbuch – dopo aver annun-
ciato che di regola nessuno è responsabile dell’altrui fatto in-
giusto a cui non abbia preso parte7 – contempla anche la re-
sponsabilità per fatto altrui. Di particolare interesse la disciplina
inerente gli exercitores, ma anche quella dell’effusum aut
reiectum, si prevede – difatti – che gli albergatori, i condottieri
per acqua e per terra siano responsabili dei danni commessi dal-
le persone di servizio alle cose ricevute dal passeggero
nell’albergo o nella barca oppure alle cose affidate per il tra-
sporto8. Inoltre, se per la caduta di una cosa sospesa o posizio-
nata in modo pericoloso viene cagionato un danno, è responsa-

6. È il caso di accennare a una giurisprudenza che ha riconosciuto con estrema in-


dulgenza la risarcibilità del danno non patrimoniale, fino a ritenere apprezzabile il dolo-
re subito per la morte di un animale, in Cass. Ière civ. 16 gennaio 1962, in Bulletin civil,
1962, p. 33.
7. È quanto sancisce il § 1313; tuttavia l’articolo recita che, persino nei casi in cui
le leggi dispongano il contrario, resta salvo il regresso contro la persona che è in colpa.
8. § 1316 ABGB.
206 La lex Aquilia

bile il proprietario dell’abitazione da cui la cosa è stata gettata o


versata9.
A differenza di quanto avviene nel Codice civile francese, che
accoglie l’iniuria quale elemento soggettivo della fattispecie di
danno, nel sistema austriaco viene recepita una nozione di anti-
giuridicità quale elemento oggettivo dell’illecito: si fa riferimento
al danno cagionato da un’azione o da un’omissione ingiusta10.
Per quanto riguarda il danno non patrimoniale, se questo è
ammesso dalla dottrina francese senza limiti, incontra alcune
restrizioni nel sistema austriaco, in cui appare limitato a fatti-
specie tipiche11, direttamente previste dal Codice civile. È am-
messo, in particolar modo, il risarcimento per le sofferenze fisi-
che derivanti da lesioni corporali12 e la risarcibilità per le de-
formazioni, in modo specifico nei confronti delle donne (§
1326). Si dirà di più, dal § 1331 emerge che è ammesso il risar-
cimento per il danno provocato con dolo anche per il valore di
affezione (si tratta del cosidetto pretium doloris).

7.4. Il risarcimento del danno nell’esperienza tedesca

L’esperienza giuridica tedesca propone una codificazione, che –


per quanto concerne l’impianto e la sistematica – si pone in li-
nea con il Codice civile austriaco. Data l’importanza che la co-
dificazione tedesca riveste, anche per la sua influenza esercitata

9. È quanto dispone il § 1318. È la disciplina del refusum aut reiectum. Si può fare
un cenno, peraltro, al § 1319 che prevede la fattispecie del positum vel sospensum. Si
tratta del pericolo che una cosa, sospesa, possa cadere. In tale ipotesi è stato accordato
solamente il diritto di denunciare il pericolo alla pubblica autorità. Del danno cagionato
da animali, si parla ai §§ 1320 – 1322.
10. Il § 1294 prevede che il danno provenga da un’azione od omissione ingiusta al-
trui, o dal caso fortuito; inoltre il danno ingiusto si cagiona o volontariamente o invo-
lontariamente e il danno volontario si fonda o su una prava intenzione, se è cagionato
con scienza o volontà, o su una mancanza, se è cagionato per imputabile ignoranza, o
per difetto dell’attenzione o della diligenza conveniente; e l’uno e l’altro si chiamano
colpa. Il Codice civile austriaco richiama la dimensione oggettiva dell’iniuria.
11. Il Codice civile austriaco ricalca e recepisce queste soluzioni direttamente
dall’opera di S. PUFENDORF, De jure naturae et gentium libri octo, Amstelaedami,
Apud Joannem Wolters 1704.
12. Tale ipotesi trova diretta disciplina nel § 1325.
VII. La tutela aquiliana nella sistematica europea 207

sul legislatore italiano, bisogna premettere che l’elaborazione


della figura concettuale del danno avviene ad opera principal-
mente di Ugo Grozio13, che propone un concetto generale di ma-
leficium inteso come “illecito”. Accanto all’impegno dell’autore
del Mare Liberum, va menzionato anche Christian Thomasius
che, nelle sue Institutiones Iurisprudentiae Divinae, propone
un’elaborazione dottrinale sui generis del danno, muovendo diret-
tamente dal principio dell’amore verso il prossimo che deve ispira-
re ciascun individuo, con chiare influenze giusnaturalistiche.
Per ultimo da ricordare l’importanza rivestita dalla pandetti-
stica, e dal suo massimo esponente, Bernhard Windscheid, la
cui influenza è preminente durante la stesura del BGB. Membro
della prima commissione, egli fu un attento studioso della lex
Aquilia ed individuò, proprio nell’ordinamento giuridico roma-
no, i principi generali della responsabilità extracontrattuale.
Degno di menzione è il § 823 del Bürgerliches Gesetzbuch:

§ 823 Schadensersatzpflicht. Wer vorsätzlich oder fahrlässig das Le-


ben, den Körper, die Gesundheit, die Freiheit, das Eigentum oder ein
sonstiges Recht eines anderen widerrechtlich verletzt, ist dem anderen
zum Ersatz des daraus entstehenden Schadens verpflichtet.
Die gleiche Verpflichtung trifft denjenigen, welcher gegen ein den
Schutz eines anderen bezweckendes Gesetz verstößt. Ist nach dem In-
halt des Gesetzes ein Verstoß gegen dieses auch ohne Verschulden
möglich, so tritt die Ersatzpflicht nur im Falle des Verschuldens ein.

Secondo questo paragrafo del BGB chiunque, deliberata-


mente o per negligenza, leda la vita, il corpo, la salute, la liber-
tà, la proprietà o un altro diritto altrui, è tenuto verso questi al
risarcimento del danno che ne deriva. A questa norma, sicura-
mente di portata generale e assimilabile al nostrano art. 2043
c.c., seguono delle ipotesi di responsabilità extracontrattuale
speciale, in maniera similare a quanto avviene nell’ABGB. Il
Codice civile tedesco dedica spazio al danno causato in stato di
incoscienza (a questa ipotesi è dedicato il § 827), al danno cau-

13. H. GROTII, De iure belli ac pacis libri tres. In quibus ius naturae et gentium, item
iuris publici praecipua explicantur, Parisiis, apud Nicolaum Buon 1625, II, 17, p. 358-366.
208 La lex Aquilia

sato da soggetti minori o incapaci, che trova disciplina rispetti-


vamente nei §§ 828 e 829. Viene disciplinata l’ipotesi del dan-
no cagionato da più coautori o complici, all’interno del § 830.
Rimanendo fedele alla tradizione romanistica, il Codice civi-
le tedesco non dimentica neanche le ipotesi di responsabilità de-
rivante dal fatto altrui: in particolar modo, il legislatore con-
templa la responsabilità dei padroni e dei committenti14 per i
danni cagionati dai loro sottoposti (§ 831); la responsabilità del
sorvegliante15 per quelli causati da minori o incapaci (§ 832) e,
infine, dal § 833 fino al § 835 è disciplinata la responsabilità
oggettiva per i danni causati dagli animali, e all’interno del §
847 per quelli derivanti dalla rovina di un edificio.
Il legislatore però non ha previsto la fattispecie dell’effusum
aut deiectum, che trova invece spazio, come sopra visto, nel
Codice civile austriaco. Ancora sulla sistematica di questo Co-
dice, è da notare come il legislatore tedesco abbia espressamen-
te previsto la risarcibilità del danno non patrimoniale16,
nell’ipotesi in cui si sia verificata una lesione del corpo ovvero
della salute, nonché una privazione della libertà, ai sensi di
quanto disposto dal § 847. Tuttavia, dobbiamo sottolineare che la
risarcibilità dei danni non patrimoniali è ammessa solamente nei
casi indicati dalla legge, come dispone, in via generale, il § 253.
È il caso di aggiungere che il legislatore tedesco ha palesato
l’intenzione di restare fedele alla disciplina romanistica, in
quanto il § 823 dimostra la preferenza per un sistema risarcito-

14. Si tratta, in questo caso, di una colpa presunta, in eligendo e in vigilando, vinci-
bile con la prova contraria.
15. Il Codice civile tedesco, non diversamente da quanto accade nel corrispondente
§ 1309 dell’ABGB, fa riferimento al soggetto genericamente tenuto alla sorveglianza; al
contrario il Codice civile italiano, sia nella sua ultima stesura del 1942 all’art. 2048, sia
nella sua più antica versione del 1865 all’art. 1153, prevede la responsabilità di entram-
bi i genitori.
16. Il danno non patrimoniale non trova spazio all’interno del mondo romano. A
mio parere, ciò si spiega in quanto la società romana dava più importanza alla vita eco-
nomica e alla ristorazione del danno in quanto evento che aveva cagionato una perdita
di valore economicamente suscettibile di valutazione. Insomma, nel mondo romano il
pretium doloris non aveva ragione d’esistere e, anche laddove venisse concessa una ri-
storazione economica a causa della lesione dell’integrità fisica, questa si spiegava sem-
pre alla luce di una perdita di valore del figlio, ad esempio, o dello schiavo, e non in
quanto ristorazione del danno biologico in sé e per sé considerato.
VII. La tutela aquiliana nella sistematica europea 209

rio tipico: determinante è stata l’influenza esercitata dalla scuo-


la storica di Friedrich Carl von Savigny17, conforme alla tradi-
zione romanistica.

7.5. Il risarcimento del danno nell’esperienza italiana

La tutela aquiliana è presente all’interno del sistema giuridico


italiano, che la recepisce in modo differente nei due Codici che
caratterizzano la sua storia moderna18. Innanzitutto, il Codice
del 1865 dedicava alla materia19 gli articoli dal 1151 al 1156. Il
modello recepito dal legislatore nel XIX secolo riprendeva fe-
delmente quello di area francese. La disciplina era contenuta
nell’art. 115120:

art. 1151 c.c. 1865. Qualunque fatto dell’uomo che arreca danno agli
altri, obbliga quello per colpa del quale è avvenuto, a risarcire il dan-
no.

L’articolo susseguente specificava ancora meglio la portata


della norma generale:

art. 1152 c.c. 1865. Ognuno è responsabile del danno che ha cagionato
non solamente per un fatto proprio, ma anche per propria negligenza e
imprudenza.

Gli articoli successivi prevedevano delle ipotesi di respon-


sabilità oggettiva per un fatto non proprio, per il danno cagiona-
to da animali, nonché per il danno derivante dalla rovina di un

17. La bibliografia su questo autore è immensa, si può rinviare alle opere citate in G.
ORRÙ, Lezioni di storia del pensiero giuridico moderno, Giappichelli, Torino 1988, p. 134.
18. Sulla ricezione della romanistica all’interno dell’ordinamento giuridico italiano
ha scritto E. BETTI, Educazione giuridica odierna e ricostruzione del diritto romano, in
Bullettino dell’Istituto di diritto romano “Vittorio Scialoja”, 1931, p. 33-71.
19. La materia viene raggruppata sotto la rubrica comune «dei delitti e dei quasi delitti»:
così facendo il legislatore del 1865 dimostra di essere fedele alla disciplina romanistica.
20. G. ROTONDI, Dalla “lex Aquilia” all’art. 1151 Cod. Civ.: ricerche storico-
dogmatiche, Francesco Vallardi, Milano 1916. Un approfondimento in materia in M.
MANFREDI, Compendio di diritto romano comparato al diritto civile italiano, Gabriele
Regina Libraio-Editore, Napoli 1879.
210 La lex Aquilia

edificio, rispettivamente agli articoli dal 1153 al 1155 c.c.


Per quanto riguarda il sistema previgente non è necessario
aggiungere più di quanto sottolineato già per il sistema france-
se, in quanto l’articolo 1151 c.c. si pone in linea di continuità
con questa tradizione, proponendo un sistema di tutela atipico.
Tuttavia, è necessario aggiungere qualche considerazione sul
concetto di iniuria: si è già visto come nel sistema francese, che
accoglie l’iniuria quale presupposto soggettivo della fattispecie,
e in particolar modo quale sinonimo di “colpevolezza”, non si è
fatta menzione alcuna dell’antigiuridicità della condotta, com’è
invece avvenuto nel Codice civile austriaco, in quello tedesco e
come avverrà nel Codice civile italiano del 1942, con la sola
differenza, qui, che ad essere “ingiusto” sarà il danno e non la
condotta. Nonostante l’articolo 1151 c.c. non faccia riferimento
al comportamento antigiuridico, la letteratura giuridica ha sem-
pre richiesto questo elemento, si è parlato di una «emersione di
un dato tacito ineliminabile»21. L’antigiuridicità, seppur assente
nella lettera della norma, trova ragion d’essere grazie
all’elaborazione dottrinale dell’epoca.
Venendo a trattare del Codice civile del 1942, la responsabi-
lità extracontrattuale risulta collocata all’interno del libro quarto
(“delle obbligazioni”), sotto il titolo nono “dei fatti illeciti”, ed
è disciplinata a partire dall’articolo 2043. Il legislatore italiano
guarda, per la stesura di tale articolo, ai codici di area germani-
ca. Il “danno ingiusto”, qui menzionato, è un chiaro retaggio dei
Codici di area tedesca, riecheggiando, in un certo qual modo,
quel concetto di iniuria inteso come requisito avente natura og-
gettiva. La norma del Codice italiano si discosta, tuttavia, dal §
823, perché propone una fattispecie atipica di danno. A contra-
rio, il legislatore tedesco aveva preferito elencare singole fatti-
specie, rimanendo così più aderente alla tradizione romanistica,
ma la dottrina tedesca ha in seguito esteso la portata tipica del §
823, ammettendo la risarcibilità anche per la lesione di situa-
zioni giuridiche non direttamente menzionate all’interno del pa-

21. P.G. MONATERI, La responsabilità civile, in R. SACCO (diretto da),Trattato di


diritto civile, III, UTET, Torino 1998, p. 54.
VII. La tutela aquiliana nella sistematica europea 211

ragrafo de quo.
L’art. 2043 c.c. si pone quale norma cardine dell’intero si-
stema22, il Codice civile italiano dedica all’argomento sedici ar-
ticoli; e anche qui sono presenti le ipotesi di responsabilità og-
gettiva: questa è posta a carico dei genitori, tutori, precettori e
maestri d’arte, per i danni cagionati dai figli minori, dai soggetti
sottoposti a tutela, dai loro allievi e apprendisti, ai sensi
dell’articolo 2048 c.c. È menzionata la responsabilità dei pa-
droni e dei committenti per quanto riguarda i danni provocati
dai domestici e dai commessi, ex articolo 2049 c.c. I danni ca-
gionati da cose in custodia, da animali e dalla rovina di un edi-
ficio sono rispettivamente disciplinati dagli articoli 2051, 2052
e 2053 c.c.
Fatto qualche breve cenno alla sistematica del Codice italia-
no, dobbiamo ricordare ancora una volta che l’articolo 2043 c.c.
prevede una fattispecie cosiddetta aperta o atipica. Se da un lato
tale formulazione avvicina il sistema italiano a quello francese,
la dottrina italiana ha elaborato singole fattispecie di danno, che
– seppur ascrivibili in via generale all’interno dell’articolo 2043
c.c. – sono dotate di propri requisiti, riguardanti le modalità con
cui il danno viene cagionato e il ruolo svolto dal danneggiante.
Ricapitolando quanto trattato, nonostante la lettera della leg-
ge preveda una fattispecie atipica, in tal modo discostandosi
dalla tradizione romanistica, la dottrina ha tipizzato varie figure
d’illecito, ponendosi in linea di continuità con il mondo classi-
co, tra cui il danno biologico, il danno esistenziale o il danno da
vacanza rovinata23:

22. Ai fini non strettamente romanistici, ma per completezza sistematica, si deve ri-
levare come il Codice del 1942 innovi sotto vari aspetti rispetto all’ordinamento previ-
gente. In primo luogo, in materia extracontrattuale, vengono recepiti molti e importanti
orientamenti dottrinali e giurisprudenziali. Si segnala la novità dell’art. 2044 c.c. sulla
legittima difesa, l’art. 2045 c.c. sullo stato di necessità, la rilevanza assunta
dall’incapacità d’intendere e di volere, così come riportata nelle disposizioni di cui agli
artt. 2046 e 2047 c.c. Gli artt. dal 2056 al 2059 c.c. riguardano i criteri di determinazio-
ne del danno. Inoltre, l’art. 2054 c.c., riguardante i danni derivanti dalla circolazione di
veicoli, prima disciplinato da leggi speciali, viene trasposto nel Codice civile. Alcune
norme vengono inserite per colmare delle lacune esistenti nel previgente ordinamento; è
il caso dell’art. 2050 c.c. circa l’esercizio di attività pericolose.
23. È quanto sottolinea G. ALPA, La responsabilità civile tra solidarietà ed efficien-
212 La lex Aquilia

ecco, già da questi casi emerge come quell’idea in base alla quale il
modello italiano sarebbe informato ad un criterio di atipicità
dell’illecito per effetto della clausola generale di ingiustizia del danno
debba essere corretta: la responsabilità civile oggi ci appare piuttosto
come un aggregato di isole in cui ciascuna figura di illecito obbedisce
a regole proprie.

Anche il Codice civile italiano del 1942, guardando ai Codici


di area germanica, introduce un riferimento all’antigiuridicità, inte-
sa come requisito separato dalla colpevolezza24:

perché il fatto doloso o colposo sia fonte di responsabilità occorre che


esso produca un danno ingiusto. Si precisa così, conferendo maggior
chiarezza alla norma dell’articolo 1151 c.c. 1865, che la culpa e
l’iniuria sono concetti distinti; e quindi si esige che il fatto o
l’omissione, per essere fonte di responsabilità, debba essere doloso o
colposo, ossia imputabile, e debba inoltre essere compiuto mediante la
lesione dell’altrui sfera giuridica.

Nonostante sia facilmente ravvisabile una diretta ispirazione


del legislatore italiano ai Codici di area germanica, nel nostro ordi-
namento a essere ingiusta non è la condotta, bensì il danno, la tute-
la aquiliana troverà applicazione tutte quelle volte in cui si assiste
alla lesione di un interesse altrui protetto dall’ordinamento. La le-
sione non deve essere giustificata, nel caso contrario troveranno
applicazione le cause di giustificazione25, che escluderanno

za (Premessa ad una raccolta di casi), in Rivista critica del diritto privato, 2004, p. 197.
Su questo tema si è sviluppata una bibliografia immensa, soprattutto tra gli anni
Sessanta e Settanta; si può rinviare, per una approfondita analisi del tema, a IDEM, Il
problema dell’atipicità dell’illecito, Jovene, Napoli 1979.
24. È quanto si legge nella Relazione al Re, n° 267. Tralasciando in questa sede
l’importanza che possa svolgere una relazione circa l’interpretazione della legge, è il
caso di ricordare che le affermazioni ivi contenute, a parere di chi scrive, in particolar
modo laddove si afferma che la culpa e l’iniuria sono dei concetti differenti, sollevano
non pochi dubbi: nel mondo romano l’iniuria coincide essenzialmente con la culpa e
rimane assorbita in essa. I due significati del termine iniuria (oggettivo e soggettivo)
nel diritto romano non vivono mai contemporaneamente.
25. Si tratta della legittima difesa, disciplinata dall’art. 2044 c.c., e dello stato di
necessità di cui all’art. 2045 c.c. Secondo l’art. 2044 c.c. “non è responsabile chi cagio-
na il danno per legittima difesa di sé o di altri”.
Tale articolo è espressione del principio vim vi defendere omnes leges omniaque iu-
ra permittunt e cum vi vis illata defenditur. L’art. 2045 c.c. prevede che “quando chi ha
VII. La tutela aquiliana nella sistematica europea 213

l’ingiustizia del danno.


Anche il Codice italiano, come sopra osservato, riporta delle
ipotesi di responsabilità oggettiva26, che trovano il proprio fon-
damento in casi tra loro differenti27. Questo si ravvisa nel rap-
porto di subordinazione che lega il danneggiante e il soggetto
responsabile: è di nuovo ipotesi esemplificativa quella della re-
sponsabilità per i danni che sono stati causati dai domestici e
dai commessi, addossata direttamente ai padroni e ai commit-
tenti, senza ammettere la prova liberatoria, come disciplinato
dall’articolo 2049 c.c. Altre volte la responsabilità oggettiva si
fonda sul potere di controllo esercitato sulla cosa o sull’animale
che ha cagionato il danno: tali fattispecie sono menzionate agli
articoli 2051 e 2052 c.c. e prevedono la possibilità di liberarsi
dimostrando il caso fortuito28.
Queste norme non prevedono altro se non un’inversione
dell’onere probatorio; in queste due ultime ipotesi, addossando
al convenuto ogni responsabilità diversa dal caso fortuito, si
configura una responsabilità oggettiva difficilmente superabile
dal convenuto. Altre volte, invece, la responsabilità si basa
sull’esercizio di particolari attività pericolose, come disciplinato

compiuto il fatto dannoso vi è stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pe-
ricolo attuale di un danno grave alla persona, e il pericolo non è stato da lui volontaria-
mente causato né era altrimenti evitabile, al danneggiato è dovuta un’indennità, la cui
misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice”.
26. Il fondamento della responsabilità per fatto alieno si faccia consistere
nell’obbligo che incombe su ciascuno di scegliere bene e vigilare sulle persone poste al-
la propria dipendenza. Si tratta, insomma, di quelle ipotesi di culpa in eligendo e in vi-
gilando. Contra si può ricordare la teoria della rappresentanza, che si ha tutte le volte
che sia stato affidato a qualcuno l’incarico di compiere un affare nel nome e
nell’interesse del mandante. Sebbene questa teoria oggi non venga più particolarmente
sostenuta, dal punto di vista storico si dimostra di particolare interesse, per cui si ri-
manda, per una trattazione completa sul tema, a G.P. CHIRONI, Colpa contrattuale, F.lli
Bocca, Milano 1897, p. 176 ss.; IDEM, Colpa extracontrattuale, I, F.lli Bocca, Milano
1903, p. 159 ss.; ibidem, II, 1906, p. 273 ss. e passim.
27. Determinate ipotesi di responsabilità oggettiva sono allocate anche al di fuori
del Codice civile. Basti ricordare la responsabilità oggettiva, di certa natura aquiliana,
del produttore di un bene difettoso. Tale regola, che prima veniva desunta in via inter-
pretativa sulla base dell’art. 2043 c.c., oggi trova diretta disciplina negli articoli dal 114
al 127 del Codice del consumo, a seguito del d.p.r. 24 maggio 1988, n. 224, attuativo
della direttiva CE del 25 luglio 1985, n. 374.
28. Fortuitus casus est, qui nullo humano consilio praevideri potest.
214 La lex Aquilia

dall’articolo 2050 c.c. In queste circostanze, il convenuto potrà


fornire la prova liberatoria, consistente nel dimostrare di avere
adottato tutte le misure idonee al fine di evitare il verificarsi del
danno.
Per quanto concerne la natura del danno risarcibile, e ricor-
dando che il mondo romano non conosce danno differente da
quello patrimoniale, il legislatore italiano ha scelto di limitare la
risarcibilità del danno non patrimoniale, in modo similare a
quanto avvenuto nei Codici civili austriaco e tedesco. L’articolo
di riferimento è il 2059 c.c., secondo cui il danno non patrimo-
niale sarebbe risarcibile nei soli casi previsti dalla legge. Questa
disposizione, ricalcando il § 253 BGB, rinvia all’art. 185 c.p.29
ed è oggetto di una espansione a opera della giurisprudenza.
L’ordinamento giuridico italiano permette di svolgere
un’ulteriore riflessione sulla funzione che svolge il risarcimento
del danno: se nel mondo romano esso aveva inizialmente una
connotazione punitiva, negli ordinamenti moderni assume una
natura risarcitoria, volta a ristorare la vittima dal pregiudizio
subito. Tuttavia, in quelli che sono i “corsi e ricorsi storici”, per

29. Art. 185 c.p.: Restituzioni e risarcimento del danno. Ogni reato obbliga alle re-
stituzioni, a norma delle leggi civili.
Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga
al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispon-
dere per il fatto altrui.
Secondo la dottrina l’art. 2059 c.c. rinvierebbe, oltre all’art. 185 c.p., anche agli
artt. 89 e 120 c.p.c. e 187, 189 e 598 c.p.; bisogna ricordare come la giurisprudenza, og-
gi, ammetta la risarcibilità del danno non patrimoniale, non solo nelle ipotesi in cui sia
stato compiuto un reato, ma anche tutte quelle volte in cui sia ravvisabile la lesione di
un diritto costituzionalmente tutelato. Il danno non patrimoniale altro non è se non la
lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, e trattasi
di una categoria unitaria che non ammette suddivisioni, e – come già ricordato – è tute-
lato in via risarcitoria, in assenza di reato e al di fuori delle ipotesi di legge sopra men-
zionate, tutte quelle volte in cui si verifica la lesione di diritti specifici della persona,
ossia la presenza di un’ingiustizia costituzionalmente qualificata: è quanto emerge da
Cass. civ., S.U., 11 novembre 2008, n. 26975, in Foro italiano, 2009, con nota di A.
PALMIERI, La rifondazione del danno non patrimoniale, all’insegna dell’atipicità
dell’interesso leso (con qualche attenuazione) e dell’unitarietà, p. 120. La dottrina e la
giurisprudenza hanno cercato di aumentare la tutela risarcitoria anche ai pregiudizi di
natura non patrimoniale, sino a configurare la risarcibilità derivante dalla lesione
dell’integrità psico-fisica, indipendentemente dalla presenza di un danno patrimoniale o
morale. È stato così individuato, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, un ter-
tium genus di danno: quello biologico.
VII. La tutela aquiliana nella sistematica europea 215

ricordare una terminologia cara a Giambattista Vico, assistiamo


al ritorno in auge della funzione “punitiva” del risarcimento,
non molto differentemente a quanto avveniva nell’ordinamento
romano. Pare che si faccia leva su quel ruolo sanzionatorio e
preventivo del risarcimento, volto a scoraggiare il compimento
di ulteriori atti nocivi. È soprattutto in via giurisprudenziale che
sembra essersi diffusa una certa tendenza a infliggere delle
condanne esemplari, per colpire, in modo più severo, il dolo o
la colpa grave. Ciò vuol dire che, in alcune decisioni giurispru-
denziali, non viene presa in considerazione tanto l’entità del
danno, quanto la la condotta riprovevole del soggetto responsa-
bile. In tutte queste ipotesi possiamo scorgere un ritorno al mo-
dello romano, in cui, accanto a un fine meramente risarcitorio,
si può scorgere un modello sanzionatorio nonché preventivo.
Sul punto, tra l’altro, la Suprema Corte di Cassazione, in una
recente pronuncia30, ha stabilito che le sentenze straniere che
prevedono un risarcimento punitivo possono, sebbene subordi-
nate al rispetto dei principi di tipicità e prevedibilità, ritenersi
compatibili con l’ordinamento italiano, aprendosi così
un’inedita linea di continuità – come ha osservato anche Clau-
dio Consolo – con la lex Aquilia31.
Esempi paradigmatici di quanto ora esposto possono essere
considerati i risarcimenti derivanti dalla lesione del diritto al
nome, all’immagine, alla riservatezza o all’identità personale.
In queste ipotesi, i giudici tendono a riconoscere il danno non
patrimoniale prescindendo dall’accertamento di un effettivo
pregiudizio, considerandolo in re ipsa. Se è vero quanto fin qui
esposto, possiamo giungere ad affermare che i parametri che il
giudice tende a considerare sono quelli riguardanti la la condot-
ta riprovevole del danneggiante, la sua condizione economica e

30. Si tratta della molto discussa Cass. civ., S.U., 5 luglio 2017, n. 16601, in banca
dati elettronica pluris-cedam.utetgiuridica.it.
31. Si veda C. CONSOLO, Riconoscimento di sentenze, specie USA e di giurie popo-
lari, aggiudicanti risarcimenti punitivi o comunque sopracomprensivi se in regola con
il nostro principio di legalità (che postula tipicità e financo prevedibilità e non coincide
pertanto con il, di norma presente, due process of law), in Corriere giuridico, 2017, p.
1050-1057.
216 La lex Aquilia

i profitti che ha realizzato mediante la commissione dell’illecito.


In siffatte ipotesi, viene in rilievo una tutela risarcitoria che as-
sume la natura di “pena privata”; l’intento della magistratura è
quello di sanzionare il colpevole, per affermare la rilevanza dei
beni giuridici lesi e la loro effettiva protezione e non quello di
riparare un danno, che – de facto – potrebbe anche non esser-
ci32.

32. Si può concludere dicendo che questo profilo sanzionatorio, indiscutibile lascito
del diritto romano, ha aperto la via a prospettive del tutto nuove nell’applicazione
odierna del diritto. Potremmo dire che – de iure condendo – recuperare la funzione san-
zionatoria del risarcimento del danno, in determinate ipotesi, potrebbe significare aprire
la strada a situazioni giuridiche degne di particolare tutela, come, ad esempio, i diritti
della personalità, sopra elencati.
Considerazioni conclusive

Analizzati gli aspetti sostanziali della legge Aquilia, è possibile


concludere il discorso fin qui affrontato e trarne delle breve
conclusioni. Il primo aspetto che bisogna mettere in rilievo ri-
guarda l’interpretazione giurisprudenziale che caratterizza la
stessa legge: si passa da un ambito di applicazione molto ristret-
to a un progressivo ampliamento della tutela, grazie all’opera
continua e preziosa dei giuristi e del pretore. Basterà ricordare
come già mutò lo stesso verbo occidere: su questo vorrei sof-
fermarmi e mettere in risalto il fatto che assuma un significato
proprio all’interno dell’Aquilia e ciò avviene sia perché non si
riferisce all’uccisione provocata quolibet modo (come nella lex
Cornelia de sicariis et veneficis), ma solamente a quella provo-
cata sua manu; sia perché nell’ordinamento giuridico romano,
ma anche nella letteratura latina, il termine rimanda sempre
all’idea di un’uccisione violenta. Il primo viene superato: anche
nell’Aquilia verrà sanzionata l’uccisione causata senza una
condotta predisposta per mano dell’agente: si ricordi ad esem-
pio il putator che, tagliando un albero, non avvisi un passante
dell’imminente pericolo, o l’ipotesi in cui si predisponga la
causa del danno, come quando si fa del fumo, a seguito del qua-
le le api scappano dall’alveare. Inoltre, venendo al secondo
elemento sopra ricordato, ossia all’uccisione avvenuta in modo
violento, bisogna sottolineare che questa caratterizza solo in un
primo momento la legge Aquilia (ponendosi in stretta connes-
sione con la necessità di provocare l’uccisione sua manu), per
essere superata dalla visione evoluta dell’attività pretoria, che
sanzionerà tutte quelle ipotesi in cui la morte possa avvenire
anche senza una condotta violenta come, ricordiamolo ancora
una volta, nel caso del putator, che è sostanzialmente accusato
di non essersi comportato diligentemente poiché non ha avvisa-

217
218 Considerazioni conclusive

to il passante.
Anche le condotte sanzionate dal terzo capo della legge su-
biscono una notevole espansione: il loro ambito di applicazione
naturale, in un momento iniziale, appare molto limitato, e quin-
di urere, frangere e rumpere sono tre verbi che esprimono
l’idea di una sanzione penale disposta però in modo fin troppo
ristretto. I giuristi romani pongono attenzione al verbo finale
(rumpere), che viene pacificamente inteso come corrumpere:
addirittura questo verbo inizierà a ricomprendere i due prece-
denti (e ossia l’urere e il frangere) che ne diverranno delle spe-
cificazioni e non avranno più ragion d’essere grazie alla condot-
ta più generalizzata del corrumpere.
A mio avviso, se si dice che nell’ordinamento giuridico ro-
mano s’impone una fattispecie tipica in materia risarcitoria si
afferma una cosa vera, ma in termini semplicistici1. Questo mo-
do di veder le cose necessita di un nuovo inquadramento: ini-
zialmente l’Aquilia sanziona fattispecie tipiche e ben delimitate
(ponendosi come norma chiusa), successivamente (ed è super-
fluo a questo punto ricordare il prezioso lavoro dei giuristi) di-
verrà espressione di una fattispecie atipica o aperta, volta ad
apprestare tutela a tutte quelle condotte che siano lesive di un
bene giuridico. Ecco che, a seguito di queste osservazioni, pro-
porre delle analogie tra la disciplina civilistica odierna e la lex
Aquilia non è un compito particolarmente semplice: voglio li-
mitarmi al Codice civile italiano del 1942. Questo propone una
fattispecie atipica (avvicinandosi all’elaborazione pretoria
dell’Aquilia), ma la dottrina moderna costruisce singole figure
di danno, riavvicinando la disciplina odierna a quella della lex
Aquilia nella sua applicazione, si faccia bene attenzione, letterale.
Oggi si vuole aumentare l’ambito del risarcibile: la sfera
giuridica individuale tende ad avere una tutela sempre maggio-
re, e lo stesso è ciò che è avvenuto nel mondo romano. Oggi si
allarga l’area di tutela – a mio modo di vedere le cose – non
tanto perché la colpa non assuma più importanza, come pare af-

1. F. LUCREZI, La responsabilità aquiliana tra criterio oggettivo e soggettivo,


nell’esperienza antica e moderna, in древнее право, 1(9), 2002, p. 221.
Considerazioni conclusive 219

fermare Francesco Lucrezi2, ma perché le condotte dell’uomo


che vengono sanzionate sono sempre più numerose (con una ri-
percussione secondaria sul nesso di causalità e sulla colpa).
Non è la colpa ad essere scomparsa, ma questa sembra affievo-
lirsi in virtù di una giurisprudenza volta a sanzionare le condot-
te più disparate.
Vorrei porre l’attenzione anche sul requisito dell’iniuria;
questa solo in un primo momento si riferisce all’antigiuridicità
della condotta, per divenire in seguito sinonimo di colpa. Que-
sto aspetto permette di comprendere che l’esercizio del proprio
diritto deve essere limitato dalla necessità di comportarsi se-
condo diligenza e da una condotta che dovrebbe esser propria
dell’agire di ciascun consociato. Soprattutto oggi, a mio avviso,
in cui si impongono gli interessi individuali su quelli collettivi,
dove ciascuno vuol far valere i propri diritti a scapito di quelli
altrui, questo aspetto dell’Aquilia merita particolare attenzione:
il proprio diritto non può essere mai invocato come causa scri-
minante tutte quelle volte in cui venga in rilievo la colpa nelle
sue più molteplici sfumature (mi riferisco all’imprudenza,
all’imperizia e, chiaramente, alla negligenza).
Un secondo aspetto dell’Aquilia, destinato ad essere supera-
to, e che ben può esprimere il motivo per cui si allarga la sfera
del risarcibile, è dato dalla datio corpore corpori. Questo requi-
sito limita molto la portata dell’Aquilia, che non riesce a colpire
tutte quelle condotte arrecate senza il requisito del corpore.
Questo aspetto viene superato dai giuristi, e soprattutto dal pre-
tore che concederà l’azione utile quando mancherà il requisito
del danno inferto con una condotta commissiva (di propria ma-
no) e un’azione in factum quando verrà meno anche il danneg-
giamento arrecato alla cosa (e dunque “al corpo”): si fa strada
nell’ordinamento giuridico romano la possibilità di sanzionare
(venendo meno il requisito del corpore) la condotta omissiva,
sempre però connessa a un obbligo di fare derivante da una si-
tuazione di diritto o di fatto: voglio ricordare l’ipotesi del forni-
carius, che non custodisce il forno o del medico che cura negli-

2. Ibidem.
220 Considerazioni conclusive

genter; si è detto che «l’elaborazione giurisprudenziale della


culpa-neglegentia dimostri come il non facere, se visto quale
causa diretta del danno e imputato a chi era tenuto a svolgere
certune attività (in virtù di un rapporto di fatto o di diritto), pos-
sa essere all’occorrenza perseguito ex lege»3.
Senza il requisito del danno arrecato “al corpo” si fa strada
la tutela del danneggiamento non distruttivo: vorrei ricordare il
caso di colui che – passeggiando lungo il Tevere a Roma, e
pregato in tal senso, mostra l’anello, probabilmente di grande
valore e appena acquistato, all’amico. A questi, forse perché
poco accorto (e non sicuramente per caso fortuito), il prezioso
monile sfugge di mano e precipita nel fiume. Si tratta di
un’ipotesi di danneggiamento non distruttivo, perché il bene
appare illeso nella sua struttura fisica, eppure, secondo i giuristi,
una ipotesi di questo genere non può rimanere priva di tutela.
Questo caso può essere connesso a quello in cui viene am-
messa la possibilità di agire ex lege Aquilia al dominus per delle
ferite arrecate al proprio servus, nonostante queste siano già
guarite: si tratta – nuovamente – di un danno non distruttivo, e
che trova tutela grazie all’elaborazione a cui giunge il pretore.
A mio parere, in questo caso si supera anche un terzo requisito
della legge e cioè l’effettività del danno (si tratta del damnum
datum). Abbandonare il requisito del damnum corpore corpori
datum (insieme all’evoluzione che contemporaneamente ri-
guarda il requisito dell’iniuria) vuol dire ampliare la tutela e la
sfera del risarcibile. Alla luce dell’evoluzione di questi due re-
quisiti non deve sorprendere che anche oggi l’ambito della re-
sponsabilità civile si sia profondamente esteso. Non si tratta,
come sopra già accennato, dell’abbandono dell’elemento sogget-
tivo (à la Lucrezi) ma di un allargamento delle condotte punibili.
Anche la necessità che il danno debba essere cagionato alle
cose altrui (come nella datio rebus alienis) è destinato a essere
superato: basti pensare alla possibilità di poter accordare la tute-
la anche al possessore in buona fede (e che possegga la cosa
non vi, non clam e non precario) o all’usufruttario a seguito di

3. S. GALEOTTI, Op. cit., p. 186.


Considerazioni conclusive 221

una condotta nociva posta in essere dal vero proprietario.


Vorrei dedicare qualche considerazione anche al soggetto
ammesso alla tutela: si passa da una visione ex verbis legis vol-
ta a tutelare solamente il danno inferto al servus, alla tutela ap-
prestata in via utile anche all’uomo libero, nonostante nessuno
possa considerarsi “padrone delle proprie parti del corpo”: ini-
zialmente può agire in forza della legge Aquilia solamente il
dominus per il danno arrecato al proprio servo, ma in un mo-
mento successivo potrà agire anche l’uomo libero per un danno
che un terzo abbia inferto direttamente alla propria persona. La
legge Aquilia, nella sua più amplia evoluzione, viene in soccor-
so non solo al proprietario, ma anche a tutti quei soggetti che,
pur non vantando il diritto di proprietà, siano titolari di qualsiasi
ius in re.
Visti i requisiti sostanziali, vorrei dedicare una riflessione
finale anche alla natura della legge Aquilia. Oggi chiamiamo la
responsabilità aquiliana anche responsabilità civile per contrap-
porla in modo netto a quella penale. Il mondo romano, al con-
trario, si caratterizza per un approccio “morbido” al tema, inse-
rendo la responsabilità civile all’interno delle azioni miste, vol-
te sia a risarcire il valore del bene danneggiato sia a infliggere
una sanzione per “punire” il comportamento del reo: si tratta di
un’azione, per dirla con Gaio, con cui rem et poenam perse-
quimur. Che questo aspetto si sia perso non è vero, perché rie-
merge spesso la volontà di sanzionare in modo più severo de-
terminate condotte cagionate spesso con dolo o colpa grave,
come nell’ipotesi del danno ambientale, in cui si punisce anche
sulla base dei guadagni ottenuti dalla condotta nociva posta in
essere o nell’ipotesi della violazione dei diritti della persona
(come il diritto all’immagine) anche in assenza di un vero e
proprio pregiudizio di natura economica.
A parere di chi scrive questo orientamento romano deve es-
sere accolto: il legislatore dovrebbe decidere, magari ponendo
anche norme di diritto positivo, di punire in modo più severo
determinati danni derivanti da condotte particolarmente odiose,
dovrebbe, cioè, riemergere quella natura penale che ha caratte-
rizzato il risarcimento del danno in epoca romana. Questo
222 Considerazioni conclusive

orientamento permetterebbe di contemperare al meglio le esi-


genze economiche del danneggiato (perché ha sofferto un dan-
no ingiusto) e quelle della collettività, perché condannare un
soggetto a pagare una somma di denaro, anche a titolo di pena,
potrebbe avere l’effetto di scoraggiare gli altri consociati (non-
ché lo stesso agente) a porre in essere delle condotte simili:
penso, ad esempio, alla guida in stato di ebbrezza o ai danni ca-
gionati sotto l’effetto di sostanze psicotrope.
Tra tutti i passi visti e trattati quello a mio parere più interes-
sante è relativo al tonsor contenuto in D. 9, 2, 11: il barbiere,
colpito dalla palla, recide la gola del servo a cui stava radendo
la barba. Il passo permette di svolgere alcune considerazioni
conclusive interessanti. Innanzitutto esso testimonia l’attenzione
che i giureconsulti pongono sul nesso di causalità. Sono esami-
nate attentamente le posizioni di tutti gli agenti: del giocatore
(che ha dato origine all’azione), del barbiere (che esercita
un’attività pericolosa in un luogo poco idoneo e svolge un me-
stiere tecnico e, per così dire, pro perito se locat) e del servo
(che ha deciso di farsi radere in un luogo, ammettiamolo, poco
adatto). Il passo testimonia l’importanza che viene data
all’elemento soggettivo della colpa: in chiunque (indifferente
chi) sia la colpa è necessario procedere ex lege Aquilia. Questo
non vuol dire che nell’ordinamento giuridico romano emerga
una responsabilità di natura oggettiva, anzi secondo me è lam-
pante lo sforzo dei giureconsulti di ricercare un principio di
colpa di fronte a un danno che sembra effettivamente essere sta-
to cagionato a seguito dell’azione di questi agenti, lo sforzo di
ricercare assolutamente una colpa deve far comprendere come
danno e colpa siano due elementi strettamente legati tra di loro
e si ravvisa nel passo la rilevanza che i giuristi danno alla culpa
levissima, e cioè a quella sottile linea che separa il caso fortuito
dalla colpa.
Sul punto vorrei fare ancora una breve osservazione: si in-
corre in una fallacia logica se si sostiene che nel diritto romano
(con riferimento alla legge Aquilia) sia predisposta una respon-
sabilità oggettiva, argomentandolo dal fatto che la colpa è sem-
pre rapportata a un modello di diligenza (che è quella del bonus
Considerazioni conclusive 223

pater familias per quanto riguarda la colpa-negligenza e quella


della regola dell’arte per quanto concerne la colpa-imperizia4):
bisogna ricordare che la colpa astratta, e cioè quella che fa
sempre riferimento a un modello astratto di diligenza, è sempre
ascrivibile all’interno dell’elemento soggettivo, anche se non si
tratta di colpa in concreto (che ha come presupposto il confron-
to non con un modello comportamentale astratto, bensì con
quello posto in essere dagli altri consociati, nella medesima si-
tuazione e con le stesse competenze).
Va notato che il modello astratto elaborato dai giuristi ro-
mani nasce dalle decisioni di fattispecie concrete, e da queste
deriva. Affascinante e meritevole di qualche riflessione è la par-
te finale del medesimo passo, in cui si afferma che la colpa,
probabilmente, sia in capo allo stesso servo, perché – avendo
deciso di farsi radere in un luogo pericoloso – si è accollato il
rischio di un eventuale danno. La conclusione porta a riflettere
su quel soggetto che subisca una lesione a seguito di una pro-
pria condotta imprudente, imperita o negligente. Egli, tutte le
volte in cui si comporta in questo modo, ad esempio perché iter
intempestive fecit, non può invocare alcuna forma di tutela: non
può chiedere il risarcimento del danno, ma deve lamentarsi
“con se stesso” (de se quaeri debet). Nel nostro ordinamento
questa prospettiva sulla compensazione della colpa è del tutto
scomparsa, avendo trovato accoglimento il concorso di colpa.
Far ritornare in auge una regola di questo calibro, basata sul fat-
to che si quis ex causa sua damnm sentit non intelligitur
damnum sentire, risulterebbe particolarmente interessante, per-
ché il concorso di colpa (rectius il poter regolare il risarcimento
del danno prendendo in considerazione il concorso di colpa) si
basa su una valutazione fittizia e stabilita dal giudice a posteriori.
Su quale base si può affermare che il concorso di colpa ab-
bia effettivamente influito sulla valutazione del danno a
quell’esatto ammontare? A mio avviso, data l’incertezza che
regna in questi casi, l’idea della compensazione della colpa ben
si adatterebbe al sistema moderno. Pensiamo al caso in cui Ti-

4. Come afferma F. LUCREZI, Art. cit., p. 221.


224 Considerazioni conclusive

zio, guidando la propria autovettura, nella maniera più diligente


possibile, investa Caio che attraversa la strada (magari a quattro
corsie), sbadatamente (magari di notte), senza prestare un mi-
nimo di diligenza e buon senso (magari insieme ai suoi piccoli
figli). In questo caso come può un giudice liquidare un risarci-
mento che tenga effettivamente conto del concorso di colpa?
Sarebbe giusto ammettere i limiti della scienza umana e del di-
ritto, accogliendo il principio della compensazione della colpa,
forse fin troppo rigido, ma quanto meno più reale ed intellet-
tualmente più onesto. Con questo principio si limiterebbe la
possibilità di condannare anche quel soggetto che ha arrecato
un danno a seguito non della propria negligenza, ma a causa
della criticabile azione altrui.
Vorrei fare ancora qualche considerazione su alcune affer-
mazioni che sono affiorate in una certa dottrina romanistica, fa-
cente capo a Francesco Lucrezi, la quale sostiene che il legisla-
tore, prevedendo la colpa all’art. 2043 c.c., si sia allontanato dal
modello della lex Aquilia (che propone solo una responsabilità,
a sua detta, oggettiva), mentre la giurisprudenza si stia avvici-
nando a una estensione della responsabilità oggettiva, propria
del diritto romano5. A mio avviso, come sopra messo in luce,
questo orientamento è criticabile, e che la giurisprudenza ricer-
chi una responsabilità oggettiva è affermazione del tutto discu-
tibile. Basta ricordare come la Suprema Corte di Cassazione
abbia rigettato la richiesta di alcuni investitori che avevano cita-
to in giudizio la Banca Italease6. I ricorrenti avevano acquistato
dei titoli confidando nei dati contenuti negli atti e nei documen-
ti della banca, che si erano rivelati non veritieri. I giudici di me-
rito hanno affermato che l’emittente a cui siano imputabili i do-
cumenti risponde anche solo a titolo di colpa (e questa decisio-
ne è stata avallata dal giudice di legittimità, che ha rigettato il
ricorso dei ricorrenti, confermando, dunque, la decisione di se-
condo grado). Detto questo, la Corte territoriale individua – pe-

5. Si tratta dell’ormai più volte art. cit.


6. Cass. civ., 26 maggio 2016, n. 10934, in banca dati elettronica pluris-
cedam.utetgiuridica.it.
Considerazioni conclusive 225

rò – una data che fa da spartiacque tra il diritto al risarcimento


del danno e le operazioni di investimento che restano prive di
questa tutela. La data individuata è quella del 31 maggio 2007:
la banca aveva emesso un comunicato stampa, in cui metteva in
evidenza il rischio conseguente all’acquisto degli strumenti de-
rivati. Il risarcimento deve essere escluso non perché viene me-
no la colpa in cui versa l’istituto bancario, ma perché, dopo una
certa data, gli investitori dovevano essere consapevoli del ri-
schio che comportava l’acquisto di certe azioni: continuando ad
acquistare si sono resi, pertanto, imprudenti e sprovvisti di ogni
minima accuratezza. Questa decisione dimostra come la colpa
continui ad essere il perno della responsabilità civile. Inoltre,
con questa sentenza, fa breccia all’interno dell’ordinamento at-
tuale il principio, già sopra visto, della compensazione della
colpa.
Per ultimo bisogna fare un cenno all’ampliamento del risar-
cimento: si passa da una visione meramente penale, che prende
in considerazione solo il maggior valore della cosa, a una visio-
ne più complessa, che guarda, con particolare favore, alla situa-
zione concreta. In un primo momento si prende in considera-
zione il solo valore della cosa, riferendosi al maggior valore che
avesse avuto prima della condotta dannosa (il riferimento tem-
porale, ricordiamolo, è di un anno nell’ipotesi del servo o del
quadrupede da pascolo ucciso e di trenta giorni per quanto con-
cerne il danneggiamento di tutte le altre cose): si tratta
dell’aestimatio rei (in questo momento aestimatio damni e ae-
stimatio rei coincidono). Tra la fine del I secolo d.C. e l’inizio
del II secolo d.C., accanto al valore della cosa, grazie ad
un’interpretazione evolutiva del diritto, i giuristi prendono in
considerazione anche la causa rei. In questo momento la stima
del danno (aestimatio damni) è composta non solo dal valore
della cosa (aestimatio rei), ma anche dagli ulteriori danni risen-
titi (aestimatio utilitatis amissae). In quest’ultima categoria
vengono prese in considerazione l’utilità persa dal proprietario
nell’ipotesi in cui la cosa fosse rimasta nella sua integrità mate-
riale, prefigurandosi il moderno “prezzo formale”. I giuristi
considerano la cosa non come un’entità statica, ma dinamica; e
226 Considerazioni conclusive

si pone l’attenzione sulla res quale possibile oggetto di rapporti


giuridici successivi. In questo modo, grazie alla causa rei (che
si affianca alla aestimatio rei), viene in rilievo quello che la
dottrina moderna, avendo recepito la dogmatica medievale, ha
definito lucro cessante e danno emergente, concetti – sebbene
non catalogati – già noti ai giuristi romani.
La causa rei è qualcosa di separato rispetto al valore del
corpus e scompare in età severiana grazie all’introduzione della
liquidazione diretta dell’omne id quod interest, concetto unita-
rio e omnicomprensivo. Conseguentemente, la legge Aquilia si
apriva dalla ristretta tutela della proprietà privata alla funzione
più ampia di difesa del patrimonio, ponendo le basi del moder-
no risarcimento del danno, classificabile – per utilizzare
un’elegante e precisa espressione di Paolo – quale somma di
tutto ciò che non abbiamo potuto guadagnare o di ciò che siamo
stati costretti a spendere: aut consequi potuimus aut erogare
cogimur.
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Ringraziamenti

La sezione dedicata ai ringraziamenti è sempre la più difficile:


tante le persone da ringraziare e a cui si deve qualcosa, fosse
solo un pensiero.
Un pensiero speciale va innanzitutto ai miei genitori, per
l’aiuto, il sostegno, la vicinanza e l’amore di cui mi hanno sem-
pre riempito ed altrettanto grato sono a mio fratello e ad Anto-
nia.
Un grazie va al mio maestro, Professore e Avvocato Giu-
seppe Marazzita per gli insegnamenti appresi negli ultimi anni,
senza i quali sono certo che ogni pagina di questo scritto suone-
rebbe diversa; e a tutta la Cattedra di Istituzioni di Diritto Pub-
blico della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Tera-
mo.
Un pensiero non può non andare al Dott. Eduardo Campese,
Consigliere presso la Prima Sezione civile della Suprema Corte
di Cassazione, punto di riferimento umano e professionale.
Un ringraziamento lo voglio riservare al Professore Mario
Fiorentini, amico che mi ha sempre supportato nell’attività di
ricerca sulla lex Aquilia.
Per ultimi, ma non per importanza, vorrei ringraziare tutti gli
amici, di cui è difficile un’elencazione esaustiva, ma un pensie-
ro va a Marco per i momenti di svago trascorsi insieme e ad
Alena per la sua incondizionata vicinanza anche nei momenti
più difficili.

243
 –

  – Scienze matematiche e informatiche

  – Scienze fisiche

  – Scienze chimiche

  – Scienze della terra

  – Scienze biologiche

  – Scienze mediche

  – Scienze agrarie e veterinarie

  – Ingegneria civile e architettura

  – Ingegneria industriale e dell’informazione

  – Scienze dell’antichità, filologico–letterarie e storico–artistiche

  – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche

AREA  – Scienze giuridiche

  – Scienze economiche e statistiche

  – Scienze politiche e sociali

  – Scienze teologico–religiose

Il catalogo delle pubblicazioni di Aracne editrice è su

www.aracneeditrice.it
Compilato il  giugno , ore :
con il sistema tipografico LATEX 2ε

Finito di stampare nel mese di giugno del 


dalla tipografia «System Graphic S.r.l.»
 Roma – via di Torre Sant’Anastasia, 
per conto della «Gioacchino Onorati editore S.r.l. – unipersonale» di Canterano
(RM)

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