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Fallimento (dir. tribut.

) [XVI, 1967]
di Gualazzini Ugo,Pecorella Corrado
Fallimento (premessa storica) [XVI, 1967]
1. Genesi storica ed àmbito d'applicazione delle procedure di concorso dei creditori.

Dominando dall'alto il complesso di norme, di pratiche, di decisioni giudiziali e di pareri


dottrinali, lentamente accumulatosi a formare l'istituto del fallimento il giurista anconitano
Benvenuto Stracca osservava, nel XVI secolo, Denique laudandi sunt populi qui cum videant
hodie mercaturam frequentari et decoctorum copiam increbrescere, sibi ius proprium civitatis in
decoctoribus constituerunt, prout Mediolanenses et Florentini inter alios constituerunt. Sed
quantum intelligo non ita clare ut negotium exigit(1). Il giudizio dello Stracca appare, ad un esame
anche sommario delle fonti, perfettamente calzante: poche e disorganiche appaiono le norme del
ius proprium che qua e là provvidero, con mezzi spesso inidonei, a disciplinare l'apprensione dei
beni del debitore insolvente da parte dei creditori. Scarsa e inapplicabile, se non in chiave di
massimario, la tradizione romanistica, il concorso dei creditori, o fallimento rientra nel novero
degli istituti di creazione medioevale, di una creazione nella quale è difficile, più forse che nelle
altre, sceverare quanto sia voluntas, ordine di legislatore, e quanto sia ratio, lavorio sistematico di
giuristi e giudici e consulenti. Di una origine pratica, di una natura di strumento concreto che non
ha alle proprie spalle adeguato bagaglio culturale è testimonianza anche il tipo di dottrina che
intorno al fallimento si è andato nell'età di mezzo accumulando: chi scorra le citazioni trova, senza
troppo stupirsene, che i dottori sul fallimento hanno enunciato pareri in sede di consilium, di
quaestio de facto, più che in sede di distesa narrazione intorno ad una o più rubriche del Corpus
iuris. Ius proprium diceva lo Stracca, e toccava forse anche a lui il rimprovero che egli rivolgeva
al legislatore, di non essere stato abbastanza chiaro, non tanto almeno quanto lo richiedesse il
negozio, giacché di un tipo particolare di ius proprium si trattava, di statuto di collegio mercantile
che è ius proprium rispetto ad uno ius commune, lo statuto comunale, che è a sua volta proprium
rispetto al diritto comune. L'istituto nasce sul terreno mercantile non solo perché ai mercanti
espressamente si rivolge, ma perché le norme che lo contemplano trovano quasi ovunque
collocazione e coordinamento, nello statuto della universitas mercatorum.

Se, seguendo l'autorevole indicazione dello Stracca, esaminiamo le normative milanesi e


fiorentine, questa impostazione appare chiarissima, sin dalle prime battute del discorso. Lo statuto
del Capitano del popolo di Firenze, nella prima delle rubriche dedicate al fallimento avverte infatti
che le norme si applicano a quoscumque mercatores campsores et lanaiuolos, baldrigarios,
spetiarios, pelliparios et omnes alios qui pro eorum ministeriis publicis consueverunt recipere
pecuniam vel mercantiam ad scripturam libri(2); erano bene identificati i soggetti passivi del
fallimento, e la formula del credito ad scripturam libri ne era elemento essenziale, tanto essenziale
che la si troverà ripetuta nelle rubriche seguenti, come nella 47 e nella 60(3). Sapore analogo, forse
più preciso, ha l'altra formula usata nella rubrica 52 «mercatorum vel campsorum et aliorum qui
publicum habent librum rationum...». Si affaccia qui, e non sarà unico caso, il collegamento fra
l'adozione di speciali forme procedurali e di speciali sanzioni punitive e la fede pubblica che
l'ordinamento attribuisce a determinati libri o determinate scritture delle quali sia obbligatoria la
tenuta(4). L'adozione di uno speciale ius nei riguardi del mercante insolvente trovava quindi
ragione da un lato in motivi di ordine pubblico, il maggiore scandalo che deriva dal fallimento di
un mercante, specie se grande, d'altro lato in un motivo evidente, quello della maggiore facilità per
i mercanti e banchieri di ricorrere al credito, ai pagamenti differiti, di porre così le premesse de
facto per una eventuale insolvenza; confluivano infine a determinare il più rigoroso regime motivi
di equilibrio sociale, la comunità che ha fornito al campsor uno degli strumenti di attività,
riconoscendo valore ai suoi libri, deve più duramente intervenire quando quegli strumenti siano
stati deviati dal loro normale uso, siano divenuti strumento di illecito arricchimento. Almeno
questo nelle fonti romane lo si trovava, il regime dei libri degli argentarii(5) aveva già tenuto conto
della situazione particolare nella quale i banchieri erano stati posti ed aveva sanzionato più
duramente il loro eventuale comportamento scorretto.
E ancora ribadisce lo statuto fiorentino che il fallimento è istituto legato al mondo mercantile,
inapplicabile fuori di esso, allorché dispone con una norma di sapore dubbio che le norme emanate
dai consoli di una delle dodici arti maggiori prevalgano su quelle del comune, incaricando
addirittura il Capitano di osservarle ed eseguirle(6), dando cioè per risolto un problema, quello
dell'applicazione da parte degli organi comunali di norme corporative, sul quale la dottrina sarà
discorde(7). E ancora la limitazione al mondo mercantile appare allorché si dispone che chi voglia
chiedere sia pronunciato il fallimento di un suo debitore dovrà bene indicare nella petitio l'arte di
appartenenza del fallendo(8) ché, ci pare, il fallimento doveva essere diversamente regolato o
diversamente atteggiarsi secondo gli statuti delle singole arti; e ancora si dispone che accanto al
ritratto dei falliti sia posto oltre al nome proprio del fallito anche il nome dell'arte cui era stato
ascritto(9). L'appartenenza all'arte conferiva uno status, la procedura fallimentare era l'ultimo,
inglorioso, atto nel quale il mercante possedeva ancora tale status.

Più ampio è il regolamento dettato nel 1341 dai Signori di Milano(10): in esso emergono, pur se non
sempre sufficientemente sistematizzati, tutti gli elementi essenziali dell'istituto. La procedura si
attua nei confronti dei mercanti, intendendosi per tali coloro che siano implicati in atti
negociationis vel cambii, ricorrendo, se del caso, alla perizia dei consoli mercantili per accertare la
natura dell'atto del quale si controverta. La norma è però parzialmente disattesa nel testo
successivo, ove si dispone che gli statuti contro i fuggitivi locum habeant tantum in mercatoribus
et campsoribus fugitivis, ed in altra norma che dispone aver luogo il fallimento inter mercatores
publicos et usitatos exercere mercadandiam et non contra alios qui non sint publici et usitati
mercatores. Il dubbio e l'incertezza del legislatore milanese erano destinati a giungere sino a noi;
nelle norme che si susseguono nel testo si ravvisano chiaramente almeno tre diverse intenzioni,
quella di assoggettare al fallimento tutti i fuggitivi che abbiano compiuto atti di commercio, quella
di assoggettarvi solo i mercanti iscritti nella matricola mercantile, quella di estendere il fallimento
anche a chi eventualmente esercitasse un'attività professionale, in modo costante e notorio (publici
et usitati), prescindendo dall'appartenenza ad un'arte.

Il complesso delle norme milanesi richiedeva, per più aspetti, un chiarimento, ed il chiarimento
venne, in forma quasi di regolamento d'esecuzione, pochi anni dopo, su richiesta dei mercanti
piacentini. Per ciò che qui ci interessa il chiarimento ribadiva che dovessero intendersi mercanti, e
pertanto essere assoggettati alla procedura fallimentare, omnes contrahentes ex causa
negociacionis vel cambii(11).

Si son sin qui visti i testi delle legislazioni, a dir dello Stracca, più avanzate, e ciò per ritrovar in
essi testimonianza della nostra tesi, dell'esser cioè il fallimento istituto applicabile solo agli
appartenenti al mondo mercantile. La contraria opinione, tuttora prevalente in dottrina, derivante
da una tradizione che risale al Pertile(12) e all'Arcangeli(13) per giungere sino al Provinciali(14), ci
pare non precluda, non ostante l'autorevolezza dei giuristi ricordati, l'opportunità di una revisione
secondo quel che le fonti che stiamo esponendo paiono dettare. Già si son viste le legislazioni
milanese e fiorentina; non essendo possibile in questa sede analizzare minutamente i singoli statuti
italiani, limitiamo la nostra indagine ai più antichi(15), il costituto di Siena e lo statuto di Verona(16).
Per ciò che riguarda Siena, alle fonti già segnalate ed utilizzate dalla dottrina basterà aggiungere
che per norma dello stesso costituto il podestà avrebbe dovuto costringere chiunque esercitasse
attività mercantile a giurare fedeltà ai capi dell'arte, ad assoggettarsi cioè alle norme corporative(17)
, che i capi dell'arte esercitavano attività giurisdizionale interna secondo le norme proprie dell'arte,
oltre che di quelle del comune(18), che infine proprio per questa attività giurisdizionale essi
tenevano stabilmente al proprio servizio un giudice la cui funzione era riconosciuta di tanto
interesse da parte del comune che il comune stesso si impegnava ad esonerarlo da impegni presso
le magistrature comunali(19). Inoltre, ed è quel che ci interessa maggiormente, un capitolo che ha
data certa, settembre 1254, dettando norme de Exbannitis a consulibus mercatorum vel
piccicaiorum, dichiara che se i consoli delle arti bandiranno qualcuno dei loro suppositi il podestà
dovrà capere ipsum vel facere ipsum capi et detineri ad voluntatem creditorum vel illius cuius
occasione exbampnitus esset: et tenere eum et habere sicut esset exbampnitus a communi Senarum
et sicut et qualiter teneor capere vel capi facere et detineri exbannitos a communi Senarum(20). Il
testo dice chiaramente che i consoli delle arti esercitavano una propria giurisdizione, emanando
sentenze la cui esecuzione era demandata agli organi comunali, ipotizza il caso di una condanna al
bando, che è fra le sanzioni tipiche del fallimento, configura, se non andiamo errati, l'ipotesi di un
fallimento richiesto dai creditori o da uno solo di essi indipendentemente dagli altri o in contrasto
con gli altri.

Considerazioni analoghe sorgono dalla lettura degli statuti veronesi: lo statuto del 1228 già
prevedeva che il comune garantisse piena esecuzione alle sentenze dei consoli delle arti, conteneva
anzi una norma preclusiva dell'appello contro di esse: Non admittam appellationes factas a
sentenciis latis a potestate vel consulibus mercatorum super facto mercandarie et eorum
sentencias executioni mandabo, nulla exceptione apposita(21). Negli statuti del 1276 la norma è
ripetuta, ed è anche chiarita da un'addizione set eas omni occasione et minori etate cessante
attendi faciam et bona illorum qui in solutione cessaverint pro communi Verone preconizari ad
vendendum et vendi faciam(22). I bandi e la vendita all'incanto saranno dunque opera della
magistratura ordinaria, ma la procedura concorsuale sarà di competenza della magistratura
mercantile.

Un caso a sé è quello di Venezia, che conosciamo attraverso l'indagine del Cassandro(23); caso a sé
perché sin dall'inizio il fallimento appare istituto applicabile a chiunque e direttamente assegnato
alla competenza dei magistrati della Serenissima; si tratta di un caso che non pare aggiungere o
togliere nulla a quanto stiamo scrivendo, ché il diritto di Venezia è caratterizzato, in molte materie,
da istituti propri, tipici, privi di riscontro nella legislazione di altre città mercantili italiane. Fra
l'altro, come è noto, Venezia non era o non si considerava terra di diritto comune, ed è proprio sul
terreno del diritto comune che può trovar spiegazione e causa ciò che stiamo scrivendo.

Alludiamo in particolare al requisito soggettivo per la dichiarazione del fallimento, la


appartenenza cioè del fallendo ad un organismo mercantile, ad una corporazione. La adesione ad
un ente corporativo, nel Medioevo, implicava l'accettazione di una disciplina che non era solo
relativa alla tecnica produttiva, ma anche alla liquidazione delle vertenze insorte fra gli iscritti
secondo un procedimento sommario e sommarissimo che a lungo andare finì con l'influire sul
diritto canonico e a predisporre quel mondo di esperienze dalle quali nacquero le due famose
clementine Saepe (1306) e Dispendiosam (1311) che costituirono le basi della procedura nuova,
ispirata a criteri non formali. Il processo sommario era conosciuto già da tempo, dal mondo delle
corporazioni, dato che gli operatori economici medioevali preferirono spesso giungere alla
definizione dei propri rapporti creditori nel più breve tempo possibile, anche se la rapidità dovesse
andare a scapito della integralità dei pagamenti. In altri termini era usuale che l'operatore
economico si accontentasse di una quota, pur modesta, del proprio credito, purché
immediatamente realizzabile, anziché insistere per ottenere la totalità del proprio credito,
rimandandone l'acquisizione. Sotto il profilo economico tale atteggiamento era spiegabile con la
generale scarsezza e il conseguente alto costo del denaro, per cui il recupero del credito troppo
differito nel tempo si risolveva comunque nel danno certo dell'accensione di onerosissimi debiti da
parte del creditore nella necessità di alimentare la propria attività con denaro fresco. Quindi,
mentre la dottrina civilistica e canonistica e la giurisprudenza relativa disquisivano sull'opportunità
di restaurare l'antico procedimento romano, gli operatori economici cercavano per le proprie
vertenze soluzioni pratiche e rapide, avvalendosi a tal fine degli organi giudiziari delle loro
associazioni, e di norme preventivamente concordate ed accertate. Esse tra l'altro prevedevano una
procedura più rapida e l'adozione di criteri pratici che meglio rispondessero alle esigenze sempre
mutevoli del mercato. In questo spirito fu concepito il fallimento, come eccezione alle regole
antiche che pure prevedevano vari modi per il recupero dei crediti. Infatti l'istituto del fallimento
non sarà affatto sostitutivo di quello della cessio bonorum o della datio in solutum che si
manterranno vitali e saranno utilizzabili ogni qual volta i creditori lo ritengano opportuno.

(1) Benvenuto STRACCA, De mercatore seu mercatura, in Tractatus Universalis Iuris, VI, 1,
Venetiis, 1584, Qui potiores... n. 17.
(2) Statuti del Capitano del popolo degli anni 1322-25 (in Statuti della Repubblica Fiorentina a
cura di CAGGESE, I, Firenze, 1910, II, 25).

(3) La formula della scriptura libri non è isolata: cfr. la Rca 45 degli Statuti di Lucca del 1308 (
Statuto del comune di Lucca dell'anno MCCCVIII... a cura di L. DEL PRETE e S. BONGI, Lucca,
1867) «Et suprascripta debita possint probari per publicum instrumentum vel per scripturam libri
ipsius talis debitoris a creditore obstenta vel teste idoneos et bone fame...». Ciò che viene in
considerazione in questi casi è la circostanza che il campsor non rilascia per solito ricevuta delle
somme di denaro a lui versate, limitandosi a prenderne appunto sui suoi libri, probabilmente alla
presenza di testimoni oltre che della parte versante.

(4) Sui libri contabili v. SAPORI, Saggio sulle fonti della storia economica medievale (in Studi di
storia economica3, Firenze, 1953, 5-24, specialmente 10-16). Del problema si è ampiamente
occupata anche la dottrina medioevale: la più completa analisi si trova, per quanto noi sappiamo,
nel Tractatus super instrumentis di Niccolò MATTARELLI conservato nel Manoscritto Vaticano
lateranense 5773 del quale ci siamo occupati altrove. Per dottrina più recente cfr. STRACCA, op.
cit., Quomodo procedendum... n. 20-21, ove anche ricca bibliografia, e MENOCHIO, De
arbitrariis iudicum quaestionibus et causis, II, Venetiis, 1624, 91. In questa materia però le fonti
concordemente ricordano che per privilegio speciale gli ebrei erano di solito ammessi a presentare
i propri libri anche a proprio favore, e molti statuti di corporazioni mercantili avevano disposto che
piena fede si desse ai libri mercantili anche a favore di chi li aveva redatti.

(5) Il testo romano più frequentemente usato, pro e contro, dalla dottrina medioevale è quello di
Labeone, in D. 2, 13, 6, 3. Sulla posizione degli argentarii cfr. ASTUTI, Compensazione
(Premessa storica), in questa Enciclopedia, VIII, 1 ss.

(6) Statuti del Capitano del popolo, cit., Rca 50.

(7) Sul punto cfr. PADOA SCHIOPPA, Giurisdizione e statuti delle arti nella dottrina del diritto
comune, in SDHI, 1964, 179-234.

(8) Statuti del Capitano del popolo, cit., Rca 5.

(9) Statuti del Capitano del popolo, cit.; Rca 54.

(10) I Capitula de mercatoribus fugitivis, di Giovanni e Luchino Visconti, sono editi in appendice
agli Statuta Mercatorum Placentiae ai quali, per ordine dei Visconti stessi, dovevano essere
annessi, in Statuta varia civitatis Placentiae, Parmae, 1860, 199-210. La legislazione lombarda in
materia fu successivamente completata col Decretum contra fugitivos et fidem fallentes di
Galeazzo Maria Sforza del 1473, edito in appendice a quasi tutte le edizioni statutarie lombarde
(testo migliore nell'edizione degli Statuta milanesi [Mediolani, Suardi, 1480], ove sono anche i
temperamenti che il Duca apportò all'originaria severità su richiesta dei mercanti milanesi). Su
questa legislazione e problemi connessi cfr. GUALAZZINI, La Mercadandia nella vita cremonese
, in Inventario dell'archivio storico camerale (Camera di commercio industria ed agricoltura di
Cremona), Milano, 1955, LXXV ss.
(11) Il chiarimento, che è del 1350, è riportato, come i Capitula cui si riferisce, in Statuta varia,
cit., 210-212.

(12) PERTILE, Storia del diritto italiano2, VI, 2, Torino, 1902, 393.

(13) ARCANGELI, Gli istituti del diritto commerciale nel Costituto senese del 1310, in Riv. dir.
comm., IV, 1906, ora in Scritti di diritto commerciale ed agrario, I, Padova, 1935, 161-244
(l'affermazione citata nel testo a p. 233).

(14) PROVINCIALI, Manuale di diritto fallimentare2, Milano, 1951, 55.

(15) Che si tratti dei due statuti più antichi, intendendo l'antichità nel senso che sono i primi nei
quali possa sicuramente ravvisarsi l'istituto, è affermazione, che condividiamo, del
SANTARELLI, Per la storia del fallimento nelle legislazioni italiane dell'età intermedia, Padova,
1964, 39 ss.

(16) Il Constituto del Comune di Siena del 1276 pubblicato sotto gli auspici della facoltà giuridica
di Siena da L. ZDEKAUER, Milano, 1897; Liber iuris civilis urbis Veronae, Veronae, 1728.

(17) Constituto, cit., I, 473.

(18) Constituto, cit., I, 484.

(19) Constituto, cit., I, 525.

(20) Constituto, cit., I, 472.

(21) Liber iuris civilis, cit., XXIV.

(22) Gli statuti Veronesi del 1276 a cura di G. SANDRI, I, Venezia, 1940, II, 62.

(23) CASSANDRO, Le rappresaglie e il fallimento a Venezia nei secoli XIII-XVI con documenti
inediti, Torino, 1938.

2. Aspetti della disciplina del fallimento: sanzioni in caso di fuga del debitore insolvente e di
insolvenza fraudolenta.

Altri elementi tuttavia vanno tenuti presenti per lo studio della genesi del fallimento: la natura
pattizia delle più antiche norme che regolavano la vita dei singoli corpi d'arte, spesso qualificate
come pacta(24), il coordinamento faticoso, ma effettivamente raggiunto, fra le singole associazioni,
regolamento che in parte era dovuto alle stesse esigenze della produzione e in parte alla necessità
di rafforzare, sulla base di un ben coordinato rapporto gerarchico, il sistema corporativo di ogni
collettività comunale. Deve inoltre precisarsi che l'adesione a organismi corporativi che
prevedessero fra le proprie norme statutarie il fallimento come mezzo per la definizione dei
rapporti fra debitori e creditori, non era la sola ragione che consigliasse la procedura fallimentare.
Infatti il dissesto dovuto a cause spiegabili dalle quali fosse escluso il dolo o il sospetto di dolo (il
dissesto fortunae vitio come lo chiamerà la dottrina) veniva regolato in maniera normale, cioè o
con l'apertura del procedimento concorsuale, o con la cessio bonorum, beneficium apprezzato nel
mondo artigianale in quanto la restituzione del dissestato alla condicio di uomo libero gli toglieva
l'infamia derivante dall'insolvenza, e lo poneva quindi in condizione di riprendere la propria
attività e ricostituirsi una base economica tale da permettergli, qualora l'avesse creduto opportuno,
di riconoscere come obbligazioni naturali i debiti solo parzialmente soddisfatti, e provvedere
quindi in un secondo tempo alla loro riduzione o totale estinzione. La soluzione giovava anche ai
creditori, lasciava ad essi almeno la speranza di recuperare in futuro ciò cui avevano dovuto sul
momento rinunciare. In tali casi non si instaurava più il procedimento fallimentare, si provvedeva
semplicemente al ricupero totale o parziale dei crediti secondo gli accordi che venivano stipulati
fra il debitore insolvente ed i suoi creditori. Tale procedimento concordatario poteva essere
instaurato sulla base di una sentenza dei magistrati della Universitas o dell'associazione di
appartenenza del decotto, la quale sentenza aveva di regola, pur nel rispetto di certe norme,
soprattutto i caratteri del lodo arbitrale.

Le disposizioni contro i fuggitivi furono dettate da una necessità giuridica, per consentire che agli
assenti venisse inflitta una pena. Il Digesto (48, 17, 1 pr.) chiaramente disponeva ne quis absens
puniatur, secondo un rescritto di Severo e Antonino. E nel Medioevo l'autore delle Exceptiones
legum romanarum (IV, 19) ribadendo il principio ripeteva le stesse parole del Digesto,
sottolineando che da una disapplicazione di esse sarebbe sorta una lesione della equitatis ratio. Il
fugitivus non era semplicemente l'insolvente che si fosse sottratto ai suoi creditori, era il
bancarottiere, cioè colui che aveva compiuto atti illeciti come frode in commercio, insolvenza
fraudolenta e simili, o colui che era fuggito con del denaro appunto per non soddisfare i creditori.
Lo stato di assenza lo poteva porre nella condizione di non essere punito per gli atti penalmente
perseguibili da lui compiuti, in base al principio più volte ribadito nel diritto romano, che fosse
impunibile l'assente. Per superare tale situazione era necessario un provvedimento legislativo di
valore eguale a quello delle norme romane.

Poiché evidentemente il diritto comunale difficilmente avrebbe potuto provvedere ad una deroga
di così ampia portata che incideva su uno dei canoni fondamentali del diritto (e non a caso si
sottolineava che sarebbe venuta meno l'equità se si fosse punito l'assente), il legislatore comunale
ricorse all'inserzione della norma punitiva nello statuto corporativo, come in Lombardia, o rinviò
ad esso come a Firenze; si rese così applicabile al singolo un complesso di disposizioni che il
singolo stesso aveva accettate nell'atto in cui si iscriveva ad una associazione o svolgeva l'attività
che alla associazione faceva capo. Tale forma di adesione preventiva alla propria punizione in
caso di mancato assolvimento degli impegni assunti è da collegarsi a certe clausole penali che
venivano inserite nei contratti privati. In esse erano contenute sanzioni nei confronti degli
inadempienti che autorizzavano il creditore a farsi giustizia da sé. Tali clausole infatti non si
limitavano a stabilire oneri pecuniari, dato che sarebbero rimasti inapplicabili in caso di decozione
del debitore(25), ma stabilivano che sarebbero stati leciti l'arresto e la detenzione privata (altrimenti
vietate), che la scelta del giudice e del foro fosse demandata al creditore, in modo che se il
debitore fuggisse gli si potesse contestare il debito ovunque, proprio per evitare che la contumacia
del convenuto ne favorisse i propositi illeciti(26). Le operazioni commerciali erano spesso regolate
da accordi verbali, sarebbe quindi stato assai difficile raggiungere l'inadempiente. Le norme sul
fallimento assumono anche tale funzione, sostitutiva delle clausole contrattuali liberamente
sottoscritte.

Questa genesi trapela nei testi che abbiamo citati, affiora come ricordo, come causa diretta o
indiretta di scelte, di soluzioni, di princìpi, fornisce l'unica chiave per tentar di ricomporre ad unità
i disiecta membra delle norme di vario luogo ed età che solo su questo terreno riescono a trovare
una composizione unitaria. Per non far che un esempio, è in questa visione che devono esser
considerati episodi come quello citato dal Cassandro per Venezia(27), della apprensione diretta da
parte dei creditori, in modo stragiudiziale se non anche illegale, dei beni del debitore decotto. Il
fallimento è appunto anche l'espediente escogitato per porre fine, facendo salva la legalità che
vietava la punizione dell'assente, all'attività diretta dei creditori che si fanno giustizia da sé; ma di
questa origine le norme fallimentari recano traccia, quando consentono che il creditore possa
arrestare il debitore fuggitivo, sostituendosi così alla forza pubblica, imponendogli però di
consegnarlo immediatamente al giudice.

In questo modo trova spiegazione anche l'alternanza di durezze e mitezze, i ritorni di norme che
sembravano obliterate: la storia del fallimento si presenta, in certo senso, come la storia
dell'incontro e dello scontro fra due ordinamenti, l'ordinamento comunale e quello corporativo. È
su questo terreno che appar possibile comprendere l'insistenza dei testi sulla fuga, la fuga con
l'avere altrui: che altro è se non un furto(28)? E l'invocare, anche senza nominarlo, il furto, che altro
può significare se non avvertire che il fallimento, accanto agli aspetti meramente economici, i soli
a preoccupare l'universitas mercatorum, ha anche dei profondi riflessi di ordine pubblico, ai quali
non può restare indifferente la comunità nel suo complesso? Ciò spiega la mitezza dei mercanti, la
loro pressione, che ci è più volte documentata sul legislatore cittadino perché sia attenuato il
regime fallimentare(29): ciò che ai mercanti interessa è ottenere il più rapidamente possibile la
soddisfazione del proprio credito, e se per raggiungere tale scopo appaia opportuno lasciar libero il
debitore, o lasciarlo libero di lavorare, tanto meglio. Su posizioni naturalmente opposte si trova il
legislatore, cui più che una soluzione dei problemi economici dei singoli preme la salvaguardia del
principio ne maleficia remaneant impunita. I testi che abbiamo citati sono, come si diceva, di età
recente, essi rappresentano varie fasi nell'alterna vicenda dei rapporti fra comune e corporazioni.
Condizione essenziale perché si abbia il fallimento è l'insolvenza, ma dell'insolvenza il mondo
medioevale ebbe concetto in parte diverso dall'attuale. Le norme, e la stessa dottrina configurano
infatti sempre l'ipotesi della fuga, ed alla fuga, intesa come volontario abbandono della propria
residenza con l'animus di frodare i creditori, riconnettono le conseguenze della procedura
fallimentare, e ciò è particolarmente significativo per ciò che attiene all'azione revocatoria. Essa
può essere esperita per tutti i beni che il debitore abbia alienati nel trimestre (o nel semestre)
precedente la fuga. Accanto ad essa, considerata come un vero e proprio reato consumato, si pone
il sospetto di fuga, considerato come momento autonomo, di per sé suscettibile di dare adito a
misure coercitive. La nozione di fuga, appunto perché desunta dall'id quod plerumque accidit, non
è per solito enunciata, norme e regolamenti fanno perno su di essa, continuano a far decorrere da
essa l'inizio delle misure cautelari e coercitive nei riguardi del fallito, non dicono mai però in che
cosa essa consista(30); continuano anzi ad usare lo schema anche quando l'effettiva fuga del
debitore non era ormai che un ricordo, e la fuga si identificava con l'insolvenza. Qualche migliore
precisazione si trova in dottrina; per il Socino è suspectus de fuga chi adhuc fugere non cepit aut
latitare sed se praeparat aut animum suum ad fugam disponit seu aliis indiciis a lege suspectus de
fuga praesumitur, mentre fuggitivo è chi vitium mentis deduxit ad actum(31).

Se la prima parte della definizione appare utilizzabile, perché indica con precisione gli atti
preparatori del reato, la seconda parte facendo entrare in considerazione i moventi psicologici
testimonia di notevoli incertezze, non potendosi mai sapere in che modo distinguere chi contragga
debiti con l'intenzione di pagarli da chi mediti già in cuor suo di rendersi insolvente. L'incertezza,
causata in fondo dalla stessa durezza delle norme repressive, poteva esser causa di spiacevoli
equivoci e di spiacevoli conseguenze. Ad ovviare a questi pericoli, mentre si intensificavano i
richiami da parte del legislatore alla liceità sì della cattura dei fuggitivo o del sospetto, ma a patto
che lo si consegnasse immediatamente alla autorità pubblica, la dottrina provvedeva a ricordare
princìpi generali del diritto più che idonei a raffreddare gli ardori di creditori troppo impazienti.
Ricordava così che per il diritto romano è lecito al creditore fare incarcerare il debitore insolvente,
ma se quest'ultimo non abbia mezzi per sostentarsi il suo mantenimento in carcere è accollato al
creditore; e se questo ultimo non possa o non voglia provvedere, o non sia costretto a provvedere,
iudex alet de suo(32). O ribadiva, con Bartolo(33), che lo statuto che disponeva che chiunque avesse
un debitore sospetto, potesse chiedergli di dare fideiussori, o farlo incarcerare, doveva essere
interpretato in senso restrittivo, e cioè si casus suspicionis supervenerit post debitum contractum.
Era al tempo stesso precisata la serie degli indizi sulla base dei quali era possibile richiedere
l'apertura di una procedura fallimentare: la determinò Bartolo(34) e i posteriori di poco innovarono.
Lo sforzo della dottrina mirava a proteggere soprattutto i sospetti di fuga, sia con cautele e
richiami al diritto comune, sia con la più precisa distinzione fra il fuggitivo e l'absens, incolpevole
quest'ultimo ed in quanto tale meritevole di protezione, attuata con la nomina di un curatore.

Caso a sé è quello del fallimento della società, risolto per solito con la dichiarazione di fallimento
di tutti i soci della medesima. La compagnia mercantile o societas non aveva nel mondo
medioevale personalità giuridica, gli effetti del fallimento si manifestavano di conseguenza nei
riguardi da tutti i soci. Di qui le distinzioni operate da statuti, e dottori, fra soci di tutta l'attività
sociale e soci di un singolo affare (unius negotiationis).

Nella prima ipotesi il fallimento coinvolgeva tutti indistintamente i soci, nella seconda si operava
la distinzione. Il caso doveva esser piuttosto frequente, come frequente doveva essere l'altra
ipotesi, quella del fallimento di uno dei soci per insolvenza di natura extrasociale, che era risolto
sostenendo la risoluzione della società e la conseguente trasmissione alla massa fallimentare dei
capitali che il socio eventualmente avesse nella società, lasciando del tutto indenni gli altri soci. La
soluzione, equitativa, era consona ai princìpi; il decotto si considerava morto civile e la morte del
socio ha, per solito, effetto risolutivo nei confronti della società(35). Altro problema che si trova
posto, quello della esistenza di due società. Lo formula lo Zanchio «Quid si duae vel plures fuerint
societates, seu negotia, et eorum earumve altera vel alterum decoquat? ...». Lo Zanchio, incline,
sulla scorta della giurisprudenza, a considerare unica la società si unum fuerit capitale a sociis
aequaliter positum(36), anche se diverse erano state le attività commerciali delle due società, nel
caso opposto è incline a considerare doverosa la separazione e la limitazione del fallimento alla
sola società in stato di insolvenza. Il principio aveva naturalmente applicazione più vasta, giovava
anche a stabilire prelazioni: infatti nell'ipotesi che lo stesso fallito avesse più aziende, con oggetto
distinto e distinte attività commerciali, il fallimento di entrambe operava in primo luogo nei
riguardi dei creditori specifici; i creditori dell'una azienda concorrevano fra di loro con esclusione
dei creditori dell'altra(37).

(24) Cfr. per esempio, STRACCA, op. cit., Quomodo procedendum..., n. 12.

(25) È sempre presente, viene citato forse con qualche forzatura, il frammento di Gaio in D. 4, 3, 6
(Is enim nullam videtur actionem habere cui propter inopiam adversarii inanis actio est).

(26) Se ne veda un esempio in Il protocollo notarile di Coluccio Salutati (1372-1373) a cura di A.


PETRUCCI, Milano, 1963, 187 ss. (1375 ag. 5).

(27) CASSANDRO, op. cit., 93 ss.

(28) Non a caso lo Statuto del Capitano del popolo di Firenze, cit., II, 48, qualifica di fures i
fuggitivi. Stessa assimilazione in una Bolla di Pio V del 1570.

(29) Cfr. per esempio il Decretum di Galeazzo Maria Sforza, lc. cit., al quale i mercanti milanesi
fecero apportare ben cinque temperamenti.

(30) Sulla trasformazione del concetto di fuga cfr. SANTARELLI, op. cit., 48 s.
(31) Bartolomeo SOCINO, Consilia, IV, Lugduni, 1551, 93.

(32) Singularia Antonii Corseti, in Singularia praeclarissima plurimorum insigniorum doctorum,


Venetiis, 1557, expensa, III.

(33) Ad l. Mulier C de sponsalibus.

(34) Ad l. Fulcinius § Cum hoc ff quibus ex causis in possessionem eatur.

(35) Il fallimento del socio è fra le cause espressamente previste per la dissoluzione della società,
cfr. PETRUS DE UBALDIS, De duobus fratribus, in Tractatus Universalis Iuris, XI, Venetiis,
1584, 1 s. Lo ZANCHIO (De societate, I, V, Romae, 1786, 37), lo segue, pone però il caso del
socio che anziché apportare alla società capitali apporti ad essa opere, e lo risolve negativamente
perché ormai ha perso la buona fama, e sarebbe dannoso alla società, non ostante motivi di
umanità facessero propendere per la soluzione opposta.

(36) ZANCHIO, op. cit., IV, XII, 130.

(37) STRACCA, op. cit., Qui potiores, n. 21.

3. Soggetti attivi della procedura concorsuale: i creditori ammessi, l'esigenza della «par
condicio» e la gerarchia dei crediti privilegiati.

Promotore del fallimento nel diritto intermedio può essere chiunque; sono esclusi, come al solito, i
falliti, i banditi, in altri termini i soggetti privi dell'esercizio dei diritti civili. In questo caso la
legge forniva amplissima apertura a tutte le esigenze, e non avremmo motivo di parlarne qui se
non vi fossero alcune particolarità sulle quali è opportuno indugiare.

Perché vi sia insolvenza, è ovvio, occorre che vi siano dei debiti e la volontà di non soddisfarli o
l'impossibilità di farlo. Non tutti i debiti però si riconobbero sin dall'inizio idonei a determinare
l'inizio di una procedura fallimentare: si è già visto come alcuni statuti parlino di atti negotiationis
vel cambii, parrebbero quindi esclusi quei rapporti che non avessero connotazione mercantilistica.
Su questo punto la dottrina apportò rapidamente rimedio, facendo confluire in via d'interpretazione
anche i rapporti non commerciali fra quelli la cui soluzione poteva essere chiesta in un fallimento.
Per ciò che attiene invece agli strumenti probatori dei crediti si ravvisano alcune particolarità che
possono servire a meglio illuminare sulla struttura del fallimento: lo statuto milanese per esempio
ammette al riparto dei beni del debitore quei creditori che tali risultino per cartam publicam vel
condemnacionem(38). Ammette cioè il concorso fra coloro che hanno già in mano un titolo
esecutivo. Rispetto a costoro il concorso non è altro che l'adozione di una procedura esecutiva più
rapida, più efficace, tale soprattutto da stabilire una generale equità, ma non si richiede dal giudice
nessuna attività di cognizione, perché i titoli che i creditori portavano erano di per sé tali da
mettere sempre in moto una procedura di esecuzione quale che essa fosse. Nel chiarimento
successivo, accanto alla carta ed alla sentenza, compariva, ad essi assimilato, lo scriptum manu
debitoris factum(39). Il problema che si poneva era semplice e complesso ad un tempo: i creditori
non in possesso di atto pubblico o di sentenza, infatti, potevano avere una scrittura autografa del
debitore (era probabilmente il caso normale dei creditori del campsor, che avevano la possibilità di
esibire il liber rationum del campsor stesso), o cercar di documentare il loro credito mediante il
ricorso a testimonianze, o non aver neppure tale sussidio, essere portatori di un'obbligazione del
tutto sfornita di prova. Per il primo caso il problema era semplice, giacché agli scritti che
promanano da una delle parti una vecchia tradizione giuridica riconosceva valore di confessione
stragiudiziale, quanto meno riconosceva la capacità di far fede contro chi li aveva emessi. In tale
caso non era forse neppur necessaria un'attività di cognizione da parte del giudice, almeno sinché
non si eccepisse la mancanza di autografia, o la falsità dello scritto. Le altre ipotesi che abbiamo
formulate divergevano però, e notevolmente: non creava forse troppi problemi il caso della
obbligazione provata mediante testimoni, testimonianze e documenti redatti da notaio erano stati
più volte assimilati dalla dottrina che qualificava i primi di vox viva ed i secondi di vox mortua. Ai
testi era addirittura riconosciuto il potere di porre nel nulla l'instrumentum, dubitandosi solo del
numero di testi necessario a raggiungere tale risultato (normalmente tre, numero che era stato
stabilito in quanto si computava per due il notaio, richiedendo quindi una prevalenza numerica)(40).
In tale ipotesi però occorreva che il giudice acquisisse agli atti la testimonianza, la vagliasse, la
sottoponesse all'eventuale smentita dei controinteressati, era cioè necessario, lo volessero o no i
testi statutarii, un vero e proprio processo di cognizione. Ancor più necessario era tale processo
nella ipotesi, probabilmente non infrequente, che il credito riposasse sulla sola affermazione del
sedicente creditore. In tale ipotesi il giudice, avvalendosi per motivi di evidente equità, degli ampi
poteri discrezionali riconosciutigli, costituiva in giudizio l'apparato probatorio del quale
l'obbligazione era priva, facendo intervenire il giuramento della parte e di tale giuramento facendo
fare registrazione notarile, compiendo dunque opera sicuramente di cognizione. È in questo genere
di problemi che si avverte meglio il profondo capovolgimento, ed al tempo stesso la persistente
ambiguità, del regime fallimentare medioevale. Alle origini il fallimento era una procedura
meramente esecutiva, ed è in questo senso che molti statuti ammettono ad esso i crediti che hanno
già executionem paratam, che hanno di per sé valore di titolo esecutivo. In un secondo tempo il
fallimento acquista natura di procedimento di cognizione, e si amplia la categoria dei crediti
suscettibili di insinuazione.

Il procedimento si era allora scisso in due fasi, delle quali la prima consisteva, a nostro avviso,
nella raccolta delle documentazioni probatorie già esistenti e nella formazione, con l'intervento
necessario del giudice, di una documentazione di pari valore probatorio per quei crediti che ne
fossero stati privi. Una volta posti tutti i rapporti creditizi sullo stesso piano, almeno per ciò che
attiene alla prova, si poteva passare alla ulteriore fase del procedimento. Che comunque un
processo di cognizione dovesse di regola intervenire era cosa chiara, almeno agli occhi della
dottrina. E si prestò mirabilmente allo scopo quella dottrina, che va sotto il nome del Durante, del
primo e secondo decreto che, applicata alla materia fallimentare, comportava che dal primo
decreto derivasse l'immissione dei creditori nel possesso dei beni del fallito, e dal secondo
l'effettiva aggiudicazione dei beni o la loro vendita all'incanto per soddisfare, in moneta, i
creditori. Il risultato sul piano pratico era di far rientrare nell'alveo della piena legalità, se non
addirittura dell'equità, la procedura fallimentare, ma dal lato teorico voleva dire degradare la prima
fase del procedimento, quella del primo decreto, da fase di esecuzione a fase di assunzione di
misure cautelari.

L'accoglimento della dottrina del Durante non fu naturalmente né immediato né senza contrasti, le
norme statutarie prevedevano una più rapida e disinvolta acquisizione dei beni del debitore
decotto, sostituivano in sostanza una apprensione concorsuale al puro e semplice impossessamento
operato dal privato leso. Rendeva difficile il superamento delle sbrigative forme di esecuzione
mercantili la circostanza che per lungo tempo presso i tribunali commerciali non furono ammessi
gli avvocati: parve opportuno tener distanti dal mondo degli affari i portatori di cavilli
interminabili (come dicevano gli avversari) o i portatori d'una superiore esigenza di giustizia e
legittimità (come dicevano i giuristi stessi). Di questa polemica son tracce quasi ovunque, ne è
ricordo anche nell'opera dello Stracca(41). L'adito quindi alla penetrazione dei concetti del mondo
giuridico nella giurisprudenza mercantile era piuttosto ristretto, occasionale, affidato più alla
evidente razionalità delle soluzioni che al rigore dei princìpi.

Accanto ai soggetti attivi del fallimento, uti singuli, viene in esame pure, se pur rapidamente, il
soggetto attivo, il complesso dei creditori, inteso come un corpus organizzato. Per restar nei limiti
delle fonti citate, lo statuto milanese espressamente dichiara che ogni atto transattivo (pax,
remissio, finis) per aver valore deve essere stato approvato dalla comunitas dei creditori. Il
significato del fallimento era in gran parte proprio qui, nella considerazione solidale dei creditori,
nel concorso. Lo stesso esempio di Venezia, la circostanza ricordata dal Cassandro che presto, già
prima del 1244, si riscontra l'esistenza di capi dei creditori fa vedere come sin dalle origini i
creditori, almeno quelli che ponevano in essere una procedura concorsuale, dovettero sentirsi un
complesso unitario, dovettero darsi una sia pur embrionale organizzazione. È questo uno dei pochi
punti nei quali anche la dottrina opera nella stessa direzione degli statuti; Bartolo(42) non ha dubbi
sul dovere per i creditori che siano stati pagati dal debitore per gratificationem vel per extorsionem
di dividere con gli altri quanto abbiano riscosso. Baldo pone il caso del mercante fuggitivo,
catturato da uno dei creditori che gli sottrae il denaro che abbia in una borsa e soddisfa così il suo
credito, formula il quesito se il creditore abbia acquistato la proprietà del denaro, e lo risolve
negativamente(43). Il terreno sul quale più frequentemente, quasi istituzionalmente, si trovano
applicate norme e princìpi sulla società in genere è quello del concordato, risolto con la consueta
adozione del principio maggioritario, con preferenza della maggioranza economica su quella
meramente numerica. Nulla però contrasta con la generale osservanza del noto principio, cardine
della attività pubblicistica medioevale, quod omnes tangit ab omnibus adprobari debet(44).

La posizione dei creditori doveva essere egualitaria, gran parte degli statuti ripetono almeno nei
primi tempi che i creditori saranno posti tutti sullo stesso piano non facendosi luogo a nessuna
preferenza di tempo o causa(45). La dottrina riconobbe invece ben presto la necessità di graduare le
posizioni creditorie, facendo leva su princìpi la cui accettazione era generale. La gerarchia dei
creditori, fissata da Baldo(46) fu generalmente seguita da tutti i giuristi posteriori: essa prevedeva al
primo posto i domini rerum, intendendo con questa formula i depositari. Coloro che avevano
stipulato col fallito un deposito regolare non si erano mai spogliati della proprietà del bene dato in
deposito, il bene quindi non poteva in nessun modo considerarsi entrato a far parte della massa
fallimentare. La soluzione naturalmente opposta era adottata per i contraenti deposito irregolare.
Seguivano i domini mercium... si merces extant. Si trattava in questo caso di coloro che avessero
venduto delle merci al fallito che, nell'ipotesi che le merci fossero ancora giacenti nel magazzino o
nella bottega del decotto, erano privilegiati rispetto ad esse, potevano in altri termini riprendersele,
salvo il dovere di corrispondere agli altri creditori il maggior valore che le merci stesse avessero
conseguito nel frattempo per effetto di oscillazioni di mercato. La soluzione era un po' forzata, i
venditori delle merci avevano già trasferito la proprietà delle merci stesse, anche se ancora non ne
avevano ricevuto il prezzo, sia che gli effetti della vendita si volessero far decorrere dal consenso
sia che li si volesse far decorrere dalla effettiva tradizione. Il contratto era comunque già perfetto,
Baldo spiega la preferenza asserendo che le merci sono tamquam ei (cioè al venditore) singulariter
obligate pro pretio(47). È probabile che in questo caso si siano fatte sentire le esigenze proprie del
mondo mercantile, nel quale le vendite a pagamento differito erano la regola, e che sarebbe entrato
in crisi se a tali vendite non si fosse riconosciuto qualche privilegio, quanto meno la possibilità di
ripetere l'oggetto venduto se ancora nel patrimonio del debitore al momento del fallimento. La
soluzione era egualmente abnorme, ed in quanto tale sollevò dubbi in un giurista come lo Stracca,
che, pur egli sollecito degli interessi mercantili, propose di fare inserire nei contratti a pagamento
differito la clausola del riservato dominio. Seguivano i creditori ipotecari, i chirografari, e tutti gli
altri. L'ordine di prelazione si basava in fondo su una distinzione, quella fra i richiedenti una
restituzione in forma specifica e quelli che invece richiedevano una restituzione generica, trovava
quindi una sua giustificazione anche formale nei princìpi romanistici.

(38) Capitula, cit., in Statuta varia, cit., 202.

(39) Chiarimento già citato, in Statuta varia, cit., 211.


(40) Cfr. la Quaestio notabilis an duo testes reprobent instrumentum del MATTARELLI,
conservata nel Manoscritto Vaticano lateranense 10726, che v. in BEVILACQUA, Una quaestio
di Niccolò Matarelli, in Collectanea Vaticana in honorem A. M. Card. Albareda, I, Roma, 1962,
131-157.

(41) STRACCA, op. cit., Iudices iidemque, n. 1.

(42) Ad l. Pupillus ff quae in fraudem.

(43) Ad Rca C de revocandis iis quae.

(44) Sulla massima, studiata prevalentemente per i suoi aspetti pubblicistici cfr. MARONGIU,
Q.o.t. Principe fondamental de la Démocratie et du Consentement au XIV siècle, in Album Helen
Maud Can (Studies presented to the International Commission for the History of representative
and parliamentary Institutiones), XXIV, Louvain, 1961, 103 s., ove anche ampia bibliografia. Sul
principio maggioritario cfr. RUFFINI A., Il principio maggioritario - Profilo storico, Torino,
1927.

(45) Cfr. SANTARELLI, op. cit., 237 s.

(46) Ad l. Pro debito C de bonis; cfr. anche PETRUS DE UBALDIS, op. cit., VIII, 32, e
STRACCA, op. cit., Qui potiores. Per analoga decisione statutaria cfr. Constituto di Siena, cit., II,
77.

(47) PETRUS DE UBALDIS, op. cit., n. 49 pone addirittura il quesito, che risolve negativamente,
dell'estensione del privilegio a coloro che abbiano dato denaro al fallito perché comprasse delle
merci che ancora esistano nel suo patrimonio al momento del fallimento.

4. L'estensione del fallimento e l'esercizio delle azioni revocatorie.

Dallo stato di fallimento dell'imprenditore discendevano, come discendono, conseguenze a carico


di terzi, in rapporto d'affari col fallito o anche prescindendo da tali rapporti(48). La legislazione
medioevale tese ad estendere il fallimento ai familiari del fallito, con una soluzione che, abnorme
agli occhi dei moderni, appariva pienamente consona alla concezione della famiglia allora
dominante. La famiglia, intesa come nucleo compatto, rispondeva in solido delle speculazioni
avventate eventualmente fatte da uno dei suoi membri e, come la dottrina qualche volta ricorda,
ciò trova giustificazione nella circostanza che chi contrae con Tizio ha di solito presente la
situazione patrimoniale dell'intero nucleo familiare, non quella del singolo. La fede pubblica in
questi casi esigeva che non potendosi dai terzi sapere con esattezza a chi appartenessero i singoli
beni del complesso familiare, ed essendo d'altra parte la maggiore o minore quantità di beni che
apparentemente siano a disposizione di un contraente uno degli elementi essenziali che inducono
gli altri a fare o non fare credito, a farlo in misura maggiore o minore, tutti i beni costituenti il
patrimonio familiare fossero posti a disposizione dei creditori. Il rigore dei princìpi venne
attenuato da qualche legislazione, così a Firenze ove fu possibile ai padri dissociarsi
pubblicamente dai figli, ed in conseguenza di tale dissociazione, fatta naturalmente in epoca
prefallimentare, mantenersi immuni dalle conseguenze negative della decozione dei figli(49). A
Milano, con situazione parzialmente dissimile, i padri dovranno liquidare al figlio fallito la sua
quota ereditaria e solo su di essa potranno accampare diritti i creditori(50). La soluzione, pur essa
abnorme agli occhi dei moderni per i quali non v'è eredità sinché non vi sia la morte del de cuius,
rientrava nella già citata concezione della famiglia e del patrimonio familiare, elemento visibile
della continuità familiare, proiezione della famiglia più che della persona del singolo ed effimero
titolare. La dottrina cercò anche in questo caso di mitigare il rigore delle norme statutarie, o
sostenendo che tali norme in quanto odiose dovevano essere interpretate restrittivamente, o
asserendo che il figlio emancipato, e non convivente col padre, non può essere ritenuto
responsabile dei debiti paterni(51). Qualche miglioramento la situazione otteneva anche, ma la
procedura era disorganica, con la registrazione della società, e l'indicazione di tutti coloro che
nella società avevano parte, nei registri delle corporazioni, come forma di pubblicità che valesse a
dichiarare ai terzi, chi ed in che misura poteva esser tenuto responsabile per i debiti sociali(52).
Nessuna soluzione però si prospettava per i fratelli; specie se viventi ad unum panem et unum
vinum, e continuanti, almeno presuntivamente, l'attività paterna, essi erano chiamati a rispondere
solidalmente con tutti i loro beni. Per ciò che riguarda infine i figli la legislazione statutaria subì
oscillazioni, li ritenne però chiamati a rispondere dei debiti paterni solo dopo il diciottesimo anno,
o addirittura dopo il venticinquesimo. In linea generale fu rispettato anche il privilegio dotale,
uniche eccezioni lo statuto dei mercanti di Cremona del 1388(53) e quello di Genova del XV secolo
(54)
che anche le doti assoggettarono al regime fallimentare. In questi casi operava, fungeva da
motivazione della norma, il sospetto della frode, il sospetto, o la presunzione, che arrecava i più
gravi pregiudizi ai terzi, con l'istituto della revocatoria fallimentare(55). In una prima fase i beni
alienati, donati, distratti in qualsiasi modo dal fallito, vennero direttamente avocati alla massa
patrimoniale, lasciando, con limitazioni, agli aventi causa la possibilità di provare che il loro
acquisto non era stato fraudolento; si era così invertito l'onere della prova. Il periodo sospetto
oscilla nelle singole legislazioni e per i diversi atti: l'id quod plerumque accidit, anche per lo
Stracca, era che i fallendi solessero apportare scientemente disordine nei loro affari onde rendere
più difficile il perseguimento dei debiti e crediti, deriva anche da ciò la determinazione dei vari
tempi, per il banchiere di solito due o pochi giorni, per le vendite di immobili da tre a sei mesi, nei
quali il debitore era da considerarsi già in stato di preparativo di fallimento. Alla base c'era sempre
il concetto della frode, la dottrina giungerà anche con un'assimilazione un po' esagerata a dire
decoctor ergo fraudator, anche se negli statuti la chiamata in revocatoria degli acquirenti dei beni
del fallito, acquista spesso il sapore di una chiamata a titolo di responsabilità obbiettiva, che
prescinda da un comportamento effettivamente lesivo di interessi altrui o dell'interesse pubblico.

(48) Cfr. SANTARELLI, op. cit., 167 ss.

(49) Statuti del Capitano del popolo, cit., II, 39.

(50) La responsabilità era generale nei Capitula, cit., fu attenuata nel modo che indichiamo nel
testo, dal chiarimento, cit. (entrambe le fonti in Statuta varia, cit.).

(51) Cfr. STRACCA, op. cit., VII, III, n. 11.

(52) Sull'argomento cfr. SAPORI, Arti e compagnie mercantili toscane del Due e del Trecento e il
principio della pubblicità per registrazione, in Giornale degli Economisti, n. s., V, 1946, 645-667,
e in Studi, cit., 809-837.

(53) Statuta universitatis mercatorum Cremonae a cura di C. SABBIONETA ALMANSI,


Cremona, 1962, Rca 110.
(54) Volumen magnum capitulorum civitatis Ianue A. MCCCCIII-MCCCCVII tempore domini
Iohannis Lemeingre dicti Buciquaut..., Augustae Taurinorum, 1901, 657 ss.

(55) Sull'argomento cfr. PIANO MORTARI, L'azione revocatoria nella giurisprudenza medievale
, Milano, 1962.

5. La procedura di concorso fra i creditori.

La procedura fallimentare risulta prevalentemente affidata, per i motivi che si son detti all'inizio,
alle magistrature mercantili. Si stacca dal quadro Venezia, ove dal 1244 le cause fallimentari
rientrarono nella competenza dei Giudici di Petizioni e, successivamente, dal 1301 in quella dei
Sopraconsoli; il distacco è in questo caso più formale che reale, la comunità dei creditori infatti
anche a Venezia provvedeva a nominare propri rappresentanti la cui azione tendeva sempre ad
esautorare la magistratura ordinaria.

Anche a Firenze la competenza fallimentare spettava alla magistratura ordinaria, ma le norme che
a tale risultato paiono condurre non sembra abbiano significato univoco. Si deve infatti osservare
che più volte, il caso è abbastanza frequente, le norme statutarie specie quelle più antiche quando
sembrano radicare una competenza nella magistratura ordinaria radicano solo la competenza a
quegli atti, esecutivi, con i quali si attua una delibera precedentemente assunta da altri. In altri
termini nella maggioranza dei casi gli organi comunali sono dallo statuto impegnati a dare
esecuzione alle sentenze delle magistrature mercantili, talvolta lo dicono espressamente come nei
casi già citati, talvolta danno per implicita la soluzione, e si limitano a dire che il rettore o il
podestà provvederà alla vendita dei beni del decotto, tacendo sulla procedura necessaria a che un
imprenditore sia de iure considerato decotto e a che i suoi beni siano venduti.

Le formalità della vendita furono precisate dalla dottrina, in particolare da Baldo, che si limitò
però ad elencare i requisiti di carattere romanistico, soggiungendo che molti altri requisiti erano
posti dagli statuti ed omettendo di trattarne, appunto per l'estrema varietà di essi. In linea di
massima l'ordo fallimentare si apriva con l'invito a comparire dinanzi al magistrato, invito a
comparire e a dare fideiussori che non comportava rischi per l'attore, che poteva esser fatto quindi
con piena libertà. Nel termine di alcuni giorni il convenuto, il fallendo, doveva presentarsi e dare
cauzione.

Se non si presentava era posto al bando, ed era disposta l'immissione temporanea dei creditori nel
possesso dei beni, se si presentava e dava cauzione poteva andarsene libero, se invece non poteva
o non voleva dar garanzie poteva, in taluni luoghi doveva, esser trattenuto in carcere sinché non
avesse raggiunto un accordo con i creditori o con l'attore. La fretta, i termini abbreviati sono
naturalmente riservati alla prima parte della procedura, alla citazione in giudizio; dopo
l'immissione nel possesso dei beni veniva meno ogni urgenza, e la situazione pur se non ideale
poteva restare immutata per termini anche più lunghi (sino ad un anno). Nel frattempo i creditori
potevano chiedere al giudice che facesse un bando, atto dovuto per il magistrato, col quale si
invitassero tutti coloro che detenevano cose del fallito a consegnarle. Il bando serviva anche a
render noto a tutti i creditori l'inizio della procedura fallimentare. Scaduto il termine, se non si era
raggiunto un accordo fra il fallito ed i creditori aveva luogo la vendita all'incanto dei beni, ferma
restando la prelazione al creditore. Se anche la vendita non aveva effetto i beni erano direttamente
aggiudicati al creditore e la procedura almeno per gli aspetti patrimoniali si considerava chiusa.

6. Aspetti penali del fallimento.


La stretta connessione tra fallimento come insolvenza che danneggia i creditori e fallimento come
causa di irrogazione di pene, ha indotto la dottrina a ravvisare nel fallimento medioevale un
istituto a carattere eminentemente penalistico. Che per gli organi pubblici vengano in
considerazione soprattutto gli aspetti che hanno riferimento con l'ordine pubblico è fenomeno del
quale abbiamo già dato spiegazione, essa trova ulteriore conferma nelle fonti. A Firenze, come già
si è visto, i fuggitivi sono parificati ai ladri, e la stessa assimilazione si trova in un motu proprio di
Pio V del 1570. A Milano la situazione dei fuggitivi è ancora peggiore, nel Decretum di Galeazzo
Maria Sforza sono dichiarati rebelles, e solo l'intervento dei mercanti milanesi poté attenuare, ma
non di molto, i rigori sforzeschi. I mercanti avevano fondate ragioni di temere, i beni dei rebelles
erano soggetti alla publicatio, e non si poteva sapere se prima o poi qualche troppo zelante giudice
non avrebbe avuto l'idea di chiudere rapidamente un fallimento incamerando tutti i beni del fallito
e facendo così venir meno le ragioni stesse del fallimento. Anche la dottrina come s'è visto aveva
stabilita l'equazione fra decoctor e fraudator, interpretando in questo senso l'edictum fraudatorium
. È solo con lo Stracca che ulteriori distinzioni si impongono, distinzioni alle quali stava
giungendo anche la legislazione, accettabili sostanzialmente anche per la dottrina più recente. Lo
Stracca distinse infatti tre categorie di insolventi, coloro che siano tali fortunae vitio, coloro che
siano tali suo vitio, coloro che siano tali partim suo partim fortunae vitio. Per i primi si doveva
attuare la cessio bonorum, essi non erano in nessun modo da considerarsi infami, era vietata la loro
persecuzione, la loro cattura, era vietato sottoporli a tortura. I casi che si fanno per definire il
fallito fortunae vitio chiariscono meglio la portata del principio, potrà invocar la fortuna chi sia
danneggiato da incursioni di nemici, da furia di venti che faccia affondare le sue navi, da eventi
cioè prevedibili sì ma improbabili che in nessun modo comportano un animus delinquendi. I
secondi, i bancarottieri, sono coloro che organizzano il proprio fallimento, disordinando le
scritture, contraendo crediti quando già sanno di essere in stato di insolvenza, svendendo le merci
che non hanno ancora pagate per realizzare denaro col quale fuggire. A costoro si applica la pena
del bando, l'espulsione cioè dalla società, che ha vero e proprio carattere di punizione pubblica,
essa non è revocabile neppure se il bandito provveda in un secondo tempo a soddisfare i suoi
creditori. La terza categoria doveva essere la più ricca di casi e di esempi, un po' di colpa e un po'
di fato c'è in tutti o quasi i fallimenti, ed è per questa categoria che già ai tempi dello Stracca si
profilava possibile, anzi desiderabile, l'ipotesi del concordato, dell'accordo fra il fallito ed i
creditori, e l'eventuale revoca del bando.

La legislazione italiana è stata quasi generalmente severa, di una severità che s'è andata via via
attenuando, in corrispondenza con la modificazione delle strutture commerciali; l'originaria
severità, che non escludeva talvolta neppure i familiari, trovava in fondo origine nella concezione
familiare dell'attività mercantile, nel tramandarsi di padre in figlio la stessa attività, sicché il fallito
oltre al recar danno ai suoi creditori appariva colui che spezzava una linea tradizionale, che faceva
venir meno una tradizione sulla quale, almeno in parte, aveva riposato il credito. Via via che
mutavano i tempi l'attività mercantile perdeva aspetti tradizionali, si oggettivava, faceva ricorso al
credito non tanto appoggiandosi ad una tradizione di correttezza quanto appoggiandosi al possesso
di beni, che cominciava ad esser documentato mediante i catasti. In tali circostanze, e mentre le
guerre, le pestilenze, le stesse conseguenze dei cambiamenti di politica economica attenuavano i
motivi della condanna morale dei falliti, perché l'esperienza mostrava che a tutti poteva capitare,
anche senza gravi colpe, di fallire, l'opinione pubblica fu portata a rivedere il proprio giudizio sul
fallimento, e la severità e l'asprezza delle pene fu mitigata. Il fallito era, e questo restava retaggio
dei tempi passati, afflitto da morte civile, la sua incapacità perdurava, ma è lecito nutrir dubbi sul
rigore col quale questo principio fu effettivamente applicato.

FONTI.

Sono citate nel testo e nelle note: una compiuta rassegna dei testi statutari si trova nelle opere del
Santarelli.
LETTERATURA.
ARCANGELIGli istituti del diritto commerciale nel Costituto senese del 1310, in Riv. dir. comm.,
IV, 1906, e in Scritti di diritto commerciale ed agrario, I, Padova, 1935, 161-244;
CASSANDROLe rappresaglie e il fallimento a Venezia nei secoli XIII-XVI con documenti inediti,
Torino, 1938;
LATTESIl fallimento nel diritto comune e nella legislazione finanziaria della Repubblica di
Venezia, Venezia, 1880;
ID.Il diritto commerciale nella legislazione statutaria delle città italiane, Milano, 1884;
PERTILEStoria del diritto italiano2, Torino, 1902, V, § 303: VI, 2, § 243;
PROVINCIALIManuale di diritto fallimentare4, Milano, 1962;
ROCCOIl fallimento. Teoria generale e origine storica, Milano, 1962;
SALVIOLIStoria della procedura civile e criminale, in Storia del diritto italiano a cura di DEL
GIUDICE, III, 2, Milano, 1925, 721 ss;
SANTARELLIPer la storia del fallimento nelle legislazioni italiane dell'età intermedia, Padova,
1964;
FOSCHINIRecensione a SANTARELLI, in Riv. dir. comm., 1966, 328 ss.

NOTE

(1) Benvenuto STRACCA, De mercatore seu mercatura, in Tractatus Universalis Iuris, VI, 1,
Venetiis, 1584, Qui potiores... n. 17.

(2) Statuti del Capitano del popolo degli anni 1322-25 (in Statuti della Repubblica Fiorentina a
cura di CAGGESE, I, Firenze, 1910, II, 25).

(3) La formula della scriptura libri non è isolata: cfr. la Rca 45 degli Statuti di Lucca del 1308 (
Statuto del comune di Lucca dell'anno MCCCVIII... a cura di L. DEL PRETE e S. BONGI, Lucca,
1867) «Et suprascripta debita possint probari per publicum instrumentum vel per scripturam libri
ipsius talis debitoris a creditore obstenta vel teste idoneos et bone fame...». Ciò che viene in
considerazione in questi casi è la circostanza che il campsor non rilascia per solito ricevuta delle
somme di denaro a lui versate, limitandosi a prenderne appunto sui suoi libri, probabilmente alla
presenza di testimoni oltre che della parte versante.

(4) Sui libri contabili v. SAPORI, Saggio sulle fonti della storia economica medievale (in Studi di
storia economica3, Firenze, 1953, 5-24, specialmente 10-16). Del problema si è ampiamente
occupata anche la dottrina medioevale: la più completa analisi si trova, per quanto noi sappiamo,
nel Tractatus super instrumentis di Niccolò MATTARELLI conservato nel Manoscritto Vaticano
lateranense 5773 del quale ci siamo occupati altrove. Per dottrina più recente cfr. STRACCA, op.
cit., Quomodo procedendum... n. 20-21, ove anche ricca bibliografia, e MENOCHIO, De
arbitrariis iudicum quaestionibus et causis, II, Venetiis, 1624, 91. In questa materia però le fonti
concordemente ricordano che per privilegio speciale gli ebrei erano di solito ammessi a presentare
i propri libri anche a proprio favore, e molti statuti di corporazioni mercantili avevano disposto che
piena fede si desse ai libri mercantili anche a favore di chi li aveva redatti.

(5) Il testo romano più frequentemente usato, pro e contro, dalla dottrina medioevale è quello di
Labeone, in D. 2, 13, 6, 3. Sulla posizione degli argentarii cfr. ASTUTI, Compensazione
(Premessa storica), in questa Enciclopedia, VIII, 1 ss.

(6) Statuti del Capitano del popolo, cit., Rca 50.


(7) Sul punto cfr. PADOA SCHIOPPA, Giurisdizione e statuti delle arti nella dottrina del diritto
comune, in SDHI, 1964, 179-234.

(8) Statuti del Capitano del popolo, cit., Rca 5.

(9) Statuti del Capitano del popolo, cit.; Rca 54.

(10) I Capitula de mercatoribus fugitivis, di Giovanni e Luchino Visconti, sono editi in appendice
agli Statuta Mercatorum Placentiae ai quali, per ordine dei Visconti stessi, dovevano essere
annessi, in Statuta varia civitatis Placentiae, Parmae, 1860, 199-210. La legislazione lombarda in
materia fu successivamente completata col Decretum contra fugitivos et fidem fallentes di
Galeazzo Maria Sforza del 1473, edito in appendice a quasi tutte le edizioni statutarie lombarde
(testo migliore nell'edizione degli Statuta milanesi [Mediolani, Suardi, 1480], ove sono anche i
temperamenti che il Duca apportò all'originaria severità su richiesta dei mercanti milanesi). Su
questa legislazione e problemi connessi cfr. GUALAZZINI, La Mercadandia nella vita cremonese
, in Inventario dell'archivio storico camerale (Camera di commercio industria ed agricoltura di
Cremona), Milano, 1955, LXXV ss.

(11) Il chiarimento, che è del 1350, è riportato, come i Capitula cui si riferisce, in Statuta varia,
cit., 210-212.

(12) PERTILE, Storia del diritto italiano2, VI, 2, Torino, 1902, 393.

(13) ARCANGELI, Gli istituti del diritto commerciale nel Costituto senese del 1310, in Riv. dir.
comm., IV, 1906, ora in Scritti di diritto commerciale ed agrario, I, Padova, 1935, 161-244
(l'affermazione citata nel testo a p. 233).

(14) PROVINCIALI, Manuale di diritto fallimentare2, Milano, 1951, 55.

(15) Che si tratti dei due statuti più antichi, intendendo l'antichità nel senso che sono i primi nei
quali possa sicuramente ravvisarsi l'istituto, è affermazione, che condividiamo, del
SANTARELLI, Per la storia del fallimento nelle legislazioni italiane dell'età intermedia, Padova,
1964, 39 ss.

(16) Il Constituto del Comune di Siena del 1276 pubblicato sotto gli auspici della facoltà giuridica
di Siena da L. ZDEKAUER, Milano, 1897; Liber iuris civilis urbis Veronae, Veronae, 1728.

(17) Constituto, cit., I, 473.

(18) Constituto, cit., I, 484.

(19) Constituto, cit., I, 525.


(20) Constituto, cit., I, 472.

(21) Liber iuris civilis, cit., XXIV.

(22) Gli statuti Veronesi del 1276 a cura di G. SANDRI, I, Venezia, 1940, II, 62.

(23) CASSANDRO, Le rappresaglie e il fallimento a Venezia nei secoli XIII-XVI con documenti
inediti, Torino, 1938.

(24) Cfr. per esempio, STRACCA, op. cit., Quomodo procedendum..., n. 12.

(25) È sempre presente, viene citato forse con qualche forzatura, il frammento di Gaio in D. 4, 3, 6
(Is enim nullam videtur actionem habere cui propter inopiam adversarii inanis actio est).

(26) Se ne veda un esempio in Il protocollo notarile di Coluccio Salutati (1372-1373) a cura di A.


PETRUCCI, Milano, 1963, 187 ss. (1375 ag. 5).

(27) CASSANDRO, op. cit., 93 ss.

(28) Non a caso lo Statuto del Capitano del popolo di Firenze, cit., II, 48, qualifica di fures i
fuggitivi. Stessa assimilazione in una Bolla di Pio V del 1570.

(29) Cfr. per esempio il Decretum di Galeazzo Maria Sforza, lc. cit., al quale i mercanti milanesi
fecero apportare ben cinque temperamenti.

(30) Sulla trasformazione del concetto di fuga cfr. SANTARELLI, op. cit., 48 s.

(31) Bartolomeo SOCINO, Consilia, IV, Lugduni, 1551, 93.

(32) Singularia Antonii Corseti, in Singularia praeclarissima plurimorum insigniorum doctorum,


Venetiis, 1557, expensa, III.

(33) Ad l. Mulier C de sponsalibus.

(34) Ad l. Fulcinius § Cum hoc ff quibus ex causis in possessionem eatur.

(35) Il fallimento del socio è fra le cause espressamente previste per la dissoluzione della società,
cfr. PETRUS DE UBALDIS, De duobus fratribus, in Tractatus Universalis Iuris, XI, Venetiis,
1584, 1 s. Lo ZANCHIO (De societate, I, V, Romae, 1786, 37), lo segue, pone però il caso del
socio che anziché apportare alla società capitali apporti ad essa opere, e lo risolve negativamente
perché ormai ha perso la buona fama, e sarebbe dannoso alla società, non ostante motivi di
umanità facessero propendere per la soluzione opposta.

(36) ZANCHIO, op. cit., IV, XII, 130.

(37) STRACCA, op. cit., Qui potiores, n. 21.

(38) Capitula, cit., in Statuta varia, cit., 202.

(39) Chiarimento già citato, in Statuta varia, cit., 211.

(40) Cfr. la Quaestio notabilis an duo testes reprobent instrumentum del MATTARELLI,
conservata nel Manoscritto Vaticano lateranense 10726, che v. in BEVILACQUA, Una quaestio
di Niccolò Matarelli, in Collectanea Vaticana in honorem A. M. Card. Albareda, I, Roma, 1962,
131-157.

(41) STRACCA, op. cit., Iudices iidemque, n. 1.

(42) Ad l. Pupillus ff quae in fraudem.

(43) Ad Rca C de revocandis iis quae.

(44) Sulla massima, studiata prevalentemente per i suoi aspetti pubblicistici cfr. MARONGIU,
Q.o.t. Principe fondamental de la Démocratie et du Consentement au XIV siècle, in Album Helen
Maud Can (Studies presented to the International Commission for the History of representative
and parliamentary Institutiones), XXIV, Louvain, 1961, 103 s., ove anche ampia bibliografia. Sul
principio maggioritario cfr. RUFFINI A., Il principio maggioritario - Profilo storico, Torino,
1927.

(45) Cfr. SANTARELLI, op. cit., 237 s.

(46) Ad l. Pro debito C de bonis; cfr. anche PETRUS DE UBALDIS, op. cit., VIII, 32, e
STRACCA, op. cit., Qui potiores. Per analoga decisione statutaria cfr. Constituto di Siena, cit., II,
77.

(47) PETRUS DE UBALDIS, op. cit., n. 49 pone addirittura il quesito, che risolve negativamente,
dell'estensione del privilegio a coloro che abbiano dato denaro al fallito perché comprasse delle
merci che ancora esistano nel suo patrimonio al momento del fallimento.

(48) Cfr. SANTARELLI, op. cit., 167 ss.


(49) Statuti del Capitano del popolo, cit., II, 39.

(50) La responsabilità era generale nei Capitula, cit., fu attenuata nel modo che indichiamo nel
testo, dal chiarimento, cit. (entrambe le fonti in Statuta varia, cit.).

(51) Cfr. STRACCA, op. cit., VII, III, n. 11.

(52) Sull'argomento cfr. SAPORI, Arti e compagnie mercantili toscane del Due e del Trecento e il
principio della pubblicità per registrazione, in Giornale degli Economisti, n. s., V, 1946, 645-667,
e in Studi, cit., 809-837.

(53) Statuta universitatis mercatorum Cremonae a cura di C. SABBIONETA ALMANSI,


Cremona, 1962, Rca 110.

(54) Volumen magnum capitulorum civitatis Ianue A. MCCCCIII-MCCCCVII tempore domini


Iohannis Lemeingre dicti Buciquaut..., Augustae Taurinorum, 1901, 657 ss.

(55) Sull'argomento cfr. PIANO MORTARI, L'azione revocatoria nella giurisprudenza medievale
, Milano, 1962.

Utente: Univ. degli Studi di Bologna Univ. degli Studi di Bologna


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