Sei sulla pagina 1di 53

DIRITTO COMMERCIALE

27.09.2021 - Nell’ultimo ventennio la disciplina del diritto commerciale è stata oggetto di attenzione
specifica del legislatore perché è una disciplina che tocca interessi che vanno oltre i singoli rapporti inter-
privatistici, che vanno oltre le regole disciplinate dal diritto privato e civile. La riforma più grossa che ha
interessato la materia negli ultimi venti anni è quella promanata nei primi anni 2000 sul diritto delle società
di capitali e i suoi continui aggiornamenti. Un altro punto di interesse del legislatore è la crisi dell’impresa.
Tutto questo per capire che la disciplina del diritto commerciale è una disciplina viva che richiama
l’attenzione del legislatore perché si rende conto che il mondo/la vita richiede questo tipo di attenzioni: il
mondo imprenditoriale ma anche il mondo civile normale ha l’esigenza di avere una corretta
conformazione giuridica del mondo del diritto dell’impresa.

Cosa si intende parlando di “diritto commerciale”? Il diritto commerciale è quella parte del diritto privato
che si occupa di disciplinare l’organizzazione e l’attività di impresa.

L’attività di impresa è qualsiasi fenomeno produttivo che ha come obiettivo la creazione di nuova ricchezza
e che nasce dal coordinamento di diversi atti giuridici. Il diritto di impresa non si occupa dei singoli contratti
ma dell’organizzazione interna degli atti e degli effetti che questi atti possono avere verso l’esterno. Ne
consegue che la finalità del diritto commerciale non è il regolare la compravendita nell’ambito
imprenditoriale.

L’origine del diritto commerciale risale all’XI-XII sec. ed è determinata dalla necessità di rispondere alle
esigenze quotidiane della società: nell’ambito del territorio italiano nasce e prolifera l’attività del
commercio e comincia ad acquisire importanza economica e politica la figura dei mercanti. Questi ultimi
avevano un problema: le regole del diritto corrente dell’epoca e che si riferivano perlopiù al diritto romano
e canonico si mal adattavano alle loro esigenze imprenditoriali e commerciali (es. il diritto romano era
eccessivamente formale nella fase di conclusione del contratto; il diritto canonico proibiva di prestare
denaro). I mercanti dell’epoca dovevano superare i vincoli e decidono di riunirsi nelle corporazioni di arti e
mestieri; nel fare questo cominciano ad individuare degli usi dapprima non scritti, poi raccolti in vere e
propri statuti che rappresentano una forma primordiale di regole del diritto di impresa. A questi statuti si
vincolano tutti i mercanti che decidono di iscriversi ad una specifica corporazione di arti e mestieri. Da
questo punto di vista il diritto di impresa nella sua forma prima nasce come un diritto di classe che opera
specificatamente e solo nei confronti dei mercanti iscritti alle corporazioni ed ha una specifica autonomia
sotto 3 ambiti:

1. le fonti (gli usi);


2. l’ambito soggettivo su cui questo diritto trova applicazione;
3. l’ambito del potere giurisdizionale: le corporazioni hanno giudici propri (i consoli) che si occupano
di dirimere le controversie nate in seno alle regole relative agli statuti.

Progressivamente l’applicazione di questo diritto ha ampliato il proprio spettro, coinvolgendo anche


mercanti non facenti parte dell’ambito territoriale italiano o che non abbiano deciso di aderire a
corporazione alcuna. Si arriva così ad un altro periodo storico che rappresenta un momento fondamentale
dello sviluppo del diritto commerciale: il XVI sec.

Nel XVI sec. la dimensione dei traffici commerciali supera i confini europei, pertanto la gestione delle
politiche commerciali passa da un livello di classe ad un livello nazionale. In particolare, questo processo ha
coinvolto in primo luogo i Paesi del nord Europa. Iniziano a svilupparsi delle regolamentazioni più ampie e vi
è una conseguente statalizzazione del diritto di impresa che, per l’appunto, assume rilevanza a livello
statale/nazionale (nascono gli Stati nazionali). Per meglio far fronte alle mutate esigenze anche economiche

1
nascono in questo periodo le prime forme di società di capitali (es. compagnie delle Indie), dove è possibile
partecipare all’impresa commerciale anche a soggetti che finanziano l’attività commerciale senza prendervi
parte fisicamente. La partecipazione commerciale viene standardizzata e formalizzata in forme primordiali
di azioni, quote di partecipazione.

Un ulteriore passaggio dell’evoluzione storia del diritto commerciale ci porta all’XVIII-XIX sec., periodo in cui
si ha una vera e propria codificazione delle regole di impresa. È, questo, il periodo della prima rivoluzione
industriale e della rivoluzione francese: la prima sposta gli obiettivi del diritto commerciale, la seconda
consente di fare un passo in avanti ideologico perché porta con sé dei principi che scardinano le regole
dell’epoca ed in particolare il principio della libertà, che trova applicazione nel diritto di impresa e
commerciale come necessità di regolamentare la libertà d’iniziativa economica (il diritto di impresa non
riguarda più attività riservate ad una classe specifica ma trova applicazione a tutti i soggetti che hanno
intenzione di affacciarsi a questo mondo). Tutto questo porta alla necessità di regolamentazioni più
puntuali: nascono i codici (codice di commercio napoleonico del 1807).

Inoltre, ci si sgancia dalla logica soggettiva del diritto di impresa per passare ad una logica oggettiva.

Anche in Italia prende avvio la fase della codificazione che trae spunto dal codice di commercio
napoleonico: nel 1865 viene promulgato il primo codice del commercio italiano, poi sostituito da un altro
codice del 1882. Fondamentale è stato però il passaggio del 1942 con la promulgazione del c.c. che unifica
in un unico testo sia alle regole del diritto privato e civile sia le regole del diritto commerciale (negli altri
Paesi il diritto commerciale ha una disciplina a sé stante, in Italia vi è una compenetrazione sistematica tra
diritto commerciale e diritto privato/civile). Si ha così una commercializzazione del diritto provato e civile, in
cui alcuni istituti del diritto commerciale vengono innestati nell’ambito privatistico.

29.09.2021 – Il diritto commerciale è un diritto in continua evoluzione: da una dimensione soggettiva è


passato ad una fase intermedia in cui le imprese commerciali diventano di entità più elevata e gli Stati
nazionali si interessano a regolamentare la situazione, per poi approdare al periodo della Rivoluzione
francese e industriale dominata da una visione oggettiva del diritto commerciale che inizia ad avere ad
oggetto l’attività di impresa.

È una continua evoluzione per certi versi azzoppata, specialmente parlando della figura del lavoratore
agricolo e del lavoratore autonomo come figure distinte dall’attività imprenditoriale: sono attività che fino
al 42 avevano caratteristiche che garantivano l’estraneità rispetto al diritto di impresa, ad oggi hanno
caratteristiche che al contrario le farebbe rientrare in pieno nel diritto l’impresa. Tuttavia, non sono stati
fatti passi in questo senso, ossia queste due tipologie di attività sono rimaste ancorate ai vecchi principi del
codice del 1942. È comunque un aspetto in evoluzione, soprattutto su spinta europea: a livello europeo, ad
esempio, fattispecie relative alla concorrenza le attività autonome sono equiparate alle attività di impresa e
pertanto questa transizione in alcuni settori è già compiuta, mente in altri aspetti resta la distinzione.

Nell’ambito del diritto commerciale, inquadrandolo nelle leggi di riferimento, una prima ossatura di regole
relative a tutte le attività di impresa è data dalla disciplina del c.c. e dalle leggi speciali per la fattispecie
impresa generalmente considerata (es. concorrenza). A fianco di questa ossatura generale ci sono norme
settoriali che disciplinano ambiti specifici dell’attività di impresa, es. T.U. bancario; queste norme non
hanno applicazione generalizzata all’impresa nella sua interezza. Con gli anni hanno assunto rilevanza
anche fonti di rango inferiore, cioè regolamenti e normative secondarie emanati da istituti privati che per la
loro portata hanno un ambito di applicazione che riguarda la generalità. Da ultimo, la disciplina comunitaria
può intervenire attraverso regolamenti e direttive.

2
L’IMPRENDITORE
Già del 1942 il legislatore aveva individuato delle categorie di impresa per stabilire a quale tipologia
trovasse applicazione lo statuto dell’impresa commerciale e quali fossero invece categorie interne che per
le loro caratteristiche coinvolgevano interessi meno rilevanti rispetto all’impresa commerciale (es. piccola
impresa, impresa agricola).

NOZIONE GENERALE DI IMPRESA – è importante comprenderla perché è solo a questa fattispecie che si
applicano le norme relative all’ambito commerciale. Il punto di riferimento è l’art. 2082 c.c.: è imprenditore
chi esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio
di beni o di servizi. Dal tenore letterale della norma, questa sembra che si occupi di una dimensione
soggettiva dell’impresa, disciplinando la figura dell’imprenditore ma è solo un incipit in quanto poi vengono
definite in modo chiaro e puntuale le caratteristiche dell’attività svolta. L’attività di impresa per essere
considerata tale deve avere specifiche caratteristiche: attività produttiva, attività professionale, attività
economica, attività organizzata. La definizione di impresa appena data non è assoluta, non è l’unica
definizione contenuta nell’ordinamento ma ha un’applicazione relativa: la sua applicazione è delimitata dai
confini di altri ambiti giuridici che disciplinano l’impresa differentemente (es. diritto tributario ha una
specifica def di reddito di impresa che si differenzia dalla nozione dell’art. 2082 c.c.: art. 55 del TUIL,
produce reddito di impresa qualsiasi attività svolta professionalmente relativa alle attività disciplinate
dall’art. 2055 -> non ha rilevanza la caratteristica dell’organizzazione). L’art. 2082 definisce un
comportamento, l’azione di attività di impresa. Spesso nel gergo quotidiano l’attività di impresa viene
definita anche azienda ma dal punto di vista giuridico sono concetti diversi. Nozione di azienda, art. 2555: è
azienda il complesso di beni organizzato dall’imprenditore per lo svolgimento dell’attività di impresa
(azienda = mezzi attraverso i quali l’imprenditore svolge l’azione). Allo stesso tempo, sono differenziate
anche i concetti di società ed impresa: la prima è una tipologia di impresa, è l’impresa collettiva.

L’imprenditore è chi svolge l’attività imprenditoriale.

L’impresa è una attività -> Il diritto commerciale si affianca al diritto privato e non regola i singoli rapporti
interprivatistici cui si dà vita nell’esercizio dell’attività di impresa, ma interviene quando i singoli atti
giuridici sono collegati tra loro e organizzati dall’imprenditore per lo svolgimento dell’attività. Definizione di
attività: atti collegati, coordinati e organizzati da un soggetto (l’imprenditore) che hanno uno specifico fine
(art. 2082: scambio di beni e servizi). Non è attività imprenditoriale il singolo atto di compravendita ma lo è
nel momento in cui ci si attiva per reperire le risorse economiche, si assumono dipendenti e si acquista).
Attività qualificata come attività produttiva, produzione e scambio: attività che ha la finalità di creare
ricchezza al fine di soddisfare un bisogno, si parla di produzione quando si dà vita ad una nuova utilità.
Nell’ambito della produzione di servizi rientrano le obbligazioni di fare/non fare al fine di garantire il
soddisfacimento di un bisogno altrui.

La definizione di produzione consente di scremare tra cosa non è attività imprenditoriale per certo: non lo è
il mero godimento di un determinato bene (ambito nel quale rientrano anche attività, cioè atti collegati, che
non hanno come finalità ultima la produzione ma la finalità è essenzialmente l’attuazione di un diritto
soggettivo. Es. dare semplicemente in locazione un immobile). Non sempre è agevole distinguere mero
godimento e attività di impresa perché a volte si dovrebbe indagare la finalità ideologica del soggetto che
ha posto in essere l’attività. Attività di confine: locazione di 2 stanze di un appartamento a scopo turistico e
temporaneo: per parlare di produzione di servizio sono necessari ulteriori elementi che portano nell’ambito
dell’attività alberghiera (es. colazione, pulizie). Se ci sono servizi ulteriori collaterali rispetto l’esercizio di un
diritto soggettivo allora si rientra nell’attività imprenditoriale, altrimenti si parla di attività di mero

3
godimento; inoltre, se c’è la predisposizione di una struttura organizzativa collaterale alla mera gestione dei
beni che consente di qualificare l’attività organizzata nei limiti dell’art. 2082 c.c.

Caratteristiche per qualificare l’attività imprenditoriale


1) ECONOMICITÀ

Caratteristica che concerne il metodo attraverso il quale deve svolgersi l’attività di produzione.

La dottrina è passata dalla definizione di un metodo economico lucrativo a identificare in senso stretto il
metodo economico necessario per individuare un’attività di impresa.

Il metodo lucrativo richiedeva che l’imprenditore nel momento in cui disegnava la sua attività di impresa la
inquadrava in modo da indentificare dei ricavi che consentissero sia di coprire i costi sia di ottenere una
marginalità, un utile dall’attività imprenditoriale. Restando in questo ambito, erano escluse dalla
definizione di impresa con metodo economico le attività imprenditoriali caratterizzate da un metodo
economico in senso stretto.

Metodo economico in senso stretto: l’imprenditore stabilisce un prezzo capace di garantire almeno la
copertura dei costi, per rientrare dell’investimento fatto.

Il passaggio da una definizione all’altra di metodo economico perché ci si è accorti che anche le attività
imprenditoriali caratterizzate da metodo economico in senso stretto sono attività in cui entrano in gioco
interessi esterni a quelli dell’imprenditore che sono meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento: nel
momento in cui l’imprenditore avvia un’attività imprenditoriale il suo auspicio è quello di almeno coprire i
costi da lui sostenuti, tuttavia questa è una valutazione fatta ex ante ma possono esserci fattori sterni che
poi di fatto comportano che l’imprenditore non raggiunga questo obiettivo (rischio di impresa). L’essere
assoggettati al rischio di impresa non riguarda solo l’imprenditore ma anche i soggetti terzi che si
relazionano con l’attività imprenditoriale: es. fornitori.

Questa definizione di attività economica porta ad escludere dall’ambito dell’art. 2082 quelle attività di
produzione, organizzate e professionali ma per le quali l’imprenditore definisce dei prezzi di vendita che
non consentono di coprire i costi da lui sostenuti o non definisce alcun prezzo (attività meramente
erogative, non commerciali). Piccola distinzione: non sono imprenditoriali ma meramente erogative le
attività gratuite, senza prezzo di vendita (dipendono solo da economie esterne e si basano sul volontariato);
possono esserci situazioni borderline: ci sono attività che definiscono i prezzi di erogazione del servizio
stabilendo prezzi inferiori rispetto al necessario per la copertura dei costi ma perché hanno la garanzie di un
ente esterno che coprirà i costi di investimento (attività in perdita programmata) si ritiene siano attività
rientranti nell’ambito dell’imprenditorialità. In questo caso il concetto di economicità non viene inteso
come copertura di ricavi e costi in senso economico ma in senso finanziario.

2) PROFESSIONALITÀ

Caratteristica che riguarda la frequenza con cui deve svolgersi l’attività di produzione o scambio.

Non è attività professionale quella dei liberi professionisti. È una attività professionale quella che si
caratterizza per la frequenza del suo svolgimento, sono attività non occasionali (deve esserci continuità
temporale). Tuttavia, il concetto di professionalità può comportare anche interruzioni temporali nello
svolgimento dell’attività purchè poi riprenda con una certa identificazione temporale costante (es. attività
stagionali). L’elemento della stagionalità consente di capire quando il requisito della professionalità è
soddisfatto anche se vi è interruzione dell’attività che non può essere frutto di una scelta soggettiva
dell’imprenditore. Professionalità non è sinonimo ne di continuità ne di esclusività, possono essere svolte

4
più attività professionali da un medesimo soggetto. Lo svolgimento dell’attività professionale in modo
continuativo non significa poi escludere la possibilità di raggiungere un singolo obiettivo, non è
incompatibile con l’unicità dell’affare.

04.10.2021

3) ORGANIZZAZIONE

Caratteristica relativa ai mezzi che devono essere utilizzati per lo svolgimento dell’attività imprenditoriale.

La definizione di organizzazione si collega alla definizione di azienda data dall’articolo 2555 c.c.: l’insieme
dei beni organizzati dall’imprenditori per lo svolgimento dell’attività di impresa. I mezzi dell’imprenditore
usati nell’attività si identificano in due categorie:

 la forza lavoro: vi rientrano tutte le fattispecie organizzative dell’imprenditore relative all’attività di


altri soggetti (es. rapporti di lavoro autonomo, contratti di appalto);
 l’impiego di capitale: vi rientra l’impiego di beni materiali, immateriali, fungibili, infungibili (es.
materie prime, software, brevetti, marchi) ed anche l’impiego del denaro che o l’imprenditore
stesso mette di propria tasca per l’avvio dell’attività di impresa o che decide di reperire attraverso
istituti di finanziamento.

Non necessariamente devono sussistere entrambi questi fattori affinchè si parli di attività imprenditoriale.

Quello che sicuramente è fondamentale affinchè vi sia l’aspetto organizzativo di cui all’art. 2082 c.c. è che
l’imprenditore organizzi fattori produttivi esterni, questo lo si ricava sia dalla definizione di impresa sia dalla
definizione di azienda data pocanzi. Con questo si intende che l’imprenditore nello svolgere l’attività non
deve impiegare solo ed esclusivamente il suo fattore produttivo. Il requisito dell’organizzazione richiesto dal
c.c. (art. 2082 agganciato all’art. 2555) fa capire che quella che è richiesta all’imprenditore è un’attività di
eteroganizzazione (non attività di autorganizzazione dell’imprenditore): devono esserci anche o solo altri
fattori produttivi, è richiesto cioè all’imprenditore anche o solo un’attività di organizzazione dei fattori
produttivi senza che sia lui stesso a svolgere materialmente l’attività imprenditoriale.

Il concetto di eteroganizzazione e di autorganizzazione consente di differenziare l’attività di impresa


dall’attività di lavoro autonomo (art. 2222 c.c. – svolge un’attività di lavoro autonomo chi si obbliga a
compiere una prestazione di servizi in cambio di un corrispettivo con lavoro prevalentemente proprio e
senza vincolo di subordinazione con il committente).

Lavoro autonomo: autorganizzazione -> il lavoro del lavoratore è essenziale, nell’art. 2222 c.c. c’è un
concetto di prevalenza del lavoro “proprio”.

Attività imprenditoriale -> organizzazione di fattori produttivi esterni.

Ogni volta in cui il lavoro autonomo, oltre alla propria attività, impiega fattori produttivi non essenziali o
minimali per la propria attività o diversi da quelli che vengono impiegati nella normalità delle attività si
sfora dall’ambito del lavoro autonomo entrando nell’ambito imprenditoriale.

3 problematiche:

1. si può parlare di attività imprenditoriale in caso di impresa per conto proprio?


Impresa per conto proprio = attività che non ha come finalità ultima lo sbocco nel mercato della
prestazione di servizio o della produzione di beni, è la destinazione a se stessi del risultato
dell’attività imprenditoriale (es. soggetto che costruisce una palazzina al termine della costruzione
della quale la stessa non viene venduta ma viene intestata al soggetto). Di per sé l’art. 2082 c.c. non

5
necessariamente richiede che l’attività imprenditoriale abbia la finalità della destinazione sul
mercato del risultato dell’attività. Nell’esempio di cui sopra c’è organizzazione sia intesa come forza
lavoro che impiego di capitale, c’è anche professionalità perché non è attività occasionale, è
un’attività produttiva perché si produce qualcosa di nuovo ed anche attività perché ci sono atti
concatenati. Per ciò che riguarda il concetto di economicità, secondo l’interpretazione dottrinale e
giurisprudenziale richiede che si verifichi che ci siano interessi di terzi che necessitano tutela:
economicità come risparmio di costi (es. lo stesso palazzo comprato sul mercato avrebbe
comportato una maggior spesa) -> in questo modo si riesce a far rientrare l’impresa per conto
proprio nell’ambito dell’attività di impresa di cui all’art. 2082 c.c.
2. possono esserci limitazioni all’ambito di operatività del diritto commerciale anche quando l’attività
svolta ha le caratteristiche per essere considerata attività imprenditoriale (problema delle attività
illecite)?
Le imprese illecite possono essere:
 imprese illegali: vengono avviate senza il necessario rispetto dell’iter burocratico e
amministrativo richiesto dalla normativa per lo svolgimento di quella determinata attività.
Anche qui il ragionamento per riconoscere a queste attività il carattere imprenditoriale
muove dalla necessità di tutelare i terzi coinvolti nell’attività, laddove vi siano i requisiti di
cui all’art. 2082 c.c.: se così non fosse si approderebbe a qualcosa di paradossale, perché si
consentirebbe all’imprenditore di decidere se sottoporsi o meno al diritto commerciale;
 imprese immorali: hanno come oggetto dell’attività imprenditoriale attività illecite, illegali.
Es. traffico di droga, prostituzione, ricettazione.
La finalità che si è posta a fini interpretativi la giurisprudenza e la dottrina è quella di dare
tutela ai terzi che interagiscono con l’attività quando questa sia in possesso dei requisiti di
cui all’art. 2082: in questo caso anche le imprese immorali rientrano nell’ambito di
applicazione del diritto di impresa ma con un limite, nel senso che nell’ordinamento
italiano esiste un principio immanente non scritto per cui nessuno può trarre vantaggio dal
compimento di un reato o di un fatto illecito. L’applicazione di questo principio porta a dire
che alle imprese immorali trovano applicazione le norme del diritto commerciale che
tutelano i terzi e rappresentano una penalizzazione per l’imprenditore, mentre non trovano
applicazione le norme a vantaggio di quest’ultimo (es. le norme legate alla protezione del
diritto d’autore o sulla concorrenza).

CATEGORIE DI ATTIVITÀ IMPRENDITORIALE


A seconda della tipologia imprenditoriale, il legislatore fin dal ’42 ha costruito un insieme di norme ad
applicazione differenziata, laddove ritenesse una certa attività meritevole di particolare attenzione a
scapito di attività ritenute “più semplici”. Nella logica del legislatore del ’42, erano state individuate
essenzialmente tre categorie di attività imprenditoriale:

1. impresa agricola;
2. piccola impresa;
3. impresa commerciale.

L’impresa agricola e la piccola impresa erano soggette ad un gruppo di vincoli o regole più limitato rispetto
all’impresa commerciale.

Quando venne scritto il codice del ’42 era ancora in vigore un sistema normativo esterno al codice
(ordinamento corporativo) che disciplinava nel dettaglio lo svolgimento di determinate attività. Il legislatore

6
del ’42 aveva allora dettato regole generali per lo svolgimento delle attività, demandando le specificità alle
disposizioni dell’ordinamento corporativo. Nel ‘43/’44 l’ordinamento corporativo viene però abrogato e
all’interno del c.c. restano regole che sono solo linee generali per lo svolgimento delle attività di impresa
perchè vengono meno le regole particolareggiate. Per questo motivo, oggi si dice ancora che il codice
contiene una disciplina frastagliata, nonostante in realtà sia stato integrato da fonti esterne.

L’ossatura principale del diritto di impresa è data dagli artt. 2082 a 2221 c.c.: impresa in generale, categorie
di impresa e statuto dell’imprenditore; art. 2555 definizione di azienda (…).

Lo statuto dell’imprenditore in generale trova applicazione per tutte le tipologie di impresa e riguarda,
nozione di impresa a parte, di:

 azienda;
 segni distintivi;
 concorrenza sleale;
 contratti di collaborazione (consorzi).

C’è poi un insieme di regole più specifico definito “statuto dell’imprenditore commerciale non piccolo”,
contenuto negli artt. dal 2188 al 2221 c.c., che trova applicazione solo all’attività imprenditoriale
commerciale non piccola. Sono regole che hanno il fine specifico della tutela degli interessi dei terzi che
interagiscono con l’esercizio dell’attività commerciale non piccola e si occupano di:

 obbligo di tenuta delle scritture contabili come definite nell’art. 2214 c.c., una contabilità analitica
dell’attività imprenditoriale che permette di risalire ad eventuali problematiche hanno determinato
un eventuale stato di dissesto dell’attività imprenditoriale;
 iscrizione nel registro delle imprese dove si dà pubblicità dell’attività imprenditoriale;
 assoggettamento a procedure concorsuali (è soggetto al procedimento di liquidazione giudiziale
solo l’imprenditore commerciale non piccolo);
 disciplina della rappresentanza commerciale.

L’attività dell’imprenditore non piccolo richiede un ingente apporto di capitale e di terzi cosa che invece
non avveniva nelle altre due tipologie di attività.

A seconda delle dimensioni dell’attività imprenditoriale, si distingue:

1. l’imprenditore piccolo;
2. l’imprenditore non piccolo.

Infine, vi è una differenziazione ulteriore dell’attività di impresa che dipende dalla natura del soggetto che la
svolge. Distinguiamo:

1. imprenditore individuale;
2. imprenditore collettivo (le società).

L’imprenditore agricolo
Art. 2135 c.c. -> ha una struttura in 3 commi di cui gli ultimi due sono stati aggiunti con una riforma del
2001 (d. lgs. 228/2001) che ha avuto come finalità quella di portare la disciplina codicistica al passo con la
modernizzazione dello svolgimento dell’attività agricola. Fino al 2001, intervento di modernizzazione
giuridica, l’art. 2135 aveva un unico comma.

Co. 1: è imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: la coltivazione del fondo, la
selvicoltura, l’allevamento di animali e attività connesse.

7
Questa definizione fa comprendere perché il legislatore dell’epoca (del 1942) teneva l’attività agricola
distinta dall’attività commerciale: all’epoca queste attività venivano svolte mediante l’impiego di un unico
fattore produttivo, cioè il terreno o fondo, che la maggioranza delle volte era già di proprietà
dell’imprenditore. Siamo di fronte ad una attività che non richiedeva un ingente apporto di capitale di terzi
o di forza lavoro da parte di terzi. Anche nel caso in cui l’imprenditore avesse avuto necessità di reperire
capitale di terzi, erano utilizzabili gli istituti del diritto civile per reperire fondi da parte, ad esempio, delle
banche in quanto già proprietario del terreno (es. ipoteca): non c’era necessità di un più specifico corpus
normativo. Il fattore produttivo essenziale per lo svolgimento dell’attività agricola era lo sfruttamento del
fondo.

Co. 2 - definizione attività agricola essenziale: per coltivazione del fondo, selvicoltura e allevamento di
animali si intendono le attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria
del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le
acque dolci, salmastre o marine.

Il passaggio fatto nel 2001 è quello di considerare il fondo non più come elemento essenziale dello
svolgimento dell’attività agricola ma solo come fattore produttivo eventuale, ciò che diventa fondamentale
è lo sviluppo del ciclo biologico animale o vegetale. Si parla di attività che possono richiedere anche ingente
capitale di terzi e forza lavoro. Nonostante questa modernizzazione della definizione di impresa agricola, ad
oggi ancora non è stato fatto un passaggio ulteriore che porti ad applicare anche alle attività agricole della
disciplina dello statuto dell’imprenditore commerciale non piccolo. -> Scollamento tra realtà e disciplina
giuridica applicabile. Non c’è la volontà del legislatore di fare il passo decisivo, lo si evince dall’emanazione
del codice della crisi del 2019.

Co. 3 – definizione di attività connesse: si intendono comunque connesse alle attività agricole essenziali le
attività esercitate dal medesimo imprenditore agricolo (…).

Elementi essenziali per qualificare le attività agricole per connessione: la c.d. connessione soggettiva e la
connessione oggettiva con le attività agricole essenziali. La prima è data dal fatto che le attività connesse
devono essere svolte dal medesimo imprenditore agricolo che svolge le attività essenziali; la seconda è
invece data dal fatto che il materiale impiegato nell’attività connessa deve essere ottenuto
prevalentemente dallo svolgimento dell’attività agricola essenziale. Le attività agricole per connessione:
attività di manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione dei prodotti
ottenuti dall’attività agricola essenziale (sono attività che sarebbero di per sé attività commerciali, si parla di
processo produttivo che può anche avere i connotati di industrialità).

La connessione oggettiva si ha anche quando per svolgere l’attività per connessione viene utilizzato poco
materiale di derivazione del fondo e la prevalenza di cui al co. 3 deriva invece da fornitori esterni, il
concetto di prevalenza va analizzato non sotto il profilo economico (introiti dell’attività) ma va applicato al
fattore produttivo impiegato nello svolgimento dell’attività agricola essenziale.

Rientrano poi nell’ambito delle attività agricole anche quelle attività dirette alla fornitura di beni o servizi
mediante l’uso prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività
agricola essenziale. Es. attività di agriturismo.

Conclusione: ad oggi, alla luce dei co. 2 e 3 emerge come esistano attività agricole che possono richiedere
apporti di terzi in modo considerevole senza che però possano applicarsi le regole previste dallo statuto
dell’imprenditore commerciale medio-grande.

06.10.2021 - Piccolo imprenditore

8
Art.2083 c.c. – sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e
coloro che esercitano un’attività organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della
famiglia.

Ratio: si parla di una tipologia imprenditoriale che per le sue caratteristiche dovrebbe essere una categoria
che non richiede ingenti capitali/mezzi; dovrebbe richiedere un ricorso al capitale di rischio non così
ingente, sicchè gli interessi di terzi nella visione del legislatore non sono così rilevanti e pertanto il piccolo
imprenditore può essere esentato dalla disciplina dell’imprenditore medio-grande.

La disciplina sembra inizi con indice analitico di chi può essere piccolo imprenditore ma il fulcro della
definizione è nella seconda parte dell’articolo, le categorie di cui all’inizio restano così solo esemplificative
di categorie di impresa che possono essere piccola impresa. In realtà, potrebbero esserci altre tipologie di
attività diverse da quelle analiticamente indicate nell’incipit della norma ma che possiedono le
caratteristiche di cui nella seconda parte della stessa.

Caratteristica precipua: attività prevalentemente organizzata con lavoro proprio e dei componenti della
famiglia.

Analizzare il concetto di prevalenza dell’art. 2083 consente di tracciare i confini della piccola impresa sia
rispetto all’impresa medio-grande sia rispetto al lavoro autonomo (art. 2222 c.c.) -> 3 aree di analisi:
impresa medio-grande, piccola impresa, lavoro autonomo.

PICCOLA IMPRESA E IMPRESA MEDIO-GRANDE - Il concetto di prevalenza richiamato innanzitutto non va


analizzato da un punto di vista quantitativo ma qualitativo: cioè il lavoro proprio dell’imprenditore/famiglia
per qualificare la piccola impresa non deve essere prevalente in senso economico (no prevalenza in termini
di valorizzazione economica dell’impiego), l’attività richiesta all’imprenditore deve essere un’attività
fondamentale per lo svolgimento dell’impresa che l’imprenditore decide di avviare (il suo apporto deve
essere essenziale per dare avvio e svolgere l’attività di impresa, la quale, pertanto, non si svolgerebbe senza
l’apporto lavorativo dell’imprenditore/famiglia, è un apporto qualitativamente prevalente).

Altra caratteristica che contraddistingue la piccola impresa è che l’imprenditore/famiglia devono avere un
ruolo esecutivo nello svolgimento dell’attività di impresa.

Questi concetti permettono di distinguere la piccola impresa dall’impresa medio-grande perché:

 nell’impresa medio-grande l’imprenditore potrebbe non avere alcun ruolo esecutivo nello
svolgimento dell’attività (art. 2082 c.c. – requisito dell’organizzazione = eterorganizzazione, cioè
organizzazione dei mezzi che proviene anche da parte di terzi e potrebbe esserci un imprenditore
che non ha alcun ruolo operativo ma si limita all’organizzazione dell’apparato produttivo);
 nell’impresa medio-grande l’attività dell’imprenditore può essere totalmente surrogata o sostituita
dall’apparato organizzativo che è stato da lui strutturato.

Es. ditta di autotrasporti. L’imprenditore coincide con l’unico autista ed è proprietario dell’unico camion di
cui l’attività dispone: se venisse meno l’attività/la figura dell’imprenditore verrebbe meno l’attività. Se
invece l’imprenditore ha un dipendente e dispone di più mezzi oltre al proprio, allora l’attività non è può
prevalente ed essenziale perché anche in sua assenza l’attività imprenditoriale prosegue.

PICCOLA IMPRESA E LAVORO AUTONOMO – La differenza sta nel fatto che l’attività del piccolo
imprenditore è pur sempre attività di impresa che deve avere le caratteristiche di cui all’art. 2082 c.c., in
particolare l’organizzazione come eteroganizzazione. Nell’ambito della definizione di piccolo imprenditore
l’attività a lui richiesta deve essere essenziale ma non sufficiente: il suo ruolo è essenziale ma non è l’unico
fattore produttivo nello svolgimento dell’attività, ci sono anche fattori produttivi esterni e diversi. Il

9
concetto di prevalenza richiamato, invece, dall’art. 2222 c.c. si ferma alla autoorganizzazione del lavoratore
autonomo che svolge un’attività essenziale e sufficiente. Inoltre, nell’art. 2222 c.c. non viene richiamato il
ruolo dei componenti della famiglia dell’imprenditore.

Problema: la disciplina dell’art. 2083 c.c. è qualificabile solo all’impresa individuale o anche all’impresa
collettiva, cioè la società? L’interpretazione dottrinale è giunta alla conclusione che la definizione di piccola
impresa è applicabile anche alle società quando questa ha una ristretta base di soci e di fatto il concetto
della prevalenza trovi applicazione nel ruolo svolto dai soci nell’attività imprenditoriale svolta in forma di
ente collettivo.

La definizione di piccolo imprenditore delimita il campo di applicazione di una serie di norme: in particolare
il piccolo imprenditore non è assoggettato allo statuto dell’imprenditore commerciale non-piccolo (non è
tenuto a tenere le scritture contabili salvo la mancata qualifica della piccola impresa come ente collettivo
perché norme specifiche delle società che richiedono la tenuta delle scritture contabili secondo quanto
previsto dall’art. 2114 c.c., è esentato dal sistema della pubblicità dichiarativa, è obbligatoria ma ha effetti
di pubblicità e dal fallimento di cui ex art. 2221 c.c.).

Problema: nel momento in cui un giudice deve scegliere se far fallire o meno un’attività imprenditoriali con
conseguenze non marginali, i parametri qualitativi di cui ex art. 2083 sono paramentri con un certo margine
di interpretazione questo poneva importanti problematiche sotto il profilo delle procedure concorsuali. Con
il d. lgs. 5/2006 il legislatore ha modificato l’art. 1 (chi solo i soggetti fallibili) della legge fallimentare che
fino a quel momento si limitava a richiamare i concetti del 2221 e del 2083; sono stati individuati criteri
quantitativi molto specifici al verificarsi dei quali una certa attività imprenditoriale potesse essere
assoggettata a procedure concorsuali (parametri riportati dal combinato disposto degli artt. 121 e 2 del
codice sulla crisi di impresa).

I parametri quantitativi contenuti nella legge fallimentare così come riformata e dal codice sulla crisi
d’impresa: non è fallibile l’imprenditore che congiuntamente dimostri il possesso dei requisiti dimensionali:
non deve avere superato nel triennio precedente alla sentenza di fallimento un totale di ricavi lordi pari a
200.000, non deve avere al momento della sentenza di fallimento un ammontare di debiti anche non
scaduti superiore a 500.000.

Il fine della riforma era quello di semplificare la vita dei tribunali, individuando un criterio quantitativo ben
definito; tuttavia, nel fare questo il legislatore non ha abrogato l’art. 2221 c.c. Ciò comporta che la legge
fallimentare individua criteri quantitativi precisi al ricorrere dei quali un’impresa è qualificabile come
piccola e non assoggettabile a fallimento, mentre l’art. 2221 continua ad escludere dalle procedure
fallimentari l’imprenditore che sia nel possesso degli elementi di cui all’art. 2083 c.c. Quale criterio è
applicabile? La tesi dominante fino al codice sulla crisi d’impresa (inizio 2019, d. lgs. 14) stabiliva che la
definizione di picc impresa della legge fallimentare di fatto istitutiva una presunzione di piccolezza,
essenzialmente quando un soggetto rispettava tutti i requisiti dimensionali dell’art. 1 si presumeva che
detto soggetto fosse un piccolo imprenditore; per converso, ci doveva anche essere una presunzione di
grandezza per cui se l’imprenditore non ha i requisiti di cui all’art. 1 allora è un imprenditore medio-grande.
Il nocciolo riguarda però se queste presunzioni debbano essere assolute o relative: secondo
l’interpretazione dominante la presunzione di piccolezza si riteneva presunzione assoluta, cioè se
l’imprenditore rispettava i requisiti dimensionali di cui all’art. 1 era non fallibile senza possibilità di deroga;
la presunzione di grandezza invece era presunzione relativa, per cui l’imprenditore può dimostrare il
rispetto dei criteri qualitativi di cui all’art. 2083 e se riesce in questo può essere esentato dalle procedure
fallimentari anche laddove non ricorrano congiuntamente i requisiti quantitativi di cui all’art. 1, legge
fallimentare. Con l’emanazione della crisi di impresa quando entrerà in vigore questo espressamente

10
abroga l’art. 2221 c.c. -> verrà eliminato il doppio binario ad oggi esistente e resterà una norma unica che
identifica i requisiti necessari affinchè un’attività imprenditoriale è fallibile (art. 1).

I criteri dimensionali previsti dalla l. fallimentare tornano alla ribalta nel d. l. 118/2021 (deve ancora essere
convertito, non è detto che resterà!) perché in base ad una prima interpretazione questo decreto fa un
ulteriore passo nell’assimilare l’impresa agricola all’impresa commerciale medio-grande. Il d. l. opera una
distinzione che da rilevanza anche per l’impresa agricola dei criteri dimensionali, infatti l’art. 11 e 17 del d. l.
essenzialmente dicono che sono assoggettabili a fallimento e concordato preventivo le imprese agricole che
soddisfano i requisiti dimensionali di cui all’art. 1 della legge fallimentare, rimangono invece assoggettabili a
procedura fallimentare le imprese agricole che non superano i suddetti requisiti.

L’impresa artigiana
Nell’ambito della piccola impresa una specifica attività imprenditoriale è l’impresa artigiana, richiamata
dall’art. 2083 c.c. e oggetto di regolamentazione della l. 443/1985 (disposizione esterna al c.c., legge quadro
sull’artigianato). Si pone un problema perché anche nella legge quadro dell’’85 viene definita l’impresa
artigiana con una definizione non in linea con il concetto di prevalenza qualitativa dell’art. 2083 c.c.: il
legislatore inizialmente sembra darne una definizione concorde a quella del c.c. (parla di attività esecutiva e
di prevalenza della attività del piccolo imprenditore) ma poi l’art. 3 introduce un altro concetto di
prevalenza dicendo che è attività artigiana anche quella in cui è prevalente l’apporto di lavoro rispetto
all’apporto di capitali e mezzi (in questo caso non dice che tipo di apporto di lavoro, se deve essere
prevalente quello dell’imprenditore o di chi altro ma ne parla in generale). Non devono però essere
superati i limiti dimensionali previsti dall’art. 4 della legge quadro, che differenzia anche a seconda della
tipologia dell’attività imprenditoriale (produzione in serie/produzione non in serie). Es. l’impresa artigiana
in caso di produzione in serie non deve superare i 18 dipendenti.

Come agganciare le due definizioni? La soluzione del problema sta nel fatto che la legge del 1985 ha una
disposizione al suo interno che stabilisce che la definizione di impresa artigiana al suo interno non ha
effetto a tutti gli effetti di legge, cioè diventa rilevante sono in funzione dell’applicazione della legge quadro
sull’artigianato (ha confini ben delimitati), la quale essenzialmente garantisce agevolazioni all’impresa
qualificata come artigianale (l’agevolazione più importante è relativa all’applicazione di un privilegio in caso
di fallimento di un proprio cliente quando si giunge alla ripartizione degli attivi fallimentari, l’impresa
artigiana viene preferita rispetto ad altri creditori).

L’imprenditore commerciale
Definizione indiretta nell’art. 2195 c.c. che disciplina un obbligo cui è sottoposta una determinata tipologia
di impresa: l’iscrizione all’interno del registro delle imprese. Questo obbligo nella visione del legislatore del
42 era assegnato solo all’impresa commerciale e per tale ragione si desume da tale norma la definizione di
impresa commerciale.

È obbligato all’iscrizione nel registro delle imprese:

 chi esercita un’attività industriale diretta alla produzione di beni o servizi;


 un’attività di intermediazione nella circolazione dei beni;
 un’attività di trasporto;
 un’attività bancaria o assicurativa;
 altra attività ausiliaria alle precedenti.

Gli elementi caratterizzanti sono quelli di cui ai primi due punti dell’art. 2195 c.c., i seguenti sono solo
specificazioni ulteriori di attività in possesso degli elementi di cui ai punti precedenti.

11
Definizione in parte contenuta similmente anche nell’art. 2082, definizione generale di impresa; la
differenza sta nel requisito della industrialità nella produzione di beni o servizi, si deve verificare se l’attività
è industriale o attività di intermediazione nella produzione di beni.

Problema nell’individuare del criterio dell’industrialità: c’è chi ha ritenuto di ancorare il concetto di
industrialità a livello storico, è industriale se prevede un apparato industriale automatizzato, è invece
un’attività di intermediazione se c’è attività di commercio in senso economico (es. acquisto dei beni
all’ingrosso e seguente vendita all’ingrosso o al dettaglio). Tuttavia, ancorandosi a queste definizioni
classiche, ne risultano una serie di attività che avrebbero i requisiti dell’art. 2082 c.c. ma che sfuggono dal
campo di applicazione sia delle norme di impresa agricola che commerciale -> problema di come
disciplinare queste attività. C’è chi le ha inquadrate nell’area dell’impresa civile, individuando una terza
categoria di impresa sulla base della natura dell’attività. Ma come disciplinare l’impresa civile?

11.10.2021 – Impresa civile: es. attività artigianali in cui è comunque sempre richiesto un intervento
esecutivo dell’imprenditore nell’attività e si riteneva non vi fosse industrialità richiesta dall’art. 2195 c.c., le
attività di estrazione di materie prime senza che vi fosse poi un processo di trasformazione, agenzie
matrimoniali).

Chi sosteneva l’esistenza dell’impresa civile era più propenso a farla rientrare nel novero della disciplina
delle attività artigianali e del piccolo imprenditore, con conseguente esenzione da una serie di obblighi.

In realtà, l’evoluzione dottrinale si è prevalentemente focalizzata sugli effetti di una conclusione di questo
tipo analizzati in relazione alle caratteristiche che potrebbe assumere l’impresa civile, la quale, anche se
non industriale o di intermediazione, potrebbe assumere dimensioni di una certa rilevanza: da questo
punto di vista l’evoluzione dottrinale ha portato a dire che non ha senso che l’impresa civile venga esentata
dall’applicazione di regole che il legislatore ha stabilito a tutela dei terzi che interagisco o con l’attività
imprenditoriale. In più, si diceva che:

1. nel c.c. non esisteva alcuna definizione dell’impresa civile e dunque era solo frutto di una
interpretazione dottrinale;
2. non esistono ragioni storiche che potrebbero portare a dire che il legislatore volesse escludere
queste imprese dall’applicazione di una serie di regole;
3. Infine, possono comportare interazione con terzi e avere dimensioni tali da rendere necessarie le
tutele dell’imprenditore commerciale.

La conclusione a cui si è giunti è essenzialmente che non è possibile individuare una terza categoria di
impresa ma le uniche categorie di impresa che hanno applicazione giuridica sono quella agricola e
commerciale: questo fa modificare la definizione di commercialità ancorata alle caratteristiche storiche di
industrialità e intermediazione e porta a stabilire che è commerciale tutto ciò che non è agricolo.

 Nell’ordinamento esistono delle deroghe all’ambito del diritto commerciale come


individuato finora?
Per rispondere a questa domanda il focus è innanzitutto sulla natura giuridica che può assumere lo
svolgimento dell’attività imprenditoriale. Possiamo individuare due prime macro-aree che sono: natura
giuridica con riferimento a enti privatistici e natura giuridica con riferimento all’ambito del diritto pubblico.

La natura giuridica che può assumere l’attività imprenditoriale nell’ambito pubblico attiene a situazioni in
cui l’attività imprenditoriale commerciale viene svolta da soggetti che sono e enti pubblici. In questo caso
può esserci una ulteriore distinzione: l’attività commerciale può essere esclusiva o prevalente svolta

12
dall’ente pubblico oppure può essere attività secondaria per l’ente pubblico; a lato di questa distinzione ci
sono fattispecie in cui l’ente svolge attività commerciale in via indiretta attraverso strutture societaria ma
sottoposte all’ente pubblico (società con natura privata).

1) Ente pubblico che svolge l’attività commerciale come attività prevalente o esclusiva.

Si parlava in particolare di un ambito operativo degli enti pubblici in voga fino agli anni 90: l’ente cerca di
soddisfare bisogni pubblici essenziali attraverso lo svolgimento da parte sua dell’attività imprenditoriale
commerciale. Es. telecomunicazioni, trasporti. In realtà questa è un’attività che ha perso importanza a
seguito degli interventi di privatizzazione dell’ultimo decennio degli anni 90 e che hanno portato gli enti
pubblici a spogliarsi formalmente dello svolgimento di servizi essenziali (assegnati a enti privati). ->
Passaggio dallo svolgimento diretto allo svolgimento in via indiretta attraverso società di diritto privato.

2) Ente pubblico che svolge l’attività commerciale come attività secondaria.

L’ente ha come suo obiettivo principale solo ed esclusivamente lo svolgimento di fini istituzionali ma a
latere in via minoritaria svolge attività con i connotati di attività imprenditoriale commerciale. Es. scuole
dell’infanzia gestite dal Comune, il cui fine prevalente è assicurare l’istruzione nell’ambito territoriale.

3) Attività imprenditoriale svolta attraverso una società a controllo pubblico.

In questo caso trovano applicazione le regole del diritto societario. Quando l’ente pubblico ha controllo
totalitario sulla società, trovano applicazione ulteriore le regole proprie del diritto pubblico: in particolare
l’ente pubblico esercita poteri di controllo analoghi a quelli che ha nei confronti delle sue diramazioni
territoriali di ente pubblico. -> Società a controllo analogo: forniscono servizi essenziali gestiti direttamente
dall’ente pubblico.

Problema: esistono limitazioni alle applicazioni delle regole di diritto commerciale a queste attività svolte da
enti pubblici? Analizzando la disciplina: in primo luogo le società pubbliche (braccio operativo) sono tutte
sottoposte alla disciplina del diritto commerciale nella sua interezza (non esistono limitazioni alle
applicazioni delle regole di diritto commerciale quando l’ente pubblico esercita l’attività in via indiretta
attraverso società private, es. spa, srl, ecc.); la società controllata è assoggettata anche a fallimento).
Nell’ambito di applicazione del diritto commerciale in caso di ente pubblico economico (svolge in maniera
prevalente o esclusiva un’attività imprenditoriale commerciale) che succede? In questo caso, il riferimento
è l’art. 2101 e 2221 c.c.: art. 2101, sono assoggettati all’obbligo di iscrizione nel registro di imprese anche gli
enti pubblici economici; art. 2221 c.c., l’ente pubblico economico e non economico non è mai assoggettato
a fallimento. La disciplina dell’ente pubblico non economico (attività commerciale è secondaria per l’ente
pubblico): questo ente non è ne sottoposto all’obbligo di registrazione ne al fallimento (combinato disposto
di cui sopra).

Sgombrato il campo dalle nature giuridiche che potrebbe assumere l’attività imprenditoriale nell’ambito
pubblico, vediamo la natura giuridica che potrebbe assumere nell’ambito di applicazione del diritto privato.
Non è detto che l’attività commerciale venga svolta solo da società, possono esistere altri enti rientranti
nell’ambito di operatività del diritto privato e civile che svolgono anche attività che hanno i requisiti della
commercialità. Es. attività commerciale di associazioni o fondazioni. Anche in questo caso si distingue tra:
ipotesi in cui attività commerciale è prevalente o esclusiva dell’ente associativo, ipotesi in cui l’attività
commerciale è secondaria per l’ente associativo.

Caso 1): le associazioni che perseguono fini istituzionali attraverso lo svolgimento di attività commerciale.
Es. fondazione che gestiscono teatri (fine istituzionale: diffusione della cultura).

13
Caso 2): l’ente associativo che ha come attività prevalente un’attività a solo fine istituzionale ma a latere
svolge un’attività di natura commerciale. Es. i patronati con bar.

Queste categorie sono esenti da specifica disciplina nel c.c., vi trova applicazione almeno lo statuto
dell’imprenditore medio-grande? Il codice non dice che a queste specifiche categorie di enti trovano
applicazione le regole di diritto commerciale e si potrebbe assimilare loro la disciplina prevista per l’attività
commerciale svolta da ente pubblico. In realtà, una conclusione di questo tipo non ha supporto giuridico
adeguato perché gli enti pubblici economici sono esclusi dall’ambito di applicazione di alcune norme in
forza dalla loro natura di ente pubblico.

A questo punto, bisogna arrivare alla conclusione che le norme del diritto commerciale e dello statuto
dell’imprenditore medio grande trovano totale applicazione per gli enti privati diversi dalle società che
esercitano attività imprenditoriale commerciale, in particolare gli enti privati associativi saranno sempre
obbligati alla iscrizione nel registro delle imprese e saranno sempre assoggettabili a fallimento (questo
trova applicazione anche se l’attività commerciale è secondaria rispetto al fine istituzionale).

Ultima cosa circa l’applicazione delle norme commerciali in base alla natura giuridica: ci sono limitazioni
quando l’attività di impresa è svolta da società disciplinate in modo esplicito dal c.c.? Le società si
suddividono in: società di persone e società di capitali. Nelle prime esiste la cd. società semplice alla quale è
precluso lo svolgimento di attività commerciale (è una tipologia che può essere esclusa dall’applicazione di
alcune norme previste dallo statuto dell’imprenditore medio-grande: in particolare nell’ambito dell’obbligo
di iscrizione nel registro delle imprese e nell’ambito delle regole relative alla disciplina del fallimento; non
c’è alcuna limitazione invece circa l’obbligo delle scritture contabili perché nelle norme del c.c. che
disciplinano le società ci sono continui richiami all’art. 2114 c.c.). Per le altre tipologie di società diverse
dalla società semplice non sussiste alcuna limitazione all’ambito di applicazione delle regole dello statuto
dell’imprenditore commerciale medio-grande in funzione dell’attività svolta: ciò significa che se c’è una
società diversa dalla società semplice (es. srl, src) che non svolge attività commerciale ma agricola, allora
per questa tipologia di società non trovano applicazione le regole previste per l’attività imprenditoriale
agricola ma troverà applicazione il diritto commerciale nella sua interezza.

Lavoro autonomo e le professioni intellettuali


Sussistono deroghe ulteriori in funzione della natura dell’attività svolta? È opportuno approfondire la
disciplina del lavoro autonomo e delle professioni intellettuali. È una distinzione che di per sé esiste
nell’ordinamento: lavoro autonomo dal 2222 al 2238 c.c., all’interno di questi artt. vengono disciplinate due
forme di lavoro autonomo, cioè le attività professionali non protette e le attività di lavoro autonomo
protette. In realtà, le attività di lavoro autonomo nella quotidianità moderna possono avere tutte le
caratteristiche di cui all’art. 2082 c.c, per qualificare l’attività come imprenditoriale (sia quelle protette che
non): è certamente un’attività finalizzata alla produzione di un servizio; la professionalità c’è si e no, perché
l’attività di lavoro autonomo può anche essere occasionale; l’organizzazione è un punto di confine che
distingue il lavoro autonomo dall’ambito di operatività del diritto di impresa in quanto quest’ultima è
un’attività di eterorganizzazione e non di autoorganizzazione, però esistono attività autonome protette in
cui il requisito dell’organizzazione è un requisito di eterorganizzazione (es. studi legali di grandi dimensioni).
Le attività di lavoro autonomo POSSONO avere i requisiti dell’attività imprenditoriale: a queste attività
trovano applicazione le regole del diritto commerciale e in particolare lo statuto dell’imprenditore
commerciale medio-grande? Qui bisogna distinguere, all’interno del codice l’art. 2238 esclude dall’ambito
di applicazione del diritto commerciale lo svolgimento di attività professionali protette a patto che queste
non siano elemento di una attività organizzata in forma di impresa. Lo svolgimento dell’attività
professionale è solo parte di una attività più ampia che ha i connotati dell’attività imprenditoriale, in questi
casi trovano applicazione gli artt. 2082 ss. c.c. In caso contrario, l’attività stessa è attività di lavoro

14
autonomo e per quanto grande sia non trova applicazione la disciplina del diritto commerciale. I liberi
professionisti che svolgono attività protetta non sono assoggettati a fallimento, all’obbligo di tenuta delle
scritture contabili, all’iscrizione nel registro delle imprese.

Questa conclusione vale sia per lavoro autonomo protetto che non? No, l’art. 2238 è inserito nel corpus di
norme che disciplina le attività protette, cioè le attività per professione intellettuale. Cosa differenzia
attività intellettuale da una attività non protetta? La distinzione è negli artt. 2229 e 2232 c.c.: il primo
individua in modo analitico le attività di lavoro autonomo protette, dicendo che è la legge che determina le
professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è richiesta l’iscrizione ad uno specifico albo professionale;
il secondo delinea le caratteristiche del contratto di professione intellettuale: caratteristica essenziale è il
fatto che il libero professionista deve eseguire l’opera professionale personalmente.

Esistono attività con i requisiti dell’art. 2082 c.c. cui non trovano applicazione le regole del diritto di impresa
commerciale? Si, le attività di lavoro professionale.

13.10.2021 – L’ACQUISTO DELLA QUALIFICA DI IMPRENDITORE

Due aspetti fondamentali per capire quando entra in gioco il diritto commerciale sono l’inizio/fine
dell’impresa e l’imputazione dell’impresa; il primo aspetto è funzionale per capire quando si può dire
avviata un’attività imprenditoriale e quindi da quando iniziano a trovare applicazione il diritto commerciale
e, viceversa, quando si può dire cessata l’attività di impresa e quando viene meno l’applicazione di queste
specifiche regole; l’imputazione serve a individuare il soggetto in capo al quale trovano applicazione le
regole del diritto commerciale.

INIZIO E FINE DELL’ATTIVITÀ DI IMPRESA – non esiste nel c.c. una normativa specifica che indichi quando
inizia o finisce l’attività commerciale. Nell’ordinamento prevale la teoria in base alla quale il criterio per
determinare l’inizio/fine dell’attività imprenditoriale è l’effettività, un criterio ancorato all’analisi di aspetti
sostanziali e non formali.

Non avrebbe senso ancorare l’avvio dell’applicazione della normativa del diritto commerciale al corretto
adempimento di specifici atti formali (es. iscrizione al registro delle imprese, ottenimento di una specifica
licenza); se così fosse ci si troverebbe nella condizione in cui l’imprenditore può autonomamente decidere
se assoggettarsi o meno agli obblighi e alle possibilità che ruotano attorno al diritto commerciale -> non può
essere. Questo è facile da comprendere quando l’attività è svolta da un imprenditore individuale; diversa
può invece essere l’analisi quando l’attività imprenditoriale è svolta da un ente collettivo, la società perché
vi è un elemento formale imprescindibile che è l’atto costitutivo -> questo porta a chiedersi se il criterio
dell’effettività trovi applicazione anche in questo secondo caso: la conclusione cui si è giunti è
essenzialmente affermativa perché l’atto costitutivo non è altro che un dare veste giuridica all’attività
imprenditoriale ma se poi l’attività di impresa effettivamente non parte non ha senso dire che il diritto
commerciale trovi applicazione a partire dall’atto costitutivo perché manca l’impresa sottostante al dato
formale.

Quando trova applicazione il criterio di effettività? Vi è una fase di progettualità dell’attività imprenditoriale
cui segue una fase ulteriore (es. finanziamenti, acquisto dei beni, ecc.). Concretamente l’individuazione del
momento in cui può dirsi materializzata l’impresa non è agevole: bisogna chiedersi quando gli interessi
coinvolti e meritevoli di tutela entrano in gioco. Anche in una fase in cui l’attività produttiva non è iniziata,
ossia nella fase prodromica all’attività, entrano in gioco interessi di terzi che devono essere tutelati: la
dottrina distingue tra meri atti di organizzazione e atti dell’organizzazione. Rientrano nel concetto di atti di
organizzazione gli atti isolati, non funzionalmente collegati l’uno all’altro, che restano nell’ambito della

15
progettualità/programmazione dell’attività imprenditoriale; nel momento in cui invece l’imprenditore inizia
a porre in essere atti giuridici tra loro collegati la cui finalità è quella di dare concretezza alla componente
produttiva, allora ci si trova nell’ambito degli atti dell’organizzazione (passaggio dalla progettazione alla
concretizzazione). Questa distinzione serve a mettere una linea di confine all’ambito di applicazione del
diritto commerciale e del diritto di impresa: con riguardo agli atti di organizzazione non siamo nell’ambito di
applicazione delle regole di diritto commerciale, negli atti dell’organizzazione di per sé è già attuazione del
criterio di effettività e quindi trovano applicazione le regole del diritto di impresa e commerciale.

È necessario indagare anche le finalità dell’organizzazione dell’apparato produttivo, se la finalità ultima non
è quella di svolgere direttamente l’attività per cui è stato creato l’apparato ma piuttosto quella di cederlo in
locazione ad un terzo che diventa titolare dell’attività imprenditoriale che verrà svolta quindi non da chi ha
costruito l’apparato produttivo: in questo caso si esce dall’ambito di applicazione dell’art. 2082 c.c. ->
attività di mero godimento, non c’è un’attività produttiva sottostante all’esercizio del diritto soggettivo.

Il principio di effettività trova applicazione anche al concetto di fine dell’attività di impresa? E come si
declina/concretizza? In linea teorica il principio di effettività trova applicazione anche in relazione al
termine dell’attività di impresa e però anche in questo caso bisogna chiedersi quando possa dirsi terminata
un’attività imprenditoriale perché nella concretezza dello svolgimento dell’attività quando l’imprenditore
ultima l’attività produttiva, non ha ultimato anche l’attività organizzativa sui beni (es. smaltimento dei
macchinari). Cessata l’attività produttiva, inizia la fase di liquidazione dell’attività imprenditoriale:
l’imprenditore vende il complesso di beni organizzato e ottiene una liquidità con cui paga coloro che gli
avevano dato credito, ciò che resta è guadagno. Problema: che rilevanza ha la fase di liquidazione sotto il
profilo dell’applicazione del principio di effettività in caso di fine dell’attività di impresa? La tesi dottrinale
prevalente sostiene che il principio di effettività si concretizzi nella semplice fine dell’attività produttiva e
che quindi non abbia rilevanza ai fini dell’applicazione del diritto commerciale la seguente fase di
liquidazione perché quest’ultima non è di per sé una fase essenziale, giuridicamente disciplinata
nell’ordinamento (ad eccezione che nel caso di cessazione dell’attività nell’ambito delle società di capitali: il
legislatore ha individuato una serie di regole che devono per forza essere rispettate per portare a termine
la fase di scioglimento e liquidazione della società di capitali). Nell’ambito delle società di persone o
dell’impresa individuale la liquidazione è disciplinata ma non è fase essenziale della cessazione dell’attività
imprenditoriale: l’imprenditore non deve/non è obbligato a procedere ad atti formali di scioglimento e
liquidazione ma, se vuole cessare l’attività, è sufficiente la cancellazione dal registro delle imprese (cosa che
non viene accettata nelle società di capitali se non ha preceduto una fase prodromica e formale di
scioglimento e liquidazione).

Solo in linea teorica si dà più rilevanza all’aspetto sostanziale rispetto a quello formale, ma in realtà esiste la
disciplina fallimentare in cui per individuare la cessazione dell’attività imprenditoriale il legislatore ha
preferito definire dei più netti confini. Nella legge fallimentare è stato introdotto l’art. 10 dove, ai soli fini
dell’applicazione della legge fallimentare, la cessazione dell’attività di impresa è ancorata ad uno specifico
dato formale: la cancellazione dal registro delle imprese. Prima parte art. 10: presunzione della cessazione
dell’attività di impresa che ancora quest’ultima allo specifico dato formale di cui sopra (co. 1 passato un
anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, l’attività non è più passibile di fallimento) ->
formalmente l’attività di impresa cessa ma nel concreto, nonostante questo, l’attività imprenditoriale
potrebbe continuare. Co. 2 serve ad evitare forme di abuso della presunzione di cui al co. 1: è data facoltà
ai creditori o al p.m. in caso di cancellazione d’ufficio di enti collettivi di dimostrare il momento effettivo da
cui decorre l’anno o l’effettivo momento in cui è terminata l’attività imprenditoriale. Questo vale per
l’imprenditore individuale e per le società che siano state cancellate d’ufficio dal registro delle imprese (la
cancellazione della società non ha seguito l’iter “normale” previsto dalla normativa). Nel caso in cui la
società abbia dato normale applicazione alle regole di cancellazione e scioglimento, in cui ci sono specifiche

16
responsabilità degli amministratori nonostante il mancato pagamento di tutti i debiti della società stessa,
l’art. 10 non si applica. La presunzione di cui all’art. 10, co. 1 è relativa per i terzi (possono dimostrare la
concreta applicazione del principio di effettività, nel senso che possono dimostrare che la cessazione
dell’attività è successiva alla cancellazione) ma è invece assoluta per l’imprenditore (non gli viene data la
possibilità di dimostrare che la sua attività imprenditoriale era effettivamente terminata prima della
cancellazione dal registro delle imprese). Problema relativo all’applicazione dell’art. 10: l’ipotesi in cui
manchi l’adempimento formale iniziale, cioè l’iscrizione al registro delle imprese. Sul punto è intervenuto
l’art. 33 ccii che all’ultimo comma individua in modo chiaro quando trovi applicazione il concetto di
cessazione dell’attività di impresa: per gli imprenditori la cessazione coincide con la cancellazione e se non
iscritti dal momento in cui ne vengono a conoscenza i terzi con cui si è entrati in contatto. Deve essere
presentata prova dell’avvenuto ricevimento. Il termine di un anno decorre dal momento in cui
l’imprenditore ha comunicato ai terzi la cessazione dell’attività. È comunque data possibilità ai terzi di
dimostrare che l’attività è in realtà cessata dopo la data in cui l’imprenditore ha dato loro notizia della
cessazione. Se l’imprenditore non dimostra la comunicazione della cessazione dell’attività ai terzi, resta
assoggettato alla disciplina del fallimento.

L’IMPUTAZIONE DELL’IMPRESA – il criterio di imputazione dell’impresa serve a individuare chi sia la figura
fisica o collettiva in capo al quale ricadono gli obblighi previsti dalla normativa del diritto commerciale e del
diritto di impresa e, conseguentemente, in capo al quale ricade la responsabilità in caso di inadempimento
degli obblighi. Nella normativa non esiste un principio effettivo che indichi il criterio di imputazione di
impresa.

Scelta: dare rilevanza agli aspetti formali o sostanziali? Criterio formale - dare rilevanza agli aspetti formali
comporta dare applicazione ai principi generali degli atti giuridici previsti nell’ambito del diritto privato e
civile: artt. 1704-5 c.c., mandato con/senza rappresentanza -> si dà rilevanza ad un dato formale: la
spendita del nome. Questo criterio formale può trovare applicazione anche nell’ambito dell’attività di
impresa, definita come un atto giuridico a sé stante rispetto alla molteplicità degli atti giuridici posti in
essere nello svolgimento dell’attività di impresa? Il dato formale della spendita del nome trova applicazione
all’atto complesso di impresa? Tornano in gioco gli interessi dei soggetti terzi: il problema non si pone
quando criterio formale e sostanziale coincidono, cioè quando il soggetto del quale viene speso il nome
(dato formale) è effettivamente l’imprenditore (dato sostanziale), es. collaboratori dell’imprenditore,
attività esercitata da un ente collettivo, imprenditore incapace di agire; il problema potrebbe nascere nel
caso in cui l’applicazione del criterio formale porti ad una imputazione degli effetti giuridici in capo ad un
soggetto diverso da chi realmente (criterio sostanziale) esercita l’attività di impresa (-> dissociazione tra
soggetto in capo al quale trovano effetto gli atti e soggetto imprenditore). In questo secondo caso, dare
prevalenza al dato formale si presta ad abusi di non poco conto. I creditori perdono la possibilità di avere
come garanzia delle proprie obbligazioni il reale patrimonio del soggetto in capo al quale è imputato
realmente lo svolgimento dell’attività di impresa: si ingenera un evidente danno ai creditori che hanno
interagito con l’impresa; viceversa, nel caso dell’imprenditore che abbia creditori individuali, questi
possono beneficiare dell’intero patrimonio del soggetto debitore senza il rischio che anche i creditori
dell’attività imprenditoriale solo formalmente avviata da un terzo possano soddisfarsi sullo stesso
patrimonio. Pertanto, soprattutto in giurisprudenza si è cercato di dare prevalenza ad aspetti sostanziali di
imputazione dell’attività di impresa, tralasciando la rilevanza dell’elemento formale della spendita del
nome.

18.10.2021 – L’applicazione del criterio formale “spendita del nome” ingenera un problema in caso di
dissociazione tra soggetto che svolge l’attività imprenditoriale e soggetto nell’interesse del quale la stessa
viene svolta: qualora l’attività non avesse buon esito, fallisce solo il prestanome o anche il dominus?

17
Questa problematica nel nostro ordinamento non trovava una soluzione giuridica specifica; pertanto, la
giurisprudenza ha fatto ricorso all’istituto della c.d. impresa fiancheggiatrice: l’attività di organizzazione e
coordinamento svolta dal soggetto nell’interesse del quale viene svolta l’attività imprenditoriale da parte di
un terzo è di per sé un’attività imprenditoriale ma fiancheggiatrice perché non è la stessa svolta dal terzo,
imprenditore fittizio; è un’altra realtà imprenditoriale, parallela a quella principale. Ne deriva che, anche
colui che organizza e coordina l’impresa fiancheggiatrice è sottoposto alla disciplina del fallimento. Tuttavia,
il grande limite della teoria dell’impresa fiancheggiatrice è quello per cui il fallimento del dominus non è
previsto per l’attività imprenditoriale svolta dall’imprenditore fittizio ma per una attività di coordinamento
diversa; i creditori dell’impresa principale potranno continuare a soddisfarsi solo sul patrimonio
dell’imprenditore fittizio -> le due masse fallimentari restano distinte. Es. caso Caltagirone.

A fianco di questa prima ipotesi giurisprudenziale, ha sempre preso più piede la teoria dell’imprenditore
occulto, che ha come finalità propria l’imputazione degli effetti giuridici dell’attività di impresa direttamente
in capo al titolare dell’interesse all’attività imprenditoriale e che di fatto la gestisce. Questa teoria ha la
finalità di far prevalere il criterio sostanziale anziché formale nell’imputazione dell’attività di impresa, onde
evitare possibili abusi applicativi del criterio formale. Questa teoria dottrinale nasce intorno agli anni
’50-’60 ad opera del giurista Walter Bigiavi: parte dal principio immanente secondo cui ogni soggetto è
responsabile del proprio agire, per arrivare a dire che se individuiamo chi realmente muove le redini
dell’attività imprenditoriale dobbiamo fare in modo che lui sia poi responsabile delle scelte fatte; deve
esserci uno stretto collegamento tra interesse e responsabilità, tra gestione dell’attività imprenditoriale e
responsabilità delle scelte imprenditoriali. Spunto giuridico nell’elaborazione di questa teoria è l’art. 147 l.
fall.: co. 2, se viene dichiarato il fallimento di una società dove esistono dei soci illimitatamente responsabili
per le obbligazioni sociali (es. società di persone), la sentenza di fallimento si estende anche ai soci
illimitatamente responsabili; co. 3, se dopo la sentenza di fallimento di una società con soci illimitatamente
responsabili dovesse emergere che, aldilà dei soci formali (cioè che risultano iscritti come tali nel registro
delle imprese) della società, ci sono anche soci occulti, allora la sentenza di fallimento si estende anche a
questi ultimi. Bigiavi cerca di applicare questa stessa teoria al caso in cui il soggetto che svolge l’attività
imprenditoriale è affiancato da un altro soggetto che lo aiuta nello svolgimento dell’attività imprenditoriale.
Ci sono due soggetti: società palese e società occulta. A partire da questo presupposto si estende
l’applicazione dell’art. 147 anche al caso di società occulta. Il legislatore nel corso della riforma della legge
fallimentare del 2006 introduce all’interno dell’art. 147 un co. 5 in cui si estende la regola generale al caso
in cui dopo il fallimento di una società individuale risulti che l’impresa è riconducibile ad una società di cui il
fallito è socio illimitatamente responsabile. Viene riconosciuta una società di fatto tra il soggetto occulto
esterno e la srl (società a responsabilità limitata). Per chiudere la questione dell’imprenditore occulto
manca l’ultimo passaggio: potrebbe essere che l’imprenditore individuale di fatto non faccia nulla nello
svolgimento dell’attività imprenditoriale e sia solo un burattino dell’imprenditore occulto, in questo caso
non sarebbe rilevabile una società occulta perché chi gestisce l’attività nel proprio interesse è solo
l’imprenditore occulto (attività svolta per interposizione di persona); questa ipotesi non trova disciplina
nell’art. 147 l. fall. che parla solo di società occulta (in cui imprenditore occulto concorre all’attività
imprenditoriale del socio fittizio). Per analogia si dovrebbe concludere che l’art. 147 co. 5 trova
applicazione anche in caso di imprenditore occulto senza che vi sia anche una società occulta.

Una particolare casistica dove trova concretamente applicazione senza ingenerare problemi il criterio
formale dell’imputazione dell’impresa è il caso dell’impresa gestita da incapaci: per lo svolgimento
dell’attività imprenditoriale il soggetto che la svolge deve essere tendenzialmente capace di agire (deve
assumere le proprie scelte consapevolmente), vi sono però casistiche in cui l’attività imprenditoriale
potrebbe ricadere in capo a soggetti privi di capacità di agire (es. attività imprenditoriale avviata da un
soggetto che nel tempo perde la propria capacità di agire per malattia, incidente, età, ecc.). Le regole

18
generali prevedono che il tutore dell’incapace possa svolgere autonomamente gli atti di ordinaria
amministrazione del patrimonio, mentre per gli atti di straordinaria amministrazione è necessario il vaglio
del giudice (gestione di natura conservativa); questa teoria è difficilmente conciliabile con lo svolgimento
dell’attività imprenditoriale che per sua natura è esposta al rischio di impresa e richiede di effettuare una
serie di scelte in modo rapido. È allora previsto il divieto assoluto di iniziare un’attività imprenditoriale da
parte di soggetto incapace (es. minorenne); se però un incapace si trova intitolata un’attività
imprenditoriale sussistono regole specifiche (art. 320, co. 5 c.c., impresa del minore; art. 424 c.c., impresa
dell’interdetto o inabile): in questi casi il tutore può assumere decisioni per atti sia di ordinaria che di
straordinaria amministrazione; il tutore però deve essere preliminarmente autorizzato dal giudice alla
continuazione dell’attività di impresa.

PANORAMICA delle regole di diritto commerciale


Non esiste nel codice una disciplina organizza che si occupa della materia nella sua interezza, ma esistono
una pluralità di norme che disciplinano diversi aspetti dell’attività di impresa allo scopo di agevolare
l’imprenditore nell’esercizio della sua attività (con deroghe al diritto privato generale) e allo scopo di
tutelare i terzi che interagiscono con l’impresa (duplice finalità).

Gli ambiti disciplinati dallo statuto dell’imprenditore in generale - questo gruppo di norme che rientrano
nell’ambito della disciplina del diritto commerciale hanno come primo nucleo tematico la pubblicità
dell’attività di impresa (l’imprenditore deve rendere pubbliche delle info della sua attività imprenditoriale e
con questo obbligo soddisfa due interessi: il fatto di rendere conoscibili ai terzi le caratteristiche dell’attività
di impresa e il fatto che l’imprenditore può dare per scontato che le info rese pubbliche sono conosciute dai
terzi, duplice finalità -> questo trova concretizzazione con il registro delle imprese).

Un secondo profilo circa le regole del diritto commerciale riguarda gli atti imprenditoriali e l’organizzazione
dell’attività di impresa: di fatto le regole di diritto commerciale disciplinano anche la struttura organizzativa
dell’attività di impresa, questo viene fatto in modo più blando con riguardo all’impresa individuale perché ci
sono regole del c.c. in cui sono individuate in modo puntuale delle figure di collaborazione
dell’imprenditore ma diventano più complesse quando l’attività imprenditoriale è svolta da enti collettivi
(società di persone/di capitali). Nell’ambito della struttura organizzativa trovano applicazione anche regole
di carattere generale, in particolare l’art. 2086 co. 2, come modificato dal ccii (stabilisce un obbligo per gli
imprenditori collettivi di dotare l’attività imprenditoriale di un adeguato assetto organizzativo) e la
disciplina dell’obbligo di tenuta delle scritture contabili (art. 2214 c.c.). Nell’ambito delle regole relative al
compimento di atti da parte dell’imprenditore vi sono anche gli artt. riguardanti il rapporto della clientela
contenuti sia nel c.c. sia nel codice del consumo.

Altro profilo è quello che si occupa di disciplinare i rapporti tra imprenditori, la disciplina della concorrenza
e altro ancora è quello relativo ai segni distintivi. Il diritto dell’impresa in generale si occupa poi anche della
circolazione dell’impresa: l’azienda.

Infine, rientrano in questa materia le fattispecie legate a: cooperazione tra imprenditori (consorzi, reti di
impresa) e crisi di impresa.

Lo statuto dell’impresa in generale ha un sottoinsieme di regole che trova applicazione solo per
l’imprenditore commerciale medio-grade: queste regole disciplinano la fattispecie della pubblicità
commerciale, l’obbligo di tenuta delle scritture contabili, i collaboratori dell’imprenditore e
l’assoggettamento a fallimento e altre procedure concorsuali.

19
LA PUBBLICITÀ COMMERCIALE: IL REGISTRO DELLE IMPRESE
Ad oggi tutti gli imprenditori sono assoggettati alla pubblicità nel registro delle imprese: l’imprenditore
medio-grande trova collocazione nella sezione ordinaria mentre le altre tipologie di imprese trovano
collocazione nelle sezioni speciali del registro.

Il registro:

 individua solo alcuni aspetti specifici dell’attività di impresa che sono sottoposti al regime di
pubblicità: tipicità delle iscrizioni;
 ha finalità coincidente con quella duplice finalità tipica del diritto commerciale (vedi sopra);
 è una banca dati pubblica, online;
 è tenuto ed aggiornato dalle camere di commercio provinciali;
 è diviso in sezioni (vedi sopra).

Figure di riferimento: il conservatore del registro e il giudice del registro (delegato dal presidente del
tribunale allo scopo di vigilare la regolarità della gestione delle procedure di iscrizione e si occupa di
eventuali cancellazioni o iscrizioni d’ufficio).

Il contenuto, l’oggetto del principio di tipicità dell’iscrizione: informazioni anagrafiche del soggetto al quale
è imputata l’attività imprenditoriale; informazioni specifiche relative all’attività di impresa svolta, l’oggetto
dell’attività imprenditoriale; informazioni relative all’assetto organizzativo dell’attività imprenditoriale (es.
sede, collaboratori dell’imprenditore, ecc.).

Funzionamento dell’iscrizione: sussiste un termine temporale di 30 gg entro il quale un soggetto tenuto


all’obbligo di iscrizione vi deve adempiere quando decide di intraprendere un’attività imprenditoriale. Il
termine di 30 gg riguarda anche eventuali modifiche di informazioni già iscritte. Il termine subisce una
deroga in relazione all’iscrizione di atti costitutivi di società di capitali: in questo caso il notaio (perché le
società di capitali si costituiscono con atto pubblico) ha tempo 10 gg per procede all’iscrizione al registro
delle imprese dell’atto costitutivo. L’iscrizione avviene direttamente su istanza dell’interessato,
l’imprenditore ma possono esserci casi in cui l’iscrizione avvenga d’ufficio (art. 2190 c.c.), casi in cui il
soggetto che sarebbe realmente deputato all’iscrizione non vi provvede e altri soggetti che hanno interesse
all’iscrizione ma non hanno titolo per chiederla avviano il procedimento di iscrizione d’ufficio di una certa
informazione al registro delle imprese.

Se un socio della società esercita il diritto di recesso, l’amministratore della società deve aggiornare le
informazioni contenuto nel registro: se l’amministratore non adempie al suo obbligo, il socio resta iscritto
con la conseguenza che l’eventuale creditore non soddisfattosi sul patrimonio della società, possa
soddisfarsi sul patrimonio dei soci (ivi compreso quello che, pur avendo esercitato il suo diritto di recesso,
era ancora iscritto al registro).

La domanda di iscrizione è recapitata al conservatore che deve verificare la correttezza forma dell’istanza
presentata (fine: verificare che l’informazione oggetto di iscrizione è tra quelle previste dal principio di
tipicità e verificare la regolarità formale del modello, es. firma digitale).

In caso di iscrizione di info sbagliate, può essere volontariamente attivata dal soggetto interessato la
procedura di cancellazione; in alcuni casi questa procedura può essere disposta d’ufficio.

La procedura di iscrizione è informatizzata.

20.10.2021 – sezione ordinaria del registro delle imprese

20
La sezione originariamente pensata dal legislatore è quella ordinaria in cui trova applicazione lo statuto
dell’imprenditore medio-grande.

Oggetto dell’iscrizione - trovano collocazione in questa sezione: gli imprenditori non piccoli; le società
commerciali e cooperative; gli enti pubblici economici; consorzi con attività esterna; società straniere con
sede amministrativa ed oggetto principale dell’attività in Italia; reti di impresa con fondo comune. La società
semplice è l’unica tipologia cui è precluso lo svolgimento di attività commerciali, pertanto non trova
collocazione nella sezione ordinaria.

Quando un soggetto vuole informazioni circa una attività commerciale ricorre alla visura camerale, nel
registro delle imprese.

L’efficacia dell’iscrizione - che efficacia associa il c.c. all’iscrizione delle informazioni nella sezione ordinaria
del registro delle imprese? In origine l’esigenza del legislatore è duplice: garantire informazione ai terzi e
garantire all’imprenditore che le informazioni iscritte sono conosciute dai terzi. Questa è la principale
efficacia abbinata all’iscrizione nella sezione ordinaria del registro (efficacia dichiarativa). In altri termini: nel
momento in cui un’informazione è iscritta, si presume che questa sia a conoscenza di tutti i soggetti terzi
(opponibile ai terzi). L’iscrizione di un atto comporta una duplice presunzione: da un lato, se una info deve
essere iscritta e viene iscritta si ha una presunzione assoluta di conoscenza dell’informazione, non è quindi
possibile per il terzo dimostrare di non essere a conoscenza di quell’info oggetto di iscrizione (es. iscrizione
della sede della società: quando la sede sociale cambia, l’imprenditore entro 30 gg deve modificarne la
relativa info nel registro; quando questo viene fatto, tale modifica si presume a conoscenza di tutti i terzi e
se, ad esempio, un creditore della società notifica un decreto ingiuntivo presso la sede precedente, la
notifica non va a buon fine -> il terzo non può dirsi all’insaputa del trasferimento della sede); dall’altro lato,
la presunzione che si ricava dalla non iscrizione è una presunzione di ignoranza relativa (se una info deve
essere iscritta ma non viene iscritta nel registro, si presume che il terzo ignori questa informazione salvo
che l’imprenditore non dimostri che in realtà l’aveva portata a conoscenza del terzo attraverso altri mezzi
idonei; es. trasferimento della sede della società senza modifica della relativa informazione nel registro, la
notifica del creditore recapitata all’indirizzo precedente dispiega la sua efficacia).

La presunzione assoluta del terzo matura nel momento dell’iscrizione dell’informazione, ad eccezione degli
atti di società di capitali che per i primi 15 gg dall’iscrizione anche se nella sezione ordinaria la presunzione
assoluta è in realtà relativa (l’efficacia dichiarativa NON è immediata, decorre dopo 15 gg).

Abbinata all’efficacia dichiarativa, l’iscrizione alla sezione ordinaria può avere due ulteriori forme di
efficacia:

 efficacia normativa -> l’applicazione di un determinato insieme di regole giuridiche sia condizionata
all’iscrizione di una specifica informazione nel registro delle imprese. In caso di adempimento
all’obbligo di iscrizione di quelle informazioni specifiche si applica un corpus di norme giuridiche, se,
viceversa, in caso di inadempimento trovano applicazione regole giuridiche diverse;
 efficacia costitutiva -> opera con riferimento a specifici atti (atti costitutivi) perlopiù di società di
capitali. L’atto costitutivo produce i propri effetti solo dopo l’iscrizione al registro delle imprese. La
società viene materialmente ad esistenza solo dopo l’iscrizione.

Sezioni speciali del registro delle imprese


Vi trovano iscrizione le informazioni imprenditoriali di imprese diverse da quelle tenute all’iscrizione nella
sezione ordinaria. Originariamente erano 4, ad oggi sono state raggruppate in una sezione speciale unica
cui poi il legislatore ha aggiunto nuove strutture giuridiche dove trovano collocazione, per esempio, le
società le s.t.p. (società tra professionisti).

21
Il registro delle imprese contiene dunque una molteplicità di sezioni speciali.

Gli effetti – non si hanno gli effetti dell’efficacia dichiarativa ma si ha una mera efficacia di pubblicità-notizia:
non trova applicazione quella presunzione assoluta di conoscenza dell’info da parte del terzo tipica
dell’iscrizione alla sezione ordinaria. Per rendere una info opponibile ai terzi non è sufficiente l’iscrizione
alla sezione speciale ma è necessario che si dimostri di aver portato a conoscenza del terzo l’info attraverso
mezzi idonei.

La regola generale di efficacia di pubblicità-notizia ha delle deroghe, la più importante delle quali riguarda
l’impresa agricola: le iscrizioni degli atti di questa tipologia di imprese nelle sezioni speciali hanno
comunque efficacia dichiarativa. Altra deroga riguarda i casi in cui l’iscrizione ha ANCHE efficacia normativa
(es. start-up innovative).

Adempimenti ulteriori legati all’obbligo di pubblicità IN GENERALE (valgono per tutte le imprese)
Sussiste un obbligo generale dell’imprenditore di inserire le info generali relative all’attività imprenditoriale
nella corrispondenza commerciale.

Il codice impone anche il deposito all’interno del r.i. di una serie di atti diversi da quelli riguardanti le info
anagrafiche e la struttura organizzativa dell’attività imprenditoriale; si parla di deposito e non iscrizione
dell’atto perché al deposito dell’atto nel r.i. di per sé non viene abbinata nessuna specifica efficacia. Gli atti
oggetto del principio di tipicità sono atti obbligatoriamente iscritti nel r.i.; gli atti diversi da quelli ricompresi
nel principio di tipicità vengono solo depositati allo scopo di informare i terzi (es. obbligo di deposito
imposto alle società di capitali relativo al bilancio annuale di esercizio).

LA STRUTTURA DELL’ORGANIZZAZIONE: LA RAPPRESENTANZA COMMERCIALE


La rappresentanza commerciale è disciplinata con un duplice fine (vedi sopra, tutela dei terzi e
dell’imprenditore) perché di fatto deroga alla disciplina generale della rappresentanza contenuta all’interno
dell’art. 1387 c.c. secondo cui se un soggetto vuole fare sì che gli effetti giuridici di un atto concluso da un
altro soggetto ricadano nella sua sfera giuridica, deve dotare quest’ultimo di uno specifico atto formale
detto “procura” (questo comporta che nel momento in cui un soggetto si trova di fronte ad un procuratore,
dovrebbe preliminarmente chiedere di visionare la procura) -> se questo venisse fatto nell’ambito
dell’attività imprenditoriale ogni atto compiuto da un collaboratore dell’imprenditore comporterebbe per
l’imprenditore la scrittura continua di procure e per il terzo la verifica continua dell’oggetto della procura
per essere certo che l’atto che il procuratore sta per compiere vi rientri.

Per fare fronte a questo, il legislatore individua nel c.c. 3 tipologie di collaboratori dell’imprenditore:
institore, procuratore e commesso; dopodichè, il codice stesso ne disciplina i poteri. In questo modo, per
l’imprenditore è sufficiente iscrivere nel r.i. la nomina di uno o più di questi collaboratori per fare sì che
trovino applicazione immediata i poteri che la normativa glia attribuisce. Per il terzo è sufficiente una visura
camerale che accerti la nomina del soggetto come collaboratore.

La disciplina della rappresentanza commerciale attiene alla struttura organizzativa dell’impresa e trova
applicazione solo per l’imprenditore medio-grande (la piccola impresa non necessita di una struttura
organizzativa particolarmente articolata, parte funale art. 2083 c.c.).

La rappresentanza commerciale è piramidale:

22
1. Institore – colui che è proposto dal titolare all’esercizio di un’impresa commerciale, sede
secondaria o ramo. Può svolgere TUTTI gli atti attinenti all’attività imprenditoriale. -> Alter ego
dell’imprenditore.
2. Procuratore – soggetti preposti al compimento di atti pertinenti all’attività di impresa ma
LIMITATAMENTE ad uno specifico ambito funzionale. Es. direttore del personale.
3. Commesso – ha un ruolo prevalentemente esecutivo in relazione in particolare al rapporto con i
terzi (clienti); può compiere atti quotidiani che comportano la specie delle operazioni di cui è
incaricato.

Il c.c. oltre a definire questi collaboratori ne disciplina i poteri specifici per il semplice fatto di aver acquisito
la qualifica di collaboratore dell’imprenditore (deroga alla disciplina generale della rappresentanza,
secondo cui è sempre necessario predisporre una procura); sono poteri sia decisori sia dichiaratori: poteri
che riguardano sia l’amministrazione sia la rappresentanza nei confronti dei terzi.

25.10.2021 – in generale la procura non è mai necessaria salvo:

 quando si voglia attribuire una delega di poteri a soggetti che non rientrano nell’assetto
organizzativo interno all’attività imprenditoriale (es. lavoratore autonomo); oppure
 quando si voglia derogare alla disciplina base dei poteri attribuiti dal c.c. alle tre figure di
collaboratori interni (es. limitazione dei poteri decisori e dichiaratori).

Institore
Artt. dal 2203 al 2208 c.c.

È definito come un alter ego dell’imprenditore: è preposto all’esercizio dell’attività di impresa INSIEME
all’imprenditore. Di fatto può assumere TUTTE le decisioni inerenti allo svolgimento dell’attività di impresa
salvo le limitazioni di cui qui di seguito:

Un imprenditore può avere alle proprie dipendenze più institori che si occupano o dell’intera gestione
imprenditoriale oppure della direzione di un ramo d’azienda -> (es. quando l’azienda svolge più attività
imprenditoriali). Quando vengono nominati più institori la disciplina giuridica di base stabilisce che questi
possano operare DISGIUNTAMENTE tra loro: ciascun institore può assumere liberamente tutte le decisioni
decisorie e dichiaratorie ritenute utili per l’attività di impresa senza doversi consultare con l’imprenditore o
con gli altri institori.

L’alter ego del potere disgiuntivo è il potere congiuntivo: l’institore deve ottenere il consenso di un altro
institore o dell’imprenditore. Questo potere potrebbe richiedere l’unanimità dei soggetti preposti allo
svolgimento dell’attività imprenditoriale oppure un consenso maggioritario. Se non venisse formalizzata la
fase decisoria, la successiva fase dichiaratoria della rappresentanza non avrebbe efficacia legale. Se
l’imprenditore vuole far operare la regola congiuntiva deve fare una specifica procura. Come rendere
efficacie la limitazione dei poteri contenuta nella procura? La procura affinchè sia efficacie deve essere
iscritta nel registro delle imprese.

L’iscrizione nel registro delle imprese comporta gli effetti analizzati relativamente alla pubblicità
commerciale: opera la disciplina dell’efficacia dichiarativa, si presume che la limitazione di poteri
dell’institore sia conosciuta a tutti i terzi; viceversa, mancando l’iscrizione, se l’institore conclude un
contratto in deroga alla limitazione fattagli, quest’ultima non è opponibile ai terzi e l’atto compiuto ha piena
efficacia nei confronti dell’imprenditore rappresentato.

Le operazioni che deve svolgere l’institore devono essere attinenti allo svolgimento dell’attività
imprenditoriali, pertanto si distingue tra:

23
 limitazioni legali: cioè limitazioni implicite, deducibili dal dettato del c.c. In particolare, riguardano:
l’institore è tenuto a compiere solo gli atti pertinenti all’impresa -> difficili da definire nella loro
portata oggettiva, pertanto la pertinenza dell’attività concretamente svolta è da valutarsi ex post
tenendo conto della natura dell’attività imprenditoriale e delle circostanze; sono poi preclusi
all’institore gli atti di natura straordinaria che esulano dalla mera gestione dell’attività
imprenditoriale (es. atti di cessione d’azienda, ipoteca, acquisto o alienazione di beni immobili).
 limitazioni volontarie -> procura.

Il c.c. disciplina, oltre ai poteri, anche i doveri dell’institore: anche in questo caso è un alter ego
dell’imprenditore, nel senso che il c.c. stabilisce espressamente che gravino su di lui gli stessi obblighi di
tenuta delle scritture contabili (contraltare: artt. 216-217 l. fall., bancarotta semplice e fraudolenta: è
presupposto per l’imputazione del reato la mancanza assoluta o non corretta tenuta delle scritture contabili
-> se ci sono più institori tutti rispondono dell’eventuale reato, salva l’ipotesi in cui questi siano preposti a
specifici rami d’azienda per cui ciascuno risponde relativamente al ramo d’azienda di cui si occupa);
l’institore, dunque, può eventualmente concorrere con l’imprenditore nei reati fallimentari) e di
adempimento pubblicitario che ricadrebbero sull’imprenditore stesso.

L’institore, salvo diversa disposizione, gode anche di rappresentanza processuale in luogo


dell’imprenditore.

Infine, il legislatore si preoccupa anche di disciplinare una specifica norma a tutela dei terzi nel caso in cui
l’institore concluda dei contratti senza spendere il nome dell’imprenditore. L’institore ha piena
rappresentanza dell’imprenditore, ma questo non lo esenta dalla spendita del nome perché, altrimenti, gli
effetti dell’atto concluso spiegherebbero la propria efficacia nella sfera giuridica del collaboratore (regola
generale della rappresentanza). Al fine di garantire maggiore certezza per i terzi nella conclusione di atti
commerciali, il c.c. attua una deroga alla regola della rappresentanza in generale: se l’institore dimentica la
spendita del nome dell’imprenditore ma l’atto è pertinente allo svolgimento dell’attività di impresa di
quest’ultimo, per le obbligazioni nascenti dall’atto saranno responsabili in solido sia l’institore sia
l’imprenditore. -> Questo apre la possibilità ad un’azione interna tra imprenditore e institore che non abbia
speso il nome.

N.B.: le conseguenze della disciplina fallimentare non si riflettono sull’institore, il quale non fallisce (ma,
come già detto, può solo concorrere nei reati fallimentari).

Procuratore
Art. 2209 c.c.

È colui che, in base ad un rapporto continuativo, ha il potere di compiere per l’imprenditore atti pertinenti
all’esercizio di impresa LIMITATAMENTE all’ambito cui è preposto (non l’intera attività).

Non ha una sua specifica disciplina all’interno del c.c.; sono fatti richiami a tale disciplina dalle norme
dell’institore, sulla base dei quali si ricava che: in assenza di specifica procura limitativa iscritta nel r.i. dei
poteri del procuratore, questo gode dei pieni poteri attribuitegli con riferimento alla sua area di
competenza (opera anche in questo caso l’efficacia dichiarativa dell’iscrizione della procura); il procuratore
non è gravato dei doveri di tenuta delle scritture contabili e di adempimenti pubblicitari (di conseguenza
non è passibile dei reati di bancarotta fraudolenta e semplice); non ha rappresentanza processuale; infine, il
procuratore non opera la clausola in base alla quale se non viene speso il nome dell’imprenditore nella
conclusione di un atto sono responsabili sia imprenditore si procuratore (opera la disciplina generale della
rappresentanza).

24
In dottrina ci si è chiesti se la definizione dell’art. 2209 c.c. comporta il fatto che al procuratore siano
assegnati solo poteri dichiaratori e non decisori: si parla solo di potere di compiere per l’imprenditore atti
pertinenti all’esercizio dell’impresa. Nonostante la formulazione dell’art. ì, è in realtà evidente che al
procuratore sono attribuiti poteri sia decisionali sia dichiaratori con riferimento all’ambito funzionale cui è
preposto.

Commesso
Art. 2210 c.c.

È un ausiliario subordinato cui sono affidate mansioni esecutive e materiali che li possono in contatto con i
terzi; possono compiere gli atti che ordinariamente comporta la specie delle operazioni di cui sono
incaricati.

Figura alla base della piramide decisionale dell’attività di impresa.

Il c.c. gli attribuisce poteri e limitazioni specifiche.

Poteri -> i commessi hanno la facoltà di ricevere richiami e dichiarazioni dalla clientela (potere che non può
essere oggetto di limitazione da parte dell’imprenditore – tutela dei terzi); se addetto alle vendite, salvo
espressa autorizzazione, può riscuotere il prezzo solo delle merci di cui fa consegna e può concedere sconti
e dilazioni di pagamento che rientrano negli usi commerciali (non quindi fuori da tali usi).

Limitazioni -> stando anche alla tipologia di ausiliare dell’imprenditore, particolarmente esteso sul
territorio, il c.c. stabilisce che le limitazioni per essere opponibile ai terzi è sufficiente vengano portate a
conoscenza dei terzi attraverso mezzi idonei (non è richiesta l’iscrizione della procura). Es. affissione di un
cartello.

I PRESIDI ORGANIZZATIVI
Il c.c. individua specifici requisiti ed obblighi in capo all’imprenditore che attengono alla sua struttura
organizzativa.

Di per sé l’imprenditore è libero di organizzare l’attività imprenditoriale come meglio ritiene; il legislatore
però sa che l’att. Imprenditoriale è assoggettata al rischio di impresa, quindi individua due obblighi specifici
cui l’imprenditore è sottoposto in relazione alla sua struttura organizzativa; lo fa sia per tutelare i terzi sia
per garantire una corretta gestione imprenditoriale.

In particolare:

1. predisposizione di adeguati assetti organizzativi e contabili: obbligo diventato tale


recentemente, con l’art. 2086, co. 2 c.c. introdotto con la parziale entrata in vigore del
codice di impresa (2019).
2. obblighi di tenuta delle scritture contabili, artt.

L’adeguatezza della struttura organizzativa


Art. 2086, co. 2 c.c. – L’origine: il codice della crisi (non ancora in vigore) ha avuto come prevalente
innovazione nell’ambito della disciplina delle procedure concorsuali l’ideazione di un nuovo istituto volto a
prevenire la crisi di impresa prima che questa sfoci in una vera e propria crisi. Uno specifico corpus di
articoli titolati “procedure di allerta” disciplina una serie di obblighi in capo all’imprenditore in caso di
possibile crisi imprenditoriale. In particolare, l’art. 13 individua una serie di indicatori di crisi al ricorrere dei

25
quali l’imprenditore è tenuto ad attivare le procedure di allerta (deve rivolgersi ad un organismo di
composizione della crisi). Nell’individuare le procedure di allerta, il legislatore ha conseguentemente
imposto a tutti gli imprenditori l’obbligo di un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato
alla natura e alle dimensioni dell’impresa funzionale a monitorare gli indicatori di crisi d’impresa = art. 2086
co. 2 c.c., richiamato in tutta la disciplina delle società per capitali.

La prima cosa che emerge dalla normativa è che sembra occuparsi delle sole imprese collettive; in realtà, la
portata dell’obbligo è più generale e coinvolge tutte le attività imprenditoriali dotate di un assetto
organizzativo anche minimo. Lo stesso art. 12 del codice della crisi dice espressamente che le procedure di
allerta operano non solo per gli imprenditori collettivi ma anche per l’imprenditore individuale e per
l’impresa agricola.

In secondo luogo, l’adeguatezza va valutata in funzione della natura e delle dimensioni dell’attività
imprenditoriale. Es. una multinazionale non può avere un solo amministratore; una società bancaria dovrà
avere specifiche figure preposte all’esercizio di attività specifiche.

Infine, la finalità dell’adeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili è ANCHE funzionale
alla rilevazione tempestiva della crisi di impresa: è un obbligo di portata generale che ha la finalità di una
sana e corretta gestione dell’attività imprenditoriale.

L’adeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili comporta che:

 gli assetti di cui sopra sono processi e procedure interne che consentono di far arrivare alle figure di
vertice dell’attività imprenditoriale le info necessarie per assumere le decisioni in piena
consapevolezza.
1. Assetto organizzativo = vera e propria struttura decisionale interna dell’attività
imprenditoriale, è l’individuazione dei soggetti cui sono attribuite le deleghe di potere
(rappresentato dall’organigramma aziendale);
2. Assetto amministrativo = individua le procedure dirette a garantire il corretto svolgimento
delle attività aziendali. Spesso di pari passo con l’assetto contabile.
3. Assetto contabile = sistema di rilevazione dei fatti di gestione. Fornisce le informazioni utili
per l’assetto amministrativo. Le scritture contabili consentono di trasformare in numeri i
fatti di natura gestionale.
 l’adeguatezza ha anche una finalità specifica che fa sì che deve esserci una particolare attenzione
agli indicatori della crisi di impresa, es. la verifica dei flussi di cassa prospettici che devono essere in
grado di ripagare i debiti aziendali.

27.10.2021 – Scritture contabili obbligatorie

L’assetto contabile ha la finalità di tramutare in elementi numerici gli atti giuridici compiuti nello
svolgimento dell’attività di impresa. Questo aiuta a darne una definizione: per scritture contabili si
intendono i documenti che contengono una rappresentazione numerica dei singoli atti di gestione
imprenditoriale e che hanno il fine di dare una rappresentazione dell’andamento economico dell’attività
imprenditoriale e una rappresentazione della situazione patrimoniale dell’attività imprenditoriale.

La situazione patrimoniale = è la consistenza numerica dei beni impiegati dall’imprenditore nella sua attività
ad una certa data e che risulta dalla differenza tra attivo e passivo dell’azienda.

Andamento economico = è la variazione della consistenza patrimoniale entro un certo lasso di tempo (dalla
data x ad una data y).

26
Dare rappresentazione numerica degli atti di gestione significa che ogni atto compiuto dall’imprenditore
nell’esercizio della sua attività imprenditoriale ha una sua specifica valorizzazione economica.

Le scritture contabili non solo hanno una specifica disciplina nel c.c. e un impatto dal punto di vista
probatorio, ma stanno anche diventando un elemento sempre più oggetto di attenzione da parte del
legislatore (es. nella disciplina delle procedure di allerta del codice sulla crisi d’impresa: il legislatore
aggancia l’applicazione di un certo istituto giuridico all’analisi di ciò che emerge dalla predisposizione delle
scritture contabili).

Nel c.c. e in particolare nella disciplina delle società di capitali ci sono istituti in cui la tenuta delle scritture
contabili risulta fondamentale. Es. disciplina della riduzione del capitale sociale per perdite: disciplina
contenuta nell’ambito delle regole delle spa e delle srl che impone all’organo amministrativo di verificare se
le perdite sono tali da azzerare o da ridurre significativamente l’importo totale del capitale della società. Le
scritture contabili sono fondamentali perché bisogna individuare il valore delle perdite e capire se e quanto
queste intacca il valore del capitale societario. L’organo amministrativo deve immediatamente convocare
l’assemblea dei soci e laddove mancasse la convocazione l’organo amministrativo ne risponde.

A cosa servono le scritture contabili? Il legislatore nell’imporre l’obbligo all’imprenditore di dotarsi di


adeguate scritture contabili ha perseguito una duplice finalità: la tutela dei terzi e garantire una corretta
gestione dell’attività; questo lo si nota dalla rilevanza anche informativa di questo documento.

Alla rilevanza informativa si aggancia la rilevanza organizzativa: dall’analisi del bilancio di servizio è possibile
capire quali siano gli elementi dell’organizzazione interna in cui intervenire per migliorare, di conseguenza,
la redditività e la solidità del patrimonio imprenditoriale.

Il legislatore si preoccupa anche di contemperare le esigenze dell’imprenditore di garantire una certa


riservatezza delle proprie scritture contabili e la tutela dei terzi; questo è fatto disciplinando per
l’imprenditore di produrre le scritture contabili solo a determinate condizioni di cui all’art, 2711 c.c. (non
sussiste mai un obbligo per l’imprenditore di fornire per intero le informazioni relative alle scritture
contabili se non nei casi di cui all’art. 2711 c.c.).

Gli artt. di riferimento del c.c. strettamente sulle scritture contabili vanno dall’art. 2214 all’art. 2220. Art.
2214 c.c. – quali sono le scritture contabili che deve tenere l’imprenditore e chi sono i soggetti obbligati: le
scritture contabili che devono necessariamente essere tenute dall’imprenditore sono essenzialmente di
due tipologie quelle: libro giornale (art. 2216 c.c.) e il libro inventario (art. 2217 c.c.). Il co. 2 dà una
definizione più generica delle scritture contabili obbligatorie: l’imprenditore deve tenere le ulteriori
scritture richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa e deve conservare la documentazione
commerciale (di supporto) relativa all’esercizio dell’attività (es. fatture di acquisto e di vendita). Il 2214
parla anche dei soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili: co. 1, l’obbligo di tenuta grava solo
sull’imprenditore commerciale; ultimo comma, sono esentati dalla tenuta delle scritture contabili i piccoli
imprenditori -> è un obbligo gravante solo sull’imprenditore medio grande. Rientrano nell’obbligo di
tenuta delle scritture contabili: gli enti pubblici economici (svolge in modo prevalente o esclusiva
un’attività commerciale); gli enti collettivi diversi dalle società nell’esercizio di attività commerciali; le
società commerciali, anche se, in applicazione dell’art. 2083 c.c., potrebbero essere definite come attività
del piccolo imprenditore (in questo caso c’è una disciplina specifica che richiama sempre gli obblighi
imposti dall’art. 2214 c.c. in materia di scritture contabili).

La definizione appena data di scrittura contabile non è l’unica esistente nell’ordinamento, in particolare gli
obblighi di tenuta delle scritture contabili variano a seconda dell’ambito giuridico in cui vengono analizzati.
Es. gli obblighi del c.c. si differenziano dagli obblighi sanciti dalla normativa fiscale, che non prevede
l’obbligo di dotarsi di libro giornale e libro inventario: la normativa fiscale disciplina la c.d. contabilità

27
semplificata per i soggetti per i quali non è previsto l’obbligo di contabilità ordinaria e che abbiano ricavi
annui inferiori a 400.000 euro nell’ambito dell’attività di prestazione di servizi o 700.000 euro se l’attività è
relativa alla vendita di beni. La normativa fiscale non prevale su quella civilistica.

In caso di violazione dell’obbligo di tenuta delle scritture contabili, il legislatore ha previsto specifiche
sanzioni che non entrano in gioco durante la vita dell’attività imprenditoriale quanto più nel momento in
cui dovesse manifestarsi una situazione patologica e si arrivi a procedure concorsuali. Nel corso della vita
imprenditoriale non ci sono specifiche sanzioni amministrative collegate alla non corretta tenuta delle
scritture contabili (non c’è una multa); l’unica eventuale problematica potrebbero averla gli organi
amministrativi delle società in quanto è loro fatto obbligo di predisporre una situazione economica e
patrimoniale annuale e presentarla ai soci che, laddove manchi, fa insorgere una forma di responsabilità in
capo all’organo amministrativo. La normativa fiscale, invece, in caso di non corretta tenuta delle scritture
contabili prevede una sanzione amministrativa (multa da 1.000 a 8.000 euro); altra problematica di natura
fiscale è che, a quel punto, l’amministrazione fiscale può rideterminare essa stessa il reddito fiscale
dell’azienda. Inoltre, in caso di controversia giuridica relativa allo svolgimento dell’attività imprenditoriale si
perde il valore probatorio di cui ex art. 2710 c.c. che ne ammette simile rilevanza solo se le scritture
contabili sono correttamente tenute. La non corretta tenuta delle scritture contabili reclude la possibilità, in
caso di crisi, di accedere a procedure concorsuali diverse dal fallimento (procedure concorsuali minori).
Infine, in caso di non corretta tenuta o mancata tenuta delle scritture contabili sono previsti i reati di
bancarotta documentale semplice e di bancarotta fraudolenta.

Altre norme rilevanti in tema di scritture contabili obbligatorie riguardano l’efficacia probatoria, artt. 2709-
2710 c.c. Art. 2709 c.c.: le scritture contabili fanno sempre prova contro l’imprenditore anche se non
correttamente tenute. Art. 2710 c.c.: l’imprenditore può usare le scritture contabili a suo favore solo
nell’ambito di controversie relative allo svolgimento dell’attività imprenditoriale o solo qualora le scritture
contabili siano correttamente tenute.

Art. 2711 c.c.: disciplina l’obbligo di comunicazione o di esibizione delle scritture contabili (funzione
informativa: esibizione = il giudice della controversi può obbligare l’imprenditore a presentare solo
un’estrapolazione delle scritture contabili attinente alla causa; comunicazione = obbligo che riguarda
l’interezza delle scritture contabili ma solo qualora la controversia sia relativa a 3 ambiti specifici:
scioglimento di società, comunione di beni aventi ad oggetto un’azienda, successione ereditaria avente ad
oggetto un’attività imprenditoriale.

Modalità di tenuta delle scritture contabili: il legislatore individua degli obblighi puntuali e specifici (artt.
2215, 2219 c.c.) che però dal punto di vista pratico hanno perso la loro significatività perché attinenti ad
aspetti meramente formali: es. libro giornale e libro inventario devono essere numerati progressivamente
in ogni pagina e ove previsto bollati; questo onde evitare una successiva modifica del contenuto delle
scritture contabili. Ad oggi, le scritture contabili sono tenute in forma informatizzata è quindi scontato che
non ci siano ad esempio abrasioni, ecc. L’aspetto più interessante relativo alla corretta tenuta delle scritture
contabili è quanto sancito dall’art. 2219 c.c. che stabilisce in modo generico che le scritture contabili
devono essere tenute secondo le regole di un ordinata contabilità (fulcro della corretta tenuta delle
scritture contabili): è un obbligo che fa specifico rinvio al rispetto di regole oggettivamente e
unanimemente considerate come corrette nell’ambito della tenuta delle scritture contabili (principi
contabili nazionali o internazionali). I principi contabili esplicitano come devono essere valorizzati
numericamente nelle scritture contabili gli atti di impresa.

Le scritture contabili devono essere conservate dall’imprenditore per almeno 10 anni.

28
Libro giornale: è un registro cronologico-analitico in cui sono trascritte tutte le operazioni relative
all’esercizio dell’impresa svolte giorno per giorno. Ogni singola operazione che comporta una modifica
economico-patrimoniale dell’azienda deve lasciare traccia nel libro giornale. È fondamentale nell’ambito
delle procedure fallimentari perché consente di verificare una serie di operazioni che nella prassi sono
passibili di “giochetti” da parte dell’imprenditore in difficoltà.

Libro inventari: deve indicare le attività e passività relative all’impresa nonché le attività e passività
dell’imprenditore estranee alla medesima in maniera analitica. Si chiude con il conto patrimoniale e il conto
economico (principi di valutazione previsti per la redazione del bilancio di esercizio delle spa; struttura non
necessariamente uguale).

08.11.2021 – L’AZIENDA

Impresa (comportamento) = esercizio professionale di un’attività economica organizzata al fine della


produzione o dello scambio di beni o servizi (def. ricavata dalla def. di imprenditore, che è colui che svolge
tale attività, il soggetto).

Azienda (oggetto) = complesso di beni (mobili, immobili, fungibili, infungibili, materiali, immateriali)
organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa (art. 2555 c.c.).

C’è azienda non solo quando c’è un insieme di bene ma quando questi vengono messi a sistema, cioè
quando è stata creata un’organizzazione capace di supportare un’attività di impresa. Es. caffetteria senza
macchina del caffè -> c’è un complesso di beni (es. tavoli, tazzine, ecc.) ma non c’è azienda perché l’attività
d’impresa non è esercitabile. Ciò che conta è la potenzialità della possibilità di esercitare un’attività di
impresa, che può essere considerata tale anche in caso di inattività; inoltre, non è detto che l’imprenditore
sia proprietario dei beni ma deve essere nella disponibilità degli stessi (es. locale in affitto) -> può esserci un
proprietario dei muri che non è imprenditore e, per contrario, un imprenditore che non è proprietario
dell’azienda intesa come struttura materiale.

Sotto il profilo economico l’azienda rappresenta un’entità unitaria con valore e funzionalità distinta da
quella dei singoli beni. Diversamente, sotto il profilo giuridico i beni aziendali essenziali e non conservano la
propria autonomia e possono essere oggetti di atti di disposizione separati; l’azienda non è un bene
autonomo ulteriore, cioè l’imprenditore non ha un diritto ulteriore sull’azienda rispetto al fascio di posizioni
giuridiche indipendenti sui diversi beni (teoria atomistica); nondimeno l’azienda in sé e di per sé gode di
una considerazione unitaria.

IL TRASFERIMENTO D’AZIENDA
Ciò che interessa disciplinare al legislatore è l’ipotesi di trasferimento dell’azienda, che vede come causa il
consentire la prosecuzione dell’attività aziendale. È un qualsiasi contratto che abbia ad oggetto l’azienda:
donazione, usufrutto, affitto, compravendita -> il trasferimento d’azienda non è un tipo negoziale ma è un
insieme di regole che si accompagnano a quelle del tipo di contratto prescelto. Dunque, trasferimento di
azienda -> oggetto: azienda o ramo di azienda; -> causa: successione aziendale.

Rispetto al tipo negoziale scelto in concreto dalle parti la disciplina speciale del trasferimento di azienda è
integrativa o derogatoria.

Art. 2556 c.c.: forma e pubblicità del contratto; art. 2557 – divieto di concorrenza dell’alienante; artt. 2558-
9 – successione nei contratti e successione nei crediti; art. 2560 – successione nei debiti.

29
10.11.2021 – Come si attua la cessione d’azienda? L’impresa non può essere ceduta in quanto è un fatto ma
altri possono essere messi nella condizione di esercitare una nuova impresa.

Forma e pubblicità, art. 2556 c.c. – per le imprese soggette a registrazione i contratti aventi ad oggetto il
trasferimento della proprietà o godimento dell’azienda devono essere provati per iscritto.

Obbligo della forma ad probationem = obbligo di documento scritto.

Il difetto della forma ad probationem comporta l’invalidità della prova? La mancanza della forma ad
probationem significa che il contratto non potrà essere provato per testimoni o per presunzione semplice,
salvo deferimento del giuramento (unica altra alternativa per dare prova dell’atto in giudizio, mancando la
forma ad probationem).

Il requisito della prova per iscritto è soddisfatto anche dalla scrittura privata semplice = documento scritto
dalle parti con firma autografa facente prova solo contro i sottoscrittori e non a loro favore. La mail è
ammessa solo se con firma digitale, che il legislatore equipara alla firma autografa. Sul punto si è molto
discusso: in principio soprattutto c’era la tendenza a riconoscere nella mail la mancanza del legame
soggettivo tipico della firma; tuttavia, poi la giurisprudenza ha dato valore al fatto che al termine della mail
si scriva sempre nome e cognome. Non è tanto con l’accesso alla mail che viene creato uno spazio
personale, ma ciò succede quando viene indicato il nome e cognome al suo termine: esiste una norma che
anche le firme elettroniche semplice possono a certe condizioni equivalere alla scrittura.

Il codice parla delle imprese soggette a registrazione -> obbligo alla registrazione in primis per le imprese
commerciali (art. 2195 c.c.).

Il co. 2 prevede che i contratti di cui al co. 1 devono essere depositati entro 30 gg nel registro delle imprese;
l’atto dovrà essere redatto in forma notarile. Questa è una forma di pubblicità (= forma notarile).

Il trasferimento di azienda si fa nei fatti con atto notarile che garantisce tanto la forma per la pubblicità
quanto la forma ad probationem, ma a nulla rileva in termini di validità. Il trasferimento di azienda non ha
una forma specifica per la sua validità ma è un contratto a causa variabile, quindi se il tipo di contratto
scelto per il trasferimento prevede una forma specifica allora ai fini della validità dovrà essere osservata la
forma prescritta.

ATTENZIONE al complesso dei beni dell’azienda: in caso di cessione di una parte dell’azienda quando si è
ancora nella fattispecie del trasferimento di azienda? L’imprenditore può dismettere singoli beni finchè non
hanno autonomia funzionale di per sé. Quando un complesso di beni ha autonomia funzionale si parla di
ramo d’azienda e in caso di cessione questo è disciplinato analogamente al trasferimento d’azienda (è
un’unità funzionale che se separata dal corpo centrale ha comunque una sua “produttività”/vita). In caso di
cessione di tutto ad eccezione di un unico bene si deve fare un’indagine per verificare se quanto ceduto ha
autonomia.

L’imprenditore può decidere liberamente come disporre die beni aziendali.

N.B. = non è detto che l’acquirente (dell’azienda o del ramo d’azienda) eserciti la medesima impresa con ciò
che acquista.

Divieto di concorrenza, art. 2557 c.c. – chi aliena l’azienda deve astenersi per 5 anni dal trasferimento
dall’iniziare una nuova impresa che sia idonea a deviare la clientela dell’azienda ceduta.

Disporre dell’azienda in modo atomistico o unitario incide sulle possibilità dell’imprenditore di


intraprendere una nuova impresa che causa sviamento della clientela. La concorrenzialità si vede nella
capacità di sviare la clientela (es. per ubicazione, oggetto, altre circostanze).

30
Chi compra l’azienda compra tendenzialmente per succedere, non è un trasferimento di massa edilizia;
pertanto, a tutela della finalità di successione dell’acquirente è necessario imporre questo divieto
all’alienante (che, se cosi non fosse, riprenderebbe parte del valore aziendale). Si sanzionano solo le
condotte opportuniste. È un divieto LEGALE di concorrenza.

Questo tipo di divieto è però derogabile dalle parti che potrebbero:

1. rinunziarvi; oppure
2. ridurne la durata nel tempo; oppure, ancora,
3. decidere di precisare che per oggetto si intende una specifica tipologia di attività o che il divieto
riguarda solo la città X.

In peius le parti sono libere di derogare a quanto disposto.

La deroga in positivo, cioè per ampliare i limiti del divieto, non può invece paralizzare in toto l’azione
dell’alienante (non è ammesso l’eccesso smodato, la deroga deve essere moderata), a pena di invalidità
della clausola. Inoltre, la durata di 5 anni non può essere ampliata; non può essere prevista durata
maggiore che, se disposta, è come se non ci fosse e verrà comunque applicato il limite massimo di 5 anni.

La successione nei contratti, artt. 2558-9, 2560 c.c. – come organizzare questa tripletta di norme? Sono
norme di cui tener conto come unicum o sono distinte? Perché, ad es., debiti e crediti vengono disciplinati
separatamente?

Ciò che si tende a dire sulla base delle categorie privatistiche è che quando si parla della cessione di un
rapporto contrattuale le cui prestazione sono inadempiute da entrambe le parti almeno in parte (posizione
sinallagmatiche) allora si applica il 58; altrimenti il 59-60.

17.11.2021 – Artt. 2559-60 c.c. – posizioni isolate.

Art. 2559 – successione nei crediti. La cessione del credito è una fattispecie affrontata dal legislatore
quando ipotizza una cessione volontaria del credito che non richiede il consenso del debitore ceduto, il
quale dovrebbe essere indifferente rispetto alla figura del creditore. I crediti sono liberamente cedibili.
Della cessione del credito ci si preoccupa al più per l’opponibilità a terzi: secondo la regola generale
acciocché anche per il terzo la cessione del credito abbia effetto bisogna notificarla o deve essere accettata.

La notifica al debitore ceduto o l’accettazione di questo previste per l’accettazione nel diritto comune sono
sostituite dall’iscrizione del trasferimento dell’azienda nel r.i. Tuttavia, il debitore ceduto è liberato se paga
in buona fede all’alienante.

Se il cessionario vuole essere certo che il ceduto paghi a lui e non al cedente, è comunque opportuna la
notifica ad personam.

Art. 2560 c.c. – debiti relativi all’azienda ceduta -> l’azienda è ceduta in una situazione debitoria. Questo
art. si preoccupa solo dei rapporti esterni, cioè detta una disciplina che riguarda ciò che può fare il
creditore. Cosa succede se l’imprenditore 1 cede l’azienda al soggetto 2? Regola generale: dei debiti
esistenti al momento del trasferimento risponde solo l’alienante, salvo che il creditore se li accolli.

Co. 2: nel trasferimento dell’azienda commerciale risponde dei debiti anche l’acquirente dell’azienda. Non
si parla della sorte interna del debito ma è stabilito che alla responsabilità dell’alienante si aggiunge la
responsabilità solidale dell’acquirente purchè i debiti risultino dai libri contabili obbligatori (questo è

31
previsto per un equilibrio di esigenze: tutela massima dell’imprenditore e diritto di chi acquista a conoscere
la situazione debitoria, ne deve poter prendere atto).

Questa disciplina si applica ai rapporti esterni: sulla scorta del co. 1 il cedente può essere chiamato a pagare
dopo la cessione per un credito aziendale dal creditore. Ma nei rapporti tra le parti? Una volta che lui abbia
pagato ha diritto di regresso verso l’alienante? È un tema non affrontato dal c.c. quello del peso economico
del credito. L’idea più plausibile è che esista un principio di automatismo: pensando al trasferimento
d’azienda come un complesso di disposizioni idonee a far subentrare altri nella gestione, la dottrina e giuri
ritengono che sia probabile che ciò avvenga anche in caso di debiti e dunque nei rapporti interni, salva
diversa volontà delle parti.

SENTENZA 2560: Anna Maria Verdura gestiva una attività imprenditoriale e fa un conferimento d’azienda
ad una società. Srl vs la curatela del fallimento della società: dopo la cessione la società fallisce e il creditore
ceduto fa causa al fallimento della società cercando il pagamento dei debiti ai sensi del 2560 co. 2 (perché
si rivolge al cessionario). Sentenza in cassazione perché il tribunale aveva respinto la domanda dell’attore
dicendo che non poteva essere accolta perché il debito fatto valere non era iscritto nei registri obbligatori. Il
tribunale dichiara di non aver preso visione dei libri contabili per cui non può ritenere soddisfatti i requisiti
del 2560 e non può nemmeno condannare l’azienda sulla scorta del fatto che al contratto di cessione era
stato allegato un elenco dei debiti. Viene fatto ricorso in cassazione e finalmente l’avvocato dell’attore si
accorge di una cosa importante, cioè del fatto che l’elenco vale come un accollo dei debiti: sostiene l’errore
del tribunale che si è limitato a leggere l’art. 2560. co. 2 quando invece c’è di più, cioè un accollo
contrattuale. La cassazione dice che però dal punto di vista processuale non è stata seguita la formula
corretta -> è stata sbagliata l’azione proposta. La cassazione non può prendere in esame questa diversa
domanda (sull’accollo) ma deve limitarsi alla domanda già posta, cioè a verificare l’erronea applicazione del
2560 co. 2 da parte del giudice: a riguardo dice che il giudice di prime cure ha sbagliato perché in effetti
l’avvocato di parte aveva chiesto l’esibizione dei libri in primo grado ma il giudice su questo non si è
pronunciato (sull’ordine di esibizione). Laddove il giudice avesse esibito il libro contabile, è giusto
ammettere che l’esibizione del libro contabile avrebbe potuto non portare a conclusioni utili ma in questo
caso non si sarebbe potuto concludere univocamente che la cessione (anche) del debito non potesse essere
dedotta aliunde (la cassazione è contraria ad una interpretazione ristretta, formalistica -> sarebbe una
forzatura). La disciplina dettata dal co. 2 va letta e interpretata assecondando la funzione primaria di tutela
ai creditori che hanno fatto riferimento ai beni aziendali, essi seguono i beni aziendali. Es. Tizio
imprenditore con cui si contratta ma Tizio cede la forza produttiva aziendale -> viene meno la garanzia del
credito rappresentato dall’azienda; il creditore ha contrattato con Tizio in quanto imprenditore con alle
spalle l’azienda e non in quanto Tizio. La Cassazione dice che il creditore può seguire le sorti dell’azienda ma
questo deve essere bilanciato con la conoscibilità da parte del cessionario. La conoscenza delle scritture
contabili può essere supplita da altre fonti, cioè aliunde.

BOZZA DI ATTO DI CESSIONE DI RAMO D’AZIENDA con scrittura privata autenticata (testo + firma delle parti
+ autenticazione delle firme, che consiste nella dichiarazione del notaio che le firme sono state apposte in
sua presenza da Tizio e Caio).

Titolo: CESSIONE DI RAMO D’AZIENDA CON PATTO RISERVATO A DOMINIO (vendita a rate e a garanzia del
pagamento del prezzo si stabilisce che la proprietà passerà solo con il pagamento dell’intero prezzo =
compravendita a rate in cui solo al termine del pagamento delle rate si acquisisce la proprietà del bene,
questo funge da garanzia per l’alienante e da incentivo a pagare per l’acquirente). Non è una classica
cessione di azienda: 1) ramo d’azienda 2) disciplina particolare del patto (che pone importanti problemi: es.
che succede se non si finisce di pagare le rate? Qual è la sorte degli eventuali crediti e debiti?).

32
La società x cede alla società y il ramo d’azienda di sua titolarità compresi i beni materiali e immateriali note
dalla parte cessionaria e come risultano dall’inventario; non sono compresi beni immobili, mobili registrati
e marchi (= viene così disegnata l’entità dell’azienda perché la cessione d’azienda non è cessione di tutto
purchè venga salvaguardata l’unità funzionale). Segue l’indicazione del prezzo e della rateizzazione.

Clausole relative a: definizione del campo oggettivo; la forma; specificazione degli artt. 2557-58 ss. c.c. (es.
la parte cedente si impegna a non svolgere attività concorrenti per 5 anni entro un raggio di 2 km).

22.11.2021 – forme di esercizio dell’attività di impresa.

1) L’attività di impresa nella sua accezione più basica è esercitata da una persona fisica, cioè l’imprenditore.
Ma questa forma di esercizio individuale, personale è poco usata;

2) molto più frequente è la forma societaria, in cui l’esercizio dell’impresa avviene tramite una società. Il
diritto societario viene in soccorso per regolare l’esercizio dell’attività di impresa quando l’attività non è
gestita dal singolo come persona ma attraverso il veicolo societario.

Peraltro, oggi come oggi è restrittivo pensare alla società come organizzazione che svolge solo attività di
impresa: la società nasce per svolgere l’attività di impresa ma non è più vero il contrario in quanto è
possibile costituire società anche per NON svolgere attività di impresa: es. società tra professionisti ->
società economica ma non di natura imprenditoriale. Al contempo, è anche vero che dire impresa non vuol
dire per forza società -> associazioni e fondazioni.

Dunque:

 esistono società senza impresa (stp);


 esistono cosietà unipersonali (srl, spa);
 è possibile un’impresa collettiva senza società (fondazioni, associazioni).

Società = modello organizzativo neutro: organismi di diritto privato destinati all’esercizio di attività
genericamente produttive che non sono peraltro (?).

Il diritto societario si occupa di aggiungere alla disciplina dell’attività la disciplina dell’organizzazione, questo
vale nei rapporti interni ed esterni.

PRINCIPI GENERALI - art. 2247 c.c.: con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi
per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili (rubrica dal ’93 in poi:
contratto di società anziché nozione).

In realtà la società può essere costituita anche per volontà unilaterale.

Elementi costitutivi (ricavati dalla norma di cui sopra):

1. La fonte negoziale: c’è sempre alla base un atto di volontà (pluripersonale o unilaterale): quando
pluripersonale la dottrina ritiene che il contratto sia inquadrabile come contratto plurilaterale con
comunione di scopo. Non si tratta di un contratto che deve essere adempiuto ma della disciplina di
una struttura organizzativa e dei modi di esercizio di un’attività.
2. L’oggetto sociale è l’attività economica. Il contratto o atto unilaterale è fatto per l’esercizio in
comune di un’attività economica, cioè produttiva di ricchezza che va oltre il semplice godimento del
bene (distinguere la comunione dalla società, in quanto la prima è un fenomeno statico e ha ad
oggetto la conservazione e il mero godimento del bene e non, come nella società, la destinazione
del bene all’attività produttiva).

33
3. L’esercizio in comune-> Si ha esercizio in comune quando la volontà è quella di adottare un criterio
di imputazione collettivo: beni e atti devono essere a capo della società. La società è un nuovo
soggetto di diritto.
4. Conferimento di beni o servizi: l’apporto a capitale come elemento essenziale del c. di società. Def.:
beni o utilità in genere che i soci destinano in via definitiva all’attività sociale, su essi grava un
vincolo di destinazione. È, in linea di massina, determinato dai privati e per ciò che riguarda l’entità
questa è soggetta solo ad un limite minimo. Creare una società ha un costo pari almeno
all’investimento minimo che varia da società a società.
5. Condivisione degli utili, cioè del guadagno: le società hanno uno scopo egoistico e tale scopo
assume diverse forme: lucrativo, in senso oggettivo e soggettivo; mutualistico, il vantaggio per gli
associati sta nell’intrattenere rapporti con la cooperativa -> condizioni più vantaggiose rispetto a
quelle di mercato; consortile: scopo mutualistico tra imprese.

24.11.2021 – EVOLUZIONE NORMATIVA DELLE SOCIETÀ PER L’ESERCIZIO DELLE ATTIVITÀ PROFESSIONALI

Le società nascono per l’esercizio di attività economiche e non specificamente di impresa. La società ha al
suo interno anche attività che non sono di i9mpresa, le più importanti delle quali sono le attività
professionali -> società professionali che hanno avuto una gestazione molto complessa.

Con la l. 1815/1939 è sancito il divieto di ricorso allo schema societario per le professioni protette. Es.
attività non protetta: social media manager; attività protetta: avvocato, commercialista, architetto (tutti
coloro che devono essere iscritti in specifici albi che dimostrano il possesso di determinate competenze).

Quella delle attività professionali protette è una tematica problematica perché se queste professioni si
fondano sull’accesso ad un determinato albo, cioè sul possesso di requisiti soggettivi come può una società
essere nel possesso di questi ultimi? La società non può essere iscritta ad albo alcuno; inoltre, come
scegliere la persona fisica concreta (A o B) se la società non è né l’uno né l’altro? La società è un soggetto di
diritto a cui viene imputata l’attività che non viene dunque ad esistere in capo ad un soggetto specifico. La
legge del ’39 si fondava su questo scoglio logico.

La legge del 1939 consente la costituzione di studi associati.

Il divieto del ’39 si sgretola con una legge del ’97 sulla concorrenza (n. 266) che abroga il divieto
generalizzato e rinvia ad un regolamento attuativo l’individuazione dei principi e della disciplina delle stp.
Non è mai stato emanato il regolamento ma nel frattempo si sono susseguite delle leggi speciali.

A questo punto, il quadro era peggiorato, meno chiaro.

Nel 2011 è stata approvata una legge sulle stp, n. 183, che oggi apre le porte a stp in qualsiasi settore
regolamentato e apre le porte anche a società multidisciplinari (es. avvocati e notai), cercando di
assecondare l’esigenza di avere servizi integrati. L’esito di questa legge è stato chiaro-scurale, ci si aspettava
di più: non c’è stata una grande corsa alla costituzione di stp perlopiù per motivi fiscali. A livello di
tassazione il modello delle stp non è stato ritenuto conveniente e molti hanno preferito continuare secondo
schemi precedenti, in particolare quello degli studi associati. Inoltre, la legge è intervenuta facendo salve le
precedenti leggi speciali: qual è il rapporto tra la l. 183 e quelle precedenti non abrogate? Anche qualora ci
fosse un intervento in questo senso, resterebbe fermo il problema fiscale.

Le stp possono essere costituite secondo qualsiasi tipo societario, comprese le s. di capitali: è una scelta
discrezionale. La legge stabilisce poi una serie di prescrizioni che rispondono alle domande di cui sopra
(iscrizione all’albo e scelta del professionista): per l’iscrizione all’albo i soci devono essere in prevalenza

34
soggetti abilitati, questo è detto sotto due aspetti: la governance e l’esecuzione della prestazione -> co. 4,
possono assumere la qualifica di stp le società il cui atto costitutivo prevede l’ammissione dei soli soci in
possesso del titolo di studio abilitante per l’esecuzione delle prestazioni; possono partecipare non
professionisti solo per prestazioni tecniche; la designazione del socio professionista (che il solo cui può
essere affidato l’incarico) è a carico dell’utente che deve essere messo nella condizione di poter esprimere
tale preferenza e, laddove non lo faccia, deve essergli comunicato chi eseguirà la prestazione
materialmente. Se il professionista non aggrada il cliente, quest’ultimo può chiederne la sostituzione, cosa
che non si potrebbe fare senza la previsione espressa di cui sopra.

Per le attività professionali riservate la norma di riferimento è la l. del 2011 con le sue integrazioni
regolamentari, altrimenti per le attività professionali “normali” opera il diritto comune.

Tipi di società
Art. 2249 c.c.

Il tipo è un modello. Il legislatore offre all’autonomia privata determinate tipologie di società, cioè dei
modelli. Non possono essere costituite società atipiche. L’autonomia privata ha potere di scelta solo entro
le possibilità ammesse dal legislatore -> tipi TASSATIVI.

L’ordinamento contempla una pluralità di modelli organizzativi societari aventi diversa disciplina dal punto
di vista dell’autonomia patrimoniale (e quindi in termini di responsabilità) e delle regole di organizzazione
interna. Ciascun modello ah proprie caratteristiche ed è autonomamente disciplinato in via cromatica.

Es di tipi: società semplici, società in nome collettivo, le società in accomandita semplice (sono tutte società
di persone); società per azioni, società responsabilità limitata società in accomandita per azioni (sono tutte
società di capitali).

Le società di persone hanno caratteristiche comuni ma poi al loro interno ci sono delle deviazioni basate su
responsabilità e gestone. Analogamente per le società di capitali.

La scelta del tipo societario ex art. 2249 avviene con due limiti (regola generale: libertà di scelta MA con
due limiti):

1. Co. 1, limite generale. Le società che hanno per oggetto l’esercizio di attività commerciali devono
costituirsi con l’esclusione delle società di persone (?). Le società non commerciali hanno a
disposizione l’intero spettro di tipi societari.
2. Co. 3, limite speciale. Sono salve le disposizioni riguardanti le società cooperative e le norme
speciali che prevedono tipi specifici.

All’interno del tipo possono esserci dei sottotipi, quindi non tutte le norme del tipo valgono per tutti i
sottotipi: esistono forme particolari ma sempre ricomprese nei modelli normativamente previsti. Es. stp,
start up. A cosa serve il sottotipo? Parla di sottotipo permette di dire che per tutto ciò che non è disciplinato
nei 12 commi della l. 183 si fa riferimento alle norme del tipo, laddove non espressamente derogate
anziché ragionare per analogia (cosa che succederebbe se si parlasse di tipo non disciplinato).

L’art. 2249 dice una cosa ulteriore: le società che hanno per oggetto l’esercizio di attività non commerciali
sono regolati dalle disposizioni della società semplice a meno che le parti non abbiano scelto diversamente.
Se i soci omettono la scelta, la legge residualmente considera le società non commerciali come società
semplici. Per le società commerciali, invece, il tipo residuale è quello delle snc (società in nome collettivo). -
> Scelta residuale per le c.d. società di fatto.

35
Tema ulteriore: cosa accade se le parti scelgono un tipo ma poi nel contratto pattuiscono opzioni
incompatibili con il tipo? Es. snc, però è pattuito che solo 3 dei soci sono responsabili solidalmente su un
totale di 4 (soci). Ci sono due alternative: scegliere le snc e caducare la clausola per nullità oppure dare
valore alla clausola e riqualificare il tipo societario. La soluzione si diversifica per le società di persone e di
capitali: per le prime si valorizzano le clausole con la riqualificazione, per le seconde prevale il nomen, cioè
si opta per la nullità delle clausole incompatibili (in forza della prevalenza dell’impianto organizzativo).

La tipicità dei modelli non è un vincolo assoluto perché hanno al loro interno una grande elasticità, c’è
spazio per modellare il proprio tipo. Es. possibilità di modifica del contratto sociale con il consenso di tutti i
soci, salvo diversa disposizione. È la legge stessa che demanda all’autonomia privata il potere di deroga
della regola generale.

Soggettività e autonomia patrimoniale


TUTTE le società hanno soggettività giuridica. Ciò significa che l’attività di impresa è imputata alla società:
l’imprenditore è la società, il marchio è della società, è la società che stipula contratti, ecc. il fatto di avere
soggettività fa sì che ogni società abbia un patrimonio, ha una propria capacità patrimoniale con un insieme
di rapporti che fanno capo alla società stessa.

Diversa dalla soggettività è l’autonomia patrimoniale: il patrimonio societario è indipendente rispetto al


patrimonio dei soci? I soci sono chiamati a rispondere delle obbligazioni societarie oppure no? Premesso
che la società ha soggettività giuridica ma premesso anche che la società non è capace di eseguire
materialmente la prestazione, il creditore può chiedere il pagamento al socio? E viceversa (il creditore
particolare del socio può chiedere alla società il pagamento del debito)? La risposta a questo quesito sta nel
tipo: in alcuni tipi l’autonomia è perfetta (società di capitali), nelle società di persone l’autonomia
patrimoniale è imperfetta (posto che tutte hanno una minima autonomia patrimoniale).

Se l’autonomia patrimoniale è perfetta si parla di personalità giuridica: l’ente è soggetto distinto rispetto ai
suoi soci e è un centro di imputazione autonomo. Per le obbligazioni sociali risponde solo la società con il
suo patrimonio. Soggettività è diverso da personalità giuridica. -> TUTTE LE SOCIETÀ HANNO SOGGETTIVITÀ
NON TUTTE PERÒ HANNO PERSONALITÀ GIURIDICA. Solo la personalità giuridica conferisce autonomia
patrimoniale perfetta.

29.11.2021 – SOCIETÀ DI PERSONE


La società è una forma di esercizio dell’impresa che aggiunge il profilo organizzativo (il quale si declina in
modo differente).

Le differenze principali nei diversi tipi di società di persone riguardano la governance e la responsabilità.

Guardando dall’alto le società di persone, si notano tipi estremamente semplificati, meno evoluti rispetto ai
tipi delle società di capitali da cui consegue anche una minore onerosità, un minor costo di gestione. Le
società di persone nascono per piccole iniziative imprenditoriali e proporzionalmente piccole spese.

In tutto ciò c’è un contrappeso: la responsabilità illimitata dei soci (a fronte del poco costo di avvio).

La semplicità di questi tipi si nota nella grande autonomia privata riconosciuta ai soci rispetto ad esigenze
che dovrebbero essere modeste.

36
La responsabilità personale dei soci è significativa in questo modello: se i soci sono personalmente
responsabili, va da sé che è importante identificarli. Esistono una serie di regole, a partire da quella che
riguarda il nome della società, volte a salvaguardare la composizione societaria perché i soci sono l’anima di
questo modello (prevalenza dell’elemento personalistico a scapito di quello capitalistico). Es. nelle società
di persone i soci non sono liberi di trasferire le proprie quote a chi vogliono. Nelle società di persone viene
valorizzato l’apporto di ciascun socio perché hanno una struttura minimal (es. non esiste un organo di
controllo, non esiste un’assemblea dei soci). Nelle società di persone tutto viene svolto dai soci in quanto
tali.

Caratteristiche: flessibilità, autonomia patrimoniale imperfetta, centralità della figura del socio (intuitus
personae).

Al loro interno le società di persone si distinguono ulteriormente: ss, snc, sas. All’interno di ogni singola
famiglia c’è un crescendo che avvicina alle società di capitali (dal più semplice e imperfetto al più complesso
e perfetto).

Art. 2291 c.c. – ss.

Tutte le attività commerciali (che rappresentano la norma), se sono società di persone, adottano la forma
snc (è a loro precluso il modello delle ss). Snc = modello delle società di persone di riferimento, più
rappresentativo.

SNC - l’atto costitutivo


Art. 2295-6 c.c. – deve essere pubblicato nel registro delle imprese dove ha sede la società e per essere
iscritto deve avere una certa forma (richiamo: trasferimento d’azienda), cioè l’atto notarile (forma per la
pubblicità e non per la validità). La forma ad validitatem rinasce per necessità dell’atto di conferimento. ->
regola generale: forma libera, salve le regole che disciplinano i singoli conferimenti.

In caso di mancato rispetto della forma per la pubblicazione, cioè finchè la società non è iscritta nel registro
delle imprese, la società esiste (perché l’atto è valido) ma verrà assoggettata alla disciplina delle società
semplici in tema di responsabilità patrimoniale (< autonomia patrimoniale); sarà più esposta alle pretese
dei creditori (legittimati a non sapere che si voleva costituire una snc). = snc IRREGOLARE: snc con atto
costitutivo valido ma non pubblicizzato (vizio pubblicitario).

È anche possibile che la mancata iscrizione non sia dipesa da negligenza del notaio o dei soci ma sia dovuta
a monte dall’assenza di contratto sociale redatto dalle parti. La snc può anche nascere per fatti concludenti
(il contratto sociale è concluso tacitamente = società DI FATTO). Questo vale anche per le ss; nelle sas
invece bisogna distinguere chi è responsabile illimitatamente e chi no quindi è necessario una atto scritto; è
certamente impossibile nelle società di capitali che si costituisce con l’iscrizione nel registro delle imprese,
non si può parlare di società di capitali irregolare di fatto (lo stesso vale per le srl). Società di fatto è una
società irregolare. Per sanare l’irregolarità in termini pratici se c’è scrittura senza pubblicità è sufficiente la
verifica delle firme e chiedere l’iscrizione, se non c’è scrittura si deve ricorrere al giudice che accerti che i
comportamenti dei soci sono stati tali da manifestare la volontà degli stessi di costituire una società (poi
procedere all’iscrizione dell’atto).

Partecipanti all’atto costitutivo: soggetti diversi da una persona fisica. Le società possono essere socie di
altre società, non vi sono limiti all’incrocio. Anche una spa può essere socie di una snc previa
autorizzazione dell’assemblea, non c’è incompatibilità logica o tipologica. Le società di persone, in
particolare le snc, possono essere composte da persone fisiche, giuridiche e/o enti.

37
Nelle società di persone devono esserci almeno 2 soci, non esistono società di persone unipersonali
(qualunque sia il tipo). Se viene meno uno dei soci, il sistema dà diritto per 6 mesi di continuare l’attività
singolarmente (se i soci erano 2 in totale) ma se dopo detto termine non subentra un nuovo socio la società
si scioglie.

I conferimenti
I conferimenti nelle società di persone possono consistere in qualunque tipo di apporto, tutto ciò che è
suscettibile di valutazione economica è conferibile: es. marchi, brevetti, beni mobili/immobili, obblighi di
non concorrenza (nelle società di capitali e in particolare spa non sono accettati i conferimenti d’opera).
Perché questa libertà nel conferimento? In questa fase c’è poca preoccupazione verso i terzi, posto che a
valle gioca la responsabilità dei soci. Non c’è limite minimo di capitare per costituire una società di persone
né un limite alle entità conferibili -> contrappeso: la responsabilità personale dei soci. Dove c’è autonomia
patrimoniale perfetta e quindi responsabilità limitata a ciò che c’è in pancia della società deve esserci
corrispondenza tra ciò che ci si aspetta di trovare e ciò che concretamente viene trovato, a tutela dei
creditori.

Profili patrimoniali
I diritti dei soci (possono essere amministrativi: es. voto e/o patrimoniali). Quando la società ha un utile (ha
maturato un risultato positivo), l’art. 2262 dice: salvo patto contrario (flessibilità), ciascun (TUTTI) socio ha
diritto a percepire la propria parte di utili dopo l’approvazione del rendiconto, cioè una sorta di mini-
bilancio (documento contabile dell’esercizio sociale). Questa regola fa capire che esiste un diritto
individuale alla distribuzione degli utili.

Es. snc che produce mascherine. Anno 2020 grande profitto: dal rendiconto risulta un utile di 1 milione. 4
soci -> 250 mila a testa. A rendiconto approvato, si reinveste o si liquida?

Il 2262 parlando di “ciascun socio” dice che ciascuno ha diritto alla sua parte, la maggioranza non può
disporre un utilizzo degli utili sovrastando la volontà individuale del singolo (nelle società di capitali decide
l’assemblea).

Come si determinano le porzioni? Art. 2263: l’autonomia privata decide la ripartizione degli utili nel
contratto sociale, in generale deve essere una decisione contrattuale in assenza della quale opera la regola
suppletiva o integrativa si cui ex art. 2263 per cui gli utili vengono attribuiti proporzionalmente ai
conferimenti (> rischio -> > guadagno). La medesima regola integrativa, in assenza di diversa pattuizione,
opera anche con riguardo alle perdite. Se la consistenza dei conferimenti non è determinata, le parti
spettanti ai soci si presumono uguali. Sono disposizioni derogabili fino al punto del c.d. patto leonino, 2265:
è nullo il patto con cui uno o più soci sono esclusi da OGNI partecipazione agli utili o alle perdite.

Autonomia patrimoniale: le snc si caratterizzano per avere autonomia patrimoniale imperfetta.

1) Il creditore particolare finché dura la società non può chiedere la liquidazione della quota del socio
debitore; può solo aggredire gli utili e compiere atti conservativi sulla quota del socio loro debitore. In vita
della società c’è autonomia, però se la società si scioglie per scadenza del termine il creditore particolare ha
diritto a vedersi assegnata la quota di liquidazione che dipende dall’atto costitutivo, se non vi è stato messo
nulla è proporzionale agli utili.

38
2) Creditori sociali -> onere di preventiva escussione. Se il patrimonio è insufficiente possono aggredire il
patrimonio individuale di tutti i soci -> vedi dopo.

01.12.2021 - Profili patrimoniali, i creditori sociali (continuazione).

La responsabilità dei soci di snc per le obbligazioni sociali: art. 2291 - nelle snc tutti i soci rispondono
illimitatamente e solidalmente per le obbligazioni sociali: significa che delle obbligazioni sociali risponde
certamente la snc in qualità di debitore ma questa norma aggiunge un qualche cosa, cioè il fatto che
assieme alla società rispondono anche tutti i soci.

Illimitatamente = con tutto il patrimonio presente e futuro. DOMANDA PER CASA: che senso ha la porzione
di responsabilità nelle perdite se poi ciascuno è responsabile illimitatamente?

Solidalmente = ciascuno è responsabile per l’intero e quanto dato da UN socio libera TUTTI gli altri. Il
creditore societario chiede a ciascun socio l’intero che se pagato (come dovuto) il pagamento di uno solo di
essi libera tutti gli altri.

I soci sono tutti sullo stesso piano? I soci TRA LORO sono sempre sullo stesso piano ma la società rispetto ai
soci no: deve esserci prima l’escussione patrimoniale della società e solo se il creditore societario non è
ancora soddisfatto allora potrà rivolgersi ai soci (art. 2304 – i creditori sociali, anche se la società è in
liquidazione, non possono pretendere il pagamento dai singoli soci se non dopo l’escussione del patrimonio
sociale) -> quella dei soci verso i creditori sociali è una responsabilità normalmente sussidiaria.

In realtà il regime è un po’ diverso per le ss:

 art. 2267 – i creditori delle società semplici possono far valere i propri diritti sul patrimonio sociale
(come nelle snc); per le obbligazioni sociali rispondono illimitatamente e solidalmente i soci che
hanno agito in nome e per conto della società, salvo patto contrario anche gli altri soci. Differenza
anomala rispetto all’idea per cui autonomia patrimoniale più perfetta nelle snc rispetto alle ss.
 ALTRA DIFFERENZA: art. 2268: il socio richiesto dei debiti sociali può chiedere la preventiva
escussione del patrimonio sociale indicando su quali beni il creditore più soddisfarsi.
-> snc: il creditore escute patrimonio sociale poi si rivolge ai soci; ss: il socio è sullo stesso piano
della società e sta al creditore decidere se attaccare prima il socio o la società, restando ammessa la
richiesta espressa del socio eventualmente preferito per il soddisfacimento del credito di
preventiva escussione del patrimonio sociale: è il debitore che deve dimostrare la capienza del
patrimonio sociale che, in ogni caso, se si ritiene non soddisfacente consente la soddisfazione sul
patrimonio del socio, senza aggredire in modo infruttuoso il patrimonio sociale.
-> I soci che hanno agito in nome e per conto della ss NON possono essere esclusi in nessun modo
dalla responsabilità per le obbligazioni sociali; gli altri possono essere esonerati purchè questo
venga portato a conoscenza dei terzi (le due condizioni affinchè l’esclusione operi: 1) la persona
non deve avere agito in nome e per conto della società, non deve aver assunto il debito; 2)
l’esclusione deve essere resa opponibile al creditore, pubblicità dichiarativa con mezzi idonei).

Regime ancora diverso per le sas: nelle sas, per legge, gli accomandanti rispondono solo entro i limiti della
loro quota, cioè del conferimento (= ciò che si può fare nelle ss con un patto contrario alla regola generale
portato a conoscenza dei terzi). Gli accomandanti non possono agire per nome e per conto della società e il
limite della loro responsabilità, a differenza che nelle ss, è LEGALE e non d’origine pattizia.

Il regime dell’autonomia patrimoniale riflette l’importanza della figura del socio nelle società di persone,
l’importanza che i soci si possano reciprocamente identificare.

39
Profili organizzativi:
1. Chi decide l’atto da compiere tra tanti possibili (es. assunzione, acquisto dei beni, ecc.)? E
come decide (qual è la regola di formazione del consenso)? = titolarità e modalità di
esercizio del potere.
2. Chi ha il potere di firma e rappresenta la società verso l’esterno, cioè verso i terzi? E come
riporta verso l’esterno questo consenso? = potere di rappresentanza.

La prima cosa da fare quando si contratta con la società è capire se il soggetto con cui si contratta è
legittimato a compiere l’atto, cioè ad obbligare la società -> inannzitutto visura del r.i.

1) TITOLARITÀ DEL POTERE (modello legale): 2257 - la gestione dell’impresa spetta agli amministratori;
salvo diversa pattuizione, l’amministrazione della società spetta a ciascuno dei soci.

MODALITÀ DI ESERCIZIO: potere di gestione spetta agli amministratori (cioè tutti i soci salvo patto
contrario) disgiuntamente, ciascuno è titolare di potere pieno. Questo è però accompagnato da un
correttivo: è fatto diritto di opposizione agli altri soci amministratori purchè sia preventivo. La maggioranza
dei soci (determinata secondo la parte di ciascuno negli utili) deciderà dell’opposizione (la situazione si
sblocca solo dopo la decisione di TUTTI i soci, non solo i soci amministratori).

Il modello legale ammette delle deroghe (tutto è disposto salvo patti contrario). Es.: art. 2258 –
amministrazione congiuntiva di regola all’unanimità (salvo atti urgenti per evitare danni alla società,
l’amministrazione congiuntiva “rallenta la macchina”) oppure lo statuto può prevedere l’amministrazione
congiuntiva a maggioranza per utili; si può adottare l’uno o l’altro modello di amministrazione in funzione
del tipo di operazione/atto o, ancora, optare per un amministratore unico. -> la derogabilità riflette
l’elasticità tipica delle società di persone.; l’art. 2257 a volte parla di soci, altre volte di soci amministratori
perché la legge dice che tutti sono soci amministratori ma sono ammesse deroghe, l’amministrazione può
essere limitata a solo tot. soci. La derogabilità può riguardare sia la titolarità sia la modalità di esercizio.

2) POTERE DI RAPPRESENTANZA: art. 2266 – in mancanza di diversa disposizione del contratto la


rappresentanza spetta a tutti i soci amministratori e si estende a tutti gli atti rientranti nell’oggetto sociale -
> modello legale speculare tra amministrazione e rappresentanza.

Nomina e revoca degli amministratori: ex art. 2252 se l’amministratore è stato nominato con il
contratto sociale la revoca non ha effetti se non ricorre la giusta causa. Questo comporta una
modifica del contratto sociale ed è dunque richiesta l’unanimità.
Se l’amministratore è stato nominato con atto separato allora sarà revocabile secondo le norme
del mandato (non c’è bisogno della modifica dell’atto costitutivo e sarà possibile la revoca anche
senza giusta causa, l’atto sarà comunque efficace). È sufficiente il consenso della maggioranza.
Oltre che per volontà dei soci, l’amministratore in qualsiasi modo nominato può essere rimosso
per giusta causa per decisione dell’autorità giudiziaria (revoca giudiziale, art. 2259).
Obblighi e responsabilità degli amministratori:
 POTERI -> gli amministratori compiono atti di ordinaria e straordinaria amministrazione che
rientrano nell’oggetto sociale.
 DOVERI -> gli amministratori devono sottostare agli obblighi imposti dalla legge e dal contratto
sociale, tra cui il dovere generale di gestire la società con diligenza del mandatario (2260) e di
vigilare sull’operato altrui; sono obbligati a tenere le scritture contabili e redigere il bilancio; sono
tenuti a curare l’iscrizione nel r.i. dell’atto costitutivo. Se non adempiono ai loro doveri, gli

40
amministratori sono responsabili verso la società solidalmente, salvo dimostrazione di essere
esente.

I soci NON amministratori: i soci che non partecipano all’amministrazione hanno diritto ad avere notizia
dagli amministratori circa la gestione della società (…).

13.12.2021 – Le società di persone hanno un livello di organizzazione molto basico/primordiale, tant’è che
per legge i soci sono anche amministratori: nel modello legale la distinzione tra le due figure è evanescente
ma lo stesso modello legale è ampiamente derogabile.

Le decisioni dei soci - cosa fanno i soci in quanto tali? Che poteri hanno?
I soci hanno una serie di poteri in senso lato gestori, cioè per esempio decidono sull’opposizione, hanno
diritto di approvare il rendiconto (quindi esercitano un controllo sull’attività amministrativa).

I soci hanno soprattutto poteri organizzativi, cioè il potere non di realizzare l’impresa sociale ma di decidere
dell’organizzazione a cui l’impresa fa capo; questo è il loro fulcro di competenza, cioè la società. Gli
amministratori si occupano dell’impresa (hanno la gestione), la società come soggetto è di competenza dei
soci in quanto tali.

Articolo di riferimento: art. 2252 c.c. -> il contratto sociale può essere modificato solo con il consenso di
tutti i soci se non è convenuto diversamente. Si deduce che: 1) le decisioni che impattano sulla struttura
organizzativa spettano i soci in quanto tali e 2) queste decisioni devono essere prese all’unanimità (froma di
inclusione di tutte le volontà), salvo diversa disposizione (elasticità). Nelle società di capitali le decisioni
organizzative vengono prese a maggioranza (< valorizzazione dell’individualità).

Dunque: i soci hanno competenza gestoria indiretta (maggioranza per utili) e competenza primaria per le
decisioni di tipo organizzativo (unanimità).

Quando non c’è una chiara specificazione legale sul parametro di maggioranza per decidere bisogna
interrogarsi sul tipo di attività: attività gestoria -> indice ex art. 2257 c.c.; attività organizzativa-> art. 2252
c.c. il contesto delle società di persone la disciplina è estremamente minima, al punto che lascia molti
aspetti scoperti: se è vero che la costituzione di una società di persone è atto molto semplice, è anche vero
che la legge non detta molti principi e quindi è molto opportuno che il notaio colmi queste lacune (rischio:
incertezza).

Il tema delle decisioni dei soci è uno degli aspetti in cui per le società di capitali esiste una disciplina molto
più dettagliata e cogente.

Il procedimento decisionale – circa il procedimento decisionale non c’è indicazione normativa:la dottrina è
divisa sul punto.

 Parte della dottrina ritiene che le decisioni possano essere assunte al di fuori di un’assemblea
regolarmente convocata (es. con un giro di mail o con un registro in cui i soci possono firmare);
 altri invece sostengono il modello collegiale in cui tutti sono invitati a partecipare e a dibattere
prima del voto (sostengono che la collegialità è in re ipsa) -> si ritiene che anche l’assunzione delle
decisioni dei soci e degli amministratori di snc debba seguire il procedimento collegiale:
convocazione, riunione, discussione, votazione e verbalizzazione.

41
Tra queste due posizioni ce ne è una terza che rifiuta l’idea della collegialità ma promuove il coinvolgimento
di tutti, tutti i soci devono essere almeno interpellati in qualche modo. Questa teoria cerca di mediare tra le
due precedenti.

In giurisprudenza non è chiara la posizione dominante sul tema che non è particolarmente battuto.
Normalmente resta l’idea del procedimento collegiale che si afferma per via pattizia, in mancanza di
accordo nell’atto costitutivo resta un’ipotesi residuale.

Tema più vivace è l’invalidità delle decisioni dei soci: il legislatore tace sulla questione, ne fa solo un breve
cenno nel 2287 parlando dell’esclusione del socio (che può appellarsi all’autorità giudiziaria per far valere
l’ingiustizia della decisione) -> la legge contempla l’impugnazione solo della delibera di esclusione. Il tema è
invece dettagliato nelle società di capitali. Qual è il regime di invalidità delle decisioni dei soci?

Sul tema o ci si rifà alla disciplina delle società di capitali o ci si deve riportare sul piano contrattuale e
quindi guardare alle norme che disciplinano non tanto l’invalidità dei voti ma quelle che disciplinano
l’invalidità dei consensi (secondo la professoressa i due temi sono da tenere assieme).

Modifiche del contratto sociale:

Si distinguono modifiche oggettive e soggettive. Le prime sono di competenza dei soci all’unanimità
secondo la regola del 2252. La modifica soggettiva più importante è l’ingresso di un nuovo socio: in questo
caso è richiesto il consenso di tutti i soci, cioè quando un socio di snc vuole cedere la sua quota ad un altro
non è sufficiente un accordo tra le parti ma serve il consenso di tutti i soci perché la decisione impatta
anche su questi ultimi. I consensi non hanno tutti lo stesso valore: si distingue tra accordo tra le parti
(fondamentali per il contratto di cessione -> consenso che vale ai fini della validità del contratto), ma
affinchè il contratto sia opponibile alla società è richiesto il consenso degli altri soci (consenso che vale
come condizione sospensiva degli effetti del contratto nei confronti della società).

Però il 2252 lascia anche spazio per una diversa pattuizione: es. per le modifiche del contratto sociale è
sufficiente la maggioranza dei soci calcolata per teste o per quote di capitale o per quote di utili (= clausola
di arbitraggio ma solo per determinate decisioni).

In realtà, nel codice si trovano anche casi in cui la legge eccezionalmente rinuncia alla regola generale
dell’unanimità prevedendo un criterio maggioritario. Il caso più interessante riguarda la trasformazione ex
art. 2500 ter: è una delle poche norme in cui il codice parla espressamente di società di persone e deroga al
2252. Salvo diversa disposizione nel contratto sociale la trasformazione di società di persone in società di
capitali è decisa con il consenso della maggioranza dei soci determinata secondo la parte attribuita a
ciascuno negli utili (= modifica del tipo, scelta organizzativa con impatto sull’atto costitutivo). Il legislatore
voleva favorire il passaggio verso tipi di società più evoluti. La coesione data dall’unanimità viene
recuperata a valle con il riconoscimento del recesso (inversione della regola del 2252 in cui ciascun socio
deve dare il consenso sennò blocca la decisione, nel 2500 ter non si blocca la decisione ma il socio al più
può “uscire” dalla società).

Le modificazioni soggettive – le società di persone si caratterizzano per il vincolo fiduciario ma l’intuitus


personae è elemento solo naturale del c. sociale. I soci possono sostituire unanimità con regola
maggioritaria.

Di tutte le modifiche soggettive deve essere data pubblicità nel r.i. (2290).

42
Distinzione tra: trasferimento inter vivos e trasferimento mortis causa -> successione della quota: la quota
non si estingue ma c’è un subentro.

Recesso (volontà del singolo di interrompere il rapporto sociale), esclusione (un socio viene mandato via
per volontà degli altri soci) e morte danno origine all’estinzione della quota; sono cause di scioglimento del
singolo rapporto (non sono causa di scioglimento della società). Questi sono eventi che di per sé non
inficiano la prosecuzione della società se la partecipazione non era essenziale. Devono essere pubblicizzati
nel r.i. per l’opponibilità nelle sas e nelle snc; nelle società irregolari non sono eventi opponibili salvo che la
società ne provi la conoscenza da parte del terzo. Nei casi suddetti nasce l’obbligo per la società di liquidare
la quota rispetto al valore dell’intero patrimonio sociale al giorno dello scioglimento (attesa di 6 mesi per la
liquidazione). Ne consegue che l’interruzione dei rapporti sociali non si ha immediatamente. Inoltre: per il
socio escluso permane la responsabilità illimitata per le obbligazioni anteriori allo scioglimento del singolo
rapporto (art. 2290 c.c.) e per 1 anno permane altresì il rischio di essere dichiarato fallito.

15.12.2021 – Morte del socio, art. 2284

Cosa accade in caso di morte di un soggetto nel cui patrimonio c’è una quota societaria? Le quote societarie
sono trasmissibili o meno? -> il subentro automatico degli eredi nelle posizioni del decuius è possibile solo
in caso di beni trasmissibili. Il c.c. prevede che non c’è libera trasferibilità delle quote mortis causa perché il
rapporto societario è personale e non transita con la morte (art. 2284). -> non c’è subentro ma c’è
liquidazione.

Regime legale (= si verifica in assenza di diversa pattuizione): lo scioglimento della singola partecipazione
deve essere liquidata agli eredi, a meno che entro sei mesi non intervenga:

1. una decisione unanime dei soci superstiti di sciogliere anticipatamente la società; oppure
2. una decisione unanime dei soci superstiti di continuare l’attività con gli eredi. A tal fine occorre
consenso unanime anche degli eredi (quota in comunione). In caso di pluralità di eredi, se l’atto
costitutivo non lo prevede, non pare possibile (ma è discusso) liquidare la parte di quelli che non
intendono entrare a far parte del contratto sociale.

DUNQUE: la legge offre delle alternative alla liquidazione della quota agli eredi:

 la possibilità di prevedere a monte, ora per allora, un diverso regime -> diversa pattuizione rispetto
al regime legale;
 la possibilità, di fronte all’evento morte, ora per ora, di decidere diversamente.

In caso di scioglimento anticipato della società (1) il diritto degli eredi alla liquidazione è congelato. In
questo caso la valutazione è complessiva a seguito della quale ciascuno prende la propria porzione (=
sistematizzazione di tutti i rapporti congiuntamente).

Per la partecipazione dell’accomodante, invece, è prevista la libera trasferibilità mortis causa della quota
come nel caso del socio di srl e spa.

Il legislatore dopo aver previsto la soluzione naturale con le due in subordine e facoltative, prevede anche
una contraria disposizione del contratto sociale = regime convenzionale: clausole di consolidazione, che
dispongono l’accrescimento della quota dei soci superstiti; clausole di continuazione (vedi dopo).

È dunque possibile che i soci disciplinino preventivamente il trattamento da riservare in caso di morte di
uno dei soci: possono essere precluse ai soci una diversa sistematizzazione oppure, al contrario, si potrebbe

43
scegliere ora per allora una delle due alternative oppure, ancora, si potrebbe trovare una soluzione nuova
da quelle individuate dal codice (es. libera trasferibilità).

La clausola di subentro o continuazione pone un problema: la responsabilità. La soluzione che si è delineata


in giurisprudenza è quella di dire che l’atto costitutivo può prevedere clausole di continuazione solo
facoltative o obbligatorie: può prevedere l’obbligo dei soci di continuare con l’erede (la facoltatività per
l’erede di continuare) oppure l’obbligo per l’erede di continuare (e se non lo fa deve risarcire il danno).

NB: è importante tenere ferma la graduatoria dei rimedi: 1) regime legale; 2) forme di personalizzazione.

ATTENZIONE: quando muore il socio c’è scioglimento della partecipazione sociale che però riflette una
porzione del capitale sociale: es. società di 3 soci, capitale 3 mila euro. Muore Tizio e il rapporto con il
singolo socio si scioglie, con estinzione della quota dello stesso. Il capitale di riduce a 2000 per la sparizione
della quota di Tizio. Altra cosa è invece quello che accade introducendo clausole di consolidazione:
accettano che la quota accresce restando invariato il capitale (1500 e 1500 per i soci superstiti).

Recesso, art. 2285


Il recesso (come l’esclusione) è un atto volontario, legato ad un negozio giuridico. Quando si riconosce
questo diritto? Pone un problema di cause.

Presupposti:

1. il socio può recedere ad nutum (cioè in qualsiasi momento senza motivazione o giusta causa) se la
società è contratta a tempo indeterminato o per tutta la vita di un socio o in caso di proroga
tacita/assenza di termine.
2. Se la società è contratta a tempo determinato, il socio può recedere se ricorre una giusta causa, se
ricorre un’altra causa prevista dal contratto sociale, in ipotesi di trasformazione, fusione, scissione
SE DISSENZIENTE.

Esclusione, art. 2286


Volontà di tanti vs volontà di uno.

Esclusione di diritto, automatica: dichiarazione di fallimento del socio e avvenuta liquidazione della quota
su richiesta del creditore particolare del socio (art. 2288).

Esclusione facoltativa: può avere luogo per gravi inadempienze delle obbligazioni derivanti dalla legge o da
contratto sociale, interdizione, inabilitazione o la condanna che comporti interdizione da pubblici uffici,
sopravvenuta impossibilità del conferimento o altre specifiche cause statutarie. Artt. 2286-7.

L’esclusione facoltativa è decisa a maggioranze per teste senza tener conto del voto del socio da escludere.
In presenza di società con soli due soci l’esclusione è pronunciata dal tribunale con sentenza su richiesta
dell’altro.

L’esclusione determina propri effetti decorsi 30 gg dalla comunicazione al socio escluso che in questo
termine può fare opposizione con ricorso al tribunale.

Nel termine di 6 mesi la società deve provvedere a liquidare in denaro la quota del socio, salvo diversa
pattuizione. In questo stesso termine i soci superstiti hanno la facoltà di optare per una soluzione diversa
dallo scioglimento del singolo rapporto, potendo decidere di sciogliere anticipatamente la società (con

44
modifica statutaria). Il diritto alla liquidazione si converte in diritto alla quota di liquidazione. La società si
scioglie anche nel caso in cui lo scioglimento del singolo rapporto determini la sopravvenuta unipersonalità
della società e nel termine di 6 mesi non si ricostituisca la pluralità dei soci.

20.12.2021 – SCIOGLIMENTO ED ESTIZIONE DELLA SOCIETà

Le società di persone non nascono per effetto di una formalità specifica che è necessaria solo per la
regolarità.

Quando si scioglie una società? Per quali ragioni?

1. Per decorso del termine stabilito nel contratto sociale, salvo proroga espressa o tacita -> art. 2273
c.c. – proroga tacita (l’equivalente della costituzione della società per fatti concludenti ma sul piano
dello scioglimento): si ha quando i soci continuano ad esercitare l’attività oltre il termine stabilito e
trasforma la società da tempo determinato a tempo indeterminato (aspetto rilevante ad esempio
per il recesso o per le questioni relative ai creditori particolari);
2. Per conseguimento dell’oggetto sociale o sopravvenuta impossibilità di conseguirlo oggettiva o
soggettiva (ipotesi rara perché l’oggetto sociale è tendenzialmente definito in modo molto ampio);
3. Per volontà dei soci di attuare scioglimento anticipato -> qui il legislatore ribadisce il principio
unanimistico;
4. Per sopravvenuta mancanza della pluralità dei soci se non ricostituita entro il termine di sei mesi
(nelle sas è sufficiente il venir meno di una delle due categorie di soci);
5. Per ulteriori cause previste dal contratto sociale;
6. Per fallimento nel caso di società con oggetto commerciale.

Scioglimento: implica l’avvio della fase di liquidazione, comporta un cambiamento dell’oggetto sociale. Lo
scopo della società in scioglimento non sarà più l’attività immobiliare, la consulenza o altro ma ha lo scopo
della liquidazione (= fare le porzioni). Nella fase di scioglimento la società può ancora intrattenere rapporti
(magari coadiuvata da un consulente) o stipulare accordi transattivi per la risoluzione delle controversie,
ecc. Questa è una fase prodromica all’estinzione. L’apertura della fase di liquidazione è automatica e
l’attività sociale non è più volta alla produzione di utili ma alla conservazione del patrimonio e al pagamento
dei creditori sociali.

Estinzione: è il venir meno del soggetto società e segue lo scioglimento.

2274 c.c.: avvenuto lo scioglimento, i soci amministratori conservano potere amministrativo per affari
urgenti finchè non vengano prese le decisioni fondamentali per la liquidazione.

2275 c.c. – se il contratto non prevede come liquidare il patrimonio sociale e i soci non sono d’accordo, la
liquidazione è in mano ai liquidatori nominati dai soci all’unanimità (se non sono d’accordo verranno
nominati dal presidente del tribunale) -> la nomina dei liquidatori e la determinazione dei criteri di
liquidazione è rimessa salvo deroghe ad una decisione unanime dei soci.

2277 c.c. – devono consegnare ai liquidatori i beni e i documenti sociali e presentare ad essi il conto della
gestione relativo al periodo successivo all'ultimo rendiconto. liquidatori devono prendere in consegna i
beni e i documenti sociali, e redigere, insieme con gli amministratori, l’inventario dal quale risulti lo stato
attivo e passivo del patrimonio sociale. L'inventario deve essere sottoscritto dagli amministratori e dai
liquidatori.

45
L’inventario è un inventario dei rapporti complessivi facenti capo alla società, non solamente inventario dei
beni.

Riassumendo - DOVERI DELL’AMMINISTRATORE AL VERIFICARSI DI UNA CAUSA DI SCIOGLIMENTO:

 Iscrivere nel r.i. l’intervenuta causa di scioglimento e la nomina dei liquidatori e per le società di
capitali indicare negli atti e nella corrispondenza lo stato della società;
 Atti urgenti, con divieto di nuove operazioni;
 Presentare il rendiconto delle operazioni relative al periodo successivo all’ultimo bilancio e
collaborare alla redazione dell’inventario.

2278 c.c. – poteri dei liquidatori: liquidatori possono compiere gli atti necessari per la liquidazione e, se i
soci non hanno disposto diversamente, possono vendere anche in blocco i beni sociali e fare transazioni e
compromessi.

2279 c.c. – i liquidatori non possono intraprendere nuove operazioni (queste non avrebbero finalità
liquidativa).

2280 c.c. - I liquidatori non possono ripartire tra i soci, neppure parzialmente, i beni sociali, finché non siano
pagati i creditori della società o non siano accantonate le somme necessarie per pagarli.

Se i fondi disponibili sono insufficienti per i debiti sociali i liquidatori possono chiedere ai soci i versamenti
ancora dovuti sulle rispettive quote e, se occorre, le somme necessarie nei limiti della rispettiva
responsabilità e in proporzione della parte di ciascuno nelle perdite. Nella stessa proporzione si ripartisce
tra i soci il debito del socio insolvente (questo in virtù della responsabilità illimitata e solidale tipica delle
società di persone.

2282 c.c. - Estinti i debiti sociali, l'attivo residuo è destinato al rimborso dei conferimenti. L'eventuale
eccedenza è ripartita tra i soci in proporzione della parte di ciascuno nei guadagni

L'ammontare dei conferimenti non aventi per oggetto somme di danaro è determinato secondo la
valutazione che ne è stata fatta nel contratto o, in mancanza, secondo il valore che essi avevano nel
momento in cui furono eseguiti.

2283 c.c. – Se è convenuto che la ripartizione dei beni sia fatta in natura, si applicano le disposizioni sulla
divisione delle cose comuni

Norma importante per quello che non dice: si deduce che normalmente la ripartizione dell’attivo si fa in
denaro che vale per ogni componente del diritto alla liquidazione, anche per i conferimenti. Es. se Tizio ha
conferito un immobile, in scioglimento non riprenderà un immobile ma perde la disponibilità del bene che
entra nel patrimonio della società e poi verrà liquidato in denaro. Questo a meno che i soci non siano TUTTI
d’accordo per una liquidazione in natura.

Riassumendo - I LIQUIDATORI:

 Obblighi:
1. redazione dell’inventario;
2. liquidazione della società vendendo i beni e riscuotendo crediti per pagare i creditori
sociali;
3. chiedere ai soci i versamenti ancora dovuti e occorrendo anche somme ulteriori necessarie
in proporzione alla partecipazione alle perdite di ciascuno;

46
4. restituzione dei conferimenti e ripartizione dell’attivo eccedente;
5. chiedere la cancellazione dopo l’approvazione del bilancio finale.
 Divieti:
1. intraprendere nuove operazioni, salvo il portare a termine gli affari in corso;
2. ripartire l’attivo prima di aver pagato i debiti sociali.

Cancellazione della società: art. 2495 c.c. sulle società di capitali ma poi esteso a principio generale dalla
giurisprudenza. Co. 2: ferma restando l'estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non
soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci. -> Efficacia costitutiva della pubblicità nel
r.i. della cancellazione.

Se l’iscrizione è falsa questo non incide sull’efficacia (la società ormai è estinta, effetto irreversibile) ma è un
problema di responsabilità.

L’estinzione della società è dunque legata ad una formalità.

SAS
La sas si comporta come una snc con una enorme differenza: prevede 2 categorie di soci (è nel suo dna, non
può farne a meno per essere una sas): gli accomandanti e gli accomandatari (questi sono uguali ai soci di
snc: res illimitata e solidale, poteri si gestione, ecc.).

Gli accomandanti sono la new entry: questi hanno una responsabilità limitata al conferimento. ->
componente più capitalistica. Non possono comportarsi da amministratori (vedi art. 2320).

Art. 2320 c.c. – I soci accomandanti non possono compiere atti di amministrazione, né trattare o concludere
affari in nome della società (= non hanno poteri nè di gestione nè di rappresentanza), se non in forza
di procura sociale per singoli affari.

Temperamenti all’esclusione degli accomandanti dai poteri istituzionalizzati di gestione e di


rappresentanza:

 Il socio accomandante che contravviene a tale divieto assume responsabilità illimitata e solidale
verso i terzi per tutte le obbligazioni sociali e può essere escluso a norma dell'articolo.
 I soci accomandanti possono tuttavia prestare la loro opera sotto la direzione degli
amministratori e, se l'atto costitutivo lo consente, dare autorizzazioni e pareri per determinate
operazioni e compiere atti di ispezione e di sorveglianza.

Per la circolazione della partecipazione sociale gli accomandanti godono di una disciplina speciale, art.
2322. In caso di morte dell’accomandante subentrano gli eredi. Inter vivos la quota può essere ceduta con il
consenso dei soci che rappresentano la maggioranza del capitale sociale.

Gli accomandatari sono soggetti alla disciplina della snc: inter vivos la partecipazione sociale è trasferibile
con effetti verso la società con il consenso unanime dei soci, mortis causa la partecipazione sociale è
intrasferibile.

23.12.2021 – reti di impresa

Avv. Bredariol.

47
Parlando di contratti di rete ci si concentra su una fattispecie introdotta in Italia nel 2009 con la legge di
conversione del d.l. 5/2009. Essendo un contratto nuovo, senza precedenti né in Italia né altrove, il
legislatore ha imparato facendo (learning by doing), rendendosi conto che la norma necessitava di essere
perfezionata; il legislatore è intervenuto più volte sullo stesso corpus normativo. Questo a dimostrazione
del fatto che la norma ha attratto l’interesse vivo del sistema produttivo, è uno strumento rivolto alle
imprese.

Il contratto di rete è un contratto con cui più imprenditori/imprese, per perseguire degli obiettivi strategici
condivisi, adottano dei programmi comuni di attività. I contratti di rete di impresa sono contratti di
collaborazione strategica funzionali a raggiungere un accrescimento della capacità competitiva e della
capacità innovativa.

I contratti di rete sono contratti di collaborazione tra imprese con una finalità di raggiungimento obiettivi
strategici le cui modalità devono essere declinate dalle parti contraenti attraverso il contratto di rete; per
cui caratteristica fondamentale è il fatto che sul terreno dei contratti di rete amplissima parte è lasciata
all’autonomia negoziale, cioè devono le parti stabilire che cosa vogliono fare, quali gli obiettivi vogliono
raggiungere e in che modo. Questo dà adito ad una infinita pluralità di soluzioni adottabili.

RIASSUMENDO: i contratti di rete sono contratti di collaborazione e cooperazione inter-imprenditoriale che


definiscono la disciplina (= insieme di regole) per regolamentare un programma comune di attività
funzionale a raggiungere obiettivi strategici. La norma delimita un perimetro al cui interno la
determinazione del contenuto è rimetta all’autonomia contrattuale.

Perché le reti? Questo è un fenomeno rivelatosi particolarmente di successo perchè è lo strumento di


politica industriale che il legislatore ha offerto al sistema produttivo italiano, che è un sistema produttivo di
microimprese, cioè imprese che hanno meno di 10 addetti. Il 95,1% delle imprese sono microimprese, solo
il 4,3 sono piccole imprese, lo 0,5 medie imprese e lo 0,1% grandi imprese. In un tessuto che si caratterizza
da sempre per la nano dimensione delle imprese, la quale caratteristica ha sempre conferito loro estrema
elasticità, duttilità, capacità reattiva, è arrivato il momento in cui questa dimensione non basta più, è
insufficiente rispetto alle sfide che i mercati pongono. I mercati si sono aperti, parliamo di globalizzazione e
un’impresa per vivere necessita di poter fare ricerca, sviluppare nuovi prodotti, nuovi servizi e varcare i
confini; essere piccoli se da un lato agevola perché permette di essere più rapidi, più veloci, più reattivi ed
elastici dall'altro non non è la dimensione che permette di varcare i confini, non si hanno le forze e le
capacità per farlo. Chiedere all'imprenditore di fondersi con altri imprenditori per creare una realtà più
grande è difficile, è un passo che molto spesso gli imprenditori non sono disposti a fare; l'alternativa è dire
che le imprese non devono fondersi, non devono perdere la loro identità e autonomia ma ognuno rimane
autonomo, indipendente, padrone della propria impresa pur aggregandosi. Attraverso delle forme di
collaborazione si crea quella dimensione superiore alla dimensione della singola impresa. Cosi, questa
norma introdotta nel 2009 ha trovato subito recepimento da parte gli operatori economici cioè ci sono
cominciate a costruire reti di impresa.

Parlando di forme di aggregazione tra più imprese non dobbiamo necessariamente pensare ad aggregazioni
tra imprese mono settoriali, cioè tra imprese tutte appartenenti allo stesso settore: possono crearsi reti tra
imprese dello stesso settore oppure tre imprese di settori diversi, il tutto dipende da quali sono gli obiettivi
che le imprese si danno e quindi il programma di attività che decidono di realizzare, possono essere
programmi che vedono scendere in campo anche operatori economici appartenenti a mondi e a settori
diversi per il semplice fatto che le competenze degli uni possono sposare o coniugarsi con le competenze
degli altri.

48
Le reti sono distribuite un po’ in tutta Italia e va anche detto che collocare le reti non è facile, dal momento
che non esiste un limite territoriale alla rete, cioè la rete può essere composta da imprese che
appartengono a regioni diverse.

C'è una oggettiva difficoltà culturale nell’aprirci a rapporti di collaborazione con altri, questa è una difficoltà
di natura quasi psicologica tipica di tutta Italia, questo è forse l’unico denominatore comune del nostro
essere italiani.

Va anche detto che una grande leva che favorisce le aggregazioni è rappresentata dagli interventi disposti a
livello nazionale, locale e territoriale. L’avv. B. è da sempre sostenitrice del fatto che non si deve fare rete
perché c’è un bando che le finanzia perché quella rete che nasce sull’onda di un bando rischia ed è
destinata a morire, non è quella la rete vera; però dove c’è battage a livello pubblico anche con bandi che
continuano a nominare le reti si va a creare cultura di rete perché si sensibilizzano gli imprenditori, il
mondo delle imprese per fare digerire l'idea che le reti esistono e sono uno strumento interessante.

Com’è che le reti riescono a trovare impiego? I contratti di rete vengono adottati da ogni settore in tutti gli
ambiti produttivi. L’impresa qualunque essa sia, caratterizza per la presenza di tre fattori fondamentali:

 la produzione: l'impresa è tale nella misura in cui produce un bene o un servizio;


 la commercializzazione, perché l’impresa produce un bene un servizio ma non sostanzialmente per
un autoconsumo bensì per immetterlo nel mercato, per venderlo; l'impresa produce, l'impresa
vende e più produce più vende e viceversa;
 la posizione contrattuale: l'impresa non è solo un soggetto attivo nel mercato che produce e
immette nel mercato qualcosa ma a sua volta un oggetto passivo rispetto al mercato, nel senso un
soggetto che riceve dal mercato beni e servizi (es. deve approvvigionarsi di materie prime).

Nella rete di impresa tutto questo viene fatto assieme, cioè ognuno continua a produrre, cioè a erogare
quello che ha sempre fatto, ma insieme per potenziare la capacità di sviluppo commerciale, di marketing,
per entrare in nuovi mercati, per acquistare assieme le materie prime.

Iniziamo ad entrare nel merito dei singoli profili.

Fin da subito il legislatore ha posto dei paletti, la norma infatti descrive una fattispecie di cui vediamo in
controluce quasi il perimetro esterno, ma tutto ciò che poi sarà contenuto all’interno di questo perimetro
non è scritto nella norma perché deve essere deciso dai contraenti. Quali sono questi paletti? I paletti sono
che i soggetti contraenti sono gli imprenditori (una pluralità dei imprenditori, ovviamente è un contratto
plurilaterale), imprenditori ai sensi dell'articolo 2032 del codice civile: imprenditori dal punto di vista
sostanziale ma è anche richiesto un requisito formale, cioè l'impresa deve essere iscritta al registro
imprese, motivo per il quale altre forme associative che possono avere interesse a partecipare contratto di
rete purtroppo non lo possono fare in quanto non sono imprese. Tuttavia, nel 2017 con il Jobs Act lavoro
autonomo, il legislatore ha aperto la possibilità di partecipare alle reti anche ai liberi professionisti: i liberi
professionisti tra di loro possono costituire reti pure, cioè solo tra liberi professionisti, oppure i liberi
professionisti possono costituire reti miste, cioè con imprese.

Secondo profilo: gli obiettivi strategici. Perché un contratto tra più imprese possa essere qualificato di rete
deve prevedere degli obiettivi strategici (aggregandosi, queste imprese dove vogliono arrivare?). Le imprese
devono indicare chiaramente ed espressamente degli obiettivi e devono indicare nel contratto anche le
modalità nel tempo attraverso cui raggiungerli (ricordiamoci che il contratto di rete è un contratto di
durata, quindi come valutare nel tempo se quello che i sta facendo va nella direzione attesa) -> criteri,
parametri di misurazione. Anche qua il legislatore se ne guarda bene di indicare lui quali debbano essere

49
questi parametri e rimette la determinazione agli imprenditori perché sono loro che conoscono il loro
mondo produttivo e sanno come poter valutare se quanto si sta facendo sia effettivamente efficace.

Il cuore pulsante delle reti di impresa è il programma comune. Che cosa si decide di fare per raggiungere li
obiettivi? Chi fa cosa? Può esserci una mera ripartizione di compiti tra le imprese che quindi collaborano o
esercitano in comune determinate prestazioni o talvolta può anche esserci l'ingaggio di soggetti esterni.

Veniamo ad un altro elemento: i diritti e gli obblighi, perché qualunque attività umana è fonte generatrice
di situazione giuridiche. Quali diritti e quali obblighi sorgono in forza del programma comune? La
previsione è purtroppo limitata, possiamo fotografare la situazione presente ma non disponiamo di una
sfera di cristallo per poter immaginare cosa sarà in futuro, quindi nessuno può prevedere cosa succederà;
però, è possibile almeno oggi stabilire in maniera chiara l'assetto di regole e anche di paletti utili a questo
rapporto di collaborazione. Quindi, i diritti e gli obblighi devono proprio saper riflettere al meglio la tutela
che si vuole mettere in campo. Nel contratto di rete stabilire diritti ed obblighi serve a porre chiare le regole
di tutto ciò che già è possibile prevedere o comunque si prevede che possa venire ad esistere in forza del
rapporto di collaborazione, che è un rapporto di durata; il contratto di rete non è un contratto istantaneo,
ma si sviluppa in un arco temporale che deve essere stabilito e dipende dai contraenti, dal tipo di
programma. Es. nel caso di imprese che rappresentano l'esigenza di voler fare rete per andare all'estero, la
rete non può durare due anni perché in due anni non si va in un mercato estero ma servono più anni per
cominciare ad approcciare il mercato, conoscerlo, scoprirlo e cominciare a capire se si è efficaci con la
propria presenza all'estero. Quindi, a seconda del tipo di programma, di obiettivi dipende la durata della
rete. Dunque, fermo restando che è un rapporto di durata, cioè un rapporto destinato a crescere e
svilupparsi durante un certo quadro temporale e siccome non è possibile predeterminare cosa accadrà in 1,
2, 3 anni di collaborazione in rete, quello che si deve fare stabilire oggi delle regole chiare e cristalline di
come verranno adottate le decisioni nel tempo: possono essere adottate secondo un criterio di perfetta
democraticità, una testa un voto, e si decide a maggioranza semplice o qualificata oppure, ancora,
all'unanimità. Sotto questo profilo in particolare emergono talvolta le dinamiche sottostante al rapporto di
rete, cioè il contratto di rete è un abito che va a vestire dei rapporti tra più imprese in cui esistono delle
dinamiche in cui talvolta un'impresa può essere più forte rispetto all'altra, più grande e potente e avere in
qualche modo una primazia sulle altre o talvolta invece dei rapporti alla pari. Sta di fatto che nel contratto
devono essere stabilite quali sono le regole per l’assunzione delle decisioni.

Poi, la rete, volendo, può presentare una struttura aperta, cioè può permettere future adesioni di altre
imprese nel tempo. Le parti devono stabilire però la possibilità e le condizioni e le modalità con cui fare
aderire i “nuovi”. Anche questo è un terreno particolarmente delicato perché una cosa è l'assetto e
l'equilibrio delle relazioni dal giorno zero della rete, cioè dal giorno in cui nasce la rete tra le imprese alfa,
beta e gamma; se prevedono di poter ammettere in futuro altre imprese, immaginiamo che dopo un anno
delta chieda di entrare nella rete di alfa, beta e gamma -> bisogna capire che regola si sono date le imprese
originarie per l'adesione di delta, cioè decidono a maggioranza o decidono all’unanimità? E poi, quali
caratteristiche deve avere delta per essere ammessa? E ancora, l'adesione di Delta non vale in qualche
modo a mettere in discussione quell'equilibrio che si è creato tra le prime tre imprese? Cioè, sono tutte
considerazioni da fare.

Scrivere un contratto di rete significa porsi tutte queste domande e darne una risposta perché le clausole
contrattuali per essere clausole veramente utile devono evitare il più possibile future controversie.

Finora sono stati spiegati gli elementi che sono obbligatori perchè un contratto tra imprese possa essere
classificato come un contratto di rete; poi esistono anche elementi facoltativi, non obbligatori. Innanzitutto,
si può prevedere l'istituzione di un organo comune, dove è l'organo comune è un soggetto che, se istituito,
è un mandatario, cioè un soggetto deputato a dare esecuzione ad alcune attività; l’organo comune può

50
avere una composizione monocratica oppure collegiale, quindi può essere una persona fisica o una persona
giuridica oppure può essere un comitato e sta le parti contraenti stabilire se lo vogliono e, se lo vogliono,
come lo vogliono istituire e che potere gli attribuiscono.

Secondo elemento facoltativo, il fondo patrimoniale comune. Se le parti vogliono possono costituire un
fondo patrimoniale comune, cioè possono mettere assieme delle risorse e ridurle in fondo per poter
impiegarle per far fronte alle spese della rete. Siccome è un elemento facoltativo, non significa che se si
costituisce allora si deve spendere qualcosa mentre se non i costituisce in fondo non si spende nulla; la
differenza è che se non si fa il fondo vuol dire che non ci sono delle risorse destinate alla attività della rete,
non le anticipo ma di volta volta che la rete realizzerà delle attività le singole parti partecipanti, i singoli
imprenditori sosterranno quota-parte, secondo la ripartizione che hanno stabilito, le spese da affrontare; se
invece c’è il fondo, vuol dire che fin da subito anticipo le risorse e poi queste verranno impiegate al bisogno.

Altra considerazione: se le parti vogliono possono prevedere anche la possibilità che il singolo contraente
partecipante alla rete possa uscirne prima della scadenza; è un requisito che, seppur facoltativo, ricorre
statisticamente nella maggior parte dei casi perché paradossalmente è la più grande leva di facilitazione
all'ingresso, cioè le parti si sentono più libere di entrare in rete nella misura in cui sanno che mal che vada
sono anche libere di andarsene perché possono esercitare il recesso. Anche qui però le valutazioni da fare
non sono poche.

Passiamo ora ai profili di forma e pubblicità, perché il contratto di rete si caratterizza rispetto a tutti gli altri
contatti tra imprese per un requisito pubblicitario peculiare: è un contratto che viene iscritto al registro
imprese, perché ciò avvenga il contratto deve essere o redatto con le forme notarile (atto pubblico o
scrittura privata autenticata) oppure deve essere firmato digitalmente e trasmesso al registro imprese
tramite l'impiego di un modello standard predefinito dall'esterno. Il contratto, una volta confezionato in
queste forme, è iscritto al registro imprese. Qui apriamo una distinzione perché:

1. se abbiamo confezionato un contratto di rete di natura meramente contrattuale, un mero accordo


tra le parti, il contratto viene iscritto presso la posizione di ciascuna impresa contraente. Alfa, beta
e gamma sottoscrivono un contratto di rete e questo viene iscritto presso la posizione del registro
imprese di Alfa, di beta e di gamma (-> se faccio una visura presso la posizione di afa vedo che tra
le vicende dell'impresa c'è l'esistenza di un contratto di rete e posso scaricarmi il testo del
contratto, così come se faccio una visura presso la posizione di beta o di gamma).
2. Il legislatore nel 2012 ha aggiunto una seconda possibilità: se le parti contraenti vogliono possono
attribuire alla rete soggettività giuridica e quindi così dicendo il legislatore ha introdotto una nuova
fattispecie che porta fa sempre il nome di reti d'impresa ma è altra e diversa rispetto al alla rete di
natura meramente contrattuale perché la rete di natura meramente contrattuale è un vero
accordo tra le parti che restano autonome, indipendenti e si vincolano in relazione a quella
collaborazione. Se invece le parti vogliono attribuire soggettività giuridica alla rete, allora
sottoscrivendo il contratto danno vita a un nuovo soggetto giuridico, la rete dotata di soggettività
giuridica è soggetto altro e diverso rispetto alle imprese e quindi ai fini pubblicitari quel soggetto
non verrà più iscritto presso la posizione delle imprese sottoscrittrici del contratto bensì occuperà
un autonoma posizione registro imprese, è come se si costituisse una nuova società e la nuova
società trova una propria registrazione registro imprese in una propria collocazione. In questo
caso, la rete soggetto, che apparentemente sembra distinguersi dalla rete contratto solo per un
profilo pubblicitario, in realtà si distingue per profili sostanziali importanti perché abbiamo creato
un nuovo soggetto con tutte le conseguenze del caso. Il legislatore dice solo che quando la rete si
dota per volontà delle parti (e questa è una particolarità non da poco dal punto di vista civilistico,
cioè qui la soggettività viene acquisita per volo da negoziale), allora la rete deve: avere il fondo

51
patrimoniale (quindi il fondo patrimoniale che nella rete contratto è elemento meramente
facoltativo, nella rete soggetto diventa un elemento obbligatorio), la rete deve avere un nome, la
rete deve avere una sede. Ma non solo questo, la rete soggetto è obbligata a tenere la contabilità,
presentare il bilancio, va incontro a tutta una serie di adempimenti e oneri che per la rete
contratto non sono previsti. L'iscrizione ha efficacia costitutiva? Nel caso di rete soggetto
sicuramente ha efficacia costitutiva, nel caso della rete contratto ci si chiede se sia un'efficacia
costitutiva o, meglio, se serva a poter opporre la rete ai terzi. Siccome la disciplina dice anche che
se la rete, a prescindere che sia rete contratto o soggetto, si dota di fondo e organo per le
obbligazioni poste in essere dall'organo, il terzo creditore della rete può far valere i suoi diritti
esclusivamente nei limiti del fondo -> se la rete contratto è iscritta allora io posso opporre al terzo
la limitazione di responsabilità, diversamente se la rete non è iscritta io questa limitazione di
responsabilità non posso farla valere.
È la relazione tra reti con soggettività e senza è la stessa che esiste tra consorzio con attività
esterne e consorzio con attività interna? No, perché innanzitutto c'è una differenza sostanziale: il
consorzio dà ad un'organizzazione comune alla quale demandano l'esecuzione di alcune attività o
di parte di esse, nel caso della rete non viene demandato alla rete la realizzazione delle attività ma
sono le imprese che devono realizzarle, pur dividendosi i compiti. Questa è la differenza
fondamentale tra consorzio e rete. Costa anche meno per certi versi la posizione in rete.

DUNQUE: con la rete una pluralità di imprese, di imprenditori partendo dalle loro esigenze singole
individuali carcano di darvi risposta dialogando e interfacciandosi e misurandosi con altre imprese; questo
processo prevede un percorso che va dall'esigenza individuale ad una risposta collettiva degli obiettivi
strategici condivisi individuando un programma di attività, la governance. Questa è in estrema sintesi tutto
ciò che dobbiamo tener presente quando costruiamo una rete.

Molto spesso nel costruire una rete le scelte che vengono compiute dagli imprenditori che sono i detentori
di questa libertà negoziale per cui devono loro decidere cosa e come fare, queste scelte sono spesso
condizionate o guidate da due ordini di fattori:

1. da un lato abbiamo la prospettiva in avanti, cioè le scelte che si fanno nel contratto di rete che
sono scelte determinate da che cosa ci attende, da dove vogliamo andare, da quali sono le nostre
aspettative -> la prospettiva in avanti;
2. dall'altro lato, le scelte sono anche condizionate dal background, cioè le relazioni sottostanti le
dinamiche sottostanti.

Quindi le soluzioni che si adottano sono frutto del compromesso di queste due diversi ordini di fattori,
guardare avanti ma anche il capire che cosa ci spinge a dietro. E allora, il successo che riscontriamo in
merito al fenomeno delle reti è dovuto questo, dal fatto che il modello di business per guardare avanti, per
proiettarsi verso gli obiettivi e la struttura economica sottostante all'aggregazione trovano nel contratto
espressione ed equilibrio.

52
53

Potrebbero piacerti anche